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anno IV numero 3 settembre–dicembre 2006 il RIVISTA DEL CENTRO STUDI GIUSEPPE GIOACHINO BELLI

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anno IV

numero 3

settembre–dicembre 2006

ilRIVISTA DEL CENTRO STUDIGIUSEPPE GIOACHINO BELLI

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Finito di stampare nel mese di novembre del2006 dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. »di Santa Rufina di Cittaducale (RI) perconto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma

anno IV, numero 3, settembre–dicembre2006

ISBN 88–548–0880–6ISSN 1826–8234–60003

e 10,00

Questo periodico è associatoall’Unione Stampa Periodica Italiana

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SOMMARIO

Fra dialetto e gergoLo sgherro romanesco del Seicento

di CLAUDIO COSTA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

Ricordiamo Pino FasanoSaluto a Pino

di GIULIO FERRONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23

Verità sublime e verità sfacciataUn saggio di argomento belliano

di PINO FASANO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27

La morte in piazza“Rinascita”, 13 marzo 1981

di LAURA INGRAO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45

Itinerario belliano illustrato all’Appia antica

di ALIGHIERO MARIA MAZIO . . . . . . . . . . . . 51

Sull’Appia antica in compagnia di BelliVisita guidata al parcodedicata ad Antonio Cederna

di PAOLO GRASSI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53

Fra Belli e RabelaisGrottesco e creaturalismo nei Sonetti

di EDOARDO RIPARI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67

E monsieur Belli andò a MilanoIl diario francese del 1827

di JACQUELINE RISSET . . . . . . . . . . . . . . . . 81

Lessicografia dialettaleAncora sulVocabolario del romanesco contemporaneo

di CLAUDIO GIOVANARDI . . . . . . . . . . . . . . . 85

Treno TropeaUna retromarcia lessicale

di CORRADO LAMPE . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95

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La satira a Roma in età modernaLa tentazione comica

di LUIGI CECCARELLI . . . . . . . . . . . . . . . . . 99

Cronachea cura di Franco Onorati . . . . . . . . . . . . . 109

Recensioni

Fra “indizi”, “coincidenze” e “occasioni”: il fa-scinoso mestiere critico di Maria Teresa Lanza,in Il ballo delle ingratea cura di C. Chiummo, C. Migliodi MASSIMILIANO MANCINI . . . . . . . . . . . . . 111

Studi su Mario Dell’Arcoa cura di F. Onorati, C. Marconi di EUGENIO RAGNI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115

Studi su Mario Dell’Arcoa cura di F. Onorati, C. Marconi;Concordanze della poesia di Mario Dell’Arcodi Claudia Pellegrinidi GABRIELE SCALESSA . . . . . . . . . . . . . . . . 120

Alla scoperta di Romadi Claudio Rendinadi UMBERTO MARIOTTI BIANCHI . . . . . . . . . 124

Cola di Rienzo. Mito e rivoluzione nei drammi diEngels, Gaillard, Mosen e Wagnerdi Italo Michele Battafaranodi TOMMASO DI CARPEGNA FALCONIERI . . . . . 125

Gaddadi Luigi Mattdi ALICE DI STEFANO . . . . . . . . . . . . . . . . . 130

Libri ricevuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135

4 il3/2006 Sommario

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1. Dal longobardo skarr(j)o ‘capitano’; la voce ha un etimo parallelo a sche-rano, dal gotico *skara ‘capitano’, di cui sgherro in certi contesti è sinonimo (cfr.DELI).

I bulli romaneschi, nel Seicento, hanno trovato la loro miglioreconsacrazione letteraria nell’eroe eponimo del poema di GiuseppeBerneri, Meo Patacca; e perciò è da questo che converrà prenderele mosse, precisando anzitutto che, a rigor di termini, Meo nondeve essere chiamato bullo ma sgherro: «Del più bravo tra i SgherriRomaneschi, / […] De sentì raccontà non vi rincreschi», esordisceil Berneri nel suo poema che fa di Meo Patacca il modello e il cam-pione della sua categoria.

Ma osserviamo distintamente i due termini della denominazio-ne: sgherro e romanesco.

Sgherro, dunque, e non bullo: nel poema infatti il Berneri igno-ra del tutto la parola bullo, mentre documenta ampiamente l’altravoce con una doviziosa costellazione di derivati; oltre a sgherro 1

(II 84, III 84, IV 31, IV 43, ecc.) e sgherri (I 1, I 41, I 68, I 70, ecc.)— sostantivo maschile singolare e plurale, ma usato anche in fun-zione aggettivale (solo però nella locuzione «gente sgherra» I 38,I 71, IV 8, VII 56, XII 48) — troviamo gli alterati sgherretto, usatopropriamente come diminutivo («sgherretti ciumachelli» XII,9) o

5

Fra dialettoe gergo

Lo sgherro romanesco del Seicento

DI CLAUDIO COSTA

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6 Claudio Costa3/2006

2. Sgherroncello è derivato da sgherro attraverso una trafila alterativa compostada: suffisso accrescitivo –one + interfisso –(i)c– + suffisso diminituvo –ello; l’interfisso–(i)c– è solidale col suffisso diminituvo –ello, tanto che la forma –(i)cello è considera-ta una variante di –ello; per solito –(i)cello si applica a voci che hanno già nella lororadice la terminazione –one ma priva di funzione accrescitiva, come accade in basto-ne>bastoncello, briccone>bricconcello (cfr. DARDANO 102).

3. Un confronto col Battaglia consente di verificare che sono documentati initaliano, oltre ovviamente a sgherro (già nel Cavalca, poi nel Poliziano e quindi, conreviviscenza cinque–seicentesca, nel Pulci, nel Bandello, nell’Aretino, nel Castellet-ti, nel Tassoni ecc.) tanto sostantivo quanto aggettivo (ma la locuzione gente sgher-ra è attestata posteriormente, nella Celidora del Casotti del 1734), il femminile sgher-ra e i sostantivi sgherrata e sgherraria/eria; inoltre abbiamo — mancanti nel Berneri— gli alterati sgherrino, sgherraccio, sgherrone, sgherraccia, gli aggettivi sgherresco esgherroccio e il sostantivo sgherrettone. Originali del Berneri sono dunque gli altera-ti sgherretto, sgherroncello, sgherretta, gli aggettivi sgherroso (che, abbiamo visto, èanche sostantivo) e sgherrico e il verbo sgherreggiare.

piuttosto con valore spregiativo («co’ ’sti su’ sgherretti» IV 35,«Senti! sgherretto mio, non m’infierisco» IX 38), e sgherroncello,con cumulo di suffissi 2 e valore sostanzialmente spregiativo(«certi sgherroncelli, / stracciati, furibondi, e minaccianti» IX60); interessante è l’estensione del sostantivo al femminile(«Nuccia s’infuria, e fa la sgherra» V 98) e, di conserva, anche deldiminutivo ma stavolta con connotazione vezzeggiativa («si piccadi sgherretta» XII 83, detto di Nuccia); ci sono poi il sostantivocomposto capo–sgherro («capo–sgherri» VII,61; anche in scrizio-ne separata: «di tutti il capo sgherro, che commanna / ad ogn’al-tro, è Patacca» IX,102) e l’aggettivo sgherroso ‘da sgherro’ (peresempio: «sgherrosi passi» I, 63; «sgherrosi / strapazzi» XII 42)‘che agisce da sgherro’ («un fraschetta sgherroso insolentello»IX,78; «sgherrosi moschettieri» X, 40) anche sostantivato nelsenso di ‘colui che si comporta da sgherro’ («arriva al fine a i duesgherrosi accosto» VII,83); molto particolare è l’aggettivo sgherri-co ‘formato di sgherri’ (sgherrico filaro ‘fila di sgherri’ IX,80); cisono poi due derivati sostantivali femminili: sgherrata ‘azione dasgherro’ (per esempio: «sgherrata romanesca» I,75; «piacevolesgherrata» XII,43; «fa’ gli bigna ‘sta sgherrata» IV,62; «fa’ sgher-rate» IV,20) e sgherraria ‘azione da sgherro’ (invariato al plurale«le sgherrarìa già fatte» XII,11); quanto ai derivati verbali mancail più prevedibile, cioè *sgherrare, mentre è in uso sgherreggiare‘comportarsi da sgherro’ («sgherreggia / com’una romanesca

il

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7Lo sgherro romanesco del Seicento fra dialetto e gergo

Bradamanta» XII,94 detto di Nuccia) e la locuzione tirà de sgher-ro ‘agire da sgherro’ (III,4) 3.

Lo sgherro è, ispirandosi alla definizione base del Battaglia, un«uomo d’armi al servizio di un potente», ossia un ‘bravo’; basta unlieve spostamento semantico per entrare o nell’ambito più specifi-co del ‘sicario’ o nell’ambito più generico della ‘persona rissosa’.Nel poema berneriano gli sgherri sono certamente uomini praticidi armi (la fionda, il coltello, ma anche la spada e perfino il fucile) 4

e adusi a menar le mani; resta poco chiaro di che vivano, perchénon sembrano al servizio dei nobili, benché è da essi che ottengo-no ampie elargizioni per finanziare prima la progettata spedizionemilitare contro i Turchi e poi, resasi questa superflua, le feste percelebrare la liberazione di Vienna.

È da sottolineare che, pur essendo uomini armati, gli sgherrinon sono però dei militari, non sono soldati; proprio intorno a que-sto punto ruota il pretesto che Marco Pepe prende per attaccarbriga con Meo Patacca: il primo rimprovera al secondo di non avermai fatto il soldato, diversamente da lui, che perciò pretende ilcomando dell’impresa; rimbrotto cui Meo risponde obiettando aMarco ch’egli ha partecipato sì alla milizia, ma solo come tamburi-no (IV 52–53):

Marco Pepe, che va, come suol dirzi,Col moccolo cercanno de fa’ chiasso,Pe’ dimostrà c’ha petto a risentirzi,Una risposta dette da smargiasso:«Ch’a te s’habbia ’sto fusto a preferirziCome negà me vuoi? se manco un passoDesti mai for di Roma, e ben sai tu,Ch’io so’ stato alla guerra un anno e più».

«Fà pur conto, ch’un tasto m’hai toccato,Da potè ben sonattela assai presto»,Disse MEO. «Già me l’ero imaginato,Ma il solo modo di ciaritte è questo:In guerra, è vero si, che ce sei stato,Ma non te vergognà de dire il resto,Tu, ch’adesso ti spacci un Paladino,Ch’in guerra solo hai fatto el tamburrino».

4. Meo è infatti un così bravo cacciatore che azzecca col su’ schioppo in tunquatrino (1,39).

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8 Claudio Costail3/2006

5. Così Porta che ricorda come il termine, in riferimento al dialetto, ricorraper la prima volta nella tradizione manoscritta della Cronica; in esso l’uso del suf-fisso –esco «vale qui, a Roma, a nominare il distacco che si prova verso una lin-gua che non è riuscita a radicarsi nella tradizione della città» (p. 8) e ciò appun-to a partire dal Cinquecento.

6. Aretino: «Un barone romanesco, non romano» (Ragionamento). Giam-bullari: «Comporteremo… che la vilissima feccia del mondo (…) non romani maromaneschi, cioè greci, sardi, corsi e fuggitivi de le loro patrie, offendino ilsommo Pontefice?» (Istoria dell’Europa). Cit. entrambi nel Battaglia.

7. Significativo è anche il fatto, notato ancora dal Prati 237, che «il popoloromano […] usa romanesco per certe verdure: carciòfoli romaneschi, fava romane-sca»; cio vuol dire che per i romani, anche dialettofoni, il termine romanesco ècaratterizzato dal tratto [– umano], per dirla in termini formali.

In definitiva gli sgherri di Roma si possono definire come uomi-ni armati di città, tendenzialmente rissosi.

Veniamo ora al termine romanesco. Già nel 1937 Angelico Pratifocalizzava esattamente i principali usi che della voce si sono fattiin Roma e fuori, nel corso del tempo. Qui mette conto ricordarnedue: romanesco detto di chi, pur vivendo a Roma e attribuendose-ne la cittadinanza, non è nativo dell’Urbe; romanesco detto degliappartenenti al livello sociale più basso della popolazione di Ro-ma, quindi sinonimo di persona del volgo, plebeo. Entrambe que-ste accezioni hanno un valore connotativo negativo e anche unasfumatura sarcastica, che condividono con l’uso del medesimo ter-mine in riferimento al dialetto cittadino (dialetto romanesco) 5.

Sembrerebbe che la prima delle due accezioni, documentatachiaramente nell’Aretino e nel Giambullari 6, abbia una vitalità ri-stretta al XVI secolo; ma una prova in absentia del suo valore po-trebbe stare nel fatto che, come osservava il Prati, «il popolo roma-no non fa uso del termine romanesco, né per indicare sé stesso, néil suo parlare: lui usa Romani e romano» (p. 237); e credo appro-priato ricordare qui anche il fatto che i veri Quiriti chiamano séstessi «Romani de Roma»; dunque, in definitiva, ciò che è romane-sco è altro dal romano 7.

La seconda accezione ha avuto invece vita molto più lunga e, inparticolare, è ben documentata nel Seicento, con attestazioni illu-minanti, come ad esempio quella del Peresio: «i popolari del volgo(…) per distinzione dai nobili e cittadini Romani sono chiamatiRomaneschi»; dunque, come appare, romanesco è usato in riferi-mento agli appartenenti al livello sociale più basso, romano in re-

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9Lo sgherro romanesco del Seicento fra dialetto e gergo

lazione agli altri due strati sociali: il medio, quello dei ‘cittadini’, el’alto, quello dei ‘nobili’.

Con tutta evidenza l’attribuzione di romanesco alla denomina-zione sgherro fa riferimento a questa estrazione sociale bassa: glisgherri provengono dal volgo di Roma; benché, com’è ovvio, nontutto il volgo di Roma è costituito da sgherri. Di fatto nel Meo Pa-tacca l’aggettivo romanesco compare frequentemente associato alsostantivo sgherro (I,1; III,39; VI,26; VI,75; VII,56) o fa riferimen-to a esso («sgherrata romanesca» I,75; «romanesco onor» I,92;«romanesca pompa» VI,46; «eroi romaneschi» I,84 chiama Meo isuoi sgherri, altrove indicati come «fanti […] romaneschi» IV,6; ea loro appartiene il «romanesco braccio» X,53 abituato a tiraresassate precise) e quando è pronominalizzato sottintende quasisempre il sostantivo sgherro (così il «romaneschi» assoluto diIII,41 e III,43, richiama responsivamente proprio la denominazio-ne «sgherri romaneschi» di III,39): le (insegne) «romanesche» diVI,41 richiamano le insegne dei «romaneschi» di V,89 dove l’agget-tivo è addirittura pienamente sostantivato, come avviene anche inXII,35 (in riferimento a «più d’un sgherro» di XII,34) e nella de-scrizione di Meo: «Costui tra’ Romaneschi è il più temuto, / S’è ilcapotruppa della gente sgherra» I,38; dubbio il valore in IX,61).Ma almeno una volta l’aggettivo non fa riferimento agli sgherribensì ai popolani romani; e ciò avviene proprio nella presentazio-ne della protagonista femminile dell’opera, Nuccia, che viene ap-punto definita «romanesca» (II,43) e altrove è anche indicata colsostantivo vezzeggiativo «romaneschetta» II,74 (le stesse conside-razioni non valgono invece laddove si dice di Nuccia che «sgher-reggia / Com’una romanesca Bradamanta» XII,94 perché qui, dinuovo, il riferimento è al mondo degli sgherri; poche ottave primaNuccia era stata anche chiamata, come già notato sopra, «sgher-retta» XII,83) 8. Di notevole interesse mi sembra infine la pretesa diMeo contro chi aveva accusato di falsità e pusillanimità gli sgher-ri romaneschi (III,39):

Dice un di loro: «Ho inteso dir giust’oggi,Che vônno annà ‘sti sgherri romaneschi,Benchè guida non habbiano nè appoggi

8. Si osserva inoltre che una volta l’aggettivo è usato in riferimento a pro-dotti tipici locali (vino romanesco II,5); cfr. nota precedente.

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A squinternà l’esserciti turcheschi».«Andaranno el malanno, che l’alloggi! —Rispose un altro — O sò che stanno freschi!Nelle sfavate hanno bravure assai,Quel che dicono poi non fanno mai».

cui Patacca risponde, pretendendo delle scuse verbali molto preci-se, che assumono la forma di una rettifica terminologica (III,50):

Voglio ch’ogn’un di loro si disdica,D’havè li nostri sgherri sbeffeggiati,Che quanno disse romaneschi, micaIntese di’ noi altri in Roma nati,Che de i sgherri parlò, voglio che dica,Forastieri, e poi qui romanescati,E che han valore, e san menar le mani,Quelli che sono in realtà Romani».

dove ricompare, per la necessità di dare al termine una definizio-ne che lo renda accettabile a Meo, la vecchia accezione di romane-sco come ‘non romano di nascita; romano d’adozione’ con conno-tazione negativa, altrimenti detto dallo stessso Meo Patacca–Ber-neri romanescato, cosicché il vero sgherro, quello che ha valore esa menare le mani, torna ad assumere la qualità di Romano con lamaiuscola.

Di fatto, a parte questa attestazione eccezionale, dobbiamo tor-nare all’uso dei termini corrente nel pieno XVII secolo ossia a quel-la distinzione tra Romani e Romaneschi, cioè tra i cittadini appar-tenenti alle classi medio–alte e quelli del popolo basso, cui corri-spondeva una divaricazione linguistica polarizzata, ai suoi estre-mi, in lingua e dialetto; ma ricordando che dall’uno all’altro polo sistendeva un continuum entro il quale l’acume di alcuni scrittori simostrò in grado di discernere strati differenti.

Come ho cercato di mostrare in altra sede 9, già il Peresio avevaindividuato due livelli dialettali, confermati pochi anni dopo dalBerneri. Il primo è quel «linguaggio che graziosamente si prattica

9. In Costa 97–99; che riprendeva concetti già precedentemente espostinella mia relazione Il romanesco letterario dal Cinquecento all’Ottocento tenuta nelConvegno internazionale di studi Giuseppe Gioachino Belli nel bicentenario dellanascita, a cura del Comitato Nazionale per il bicentenario di G.G. Belli, Roma 6–9settembre 1991.

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11Lo sgherro romanesco del Seicento fra dialetto e gergo

da’ […] popolari», altrove chiamati «popolari del volgo» e dal Ber-neri stesso indicati come «Gente volgare di Roma»: è un livello piùgrazioso, più elevato, ma comunque dialettale, che potremmo ap-punto chiamare volgare, in conformità alla terminologia usata daidue Autori.

Il secondo livello dialettale, più basso, che il Peresio rinuncia ausare perché costellato di espressioni oscure e che invece ilBerneri, raccogliendo la sfida, mette in campo nel suo poema, si di-stingue appunto per la farcitura di parole gergali ed è proprio il lin-guaggio che caratterizza gli sgherri romaneschi; esso, dice il Berne-ri, non è «notabilmente diverso» dall’altro «eccettuatene alcune pa-role, & Idiotismi», cioè proprio ed essenzialmente per la compo-nente lessicale, così come aveva già notato il Peresio, che lo avevadistinto per alcune «voci aspre» e per «quelle in gergo»; unicamen-te a questo secondo livello dialettale il Berneri riserva il titolo di«romanesco» 10; ma tale scelta sembra riduttiva o intenzionalmenteforzata dall’autore 11. Piuttosto il linguaggio degli sgherri ro-maneschi più adeguatamente (almeno ai nostri fini) credo potreb-be chiamarsi sgherresco.

Questo termine richiama immediatamente bulesco (‘bullesco’)con cui, secondo l’esemplare definizione di Padoan 110, si indica«il dialetto veneziano largamente intriso di termini gergali e furbe-schi, propri di bravi [corsivo dell’autore] e di prostitute» che sono ipersonaggi tipici di una letteratura, detta appunto «in bulesco» o«alla bulesca», fiorita a Venezia dall’inizio del Cinquecento: del1514 è infatti la commedia anonima La Bulesca «il prodotto esem-plare di questa letteratura» (ivi) che raggiunse l’acme tra il 1530 e

10. Così nell’Avvertimento dell’Autore a chi legge premesso al poema; tale pre-messa spiegherebbe, a ritroso, in questo senso molto ristretto, anche il valore del-l’espressione Linguaggio Romanesco presente nel frontespizio stesso del poema.

11. Infatti lo stesso Berneri nel testo del poema, come abbiamo visto piùsopra, benché usi la parola romanesco prevalentemente in riferimento al mondodegli sgherri, non lo fa però in modo esclusivo, come dimostra quel Nuccia roma-nesca II,43 in cui la parola vuol dire solo ‘del popolo, del volgo di Roma’; e, in defi-nitiva, la stessa espressione Linguaggio Romanesco presente nel frontespizio delpoema, poteva essere interpretata dai lettori al primo approccio al libro, prima diaver potuto leggere l’Avvertimento dell’Autore, come ‘linguaggio popolare romano’;essendo scontato che il Bernerri fosse ben consapevole di questa possibile alter-nativa, si potrebbe pensare che egli addirittura giocasse su tale ambiguità per atti-rare al libro un più vasto pubblico.

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12 Claudio Costail3/2006

il 1550 e si protrasse ancora per tutto il secolo con esempi fino nelSeicento ed echi addirittura nel Goldoni.

Dal bulesco si potrebbe dunque mutuare la definizione ma noncredo il concetto cui essa fa riferimento; certo lo sgherresco può benessere definito ‘il dialetto romanesco largamente intriso di terminigergali e furbeschi, propri degli sgherri’, che sono i personaggi tipi-ci di una letteratura che in sgherresco si esprime. Ma la distanza neltempo e la differenza delle condizioni ambientali, sociolinguistichee letterarie, impedisce, credo, di spingere il parallelo tra i due feno-meni fino alla loro assimilazione. L’adozione del bulesco ebbe carat-tere di moda letteraria, di artificioso gioco linguistico e dunque ebbefunzione esclusivamente espressionistica. Non così l’uso dello sgher-resco; o meglio: l’impiego dello sgherresco non risponde solo a que-ste esigenze; in particolare l’intento espressionistico non esauriscetutte le motivazioni del ricorso allo sgherresco.

Noto qui che la farcitura del romanesco con termini gergali nelcorso del Seicento, prima che nel Meo Patacca, è stata utilizzata inalcuni testi di commedie e che la letteratura teatrale rappresenta,di là dai poemi di fine secolo, l’altra significativa fonte di documen-tazione letteraria della storia del dialetto di Roma per il secolo inquestione. Storia — come ben sappiamo — del «disfacimento» delromanesco — scriveva Migliorini — «dovuto all’azione esercitataper secoli su di esso dal toscano che gli si sovrappose». E questodisfacimento, attivo a tutti i livelli grammaticali, opera, per assot-tigliamento anche sul patrimonio lessicale, tanto che Serianni 279ha potuto parlare di «scarsissima autonomia lessicale» del roma-nesco rispetto all’italiano.

Per un autore scrivere in dialetto senza disporre di un vo-cabolario dialettale è un’impresa disperata; se un attore può, nel-l’oralità della rappresentazione scenica, dare l’impressione di uncerto dialetto anche solo grazie all’inflessione, alla “calata”, unoscrittore che metta su carta un dialetto povero dal punto di vistasia fonomorfologico sia lessicale cosa potrà fare a sua volta? Haosservato Trifone 57: «La forte componente gergale che caratteriz-za le parti romanesche delle commedie del Seicento si spiegaanche con l’esigenza di restituire vis comica al dialetto, sopperen-do con un additivo lessicale allo scolorimento fonomorfologico».

La gergalizzazione del dialetto è dunque un modo che hanno gliscrittori per dare, anche nella versione a stampa delle loro opereteatrali, l’“impressione” del romanesco laddove la sua fisionomiapropria appare evanescente. Se è vero ciò che abbiamo argomen-

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13Lo sgherro romanesco del Seicento fra dialetto e gergo

tato qui, sulla scorta delle osservazioni di eminenti linguisti, dob-biamo concludere che in ambito romano (e certo ciò non sarebbepotuto accadere nel contesto veneziano) l’impiego dello sgherrescopuò avere anche funzione “impressionistica”: i termini gergali nonsono dialettali ma danno l’impressione al lettore di trovarsi di fron-te a un linguaggio popolare, volgare; se lo scrittore aggiunge espli-citamente che il personaggio che usa quei termini è romanesco illettore avrà l’impressione che quel gergo sia dialetto e che quel dia-letto sia romanesco.

Ma l’adozione dello sgherresco a scopi sia espressionistici siaimpressionistici non esaurisce ancora tutte le sue funzioni; è certoche il teatro abbia una connaturata vocazione mimetica ed è dun-que necessario ammettere che gli strumenti linguistici da essoimpiegati assolvano anche al compito di una riproduzione verosi-mile del reale. Mi rendo conto di addentrarmi in un campo di dis-cussione molto pericoloso; ma, d’altra parte, sono persuaso che,negli scrittori più avvertiti, l’uso dello sgherresco — e, più in gene-rale, del romanesco — adempia, almeno in parte, a una funzioneconsapevolmente realistica.

Non dimentichiamo infatti che all’inizio del Seicento il romane-sco manca di una sua tipizzazione letteraria, disponibile invece permolti dialetti, probabilmente proprio a causa della sua scarsadiversificazione rispetto alla lingua comune12. Quindi chi scrive inromanesco, non potendo rifarsi a un modello letterario, deve dinecessità ispirarsi alla realtà. E la realtà romana era molto diversada quella di altri contesti locali: certe situazioni linguistiche chealtrove sarebbero apparse come finzioni letterarie, a Roma aveva-no un riscontro oggettivo.

Ad esempio, l’ambientazione a Roma di una commedia pluridia-lettale rendeva plausibile la presenza in scena di dialettofonie di-verse perché davvero Roma era una capitale cosmopolita, data l’ec-cezionalità di una monarchia che a ogni nuovo sovrano poteva rin-novare la sua qualificazione linguistica: ne mostra piena consape-

12. Ricordo che Giulio Cesare Croce in una sonettessa multidialettale (pub-blicata postuma nel 1631 ma che potrebbe essere stata scritta tra fine XVI e iniziXVII secolo) volendo introdurre a parlare un «Romano» nel suo dialetto usa pru-dentemente la didascalia: «Disse il Roman mi pare» (corsivo mio; vd. Costa 101 e,più in generale, l’intero articolo per il problema della scarsa tipizzazione delromanesco nel Seicento).

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volezza il gentiluomo romano Vergilio Verucci nel prologo dellasua famosa commedia multilingue Li Diversi linguaggi in cui inten-de persuadere il pubblico circa la realtà di fatto della pluridialetta-lità nella specifica situazione romana; a parlare è il personaggioromanesco di Giorgetto, che di fatto è scritto in un italiano consolo qualche tratto lessicale e rari tratti fono–morfologici romani;egli dice:

Di dieci che siamo, siamo tutti de diversi paesi, & chi parla in un modo,chi in un altro, & di qui l’Autore hà voluto dar nome all’opera LI DIVERSI

LINGVAGGI per la diuersità del parlare dei recitanti; E non è gran marauiglia,perche essendo questa Città di Roma un commun Ricetto di tutte le Na-tioni del Mondo, non è gran cosa che in essa vi sia gran diuersità di lin-guaggi. ma non vi immaginate però di haver a sentire un Franzese, un Ve-netiano, un Bergamasco, un Napolitano, ò un parlar Fiorentino, ò Ma-tricciano, ò Ceciliano, ò Perugino, ò Bolognese, giusto, giusto come è ilparlare della loro patria, perche oltre che per esser lingue scabrose, e diffi-cili, con tuto questo, mentre uno di questi tali che sia delli sopradetti paesi,si troua fuori della sua patria, si sforza di pigliare il parlar commune & piùvsitato di tutti gli altri & in somma il più bello & diletteuole, come è que-sto Romano: è ben vero che sempre ritengono li accenti & le pronuntiedelli paesi loro. (cc. 5v–6r)13

In questa descrizione, relativa ai primissimi anni del Seicento,appaiono chiaramente definiti una serie di fatti importanti: — Roma è una città fortemente popolata dall’esterno (è «un com-

mun Ricetto di tutte le Nationi del Mondo») e dunque vi si sen-tono naturalmente usati diversi parlari dialettali («non è grancosa che in essa vi sia gran diuersità di linguaggi»);

— gli alloglotti, per rendersi comprensibili, tendono ad attenuareil proprio dialetto (limitato quasi alla sola inflessione: «ritengo-no li accenti & le pronuntie delli paesi loro») avvicinandosi alromano («mentre uno di questi tali che sia delli sopradettipaesi, si troua fuori della sua patria, si sforza di pigliare il par-lar […] Romano»); e questa osservazione mi sembra davvero

13. La più antica edizione nota di questa commedia è quella stampata in Ve-nezia da Alessandro Vecchi nel 1609 (su cui vd. Cairo–Quilici 203, n. 1343); diessa purtroppo non ha tenuto conto nel suo benemerito lavoro Mariti che ha for-nito l’edizione integrale moderna del testo (alle pp. 107–206) ma secondo la poste-riore stampa Venezia, Spineda, 1627. La citazione presente nel testo segue l’edi-zione del 1609 conformemente all’esemplare della Biblioteca Casanatense segna-to Comm 375/2.

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15Lo sgherro romanesco del Seicento fra dialetto e gergo

acuta perché fotografa un fatto di contatto tra lingue moderna-mente analizzato dalla sociolinguistica: si tratta di quel fenome-no di integrazione linguistica per cui l’immigrato tende ad adat-tarsi alla comunità di arrivo adottando un’interlingua in cui gra-dualmente i caratteri della lingua di arrivo soppiantano quellidella lingua di partenza la quale sfuma progressivamente;

— il dialetto di Roma (ovvero il romanesco di seconda fase) è moltoprossimo all’italiano tanto nella funzione sociale (funge da «par-lar commune») quanto nella sua sostanza linguistica (è «il piùbello & diletteuole» al modo stesso che l’italiano, lingua comu-ne, è più bello e piacevole di qualunque suo dialetto).Di fronte ad analisi così sagaci, che dimostrano una sicura at-

tenzione a quello che il Belli avrebbe chiamato «il testimonio delleorecchie», si deve necessariamente concedere un certo credito aquesti più avveduti Autori e accettare che le loro raffigurazioni dia-lettali abbiano una qualche valenza realistica.

