Rivista del Grande Oriente d’Italia n. 2/2003Muratoria Universale. L’epoca della Massoneria...

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HIRAM Rivista del Grande Oriente d’Italia n. 2/2003 IL DIRITTO ALLA FELICITÀ EDITORIALE 3 Il diritto alla felicità Gustavo Raffi SEGNALAZIONI EDITORIALI 99 La felicità nelle Dichiarazioni delle rivoluzioni moderne Gian Mario Cazzaniga La ricerca della felicità in un’epoca senza passioni Paolo Chiozzi Rapporto tra ricerca e benessere Sergio Licheri L’incantesimo di Prospero: letteratura, immaginario, felicità Giuseppe Lombardo Esiste un’etica della sofferenza? Carlo Marcelletti Aspetti socio-culturali della felicità Gilberto-Antonio Marselli Esistenza e felicità Sergio Moravia La cultura della felicità Bent Parodi di Belsito Il diritto-dovere alla felicità Paolo Renner Il diritto alla felicità nella tradizione costituzionale americana Massimo Teodori Eudemonia. La felicità degli antichi Mario Vitali 17 23 33 37 51 55 63 73 79 87 91 Questo numero di Hiram raccoglie parte degli interventi presentati in occa- sione della Gran Loggia 2003 (“Diritto alla felicità” - Rimini, 4-5-6- aprile). Altri contributi dedicati al tema del “Diritto alla felicità” saranno pubblicati nel prossimo numero della rivista.

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HIRAM

Rivista del Grande Oriente d’Italian. 2/2003

IL DIRITTO ALLA FELICITÀ

• EDITORIALE3 Il diritto alla felicità

Gustavo Raffi

• SEGNALAZIONI EDITORIALI 99

La felicità nelle Dichiarazioni delle rivoluzioni moderneGian Mario Cazzaniga

La ricerca della felicità in un’epoca senza passioniPaolo Chiozzi

Rapporto tra ricerca e benessereSergio Licheri

L’incantesimo di Prospero: letteratura, immaginario, felicitàGiuseppe Lombardo

Esiste un’etica della sofferenza?Carlo Marcelletti

Aspetti socio-culturali della felicitàGilberto-Antonio Marselli

Esistenza e felicitàSergio Moravia

La cultura della felicitàBent Parodi di Belsito

Il diritto-dovere alla felicitàPaolo Renner

Il diritto alla felicità nella tradizione costituzionale americanaMassimo Teodori

Eudemonia. La felicità degli antichiMario Vitali

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Questo numero di Hiram raccoglie parte degli interventi presentati in occa-sione della Gran Loggia 2003 (“Diritto alla felicità” - Rimini, 4-5-6- aprile).Altri contributi dedicati al tema del “Diritto alla felicità” saranno pubblicatinel prossimo numero della rivista.

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Il diritto alla felicitàAllocuzione pubblica del Gran Maestro del G.O.I.*

di Gustavo RaffiGran Maestro del Grande Oriente d’Italia

In this speech delivered at the Gran Lodge of Rimini (4 April 2003) the GrandMaster Gustavo Raffi emphasizes the significant effect of the new trends assumedby Italian Freemasonry. In particular, if on the one hand the Craft as an esotericcommunity can and must perform its ritual life, improving the inner process of per-fection of any single freemason, on the other hand it has nothing to do with secretassociations and operates at the light of modern society with all its stimulatingcontribution to the construction of a better world in which freedom, tolerance andhappiness can be the most important rights and values. In present times, the diffi-cult international situation compels Freemasonry to pay a deep reflection on thecontradictions of contemporary society offering and suggesting new tools of peaceand mutual respect.

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Gentili Autorità presenti, Signore e Signori, Carissimi Fratelli,

NNel segno di una Massoneriache continuamente si rinnova,il Grande Oriente d’Italia,

anche questo anno, per la quarta voltaconsecutiva, apre le porte del suoTempio, interrompe i normali Lavorirituali, per accogliere un pubblico sem-pre più numeroso di cittadini ai quali pro-porre, attraverso l’allocuzione del GranMaestro, il frutto della riflessione etico-

morale prodotta dalla maestranza nelcorso dei suoi architettonici Lavori spiri-tuali di quest’anno.

Amiche ed Amici carissimi,vi rivolgo, a nome di tutti i membri del

Grande Oriente d’Italia, il più calorosobenvenuto.

La vostra presenza, così numerosa eforse un po’ stupìta, soprattutto per chi sitrovi per la prima volta a varcare la sogliadi un Tempio massonico, è per noi moti-vo di grandissima gioia. Essa infatti testi-monia la realizzazione di diversi eventi

* Discorso tenuto in occasione dell’Apertura del Tempio agli Ospiti ed alle Autorità (GranLoggia 2003, Palacongressi di Rimini, 4 aprile.

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positivi: in primo luogo che il GrandeOriente d’Italia di Palazzo Giustiniani,sentendosi parte viva, integrante epropositiva della società demo-cratica e civile nella qualevive ed opera, si sente chia-mato a dialogare pubblica-mente con essa. La GranLoggia è quindi l’occa-sione più solenne nellaquale il Gran Maestro sirivolge alla Nazione, seb-bene non sia certamente l’u-nica. Infatti, in tutte le città ita-liane la nostra Comunione, dadiversi anni, ha dato vita - e ciò avverràcon sempre maggior frequenza - a inizia-tive di dibattito, di confronto e studio sututti quei temi che storicamente rientranonella tradizione culturale della LiberaMuratoria Universale.

L’epoca della Massoneria intesa comeIstituzione iper-riservata, inaccessibile esegreta, è da tempo svanita e ciò perdiverse ragioni.

Innanzitutto, le motivazioni che indus-sero al massimo della riservatezza o,talora, della segretezza, i padri fondatoridella Massoneria europea non hanno piùalcun senso al giorno d’oggi. Esse peròvanno comprese e collocate nel giustomilieu storico dell’epoca. Questi uomini - in pieno ‘700 - si trovarono infatti adoperare in un contesto di indiscutibileassolutismo politico, nel quale il dialogolibero, interculturale ed interreligioso, tracattolici, protestanti ed ebrei, tra borghe-si, nobili e popolani, che le prime Loggedi fatto resero possibile, non solo sarebbe

stato considerato pericoloso, ma di fattosarebbe stato sanzionato in modo estre-

mamente violento e persecutorio.Nella moderna società, in un

maturo contesto demo-cratico, ove risultanooltremodo saldi i prin-cipi fondanti il dirittodi associazione e dilibero confronto,garantiti dalla carta

costituzionale comedagli stessi fondamenti

giuridici dell’UnioneEuropea, la Massoneria non ha

alcuna ragione di essere occulta o segre-ta, né di coltivare atteggiamenti di aristo-cratica sfuggevolezza.

Essa rispetta rigorosamente le leggi ene pretende l’osservanza. L’AutoritàGiudiziaria del nostro Paese ha, infatti,archiviato inchieste penali come quellaavviata dal Procuratore Cordova, bollan-dole come infondate; la Corte Europea hacondannato lo Stato italiano a cagione diuna legge liberticida della RegioneMarche, per aver discriminato i Massoni,inibendo loro l’accesso a cariche pubbli-che. La Regione dovrà, giocoforza, uni-formarsi alla sentenza se l’Italia vorràesprimere la sua civiltà giuridica e perma-nere nel consesso europeo. La Corte diStrasburgo è stata adita anche nei con-fronti della Regione Friuli che ha emana-to altra legge che pregiudica i diritti deiLiberi Muratori.

Noi non ci nascondiamo, né desideria-mo operare nell’ombra. Giacché ricer-chiamo la luce, è alla luce della società

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che intendiamo operare nel pieno rispettodelle regole democratiche. La nostraIstituzione - non lo si dimentichi - èinfatti riconoscibile pubblica-mente, attraverso le sue sedi, isuoi indirizzi, i suoi organi distampa, la sua struttura diretti-va, nonché attraverso l’azionecontinua svolta dai suoimembri che operano pub-blicamente, anche esoprattutto nella loro qua-lità massonica, nella società italiana. Latanto millantata riservatezza vale oggisolo per la dimensione esoterico-rituale,che per noi costituisce la chiave essenzia-le dell’esperienza massonica, ovveroquella che stimola un uomo già maturo aritornare sui suoi passi per interrogarsi,attraverso l’esperienza iniziatica che daApprendista lo porta a divenire Maestro,su princìpi e fondamenti spirituali e filo-sofici di ordine essenziale per il perfezio-namento della sua esistenza umana. Saràpoi questo stesso individuo, messo difronte ai grandi interrogativi sui quali laMassoneria gli darà occasione di medita-re, a darsi, in piena libertà, le rispostefinali. Infatti la Massoneria non è unareligione né impone o propone comodesoluzioni alle quali affidarsi; anzi, piutto-sto essa si limita a stimolare la ricerca,mentre lascia la più ampia e piena libertàdi interpretazione. Ogni Maestro, quindi,avanza lungo il suo cammino individualee spirituale sapendo di dover ogni voltafare delle scelte etico-morali secondocoscienza; la libertà del Maestro Massoneè cioè la piena e libera espressione della

maturità dello spirito che sa assumersi leproprie responsabilità; egli non esegue

ordini né risponde ad una lineaunivoca di pensiero, ma,nel quadro di una serie diprincipi basilari, esprimela sua capacità critica e lasua coscienza morale.

Proprio per questeampie e circostanziateragioni, il Grande Oriented’Italia reputa indispensa-bile che la società italianapossa, con sempre mag-gior profondità, seguire,

conoscere e comprenderela realtà massonica, la sua storia e le suefinalità, gli scopi ed i progetti che essacoltiva, poiché sarà solo in questo modoche molti pregiudizi e aprioristiche con-danne potranno finalmente trovare il lorogiusto e inevitabile superamento.

A questo proposito, bisogna nuova-mente che si chiariscano alcuni punti inmerito alla storica querelle traMassoneria e Chiesa; si tratta di un argo-mento che preoccupa o incuriosiscemolti cittadini e che continuamente ritor-na, spesso in modo estremamente impro-prio, nelle discussioni sulla nostraIstituzione attraverso una serie di banaliluoghi comuni.

Il Grande Oriente d’Italia appartiene alcircuito delle Massonerie regolari, ovve-ro quelle Istituzioni latomistiche che ope-rano alla luce del Grande Architettodell’Universo e che quindi pongono laricerca di Dio e la centralità dell’uomocome scopo essenziale della propria

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ricerca e, conseguentemente, della pro-pria esistenza. I Massoni quindi non pos-sono affatto essere atei, né risultano deistiper elezione; moltissimi di loro inveceappartengono alle religioni più diffuse nelPaese; ovvero, entrando in una Loggia, vitroverete cattolici, protestanti, ebrei edanche musulmani,senza peraltro esclude-re ulteriori minoranzereligiose che per oranel nostro Paese costi-tuiscono solo una per-centuale minore. I riti ele celebrazioni massoniche inoltre traggo-no storicamente origine da una tradizioneesoterica e spirituale strettamente legata,anzi per essere precisi “radicata” nelCristianesimo e nella Chiesa di Roma,così come è testimoniato dalle primeLogge stuartiste, ossia quelle Logge che,operando in Gran Bretagna sotto la prote-zione dell’allora cattolico sovrano Stuart,prevedevano il giuramento di fedeltà aCristo ed alla Santa Romana Chiesa.Basterà inoltre rammentare la presenza inMassoneria di figure cristianissime comeJoseph de Maistre al fianco di personaggicome Voltaire per far comprendere lacomplessità dell’universalismo massoni-co, ma anche la sua assoluta estraneità adogni filone culturale anti-cristiano o anti-cattolico.

Furono vicende prettamente politiche,legate al ruolo della Chiesa come Statoassoluto, in un contesto dove però tutti glistati erano assoluti, che suscitarononell’Istituzione ecclesiastica una notevolee sempre più profonda preoccupazione

verso la diffusione di una comunione uni-versalistica che univa, in modo politica-mente incontrollabile e riservato, uominidi fedi, nazioni e ceti diversi. Il processoche di fatto ha portato la stessa Chiesa acontrastare l’unità nazionale, le sue posi-

zioni - oggi superate - contro ilmodernismo, il socialismo, le

dottrine sindacali e tante altreconquiste della modernasocietà e che fanno parteoggi della stessa cultura

del mondo cattolico e cri-stiano, purtroppo coinvolsero

anche la Massoneria, soprattutto quellaitaliana, che si trovava ad operare in unostesso territorio con scopi e finalità stori-camente contrastanti.

Ciò ha finito col polarizzare lo scontroattraverso diversi periodi della storia delnostro Paese, senza mai portare ad unvero confronto, anche se oggi per partenostra non ci sono motivi aprioristici dirivalità o di prevenzione. Noi abbiamorispetto profondo per tutte le fedi, in par-ticolare per quella più praticata nel nostroPaese; d’altra parte chiediamo rispetto etroviamo molto curioso che in diversicasi, ancora oggi, alcune autorità ecclesia-stiche, dimentiche dell’invito ad un con-fronto aperto e tollerante anche con gliatei, secondo il dettame del ConcilioVaticano II, rifiutino qualsiasi forma didialogo costruttivo con la Massoneria,Istituzione che, come si è già detto, poneDio ed Uomo al centro della sua ricerca.Se ciò non ci preoccupa oltremodo, repu-tiamo comunque che tale situazione siadannosa e inutile, perché la moderna

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civiltà deve fondarsi sul dialogo, ed il dia-logo ha senso solo se avviene tra punti divista diversi, ovvero trainterlocutori, e non trasoggetti, tra i quali l’unodeve porsi come subalter-no all’altro.

Abbiamo già rimarcatocome la modernaMassoneria non possavivere sugli allori di unpassato prestigioso, maabbia un compito storico:quello di favorire, attra-verso la sua educazionecontinua al dialogo, allatolleranza ed alla fratel-lanza, la costruzione diprocessi di crescita e maturazione dellacultura democratica e dei princìpi conte-nuti nella Dichiarazione dei diritti del-l’uomo. Per questa stessa ragione ilGrande Oriente d’Italia, senza rinunciareal suo magistero esoterico e spirituale,non si sente estraneo alla drammaticitàdella crisi politico-militare attuale.

Per quanto sia vietato - come è bennoto - alla Massoneria di entrare nel meri-to specifico di questioni strettamente poli-tiche e religiose, giacché un impegno intal senso verrebbe a rompere quella chenoi chiamiamo la “catena d’unione”, sna-turando la funzione di una Istituzione dicarattere spirituale, essa non è però nep-pure estranea alle sofferenze di una partedell’umanità ed alle contraddizioni pre-senti nel mondo attuale. Insomma laMassoneria, anche se estranea alla politi-ca intesa come luogo di confronto di par-

titi, forze ed interessi diversi, dinanzi aldolore umano, alla sofferenza dei popoli e

delle genti non può nascon-dersi dietro il grembiu-le invocando una suaopportunistica supe-riorità e sospendereogni giudizio. Sudiversi temi, infatti, laMassoneria, se siguarda bene alle suefondamenta, alle sueragioni storiche edideali, non è, népotrebbe essere, neu-trale o pilatesca.

Ma cercheremo diessere più chiari.

Oggi appare indubbio che lo scenariobellico non si risolverà con la distruzionedi un dittatore. L’evento tragico delleTorri Gemelle di fatto ci presenta un feno-meno drammaticamente nuovo: la globa-lizzazione della guerra, ove la distinzionetra spazio interno, bonificato, dove nonesistono nemici ma solo criminali, e spa-zio esterno, dove si trovano invece solo“nemici giusti” (il cosiddetto iustus hostisben noto alla politologia del passato).L’incomprensione di tale mutamento epo-cale nella storia dell’umanità potrebbeessere drammatica perché, in un tale con-testo, ciò che è locale potrebbe deflagrarein uno scenario globale, così come unacrisi globale potrebbe trovare proprio inuna frattura locale il punto dove globaliz-zarsi. Il rischio legato ai processi di ciòche è già stato definito “glocalizzazione”merita attenzione e non è risolvibile in

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termini tradizionalmente geopolitici diconquista di spazi fisici.

Se allora la Massoneria non ha gli stru-menti per poter districare la drammaticitàdi tale contesto, essa può e deve stimo-lare la riflessione e focalizzare l’atten-zione delle Istituzioni e della societàsu alcuni punti imprescindibili.

Il problema, per noiMassoni, resta infatti quel-lo della difesa dellalibertà e della felicità,diritti che devono esseregarantiti a tutta l’umanità e nonad una parte soltanto. Da questopunto di vista, lo sforzo mondialedella Massoneria universale deve rivol-gersi alla realizzazione piena delle prero-gative proprie di quelle Istituzioni inter-nazionali che, come l’O.N.U. - erededella Società delle Nazioni, ideata daiLiberi Muratori - possono e devono rap-presentare il luogo di mediazione dellecontroversie internazionali e di afferma-zione dei valori fondamentali della Cartadelle Nazioni Unite, tra i quali spiccano idiritti primari e il valore della personaumana; l’eguaglianza tra gli Stati, grandio piccoli; la giustizia e il rispetto degliobblighi derivanti dai trattati e dalle altrefonti di diritto internazionale; il manteni-mento della pace e della sicurezza inter-nazionali; il divieto dell’uso della forza;la promozione del progresso economico esociale di tutti i popoli. Sennonchél’O.N.U. è attualmente in crisi, paralizza-ta non solo da un anacronistico diritto diveto, attribuito ai singoli membri perma-nenti del Consiglio di Sicurezza - anoma-

lia politica che ne inibisce il buon funzio-namento - ma soprattutto dalla carenza diquei poteri e strumenti che possono farleassumere un ruolo attivo e funzionale alperseguimento e alla realizzazione inconcreto dei grandi princìpi e valori che

la stessa Carta delle Nazioni Uniteafferma. Il diritto internazionale e

l’O.N.U. non possono essere,infatti, modellati sullapresunzione utopica chesi possa prescindere dal

fatto che gli Stati siano o menocoerenti nella loro azione con i

princìpi fondanti dell’Ente e cherispettino, in particolare, i diritti

umani. Il diritto internazionale el’O.N.U. - come è stato ben sottolineato

da un acuto osservatore come PieroOstellino - devono essere il crocevia traetica e potere, la sede, cioè, di regolecerte e di Istituzioni forti, in quanto l’a-spirazione alla pace di per sé, senza ilsupporto di Istituzioni internazionali ade-guate, non realizza un ordine mondialestabile e tanto meno le condizioni di una“pace possibile”. La pace, invero, deveessere configurata non solo come assenzadi guerre, ma come processo di elimina-zione delle cause di conflitto. Solo cosìnessuna Potenza potrà agire autonoma-mente per tutelare quelli che ritiene i pro-pri interessi nazionali o quelli umanitari,minacciati ad esempio dal terrorismointernazionale, invocando i princìpi san-citi dalla Carta dell’O.N.U. e denunzian-do, al contempo, l’incapacità decisionalee operativa delle Nazioni Unite.

D’altro canto, noi Massoni, in tutti i

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Paesi in cui siamo presenti, crediamo diavere il compito di rammentare ai nostrigovernanti l’importanza centrale dellacostruzione di processi effettivamentedemocratici anche e soprattutto in quellesocietà di gran lunga più arre-trate delle nostre.

Si tratta pertanto di interro-garsi sulla legittimità del ricor-so, nel nuovo quadro della glo-balizzazione, ad aristocrazielocali, di sovente ottuse eintolleranti, purché disponibilia garantire un vantaggioall’Occidente, con il rischio divedere dei nuovi rais che, dopoessere stati armati e addestrati,si ribellino e perseguanoscopi di eversione mondiale.Il caso dei talebani è tristemente noto;purtroppo l’attuale situazione inAfghanistan non sembra aver visto anco-ra il ripristino di una democrazia accetta-bile, né l’applicazione dei princìpi dellaCarta dei diritti dell’uomo o della paritàtra i sessi, mentre il conseguimento di taliconquiste resta un obbligo etico-moraleimprescindibile, tanto importante quantola sconfitta del terrorismo internazionale.Di fatto dobbiamo comprendere che lapolitica mondiale non ci sconterà piùnulla. Un dittatore od una fazione oppor-tunisticamente messa al potere oggi,potrebbe essere una disgrazia domani. Isemi della pace vanno gettati da subito,senza surrogati o peggio attraverso nuoveforme di ingiustizia.

Nel processo di globalizzazione, ecomunque in un contesto in cui l’opinio-

ne pubblica non appare completamentemanipolabile e che di fatto potrebbe rive-larsi il vero arbitro di tante situazioni, lacentralità etica dei diritti umani sembraassumere una funzione imprevista e forse,

in un breve futuro,significativamentedeterminante. Lestrategie del gover-no del mondo nonpossono operare inmodo da moltipli-

care le crisi, rime-diando alle difficoltà

dell’oggi con risul-tati incontrollabiliin futuro. Non stia-

mo parlando segnata-mente della guerra in

Iraq, che è solo uno dei 47 conflittibellici in corso, oppure della crisi curda,argomenti la cui analisi e soprattutto il cuigiudizio finirebbero col fuoriuscire dailimiti e dai compiti di questa Istituzione,ma del fatto che il diritto di combattere edi violare la sovranità altrui o è fondatoproprio sul “diritto”, e questo diritto nonpuò prescindere da un progetto di esten-sione della democrazia e dei valori dirispetto, tolleranza, eguaglianza sociale,religiosa ed economica, altrimenti taleazione corre il rischio di risultare neltempo poco credibile o, ancora, anchequalora fosse stata concepita in assolutabuona fede, di risultare nei fatti alquantocontroproducente. Gli Stati più potentisono oggi chiamati invece ad assumere laloro piena responsabilità nella tuteladell’Umanità, senza perciò sottrarsi né

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agli organismi di controllo, né ai proto-colli generali che regolano l’applicazione(e impongono le eventuali sanzioni incaso di violazione) dei diritti umani.

La Massoneria in ognicaso deve sottolineare contutti i suoi mezzi la fonda-tezza del diritto internazio-nale ed il riconoscimentodei princìpi etici generali aiquali richiamare l’azionedegli Stati. E’ solo attraver-so una globalizzazione deidiritti e delle risorse che sipuò forse interrompere ilcircuito di morte e distruzione che staradicalizzando identità etno-religiose inuno scontro che non è affatto di civiltà,ma che tale viene presentato in modo dasemplificare lo scenario in un becero efazioso dualismo, in cui tutto ciò che dif-ferisce dall’Occidente viene criminalizza-to o ridotto ad alterità impossibile.

Lo stesso discorso vale per il mondoislamico, che non può affatto essere asso-ciato alle sue manifestazioni più intolle-ranti e distruttive, maturate attraverso ilfondamentalismo religioso. LaMassoneria deve invece ricordare l’altocontributo dell’Oriente ed anchedell’Islam alla cultura occidentale, attra-verso la trasmissione delle scienze, siamatematico-filosofiche che esoterico-spi-rituali. Allo stesso modo non possiamoignorare il fatto che il mondo islamicoabbia prodotto, in epoca antica, associa-zioni come quella dei Qarmati che, fonda-ta su corporazioni di mestiere come laMassoneria operativa, impartiva contenu-

ti di ordine sociale, professionale esoprattutto iniziatico, risultando non solocapace di assumere un’articolazione

interconfessionale, mediante il coinvol-gimento diretto di cristiani,ebrei, mazdei ed altri, maaddirittura di farsi portatricedi un messaggio di libertàindividuale e di superamento

della stessa legge formaledell’Islam. Anche queste con-fraternite saranno perseguita-te, punite, sorvegliate a causadella loro libertà spirituale.Come un grande specialista

del mondo islamico ha giustamenterimarcato (Maurice Lombard, L’Islamdans sa première grandeur, Paris 1971):“l’interconfessionalismo di queste corpo-razioni demarca qui la differenza fonda-mentale con quelle contemporaneedell’Occidente. Ciò ci rammenta chel’Oriente è sinonimo di cosmopolitismo,d’apertura, di mescolamento e di sincreti-smo”, soprattutto alla luce dell’intercultu-ralità tentata da questi movimenti. Talerealtà ci induce a riflettere sulla radicaleincapacità delle società non occidentali dicostruire processi culturali simili ai nostri,quando storicamente sono già state ingrado di anticiparli, anche se talora non dimantenerli saldamente in vita.

E’ opportuno puntualizzare, segnata-mentre riguardo alla guerra in atto, che lerecenti posizioni della Chiesa, che espri-me un altissimo magistero di caratteremorale, hanno peraltro l’indubbio meritodi smentire, anche presso molti ambientidel mondo arabo e islamico in generale,

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ogni facile schematismo che veda duali-sticamente contrapposti Occidente cri-stiano a Oriente islamico, e di ciò nonpossiamo che rallegrarci, al di là dellediverse posizioni politiche assunte daisingoli all’interno o all’esterno dellanostra Istituzione.

L’incapacità del mondooccidentale di essere statoe di essere almeno oggiveramente portatore didemocrazia e di diritti neiPaesi del mondo afro-asiatico resta una respon-sabilità storica alla quale biso-gnerà dare risposte equilibrate, anche seprecise. Innanzitutto riteniamo che siaindispensabile, in un quadro di rafforza-mento degli istituti internazionali di rife-rimento, insistere sul concetto di tuteladell’Umanità. Tale tutela non vale soloper il “Sud del mondo”, per coloro chesono esclusi dai diritti politici, economicie spirituali, ma anche per noi, che vivia-mo in una delle zone più privilegiate delglobo. Da questo punto di vista non pos-siamo dimenticarci che, in un contesto incui il mercato globale si è imposto nellasua indifferente operatività, privo di qual-siasi richiamo a valori altri, come unasorta di nuovo bellum omnium contraomnes, il rischio che alla riduzione adoggetto privo di diritto di interi popoli siaggiunga la natura stessa, che dovrebbeessere la ricchezza di tali genti ma anchela nostra, non è affatto vago.

Non facciamo soltanto riferimento alleprincipali fonti di ricchezza e benessere(petrolio, metano, diamanti, uranio, oro,

ecc.), ma a quelle essenziali per la soprav-vivenza: prima di tutto l’acqua, per laquale già oggi si rischiano continuamenteconflitti, al momento forse minori, ma chesono destinati a far deflagrare guerre nei

prossimi 20-50 anni e che sonoaltrettanto esiziali di

quelli in atto. Può laMassoneria farsi

portatrice nellasocietà civiledel principioche la tutela deldiritto all’acquaè per molti

popoli identica a quella della felicità; chea dispetto del mercato globale, ci sonodelle risorse che non possono essere mer-canteggiate come le altre, ma solo globa-lizzate, nel senso di rese fruibili a tutti, inparticolare ai più poveri.

Altre ricchezze sono invece frutto del-l’evoluzione scientifica e della ricerca; èquindi giocoforza che esse si concentrinonelle mani di pochi Stati e di ristrettigruppi economici. Noi riteniamo che, purnella legittimità del rientro degli investi-menti delle imprese impegnate nei settoripiù avanzati delle scienze, vi siano daintrodurre alcuni correttivi mondiali che,per esempio, garantiscano l’uso dellemedicine e l’accesso a cure più avanzateanche per tutti quei Paesi che sono nel-l’impossibilità di affrontarle in solido.Pensiamo al grande flagello dell’Aids chein alcuni Paesi africani colpisce l’80%della popolazione e pare inarrestabile.Crediamo che gli Stati più maturi ed eti-camente più avanzati debbano trovare

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degli strumenti di intervento, quali peresempio l’introduzione di royalties sullerisorse petrolifere da investirsi a favore diun fondo di raccolta di medicine, al fine dimantenere un livello di inter-vento in cui le ragioni del pro-fitto non offendano quelledello spirito, della coscien-za e infine anche dell’in-telligenza. Infatti laricerca continua deirisultati a scapito della giu-stizia, sia essa offesa diret-tamente attraverso il corpodi quei popoli vittimedella sotto-alimentazio-ne, oppure attraverso l’abusodelle risorse naturali del globo,soggiace ad una logica inaccettabile, nonsolo egoistica, ma ottusa, perché nega lastessa pensabilità di un futuro migliore,attizza gli odi e fomenta la guerra, sia essacombattuta o guerreggiata.

Parlare allora di “diritto alla felicità”proprio in questi giorni vuol dire, anchese forse il tema potrebbe apparentementestonare, parlare della responsabilità del-l’uomo e della civiltà di fronte alla barba-rie dell’irrazionale. La ricerca del bene,platonicamente inteso, non è infatti untema pubblicitario del marketing masso-nico, ma un compito, se volete, istituzio-nale della nostra Comunione. Il beneinfatti dovrebbe rappresentare per iMassoni proprio il fine ultimo, forseirraggiungibile, della loro opera: quelloper cui, come dicono i nostri Rituali, siscavano profonde cavità al vizio, mentresi cerca di operare per il bene ed il pro-

gresso dell’Umanità. Sarà allora chiaro atutti che, in questa Gran Loggia, non sivoleva parlare di edonismo, né di unpacioso e opulento benessere, scambiato

per felicità. Abbiamo piutto-sto lanciato una sfida nellasperanza di raccogliere e

aggregare intelligenze esensibilità intorno al

tema del diritto a quella felici-tà possibile, ma per moltinegata, sia nella riccaEuropa, sia in altre partimeno fortunate del mondo.

La nostra attenzione èstoricamente stata rivolta sia

agli aspetti materiali del degradodella vita umana, sempre più manifesti

attraverso le nuove forme di povertà dif-fusesi anche nel ricco Occidente e nelnostro Paese, sia a quelli di ordine spiri-tuale, visibili nel progressivo distaccodall’impegno civile e dalla solidarietà cheil possesso di una pseudo-felicità materia-le propone. La costruzione di una societàgiusta, democratica, civile, rispettosadelle diversità ed allo stesso tempo sicuraper tutti, ci sembra quindi un passo fonda-mentale per costruire il diritto alla felicitàche, anche quando può essere egoistica-mente soddisfatto, non lascia mai del tuttoserena la coscienza di chi ha occhi pervedere l’ingiusta sofferenza altrui.

In questo contesto vogliamo ribadireche tale felicità richiede strumenti conti-nui, non solo attraverso la costante sor-veglianza delle risorse naturali ed ecolo-giche del Paese, ma anche e soprattuttoattraverso il ruolo civile ed educativo

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che svolge tutta la macchina scolastica,dall’asilo all’università. Non si può,mentre ci avviamo alla conclusione,affrontare il tema della riformascolastica in Italia, anche per-ché tale materia non èoggetto di una sorta dipronunciamento, inevi-tabilmente politico equindi illegittimo, delGran Maestro. Si vuolepiuttosto ritornare su unprincipio sul quale lanostra Comunione eserci-terà sempre la sua vigilanzaetico-morale: quello del pienorispetto e del doveroso ricono-scimento della scuola pubbli-ca, le cui sorti ci preoccupano, in parti-colare dinanzi ad un ampliamento deivantaggi nel settore privato, fatto che inItalia, data la situazione oggettiva, signi-fica in altissima percentuale una scelta afavore delle scuole confessionali.

Noi continuiamo a credere che la scuo-la pubblica sia la scuola del confronto eche essa costituisca il laboratorio vero nelquale la futura società interculturale emultietnica troverà le sue radici. E’ ovvioche se i professori e gli insegnanti ingenere, gli educatori, i servizi scolastici,avranno a disposizione, risorse limitate,ben difficilmente tale offerta pubblicasarà di qualità e quindi potrà offrire vera-mente le reali condizioni per una forma-zione alta, nella quale dare pari opportu-nità a privilegiati e meno privilegiati,senza cioè creare ghetti etno-religiosi edeconomico-politici. Se il diritto ad un’e-

ducazione diversa, quindi altra, rispetto aquella offerta dallo Stato, deve certamen-te essere garantito come la Costituzione

già permette, non comprendia-mo però perché proprio

coloro che voglionotestimoniare la lorofede e verità profondenon intendano farlocon gli altri, anzioffrendo proprio aquegli altri la testi-

monianza dei proprivalori, in modo tale che

la luce non resti sotto ilmoggio, ma piuttosto prefe-

riscano garantirsi un territorio“liberato”, come se lo Stato italiano fosseoccupato da chissà quali nemici dellereligioni. Ma forse una cosa è il Vangeloed altro è il desiderio di trincerarsi in unterritorio esclusivo, anche se, proprionella scuola dello Stato, quindi parados-salmente quella “non libera”, resta il cit-tadino a dover dichiarare di non volerusufruire dell’insegnamento della reli-gione, e non il contrario.

Come però abbiamo già anticipato, taliriflessioni non sono un’invettiva apriori-stica contro il mondo cattolico. Noi prote-steremmo contro qualsiasi religione oparte della società che, in qualche aspetto,volesse minare la laicità dello Stato o isuoi principi fondamentali: una protestacivile, aperta al confronto, e non sguaiatainvettiva, costume da cui rifuggiamo.Volevamo solo insistere sul fatto che laglobalizzazione e la sua complessità ciimpongono scuole e strutture di ricerca di

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altissima qualità e quindi richiedono inve-stimenti all’altezza degli altri Paesi euro-pei, investimenti per i giovani e quindiper il futuro dell’Italia. Una società inca-pace di generare una cultura di rispetto,tolleranza, ma anchetale da inibire il più ele-vato accesso alla cono-scenza anche alle cate-gorie più deboli, siincammina su una stradapericolosa, certamentelontana dal nostro ideale di felicità,di giustizia ed equilibrio sociale.

