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22 Imbottigliamento MAGGIO 2011 vino vino f Roberto Tognella Per Francesco Iacono, professione “vitienologo”, Arcipelago Muratori rappresenta la continuità di un progetto professionale, iniziato da appassionato ricercatore e proseguito da uomo d’azienda, avendo come principio ispiratore la volontà di esprimere in un vino tutta la complessità del territorio di appartenenza INTERVISTA ALL ’ENOLOGO C inquant’anni, vicepresidente dell’Azienda Agricola Fratelli Muratori e responsabile dell’Arcipelago Muratori, con un neologismo da lui stesso coniato Francesco Iacono si definisce un “vitienologo”, “viticulturist” per gli anglosassoni, un trait d’union tra l’agronomo e l’enologo, cioè quella figura di studioso e profondo conoscitore della vite capace d’interpretare l’espressione di un territorio, l’animo di chi lo abita e, attraverso la vigna e i suoi frutti, coglierla e valorizzarla in un vino. Con un importante background di ricerca scientifica alle spalle – 17 anni, parecchi dei quali trascorsi in qualità di coordinatore del gruppo di viticoltura e responsabile del gruppo di analisi sensoriale GAS presso l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige – dal 1999 Iacono dirige l’Arcipelago Muratori di cui lui stesso è l’ideatore. Un progetto ambizioso, esempio unico in Italia che valorizza la diversità – di terre, climi, uomini, viticoltura – attraverso 4 tipologie di vini e altrettanti marchi. Un progetto in continuo divenire che ha permesso a Iacono di proseguire, anche da uomo d’azienda, il suo appassionato cammino nella sperimentazione, sempre alla ricerca della migliore espressione del territorio, di quell’equilibrio delicato e straordinario in vigna e in cantina tra uomo e natura, tra scienza e tradizione. Progetto che oggi approda a “Tutto Natura”, un brand trasversale di vini ottenuti senza ricorrere a solforosa, chiarificazioni e filtrazioni, frutto di un’agricoltura simbiotica nella quale il terreno, il suo ecosistema svolgono un ruolo decisivo, non più di semplice comparse o di attori comprimari, ma di protagonisti della nascita di un vino. La ricerca e la sperimentazione rappresentano la continuità nella sua carriera professionale, ormai trentennale. Sperimentazione è curiosità, un bisogno continuo di viaggiare e navigare tra i propri pensieri, tra i propri sogni, concretizzarli, puntare verso un orizzonte lontano, raggiungerlo e poi scoprire che c’è ben altro al di là, qualcosa di nuovo da scoprire, comprendere e acquisire. Senza questo continuo stimolo l’attività professionale sprofonderebbe in una monotona e noiosa routine. In questo viaggio senza fine, è importante tenere una rotta, dare coerenza ai propri progetti, ai propri pensieri, a quello che da essi creiamo. Penso che tale coerenza abbia caratterizzato la mia carriera professionale fin da quando mi avvicinai alla viticoltura, prima da tesista e poi da ricercatore. Di ciò sono profondamente soddisfatto. La viticoltura non fu all’inizio una scelta vocazionale… Sono figlio di un viticoltore anche se inconsapevolmente… Mio padre, ischitano, lasciò nel Dopoguerra l’isola, la terra, i campi, per cercare fortuna in città, a Genova. Raccontare la complessità del territorio in un vino Francesco Iacono

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Intervista a Francesco iacono: da ricercatore a vitienologo il passo è breve e con idee e progetti è anche bello

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vinovino

f Roberto Tognella

Per Francesco Iacono, professione “vitienologo”, Arcipelago Muratori rappresenta la continuità di un progetto professionale, iniziato da appassionato ricercatore e proseguito da uomo d’azienda, avendo come principio ispiratore la volontà di esprimere in un vino tutta la complessità del territorio di appartenenza

INTERVISTA ALL’ENOLOGO

Cinquant’anni, vicepresidente dell’Azienda Agricola Fratelli Muratori e

responsabile dell’Arcipelago Muratori, con un neologismo da lui stesso coniato Francesco Iacono si definisce un “vitienologo”, “viticulturist” per gli anglosassoni, un trait d’union tra l’agronomo e l’enologo, cioè quella figura di studioso e profondo conoscitore della vite capace d’interpretare l’espressione di un territorio, l’animo di chi lo abita e, attraverso la vigna e i suoi frutti, coglierla e valorizzarla in un vino. Con un importante background di ricerca scientifica alle spalle – 17 anni, parecchi dei quali trascorsi in qualità di coordinatore del gruppo di viticoltura e responsabile del gruppo di analisi sensoriale GAS presso l’Istituto Agrario

