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1 Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria QUADRIMESTRALE DELLA FEDERAZIONE PSICOLOGI PER I POPOLI Numero 4, 2010 Rivista di

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Numero 2, 2008

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Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria QUADRIMESTRALE DELLA FEDERAZIONE PSICOLOGI PER I POPOLI

Numero 4, 2010

Rivista di

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Maria Teresa Fenoglio

Le emozioni dei soccorritori

Il soccorritore, volontario o professionista, si trova a confrontarsi conla sofferenza umana, fisica e psicologica. L’alta esposizione a eventipotenzialmente traumatici innesca intensi vissuti emotivi nell’operato-re. L’articolo pone l’attenzione sulle risposte emotive del soccorritore,partendo dalle teorizzazioni sulle possibili risposte psicologichedisturbanti per giungere poi ad una più ampia concezione delle “emo-zioni dei soccorritori” che evidenzia l’inevitabilità dei vissuti emotivi ela loro potenziale funzione positiva. Le emozioni sono, infatti, parteintegrante del soccorso, ed è fondamentale una adeguata formazionedegli operatori affinché vengano ampliate le loro capacità di gestionedelle stesse. Ciò per promuovere il benessere sia dell’operatore sia dicoloro che vengono soccorsi.

Parole chiave: emozioni, soccorritori, emergenza, formazione,contesto.

Rescuers, be they volunteers or professionals, face human physic andpsychological suffering everyday. The high exposition to potentialtraumatic events arouses strong emotions in the operator. This arti-cle gives specific attention to rescuer’s emotion reactions. It explorestheories about operator’s potential pathological answers and then itpromotes a broader concept of “rescuers emotions”: this conceptpoints out the inevitability of emotions and their potential positivefunction. Emotions, in fact, are integral part of rescue. Operator trai-ning is very important to improve their ability in regulation and ma-nagement of emotions. This kind of training is important to improverescuers and victims well-being.

Key words: emotions, rescuers, emergency, training, context.

Riassunto

Abstract

scenetese uncorpo un po’ irreale

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sgomentoè una botta

scatta la professionalità cerca-re di capire

fermarsi apensare

angoscia

c’è silenzio

il dispiacere poteva capitare anche a me

Questo racconto, offertoci da un testimone, un operatore volontario diambulanza, è, tra i tanti possibili, particolarmente efficace per introdurci nelcomplesso mondo delle emozioni che la folta schiera dei soccorritori speri-menta nel proprio lavoro, sia professionale che volontario.

Le espressioni utilizzate restituiscono efficacemente il misto di impres-sioni, sensazioni, emozioni, pensieri e azioni in cui le persone si impegnano e sonoimmerse in un lasso temporale molto concentrato.

Tra le prime impressioni percettive risaltano i dati visivi e sensoriali: gliocchi dei soccorritori percorrono velocemente lo scenario, per individuare, inposizione tragicamente simmetrica con i “liquidi” e i “rottami”, il “corpo” diun ragazzo.

La sensazione che per prima viene descritta, quella della “irrealtà”, è diper se stessa una reazione fisiologica e una emozione: la sensazione di nonreale, di “non vero” (“non è possibile che sia vero!”) segna la linea di fratturatra la continuità di una vita e l’evento imprevisto; tra l’accettabile (occorreaccettare senza discutere ciò che è accaduto per poter essere utili) el’inaccettabile (una giovane vita che se ne va) intercorre qualche secondo nelquale il soccorritore rapidamente si adatta, facendo appello alle sue capacitàrazionali, vale a dire trova la quadra tra le emozioni che rischierebbero di so-praffarlo e il loro dominio. Ecco allora che “scatta la professionalità”.

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Proprio quel distacco (una manovra difensiva della mente) che all’origi-ne è collegato al rifiuto di accettare la tragedia, diventa in seconda battutastrumento per operare efficacemente.

La mente, attraversata da una emozione, in questo caso lo sgomento el’identificazione con la sorte di un giovane, sceglie di non posarvisi preferendofocalizzarsi sull’azione; infatti, indulgendo in quella emozione - tra le più uma-ne che conosciamo - il soccorritore non sarebbe più in grado di operare effica-cemente.

Sulla scena dell’incidente il mondo emozionale del soccorritore èperciò tenuto in bilico, in una sorta di sospensione vigile, tra forti sensazio-ni/emozioni e distacco, adattamento, razionalità, operatività. L’operazionecomplessa ch’egli realizza, e che caratterizza la specie umana, capace, a diffe-renza degli animali, di pensare il pensiero, è di far transitare le emozioni attra-verso il pensiero, prima che si traducano in una reazione non controllata. Così:

Non sempre tuttavia questo accade. Quando l’operatore non è suffi-cientemente supportato o preparato; quando le emozioni sono “troppe” perlui, o per lui/lei in quel momento; quando tutto l’ambiente circostante,compresa la propria organizzazione, sono in condizioni di stress estremo, allo-ra può accadere che dalle emozioni si passi direttamente all’azione. Operazio-ne pericolosa, perché irriflessiva; si parla allora di un “agito”, poiché l’azioneintrapresa in quel momento esclude il pensiero. Così:

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La preparazione di un soccorritore avviene attraverso una serie di pas-saggi. Il corso teorico; lo stage; l’autoapprendimento sul campo; la guida deglianziani, il “prova ed errore”… Sono questi alcuni dei capisaldi di un percorsoche i soccorritori descrivono come permanente.

Tra le competenze che essi acquisiscono sta il controllo, edeventualmente l’utilizzo, delle emozioni. Eppure raramente il percorsoformativo prevede, in maniera esplicita, la conoscenza delle emozioni, il sa-perle individuare, innanzi tutto, e nominare; infine accomunarle ai proprifondamentali strumenti di lavoro. Conoscerle e nominarle, infatti, favorisce lamentalizzazione e previene gli agiti.

Ci sono emozioni universalmente in atto nel lavoro del soccorso; ci so-no emozioni più personali, legate al proprio carattere e alla propria biografiao, eventualmente, al particolare momento della vita che si sta attraversando. Ilsoccorritore, per proteggere se stesso e il proprio operato, dovrebbe conosce-re le une e le altre: con la formazione, ma anche attraverso il sostegno perma-nente da parte di professionisti.

Lo scopo di questo articolo è quello di individuare e nominare quelleemozioni che i soccorritori mettono in campo, sottolineandone la natura, lastoria nello sviluppo umano ed eventualmente del singolo individuo, e lafunzione. Dare la parola alle emozioni componendone la geografia,comprenderne la natura e l’incidenza nel lavoro del soccorso può infatticontribuire da un lato ad assegnare spessore a una attività spesso considerataun mero “fare”, ma che si presenta assai ricca e complessa; dall’altro, puòfornire ai volontari del soccorso alcuni strumenti per proteggere meglio sestessi in situazioni di grande impatto emotivo, migliorare la conoscenza di sé ele proprie competenze relazionali.

Per far questo siamo stati aiutati dalle interviste condotte con ungruppo di loro, volontari che si spendono nel soccorso alla cittadinanza inincidenti e disastri della più varia natura. La loro presenza è ormai una acqui-sizione consolidata all’interno del nostro tessuto sociale, e certamente senza diloro i principi di solidarietà su cui si regge il nostro assetto di origine costitu-zionale andrebbero molto più frequentemente inevasi.

Chi sono i soccorritori

I soggetti di questa ricerca sono volontari impegnati nell’aiuto in situa-zioni di emergenza: personale volontario delle ambulanze, cioè delle diverse“Croci” (Verde, Giallo-Azzurra, ecc.; e della Croce Rossa); degli “incendi bo-

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schivi”; delle comunicazioni radio; dei Vigili del Fuoco, della ricerca supersti-ti, della logistica… Tutti quanti coinvolti in emergenze quotidiane, ma chespesso hanno vissuto tragedie perpetuatesi in Italia o in paesi più lontani, co-me l’ex Jugoslavia.

Ma che cosa si intende con il termine “soccorritori”?In Italia col termine “personale di soccorso” si intendono numerose

categorie di helper.Tra loro si annoverano:

- gli operatori “Search and Rescue” (ricerca e salvataggio su-perstiti)

- il personale addetto al controllo degli incendi;

- gli autisti dei mezzi di soccorso

- il personale medico e paramedico

- i professionisti della mente (psicologi e psichiatri)

- il medico legale e il suo staff

- la Polizia, le Forze dell’Ordine, gli investigatori

- il personale religioso

- il personale dei servizi sociali

- gli addetti alla comunicazione

- i logisti

- le Prefetture

- i decisori degli Enti Locali (Comuni, Province, Regioni)

- i volontari delle organizzazioni del soccorso.1

Questo personale, in tutto e in parte, nelle sue componenti professioni-stiche o di volontariato, a sua volta è parte organica della Protezione CivileItaliana. Un particolare ruolo, specialmente nelle emergenze di ordine quoti-diano, è svolto dal volontariato di Pubblica Assistenza, che opera quotidiana-mente, attraverso il sistema 118.2

1 Tra questi, le organizzazioni denominate Enti Morali, come le diverse “Croci”, e il volontariatodi Protezione Civile, che annovera, tra gli altri, i gruppi cinofili e subacquei, i gruppi diradioamatori, gli speleologi, il volontariato per l’antincendio boschivo e per il soccorso alpino,ecc...2 Questo tipo di volontariato ha origine nella cultura dell’Italia risorgimentale. La costituzionedello Stato unitario nel 1861, con l’estensione dello Statuto Albertino a tutta Italia, favorì lalibertà di associazione, in un contesto sociopolitico che escludeva molti cittadini dall’esercizio deidiritti civili e da qualsiasi partecipazione attiva allo sviluppo dello Stato stesso.Al momento risultano iscritte nell’elenco nazionale del Dipartimento di Protezione Civile circa2.500 organizzazioni volontarie, per un totale di oltre 1.300.000 volontari disponibili (AA.VV., Ilvolontariato di Protezione Civile, 2002; www.volontariato.org/protciv.htm).