Gentili Autorità, Signore e Signori, Carissimi Fratelli,

una riflessione sulla felicità, in unmomento di così grande ansia e angosciaper il futuro del mondo, proiettato oramaiin uno scenario geopolitico tra i più diffi-cili ed infausti che si sarebbero potutiimmaginare quale incipit del XXI secolo,correrebbe perlomeno il rischio di sem-brare una provocazione o, tutt’al più, unatto di dissennata noncuranza rispetto aldolore presente. In verità, la prospettivadella felicità risulta proprio uno di queitemi essenziali che non si dovrebbe mailasciar soffocare dal dolore, proprio per-ché è necessario che i momenti difficiliche sono già venuti e che verranno anco-ra possano essere affrontati con l’animoamorevole di chi lotta per costruire esanare e non con il fine limitato e mortifi-cante di colui che cerca solo di vendicareun torto subito.

A questo proposito vorrei rammentarecome la stessa Massoneria sia una scuolainiziatica che cerca di educare i suoimembri ad affrontare la morte ed il dolo-re, ma che al contempo non ha mai fatto

della morte un’apo-logia; al contrario,

la necessità diaffrontare lamorte iniziaticadiviene non soloun mezzo chedovrebbe prepa-

rare l’uomo a saper fronteggiarequella fisica, ma una occasionedi riflessione profonda in vistadi una auto-costruzione estrutturazione psicologica

attraverso la quale raggiungere (o almenoaspirare) ad un equilibrio sempre più alto.

Non intendo però, nel corso dell’odier-na giornata, limitare queste mie riflessio-ni ad un ambito segnatamente circoscrittoai temi di stringente attualità, come moltiforse si aspetterebbero. Un Gran Maestro,infatti, dovrebbe cercare, quando possibi-le, di ricondurre la riflessione in un conte-sto che non rincorra semplicemente i fatti,ma che si proponga come stimolo perconsiderazioni ancor più profonde, graziealla quali ritornare poi nel presente con unarricchimento interiore. Se allora la felici-tà non equivale al piacere, anzi talvoltasappiamo che la felicità del saggio,dell’Iniziato, può comportare una delibe-rata rinuncia a ciò che la massa consideramero piacere, ciò significa che lo stato difelicità è soprattutto una dimensione dellospirito, in senso prettamente filosofico.

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Una condizione di saggezza e di equili-brio interiore che ci permette di affronta-re la vita con tutte le sue traversie. Chicoltiva solo il piacere, quando si trovadinanzi al dolore, alla morte, alla soffe-renza, resta sconvolto, incapace di riflet-tere, senza strumenti, poiché nel corsodella sua vita non ha cer-cato di arricchire il suospirito, la sua coscienzadi valori, di princìpi, disentimenti. Una felicitàlimitata al piacere riduceinfatti la complessità umana amacchina da consumo e nonconosce valori che non sianomercificabili. Un percorsocome questo è di fatto l’esattoopposto di tutto ciò che l’iniziazione mas-sonica cerca di proporre attraverso leforme, talora drammatiche, della suaritualità. Infatti, la presenza del dolore,della morte e della sofferenza è qualcosadinanzi alla quale nessun essere umanopuò sottrarsi. Chi più chi meno, tuttisiamo condannati nel corso del nostrocammino terreno a fronteggiare il dolore.Ignorare ciò e pensare che la felicità siagirare la testa dall’altra parte e ubriacarcidi piaceri è solo stoltezza che si finiscecol pagare sotto varie forme; e ciò risultapurtroppo vero sia sul piano dell’espe-rienza personale sia su quello della situa-zione generale dell’Umanità, se è veroche il mercato non ha cuore e assimila lafelicità alla disponibilità di mezzi, ovvia-mente solo per una minoranza. La felicitàdell’Iniziato è altresì un fine mai raggiun-to che si costruisce di giorno in giorno

mediante un’autoeducazione permanentedei propri sentimenti, del proprio riflette-re, del proprio saper affrontare la realtà esaper godere delle sue bellezze. L’Iniziatonon è infatti un triste pensatore che si èrinchiuso in una torre d’avorio o in unacaverna, ma un uomo che sa vivere nella

società, capace diportare sempre unavoce di speranza edi ragionevolezza;

un uomo che non hapaura di affrontare le sfide

poste da un mondo che sirinnova continuamente,perché ad esse si preparaattraverso una disciplinainteriore. Per tutti questi

motivi, il Massone è, o dovrebbeessere, uomo capace anche e soprat-

tutto di cogliere le straordinarie opportu-nità di gioia e felicità che la vita sa offri-re; siccome conosce il dolore, sa apprez-zare ed esaltare anche ciò che è bello, sag-gio e gioioso, esattamente come i nostriRituali recitano in diverse occasioni.

In una celebre epistola, Orazio(Epistulae I, 11 v.27) saggiamenteammoniva: coelum non animum mutantqui trans mare currunt, “non mutano illoro animo, ma solo il cielo (sopra la lorotesta) coloro che attraversano il mare”. Ilpoeta intendeva, con questo splendidoesametro, sottolineare come non si possa,allora come oggi, sfuggire a se stessi ecome la felicità e la serenità d’animo fos-sero e siano ancora un tesoro interiore enon un privilegio acquisibile grazie sol-tanto ad un viaggio oltremare.

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Noi pensiamo che l’esperienza iniziati-ca possa invece offrire alcune chiavi peruna costruzione della felicità, o almeno diuna sua componente soggettiva che peròconcorre ad un perfezionamento genera-le, nel senso che a ciascuno viene data lapossibilità di affrontare in forma simboli-ca i grandi travagli della vita, affinché vimediti sopra e costruisca e rafforzi il suospirito. Allo stesso modo coltiviamo,attraverso la difesa di valori come lalibertà, la fratellanza e l’eguaglianza, unacultura che ha il suo centro pulsante nel-l’emancipazione e nell’affrancamentodell’umanità dall’ingiustizia e dalle tene-bre del dolore.

La luce che il Massone cerca e dovreb-be trovare nel Tempio, e di cui avevaavuto oggi solo una certa vaga contezza,va portata all’esterno, attraverso un’azio-ne non solo di solidarietà, ma attraversouna cultura della felicità, intesa comeeudaimonia, come gioia e saggezza ispi-rate e quindi giammai come egoisticaesaltazione del piacere e del benessere dipochi, né come privilegio di una ristrettacerchia indifferente al dolore degli altri:ciò affinché trionfino il bene e la ragione,che non sono altro che la manifestazionesublime del divino fattore, il GrandeArchitetto dell’Universo.

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La felicità nelle Dichiarazionidelle rivoluzioni moderne

di Gian Mario CazzanigaUniversità di Pisa

The XVIIIth-century debate concerning happiness goes back to the classical thoughtfluctuating between considering plesure and/or virtue as the foundation of happi-ness. While in the ancient thought this very debate is discussed within a superiorcosmic order where also the human nature and all its possible manifestations find aplace, in the modern way of thinking society looks only like a result of human will.This has brought to consider documents like Declarations and Constitutions as theinvention of a new social order in which freedom, equality and the consequent pos-sibility of realizing happiness were secured for all. At this point, the America’s andthe Occidental Europe’s way of considering happiness tend to separate: in Americanculture the main target is reaching a personal happiness, while in the French one isreaching a public happiness. It’s a never ending debate which finds nowadays itsnew expressions in the choice between a national Welfare State and a new globalorder based on the free market.

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e leggiamo L’idea di felicità nelSettecento (L’idée de bonheurau XVIIIe siècle) di Robert

Mauzi, che costituisce uno dei testi diriferimento sulla questione, vediamo chela felicità è uno degli argomenti piùdibattuti da letterati e filosofi del tempo,il che gli ha permesso di scrivere senzatroppe ripetizioni più di settecento pagi-ne sull’argomento. Ma se leggiamo ledue grandi Dichiarazioni delle rivoluzio-ni americana e francese, la Dichiarazionedi Indipendenza del 1776 e laDichiarazione dei diritti dell’uomo e delcittadino del 1789 vediamo che grande

spazio per la felicità non sembra esserci.La Dichiarazione di Indipendenza neparla all’inizio, mettendola fra i dirittifondamentali:

Noi riteniamo che queste verità sianodi per sè evidenti, che tutti gli uominisono stati creati eguali e che sono dotatidal loro Creatore di certi inalienabilidiritti fra i quali quelli alla vita, allalibertà e al perseguimento della felicità(the pursuit of Happiness).

Si tratta di una dichiarazione impegna-tiva, però poi il testo non ritorna più sullaquestione, né se ne parla nella

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Costituzione del 1787 né alla felicità siallude mai nei primi dieci emendamentialla Costituzione approvati nel 1789 eratificati nel 1791, che sonochiamati Bill of Rights, chepotremmo tradurre conCarta dei Diritti. Quantoalla Dichiarazione france-se dell’‘89, di felicitànon si parla mai neltesto né se ne parlanella Costituzionedel 1791. Se dun-que dovessi fermar-mi al testo letteraledelle Dichiarazioni,non avrei molto da dire.

In realtà la questione della felicità èanche troppo presente nei dibattiti cheprecedono le due Dichiarazioni, che ispi-rano tuttora gli ordinamenti politici dellesocietà occidentali moderne. Per parlaredi felicità non troppo genericamente, sitratta allora di chiarire che cosa si debbaintendere per Dichiarazioni e, in rapportoad esse, quale sia il significato diCostituzione, quindi si tratta di chiarirequali siano i significati di felicità nelSettecento, da cui l’uso diverso che neviene fatto nel dibattito filosofico e giuri-dico che preparò le Dichiarazioni, ed infi-ne quale rapporto vi sia fra il dibattito diallora e quello del tempo nostro. Il perico-lo, a questo punto, non è di avere poco dadire ma di averne troppo.

Per Dichiarazione si intende, a partiredal Medio Evo, un testo ufficiale espressoin forma solenne in cui i rappresentanti diun paese, nella forma tradizionale della

rappresentanza, si appellano al poterecostituito, che di solito è il Sovrano, e

si richiamano contemporaneamentea Dio per affermare alcune rivendi-

cazioni che vengono giustificate peruna loro origine antica e per dirit-to di natura.

In altri termini possiamo parla-re di Dichiarazioni quando il potere oscil-la fra il Sovrano e Dio, pur avendo i rap-presentanti del popolo alcuni diritti, nellinguaggio medievale diremmo meglioalcune libertà, diritti che si pretendonoantichi e derivati sia da un patto origina-rio fra Sovrano e popolo, sia dalla stessavolontà di Dio che si esprime come leggee dunque diritto di natura. Naturalmentequando parliamo di popolo e di suoi rap-presentanti non parliamo di tutti gli esseriumani residenti su un determinato territo-rio ma di una parte minoritaria di essi cherisulta o pretende essere la sola detentricedi diritti. Insomma le Dichiarazioni noncontemplano la sovranità popolare, che èinvece il fondamento delle Costituzionimoderne. In questo quadro le dueDichiarazioni di cui parliamo sono alconfine fra vecchio e nuovo, perché dauna parte presuppongono il Sovrano edall’altra lo negano con l’autodetermina-zione dei dichiaranti e con l’affermare lasovranità del popolo.

Ma la sovranità popolare non è cosasemplice. Diciamo in prima battuta che lasovranità popolare presuppone la cittadi-nanza, l’uguaglianza dei diritti e uno o piùorgani istituzionali per garantire questidiritti. Si tratta di vedere quale siano natu-ra e funzioni di queste istituzioni, e qui le

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cose si complicano. Per chiarirle, pro-viamo a partire proprio dalla felici-tà. Qui vediamo che nelle diver-se formulazioni che si con-frontano, o la felicità è datada un ordinamento che garan-tisce ai singoli cittadini ilgodimento dei diritti, dunque difelicità individuale si parla, o èdata dal superamento delle divisionifra gli esseri umani, divisionidovute a ignoranza e dispoti-smo, per cui si costituisce unordinamento che esprimel’universalità dei cittadini, lavolontà generale, basata sullacomune natura socievole e solidale degliesseri umani, e allora di bene comune o,come si diceva nel Settecento, di felicitàpubblica si tratta. Non è la stessa cosa.

Potremmo dire un pò schematicamenteche la via francese tende alla felicità pub-blica, che per inciso era anche la versioneromana, dove la dea Felicitas era deadella buona sorte, una dea che aveva tem-pli in numerosi quartieri di Roma, ma ilcui santuario principale stava inCampidoglio come Felicitas Publica.L’idea non doveva dispiacere ai giacobi-ni, grandi ammiratori di Roma, e infattiquesta versione, che nel linguaggio rivo-luzionario si chiama felicità del popolo,venne affermata proprio all’articolo 1o

della Costituzione del 1793:

Lo scopo della società è la felicità comu-ne (bonheur commun). Il governo è isti-tuito per garantire all’uomo il godimentodei suoi diritti.

La via statunitense tende invece allafelicità individuale. Infatti dopo l’e-lenco dei diritti prima citati, fra cuila felicità, la Dichiarazione conti-

nua affermando che:

I governi sono istituiti fra gli uominiper garantire questi diritti.

E che, se i governi non realizza-no questo fine, il popolo ha ildiritto di cambiarli:

Organizzandoli [i Governi] nellaforma che parrà più idonea per dare

al popolo sicurezza e felicità.

I due testi a ben vedere non sono poicosì diversi. Nelle costituzioni francesisuccessive, da quella termidoriana del1795 a quella gollista del 1958, la felici-tà non verrà più citata, mentre nell’espe-rienza americana, dove la Dichiarazionedi Indipendenza riprendeva sulla felicitàformulazioni già presenti nellaDichiarazione dei Diritti (Declaration ofRights) della Virginia, la felicità nonverrà più citata nella Costituzione e suc-cessivi emendamenti. In sostanzaentrambe le posizioni sono presenti, inmisura e tempi diversi, in entrambe leesperienze storiche.

Se prendiamo i progetti diDichiarazione che nei lavoridell’Assemblea francese precedono iltesto definitivo dell’‘89, vediamo cheSieyès afferma che oggetto di una asso-ciazione politica è il benessere (le plusgrand bien) di tutti, Lafayette che i gover-ni hanno per unico fine il bene comune,

19La felicità nelle Dichiarazioni delle rivoluzioni moderne, G.M. Cazzaniga

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che per Thoret il fine di ogni associazioneè la felicità degli associati che consistenel godimento dei diritti dell’uomo [...].Già Mirabeau un annoprima nell’opuscolo per iBatàvi (1788) aveva scrittoche il popolo per la cui feli-cità il governo è istituito, hadiritto di riformarlo o cam-biarlo quando la sua felicitàlo esige.

Ma torniamo ai significa-ti di felicità: il lessico èricco di sinonimi, il cuisignificato non semprecoincide nelle diverse epo-che e lingue europee. In ita-liano abbiamo felicità e beatitu-dine, in tedesco Glückseligkeit eSeligkeit, in francese bonheur, felicité ebeatitude, in inglese happiness, felicity ebeatitude, e vi risparmio le versioni difortuna, piacere, soddisfazione, conten-tezza, gioia, prosperità e benessere. Inquesta abbondanza lessicale il significa-to di felicità oscilla fra uno stato di piace-re-contentezza, forte ma temporaneo, eduno stato di piacere stabile, e qui tornia-mo ai filosofi greci e romani che, come alsolito, avevano già detto tutto.

La felicità nel pensiero classico oscillainfatti fra piacere e virtù, intendendo lavirtù come agire conforme a ragione, chesarebbe la parte più nobile della naturaumana, dunque la vera realizzazione diessa, da cui la soddisfazione che ne deri-va. I significati di felicità nel Settecentonon si discostano molto da quelli classici,anche se l’analisi tende a spostarsi dal-

l’essere conforme alla natura umana alsentirsi tale, da cui un primato della sog-gettività ed un diverso possibile rapporto

con le elaborazioni costitu-zionali. E’ evidente che sela felicità è ricerca e conse-guimento del piacere, avràuna dimensione individualee le istituzioni pubblichedovranno soltanto non osta-colare la ricerca della felici-tà-piacere che ogni indivi-duo troverà come e dovemeglio crede. Se invece lafelicità è virtù, agire ragio-nevole, essendo la ragionecomune a tutti gli esseri

umani si può concludere che le istituzio-ni pubbliche possano non solo agevolar-ne il perseguimento, ma essere esse stes-se organizzatrici di questa ricerca comu-ne, da cui il lemma settecentesco di feli-cità pubblica.

In questo contesto il cosmopolitismosettecentesco altro non è che la ricerca diuna repubblica universale dei cittadinivirtuosi, e qui il riferimento obbligato vaa Kant con la autonomia della leggemorale e con la prospettiva di uno statofederativo mondiale fondato sulla pace esul mutuo riconoscimento delle nazioni.In Kant da una parte il piacere resta com-ponente ineliminabile della felicità, dal-l’altra è evidente il primato della ragione.

Felicità è [...] un benessere costante, unavita di soddisfazioni, una perfetta conten-tezza del proprio stato.

Kant (1797), Metafisica dei Costumi

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La definizione sembra ancora di tipoclassico, ma in realtà ciò che interessaKant è spostare il tiro verso l’universalitàdella natura umana ragionevole. Ne deri-vano e il primato della libertà e la trasfor-mazione del soggetto di cuisi parla: mentre nella tra-dizione gli esseri umanisono i notabili, la partericonosciuta come auto-revole e rappresentativa,sono la sanior et maiorpars dei testi medievalioppure i rappresentantidei ceti delle societàgermaniche (altständi-sche Gesellschaft)fino al Settecento, orail nuovo soggetto sono irappresentanti del popolo.Questa è una storia complicatache passa per Hegel e arriva al movimen-to operaio dove, almeno nella tradizionemarxista, resta il valore primario dellalibertà, figlia della ragione, mentre la feli-cità viene un pò trascurata.

Non voglio farla lunga e quindi nonparlerò del filone empirista-utilitaristainglese, con la sua ricerca della maggiorquantità di felicità, fondata sul consegui-mento del piacere sensibile, per il mag-gior numero possibile di persone. Milimito ad osservare che la pluralità diposizioni esistenti fra i filosofi e fra imoralisti, ieri come oggi, si riflette nellinguaggio con significati diversi dellestesse parole a seconda di chi le usa.

Potremmo ad esempio dire che beatitu-dine appare di solito come una dimensio-

ne stabile del piacere, volta a privilegiarevalori spirituali nella prospettiva di unavita ultraterrena, mentre felicità è piutto-sto contentezza provvisoria di origine sen-sibile, ma non sempre i due termini sonousati in questo senso. Se prendiamo il

Dizionario dei Sinonimi delTommaseo (1851), che è unlibro bellissimo, vediamo che inparte conferma, in parte smenti-

sce questi usi quando afferma:

La beatitudine è contentezza e inqualche modo solitaria: ma

nella vita la felicità vuol compa-gnia. V’ha degli uomini che si sen-tono qualche momento beati, esono abitualmente miseri, forseperchè essi cercano in questa le

gioie di un’altra vita. La felicitàquaggiù è più continua, è menointensa della beatitudine [...].Tommaseo (1851: 1228), ad vocem

La questione è presente, in forma espli-cita o implicita, nelle Dichiarazioni: sefelicità è anzitutto ricerca della felicità, esi sostanzia di singoli momenti di soddi-sfazione senza che vi sia una continuitànella soddisfazione, è evidente che tuttoquello che lo Stato può fare è di lasciarelibertà al singolo di sperimentare, insom-ma che la felicità è possibile solo in unambito individuale. Ma se la felicità puòessere una dimensione stabile di vita,allora sarà interesse dello Stato, cioè deicittadini stessi, che vengano ricercate lecondizioni perchè questa situazione stabi-le venga raggiunta dal maggior numeropossibile di esseri umani, e quindi avràsenso parlare di felicità pubblica.

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Non è solo una discussione teorica nèsolo presente nel Settecento. Il modo incui nella seconda metà del Novecento gliEuropei hanno organizzato la loro vitasociale va sotto il nomedi democrazia costitu-zionale, e la novitàdelle Costituzioni con-temporanee è il WelfareState o Stato diBenessere, che è poi laFelicitas publica chericompare con nuovevesti sul Campidoglio ealtrove. Ma oggi la glo-balizzazione mette incrisi le sovranità nazionali, la concorren-za riduce le risorse disponibili per ilWelfare e l’egemonia degli Stati Uniti,culturale prima che economico-militare,tende a ricondurre le istituzioni pubblichedi Welfare ad un circuito di sistemi priva-tistici, dal sistema pensionistico alla sani-tà al sistema educativo.

A questi mutamenti fa riscontro unaevoluzione giuridica che tende a rafforza-re il soggetto di diritto anche contro leistituzioni di appartenenza, con nuovesedi internazionali di contenzioso, adesempio il Tribunale europeo dei dirittidell’uomo a Strasburgo o la Corte penaleinternazionale all’Aja. Siamo insomma inuna fase di transizione dove in teoria idiritti dell’uomo si affermano e si dilata-

no sempre più, mentre in pratica questidiritti sono meno tutelati di prima, bastipensare alle nuove crescenti forme dicommercio schiavistico.

Se diamo uno sguardo allo stato delmondo, è difficile non rilevare comeda una parte lo sviluppo scientifico ele sue applicazioni tecnologiche

abbiano creato, per la primavolta nella storia umana, possi-bilità di benessere per tutti; dal-l’altra come la maggior parte

dell’umanità viva in condi-zioni di grande miseria mate-riale e spirituale, mentre le

attuali forme di sviluppoindustriale tendono a peggiorare gli equi-libri dell’ecosistema.

Per chi fra noi sia favorevole alla cultu-ra del libero mercato, si tratta di una fasedi passaggio, di un travaglio del parto inattesa che la mano invisibile che regola ilmercato prepari al genere umano futuremagnifiche sorti e progressive. Per chi ècontrario, si tratta invece di dotare rapida-mente le istituzioni internazionali di pote-ri di controllo e regolazione sui mercati edi risorse che le rendano in grado di inter-venire sui fattori di sottosviluppo e didegrado ambientale. La discussione fra ledue scuole di pensiero sarà lunga. Ciò chenon sembra negabile è che nella situazio-ne presente la felicità e la pace non sonoall’ordine del giorno.

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La ricerca della felicitàin un’epoca senza passioni Per una “utopia ragionevole”.

di Paolo ChiozziUniversità di Firenze

The Author enters the subject of the research of happiness in close connection withits compelling, but also contradictory, relation with the idea of “Utopia”. Such aproblem, amd in particular the final definition of a “reasonable utopy”, is discus-sed in the framework of a wide consideration of the most important fitting positionsdeveloped in the modern philosophical debate.

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La felicità dunque non è una illusione,non è un sogno, non è un’utopia; ma ècosa umana, che giustamente desideria-mo, che legittimamente dobbiamo mette-re a scopo della nostra vita e che conmezzi umani possiamo conseguire.

Paolo Mantegazza, 1886

QQuanti libri siano stati scrittisulla felicità sarebbe arduo,forse impossibile, dire. Certo

è che in ognuno di essi viene offerta una“ricetta” seguendo la quale il lettoredovrebbe scoprire la via alla felicità, chesempre viene indicata come l’unica viapossibile a parere dell’autore di turno.Spesso mi sono chiesto se davvero quegli

autori avessero raggiunto la felicità o seinvece si sforzassero di auto-convincersi(e quindi “fingessero”) di averne scoper-to il segreto e volessero benevolmentesvelarlo ai propri lettori. Le parole diMantegazza che ho voluto porre a epigra-fe di queste mie riflessioni mi fanno pro-pendere, paradossalmente, verso questaseconda ipotesi.

Dico “paradossalmente” perché, appa-rentemente, egli afferma che la felicità sipuò conseguire con mezzi umani - ma nelsuo volumetto L’arte di essere felici vi èun’intrinseca, apparente contraddizione,rilevabile nella sua asserzione che:

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L’immutabile è sinonimo di morte; il mutevolissimo nell’unità del bene è l’ideale della vita perfetta e felice.

In altri termini, la felicità consiste nel-l’accettare l’indefinitez-za (o, meglio, l’in-certezza) determi-nata dal muta-mento, dal disor-dine che essoinevitabilmentecomporta e, consa-pevolmente, fare l’elogio- come scrive Georges Balandier - delmovimento, dissipare i timori che essoispira e, soprattutto, non consentire maiche sia sfruttata la confusa paura cheesso alimenta (Balandier, 1991: 320). Lostesso Mantegazza dichiara senza esita-zioni che la felicità segue fatalmente lalegge che governa uomini e cose: la leggedel mutamento continuo - e aggiunge:

Guai a chi la trasgredisce, guai a chi nonla intende!

Comprendiamo allora che quella da luidichiarata possibilità, per l’uomo, di con-seguire la felicità altro non è se non unametafora: in realtà è la ricerca della feli-cità (essa stessa inevitabilmente mutevo-le) cui egli intende riferirsi, ed in questomodo ridimensiona la propria “ricetta” -coerentemente alla sua stessa affermazio-ne che la felicità non è un’utopia. In uncerto senso la sua prospettiva, da questopunto di vista, rieccheggia la formulainserita nella Dichiarazione diIndipendenza americana e plausibilmente

attribuita all’italiano Filippo Mazzeisecondo la quale ogni uomo ha il diritto,fra gli altri, di ricercare la propria felici-tà. E si noti come non sia cosa da pocodistinguere tra la nozione di diritto alla

felicità e quella didiritto alla ricerca

(o al persegui-mento) dellafelicità!

D’altra parte,se è vero - come

indiscutibilmente èvero - che la vita è movimento, è divenirecostante, come sarebbe possibile raggiun-gere la felicità che per definizione consi-ste in uno stato di immobilità? Nel suoproblematico libro Felicità e vivere socia-le Jean Cazeneuve analizza i diversi signi-ficati attribuiti all’idea di paradiso, osser-vando che per quanto essi possano diffe-rire hanno comunque tutti un implicitoelemento in comune, costituito dal carat-tere statico, dalla immutabilità perenneche fa è parte di tutte le rappresentazioni -tanto ultraterrene quanto terrene - delparadiso in quanto luogo della felicità, eche proprio in ragione di ciò se da un latoattraggono dall’altro lato suscitano inevi-tabilmente nell’uomo un senso di paura,di angoscia o, quanto meno, di incomben-te tedio. La stasi, l’immobilità, insommal’ordine sono l’opposto (e la negazione)del fluire della vita, dell’élan vital di cuiparla Henri Bergson.

Ora, se la ricerca della felicità esige,come afferma Mantegazza, l’accettazio-ne della legge del mutamento continuo, ese d’altra parte la nozione stessa di felici-

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tà davvero implica una sostanziale tran-quillitas animi, ossia la capacità diaffrancarsi dalle mondane passioni, comeindicava già Seneca, il nostro problema sicomplicherebbe non poco. Tuttavia,ancora una volta, ci soccorreMantegazza, ricordandoci che:

Tutte le felicità di que-sto mondo hanno biso-gno di tre (numerocabbalistico al qualenon ci si può sottrarre- egli osserva -) pietrefondamentali: la salu-te, un sentimento, unpensiero.

Sulla salute egli sisofferma appena, pre-cisando che la si deveintendere in sensorelativo. Sentimento epensiero sono invece lereali condizioni necessarie e sufficienti,per le medesime ragioni:

Nell’esercizio del pensiero governa lastessa legge che nel culto degli affetti;son due cose che non saziano mai e chedopo il pasto hanno più fame che pria!

Gli affetti, soprattutto, che inevitabil-mente hanno burrasche e fulmini e tuoni,ma dove mancano gli uragani regna lamorte.

Affetti e pensiero esprimono entrambiil bisogno e la volontà del’uomo di aprir-si agli altri come ben sapeva GeorgSimmel secondo il quale:

La conoscenza dell’Io cresce soltanto in

relazione alla conoscenza dell’altro,[poiché] la vita è l’eterno trascendere delsoggetto nell’alterità, è l’eterno crearel’alterità.

Simmel, 1938

Secondo Bertrand Russell (1983: 117)la perdita della gioia di vivere, nellasocietà civile, è in gran parte dovuta alle

restrizioni imposte allalibertà - ma ovviamen-te è lecito estenderetale considerazione atutte le società umane.Ora, è evidente cheproprio gli affetti e ilpensiero, più di ognialtro aspetto della vitaumana, sono inevitabilivittime di qualsivogliarestrizione della libertàpersonale: come si può

sentire, come si puòpensare, se non si è liberi? D’altra parte ioritengo che il sentire ed il pensare sianointimamente connessi, come suggerisce lostesso termine philo-sophia, amore-sapienza. Ma soprattutto, come rilevaMantegazza, né l’uno né l’altro si sazianomai - per la semplice ragione che né l’a-more né la sapienza potranno mai dirsicompiuti senza annullarli. Come ci inse-gna Socrate dobbiamo guardarci da colo-ro che “credono di sapere” e, per questo,si illudono di aver portato a termine ilproprio cammino! Sono costoro che sichiudono all’alterità, che si arroccano inun narcisismo autoreferenziale che puòfacilmente esprimersi in forme di dogma-tismo oppure - come accadde all’allievo

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prediletto di Socrate, Platone, nella suaRepubblica - portare alla elaborazione diun progetto utopico terrificante sul pianoantropologico. Edopo di lui tantialtri finiranno colproporre (molticertamente inbuona fede) siste-mi sociali perfettie, in quanto tali,affrancati daldivenire storico,nei quali gli esseriumani sarannodrammaticamenteprivati proprio della “gioia di vivere”.

Per questo dobbiamo forse diffidare di(e rifuggire da) ogni utopia? Non è detto,poiché è possibile anche una utopia reali-stica (o, meglio, ragionevole).

Come ha osservato Adam Seligman(1989) il concetto di utopia è tipicamenteoccidentale, sebbene a suo parere se nepossano ritrovare degli equivalenti pressoaltre civiltà qualora lo si interpreti essen-zialmente in riferimento a movimenti reli-giosi di carattere soteriologico - e purchéciascuno venga inquadrato nel rispettivo“contesto di civiltà” (civilizational con-text). Questa sua ipotesi è stata dibattutaampiamente in un seminario sul tema “LeUtopie nelle Civiltà dell’Epoca Assiale”promosso da Shmuel Eisenstadt presso laHebrew University di Gerusalemme negli

anni 1985/86 e 1986/87, ed i cui risultatisono tuttora di estremo interesse. Eppure,dal mio punto di vista, l’approccio sugge-

rito presentaun limiteintrinseco datoproprio dallapostulata con-tiguità/conti-nuità fra uto-pia e millena-rismo, chesono invececoncetti assaidiversi - inprimo luogo

perché il secondo possiede una fortevalenza religiosa che non è invece condi-tio sine qua non nel caso dell’utopia.Sebbene nell’una e nell’altro sia possibileindividuare una funzione soteriologica, ilmillenarismo possiede una connotazionemistico-religiosa assai più marcata dell’u-topia - la quale anzi ne può essere anchedel tutto priva. La prospettiva assunta daSeligman e Eisenstadt sembra, a dire ilvero, quasi di natura “evoluzionistica”,nel senso che l’utopia viene da loro inter-pretata come una trasformazione, in senoalle civiltà assiali, di una concezione mil-lenaristica che sarebbe propria di unaciviltà pre-assiale; così secondo loro sispiegherebbe anche, fra l’altro, la presen-za di “orientamenti millenaristici” nelleconcezioni utopiche proprie delle civiltàassiali1. In questo modo risulterebbe assai

1 Cfr. Eisenstadt, 1989.

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difficile distinguere il carattere “onirico”del millenarismo dal “realismo” (siapure relativo) e dalla “ragionevo-lezza” dell’utopia.

Ciò che accomuna tutti imovimenti millenaristici, al di làdelle rispettive specificitàstorico-culturali, è il pro-getto di creare una socie-tà perfetta - potremmodire, con S. Agostino, diinstaurare sulla terra laCittà di Dio. In un certo sensoè proprio questa la prospettivaassunta da Seligman edEisenstadt, secondo i quali:

Lo sviluppo delle visioni utopisti-che è inerente alla costituzione delleciviltà assiali: Innanzi tutto per la perce-zione di una duplice frattura o tensionecaratteristica di quelle civiltà - cioè latensione inerente alla concezione di unabisso fra l’ordine trascendente e quellomondano e, più importante, la tensionefra la concezione di salvazione o delponte soteriologico attraverso il qualequell’abisso può essere varcato, e la isti-tuzionalizzazione di siffatto concetto.

Eisenstadt, 1989: 139

Occorre però fare chiarezza sul signifi-cato del concetto di utopia. Se è vero cheesso fu introdotto da Thomas More,sarebbe pericoloso identificarlo semanti-camente con quello di millenarismo, oanche solo interpretarlo come pseudo-sinonimo di questo. Vittorio Lanternari, acui si deve uno dei più attenti studi sui“movimenti religiosi di libertà e di salvez-za” dei popoli oppressi dal colonialismo,

ne ha chiaramente messo in evidenza ilduplice carattere: quello “profetico-

messianico” e quello soteriologi-co, dato dal segno del riscatto

(si tratti di una promessa diritorno alle origini o, al con-trario, di una rivoluzioneliberatrice e “rigeneratri-

ce”). In entrambi i casi,comunque, l’enfasi vieneposta sulla libertà e sullasalvezza: libertà da ognisoggezione e asservi-

mento, salvezza dal rischiodi perdere la propria indivi-

dualità culturale, dal rischiodell’annullamento come entità

storiche (Lanternari, 1960: 289).Ma è particolarmente significativa l’i-

potesi dalla quale prende l’avvio tutta l’a-nalisi di Lanternari:

La nascita dei culti di liberazione in rap-porto alla dominazione colonialista costi-tuisce una delle più clamorose e sconcer-tanti manifestazioni dello stretto, dialetti-co legame tra vita religiosa e vita socialepolitica culturale.