Ma torniamo sull’uso in Roma dell’italiano parlato, che è un’al-tra delle peculiarità della realtà linguistica romana del Seicento:esso rendeva possibili situazioni altrove irrealistiche, come adesempio quella descritta, alla metà del secolo dal nobile romanoFrancesco Maria de Luco Sereni il quale creò per le scene il perso-naggio comico, destinato a un duraturo successo, del Don Pasqua-le, principe stolido, che, pur essendo di nascita nobile, «per l’inha-bilità dell’ingegno, e per l’assiduo commercio, che tiene con Cata-luccia sua balia si presuppone, ch’habbia dalla medesima appresoin buona parte la pronuntia, e la forma del suo linguaggio»; e Ca-taluccia è espressamente detta «romanesca». La tragicommedia diesordio del personaggio, Il Fausto overo Il Sogno di Don Pasquale(rappresentata nel 1659), andò in stampa con una importante pre-fazione dell’Autore in cui egli distingue chiaramente come «barba-ra ed incolta» la lingua romanesca di Cataluccia (e di Momo, altropersonaggio romanesco), come «vile» quella ibrida di DonPasquale, mentre l’italiano degli altri «personaggi gravi» della tra-gicommedia, compresi quelli espressamente indicati come romani,è la «perfetta locuzione familiare del nostro idioma»14. Come appa-

14. Citazioni dall’edizione Il Fausto overo Il Sogno di Don Pasquale. Tra-gicomedia, di Francesco Maria De Luco Sereni Romano. Dedicata sll’Altezza Se-reniss., e Reverendiss. del Sig. Prencipe Cardinal d’Este, Venetzia, Nicolò Pez-zana, 1661; edizione rara che risulta attualmente la più antica disponibile essen-do introvabile la precedente Roma, Dragondelli, 1660 (cfr. FRANCHI 343).

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re, qui è rappresentata una triplice stratificazione linguistica: l’ita-liano, si badi indicato dallo scrittore romano come «familiare […]nostro idioma», si sovrappone all’ibrido idioletto del Don Pasqua-le e questo allo schietto romanesco di Cataluccia (e di Momo). Unasituazione del genere — in cui ci sono personaggi di estrazionesociale alta o anche media che parlano italiano compresenti conpersonaggi servili dialettali e con altri che adottano varietà inter-medie tra lingua e dialetto — in Roma poteva anche avere qualitàdi realismo e perciò non essere una completa finzione scenica.

Insomma ogniqualvolta un Autore consapevole non ci offre unarappresentazione polarizzata, tipizzata ma piuttosto diffratta, stra-tificata dei linguaggi in ambiente romano aumentano le probabili-tà che stia perseguendo anche il fine di rispecchiare la realtà: unarealtà che è assai diversa da quella di altre grandi città i cui scrit-tori invidierà il Belli perché

un più assai vasto campo che a me non si presenta era loro aperto da par-lari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popo-lo, ma usati da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: dondenascono le lingue municipali. […] Non così a me si concede dalla mia cir-costanza. Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante […] col soccorso[…] di una lingua […] non italiana e neppur romana, ma romanesca.(VIGHI 20, §§ 32–35).

Con ciò non pretendo di dire che il romanesco che troviamo rap-presentato nei testi a stampa delle commedie romane del Seicentosia riprodotto fedelmente, come poi dal Belli; si tratterà pur sempredi una raffigurazione letteraria ma va concesso agli Autori, almenoad alcuni, di aver avuto un orecchio attento alla realtà sia perché lasituazione romana era eccezionale, sia perché il romanesco, comedetto, mancava di una tipizzazione letteraria, sia infine perché ilpubblico cui si rivolgevano, anche con le edizioni successive allemesse in scena, era un pubblico locale in grado, da una parte digustare le sfumature di ambito romano, e, d’altra parte, di ricono-scere le contraffazioni del romanesco agito e scritto.

Ricapitolando e schematizzando potremmo dire che sia nelleparti in romanesco delle commedie del Seicento, sia nel Meo Pa-tacca del Berneri, da cui siamo partiti e su cui concluderemo, l’im-piego del dialetto ha funzione parallelamente espressionistica erealistica mentre le emergenze di gergo svolgono funzione impres-sionistica; in particolare nel poema, l’espressionismo tende a con-centrarsi nelle parti diegetiche mentre il realismo si evidenzia pre-

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valentemente in quelle mimetiche ma, quando sono introdotti aparlare gli sgherri, torna in primo piano l’impressionismo.

Di fatto però una tale schematizzazione è poco soddisfacenteperché tende a offuscare il talento degli Autori che consiste proprionel tenere contemporaneamente le fila di un gioco linguistico–let-terario raffinato e complesso volto in definitiva, nelle opere piùriuscite, a creare un personaggio a tutto tondo, quale è ad esempioproprio Meo Patacca. Il Meo Patacca che campeggia nel poema delBerneri è un personaggio vero perché, in definitiva, è dotato di vitapropria: non solo perché è sopravvissuto al suo Autore ed è passa-to di mano da un autore all’altro, ma soprattutto perché muove illettore: lo induce a prender parte ai suoi casi, a provare per luiaffetti, a darne valutazioni, tanto che infine il lettore può descrive-re il personaggio come se esistesse davvero: Meo è un capopopoloforte e valente che sa all’occorrenza menare le mani o parlare per-suasivamente; manierato nei modi e azzimato nel vestire, mira acostruirsi un’immagine che non sia offuscata dalle miserie materia-li (come la povertà o la fame) e morali (quali la paura, il sentimen-talismo o l’ignoranza)15.

Meo Patacca sente di essere costantemente osservato e non vuolrischiare di non apparire all’altezza della sua reputazione; perciòtutti i suoi gesti sono studiati, i suoi comportamenti teatrali. Allasua allindatura nel vestirsi e acconciarsi corrisponde un’ostentazio-ne nel muoversi; ma anche, a suo modo, una ricercatezza nel par-lare e nel porgere.

È fondamentale capire che Meo Patacca è quello che è non sol-tanto per le qualità che possiede ma perché è capace di alimentar-ne la fama; insomma egli non solo è bravo ma fa il bravo. Credo che

15. Gli elementi di descrizione del personaggio che elenco qui e di seguito liricavo da una normale lettura critica del testo letterario Meo Patacca; mi sono ac-corto, ascoltando la relazione di Gioia Longo, che vi sono significative congruen-ze con ciò che ella ha ricavato dalle sue indagini; ciò mi appare come un segno,da un lato di una duratura persistenza nel tempo di certe caratteristiche che rite-niamo comunemente specifiche del bullo (l’attenzione nel vestire, nel parlare, ilmettersi in mostra di fronte a un pubblico — quello del gruppo — la necessità dipavoneggiarsi affinché gli siano riconosciute delle qualità peculiari — quali laforza, il successo con le donne, ecc. — l’imitazione di un modello e così via), dal-l’altro di una acuta sensibilità antropologica del Berneri che gli ha consentito didescrivere così pertinentemente il tipo.

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qui possa trovarsi almeno una delle chiavi necessarie per definiree comprendere la figura del bullo. Il bullo non è semplicemente unpersonaggio dotato di certe caratteristiche ma è uno che tali carat-teristiche mette in mostra; ovvero, diciamolo nuovamente, nonsolo è bullo ma fa il bullo.

Ma proprio perché è necessario, per incarnare completamentela figura del bullo, fare il bullo, ossia ostentare di esserlo, è facileche la condizione degradi in mero comportamento ovvero che de-generi nel solo fare il bullo senza esserlo, senza averne le qualità.Ci sono dunque propriamente due figure del bullo: quella origina-ria, sostanzialmente positiva di chi insieme è e si mostra bullo; equella degenerata, negativa, antipatica di chi fa solamente il bullosenza nemmeno averne davvero le qualità. Il Berneri mette a fuocoperfettamente la questione fin dalla prima inquadratura del perso-naggio di Meo Patacca. Illuminanti sono proprio i versi d’esordiodel poema, i primi quattro dell’ottava iniziale (I,1):

Del più bravo tra i Sgherri Romaneschi, Che più d’ogn’altro mentovà se fava, De sentì raccontà non vi rincreschi Quel gran valor, per cui scialante annava.

Da una parte è certamente vero che il poeta intende «racconta-re il gran valore del più bravo degli sgherri romaneschi»; due sonodunque i dati di fatto: sia «il gran valore» di Meo Patacca sia il suoessere «il più bravo degli sgherri romaneschi».

D’altra parte il Berneri pone in grande evidenza anche altri dueelementi: che Meo «si faceva mentovare più d’ogni altro» sgherroe che del suo valore «andava scialante», espressione che non vuoldir solo ‘ne andava orgoglioso’ ma, più ancora, ’ne faceva pompa;se ne faceva bello’16.

Più in generale tutto il poema procede sul doppio binario dellarealtà e dell’apparenza dal cui dissidio scaturisce il complessivo ef-fetto comico (o appunto eroicomico); e l’ironia del poeta si disse-mina per mille solchi grandi e piccoli: a partire dal fondamentale

16. Il Berneri stesso glossa scialante come ‘fastoso’ e scialare come ‘comparirvago’; nella Raccolta scialante è chiosato ‘fastoso, sfarzoso, appariscente’ e sciala-re ‘godere, trionfare, sguazzare’; quindi annà scialante può ben voler dire ‘andartrionfante; godersela; sguazzarci’.

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19Lo sgherro romanesco del Seicento fra dialetto e gergo

confronto tra il protagonista e Marco Pepe, altro sgherro che osasfidare il campione e ne viene sonoramente sconfitto; Marco è de-stinato a soccombere perché, a differenza di Meo, è un bullo solo aparole; dice il Berneri (IV,60):

…pare Orlando alle parole;Ma in realtà d’havè calche stropiccio,Ha paccheta assai granne 17.

Ma anche in luoghi minori del poema l’Autore sottolinea il dop-pio livello del bullo; come lì dove, per far risaltare un capo–sgher-ro a confronto con un ragazzo impertinente che, suo malgrado,viene alle mani con lui, presenta lo sgherro come (IX,81): «Ter-ribbile di faccia, e più di nome» come a dire che la nomea contri-buisce alla terribilità di un bullo più ancora del suo aspetto e delsuo essere18.

Una nomea si costruisce coi fatti ma anche, o forse ancor più,con le parole; ed è proprio questo il punto che ci interessa.

È di tutta evidenza, leggendo il poema, che il primato di Meo sututti gli altri sgherri gli è dovuto non solo alla superiorità nel menarle mani, cosa che gli garantirebbe al massimo il rispetto dei suoi

17. ‘Al sentirlo parlare sembra Orlando ma in realtà ha una gran paura disubire qualche bussata, qualche batosta’. Il bullo a parole è in realtà un antibul-lo, perché manca delle qualità intrinseche per esserlo; è un usurpatore, perchéapprofitta delle apparenze verbali per sembrare bullo. Meo Patacca aborriscequesto antibullo come dimostra anche la tirata contro i falsi sgherri romaneschiche sono falsi romaneschi e insieme falsi sgherri appunto perché sono solo deiparolai vigliacchi. Meo è invece un personaggio serio, un eroe vero; avevainquadrato esattamente il dissidio Bragaglia 220 scrivendo: «Il negativo di MeoPatacca è Marco Pepe. È profondamente errato presentare come gradasso vileil personaggio di Patacca […]. Rumoroso e vigliacco è soltanto Marco Pepe».

18. Per inciso, lo sgherro in questione ha davvero un nome terribile Sputa-morti, ma è anche capace di cose terribili, come alzare da terra il suo avversa-rio per i capelli con la sinistra prendendolo a pugni con la destra e infine sca-gliandolo di peso contro un muro; Sputamorti è uno sgherro di nome e di fatto:bravazzo arciterribilissimo lo chiama il poeta (IX,85) che ne dà una descrizio-ne fisica così impressionante da lasciarci in dubbio se sia davvero comica(IX,84): «Sputamorti si chiama, et è un maiale / Assai granne, spalluto e cor-pulento, / Fa d’un paro di baffi capitale, / Che par, ch’a tutti mettino spavento;/ Ha un neo peloso e riccio in tel guanciale, / Che gli serve d’un orrido orna-mento, / E danno segno d’un cervel baiardo, / Severo il ciglio e ammazzator losguardo».

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pari, ma soprattutto alla sua maggior eleganza nel parlare, nel por-gere e nel vestire, cose queste che gli conferiscono effettivamente ilfascino del capo.

Si ricordi che il primo discorso di Meo, che è — sottolinea ilpoeta — «parlator di pezza» (I,67), è una vera e propria concio-ne, rivolta ai suoi compagni per persuaderli all’impresa eroica,espressa in un dialetto oratorio, ampio, studiato che, pur restan-do all’insegna della popolarità, mette in campo tutte le risorseculturali di cui uno sgherro si presume possa disporre. Egli dun-que è più ricercato degli altri bulli nel dire 19; nel suo parlato, piùe meglio che in quello dei suoi pari, si mostra il linguaggio dellosgherro romanesco.

Un linguaggio gergale che sembra caratterizzarsi, più che per lacripticità, per la capacità di far riconoscere chi lo parla appuntoper quello che è, cioè uno sgherro; ma, si badi, questa riconoscibi-lità non è tanto la riconducibilità a un gruppo, ma piuttosto qual-cosa di soggettivo 20: è l’identificabilità personale con un modello,un modello noto e temibile.

\Chi parla lo sgherresco, in quanto lo parla intanto dichiara,minaccia d’essere uno sgherro e se ne costruisce la fama; e chimeglio lo parla è migliore sgherro degli altri.

E così scopriamo che le funzioni che prima cercavamo nel testoletterario, l’abilità del poeta — il Berneri — le ha trasferite nel per-sonaggio — Meo Patacca — che ora sbalza dalla pagina proprioper quel suo linguaggio cui egli stesso, Meo Patacca, conferiscefunzione realistica, perché usandolo dichiara realmente chi è,impressionistica, perché impiegandolo intende impressionare ilsuo uditorio, ed espressionistica, perché utilizzandolo in modosuperlativo afferma la sua superiorità di caposgherro.

19. L’abilità oratoria di Meo Patacca, la sua capacità di parlare cerimoniosa-mente, è più volte rappresentata dal Berneri che, almeno in un’occasione, la sotto-linea espressamente, quando, dovendo Meo ripassare dai vari signorotti a riscuo-tere il denaro che gli hanno precedentemente promesso, annota: «Pe’ poi cerimo-nià co’ i signorazzi, / Studia a trovà romanziche parole, / Acciò le pozza dir mas-siccie e tonne» (VII 1).

20. Allo sgherro infatti non interessa poi molto identificarsi con altri ugualidi un gruppo poiché egli mira a essere un capo; dunque il suo riferimento è pro-prio a un modello che sia superiore ai ranghi normali del gruppo.

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21Lo sgherro romanesco del Seicento fra dialetto e gergo

Il Meo Patacca scolpito dal Berneri, prototipo dello sgherro o,diciamo pure, del bullo, ci mostra come per essere bullo bisognafare il bullo e per fare il bullo è essenziale dire di esserlo, usandoun linguaggio che di per sé stesso fa essere il bullo21.

Bibliografia

Ho utilizzato in questo contributo la seguente bibliografia “di servizio”:

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Casanatense, 2 voll., Roma, Bulzoni, 1981.C. COSTA, Intorno ad un sonetto romanesco del Seicento pubblicato da Benedetto

Croce (con alcuni testi inediti del XVII secolo), in Croce e la letteratura dialet-tale, a c. di L. Biancini, L. Lattarulo, F. Onorati, “Quaderni della bibliotecanazionale centrale di Roma”, 7, 1997, pp. 89–123.

M. CORTELAZZO – P. ZOLLI, Deli –Dizionario etimologico della lingua italiana, 5voll., Bologna, Zanichelli, 1979–1988.

M. DARDANO, La formazione delle parole nell’italiano di oggi. Primi materiali e pro-poste, Roma, Bulzoni, 1978.

S. FRANCHI, Drammaturgia romana. Repertorio bibliografico cronologico dei testidrammatici pubblicati a Roma e nel Lazio. Secolo XVII, Roma, Edizioni di Sto-ria e Letteratura, 1988.

L. MARITI, Commedia ridicolosa. Comici di professione, dilettanti, editoria teatralenel Seicento. Storia e testi, Roma, Bulzoni, 1978.

21. Credo possa essere pertinente qui il richiamo, almeno tangenziale, al con-cetto di «estetica del gergo» definito da Sanga 164 come «l’aspetto che i gergantidanno consapevolmente alla propria lingua e la percezione di questa lingua daparte dei parlanti e degli ascoltatori» considerando che «la cultura dei marginaliè fortemente ideologizzata, è cioè cosciente dei propri valori, che consapevolmen-te ostenta» (ivi 163).

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G. PADOAN, Primi momenti dell’esprissivismo linguistico nel teatro del Ri-nascimento, in L’Espressivismo linguistico nella letteratura italiana, «Atti deiconvegni lincei», 71, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1985, pp.99–119.

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Romana, 1932.G. SANGA, Gerghi, in Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli

usi, Roma–Bari, Editori Laterza, 19962, pp. 151–189.L. SERIANNI, Lingua e dialetto nella Roma del Belli, in Saggi di storia linguistica ita-

liana, Napoli, Morano, 1989, pp. 275–296.P. TRIFONE, Roma e il Lazio, Torino, UTET Libreria, 1992.R. VIGHI, Belli romanesco, Roma, Colombo, 1966.

Il riferimento bibliografico dell’editio princeps del poema berneriano è il seguente:Il Meo Patacca, overo Roma in feste ne i trionfi di Vienna. Poema giocoso nel LinguaggioRomanesco, di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo. Dedicato al-l’Illustriss. & Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi, Roma,Marc’Antonio & Orazio Campana, 1695.

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Il 10 luglio di quest’anno è mancato, dopo lunga malattia, PinoFasano (era nato a Cagliari nel 1937). Dall’italianistica all’impegnonell’università, Fasano ha lasciato un segno profondo «come stu-dioso di intrecci, di interferenze, di aperture e contatti tra culture,tra passioni, tra modalità dell’esprimere e del vivere»: sono alcunedelle espressioni che gli ha dedicato Giulio Ferroni all’indomanidella scomparsa. E dello stesso Ferroni publichiamo, col suo con-senso, il testo della commemorazione. Socio del Centro Studi G.G.Belli, a Belli egli ha dedicato numerosi, rilevanti contributi: uno deiquali — scelto, fra i tanti, da Marcello Teodonio — riproponiamoai nostri lettori, non senza segnalarne l’originalità dell’approcciocritico. (N.d.R.)

Caro Pino, hai portato via con te tanta parte della vita di una gene-razione universitaria, di quella nostra generazione che si è affacciatanel più sorprendente momento di espansione dell’università, chenegli anni ’60 ha vissuto la gioia della scoperta di nuovi orizzonti e hapotuto credere nella letteratura, nell’arte e nella cultura come occasio-ni di vita, possibilità di esperienza autentica ed essenziale, modo de-terminante di riconoscimento del mondo, di sua proiezione verso giu-stizia e verità.

Tra i tanti di questa generazione, tra fremiti di rivolta, tra insod-disfazioni e intolleranze, abbiamo creduto nel valore delle istituzio-

RicordiamoPino Fasano

Saluto a Pino

DI GIULIO FERRONI

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ni (e in primo luogo dell’istituzione universitaria), nella possibilitàdi infondere in esse una nuova vitalità, di trasformarle in vista diun mondo libero e aperto. E tu a queste speranze hai partecipatocon passione e con rigore, con una cura razionale e con una cordia-lità fraterna: impegnato sui campi più diversi, dall’insegnamentoalla ricerca, dall’attività sindacale e politica a onerosi incarichi isti-tuzionali, ma sempre con un senso vivissimo dell’amicizia, dellacollaborazione solidale. Era come se fossi sempre al servizio di unacomunità reale e ideale, di cui condividevi le passioni, le speranze,il gusto della vita e del gioco.

Negli anni a noi più vicini, in cui il dominio della comunicazio-ne sembra aver ridotto lo spazio delle cose che più amavamo, haivisto e abbiamo visto quelle istituzioni espandersi, lacerarsi, degra-darsi: ma tu hai sempre mantenuto il tuo impegno rigoroso, la tuaesigenza di razionalità, il tuo rifiuto di ogni investimento mitico, diogni scorciatoia illusoria e rassicurante. Vera passione civile la tua,non propagandata, non ostentata, non esibita narcisisticamente:vissuta in profondità ma come sospesa in una sorta di pudore, quelpudore che si riconosceva in certi tuoi sguardi e in certi tuoi sorri-si; nemico di ogni retorica, estraneo e indifferente a quel gusto ebrama di potere che suole deformare tanti comportamenti politicied istituzionali. La radice di tutto ciò era certamente nella tua pas-sione umana e culturale, nell’amore per gli oggetti dello studio, perla letteratura intesa come luogo di incontro, intreccio di esperien-ze e di possibilità di vita, di luci e colori: forse quel “calore di fiam-ma lontana” del “tuo” Foscolo.

Il “tuo” Foscolo, il “suo” Foscolo mi fa risalire ai nostri primiincontri, insieme ad Amedeo Quondam e a Gabriele Muresu (e inquattro inventammo un giocoso e scintillante sodalizio), e poiBiancamaria Frabotta, Novella Bellucci, Nicola Longo e tanti altri,alla fine del 1964, alle prime lezioni romane di Walter Binni. Avevagià portato a termine la sua tesi di laurea sulla traduzione delViaggio sentimentale di Sterne; già il suo Foscolo era un italianointrecciato al mondo, un grande scrittore votato al viaggio e all’esi-lio, che portava la tradizione italiana a confrontarsi non solo con leculture classiche, ma con la moderna cultura europea, che dallaparola assoluta di una poesia “greca” si affacciava verso i sentieriinterrotti e sospesi di una nordica ironia. Mi rendo conto oggi chein quel Foscolo del giovane Pino erano già in nuce quella attenzio-ne alle interferenze, a percorsi culturali non lineari, ai contatti traculture, linguaggi, esperienze, che ha caratterizzato tutta la sua

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25Ricordo di Pino Fasano

attività di studioso e che lo ha portato sempre più ad allargare losguardo al di là dell’italianistica stricto sensu verso le letteraturemoderne europee, verso quella disciplina che con termine forseimproprio e un po’ pedante si suole designare come “comparatisti-ca”. Ma nello stesso tempo, proprio studiando il suo Foscolo, hasaputo penetrare in profondità entro gli strati interni dei testi, inprocessi di strutture sempre in movimento, mai assestate entroordinata continuità di scrittura (da Stratigrafie foscoliane del 1974ad altri studi sulla composizione dell’Ortis).

Di particolare acume anche i suoi studi sulle esperienze poeti-che settecentesche e sulle discussioni romantiche: e nell’attenzionealla Romantik egli ha verificato e approfondito sempre più l’apertu-ra verso uno spazio culturale “europeo”, al romanticismo comeaggrovigliata e mossa geografia culturale ha dedicato il suo ultimolibro, originalissimo manuale, strumento di studio, miniera diintuizioni critiche offerte con understatement e quasi nonchalance(L’Europa romantica, 2004). Ma la sua cura per intrecci e interfe-renze si era manifestata già negli studi dedicati alle letterature dia-lettali, da quella napoletana (essenziale il suo studio sulla “questio-ne Sgruttendio”) a quella romanesca (quante volte abbiamo parla-to insieme del suo e nostro Belli, a cui ha dedicato il libro I tarli del-l’alberone). E non solo come continuità familiare con il maestroRenato Fasano, Pino non poteva prescindere da una passionemusicale e da una attenzione ai rapporti tra letteratura e musica.La vastità dei suoi interessi in anni più recenti lo ha portato a con-frontarsi con la critica tematica, negli studi sul viaggio, sul naufra-gio, sull’esilio, fino all’impresa a cui ha dedicato grandi energienegli ultimi anni, anche quando la sua salute vacillava, quella delDizionario dei temi letterari della Utet, curato con MarioDomenichelli e con Remo Ceserani: proprio in uno degli ultimi col-loqui abbiamo parlato di una voce di questo dizionario, che ricor-do anche perché si tratta della voce Sport e perché essa evoca inostri discorsi sullo sport, gli scherzi e le battute, gli aspetti ludicie ironici della sua personalità.

L’inevitabile rilievo dei giorni più vicini fa approdare il ricordodi tante giornate passate insieme, di tanti studi, di tante iniziativee di tanti impegni, a momenti più recenti, alle energie da Pinocoraggiosamente profuse per la creazione e l’organizzazione delcorso di laurea in Letteratura musica e spettacolo, in un momentotanto difficile come quello attraversato dalla Sapienza, nello sfascioamministrativo e logistico aggravato dalla scriteriata divisione

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26 Giulio Ferroniil

della Facoltà, a cui Pino si è opposto con tutte le forze. Confinatocon lui nella stessa stanza, ho visto Pino procedere in questo ulti-mo impegno istituzionale con pazienza infinita e con una speran-za nella ragione, risolvendo i problemi più diversi, caricandosi diquelle minute incombenze amministrative che in un organismofunzionante non gli sarebbero spettate: impegnato a mantenerevivo, dentro l’istituzione, uno spazio per le cose che contano, per laletteratura, per la razionalità, per un’ipotesi di civiltà europea, pertutto ciò che dà un senso alla nostra vita, al nostro essere qui, alnostro rapporto con le giovani generazioni.

Ora Pino ci ha lasciato, ci hai lasciato: abbiamo perduto nonsolo un grande collega, ma una presenza essenziale della nostravita, una parte di noi: i compagni e gli amici di sempre, quelli dellanostra generazione, sanno che per loro questa università non potràpiù essere quella che hanno amato, in cui hanno creduto, chehanno visto sfaldarsi in questi anni, ma in cui la tua presenza e iltuo impegno ci spingeva ancora a sperare, nonostante tutto.

Ciao, vecchio Fasano, chi ci darà più il tuo sorriso, la tua serie-tà e la tua giocosità, le tue ire e le tue dolcezze?

3/2006

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Il testo che segue è un saggio di Pino Fasano tratto dal volume Itarli dell’alberone (Roma, Bulzoni, 1991). Come scrive lo stesso stu-dioso, nel volume egli aveva raccolto tre suoi saggi di argomentobelliano: I tarli dell’alberone. Belli 1834 (edito in Letture belliane. Isonetti del 1834, Roma, Bulzoni, 1984); Il nome dei sonetti (inter-vento inedito al XV Convegno Interuniversitario organizzato daGianfranco Folena a Bressanone); Verità sublime e verità sfacciata(già in G.G. Belli romano, italiano ed europeo, Roma, Bonacci,1985); Belli, Roma, Leopardi (edito in Leopardi e Roma, Roma, Co-lombo, 1991). Alla fine della prefazione, Fasano scrive:

Questo libro è stato portato a termine e preparato per la stampa in So-malia*. E doveva essere dedicato ad alcuni colleghi i quali, svolgendo inquel paese, assieme a chi scrive, compiti di cooperazione universitaria,erano stati partecipi di un piccolo cenacolo letterario, e benevoli ascoltato-ri fra l’altro di mie disimpegnate letture belliane, incongrue e straniate inquel “regno mussurmatico”, ma — forse per questo — gradevoli. Gli amicimi comprenderanno se, dopo quanto è accaduto in quello sfortunato paese,preferisco segnare una meno giocosa connessione del mio lavoro, valgaquel che vale, a quel contesto. Dedico questo libro perciò a Ibrahim, «cuc-

* Pino Fasano ha lavorato per alcuni anni per l’università italiana di Mo-gadiscio, e a un certo punto ne è stato il coordinatore, lavorando con grandissi-mo impegno e indignandosi per gli errori infiniti fatti dalla nostra politica, che haabbandonato il paese a se stesso (Giulio Ferroni).

Verità sublimee verità sfacciata

Un saggio di argomento belliano

DI PINO FASANO

27

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28 Pino Fasanoil3/2006

chiere de grinza». E attraverso di lui, uomo “senza tribù” e vero amantedella libertà, alla Somalia: con l’augurio che ritrovi presto la via della pacee la speranza di un futuro migliore.

1. Il bilinguismo della poesia belliana è fenomeno, se non as-solutamente eccezionale, certamente singolare. Come ha osserva-to Tullio De Mauro 1, il caso Belli non è assimilabile a quello di altripoeti o scrittori d’arte che hanno affidato a due idiomi diversi lapropria produzione artisticamente qualificata: da Callimaco e Teo-crito a Petrarca e Poliziano, a Pascoli, Beckett e Pavese.

Potremmo infatti parlare, per la maggior parte di tali casi, diun bilinguismo imperfetto: una delle due lingue adottate tende co-munque a esprimere un dominio sull’altra, sia che si tratti di unosquilibrio di livelli retorici (una lingua ‘alta’ per generi seri, unalingua ‘bassa’ per generi leggeri); sia che, a parità di prestigio deidue idiomi adottati, ce ne sia comunque uno che schiaccia quan-titativamente l’altro, rendendolo, per tal via, secondo: le toccantipoesie inglesi dell’ultimo Pavese spiccano anche per essere,appunto, eccezionali nella produzione di un poeta a tutti gli effet-ti italiano.

In Belli viceversa il bilinguismo è praticato (cito ancora DeMauro) con «pari sincerità»: italiano e romanesco sono codici sog-gettivamente paritari per gli intenti poetici di Belli 2, tant’è vero chevengono entrambi adoperati, per la schiacciante maggioranza deicasi, entro la stessa struttura formale, il sonetto. E l’equilibrioquantitativo fra le due produzioni è visibile anche materialmente,oggi che possiamo confrontare i tre classici volumi mondadorianidei Sonetti romaneschi con i tre tomi, altrettanto ponderosi, delBelli italiano curato da Roberto Vighi 3.

D’altra parte, è fin troppo ovvio ripeterlo in questa sede, a taleeccezionale equilibrio del bilinguismo belliano dal punto di vistasoggettivo, corrisponde un clamoroso e inconfutabile dislivello deirisultati oggettivi: la qualità di quei peculiari rerum vulgarium frag-

1. DE MAURO 1965.2. Una felice immagine di VIGOLO 1963 (I, p. 77) ci dà il senso di questa geo-

metrica parità fra i due idiomi belliani: «La sua orbita poetica può essere conmolta verosimiglianza paragonata a un’ellisse di cui la lingua e il romanescooccupano i due fuochi».

3. Belli italiano, 1975.

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29Verità sublime e verità sfacciata

menta belliani che costituiscono il monumento della plebe romanaè imparagonabile, mediamente, a quella della produzione in lin-gua, anche se quest’ultima non appare poi così ignobile nel pano-rama generale della lirica italiana di mezzo Ottocento.

Di fronte a tale situazione, la tendenza critica prevalente è stataquella di una diretta rimozione della ingombrante presenza — delBelli ‘italiano’, relegato per lo più al livello del documento biografi-co 4. Ma non è mancato chi, come l’Orioli — in un impegnato inter-vento al convegno belliano del ’63, poi riprodotto come introduzio-ne a una antologia delle Poesie in lingua da lui curata 5 — ha riven-dicato l’opportunità di promuovere una miglior conoscenza delBelli ‘italiano’, alla luce di due considerazioni: da un lato, l’esigen-za di rivedere il comune giudizio “assolutamente negativo” sullapoesia belliana non romanesca, dall’altro l’asserita esistenza di nu-merose connessioni fra la produzione in lingua e quella dialettale,sia sul piano di coincidenze topiche particolari, sia sul piano piùgenerale della poetica e persino dell’orientamento linguistico (lascelta lessicale sarebbe aperta alla parlata quotidiana non senzacedimenti paradialettali).