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Nei loro diversi percorsi formativi, i soccorritori hanno un brevecontatto con le dimensioni psicologiche; questo argomento solitamente occupaun paio d’ore di aula, e si concentra o sulla “comunicazione” con le vittime osul problema dello “stress” del soccorritore. È tuttavia luogo comune che que-sti brevi interventi formativi non riscontrino le simpatie dei partecipanti,molto più protesi verso problematiche di tipo tecnico.

La considerazione circa il ruolo delle emozioni nel lavoro del soccorsoha una storia piuttosto breve, in particolare in Italia. Secondo AgostinoMiozzo, responsabile del settore internazionale della Protezione Civile Italia-na, che ha curato la prefazione del libro L’assistenza psicologica nelleemergenze (Young et al., 2002), all’inizio degli anni Ottanta, quando le opera-zioni di aiuto umanitario ai Paesi poveri iniziavano ad avere un ruolo signifi-cativo nella politica estera di quelli più sviluppati, i problemi di salute mentalenon erano certamente considerati tra i temi prioritari. E particolarmente sottosilenzio passava l’impatto psicologico vissuto dall’operatore del soccorso edell’aiuto umanitario. In Italia, è a partire dalle “grandi emergenze”, in parti-colare da quelle connesse con il conflitto nell’ex Jugoslavia e la missioneArcobaleno che le dimensioni psicologiche delle vittime e dei soccorritorihanno cominciato a trovare spazio nella pratica e nella letteratura.3

In altri Paesi europei ed extraeuropei, invece, queste tematiche hannotrovato maggiore attenzione all’interno della formazione degli operatori, ehanno portato alla costituzione di gruppi per l’aiuto psicosociale, secondo unaterminologia entrata ormai a far parte del mondo del soccorso a livellointernazionale (Seynaeve, 2001).

Le tematiche delle emozioni vissute dal soccorritore, analizzate ad oggiprevalentemente dalla letteratura anglosassone, tendono a venir collocateall’interno di tre principali contenitori concettuali i quali, pur nei limiti checertamente presentano, quali un certo schematismo e la tendenza a considera-re più l’aspetto patologico che la capacità di reazione dei singoli e la risorsarappresentata dalle emozioni, vanno in ogni caso tenuti presenti.

3 In Italia, l’intervento dello psicologo è regolarmente previsto e, nel caso di catastrofi, demandatoalle ASL di competenza territoriale (Decreto Ministeriale del 13/02/01). I Criteri di massimaper l'organizzazione dei soccorsi sanitari nelle catastrofi, pubblicati sul supplemento ordinarioalla GU n. 109 del 12 maggio 2001, art. 1.6 e 1.7, sanciscono gli interventi sanitari nelle zonecolpite da un’emergenza. Nell’art. 1.6 viene specificato che lo svolgimento delle funzioni dicoordinatore è demandato al “responsabile medico della Centrale operativa 118 e/o dei servizi delDipartimento di Prevenzione dell'ASL”; all'art. 1.7, si afferma che la “medicina delle catastrofi”deve provvedere a: primo soccorso e assistenza sanitaria, interventi di sanità pubblica, attività diassistenza psicologica e di assistenza sociale alla popolazione. Vengono inoltre chiamati in causagli psicologi e in particolare gli Ordini Regionali e l'Ordine Nazionale..

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Stress, burn-out, trauma

Stress

Il termine stress gode di un ampio consenso, tanto che nei recenti corsipromossi dalla Commissione Europea per formare il personale che verrà a co-stituire la moderna Task Force di Protezione Civile dell’Unione, il problemadelle emozioni dei soccorritori è stato fatto risalire principalmente a questoprimo concetto. Il termine, ampiamente usato anche nel linguaggio comune,sembra particolarmente adatto a descrivere quella particolare forma di tensio-ne di chi deve assumere decisioni e far funzionare un meccanismo in condizio-ni di urgenza ed emergenza, in ambienti disagevoli, e in contesti complessi espesso estranei.

Il termine ha un’origine latina. Per indicare la sensazione che oggicolleghiamo alla parola stress i latini utilizzavano il verbo “stringere”, in parti-colare il suo participio passato “strictus” nel senso di “stretto”, “serrato” (Cox,1978).

In epoche successive gli inglesi estesero il suo significato a “difficoltà”,“avversità”, “afflizione” e a cavallo dei secoli XVIII-XIX vi compresero anchei termini “pressione”, “tensione”, “sforzo” (Mainardi Peron e Saporiti, 1995,p.11; vedi anche Pancheri, 1983). Da qui il termine “stress” oggi uni-versalmente assunto e utilizzato.

È però solo negli anni Quaranta che l’uso del termine passa dallescienze fisiche (dove indicava l’interazione tra una forza e la resistenza ad es-sa opposta) alle scienze mediche e biologiche, per indicare lo stato di tensioneo di resistenza di una persona che si oppone a forze esterne che agiscono su diessa.

Da un punto di vista scientifico, con il termine stress si intende la ri-sposta aspecifica di un organismo ad ogni richiesta che proviene dall’ambienteesterno o interno dell’individuo e ne richiede un adattamento (Cannon, 1956;Selye, 1956). In altre parole, quando l’ambiente esterno fa richieste fuoridall’ordinario, l’essere umano concentra le sue energie raggiungendo unostato di tensione finalizzato a dare una risposta e una risoluzione. Senzastress, molti problemi non troverebbero una risposta e il nostro adattamentoambientale sarebbe minore.

È per questo motivo che si parla di “eustress”, o stress positivo, a indi-care un certo tipo di tensione che ci sostiene verso la meta come avviene, peresempio, in qualsiasi tipo di gara.

Lo stato di tensione, tuttavia, può estendersi eccessivamente nel

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tempo, diventando un rischio per la nostra salute; come anche presentarsisotto forma di stress negativo, in relazione a episodi o a condizioni di vitaparticolari. Si parla perciò di stress lavorativo, di stress urbano, di stress fami-gliare, ecc. Esso inoltre può essere “acuto” o diventare cronico.

Certamente, anche nel caso di alcuni dei nostri intervistati si possonoravvisare situazioni di stress. Positivo quando, come nel caso del soccorritorecitato, tutti i nervi sono tesi a far fronte a una emergenza nella maniera piùefficiente. Negativo quando, per esempio, si vive l’esperienza frustrante di la-vorare senza i mezzi e l’organizzazione adeguati al compito, o più in generalequando il compito è superiore alle proprie energie.

Il compito che spetta al soccorritore richiede che questi sviluppi unaserie di competenze legate proprio alla gestione dello stress, per esempio:

- tolleranza dell’incertezza e dell’errore;

- capacità creative (arrangiarsi con le risorse disponibili);

- capacità di lavorare in squadra;

- stabilità emotiva;

- capacità di cogliere le caratteristiche del contesto sociale e uma-no (comprese le differenze culturali) e di addattarvisi.

Una efficace gestione dello stress comprende anche la sfera extralavo-rativa: per esempio la capacità di “staccare” e di non fare ricadere i problemilavorativi sui famigliari; la capacità di mantenere buoni livelli di autostima afronte di insuccessi; o quella di saper utilizzare al meglio le risorse offerte dailegami di squadra e la leadership della propria organizzazione.

Tale gestione dello stress assume il nome di coping, cioè “far fronte”,“reagire a”. La capacità del singolo di far fronte a situazioni difficili dipendeda molti fattori; alcuni di questi hanno a che fare con le caratteristiche perso-nali; altri con fattori ambientali, quali il maggiore o minore aiuto da chi ci stavicino, o il tipo di organizzazione in cui siamo inseriti.

In situazioni di stress mettiamo in atto generalmente due modalità dicoping: una, di tipo più razionale, “centrata sul problema”; si tratterà quindidi impegnarsi a cambiare le condizioni oggettive del proprio ambiente pertornare a stare bene.

L’altra, più emozionale, è una strategia che mira a modificare la propriapercezione soggettiva in origine spiacevole e le emozioni negative ad essaconnesse. Per esempio, giungere a pensare alle difficoltà come a opportunità.È molto diverso infatti definire un certo evento stressante una minaccia, unasfida o un danno (Lazarus, 1966; 1978).

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I soccorritori con esperienza sono il più delle volte passati spontanea-mente attraverso le diverse fasi e modalità della gestione dello stress; è unaforma di preparazione che si acquista con il tempo ma che può venir facilitatae trasmessa. Numerose interviste realizzate in questa ricerca fanno riferi-mento a questo continuo “processo di apprendimento” di abilità di coping.