Lanternari, 1960: 8

L’autore ci ricorda inoltre che movi-menti del tutto analoghi possono sorgereanche in seno a società non soggette aduna oppressione esterna ma nelle qualialcune sue componenti (“classi sociali”,ma non solo) subiscono parimenti unaoppressione, che egli definisce in questocaso interna: quanto viene implicitamenteevidenziato è il possibile carattere mille-naristico inerente anche a determinate

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ideologie “laiche” - o addirittura “ateisti-che”, quale è il caso del merxismo-lenini-smo -, che di fatto si rivelanoesse stesse delle religioninella misura in cui sipropongono comeideologie totali.

L’utopia si distin-gue nettamente daimillenarismi per uncerto suo distaccodalla religione, chenell’ambito dellevisioni utopiche vienegeneralmente “declassa-ta”, essendo privata del suocarattere assoluto e totalita-rio: anch’essa rappresentacertamente una possibilerisposta al disordine sociale e culturale,ma una risposta di tipo regressivo e,secondo Georges Balandier, a-socialemodernità, egli individua tre possibilirisposte: quella totale, che fonda un ordi-ne totalitario; quella individuale, che siripiega nell’affermazione dell’ordine delsacro; quella, infine, pragmatica, checostruisce l’ordine attraverso il movimen-to2. Le prime due sono, pur nella lorodiversità formale, assimilabili alla nozio-ne di millenarismo: la risposta totalitariaperché in essa l’ordine, realizzato nellaperfezione, è necessariamente stabilitouna volta per tutte, come negatore sia deltempo degli uomini sia del movimento

della vita, che sono agenti di trasforma-zione (Balandier, 1991: 277); la risposta

individuale (ma sarebbe forsemeglio definirla mistico-fon-

damentalista, essendoambiguo l’aggettivo“individuale”, in quantoesso potrebbe venireinterpretato letteral-mente) per il fatto cheessa sancisce l’anco-raggio e non più l’er-

ranza, il ripiegarsi suglispazi del sociale e della

cultura, là dove passato etradizione hanno lasciato i

loro punti di riferimento, [...] edesprime quindi un movimentodi ritorno volto ad enfatizzare

valori ritenuti perenni (Balandier, 1991:286). Balandier evidentemente vuole sot-tolineare due diversi livelli di risposta, difatto comprendendo nel modello totalita-rio anche i fondamentalismi religiosi che,pur essendo “moderni”, si pongono al difuori del fluire storico3, mentre al model-lo individuale andrebbero riferite le tenta-zioni di “fuga dalla realtà” come modali-tà solipsistiche di reagire alle situazioni dicrisi determinate dai processi di trasfor-mazione, ma tale distinzione appare artifi-ciosa ed euristicamente inutile da unpunto di vista antropologico.

La risposta pragmatica - che in veritàBalandier ha qualche difficoltà a definire

2 Cfr. Balandier, 1991.3 Cfr. in proposito Eisenstadt, 1994.

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con precisione, ma ciò non deve sorpren-dere dal momento che il formularne una“definizione” sarebbe in contraddi-zione con il suo proposito di espri-mere un elogio del movimento - con-siste nella volontà di far emergere

la forza della tradizione emanci-patrice, al fine di utilizzarla perla costruzione di una societàauto-governata, in cui l’autono-mia individuale e l’autonomiacollettiva si sostengano e si ali-mentino a vicenda, in cui l’isti-tuzione del sociale sia sotto-posta ad un rinnovamento e isignificati immaginari sianosufficientemente vivi da poterformare, ispirare e animaregli individui. E’nel movimentoche gli individui possono diven-tare artefici di un ordine e di unsenso che li sottraggano alla passività,che li facciano rinunciare all’accettazio-ne del “vivere sul sistema”. In questi ter-mini è dunque posta la questione dellademocrazia: la sola che permetta di rida-re vigore ai dibattiti sul presente, assu-mendone le contraddizioni, utilizzandonele incertezze come rimedio anti-dogmati-co, trasformando il relativismo dei valoriin opportunità offerta ad una libertà chesi definisce nel movimento e che rinascecostantemente dalla propria critica.

Balandier, 1991: 302

Balandier si colloca in questo modonell’ambito di quel pensiero utopisticoiniziato proprio dall’Utopia di ThomasMore (1516), la cui preoccupazione primaera, in definitiva, quella di progettare unasocietà nella quale si realizzasse da unlato l’equilibrio fra la libertà dell’indivi-duo e l’eguaglianza sociale e, dall’altro

lato, la continuità fra passato e futuro rap-presentata dal presente che di essi costi-

tuisce, in un certo senso, la sinte-si. Nessuna fuga nella a-storici-tà di illusioni millenaristiche,

dunque, ma il sogno di unfuturo ragionevole e chedisperatamente vuolemantenere il senso dellarealtà presente.

Paradossale, assurdo,contraddittorio? Forse,come in genere è la vitadi chiunque non siaccontenti di fermarsisul ciglio della strada, inqualche posto compreso

fra la nostalgia di un pas-sato cancellato o truccato e

l’orrore di un futuro senza avve-nire (Augé, 2000: 123).

L’aspetto dell’utopia di More che mag-giormente vorrei qui evidenziare ècomunque proprio quello “religioso”: ilsuo sogno, da questo punto di vista, rap-presenta una confluenza fra il primitivomonoteismo ebraico, nella cui visione ilDio che si manifesta a Mosè è il Dio ditutti i popoli, e il pluralismo religiosoquale conseguenza del rispetto di un dirit-to umano fondamentale. In effetti egliattribuisce agli abitanti dell’isola diUtopia la credenza in una divinità “inco-noscibile, eterna, immensa e inspiegabi-le”, che ciascun individuo è libero divenerare (e, possiamo aggiungere, diimmaginarsi e rappresentarsi) secondo lapropria personale coscienza.

Lo Stato, afferma More, non ha alcun

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titolo per imporre ai cittadini un particola-re culto. Io ritengo che proprio in questaconcezione monoteistico-relativisticadella divinità stia una dellechiavi interpretativedi quella utopia rea-listica che è andataassumendo qualeproprio principiofondante la nozionedi diritti umani.

La nozione di utopia ragio-nevole si deve indirettamentead Immanuel Kant: nel suoscritto del 1795 Per unapace perpetua egli chiarisceche un progetto politico non è in séutopistico qualora non sia cosaimpossibile immaginarci la [sua]realizzabilità, ed una civitas gen-tium fondata sulla condivisione, da partedei popoli, di alcuni principii fondamen-tali è a suo parere realizzabile - nonostan-te la storia umana legittimi molte perples-sità che egli non tenta in alcun modo dinascondersi, non cedendo tuttavia ad unpessimismo che significherebbe rasse-gnazione e, peggio, ancora, disimpegno.Lo stato di pace tra gli uomini, che vivo-no gli uni a fianco degli altri - scriveKant -, non è uno stato naturale. [...] Esso

deve dunque venire istituito all’internodelle singole società, così un dirittoragionevole dei popoli può estendersi ai

rapporti fra gli Stati. Ed è pro-prio a questo riguardo che

Kant rivela quanto concretosia il suo progetto politico (come egli

stesso definisce il suo scritto):

Impegnandoci nella proce-dura di costruzione di unragionevole diritto dei popo-li, noi semplicemente esplo-riamo con altri lo spazio del

possibile politico, saggiandocon altri quanto sia estendibile

la comunità di condivisione.Kant, 1999: 33

Ora, quei principi fonda-mentali la cui condivisione è con-ditio sine qua non sono appunto i

diritti umani - quei diritti cioè, per dirlacon le parole di Kant, che sono dirittiinnati necessariamente appartenentiall’umanità e inalienabili, ad iniziare daldiritto alla libertà individuale4.

Insomma, come è stato possibile fon-dare le costituzioni degli Stati liberali sulriconoscimento dei diritti umani, cosìsarebbe possibile (anzi sarà possibile,ritiene Kant, qualora prevalga la ragione-volezza) sancire fra gli Stati il patto diun’associazione libera e permanente, che

4 Naturalmente sarebbe necessario fare alcune considerazioni circa il presunto carattere “inna-to” dei diritti umani - concetto presente nella stessa Dichiarazione Universale del 1989. In realtà si trat-ta di una nozione storicamente e culturalmente specifica di una data tradizione di pensiero, quella dellafilosofia e dell’antropologia politiche “occidentali”. Ma non ritengo utile né costruttivo entrare qui nelmerito delle capziose argomentazioni di certi “iper-relativisti”.

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si traduca in una federazione che non sipropone la costruzione di una potenzapolitica, ma semplicementela conservazione e lagaranzia della libertà diuno Stato preso a sé econtemporanea-mente degli altriStati federati(Kant, 1999: 62).

Le tesi di Kant -sulle quali purtropponon posso qui soffermarmipiù a lungo - sono stateriprese e sviluppateda uno dei mag-giori filosofi libe-rali contempora-nei, John Rawls, cheesplicitamente dichiara essere il diritto deipopoli una utopia realistica5, poiché ilimiti del possibile non sono dati da ciòche è reale: l’idea di una società dei popo-li (la kantiana civitas gentium) è realisti-camente utopica in quanto descrive unmondo sociale realizzabile che combina ilgiusto e la giustizia politici per tutti ipopoli (Rawls, 2001: 6). E, a propositodel problema della pace e della guerra,

egli opportunamente rileva come sia undato di fatto che le società a democrazia

costituzionale non entrano in guerrafra di loro, per ragioni che si devonoricondurre alla loro struttura inter-

na; e, se talvolta accade che quel-le società siano indotte adentrare in guerra, ciòavviene solo per autodife-

sa o in casi seri di interventonelle vicende di società ingiu-ste per proteggere i dirittiumani (Rawls, 2001: 9).

La conclusione cui vuolecondurci Rawls è, molto sem-

plicemente, questa: non c’ètipo di società bene ordi-

nata in cui non siano affer-mati i diritti umani. L’utopia ragionevo-le/realistica è dunque quella di quanti sisono sempre battuti per implementare idiritti umani, giacché:

Libertà religiosa e libertà di coscienza,libertà politica e libertà costituzionali, edeguale giustizia per le donne sono aspettifondamentali di una sana politica socialeper un’utopia realistica.

Rawls, 2001:11

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5 La filosofia politica - scrive Rawls - è realisticamente utopica quando estende quelli che disolito vengono considerati i limiti delle possibilità politiche praticabili e, così facendo, ci riconcilia conla nostra condizione politica e sociale. Le speranze che abbiamo per il futuro della società riposanosulla convinzione che il mondo sociale consenta l’esistenza di una democrazia costituzionale ragione-volmente giusta come membro di una società dei popoli ragionevolmente giusta (Rawls, 2001: 15).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Rapporto tra ricerca e benessere

di Sergio LicheriIstituto Superiore della Sanità

In the last two centuries, Medical Sciences have known a tremendous development,that has improved our conditions and perspectives of life. But such a positive evolu-tion cannot be continued without a general program of coordination. In addition,the Author focuses on the peculiarity of the Italian situation, where a number of verygood scholars emigrate abroad searching for better conditions of research.

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IIl benessere è uno status correlatoalla qualità della vita dell’uomo.La qualità della vita dipende dal-

l’avere o dall’essere?Se è la disponibilità di mezzi ad accre-

scere la sensazione di soddisfazione nel-l’uomo, è davvero tale agiatezza a render-lo felice? Sicuramente no.

La felicità e quindi il benessere, deri-vano da una soddisfazione più intima, piùprofonda: sentirsi libero. Libertà intesacome sentirsi affrancato dalle necessitàche l’essere uomo comporta.

Le necessità primarie, sono costituitedall’appagamento di bisogni essenzialiquali ad esempio: nutrirsi, vestirsi, avereuna casa, un lavoro ed altri ancora.L’intera esistenza di ogni uomo è finaliz-

zata al soddisfacimento di tali bisogniprimari.

La storia del genere umano è la storiadello sforzo continuo che l’uomo compieper il procacciamento dei mezzi più effi-caci ed efficienti volti a soddisfare talibisogni. L’uomo è in continua ricerca:ricerca che ha come scopo il persegui-mento degli obiettivi personali, come adesempio migliorare se stesso, la propriacondizione, le proprie motivazioni.

Ripercorrendo la vita dell’uomo sindalle origini, possiamo vedere la sua con-tinua evoluzione nel tempo.

Dall’abitare nelle caverne, alla costru-zione dei primi villaggi su palafitte, allecittà costruite con mattoni, fino alla rea-lizzazione ai giorni nostri dei grattacieli;

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oppure pensando al modo di cacciare oalla guerra, egli si serviva di strumentiprimitivi come sassi, clave passando poiall’impiego di armi da lancio, come l’ar-co, la lancia boomerang, fino a realizzaremissili telecomandati e laser; egli racco-glieva e si cibava di frutti spontanei, pas-sando poi alla coltivazione deicampi ed imparando anchele tecniche di conserva-zione e lavorazione deglialimenti. Constatava glieventi naturali in modotimoroso, scoprendo poile grandi leggi che rego-lano la natura e l’universo.

L’intera storia è caratte-rizzata dunque dall’attivitàcontinua e costante atta amigliorare il rapporto tra l’uomo el’ambiente circostante, al fine di rag-giungere nel modo più soddisfacente ipropri bisogni. Il reperimento dei mezziper alleviare e debellare le malattie, sco-prirne le cause, è da sempre il fulcro dellaricerca scientifica.

Solo attraverso la ricerca ed il continuoprogresso nella conoscenza, dei rimedi aimali che affliggono l’uomo come esserebiologico, è possibile attenuare o addirit-tura eliminare la sofferenza che ne deriva,assicurando un più elevato livello di vita.

La storia della Sanità degli ultimi duesecoli è un susseguirsi di eventi in rapidis-sima ascesa verso la conoscenza dellecause delle diverse patologie e verso imezzi per contrastarle e vincerle.

La ricerca che ha portato alla scopertadegli antibiotici, dei vaccini, degli antivi-

rali, ha rivoluzionato l’approccio alla curadi tante patologie ed alla prevenzionedelle stesse, fino alla quasi totale elimina-zione di patologie che un tempo causava-no milioni di vittime (vaiolo, colera etc.).

La ricerca, ormai finalizzata ed orienta-ta su singole patologie, potrà portare a

breve alla sconfitta anche dei“nuovi grandi mali” del-

l’uomo: il cancro,l’AIDS, le patologiecardiache.

Nel campo del-l’ortopedia la ricercaha portato agli inter-

venti per protesi d’an-ca, migliorando la qua-

lità della vita del pazienteed elevando la durata

media della vita.Questi sono solo alcuni esem-

pi degli innumerevoli progressi otte-nuti nei vari campi della medicina.

La ricerca è quindi essenziale e fonda-mentale per la medicina; senza ricercanon vi è progresso, anzi, si andrebbeincontro ad un sicuro regresso.

Tuttavia, la ricerca non può esserelasciata alla libera iniziativa non coordi-nata di pochi scienziati, ma deve seguireprogrammi e linee guida, che coinvolganoa livello mondiale, non solo gli scienziatistessi, ma le istituzioni, gli enti, ed igoverni. Essa, deve inoltre divenire pertutti i governi uno degli obiettivi primarida perseguire.

La ricerca permette di economizzare lerisorse finanziarie, infatti, attraverso laprevenzione, diminuiscono gli interventi

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curativi con il conseguente risparmio eco-nomico e la possibilità di inve-stire in altre ricerche.

E’ necessario che ciascunanazione e nel caso specifico ilnostro Paese, promuova efinanzi le iniziative di ricercain campo sanitario, e favoriscalo scambio di conoscenze e diesperienze scientifiche inambito nazionale ed interna-zionale. La ricerca sanitaria,patrimonio di tutta l’umanità,è altresì patrimonio per cia-scuna nazione.

Il nostro Paese non puòpermettersi che i miglioriricercatori vadano all’esteroper svolgere le proprie attività di ricerca;si tratta di un costo pesantissimo chel’Italia non può sostenere.

Nell’ambito della ricerca nel camposanitario, un postodi eccellenza è riser-vato all’IstitutoSuperiore di Sanità,Ente Pubblico,Organo Scientificodel ServizioSanitario Nazionaleche attraverso i pro-pri dipartimenti elaboratori, in colla-borazione con i piùprestigiosi enti edistituzioni di ricercanazionali ed interna-zionali, costante-mente svolge la pro-

pria attività per individuare nuove e piùavanzate soluzioni finalizzate alla tuteladella salute pubblica.

35Rapporto tra ricerca e benessere, S. Licheri

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L’incantesimo di Prospero: letteratura, immaginario, felicità*

di Giuseppe LombardoUniversità di Messina

The Author analyzes the character of Prospero in Shakespeare’s Tempest and focu-ses on the subject of the research of happiness in this masterpiece of the Englishliterature, in which the cultural echo of the recently discovered America stronglyappears, as in More’s Utopia, and the New Atlantis of F. Bacon. Then he traces theimpact and continuity of this literary theme in later authors underlying the directlinks with Shakespeare’s work.

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IIn quel testo fondante della sensibi-lità moderna che è La Tempesta diWilliam Shakespeare, l’articola-

zione del problema della felicità è affida-ta a Gonzalo, il vecchio e onesto consi-gliere del Re di Napoli. Il tremendo scon-volgimento degli elementi suscitato dallamagia di Prospero, il detronizzato Ducadi Milano, ha avuto da poco termine e inaufraghi si ritrovano sull’isola incantata.Le loro vesti sono asciutte, il sole risplen-de di nuovo, l’aspetto seducente dellanatura apre il cuore alla speranza.Immaginando di potere un giorno “colti-vare” l’isola, di esserne il sovrano,Gonzalo così dà corpo alla sua idea difelicità:

Nel mio Stato ordinereile cose alla rovescia: non un nomedi magistrato ammetterei; commercid’ogni genere esclusi; ignote tuttele lettere; ricchezza, povertà,usi di servitù nessuno; nientecontratti, eredità, siepi, poderichiusi, terreni coltivati e vigne;proibito l’uso di metalli, d’olio,di frumento, di vino; alcun lavoro:gli uomini tutti in ozio ed anche tuttele donne, ma innocenti e pure; alcunasupremazia regale [...]Senza sudori e senzasforzi tutte le cose produrrebbela Natura; vorrei fossero ignotiil tradimento, la bassezza e l’usodi spada, di coltello, di fucile,

* Le citazioni contenute nel testo sono tratte da: William Shakespeare, La Tempesta, trad. diDiego Angeli, Milano: Fratelli Treves Editori, 1925; Aldous Huxley, Il mondo nuovo; Ritorno almondo nuovo, trad. di Lorenzo Gigli e Luciano Bianciardi, Milano: Oscar Mondadori, 2002.

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di picca e d’ogni altra arma; la benignaNatura produrrebbe in abbondanzaquanto basti a nutrire il popol mio![...]E vorrei governar, sire, con tantaperfezione, che l’età dell’orosarebbe sorpassata.

Shakespeare, La tempesta(Atto II, Scena I)

La felicità tende qui a coincidere con lasospensione, anzi il capovolgimento, ditutti i parametri della cosiddetta civiltà.Le gerarchie sociali, la proprietà dellaterra, la produttività e laboriosità dellagente, la legge e l’arte, tutto è riassorbitonella fecondità di una natura che benignaprovvede a nutrire i suoi figli. L’età del-l’oro, il simbolo della perfezione, sembraimplicare il regresso a una condizione pri-migenia, anteriore al tempo storico, inno-cente perché non ancora contaminatadalla fatica e dalla violenza del vivere.

Non è difficilericonoscere dietroil sogno diGonzalo la pre-senza di unoschema imma-ginativo, che ècome dire un“sistema di signifi-cati”, mediante ilquale si modellizza il mondo e si ricondu-ce alla propria esperienza la percezionedel nuovo, del diverso. Il drammaticonaufragio e l’approdo avventuroso sullespiagge dell’isola contrassegnano la“separazione” dalla realtà del proprio vis-suto, da tutto ciò che è noto, configurato,rassicurante. Essi aprono uno spazio che

da un lato attrae e stimola la curiosità, laricerca, in virtù del suo isolamento, dellasua stessa diversità. Dall’altro lato, pro-prio questa condizione di separatezzaimpone una sorta di obbligata “colonizza-zione” dell’isola: quanto più rapidamenteessa sarà esplorata e quindi posseduta,tanto più efficacemente l’individuo saràin grado di riprendere il controllo di sé edel proprio destino. La sfida dello spazionuovo, dell’ignoto, sfocia regolarmentenell’espansione delle frontiere di ciò che ègià conosciuto. L’uomo, come ci insegnala moderna antropologia, è un incessanteproduttore di reti di significato, di codicie sistemi di segni attraverso i quali egligestisce, espande e domina la propriarelazione con la realtà in cui vive. NellaTempesta Shakespeare intuisce questinodi essenziali e li drammatizza sotto laveste del fantastico. Grazie alla risorsa

costituita dalla magia edal dominio che

questa conferiscesugli elementidella natura,Prospero attirasull’isola i suoiavversari, fra

cui il fratelloAntonio, l’usurpato-

re del suo trono, e ottienela restaurazione dei suoi diritti di principee il pentimento dei colpevoli. Ferdinando,il figlio del re di Napoli, corona il suosogno d’amore con Miranda, figlia diProspero, e assicura così l’ordinata tra-smissione del potere di governo dellacomunità. L’isola che funge da sfondo

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alla vicenda simboleggia l’entità diversache dovrà sorgere dall’unione fra i duegiovani, che è anche unione di due regni(Milano e Napoli), sintesi della tradi-zione rappresentata da Prospero edella novità costituita daGonzalo e Ferdinando.

La modernità dellaTempesta è in gran parte figliadi questo suo essere opera difrontiera, scritta quando l’au-tore è ormai giunto all’apicedella maturità creativa (iltesto si fa risalire al 1612, è ilpenultimo nel canone shake-speariano), in un contesto ideo-logico-culturale di riferimento cari-co delle suggestioni che sull’immagina-rio collettivo dell’Inghilterra elisabettia-na e giacomiana esercitano le relazioni diviaggio degli esploratori del NuovoMondo. Al di là delle motivazioni ideolo-giche e politiche che spingono le potenzeeuropee a proiettarsi sullo scenario delcontinente scoperto da Colombo,l’America, fin dall’inizio, oltre a costitui-re una “opportunità” in termini materialied economici, si presenta come unastraordinaria avventura della fantasia. Lanatura simile e nello stesso tempo pro-fondamente diversa da quella europea, inspecie per l’imponenza delle sue masse ele dimensioni eccezionali dei suoi ele-menti (fiumi, laghi, foreste, etc.); l’incon-tro con i nativi, tragedia della mancatacomprensione e accettazione di unadiversità alla quale la cultura europea nonera preparata, ma anche confronto conl’altro da sé, presa d’atto di un universo

non più racchiuso entro limiti che si rite-nevano fissati per sempre; il senso deldistacco dalle proprie radici, dalle rela-

zioni consolidate, chel’Oceano induce e insie-

me esalta; tutte que-ste componenti si

intrecciano in una pos-sente miscela che

concentrerà sul NuovoMondo le aspettativedi palingenesi, di

mutamento radicale edefinitivo della condizio-ne umana, riproponendo

in termini del tutto inatte-si e per molti aspetti impre-

vedibili il problema della “felicità”,ormai non limitata esclusivamente alladimensione individuale ma sempre piùtendente a configurarsi come esperienzadi rinascita collettiva.

Shakespeare coglie in modo originalequesta sfida cui l’immaginario del suotempo risponde iniziando a mettere indiscussione certezze e stereotipi consoli-dati da secoli. Nelle parole di Gonzaloregistriamo l’inizio del tramonto di unaconcezione del mondo e dell’uomo cheaveva plasmato la civiltà classica, maanche tutta l’epoca medievale che, purnella ricerca faticosa di percorsi alternati-vi, dalla classicità aveva ereditato ilmodello di un universo i cui limiti estremisconfinavano nell’ignoto, quasi sempreidentificato con il meraviglioso e terrifi-cante ad un tempo, locus privilegiato ditutto ciò che nella sfera del quotidiano erainspiegabile o impossibile.

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Nella grande epica omerica, la geogra-fia di tale universo era stata fissata inmodo pressoché definitivo e le tappe delviaggio di ritorno di Ulisse a Itaca ne ave-vano messa a fuoco l’in-terna struttura. Laforza propulsiva chemuoveva uomini edei entro confinimai tracciati sullemappe ma in qual-che modo impressinella memoria col-lettiva era rappresenta-ta essenzialmente dallatensione verso la ricom-posizione del focolaredomestico. Il nostòs, ossia ilritorno come recupero dell’identità e delsenso di se stessi, era il percorso che com-provava la grandezza dell’eroe, la suacapacità di non smarrire mai il senso e ladirezione del movimento, anche quandol’irruzione del divino (ossia gli dei assun-ti quale controparte attiva degli uomini) osemplicemente le seduzioni del mondo ogli esseri fantastici e meravigliosi nasco-sti in luoghi lontani e inesplorati, sembra-vano spingere in senso opposto. Perfino ladiscesa agli Inferi, quasi un percorsoobbligato alla ricerca della visione ingrado di anticipare il futuro, doveva esse-re compiuta ritualmente, doveva cioè pas-sare attraverso la rievocazione dellamadre, simbolo di quell’ordine domesticotanto agognato nei momenti più difficilidel lungo assedio della città di Troia e conaltrettanta determinazione perseguitonelle circostanze più strane e sorprenden-

ti del viaggio di ritorno. Le mitiche colon-ne d’Ercole, poste a guardia dei limitiestremi del mondo, erano, in questo con-

testo, l’espressione metaforica dellaforza che il cerchio degli affet-

ti, delle relazioni familiari ecomunitarie, esercitavasull’eroe, condizionando-

ne il percorso e sottraen-dolo alle tentazioni comeai pericoli dell’avventura.

In questa visione delreale, il problema della feli-

cità, quando si pone, è trasce-so sul piano della morale e

della virtù individuali. L’eroenon si batte per raggiungere una

condizione di liberazione dalle sof-ferenze e dalle limitazioni imposte dallafragile condizione umana. La sua superio-rità è innanzi tutto frutto dell’autocontrol-lo e la felicità più che in una condizionedesiderata, contrapposta e capovoltarispetto al proprio stato presente, consistenella capacità di rimanere fedeli al ruoloconquistato nella trama dei rapporti fami-liari e sociali. La letteratura, l’immagina-rio estetico, celebrano questo tipo di eroeeternandone le gesta, conservando memo-ria delle sue virtù e quasi confondendoneil profilo con quello di un semidio, a con-ferma che il raggiungimento della felicitànon implica alcuno sconvolgimento dellapropria condizione esistenziale. La cultu-ra classica ha ben presente una mitica etàdell’oro dalla quale l’umanità si sarebbeirrimediabilmente allontanata, ma non viè in essa alcuna ansia di recuperarne, pervia palingenetica, la felice condizione.

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Con le sue imprese, con il suo coraggiol’eroe è la migliore testimonianza dellasopravvivenza nel quotidiano del mitodelle origini.

L’avvento del Cristianesimo ela nascita di un ethos basatosul trascendimento dellasfera terrena non mutanosostanzialmente l’impiantoche abbiamo fin qui deli-neato. Il credente assume sudi sé la funzione di testimo-nianza che l’eroe svolgevanell’epica classica. Qui ilricordo delle origini, il mitodi fondazione, ha la forma di unmito di caduta. La traumatica perditainnescata dalla cacciata della prima cop-pia umana dal Paradiso terrestre postuladi per sé l’esigenza del ritorno alla condi-zione primigenia, di un percorso finaliz-zato alla salvezza intesa quale recuperodella perfezione e della pienezza delle ori-gini. Alla dimensione puramente terrenadel viaggio, circoscritta nei limiti geogra-fici del mondo conosciuto ma che di tantoin tanto apre una finestra sull’ignoto, siaffianca e si sovrappone ora una dimen-sione dell’interiorità e del trascendenteche ridisegna il viaggio medesimo orien-tandolo in senso, per così dire, verticale,dalla terra al cielo, e tendenzialmente cir-colare, quasi a sottolineare in modo nettoil carattere transeunte dell’esperienza ter-rena e la sua complessiva rivalutazioneunicamente quale stadio preparatoriodella salvezza. E’ il percorso tracciato dalpellegrino e dalle sue diverse guide nellaCommedia dantesca, sequenza di passag-

gi che scandiscono un’esperienza pro-gressiva di illuminazione/rivelazione conla quale coincide l’acquisizione di unostato di felicità che restituisce il credentealla pienezza della comunione originaria

con il suo Creatore. Anche inquesto caso, come si può

vedere, la tensioneessenziale è sem-pre quella delritorno, della rico-

stituzione di un ordi-ne in qualche modo sconvolto, vuoi per-ché l’eroe ha ceduto alle tentazioni disse-minate lungo la sua strada, vuoi a causadel peccato e degli smarrimenti che esso

provoca nella fallibile natura umana.La scoperta del Nuovo Mondo irrompe

come una vera e propria cesura in questa“antropologia” tradizionale, costringe arivederne i meccanismi fondanti, a ridise-gnarne gli obiettivi e i percorsi privilegia-ti. Innanzi tutto, l’improvviso ampliarsidell’orizzonte geografico dà inizio a quellento processo di progressiva decostruzio-ne della centralità della cultura e dellaciviltà europee di cui oggi registriamo gliesiti macroscopici. In secondo luogo, lapercezione dello spazio nuovo comeessenzialmente vuoto (dal momento cheai nativi a nessun titolo è riconosciuta paridignità in quanto interlocutori) catalizzale spinte verso una palingenesi che tendea coincidere con la liberazione tout courtdai limiti, dalle violenze, dagli orrori dellastoria, e in modo via via più accentuatoproietta l’uomo verso una felicità possibi-le e realizzabile entro l’arco della sua esi-stenza terrena. Infine, la traversata

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dell’Atlantico, e le ovvie incertezze di cuiessa è carica in ragione della “relativa”arretratezza delle tecniche di navigazione,tende a suggerire e alimentare analogiesimboliche tra il viag-gio verso ilNuovo Mondoe i percorsi dirinascita indi-viduale e collet-tiva di cui è por-tatore soprattutto ilCristianesimo delle Chieseriformate. L’America, pro-prio agli inizi del suo ingres-so sulla scena della storia, vienecosì a porsi come locus della liberazioneper eccellenza, territorio, è vero, apertoanche all’avventura e allo spirito di intra-prendenza individuale, ma in primo luogodestinato a inverare il sogno di rinascita edi capovolgimento totale della propriacondizione, del proprio destino, e di quel-lo dei propri simili.

Nelle parole di Gonzalo, nella citazio-ne dalla Tempesta da cui abbiamo preso lemosse, questo carattere peculiare dell’e-sperimento americano è già operante. Ilsogno (altri direbbero senz’altro il mito inconsiderazione di ciò che poi l’evoluzio-ne dell’Occidente ha comportato) non èsolo quello di liberare l’umanità da ognisofferenza materiale e morale, da ognidiscrimine di classe e di stato economico,recuperando così la condizione edenicaanteriore alla storia, ma anche e soprattut-to quello di superare la stessa età dell’oro,non solo e non tanto in termini di intensi-tà o perfezione intrinseca, quanto nei ter-

mini della potenzialità, cioè nella possibi-lità che il sogno stesso si realizzi qui ed

ora, entro l’orizzonte delle aspetta-tive di quanti aprono gli occhi perla prima volta sulla realtà inconta-minata del Nuovo Mondo. E’ comese l’aspirazione alla felicità si fosse

improvvisamente ravvi-cinata, per la prima voltafosse a portata di mano,non fosse più affidataalla memoria ancestrale

di una mitica età perduta odi un Eden da cui si è stati

scacciati, ma dipendesse dal-l’individuale capacità di con-

cretizzare aspirazioni, sentimenti, deside-ri per troppo tempo rimossi o repressi.

Il valore liberatorio di questo “mito”diverrà ben presto anche una potentefonte di ispirazione letteraria. Si può anzidire che per tutto il Cinquecento e buonaparte del Seicento, per limitarci all’areadella cultura di lingua inglese, le relazio-ni degli esploratori e i primi resoconti deiprogressi degli insediamenti colonialioffriranno all’immaginario materiali esuggestioni di grande rilievo. Basti pensa-re alle innumerevoli descrizioni della fer-tilità del suolo e della salubrità del climadel Nuovo Mondo che contribuiranno adalimentare l’identificazione tra quest’ulti-mo e l’immagine convenzionaledell’Eden basata sulle Sacre Scritture. Maanche a livello di letteratura “alta”, gliincroci saranno fecondi di sviluppi. Giànel 1515, Thomas More, nella favola diUtopia, aveva dato voce alle aspirazionidi radicale palingenesi mediante la descri-

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zione dell’isola omonima e di una realtànella quale l’ordine si realizza grazie allarigorosa combinazione di fattori ed ele-menti che interagiscono armonica-mente per generare una condizio-ne di felicità permanente, ossiadi totale soddisfazione dei desi-deri. E nel 1627, Francis Baconriprenderà il medesimo proget-to in New Atlantis, ancora unavolta privilegiando lo spaziocircoscritto dell’isola quale“laboratorio” nel quale glistrumenti d’indagine di unarazionalità illuminataconiugano gli equilibri maiprima sperimentati di unnuovo sistema sociale. E’appena il caso di sottolinearecome in queste opere l’immagi-ne del Nuovo Mondo sia sem-pre sottesa, funzioni insommaquale substrato di una geografiale cui coordinate sono ancoratutte da tracciare ma che si èormai lasciati alle spalle iconfini invalicabili ele terre misteriosesul cui limitare l’im-maginario della classicità e degli uominidel Medioevo si era arrestato. Sempre piùspesso la felicità è un’aspirazione che siidentifica con la capacità di affrontare evivere le sfide del futuro piuttosto che conil ritorno a uno stato di perfezione leggen-daria avvolto nelle nebbie del passato.