di San Michele all’Adige – dal 1999 Iacono dirige l’Arcipelago Muratori di cui lui stesso è l’ideatore. Un progetto ambizioso, esempio unico in Italia che valorizza la diversità – di terre, climi, uomini, viticoltura – attraverso 4 tipologie di vini e altrettanti marchi. Un progetto in continuo divenire che ha permesso a Iacono di proseguire, anche da uomo d’azienda, il suo appassionato cammino nella sperimentazione, sempre alla ricerca della migliore espressione del territorio, di quell’equilibrio delicato e straordinario in vigna e in cantina tra uomo e natura, tra scienza e tradizione. Progetto che oggi approda a “Tutto Natura”, un brand trasversale di vini ottenuti senza ricorrere a solforosa, chiarificazioni e filtrazioni, frutto di un’agricoltura simbiotica nella quale il terreno, il suo ecosistema svolgono un ruolo decisivo, non più di semplice comparse o di attori comprimari, ma di protagonisti della nascita di un vino.

La ricerca e la sperimentazione rappresentano la continuità

nella sua carriera professionale, ormai trentennale.Sperimentazione è curiosità, un bisogno continuo di viaggiare e navigare tra i propri pensieri, tra i propri sogni, concretizzarli, puntare verso un orizzonte lontano, raggiungerlo e poi scoprire che c’è ben altro al di là, qualcosa di nuovo da scoprire, comprendere e acquisire. Senza questo continuo stimolo l’attività professionale sprofonderebbe in una monotona e noiosa routine. In questo viaggio senza fine, è importante tenere una rotta, dare coerenza ai propri progetti, ai propri pensieri, a quello che da essi creiamo. Penso che tale coerenza abbia caratterizzato la mia carriera professionale fin da quando mi avvicinai alla viticoltura, prima da tesista e poi da ricercatore. Di ciò sono profondamente soddisfatto.

La viticoltura non fu all’inizio una scelta vocazionale…Sono figlio di un viticoltore anche se inconsapevolmente… Mio padre, ischitano, lasciò nel Dopoguerra l’isola, la terra, i campi, per cercare fortuna in città, a Genova.

Raccontare la complessità del territorio in un vino

Francesco Iacono

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La città incominciò a starmi stretta dopo gli studi superiori, pensavo a esperienze nuove, all’indipendenza dalla mia famiglia; così, più per voglia di evasione che per un’effettiva convinzione, decisi di iscrivermi a Scienze agrarie all’Università Cattolica di Piacenza. Qualche anno dopo mi ritrovai a chiedere una tesi all’Istituto di coltivazioni arboree, mi attraevano il mondo vegetale e in particolare gli alberi. La tesi mi fu rifiutata, perché l’argomento era per così dire “esaurito”. Pensai allora a una specie di “surrogato”, a qualcosa che si avvicinasse alla mia ipotesi iniziale: la viticoltura pensai facesse al caso mio. Mi laureai con un personaggio che segnò, in seguito, una tappa importante nella mia crescita professionale: il professor Attilio Scienza. Confesso che allora l’entusiasmo per la vigna e per il vino era ancora in una fase parecchio embrionale, mi interessava soprattutto concludere gli studi universitari. Fu quando iniziai a collaborare con l’Università, dopo la laurea, che scaturì una scintilla, la passione che ancora oggi accompagna la mia attività.

Ricercatore dall’‘83 al ’99. Che aria si respirava in quegli anni in viticoltura?Quella di Piacenza con il professor Fregoni era una delle prime cattedre istituite in viticoltura insieme a quella di Torino con il professor Einhard e a quella di Bologna con il professor Intrieri. Tre cattedre, tre approcci molto diversi al problema: Intrieri insegnava il Canopy Management, la gestione della chioma, tecnica molto in voga Oltreoceano; Fregoni puntava su una

viticoltura di qualità focalizzata sul terroir e sull’importanza del territorio; Einhard, figura molto carismatica, lavorava più sulle varietà, lui è stato il padre dell’Arneis. C’era quindi chi si ispirava a una filosofia anglosassone dove la gestione e la modulazione dei parametri produttivi, attraverso tecniche agronomiche, aveva, nel perseguimento della qualità, un’importanza rilevante rispetto al contesto pedoclimatico in cui la vite cresceva, e chi invece riconosceva al territorio, al suolo, alla varietà, all’interazione dell’uomo un’importanza decisiva per la produzione di un vino di qualità.