Poiché è importante saper individuare, regolare e utilizzare i segnaliofferti dallo stress elaborando strategie personali per farvi fronte,4 è utile ave-re consapevolezza di questi processi.5

Burn-out

Il concetto di burn-out (letteralmente, “bruciarsi”), risale alla secondametà degli anni Settanta (Maslach, 1973; 1976).

Da questi primi studi il burn-out venne definito come una sindrome diesaurimento emozionale, di spersonalizzazione e di riduzione delle capacitàpersonali che può presentarsi in soggetti che per professione si occupano dellagente. Si tratta di una reazione alla tensione emozionale cronica creata dalcontatto continuo con altri esseri umani, in particolare quando si hanno pro-blemi o motivi di sofferenza.

Una definizione sintetica parla di “fallire, logorarsi o essere esauriti acausa di una eccessiva richiesta di energia, resistenza o risorse” suggerendoche lo stato di burn-out sia l’esaurimento emotivo conseguente a un sovracca-rico (Galimberti, 1999).

Se si confronta il concetto di stress con quello di burn-out, si può os-servare che quest’ultimo costituisce una sorta di “secondo stadio”, anticipatodallo stress.

Il primo stadio, quello dello stress, implica uno squilibrio tra risorsedisponibili e richiesta. Il secondo stadio, invece, è caratterizzato dalle sensa-zioni di ansietà, tensione, fatica, e da risposte che sono deviate rispetto allemodalità equilibrate di affrontare le situazioni. In una terza fase, la persona

4 La possibilità di diminuire gli effetti negativi dello stress attraverso il miglioramento delleabilità di coping è stata approfondita, dal punto di vista clinico, da Meichenbaum, che ha messo apunto una specifica procedura, il Training di inoculazione dello stress (Stress inoculationtraining). Tale procedura consiste nell’aiutare il soggetto, in un setting protetto, a sviluppare leproprie risorse e capacità di gestione dello stress.5 La questione dell’efficacia delle strategie utilizzate dai soggetti in situazioni altamentestressanti è stata oggetto di grande attenzione da parte dei ricercatori che si sono occupati delfenomeno della resilience, ossia la capacità dei soggetti di resistere a eventi stressogeni ad altoimpatto ed avere esiti evolutivi positivi..

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colpita da burn-out erige una sorta di muro tra sé e le persone di cui si occu-pa, in modo da difendersi da stimoli ormai insopportabili. L’operatore a que-sto punto si disimpegna dal lavoro, fa molte assenze e può sviluppare un certocinismo; può inoltre dimostrare burocratismo e rigidità.

Questi sentimenti negativi verso gli altri possono inasprirsi fino adincludere la negatività anche verso se stessi. Gli operatori provano sentimentidi colpa o tormento per il modo in cui trattano gli utenti, percepiscono il pro-prio cambiamento in negativo e questo dà luogo a quella che viene chiamataridotta realizzazione personale (Maslach, 1992).

Quando la colpa è troppo pesante o poco metabolizzata l’operatorepuò giungere a colpevolizzare l’interlocutore della relazione; diventa così piùfacile giustificare comportamenti rigidi e aridi. Questo tipo di reazione è notacome biasimare la vittima ed è collegata alla diffusa credenza che a questomondo le persone ottengono ciò che si meritano (Ryan, 1976); se stanno male,se hanno dei problemi, è dunque colpa loro.

L’esposizione al burn-out è largamente determinata anche da fattoriorganizzativi. Una particolare importanza riveste il ruolo dell’operatore nellapropria organizzazione.

A determinare il burn-out può intervenire un sovraccarico di ruolo oun conflitto, per esempio nel caso di una avvertita incompatibilità tra sé e ilruolo rivestito; oppure l’ambiguità, cioè la non chiarezza su quale sia il pro-prio ruolo e il susseguirsi di successivi cambiamenti; infine, una scarsa oeccessiva autonomia (Cherniss, 1980). La prima può far sentire la personasottovalutata; la seconda può produrre un senso di grave insicurezza.

Può anche avvenire che le richieste esterne siano incompatibili con lecapacità o le mete dell’operatore, con i suoi valori e le sue convinzioni, tuttecause di elevati gradi di stress.

La prima osservazione da fare, per quanto concerne la nostra ricerca, èche il burn-out prevede una situazione lavorativa che si protrae per moltotempo, e quindi contesti di assistenza continuativa, per lo più in ambiente la-vorativo, anche se alcuni scenari del lavoro umanitario, per esempio, possonopresentare lo stesso quadro. Anche quando si analizzano contesti di lavorovolontario, tuttavia, come nel nostro caso, è utile prendere familiarità conqueste teorizzazioni, perché facilitano l’individuazione di eventuali problemi equindi la messa in atto di misure preventive.

L’analisi delle condizioni di lavoro dei soccorritori ha portato a indivi-duare alcuni fattori di rischio professionale. Tale concetto, tradizionalmente appli-cato unicamente al lavoro professionale, investe invece anche quellovolontario, e certo la questione meriterebbe una maggiore considerazione da

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parte delle istituzioni.Alcuni rischi professionali riguardano:

- l’esposizione a pericoli fisici imprevedibili;

- l’incontro con la morte violenta o con resti umani;

- l’incontro con la sofferenza di altre persone;

- la percezione negativa dell’assistenza offerta alle vittime;

- i turni lunghi, il lavoro disorganizzato e la fatica estrema;

- l’inefficacia dei mezzi tecnici e la percezione di scarso controllo;

- l’incontro con la morte di bambini;

- l’ambiguità del proprio ruolo;

- la necessità di compiere scelte difficili;

- le difficoltà di comunicazione;

- l’eccessiva identificazione con le vittime;

- gli errori umani;

- l’urgenza;

- il senso di fallimento della missione.

Fra le situazioni e gli stressor personali figurano:

- le lesioni personali;

- i decessi o le ferite subite dalle persone amate, dagli amici e daicolleghi;

- lo stress preesistente;

- uno scarso livello di preparazione personale o professionale;

- le reazioni di stress di altre persone che rivestono un’importanzapersonale;

- le aspettative su di sé;

- uno scarso livello di sostegno sociale.

Trauma

La reazione traumatica si sviluppa a seguito di un evento che si collocaal di là dei confini della esperienza umana consueta. Il termine significa infatti“rottura”, “interruzione”. A differenza dello stress, il trauma interrompe ogni

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legame con la situazione precedente; esso risulta in una interruzione bruscadel senso di integrità e continuità dell’individuo e ha la caratteristica di essereimpensabile. A differenza di stress e burn-out, la reazione a un trauma ha uncarattere solo relativamente legato alle caratteristiche personali: esso hainfatti forma inevitabile e universale.

Per potersi dire traumatici gli eventi devono possedere caratteristicheparticolari, recentemente molto studiate in letteratura. Per esempio:

- comportare la morte, la minaccia di morte, gravi lesioni o inte-grità fisica a sé o ad altri prossimi;

- suscitare sentimenti intensi di impotenza e orrore.

Sono eventi traumatici tutti quelli che hanno caratteristiche di ingo-vernabilità e ineluttabilità e comportano la completa rottura con un equilibriopassato. Si può parlare così di esperienza traumatica quando si abbia la perdi-ta inaspettata di un famigliare o dei propri beni (per esempio la casa); ol’allontanamento forzato dai propri luoghi, regione o patria, con la perdita delproprio mondo sociale e dei legami. Eventi traumatici sono sperimentare laviolenza da parte di altri, subire aggressioni e torture, e la perdita della digni-tà umana.

Il mondo contemporaneo ci offre continuamente lo spettacolo di espe-rienze di questo tipo: guerre, eccidi, deportazioni, eccetera; realtà che ci arri-vano attraverso i media ma nelle quali è coinvolta, oltre che le popolazionilocali, una schiera di operatori umanitari che agiscono in condizioni di alto ri-schio, fisico e psicologico.

Traumatico, tuttavia, può essere anche un evento che si verifica incondizioni sociali normali. Per un soccorritore, esposto con continuità aeventi tragici e a sofferenze, tre eventi in particolare mettono a rischio l’equi-librio psicologico e si possono perciò chiamare traumatici:

- la morte di un bambino;

- la morte di massa;

- la morte o il ferimento grave di un collega.

Si tratta in questo caso di esperienze di intenso coinvolgimento e soffe-renza in grado di abbattere le normali contromisure difensive del soccorrito-re; nel caso della morte di bambini o di un collega l’identificazione ha infatticaratteristiche di intensità tali da non poter essere governata con i metodiusuali; nel caso di tragedie di massa, l’ambiente tutto è così intriso di soffe-

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renza e sgomento da non concedere spazio alle opportune prese di distanza;confusione e dolore permeano perciò ogni cosa, col rischio dello scatenarsi divissuti ingestibili. In molti contesti europei e internazionali è allora previstoun sostegno speciale ai soccorritori, attraverso l’intervento di professionisti.