Nel dramma shakespeariano queste dueprospettive tendono ancora a bilanciarsi.Alla domanda del padre circa l’identità di

Miranda, la fanciulla con la quale il geni-tore l’ha sorpreso nella grotta di Prospero,intento a giocare a scacchi, così

Ferdinando risponde:

Sire, è mortalema è mia per immortalprovvidenza.Io la scelsi allorchépiù non potevochieder consiglio al

padre mio, né purecredea di averne ancora uno. Ella è figliadi quel ben noto duca di Milanodi cui sì spesso ho udito, senza pureaverlo visto prima. E’ da costuiche ho ricevuto una seconda vitaed un secondo padre or mi procuraquesta signora.

Shakespeare, La Tempesta

Il Mondo Nuovo implica in ogni casola fuoruscita dalla trama di rapporti checaratterizzano il vissuto di ogni individuo.La “seconda vita” di cui parlaFerdinando, la metafora della felicità checonnota questa transizione, scaturisce daun taglio deciso con il passato e si orientanel senso della “immortal provvidenza”,

cioè dell’accettazione del mondo con lesue incertezze, le sue improvvise

variazioni, la sua sfida costanteai desideri e ai sogni dell’uomo.

Shakespeare non articola ancora piena-mente questo tema anche se lo intuisce elo esprime attraverso l’accostamentodelle parole conclusive di Gonzalo conl’epilogo pronunziato da Prospero. Il sag-gio consigliere invoca la benedizionedegli dei su Miranda e Ferdinando e gioi-sce perché ogni tassello nella vicenda si ècollocato al suo giusto posto. L’ordine è

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stato restaurato, il cammino può riprende-re. Prospero, invece, sa che senza l’appor-to della sua magia l’intreccio non sarebbemai stato portato a compimento, ma saanche che la resa ai poteri del sopranna-turale non potrà per sempre sostituirsiall’esercizio della libera scelta indivi-duale. Nell’Epilogo, egli indica lastrada da intraprendere e i rischi cheessa comporta:

Qui ho deposto ogni magiae quel che ho di forza è mia:non è molto e sta in poterevostro farmi rimanereo mandarmi per incantoverso Napoli.

Shakespeare, La Tempesta(Atto V, Epilogo)

La modernità (ovviamente relativaai tempi) è disarmante, nel senso cheessa priva l’uomo dell’alibi offertoda qualsiasi riferimento trascenden-te. Il mondo è aperto al percorso checiascun individuo intenda tracciarvi,con le debolezze e le incertezze ma anchecon gli entusiasmi e i sogni che di volta involta possono esaltarlo. Finché la potenzadella magia di Prospero domina l’isola,Miranda (l’equivalente metaforicodell’America come terra incontaminata)non incontra Ferdinando (emblema del-l’esperienza, del noto, del conosciuto), eCalibano, l’essere deforme, il mostrofiglio della strega Sicorace che, prima diProspero, aveva dominato l’isola, minac-cia la felicità dell’esito conclusivo. Nelmomento in cui Prospero rinuncia allamagia, anche il diverso viene depotenzia-to e la ricerca della felicità può indirizzar-

si verso una prospettiva realistica, terrena,laica, se vogliamo utilizzare un termineabusato ma ancora efficace.

Da qui all’idea che la felicità con-sista nel superamento continuo

dello stadio di partenza, nelmiglioramento progressi-vo delle condizioni di vita,nel progresso inteso quale

proiezione verso il futuro,il passo è veramente breve.

Sarà la cultura illumi-nista a compierlo,muovendo dallastraordinaria immagi-ne del diverso cheShakespeare ci conse-

gna nella Tempesta, daCalibano appunto. Depuratodai tratti orrifici con cuil’immaginario medievalelo aveva dipinto, esso siavvia a divenire l’icona di

quello che sarà il tipo del“buon selvaggio”, cioè l’altra

faccia della medaglia per una cultura chetentando di inglobare all’interno dei pro-pri parametri il Mondo Nuovo procederàad una straordinaria messa a punto dellesue stesse contraddizioni irrisolte.

In un arco di tempo relativamente breve(poco più di un secolo se si fa riferimentoai primi insediamenti inglesi sulla costanord-atlantica a partire dal 1607),l’America si costruisce come mito e sim-bolo di libertà e felicità, e quando, allafine del Settecento, le tredici colonie bri-tanniche ribelli otterranno l’indipendenzae costituiranno gli Stati Uniti d’America,

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il felice intreccio di ideologia, prosperitàeconomica, e potenzialità di sviluppopressoché indefinito, darà uncontributo decisivo alla rei-ficazione del mito e all’i-dentificazione tra pro-gresso e felicità. DaFranklin a Jefferson,da Madison aHamilton, iPadri Fondatoria c c e n t u a n oquesto nesso elo incardinano nella storica inclusione deldiritto alla felicità tra i diritti naturali del-l’uomo operata dalla Dichiarazioned’Indipendenza del 1776. Per completareil quadro, manca solo l’apporto dellascienza e delle sue applicazioni tecnologi-che; essa fornirà al mito il combustibileindispensabile per alimentare l’ideadell’America come terra promessa, luogodi risoluzione di ogni contraddizione dellastoria precedente, nazione portatrice dellastorica missione di garantire la prosperitàe la felicità che gli esseri umani hannosempre sognato di raggiungere.

L’impatto sull’immaginario e sui suoiesiti in letteratura è stato enorme. Bastipensare al ruolo fondamentale che laricerca della felicità è venuta via via asvolgere nel romanzo moderno, soprat-tutto il romanzo di formazione dove ilprotagonista, ritratto in genere sullasoglia del passaggio all’età adulta, si con-fronta con il mondo e le sue seduzioni evive spesso drammaticamente la cadutadelle illusioni nello scontro con una real-tà crudele e disincantata.

Ma lo sviluppo indubbiamente piùinteressante e suggestivo, inun’ottica che non vogliasemplicemente chiudersi

in considera-zioni di tipoesclusiva-mente este-tico, maaspiri a leg-gere i fattil e t t e r a r icome testi

a pieno titolo inseriti nella dialettica tota-le di ogni cultura, è quello della narrativadistopica, dei romanzi che articolano l’in-cubo dell’utopia negativa. Ovvero, perdirla con parole più semplici, l’idea che infondo allo sviluppo impetuoso dellamoderna società tecnologica non vi sial’agognata condizione di felicità perma-nente, ma piuttosto la fine della libertà edella stessa dignità umana. Il pensierocorre subito a 1984 di George Orwell,forse l’esempio più noto, ma non l’unicodi un filone narrativo che periodicamenteviene rivisitato quasi per esorcizzare itimori di un salto nel buio, di una implo-sione della stessa civiltà con conseguenteregressione allo stato primordiale.Accanto a Orwell si potrebbero, tuttavia,menzionare altri nomi significativi, tantoper restare alla tradizione di lingua ingle-se penso a William Dean Howells, autoredi A Traveller from Altruria, e a EdwardBellamy e al suo Looking Backward. Inquest’ambito, ho preferito, comunque,focalizzare l’attenzione su un romanzonon proprio recente, anche se di estrema

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attualità per gli scenari che mette insieme,Brave New World di Aldous Huxley, usci-to nel 1932 e tradotto in italiano con iltitolo Il mondo nuovo, un testo emblema-tico dei problemi connessiall’idea della scienza qualeforza benefica in grado digarantire all’umanità unprogresso indefinito.

Qualche parola va dettaper collocare in una giustaprospettiva l’autore.Inglese di nascita, Huxleyproveniva da una famigliaillustre. Il nonno, il notobiologo Thomas HenryHuxley, era stato uno deipiù accesi sostenitori delleteorie darwiniane. Il padre, Leonard,aveva a lungo diretto la CornhillMagazine, fondata nel 1860 da WilliamM. Thackeray. La madre, Julia Arnold,era invece nipote del famoso poeta e sag-gista vittoriano Matthew Arnold. Entratoa Eton con l’intenzione di studiare perdiventare medico, Huxley è costretto benpresto ad abbandonare il college per unagrave forma di cheratite che gli fa perde-re quasi completamente la vista. Impara aleggere testi in “braille” e continua a stu-diare con precettori privati, dedicandosi alcampo della letteratura inglese e dellafilologia. Divide il suo tempo tral’Inghilterra, la Francia meridionale el’Italia, dove a lungo soggiorna a Fortedei Marmi in Toscana. L’uscita di BraveNew World nel 1932 gli conferirà per unbreve periodo una vasta notorietà interna-zionale. Nel 1942 si trasferirà in perma-

nenza negli Stati Uniti e dagli anni ’50fino alla morte si dedicherà alla specula-zione filosofica abbandonando gradual-mente il campo della narrativa.

Intellettuale irrequieto edalle vedute radicali, inBrave New World Huxley ciha fornito l’impressionantedescrizione di un immagina-rio stato del futuro, pianifi-cato nel nome del razionali-smo produttivistico. In questo“mondo” nuovo le barrierenazionali sono cadute e ilgoverno è concentrato nelle

mani di un ristretto gruppo di“controllori” ciascuno dei qualiesercita le proprie competenze su

un’area vastissima. Il collante ideologicoche tiene insieme le diverse entità è costi-tuito da una griglia di valori, il cosiddetto“culto di Ford” dal nome del suo fondato-re, che ha preso il posto delle singole reli-gioni. I cardini di quest’ultimo sono larinuncia a ogni sentimento o emozione,sentiti come egoistica difesa della propriaindividualità; la felicità consistente nellaliberazione dalla violenza delle guerre edelle malattie e nel libero accesso a ognipiacere materiale; il progresso scientificoconcepito quale pilastro essenziale di ungoverno che pianifica con la stessa asetti-cità tanto la gestione collettivistica dellasfera materiale quanto quella della sferadella coscienza.

L’intero sistema è mantenuto in equili-brio grazie alla distruzione della famigliaquale unità di base della convivenzasociale, al divieto assoluto di generare

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secondo il sistema naturale e tradizionaledel parto, e alla clonazione degli esseriumani che vengono concepiti e prodottiindustrialmente in provetta sotto il con-trollo costante di ingegneri genetici. Losviluppo controllato degliembrioni consente dieffettuare una sorta dipreselezione dei ruolisociali che ciascun esse-re così concepito dovràsvolgere nell’arco dellavita. Infatti, attraverso un proces-so di condizionamento basato sul-l’uso di droghe e sulla quantità diossigeno fornito durante il processo dicrescita in provetta, gli individui sonodivisi in cinque classi gerarchicamenteorganizzate e indicate con le lettere Alfa,Beta, Gamma, Delta, ed Epsilon. I primidue livelli sono destinati a svolgere lefunzioni dirigenziali e un numero ristrettodi Alfa avrà accesso a compiti di governo;gli ultimi tre svolgono invece le occupa-zioni esecutive o puramente materiali.

Le tecniche della clonazione traduco-no in esiti concreti il motto del nuovo“Stato Mondiale”, vale a dire “Comunità,Identità, Stabilità”. Il condizionamentopreventivo, infatti, induce nei singoliindividui una totale e volontaria accetta-zione del proprio ruolo sociale e in ciò,come osserva, il Direttore del “Centro diIncubazione e Condizionamento” diLondra, il personaggio che appare inapertura del romanzo, consiste il segretodella felicità e della virtù: amare ciò chesi deve amare. Ogni condizionamentomira a ciò: fare in modo che la gente ami

la sua inevitabile destinazione sociale.La programmazione dello sviluppo dellacomunità è poi garantita da quello che,nel romanzo, Huxley chiama “procedi-mento di bokanovskificazione”, una tec-

nica che consiste nel-l’arresto del normalesviluppo dell’ovulo

fecondato in provetta e nel-l’induzione della sua segmenta-

zione fino a produrre, parten-do da un sola cellula germi-nale, novantasei embrioniperfettamente identici.

Naturalmente, il perfetto fun-zionamento del sistema richiede

di tanto in tanto interventi di controllo,tali da riportare nel giusto alveo compor-tamenti innescati da momentanei indebo-limenti del condizionamento. Vi si prov-vede attraverso la distribuzione control-lata di pasticche di soma, una miscela disostanze diverse, una droga, che induceaccettazione del proprio stato esistenzia-le ed elimina ogni forma di ansia o emo-tività. In breve, la felicità coincide con lastabilità. Come osserva Mustapha Mond,uno dei “controllori”:

Non c’è civiltà senza stabilità sociale.Non c’è stabilità sociale senza stabilitàindividuale.

Se tuttavia Huxley si fosse limitato adarticolare in termini rigorosamente capo-volti il sogno utopico della società perfet-ta e della felicità, non si spiegherebbel’apprezzamento che ancora oggi BraveNew World suscita. In realtà, il testo èvitale perché ha un impianto narrativo

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credibile sul piano della sua verisimi-glianza ma anche una trama secondariache ne drammatizza la fabula, indiriz-zandosi propriamente alla que-stione della felicità.

Lo Stato Mondiale, la strut-tura programmata e control-lata fin negli ingranaggisociali più minuti, contiene insé la prova del suo stesso fal-limento. Non tutti i gruppiumani esistenti prima dell’avven-to di quella che la voce narrante chia-ma “Era Ford” hanno risposto con la stes-sa prontezza alle tecniche di condiziona-mento. Anzi, in alcuni casi la procedura siè rivelata inapplicabile. Queste popola-zioni, che continuano a mantenere il tradi-zionale ordine sociale basato sulla fami-glia e sul clan, sono state confinate in veree proprie “Riserve” situate nell’Americasettentrionale, controllate a vista da agen-ti governativi. I confini di ogni Riservasono segnati da una barriera elettrificatache impedisce qualsiasi tentativo di fuga.

Huxley immagina che nel corso di unavisita alla più grande di queste Riserve, ilDirettore del “Centro di Incubazione eCondizionamento” di Londra abbia unrapporto sessuale con la propria assisten-te. Quest’ultima si smarrisce nella forestadurante un’escursione guidata e nonriesce più a raggiungere il posto di con-trollo. Data per morta, ella, invece, vieneaccolta da una delle tribù che vivono nellaRiserva e qui, non avendo alcun mezzoper interrompere la gravidanza, dà allaluce, per via tradizionale, un bambino chesi chiamerà John. Quando ormai è già

adolescente, quest’ultimo viene scopertoda Bernard Marx, uno dei collaboratori

del Direttore, e quindi portato aLondra, insieme alla madre, ed esi-

bito come una specie dimeraviglia vivente. Ma il“selvaggio” entra ben pre-sto in collisione con lasocietà iper-programmatache lo circonda. Dopo una

drammatica “storia d’amore”con Lenina, una ragazza Beta

che lavora al “Centro diIncubazione”, egli si dà alla fuga, forsetentando di raggiungere la Riserva di ori-gine, e in ogni caso soccombe, confer-mando il tragico destino che è riservato alsingolo nello scontro con la forza delnumero.

L’accorta gestione di questo intrecciosecondario consente all’artista di metterea fuoco nel modo più inquietante la pro-blematica della felicità. Intanto, in lineacon il carattere “distopico” della storia leparti sono rovesciate. L’azione principaleha luogo nel Vecchio Continente (aLondra) e l’America ne rappresenta ilcontraltare. Huxley suggerisce in talmodo che l’utopia legata a quest’ultimacome spazio privilegiato della libertà edella felicità è illusoria. Al contrario,l’America non è un mondo nuovo ma unasemplice filiazione del vecchio; le suedegenerazioni future sono già implicitenella matrice europea di cui essa è sostan-zialmente figlia. Le Riserve in cui sonostate confinate le popolazioni rivelatesirefrattarie alla tecniche di condiziona-mento sono modellate, per analogia, su

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quelle in cui i bianchi hanno costretto gliIndiani d’America che orgogliosamentehanno resistito a ogni tentativo di assimi-lazione. C’è quindi un nesso, un filo inin-terrotto che lega i colonizzatori di ieri e igovernanti dello Stato Mondiale di Oggi.In questa prospettiva, la ribellio-ne di John “il selvaggio” non èche l’ultimo episodio dellabattaglia, mai vinta daglieuropei nonostante il van-taggio della scienza e dellatecnologia, per cancellare deltutto l’identità precolonialedel Nuovo Mondo.

Ma c’è di più. Huxley, con un’arditaoperazione di intertestualità, si ricollegadirettamente a Shakespeare, allaTempesta, per ribadire che la felicità comeillusione di un futuro in grado di ingloba-re in sé e superare le contraddizioni delpassato, nonché le ansie e le incertezzedel presente, è destinata a sfociare nell’in-cubo dello Stato Mondiale pianificato diBrave New World. Il titolo che egli hascelto per il romanzo, Brave New Worldappunto, ripropone le prime parole cheMiranda, nella Tempesta, pronunzia allavista dei naufraghi che la magia diProspero ha spinto sull’isola. Miranda,simbolo come già sappiamo del NuovoMondo incontaminato, Miranda che nonconosce altra forma umana al di là diquella paterna (Calibano, l’altro abitantedell’isola, si colloca al di fuori di ognicanone “umano”) esprime con questeparole tutto il suo stupore di fronte a una“novità” che è impossibile ricondurrenella sfera dell’abituale e del rassicurante.

In un contesto rovesciato, anche John il“selvaggio” pronunzia le medesime paro-le. Nella Riserva, egli è stato istruito dallamadre grazie agli unici due libri di cui ellaaveva potuto disporre, libri che, in tempilontanissimi, avevano fatto parte del bot-

tino di una delle tante razzie ai dannidei bianchi effettuate dalla tribù

che l’ha accolta: la Bibbia eun’edizione completa delleopere di Shakespeare. Il lin-guaggio di John, le sue emozio-ni, il suo modo di interagire con

gli altri, sono il frutto dell’identi-ficazione tra il suo immaginario per-

sonale e quello che Shakespeare proiettanella sua opera. Con Romeo e Giuliettaegli avverte i primi turbamenti amorosi,con Otello si sente assalito dalla gelosiaquando Lenina, non comprendendole,non risponde alle sue profferte d’amore,con Miranda rimane preda dello stuporedi fronte alle meraviglie dello StatoMondiale pianificato, con i suoi cloni per-fettamente identici fra di loro, i “control-lori” intenti a garantire la stabilità sociale,gli Alfa e i Beta che vivono la felicitàcome possibilità di soddisfare ogni piace-re materiale e sessuale, i Delta, i Gammae gli Epsilon che provvedono a far girarela ruota grazie alla cieca sottomissione aldestino loro riservato in seguito alle prati-che di condizionamento.

Miranda può, comunque, godere anco-ra dell’illusione tipica di un mondo chenasce, che si affaccia sulla scena dellastoria. Per John il “selvaggio” la stessapossibilità è cancellata per sempre. Allasua reiterata domanda circa ciò che nello

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Stato Mondiale è vietato (come, ad esem-pio, riprodursi secondo modalità tradizio-nale, leggere libri come la Bibbia oShakespeare, etc.), Mustapha Mond, il“controllore”, ribadisce che non èammessa alcuna violazione deldivieto, se non quella che glistessi governanti rivendica-no a sé:

“[...] E’ proibito, sapete. Masiccome io faccio le leggi, qui,posso anche violarle. Con impunità,signor Marx” aggiunse volgendosia Bernard. “Mentre temo che voinon lo possiate fare”.

E poi aggiunge:

Perché il nostro mondo non è il mondodi Otello. Non si possono fare delle mac-chine senza acciaio, e non si possono faredelle tragedie senza instabilità sociale.Adesso il mondo è stabile. La gente è feli-ce; ottiene ciò che vuole, e non vuole ciòche non può ottenere. Sta bene, è al sicu-ro; non è mai malata; non ha paura dellamorte; è serenamente ignorante dellapassione e della vecchiaia; non è ingom-brata né da padri né da madri; non haspose, figli o amanti che procurino loroemozioni violente; è condizionata in talmodo che praticamente non può fare ameno di condursi come si deve. E se per

caso qualche cosa non va, c’è il soma ...che voi gettate via, fuori dalle finestre, innome della libertà, signor Selvaggio.Libertà!” si mise a ridere.

[...]Si capisce. La felicità effettiva

sembra sempre molto squallida inconfronto ai grandi compensi chela miseria trova. E si capisceanche che la stabilità non è nep-pure emozionante come l’insta-bilità. E l’essere contenti non hanulla d’affascinante al parago-

ne d’una buona lotta contro lasfortuna, nulla del pittoresco d’una

lotta contro la tentazione, o di una fatalesconfitta a causa della passione o deldubbio. La felicità non è mai grandiosa.

La felicità non è mai grandiosa.Huxley ci consegna quella che sembraessere una verità amara, ma forse ancheun invito all’accettazione della nostracondizione esistenziale precaria; unmonito alla presunzione di conoscenza,uno stimolo alla nostra capacità di fartesoro della debolezza e fallibilità consu-stanziali all’essere terreno. Si può esserfelici? Forse no. L’incantesimo diProspero è per sempre spezzato. Siamosoli sulle strade del futuro.

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Esiste un’etica della sofferenza?

di Carlo MarcellettiCardiochirurgo infantile

The act of processing pain brings someone to desire to suffer for a very hight idealor for a god, even up to reach the pain’s ecstasy. Someone else concentrates aboveall in thinking that sorrow lives in precise places we know very well: places madefor receiving pain like hospitals, cemeteries, prisons, lunatic asylums, land of war,lagers. Nevertheless, also the most immanent visions compel us to process suffe-ring. In this way, the first ethic step is the real partecipation to suffering itself, alsofor those who do not believe in transcendency. This is the very attempt we have toimpose to ourself in order to understand if we are able to suffer with others, as, ifwe suffer with the other, the others suffer with us. Who does not believe nor has any faith too, who does not think that the conditionof being able to suffer prepares to the afterlife has in any case to approach to painwith another power: not that of the paradise, which you can reach after having suf-fered before on the earth, but that of hope. We think that we can offer hope throughtour human work and throught the closeness of our fellow. Then the combinationpain-hope becomes an ethic argument: the participation to suffering and the hopeto defeat it find a realization in the concrete intervention in hospitals, lunatic asy-lums, land of war, families, ghettos. Concluding, it is undoubtful that suffering hasto be fought, even if the pain of existence is not so easy to be totally defeated.

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QQuando mi è stato posto l’invi-to a partecipare a questa tavo-la rotonda ho proposto un

titolo alla mia relazione che poi mi hamesso in difficoltà. Ho detto subito cheavrei volentieri provato a rispondere auna domanda che corre nella mente ditutti, vale a dire se di fronte al dolore,alla sofferenza è possibile un recupero digioia attraverso percorsi etici.

Partiamo da un assunto secondo ilquale è possibile uscire dalla sofferenzasolo conoscendo le regole per viverebene la gioia.

Cominciamo intanto a vedere se lasofferenza o il dolore siano in qualchemodo definibili. Credo non sia né giustoné opportuno cercare di definire il doloreperché esso è un evento che tutti abbiamoprovato, molti di noi ci hanno convissuto

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e ci convivono attualmente, molti lohanno incontrato e lo incontrano quasiquotidianamente per la strada. Allora,siccome è un fatto personale,affermiamo che il dolore è unacosa che tutti possiamoavere dentro in misura econ intensità differenti.

Possiamo comunquedistinguere un doloredel corpo e un doloredella mente. Comepossiamo definirli? Ildolore del corpo hasempre una sede pre-cisa: ci fa male il torace, cifa male il fegato, pensiamodi avere un tumore all’inte-stino [...]. Il dolore dellamente invece non ha sede,avvolge tuta la persona e coin-volge l’io nella sua interezza.

Questa è una descrizione deldolore semplificata: il dolore viene poielaborato e metabolizzato dalle nostrepersone fondamentalmente, in correlazio-ne con una differente visione dell’esisten-za: quella basata sulla trascendenza equella basata sull’immanenza.

Questa è una elaborazione che portaalcuni a desiderare di soffrire per un idea-le molto alto o per un Dio, fino addirittu-ra ad arrivare all’estasi del dolore.

Altri si concentrano soprattutto nelpensare che la sofferenza passa per luoghispecifici che ben conosciamo: posti desi-gnati ad accogliere la sofferenza. Gliospedali, i cimiteri, le prigioni, i manico-mi, le sedi dello scontro bellico, i lager.

Tuttavia anche la visione più immanenteci obbliga ad elaborare

questa sofferenza.Allora il primo

passo etico, anchedi chi non crede nellatrascendenza è lap a r t e c i p a z i o n evera, reale alla sof-ferenza. E’ questoil tentativo chedobbiamo fare con

noi stessi per vederese siamo capaci di soffrirecon gli altri, perché sesoffriamo con gli altri,gli altri soffrono con noi.A volte anche nelle

famiglie si consumano tra-gedie silenziose, diventanoghetti dove c’è il massimo

di violenza e di sofferenza.Anche chi non crede, chi non ha la

fede, chi non pensa che saper soffrire pre-para al dopo, deve comunque avvicinarsial dolore con un’altra forza: non quelladel paradiso dove si arriva prima soffren-do sulla terra, ma quella della speranza.

Crediamo con la nostra opera umana,con la vicinanza ai nostri simili, che sipossa offrire speranza. Allora il binomiodolore-speranza diventa etico: si parteci-pa al dolore sperando che questo possaessere sconfitto intervenendo nei ghetti,nelle famiglie, negli ospedali, nei manico-mi, nei campi di guerra.

Comunque non c’è dubbio che il dolorevada combattuto, anche se quello dell’esi-stenza sembra praticamente ineliminabile.

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C’è una bellissima storia vera di unaragazza che è vissuta in una comunità pertossicodipendenti vicino Viareggio; unaragazza che incontra l’eroina per laprima volta a 13 anni, la madre si staprostituendo, lei comincia aprostituirsi perché non ce lafa più a mantenere l’obnubi-lazione dell’eroina. Questaragazza con il corpo e l’animadilaniate incontra un altro tos-sicodipendente e resta incinta.Questa ragazza si chiamaAngela ed è una ragazzareale, non è immaginaria. Lafiglia di Angela nasce mentre la madre“si faceva” e quindi questa figlia vienealla luce già tossicodipen-dente, deve essere disin-tossicata e allora vieneaffidata a una coppia dipersone benestanti, perso-ne della media/alta bor-ghesia che naturalmente silegano a questa bambina.La madre fa il suo percorso drammaticoall’interno della comunità e sembra cheormai sia matura per prendersi la figlia.Ma la famiglia benestante mette in mototutti i meccanismi per impedire che ci siaquesto ricongiungimento. Allora comin-cia un altro percorso di dolore inutile. Unnoto psichiatra viene coinvolto in questatriste avventura e comincia a parteciparealla sofferenza di Angela. E sentite cosascrive quando si sente scoraggiato perchénonostante gli sforzi non riesce a vincerequesto rapporto forte tra la famigliamedio borghese e il giudice minorile:

Per molti anni ho sofferto ma ho lottato,ora avverto ancora più forte il dolore marimango fermo e se mi muovo sentoacciacchi dappertutto e un sorriso intor-

no a me che mi ridicolizza. E’ doloreetico il mio – scrive Vittorino Andreoli

– derivato dalla certezza che vengo-no perpetrate violenze dallebelle maniere mentre tutto

in apparenza si svolgesecondo una liturgia che

rende assurdo lo sdegno evana ogni lotta, una lotta con-tro i mulini a vento. Soffro

perché non so accettare l’in-giustizia, non so lasciare ideboli da soli mentre ilpotente idiota vince con il

sorriso del giusto, il sorriso di chimangia il Corpo del Signore ogni

domenica e poi lo vomita comeun rospo indigesto. E allo-

ra grido con la voceafona e i polmoni ormairigidi capaci solo disospirare e non dicomandare e cerco dicontrollare il mio dolo-re, di non sentirlo, didistrarmi. Il controllo

del dolore, una anestesia per vedere soloil buono e non il malvagio, il sorriso enon la pugnalata, una selezione per noninorridire, per non farmi piaga immaneperché immani mi sembrano l’ingiustiziae la sofferenza provocate per capriccio.

Penso che sia una delle descrizioni piùintense del dolore psichico che una per-sona possa provare.

Allora, c’è spazio per la gioia in questomondo? Io credo che ci sia spazio nellagioia se cerchiamo di distinguerla e didefinirla in maniera opportuna. E’ possi-bile distinguere fondamentalmente due

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tipi di gioia: una, quella che viene datadai sensi, che dobbiamo defini-re piacere, non è gioia,perché il piacere è tempo-raneo, è rapido, scom-pare e non c’è più.Invece la gioia è qual-cosa che riguarda lasoddisfazione chepossiamo derivare danoi stessi, dai nostricomportamenti, dallanostra storia.

Riporto un mio pensiero perso-nale:

La gioia è una sensazione interiore cheemerge da un confronto interno a ciascu-no di noi, entro il nostro io, un confronto

tra ciò che siamo e ciò che vorremmoessere. E’ lo sguardo al nostro pas-

sato, quando si trova unacoerenza ai principi senzacompromessi; la gioia non

è l’assenso dell’altro madi noi stessi, giudici

implacabili che cono-scono perfettamente ilfatto e l’omesso, ricor-

dandomi sempre che, tra ipeccati che abbiamo

imparato a conoscere dapiccoli, il peccato di omis-sioni è il più importante.

Il non desiderio di intervenire, dinon dire la sua propria conoscenza e

convinzione è il peccato omissivo. Lagioia è quella tacita approvazione per ilproprio comportamento quando non èguidato dalle strategie del successo, dauna gara in cui conta essere giunti primi.

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Aspetti socio-culturali della felicità

di Gilberto-Antonio Marselli*Università di Napoli

Starting from the concept of deonthology introduced by Jeremy Bentham in the fra-mework of a basically utilitarian doctrine, the Author discusses the complex pro-blems concerning the direct relations between society and scientific research. Healso enters the difficult subject of the dialectic between scientific and humanisticcultures. Then the Author reflects on the progressive change of meaning in the verycase of the idea of welfare.

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NNel trattare il tema affidatomi,non posso ignorare che questasessione è inserita nell’ambito

del programma dell’intero meeting, dedi-cato ad un problema assai più vasto ecomplesso quale il Diritto alla Felicità.

Non nascondo di aver un qualcheimbarazzo nel presentare in questa vestela mia posizione. Infatti, visto che si erapreferito adottare la modalità della “tavo-la rotonda”, sarebbe stato più opportunoed anche più interessante dar conto pun-tualmente delle diverse posizioni emersenel suo corso. In altri termini, riprodurre,anche nel testo scritto, quel “dialogo” che

è l’essenza stessa ed irrinunciabile di ogniforma di comunicazione di questo tipo.Invece, si è preferito limitarsi a ripropor-re tutta una serie di “duologhi”, che,come è noto, altro non sono se non“monologhi” tra due o più persone, lungorette parallele che, per definizione, nondovrebbero incontrarsi mai.

Preliminarmente, mi sono chiesto qualinessi logici potessero esistere tra il temagenerale di questa Assise massonica - ilDiritto alla Felicità - e quello della nostra“tavola rotonda”.

Molto probabilmente, non dovrebbeesservi del tutto estraneo il fatto che,

* Ordinario di Sociologia, Dipartimento di Scienze economiche e sociali, Facoltà di Economia.

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recentemente, si è notata una rinnovataattenzione nei confronti del pensiero diJeremy Bentham (1748-1832), a cui sideve di aver coniato il terminedeontology1 con il qualedesignava, appunto, la suadottrina utilitaristica deidoveri che, in seguito, hafinito con il rappresentaretutto quell’insieme dinorme etico-sociali chedisciplinano il comportamen-to morale e, più in particolare,l’esercizio di una professione2.

Questa supposizione che, aprima vista, può anche appari-re alquanto strana ed estraneaal tema di cui debbo occupar-mi, mi è stata suggerita da un’at-tenta recensione, a cura di ArmandoMassarenti3, di due opere di questo autorerecentemente edite in Italia4.

In quella sede, Massarenti si rifacevaacutamente ad un frammento autografodi questo autore, che avrebbe potuto sem-brare – come lui stesso ha fatto notare-piuttosto uno degli esercizî spirituali diMarco Aurelio, uno di quei passi del suodiario che [...] il filosofo imperatore siimponeva ogni mattina di rileggere perpoter svolgere al meglio il propriomestiere di uomo.

Questo frammento così recitava:

Crea tutta la felicità che sei in grado dicreare: elimina tutta l’infelicità che sei in

grado di eliminare: ogni giorno tidarà l’occasione, ti inviterà ad

aggiungere qualcosa ai piacerialtrui, o a diminuire qualcosadelle loro sofferenze. E per ognigranello di gioia che seminerainel petto di un altro, tu troveraiun raccolto nel tuo petto, men-

tre ogni dispiacere che tu toglie-rai dai pensieri e sentimenti di

un’altra creatura sarà sostituito dameravigliosa pace e gioia nel santua-rio della tua anima.