Entrambe le considerazioni appaiono in certo modo condivisi-bili, e rendono pienamente motivata la successiva meritoria edizio-ne del Vighi. Ma l’esigenza preliminare sembra quella di uscire dal-l’equivoco di una valutazione assurdamente globale del Belli ‘italia-no’: quasi che un corpus di oltre milleduecento poesie, composteentro un arco di tempo che va dal 1805 al 1861 (come dire daBonaparte a Garibaldi, o se si vuol restare sul terreno letterario, daiSepolcri a Emilio Praga), possa — e sia pure tenendo conto dell’ar-retratezza e dell’immobilismo della peculiare situazione romana —presentarsi con una compattezza e uniformità tali da consentire ungiudizio univoco.

In realtà la stessa esigenza rivalutativa, fondata o meno che sia,viene automaticamente vanificata nel momento in cui si pone perla produzione in lingua complessivamente considerata, e global-mente contrapposta a quella dialettale.

La polarizzazione dell’opera belliana secondo la pura discrimi-nante linguistica conduce infatti inevitabilmente a far coincidere le

4. Larga utilizzazione in tal senso ne fa JANNI 1967. 5. ORIOLI 1963.

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30 Pino Fasanoil3/2006

ambivalenze della personalità e della cultura del Belli con il suobilinguismo (coincidenza di cui la critica più recente, da Muscet-ta 6 in poi, ha ben mostrato la sostanziale falsità); e altrettantoinevitabilmente, a riversare sulla poesia in lingua tutto il negativodella cosiddetta “duplicità” belliana, connotandola forse al di là delgiusto in termini di accademismo versaiolo.

La falsificazione, in questo senso, è tanto più preoccupante per-ché investe in pieno anche il giudizio sul Belli romanesco: compat-tato, per così dire, in senso progressivo o addirittura rivoluziona-rio, tanto più quanto gli atteggiamenti reazionari e codini vengonotutti caricati sulla poesia in lingua; reso integralmente ateo e mate-rialista in proporzione alla devozione e al bigottismo assegnati aiversi italiani.

Viceversa, una lettura del Belli ‘italiano’ condotta in opportunadiacronia, e in contrappunto, non in opposizione, al Belli romane-sco, approda a una ben più salda (e non velleitaria) valorizzazione;giacché scopre non solo nessi occasionali, linguistici o topici, fra isonetti dialettali e le composizioni in lingua, ma proprio una sortadi continuità, lo srotolarsi di un fil rouge unico che appunto nell’al-ternanza dei due idiomi palesa i segni della coscienza di una crisidella lingua poetica, che stenta a ritrovare il proprio dominio sulreale.

Sicché per questa via si potrà anche contribuire a sbloccare lasituazione di astratto isolamento del momento ‘romanesco’, la cuiesplosione rischia spesso di apparire miracolosa (rendendo fra l’al-tro equivocamente decisivo l’influsso dell’esempio portiano); e sipotrà altresì sovvenire alla necessità di una lettura in verticaledegli stessi Sonetti, sul cui svolgimento vanamente le date bellianeposte in calce richiamano l’attenzione di una critica ancora oggiincline a una considerazione “troppo unita” del canzoniere roma-nesco, e ad arbitrarie estrapolazioni di temi e motivi.

2. Già tutta la lunga fase dell’apprendistato belliano 7 è segnatada questa coscienza di crisi della lingua poetica: non a caso ladimensione prevalente (a parte le esercitazioni pie) è quella berne-

6. MUSCETTA 1961, p. 53, e in genere i primi quattro capitoli della monogra-fia, e il settimo.

7. Si veda il I volume del Belli italiano.

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31Verità sublime e verità sfacciata

sca, rivelatrice dei meccanismi di distacco fra parola e cosa indot-ti dalla tradizione petrarchistica, anche se a sua volta esposta airischi del petrarchismo capovolto.

A tali rischi, più o meno consciamente, il giovane Belli tenta disottrarsi collegandosi a una tradizione più strettamente romana del‘giocoso’, più superficiale e personaÍistca, ma anche più mordace eaggressiva (più “manesca”, insomma): il modello è l’Aretino piutto-sto che Berni, e fra i punti di riferimento più recenti Muscetta hagiustamente richiamato le satire antigraviniane del Sergardi 8.

Anche l’episodio più noto di questo apprendistato, il canzonie-re per la Roberti 9 (datato fra 1822 e 1824), lungi dal costituire lospontaneo sfogo lirico di un innamorato, non si sottrae a questoclima di tensione linguistica, creando curiosi cortocircuiti fra lanobilitazione classica del nome dell’eroina (assimilata alla proper-ziana Cinzia), e la sua impetuosa e affettuosa deformazione dialet-tale, Cencia; o esercitando il più arisocratico dei virtuosismi lirici,l’acrostico, su formule triviali, che sembrano tratte da graffiti amo-rosi di giardini pubblici, con contorno di cuori trafitti: «Cencia èdi Peppe», «Peppe è di Cencia», «Cencia anima mia» 10.

Ha ragione Muscetta 11 quando osserva che questa esperienza,ben al di là di risultati poetici comunque solo raramente apprez-zabili è metodologicamente decisiva, come primo vero esercizio dicostrizione artistica. Ma aggiungerei che non è secondario il fattoche questa esperienza si consumi intorno al sonetto amoroso, laforma tipica della tradizione petrarchesca e petrarchistica, solle-citata da Belli a partire da tutte le sue secolari varianti, sino a faresplodere il contrasto fra la tensione manieristica e.preziosisticadel modulo letterario e certe incipienti pretese di realismo:

Scorron l’ore notturne: ed a me accanto Confusi in un romor discorde e roco Stridere il riso, e folleggiare il gioco Ascolto, e a vario suon mescersi il canto.

Solo e pensoso, e di te pieno intanto, Io della casa nel più interno loco

8. MUSCETTA 1961, p. 71.9. Belli italiano, I, pp. 563–636.10. XI bis, XII bis, e XV nel Canzoniere. Belli italiano, I, pp. 580, 582, 585. 11. MUSCETTA 1961, p. 61.

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Invan la pace ed il silenzio invoco, Prodigo di sospir, molle di pianto 12.

In questo senso il canzoniere Roberti, nonché un punto d’arrivoo addirittura «la cosa migliore del Belli italiano», costituisce unasorta di ‘livello zero’ dell’espereinza letteraria belliana, giacchéchiarisce l’esigenza di riformulare ex novo il rapporto tra forma everità: tanto più in un momento in cui l’esigenza di partecipazionepersonale alla realtà tende a superare l’ambito del privato e delsentimentale, e a trasformarsi in volontà di testimoniare una siapur cauta coscienza critica del proprio tempo.

3. Tre notevoli poesie del 1825, scritte a brevissima distanzal’una dall’altra, documentano efficacemente questa fase: la “novel-la” Il festino di Citera 13, la “querimonia poetica” Che tempi! ossia IlTeatro 14, e la canzone Per la dissensione degli Accademici Filar-monici 15.

Nelle agili sestine di settenari del Festino di Citera la favola (ilvero Amore quando assume le fattezze della Fedeltà è scambiatoper la Noia, e quando indossa la «maschera severa» della Filosofia,«lo stiman tutti il Sonno»; mentre è alla Menzogna «vestita daRicchezza» che tutte le donzelle si volgono invocando: «Scopriti anoi, Signore / Che tu sii certo Amore») non è ferma a un genericomoralismo astorico, ma si colloca in un quadro ben datato e loca-lizzato: troppo facile riconoscere il tumultuoso e violento carneva-le romano nella descrizione della «gentil Citera» in festa; e l’enu-merazione degli argomenti frivoli e pseudoprogressivi del «celebreCourier» (“Vendite all’asta, morti, / meteore, nuovi libri, / vapori,franchi porti, / politici equilibri, / lotterie, diligenze,/ e alcuneimpertinenze”) 16 imposta una polemica contro certi verbalistici ot-timismi sull’età moderna che per alcuni aspetti rimanda alla piùsalda e consapevole ironia della futura Palinodia leopardiana.

Non si tratta, appunto, di una posizione miopemente misonei-sta che anzi il pendolo dell’ironia belliana si sposta subito (e sia

12. XX del Canzoniere, w. 1–8. Belli italiano, I, p. 596. 13. Datata 5 luglio 1825, Belli italiano, I, pp. 663–667. 14. Datata 15 luglio 1825, Belli italiano, I, pp. 671–682. 15. Datata 22 agosto 1825, Belli italiano, I, pp. 685–692.16. vv. 73–78. Belli italiano, I, p. 665.

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33Verità sublime e verità sfacciata

pure con certi margini di ambiguità, entro i quali momentanea-mente il distacco ironico può convertirsi in simpateticità) su certigretti laudatores temporis actii, come il «signor Pasquale, romano,onesto computista di vari luoghi pii», cui in Che tempi! è messo inbocca un lungo, goffo mugugno in ottave di quinari contro le novi-tà degli usi teatrali, dai testi tragici contemporanei (“Or temporali,/ forche, flagelli, / sempre pugnali, / sempre coltelli; / e ganzi langui-di, / sfumati e lindi / che in punta parlano / del quinci e quindi”) 17

al nuovo sistema di illuminazione con i chencbé a olio, dalla demo-cratizzazione della prenotazione e vendita dei posti (“là, in fila unsecolo / peggio d’un cane: / come in repubblica / vendeasi il pa-ne”) 18, allo stil nuovo della musica rossiniana:

s’aman più i ciuffoli che li violini grazie al suo genio signor Rossini.

Oggi l’amabile recitativonon è accettabile morto né vivo:

e ad ogni ariuccola qui sta il busillisi cerca strepito si vonno strilli 19.

Ma il teatro, e la rozza polemica dell’“onesto computista”, co-stituiscono una copertura più o meno consapevole al discorso benpiù profondo che il Belli vorrebbe affrontare. «Un bel servizio / deli Francesi», si lagna il signor Pasquale, ed è chiaro che l’allusionetocca responsabilità non solo teatrali di «monsù Voltaire» 20 e deisuoi concittadini. Alla fine il nostro computista svela il suo radica-le rimedio di zelante reazionario ai “tempi”:

Principis ostia chi ha testa dice.

17. vv. 65–72. Belli italiano, I, p. 675.18. vv. 157–160. Belli italiano, I, p. 677.19. vv. 261–272. Belli italiano, I, p.680. 20. v. 33 Belli italiano, I, p.672.

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34 Pino Fasanoil3/2006

Sta tutto il canchero nella radice 21.

A parte il capovolgimento ironico della prospettiva (ulterioreschermatura difensiva fra l’autore e ciò che scrive, vediamo com-parire in queste due “novellette” giocose — non a caso dedicaterispettivamente al carnevale e al teatro — meccanismi di oggetti-vazione della realtà sociale che tendono a distanziare dal soggettopoetante la materia poetica, allo scopo di assicurare una liberarappresentazione della “verità”. È un’esigenza di straniamento chemuove, in profondo, dalla constatazione della consumazione deicodici poetici vigenti come strumenti espressivi del reale; anche se,per ora, fanno aggio su tali motivazioni intrinseche quelle estrin-seche: dichiarate espressamente da Belli in relazione al terzo diquesti componimenti del ’25, la canzone «per la dissensione degliaccademici filarmonici di Roma», scritta e pubblicata appena unmese più tardi delle due citate novellette.

Com’è noto, in una tarda lettera ad Amalia Bettini «per modo diprefazione» alla canzone, Belli spiega di aver voluto far sorgere«nei più svegliati de’ lettori… almeno un dubbio che io sotto lieviapparenze avessi forse occultato più sublimi verità, non concessedalla condizione dei tempi a libero esame» 22.

E meno inaspettato e sorprendente, rispetto alle strofette gioco-se appena citate, ci apparirà allora il Belli di questa canzone, chedal pretesto di una scissione dell’Accademia Filarmonica romanatrae in dignitose cadenze classicheggianti aspre considerazionisulla «italiana decadenza», dovuta non alla violenza straniera, maalla egoistica mancanza di carità di patria e di civile concordia dei«neghittosi figli» d’Italia. Con gli accenti di «leopardiana amarez-za» che riconosce in questa poesia Muscetta 23, e forse con ancorpiù complesse risonanze e consonanze leopardiane — l’aspirazio-ne dell’uomo a una «dubbia dolcezza», la contrapposizione egoi-smo–eroismo, l’appassionata valorizzazione civile, “patriottica”,degli studi archeologici e filologici, tutti motivi che rimandanoesplicitamente (anche nella comune matrice petrarchesca) alle duecanzoni leopardiane del ’18 e soprattutto all’Angelo Mai:

21. vv. 293–296. Belli italiano, I, p. 681.22. Belli italiano, I, p. 692. La lettera è datata 31 gennaio 1836.23. MUSCETTA 1961, p. 97.

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35Verità sublime e verità sfacciata

E voi, che intorno ai faticosi marmi, alle tavole mute,agli ermi luoghi, ed alle inculte lande quasi proceder pannidi seconda salutecreator nuovi ad opre venerande, chiara progenie e grande,voi la terra natia loda e ringrazia; perché, s’altri la strazia,di lei prendete si benigna cura,che un conforto si spande sull’acerbezza della sua sventura 24.

Sicché non apparirà del tutto casuale la stessa singolare coinci-denza fra la dichiarazione belliana sugli intenti “occulti” della suacanzone, solo apparentemente ispirata a «una meschina lite framusici», e il vanto ironico del giovane Leopardi, a proposito ap-punto dell’«orribile fanatismo» nascosto nell’Angelo Mai, di sapertrarre da «innocentissimo» soggetto occasione a parlare «di quelloche più gli importa» 25.

4. Ma siamo ormai alle soglie della «commedia romana». Esarà importante notare che il processo di travestimento e pruden-ziale allontanamento da sé della «sublime verità» messo in operain queste poesie del ’25, non è organicamente diverso dallo sforzodi oggettivazione nel personaggio plebeo (giustamente definitocome «processo di non identificazione») 26 che Belli persegue neisonetti romaneschi.

Lo scanso di responsabilità dichiarato nell’Introduzione del ’31(«il popolo è questo, e questo io ricopio») è lo stesso che ritrovia-mo in una breve nota introduttiva premessa a Che tempi!:

…io non ho fatto che fedelmente raccogliere le rimate lamentazioni delnostro professore di scrittura doppia, le quali vi presenterò come prorup-pero dalla di lui riscaldata fantasia… 27

24. vv. 61–72. Belli italiano, I, p. 687.25. Lettera a Pietro Brighenti del 28 aprile 1820, in LEOPARDI, I, pp.

1099–1100 (n. 150).26. FERRONI 1981, p. 25.27. Belli italiano, 1, p. 671.

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36 Pino Fasanoil3/2006

Ma, quel che più conta, per l’argomento del nostro discorso, ègià presente all’interno dei descritti meccanismi di distanziamentofra poeta e verità la scelta di una esplicita diversificazione lingui-stica. «Solecismi, barbarismi e idiotismi» del signor Pasquale 28,avverte Belli, sono conservati a bella posta, come relativi alla qua-lità dell’interlocutore:

…non essendo questo un sfogo mio, me ne lavo le mani29.

Non c’è nessuno iato decisivo come si vede, rispetto alla sceltadialettale dei Sonetti come via per «ritrarre la verità» senza com-promettersi personalmente in essa. La poetica belliana imbocca lavia ‘romanesca’ quasi naturalmente, senza brusche sterzate; anchese, come è ovvio, la trasformazione dell’interlocutore–maschera dapiccolo borghese a plebeo costituisce un gradino ben significativoai fini dell’effettiva possibilità di tradurre queste scelte in risultatipoetici apprezzabili.

Ma su questo brevemente tornerò alla fine. Per ora mi premeportare un’altra pezza d’appoggio alla tesi della continuità e conti-guità (che, ripeto, non vuol dire affatto immobile uguaglianza etanto meno parità di valore) fra il Belli ‘italiano’ e quello romane-sco. L’utilissimo Regesto delle poesie belliane dialettali e italianecurato, in occasione della pubblicazione degli atti del Convegnodel ’63, da Lucio Felici 30, ci mostra in modo lampante l’intermitten-za delle due linee, ciascuna delle quali non è mai in alternativa sin-crona all’altra, ma s’affiochisce e s’assottiglia in corrispondenzaall’ingrossarsi dell’altra.

Ciò dovrebbe provare senza possibilità d’equivoco che il bilin-guismo belliano non rappresenta il fronteggiarsi di due propostepoetiche e magari ideologiche parallele e alternative, ma scandi-sce, con l’alternanza di periodi romaneschi e italiani, le fasi diun’unica ricerca, che si intensifica ossessivamente in una direzio-ne o nell’altra, e ciclicamente ripropone (anche le fedi linguistiche

28. Ai quali si potrebbero aggiungere le storpiature di motti latini (si ram-menti il sopra citato piincipis ostia, per obsta), anticipazione del “latinesco” ditanti Sonetti.

29. Belli italiano, I, p.671.30. FELICI 1965, pp. 785–839. “Alcune aggiunte e rettifiche” a tale Regesto in

Belli italiano, 1, p. XI.

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37Verità sublime e verità sfacciata

di Belli sono “semestrali”) il ricambio del codice a un nuovo e di-verso livello di evoluzione (o involuzione) complessiva.

Ad esempio, dopo la lunga fase di maturazione “in lingua”(non interrotta nella sostanza da occasionali uscite dialettali chegiustamente Muscetta classifica nella categoria dell’«arcadia ver-nacola» 31, e che sono in questo senso omologabili alla coeva pro-duzione italiana), fra 1830 e 1837, quando più densa e ininterrot-ta scaturisce la vena romanesca, le poesie italiane sono relativa-mente poche, e quasi tutte di carattere privato occasionale (sivedano i galanti sonetti ad Amalia Bettini nel ’35 32 o gli auguri inrima alla moglie).

Ma, a riprova che la scelta dialettale non era, in linea di princi-pio, esclusiva e decisiva, non mancano in questi anni tentativi ditrasporre anche in lingua la poetica dei Sonetti. Esemplare in que-sto senso è il blasfemo Capitolo della preghiera, dell’ottobre 1831,tutto giocato su una pesante paronomasia nascosta, il cambio d’i-niziale pregare/fregare

(Poi sin che duri il Cerchio e ’l Culiseo, nunc et semper sarai da me Pregata, come con donne insegna il Galateo, di sotto voce e con la P aspirata) 33

in sintonia, su questo scambio osceno sacro/profano giocato sulsignificante, con la procace ma ancora letteraria ispirazione deicoevi sonetti di Morrovalle. Non per caso il capitolo è firmato conla sigla riservata alla raccolta romanesca, resa equivalente, in que-sto caso, alle iniziali maiuscole “ufficiali”: 996 = ggb = GGB34.

5. La situazione si capovolge dopo la morte della moglie (1837),avvenimento che com’è noto provocò mutamenti determinanti,anche economici, nella vita del Belli. Il flusso dei sonetti romane-schi rallenta bruscamente nel 1838 (solo 25) e praticamente s’inter-rompe fra 1839 e 1842 (otto sonetti in quattro anni). Nello stessoperiodo, Belli scrisse oltre trecento composizioni in lingua, che for-nirono la materia per due raccolte a stampa (Versi di Giuseppe

31. MUSCETTA 1961, p. 68.32. Belli italiano, II, pp. 147, 150, 151, 152, 153, 154, 160, 162. 33. vv. 382–385. Belli italiano, II, p. 54.34. Ibid.

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38 Pino Fasanoil3/2006

Gioacchino Belli romano, Roma, Salviucci, 1839; Versi inediti diGiuseppe Gioacchino Belli romano, Lucca, Giusti, 1843).

Il ripudio del romanesco (che Belli com’è noto tenta addiritturadi materializzare, richiudendo i sonetti in una cassetta e allonta-nandoli da sé) 35 è certamente motivato anche dalla necessità per ilpoeta di recuperare la dimensione di letterato “tiberino” e ligiofunzionario, da cui l’agiatezza di fonte matrimoniale lo aveva prov-visoriamente sganciato. Ma ancora una volta, sarebbe un errorefermarsi a queste motivazioni estrinseche, e considerare questoperiodo di attività ‘in lingua’ come una parentesi di non–poesia daaccantonare senz’altro, come semplice prodotto di una situazionebiografica che momentaneamente estraniasse Belli dalla sua ‘vera’ispirazione. In realtà le poesie italiane del ’39–’42 costituiscono l’e-satto anello di collegamento — non il diaframma — tra le due fasidel “monumento” dialettale.

Il “diagramma” dei Sonetti abbozzato da Vigolo individua, all’al-tezza del ’36–’37, un processo di «alleggerimento del romanesco»,sintomo di un riavvicinamento della parlata alla persona del poeta(un «riflusso verso il soggetto») 36.

È proprio questo processo che sfocia, all’altezza del ’38, eviden-temente accelerandosi e precipitando sulla spinta della situazionesentimentale determinata dagli avvenimenti biografici, nella bru-sca decisione di abbandonare del tutto — almeno mo-mentaneamente e, si direbbe, sperimentalmente — il livello dialet-tale, allentando così di colpo la tensione straniante che quel livellocomportava.

Ma lo stacco avviene, ancora una volta, non senza la con-temporanea presenza di elementi di continuità nella poetica bellia-na. Già dal ‘34, nella pienezza dell’epoca ‘romanesca’, poteva acca-dere che la scelta dialettale perdesse di necessità, apparendosostanzialmente fungibile con quella italiana tanto che il sonettopoteva apparire come “tradotto” in romanesco. Ho già citato 37 l’os-servazione di Vigolo su l’ultima terzina de La sperienza del vecchio,16 giugno 1834–

35. Ne danno notizia le Istruzioni per dopo la mia morte, dettate da Belli nel-l’agosto 1837. Cfr. LODOLINI 1965.

36. VIGOLO 1963, I, p. 226.37. Cfr. il commento di Vigolo al sonetto.

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39Verità sublime e verità sfacciata

[vederete…]

E ccome l’oro co l’argento e ’r rame Dati da Ddio pe ssollevà ll’affritti, Serveno invesce a un mercimonio infame —

fin troppo facilmente convertibile in lingua

E come l’oro con l’argento e il rame Dati da Dio per ssollevar gli afflitti, Servono invece a un mercimonio infame.

Del resto c’è almeno un caso, del 9 gennaio 1835, in cui Belliesplicita questa adiaforia dialetto/lingua fornendoci le due versionidello stesso sonetto La testa di bronzo 38 in lingua, La calamisvà deValle 39 in romanesco.

Lo stesso Vigolo con la sua consueta acutezza osserva che que-sto avvicinamento del dialetto alla lingua è frequente nei sonettiche egli definisce di indignatio: «sonetti di invettiva, seri, violenti»,che cercano un uditorio nazionale, non solo romano, come prova-no «le minuziose note a vocaboli chiarissimi per i romani» 40.

E infatti proprio su questa aggressiva corda satirica suona lamaggior parte dei sonetti in lingua delle due stampe del ’39 e del’43, come “spiega” lo stesso Belli:

Perché, vengonmi a dir, per qual ragione, Signor Giuseppe Giovacchino Belli,Alle sorelle vostre ed ai fratelli Sferzar così agramente il pelliccione?

Perché, rispondo io, la compassione, Cari signori miei garbati e belli,Né con quelle ha da usarsi né con quelli Che di frusta son degni e di bastone.

Chi stima l’onor suo men d’una coda, Chi la patria pospone a a pigrizia,Ci si dà schiavo al senso ed alla moda,

Sia di schiatta plebea, sia di patrizia,

38. Belli italiano, II, pp. 119–120. 39. V 1416, pp. 1922–1923.40. Note a L’ essempio, V 1257, pp. 1720–1721.

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40 Pino Fasanoil3/2006

Quando mia lingua contro lui si snoda Parmi trattato con assai giustizia 41.

6. Certo, il limite di questa trasposizione in lingua della indigna-tio belliana sta proprio nella preteste di assumere direttamente lamaschera di imparziale fustigatore dei vizi umani, al di là di qual-siasi prospettiva di classe; sicché anche certe varianti di temi egua-litari che in bocca al plebeo romanesco suonavano incisivamenteeversivi contro la logica de «li du’ ggener’umani», qui assumono uncarattere di astratta e moralistica denuncia (si confronti La carroz-za del ricco 42 con il preciso precedente romanesco La carrozza d’uncardinale 43), o di esercitazione fredduristica («…Vostra Eccellenza/ Vorrebbe tutti poverelli ricchi», La delicatezza del sangue 44) o, nelmigliore dei casi, di didascalismo socioeconomico versificato45.

Ma per l’appunto, di questo limite del soggettivismo moralisti-co che anima «questa sua tiritera i sonetti» (I miei versi 46), Belliappare sufficientemente consapevole almeno tanto quanto ètimoroso dell’eccessiva outrance dei versi da plebe. L’autoironiaverso il proprio atteggiamento di «conquassatore de li viziumani» che non fa altro che “esalar versetti vani” (Il SE 47) siaccompagna alla insoddisfazione per la scarsa rispondenza diquesto schema al sentimento soggettivo più immediato. Dondel’invito A Sideria (Teresa Ferretti) a «non giudicar di me dalle miecarte» 48, e certi espliciti ripiegamenti di gusto preromantico“fuori del consorzio umano” e della civitas spergiura. Rime alfie-riane e sonetti foscoliani minori sono ad esempio il modello tra-sparente di questo La felicità:

Qui, fra questi silenzi, ove natura Spiega sue pompe inosservata e sola,

41. La spiegazione. Belli italiano, II, p. 420.42. Belli italiano, II, p.431. 43. V 873, p. 1206.44. Belli italiano, II, p. 625.45. È il caso de La statistica fondamentale (Belli italiano, II, p. 411), che luci-

damente indica parassitismo, disonestà e sfruttamento come conseguenza dellesperequazioni di censo: “Pensate adesso, o tiberini, quanta / Parte di popol chie-da, inganni o sudi, / Dove son molti con ricchezza tanta”. (Devo a Muzio Maz-zocchi Alemanni il suggerimento di questo richiamo).

46. Belli italiano, II, p. 467.47. Belli italiano, II, p. 413.48. Belli italiano, II, p. 310.

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41Verità sublime e verità sfacciata

Ancella ubbidiente alla parola Ond’ebbe il mondo già moto e figura,

Io, volto il pié dalla città spergiura,Che tanto i buoni offende e i rei consola, Vo meditando, mentre il tempo vola, Fra la scorsa mia vita e la futura.

Rammento i folli miei desiri e il vano Palpitar del mio cuore appresso a un bene Che più lo segui e più fugge lontano.

E pauroso di novelle peneTento se fuori del consorzio umano Vivere alfin si possa ore serene 49.

Ma in questa direzione i risultati migliori scattano quando il re-cupero del piano soggettivo avviene nella sfera di un dolente umo-rismo di marca sternesca, come isolamento e valorizzazione del-l’occasione sentimentale colta nella straordinarietà del quotidiano:si vedano sonetti come Le garbatezze 50, Gl’incontri 51, o soprattutto Ilcomodo pellegrinaggio, piccolo voyage autour de ma chambre delpoeta ammalato:

Quante volte m’avvien per malattiaChe in letto io giaccia abbandonato e solo, Mi creo d’attorno un mondo, e mi consolo Giuocando di memoria e fantasia.

Così a’ due capi della stanza mia Fingomi in testa l’uno e l’altro polo, E per gli angoli e il campo a tracciar volo Un planisferio di geografia52.

E sarà prevalentemente in questa tonalità umoristico–pateticache Belli attuerà, fra il ’43 e il ’49, il recupero del romanesco, lin-guaggio non più estraniante e tensivo, ma teneramente familiare,non più oggettivamente e ferocemente comico, ma sorridente emalinconico.

49. Belli italiano, II, p. 349.

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42 Pino Fasanoil3/2006

Gli esempi potrebbero essere tanti, ma il rinvio più ovvio è quel-lo al celebre, stupendo sonetto finale del ’49:

Sora Crestina mia, pe un caso raro Io povero cristiano bbattezzato Senz’avecce né ccorpa né ppeccato M’è vvienuto un ciamorro da somaro.

Aringrazziat’Iddio! L’ho ppropio a ccaro! E mme lo godo tutto arinnicchiatoSu sto mi letto sporco e inciafrujjato,Come un zan Giobbe immezzo ar monnezzaro.

Che cce volemo fà? ggnente pavura. Tant’e ttanto le sorte sò ddua sole: Drento o ffora: o in figura o in zepportura.

E a cche sserveno poi tante parole? Pascenza o rrabbia sin ch’er freddo dura: Staremo in cianche quanno scotta er zole 53.

E a cche sserveno poi tante parole?È anche questo uno di quei versi facilmente traducibili in lin-

gua. E di fatto il desolato rendiconto sulla propria attività poeticavale per il romanesco come per l’italiano: la bufera del ’48 travolgenon il monumento plebeo, ma ogni idea di poesia. Per due anni lamusa belliana tace, o quasi.

La ripresa, nel ’52, riporta com’è noto il pendolo (e sarà l’ultimaoscillazione) verso la lingua: seguendo, com’è altrettanto noto,un’inconsulta e infrenabile vocazione bigotta che si espande larga-mente nelle versioni degli Inni ecclesiastici54 e in moltissimi altricomponimenti pii, letterariamente ingiudicabili.

Eppure, a guardar bene e a leggere con attenzione il terzo deivolumi vighiani, si scopre che neanche per quest’ultimo periodo sipuò considerare integralmente esatta l’equazione fra poesia in lin-gua e versante clerico–reazionario della personalità belliana: se èvero che di fronte ai sonetti antimazziniani e alle professioni in

50. Belli italiano, II, p. 419. 51. Belli italiano, II, p. 457.52. Belli italiano, II, p. 446.53. V 2245, p. 2293.54. Belli italiano, III, pp. 239–447.

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43Verità sublime e verità sfacciata

rima di cattolicesimo (del resto non sempre codino: si veda in Lecolonie55 la protesta, in nome della fratellanza umana voluta da Dio,contro le guerre imperialistiche), lo scetticismo disincantato dicerte asciutte meditazioni esistenziali (il sonetto Mia vita del ’57)lascia trapelare persino ancora implicazioni materialistiche:

Una donna mi tolse per marito, Scrissi versi a barella e alcune prose: Del resto, come il ciel di me dispose, Ebbi sete, ebbi sonno, ebbi appetito56.

La lunga lotta del poeta con la verità approda a questo aridoconsuntivo: guardandosi finalmente allo specchio, GiuseppeGioachino Belli verifica senza illusioni la mera quantità della suaproduzione, «versi a barella».

La lingua ha ormai misurato la sua incapacità a raggiungere, inquesti tempi, il sublime: e ad apprezzabile istanza dai terrori pater-ni che animavano il suo zelo di defensor Ecclesiae nel ’48–’50, Bellipuò guardare con sufficiente oggettività (e forse con un filo di no-stalgia) agli «altri tempi» in cui la sua poesia risuonava nella «nu-da, gretta e anche sconcia favella» della plebe romana.