Le reazioni post-traumatiche

Il trauma subito dà luogo a manifestazioni specifiche, anche questeampiamente studiate:

1) ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell'evento, checomprendono immagini, pensieri o percezioni (nei bambinipiccoli si possono manifestare giochi ripetitivi in cui vengonoespressi temi o aspetti riguardanti il trauma);

2) sogni spiacevoli ricorrenti l'evento (nei bambini possono esse-re presenti sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile);

3) agire o sentire come se l'evento traumatico si stesse ripre-sentando; ciò include sensazioni di rivivere l'esperienza, illusio-ni, allucinazioni, ed episodi dissociativi di flashback, compresiquelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione(nei bambini piccoli possono manifestarsi rappresentazioni ripe-titive specifiche del trauma);

4) reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti interni oesterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspettodell'evento traumatico;

5) evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma eattenuazione della reattività generale (non presenti prima deltrauma), come indicato da tre (o più) dei seguenti elementi:

- sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate conil trauma;- sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi deltrauma;- incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma;- riduzione marcata dell'interesse o della partecipazione ad attivitàsignificative;- sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri, con l’emergeredi un'affettività ridotta ( per es. incapacità di provare sentimenti diamore).

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Sull’argomento occorre fare però alcune precisazioni. Il termine trau-ma ha ricevuto una massiccia attenzione negli ultimi dieci anni e qualche voltase ne è notato decisamente un abuso. Le reazioni emotive di vittime esoccorritori, reazioni di solito normali a eventi eccezionali, trovano nellinguaggio usuale una terminologia perfettamente adeguata. In molti casi, peresempio, sarebbe assai più efficace parlare semplicemente di shock o di soffe-renza.

Eppure il termine sofferenza è tra quelli oggi meno utilizzati nellaletteratura psicologica riguardante i disastri, le guerre, gli eventi traumaticiindividuali, così come nelle pubblicazioni che trattano di soccorso. Quando siparla di reazioni emotive delle vittime e dei soccorritori si preferisce parlare ditrauma e, in particolar modo, di Post Traumatic Stress Disorder/PTSD,Disturbo Post Traumatico da Stress, il quale sembra essere diventato un «mu-st» nell’ambito della psicologia dell’emergenza. Questo particolare “disorder”(perciò una malattia) ha trovato una sua formalizzazione medico-psichiatricain ambiente anglosassone allo scopo di reperire legittimi risarcimenti per isoldati USA che tornavano da terribili esperienze con profonde ferite nelcorpo e nell’anima.

I sintomi di PTSD, quelli prima brevemente descritti, sono in molti ca-si una realtà, e coinvolgono soccorritori esposti a esperienze particolarmentedevastanti. Ancor oggi, tuttavia, essi stentano a ottenere il riconoscimento del“danno psicologico”, anche se questo è previsto nella nostra legislazione;6

molto quindi andrebbe ancora fatto per conoscere il PTSD, e soprattutto perprevenirlo.

Ciò non toglie che vengano considerate PTSD manifestazioni come larabbia, l’amarezza, la paura, il senso di disorientamento e il pianto. Reazioninormali a condizioni altamente stressanti vengono fatte rientrare nelle manife-stazioni “patologiche” con il rischio di indurre, in taluni casi, il senso di ma-lattia. Esse pertanto, pur appartenendo a un campo complesso diproblematiche, vengono ridefinite come “problema tecnico” che richiede solu-zioni tecniche e specialistiche.

Una critica diffusa ha recentemente investito l’uso di routine di tecni-che di prevenzione del PTSD quali il debriefing (incontri di gruppo per parlaredei vissuti durante quanto è accaduto). Metodi di sostegno psicologico pur

6 L’importante svolta codificatoria in tema di danno alla persona, con alcune fondamentalipronunce della Cassazione (n. 8827 e n. 8828/2003) e della Corte Costituzionale (sentenza n.233/2003), ha finalmente sottolineato che il “valore uomo in quanto tale, non si esaurisce nellasola attitudine a produrre un reddito, ma esprime tutte le funzioni naturali afferenti al soggettonella integrazione delle sue dimensioni biologiche, psicologiche e sociali”.

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importanti e spesso necessari perdono la loro efficacia e credibilità quandovengono introdotti quali panacee e percorsi standardizzati. Per non parlare dimetodologie vendute come miracolistiche, le quali pretendono di “far sparire”il trauma. Questo uso della psicologia, o della pseudopsicologia, ha inoltre ildifetto di non tenere nel dovuto conto fattori di contesto che hanno, nel benee nel male, un impatto decisivo su come i singoli vivono ed elaborano l’eventotraumatico: tra questi, oltre che fattori sociali, quali il sostegno dell’ambiente edel gruppo, sono determinanti anche fattori di tipo culturale, attraverso i qua-li può essere dto senso all’evento subito. Sia i singoli che le comunità hanno inaltre parole importanti anticorpi e una tendenza naturale a ritrovare gli equili-bri perduti, reintegrando nella propria storia personale ciò che era stato moti-vo di sofferenza e smarrimento. Un lavoro sul trauma, dunque, come è giàstato più volte ribadito a livello internazionale,7 deve prevedere in primo luo-go l’appoggio alla ricostituzione dei naturali anticorpi allo sviluppo del PTSD:la tenuta dei gruppi sociali, la motivazione, l’elaborazione in senso positivodelle perdite e dei lutti.

La compassion fatigue: troppa cura degli altri, poca di sé.

L'espressione compassion fatigue (fatica da compassione), partico-larmente felice perché diretta e poco tecnicistica, è stata coniata da Figley(1995) e sta a indicare il lavoro emotivo che deve compiere il soccorritore ilquale, dedicandosi ad alleviare la sofferenza degli altri, raccoglie informazionisu di essa finendo in qualche modo per “assorbirla”. Si ha compassion fatiguequando nella sua vita quotidiana il soccorritore è costretto a fare i conti conti-nuamente con il lavoro che si è lasciato alle spalle, senza riuscire a “staccare”.Sovente egli finisce per “imitare” i sintomi della persona che sta curando.

I segnali di questa condizione mentale sono:

- umore negativo;

- intrusione di pensieri circa la sofferenza delle persone di cui cisi sta occupando;

- difficoltà a separare la vita lavorativa dalla vita personale;

- diminuita tolleranza alle frustrazioni e scoppi di collera;

7 L’importante svolta codificatoria in tema di danno alla persona, con alcune fondamentalipronunceSiti utili per avvicinare questo argomento sono: http://www.ncptsd.org/;http://www.traumaresearch.net/; http://www.psicotraumatologia.com/.

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- timore a lavorare con vittime particolari;

- sviluppo di sentimenti transferali intensi;

- depressione;

- assunzione del punto di vista delle vittime e difficoltà astaccarsene;

- senso di inefficacia e inutilità;

- allentamento di alcune funzioni dell’Io: senso del tempo edell'identità; volontà;

- difficoltà a funzionare in modo appropriato fuori dalla vita pro-fessionale;

- perdita della speranza.

L'espressione compassion fatigue fa riferimento a un sentimento, lacompassione (“patire con”), che è una delle componenti motivazionali piùintense e valide del lavoro del soccorritore. Essa prevede che vi sia in lui lasensibilità senza la quale sarebbe poco adatto a questo lavoro. È proprio in re-lazione a questa utile disposizione, dunque, che si sviluppa lo “sfinimento”dell’aiuto. Mantenerla senza incorrere in conseguenze negative è quindi uncompito importante di autoprotezione del soccorritore.

Anche in questo caso, sono state messe a punto metodologie di rinforzodelle difese naturali e interventi di prevenzione che stanno dando interessantirisultati.8

Le difese verso emozioni troppo intense: il contributo della psicologia del profondo

Un contributo importante per la comprensione del lavoro del soccorso,in particolare in condizioni di estrema gravità e urgenza come le catastrofi ogli scenari di guerra, ci viene da professionisti di formazione psicodinamica,impegnati nell’ambito della psicologia in situazioni di emergenza.9

8 Il Progetto Green Cross, condotto da Figley presso la Florida State University, prevede unaforma di intervento breve a sostegno dei soccorritori che si sviluppa in cinque sessioni.9 Ci riferiamo in particolare a Patrizia Brunori e Maria Chiara Risoldi e a P. Brunori, G.Candolo e M. Donà dalle Rose, autrici del volume Traumi di guerra. Un’esperienzapsicoanalitica in Bosnia-Erzegovina, Manni, Lecce, 2003 e del lavoro Traumi psichici in contestidi violenza sociale pubblicato all'interno del volume Guerre e Minoranze. Diritti delle minoranze,conflitti interetnici e giustizia internazionale nella transizione alla democrazia dell’Europacentro-orientale, a cura di Gustavo Gozzi e Fabio Martelli, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 295-322.

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Richiamando alcuni concetti chiave della psicoanalisi, essi mettono inluce modalità di reazione di soccorritori e vittime. In situazioni di emergenza,i soggetti mettono in atto particolari difese psicologiche. Con questo termine siintendono degli artifici della mente, di tipo inconsapevole, attraverso i quali ilsoggetto cerca di eludere la consapevolezza di emozioni suscitate in lui dallasituazione in cui è coinvolto. Alcune di queste difese si rivelano funzionali almantenimento di una dose di lucidità, come accade ai soccorritori che agisco-no in condizioni di urgenza e che, per poter agire, si difendono attraverso ildistacco emotivo.