Imperativi, questi, che tutti si adat-tano perfettamente al nostro tema e, in

particolare, alle infinite implicazioniproprie di una responsabile ricerca scien-

tifica e, quindi, dell’agire del ricercatore.Senza voler minimamente riprendere,

qui, le polemiche che, nel tempo e soprat-tutto in Italia, si sono avute in meritoall’utilitarismo benthamiano, mi interes-sa, però, sottolineare che, nel titolo e nelsottotitolo di questo libro, è brillantemen-te sintetizzato il suo pensiero:

Deontologia o la morale semplificatache mostra come, attraverso l’interocorso della vita di ogni persona, il doverecoincide con l’interesse giustamente inte-so, la Felicità con la Virtù, la Prudenza

1 J. Bentham, Deontology or the Science of Morality, pubblicata postuma da J. Bowring nel 1834.2 Voce “deontologia” in Il Vocabolario Treccani: Il Conciso. Istituto della Enciclopedia italiana,Roma, 1998, p. 438.3 Massarenti 2001.4 Bentham 2000 e 2001.

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nei confronti altrui così come nei propriconfronti con la benevolenza effettiva.

Sempre aderendo alle considerazioni diMassarenti, ne deriverebbe che l’unicodovere di ognuno dovrebbe essere quellodi “aumentare la felicità”. Anchese, in momenti come quelliattuali, ciò può apparireterribilmente utopico senon addirittura cinico,ritengo che proprioquesto debba esserel’angolo visuale dalquale dovremmo porciper trattare adeguata-mente il nostro tema.

In un certo senso, puressendovi un indubbio collegamento trala “felicità”, di cui al tema generale, ed il“benessere” derivante dalla ricerca scien-tifica, non vorrei se ne trascurassero lesostanziali differenze.

Mentre con il primo termine (la “felici-tà”) si rimanda, direttamente ed indiretta-mente ed in misura diversa a seconda deitempi, al concetto di soddisfacimento delproprio piacere ai varî livelli (materiali,immateriali, morali) dell’esperienza quo-tidiana, con l’altra espressione di “benes-sere” (corrispondente all’altro neologi-smo benthamiano di well-being o ben-essere) si entra più incisivamente nelmerito di una questione sociale oggiquanto mai attuale: quella del WelfareState (o, appunto, “Società del benesse-re”) a cui si affidano responsabilità nienteaffatto trascurabili per rendere più vivibi-li le società moderne.

Si tratta di un vero e proprio fronte sulquale, meglio che in qualsiasi altro, si pos-sono misurare, al tempo stesso, sia levolontà sia le possibilità di ogni singolasocietà ad affrontare responsabilmente icrescenti problemi posti dagli infiniti pro-

cessi in atto: da quelli dell’ineludi-bile trasformazione delle societànel segno della modernizzazione

a quelli dell’altrettanto inevita-bile globalizzazione.

Tutti processi per i quali, inun modo o nell’altro, la ricercascientifica è sempre chiamata asvolgere un ruolo niente affatto

trascurabile così come ognisocietà non può sottrarsi alle pro-

prie responsabilità nei suoi confronti,essendo vitali ed ineliminabili i rapportiche devono legare sempre più indissolu-bilmente “società” e “ricerca”.

A tal riguardo, credo che si debbanodiscutere alcuni punti cruciali da affronta-re e, possibilmente, da risolvere nell’inte-resse reciproco dell’una e dell’altra equindi, in sostanza, del singolo cittadino.

Innanzitutto, il definitivo superamentodella dicotomia tra le cosiddette “dueculture”: quella delle discipline speri-mentali e quella afferente al settore uma-nistico-sociale.

Dicotomia che, purtroppo, ha avutodeleterî effetti, in particolare nella nostrasocietà, determinando vere e proprie frat-ture invalicabili tra i cultori delle une edelle altre - laddove, invece, nei Paesi piùmoderni si era già da tempo approdati aduna proficua e fertilissima collaborazioneinterdisciplinare - fino ad influenzare gli

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stessi processi di informazione e forma-zione dell’intera popolazione. Senza con-tare che ciò ha influito non poco anchesull’allocazione deifinanziamenti, deter-minando pericolosiritardi per quei settori menofavoriti, in presenza di limitatadisponibilità di risorse finanziarie,umane e strumentali.

Non meno rilevante è da considerar-si anche l’atteggiamento assuntonei confronti della modernizzazio-ne e, soprattutto, delle reazioni a que-sti processi, che spesso coinvolgonoprofondamente ed irreversibilmente lesocietà interessate.

Una “modernizzazione reale” compor-ta che si siano preventivamente individua-ti gli obiettivi concreti da perseguire, lerisorse realmente disponibili, i tempi daimpiegare per la realizzazione delle sin-gole fasi e, non ultimi, gli strumenti perun periodico controllo dei risultati parzia-li conseguiti di volta in volta. In altri ter-mini, una logica programmatoria.

Purtroppo, come è stato ampiamentedimostrato da molte ricerche, nella nostrasocietà, oltre a pur importanti fenomeni dimodernizzazione reale, si sono manifesta-te, contemporaneamente, anche altre rea-zioni da considerarsi come negative e,quindi, del tutto inaccettabili:

a. modernizzazione negata: rifiuto pre-giudiziale di ogni innovazione o perpaura del nuovo o, peggio, per non volerrinunziare a privilegi spesso illegittima-mente conseguiti;

b. modernizzazione abortita: quella

determinata dall’imitazione acritica epedissequa di modelli esterni per pigriziao, nei casi più gravi, per mera dipendenza,

che non raramentedegenera in vero e pro-prio servilismo;

c. modernizzazione tradita:l’adozione dei modelli esterni

di riferimento è avvenuta automatica-mente, senza tener alcun conto delleloro implicazioni materiali (strutture e

risorse), morali (responsabilità eti-che) e culturali (sistemi di valori

influenti sui comportamenti e suglistessi atteggiamenti).

Ciò ha provocato dannosi squilibrînon solo tra settori di ricerca, ma anchetra le diverse realtà (territoriali, sociali,economiche e culturali) del nostroPaese, rendendo impossibile un semprepiù diffuso raggiungimento di quelbenessere che, invece, dovrebbe esseresempre più patrimonio acquisito di unasocietà realmente moderna.

Naturalmente, analoghe considerazioniandrebbero fatte anche a livello interna-zionale: in presenza della già ricordatainevitabile globalizzazione, non si vedeperché non possano essere fatti tutti glisforzi possibili per limitarne al massimogli effetti negativi e, al tempo stesso, esal-tarne quelli positivi.

Non possiamo, infatti, ignorare chegrazie alle accresciute conoscenze scien-tifiche è stato possibile - come ha fattonotare Robert M. May, Presidente dellainglese Royal Society, al Convegno dellaFondazione Balzan nello scorso maggio2002 - allungare notevolmente la durata

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media della vita umana (mediamente di46 anni mezzo secolo fa, ora di 64), rad-doppiare la produzione di cibo (negli ulti-mi 35 anni, usando solo il10 % di superficie inpiù), alleviare la faticaquotidiana con - inmedia globale - un sussi-dio energetico pro-capite14 volte superiore allenecessità metabolichefondamentali, cioè aquelle che dovevanobastarci ai tempi in cuieravamo cacciatori-raccoglitori5.

D’altra parte, allo stessoautore si deve riconoscere ilmerito di aver prospettato anchel’altra faccia di questa medagliaquando ha fatto notare che: Alcontempo, ci accorgiamo delle conse-guenze negative e inaspettate a dispettodelle buone intenzioni: nei Paesi svilup-pati così come in quelli in via di sviluppo,il miglioramento della salute significache la popolazione continua ad aumenta-re, la “Rivoluzione Verde” ha costiambientali sempre più evidenti, e queisussidî energetici tratti da combustibilifossili (sussidî che, ovviamente, varianomolto da Paese a Paese) stanno modifi-cando il clima globale6.

Tutto ciò comporta alcuni problemi chenon potremo continuare a sottovalutare o,peggio, ad ignorare del tutto.

Innanzitutto, collegare più strettamentetra loro le capacità conoscitive ed operati-ve della ricerca scientifica con un’attiva

consapevolezza delle loroconseguenze sulle realtàconcrete. Da ciò, anche ilchiarire quale uso debbafarsi delle nuove scoperte,delle nuove tecniche e, piùin generale, dello stessoatteggiamento da adottarenei confronti del “non-

ancora-conosciuto”.Naturalmente, si dovranno

adottare questi obiettivisenza, però, mai cedere allatentazione di porre ingiusti-ficabili ed inaccettabili

limiti alla ricerca, che devecontinuare ad essere assoluta-

mente libera. Sia pure sempre affidataall’autonoma valutazione etica da partedel singolo ricercatore. Ovviamente, ciòimplica una crescente responsabilizzazio-ne di quest’ultimo, che, pertanto, dovràessere adeguatamente preparato e formatoad affrontare una così importante prova.

Una diretta conseguenza di questoaspetto consisterà anche nella necessitàche le responsabilità dei ricercatori equelle dei politici siano sempre tenutesostanzialmente distinte, al fine di evitarepersino il sia pur minimo sospetto che visia un’inaccettabile commistione di inte-ressi. Così come ogni sforzo dovrà essere

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5 May 2002.6 May 2002.

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posto in essere per evitare che il sempreproficuo e stimolante confronto tra oppo-ste posizioni degeneri in un’improduttivarissa, mascherante ragioni e fininon sempre confessabili.

Non meno importantisaranno, al tempo stesso,pure le modalità ed i para-metri secondo cui la socie-tà, in tutte le sue compo-nenti, saprà porsi nei con-fronti di quella sempre piùdelicata avventura che è la ricer-ca scientifica in tutti i settori.Essa, proprio perché tale, avrà semprepiù bisogno di valersi di un approcciorealmente interdisciplinare.

Infatti, proprio l’accresciuta complessi-tà delle società moderne postula la neces-sità di un’attiva interazione tra le “dueculture” alle quali ho già fatto riferimen-to: interazione che richiede non solo ilricorso a linguaggi reciprocamente com-prensibili in tutte le loro implicazioni, maaddirittura, sempre quando possibile, l’a-dozione di atteggiamenti convergenti.

Inutile ricordare che, in un tale panora-ma, sempre maggiori saranno le respon-sabilità che graveranno sui varî mezzi diinformazione, sulle diverse sedi nellequali si contribuisce alla formazione dinuovi valori (la nuova Weltanschauungda proporre sia alla società e sia ai singo-li cittadini) e, non meno, sulla capacitàdelle singole istituzioni a saper stare alpasso con i tempi.

Ciò impone l’adozione di coraggiose,esplicite e moderne politiche in grado, altempo stesso, di stimolare e promuovere

nuovi progressi nei vari campi della ricer-ca, di fornire ai cittadini i più opportuni

strumenti perché da spettatori pas-sivi possano trasformarsi in

coscienti compartecipi di unpiù generale processo e,non ultimo, perché, purnon tradendo alcun aspet-to della nostra tradizione,si sia sempre più pronti adaccogliere, sia pure con il

necessario atteggiamentocritico, quanto ci viene propo-

sto quotidianamente dalle nuovericerche e dalle esperienze altrui.

Infine, si dovrà tener conto che, pertutta una serie di circostanze e per fortu-na, muterà anche lo stesso concetto di“benessere”. Da esso dipenderà il livellodi civiltà delle singole società - e, conse-guentemente, dell’intero pianeta - maanche, e non certo secondariamente, ilgrado di responsabilità che, ciascuno perla propria parte, dovranno accollarsi cosìle istituzioni come i singoli cittadini e glistessi ricercatori, in particolare.

In altri termini, si dovrà prendere attoche il modo stesso di essere delle societàmoderne comporta il dover fare sempre iconti con una sorta di insieme di reazio-ni a catena nelle quali ogni effetto ècausa della fase successiva. La sfida chedovremo saper fronteggiare - e, sperabil-mente, anche vincere - sarà quella diessere sempre in grado di poter control-lare tali processi.

E’ fin troppo evidente che una tale pro-spettiva chiama direttamente in gioco iresponsabili delle scelte politiche, che

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dovranno saper gestire adeguatamente ivari possibili scenari futuri, ma anche iricercatori, che, una volta posti nelle con-dizioni ideali per poter svolgere il lororuolo, dovranno dimostrare di essere pie-namente consapevoli delle nuove respon-sabilità loro affidate.

Ma sarebbe drammatico se, da tuttociò, il cittadino si sentisse sostanzialmen-

te escluso, assumendo atteggiamenti diindifferenza se non, addirittura, di scetti-cismo, abdicando alle sue fondamentaliresponsabilità: prima tra tutte, quelladella selezione della classe politica; nonultima, però, anche quella di prepararsiad interloquire adeguatamente con gliuni e con gli altri.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Bentham, J. (2000) Teoria delle finzioni. Napoli, Cronopio. Bentham, J. (2001) Deontologia. A cura di Sergio Comaschi. Firenze, La Nuova Italia.Massarenti, A. (2001) Aumentare la felicità come unico dovere. In Il Sole-24 Ore del 22.04.May, R.M. (2002) L’audience della ricerca. In Il Sole-24 Ore del 19.05.

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Esistenza e felicità

di Sergio MoraviaUniversità di Firenze

The Author offers a phylosophical approach to the definition of “happiness” consi-dered as a figura symbolica. In the western framework, many ideologies consideredhappiness as something actually not existing but to be realized or to be “delegated”.In addition, modern society presents us with a peculiar idea of happiness based onthe satisfaction of externally “inducted” needs. A theoretical definition of happinessis refused by the Author, because it should be represented as a “praxis”, while Heinsists on the necessity of “thinking-about-happiness”. This allows any person toconsider the different times and moments of happiness (in the present, in the pastand in the future as a remembrance of past felicity). In conclusion, the Author focu-ses on the social dimension of happiness and the liminality of it as something appa-rently easy to be caught but also escapable.

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VVorrei aprire queste mie infor-mali considerazioni sulla feli-cità discutendo due assunti che

di solito vengono dati come scontati.Primo, che qualcosa come la felicità cisia, e che abbia un significato eguale eautoevidente per tutti; secondo, che dellafelicità si possa, anzi che sia utile, parla-re. Dichiaro che, mentre sono calorosa-mente d’accordo su questo secondoassunto, ho le più ampie riserve sulprimo. E, per dir le cose come stanno,vorrei avanzare l’ipotesi (forse spiacevo-le) che - almeno sotto un certo profilo - lafelicità non esiste. Una cosa, quando esi-

ste, la si può identificare, la si può carat-terizzare in modi relativamente univoci; equesto non mi pare che valga per la feli-cità. Soprattutto, la felicità non esistecome cosa: non esiste come una cosa chesi possa indicare, visualizzare, toccare.Semmai, la felicità sembrerebbe esisterecome uno stato: uno stato estremamentevariegato e molteplice (una certa situazio-ne può essere felicitante per me e nonesserlo per un altro). In realtà, a mio avvi-so, la felicità non è né una cosa, né unostato: è essenzialmente una figura simbo-lico-culturale. Ed è anche per questo chequando ci viene chiesto “sei felice?” ten-

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N.d.R.: errata corrige. Nel numero di Hiram 1/2003 il prof. Sergio Moravia compare come afferente all’Università diBologna, anzichè all’Università di Firenze. La redazione si scusa con l’Autore per l’errore.

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diamo a rispondere non tanto inmodo immediato, istintivo etutto “nostro”, quanto in base aschemi e categorie in certa misu-ra pre-costituiti.

Se tutto ciò è vero, allora un’a-nalisi della felicità si configuranon come indagine in qualche modofattuale-oggettiva (cosa è la felicità),bensì come riflessione di tipo interpreta-tivo: una riflessione/interpretazioneessenzialmente culturale, legata a tuttigli imprevisti e le complessità chehanno le riflessioni culturali. In effetti,la cultura offre un vasto repertorio didiverse concezioni della felicità: con-cezioni che si sono intrecciate conmolte delle scelte e delle opzioni cru-ciali dell’umanità e della storiad’Occidente. A tal punto che chi simettesse a scrivere una storiadella nostra civiltà dal punto divista delle varie dottrine, ideo-logie, ansie e desideri di felicità scrive-rebbe certamente un’opera assai stimo-lante e suggestiva1.

Esaminando queste concezioni, si puòfare una scoperta sconcertante. Ci si accor-ge che buona parte delle teorizzazionidella felicità elaborate in Occidente sonoin larga misura riducibili a quella che vor-rei chiamare la figura del rinvio. Con ciòintendo dire che per una parte cospicuadell’umanità d’Occidente la felicità si con-figura come qualcosa che non c’è, ma che

dovrà esserci. Si pensi alCristianesimo, al Positivismo, alMarxismo: questi -ismi, pur così

diversi tra loro, hannotutti in qualche mododelineato la felicitàcome una condizione“rinviata”.

Già questo, mi pare, èun dato piuttosto signifi-

cativo. Ma c’è di più. Nellariflessione occidentale lafelicità non solo è un rin-vio, una cosa o uno statoeternamente “rimandato”,ma è anche una cosa o unostato eternamente “delega-to”. In effetti, quando pen-siamo seriamente alla felici-

tà, tendiamo spesso a con-cludere (più o menoinconsciamente) che lafelicità non appartiene

tanto a noi quanto ad altri: a un altrove, aun altro tempo, a un altro spazio, ad altrisoggetti. insomma, sembra quasi che ilsoggetto nella sua concretezza esistenzia-le, l’individuo nel suo darsi effettuale quie ora ritenga di non avere molto a chefare con la felicità: che ritenga di esserein qualche modo escluso da un’adeguataacquisizione e da un’adeguata praticadella felicità. La felicità, ripetiamolo,sembra abitare nell’ordine di un (indefi-nito) rinvio, di una (indefinita) delega.

1 Una bella testimonianza di ciò è fornita dal volume Analisi della felicità del grande studiosopolacco di estetica W. Tatarkiewicz tradotta nel 1985 dall’editore Guida di Napoli.

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Dunque la società contemporanea noncrede troppo nellafelicità, e neparla per lo piùper enigmi, allu-sioni, banaliz-zazioni. Unavolta Theodor W.Adorno ha scrittoquanto è deludente(e preoccupante) con-statare che della felicità,oggi, parlano solo le canzonette e irotocalchi2. Come dargli torto? Comenon essere sconcertati da questa difficoltà(da questo vero e proprio blocco) che ilmondo contemporaneo sembra avere neltrovare modi originali e autentici di enun-ciare quello che resta il desiderio primarioe più intenso dell’uomo?

Accade però una cosa piuttosto singo-lare. Se da una parte la nostra società hacome perduto quello che vorrei chiamareil linguaggio della felicità, da un’altraparte essa sembra occuparsi molto della“felicità” (tra virgolette) dei suoi mem-bri. Il problema, naturalmente, è di vede-re come se ne occupa. Ed esaminandoquesto “come”, non tardiamo a constata-re che si tratta di un modo deludente emistificante: un modo che, ben lungi dalriequilibrare l’assenza del linguaggiodella felicità, finisce per confermarlaanche sul terreno dei fatti.

Come, dunque, si occupa la societàcontemporanea della felicità? Anzitutto

la concepisce in una maniera che defini-rei fattualistica e naturalistica: la felicitàcome una cosa confezionata, che si com-pra e si vende in certi luoghi deputati. In

secondo luogo, la nostra società ritienedi creare la felicità soddi-sfacendo determinate esi-genze, che vengono pub-blicamente accettate elegittimate - ma, nellostesso tempo, bandendo-ne altre, magari in modo

implicito e indiretto. Perfare solo un esempio, si pensi

al fatto che non moltissimi anni orsonodai discorsi legittimi sulla felicità eraescluso quello relativo alla felicità ses-suale. In terzo luogo, la società tende acreare la felicità producendo certi biso-gni e consentendo risposte ad essi. Ciòche resta fuori da tale meccanismo è lacircostanza che molti dei bisogni deiquali la società si occupa non sono forsequelli primariamente e veramente sentitidagli individui. In altri termini, è in granparte vera la tesi per cui determinatinostri bisogni sono solo bisogni indotti(come dicono i sociologi), o fittizi comedirebbero certi filosofi, che non rappre-sentano le autentiche esigenze dell’uo-mo. Naturalmente, le risposte ai bisogniindotti-fittizi non corrispondono ai biso-gni reali, e l’uomo resta infelice malgra-do la sovrabbondanza di pseudo-beni, dieffimeri consumi, di cose multiformi edeterogenee che in realtà non riguardano

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2 Adorno 1971.

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la felicità nel senso profondo del termine.Oltre al modo “fattualistico” e “cosali-

stico” cui ho appena accennato, c’è unaltro modo di trattare/realizzare lafelicità cui vorrei accennare.Esso riguarda la felicitàcome assenza di qualchecosa (per esempio, comeassenza di angoscia).

Sull’eliminazione dicerti fattori perturbanti del-l’esistenza è nata e prospe-rata - come è ben noto - l’in-dustria degli psicofarmaci.Indipendentemente da qualsiasigiudizio sulla validità di questi pro-dotti, ciò che preoccupa è l’interpretazio-ne che di essi tende a dare, in misura cre-scente, la società odierna. Si tratta diun’interpretazione “forte”: lo psicofarma-co viene considerato un agente propria-mente terapeutico di un certo tipo di sof-ferenze: terapeutico nel senso che elimi-nerebbe le cause della sofferenza stessa.E da qui a pensare che lo psicofarmaco“produce” la felicità il passo, come sicomprende bene, è assai breve.

Ora il problema che vorrei sollevare aquesto proposito è il seguente: si può dav-vero affermare che lo psicofarmaco elimi-na le cause della sofferenza(mentale/comportamentale) umana? Onon si dovrà dire piuttosto ch’esso eliminaessenzialmente certi sintomi, certe manife-stazioni, o che magari ottunde solo certiveicoli fisici della sofferenza in questione?Dietro i due diversi assunti impliciti nellemie domande stanno, se ci si pensa bene,due diverse concezioni degli eventi/pro-

cessi esistenziali. Dietro il primo sta la tesisecondo la quale gli eventi/processi esi-

stenziali si identificano con certieventi/processi fisici (per cui

agendo su questi ultimiattraverso gli psicofar-maci si agisce in modoradicale, “eliminati-vo”, sui primi). Dietroil secondo assunto stala tesi secondo laquale gli eventi/proces-

si esistenziali si correla-no con certi eventi/pro-

cessi fisici ma non sonoriducibili a essi, in quanto sono

fatti anche di componenti culturali, simbo-liche, ideologiche.

L’assunto “identitista” di cui sopra sisitua in quel contesto di crescente biolo-gizzazione dell’umano che caratterizza, inmodo sempre più marcato, il sapere con-temporaneo. Una delle conseguenze diquesto orientamento è proprio la pretesadi risolvere i problemi mentali/esistenzia-li con “cose” fisiche agenti fisicamente,come appunto gli psicofarmaci. Nonmolto tempo fa si è saputo che un paio diindustrie farmaceutiche svizzere stannolavorando intorno a una terapia contro latendenza suicida che può insorgere nel-l’uomo. Il presupposto di queste ricercheè, dichiaratamente, che tale tendenza sia(e sia soltanto) il prodotto di una determi-nata causa biochimica. Ora, certo, puòdarsi che in alcuni casi le cose stiano pro-prio così. Ma che dire dei kamikaze giap-ponesi, i quali, durante la seconda guerramondiale si suicidavano schiantandosi

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con i loro aerei contro le navi americane?O che dire dei suicidi di certi ragazzi perun brutto voto a scuola o per una delu-sione amorosa? Il menoche si possa osservare aquesto proposito è che:a) ci sono molte formediverse e irriducibili diazioni suicide; b) nontutte sono legate astati biochimici prede-terminabili; c) alcunedi esse sono spiegabi-li (ed eventualmentecurabili) solo attraverso ilriferimento a contesti nonnaturali ma culturali.

Spero che queste ultime considerazioninon appaiono digressive rispetto al temache ci interessa. E’ abbastanza chiaro,infatti, che la stessa prospettiva psico-antropologica che ha portato qualcuno aricercare la pillola contro il suicidio puòportare qualcun altro a ricercare la pilloladella felicità3. La posizione alternativache vorrei difendere a questo riguardo èche la felicità non può derivare da nessu-na pillola perchè non è (o non è essenzial-mente) uno stato corporeo, ma è unamodalità d’essere simbolico-culturale:una modalità connessa aschemi di riferi-mento che poco hanno a che fare con ladimensione neurofisiologica e/o biochi-mica dell’uomo. La felicità e l’infelicità

degli uomini abitano un piano diverso,che va accostato con procedure non inte-

ramente riconducibili a strategie ditipo fisicalistico. Facciamomolta attenzione, a tale pro-posito, a non confondere lafelicità con l’euforia, o conl’ottundimento di certe sensi-bilità, o con l’appagamentodi certi bisogni. La felicità èuna questione troppo seria

per lasciarla in mano ai medi-ci, ai sessuologi e agli esper-ti di marketing.

Mi si può chiedere, a que-sto punto, di definire inmodo positivo la felicità. In

un certo senso avrei la tenta-zione (e tutti i diritti teorici) di respingerela domanda. “Definire” significa, lo si sabene, porre dei confini. La “de-finizione”blocca/irrigidisce il concetto. E la felicità,che (come si è detto) non è né una cosa,né uno stato fisico, non è neppure un con-cetto. Essa è piuttosto la proiezione di unasomma in(de)finita di desideri, ideali,valori, utopie che ogni singolo uomo inquanto persona esprime in rapporto a unnumero in(de)finito di criteri. Nel campodell’umano le reductiones ad unum mipaiono spesso assai pericolose. soprattut-to a proposito della felicità. Vorrei chenessuno si sentisse obbligato a confor-marsi a un modello pre-confezionato di

3 Come molti sanno, non sto inventando alcuna ipotesi arbitraria. Basti pensare - ed è solo unesempio - ai discorsi fantascientifici (o fanto-esistenziali) che vari anni orsono hanno accompagnato,negli Stati Uniti, la diffusione dello psicofarmaco Prozac (cfr. Kramer 1995).

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più o meno mistificata “felicità”. Vorreiche ogni singolo individuo sentisse ildiritto/dovere di proclamare la sua idea difelicità. Vorrei, insomma, che la feli-cità non si fermassemai in nessuna - purbella - “de-finizio-ne”. E che fossesoprattutto essa, lafelicità, a incarnarequella volontà pro-gettuale e trasforma-trice dell’uomo cheresta per me il segno più peculiare del-l’umano in quanto tale.

Avrei molta vogliadi fermarmi qui.Sento però che, se lofacessi, rischierei dideludere il lettore.Molti di noi desiderano indicazioni inqualche modo operative su come (tentaredi) essere felici. Certo, se dovessi esserecoerente con le cose dette finora, dovreireagire contro questo desiderio: tanto piùche il mercato è pieno di libri che offronole più suggestive ricette per diventare feli-ci (anche se il mondo diventa egualmentesempre più infelice).

Ma i desideri - soprattutto certi deside-ri - non vanno delusi. Non presenterònaturalmente nessuna formula miracolo-sa, ma proporrò solo, come avrebbe dettoBertolt Brecht, alcune “istruzioni perl’uso” (in questo caso sarebbe megliodire per la ricerca, per la costruzione)della felicità.

In primo luogo, bisogna interpretare lafelicità essenzialmente come una

pratica. Della felicità si deve dire quelloche qualche volta si dice dell’amore: chebisogna non tanto dirlo quanto farlo.Così per la felicità: essa va vissuta, va

esperita. Nessunateoria della felici-tà può sostituireun’esperienza difelicità. La prati-ca, e la non prati-ca, della felicità

aprono dimensio-ni dell’esistere che

nessuna riflessione può adeguata-mente sostituire e/o anticipare. Per

questo (o ancheper questo) la feli-cità resta sempreun mistero eun’avventura.

In secondo luogo, è necessario peròvalorizzare anche il pensare-la-felicità.Pensare la felicità significa concentrare lanostra mente e la nostra sensibilità sulnostro sistema di desideri e di valori.Significa (ri)scoprire la pluralità dei pianidell’esistenza e la possibilità di edificareuna vita felice (o meno infelice). Significacapire, nello stesso tempo, la complessitàdegli ostacoli che si frappongono alnostro bisogno di felicità e la non-escludi-bilità di principio di un oltrepassamentodi quegli ostacoli. E significa aumentarela consapevolezza dei rapporti esistentitra le nostre “pulsioni” di (o “alla”) felici-tà e i modelli etico-comportamentali chel’odierna “cultura della felicità” ci propo-ne (o ci impone).

In terzo luogo, bisogna costruire un

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giusto rapporto tra i tempi della felicità.La felicità come pratica reclama un certoprivilegiamento del tempo presente: lafelicità deve essere ricercata peril nostro adesso.D’altra parte esisteanche una felicità dellamemoria: una felicitàdel tempo passato. Sene faccia, peraltro, unuso moderato: il privi-legiamento della rimem-branza potrebbe rivelarsiassai pericoloso. Ne eraben consapevole Nietzsche,quando, nella sua Inattualesulla storia elogiava - con accentisolo apparentemente paradossali - lapositività dell’oblio4. La dimensione delricordo è, non dimentichiamocelo, unadimensione immaginativa, fantasmatica:e i fantasmi possono invadere a tal puntol’uomo e la sua esistenza da rendergliancora più ardua la ricerca/conquista diuna felicità reale.

D’altra parte il tempo passato non deveessere perduto. Esso contiene, e offre, unadimensione di felicità che non può man-care. Proust ci ha insegnato che questadimensione va ricercata con un’intrepida“volontà di sapere”: dare significati alnostro passato significa recuperarlo,riscoprirlo. Si tratta di un recupero chearricchisce il nostro presente e che ci col-lega con memorie capaci talvolta di pro-

durre attimi di felicità. Ma non vorrei quievocare la Recherche proustiana (sarebbeperfino banale). Evocherò invece quel

testo assolutamente straordina-rio della letteraturacontemporanea che èL’ultimo nastro diKrapp di SamuelBeckett5. Krapp è unuomo (anziano) che,per non correre il

rischio di dimenticare ilpassato, ha registrato gli

eventi della sua vita sunastri magnetici. Avviene

però che egli riascolti, sì, queinastri, ma non si riconosca nelle

vicende ivi raccolte. Di qui la suanuova, profonda infelicità. A mio avviso,il testo beckettiano insegna due cose: lanecessità di mantenere certe relazioni conil tempo che fu; e il fatto che questo rap-porto vada istituito non attraverso unaraccolta passivo-meccanica di fatti, mamediante un attivo impegno esistenziale-emotivo-interpretativo. Il senso deglieventi che-sono-stati deve essere rivisita-to e, per così dire, rivitalizzato con cura etravaglio personale. La felicità emergeràsolo dalla riconquista di quegli eventipassati - resi cioè pieni di significato - nelpresente in cui viviamo.

E il tempo futuro? Ho cominciato que-ste pagine criticando la strategia del rin-vio della felicità. Ciò non significa però

4 Nietzsche 1974.5 Beckett 1961.

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che di una prospettiva futura si possa farea meno. La felicità, anzi, si rapportamolto alla dimensione del futuro in quan-to è chiamata spesso a configu-rarsi come forma progettua-le, come suggerimento diuno scopo. Sotto tale pro-filo, inclinerei a vederenella felicità una sorta diidea regolativa: un puntodi riferimento che noiidealmente vediamo dinan-zi a noi stessi, e al qualeispiriamo la nostra vita.

In quarto luogo, la felicitàva vista in larga misura -anche se non soltanto - comeuna dimensione sociale.Probabilmente, in una situazionestorico-esistenziale diversa dalla nostraattuale avrei privilegiato piuttosto ladimensione individuale. Oggi, no. Oggicredo che dobbiamo ri-abituarci, ancheper la nostra felicità, a una vita associa-ta. E ciò per il duplice motivo che laricerca della felicità è divenuta un’impre-sa così ardua da esigere una partecipazio-ne meta-individuale, e che la felicitàmedesima è un valore implicante semprepiù una forma di soievolezza, di affettivi-tà sociale. La solitudine, spesso, generamostri. L’amore, l’amicizia, sono tuttisentimenti o stati interpersonali rinviantia quell’unità, così sentita nel mondogreco, per la quale l’uomo era definito unanimale “politico”.

La ben nota espressione aristotelica vapresa in modo pregnante. Sollecita anziuna postilla che potrebbe configurarsi

come una quinta istruzione per la ricercadella felicità. Alludo, per riprendere il ter-mine di Aristotele, alla ineliminabile poli-

ticità di questa ricerca. La cre-scente barbarie del mondopubblico induce molti adaccentuare la dimensionepsico-esistenziale privatadella felicità. E’ un errore. Ilsoggetto umano non è - oggimeno che mai - un soggettoab-soluto, cioè sciolto,autonomo. Esso vive, alcontrario, in una rete disistemi sociali che lo con-

dizionano in modo assaiprofondo. Non siamosoltanto individui: siamo

anche figli, fratelli, mariti, padri, cittadini.Orbene, le relazioni alle quali tali paro-

le rimandano ci obbligano a fare i conticon il mondo, con il mondo politico insenso lato. L’esortazione, allora, è di nonfuggire da questo mondo, ma di cercare ditrasformarlo per viverci meglio - in modopiù felice. L’“oltre” al quale spesso amoriferirmi dev’essere interpretato noncome una sfera alternativa al qui e ora,ma come una sfera che si rapporta criti-camente al qui e ora.