La lettera del ’61 al principe Placido Gabrielli57, ben al di là delripudio di convenienza motivato sulla sola «indecenza», del restonecessaria, delle dizioni dialettali (e bilanciato d’altronde dall’or-goglioso disprezzo per il «pessimo romanesco» utilizzato a teatroda certi «goffi scopamestieri» contemporanei), esprime la serenaconsapevolezza finale di Belli che «la lingua abbietta e buffona de’romaneschi» era stata strumento necessario per superare le sueremore di borghese senza borghesia: e che solo quando avevarinunciato a trascendere in verità «sublimi» le proprie contraddi-zioni, ambiguità, incertezze, e le aveva confrontate sulla misuradella verità «sfacciata» della plebe, della sua prospettiva tenden-ziosa ma “originale”, aveva trovato il linguaggio della sua poesia.

55. Belli italiano, III, pp. 227–229.56. Belli italiano, III, p. 600.57. LGZ, pp. 377–378.

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44 Pino Fasanoil

Bibliografia

I sonetti sono citati secondo l’edizione:

G.G. BELLI, Sonetti, a c. di Giorgio Vigolo. Edizione integrale fatta sugli autogra-fi. 3 voll., Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1952. Per semplificare l’appa-rato, i sonetti sono citati con la sigla V seguita dal numero attribuito dal cura-tore.

Belli italiano: Belli italiano, edizione integrale a c. di Roberto Vighi, Roma, Co-lombo, 1975. I, Le poesie anteriori al periodo romanesco; II, Le poesie del perio-do romanesco, III, Le poesie posteriori al periodo romanesco

LGZ: Giuseppe Gioachino Belli, Lettere Giornali Zibaldone, a c. di Giovanni Orioli.Torino, Einaudi, 1964

T. DE MAURO, La componente linguistica nell’opera di G.G. Belli, ora in Storia lin-guistica dell’Italia unita, Bari 19764.

L. FELICI, Regesto delle poesie di G. G. Belli, in Studi belliani nel centenario di G. G.Belli, Atti del primo convegno di studi belliani e contributi vari, Roma 1965.

G. FERRONI, Divagazioni sulla citazione, in Letture belliane. I sonetti del 1831,Roma 1981.

G. JANNI, Giuseppe Gioachino Belli e la sua epoca, Milano 1967.C. MUSCETTA, Cultura e poesia di G.G. Belli, Milano 1961.G. LEOPARDI, Tutte le opere, con introduzione e a c. di Walter Binni, con la colla-

borazione di Enrico Ghidetti, 2 voll., Firenze 1969.G. VIGOLO, Il genio del Belli, 2 voll., Milano 1963.

3/2006

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Laura Lombardo Radice, nata a Fiume nel 1913 da Gemma Ha-rasim (insegnante e protagonista della scuola giuliana) e GiuseppeLombardo Radice (uno dei più insigni pedagogisti e filosofi italia-ni, catanese, nonché autore della riforma scolastica insieme aGentile, di cui fu amico fino alle leggi speciali del ’25), maturòmolto presto una coscienza antifascista e negli anni Quaranta ri-coprì un ruolo di primo piano nella Resistenza.

Nel movimento di cospirazione incontrò Pietro Ingrao, suofuturo compagno di vita, con il quale nel dopoguerra (durante ilmatrimonio e la nascita dei cinque figli) si impegnò attivamentenella vita politica del Pci: lui come dirigente di primo piano, leiscegliendo l’attività politica “di base”.

Insegnante appassionata, dedita al partito (come la sorellaGiuseppina e il fratello Lucio, il più originale degli intellettualicomunisti, padre nobile del pacifismo italiano moderno), neglianni Sessanta e Settanta si occupò soprattutto di temi riguardan-ti la scuola e la cultura partecipando in prima persona al ‘68.

Negli anni Ottanta, ormai settantenne e in pensione, diventòinsegnante volontaria nel carcere romano di Rebibbia.

Nonostante i gravi problemi di salute dell’ultimo periodo, èmorta quasi novantenne nel 2003.

Un ritratto completo di Laura Lombardo Radice e della suastraordinaria «foga» in tutti i campi si trova in Soltanto una vita,biografia scritta dalla figlia Chiara nel 2005: attraverso lettere,

La mortein piazza

“Rinascita”, 13 marzo 1981

DI LAURA INGRAO

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46 Laura Ingraoil3/2006

poesie, interviste, articoli, appunti, disegni, foto, nonché riflessio-ni e ricordi personali, la figlia ricostruisce le vicende di questagrande madre, intellettuale, partigiana, comunista, insegnante,pacifista, dalla giovinezza privilegiata passata nella casa paterna,con amicizie importanti e caratterizzata da un «antifascismo na-turale», agli anni della guerra, dalla militanza comunista accantoal marito negli anni Cinquanta, alle battaglie a favore delle donne,fino all’impegno costante nella scuola, mai interrotto e anzi pro-tratto anche in tarda età con il lavoro per i reclusi di Rebibbia (af-fettuosamente chiamati «i miei assassinetti» dalla donna specialeche era).

Di seguito si riproduce il testo dell’articolo di Laura Ingrao com-parso su “Rinascita” il 13 marzo 1981 (N.d.R.).

Lo spettacolo della morte non era inconsueto nella Roma del-l’Ottocento papalino. Sedendo al caffè su via del Corso nei pressidi S. Lorenzo in Lucina, Stendhal si lamenta del vago odore dibroccoli che aleggia al passaggio di ben dodici funerali in pocotempo; tutti con il tetro accompagnamento dei Fratelli dellabuona morte col cappuccio sul viso (i «sacconi», li chiamavano ivecchi romani), e tutti con i morti bene in vista, portati a spallasul cataletto.

Era uno spettacolo che faceva fremere lo scrittore francese, purcosì innamorato di Roma, ma a cui i romani tenevano molto, eguai se qualche prudenza sanitaria lo aveva per breve tempo inter-rotto:

Piano, e quanno che un morto è in nella cassa, com’ha er vivo l’esempio che sse more? Chi lo po’ indovinà quello che passa? 1

Per bocca di Giuseppe Gioacchino Belli la morte — la morte-secca, gli stinchi, il «barrocciaio lì mort’ammazzato», la «regazzamorta» «tra un ortichetto» di una proda suburbana, «li morti deRoma» del sonetto famoso — sono tra — starei per dire — le più

1. Son. 1269, del 12 giugno 1834.

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47La morte in piazza

vive rappresentazioni di quella formicolante realtà, di quel macro-cosmo microcosmo che sono i 2200 e più Sonetti romaneschi.

Una volta i professori dicevano che tutto si può trovare in Dante;tutto, certamente, si trova nel Belli romanesco, nelle mille voci disudditi della Roma papalina che parlano nei Sonetti romaneschi.Lettura prediletta di molti, italiani e stranieri, lettura che ci puòaccompagnare per una vita (domandatelo ad Antonello Tromba-dori, a Maurizio Ferrara).

Così al Belli sono andata a chiedere cosa ne pensasse della penadi morte. Come succede, credo, a molti lettori abituali del Belli,sappiamo un mucchio di versi a memoria, ci affiorano alla menteimmagini staccate; ma quando dobbiamo rintracciare un sonettointero frughiamo negli indici a lungo e talvolta faticosamente li rin-tracciamo.

Per evitare a eventuali futuri lettori la mia stessa ricerca, ecco isonetti più straordinari del Belli che hanno per tema “La morte inpiazza” indicati col loro numero (lo derivo dalla edizione Avanzinie Torraca, in 5 voll., a cura di Bruno Cagli).

Il primo che incontriamo, scritto il 29 settembre 1830, è Er ricor-do (n. 54). È un ricordo d’infanzia, nitido, innocente, freschissimo:un ricordo d’infanzia di un popolano de Roma che era ragazzino esi era «proprio allora accresimato» nel 1749: «Er giorno che impic-camo Gammardella».

Per il ragazzino, giorno di festa grande: si va al mercato col«santolo» (il compare) che gli fa i regalucci di quel tempo assai so-brio: «un salta picchio e una ciambella».

Il padre è in vena di grandezze, affitta nientemeno che una«carettella» per una passeggiata da signori, «Ma prima vorse godel’impiccato».

È la parte indimenticabile di questo sonetto di festa: il padrevuol “godersi” il gratuito spettacolo di Antonio Camardella, con-dannato a morte per aver ucciso un canonico che gli doveva deisoldi. Il ricordo è incancellabile: quel buon padre non vuol solo“godersi” «l’impiccato», ma farne una occasione educativa per il fi-glio: «e me teneva in arto inalberato / dicenno: “Va’ la forca quantoè bella”».

La forca è bella, e il padre «appoggia» uno schiaffone al figlioragazzino per introdurre bene in quella testolina l’aureo concettocon cui il sonetto si chiude:

«Pija», me disse, « e aricordate bene

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48 Laura Ingraoil

de sta fine medema che sta scrittape’ mill’antri che ssò mejo de tene».

La forca: la fine di «mille altri» che non sono né meglio né peg-gio (forse meglio) del ragazzino appena cresimato. È il massimod’astrazione del concetto di giustizia: qualcosa di imperscrutabilee di totalmente cieco, qualcosa che si fa accettare per la terribilitàdi quello spettacolo i cui motivi restano occulti.

Per quei popolani — quella «plebe di Roma» che il borgheseBelli fa parlare nei suoi sonetti — la giustizia è incomprensibile perdefinizione. Tanti anni più tardi, il 18 marzo 1846 (Er passo de lagiustizzia, son. 2068) due popolani si meravigliano vedendo passa-re un solo condannato: «Ma non ereno duo, mastro Giuliano?»,chiede il più curioso all’amico. Già, dovevano essere due, ma unoè stato graziato. Era un giudeo convertito, che aveva «scannato lamoje con un rasore». Le spiegazioni della grazia sono, per i due, ra-gionevoli: già, come si fa a punire con la morte un ebreo che si èfatto cristiano? Anche ragionevole è il suo assassinio: la moglie«non vorze mai, matta cojona, / pè da’ da magna a lui, fa’ lamignotta».

Già l’8 aprile 1835, nel sonetto 1480 La giustizia der monno, conquel fare sentenzioso e solenne proprio dei poveracci filosofanti, ilBelli aveva sintetizzato il concetto.

La giustizia è per povero, Cristina.Le condanne per lui so’ sempre pronte.Sai la miseria che ttiè scritto in fronte?«Questa è carne da boja»: e c’indovina.

N’averò visti anna’ a la ghijottinada venti a trenta, tra er Popolo e Pponte,Ce fussi stato un cavajere, un conte,un monsignore, una persona fina!

«Da venti a trenta tra er Popolo e Pponte», cioè tra il patibolo dipiazza del Popolo e quello di Ponte Sant’Angelo, o meglio dellapiazzetta ove termina il ponte, così romana, tra via di Panico e viaBanco di S. Spirito, tra Banchi Nuovi e via dei Coronari.

Siamo in epoca più recente e dell’odiato periodo francese (que-gli anni a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento in cui Roma futotalmente laicizzata) ed è rimasto un prezioso mezzo di soppres-sione, moderno, ma accettato dal regime pontificio: la «quaiottina

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49La morte in piazza

che è successa», cioè si è sostituita «alla croce del Carvario», quelfrutto di illuminato terrorismo che fu inventato da monsieur deGuillotin per giustiziare a Parigi duchi, principi, sovrani…

La «quaiottina» installata in piazza del Popolo (La giustizzia arPopolo, son. 1347, 8 dicembre 1834) è uno spettacolo: cioè lo sa-rebbe, se si riuscisse a vederlo. Ma è così rapido che un fratonedalla schiena larga può levarti la visuale proprio mentre «tza, sesente un botto che fa dà uno strilletto a tutti quanti» e… «è già fini-to er gioco». Il popolano è deluso e un’altra volta non si scomode-rà «per tanto poco».

Ma Er dilettante de Ponte (son. 1572, 29 agosto 1835) è un affe-zionato di esecuzioni: sa tutto, conosce tutti; da «mastro Titta» ilboia (che i romani continueranno sempre a chiamare Mastro Titta,dopo che Giovan Battista Bugatti fu boia per circa 70 anni) ai suoiaiutanti. Belli tratteggia questo, come ci dice lui stesso, «frequen-tante» di supplizi, e tratteggia magistralmente anche

cor collo ignudo e trittichenteer primo omo dell’opera, er pazientel’asso a coppe, er signore della festa.

Così Belli ci ha portato per mano, in quella Roma bazzicata daturisti inglesi, da cardinali, da mignotte, in quella Roma dalle di-mensioni di una modesta città di provincia, formicolante di arti-giani, di preti poveri e ricchi, di donnette litigiose, di giocatori e divenditori — dalla trippa per i gatti alle ricotte ai sali aromatici —di servitori e di cocchieri.

E di quella incantevole e terribile vecchia Roma plebea ci hadato l’oscuro terribile assurdo volto della «Giustizia». La plebe diRoma l’accetta per quello che è: stravaganza, capriccio, spettaco-lo. Perché, quella descritta dal Belli è una plebe senza speranza;una plebe che di tutto brontola — tasse, angherie, aumento deiprezzi, chiusura delle osterie o del Carnevale — che qualche voltastrilla, ma sostanzialmente accetta la propria subalternità senzascampo.

E quando sente in qualche modo parlare di abolizione della pe-na di morte, il plebeo del Belli insorge: (Er boja, son. 1083, 18marzo 1834) «mo li giacubbini se so messi / dentro alli loro cervel-lacci fessi / che er giustizià la gente è da tiranno», e anche se il go-verno pontificio non ha la stessa opinione «sempre però una mas-sima cattiva / daje, daje, la fa quarche impressione».

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50 Laura Ingraoil

Sì, «daje, daje» la massima cattiva dei «giacobini» qualcheimpressione l’ha fatta: tanta impressione, che la sola idea diripristinare la pena di morte ci rimescola il sangue: e non solo anoi «civili», ma alla stragrande maggioranza della gente di Ro-ma, come al tempo del Belli «non casta, non pia talvolta» nel suoparlare e nel suo fare, ma non più, come allora «abbandonatasenza miglioramento» ma combattiva, energica e in mille modi«civile».

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Itinerario belliano illustrato all’Appia antica

DI ALIGHIERO MARIA MAZIO

Quasi come un Hiroshige post–modern, che impiegò 53 tavole per illu-strare il viaggio da Tokyo a Kyoto nel 1832, qui sono sufficienti 7 tavole perun itinerario di ieri e di oggi, facilmente percorribile in bicicletta, magariin una domenica ecologica di ottobrata romana, condotti dalla poesia diGiuseppe Gioachino Belli, in una specie di transfert generazionale.

Si tratta in effetti di sette–otto chilometri, da Piazza del Popolo alCasale della Vacchereccia alla Caffarella, ma quanto basta per disperderetossine da eccesso di urbanizzazione e per rievocare emozioni di bellezzae nostalgia di un’intera vita. Qualcosa che per ogni romano, di nascita o diadozione, ricordando una bella canzone di Cole Porter, è un «under myskin».

L’itinerario tracciato dalle illustrazioni di Alighiero Maria Mazio ciaccompagnerà lungo tutto il volume.

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I belliani di provata fede sono fermamente convinti che nei 2279sonetti scritti da Belli nella prima metà del secolo scorso ci sia pro-prio tutto.

Li assumono perciò, partigianamente, come enorme patrimoniopoetico pronto a entrare in campo sia come testimonianza d’epoca,sia come rappresentazione degli eterni comportamenti umani, siacome contrappunto pungente o, perfino, profetica chiave di lettura difatti d’attualità. Essi «condiscono a piene mani, col Belli–prezzemo-lo, rievocazioni e confronti e profezie» (R. Vighi). Spudoratamente!Ciò può valere anche per quanto riguarda il parco dell’Appia Antica,che proviamo a percorrere insieme al Poeta, indicando in corsivo ititoli e tra parentesi i numeri dei sonetti, secondo l’edizione integralecurata da Giorgio Vigolo.

1. Lasciata alle spalle la cinta delle Mura Aureliane e fatto unindispensabile salto indietro nel tempo, prepariamoci spiritual-mente ad affrontare Er deserto (1785). Tale, infatti, era l’immagineche colpiva chi doveva attraversare lo spazio immenso, silenzioso edesolato dell’Agro Romano, o per intraprendere un lungo viaggio,o solo per raggiungere qualche «precojjo», cioè qualche isolato ca-scinale. L’animo veniva preso dallo sgomento davanti a quella dis-tesa simile a un mare immenso, in cui lo sguardo ansioso poteva

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Sull’Appia Anticain compagnia di Belli

Visita guidata al parcodedicata ad Antonio Cederna

DI PAOLO GRASSI

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trovare un appiglio solo negli scogli emergenti, costituiti più chedai massi naturali, dai muti sepolcri sui lati delle vie consolari,dagli sparsi ruderi di una civiltà morta, dai resti inoperosi degliantichi acquedotti stagliati all’orizzonte come grandi scheletri.Eccone appunto una testimonianza diretta:

Dio me ne guardi, Cristo e la Madonnad’annà ppiú ppe ggiuncata a sto precojjo.Prima… che pposso dí?… pprima me vojjofà ccastrà dda un norcino a la Ritonna.

Fà ddieci mijja e nun vedé una fronna!Imbatte ammalappena in quarche scojjo!Dapertutto un zilenzio com’un ojjo,che ssi strilli nun c’è cchi tt’arisponna!

Dove te vorti una campaggna rasacome sce sii passata la pianozzasenza manco l’impronta d’una casa!

L’unica cosa sola c’ho ttrovatoin tutt’er viaggio, è stata una bbarrozza cor barrozzaro ggiú mmorto ammazzato.

La paura del singolo diventava, poi, quella di tutta una comuni-tà già abbastanza misera, quando sui grandi latifondi incombevaEr cel de bbronzo (1434) che stendeva il flagello della siccità e dellacarestia, lasciando solo l’esile speranza di un intervento sopranna-turale per non morir di fame:

…disce a vvedé le campaggne romaneè un pianto, è un lutto, sò ffraggelli novi.Li cavalli, le pecore, li bbovimanco troveno l’acqua a le funtane…

Moreno inzin le bbufole e li bbufoli !St’anno, si la Madon de la Minerbanun ce penza, se maggna un par de sciufoli.

Oggi la sensazione di sgomento può derivare da una situazionecapovolta: dal fatto che quell’immenso spazio si è ridotto a un sem-plice spicchio, noto come il «cuneo verde» del parco dell’AppiaAntica, accerchiato dalla cementificazione legale e abusiva, corro-so dal degrado ambientale e aggredito da una pioggia di operazio-ni inconsulte che alcuni privati proprietari sono riusciti a intra-prendere impunemente. Fece bene Antonio Cederna a spararesubito alto con i suoi articoli (ricordiamo la serie aperta con I

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55Visita guidata al parco dell’Appia Antica in compagnia di Belli

gangsters dell’Appia su “Il Mondo” dell’8 settembre 1953) per difen-dere l’immenso patrimonio di questa parte della Campagna Roma-na, di cui almeno si è potuta salvare una parte. Ma chi detiene ilpotere ha continuato a occuparsi di altri problemi, come quello delgioco delle poltrone, piuttosto che impegnarsi nel grande obiettivodella realizzazione del parco, proprio come avvenne quando ci fuL’asciutta der 34 (1248):

C’è antro da penzà cche a ffà li piantiperché nnun piove in nell’Agro–romano,perché la secca manna a mmale er grano,e pperché mmoriremo tutti quanti.

Questi sò ttutti guai pe l’iggnoranti.Quello che ddeve affrigge oggni cristianoè cch’er Zagro Colleggio nun è ssanoe ccià ttredisci Titoli vacanti.

Su’ Santità vorebbe provedelli,ma, ffra ttanti prelati, indove azzecchi pe ddà le teste a ttredisci cappelli?

I poveracci possono quindi morire tranquillamente di fame eper di più con lo scherno di apparire come gli “ignoranti” di fron-te a coloro che vanno a occupare gli scranni più alti della politicasenza nemmeno avere una “testa” che possa essere definita tale:insomma a dettar legge è sempre qualche “minus habens”, cheperò ha saputo trovare il modo di farsi strada.

2. Certo, con premesse così sconfortanti, dovremmo quasi ri-nunciare a proseguire nel nostro viaggio. Ma vogliamo comunqueriprenderlo, magari facendo qualche pratica scaramantica per ren-derlo propizio e per riacquistare serenità e fiducia. Raggiungiamoperciò il bivio tra l’Appia e l’Ardeatina ed entriamo nella chiesettadel Dommine–covàti (747), un punto obbligato del percorso. Qui cipossiamo sicuramente rinfrancare rivivendo il passaggio di conse-gne tra gli antichi riti pagani della partenza e del ritorno, che pro-prio da queste parti, per tanti secoli dell’antichità, i viaggiatorierano soliti dedicare al dio Redicolo, e la nota leggenda cristianafiorita su un ex voto molto particolare. Nella navata centrale sitrova infatti il sigillo impresso sul marmo nientemeno che dai cal-zari di Nostro Signore! Sì, proprio dalle «carcose» di Gesù, che sipiazzò sulla «regina viarum», davanti al primo suo Vicario chescappava da Roma, lasciando le proprie orme anche per significa-

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re a tutta l’umanità di aver preso definitivamente il posto di quel-l’antica e tanto riverita divinità:

A Ddommine–covàti sc’è un ber zassopiú bianco d’una lapida de latte,cor un paro d’impronte de sciavatte,che pareno dipinte cor compasso.

Llí un giorno, Ggesucristo annanno a spasso,trovò ssan Pietro, che, ppe nun commattecor re Nnerone e st’antre teste matte,lassava a Rroma er su’ Papato grasso.

«Dove vai, Pietro?» disse Gessucristo.«Dove me pare», er Papa j’arisposecome avería risposto l’Anticristo.

Io mó nun m’aricordo l’antre cose;ma sso ccher zasso ch’io co st’occhi ho vvisto Cristo lo siggillò cco le carcose.

A questo punto è opportuno raggiungere i luoghi indiscutibil-mente autentici della cristianità, Le catacomme I (831), dove ciinfiliamo nell’intricato labirinto di gallerie vivendone tutta la sa-cralità, ma indulgendo anche a una sana ironia sull’abuso terrenoche, per secoli e secoli, si è fatto di ossa e reliquie:

Indov’antro c’a Rroma se pò vvedele catacomme de San Zebbastiano,dove una vorta er popolo cristianofece a nnisconnarello pe la fede ?

In quer zagro arberinto, chi cce crede,trova d’erliquie un cimiterio sano:e cqui abbusca uno stinco, e llí una mano,llà un osso–sagro, e una ganassa, e un piede.

Dov’è er lume perpetuo che sse smorzaar zentí ll’aria, llí ssariccapezzacorpi–santi da venne e empí la bborza.

Si un schertro nun è tutto, s’arippezza;e quanno è ffatto martire pe fforzaindovinela–grillo e sse bbattezza.

Ma, ovviamente, in tutto questo sacrosanto lavoro niente dove-va essere sprecato ed ecco quindi la ricetta della “pasta dei marti-

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ri”, prodotta con i più minuscoli detriti di ossa trovati dentro Lecatacomme II (832):

Mica sò bboni l’ossi sani soli pe ffà ll’erliquie e frabbicà li santi,ma inzino li tritumi somijjanti a ffarro e ttarlature de piroli.

Li nostri fratiscelli e ppretazzoli fanno un riduno de st’ossetti sfranti,e li pisteno inzieme tutti cuanti all’uso d’una sarza de piggnoli.

Sfravolati che ssiino in farinaccio,se canta un Zarmo, e mmentre che sse canta se passa la farina pe ssetaccio.

Con oggni dosa poi de scinqu’o sseilibbre, e mmezza fujjetta d’acqua–santaecco fatta la pasta d’Aggnus–dei.

A proposito della creazione di martiri e di santi, non si può nonricordare la simpaticissima Santa Filomena (1222), alla quale furo-no attribuite le ossa ritrovate, nel 1802, in una tomba del cimiterodi Priscilla:

È ariscappata fòra un’antra santabbattezzata pe ssanta Filomena:che de miracoloni è ttanta piena,che in men crèdo ve ne squajja ottanta.

Quello poi ch’è una bbuggera ch’incantaè cche li fa ppe bburla, ch’è una scèna !A cchi anniscome er pranzo, a cchi la scéna…e ttant’antri accusí, nnòvi de pianta.

Mó la senti viení, mmó ttorna vvia:mó tte se mette a rride accap’al letto:mó tte fa cquarcun’antra mattería.

Dicheno ch’è una santa, e ll’hanno dettopuro li preti; ma ppe pparte miaio la direbbe un spirito follletto.

È proprio un peccato che questo bizzarro personaggio sia statodepennato, qualche anno fa, dall’elenco ufficiale dei santi e marti-ri cristiani.

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3. Siamo però rimasti immersi anche per troppo tempo nei sa-cri misteri delle catacombe e… torniamo finalmente all’aria apertaper raggiungere lo splendore pagano di quello che può essere con-siderato il simbolo stesso dell’Appia Antica: il sepolcro di CeciliaMetella. Qui, osservando nel fregio che incorona il monumento ilritmico alternarsi di festoni e bucrani — quei teschi bovini da cuiè scaturito il nome della località — si può fare la stessa considera-zione di quel popolano che così apostrofa Er cornuto (134), invi-tandolo a levarsi il cappello:

…sor pioviccicca mia, qui nun ce piove:potressivo cavavve la frittella:tanto avete la testa in Dio sa ddove.Ma lo sapemo che ttienete quelladrento a la torre de Capo–de–Bbovecoll’antra de Sciscilia Minestrella.

Da tali parole si deduce che il famoso mausoleo cilindrico puòanche essere trasfigurato in un enorme calderone, capace di acco-gliere le protuberanze frontali del soggetto in questione, insieme atutte quelle dei tantissimi suoi consimili. Un po’ più in là incontria-mo la Villa dei Quintili, la cui grandiosità ha suscitato nella fanta-sia popolare l’immagine di una vera e propria città, come se addi-rittura fosse esistita una Roma ancora più antica di quella dentrole mura. Da questa immagine deriva infatti il toponimo di tutta lazona, esteso poi a ogni altra località della campagna romana riccadi reperti archeologici, come avviene anche per la Villa dei SetteBassi o per Un deposito (211), che altro non è che la Tomba di Ne-rone ed è situato…

dove nassce la cassia, a mmanimanca,nò a Ppontemollo, tre mmía piú lontano,…lí a Rromavecchia.

E, a proposito di grandiosità, l’estensione dell’Agro Romanopuò essere ispiratrice anche di Un carcolo prossimativo (1391) rife-rito alla pantagruelica voracità che alligna sempre nelle alte sferedel potere.

Per attualizzare questo calcolo è opportuno tener presente ilsistema di misure esistente prima dell’entrata in vigore di quellometrico decimale. Consideriamo dunque che: una «libbra» corri-spondeva a 339 grammi, quindi una «decina» (di libbre) a più ditre chili; un «rubbio» da grano pesava 64 decine di libbre, che però

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non tutte giungevano come farina sulla spianatoia per fare il pane,ma solo una cinquantina; mentre la «foglietta» era il classicomezzo litro (quasi) e ce ne stavano 2048 in una botte «da sedici»(barili), che conteneva in tutto 934 litri:

Una vaccina dell’Agro Romano,senza la pelle, l’interiori, l’ossa,er zangue e ’r grasso, pò ppesà, Gghitano,un quaranta descine a ddílla grossa.

Valutanno mò er grano a la riscossada la mola e ffrullone, io dico er granod’oggni rubbio, un pell’antro, se ne possafà un cinquanta descine pe lo spiano.

Incirc’ ar vino poi, tu adesso mettec’una bbotte da sedisci a la finedà ddu’mila e cquarantotto fujjette.

Dunque, l’Eminentissimo s’iggnottedrent’a ddiescianni trentasei vaccine,quinisci rubbia, e cquarantotto bbotte.

A conti fatti, quindi, il consumo decennale di questo cardinale,solo per quanto riguarda gli alimenti di base, è valutabile in 4882chili di carne, 2543 chili di farina e 44832 litri di vino; corrispon-denti a una media giornaliera di più di un chilo e tre etti di carne,di quasi sette etti di farina (più di un chilo di pane) e di circa dodi-ci litri di vino… con la buona salute!

4. Vorremmo a questo punto ristorarci, almeno un po’, anchenoi. Ma già da tempo ha chiuso i battenti, poco prima del QuartoMiglio, l’osteria cucinante del Tavolato, una delle più famose e fre-quentate tra quelle “for de porta”, descritta da Hans Bart, nella suaGuida spirituale delle osterie romane, come il posto ideale per am-mirare il paesaggio ampio e solenne della campagna romana. Do-potutto, comunque, non è nemmeno più possibile godere di quel-la superba vista e sembra proprio che i prezzi siano sempre suffi-cientemente salati, come dimostra l’episodio di quel tale che dovet-te raccogliere tutti gli oggetti di valore che aveva dentro casa eimpegnarli al Monte di Pietà per poterci andare a mangiare solo unpaio di volte.

Confidava soprattutto che con l’elezione ormai prossima delnuovo pontefice fossero restituiti, come era tradizione, Li peggni

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(925) depositati. Ma il poveraccio se la prese proprio… in quelposto. Infatti nel conclave del 2 febbraio 1831 i “rossi”, cioè i por-porati cardinali, incoronarono con la tiara papale dalle tre coroneil bergamasco Mauro Cappellari, divenuto così il ben notoGregorio XVI, che si fece subito conoscere dal popolo abolendoquella generosa usanza:

Oh bbona! A Rroma s’era sempre usatoche li Papi, ar riscéve li trerreggnifascéveno aridà ttutti li peggniche li Romani aveveno impeggnato.

Prima io dunque che ffussi spubbricatoer Papa novo da sti rrossci indeggni,m’aggnéde a pportà ar Monte li mi’ ordeggni,e cce fesce du’ pranzi ar Tavolato.

C’avevo da sapé, ffijji mii bbelli,ch’er Papa dovessi èsse un Cappellaroche sformassi sta razza de cappelli?

Cazzo ! annajje a vviení lo schiribbizzode nun ridà li peggni de ggennaro!Cuesta sí cche mm’ arriva ar cuderizzo!

È raccomandabile, dunque, allontanarsi un bel po’ e attraversa-re tutto il parco dell’Appia Antica fino alla sua naturale confluenzanel parco dei Castelli romani, col quale costituisce un unico siste-ma verde di grandissima valenza ambientale.

Così si potranno anche degustare nella sede più appropriata,con un po’ di nostalgia per i vecchi tempi, Li vini d’una vorta(1187):

A ttempi ch’ero regazzotto, allora ereno l’anni de ruzzà ccor vino: ché sse faceva er còttimo, ar Grottino, de bbeve a ssette e a ssei cuadrini l’ora.

E mm’aricorderò ssempr’a Mmarino, indove tutti l’anni annàmio fora d’ottobre a vvilleggià cco la Siggnora, e cce stàmio inzinent’a Ssammartino.

Llí nun c’ereno vini misturatico ciammelle de sorfo, e cquadrinacci, e mmunizzione, e ttant’anrtri peccati.

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61Visita guidata al parco dell’Appia Antica in compagnia di Belli

Bevevio un quartarolo, e ddiscevio: essci:e er vino essciva: e vvoi, bbon prò vve facci, ’na pissciata, e ssinceri com’e ppesci.