Altre volte, invece, i meccanismi di difesa, impoverendo il senso direaltà, possono mettere a repentaglio l’esito di un soccorso. Tali meccanismipossono imporsi totalmente alla mente, assorbendo le energie emotive dellapersona, proprio come accade in caso di PTSD, burn-out o compassion fatigue.I sintomi sopra descritti, dunque, sono modi disfunzionali di contrastare leemozioni prodotte da una attività umanamente “pesante”.

Un altro meccanismo di difesa è la rimozione, che significa elidere dallamente fatti e circostanze che rimandano a un'emozione insostenibile. Unaltro ancora è la conversione. Secondo quanto ricordano P. Brunori e M.C. Ri-soldi, alcuni poliziotti nella zona del crollo delle Torri Gemelle furono ricove-rati per paralisi della mano destra, rivelatosi un sintomo di conversione diorigine psicogena: i poliziotti, infatti, avevano convertito il loro sentimento ditotale impotenza “paralizzando” la mano con la quale solitamente afferravanola pistola per rispondere a un pericolo.

Può invece essere messa in atto l'inibizione, cioè l’impedimento asvolgere azioni un tempo usuali in quanto collegate a una esperienza trau-matica. Certe inibizioni a continuare a svolgere il proprio lavoro possonoavere questo senso. Lo spostamento, invece, avviene quando l’angoscia susci-tata da una certa situazione viene spostata su una situazione diversa, chefunge da schermo. Come nel caso di un soccorritore che sposta sul timore alasciare parcheggiata l’auto incustodita l’angoscia di aver lasciato un propriocollega in balia delle fiamme.

La razionalizzazione è forse il più diffuso tra i meccanismi di difesa, econsiste nel dare spiegazioni razionali a eventi forieri di angoscia. Nell’ambi-to delle organizzazioni del soccorso, l’assunzione di alcune regole rigide puòavere proprio questo significato; un caso può essere quello, citato da unacollega psicologa, E. Venturella (vedi Fenoglio, 2003), in cui gli sfollati diuna alluvione venivano dimessi dal centro di raccolta dopo un paio di giorniperché così era la regola, anche se lo spazio non sarebbe stato occupato danessun altro; l’assunzione di regole burocratiche incontrovertibili può funge-

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re da razionalizzazione a fronte di sentimenti di angoscia provati dagli ope-ratori nel rapporto con le tragedie umane.

L’isolamento affettivo si dà quando un evento o un'idea vengono ricono-sciuti dalla coscienza, ma slegati dalle emozioni corrispondenti. Questa sortadi “congelamento”, funzionale, se circoscritto nel tempo, a un efficaceintervento di urgenza, è messo in atto in dosi massicce nel caso di gravi trau-mi. Tra i soccorritori, un singolo episodio traumatico o l’accumulo di gravistress può portare a una sorta di desensibilizzazione o alla riduzione progres-siva del proprio coinvolgimento emotivo con gli altri.

La regressione interviene invece quando si fa ricorso difensivamente acomportamenti infantili, come – nell’adulto - il rifugio nel cibo o il ricorsoall’alcool.

La negazione è invece il rifiuto inconscio di prendere atto di un dato direaltà, per esempio il fatto di aver fallito una missione o le conseguenze di uncomportamento errato. La negazione induce anche a sottovalutare i pericoliconnessi con il soccorso o ad allentare l’allerta sui rischi, come quelli a ca-rattere medico.

Il carattere pervasivo dei meccanismi di difesa impone che i soccorri-tori siano consapevoli della loro esistenza. Un'adeguata formazione psicologi-ca e forme di sostegno specialistico, specialmente in concomitanza conesperienze particolarmente stressanti, si rendono perciò necessari, in mododa rendere presenti alla coscienza la natura dell’impatto con l’emergenza e lepossibili reazioni disfunzionali tanto alla espletazione del servizio quanto allapropria salute psicofisica.

Emozioni, un bene prezioso

Il termine “emozione” (dal francese émouvoir) ha un forte connotato dimovimento, di apertura, di uscita dall'immobilità. I dizionari etimologiciinfatti richiamano il significato di “mettere in movimento” e rimandano aqualche cosa di vivo e mutevole.

Superato il passato pregiudizio che ciò che contraddistingue l’umano èl’elemento razionale, l’emozione e la vita emotiva hanno ricevuto sempre piùcredito come elementi fondamentali della nostra umanità.

Delle emozioni è stata sottolineata innanzi tutto la funzione adattiva; ègrazie ad esse che l’essere umano si adatta alle diverse situazioni della vita,evita gli ostacoli, trova soluzioni in direzione della maggiore soddisfazione.Le emozioni sono un sistema di guida: esse ci danno informazioni indispensa-

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bili circa la realtà del mondo esterno e ci inducono ad agire di conseguenza.La vita emotiva ci offre un quadro del nostro stato di essere nel mondo e diri-ge le nostre azioni rendendoci consapevoli degli effetti degli avvenimenti.

Le emozioni sono quindi un veicolo indispensabile di comunicazione,sia del mondo verso di noi che nostra verso il mondo.

Oggi, che l’illusione razionalistica è superata anche in ambienti tradi-zionalmente più ostici a questo tipo di realtà, le emozioni stanno ricevendomolta attenzione, e viene dato valore a tutto ciò che concerne l’espressioneemotiva, l’apertura affettiva, l’intuizione, ecc.

Eppure non sempre le emozioni sono considerate un valido strumentonella soluzione di problemi concreti e nella vita professionale. Anche in queisettori, come il volontariato, in cui l’impegno umano si basa su una serie diemozioni (la solidarietà, l’empatia, ecc.), esse stentano a trovare una colloca-zione organica tra le risorse considerate essenziali. “Bontà” e “altruismo” so-no oggetto di citazioni generiche, sentimenti dati per scontati. La profonditàdel proprio sentire, il rimando offerto dalle reazioni altrui, le contraddizioniin cui ci imbattiamo all’interno del mondo emotivo raramente vengono dipa-nati, nominati e scientemente utilizzati.

È esperienza comune di noi psicologi imbattersi in diffidenze ancherobuste da parte di soccorritori che ritengono le emozioni una parte non atti-nente con il proprio lavoro, addirittura disturbante. Una certa cultura medi-ca, tecnica o “militare” nelle organizzazioni del soccorso induce inoltre avedere nelle emozioni una manifestazione di debolezza, e quindi di scarsaefficacia. Per molti soccorritori emozione vuol dire “farsi prendere dalle emo-zioni”, piuttosto che guida alla operatività. Al più, le emozioni vengono rite-nute un di più non strettamente necessario, una sorta di “confort” dadelegare alle “dame di carità” dopo che il real job è stato eseguito.

Eppure le moderne organizzazioni lavorative tendono oggi a daremolto rilievo a quella che viene chiamata “intelligenza emotiva” (Goleman,1996). Ancor prima di essa, l’intelligenza interpersonale, come la definisceGardner (1985), è entrata a far parte di quegli strumenti ritenuti insostituibilinella gestione delle organizzazioni di lavoro.

Il concetto di intelligenza emotiva, o meglio emozione intelligente, ri-manda alla possibilità, o meglio necessità, di guidare, piuttosto che reprimere,le nostre emozioni, in modo da farne uno strumento efficace nella vita e nellavoro. Se infatti non siamo responsabili di quanto proviamo di fronte aglieventi esterni o ai comportamenti altrui, lo siamo per il modo in cui decidia-mo di esprimere i nostri sentimenti.

Il volontariato, da questo punto di vista, appare come una forma rea-

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lizzata di espressione di intelligenza emotiva. La compassione, lo sdegno perl’esclusione e l’ingiustizia, la preoccupazione per le sorti della società o delsingolo lasciato a se stesso diventano nelle professioni di aiuto e nel volonta-riato emozioni-guida e emozioni-senso che sorreggono le azioni altruistiche.

Interessante è la sistematizzazione operata da Goleman. Egli affermache l’intelligenza emotiva si fonda su due tipi di competenza, una personale,connessa al modo in cui gestiamo le nostre emozioni e noi stessi, e una relazio-nale legata al modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri.

Della competenza personale fanno parte:

- la consapevolezza di sé (conoscenza dei propri stati interiori laconsapevolezza emotiva, il riconoscimento delle proprie emo-zioni e dei loro effetti; l’autovalutazione);

- la padronanza di sé (la capacità di dominare i propri stati inte-riori e i propri impulsi);

- la capacità di sapersi motivare (il raggiungimento di obiettiviesistenziali nonostante ostacoli ed insuccessi).

Delle competenze sociali, fanno parte:

- l’empatia (comprendere i sentimenti, le esigenze e gli interessialtrui senza dimenticare i propri);

- le abilità sociali (capacità di indurre e favorire risposte desidera-bili negli altri attraverso la comunicazione efficace e la costru-zione di legami).

Anche senza nutrire l’illusione che tutto del nostro mondo emotivopossa essere conosciuto, diretto e controllato, lo sviluppo di “emozioni intelli-genti” può migliorare la nostra vita e facilitare il raggiungimento dei nostriobiettivi, oltre che rendere più efficace e soddisfacente anche il lavoro delsoccorso.