Progetto, trasformazione, politicità: staqui riapparendo, forse inopinatamente, lamia anima razionalistica e illuministica.Per essa la felicità è un’impresa semprepossibile. Io credo però di avere ancheun’altra anima: un’anima legata al pensie-ro che è stato definito tragico-“negativo”.Per tale pensiero - con il quale ha solida-rizzato tanta parte dell’arte otto-novecen-

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tesca - la felicità, come ho detto all’inizio,non esiste. Se e quando esiste, si dà soloper illuminazioni, estasi, epifanie; e l’uo-mo - fatta eccezione per gli uomini di fede- non deve illudersi di poterla conquistarecon mezzi di routine. Ascoltiamo conattenzione questo messaggio: Rimbaud eProust, Joyce e Virginia Woolf,Strindberg e Kafka ce lo hanno consegna-to intermini estremamente persuasivi.Non mi si chieda, ora, una sorta di media-zione pacificatrice tra i due orientamenti(le due “anime”) che ho evocato sopra.Lasciatemi invece esprimere la mia ulti-ma opinione sulla felicità con i versi di unpoeta, Eugenio Montale, che mettereivolentieri tra i massimi filosofi morali delnostro tempo:

Felicità raggiunta, si camminaper te sul fil di lama.Agli occhi sei barlume che vacilla,al piede teso ghiaccio che s’incrina,e dunque non ti tocchi chi più t’ama.

Montale, da Ossi di seppia

Con queste parole Montale ci consegnaun’interpretazione della felicità che a mepare la più vera, la più profonda - e, insie-me, la più inquietante. Qualcosa come lafelicità esiste: ma esiste nella forma dellaprecarietà, dell’esserci-quasi, del rischioognora incombente del non-esserci-più.Ed esiste, inoltre, nella forma della fragi-lità e del mistero: qualcosa che deve esse-re accostata con infinita delicatezza, pena,altrimenti, la sua dissoluzione.

Cerchiamola, dunque, questa felicità,che si profila reale eppure enigmaticadinanzi a noi. Ma cerchiamola semprecome una realtà epifanica ed effimera,sempre pronta a dileguarsi per riapparire,inafferrabile e sorridente, più in là: forsepiù la felicità da raggiungere che felicitàraggiunta.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Adorno, Th.W. (1971) Introduzione alla sociologia della musica. Torino, Einaudi.Beckett, S. (1961) L’ultimo nastro di Krapp. Milano, Mondadori.Kramer, P.D. (1995) La pillola della felicità. Firenze, Sansoni.Montale, E. (1981) Ossi di seppia. In L’opera in versi. Torino, Einaudi.Nietzsche, F. (1974) Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Milano, Adelphi.Tatarkiewicz, W. (1985) Analisi della felicità. Tr. it. Napoli, Guida.

71Esistenza e felicità, S. Moravia

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La cultura della felicità

di Bent Parodi di BelsitoGiornalista

First of all, in order to understand the original basis and meaning of happiness it isworth making a distinction between the word (“happiness”), which is different forany language and culture, and the correspondent inner condition of everyone’s soul.In the ancient Greek world, eudaimonia was used as “good destiny”, or literally as“having a good demon”. In the Roman society, felicitas, which is the model for theItalian “felicità”, was a reprisal from an archaic rural lexicon: it defined the fertilityand the trees which produced many fruits and were called felices arbores. In the sameway, in the Italian Neo-Latin culture, happiness should be identified with a state offecundity or onthological profusion. Nevertheless, if we apply a deeper philosophicalanalysis, the best definition of happiness has been given in the Indian karma-yoga,which introduces to the “ethic” of the action without any personal interest and madeonly because of the fulfilment of duty and the accomplishment of a personal will.The law of desire, always present in everyone’s life, is a limit for the diffusion of anauthentical culture of happiness.

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IRAME’E’ naturale che ciascuno aspiri

alla felicità. E tuttavia non èinsensato chiedersi che cosa

esattamente debba intendersi per felice ein che modo ricerchi una tal condizione.Precisiamo subito, come i dizionari difilosofia ci mettono in guardia, la frequen-te confusione tra la felicità, che attieneallo stato umano individuato e, dunqueanimico, e la beatitudine, che è dell’ordi-ne transumano e perciò spirituale.

Sarà bene sgombrare il campo facendoun pò di chiarezza. In verità, l’uomomedio cerca gratificazioni in serie dall’i-nizio alla fine della vita scambiandole perla felicità. Né il frenetico ritmo della vita

quotidiana contribuisce a sciogliere l’e-quivoco. E d’altra parte l’equivoco èormai radicato in tutta la storia dellacosiddetta civiltà occidentale. Persino ipreti cristiani spesso confondono l’anima(personale) con lo spirito (impersonale) e,in genere, i due termini sono ritenuti verie propri sinonimi quasi per fatale frain-tendimento dell’ecuméne cristiana. Sitratta di nozioni ben diverse e tuttaviasuscettibili di interrelazioni dialettichestante la radicale unità del Reale.

Converrà, anzitutto, risalire alle originidecisive del linguaggio: se beato con laradice BE suggerisce il significato arcai-co di “bene realizzato”, “che si è inverato

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nel bene”, il latino felix di là dall’odiernosenso figurato ha originaria valenza con-creta al pari dei corradicali fecundus efetus, foemina e filius, dell’affine laetus.Si tratta di termini tuttilegati all’antico lessicoagrario dei Latini. Felix,prima di assumere valorefigurato, aveva un sensostrettamente connesso alciclo vitalistico: “fecondo,fertile, fruttifero”. Così,ad esempio, erano dettifelices arbores (Livio)gli alberi che davanomolti frutti al contra-rio degli infelicesarbores, alberisterili, che nondavano frutti. Tellus frugibusinfelix (Virgilio), ovvero “terra non adattaalla coltivazione del grano”, è un altropasso letterario illuminante.

Vediamo allora quale sia stata l’evolu-zione semantica di queste nozioni. Dallafecondità di segno magico si è passatiall’ambito etico: felicità e letizia hannoassunto il valore di contentezza sia insenso augurale (da qui i nomi personali adesse collegate) sia in termini di effettivaattualità.

Per la legge di equivalenza che salda ivari piani del Reale anche l’uomo parteci-pava del destino dell’albero, come l’albe-ro egli poteva essere fruttifero o infruttife-ro e nel significato del primo cristianesi-mo la felicitas fu propriamente la condi-zione di coloro che erano stati illuminatidal messaggio evangelico.

Chiarita la dimensione semantica è orail caso di tornare agli interrogativi inizia-li: che cos’è esattamente la felicità? Chi

deve essere felice? O, piuttosto,qual parte di noi? O detto in altro

modo: l’anima o l’Io, lospirito o il Sè. Abbiamogià chiarito che il riferi-

mento, in senso corretto, va aduno stato di fecondità ed

auspicabile pienezza chenulla ha, in realtà, a che

vedere con i beni materiali.Bisogna solo stare attenti a nonconfondere l’incerto ordine ani-mico con quello spirituale. La

civiltà indiana, ad esempio, èmolto attenta in questa distinzione.

Nell’anima è ancora presente il disor-dine, essa tende per naturale aspirazio-

ne allo Spirito (l’AÚtman indù) che peressenza è identico all’Assoluto (ilBrahman). Desideri, dolori, passioni epiaceri sono presenti nel tessuto animicoil cui destino evolutivo consiste in unaprogressiva spiritualizzazione che inOccidente già ben seppero cogliere gliantichi Greci, platonici e neoplatonici.

Questo sforzo di risalita dell’animaverso lo spirito, seguito a fatali ricaduterisulta - ad esempio - ben evidente in unosplendido passaggio delle Enneadi ploti-niane (IV, 1-4):

[...] Chi sa quante volte, destandomi almio vero essere dal sogno corporeo edestraniandomi a ogni altra cosa, nell’inti-mo di me stesso, ho la visione di unameravigliosa bellezza e credo, alloracome non mai, di appartenere ad un più

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alto retaggio; attuando una più altaforma di vita e immedesimato con la divi-nità e basato sul suo fondamento, eserci-to, allora, un’attività che mi innalza al disopra di ogni altro essere dello Spirito:dopo questa quiete in seno al divi-no, disceso dallo Spirito allariflessione, cado nella perples-sità: come mai è possibile,ora questa discesa? [...].

Il pensiero indù, e inparticolare l’AdvaitaVed˝nta, saprebberorispondere al saggioPlotino: la ricaduta è resapossibile per le urgenzedell’Io che non rinuncia allesue terrene pretese, che si estrin-secano in fame di continui desideri,subdoli talvolta perchè apparentementevolti ad una spiritualità di superficie.

Per raggiungere una condizione diautentica felicità (feconda) occorre innan-zitutto acquietare la mente con la qualel’Io si fa sentire, bloccare il manas.Uccidi l’Io, uccidi il desiderio, tale sareb-be l’accorato appello che ci verrebbedall’India.

Per ottenere la felicità è anche disponi-bile una buona tecnica. Patañjali, codifi-catore dello yoga classico, ce ne descriveil progressivo cammino, che è anche - edanzitutto - un itinerario verso laLiberazione mirante a realizzare lo statodel j^vanmukti (quello del “liberato invita”). Vediamone i passaggi salienti: siparte dalla cittavr≥ttinirodha, propriamen-te “l’arresto del turbinio mentale”,comando interiore finalizzato a rasserena-re la mente; utile esercizio di autocontrol-

lo è poi l’ek˝grat˝, letteralmente “fissa-zione in un sol punto”. La mente si racco-glie tutta attorno ad un sol oggetto del

pensiero, più o meno astratto. Si trat-ta di un utilissimo allena-

mento in vista degli ulte-riori passi previsti

dallo yoga. Essi sonoin progressione la

dh˝ran˘˝, “la con-centrazione”, poi ladhy˝na, modellostorico dello Zen,

“la meditazione” o“contemplazione”, la

quale infine si risolvenel sam˝dhi, “l’estasi”, che

è stato ineffabile di contestua-le compresenza universale nella coscien-za del “contemplante”. E’ questa la via dichi intende perseguire la realizzazionetramite la via metafisica, intellettualistica.

E’ dunque chiaro a questo punto dellanostra indagine che realizzarsi equivalead essere felici nel senso alto della parola.Ma se le norme propedeutiche sono uni-versalmente valide, non tutti hanno la pre-disposizione alle vertigini metafisiche delpensiero più astratto. La realizzazione èper lo più attuabile con la glorificazionedel lavoro, con l’impegno sociale rivoltoal bene comune. Ciò oltretutto si deve allestesse condizioni di vita in cui è costrettol’uomo occidentale. A questi si adattaperfettamente il karma-yoga o “yoga del-l’azione” magistralmente descritto nellaBhagavad G^t˝, il “Canto del beato”, nelquale il guerriero Arjuna impegnato inbattaglia contro gli stessi familiari, i suoi

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cugini Pandhava, non vorrebbe più com-battere ma è indotto dal suo aurigaKhr≥is≤n≥a, incarnazione del dio Visnu, ascendere sul campo perchè tale è il suodovere di guerriero. Egli deve impegnar-si in battaglia ma senza coin-volgimento, moto o deside-rio dell’animo che, anzi, ha daessere purgato da sovraincrosta-zioni. Anche in questo caso direalizzazione valgono i precettigenerali, compiere il propriodovere con l’“azione distaccatadai frutti del desiderio”, fare ciòche è giusto per puro spirito didovere in modo del tutto disinte-ressato (phalatra¢navairagya).

Se la conoscenza delDivino è il télos supremodell’uomo, il suo fineessenziale, diverse in detta-gli possono risultarne lemodalità realizzative. Nello specifico lin-guaggio libero-muratorio si tratterebbe diuccidere i tre cattivi compagni, assassinidi Hiram, il mitico architetto del tempiodi Salomone, modello archétipo disapienza misterica. La parola si è infattiperduta perché lungo l’ardua strada dellaconoscenza hanno esercitato le loro artinefaste l’ignoranza, l’ambizione e ilfanatismo. Sono proprio i tre vizi capitaliche offuscano la visione della Luceincreata e che l’iniziato esemplare dovràriuscire a debellare se vuol raggiungere lamaestria autentica.

Il Massone dabbene impegnato nellavoro collegiale, nella sinergia di gruppodella sua Loggia, dovrà ispirarsi al

modello eroico di Arjuna, simbolicamen-te proteso a combattere l’entropia percreare neghentropia, lottare contro le

tenebre per riportare la luce, trarrel’ordine dal caos informe.

Ma come direbbe Osho(Yoga: la scienza dell’anima.Milano, Mondadori 2002, pp.238-239):

Come prima cosa devi cono-scere di essere tu la fonte ditutta la felicità che ti accade. Insecondo luogo: “Cos’è questa

fonte?”. Come prima cosa è suf-ficiente questo: tu sei la fonte della

tua felicità. E in secondo luogo,cos’è questa fonte nella sua totalità,

questo purusha, questo Sé inte-riore [...] Quando conosci questafonte nella sua totalità, hai cono-

sciuto ogni cosa. A quel punto l’u-niverso è all’interno, non solo la

felicità. A quel punto, tutto ciò cheesiste dentro di te, non solo la felicità. Aquel punto Dio non è da qualche parte,seduto tra le nuvole, esiste dentro di te. Aquel punto tu sei la fonte, la fonte da cuiha origine ogni cosa. A quel punto tu seiil centro.

E quando tu diventi il centro dell’esi-stenza, quando sai di essere il centro del-l’esistenza, ogni infelicità svanisce. Oral’assenza di desiderio diventa spontanea.Nessuno sforzo, nessuna lotta, nessunaconservazione sono necessari. E’ così: èdiventata una realtà naturale. Non laspingi né la tiri. Ora non esiste un io chepossa tirare o spingere. La lotta crea ego.Se lotti nel mondo, si creerà un ego gros-solano: “Io sono qualcuno, ho denaro,prestigio, potere”. Se lotti dentro di te, sicrea un ego sottile: “Io sono puro, sonoun santo, sono un saggio”, ma l’io persi-ste nella lotta. Per cui esistono egoisti

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molto pii che hanno un ego molto sottile.Forse non sono persone mondane. Sonoal di là della mondanità, ma la lotta rima-ne: hanno realizzato qualcosa. E quellarealizzazione porta ancora con sé l’ulti-ma ombra dell’io.

Per Patanjali il secondo eultimo passo dell’assenza didesiderio è la totale scom-parsa dell’ego. Pura naturache fluisce. Nessun io, nes-suno sforzo cosciente.Questo non vuol dire che tunon sarai cosciente: saraiperfetta consapevolezza, manon sussisterà sforzo alcunoper essere cosciente. Non esisteràalcuna consapevolezza dell’essenzadel Sé, ma consapevolezza allo statopuro. Hai realizzato te stesso e l’esistenzaper ciò che è.

Dunque il segreto della via iniziatica è“l’azione senza azione” (il wou-wei deitaoisti cinesi), l’azione disinteressata edepurata da ogni desiderio personalistico.Non è facile perché anche fra gli iniziatisussistono ambizioni, invidie ed altri motiprofani dell’animo. Ma tant’è, nulla dinuovo sotto il sole dacché l’iniziazione haper sua natura propensione escatologica.E d’altra parte non si può non ricordare ilmonito di Platone: Perchè molti portanoil tirso, ma pochi sono bàcchoi [...](Fedone, 69, c).

Dovremmo imparare, almeno ognitanto, a tacere poiché non esiste ego in unsilenzio profondo, l’ego difatti esiste solo

quando siamo agitati. E’ parte, come dire,della malattia. In realtà, quando siamototalmente calmi e quieti, l’io non esiste.

Ma più siamo agitati, maggiore sarà lasensazione dell’ego. L’ego è

uno stato della mentedisturbato, ammalato,L’ego non è indice disalute, ma di malattia.Ne diventiamo consa-pevoli solo quando nonviviamo in armonia

totale. Quando sia inarmonia, viviamo, ma non

esiste l’io, non abbiamoalcuna sensazione dell’io, esiste

solo “l’esistere”, l’essere è presente maprivo di un centro.

Dobbiamo ancora imparare molto: quelche accade nel mondo è solo una proie-zione di ciò che accade dentro ognuno dinoi; ciò che noi siamo, quello è il mondo:quel che conta, d’urgenza prima che siatroppo tardi è una rivoluzione interiore.Dobbiamo cambiare radicalmente mododi pensare, attingendo alle parti miglioridella nostra spiritualità più profonda,ripudiando le manifestazioni più superfi-ciali e interessate. Anche da questo dipen-derà il futuro dell’umanità.

Riguardiamo al nostro passato piùsignificativo, prendiamo esempio dal-l’ammonimento orfico:

Sono figlio della Terra e del cielo stel-lato: da uomo sono diventato un dio.

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Il diritto-dovere alla felicità

di Paolo RennerIstituto di Scienze Religiose, Bolzano

The human being feels happiness as a natural search for fulfilment. This means thathappiness is a very strong movement, which opens people to the experience of tran-scendency and of the mystery. Religions say also that people have the right to behappy, not only the duty of serving gods. But real and full happiness may be foundonly in the act of giving hope and help to other people. Only by giving we may getwhat we need in order to be in the very joy. In this sense, Christian religion says –in a different way as Religions of the Far East do – that we have to love our life andour earth and try to reach a first experience of happiness in this existence too. Andthe Biblical God explains that He feels the duty to help people in reaching not onlylittle and trivial kind of happiness, but the eternal one.

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Gentili Signore, Carissimi Amici,

SSono davvero felice - per stare intema con il nostro argomento -di essere di nuovo qui tra Voi.

Sono felice di proseguire un dialogo ini-ziato ormai da diverso tempo. Sono feliceche quest’anno non mi abbiate presentatocome gesuita. Sono ancore più felice dinotare le nuove aperture che il GranMaestro Raffi ha voluto realizzaremediante il progetto di Radio GOI che ciè appena stato presentato. Sono peròanche felice che l’intervento dell’amicoSergio Moravia termini proprio là dove iomi ero riproposto di iniziare il mio inter-vento, ovvero dalla fragilità della felicità.

1. ll diritto alla felicità come tensioneche apre l’uomo al mistero

Un proverbio tedesco recita:

Glück und Glas, wie leicht bricht das!(La fortuna e il vetro, quanto son fragili!)

Goethe invece si riferisce alla ricercaantica che ruota intorno al tema del Devita beata - che appassionò pensatori siaclassici sia cristiani - per esprimere la suaconvinzione che la felicità sia più prossi-ma all’uomo di quanto egli non vogliacredere nella sua permanente inquietudi-ne creativa e di indagine:

Willst du immer weiter schweifen?

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Sieh das Gute liegt so nah.Lerne nur das Glück ergreifenDenn das Glück ist immer da.(Vuoi sempre procedere nel fare?Guarda che il bene ti è già così vicino.Impara a cogliere la felicità,perché questa è sempre qua)

Goethe, Lieder: Erinnerung

La fragilità del vetro e dellafelicità è comunque anchecollegata con la trasparenza.Infatti la grande felicità(come però anche il suoopposto: la profondadesolata tristezza, similead un pozzo dal cuifondo si vedonomeglio le stelle)apre a porsi alcunedomande, apre almistero. La sensazione inebriante di eter-nità, di chiarezza mentale, di potere cheviviamo nei momenti – seppur fragili –della nostra felicità, ci invita a guardareoltre il muro della quotidianità, a lanciareil cuore oltre la siepe dell’ovvio e delbanale, per incontrare il mistero grandio-so dell’eternità. Nella sua trasparenza lafelicità ci offre modo di fare un’esperien-za di trascendenza, anzi quell’esperienzadi trascendenza che ci rende pienamentepersona.

Scriveva a tale proposito il grandeAgostino:

Una vita di felicità non è forse ciò chetutti vogliono e che nessuno rifiuta? Madove mai la si è conosciuta per desiderar-la tanto? Dove mai la si è vista, per esser-ne così attratti?

Per lui dunque la felicità è tensione almistero, ma anche provenienza dell’uomodal Mistero che è Dio. Proprio perchéscintilla divina l’uomo fa l’esperienza tra-gica della felicità. Tragica, perché non si

tratta mai di un possesso madi un fruire necessaria-mente destinato al fluire.

Essenziale è dunquequesto tema per la religione,

come vogliamo vedere nelpunto successivo.

2. Religione e felicità

Vorrei fare un’affer-mazione un po’ azzardata,per la quale chiedo con-senso all’amico Silvio

Calzolari, presente in sala e profondoconoscitore di queste tematiche: la felici-tà vera può essere concepita solo nellereligioni abramitiche. Le religionidell’Estremo Oriente invitano infatti l’uo-mo a superare l’illusorietà del mondo pre-sente, quella m˝y˝ che inganna i nostrisensi, mentre in realtà non esiste neppureil nostro “io”. La felicità consiste dunquenel “lasciarsi andare”, nel rinunciare adavere, ad odiare, a desiderare, in modo dafavorire la liberazione dal ciclo delle rina-scite e l’ingresso nel Nirvana. Le tre reli-gioni monoteistiche sono invece incentra-te sul Dio che ama la terra, che è assentealla vita terrena – e non solo ultraterrena –dell’uomo. I credenti dell’Ebraismo, delCristianesimo e dell’Islam sono dunqueinvitati a cercare la felicità terrena (con le

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caratteristiche di cui sotto parlerò), viven-dola come un elemento di quel “già e nonancora” che caratterizza la nostra espe-rienza contingente. E’ dunque quanto maiantibiblico lo schema che chiede dirinunciare alle gioie terrene invista di quelle eterne. La reli-gione non vuole essere anzi-tutto tutela dal peccato e viadi mortificazione, quanto pro-posta di felicità, ma di felicitàintegrale. Sapendo che la feli-cità piena non si consegue nellastoria, le religioni monoteisticheinvitano tuttavia l’uomo di tutti itempi a non prendersi troppo sulserio, a saper cogliere la relativitàdi tutto ciò che compie, vive ecostruisce nell’arco della sua vita terrena.

Lo riscontriamo ad esempio nel voca-bolario del Nuovo Testamento, dovericorrono ad indicare un crescendo diintensità i seguenti termini e radici lessi-cali: gioia (59 volte) e rallegrarsi (70volte); felicità/beatitudine (55 volte), (ades.: C’è più beatitudine nel dare che nelricevere [Atti 20,35]) ed anche ilarità (2volte) e gioia irraggiante. I due testi rela-tivi all’ultimo termine sono:

Chi esercita la misericordia lo faccia rag-giando di gioia (ilarotes).

Romani 12,8Dio ama chi dona con gioia.

II Corinti 9,7; Proverbi 22,8 LXX

Da tali citazioni si nota che la felicitàvera sta nel dono, non tanto nel possesso.Una strana felicità testimonia in tal sensoanche San Paolo che invia dal carcere agli

abitanti di Filippi l’appello ad essere sem-pre felici e rallegrarsi in ogni situazione.Questo perché l’apostolo ha presente il

dono ultimo che renderà piena la felici-tà dei credenti, ovvero il con-

testo escatologico dellaparousia dell’Agnellosalvatore, come riportal’Apocalisse di SanGiovanni:

Rallegriamoci e stiamo inletizia perché le nozzedell’Agnello.

Apocalisse 19,7

Qui si ritrovano dueaspetti della eudaimonolo-

gia cristiana: da una parte, laconvinzione che la felicità non vada rin-viata all’aldilà ma che debba essere anti-cipata dall’aldilà; dall’altra, si riscontraquella sensazione già sopra espressa,ovvero che la felicità parla il linguaggiodell’eternità, perché i momenti felici livorremmo davvero rendere eterni.

Eppure qui si impone di tornare a veri-ficare che la felicità non sta nel possessodi qualcosa ma – paradossalmente – nel-l’espropriazione, nella trascendenza inte-sa come uscire da sé per incontrare l’altro.

3. Dal diritto al dovere della felicità

La felicità non è infatti un oggetto dapossedere – checché cerchi di farci crede-re il consumismo e la pubblicità - ma unarealtà da donare. Chi la “consuma” dasolo non riesce a trovarla in pienezza. La

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felicità donata è ciò che rende l’uomo pie-namente se stesso, come sosteneva tra glialtri Viktor Frankl, il padre della logotera-pia, la terapia del senso che egli concepìnon su di un comodo scrittoio manel lager disumanizzante, ovemise a fuoco che la sua digni-tà e felicità personaledipendeva anche – osoprattutto – dalla suaimportanza per gli altri,dalla sua capacità di trova-re la felicità nell’atto diaiutare le persone.Possiamo allora condivi-dere quanto scrive un ano-nimo autore:

Rendi felici gli altri e tiaccorgerai che la felicitàrende felici! La felicità è come l’ombrache ci segue senza che ce ne accorgiamo.E’ una specie di eco che risponde a ciòche doniamo.

E’ un’eco che intensifica però il donofatto, sino a donarci la sensazione di esse-re davvero necessari al mondo ed al pros-simo. E’ quanto registra un detto diCicerone:

In nulla gli uomini sono più simili aglidei, di quando rendono felici gli altri.

Certo, quella del diffondere felicità nonè una via facile. Anche la Bibbia osservache spesso per raccogliere nella gioiabisogna seminare nel pianto (Salmo126,5). San Paolo poi annotava che occor-re non solo saper piangere con gli altri(cosa abbastanza facile, se proprio non si

ha un animo disumano), ma anche ralle-grarsi con chi è nella gioia (Romani12,15). Altrimenti finiremo come il pro-fessore citato da C.S. Lewis nel suo Iquattro amori, che ama i suoi studenti fin-

ché non lo contraddicono e che vieneparagonato a Wotan, il quale crea

Sigfrido ma poi lo fa oggetto diinvidia e lo vorrebbe distruggere.

Vale comunque sempre labella immagine che ci offreMarcel Proust quando osserva:

Dobbiamo essere sempre ricono-scenti a coloro che ci danno un po’di felicità. Sono gli incantevoligiardinieri grazie ai quali fiorisco-no le nostre anime.

Parlare di giardini significaevocare la dimensione della cre-

scita, dell’attesa, della speranza ed infattila felicità è sempre una dimensione cherichiede ricerca e tensione di futuro.

4. La ricerca (pro-tesa in at-tesa) delcristiano oltre la felicità banale

Sosteneva mestamente il grande Henride Lubac:

Dio ci ha fatti per la beatitudine e noimiseramente cerchiamo la felicità;

ove per “felicità” si intendono i “pic-coli piaceri banali” di cui trattava deTocqueville nella sua Storia dellaDemocrazia in America. Certo la felicitàsi nutre anche di momenti intimi e moltosemplici, come ci ricorda la famosa poe-

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sia breve di Trilussa:

Un’ape si posa su un bocciolo di rosa; losucchia e se ne va. In fondo la felicità èuna piccola cosa.

Come sosteneva però ilgrande scrittore cattolicoLéon Bloy, noi siamoinvitati a salire oltrela felicità, ovveroverso quellacompiutezzadi benessereche può consi-stere nella “sha-lom” spesso evoca-ta nei testi biblici.

Ben misere sono aquesto riguardo le felici-tà minime ed egoistiche dicui si accontenta l’homo con-summans, il produttore-consumatore cheresta chiuso nel circolo diabolico del“lavoro-guadagno, pago-pretendo!” Sitratta del tentativo di “conservare” bricio-le di felicità, di strapparle ad altri perfruirne in prima persona o in pochi intimi.Con questo approccio però la vera beatitu-dine sfugge e non si lascia sperimentare.

La felicità è dinamica fortemente pro-tesa in avanti, che vuole cercare e costrui-re. Ne parla con grande passione il nototeologo (questo sì gesuita!) P. PierreTeilhard De Chardin, che nel suo gustosoed agile libretto Sulla felicità descrive tretipologie di persone che si manifestanoall’inizio di un ipotetica scalata alpinisti-ca (gli stanchi, i gaudenti, gli ardenti):

Alcuni rimpiangono di aver lasciato l’al-bergo. Le fatiche, i pericoli sembranoloro senza proporzione con l’interesse delsuccesso. Decidono di tornare indietro.Altri non sono dispiaciuti di essere parti-ti. Il sole risplende. Il panorama è bello.Ma perché salire ancora? Non sarebbemeglio godersi la montagna dove si è, inmezzo ai prati o in pieno bosco? E si

sdraiano sull’erba od esploranoi dintorni aspettando l’ora

del picnic. [Il loro mottosembra essere quello delGaudeamus igitur, cioèdella fruizione di unafelicità intermedia, nonancora però piena]

Altri, infine, i veri alpini-sti, non staccano gli occhi

dalla vetta che si sono giu-rati di conquistare. E

riprendono la salita. Gli stan-chi – i gaudenti – gli ardenti.

Tre tipi di Uomini di cui ognuno dinoi porta il germe dentro di sé, e tra iquali, in realtà, si spartisce da semprel’Umanità attorno a noi.Teilhard De Chardin, Sulla felicità, p. 20

Solo gli ardenti sono incamminativerso la felicità vera, in quanto ne sento-no la luminosità ed il calore e riesconoanche a farne dono agli altri. Il progettocristiano della felicità richiede infatti disaper compiere tre mosse congruenti esuccessive, che Teilhard de Chardindescrive come segue:

Per essere pienamente se stesso e vivente,l’Uomo deve: 1) incentrarsi su di sé; 2)decentrarsi sull’altro; 3) supercentrarsisu di uno più grande di lui.Teilhard De Chardin, Sulla felicità, p. 30

83Il diritto-dovere alla felicità, P. Renner

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Sapendo che tali sue suggestioni posso-no risultare alquanto nebulose, il Nostropassa ad offrire alcune indicazioni con-crete per proseguire su tale cammino:

1. Superare la tendenza al “minimo sforzo”;2. superare la tendenza all’egoismo;3. [...] per essere totalmente feli-ci dobbiamo [...] trasporta-re l’interesse finale dellenostre esistenze nell’avan-zata e nel successo delMondo attorno a noicome i Curie [...] [ma dopoil filmato di radio GOIpotremmo dire anchecome Rita LeviMontalcini] come tutti i pionieri [...]per raggiungere la zona delle grandigioie stabili, bisogna che trasferiamo il polodella nostra esistenza nel più grande di noi.Il che non significa [...] dover compiere cosenotevoli, straordinarie, per essere felici; masolo che, diventati coscienti della nostrasolidarietà vivente con una Cosa grande, ciimpegniamo a fare grandemente lapiù piccola delle cose.

Teilhard De Chardin,Sulla felicità, p. 42

Insomma la felicitàchiede di essere in tensioneverso il compimento ma anche nellaforma della condivisione: solo chi accet-ta di farsi com-pagno di cammino, ovve-ro di condividere il suo pane o la sua ipo-tetica torta con gli altri, potrà sperimenta-re la felicità piena. E’ la visione che ina-spettatamente troviamo anche in AlbertCamus quando afferma:

Ci può essere vergogna nell’essere felicida soli.

5. L’ilarità promessa e donata: la felici-tà dell’uomo, un dovere per Dio

I cristiani sanno di essere depositari diuna grande dono, di quella immagine diDio che Gesù ci ha offerto, chiamandol’Altissimo semplicemente “Abbà”,“Padre”. Il Dio del Nuovo Testamento è

dunque un Dio che manifesta versogli uomini una benevolenza edun’alleanza del tutto nuove, chefondano una speranza certa di feli-cità piena nel suo Regno. Questa

felicità si radica nell’annuncio cheGesù ha vinto la malattia, il maligno edanche la stessa morte. Come memoriale,cioè viva ripresentazione, della sua mortee resurrezione i cristiani celebrano la“dies dominica”, il giorno del Signore chenon è tanto ricordo del passato ma antici-

pazione del giorno senza fine e delbanchetto universale nellaGerusalemme celeste. E’ una visioneche troviamo già nel profeta Isaia,ma che raggiunge piena luce e credi-bilità solo dopo aver incontrato ilRisorto, che deterrifica il nostro futu-

ro e ci invita a sperare in qualcosa dibello, in una pace definitiva, in quella“Shalom” che il Padre ha annunciato. Malasciamoci rapire dalla splendida e gran-diosa visione che Isaia ci ha consegnato:

Il Signore degli eserciti preparerà su que-sto monte un banchetto di grasse vivandeper tutti i popoli, un banchetto di vinieccellenti, di cibi succulenti, di vini raffi-nati. Egli strapperà su questo monte ilvelo che copriva la faccia di tutti i popolie la coltre che copriva tutte le genti.

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Eliminerà la morte per sempre. Il SignoreDio asciugherà le lacrime su ogni volto;farà comparire da tutto il paese la condi-zione disonorevole del suo popolo, poichéil Signore ha parlato.

Isaia 25,6

Nella memoria dellaPasqua di Gesù i preti aveva-no addirittura inventato il“risus paschalis”, una seriedi facezie e battute – a voltesalaci – che venivano rac-contate durante l’omeliapasquale per suscitare l’alle-gria e la speranza del popolocredente. Nulla a che vederecon spettacoli deprimenticome “Il Grande Fratello” (cheho avuto modo di intravedere ierisera per la prima volta). La pesantezza delvivere, l’ignoranza delle persone, la man-canza di fini e di tensioni: non c’è tracciadi felicità vera in un prodotto della TV deiconsumi, che ci porta ad abbrutirci e aperderci nelle piccole e banali felicità,anziché tendere a ciò che vale, anche senon è “tutto e subito”.

Quanto invece la felicità vera, quellache aiuta a trascendere pregiudizi emeschinità, sia radicata nel cuore dell’uo-mo, lo dimostra un’altra immagine coltanei telegiornali di questi giorni.

Alcuni soldati britannici si mettono agiocare a pallone alla periferia di una cittàirachena. Subito escono alcuni ragazzinicon le magliette del Manchester United econ le figure dei calciatori britannici [...] evincono i loro avversari. Anche i titoli

erano volutamente equivoci e spensierati:“Ragazzi iracheni sconfiggono ed umilia-no soldati britannici”.