Percorriamo quindi il crinale occidentale del lago di Albano e,ammirando l’azzurro cerchio d’acqua incastonato nel cratere vul-canico che ha generato la stratificazione geologica di tutto il nostroterritorio, ci viene spontanea la stessa esclamazione che ha fatto Erviaggiatore (237):

…Ah! cchi nun vede sta parte de monnonun za nnemmanco pe cche ccosa è nnato.

Cianno fatto un ber lago, contornatotutto de peperino, e ttonno tonno,congeggnato in maggnera che in ner fonnosce s’arivede er monno arivortato…

Possiamo ora metterci in coda per visitare la splendida dimorain cui viene a passare l’estate Er Papa (416), dalla quale è nataanche l’ispirazione del pontefice di trasferire la propria residenzaromana dal Quirinale al Vaticano…

perché a Ccaster–Gandorfo a mman’a mmanopapa Grigorio indeggnamente ha ddettoa ttutto–cuanto er popolo romano,

che cquanno torna a Rroma, poveretto,vò annà abbità a Ssanpietr’invaticano,perché a Mmonte–Cavallo sce sta stretto.

A questo punto dobbiamo tornare indietro anche noi e, seabbiamo fretta, o solo se vogliamo levarci lo sfizio della velocità,possiamo fare una bella corsa, come quella di Gregorio XVI, il 17ottobre del 1836, quando riuscì a coprire in meno di un’ora, lungol’Appia Nuova, Er ritorno da Castergandorfo (1827).

Fece una sola breve fermata, a metà strada, nella nota osteriaattestata su una torre medievale e funzionante anche egregiamen-te come stazione di posta per il cambio dei cavalli :

Circa a vventitré e un quarto er Padre Santo s’affermò a bbeve a Ttor–de–mezza–via; poi rimontò in carrozza e ffesce intanto:«Sú, ggiuvenotti, aló, ttiramo via».

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Me crederai si tt’aricconto in quantoarrivò a Rroma? Ebbè, a la vemmaria già stava a ccasa e sse tieneva accantoer zolito bbucal de marvasia.

Era tanto quer curre scatenatoc’a Pporta San Giuvami lo pijjornoper un Zommo Pontescife scappato.

E mmó averessi da vedello adesso come ride ar zentí cquanti in quer giomopisciorno sangue pe ttenejje appresso.

5. Non possiamo però rientrare in città senza aver dedicato unaspecifica escursione alla valle della Caffarella, che rappresentaindubbiamente una delle zone paesisticamente più originali delparco dell’Appia Antica.

Così come molto originali appaiono due personaggi blasonatidelle principali famiglie che ne hanno goduto la proprietà: quelledei Caffarelli e dei Torlonia.

Il nome del primo veniva fuori, molto spesso, nei coloriti batti-becchi che animavano le partite a carte dedicate al tressette o a Labbazzica (927). Ecco le parole rivolte da un giocatore al suo avver-sario:

Vado per uno. Vòi? Asso, cavallo.Vòi? Dua, quattro… Ma proprio t’arranchellipe rripijjà ddu’ carte su lo spallo!

Credi de vince pe la mano, eh mulo?Quella l’aveva puro Cafarelli,e nun fu bbono de pulisse er culo.

Ed ecco la nota in proposito dello stesso Belli: «Espressione co-mune nel giuoco, dappoiché è tradizione che uno de’ duchi Caffa-relli avesse un braccio più corto dell’altro, di maniera che quellamano non gli arrivava a tutti i suoi uffici».

Quanto al secondo personaggio, si tratta di uno dei principi Tor-lonia, il quale, tra le altre innovazioni che volle sperimentare per ilavori agricoli nella sua tenuta, provò anche l’uso dei cammelli eacquistò, appunto, Nove bbestie nòve (1978):

Curre vosce ch’er Prencipe Turlòniabbi fatto viení nnove camei,

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che ddisce che ssò ccerti animalonide l’antichi paesi de l’Abbrei.

Disce ch’er Papa j’abbi detto: E lleiche sse ne fa di quelli accidentoni ? Disce: «Tre l’arivenno, e ll’antri sei li manno a straportà ccarcia e mmattoni».

Disce: «Ma ccome! nnun ci sò ccavalli, muli, somari, sor Prencipe mio,d’addopralli in ste cose, d’addopralli?»

«Oh, Ppadre Santo, sce ne sò di scèrto,»disce che ll’antro arrepricò, «ma Iddiovò li camèi pe bbazzicà ir deserto».

Con quest’ultima considerazione, dal sapore biblico, si ripropo-ne l’immagine della campagna romana con cui abbiamo iniziato ilnostro viaggio, mentre, per quanto riguarda il materiale trasporta-to, abbiamo purtroppo la riprova di quale fine sciagurata abbianofatto tanti reperti archeologici di questa preziosa valle, chiamataun tempo «vallis marmorea» proprio per l’abbondanza di statue emonumenti.

Ma per la visita guidata alla Caffarella è doveroso ricorrere aun vero specialista e rintracciare in particolare Er ciscerone aspasso (447). Sicuro! Proprio quell’operatore turistico che è rima-sto senza lavoro e alla fame, e ancora aspetta di tirarsi sù, dall’ul-tima volta che ha prestato servizio in questa zona, quando haportato al ninfeo di Egeria un tal signore col quale così continuaa lamentarsi:

Se commatte. monzú, co la miseria.Cosa sce s’ha dda fà ? ttrist’a cchi ttocca.Da sí cche vve portà’ a la Ninf ’ Argerianun ciò ppane da metteme a la bbocca.

Abbito drent’a un bùscio de bbicoccada fa rride sibbè cch’è ccosa seria.Llí cce piove, sce grandina e cce fiocca,come disce sustrissimo in Zibberia.

La cuccia mia nu la vorebbe un frate,ché ddormo, monzú mmio, s’un matarazzo tarquàle a ’na saccoccia de patate.

Sò annato scento vorte su a Ppalazzo

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64 Paolo Grassiil3/2006

a cchiede ajjuto ar Papa: e indovinatecosa m’ha ddato er Zanto–padre: un cazzo.

Quest’ultima constatazione sembra quasi rappresentare lecentinaia di iniziative e richieste per la realizzazione del parcodell’Appia Antica, giacente sul piano regolatore da più di tren-t’anni, con un esproprio avviato nel 1971 e poi rientrato, unalegge regionale del 1988 farraginosa e improduttiva e un piùrecente piano di utilizzazione, per la sola valle della Caffarella,non ancora operativo.

E pensare che proprio accanto a uno dei due più autorevolipalazzi del potere di oggi, quello del Senato, c’è Piazza Navona(844), con al centro quell’emblematico obelisco egiziano che foca-lizza tutto lo spazio circostante e che ha una non indifferente atti-nenza, come vedremo, col nostro tema:

Se pò ffregà Ppiazza–Navona miae dde San Pietro e dde Piazza–de–Spaggna.Cuesta nun è una piazza, è una campaggnaun treàto, una fiera, un’allegria.

Va’ da la Pulinara a la Corzía,curri da la Corzía a la Cuccaggna:pe ttutto trovi robba che sse maggna,pe ttutto ggente che la porta via.

Cqua cce sò ttre ffuntane inarberate:cqua una gujja che ppare una sentenza:cqua se fa er lago cuanno torna istate.

Cqua ss’arza er cavalletto che ddispenzasur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,e ccinque poi pe la bbonifiscenza.

La guglia in questione è proprio l’obelisco egizio che si trovava(guarda caso!) sulla spina del Circo di Massenzio. Proviene quindidalla più prestigiosa area monumentale dell’Appia Antica ed èstato innalzato da Gian Lorenzo Bernini su quella fantastica fon-tana dei Fiumi che rappresenta, nel centro di Roma, le quattroparti del mondo.

La sentenza di valore universale che esprime, con quel vicino«cavalletto» pronto a fare giustizia a suono di democratiche «ner-bate», sembra proprio un monito preciso diretto a chi governa, chevogliamo interpretare, anche in coerenza con quanto scritto in pre-

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65Visita guidata al parco dell’Appia Antica in compagnia di Belli

1. Il Parco dell’Appia Antica, istituito nel 1988 con una legge regionale a cuihanno fatto seguito altri provvedimenti, abbraccia una superficie di circa 3.400 etta-ri, per la maggior parte nel territorio del comune di Roma e per il resto in quelli diCiampino e Marino. Comprende storiche tenute dell’Agro Romano, come la Caffa-rella, Tormarancia, la Farnesiana e importanti aree archeologiche come quelle dellavia Latina, degli Acquedotti, di Tellenae, ecc. oltre a tutti i noti monumenti che af-fiancano il tracciato della regina viarum. Si estende dalle mura Aureliane fino aiCastelli, aprendosi fra l’Appia Nuova, la Tuscolana e l’Ardeatina e realizzando così un“cuneo verde” di grande valenza storica, archeologica e naturalistica che, all’internodelle mura, si innesta sull’area dei Fori e il Campidoglio, in una straordinaria unitàcon il cuore archeologico della capitale. Dal 1998 la sua gestione è affidata a un Entepubblico di competenza regionale, i cui organi sono: una Comunità costituita dalPresidente della Provincia di Roma, dal Sindaco di Roma e da quelli di Ciampino eMarino, o da loro rappresentanti; un Consiglio direttivo, composto dal Presidente esei consiglieri designati dal Consiglio regionale del Lazio; un Collegio dei revisori deiconti. Attualmente però, come gli altri parchi regionali, è sotto regime commissaria-le e si attendono da almeno un anno le nuove nomine. Ha sede in via Appia Antica42 presso l’ex Cartiera Latina. È doveroso ricordare che primo Presidente del parco,dopo la legge regionale istitutiva, è stato Antonio Cederna, che fin dagli anni ’50 siera speso tenacemente per la sua realizzazione con gli articoli pubblicati sul Mondo,Corriere della Sera e Repubblica, con i suoi libri, il proprio ruolo in Italia Nostra, gliinterventi come consigliere comunale e deputato. Ha sempre combattuto controogni tentativo di lottizzazione, speculazione o abusivismo nel territorio dell’Appia econtribuito in modo determinante, già con il piano regolatore del 1965, a farne desti-nare a parco pubblico 2.500 ettari, inserendolo poi negli obiettivi prioritari della leg-ge per Roma Capitale del 1990. Avevo fatto in tempo a scrivere questo “divertimen-to belliano”, a dedicarglielo e a sorridere con lui prima della sua morte avvenuta il27 agosto 1996. Nel luglio scorso è stato inaugurato, presso la villa di Capodibovevicina a Cecilia Metella, il Centro di documentazione del parco, che è stato intitola-to a Cederna e che ospiterà anche il suo ricco archivio donato dalla famiglia. (P.G.).

messa, nel seguente modo: “C’è stato un preciso atto del Parla-mento che si chiama Legge per Roma Capitale e l’obiettivo priori-tario, in esso sancito, della realizzazione del Parco dell’Appia An-tica, deve essere assolutamente rispettato” 1.

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Un saluto tra colleghiEcco un’immagine che Johann Heinrich Wilhelm Tischbein aveva dimenticato,nel ritrarre l’amico Johann Wolfgang Goethe alla finestra di via del Corso, nel suorullino, pardon, nel suo pennello. In questa immagine inedita anche lo scuro disinistra della celebre finestra è finalmente aperto, dando aria alla stanza, mentrescorre la bici primo Ottocento davanti alle colonne di Palazzo Rondinini.

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1. Provare a sostenere un confronto letterario, filosofico e antropo-logico tra i sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli e ilGargantua et Pantagruel di François Rabelais, potrebbe essere l’occa-sione per tornare a riflettere, in una prospettiva più ampia, sulla sem-pre attuale problematica del “realismo” e della “temporalità” nel 996.

Nonostante un esame degli scartafacci dello Zibaldone belliano,terreno principale per la ricostruzione della cultura del poeta, nonci consenta di accertare la presenza di un effettivo rabelaisimointertestuale nei sonetti 1, e di conseguenza ci troviamo costretti aun approccio comparativo non suffragato dalla certezza di un do-cumentato incontro culturale tra il Belli e il mondo pantagruelico,il lettore attento può tuttavia agire con serenità verso questa pro-spettiva di ricerca, in virtù delle innegabili convergenze stilistichee antropologiche tra le due opere in questione.

In queste brevi pagine dunque, limitando il campo di ricerca adalcuni aspetti cronotopici e stilistici, vorrei tentare di individuareeventuali “categorie” rabelaisiane nel «monumento» belliano, at-

1. L’unico riferimento, nello Zibaldone belliano, a François Rabelais, è pre-sente negli estratti dell’opera di J. Locke De l’education des enfants, dove Rabelaisè citato come autore raccomandato per lo studio della letteratura, insieme a LaBruyère, Racine e La Fontaine. Vd. Zib. II, cc. 154r–181v, e in particolare c. 173.Cfr. S. LUTTAZI, Lo Zibaldone di Giuseppe Gioachino Belli. Indici e strumenti di ri-cerca, Roma, Aracne, 2005.

Fra Bellie Rabelais

Grottesco e creaturalismo nei Sonetti

DI EDOARDO RIPARI

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68 Edoardo Ripariil3/2006

traverso un procedimento soprattutto contrastivo, servendomi deipreziosi scritti del Bachtin, che soli potrebbero invalidare definiti-vamente questo scritto. Il dubbio che ha mosso chi scrive adaffrontare il discorso riguarda appunto la natura del cronotopo deisonetti romaneschi, e il suo confronto con quello della materianarrativa rabelaisiana.

2. È ben noto l’interesse del Belli per il romanzo storico — daScott a Manzoni, da Rosini a Guerrazzi — ed è altrettanto nota lasua attenzione verso una letteratura politica — italiana e d’oltral-pe — che di fatto veniva ponendo e proponendo una concezionelineare, dialettica e progressiva della storia, secondo i dettami delnuovo paradigma impostosi con la Rivoluzione francese, e nato,secoli addietro, in seno alla Riforma luterana. Basti qui ricordareGiannone e Cuoco, Voltaire e Montesquieu, Volney e D’Herbigny. Atutti gli effetti, infatti, Belli visse in quel secolo decimonono che,anni fa, Benedetto Croce ebbe a definire «secolo della storia».Eppure, visto in questa prospettiva, il capolavoro belliano va con-siderato nella sua inattuale alterità da quel paradigma storico: unainattualità, certamente, intesa nel senso più nobile della parola. Ilrapporto spazio–temporale, la cronotopia, nei sonetti romaneschinon riesce che in rarissime occasioni a raggiungere uno statuto distoricità. Tutt’altro: ricercare tra le folte pagine dialettali del Belliuna consapevolezza e una resa poetica storiche, progressiste, risul-ta decisamente deviante, sfuggente. La temporalità sfuma versoforme stilistiche e persino grammaticali extrastoriche, per appro-dare a significazioni sovra– e sotto–storiche poggianti su favole emiti, proverbi e omeostasi, eventi ancestrali e archetipi di cui sem-bra essersi persa ogni qualsiasi memoria storica diretta, ma di cuiil “quotidiano” conserva inconsapevolmente il retaggio, l’elementosuperstite e quindi superstizioso, lo “scarto”. In un precedente arti-colo su storia ed extrastoria nei sonetti romaneschi 2 ero giunto adefinire la cronotopia belliana «epico–fiabesca»: definizione chetuttora condivido, ma che credo vada rivisitata alla luce di un con-fronto con la formulazione bachtiniana di un cronotopo di tipo“folclorico”, caratteristico del mondo letterario rabelaisiano 3.

2. E. RIPARI, Storia ed extrastoria nei sonetti di G.G. Belli, in “Il 996”, a. IV, n.1, aprile–giugno 2006.

3. M. BACHTIN, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi 2001 p. 29.

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69Grottesco e creaturalismo nei Sonetti romaneschi del Belli

In questa forma di cronotopia, assistiamo a un particolare feno-meno temporale: un processo di «inversione storica» 4 attraverso ilquale il primato temporale viene affidato a un passato, a un tràdi-to, a spese di un sempre incerto futuro. Non si tratta semplicemen-te — e in particolar modo nel caso del Belli — di spostare paradisinel passato creando delle contro–utopie, e tanto meno di vivere l’at-tesa di un futuro di distopie inevitabili, ma di riaffermare, «liturgi-camente», che una realtà “è” solo in quanto “è stata”, mentre il “cisarà” resta confinato nel suo orizzonte nebuloso.

Nelle situazioni contingenti di pericolo per la «presenza» 5, per l’“Esser–ci”, avviene tuttavia un fenomeno, più o meno istituzional-mente concepito, di destorificazione religiosa, con conseguentemetastoricizzazione, spesso di tipo teleologico–apocalittico, degliavvenimenti storici di cambiamento più evidente e angosciante 6.

La funzione del riso e dello scoronamento carnevalesco, cheBachtin egregiamente ci ha descritto nel suo Rabelais, viene a tro-varsi dunque in chiara opposizione di fronte al processo di ragge-lamento opprimente e gerarchizzante della storia e delle sue istitu-zioni politiche che il Belli visse da suddito pontificio. Proprio suquesto punto, la destorificata realtà romanesca realisticamentecòlta e cantata dal poeta, mostra con chiarezza la sua alterità radi-cale rispetto a quella “ritualità” pantagruelica che, all’opposto,riesce ad abbracciare in un presente storico tutte le prospettivetemporali, facendosi garanzia di una riappropriazione e riattualiz-zazione della passato stesso proprio in prospettiva di un “nuovo”futuro. Come già era accaduto nel Decameron del Boccaccio, il risodi Rabelais agisce in funzione di una vittoria, di un superamentodella situazione di crisi. La ritualità pantagruelica, nella sua ripeti-zione, diviene quindi una categoria di crescita.

È attraverso questa visuale che Rabelais ha riaggregato lo spa-zio–tempo a una physis, sottraendolo all’antiphysis delle gerarchieextratemporali, e distruggendo quelli che Bachtin chiama «vecchivicinati» medievali, a favore della creazione di «nuovi» o «inattesivicinati»: quelli del popolo che emerge nella storia e del suo linguag-

4. M. BACHTIN, Estetica e romanzo, cit.5. Con questo termine, De Martino sembra voler tradurre il concetto di

“presenza” di L. Brhul e quello heideggeriano di Dasein. 6. E. DE MARTINO, Fenomenologia e storicismo assoluto, in ID., Storia e meta-

storia, a cura di M.Massenzio, Lecce, Argo, 1995, pp. 47–74

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gio del «corpo aperto», in contrapposizione all’extratemporalitàmetapolitica immutabile della corporeità «canonica» e ufficiale 7.

In Rabelais, dunque, attraverso carnevale e riso, un vecchioquadro è distrutto e una “piattaforma” di “nuovi vicinati” è inau-gurata: il grottesco che agisce in questo contesto assume un vero eproprio significato storico e antropologico degerarchizzante. Nelconfronto con l’immobile mondo romanesco cantato dal Belli, siinasprisce la divergenza che va colta nell’incommensurabilità trala «propositività» del grottesco rabelaisiano e la «rassegnazione»del creaturalismo dei sonetti, dove domina un realismo «autunna-le» che nasce nel seno della concezione figurale cristiana, e chepone al proprio centro la fralezza e la caducità dell’uomo in quan-to creatura, colto nella sua sofferenza di fronte alla crudeltà delquotidiano 8.

3. Rabelais ci presenta sempre il corpo umano dal punto di vistaanatomico–fisiologico, in tutta la sua interezza, e ne fa l’indice dimisura delle cose e del mondo: un “grottesco” antropocentrico checozza inevitabilmente con la medievale concezione dell’uomocaduco dei sonetti romaneschi 9. Il cinismo buffonesco e l’«analo-gizzazione fantastico–grottesca» 10 di Rabelais fanno capolino soloin alcuni audaci plebei belliani: ma agli Joca monacorum o alleCoenae Cypriani 11 il Belli sostituisce di norma il Giobbe biblico o ilDe contemptu mundi di Lotario–Innocenzo III. Ai vicinati “inatte-si”, il poeta della plebaglia romanesca, con la sua visione e visiona-rietà creaturali, contrappone una modalità corporea e antropologi-

7. M. BACHTIN, Estetica e romanzo, cit., pp. 313–316 (passim): «L’essenza diquesto metodo [la disgregazione delle categorie dell’antiphysis al fine della crea-zioni di un nuovo cronotopo per l’uomo “reale”] sta, prima di tutto, nella distru-zione di ogni legame consueto, dei vicinati consueti delle cose e delle idee e nellacreazione di vicinati inattesi».

8. E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino,Einaudi 1956, pp. 267–273. Si legga l’ultima terzina del bel sonetto La ReverennaCammera Apopretica: «Ma er padre de famijja poveretto / nasce pe terra, more alo spedale / e si ffiata sciabbusca er cavalletto».

9. Cfr. J. HUIZINGA, Autunno del Medioevo, Milano, Rizzoli, 2001 [prima edi-zione Haarlem, 1919]

10. M. BACHTIN, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi,2001, pp. 23–37 (passim) e ID., Estetica e romanzo, cit., pp. 294–298 (passim) e inparticolare p. 314.

11. ID., L’opera di Rabelais, cit., pp. 14–17

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71Grottesco e creaturalismo nei Sonetti romaneschi del Belli

ca ancora medievale, dunque essenzialmente gerarchica, di controa un grottesco che nel Rabelais “rovescia”, smaschera, scorona.

Si pensi al “vicinato” del “mangiare”, e alle sue significazioni an-tropologiche di carattere politico. Mangiare, scrive Elias Canetti, èla prima manifestazione del potere; è alla base della padronanzadella digestione, che fa dell’uomo il capo supremo della caccia in-ghiottita, che lo segue fino alla soglia dell’onnipotenza: la fase del-l’escremento 12. Nel 996, di contro alla proverbiale fame pantagrue-lica, iperbolica, ipertrofica, mangiare non è mai prerogativa popo-lare: il mondo è interamente diviso tra quei pochi che «maggneno»e «noantri» che «semo monnezza che nascemo a ccaso» 13. Qualcosadi simile accade con l’iperbolizzazione del bere: l’ubriachezza sfre-nata distrugge ogni gerarchia. Ma quante volte l’accesso al vino ènegato ai poveri plebei di Roma?

Ma cchi diavolo, cristo!, l’ha ttentatosto pontefisce nostro benedettod’annacce a seguesstrà ccor cancellettoquella grazia –de– ddio che Iddio scià ddato!

La sera armanco, doppo avé ssudato,s’entrava in zanta pasce in d’un buscettoa bbeve co l’amichi quer goccetto,e arifiatà lo stommico assetato.

Ne po’ ppenzà de ppiù sto Santopadre,pozzi avé bbene li mortacci suie quella santa freggna de su’ madre.

Cqui nun ze fa ppe mmormorà, ffratello,perché sse sa cch’er padronaccio è llui:ma ccaso lui crepassi, addio cancello14;

12. E. CANETTI, Massa e potere, Milano, Adelphi, 2004 [prima edizione 1960],p. 263.

13. Cfr. Er ciancico (92): «Cqua magna er Papa, maggna er Zagratario / deStato, e cquer d’abbrevi e’r Camerlengo / e’r tesoriere, e ’r Cardinal Datario. //Cqua ‘ggni prelato c’ha la bbocca maggna: / cqua …inzomma dar più mmerda armajorengo / strozzeno tutti–quanti a sta Cuccagna».

14. In una pungente nota Belli ci rende più chiara la lettura del testo: «LeoneXII fece porre alle porte delle bettole un cancello onde per mezzo a quello si spac-ciasse il vino, ed alcuno non si fermasse dentro a bere. Così tutti bevevano per lestrade, con non minorazione di scandalo». Cfr. anche P.GIBELLINI, Il calamaio diDioniso, Milano, Garzanti, 2001, pp. 39–53.

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e quante volte, al contrario, è il vice–dio in persona a partecipareattivamente a tale iperbolizzazione?

Curre la nova pe ppiazza Navonach’er Papa, pe viaggià cco ppiù decoroner rifresco che ffesce a Ppalidorose pijjò ’na santissima cacona.

E a la faccia de mezzo concistororivomitanno pe un’oretta bbonas’impiastrò ttutta la Sagra perzona fino a le scarpe co la crosce d’oro.

E la Corte, sbruffata da li schizzivienuti da lo stommico sovranoli pijjò come ttanti bbenefizzi.(1553, vv. 1–11)

Nei sonetti infatti, paradossalmente, il grottesco sembra essereun’arma propria del potere, della gerarchia stessa.

In Rabelais, mangiare e bere forniscono la genealogia di Gargan-tua, e sono inscindibili nel processo che favorisce il fenomeno dellacorporeizzazione degerarchizzante. Belli oppone a questa una benpiù misera «cosalità» 15, in cui anche l’uomo rischia di essere cosa trale cose, in una realtà in cui il mangiare si dà come “assenza”, come“manna” o «mannola» che cade dell’alto di un convito tra potenti,invisibile, inaccessibile16. In Rabelais, ancora, i “vicinati” del “coito”(considerato nella sua natura di principio generativo), degli escre-menti e della stessa morte, assumono la positività dell’accumulo, del-la fertilità, della crescita, della rigenerazione. Al punto che la stessaParigi deve il nome a Gargantua che, coram populo «brandendo lamentula in aria», “scompisciò” la folla con una tale violenza che an-negò duecentosettantamila e quattrocentodiciotto persone, senzacontare le donne e i bambini (I, XXXIII).

15. Cfr. G.VIGOLO, Il genio del Belli, Milano, Il Saggiatore, 1952, I, pp.105–111; II, pp. 89–91.

16. Cfr. Er Monno (981) «Vedi mai nove o ddiesci cor palosso / attorno un bercocommero de tasta, / che inzinamente che cce sii rimasta/ ‘na fetta da spartì, tajjach’è rosso? // Accusì er Monno […] // E llèvete li scrupoli dar naso / che nnoi c’en-tramo per un cazzo: noi / semo monnezza che nnascemo a ccaso. // Ar piuppiùciacconcedono er ristoro / de qualche seme che jje casca, eppoi / n’arivonno lammànnola pe llòro».

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73Grottesco e creaturalismo nei Sonetti romaneschi del Belli

Applicando al Belli questi vicinati, subito notiamo un netto ca-povolgimento di prospettiva: nei sonetti l’atto sessuale, ad esempio,è dominato dalla paura del castigo divino, della malattia, della cor-ruzione di una carne macilenta che «appesta de descemre ccom’ellujjo»: l’erotismo crea un universo algolagnico, dalle atmosfere se-gnatamente postridentine, dove il coito è depsicologizzato, cosa-lizzato l’oggetto d’amore 17; con conseguenze inevitabili e ben visibi-li lungo l’intera transumptio “potere: cibo: sesso: escrementi”.

L’eroicizzazione di tutte le forme della vita corporea sembra il“fuoco” della poetica rabelaisiana, dove anche la morte è esempiopositivo, in quanto con essa gli ultimi residui delle gerarchie stabi-lite vengono spazzati via, e con essi le pretese di extratemporalitàdel potere. Che anche la morte poi sia allegra lo sa bene il duca diClorence, che ottenne il suo ultimo desiderio di condannato amorte facendosi rotolare dentro una botte piena di malvasia (Gar-gantua, IV, XXXIII).

E neanche per Gargantua e Pantagruele la morte può essere unproblema etico o esistenziale: non è in gioco, infatti, la volontà diperpetuare se stessi, ma le loro migliori aspirazioni, in nome di unanuova umanità storica. Cumulo di ossimori, questo, nel Belli e peril lettore dei suoi sonetti, dove l’umanità non è unica né storica, madivisa ab aeterno in due «genneri», e comunque destinata alla penadi un “inferno” “eterno” quanto il “governo”: transumptio ben ricor-rente nei sonetti, e di eloquente significato. Un’umanità che con-trappone alla bicorporeità gioiosa del grottesco pantagruelico, ilsommesso disfarsi creaturale della carne, colto nel suo svolgersiper altrettanto gerarchizzanti tempora vitae:

Nove mesi a la puzza: poi in fasciolatra sbasciucchi, lattime e llagrimoni:poi p’er laccio, in ner crino, e in vesticciola,cor torcolo e l’imbraghe pe ccarzoni.

Poi comincia er tormento de la scola,l’abbeccè, le frustate, li ggeloni,la rosalia, la cacca a la ssediola,e un po’ de scarlattina e vormijjoni.

Poi viè ll’arte, er diggiuno, la fatica,la piggione, le carcere, er governo,lo spedale, li debbiti, la fica.

17. G. ALMANSI, L’estetica dell’osceno, Torino, Einaudi, 1994, pp. 131–166.

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74 Edoardo Ripariil3/2006

Er zol d’istate, la neve d’inverno…E pper urtimo, Iddio sce benedica,vie la morte, e ffinisce co l’inferno. (La vita dell’Omo, 787)

4. Il cronotopo folclorico è basato su una nozione di tempo col-lettivo, lavorativo, di crescita produttiva. Nella società ecclesiasti-ca ottocentesca abbondavano al contrario, in un’atmosfera peren-nemente controriformata, forme di organizzazione medievali, unmai abbandonato feudalesimo e una precisa volontà, da parte dellapolitica teocratica, di mantenere in vita atteggiamenti rituali “pri-mitivi”18. Tenendosi al di fuori dell’ideologia borghese, mercantili-zia e capitalistica, la Chiesa postconciliare era riuscita a cristalliz-zare particolari e archetipici atteggiamenti del sentire popolare,volti alla più ampia rassegnazione. Mantenendosi salda nella suaposizione extrastorica, essa aveva conseguentemente raffrenato lacollettività romanesca, e il suo romanocentrismo, in uno stato dicrepuscolo medievale appartato, isolato dalla temporalità progres-siva del nuovo figuralismo laico circostante 19.

Belli coglie Roma proprio nel momento in cui le categorie anco-ra imperanti e i loro «vicinati» vanno sgretolandosi, e con essi illoro valore simbolico, tematizzante e direzionale ormai decrepito,e tuttavia non abbandonato, perché percepito, dal potere che lopadroneggia, funzionale ai suoi scopi .

I riti si presentano quindi, nei sonetti, come “necrotizzati”, “re-litti” e “rottami” svuotati di ogni potenzialità esorcizzante. All’op-posto, la “necrotizzazione” rabelaisiana è un modo e un moto con-tinuo volto alla distruzione di quelle gerarchie ormai al tramonto:a impedirne la rinascita. Nel Belli, lo stesso fenomeno diviene«crisi della presenza» 20, disorientamento, forte senso della caduci-tà, e di conseguenza ricorso alla destorificazione.

Lo stesso Narrenfreihait (riso liberatorio), seppur riesce a esor-cizzare questi fenomeni grazie al trattamento stilistico grottesco,osceno e scatologico del corpo, agisce tuttavia solo a livello micro-

18. Mi permetto di rimandare al mio Storia ed extrastoria nei sonetti romane-schi, in «Il 996», a. IV, n. 1 pp. 21–45.

19. Ibid.; e cfr. A.M. BANTI, La nazione del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1996. 20. Cfr. E. DE MARTINO, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, cit.

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75Grottesco e creaturalismo nei Sonetti romaneschi del Belli

21. Riguardo ai concetti di macrofigura e microfigure, cfr. F. ORLANDO, Il-luminismo, barocco e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1997; per una loro appli-cazione al Belli cfr. E. RIPARI, La dialettica italiano–romanesco nei sonetti di G.G.Belli, in “Studi e problemi di critica testuale”, n. 2 aprile 2006, pp. 98–119.