Le emozioni dei soccorritori

Una utile sistematizzazione delle emozioni dei soccorritori (Pagliaro,2003) propone una suddivisione in tre settori:

- coinvolgimento verso il contesto;

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- coinvolgimento verso i singoli;

- coinvolgimento tra volontari.

Il contesto è lo scenario in cui il soccorritore si trova a operare; esso ècostituito dall’insieme (“sistema”) formato dai luoghi, le comunità, i gruppiumani, i linguaggi e le culture in cui il soccorritore si trova immerso. I singolisono le vittime soccorse, le loro storie e caratteristiche, le difficoltà in cui so-no incorse, le loro reazioni, il rapporto con i soccorritori. Il rapporto con glialtri volontari riguarda le emozioni che si sviluppano con i colleghi, con unasquadra, con una organizzazione, con un leader (vedi figura seguente).

La sistematizzazione è utile come prima mappa di orientamento. Leemozioni del soccorritore, infatti, si sviluppano in un intreccio di risonanzereciproche. Le emozioni che animano una squadra, come è noto, influisconosulle emozioni vissute con le vittime; le emozioni suscitate in noi da un conte-sto (per esempio, in una cultura diversa dalla nostra) influiscono sulle emo-zioni verso le vittime; mentre il rapporto con gli altri volontari determinaspesso le modalità di approccio con le vittime. Semplicistico è dunque limi-tarsi a parlare di “stress” o di “comunicazione” con le vittime o la squadra: leemozioni fluttuano perciò in un campo complesso, che possiede caratteristi-che di tipo ecologico.

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Da questo discende la scelta che abbiamo compiuto in questa ricerca:interrogare direttamente i soccorritori per avere dalle loro stesse voci un aiu-to a gettare uno sguardo sulla realtà non semplificata delle loro esperienzeumane ed emotive.

Conoscere, elaborare e utilizzare le emozioni

Le emozioni umane, piacevoli o spiacevoli che siano, più o menointensamente manifestate o celate dentro di sé, necessitano di essere gestite.Tuttavia, vi sono emozioni che o per la loro drammaticità, come l’estremadisperazione, o per la loro inaccettabilità per chi le prova, non riescono a es-sere rielaborate. Quando si dà una discrepanza tra l’emozione in cui la perso-na è coinvolta e il suo comportamento manifesto, ciò costituisce unimportante fattore di rischio. Preclusa alla coscienza, l’emozione “lavora”sotterraneamente, producendo esiti spesso nefasti per la salute psicologicadell’individuo.

A gestire le emozioni si impara. Un primo apprendimento avvienenell’infanzia, quando sono gli adulti significativi che “prestano” al bambinopensieri, parole, considerazioni circa le emozioni che il bambino manifesta equelle che manifesta l’ambiente intorno a lui. Gli adulti lo guidano anchenella gestione più opportuna di certe emozioni (si pensi alla rivalità fraterna),ma soprattutto forniscono un esempio diretto con il loro comportamento.

Non sempre però questo apprendimento ha luogo. In questi casi, isoggetti crescono con una sorta di “analfabetismo emozionale”. Può avvenire,per esempio, che alcune esperienze emozionali dei genitori rimangano ine-spresse e agiscano sotterraneamente, come nel caso di gravi lutti dei genitori,o addirittura delle generazioni ancora precedenti, mai sufficientemente elabo-rati. O che a loro volta i genitori non abbiano appreso a riconoscere e nomi-nare le proprie emozioni, ma procedano per agiti, vivendo in qualche modo“appiattiti”. Anche nel percorso educativo si dà pochissimo spazio al parlare,analizzare e apprendere a regolare le emozioni. Anche se esistono buoniesempi del contrario, la scuola non sempre annovera questo campito traquelli da perseguire. Imparare a mediare un conflitto, esprimendo collera conle parole anziché con la violenza fisica; apprendere a dare un nome all'attra-zione verso un’altra persona e a comunicare i propri sentimenti; capire la ge-losia, la rivalità, l’invidia… Ma l’alfabetizzazione sentimentale, di importanzacosì fondamentale, è spesso rimpiazzata dalla “educazione sessuale”, che si ri-duce a una mera informazione sul funzionamento riproduttivo.

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Il volontariato può costituire una importante “palestra” per incontra-re, nominare e regolare le proprie emozioni; una seconda possibilità, quindi,per i giovani.

Come abbiamo visto nella prima parte di questo saggio, perché unaemozione venga riconosciuta, nominata e accolta occorre che venga predi-sposto un adeguato “spazio mentale” che la collochi nello specifico contestodi vita relazionale. In questo modo viene avviato un processo di interiorizza-zione che consente al soggetto di apprendere a relazionarsi con gli altri e, indefinitiva, a conoscere qualcosa di sé.

Se l’ambiente intorno non è predisposto a riconoscere le emozioni, lepersone non apprenderanno a loro volta a riconoscerle oppure, nella conti-nua disconferma, tenderanno a non dargli valore, svalutando se stessi eimpoverendo il proprio mondo interno. Molti aspetti della vita non verrannoriconosciuti, gli incontri tenderanno ad avere solo una valenza funzionale, lacreatività verrà sacrificata. Secondo Galimberti (1997), “regolare le emozionivuol dire quindi far sì che esse possano essere presenti in schemi cognitivipiù sofisticati e forniscano alla vita cosciente una nuova dimensione qualitati-va”.

Come afferma un testimone, “controllare” le emozioni consente diapprendere:

sono momenti forti che tipossono insegnare tante cose

Gli intervistati si pongono generalmente in posizione critica rispettoalla poca attenzione dedicata alla psicologia nei corsi di formazione. Unaparticolare carenza è inoltre individuata nella scarsa attenzione che la forma-zione dedica a problemi emotivi molto comuni, relativi soprattutto alrapporto tra soccorritori, e tra questi e la propria organizzazione:

La formazione è molto tecnica ma poco psicologicamai tra soccorritore e soccorri-

tore, mai tra soccorritore ed ente

Sembra piuttosto diffusa la coscienza della necessità che in squadra si

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parli delle esperienze vissute, che non ci si tenga “tutto dentro”. Eppure lecose vanno diversamente. Il terreno dei sentimenti è sentito come troppo pri-vato, qualcosa che “non c’entra” con le consuetudini di una squadra:

Dei sentimenti no, non parliamo

Io ne parlo con miamoglie, in casa, ma con altri no.

Lo scambio tra colleghi avviene spesso a livello informale, come ne-cessità immediata di rielaborazione. La possibilità di aprirsi sembra dipende-re in larga misura, oltre che dalla disponibilità individuale, dal clima disquadra:

il viaggio di ri-torno dall’ospedale alla sede, è quello il momento in cui si rielabora, si faun’analisi

poi sec’è qualcuno più aperto, che vuole avere un confronto o vuole saperel’opinione altrui su un errore che crede di aver commesso, esterna il suopensiero

perché sono in tre, che si confrontano, solo loro tre

La composizione delle squadre di soccorso è prevalentemente maschi-

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le. Gli intervistati non fanno mai riferimento a questo particolare, ma sembraindubbio che la scarsa attitudine a parlare di emozioni sia anche da attribuirea una certa cultura “maschile” non incline alle introspezioni. Difficile, so-prattutto per il maschio, ammettere di avere a propria volta “fragilità” o,ancora peggio, bisogno di aiuto. Non sempre naturalmente le cose vannoproprio così. Ma anche là dove c’è una maggiore consuetudine a parlare delleproprie emozioni, in particolare attraverso l’introduzione di momenti di de-briefing, la cosa viene razionalizzata come necessità di autoproteggersi, un do-vere prioritario per il soccorritore.10

Lo studio delle emozioni dei soccorritori e della loro gestione

Alcuni studi sulle emozioni in situazioni di emergenza hanno indivi-duato delle strategie adottate dai soccorritori impegnati in missioni difficili.Uno di questi,11 uno studio etnografico della durata di sei anni su un gruppodi soccorritori “Search and Rescue” in ambiente montano negli USA, è unafonte molto interessante di indicazioni sulle emozioni dei soccorritori e sullestrategie adottate per la loro gestione. Le pagine che seguono traggono ampiospunto da questo saggio, i cui risultati vengono di volta in volta confrontaticon quelli della presente ricerca.

Una strategia molto comune adottata dai soccorritori americani stu-diati è la depersonalizzazione delle vittime. I soccorritori raccontano di pensareattivamente, quando si trovano di fronte a una persona martoriata, che quellache hanno di fronte è solo una “carcassa”, non un essere umano. Essi testi-moniano anche di non guardare la vittima in faccia, pena la perdita diconcentrazione e ripercussioni emotive pesanti.

Testimonianze informali raccolte in Italia,12 invece, indicano comequalche responsabile del soccorso raccomandi alla propria squadra di consi-derare il corpo della persona deceduta come “persona”, e quindi di procederecon il recupero rispettando la sua integrità fisica, in primo luogo per rispettoai parenti.

10 Abbiamo presenti, in particolare, le squadre di Protezione Civile del Friuli Venezia Giulia,all’interno delle quali operano su base stabile gli psicologi di Psicologi per i popoli.11 Lois J., Heroic efforts, the emotional culture of Search and Rescue volunteers, New YorkUniversity Press, 2003, nel quale si descrive uno studio di tipo etnografico su un gruppo disoccorritori impegnati nel recupero in alta montagna. Il libro fa anche riferimento agli studi di“sociologia delle emozioni”.12 Corso di formazione La relazione di aiuto, Idea Solidale, Torino, maggio 2005.