Lei che filosofia sposò?Mantenni un approccio diciamo “laico”, non mi schierai, cercai piuttosto, senza pregiudizi, – anche grazie alla guida dei miei tutor – di far tesoro di quelle conoscenze che, alla luce degli studi che stavo conducendo sull’ecofisiologia delle piante, erano confermate da dati oggettivi e sperimentali. Nel frattempo mi accorsi quanto il campo e la cantina, la viticoltura e l’enologia procedessero per vie distinte, senza comunicare tra loro: in campo si parlava di zuccheri e acidità, si iniziava timidamente anche a valutare i polifenoli, in cantina invece di lieviti e di tecnologie. Sebbene l’obiettivo finale comune fosse la qualità del prodotto, non c’era alcuna sinergia o concomitanza d’intenti nel perseguire questo scopo. Serviva un mezzo che permettesse a questi due mondi di comunicare…

Lo trovò?Fu l’analisi sensoriale. Un’idea che piacque al professor

Scienza, il quale mi propose di passare all’Istituto Agrario di San Michele. Scienza intuì che la cantina di microvinificazione poteva essere quel luogo nel quale i due mondi potevano incontrarsi: se infatti l’enologo conduceva prove di temperatura, di fermentazione malolattica..., l’agronomo poteva verificare l’effetto delle potature, del diradamento, le diverse epoche di vinificazione… L’analisi sensoriale produceva dati per entrambe le sperimentazioni, agronomiche ed enologiche, dati oggettivi sui quali era possibile aprire un confronto, un dialogo. Dialogo che io ebbi il compito di mediare in qualità di coordinatore del gruppo di viticoltura e di responsabile del GAS, il gruppo di analisi sensoriale.

Quelli, per l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, furono anni di rinascita, di grande fermento intellettuale.Furono anni di estremo entusiasmo, quelli dall’‘87 al ’95. All’Istituto lavorava un gruppo di viticoltura giovane, molto attivo. Il fermento intellettuale che si sviluppò potrebbe in qualche modo

essere paragonato a quello che, negli anni ’20 a Copenaghen, caratterizzò la fisica atomica. Noi non demmo seguito a nessuna rivoluzione scientifica ma senza dubbio diventammo il punto di riferimento per la viticoltura e l’enologia italiana; moltissimi furono i produttori, i tecnici che decisero di frequentare i nostri corsi. A San Michele si studiava a tutto campo la viticoltura e l’enologia anche con attrezzature sofisticate. Ricordo nel nostro laboratorio di ecofisiologia le prime macchine di misura della fotosintesi, l’impiego della fluorescenza… Quello che sicuramente ci differenziò fu il risvolto applicativo di ciascuna ricerca, ogni nostro studio era finalizzato a fornire delle risposte subito fruibili per l’agronomo, l’enologo, l’agricoltore; cercammo di spiegare le contraddizioni che scaturivano da alcune prove sperimentali.

Qualche risultato eclatante di questa attività di ricerca?Chiarimmo una volta per tutte, introducendo il rapporto tra foglie e produzione – che gli anglosassoni poi chiamarono “source-sink” – il motivo per cui certi diradamenti funzionavano

Esempio della valorizzazione della diversità, l’Arcipelago Muratori è composto da quattro territori, quattro “isole” in ognuna delle quali si produce il vino più connaturato al territorio: metodo classico in Franciacorta, Rosso da Sangiovese e di taglio bordolese nella Maremma Toscana,!a Suvereto, vini da uve a bacca “gialla” in Campania, nel Sannio Beneventano, e vino da conversazione a Ischia

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vinovino INTERVISTA ALL’ENOLOGOmentre altri no. Lo studio dei diradamenti e quindi del Canopy Management fu solo la punta di un iceberg di un filone di ricerca ben più ampio che spaziava su tutte le pratiche agronomiche volte alla corretta gestione della vigna: quando e se cimare, quando e perché sfogliare, diradare perché… Si cominciò a studiare in maniera approfondita anche l’importanza dell’apporto idrico nei diversi momenti della stagione, la correlazione tra apporto idrico e produzione, e grandi riscontri pratici ebbero gli studi di zonazione condotti da Mario Falcetti. A una a una collocammo molte tessere di un mosaico e a un certo punto, peccando un po’ di presunzione, pensai che le conoscenze acquisite potessero rappresentare la via attraverso la quale gestire integralmente la qualità di un prodotto…