La felicità, dice il messaggiodi Gesù, passa per la capa-

cità di salvare la dignitàpropria ed altrui, disaper credere nellasostanziale bontà del-l’uomo e nel saper offri-

re il perdono necessarioad andare oltre. Lo scri-veva in questi giorniEnzo Bianchi, prioredella Comunità di Bose:

l’unica arma intelligente èil perdono. Ma ancora il

profeta Isaia può chiuderequeste mie riflessioni con la

rinnovata promessa di un Dio che siautoimpegna a creare per l’uomo un futu-ro migliore, sempre che lui sia disposto acollaborare:

Dice il Signore: Ecco io creo nuovi cieli enuova terra; non si ricorderà più il passa-to, non verrà più in mente, poiché sigodrà e si gioirà sempre di quello che stoper creare, e farò di Gerusalemme unagioia, del suo popolo un gaudio. Io esul-terò di Gerusalemme, godrò del miopopolo. Non si udranno più in essa voci dipianto, grida di angoscia. [...] Prima chemi invochino, io risponderò; mentreancora stanno parlando, io già li avròascoltati. Il lupo e l’agnello pascolerannoinsieme, il leone mangerà la paglia comeun bue, ma il serpente mangerà la polve-re, non faranno né male né danno in tuttoil mio santo monte.

Isaia 65,17ss.

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Il diritto alla felicità nella tradizione costituzionale americana

di Massimo TeodoriUniversità di Perugia

Many Americans, thanks to Thomas Jefferson, think that happiness and theresearch of it is their own right. In the Declaration of Independence (1776), the actthat marks the rising of the new Nation, Jefferson offers different ideas of happi-ness: first he considered it as something similar to virtues and good qualities, thenhe connected it to the condition of “not being grieved in the body and troubled inthe soul”. Because of these reasons, America has been a land of fortune for physi-cians, teachers, psychologists, neurologists, psychoanalysts, sexologists, spiritua-lists, exorcists and gurus, that is, with other words, the mirror of American ten-dency of turning to a third person for finding the solution to their own problems.We can conclude claiming that the American pragmatic style can be disputed onthe basis of their dreamy manners and that the idea of happiness has sometimesgiven “problems” to Americans.

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MMolti americani pensano chela felicità sia un loro diritto,e poiché si aspettano di

vivere in questo stato, quando non lo rag-giungono sono infelici.

Da dove viene un tale sentimento?La risposta, semplice ma rigorosa è che

fu Thomas Jefferson, uno dei PadriFondatori degli Stati Uniti, ad insegnareagli americani che la ricerca della felicitàera un loro diritto naturale. Ed è nellaDichiarazione di Indipendenza preparatada Jefferson nel 1776 che è iscritto acaratteri cubitali questo principio che giàcircolava nel Settecento.

Quella che segue è la parte fondamen-tale della Dichiarazione:

Consideriamo evidenti queste verità:che tutti gli uomini sono creati uguali edotati dal Creatore di certi diritti inalie-nabili, tra i quali la vita, la libertà e ilconseguimento della felicità; che perassicurare questi diritti, vengono istituititra gli uomini governi, i quali attingono iloro giusti poteri dal consenso dei gover-nati; che, ogni qualvolta una forma digoverno porta a distruggere questi scopi,il popolo ha diritto di cambiarla o di abo-lirla, istituendo un altro governo su prin-cipi tali e con tale organizzazione di pote-ri da avere le maggiori probabilità diassicurare sicurezza e felicità.

La felicità dunque, anzi il diritto allafelicità, è doppiamente indicato nellaDichiarazione che costituisce l’atto di

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nascita del popolo americano e dellanazione americana. La rivoluzione ameri-cana con la Dichiarazione e laCostituzione del 1787 rappresenta nonsolo il riferimento obbligato per l’identitàamericana ma segna anche la nascita e losviluppo di quellamodernità che traeorigine dal progettodell’Illuminismo. Ilrichiamo alla libertàche si ha diritto di“cercare”, resisteancora oggi in una visione che accomunatutto l’Occidente atlantico ed europeo,democratico e liberale.

La singolarità della Dichiarazioneamericana nei confronti delle altre cartecostituzionali europee è che in essa èinserito il concetto di felicità, collocandocosì l’inclusione di tale diritto naturale einalienabile dell’uomo in una sorta dipaniere dei beni sociali.

La nozione della “felicità” come undiritto innato non è del tutto originale inJefferson, dato che la si trova già nellarivoluzione francese e in altri testidell’Illuminismo. Ma Jefferson l’ha ame-ricanizzata includendo “il conseguimentodella felicità” tra i tre capisaldi dellaDichiarazione (insieme alla “vita” e alla“libertà”), facendone di conseguenza unmito esplicito della nuova nazione che haavuto conseguenze nello spirito del popo-lo americano. Jefferson stesso sottolineòla centralità del concetto:

Il solo scopo essenziale nell’istituzio-ne del governo è quello di assicurare ilmassimo grado di felicità possibile alla

più ampia massa di persone che sonoassociate in una determinata istituzionedi governo.

L’idea della felicità in Jefferson era tut-tavia alquanto cangiante. Secondo il pen-

siero liberale, il grande ame-ricano pensava a qual-cosa che aveva a chefare con la virtù, valea dire con l’idea diconsiderare buone e

felici quelle persone cheservono Dio e l’umanità. Ma, più tardiabbandonò questa definizione e deciseche la felicità significava per una personasemplicemente il fatto di non essereaddolorato nel corpo e turbato nello spi-rito. In questa concezione la felicità nonincludeva alcun senso di responsabilitàma significava semplicemente il raggiun-gimento di una condizione priva di soffe-renza fisica e mentale. Ed è stata proprioquesta definizione che ha finito per pla-smare il carattere americano.

Quando si parla di eccezionalismodella storia americana con una biforcazio-ne rispetto alla storia europea, ci si riferi-sce all’idea che solo al di làdell’Atlantico, proprio per le condizionistoriche che vi regnavano, vi sono state lecondizioni storiche per realizzare quelleidee di libertà che l’Europa era venutapensando ma non aveva realizzato. Inquesta diversità tra Europa e America v’èanche il concetto della felicità cheOltreoceano è non solo un diritto per cosìdire individuale e sociale ma anche unacondizione più facilmente raggiungibile.

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E’ questa idea della felicità connessaalla vita ed alla necessaria tutela daparte dei governanti che rende taloragli americani innocenti e li confinaquasi in uno stato emotivo infanti-le. Perciò gli americani chehanno coltivato questo atteggia-mento di generazione in genera-zione, nel secolo scorso hannomesse in atto ogni possibiletipo di azioni personali e socia-li per affrontare e rimuovere leavversità e le sofferenze. Nonc’è altra società contempora-nea in cui abbiano avutotanta fortuna stuoli dimedici, educatori psi-cologi, neurologi, psicana-listi, sessuologi, spiritualisti, esorcisti eguru di ogni tipo a cui ci si rivolge peressere aiutati a trovare la propria felicità.E non c’è altro popolo al mondo che hauna cura maggiore dei propri figli quasiper esorcizzare le antiche paure che inuovi nati incontrino tristi difficoltà.

Tale senso radicato dell’innocenzarende gli americani dei sognatori invete-rati alla continua ricerca di persone saggeche li possano portare fuori dal buio versola luce della felicità. Jefferson solevaripetere di non essere mai così contento efelice come quando riusciva a togliere dase stesso un po’ di potere per metterlosulle spalle di altri. Da qui deriva la ten-denza degli americani di trovare semprequalcuno o qualcosa a cui affidare un pro-blema da risolvere. E da qui deriva anchela grande fede nelle regole e nelle proce-dure per affrontare qualsiasi questionepiccola o grande che sia. Agli americani

non piacciono gli infelici, per esempio igrassi, i vecchi, i menomati, gli arrabbia-

ti ed ogni altro genere di perdenti per-ché queste persone ricordano che l’in-felicità è uno stato altrettanto reale

della felicità, e dunque cercano delleprocedure per superare tali stati infelici.

Gli americani sono descritti come prag-matici, aggressivi e non-sentimentali, mail loro tratto di sognatori mette talora inquestione lo stesso carattere pragmatico,in quanto l’aspettativa della felicità li fa

talora abbandonare l’approccio empiricocon la realtà. Infatti, quando gli ameri-

cani non riescono ad avere quel chevogliono, assumono un atteggiamen-to aggressivo e diventano ostili. In

poche parole la vera ironia del caratterenazionale sta nel fatto che è il consegui-mento della felicità, iscritta nellaDichiarazione di Indipendenza, che puòrendere gli americani infelici perché perconseguire quell’obiettivo primariodiventano competitivi, legati al denaro, incontinua agitazione sentimentale, e in unaricerca frenetica del piacere che può por-tare all’isolamento.

Nel citare una famosa frase diJefferson:

Ho giurato sull’altare di Dio eternaostilità contro ogni forma di tiranniasulla mente dell’uomo,

non si può non osservare che il PadreFondatore ha finito per inculcare nellamente degli americani la nozione di feli-cità che, per la grande forza di penetrazio-ne quasi tirannica, talora ha giocato qual-che brutto scherzo al popolo americano.

89Il diritto alla felicità nella tradizione costituzionale americana, M. Teodori

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EudemoniaLa felicità degli antichi.

di Mario VitaliUniversità di Bologna

Tracing here an outline of ethic thought in the ancient world would be too long: itwould involve an accurate exposition of various moments and of many authors,beginning from Socrates, and down to Plato, Aristoteles, Stoicism, Epicureanism,and so on. On the other hand, it is absolutely evident for whoever is interested in suchthemes, that these different positions, even in their undeniable originality, are allmarked by the same and unique principle which characterizes the Weltanschauungof the Greek man. Therefore, in writing these short adnotations, we have preferrredto point out the origin of this principle, which consists in the close connection of hap-piness (eujdaimoniva) with goodness (ajrethv), and of goodness with knowledge, fin-ding its first and complete enunciation in the so-called ethic intellectualism assertedby Socrates, definitively accepted and thoroughly deepened by Plato.

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PParlare della felicità nel mondoantico è cosa difficile per lacomplessità e vastità dell’argo-

mento, ma anche e soprattutto per il fattoche sembra mancare in esso la consape-volezza di un’autonomia dell’etica, che èinvece presupposto necessario per il pen-siero moderno. Questa difficoltà è luci-damente esposta dal Vegetti per il qualel’etica antica rimane inclusa nella filoso-fia con Platone, appartenente alla politicain Aristotele, legata alla fisica per gliStoici, fino a sfumare nell’estasi delNeoplatonismo. Ne risulta così un qua-

dro composito ed eterogeneo entro ilquale un discorso in proposito non sareb-be possibile senza pensare a scelte, sele-zioni, privilegiamenti1. Chiediamo per-tanto venia se, intendendo per “autono-mia”, kantianamente, l’indipendenzadella volontà da ogni desiderio, o ogget-to di desiderio, e la sua capacità dideterminarsi in conformità di una leggepropria, che è quella della ragione2, cipare di poter operare a nostra volta unascelta nel senso di assumere che proprioin quanto connessa con la filosofia, nellasua accezione più generale, l’autonomia

1 Vegetti 1989: VII-VIII.2 Abbagnano 1996: 90.

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dell’etica trova in Platone il momento piùalto nel mondo antico.

L’opinione generale, costituita dallesemplificazioni del senso comune in cuisedimentavano esperienze religiose,civili, poetiche di una lunga tradizione,tendeva a vedere nella felicità uno statoindividuale percepito come soddi-sfacente in relazione al pro-prio essere in questomondo, stato che appari-va consistere in una certadisposizione dell’animacon in più il godimento dicerti beni fisici come salute,longevità, ricchezza, piacere ealtri minori quis humana sibidoleat natura negatis3.

Ora, Platone non nega affatto la positi-vità di questi beni, ma li considera secon-dari, come un “di più” marginale nella suaelaborazione del concetto di felicità: ilpunto fermo in proposito, e costante intutta la sua opera, è la fedeltà all’insegna-mento socratico. Platone ha fatto suo l’in-tellettualismo etico del maestro, e lungotutto l’itinerario in cui si svolge la matu-razione del suo pensiero lo ha sostanzial-mente mantenuto in tutta la sua radicalità:la felicità umana è uno stato di soddisfa-zione che si può chiamare saggezza, inquanto proviene soltanto dalla virtù, laquale non è altro che ragione e pertantoconoscenza che si configura come il Benesupremo. Non si è virtuosi, e perciò non si

è felici, se non si conosce l’essenza dellecose, la verità su di esse, sugli uomini, sunoi stessi (gnw§qi sautovn, “conosci te

stesso”). Questa conoscenza è labase di ogni ortoprassi: di quil’affermazione che nessuno,

neppure il più malvagiodegli uomini, compie ilmale se non per ignoranza;

affermazione paradossale,ma di quella paradossalità che

troviamo immancabilmentenelle verità più profonde.

A torto si suol dire che a que-sta concezione mancherebbe una

chiara nozione della volontà e delsentimento quali funzioni distinte

dall’intelletto: in modo più profondodelle nostre elucubrazioni questi antichisapevano che volontà e sentimento nonsono altro che l’aspetto dinamico dellaragione stessa. Questo vuol dire Socratequando afferma, per ipotesi estrema, cheun uomo il quale fosse pienamente capa-ce di cogliere con vera conoscenza i datisoggettivi e oggettivi della propria deter-minazione ad agire, non potrebbe maidecidere di compiere un’azione malvagia.

Su tali posizioni socratiche si attestaanche Platone dall’inizio e fino alla fine,quando volle riprendere la questione inun ciclo di conferenze Intorno al Bene(peri; tajgaqou§). A proposito delle quali,Aristotele, secondo la testimonianza diAristosseno4, era solito ricordare la stra-

3 Di cui la natura umana non può fare a meno senza soffrirne (Hor., Sat. I, 1, 75).4 Harm. El., II 39-40 Da Rios.

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na impressione che queste lezioni susci-tarono nei convenuti: ciascuno si aspet-tava di sentir parlare di qualche bene diquelli che sono ritenutitali dagli uomini,come ricchezza, forza,salute, piacere, o chis-sà quale meravigliosafelicità; sentironoinvece parlare soltantodi cose matematiche,numeri, geometria eastronomia, e infine sisentirono dire che ilBene è l’Uno (o{ti taj-gaqovn ejstin e{n), tuttoil contrario di quanto si aspettavano: diqui lo sconcerto per cui alla fine tutti sene andarono esprimendo chi disprezzochi biasimo (oiJ me;n uJpokatefrovnountou`` pravgmato$, oiJ de; katemevmfon-to). Disprezzo e biasimo del tutto infon-dati poiché tali lezioni, aperte a tutti,non avevano carattere esoterico, e tuttisapevano che sulla porta dell’Accademiaspiccava la scritta “AGEWMETRHTOSMHDEIS EISITW”5.

Questo “Uno” della lezione finale ècomunque l’ultima tappa di un percorsocoerente che passa attraverso il Bello (to;kalovn) del Simposio, il Bene (to; ajgaqovn)della Repubblica, l’Essere (to; o[n) delSofista. Si tenga presente, però, che questinon sono “beni” in quanto oggetti deldesiderio in senso cosale, bensì tre aspet-ti della medesima istanza trascendentale,

unificatrice del molteplice irrelato e inde-finito, principio, ancora socraticamente,produttivo in senso conoscitivo ed etico al

tempo stesso, da cui dipendeperciò anche la possibilitàdi una vita felice, come èdetto chiaramente inSimp. 211d:

ejntau§qa tou§ bivou ª...ºei[per pou a[lloqi, bioto;najnqrwvpw/, qewmevnw/ aujto;to; kalovn

(in questa dimensionedella vita ª...º, se mai altro-ve, vale la pena di vivereper un uomo: nella visionedel Bello in sè).

Ma, come s’è detto, Platone non negaaffatto la positività – si potrebbe dire lanecessità – di quei beni minori che con-corrono a determinare, seppure seconda-riamente, la felicità, per quanto possibilenella vita degli uomini. Il problema dicome essi, e in particolare il più insidio-so, il piacere, vengano ad assumere unafunzione propria nell’ambito della ragio-ne è trattato nel Filebo, un dialogo cheper molti versi anticipa le tematichematematizzanti della lezione orale di cuis’è detto sopra.

Il problema emerge subito, in forma didilemma secco, fin dall’inizio del dialogo:

Filebo afferma che, per tutti gli esseriviventi, bene è il piacere la gioia, il dilet-to e, insomma, tutto quanto si accordacon questo genere di sensazioni. Ma pro-

93Eudemonia. La felicità degli antichi, M. Vitali

5 Elias, in Cat. 18, 18.

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prio questo noi contestiamo; a nostromodo di vedere, bene è il pensiero, l’intel-ligenza, la memoria, e così tutte le attivi-tà a queste affini, come opinare rettamen-te, ragionare secondo verità.

Fil. 11b

Ovvia la confutazione di Socrate: lepersone temperanti sono guidate dallanota massima “niente di troppo” (mhde;na[gan) e ne seguono lo spirito. Al contrariogli stolti e gli sfrenati sono posseduti dapiaceri violenti che li scuotono fino a farliurlare e li portano infine alla pazzia. (Fil.45de). Questo perché nella sua elementari-tà istintuale l’attrazione del piacere si pre-senta come un illimitato caos fluttuante,come un’indeterminatezza di pulsioni(a[peiron), la cui attrazione imperativapuò avere effetti tali da distruggere anzi-ché dare la felicità; solo se interviene l’in-telletto come causa (aijtiva, 23c-31b)ponendo il principio di un limite (pevra$),ciò che prima fluttuava nel più o menoproprio dell’illimitato può essere fissato inuna misura (mevtron) tale da rendere possi-bile un’opzione razionale rispetto ad unpiacere determinato, e pertanto riconosci-bile in quanto vero e buono.

Anche qui, socraticamente, il problemaetico confluisce e si innesta nel problemalogico-gnoseologico. Appare chiara, inol-tre, nell’enunciazione del principio fonda-mentale della determinazione dell’indeter-minatezza, la tendenza scientifico-mate-matizzante del Platone maturo. L’a[peiron

è infatti il regno fluttuante del più e delmeno, il pevra$ la limitazione determinan-te, cui si aggiunge il confluire dell’unonell’altro, la mescolanza (meiktovn). Perseguire un esempio tratto dal Taylor(1976): la “temperatura” è un apeiron,“20°” è un péras, “una temperatura di20°C” è un esempio di mescolanza. Aquesto proposito il Natorp (1994: 319):

Hier tritt schon ganz deutlich die not-wendig mathemathische Form derGesetzeserkenntnis zu Tage. Das Haftenan der Unbestimmtheit, heißt es, läßt imGeiste selbst nur Unbestimmtheit zurück(um das Spiel mit dem Wort a[peiron, daszugleich “unendlich, unbestimmt” und“unkundig” bedeutet, einigermaßen sin-nentsprechend nachzubilden.

(Viene qui alla luce con piena eviden-za la forma necessariamente matematicadella conoscenza della legge. Attenersisoltanto all’indeterminatezza, si dice neltesto, non lascia che indeterminatezzanello spirito stesso [questo, per riprodurrecon qualche approssimazione il giocodella parola a[peiro$, che significa “inde-finito, indeterminato” e al tempo stesso“ignorante”]).

E ancora socratica è poi la metaforacon cui tale principio è presentato comeun dono divino: to;n qeo;n ejlevgomevn pouto; me;n a[peiron dei§xai tw§n o[ntwn, to;de; pevra$6 (Fil. 23c).

Epperò, dal momento che viviamo tuttisu questa terra, resta il problema dellaconciliazione esistenziale di queste istan-

6 Dicevamo che la divinità, in certo qual modo, ci ha mostrato non solo l’illimitatezza deglienti, ma anche il limite (Fil. 23c).

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ze, opposte sì, ma ineliminabili, poichénessuno potrebbe accettare di vivere l’unasenza l’altra:

Ci dica se qualcunosarebbe mai disposto apossedere il pensiero, inassenza assoluta di pia-cere, anche del piùfuggevole, o, per con-verso, se accetterebbedi possedere tutti i pia-ceri del mondo senza ombra di pen-siero, piuttosto che rischiarati da un mini-mo di luce intellettuale.

Non è possibile, Socrate, ed è inutilecontinuare a ripeterlo.

Fil. 60e

E dunque sarà compito dell’intelligen-za, del lovgo$, una volta riscattato il pia-cere dalla palude dell’illimitato, quellodi operare una mescolanza (meiktovn) trale due istanze, nel progetto di una vitamista dell’una e dell’altra: mh; zhtei§nejn tw§/ ajmeivktw/ bivw/ tajgaqo;n ajllæ ejntw§/ meiktw§/7 (61b).

Mescolanza razionale di piacere eintelligenza, vale a dire, dominio del pen-siero sul magma indefinito delle pulsioniistintive: ecco la vita felice, per Platone8.Poco eccitante, si dirà, e, per usare un

grossolano anacronismo, poco romantica.Eppure, se ci riflettiamo un poco, appareevidente non solo il valore in sé di questavisione, ma anche la validità ancora attua-

le di questo messaggio. Platonecercava di opporsi allagrave crisi che trava-gliava la sua Atenerichiamandola ai valoridella razionalità edella virtù di fronte al

dilagare di un relativi-smo pratico che, travol-

gendo anche i proprimaestri, e cioè il

moderatismo civile deiGorgia e dei Protagora, giungeva al radi-calismo egoistico del Trasimaco che pon-tifica nella Repubblica, del Polo e delCallicle che imperversano nel Gorgia, diquesti predicatori della giustizia comediritto del più forte, maestri a loro volta dicoloro che erano chiamati a reggere lesorti dello stato con l’arroganza persecu-toria dei Trenta dalla parte aristocratica el’oltranzismo dei democratici da cuivenne la condanna a morte di Socrate9.

Non è chi non veda come questo invitoalla virtù che ci proviene da una voce di

95Eudemonia. La felicità degli antichi, M. Vitali

7 Non cercare il bene in una vita priva di mescolanza, ma in una vita mista dell’uno e del-l’altra (61b).8 Così anche Seneca: alcuni sono infelici anche nel piacere, anzi, a causa del piacere stesso,cosa che non accadrebbe se il piacere si mescolasse con la virtù (si virtuti se voluptas immiscuisset),(De vita beata 7, 2).9 Distinguere tra la giustizia in sé e ciò che viene considerato (dokei§) giusto è tutt’altro cheuna vuota astrazione concettuale. Costituisce piuttosto la verità stessa della coscienza pratica, incar-nata, agli occhi di Platone, nella persona di Socrate, il fatto che il vero e giusto comportamento del-l’uomo non possa fondarsi sui concetti e criteri convenzionali, ai quali si aggrappa l’opinione pubbli-

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duemilaquattrocento anni fa sia ancoroggi attualissimo, nella crisi assai similein cui versano i nostri tempi, con i loropersonaggi che ricordano i conciapelli, ipaflagoni e i salsicciai della commedia diAristofane, nel voltofurbesco e nella par-lata vernacola del-l’afasia politicae culturaleimperante inun torrenteretorico maicosì potente,mai così sco-pertamente arrogante e soporifero a untempo. Si proclama la fine delle ideolo-gie, sottacendo o senza capire che questastessa è affermazione ideologica; si vadicendo che crollano i valori, ma i valori,che Platone riassume nel termine “virtù-ragione”, non crollano mai: possono soloessere negletti, calpestati, derisi, ed èspettacolo immondo, quando sotto gliocchi di tutti

... un Marcel diventaogni villan che parteggiando viene.

Dante, Purg. VI, 125

Non mancano anche in Platone accentidi più calda partecipazione e protesta,come nell’appello a Dio, cioè alla ragio-ne, che leggiamo nel Teeteto:

Dobbiamo volgerci al più presto daquesto luogo ad un altro, in una fuga che

consiste nel renderci simili aldivino, per quanto possibile(fugh; de; oJmoivwsi$ qew§/,kata; to; dunatovn).

Tale fuga, si badi bene, nonsignifica abbandono, ma deci-sione di resistenza, infatti:

renderci simili significa diventare giu-sto e pio secondo ragione (meta; fronhv-sew$). [...] In questo si misura la veraabilità di un uomo, o la nullità della suasostanza umana. Questo è il punto discri-minante: rendersene conto è scienza evirtù reale; ignorarlo è sconoscenza emalvagità manifesta. Ogni altra forma diabilità, ogni altra illusione di competen-za, nell’esercizio del potere politico sirisolve in violenza brutale, nell’attivitàscientifica si riduce a tecnicismo mecca-nico. [...] Questi uomini le cui azioni e lecui parole non sono che ingiustizia edempietà ignorano infatti ciò che meno diogni altra cosa si dovrebbe ignorare: lapunizione che attende l’ingiustizia [...]; a

ca, ma debba assumere come misura unicamente ciò che - al di là di ogni pubblico riconoscimento edella stessa questione se queste norme siano applicabili e si incontrino mai applicate nella vita nor-male - si presenta alla coscienza morale come il vero e il giusto universale. Questa separazione delnoetico dal sensibile, della vera comprensione dalle semplici opinioni, questo chorismos quindi, è laverità stessa della coscienza morale. [...] non è un caso che questa concezione platonica sia tornata inonore là dove si è trattato di fondare trascendentalmente la morale: il rigorismo di Kant viene supe-rato soltanto dal rigorismo con cui Platone, nel suo dialogo sul vero Stato, costringe il suo Socrate aseparare la vera essenza della giustizia da ogni valutazione e riconoscimento sociale e a rappresen-tarla in un uomo che, considerato universalmente ingiusto, viene, in quanto tale, condannato a mori-re tra tutti i tormenti immaginabili (Resp. 361c ss.). Gadamer (1988: 162, vol.2).

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causa della loro stoltezza e della lorodisperata stupidità non si rendono contoche la punizione consiste proprio nellaloro stessa vita.

Teet. 176a-177a

Felicità è filosofia, dunque, anche sequesta è spesso dichiarata ancella o dellateologia o della politica o di che altro,ma non si capisca bene, osserva acu-tamente Immanuel Kant, se essapreceda la sua graziosa signoracon la fiaccola, o se le tenga lostrascico. E prosegue, alludendoa Platone:

Non dobbiamo aspettarci, né desi-derare, che i governanti siano filosofi oi filosofi assumano il governo; cheperò i popoli che vogliano gover-narsi secondo il principio del-l’eguaglianza non faccianotacere i filosofi, ma neascoltino e ne tutelino laparola, è assolutamentenecessario ad entrambiper illuminarne l’attività.

Kant, Per la pace perpetua

Ciò che Platone vuol dirci, in sintesi, èquesto: che la città giusta, condizioneessenziale per la felicità dei suoi cittadini,si realizza soltanto se i suoi uomini politi-ci sono umanamente e culturalmente ingrado di vivere una dimensione superiorea quella della vita politica (bivon [...]

ajmeivnw tou§ ajrcein toi§$ mevllousina[rxein, Resp. 521a).

Postilla: quando Socrate nellaRepubblica dà inizio alla sua indaginepartendo dallo stato anziché dall’indivi-duo lo fa solo perché lo stato gli appare

come una tastiera alfabetica piùampia e perciò più leggibile

di quella del singolo (368d),ma il punto di partenza èl’uomo, la sua natura di

essere pensante, la suaaspirazione alla felicitànel mondo in cui si

trova a vivere. Pertanto,lungi dal determinare l’es-

senza dell’individuo, lostato stesso è da questodeterminato e ne costituiscecome una proiezione suscala maggiore. L’impulsoche spinge il filosofo (l’uo-mo!) a salire verso la con-templazione dell’Idea delBene, è un impulso natura-

le verso la verità e non culmina nell’epi-fania del Leviatano, ma nella scienza cherende possibile costruire la città giusta,cioè nella virtù (w|≥ dh; ajndrei§o$ ijdiwvth$kai; wJ$, touvtw≥ kai; povlin ajndreivan kai;ou{tw$, kai; tajlla pavnta pro;$ajreth;n10, 441d). Lo stato di Platone non è

97Eudemonia. La felicità degli antichi, M. Vitali

10 Ci troviamo infatti abbastanza d’accordo che nell’anima di ogni singolo individuo vi sono glistessi principi che agiscono nella città [...]. Ne consegue pertanto che, se l’individuo è coraggioso eforte, anche la città risulterà coraggiosa e forte allo stesso modo e per lo stesso motivo, e altrettantosi dica per entrambi in rapporto a tutte le altre virtù (441d).

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lo stato etico: è il suo contrario, proprioperché mira alla felicità.

Per concludere: è concepibile, meglio,è umanamente possibile una felicità comequesta? Non oserei dare una risposta, senon ce fosse una, mirabile, nel Fedone:penso a quella altissima esplorazionefilosofica nel carcere di Atene del 399a.C., a quella tensione dialettica, a quellacommossa, vivida ricerca del Bene comeconoscenza, in attesa della morte, alla

pacata serenità con cui Socrate consola ilpianto non più contenuto degli amiciprima che qualcuno gli ricopra il volto diSileno ormai spento. Ciò che è stato uma-namente possibile una volta, lo rimaneper sempre. Ovviamente il mercato dellafelicità, specie nel nostro tempo, offreprodotti a prezzi più accessibili, ma, comein tutte le cose di questo mondo, dipendesolo da noi: basta sapersi accontentare.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Abbagnano, N. (1996) Dizionario di filosofia. Torino, UTET.Gadamer, H.G. (1998) Studi platonici. Tr. it. Genova, Marietti.Natorp, P. (1994) Platos Ideenlehre, Eine Einführung in den Idealismus. Hamburg, Meiner.Platone, (1995) Repubblica. A cura di M. Vitali, Milano, Feltrinelli.Robin, L. (1997) Platon. Paris, Quadrige PUF.Taylor, A.E. (1976) Platone, l’uomo e l’opera. Tr. it. Firenze, La Nuova Italia.Vegetti, M. (1989) L’etica degli antichi. Bari, Laterza.

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F.M. ENIGMA

La setta Verde in ItaliaLibreria Chiari - Ed. FirenzeLibri S.r.l. Collana LA BAUTTA, Collanamassonica ed esoterica diretta da Silvio Calzolari, Gabriele Favilli eVittorio VanniFirenze 2002, pp. 207. 16,50

Con la pubblicazione della Setta Verde s’inizia una collana di testid’antimassoneria che sono, paradossalmente, preziosi per la storio-grafia massonica. Il volume, pubblicato nel 1906 da Lodovico

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Segnalaz ioni ed i tor ia l i

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ROBERTO SESTITO

Storia del Rito filosofico Italiano e dell’ordine Orientale Antico ePrimitivo di Memphis e MizraìmLibreria Chiari - Ed. FirenzeLibri S.r.l. Collana LA BAUTTA, Collanamassonica ed esoterica diretta da Silvio Calzolari, Gabriele Favilli eVittorio VanniFirenze 2003, pp. 380. 20,00

Un rito massonico che veicolava al suo interno una iniziazione effet-tiva e si proponeva di risvegliare l’idea-forza di Roma caput mundi.Tale è stato il rito filosofico Italiano, fiorito nei primi decenni del seco-lo scorso, del quale Roberto Sestito narra con simpatia, ma anche conl’imparzialità dello storiografo, la storia documentata.Storia di un Rito, ma anche e soprattutto storia delle persone che lo fecero vivere. Una vicen-

da nella quale spiccano le figure del Maestro Amedeo Armentano, misterioso rappresentante diun antico insegnamento pitagorico perpetuatosi nel tempo, e del suo diretto discepolo ArturoReghini, matematico, filosofo e filologo di alto sentire, nonché quella di Edoardo Frosini, entu-siasta ed infaticabile animatore del Rito. Ad essi si affianca una schiera di valorosi comprima-ri tutti, salvo sporadiche eccezioni, fedeli in pace ed in guerra all’ideale che li accomunava.Il Rito Filosofico Italiano costituì, in qualche modo, l’espressione simbolicamente più matura

del nostro Risorgimento, e gli Italiani che ne fecero parte (che furono ed amarono sentirsi“imperialisti pagani”) ricominciarono a sognare e ad operare per il risveglio “trasumanante”della antiquissima Italorum sapientia e per una nuova supremazia dell’Italia tra le nazioni.

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100SEGNALAZIONI EDITORIALI

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Macinai (di parte cattolica) sotto lo pseudonimo di F.M. Enigma, ripete, pur nella forma let-teraria del suo tempo, i consueti parametri della polemica antimassonica.Diviso in tre capitoli, Lavoro interno, Lavoro esterno d’assalto, Lavoro esterno di conqui-

sta, il libro intende descrivere le metodiche massoniche nello scontro fra le concezioni con-fessionali e quelle democratiche, che si combatterono storicamente nei decenni a cavallo fraXIX e XX secolo.Ripresentare questo testo, dopo quasi un secolo, è utile alla comprensione più profonda delle

attuali forme di pregiudizio e persecuzione contro la Massoneria, in quanto sono usate le stes-se strumentali incomprensioni, le stesse accuse, le stesse metodiche di contro-informazione.La storia, a volte, è maestra di vita solo nella ripetizione, cosciente od incosciente, degli stes-

si errori. L’evoluzione etica e sociale della società è progredita nella società italiana, ma spes-so contrasta incomprensibilmente con la ripetizione stereotipa d’antiche ed obsolete polemiche.Questo contrasto indica il permanere di sacche di conservazione o d’involuzione civile, ele-

menti da sottoporre a vaglio e giudizio critico, sia storiografico sia politico, da parte dellaMassoneria italiana, che ne soffre tutt’oggi le conseguenze.