22. Oltre al noto saggio del Febvre, cfr. M. VEGLIA, La vita lieta. Una lettura delDecameron, Ravenna, Longo, 2000, pp. 185–219.

testuale e microfigurale, mentre macrotestualmente un’angosciacrepuscolare predomina su ogni lato gioioso e bicorporeo delloscarto, dell’escremento 21. È un riso, inoltre, quello dei sonetti, cheben raramente presenta una piena valenza critico–speculativa,“riformistica” e quindi storica, quale invece Lucien Febvre hariscontrato nell’autore del Gargantua, in relazione al problema del-l’incredulità religiosa nel XVI secolo, e che già nella letteratura ita-liana aveva trovato uno straordinario esempio nel Decameron delBoccaccio 22.

Il grottesco in Rabelais non è infatti questione di stile: è una visio-ne, o meglio una concezione del mondo. Belli può certamente far sueforme stilistiche grottesche, ma la sua visione e rappresentazionedella realtà restano di tipo creaturale. Si legga Er purgante (129):

Cuanno cuela bbon’anima d’Annottaebbe l’urtima frebbe e stiede male,pe avé ll’ojjo de rìggini che sbottavorzi curre da mé dda lo spezziale.

E cco la cosa ch’er Cumpar Natalem’ha ttienuto a battesimo Carlotta,acquàsi ne cacciò mmezzo–bbucale,e mme lo vorze dà ffresco de grotta.

Ma cch’edè e cche nun è, du’ ora doppolei sentì ggran dolori a le bbudella,e scaricò tamanto de malloppo.

E ppoi da mmerda in merda, poverella,bbisogna dì che l’ojjo fussi troppo,morze, salute a nnoi, de cacarella;

o ancora Le scorregge da naso e da orecchie (177):

Nun ce pijjate un cazzo pe sta tossache vve sfiata le canne all’orghenetto?Pe carità, che ssi vve passa in petto,la bbava gialla se po’ ttiggne rossa!

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76 Edoardo Ripariil3/2006

Povera sor’Usebbia! Un’antra sbiossache vve sturi, dio guardi, er cuccomettonun ze po’ mmai sapé, vve s’empie er lettod’inguento cavarcato a la disdossa.

Basta, si ccaso ve scappassi un raschiosenza licenza delli supriori,fa bbene er latte de l’uscello maschio.[…]

Co sti arifreddorinun z’ha da perde tempo, Usebbia mia:bisogna dajje dietro e ttirà vvia;

dove, insieme alla volontà dell’autore di sprofondare ai limiti dellaparola e delle sue possibilità anfibologiche, notiamo che l’elemen-to escrementizio, seppur dotato di una certa, compiaciuta “gioiosi-tà” dal parlante, sottende, anfibologicamente appunto, l’atto dellasodomia, lo «spreco» dunque — per dirla con George Bataille —del seme vitale, e quindi una preclusione alle possibilità generatri-ci e rigeneratrici.

5. Le contraddizioni di chi afferma unità di visione tra Rabelaise un improbabile Belli progressista, possono nascere tuttavia pro-prio dalla lettura di alcuni passaggi salienti del saggio rabelaisianodi Bachtin: se la vita ufficiale di un popolo convalida l’immutabili-tà dell’ordine prestabilito, la sua eternità — afferma il critico —quella carnevalesca, di contro, dovrebbe rovesciarla in liberazionedalla verità dominante, sancendo l’uguaglianza universale. E ilcorpo umano, presentato nella visione carnevalesca, anticlassica-mente e anticanonicamente nel trionfo delle sue cavità di entrata euscita e delle sue escrescenze, diviene bicorporeo, gravido nellamorte, pieno nel rigetto, e attraverso il riso è un corpo che abbas-sa l’alto gerarchico, proseguendo con insistenza nella direzionedello «scoronamento» 23.

Questo discorso ha una straordinaria carica persuasiva; e tutta-via rivela alcune parzialità deformanti spesso determinate da ne-cessità di militanza, e un evidente populismo nell’idea del carneva-le come presa di coscienza storico–politica e utopica da parte dellemasse, e addirittura di un progressivo radicalizzarsi dell’utopismo

23. M. BACHTIN, L’opera di Rabelais, cit., pp. 69 ss. (passim)

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77Grottesco e creaturalismo nei Sonetti romaneschi del Belli

attraverso le fasi di interruzione e ripresa di questa festa del “rove-sciamento”.

Certo anche la posizione di Zijdelverd, sul piano opposto, sem-bra travalicare i limiti di un approccio imparziale alla materia, nel-l’affermare l’assoluta estraneità reciproca tra carnevale e politica. Ed’altra parte mi pare preferibile la cautela del Berger, quando affer-ma che quello carnevalesco «è un ridere indubbiamente eversivo,ma in un senso che non ha nulla a che spartire con qualsiasi teo-rizzazione marxista della coscienza rivoluzionaria» 24.

Sotto questo aspetto, va rivista anche l’idea bachtiniana di «ri-petizione» come “crescita”. Nell’ottica del potere, in effetti, avvieneproprio il contrario, ovvero la “mitigazione” della massa attraversol’iterazione dell’identico, nella prospettiva dell’immutabilità. Nelcaso del Belli quest’aspetto è evidente, e a differenza dell’ approc-cio marxista e muscettiano, occorre constatare come anche il car-nevale rientri pienamente nel processo di «ripetizione mitigante» 25.

Mi pare dunque discutibile l’affermazione bachtiniana secondocui «il progresso storico e culturale dell’umanità si muove conti-nuamente in avanti e grazie a ciò la giovinezza di ogni altra gene-razione è del tutto nuova, superiore, posta a un livello nuovo di svi-luppo culturale» 26.

Il carnevale come «giovinezza dell’uomo storico che cresce» nonè idea plausibile; e lo è tanto meno se applicata ai sonetti romane-schi del Belli, dove tale evento è quasi sempre negato per decisionepolitica; come in Er Carnevale der ’34 (1042, 12–14), in cui ognigioia lascia il posto alla consueta rassegnazione plebea:

Er crede e lo sperà ssò ccose bbelle;ma a sto monnaccio nun c’è de sicuroche ddu cose: la morte e le gabbelle;

o concesso sotto stretta sorveglianza, e dove, a covare propositieversivi, non è certo il popolo, ma un pugno di liberali disorganiz-zati, ben lontani dal divenire «cristalli di massa» 27, che la plebe stes-sa vedrebbe volentieri sul patibolo.

24. H. BERGER, Homo ridens, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 133–13525. Cfr. E. CANETTI, Massa e potere, cit., p. 30.26. M. BACHTIN, L’opera di Rabelais, cit., p. 448.27. Cfr. E. CANETTI, Massa e potere, cit., p. 88: “Definisco cristalli di massa

quei piccoli e rigidi gruppi di uomini, ben distinti gli uni dagli altri e particolar-mente durevoli, che contribuiscono alla formazione delle masse”.

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78 Edoardo Ripariil3/2006

Che la festa rovesci, almeno per lo spazio di tempo concessole, mipare evidente. Ma che “scoroni” è tutt’altra questione, specie nellabelliana intuizione che i re «nascheno tutti bbelli e preparati / co lacorona ggià incarnita in fronte» (1493, vv. 13–14; mio il corsivo).

Il grottesco belliano non è stilema di scoronamento. La sua per-cezione e rappresentazione sono, ribadisco, eminentemente crea-turali:

Su la porta der monno ce sta: Spacciode guainelle a ll’ingrosso e a minuto:de malanni passati pe setaccio:de ggiojje appiccicate co lo sputo.

Da ragazzi, la frusta sce sfraggella,de ggioveni, l’invidia de la ggente,e da vecchi un tantin de cacarella(La nasscita, vv. 5–11).

Il basso corporeo stesso è con tutta evidenza opprimente; ilpotere medesimo, infatti, è riuscito ad appropriarsene:

Nel mondo belliano non è in alcun modo concepibile il movimento bach-tiniano dello ‘scoronamento’ […] Il micidiale carnevale della Roma papalenon promette nessuna gioiosa e trionfante ambivalenza; si dà piuttostocome rito vuoto, uno scarico di rifiuti fisici e biologici, che attraversa i varistrati della società e ha proprio il papa come supremo officiante, pronto aconcentrare nei propri gesti il massimo di violenza gratuita e comica28.

E non dimentichiamo, a proposito del riso, che le risate piùsconcertanti, minacciose e sadiche dei sonetti sono proprio quelledi Dio (Er monno muratore, 906) e del pontefice Nostro Signore,come ne Le risate der papa (1348):

Er Papa ride? Male, amico! È sseggnoc’a mmomenti er zu’ popolo ha da piaggne.Le risatine de sto bon padreggnope nnoi fijjastri so sempre compaggne.

Ste facciacce che pporteno er triregnos’assomijjeno tutte a le castagne:

28. G. FERRONI, L’aggressiva contraddizione, in Belli romano, italiano ed euro-peo, a c. di R. MEROLLA, Roma, Bulzoni, 1984, p. 135.

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79Grottesco e creaturalismo nei Sonetti romaneschi del Belli

bbelle de fora, eppoi, pe ddio de leggno,muffe de drento e piene de magaggne.

Er Papa ghigna? Sce so gguai per aria:tanto ppiù cch’er zu’ ride de sti tempinun me pare una cosa nescessaria.

Fijji mii cari, state bbene attenti.Sovrani in alegria so brutti esempi.Chi rride cosa fa? Mmostra li denti.

E i denti — osserva ancora con grandezza d’intuito Elias Canetti— «sono il più evidente strumento del potere» 29.

29. Cfr. E. CANETTI, Massa e potere, cit., p. 248.

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Passaggio obbligatoForse da qui è nata l’ispirazione per il sonetto Li soprani der monno vecchio. Oviceversa?

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Col consenso dell’Autrice, pubblichiamo l’articolo E monsieurBelli andò a Milano, comparso su “Il Messaggero” dell’11 novembre1991, all’indomani del convegno internazionale di studi su G.G. Bel-li che, promosso nel bicentenario della nascita del poeta, si tenne aRoma fra il 6 e il 9 novembre di quell’anno. Il testo riprende il temadella relazione su Il francese nel Journal de voyage che JacquelineRisset tenne nell’ambito della sessione, dedicata a “Belli e la culturafrancese”, presieduta dal compianto Luigi De Nardis. La riproposi-zione dello scritto intende far riferimento alla intervenuta stampadei diari di viaggio di Belli, per le cure di Laura Biancini e AldaSpotti (ed. Colombo), nonché al seminario che al libro è dedicato,promosso in collaborazione con la Fondazione Primoli e il CIRIV(Centro interdipartimentale di ricerca sul viaggio). (N.d.R.)

Il primo viaggio di Belli a Milano, dal luglio all’ottobre del 1827,corrisponde, è ben noto, a un momento decisivo della sua vita: pre-cede, e autorizza, certamente, quella che Carlo Muscetta chiama lasua «conversione letteraria». Difatti, i primi sonetti romaneschi,quelli che aprirono la via alla grande impresa, al «Commedione»,egli li scriverà, si può dire, al ritorno da quel viaggio, e sarannoindirizzati all’amico milanese, l’architetto Giacomo Moraglia, chelo aveva accolto nell’estate precedente, e si era fatto suo «instanca-bile cicerone» delle opere d’arte della città lombarda, rivelandoglianche, fatto determinante, le poesie in dialetto milanese di CarloPorta. Il diario di quel viaggio è, sorprendentemente, in francese:

E monsieur Belliandò a Milano

Il diario in francese del 1827

DI JACQUELINE RISSET

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82 Jacqueline Rissetil

sorprendentemente, perché Belli non dominava perfettamentequella lingua; la scriveva con una certa difficoltà, e con non pocheincertezze. I diari dei viaggi successivi a Milano, negli anni ’28 e’29, saranno in italiano, e all’italiano Belli ritorna, nel ’27, una setti-mana prima dalla partenza; nel bel mezzo di una descrizione dellaZecca milanese, il 22 settembre, dando al lettore l’impressione divolersi liberare di una disciplina che egli si era forzatamente impo-sta. Ma perché imporsi quella lingua, che era pur sempre quella dei«barbari assassini» («una razza d’assassini / Peggio assai de liTurchi de la Mecca») che avevano terrorizzato il bambino romanodi otto anni, Belli stesso?

Tale esotismo linguistico ha forse il senso di un omaggio alla cittàdi Milano, «ville charmante et fameuse» (messa da Belli al di sopradi quel «paese dei prodigi» che è la Parigi continuamente evocata daivisitatori francesi a Roma)? Oppure si tratta di un esercizio autoedu-cativo, estremamente utile per chi si accinge a incontrare molti viag-giatori che parlano quell’idioma? Ma forse, al di là di queste ipotesi,il Journal de voyage del 1827 di Giuseppe Gioacchino Belli corrispon-de a qualcosa di più centrale: a una scelta insieme rivelatrice e pro-duttiva per la sua futura impresa poetica.

Roland Barthes scriveva che le biografie sono «romanzi che nondicono il proprio nome». In effetti, anche se i biografi non lo con-fessano, anche se si appoggiano su una quantità sterminata di do-cumenti e di testimonianze, inventano pur sempre la trama di-namica, interiore, invisibile, di ciò che si chiama «una vita». Az-zardiamo quindi questa ipotesi: Belli, scrivendo il suo diario diviaggio in francese, si vestiva da autore — e protagonista — nordi-co di quello che era allora il Voyage en Italie — un viaggio «di for-mazione», di formazione culturale, certamente, ma anche umana.

Il primo appunto del Journal, datato 27 luglio, non descrive pae-saggi, non riferisce impressioni, culturali o d’altro. Parla solo delromanzo che il Belli si è portato in viaggio, e che comincia a leg-gere esattamente alle 7 e un quarto, quattro ore esatte dopo la suapartenza da Civita Castellana, dove ha una casa. Questo romanzoè La Nouvelle Héloïse di Rousseau, e difatti questo libro lo accom-pagnerà per tutto il viaggio: il 5 ottobre, sulla via del ritorno, dopoessere ormai tornato all’idioma natio, annoterà nel diario che staleggendo le ultime lettere di questo romanzo epistolare.

E si può affermare che diversi aspetti di questo romanzo (Belliper altro era un grande lettore e conoscitore del Rousseau teorico)passano nel Journal de voyage, e orientano lo sguardo del viaggia-

3/2006

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83Il diario in francese scritto dal Belli nel 1827

tore. Nel primo appunto quindi, quello del 27 luglio, Belli cita infrancese una strofa che ha appena letto nella prefazione dellaNouvelle Héloïse, e che descrive la statua di un amorino che si trovain un giardino di Chantilly: «amorino nudo come la verità, senzafrecce, senza ali». Dunque un amore veramente disarmato, vera-mente rousseauiano; identificazione inattesa, ma forse Belli, anco-ra innamorato di Vincenza Roberti, legge la Nouvelle Héloïse, scrit-ta da Rousseau in seguito a un amore infelice, con una sensibilitàmolto vicina a quella del Sensibile per eccellenza, quella del gine-vrino inventore della sensiblerie in letteratura. Le reazioni di Belliai paesaggi — in particolare al panorama («sublime», diràStendhal) delle Alpi viste da Milano, sono alla Rousseau: la bellez-za del paesaggio evoca la possibilità della «felicità degli uomini». Eanche le descrizioni nel Journal de voyage delle opere d’arte (laCena di Leonardo, ad esempio) ritrovano, nella lingua francese, gliaccenti e i moduli stilistici delle Réveries d’un promeneur solitaire.

La stessa evocazione delle Alpi, quelle degli amanti nel sottotito-lo della Nouvelle Héloïse, serve forse a capire l’operazione indicatadalla scelta della lingua francese per il viaggiatore che viene dalSud — dagli Stati pontifici, verso la «charmante ci fameuse cité»,luogo di tante «magnificences et commodités». Belli, scrivendo infrancese, diventa uno di quei viaggiatori cosmopoliti che scendonoverso l’Italia ricca di meraviglie; Milano, città «au pied des Alpes»,viene vista con la stessa tranquillità e benevolenza del viaggiatorestraniero. E l’incontro più importante di quel viaggio, quello con lapoesia di Carlo Porta, egli lo consegna così agli appunti del Journal:«Mercredi 22 — À 8 heures levée, toelette, lecture de poesies mila-naises de feu Charles Porta» («Mercoledì 22, sveglia alle 8, toletta,lettura di poesie milanesi del fu Carlo Porta»). Il passaggio at-traverso la lingua francese non è, certamente, indifferente: il corag-gio, e la decisione di lanciarsi nell’immensa opera dei sonetti inromanesco, nel «Commedione», passa attraverso questo «détour»,attraverso questa passeggiata in una lingua lontana. Belli, come igrandi creatori, conosce il «nutrimento» che gli serve in ogni mo-mento. Allontanarsi, attraverso Rousseau, attraverso una sorta difinzione linguistica, dalla propria identità, lo preparava a gettarsipoi, in un lavoro così nuovo, così inedito (neanche tentato dal «fuCarlo Porta»), e così vertiginoso come il «monumento della pleberomana», che inizierà pochi mesi più tardi, e dove, all’amorino «nucomme la vérité» risponderà la voce rude di «noantri»: «fra noan-tri soli / se pò ttrovà la verità sfacciata».

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La redazione di un vocabolario dialettale pone una serie di proble-mi di metodo e, conseguentemente, di criteri operativi diversi, ma noncerto meno spinosi, rispetto ai vocabolari della lingua italiana. Comedimostra la recentissima pubblicazione dei due volumi che raccolgo-no gli Atti di un Convegno dedicato all’illustre dialettologo Paolo Zolli,l’attenzione da parte degli studiosi per la lessicografia dialettale è deci-samente aumentata rispetto a qualche tempo fa1. Per quanto riguardala situazione romana, in quegli Atti vi è un unico intervento che peròsi limita a ricordare alcune tra le principali opere lessicografiche delromanesco (soprattutto il benemerito vocabolario del Chiappini)senza nulla proporre per la situazione odierna2. Mi sembra, questa,una testimonianza ulteriore della difficoltà e della prudenza con cui glistudiosi (più o meno avvezzi alla lingua di Roma contemporanea) siaddentrano nella problematica attuale dell’area romana, un’area geo-grafica storicamente e sociolinguisticamente assai complessa3.

1. Mi riferisco a Bruni–Marcato (2006).2. Si veda Di Nino (2006).3. Sulla storia linguistica di Roma e del Lazio resta insostituibile la mono-

grafia di Trifone (1992).

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Lessicografiadialettale

Ancora sulVocabolario del romanesco contemporaneo

DI CLAUDIO GIOVANARDI

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86 Claudio Giovanardiil3/2006

Proprio per far fronte a tale evidente lacuna è stato concepito ilVocabolario del romanesco contemporaneo (= VRC), messo in can-tiere da Paolo D’Achille e dal sottoscritto una decina di anni or so-no. La realizzazione dell’opera si scontra con alcune difficoltà chederivano sostanzialmente da due fattori concomitanti: a) la man-canza sino a oggi di un repertorio romanesco affidabile sul pianoscientifico 4; b) la nota contiguità tra romanesco, italiano regionaledi Roma e italiano standard, tale da rendere assai difficoltosa unacernita tra lemmi da includere e lemmi da scartare. Di questi e dialtri problemi ci siamo occupati in diversi saggi preparatori e rela-tivi allo stato di avanzamento dei lavori 5.

Il romanesco contemporaneo è un cantiere aperto. Per ogni ce-dimento, per ogni perdita, per ogni pilastro abbattuto c’è qualcheinattesa fioritura. Tanti vocaboli ed espressioni del passato risulta-no obnubilati (come testimoniano anche gli informatori che divolta in volta abbiamo intervistato), ma tanti altri nascono sulle ro-vine sotto la spinta della creatività giovanile e anche grazie al “lan-cio” assicurato dai numerosi personaggi cinematografici e televisi-vi più o meno romanescofoni 6.

Avanzando nella redazione delle voci del VRC ci siamo resi contodella sin qui sottovalutata importanza della fraseologia (polirema-tiche e modi di dire proverbiali) nel caratterizzare la fisionomia les-sicale del romanesco. Se consideriamo per esempio l’espressione chete lo dico a fà, che a Roma è usata soprattutto dai giovani col signifi-cato ‘è ovvio’, notiamo che è costituita da parole italiane (se si esclu-de la forma apocopata dell’infinito), eppure il significato “composto”appartiene all’area romana. Lo stesso si potrebbe dire per falla finita‘smettila’ e dritto pe(r) dritto ‘sempre dritto’ e per tantissime altre locu-zioni. Alcuni giornali hanno riportato che nell’ultima edizione delloZingarelli 2007 figurano modi di dire di origine regionale, e tra que-sti veniva citato magna magna generale che a Roma (ma evidente-mente non più solo a Roma) indica una situazione di ruberia diffusa.

4. La tradizione della lessicografia romanesca novecentesca, da Chiappini aRavaro, è stata tenuta in considerazione per approntare il lemmario di base delVRC: cfr. D’Achille–Giovanardi (1999/2001).

5. Si vedano D’Achille–Giovanardi (1999/2001); D’Achille–Giovanardi(2001a); D’Achille (2005).

6. Si veda lo studio di Stefinlongo (in stampa) su Bonolis e Mammucari e diFresu (in stampa) sull’attore Ascanio Celestini.

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87Ancora sul Vocabolario del romanesco contemporaneo

E che dire di tutto l’universo fraseologico legato a toponimi, agionimie antroponimi (reali o fittizi) che rinviano ineluttabilmente a Roma,ai suoi usi e costumi, ai suoi luoghi, al suo immaginario? 7

Accanto al lessico, del resto, anche la sintassi dà segni di vitalità. Inalcune occasioni sono state studiate le particolarità delle perifrasi infi-nitivali nel romanesco8. Ebbene vorrei qui segnalare un uso della peri-frasi stare a + infinito, diffuso presso le giovani generazioni di parlantiromani, che non mi pare sia stato sinora notato. Mi riferisco a perifra-si del tipo sto a uscì con valore telico, parafrasabile come ‘ho intenzio-ne di uscire’, ‘voglio uscire’; un valore che si aggiunge a quello immi-nenziale, ben noto, che vale ‘sto per uscire’. È interessante che il valoretelico, a differenza di quello imminenziale, ammette anche la formanegativa: stasera non (nun) sto a uscì ‘stasera non mi va di uscire’.

Ma torniamo al VRC. Sarà forse opportuno dare qui qualcheesempio di voci, tratte dalla lettera I, che presentano aspetti inte-ressanti dal punto di vista lessicografico. Partirei da uno degliesempi già ricordati da D’Achille in un’altra occasione per vederese, da allora, qualcosa è nel frattempo cambiato 9:

idèa s. f. 1. In alcune locc.: Avecce ’na mezza idea, avere un’ispirazione, un’inten-zione: ciò ’na mezza idea d’annammene a ffà un viaggetto | Manco pe’ (l’)idea, nonel modo più assoluto: manco pe’ l’idea esci stasera | Fasse ’n’idea, prendereconoscenza di qlcs. in modo superficiale, per averne un’opinione approssima-tiva: te lo chiedo così, tanto pe’ famme ’n’idea | Me piaçe l’idea!, espressione concui si esprime ironicamente dissenso su una proposta. 2. Piccola quantità diqlcs.: — Ce lo vòi lo zucchero ner caffè? — Appena ’n’ideaLR: 1. Ra 2. BN, RaLI: 1. GRADIT (farsi un’idea) 2. GRADITD: ideaccia E: dal lat. IDEA

Rispetto alla precedente versione la novità più evidente è rap-presentata dall’inversione dei punti 1 e 2. Ci è sembrato opportu-no mettere in prima posizione le non poche locuzioni formate conidea, tutte fornite di un forte sentore locale, anche se farsi un’ideaè presente nel GRADIT 10. Per il resto è stato lievemente modificatoun esempio: da Vòi lo zucchero a Ce lo vòi lo zucchero, dal momen-

7. Si veda al riguardo D’Achille–Giovanardi (2006).8. Cfr. D’Achille–Giovanardi (1998/2001) e D’Achille (2001).9. Mi riferisco a D'Achille (2005).10. D’Achille (2005: 40) ricorda che la presenza della locuzione nel GRADIT

non è di per sé prova certa che sia diffusa nello standard.

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88 Claudio Giovanardiil3/2006

to che la frase con dislocazione a destra appare più plausibile inun contesto del genere. Compaiono inoltre alcune informazioniaccessorie che completano la voce. La sigla LR indica i lessiciromaneschi (citati in sigla) in cui è registrata la voce, LI i lessiciitaliani; i numeri arabi indicano quali dei significati da noi indica-ti sono effettivamente presenti nei lessici. La sigla D indica i deri-vati che sono lemmatizzati nel VRC e infine la sigla E indica l’eti-mologia.

A proposito delle lacune della lessicografia dialettale, e romane-sca in particolare, su cui ho richiamato l’attenzione in un prece-dente lavoro 11, mi pare un caso palmare quello rappresentato daignoranza (e da ignorante), voce sfuggita a tutti i repertori romane-schi, eppure fortemente connotata in alcuni significati diffusi nel-l’area romana:

ignoranza s.f. 1. Maleducazione: Giggi è de ’n’ignoranza teribbile 2. Schiettezza: èmeio l’ignoranza daa farzità! 3. per antifr. Competenza: pe’ le machine Marco ède ’n’ignoranza ’nzuperabbileLI: 1. GRADIT (colloq.), DELI (1325ca.)S: 1. ignoranteria, ignoranzitàD: ignoranzitàE: dal lat. IGNORANTIAM

Il lemma è in neretto e sottolineato come tutti i lemmi che sonoassenti negli altri dizionari romaneschi e sono quindi inseriti perla prima volta nel VRC. I tre significati registrati sono tipici dell’i-taliano di Roma; il valore di ‘maleducazione’ è dato dal GRADITcon la marca “colloquiale” ed è di antica attestazione, come risul-ta dal DELI. Negli esempi si noterà la ricerca di una grafia il piùpossibile aderente alla pronuncia, secondo i criteri fissati a suotempo 12. Rispetto alla voce idea, in questo caso ci imbattiamoanche nella sigla S che introduce i sinonimi lemmatizzati nel VRC(la cifra araba precisa a quale significato si riferisce il rapporto disinonimia con gli altri lemmi).

Nel campo dei verbi ho scelto qualche esempio che evidenziaalcune difficoltà di lemmatizzazione e che dimostra come il sistemaverbale del romanesco non sia sempre sovrapponibile, sia per la dia-

11. Cfr. Giovanardi (2001).12. Cfr. D’Achille–Giovanardi (1999/2001: 90).

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89Ancora sul Vocabolario del romanesco contemporaneo

tesi sia per il significato, a quello dell’italiano. Il verbo imbroccolà(re)può essere usato come transitivo, intransitivo e riflessivo:

imbroccolà(re) I. v. tr. 1. Ingannare: nun te fà ’mbroccolà 2. Imbroccare: “il por-tone di Marianna la nasona non lo imbroccolarono” (Pasolini) II. v. intr. (aus.avere) Riuscire a fare qlcs.: oggi nun c’imbroccola co’ ’sti esercizi de matematicaIII. v. rifl. Perdere la calma, adirarsi: nun te poi ’mbroccolà pe’ ccosì pocoLR: I.2. P2LI: GRADIT (1959 roman.)E: 1. da imbroccare incrociato con broccolo

Come si può osservare, solo l’uso transitivo col significato ‘im-broccare’ era sinora attestato in Pasolini (di qui l’indicazione delGRADIT); il resto della voce è stato costruito a partire dalle indica-zioni dei nostri informatori. Nel significato 1 del verbo transitivo èprobabile l’influsso di broccolo, che a Roma si usa col valore di‘sciocco’. Il verbo imbrojasse, a sua volta, è un esempio di uso rifles-sivo che allontana il romanesco dall’italiano; mentre infatti laforma attiva imbrojà non è stata lemmatizzata in quanto coinciden-te in tutto e per tutto con lo standard imbrogliare, imbrojasse è statoinserito perché a Roma si usa con un significato particolare che siriferisce alle condizioni atmosferiche:

imbrojasse v. rifl. Guastarsi, detto del tempo o del cielo: er cielo se sta a ’mbrojà:addio mare!S: imbruttisse (1)LR: [V2, Ga, Ra (imbrojà ‘imbrogliare’)]E: da imbroglio con la desinenza –are e il rifl. se

Si è scelto di lemmatizzare due entrate separate, considerandopertanto i lemmi come omonimi, quando la forte distanza seman-tica è suffragata da un’etimologia almeno in parte diversa. Nel casodi impallasse1 e impallasse2 la duplicazione del lemma si è fatta pre-ferire perché i due verbi hanno significati molto lontani e un’etimo-logia almeno in parte non sovrapponibile: entrambi derivano dapalla, ma nel secondo caso il riferimento è a una palla ben indivi-duata, ovvero la palla del biliardo; infatti il computer si blocca esat-tamente come il giocatore di biliardo quando la propria palla ènascosta dietro quella dell’avversario:

impallasse1 v. rifl. Ingrassarsi: hai visto Giggi? S’è ’mpallato come un porcoLR: 1. Ra (anche impallato), Ma (impallato)E: da palla con il prefisso in-, la desinenza –are e il rifl. se

impallasse2 v. rifl. Bloccarsi: me s’è ’mpallato il computer

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LI: GRADIT (impallarsi ‘impacciarsi, essere in difficoltà’)D: impallatoE: da palla con il prefisso in-, la desinenza –are e il rifl. se, con riferimento algioco del biliardo

Una componente rilevante del VRC è costituita dalle voci pro-prie del linguaggio giovanile, che a Roma appare particolarmentevivace e produttivo in fatto di neologia 13. Non di rado, inoltre, ivocaboli di uso giovanile tendono a risalire nel linguaggio collo-quiale degli adulti con un’accentuazione dell’effetto espressivo. Perlo più il lessico giovanile rinvia al campo semantico del sesso, alturpiloquio, alla scatologia. Non mancano tuttavia vocaboli dotatidi una notevole carica connotativa. Riporto qui di seguito treesempi di lemmi tratti dal linguaggio giovanile mai lemmatizzatinei precedenti vocabolari:

impaccato agg. Pieno di soldi, ricco: mi’ cuggino, che fa l’avvocato, è ’mpaccato;“è impaccato (…) persona esageratamente ricca” (Manuale)E: da pacco con il prefisso in– e il suffisso –ato

imbustasse v. rifl. scherz. Andare a dormire, mettersi sotto le coperte: imbusta-mose e dormimo che so’ cotto; “Vecchio porco schifoso e cannarolo che non seialtro. Ti piace imbustarti a letto stravolto, eh?” (Ammaniti–Brancaccio)LR: ANR2 LI: Ambrogio–CasalegnoE: da busta con il prefisso in-, la desinenza –are e il rifl. se

imbruttì(re) v. tr. Provocare o assumere un atteggiamento di sfida nei confronti diqualcuno: quello me sta a ’mbruttì, mi sta provocando; lui m’ha ’mbruttito e io jòmenato; “te sto a ’mbruttì, la tua antipatia mi irrita notevolmente” (Manuale)LR: GvE: da brutto con il prefisso in– e la desinenza –ire

L’aggettivo impaccato allude a chi è molto ricco ed è prodottoprobabilmente per ellissi dall’espressione impaccato de soldi. Ilverbo imbustasse per ‘andare a dormire’ ha un’attestazione lettera-ria in un racconto di Niccolò Ammaniti e Luisa Brancaccio (auto-ri romani) intitolato Seratina 14, a riprova che la circolazione del les-sico giovanile trova udienza anche al di fuori della stretta cerchia

13. Tra i diversi contributi sul linguaggio dei giovani romani si vedano almenoGiovanardi (1993/2001), Arcangeli (1999), Giovanardi (2001), Giovanardi (2006).