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Sempre secondo lo studio già citato, ma anche in base alla nostra di-retta esperienza, per i soccorritori riveste molta importanza la rielaborazionenarrativa dell’esperienza vissuta, la quale consente di attuare interpretazioniretrospettive. La narrazione consente di collocare in uno spazio “pensato” leemozioni sperimentate nel contesto del soccorso, rinforzandone il significato.La narrazione servirebbe inoltre ai protagonisti a “prendere le misure” deipropri limiti di tolleranza di determinate emozioni, limiti che tendono adavanzare quando l’esito della missione è stato positivo e a retrocederequando l’esito è stato negativo.

Anche l'elaborazione di eventuali sensi di colpa trova spazio di tratta-zione.

I soccorritori sono esposti al senso di colpa, specie quando la missioneè stata un insuccesso. Essi allora cercano di fronteggiarla allontanando da séle proprie responsabilità. In questo vengono aiutati dalle regole interne, cheimpongono: primo, proteggi te stesso; secondo, i tuoi; terzo, la vittima. Il ruo-lo delle regole interne è di grande aiuto agli operatori, in quanto esse assicu-rano il mantenimento di una buona immagine di sé. In questo senso, unacultura antieroica, come quella citata qui sopra, è più funzionale a mantenerestabilità emotiva e ad assicurare la “tenuta” nel lavoro di soccorso. Ad aiutarliè anche la consapevolezza che quello che fanno va ben al di là di quello chenormalmente fanno gli altri cittadini. Sembra aiuti anche incolpare un poteresuperiore, oppure la sorte (la sfortuna, il caso, il male), come il colpevolizzarele vittime, magari per la loro imprudenza o stupidità.

Di fronte a un insuccesso, giova ritornare con la memoria a esperienzepositive, specie quelle in cui qualcuno è stato aiutato direttamente da noi.

Nel fronteggiare le crisi degli altri, i soccorritori sono chiamati a gestire leemozioni interpersonali su due fronti:

1) aiutare la vittima a gestire le proprie emozioni

2) gestire le proprie emozioni.

Per quanto riguarda l’aiuto alle vittime, tra queste e il soccorritoretende a svilupparsi una relazione molto forte “compressa” nel tempo e nello spazio.Quando questa relazione ha modo di svilupparsi, il ruolo del soccorritorenon è solo cruciale nell’accoglimento e nel conforto, ma nell’aiuto alla vittimaa controllare la definizione della realtà, e questo con due diverse modalità, aseconda dei destinatari.

Con le vittime primarie, cioè con coloro che hanno direttamente biso-gno di aiuto, il soccorritore ricorre a indicazioni molto normative.

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Lo stato emotivo infatti condiziona lo stato di salute. Il soccorritoreperciò chiede alla vittima un atteggiamento di presenza a se stesso e coopera-zione, come per esempio non piangere, non lasciarsi andare, seguire le indi-cazioni.

Tra le emozioni della vittima che il soccorritore deve più frequente-mente gestire c’è l’imbarazzo.

A volte la vittima si vergogna per essere stata stupida, imprudente omalaccorta. Perché cooperi pienamente nel soccorso, occorre toglierladall’imbarazzo, dichiarando che quel tipo di incidente, in quelle condizioni,succede a molti, ecc. In questo molto la vittima si concentra sulla sua so-pravvivenza e sul da farsi. Sostenere l’autostima della vittima in modo che“salvi la faccia” è cruciale perché non si lasci andare; trattarla come unapersona intelligente a cui è capitato un incidente o un disguido non imputabi-le alle sue mancanze può essere molto utile.

La seconda emozione da gestire è l’ansia. A questo fine è importantecomunicare fiducia nel meccanismo dei soccorsi e nel controllo della situazio-ne. Ogni eventuale dubbio va discusso tra i soccorritori senza che la vittimaascolti, e in particolare senza che la vittima intuisca conflitti e scoramenti. Ilsoccorritore, mentre si adopera nel soccorso, parlando con la vittima pre-senta la situazione in termini realistici ma rassicuranti. Mentire o genera-lizzare (“andrà tutto bene”) è considerato deleterio; molto più utile èstimolare continuamente la vittima a restare vigile e a cooperare, dicendoleche potrà lasciarsi andare una volta in mano agli specialisti (per es., in ospe-dale). Pur non negando la gravità della situazione, il soccorritore deve darel’impressione di credere che in ogni caso la vittima sopravviverà. Questa fi-ducia nelle sorti del soccorso è ritenuta fondamentale per tenere alto il mora-le e quindi la capacità di reazioni fisiche da parte dell’infortunato.

Il soccorritore che opera in questo modo si impegna in una sorta di“disciplina drammaturgica” (Goffman, 1982) e dà l’impressione di mettere inatto azioni ben controllate, procedure standard e consapevoli.

In alcune circostanze, la relazione con la vittima è curata da unmembro che ha questo specifico compito, il quale consiste nello starle vicinoe nel farla parlare perché non si lasci andare; in altre parole, nel “tenerlaconnessa”.

Con le famiglie, invece, vengono messe in atto strategie di gestione emo-tiva differenti. È importante che uno di loro stia con la famiglia. Il suo compi-to è di fornire informazioni minuto per minuto e di incoraggiare i famigliari aparlare dei propri sentimenti.

Il parlare aiuta il famigliare a prefigurare molti scenari possibili, molti

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esiti del soccorso, e quindi molte definizioni della realtà. Il soccorritore prepo-sto svolge in questo modo il ruolo di liaison.

Attraverso questa forma di vicinanza, il dolore e il cordoglio della fa-miglia vengono validati, così come tutti i sentimenti connessi, nessuno deiquali va censurato: colpa; rabbia, amore, dolore, eccetera.

Il compito del soccorritore è, secondo le conclusioni della ricercatriceamericana, bilanciare speranza e realtà. Si tratta di un ruolo regolatore dellamassima importanza perché avvicina il famigliare alla realtà, che potrebbe es-sere infausta, mantenendo una giusta dose di speranza. Il soccorritore, purnon aggredendo il famigliare per le sue speranze illusorie, cerca di ridurre ilricorso alla negazione. Nel caso, per esempio, di un anziano malatoscomparso da alcuni giorni il soccorritore può “guidare” il ragionamento delfamigliare in modo che si aspetti anche il peggio; per esempio, facendo pre-sente che “suo padre è demente… sono 4 giorni che è fuori…”, senza giunge-re a conclusioni ma “preparando” alla realtà.

Il compito più delicato è far presente al famigliare il decesso delcongiunto. Questo può capitare quando la famiglia si precipita sul luogodell’incidente, dove la squadra di soccorso sta ancora operando. La gestionedelle emozioni del famigliare è in questo caso uno dei compiti più difficili epesanti. Se la persona è stata ritrovata morta lontano, è importante dare lanotizia per gradi, per esempio dicendo: “È stato rinvenuto il suo zaino…”. Inquesto modo si consente al famigliare di avvicinarsi alla realtà autonoma-mente.

Le testimonianze offerte da queste persone impegnate nel“Search andRescue”, di cui la ricerca americana ha raccolto le storie, fanno anche riferi-mento a come i soccorritori elaborano strategie per accompagnare i famigliarinel loro lutto e nel loro dolore.

In questo campo i comportamenti adottati non sono univoci. Qualcu-no piange con i famigliari, esprimendo sentimenti di vicinanza, per esempiodicendo qualcosa su come saranno sempre nei suoi pensieri. Altri invece pre-feriscono “staccare” bruscamente. Su questo tema sembra si abbiano leincertezze più marcate. Qualcuno di loro, per esempio, dichiara che andare alfunerale lo fa sentire un “impostore”, come se quello non fosse il suo posto ese stesse violando l’intimità della famiglia.

I sentimenti espressi fanno ritenere che il problema della elaborazionedel lutto rimanga un nodo cruciale per i soccorritori, sia quelli americani chequelli che compongono il nostro campione, e che questo tema molto rara-mente venga affrontato. I volontari che si dedicano al soccorso, infatti, sicoinvolgono in un tipo di attività che rende difficile lo sviluppo di una rela-

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zione prolungata, e forse molti di loro scelgono questa attività proprio perquesto.

Un soccorritore intervenuto nello scenario del terremoto dell’Umbriae delle Marche (vedi Fenoglio, 2003) dichiarò allo psichiatra preposto all’aiu-to psicosociale che tutto gli si poteva chiedere - spalare, guidare mezzi incondizioni proibitive, ecc. - ma non di restare accanto a un vecchio che avevaperduto la sua casa!

La riconoscenza delle persone soccorse è comune, sia al di là che al diqua dell’oceano, specie se la missione ha avuto successo. I parenti e le vittimesalvate continuano a mostrare riconoscenza per lungo tempo, scrivendo,mandando offerte, ecc. In taluni casi queste relazioni durano per anni, perchévi è da ambe le parti il desiderio di mantenere vivo il ricordo di una espe-rienza che ha fortemente inciso sulla loro vita e nella quale hanno speri-mentato emozioni importanti e indimenticabili.