A CURA DI OVIDIO LA PERA

La Massoneria e la RivoluzioneGli scritti di carattere politico, filosofico e religioso di Louis-Claude de Saint-Martin.Libreria Chiari - Ed. FirenzeLibri S.r.l. Collana LA BAUTTA, Collanamassonica ed esoterica diretta da Silvio Calzolari, Gabriele Favilli eVittorio VanniFirenze 2002, pp. CCXXXI. 16,50

Una errata concezione attribuisce alla Massoneria il “complotto”per la Rivoluzione francese e, spesso, per quante altre nella storiadell’umanità dal XVIII secolo in poi. La Massoneria in realtà bandi-

sce dagli argomenti trattati nelle sue “tornate” quelli legati alla politica ed alla religione, inquanto ritiene che l’equità e l’equilibrio, che si addicono al comportamento dei fratelli neltempio, potrebbero esser turbate ed infrante. Ma la libertà individuale dei suoi membri è taleche nessuno, nello stesso tempo, potrebbe criticarne la fede religiosa e l’ideologia politica.Ma è vero nel contempo che gli ideali di libertà, fratellanza ed uguaglianza non sono statepure astrazioni metafisiche, ma anche volontà di progresso ed evoluzione dell’umanità,espresse e perseguite al di là, ma non al di sopra, delle concezioni iniziatiche che sono l’es-senza della Massoneria. Questo libro, noto nelle aule della filosofia e della storia in Europaè, per l’Italia, opera molto singolare ed inedita. E’ un filo di Arianna che ci guiderà nei labi-rinti percorsi da correnti sotterranee e sconosciute, che solo di tanto in tanto affiorano, comefiumi carsici, al cielo aperto della storia. Le influenze esoteriche sul pensiero rivoluzionariosono una tematica tuttavia nuova anche nella storiografia mondiale, che necessita ancora diun lungo percorso di studi. Il testo, corredato da un saggio storico di Silvio Calzolari, inizie-rà il lettore al pitagorismo rivoluzionario ed al suo comunitarismo élitario.

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101SEGNALAZIONI EDITORIALI

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ANNA MARIA ISASTIA

Massoneria e Fascismo. La repressione degli anni Venti.Libreria Chiari - Ed. FirenzeLibri S.r.l. Collana LA BAUTTA,Collana massonica ed esoterica diretta da Silvio Calzolari, GabrieleFavilli e Vittorio VanniFirenze 2003, pp. 86. 9,00

La storiografia attuale ha iniziato ad analizzare da tempo i rapportifra Massoneria e Fascismo, in particolare dopo l’acquisizione delfondo Treves, che ha aperto nuove prospettive di studio. Non essendonoi storici, lasciamo a questi l’analisi di processi ancora, per logicimotivi, molto delicati. Ciò che c’interessa, al dilà ed al di sopra del giudizio storico e politicoche non ci compete, è di comprendere come, sul piano psicologico, sia stato possibile che deiFratelli, educati nelle Logge all’amore per la libertà, abbiano potuto aderire al Fascismo ed auno stato totalitario. Quest’argomento, inconsciamente o volontariamente rimosso fino a pochi anni fa, è parte

della nostra storia ed ignorarlo può farci dimenticare la nostra vera ed attuale identità stori-ca e sociale. [...]Il libro d’Annamaria Isastia, così puntuale, corretto ed esaustivo nella sua sintesi di tesi e dati

storici, è un ulteriore contributo alla ripresa di studi tanto importanti quanto scomodi sia perla Massoneria che per la storia d’Italia.

(dalla Prefazione al testo di V. Vanni)

MARIA AZZURRA RIDOLFO

Massoneria e modelli politici dalle “Constitutions” al decennioinglese di Sicilia (1723-1815)To the Memory of Mr. Christofer Crawford. Late conductor of ordnance sto-res in whom were ... The qualities of a brave soldier a tender and affectiona-te husband a social companion and a sincere and upfright friend as a testi-mony of respect for his ... A few friends of the masonic society have erectedthis stone. He died the 26th october MDCCCXII aged 39 years.Ed. Trisform.Messina 2002, pp. 196. 15,60.

Le vicende che caratterizzano la massoneria europea dalla secondametà del Settecento in poi vanno spiegate alla luce dei processi di causa ed effetto della gran-de storia che governa l’Europa nella transizione dall’Ancien Régime all’età del liberalismo.Dall’Inghilterra, passando per la Francia, i Paesi Bassi, l’Austria e l’Italia la libera murato-

ria sembra risentire, e qualche volta anche subire, le trasformazioni politico-istituzionali deicontesti territoriali in cui opera.Ci pare, tuttavia, che fino a questo momento sia stato ampiamente sottovalutato il ruolo che

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l’Ordine ha avuto nel succedersi di queste vicende. Si tratta, probabilmente, di una sorta dipregiudizio “metodologico” che ha spinto gli storici e ricercare esclusivamente il ruolo ope-rativo della massoneria, finendo poi per concordare sulla circostanza che molto di rado essa,in quanto organizzazione, sia stata produttrice di eventi. Ciò non significa, però, che nonabbia svolto un ruolo di primissimo piano sul terreno che le appare più congeniale e cioè quel-lo della formazione delle classi dirigenti e, in particolare, delle élites protagoniste dei proces-si di cambiamento.In questo contesto, la vicenda della massoneria meridionale, e siciliana in particolare, ci

appare esemplare e la sottovalutazione del ruolo da essa svolto nelle vicende del “decennioinglese” si palesa del tutto ingiustificata.Certo, questo non significa che gli eventi o le elaborazioni dottrinarie di quel periodo siano

toto corde riconducibili ad una matrice massonica. Non è tuttavia possibile concepire la svol-ta liberal-moderata del primo quindicennio dell’Ottocento senza avere riguardo alla formazio-ne di un’élite che nelle logge si era formata e dall’humus massonico aveva tratto la principaleispirazione alla sua battaglia politica.

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ANTONIO GUALANO

Massoneria: tesi ed antitesiFinito di stampare dalla litotipografia Gervasi Cardella nel novembre2002; pp. 206.

L’opinione pubblica, spesso veicolata, è stata ed è, periodicamente, asfavore dei massoni, ritenendo costoro uomini che intrigano o, nellamigliore delle ipotesi, fuori del tempo.Questo mio lavoro espone, sinteticamente, quali siano stati, in tre seco-

li, le tesi, i teoremi, i sillogismi d’accusa principali, dai quali hannoattinto il popolo, il clero, la classe politica e giudiziaria. Ritengo di nonfare torto agli storici e ai cultori delle dottrine esoteriche se individue-

rò alcuni momenti nei quali le proposizioni accusatorie hanno trovato sfumature e valenzediverse in relazione all’evoluzione della società ed ai capovolgimenti politici.Evidentemente nei teoremi e/o nei sillogismi il soggetto è costante, la Massoneria, le ipotesi e

le supposizioni si danno per note ed acquisite, spesso scontate, per tesi dimostrative che trova-no il loro limite proprio nelle supposizioni stesse.Molto è stato scritto sui rapporti tra la Massoneria e lo Stato, tra la Massoneria e la Chiesa;

mi soffermerò sull’evoluzione del pensiero e della dottrina attraverso l’esame delle Enciclichepapali e di alcuni documenti delle Istituzioni pubbliche.Spero di apportare un modesto contributo di concetti che valgano a dare risposte a quanti, tut-

tora, si pongono interrogativi sulle cause delle emarginazioni, delle persecuzioni, dell’ostraci-smo nei confronti dei Liberi Muratori.

(dalla Introduzione di A. Gualano)

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103SEGNALAZIONI EDITORIALI

HIRAM2/2003

A CURA DI MASSIMO DELLA CAMPA

Il Modello Umanitaria. Storia, immagini, prospettive.Saggi e testimonianze di G. Afeltra, S. Aleramo, R. Bossaglia, A.Colombo, C.A. Colombo, C.E. Gadda, G. Galli, M.L. Ghezzi, D.Oppi, A. Osimo, M.H. Polidoro, G. Saragat, G. Spadolini, F.Turati, P. Valera e uno scritto di P.M. Loria.Raccolto Edizioni - www.raccolto.orgMilano 2003

Società Umanitaria. Via Daverio, 7 - Milano. tel. 02/5796831 fax 02/5511846e-mail: [email protected] - www.umanitaria.it

Il Modello Umanitaria è l’immagine allusiva e simbolica per definire il processo di formazio-ne e sviluppo della benemerita Istituzione milanese sorta nel 1893 per volontà di ProsperoMoisè Loria ed affermatasi lungo centodieci anni di originali iniziative, sempre nel segno dellasolidarietà. Attraverso un vivace mosaico di interventi - da Massimo della Campa a GaetanoAfeltra, da Rossana Bossaglia ad Arturo Colombo, da Giorgio Galli a Morris Ghezzi - emergela lunga e ricca storia dell’Umanitaria, la costante difesa del mondo del lavoro, la capacità distare al fianco degli operai e in aiuto degli emigranti, il sostegno al mondo contadino, la valo-rizzazione delle scuole professionali, l’educazione degli adulti, la crescita civile e democratica.Insieme ad una straordinaria serie di immagini, alcune testimonianze illustri - da Loria a

Turati, da Valera a Osimo, da Gadda alla Aleramo, da Saragat a Spadolini - confermano comemai e perché il Modello Umanitaria costituisce un orgoglio per Milano. E un esempio per tutti.

“Cento anni di solidarietà” è il titolo del volume celebrativo realizzato nella ricorrenza deicento anni dalla nascita dell’Umanitaria (1893-1993). Altri dieci ne sono passati, sempresecondo un “modello Umanitaria”.Il primo decennio fu alquanto travagliato: controversie giudiziarie con gli eredi del fondato-

re, le cannonate e lo scioglimento ad opera di Bava Beccaris (che affidò la gestione del patri-monio alla “Congregazione di Carità”, la quale per il novennio di gestione chiese il 4%); millealtre difficoltà. Solo nel 1902 - dopo che una sentenza del Consiglio di Stato, che fa onore allascienza giuridica italiana ed allo spirito liberale che aleggiava agli inizi del Novecento, avevaridato all’Umanitaria la pienezza dei suoi diritti - si poté iniziare ad operare concretamente.Il Consiglio Direttivo, completato con le elezioni e le nomine, si mise subito al lavoro con ala-

crità, spirito pratico ed idee chiare. Nel giro di pochi mesi la Società Umanitaria prese quellaforma e quella sostanza che, rifiutando la carità ed attuando certe concrete forme di fattivasolidarietà, furono - e sono - le sue peculiarità: “il Modello Umanitaria”. In breve tempo sor-sero e si ebbero modelli avanzati - divenuti poi famosi - di scuole di arti e mestieri (la Scuolaelettrotecnica, quella tipografica e del libro), l’Ufficio del Lavoro (non di collocamento).Commuove rileggere le pagine dei verbali dell’epoca. Uomini solidi, borghesi austeri, ammi-

nistratori lungimiranti - concretamente attenti alle regole liberaldemocratiche - si riunivano frale nove e le undici e mezzo di sera e piano piano costruivano quel mirabile edificio vantodell’Italia, dando così vita al disegno, ancora attuale, tracciato da Moisè Loria in uno scritto,datato 1884, otto anni prima del testamento.

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Non poche e non irrilevanti le avversità sul cammino. Distruzioni belliche; ostacoli politico-istituzionali (Bava Beccaris, il fascismo, il Sessantotto, il forzoso, forzato e gratuito trasferi-mento nel 1981 alla Regione Lombardia delle già belle e gloriose scuole professionali e degliimmobili attrezzati che li ospitavano) e di potere (la tentata scalata nel 1912 di un partito poli-tico); il tentativo di intromissioni comunali nel 1995; la totale disattenzione della città e delleforze cittadine verso una istituzione che negli anni ha dato enormemente, fin quasi a compro-mettere il suo patrimonio per venire incontro ai bisogni della città (nel 1903, mentre banche eimprenditori concedevano contributi di 20 e 30 mila lire, tra i tanti progetti avviatil’Umanitaria concedeva persino un sussidio di 300.000 lire per realizzare il primo Istituto dicredito per le cooperative d’Italia). Oggi che essa ha diritto ad un occhio di riguardo, non ottie-ne nemmeno una risposta da chi ha saputo solo ricevere. Non ci siamo arresi. Un decreto legislativo ci ha privato delle nostre tradizionali, e gloriose,

attività didattiche e ci ha relegato alle “funzioni residue” (secondo l’arida prosa burocratica).Tuttavia, continuiamo ad ampliare la nostra sfera d’azione con nuove iniziative, come laFondazione Humaniter, incentrata sul volontariato, che prosegue in altri campi l’opera educa-tiva, con interventi sociali sul territorio.L’Umanitaria va avanti. Pur nella ristrettezza di mezzi, nella totale assenza di contributi, si è

curato e salvaguardato lo storico patrimonio immobiliare, si è restaurato il Salone degliAffreschi, si è mantenuta una intensa e vivace vita socio-culturale (anche con forme originali:borse di studio e concerti-premio a giovani musicisti), si sono riorganizzate le nostre strutture,sempre attenti a “nuove povertà e nuovi bisogni” con il varo dell’Istituto di Studi e IniziativeSociali (I.S.I.S.), nello sforzo programmatico e strategico di passare “dalla tradizione dellasolidarietà” (di cui l’Umanitaria è stata precorritrice) “alla attuazione concreta dei diritti fon-damentali” (riconosciuti a parole ma, troppo spesso, misconosciuti nei fatti). Insomma, impe-gno, dovere morale e civile verso gli altri, nel segno della diffusione della cultura, della soli-darietà e della difesa dei diritti umani.Abbiamo perciò voluto ripercorrere questi anni di lavoro effettivo, svolto sempre in piena fedel-

tà ai principi del fondatore e di quanti ne realizzarono la visione “per il bene e per il progres-so dell’Umanità”, secondo l’ideale di Prospero Moisè Loria: l’attualità di quel pensiero è di sti-molo a continuarne l’opera.

(Introduzione di Massimo della Campa)

A CURA DI ARTURO COLOMBO

Il coraggio di cambiare. L’esempio di Riccardo Bauer.Scritti e testimonianze di Riccardo Bauer, Adolfo Beria diArgentine, Norberto Bobbio, Lucio Ceva, Claudio A. Colombo,Massimo della Campa, Vittorio Foa, V.Paolo Gastaldi, MorrisGhezzi, Franco Mereghetti, Valeria Sgambati, Giovanni Spadolinie Renato Treves.Presentazione di Massimo della CampaEd. Franco Angeli - www.francoangeli.itMilano 2002, pp. 169. 18,00

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Vissuto dal 1896 al 1982, Riccardo Bauer occupa un posto, singolare e autorevole, nella sto-ria del XX secolo per i contributi notevoli che ha saputo dare nel segno costante del binomio“Educazione e Democrazia”. Dall’esperienza del carcere e del confino come intransigenteoppositore dell’Italia del “ventennio” alla militanza nel movimento di “Giustizia e Libertà” epoi nelle file dell’azionismo durante la lotta partigiana e la ricostruzione; dall’originale impe-gno civile, assistenziale e culturale come “rifondatore” della Società Umanitaria all’attività indifesa dei diritti umani e alla ricerca di una coraggiosa “politica per la pace” nel quadro diuna comune solidarietà internazionale: ecco alcuni dei punti-forza e dei momenti qualificantidi una biografia, umana e intellettuale, che queste pagine - arricchite da testi dello stesso Bauer- intendono restituirci con vivacità descrittiva e frescezza anedottica.Così il simbolico “ritratto a più voci”, che ne esce - e di cui sono autori anche esponenti, vici-

ni e partecipi al mondo di “ideali, principi e valori”, caro a Bauer -, non contribuisce solo afarci conoscere meglio la sua originale figura pubblica e privata, ma attraverso testimonianzeilluminanti ci aiuta a capire l’opera meritoria di un “educatore civile”, sempre animato daquell’instancabile “coraggio di cambiare”, che ha accompagnato intera la sua vita e che rap-presenta un esempio decisivo per quanti continuano a credere che la democrazia non cade dalcielo ma va costruita “dal basso”, attraverso la partecipazione diretta e il responsabile coin-volgimento di ciascuno di noi.

GUIDO BERSELLINI

Il riscatto. 8 settembre-25 aprile.Le tesi di Renzo De Felice - Salò - La Resistenza - L’identità della NazionePrefazione di Giorgio RochatEd. Franco Angeli - www.francoangeli.itMilano 1998 (terza ed. 2002), pp. 250. 21,69

Un riesame di alcuni fra i più controversi aspetti della decisiva,“fondante” vicenda storica dell’8 settembre 1943-25 aprile 1945. Sideve, con R. De Felice, parlare di “catastrofe” dell’8 settembre,“morte, o abdicazione morale della Nazione” o, con A. GalanteGarrone, di “miracolo” della sua resurrezione in quei drammatici mesi? Perché non si puòparlare di guerra civile? Perché non sono proponibili paragoni, o accostamenti, quasi sullostesso piano, tra la Resistenza e Salò? Vi era effettivamente una vasta “zona grigia” degli ita-liani tra le due parti e il movimento resistenziale è stato, come sostiene De Felice, minorita-rio, non autenticamente popolare?E, dunque, anzitutto Salò, in taluni suoi protagonisti (Mussolini, “sorvegliato speciale”;

Borghese e la X Mas), le sue caotiche e inafferrabili forze armate, i “ragazzi di Salò” - e gliappelli, tuttora reiterati, intesi alla promozione di non sempre limpide iniziative di riconcilia-zione. La crepuscolare, sanguinosa esistenza della Rsi.E poi la Resistenza. Il suo incerto, temerario, a tratti incredibile esordio e i suoi vasti, sorpren-

denti sviluppi; i suoi caduti; le battaglie; le repubbliche partigiane; le grandi agitazioni delmarzo e del giugno 1944; il dibattito politico e la stampa clandestina; il plebiscito del “no”

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degli oltre 600.000 internati italiani nei lager nazisti; le Forze armate regolari del governo delSud. Il sommario, inaccettabile giudizio di Indro Montanelli, Vittorio Feltri e Emilio Gentile sulmovimento di liberazione. La permanenza e l’identità della Nazione.Questi i temi svolti nel saggio, che dedica i suoi ultimi capitoli alle ragioni della memoria e

dell’attualità di quei fatti, e alla considerazione delle difficoltà di gran parte della storiografiaad afferrare e a rendere il senso più autentico di quegli anni e di quegli stessi valori di giusti-zia e libertà per i quali si era allora combattuto, che non rappresentano categorie di significa-to sociopolitico, ma che sono anzitutto progetti che affondano le proprie radici nella realtàdella vita morale individuale e collettiva.

CHIARA CRISCIANI

Il papa e l’alchimiaFelice V, Guglielmo Fabri e l’elixirEd. Viella - www.viella.itRoma 2002, pp. 217. 19,00

Il libro traccia una storia dell’alchimia occidentale tra medioevo eUmanesimo e delle sue figure maggiori (Alberto Magno, RuggeroBacone, Raimondo Lullo), dei legami con la scienza medica, dei rap-porti contrastati con la religione e con la Chiesa. In questo quadro illibro esamina poi, in particolare, l’interesse suscitato dall’alchimianella corte papale del tardo Medioevo.

Verso la metà del Quattrocento viene eletto al trono pontificio, col nome di Felice V, AmedeoVIII di Savoia: un tempo infaticabile promotore dell’ampliamento dello stato sabaudo, il ducaaveva in seguito rinunciato al potere politico e si era fatto eremita, con una scelta che avevacolpito e affascinato i contemporanei. Il papa, ormai anziano e angustiato nell’animo, è anchesofferente nel corpo, tormentato da una dolorosa paralisi per la quale, a giudizio dei medici,non esistono cure. Tra i funzionari della corte pontificia occupa un ruolo di spicco il franceseGuglielmo Fabri segretario del papa, medico, uomo fidato, esperto e colto. Con lui Felice Vintreccia un dialogo sull’esistenza di terapie segrete, sul valore dell’oro potabile e dell’arte tra-smutatoria, sulla “medicina filosofica chiamata elixir”. In questa cornice di dialogo di cortenasce il Liber de lapide philosophico di Guglielmo Fabri, un testo inedito di grande interesseper la storia dell’alchimia tra Medioevo e Rinascimento.

L’opera appare particolarmente significativa perché, rappresenta un riassunto delle vicendedell’alchimia latina medievale, le cui teorie però sono sistemate ed esposte in un contesto in cuigli assetti e i rapporti tra le discipline stanno cambiando.

Il testo latino del Liber de lapide philosophico e la sua traduzione in italiano accompagnanolo studio.

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PIERO MARTINETTI

La religione di Spinoza. Quattro saggi. A cura di Amedeo VigorelliEdizioni Ghibli; Collana Spinoziana - www.edizionighibli.comMilano 2002, pp. 167. 13,00

Piero Martinetti fu l’unico filosofo italiano che rifiutò il giuramen-to di fedeltà al fascismo imposto ai professori nel 1931, preferendorinunciare alla cattedra universitaria. Trascorse gli anni del volon-tario esilio interno (fino alla morte nel 1943) in solitaria meditazio-ne, completando la propria Metafisica e le magistrali monografie suKant, Hegel e Spinoza, pubblicate postume. Il volume raccogliequattro saggi rari su Spinoza (La dottrina della conoscenza e del metodo nella filosofia diSpinoza; La dottrina della libertà in Spinoza; Modi primitivi e derivati, infiniti e finiti;Problemi religiosi nella filosofia di B. Spinoza). Essi compongono un limpido profilo del filo-sofo olandese, incentrato nella sua idea di libertà religiosa: che fu a Martinetti modello diprassi oltre che di pensiero.

Piero Martinetti (1872-1943) è stato uno dei maestri dell’idealismo italiano del Novecento.Polemizzò con l’indirizzo immanentista di Croce e di Gentile, in nome di una apertura dellafilosofia alla problematica religiosa, pur non aderendo a nessuna chiesa. Fu anzi fortementeosteggiato dalla gerarchia cattolica e dal Fascismo, che ne fece sequestrare l’opera fonda-mentale: Gesù Cristo ed il cristianesimo (1934). Fu maestro di libertà, ispirando la scelta anti-fascista di molti intellettuali (come Eugenio Colorni, Ludovico Geymonat, Antonio Banfi,Norberto Bobbio) che presero parte alla Resistenza.

GRANDE ORIENTE D’ITALIA - PALAZZO GIUSTINIANI -Sulla soglia del sacro. Esoterismo e Iniziazione nelle grandi religioni e nella tradizione massonica.Firenze, 1-3 marzo 2002. Atti del Convegno di Studi;a cura di Antonio PanainoEd. Mimesis, Collana “Il flauto magico” - www.mimesisedizioni.itMilano 2002. 20,00

Questo volume si propone come un’articolata riflessione sulla dimen-sione iniziatica ed esoterica presente nelle grandi religioni dell’umani-tà dall’antica Grecia al Tibet, dal mondo egizio a quello indo-iranico,dall’Islam al Rinascimento europeo, dalle civiltà mesopotamiche alGiappone. L’esperienza iniziatica, che è anche alla base della cultura e della pratica massonica,indica la strada verso modelli spirituali e aggregativi alternativi rispetto a quelli dogmatici chemirano a soggiogare la coscienza della persona o che accentrano il senso della vita nella dimen-

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sione profana del potere e della ricchezza. Il contributo di studiosi diversi per formazione e campodi interessi, ma tutti accomunati da un desiderio di franco confronto e scambio intellettuale, con-ferma l’attenzione del G.O.I. verso temi difficili ma ineludibili per tutti coloro che credono nellapossibilità di un reale progresso spirituale, etico e culturale.

GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA

Conclusioni ermetiche, magiche e orficheA cura di Paolo Edoardo FornaciariEd. Mimesis, Collana “i cabiri” - www.mimesisedizioni.itMilano 2003, pp. 109. 8,00

Giovanni Pico della Mirandola (Mirandola, 1463- Firenze, 1494)pubblicò nel 1486 le DCCCC Conclusiones siue Theses, 900 tesiche intendevano indicare le vie della concordia universale alle scuo-le teologiche e filosofiche che si fronteggiavano al suo tempo.Un’opera complessa che ancora oggi continua a porre problemi diinterpretazione. In questa edizione sono per la prima volta tradotte,commentate e messe a confronto con i testi originariamente utilizza-

ti da Pico le tesi di contenuto più squisitamente esoterico: le dieci proposizioni formulatesecondo la dottrina di Ermete Trismegisto, le ventisei tesi sulla magia naturale e le trentunoproposizioni secondo gli Inni Orfici possono oggi essere lette e interpretate con maggior chia-rezza, anche in rapporto alla Qabbalah, di cui sono profondamente permeate, come vienemesso in luce dall’ampio commento di Paolo Edoardo Fornaciari.

GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA

Conclusioni cabalisticheA cura di Paolo Edoardo FornaciariEd. Mimesis, Collana “i cabiri” - www.mimesisedizioni.itMilano 1997 (terza ed. 2003), pp. 75. 7,00

Giovanni Pico della Mirandola (Mirandola, 1463-Firenze , 1494)è il primo cristiano di nascita che si sia mai occupato di qabbalahebraica. il suo intento fu di cristianizzare le interpretazioni qabba-listiche della Sacra Scrittura. Con questo, Pico intese giungere ascoprire conferme mistiche nel cristianesimo mediante gli stessistrumenti utilizzati dai qabbalisti per scoprire le verità nascostedella Rivelazione, compresa la data della fine del mondo. Le sue

Conclusiones cabalisticae (qui riproposte in una nuova edizione riveduta e corretta, con unampio commento) segnano l’inizio di quel vero e proprio movimento di pensiero che è cono-sciuto come qabbalah cristiana del Rinascimento, e di cui Pico va considerato il fondatore.

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A CURA DI SALVO VACCARO

La censura infinita.Informazione in guerra, guerra all’informazione.Scritti di: Abel Béjaoui, Noam Chomsky, William Church,Alessandra Dino, Vittorio Giacopini, Pina Lalli, Robert Nideffer,Alan Pittman, Gordon Poole, Jean Seaton, Danny Schechter,Tamara strauss, Salvo Vaccaro, R.S. Zaharna. Ed. Mimesis, Collana “Eterotopie” diretta da Ubaldo Fadini, PaoloFerri, Tiziana Villani - www.mimesisedizioni.itMilano 2002, pp. 240. 12,50

L’informazione corretta e puntuale si pone come uno squarcio diluce nelle opacità in cui si nascondono le nefandezze delle avventure belliche. Perciò infor-mare può essere pericoloso, a rischio della vita di giornalisti e operatori. In una nuova guer-ra in cui i civili sono le principali vittime, il tiro al bersaglio contro il giornalista sul campoè sempre più frequentemente una realtà quotidiana. Ma anche i media divengono una dellearmi delle strategie militari non solo per depistaggi, quanto soprattutto per seminare disin-formazione interessata, per conquistare consensi mondiali, per valorizzare elementi spettaco-lari privi di reale rilievo, per dare una parvenza del conflitto nella asetticità decantata (senzamorti né sangue).

CORRADO BALACCO GABRIELI

Microdizionario filosofico per vivere meglioBastogi Editrice ItalianaFoggia 2003, pp. 101. 6,00

Cinquantadue voci che toccano con la leggera ironia di un pamphlet,ma con il sottofondo di un serio e convinto orientamento verso il “vive-re”, improntato a concezioni liberali e anche di filosofia esoterica, tuttigli argomenti essenziali su cui si imposta un “progetto” di vita.

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GIOVANNI GRECO - DAVIDE MONDA

Il Rinascimento oggiProtagonisti del Rinascimento ancor vivi nell’immaginariocontemporaneo.Con un saggio e una post-fazione di roberto Roversi.Ed. Idea LibriRimini 2002, pp. 320. 29,90

“Molte delle cose descritte e narrate in questo volume hanno un’im-portanza tutt’altro che marginale per l’uomo contemporaneo”.In questa frase c’è la chiave di lettura di questo raffinato volume

degli autori Davide Monda e Michele Greco i quali in laboriosi annidi studio hanno imparato ad osservare nel Rinascimento valori, miti e problemi di sorprenden-te attualità, per abitare con più serenità e positività il nostro presente.Rinascimento oggi offre al lettore elementi fondamentali circa la vita, le opere e il pensiero

di alcuni personaggi emblematici che quel periodo storico ha prodotto per ritrovarvi quellaBellezza etico-spirituale unica cura forse al disincanto postmoderno che permea l’alba di que-sto nuovo millennio.

RL EXCELSIOR 21Oriente di Torre Pellice1900 - 2000 CONCERTO DEL CENTENARIOProdotto da Paolo Accusani - RL Excelsior 21

Wolfgang Amadeus Mozart (1756 - 1791)Quartetti per flauto ed archi

1 - Quartetto in La KV 298 11’58”THEMA Andante con variazioni - MENUETTORONDEAU -Allegretto grazioso ma non troppopresto, però non troppo adagio.Così - così con molto garbo ed espressione.2 - Quartetto in Do KV 285b 14’17”ALLEGRO - THEMA Andantino con variazioni3 - Quartetto in sol KV 285a 9’01”ANDANTE - TEMPO DI MENUETTO4 - Quartetto in Re KV 285 13’47”ALLEGRO - ADAGIO - RONDEAU

Flötenquartette ZUR WOHLTÄTIGKEITAntonmario SEMOLINI, flautoMaurizio SCHIAVO, violaMauro CATALANO, violinoYuriko MIKAMI, violoncello

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IL PENSIERO MAZZINIANO

Anno 57° - Nuova serieOttobre-Dicembre 2002Trimestrale n° 4Periodico dell’Associazione Mazziniana Italiana-Onluswww.domusmazziniana.it/ami/default.htm

Democrazia in azione

Editoriale e commentiPer la dignità della Repubblica e per la Costituzione. Memoria

storica e impegno civileB. Spinelli, La conoscenza recisa

Incontri e discussioniS. Mattarelli, Incontro sul tema: Dispotismo, tirannia e menzogna nell’esercizio del potere.

Le bugie del potere: se paese reale, paese virtuale e paese legale coincidono; M. Viroli, Ildespota e il tiranno si sono fatti furbi; P. Caruso, Il coraggio della lealtà. esercizi di stile dellademocrazia; E. Pensante, La demagogia al potere

M. Ainis, I fantasmi del passatoA. Baroni, Elogio della scuola confessionale ...C. Giusti, Sul rapporto pena di morte 2002 di “Nessuno tocchi Caino”La politica della libertà: Giuseppe Montanelli e il risorgimento. Dialogo su un libro di

Paolo Bagnoli. Intervengono: S. Mattarelli, C. Ceccuti, P. Romano CoppiniF. Scattolin, L’idea d’EuropaG. Celletti, Fra quanto una cultura europea?M. Finelli, L’Europa vista dall’Irlanda: cronaca di un voto

Saggi e interventiI. Manzi, La Repubblica romana del 1849: stato confessionale o stato laico?Benedetto Croce: il filosofo “civile” dell’Italia moderna. Alle origini dell’egemonia crocia-

na. Interviste a Salvatore Cingari e a Marcello Montanari; R. Pancaldi, Educazione e politi-ca nell’antifascismo liberale di Benedetto Croce

A. Lignani, Giulio Pierangeli e “La Critica Politica”A. Guasco, L’ultimo antiazionismoP. Bagnoli, L’anniversario sepolto del socialismo italianoM. Maistri, Repubblicanesimo, Democrazia, Socialismo delle libertàQuestioni di genere a cura di G. Argnani; F. Missiroli, Mazziniane per l’emancipazione:

“due secoli d’impegno”Cultura e società

Le sfide globali a cura di T. Casadei; V. Sorrentino, Processi di globalizzazione economi-ca, diseguaglianze e rivendicazioni democratiche; J. Molina, La voce negata di un popolo:cronistoria della lunga resistenza Mapuche; A. Sfienti, Società civile e repubblicanesimo nel-l’età globale

Mazzini, capitini, Gandhi: una religione umanitaria per la democrazia, dialogo con MarioMartini a cura di G. Moscati

S. Mattarelli, Sulla Romagna: La Romagna ritrovata altrove; F. Cavazza, La Romagna è

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NEA AGORA’Rassegna di Studi TradizionaliNumero doppio: Febbraio/Marzo 2003Anno VIII nn. 2 - 3/03. 7,50

La Guerra ... Quale follia! p. 5Il nostro viaggio nel deserto...verso la Terra Promessa p. 7L’Uomo e l’Assoluto nella filosofia indiana p. 9Sul cammino sciamanico: magici incontri nella terra dei Maya p. 15La morte: incubo o inizio di una nuova vita? p. 17In viaggio verso la Grande Opera p. 21Incas: Esoterismo, simbologia, astronomia p. 24

Storia di uno stato modificato di coscienza p. 29La Teosofia e l’emancipazione delle donne p. 33Medicina alternativa: perchè non parlarne? p. 37Omeopatia: l’approccio terapeutico p. 40Sabbia, Sale e Zolfo: analogie tra Ermetismo e Alchimia p. 43Verità rivelata e Verità relativa p. 47La Danza: una via verso la trascendenza? p. 53Il mito del fratello morto o del fidanzato fantasma p. 57Le origini arcaiche del Socialismo p. 63Simboli e sesso nella comunicazione pubblicitaria p. 69Differenti piani della psiche e orientamento spaziale p. 71Enrico Piccione, un tarantino in sudamerica p. 73La Matita Rossa p. 77Una voce ... dal buio p. 78La musica nel rituale massonico p. 79Attualità scientifiche p. 83Segnalibro p. 85

una vera regione?Gadda. il dolore della cognizione, intervista a Franco Gabici a cura si S.M.A. Barbon, Il senatore-musicista Andrea MascagniA. Brissoni, L’oltre e l’indietro

RassegneLibri

L’opzione; scelta ragionata; Fra gli scaffali, a cura si S.M.Spazio AMI

Documenti: A. Sanvito e G. Chiarello, Commemorazione dei Fratelli Bandiera; L. Bruni,Il risorgimento italianoLa viva memoria; Cronache