14. Citato in Ambrogio–Casalegno (2004) s.v. imbustare.

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91Ancora sul Vocabolario del romanesco contemporaneo

degli utenti originali. Infine il verbo imbruttì(re) rappresenta unesempio di slittamento semantico rispetto al corrispettivo italiano.Presso i giovani romani il verbo vale appunto ‘provocare’ e ha com-pletamente perso il collegamento col significato originario ‘renderebrutto’, ‘far apparire brutto’.

Vorrei chiudere questa breve rassegna con due voci che abbiamoricevuto dalla tradizione lessicografica precedente. La prima è costi-tuita dal verbo ì(re), vitale quasi esclusivamente nella forma del par-ticipio passato ito; rispetto agli altri dizionari romaneschi nel VRC siè proposta una struttura della voce che esponga, in modo ordinato,tutti i significati del verbo. La seconda, ianna, è certamente residua-le nel significato proprio di ‘ghianda’, ma si mantiene vitale, a giudi-care dai nostri informatori, col valore metaforico di ‘testicolo’.

ì(re) I. v. intr. (vitale soprattutto nel part. pass. ito) (aus. essere) 1. Andare: so’ itoggiù a vedé ch’era successo; co’ quella quarche vorta ce so’ ito ar cinema; “so’ itoa farme er bagno, so’ ito” (Pasolini) | “è ito all’arberi pizzuti, è passato a migliorvita (è spirato)” (Manuale) 2. est. (assol.) Guastarsi, andare a male: ’sta frutta èita 3. fig. (assol.) Uscire di mente, impazzire: quello ormai è ito II. v. rifl. (usatonella forma ìssene, col pronome enclitico ne) 1. Andarsene: a quest’ora se n’èito, ormai è andato via 2. Morire: “purtroppo tu’ fia se n’è ita” (Roberti)LR: I.1. A (ito), V2 (ito), Ga (ito), TC, Tr, Ra, Re II.1. Ra II.2. Ga (ito)S: annà(re)E: dal lat. IRE

ianna s. f. arc. 1. Ghianda 2. fig. (spec. pl.) TesticoliLR: 1. C, Z2, Ga, Ra, Ma 2. GaS: 2. cojoniE: esito locale dal lat. GLANDAM

Le due voci consentono qualche osservazione aggiuntiva. Si note-rà in entrambe la presenza di marche e di annotazioni relative allivello d’uso. L’esemplificazione di ì(re) rispecchia il modello che ab-biamo scelto, ovvero un modello misto, in cui compaiono prevalente-mente exempla ficta, ma non mancano citazioni tratte da un corpusselezionato di autori attivi nella seconda metà del secolo. Di più: pro-prio l’attestazione nella letteratura dialettale recente è un criterio inbase al quale si salvaguarda un vocabolo anche se risulta uscito dal-l’uso vivo 15. Ancora a proposito della voce verbale appare notevole

15. Personalmente ho già assegnato due tesi di laurea relative rispettivamen-te al lessico dei poeti Giorgio Roberti e Mauro Maré. Conto di proseguire su que-sta strada onde realizzare entro tempi relativamente brevi un corpus attendibiledi lemmi da far rifluire nel VRC.

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92 Claudio Giovanardiil

che, nonostante si tratti di una voce di larghissima attestazione neilessici romaneschi, vi siano due significati (sottolineati) sinora sfug-giti ai lessicografi, eppure assai diffusi nella lingua di tutti i giorni.

Naturalmente quella appena proposta è una rassegna parzialedella complessa casistica in cui si imbatte un lessicografo che vo-glia metter mano al romanesco contemporaneo.

Il nostro scopo immediato è quello di completare la revisionedei lemmi della lettera I appianando le ultime asperità operativeche pur sussistono. Una volta messo a punto il modello definitivo,si spera in un cammino più celere dell’opera, contando anche sul-l’ausilio di giovani e appassionati collaboratori.

Bibliografia

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ARCANGELI, MASSIMO (1999), “Bella! Ma de che? Lingua giovanile metropolitana inbocca romana”. In: Dardano et alii, edd. (1999), 249–266.

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D’ACHILLE, PAOLO – GIOVANARDI, CLAUDIO (1999/2001), “Per un Vocabolario del roma-nesco contemporaneo: ipotesi di lavoro, fonti, primi materiali”: In: Dardano,M. et alii, edd. (1999), pp. 155–182; ristampato in: D’Achille, P.-Giovanardi, C.,edd. (2001), pp. 85–105.

D’ACHILLE, PAOLO – GIOVANARDI, CLAUDIO (2001), Dal Belli ar Cipolla. Conservazionee innovazione nel romanesco contemporaneo. Roma, Carocci.

3/2006

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93Ancora sul Vocabolario del romanesco contemporaneo

D’ACHILLE, PAOLO – GIOVANARDI, CLAUDIO (2001a), “Verso il Vocabolario del romanescocontemporaneo: proposte per la costituzione del lemmario”. In: D’Achille, P.-Giovanardi, C., edd. (2001), pp. 107–131.

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DARDANO, MAURIZIO – D’ACHILLE, PAOLO – GIOVANARDI, CLAUDIO – MOCCIARO ANTONIA,edd. (1999), Roma e il suo territorio. Lingua, dialetto e società. Roma, Bulzoni.

DI NINO, NICOLA (2006), “Uno sguardo alla lessicografia romanesca”. In: Bruni, F.-Marcato, C., edd. (2006), pp. 319–328.

FRESU, RITA (in stampa), “L’italiano de Roma tra memoria e fantasia nella ‘scrittu-ra orale’ di Ascanio Celestini”. In: Marcato, G., ed., Dialetto, memoria e fanta-sia. Atti del convegno di Sappada/Plodn, in stampa.

GIOVANARDI, CLAUDIO (1993/2001), “Note sul linguaggio dei giovani romani di bor-gata”, Studi linguistici italiani 19, pp. 62–78; ristampato, con una nota di ag-giornamento, in: D’Achille, P.-Giovanardi, C., edd. (2001), pp. 133–150.

GIOVANARDI, CLAUDIO (2001) “I neologismi del romanesco e le lacune della lessico-grafia dialettale”. In: D’Achille, P.-Giovanardi, C., edd. (2001), pp. 169–197.

GIOVANARDI, CLAUDIO (2006), “Quando parlare non basta, ma scrivere è un problema.Qualche riflessione sulla comunicazione tra giovani romani”. In: Marcato, G., ed.,Giovani, lingue e dialetti. Atti del Convegno Sappada/Plodn. Padova, Unipress, pp.395–410.

STEFINLONGO, ANTONELLA (in stampa), “Tra Bonolis e Mammucari. Variazioni media-tiche di codice e di registro”. In: Giovanardi, C. – Onorati, F., edd., Le lingue dermonno. Atti del Convegno internazionale di Roma, in stampa.

TRIFONE, PIETRO (1992), Roma e il Lazio. Torino, Utet Libreria.

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Siamo ormai tutti convinti, almeno da quando sul finire dell’Otto-cento il leggendario Editore Perino pubblicò un libricino intitolatoTreno Tropea — nel quale si descrive una trasferta ferroviaria di ubria-coni a Frascati — che la parola tropea sia romanesca e che indichi unasolenne sbronza. Potete chiedere anche al vostro giornalaio di fiduciao al pizzicagnolo all’angolo sotto casa. Non riscontrerete mai dubbi.

Anche io non ne avevo, e chissà quante volte ho ripetuto la sto-riella del treno che aveva preso il nome dal termine tipico romane-sco per indicare lo stato psicofisico nel quale si scivola abbando-nandosi a troppe confidenze con Bacco. Parlando di serate passatenei miei anni più verdi in qualche cantina di Lanuvio, certamenteavrò ammesso di essermi preso con gli amici una bella tropea.

Tutto questo, fino a quando presso una bancarella non mi sonomesso a sfogliare un elegante, illustratissimo e anche troppo costosolibro di storia delle ferrovie, nel quale erano riprodotte antiche tabel-le orarie; e l’occhio mi è caduto sulla coppia di parole «treno tropea»:qualche secondo dopo ero a bocca aperta. L’orario infatti non eraquello del treno di Frascati, ma della linea di una rete da qualche altraparte d’Italia. Quella coppia di parole non aveva nulla a che fare conil treno degli ubriaconi, anzi, aveva tutta l’apparenza di formare untermine specifico che indicava un preciso tipo di treno, il quale permotivi tecnici o chissà quali altre ragioni faceva qualcosa di preciso.

È stata una improvvisa illuminazione. Tutto mi era chiaro: il nomenon l’aveva preso il treno dalla sbronza, ma la sbronza dal treno. Edecco la dimostrazione. Consultando i vari vocabolari romaneschi, tuttipraticamente novecenteschi, non ho trovato conforto. Unanimi mi gri-

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TrenoTropea

Una retromarcia lesssicale

DI CORRADO LAMPE

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davano in faccia che il treno aveva preso il nome dalla sbornia e nonviceversa. A questo punto, uno solo poteva salvarmi: GiuseppeGioachino Belli. Se veramente tropea è il vocabolo romanesco per“ubriacatura”, almeno in un sonetto l’avrei trovato. Con una certa tre-pidazione ho cavato dagli scaffali della mia biblioteca la bella edizio-ne Mondadori del 1958, a cura di Giorgio Vigolo, e sono subito anda-to a cercare l’indice delle voci. Tropea c’è, e ben due volte, nei sonetti46 e 1937! Accigliato e più muto di un trappista mi sono messo a sfo-gliare i ponderosi volumi. Il primo sonetto si intitola Campidojo, unadescrizione del nostro colle massimo nella quale, parlando della sta-tua equestre di Marco Aurelio, “996” non si vergogna di scrivere:

Marcurèlio sta llà ttutto vestito senza pavura un cazzo de tropea.

Nelle note Vigolo specifica in modo incontestabile: «Temporaleimprovviso e passeggero. Oggi vale ‘sbornia’». Il primo segno di con-ferma alla mia supposizione: tropea sta per ‘sbornia’ oggi e non aitempi di Belli. Il secondo sonetto, La Governante del Governatore,ugualmente nel testo promette bene, con un poco simpatico augurio:

je pijja ’na tropea!

Con la nota esplicativa Vigolo mi rigetta però nuovamente neldubbio. La riporto tale e quale: «Tropèa, propriamente equivale aburiana, improvviso temporale: ma si dice esclusivamente in traslatodi sbornia. Chiamavano, perciò, treno tropea l’ultimo treno in parten-za dai Castelli Romani, che la domenica tornava carico di vino, incorpo agli sborniati. Tropea è anche cittadina in prov. di Catanzaro».

La nota fa riflettere, e a lungo. L’ho letta e riletta. Uno dei primiperché che mi germoglia spontaneo in testa è: cosa c’entra la bella cit-tadina calabra di Tropea? Penso che questa superflua specificazionenon abbia alcun senso, anzi, credo che Vigolo l’abbia aggiunta perchéinconsciamente deve essersi reso conto che il termine nel significatointeso da Belli e l’amena storiella delle botti bioniche sul treno hannoscarsa relazione, e tanto valeva aggiungere un’omofonia a caso.

Poi mi sono messo a considerare i tempi. Il sonetto 1937 è datato1838. La linea di Frascati è del 1856. Il grande poeta romanesco èmorto nel 1863, l’opuscolo che fissa nel linguaggio popolare il termi-ne di «treno tropea» del 1885. Ovvio che se l’opuscolo riprende un ter-mine già in circolazione, questo doveva essersi affermato tra i parlan-ti romanesco qualche anno prima, mettiamo tra la breccia di Porta

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97Treno Tropea: una retromarcia lessicale

Pia e il 1880; dal punto di vista dell’evoluzione del romanesco deveessere avvenuto un cambio di significato improvviso, una svolta repen-tina di una sola parola, mentre le altre continuavano a restare immu-tate o a cambiare un passo alla volta. La storia palesemente non regge.

Nel sonetto, come abbiamo visto, ai danni della Sora Micchelina, lagovernante del Governatore, si auspica una tropea, che propriamentesignifica ‘improvviso temporale’ e in traslato ‘sbornia’. Possibile? Se aqualcuno si dice prima «vatt’-a–fa–fotte», un invito poco gentile, anzidirei aggressivo, a ruota non gli si augura una sbornia. Non si è maivisto né sentito. L’unico traslato che qui mi viene in mente è semmaiuna improvvisa colica intestinale con susseguente effetto.

Riflettendoci ancora, mi accorgo che quella aggiunta tanto gra-tuita della località marina tirrenica mi si offre come chiave perrisolvere il busillis. Gran parte della toponomastica calabrese, permotivi che tutti dovrebbero conoscere, ha origine greca, e il voca-bolario mi fa sapere che “tropè,-ès” si traduce con: ‘rivolgimento’,‘svolta’, ‘voltata’, ‘ritorno’, ‘mutazione’, ‘cambiamento’. La «Perladel Tirreno» fu chiamata così perché nel punto esatto in cui sorgela costa gira di colpo, quasi a voler tornare indietro.

Ora è chiaro anche il fatto che qualche bravo ferroviere agli alboridelle strade ferrate in modo assai dotto volle definire col temine greco“tropea” il treno di ritorno su una linea a binario unico.

Ai tempi del «treno Tropea» la linea di Frascati in effetti era,come oggi, a binario unico, ma terminava al capolinea con sempli-ci respingenti, senza nessuna possibilità di manovra per la locomo-tiva, costretta a rispingere a valle in retromarcia il convoglio pienodi pendolari della fraschetta. Dato che il «treno tropea» da Frascati,il treno di ritorno da Frascati, solitamente trasportava gente conqualche traccia ematica nella circolazione etilica, in periodo nonesattamente specificato tra la breccia di Porta Pia e il 1880, deveessere divenuto sinonimo di “treno degli ubriaconi” e dunque laparola di origine greca tropea sinonimo di “sbomia”.

Che applicato alle strade ferrate il lemma di origine greca sia diderivazione colta mi pare a questo punto evidente, ma entrando pertraslato nel dialetto soppianta quello precedente, che indicava unimprovviso mutamento climatico (o intestinale). Per un breve perio-do i due termini probabilmente convissero, ma la pubblicazione del-l’opuscolo decretava la scomparsa definitiva di quello più antico.

Da dove il popolino belliano prese una parola di chiara originegreca? Io lo so, ma non vorrei andare fuori tema, come mi rimpro-verava sempre la Prof. di italiano.

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Riproponiamo qui il testo dell’intervento di Luigi Ceccarelliall’incontro–dibattito svoltosi il 26 ottobre 2006 presso il Museo diRoma in Trastevere, sul tema “La satira in Roma in età moderna”.Tale contesto spiega il tono discorsivo del contributo, tono che si èpreferito conservare anche nella versione a stampa, a testimonian-za del suo carattere colloquiale. (N.d.R.)

Buonasera. Prima di tutto voglio rivolgere un saluto e un ringra-ziamento a quanti hanno collaborato alla realizzazione di questaesposizione e del bellissimo catalogo che l’accompagna. Mi riferi-sco alla felice idea di porre in primo piano il progetto storico e arti-stico di tre secoli di satira e di caricatura tra le Marche e Roma.

Grazie quindi a Fabio Santilli e a Melanton che ne sono gli idea-tori, gli animatori, gli organizzatori. Senza toglier niente allaMostra, è un vero piacere sfogliare, leggere, gustare le pagine diquesto percorso così ben meditato che porta alla conoscenza di unsettore di espressione artistica e storica non sempre conosciuto eapprezzato. Sempre più mi convinco, e questo è un caso calzante,di quanto siano necessari, se non indispensabili, i cataloghi delleMostre, gli atti dei Convegni, i filmati (quelli fatti bene, non alcune“pecionate” che confondono e basta). Da ricordare poi in questainiziativa il sentimento di amor civico–regionale verso le Marche,regione forse un po’ orfana e fuori del giro dei media. Per esempioio che bazzico da tanti anni le Terme di Fiuggi, piene di gente che

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La tentazionecomica

La satira a Roma in età moderna

DI LUIGI CECCARELLI

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beve allietata da un’orchestrina, non ho mai sentito suonare unaqualche canzone che riecheggi le Marche; mentre invece per ac-contentare le variegate provenienze regionali dei frequentatori c’èun bombardamento di “Calabreselle” e “Romanine”, e con la sacra-lità di un canto gregoriano vengono struggentemente eseguite“Romagna mia”, “O mia bèla Madunina”, “Firenze sogna”, “O solemio”, “Roma non fà la stupida stasera”.

Marche niente; così anche l’Umbria. Sono escluse dalle celebra-zioni. Per le due regioni, d’altro canto bellissime e interessantissi-me, non c’è neanche la rinomanza e la successiva santificazione diattori marchigiani, specie quelli comici, che pur godono proprioper il loro ruolo di una naturale simpatia, di successo e popolarità.

Importante perciò che nel catalogo sia presente e sia sottolinea-ta la marchigianità dei tanti valenti collaboratori di oggi; ma anchedi quegli artisti marchigiani ormai divenuti personaggi storici neldisegno satirico e nella caricatura di alto livello: basterebbero inomi di Pier Leone Ghezzi, di Gabriele Galantara e di CesareMarcorelli. Significativo poi che proprio a Tolentino, nelle Marche,provincia di Macerata, sia nato e sistemato il Museo dellaCaricatura.

Mi pare di poter dire che da qualche tempo si avverte una voglia,un proponimento, un progetto mirato di divulgare gli interessi cul-turali e artistici delle Marche attraverso manifestazioni, festival eincontri anche nei campi più specifici e minuti. Ricordo a questoproposito il premio Leonida Barboni, grande direttore della fotogra-fia, valente protagonista del periodo più felice del cinema italiano,cittadino di Fiuminata, provincia di Macerata. Le varie iniziative diAngelo Olivieri per diffondere la marchigianità di noti attori e can-tanti di successo come l’americano Don Ameche, Massimo Girotti,Beniamino Gigli e altri. Poi i programmi musicali, interessantissimi,organizzati dalla Regione Marche: si veda l’ottimo risultato deglispettacoli dello Sferisterio di Macerata, ormai al medesimo livello dinotorietà dell’Arena di Verona.In me, romano e romanista, ovvero studioso di Roma (ricordiamol’esistenza del Gruppo dei Romanisti che da settant’anni accomu-na quanti si occupano di Roma in tutti i suoi aspetti) c’è stata unagrande soddisfazione che nel Catalogo vengano ricordati gli strettilegami storici e culturali tra Roma e le Marche. Emergono duemotivi di congiunzione. Il primo: Enzo Calcaterra interviene sulleradici familiari, recanatesi, di Belli e sulla misteriosa, intricata,intellettualissima storia d’amore del nostro grande poeta con la

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101La satira a Roma in età moderna

marchesina Vincenza Roberti di Morrovalle, la sua “Cencia”; ilsecondo: in un esemplare saggio di Claudio Costa compare tutta,tutta la letteratura satirica romana di almeno quattro secoli, dalleantiche pasquinate alle opere dal tardo Cinquecento. giù fino allametà circa del trascorso Novecento: ed ecco allora i nomi di PietroAretino, Giuseppe Berneri, Benedetto Micheli, Giuseppe GioachinoBelli, Gigi Zanazzo, Cesare Pascarella, Trilussa. E poi RomaCapitale, l’aria, l’ambiente scapigliato dei primi giornalisti, dei cro-nisti, dei vignettisti fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del 900, finoalla prima Guerra Mondiale. Questo è il tema della conversazioneche terrò con il caro Claudio Costa, amico e, come abbiamo visto,valente studioso del quale sono uno degli estimatori.

Dopo undici secoli finisce il potere temporale dei papi. A Romatutto cambia; o meglio, come succede sempre, quasi tutto, o soloqualcosa, cambia.

A Roma, dal giorno di Porta Pia sono successe comunque unaquantità di trasformazioni e di eventi; e contemporaneamente sipredispone una programmazione in ogni direzione che, anche seun po’ confusa, cambierà radicalmente il carattere della città. IlPiano Regolatore di Roma prevede gli “abbellimenti” di vecchiquartieri (in realtà si tratta di sventramenti e abbattimenti), l’edifi-cazione dei nuovi quartieri operai fuori del centro storico, la nasci-ta di zone residenziali, la costruzione degli indispensabili mura-glioni sul Tevere, la realizzazione di nuovi ponti, la speculazioneedilizia e la conseguente crisi di lavoro, la lottizzazione e quindi laperdita delle grandi ville che esistevano dentro le mura, tra le piùbelle d’Europa, vanto della Roma papale.

E poi la sistemazione del Ghetto, l’erezione di chiese non catto-liche, l’epurazione toponomastica: via i santi e le madonne (Via S.Maria in via Lata diventa Via Lata), via le tradizioni e i riferimentipapalini (Vicolo delle Scale diventa Via Angelo Brunetti dove avevaabitato Ciceruacchio, eroe della Repubblica Romana), Via delGiardino Papale, a fianco del Quirinale, diventa Via dei Giardini;non c’è più bisogno, se si vuole andare a messa, di esibire al parro-co er bijetto per certificare l’avvenuta frequenza alla funzione; sistabilisce l’abolizione delle colonnette di marmo nelle strade; ven-gono messe in opera le cassette postali in ferro in luogo delle anti-che buche a muro e viene proibito agli scrivani pubblici di lavora-re per strada. Comincia il trasporto urbano con carrozze a cavalli,si aprono nuovi teatri, si creano le zone archeologiche; nei conven-ti espropriati hanno sede alcuni ministeri; sorgono, come espres-

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sione di libera vita democratica vari circoli e sodalizi tecnico–arti-stico e sportivi (specialmente sul Tevere), s’installano le prime sta-zioni sanitarie nell’Agro Romano e iniziano le lezioni delle scuoleserali e i corsi delle scuole Superiori femminili. Si murano lapidirisorgimentali in ogni dove, viene deliberata l’erezione di unMonumento commemorativo in ricordo di Vittorio Emanuele II,avvengono banchetti operai in onore di Garibaldi.

C’è, nella Roma Capitale dell’Italia unita, una vita e un’aria libe-ra e nuova. E si sviluppa e si consolida sempre più la categoria deigiornalisti, dei cronisti, dei vignettisti. È una classe che si sta tra-sformando ed è in via di sviluppo. Eccetto il breve momento dellaRepubblica Romana (specialmente al termine della sua caduta, daparte papalina, con i violenti e impietosi interventi satirico–politi-ci, nel testo e nelle illustrazioni, contenuti nella pubblicazione daltitolo Grande riunione tenuta a Roma nella sala dell’ex Circolo Po-polare stampato nel 1849 e attualmente conservata alla Bibliotecadi Storia Moderna e Contemporanea), la stampa era solamente unpiatto e tetro bollettino di notizie.

Con l’Unità nascono in tutta Italia numerosi e nuovi giornali; siaffermano e si rivolgono a un pubblico di lettori reso più copiosodai progressi dell’alfabetizzazione e dalla più estesa scolarizzazio-ne: Il Corriere della sera a Milano, La Stampa a Torino, Il Resto delCarlino a Bologna, Il Gazzettino a Venezia, Il Secolo XIX a Genova,Il Mattino a Napoli. A Roma, oltre a giornali umoristici, letterari emondani quali Il Capitan Fracassa, Il Fanfulla, Don Pirloncino, LaRaspa, La Frusta, Il Cassandrino vedono la luce Il Messaggero, LaTribuna e Il Giornale d’Italia.

Perlomeno a Roma i collaboratori dei giornali sono giovaniintellettuali — un po’ artisti, un po’ scrittori, sicuramente bohé-miens, più o meno affamati, frequentatori di economiche latterie— che si ritrovano nelle redazioni dei loro quotidiani, nei caffè,specialmente l’Aragno, in pieno centro, sul Corso, a Palazzo Mari-gnoli, dove al primo piano c’è la Sala Stampa Romana. Fre-quentano anche le vecchie e pittoresche osterie–trattorie intornoall’Augusteo, i nomi delle quali sono solitamente caratteristici:“L’Aliciaro”, “La Velletrana”, “Il Frascatano”, “La sora Richetta”. Simangia bene e si beve altrettanto, delle volte a credito. L’ambientedegli assidui è misto: giornalisti e artisti all’inizio della carriera epersone, ormai personaggi, già arrivati e volutamente eccentrici. Simischiano gli uni con gli altri in una spensierata allegria: PietroFornari, il brillante erudito romanista che si firmerà “Pietro

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Romano”, Duilio Cambellotti, Giggi Pizzirani, Giggi Zanazzo,Trilussa, Filiberto Scarpelli, Armando Brasini, Leopoldo Fregoli,Gabriele Galantara, l’editore Edoardo Perino, il pittore EnricoGuazzoni, Romeo Marchetti disegnatore e direttore di “IlPupazzetto”, i figli di d’Annunzio, Cesare Pascarella che abita in viadei Pontefici, strada che non c’è più e che era da quelle parti.

L’allegra e variegata tribù, o parte di essa, al posto dell’ormaimorente Carnevale romano organizza veglioni al chiuso dei nuoviteatri, il Costanzi e il Nazionale; la congrega in queste occasioni siadopera per realizzare alcune ricostruzioni in cartapesta su temid’attualità. Celebre quella relativa alla Nave di d’Annunzio: sul pal-coscenico del Teatro Nazionale viene costruita una colossale bar-chetta simile a quella che i ragazzini fanno con la carta, sulla cuiprua è innestata una colossale testa del poeta. Nel corso del veglio-ne un gruppo di giovanotti, vera teppa in marsina che non simpa-tizza con l’autore della tragedia, fracassano la testa di cartapestache lo raffigura e rovesciano tutta la struttura. Sicuramente ungaglioffo atto di vandalismo, che dimostra però la distanza tra ilpaludato pensiero del vate e lo spirito anarcoide–libertario–anti-conformista degli attentatori. Non si è mai saputo se l’azione fossefrutto di un gruppo di futuristi che in quegli anni avviavano le lororivoluzionarie manifestazioni. Certo è che i nostri giornalisti, cari-caturisti, eccetera non c’entravano per niente: era gente certamen-te brillante e spiritosa, ma in definitiva molto paciosa e in fondomolto tradizionalista. Organizzavano più credibilmente allora lecelebri “carciofolate”, vera e propria maniera di godersi la vita nelmodo più qualunque e ordinario: una bella mangiata — o megliomagnata, il cui il menu poteva essere: spaghetti, carciofi a piacere,filetti di baccalà, formaggio, frutta e abbondantissimo vino. Il tutto,almeno prima del 1900, per due lire. La numerosissima comitivadei partecipanti, tutta in costumi incomprensibili e senza senso,partiva da Via Margutta e, traversando Roma, arrivava a MonteCenci. Al termine del banchetto, il corteo, abbastanza bevuto e conalcuni sminfaroli (suonatori) in testa, arrivava al Colosseo dove siintratteneva, fra un concertino e l’altro, per tutta la notte.

È la Roma dei banchetti: ogni occasione è buona e l’Urbe vi sipresta meravigliosamente bene con le sue ruffiane rovine e i suoiantichi spazi. È pronta quindi ad accogliere un gran numero difestanti commensali.Memorabili trimalcioniche mangiate alCongresso Internazionale dell’Agricoltura, al Congresso Interna-zionale della Stampa, alla chiusura estiva della Camera dei Depu-

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tati. Il nostro gruppo di cronisti, giornalisti e vignettisti partecipacon gioia a questi eventi, anche con la scusa di resocontare gliavvenimenti nei loro giornali. In questa atmosfera da clerici vagan-tes, fra “carciofolate”, chiacchere, sminfe, duelli per ogni scioc-chezza, progetti in ogni direzione, si profila una stampa semprepiù specificatamente e dichiaratamente satirica: ed ecco che aiprimi del Novecento ecco che nasce «Il Travaso delle Idee». Il tito-lo è ripreso da Filiberto Scarpelli immortalando l’omonima testatadi Tito Livio Cianchettini, marchigiano a Roma, morto poco primae mentore dell’originale tendenza satirica del nuovo periodico. Ildirettore del settimanale è Carlo Montani, pittore dei XXV dellaCampagna Romana e critico d’ arte, con cui collaborano i carica-turisti Romeo Marchetti, Enrico Novelli (Yambo), FilibertoScarpelli e Arnaldo Tolomei (Atomo); ci lavora anche Trilussa conle “lettere” a firma Maria Tegami, una divertente intellettuale–co-cotte che con linguaggio dannunziano pieno di strafalcioni raccon-ta impietosamente la vita della potente società romana di queltempo, quella che conta.

Il contributo trilussiano ottiene grande successo, come pure è disuccesso la rubrica del “cittadino che protesta” di Luigi Lucatelli,che si firma “Oronzo E. Marginati”. Sempre in quegli anni Trilussa,giovane e squattrinato, scrive alcune “macchiette” in italiano per ilcomico–canzonettista napoletano Nicola Maldacea che recita alSalone Margherita, uno dei numerosi romani “caffè concerto”,equivalente nostrano del parigino café chantant. È il momentod’oro di questi locali della Roma borghese umbertina dai titoli cosìtanto d’epoca: “Trianon”, “Orfeo”, “Gambrinus”, “Acquario Ro-mano”, “Olimpia”, “Odeon”. Su quelle ribalte, non sempre solide,passano Petrolini, Fregoli, Viviani, Cuttica, Bambi, la bella Otero,Fulvia Musette. È il tempo dei prestigiatori, della “mossa”, dei gio-colieri, delle sciantose. Le “macchiette” trilussiane piacciono,fanno ridere, hanno e avranno molta fortuna. Ma lo stessoTrilussa, ancora in vita, sulle nubi della gloria, non volle che fosse-ro comprese nella prima sua omnia mondadoriana del 1951 Pertutti gli anni precedenti Trilussa è sempre abbastanza attivo (dico“sempre abbastanza” perché è costituzionalmente propenso a nonprendere nessun impegno). Pertanto tra il 1927 e il 1930 il poeta(sta da tutte le parti, ma è così per forza, data la sua popolarità)allestisce con il direttore del Travaso, Guglielmo Guasta, e suamoglie Olga “La baracca delle favole”, un teatrino di burattini chemette in scena “farse da piangere e tragedie da ridere”; frequenta

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con piacere i salotti mondani e cinematografici di Lucio D’Ambrae della coppia Carmine e Soava Gallone; è coinvolto in una quanti-tà di progetti cinematografici, nessuno concretizzatosi. C’è solouna revisione romanesca a un copione Via delle cinque lune di LuigiChiarini del 1941. La vita e l’opera di Trilussa, che è indubbiamen-te la grande personalità del Novecento romano e italiano, è orafinalmente tutta racchiusa nel prezioso e fondamentale “Meridia-no” uscito da Mondadori a cura di Claudio Costa e Lucio Felici.