Non fu così?Le conoscenze maturate, perlopiù focalizzate sulla parte epigea della pianta, non ci permisero di spiegare come mai

alcuni risultati sperimentali che ci saremmo aspettati per alcuni ambienti non si verificarono. Capimmo che rimaneva un vuoto di conoscenze importante da colmare che riguardava la parte nascosta della pianta. Il confine tra la gestione della parte epigea e del terroir divenne molto labile e iniziammo a studiare il terreno e le sue interazioni con la pianta. Ma la via meccanicistica, l’impiego di sistemi di misurazione sempre più sofisticati, il concetto di separare il più possibile tutti i fattori di variabilità, non davano gli esiti sperati. Compresi che serviva un approccio diverso allo studio del terreno. Terreno che sfortunatamente era – e ancora è – visto come un substrato di crescita, con una sua tessitura, al quale apportare elementi al fine di equilibrare un quadro nutrizionale non corretto; un ambiente quindi più teorico che reale dove gli interventi venivano decisi a tavolino. In quegli anni capii, complici anche i nuovi studi che intrapresi sul terreno, che il lavoro svolto

fino a quel momento, era spesso teso a forzare la natura, non tanto a livello ambientale quanto – ancor più grave – a livello concettuale. C’era una violenza di fondo – ho i mezzi tecnologici, ho le conoscenze quindi posso ottenere il risultato che mi sono prefissato – rispetto a un messaggio primario che è il valore simbolico e storico del vino, valore che non possiamo disconoscere. Affossarlo, svilire quel rapporto che nel tempo si è stabilito tra uomo, terra e vite, significa banalizzare il vino, renderlo un mero oggetto di marketing per il quale il luogo d’origine, chi l’ha prodotto e come rivestono un’importanza marginale.

Presagi di una svolta…Fu durante un convegno di viticoltura delle zone fredde svoltosi negli USA vicino al lago Ontario nel ’96, che le perplessità, che da qualche tempo coltivavo, si concretizzarono. Incontrai, del tutto inaspettatamente, un amico e ricercatore australiano che si occupava di viticoltura in zone aride. Stupito, gli chiesi perché partecipasse a quel convegno. Mi spiegò che, attraverso la gestione della chioma e del terreno, era possibile simulare il comportamento della vite e la qualità dell’uva come se essa fosse prodotta in un ambiente freddo. Mi chiesi allora quale fosse in realtà l’obiettivo delle nostre ricerche: raggiungere un risultato prefissato a ogni costo e indipendentemente da, o valorizzare al meglio ciò che si ha, il territorio, gli uomini, il clima, il suolo, le varietà? Sono passati 15 anni da quei giorni e molta viticoltura la pensa ancora come il mio

amico australiano… All’Istituto di San Michele all’Adige, nel frattempo, aveva preso sempre più importanza una linea molto biomolecolare dove lo spazio alla terra, a “sporcarsi le mani” cominciava a venire meno. Più spazio alla teoria meno alla pratica: il contatto con la realtà, il risvolto applicativo, che tanto aveva caratterizzato le ricerche condotte dall’Istituto, venne un po’ a mancare…

Incontrò i fratelli Muratori e fu la svolta.L’incontro fu del tutto casuale, nel ’99. Industriali tessili franciacortini, i fratelli Muratori da qualche tempo pensavano di differenziare il loro business puntando sulla viticoltura. Mi chiesero un parere su come impostare questa attività. La mia risposta, diversa dalle molte finora ricevute, li impressionò favorevolmente. In maniera forse un po’ preveggente per l’epoca, risposi che in Franciacorta avrebbero dovuto produrre esclusivamente Franciacorta. Le motivazioni che portai furono lapalissiane: chi si sarebbe sognato di andare ad assaggiare una bollicina a Bordeaux o un merlot nella Champagne? Benché nessuno avesse mai pensato di costruire a quei tempi un’azienda monoprodotto in Franciacorta, a detta di molti insostenibile commercialmente, i fratelli Muratori decisero di accettare la sfida e di avallare in toto il mio ambizioso progetto: l’Arcipelago Muratori.

Di che cosa si tratta?L’Arcipelago Muratori rappresenta un esempio della valorizzazione della diversità; diversità di uomini, terreni,

«Il nostro approccio, se l’obiettivo è realmente quello di rappresentare nei nostri vini il territorio, prevede di ridurre al minimo gli interventi.

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climi, viticoltura… di vini; è un progetto vitivinicolo basato su un principio molto semplice: individuare territori ad alta vocazione enologica per realizzarvi una sola tipologia di vino. Quattro sono i territori con cui l’Arcipelago è composto, quattro “isole” in ognuna delle quali produciamo il vino più connaturato al territorio: metodo classico in Franciacorta, Rosso da Sangiovese e di taglio bordolese nella Maremma Toscana, a Suvereto, vini da uve a bacca “gialla” in Campania, nel Sannio Beneventano, e vino da conversazione a Ischia. Avviato nel 2000, l’Arcipelago Muratori è stato defi nito uno dei progetti più ambiziosi degli ultimi vent’anni per la viticoltura italiana e ciò non tanto per l’investimento in termini economici – l’investimento è stato comunque importante – quanto per l’oggettiva diffi coltà di sviluppare in contemporanea quattro brand ben distinti, uno per ciascuna tenuta: Villa Crespia (Franciacorta), Rubbia al Colle (Maremma), Oppida Aminea (Sannio) e Giardini Arimei (Ischia).