Mantenere la relazione servirebbe a rimanere connessi con quelleemozioni che tanto hanno rappresentato se pure per un breve lasso di tempo.

Il compenso emotivo del lavoro del soccorso

Il volontariato del soccorso, così come in genere l’attività volontaria,trae il proprio compenso da fattori di tipo emozionale. Nella nostra ricercagià abbiamo trattato il tema delle soddisfazioni che il volontariato delsoccorso procura.

Nella ricerca americana, uno dei compensi più significativi sembra es-sere l’accrescimento del senso di autoefficacia (Bandura, 1977). Con questo termi-ne si intende quel senso di soddisfazione, già citato a proposito del nostrocampione di ricerca, che deriva dal sentimento di essere parte attiva nella so-cietà, di poter “fare la differenza”, cioè di poter esercitare un'influenza. Delresto, la sensazione di non avere un ruolo e di essere ininfluenti è assai diffu-sa nella nostra società, date le caratteristiche con cui essa si è ormai struttu-rata. Soccorrere gli altri può significare uscire dal senso di massificazione ealienazione che abitualmente proviamo, regalandoci il senso di essere utili edi contare.

Un altro “compenso” è costituito dallo svolgere un'intensa attività fisicache dà un senso di efficienza. Importante sembra il poter raccogliere “storiepersonali di successo”, cioè arricchire la propria biografia di elementi convali-danti, che consentono di aumentare la fiducia in se stessi, anche in prospetti-va futura e su altri compiti.

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Come abbiamo a nostra volta rilevato con gli intervistati italiani, ri-sultano cruciali i compensi emotivi derivanti dal legame con la propria squadra,il sentirsi in famiglia e, non ultimo, il divertirsi, una sorta di “utile diverti-mento”.

Vi sono poi acquisizioni “morali”: sentirsi socialmente a posto, se non“buoni”; sperimentare una crescita interiore e ricevere lezioni di vita. Vedere co-me altri riescono a sopravvivere a dure prove o il coraggio che spesso dimo-strano equivale a procurarsi una sorta di “guida” esistenziale, da evocare perle proprie necessità. Alcuni degli eventi a cui si partecipa possono inoltrefornire molte lezioni fondamentali, delle quali fare tesoro e dalle quali trarrearricchimento.

Soccorritori e cultura delle emozioni

La rilettura in chiave trasversale delle interviste raccolte nella nostraricerca consente di individuare un “sistema di convinzioni circa le emozioni”(Lois, 2003). Le organizzazioni di soccorso sembrano infatti sviluppare unproprio sistema di convinzioni implicite circa le emozioni appropriate in certesituazioni: quanto è lecito esprimerle, quanto devono essere controllate, ecc.Il significato che i soccorritori assegnano alle emozioni è perciò cultu-ralmente determinato, e influisce sull’idea che i soccorritori si fanno di sestessi e degli altri e sul modo di vivere e rappresentare la propria organizza-zione e la propria esperienza in essa.

Le emozioni ritenute appropriate dalla propria organizzazione

Se nel caso di alcune delle interviste (giovani con breve esperienza nelvolontariato del soccorso e dell’aiuto) non è possibile rintracciare una precisacultura delle emozioni, ma piuttosto una serie di motivazioni e incentivi chehanno spinto a entrare in quell’organizzazione, per un gruppo consistente diqueste, rappresentate in particolare, ma non solo, da volontari delle “Croci”,è possibile delineare una “cultura delle emozioni”.

In questi casi essa risulta particolarmente evidente là dove gli intervi-stati parlano dei giovani e del loro ingresso nella organizzazione di soccorso.Parlare delle new entry, infatti, obbliga i soggetti a rendere più espliciti i valoridi riferimento e la cultura condivisa della propria organizzazione. I testimoniinfatti indicano con precisione quali sono ritenuti i sentimenti appropriati, e

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quali quelli che la socializzazione all’interno della organizzazione deve favori-re.

Sembra che all’inizio i nuovi membri, specie se giovani, tendano a di-mostrarsi troppo “gasati”. Dalle interviste e da un certo numero di osserva-zioni partecipanti risulta che la squadra cerca di correggere questoatteggiamento procrastinando l’esposizione del nuovo venuto alla situazionedi soccorso (per es., l’uscita in ambulanza). Egli viene piuttosto incoraggiatoa socializzare con la squadra e a saper aspettare. La “lezione” trasmessasembra essere quella dell'umiltà e della capacità di attesa. Dai giovani ci siaspetta che non “spingano” per avere un ruolo, ma che di buon grado inizinolà dove la squadra ritiene che inizino, accettando il ruolo che gli altri asse-gnano loro.

La “cultura delle emozioni” condivisa e trasmessa appare quella chepotremmo definire “anti-rambo”. Il protagonismo individuale; il mettere a ri-schio non solo la propria sicurezza ma quella della squadra; le aspettative divivere situazioni eccezionali e di svolgere il ruolo di salvatori: questi atteggia-menti vengono con forza rintuzzati, a favore di emozioni legate alla socialità,alla modestia, allo spirito di squadra e alla cooperazione.

Questa sorta di understatement in realtà sembra sottintendere unorizzonte culturale di profilo piuttosto elevato. Il volontariato del soccorso èvissuto come una esperienza collettiva, di squadra e non individuale. Losforzo e il sacrificio individuali, laddove si manifestano, devono esprimersicon discrezione. Il riconoscimento di appartenenza alla squadra è qualcosache deve essere guadagnato con fatica e nel tempo; occorre infatti dar provadi saper persistere, mantenere i propri impegni e di essere altamente affidabi-li.

Tale cultura delle emozioni sembra fondarsi su un valore anti eroicoche in realtà propone un vissuto da “vero eroe”. Mentre il “falso eroe” ècentrato su se stesso, è spaccone e mette in pericolo sé e gli altri, il “veroeroe” è affiliato alla squadra, mantiene l’equilibro tra volontariato e famiglia,“tiene” nel tempo ed è profondamente motivato prima di tutto dalla espe-rienza umana in senso allargato.

Questo “vero” eroe infatti si sente un po’ speciale. Sul suo volontariatosi regge infatti la possibilità per molti cittadini di ricevere un soccorsourgente, mission che deve essere garantita in quanto impegno assunto consa-pevolmente. Il soccorso, anche se volontario, non può infatti avere defezioni,e l’impegno preso va mantenuto. Certamente non tutti i volontari delsoccorso sono disponibili a questo. L’organizzazione è così demandata a un“core group” di dirigenti esperti, il cui committment è garantito, il quale assi-

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cura anche la continuità culturale della organizzazione stessa.La “cultura delle emozioni” investe naturalmente anche le emozioni

che i soccorritori vivono e manifestano durante il servizio. Essi indicanoanche attraverso quali strategie le emozioni stesse vengono gestite.

Gestire le emozioni

I testimoni indicano con frequenza quali emozioni risultano appro-priate in situazioni di emergenza e il modo di tenere sotto controllo quelleinappropriate. Ne è un esempio la testimonianza con cui questo saggio siapre. Nel caso descritto, le emozioni sono tenute sotto controllo, anche sepercepite. Viene indicata inoltre una precisa strategia di gestione (coping):concentrarsi sul compito ignorando tutto quello che non è direttamenteconcernente il rischio; guardare al problema tecnico, restringere il focus edissociarsi.

Questo metodo di gestione delle emozioni risulta il più citato; diffusosembra anche quello della breve discussione con la squadra, così come quellodel relax dopo un intervento (mangiare o bere qualcosa insieme).

Più temute invece sembrano essere le situazioni in cui la vittima o i fa-migliari appaiono poco gestibili, ostacolando il soccorso e minacciando isoccorritori con il proprio “caos”. In questi casi i testimoni affermano di nonpossedere un repertorio di contromisure appropriate e codificate, e l’ausiliodi un professionista della relazione è indicato come opportuno.

In linea generale, però, la gestione “umana” dell’emergenza apparealla portata del soccorritore, che cita attenzione alla privacy, disponibilità aparlare per rassicurare la vittima, capacità di esprimere vicinanza. Questoaspetto del soccorso sembra rivesta un particolare valore per i volontari, dalmomento che, non occupandosi a fondo dei problemi medici, sentono di ave-re energia per un aiuto di tipo più “umanitario”.

L’esposizione ai corpi gravemente martoriati suscita invece emozionidurevoli. Anche in questo caso le interviste non segnalano strategie particola-ri, ma l’impressione che questi episodi hanno suscitato nel protagonista restapermanente. Nelle interviste, così come in incontri informali, i testimonisembrano interessati a raccontare per esteso, piuttosto che a interpretare,esperienze che hanno segnato la loro vita. Il racconto, il ricordo, il far parte-cipi altri di eventi così rilevanti sembrano costituire una spinta importante,che andrebbe maggiormente favorita. Iniziative che raccogliessero e valo-rizzassero queste esperienze potrebbero ottenere il risultato ulteriore di indi-

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viduare strategie di fronteggiamento di situazioni “estreme”, e questo al finedi poter essere utili ad altri in circostanze presenti e future.

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Maria Teresa Fenoglio è socia di Psicologi per i Popoli – Torino. Revisionedella bozza a cura di Gian Carlo Franceschetti.