Non sarebbe stato più semplice utilizzare un unico marchio, cioè Arcipelago Muratori?Se utilizzare come unico brand Arcipelago Muratori avrebbe pagato nel breve periodo, semplifi cando lo sviluppo

del progetto, sicuramente a lungo termine avrebbe svilito il concetto di “Arcipelago”, banalizzandolo. Vogliamo trasmettere al consumatore l’idea che non esista un approccio univoco sempre valido, in campo come in cantina, quale che sia il luogo di provenienza. Per esprimere in un vino tutta la complessità del territorio al quale appartiene – complessità che non riguarda soltanto caratteristiche pedoclimatiche, ma che comprende anche variabili socio-economiche, tradizione, carattere della sua gente – gli approcci agronomici ed enologici devono essere calibrati e sviluppati ad hoc. Per questo la nostra cantina in Franciacorta, per esempio, deve avere una struttura tecnologica pensata per lavorare al meglio le uve di questo territorio e trasformarle in spumanti metodo classico, ben diversa da quella della cantina del Sannio dove si raccolgono uve per la produzione di vini gialli.

Parlava di approccio agronomico ed enologico…Se è vero che siamo andati nei diversi

territori per rappresentarli, per goderne i profumi, i sapori e fondamentalmente la diversità, come ci dobbiamo comportare da un punto di vista viticolo ed enologico per far sì che queste differenze non vengano banalizzate o azzerate? Le tecnologie, gli strumenti esistono per correggere l’azoto, il potassio nel terreno o attivare una fermentazione in cantina. Ma fi no a quale punto queste tecnologie possono essere utilizzate per poter ancora parlare di processo naturale e di rappresentazione di un territorio? Si parla di vini biodinamici, di vini veri, di vini da lotta integrata… Ma quale può essere veramente defi nito il metodo giusto? Il nostro approccio, se l’obiettivo è realmente di rappresentare nei nostri vini il territorio, prevede di ridurre al minimo gli interventi, in campo e in cantina. Questo non signifi ca abbandonare l’ambiente a se stesso, ma permettere alla vigna di esprimersi in base a ciò che

l’ambiente è capace di offrirle. La strada che oggi dobbiamo percorrere è di riappropriarci del senso della terra vista non come substrato di crescita, ma come il ventre dal quale la pianta è nata: unico, caratteristico, non modifi cabile. Partendo

da tale presupposto, l’intervento agronomico dovrà limitarsi a consentire al terreno di esprimere al meglio il suo potenziale, cosa che non abbiamo fatto negli ultimi cento anni!

In quale modo?Un progetto che ho sviluppato e del quale vado particolarmente fi ero è la micorrizazione di tutte le terre delle nostre tenute. Attraverso l’apporto di microrganismi diversi e di funghi simbiotici stiamo ripristinando l’equilibrio microbiologico del terreno. Questo ha già portato risultati importanti: le piante mostrano minori esigenze nutrizionali, sono più resistenti a fi siopatie e stress idrico…

Ripristinare quindi l’equilibrio……abbandonando le forzature che a lungo termine non pagano. La nostra attenzione è davvero rivolta a questo concetto di agricoltura simbiotica che, in alcuni ambienti, ci porta oggi a produrre uve senza ricorrere a trattamenti chimici o concimazioni, a vini senza l’aggiunta di solforosa, di chiarifi canti, senza ricorrere a fi ltrazione. Da questa fi losofi a è nato il brand trasversale “Tutto Natura” che comprende due vini rossi, un Cabernet Sauvignon e un Sangiovese ai quali, nel 2011, si aggiungeranno due vini gialli del Sannio a base di Fiano e Greco.

L’idea di una viticoltura diversa, maturata negli ultimi anni di San Michele all’Adige, prende forma…Ciò anche grazie alla lungimiranza dei fratelli Muratori che hanno compreso l’importanza della sperimentazione, che mi hanno concesso uno spazio mentale di lavoro, vitale per dare corpo e continuità a progetti ambiziosi come l’Arcipelago. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Villa Crespia, “isola” dell’Arcipelago Muratori in Franciacorta

Riserva Francesco Iacono

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