Altro posto romano d’incontro, un po’, anzi molto più chic, è ilCircolo Artistico Internazionale in Via Margutta. Qui convengonopittori e scultori affermati con i loro omologhi stranieri, letterati dichiara fama, qualche dignitario della Real Casa, rappresentanti delCorpo Diplomatico, esponenti della nobiltà romana. È sempre sca-pigliatura, ma di tono più elevato e colto, che vivacizza comunquel’ambiente artistico romano. Proprio qui, al Circolo Artistico, sisvolge un’attività spregiudicata e caratteristica, un ritrovo tra lacerchia degli artisti e il giro mondano di Roma. Avvengono balli inmaschera, le sempiterne “carciofolate”, buone per tutti i ceti, mo-stre a tema; si preparano e si realizzano raffinati tableaux vivants,vengono montate rievocazioni storiche in costume addirittura perle strade di Roma fra ali di folla plaudente. È una numerosa e qua-lificata brigata fatta di letterati, giornalisti affermati, musicisti, bonvivants: d’Annunzio, Mascagni, Pascarella che ha spiccato il volo,Chigi, Colonna e tanti altri della società romana. Sono rimaste ce-lebri alcune rievocazioni: Le feste Palilie, il giorno del Natale di Ro-ma, fra i ruderi e le alture del Palatino, con la partecipazione di ca-valli e figuranti vestiti da antichi romani tra l’ammirazione di unpubblico festoso. Poi durante il Carnevale La mascherata di Barto-lomeo Pinelli, una sfilata da via Margutta alla Sala del Teatro Co-stanzi. Infine una famosa Veglia neroniana, occasione satiri-co–mondana alla quale accorre tutta Roma, dalla Corte al Governo,dal Corpo Diplomatico al Parlamento, dall’aristocrazia al Munici-pio. In parallelo e a margine di questo ambiente nasce il cinema,quello muto, con quelle filme che poi rimarranno famose, quelle asfondo storico sull’antica Roma: il pittore Enrico Guazzoni che ab-biamo ricordato precedentemente ne dirige una delle prime, Agrip-pina. Il muto attira anche lo scrittore autore e critico drammaticoLucio D’Ambra (pseudonimo del conte Renato Eduardo Manga-nella) che dirige Il re, le torri e gli alfieri, un’opera che resterà nellastoria del cinema come un pregevole esempio di “cine–operetta” digrande gusto figurativo.

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Il Caffè Aragno è il posto più importante della Terza Roma, alcentro del centro storico della città, tra il Parlamento e le redazio-ni dei giornali. Le notizie, buone e cattive, vi circolano immediata-mente, vengono commentate, suscitano reazioni ed emozioni Cidevono, ma direi più, ci vogliono passare tutti: dai politici ai gior-nalisti ai letterati La sala prediletta è la cosiddetta Terza Saletta, lafamosa Terza Saletta d’Aragno. Questo è forse il caffè più “scritto”,perché raramente un caffè italiano ha suscitato un tal numero diarticoli, memorie, saggetti e anche un libro intero (il delizioso Lasaletta d’Aragno di Adone Nosari, oggi quasi introvabile). Esceanche, nel 1912, ma solo per tre numeri, un giornale dallo stessotitolo, redatto da un gruppo di giornalisti assidui frequentatori delcaffè; quasi tutto il foglio presenta poesie e poesiole satiriche sulconto degli habitués del Caffè che, come ho detto, sono giornalisti,politici, pittori e gente di teatro. Ma non mancano poi i soliti poetisperanzosi di pubblicare le loro opere e gli agitati futuristi che scri-vono lì i loro manifesti: quasi tutti senza una lira, alcuni moltomalandati e bisognosi.

Sono entrati ormai nell’ aneddotica il cappuccino del poetapovero e la mezza bottiglia di latte che sostituiva il vino nel famo-so “angolo dei gottosi”, come vengono chiamati i clienti costretti aun regime dietetico. Aragno ha visto passare, e sostare, tutta lasocietà letteraria per un cinquantennio buono. Difficile solo tenta-re un florilegio tra tanta abbondanza di prosa; ancor più difficiletrovare la frase definitiva che suggelli i giudizi. Si va dal perento-rio «In politica come in arte bisognava venire a patti con laSaletta» (Ferdinando Martini) all’acido «Si entrava sovversivi e sene usciva conservatori arrabbiati e nazionalisti, dannunziani ecolonialisti» (Vincenzo Cardarelli); dal compiaciuto «Entrare nellaTerza Saletta era come prendere una laurea o dare un esame dimaturità artistica» (Anton Giulio Bragaglia) al suggestivo «Arriva-vano i giovani dalla provincia e piombavano allucinati da Aragno.[…] La Terza Saletta era sempre colma e vociante, immersa in undenso fumo di toscani, tutte le sedie e i divani sovraccarichi di cap-potti e cappelli…» (Ercole Patti). Poi la Grande Guerra, una lapidein via delle Convertite che ricorda i caduti per la Patria (non so seci sia ancora): ci sono incisi i nomi di quei giovani che pieni di spe-ranza andavano da Aragno per cercare di vivere una carriera arti-stica e che non fecero a tempo neanche a cominciare. Viene inseguito il fascismo e la Terza Saletta è la mira quotidiana deglispioni dell’OVRA che registrano il malcontento, la fronda e il dis-

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fattismo dei frequentatori che, a questo punto, temendo il peggionon ci vanno più. Poi i tedeschi e Aragno decade sempre più. Allaliberazione di Roma è requisito dagli Alleati. Una ripulita, vienesmantellata la Terza Saletta. Gli intellettuali, i giornalisti, i politicivanno ormai da Rosati a via Veneto e nei caffè di piazza dl Popolo:è lì che danno sfogo ai loro calembour, ai loro pettegolezzi, alle loromalignità così tanto simili a quelli, meno attuali, che si inventava-no nella Terza Saletta. Dopo, il Caffè Aragno continuò a vivacchia-re: alla fine era solo un posto–dove–si–comprano–le–pastarelle–del-la–domenica. Seguirono alcuni passaggi di proprietà. Adesso è uncomune e volgare caffè da Stazione Centrale e, in più, con la ven-dita di pizza a taglio. Dell’ antico Aragno ricordo ancora i vecchicommessi, coi lunghi zinali grigi, tristissimi. Ma oggi bellissimi.

O forse solo abbelliti, come tutte le cose finite nel libro dei ricordi.

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Radio Tre Suite

Esordio radiofonico del CentroStudi G.G. Belli sulla terza reteradiofonica. Per iniziativa di GuidoZaccagnini, conduttore della tra-smissione Radio 3 Suite, è andato inonda il 6 settembre un collegamentoradiofonico con Muzio MazzocchiAlemanni e Franco Onorati, in vistadell’appuntamento del giorno se-guente per la 10° edizione dell’O-maggio al nostro poeta. Una “trian-golazione” fra il conduttore e i dueintervistati che, collegati alla studioRAI via telefono dalle rispettive abi-tazioni, hanno illustrato la ormaitradizionale manifestazione pro-mossa nel giorno anniversario dellanascita di Belli e, più in generale,programmi e attività del nostro Cen-tro. Nel corso della trasmissione èandata in onda la lettura di un paiodi sonetti romaneschi, interpretatida Gianni Bonagura.

Omaggio a G.G. Belli

Forse, anche, per effetto dell’an-nuncio radiofonico del giornoprima, l’Aula Magna del Liceo clas-sico E.Q. Visconti — scelta quest’an-no per lo svolgimento dell’Omaggioa Belli — era affollata.

Questa manifestazione, come inostri simpatizzanti sanno, è itine-

rante: e percorre da anni unamappa costellata da “siti belliani”,direttamente o indirettamente col-legati alla vita o all’opera delpoeta. La tappa al Visconti era neiprogrammi da tempo: si trattainfatti dell’edificio che ai tempi diBelli ospitava il Collegio Romano,dove l’artista ha studiato. Due imotivi conduttori dell’incontro:— la scuola, con evidente riferi-

mento al luogo che ci ospitava— il viaggio, argomento reso d’at-

tualità dalla pubblicazione (or-mai avvenuta) dei Diari di viag-gio di BelliCoordinata da Marcello Teo-

donio la serata ha visto la partecipa-zione di Laura Biancini e AldaSpotti, curatrici del volume che coltitolo Journal du voyage è nel frat-tempo uscito per i tipi della casa edi-trice Colombo.

Sul tema del viaggio è poi inter-venuto Vincenzo De Caprio, uno deimassimi esperti di letteratura ode-porica. Stralci dall’epistolario bellia-no e sonetti romaneschi hanno ani-mato l’incontro, nell’interpretazionedegli attori Gianni Bonagura, PaolaMinaccioni e Stefano Messina.

Studi su Mario dell’Arco

Il 17 ottobre la Fondazione Bes-so ha ospitato la presentazione del

Cronache

A CURA DI FRANCO ONORATI

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volume Studi su Mario dell’Arco,curato da Carolina Marconi eFranco Onorati (ed. Gangemi).

La celebrazione del centenariodella nascita di Mario dell’Arco, pro-mossa nel 2005, ha così trovato inquesto libro un complemento diriflessione critica alle due pubblica-zioni che l’hanno preceduto: l’OperaOmnia a cura di Carolina Marconi ela Roma di Mario dell’Arco: poesia earchitettura, a cura della stessa stu-diosa e di Marcello Fagiolo.

Sono raccolti qui, con alcune in-tegrazioni, gli studi confluiti nel con-vegno su Dell’Arco svoltosi nell’otto-bre 2005 presso la Fondazione Bes-so: istituzione che ritorna più voltenelle nostre cronache e che per lesue benemerenze nei riguardi dellaromanistica non ha rivali in Città.

La produzione lirica dellarchia-na è fatta oggetto di una valutazio-ne interdisciplinare, nella qualeconvergono studiosi di varie pro-venienze e discipline, a testimo-nianza che la fortuna critica di cuiil Poeta ha goduto in vita si è defi-nitivamente consolidata. L’esplo-razione del suo vasto iter creativoconsegue quindi una tappa fonda-mentale, in attesa di ulteriori scan-dagli sulla sua multiforme attività:tra cui le prose, le varianti, gli ine-diti, i carteggi, le poesie anteriorial 1945.

Dell’Arco non è più un caso let-terario: il suo ingresso nella colle-zione della “Pléiade” ne consacra— così sostiene il curatore — lastatura di classico.

Ha illustrato il volume EugenioRagni: in altra parte della rivistariproduciamo il testo del suo inter-

vento. All’oratore si è affiancato l’at-tore Stefano Messina, che ha effica-cemente interpretato una scelta diliriche del poeta.

Satira e caricatura fra le Marchee Roma

Nel precedente fascicolo dellarivista avevamo illustrato il proget-to intitolato La tentazione comica.Tre secoli di satira e caricatura.

L’iniziativa che, coinvolgendo di-versi comuni delle Marche e Roma,era di per sé nata come itinerante: edi fatto essa è approdata al Museodi Roma in Trastevere che dal 13ottobre al 26 novembre ospita unamostra che vede protagonisti il risoe l’ironia, insieme all’arte più temu-ta dai potenti di ogni tempo: la sati-ra. Grezzi, Galantara e Marcorelli,questi i nomi dei principali autoriche animano l’esposizione. 140opere tra olii, disegni, scritti e versisatirici di poeti romaneschi e non,manoscritti, copertine di giornalisatirico–umoristici (fra cui, memo-rabili, quelle de “L’Asino”), per rac-contare la storia di quest’arte impie-tosa. La mostra è solo uno dei puntidi snodo di un lavoro che da circaun anno si muove fra le Marche e ilLazio per evidenziare e approfondi-re il tema del comico nello scambiotra arte figurativa e scrittura.

Nell’ambito della mostra segna-liamo l’incontro dibattito svoltosi il26 ottobre sul tema “Chi rride cosafa? Mostra li denti. La satira in Romain età moderna” cui hanno parteci-pato tra gli altri Claudio Costa eLuigi Ceccarelli; di quest’ultimoriproduciamo a parte l’intervento.

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«Rischioso è sempre il nostroinerme mestiere», dice Maria Te-resa Lanza a un certo punto di unodei capitoli belliani del suo prege-vole volume di saggi critici, nel mo-mento in cui osserva — a proposi-to dei testi che eventualmente pos-sano avere ispirato alcune inven-zioni dei Sonetti — che, certo, è co-sa assai rischiosa «far riemergereda un testo poetico le “occasioni”del suo autore». Questo richiamo aun saggio principio di cautela nonè retorica espressione di modestia,ma definisce invece una compo-nente essenziale del mestiere, opiuttosto dell’arte del critico lette-rario, il quale è ben consapevole (ailivelli più alti di questo “mestiere”)della natura fondamentalmentecongetturale, ipotetica, del propriolavoro di interpretazione del testo.È significativo che i termini di “ipo-tesi”, “coincidenze”, “occasioni” esimili tornino con una certa fre-quenza nel lessico critico dellaLanza, ma questo continuo ri-chiamo alla prudenza risulta tantopiù notevole e apprezzabile nel mo-mento in cui — accompagnati dal-la guida di una scrittura “discreta”

e insieme “spregiudicata” in un af-fascinante viaggio fra testi di poe-sia, quadri, opere teatrali — sco-priamo quanto sia suggestiva econdivisibile la folta messe di “ipo-tesi” critiche messe in campo dallastudiosa: la rivelazione di sensinascosti in un componimento poe-tico magari ben noto; l’individua-zione di nessi intertestuali (fra testiletterari, o fra un quadro e unapoesia) prima non percepiti; l’indi-viduazione di un “modello” maipreso in considerazione nel proces-so genetico di un’opera; la metico-losa ricostruzione della fortuna diun “tema” e delle sue metamorfosisemantiche nel tempo e nelle varieletterature, e lungo filoni e generipoco frequentati. Il fatto è che l’ar-te dell’interpretazione di MariaTeresa Lanza nasce dal raro connu-bio fra una vasta cultura letteraria,artistica, drammaturgica, e unastraordinaria ed esercitatissimasensibilità di “lettrice”. I saggicompresi nel volume, e raccolti percura di due allieve della studiosa,rendono conto ampiamente diquanto le numerose “ipotesi” che laLanza, pur consapevole dei “rischi

Recensioni

Fra “indizi”, “coincidenze” e “occasioni”: il fascinoso mestiere cri-tico di Maria Teresa Lanza, CARLA CHIUMMO, CAMILLA MIGLIO (acura di), in Il ballo delle ingrate, Roma, Bulzoni Editore, 2006.

di Massimiliano Mancini

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del mestiere”, continua comunquead «azzardare», si rivelino dei pre-ziosi acquisti critici.

Si può partire proprio dai duecapitoli belliani del volume, che neisuoi vari contributi rispecchia imolteplici campi di interesse e diesercizio critico dell’autrice. Nelprimo di questi capitoli la studiosaci invita a cogliere nell’opera bellia-na, sia nei Sonetti che nello Zibal-done, una serie di «certe, o probabi-li occasioni», cioè di possibili pre-senze, nei testi del poeta, di testialtrui, che hanno dato al Belli “oc-casione” per la propria invenzionepoetica. Scopriamo allora che ilMarziale (il Marziale–Ausonio) diBelli non è solo quello dell’excusa-tio dell’Introduzione (“pagina lasci-va, ma vita onesta”), ma si indovinain altri luoghi: ancora nell’Introdu-zione, l’invito dell’autore a “prende-re e lasciare” il libro, poiché di quellibro ogni pagina è insieme «princi-pio e fine», richiama un epigramma(XIV, 2) dove risuona un analogoinvito al lettore («Quo vis cumqueloco potes hinc finire libellum»); enei Sonetti le figure incise dagli en-decasillabi richiamano i “tipi” dise-gnati dai distici latini: nel “PapaGrigorio” del sonetto Er papa (così«granne» che «a Monte–Cavallo cesta stretto») potremmo vedere intrasparenza il “Tizio” dell’epigram-ma XI, 51, che da solo occupa l’in-tero spazio delle terme, oppurenella prestazione multipla di San-taccia quella analoga della Fillide diMarziale (e qui la studiosa procedeoltre sulla strada aperta da Mu-scetta, che aveva individuato nel-l’Aretino la fonte della celebre figu-ra di prostituta). Ma le “occasioni”

belliane sono proprio tante: ancorai classici, con le Notti attiche di AuloGellio, e poi gli umanisti, col Devita et moribus pontificum del Pla-tina, da cui Belli, nello Zibaldone,traduce un brano che potrebbeforse costituire il retroterra disonetti famosi, da Lo Stato der Papaa Li soprani der monno vecchio.Anche fra gli autori che già la criti-ca (a cominciare da Vigolo e Mu-scetta) aveva indicato come “fonti”dell’invenzione romanesca di Belli,la studiosa va a cogliere nuove e piùsottili “occasioni”.

È il caso di Molière: se già laLanza aveva accostato la voce delloSganarello del Dom Juan («Ah! quecela est beau! Les belles statues! Lebeau marbre!…» a quella di PapaGrigorio a li scavi («Ber bùcio!Bella fossa! Bel grottino!…»), orapropone altre rispondenze, comequella fra alcuni versi del Tartuffe,dove Cleante parla di «fer sacré»,di “arma consacrata”, e il sonettodel Vescovo de grinza, che «pijò pecrocefisso una pistola». E altre“ipotetiche” letture vengono propo-ste ancora in ambito francese, dalJournal de Voyage en Italie diMontaigne (per il Giuveddì Santo)al Cromwell di Hugo (per La caritàdomenicana), alla Pucelle diVoltaire (per La bella Giuditta). E diparticolare interesse è poi la con-gettura che sia stato un luogo delleRéflexions che aprono le Lettrespersanes di Montesquieu a suggeri-re l’idea (nell’Introduzione) del «filoocculto» che congiunge i «distintiquadretti», che è stata variamenteinterpretata dai bellisti.

Una vera miniera di “occasioni”sono poi quelle manzoniane, e se

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vari riscontri fra Belli e Manzonisono stati già individuati da Vigoloin giù, la Lanza dimostra che l’in-dagine può dare ancora nuovirisultati (ad es. il recupero, confer-mato da precise rispondenzetestuali, dell’episodio dei tumultimilanesi o della visita in casa delsarto). E proprio per il rapportoBelli–Manzoni la studiosa giunge aun’ipotesi che — per usare le sueparole — sembra più “azzardata”delle altre (e infatti viene avanzata«con più cautela») ma anche piùsuggestiva, e cioè che almeno inun caso sia stato Belli a influire sulManzoni, il quale nelle correzionialla Ventisettana sostituisce (nelcap. XXXIII, quando don Abbon-dio risponde a Renzo che gli chie-de quanti siano i morti di peste) leparole «una lunga enumerazione»con «una filastrocca» (di persone):Manzoni, che potrebbe aver avutonotizia dei testi belliani, dati i suoirapporti col Ferretti, avrebbe inse-rito come variante un termine pre-sente nel sonetto Er giorno der giu-dizzio. E qui ci si può chiedere seoperi nell’ipotesi della Lanza queldesiderio, così vivo negli studiosidel poeta romano, di scoprire unBelli conosciuto e “riconosciuto”dai suoi grandi contemporanei:Manzoni e Leopardi.

L’altro capitolo belliano, quellosui rapporti tra Belli e Pascal esulla questione di una possibile co-noscenza, diretta o mediata, delpensiero pascaliano da parte diBelli, consente di definire ancormeglio il valore del fine procedi-mento di indagine messo in attodalla studiosa. Il saggio muovedalla constatazione che non ci

sono documenti o notizie o almenoindizi che ci possano attestare, sto-ricamente, una conoscenza bellia-na del filosofo giansenista. Ma poisegue una serie di riscontri o piut-tosto di significative “coincidenze”,anche testuali, tra filosofo e poeta(il pessimismo radicale sulla condi-zione umana; la coscienza sconvol-gente dell’”eternità” che attendel’uomo dopo la morte; la dispera-zione della salvezza; la questionedella “misericordia”, o “grazia”, di-vina) che attestano comunqueun’affinità di pensiero, quand’an-che essa non fosse confermata esuffragata da dati di fatto. E così lastudiosa può affermare con sicu-rezza che Belli sarebbe stato il «let-tore ideale» delle Provinciales, cheavevano seppellito i Gesuiti «sottol’enormità delle loro stesse affer-mazioni».

Probabilmente Belli non avevaletto questa famosa opera diPascal, «ma, se le avesse lette, nonavrebbe potuto cavarne più sali diquanti egli stesso ne aveva cavatidalla pratica quotidiana di quellastessa ineffabile theologia chePascal aveva preso fondatamentedi mira». Come a dire che l’appas-sionata indagine sugli indizi, lecoincidenze o le occasioni celati inun testo poetico non deve necessa-riamente certificare l’esistenza di“fonti” (nel senso positivistico deltermine) di quel testo, ma coglier-ne e riconoscerne in primo luogo isensi nascosti, che il confronto coni possibili modelli permette (al let-tore “sensibile”) di rivelare o rende-re più manifesti.

Le altre sezioni del libro ci por-tano negli altri campi di studio di

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Maria Teresa Lanza e tutte ci mo-strano altre scoperte e acquisti cri-tici del suo raffinato “mestiere”. Leletture petrarchesche, che apronoil volume, si soffermano ad analiz-zare alcune figure foniche, seman-tiche, tematiche che ricorrono nelCanzoniere; il mondo poetico diPetrarca sembra offrirsi comeluogo ideale di un esercizio criticocosì attento alle più sottili sfuma-ture di senso, e sembra invitare lastudiosa alla modalità più tipicadella sua scrittura critica, che èquella del dialogo con il testo, tra-mato di domande, dubbi, ipotesi,possibili risposte: dialogo che —per così dire — viene “messo inscena” e comunicato all’assortolettore del suo saggio. Tre capitolisono dedicati a seguire l’evoluzio-ne di un “tema”, o anche di uno“stilema”, e offrono esempi eccel-lenti di critica comparatistica otematica.

Nel primo saggio si segue lavicenda semantica di un “avverbiodi luogo” — Dove, «voce del “nonluogo”» — nella sua funzioneespressiva del sentimento del rim-pianto, e l’indagine “viaggia” fra itesti di varie letterature, dai poetidell’Antologia palatina a Petrarca,a Foscolo, a Hölderlin, ai simboli-sti europei.

Nel secondo saggio è l’immagi-ne — verbale e pittorica — dello“specchio” a essere interrogatapresso poeti, narratori, filosofi, ar-tisti. E qui riescono particolar-mente suggestivi e persuasivi, ad

es. a proposito del mito di Narciso,gli accostamenti e “coincidenze”fra scrittori e pittori.

Il terzo saggio — che è quelloche dà il titolo all’intero volume —segue il topos dell’ingratitudineamorosa, cioè del rifiuto dell’amo-re, per lo più praticato dalle donne“ingrate”, e della punizione cheimmancabilmente ne consegue(splendidamente rappresentato,ad es., nella novella decameronia-na di Nastagio degli Onesti e poinell’illustrazione che ne ha dato ilBotticelli).

Ancora su ricostruzioni di untema o di un genere sono incentra-ti alcuni saggi della seconda partedel libro, come quelli che studianola figura di Matamore, il capitanofanfarone, erede del miles glorio-sus plautino, protagonista diavventure eroicomiche nella lette-ratura italiana ed europea fraCinque e Seicento e maschera tipi-ca della Commedia dell’Arte.

Altre deliziose incursioni “te-matiche” sono quelle dedicate allafigura di Momo (ovvero il “Biasi-mo”, comparso per la prima voltanelle Favole di Esopo), alla fortunadel “matto” e alle avventure e dis-avventure letterarie dell’asino(«detto anche onagro, ciuchino osomaro»). La seconda parte dellibro ci propone l’analisi di un’al-tra curiosa “coincidenza”, cheaccosta Laurence Sterne, autoredel Tristram Shandy al celebreMonsignor della Casa, autore delGalateo.

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Roma – Fondazione Besso 17 ottobre 2006

La pubblicazione di questovolume di saggi segna la consacra-zione di Mario dell’Arco a classico.Affermazione banale, potrebbe ob-biettare qualcuno che non abbiaseguito nel tempo, come me emolti altri, le alternanze degli odi edegli amo, i bizzarri e a volte biz-zosi umori della critica, i più omeno colpevoli silenzi sull’operadi quello che peraltro era stato in-dicato fin dai suoi esordi — e davoci autorevoli — come il più rap-presentativo poeta in dialettoromanesco.

Non ricordo chi ha detto chenon si perdona facilmente il secon-do libro di un esordiente di succes-so; e questo è verissimo per Mariodell’Arco. Salutato da una nutritasalva di elogi per Taja ch’è rosso,dell’Arco ha sempre conosciutostima e consensi per ogni nuovaraccolta, in particolare per le Ot-tave, ma contemporaneamentecrescevano via via intorno alla suaopera (e alla sua persona) varieperplessità, molti distinguo, alcunipareri riduttivi, tanto da poter par-lare di una fortunata sfortuna osfortunata fortuna critica (la for-mula è un’autodefinizione di CarloBernari), nel senso che non gli si èmai negata l’effettiva preminenza

nell’ambito della poesia romane-sca, senza però riconoscergli inpieno il coefficiente di modernità edi originalità che gli era dovuto, esenza dunque evidenziarne i so-stanziali meriti che solo oggi glivengono tributati, le qualità che loinnalzano di diritto a “quarto fracotanto senno” con Belli, Pasca-rella e Trilussa, nel nobile castellodella lirica in dialetto romano.

Il ritardo è in parte addebitabi-le anche al poeta stesso: al suo ca-rattere indipendente, alla sua pre-tesa di coartare anche gli editoriper imporre la propria volontà evisione di architetto anche nell’im-pianto di un libro (e infatti saràquasi sempre editore di se stesso, econ risultati più che apprezzabiliper eleganza, gusto, struttura dipagine e copertina).

Conseguenza dei non pochiaccordi editoriali mancati, la limi-tata diffusione dei suoi titoli, affi-data quasi esclusivamente al cana-le delle amicizie, del passaparola,del contatto diretto.

Come molti altri innovatori,dell’Arco ha dunque faticato parec-chi decenni per diventare un clas-sico; e questo volume, a più vocima unitario ed esauriente comepochissimi altri del genere, ci con-segna un adeguato ritratto delpoeta, che ne esce finalmenteaffrancato non soltanto dall’anche

FRANCO ONORATI, CAROLINA MARCONI (a cura di), Studi su MarioDell’Arco, Roma, Gangemi, 2006.

di Eugenio Ragni

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troppo folta schiera dei poeti dia-lettali, ma entra con tutti gli onoriin quella a posti rigidamentenumerati dei poeti nazionali toutcourt.

E credo che a dimostrarlo ba-stino anche soltanto i saggi di Pie-tro Gibellini, che lo inserisce nelquadro complessivo della poesiadialettale nazionale, e quello diLuca Serianni, che ne analizzapuntualmente lingua, stile e tema-tiche.

Questo volume di Studi era fral’altro atteso come imprescindibilecomplemento dell’altro, pubblica-to lo scorso anno, contenente l’in-tera opera poetica di dell’Arco:benemerita fatica di Carolina Mar-coni, che ce ne racconta ora il farsinel suo bel saggio fitto di osserva-zioni, retroscena, difficoltà, aned-doti; uno dei quali, quello del suoprimo incontro con il poeta, mi hariportato alla memoria il mio pri-mo incontro con lui, venticinqueanni fa, nientemeno. Incontro perme inatteso e quantomai dellar-chiano nel suo decorso.

Nel 1981, a marzo, se non ricor-do male, era programmato all’Isti-tuto di Studi Romani un pomerig-gio dedicato a dell’Arco nel quadrodei periodici e interessantissimi“Incontri con l’autore” (che, tra pa-rentesi, non sarebbe male ripren-dere). Presentatore doveva esserneGiorgio Petrocchi, uno dei primiad apprezzare Taja ch’è rosso e inquegli anni Presidente dell’Istituto.Ma un’influenza improvvisa e ab-bastanza invalidante colpì Pe-trocchi, il guru della serata, che de-signò me, allora suo assistente al-l’Università, come sostituto: un’at-

testazione di fiducia di cui gli sonoancora grato.

Se da un lato l’inaspettata re-sponsabilità mi riempiva d’orgo-glio, dall’altro la mia quasi totaleignoranza sull’opera del “festeggia-to” mi metteva non poco a disagio,tanto più che mi risultò immedia-tamente che non era semplice pro-curarsi, anche in Nazionale, gliormai numerosi libretti, le man-chettes, i frammenti insomma che,riuniti, potevano costituire le basiper una mia adeguata preparazio-ne; e per di più mancavano pochis-simi giorni all’incontro.

Al difficoltoso reperimento delmateriale provvide per fortunaGaetano Mariani, anche lui fra iprimi estimatori di dell’Arco; adaumentare la mia preoccupazione,invece, provvidero altri amici ecolleghi meno caritatevoli, che midipinsero il poeta come un sogget-to dal carattere difficile, soprattut-to poco contentabile.

Come sempre accade, e come sidice comunemente, il diavolo nonfu brutto come me lo avevano di-pinto. Anzi, l’incontro fu moltoapprezzato proprio perché uscìquasi subito dagli schemi consue-ti, in quanto contemporaneamentegiocato sulla emozionata normali-tà della mia lettura e sulle frequen-ti intrusioni del poeta, ora perarrogarsi la lettura di una lirica,ora per precisare o correggerequalche particolare bio–bibliogra-fico. E fu una bella occasione so-prattutto per me, che proprio perqueste dirette intromissioni auto-riali mi accorsi di riuscire a man-tenere salde le redini di un discor-so frammentato, rendendomi inol-

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tre conto di quanto fosse più effi-cace per il pubblico un’esposizionepiù spontanea, per di più articola-ta a due voci; senza dire poi chequel giorno godetti dell’invidiabile,generoso battesimo di “amico diMario dell’Arco”.

Tangibile testimonianza del suogradimento fu poi il dono del volu-me Poesie (1942–1967) pubblicatoquindici anni prima e ammoderna-to con la bella, familiare dedica «AEugenio, per ringraziarlo della suapresentazione»; e a questo primoomaggio seguirono altre attestazio-ni di amicizia: le preziose manchet-tes dei primi anni Ottanta che minominavano fra i suoi settantasette,ottantotto o novantanove lettori;poi il Vangelo dell’83, Basta (o no?)dell’anno dopo, Vince er turchinodell’85, i vari fascicoli annuali del-l’Apollo buongustaio; e quel capola-voro anche editoriale che è Roma diMario dell’Arco (copia n. 23), la cuidedica — rubesco referens — suonanientemeno: «per Eugenio, in se-gno di viva ammirazione».

Ma dentro di me quel lontanoricordo ne trascina un altro, che sicolora un po’ di rimorso. Anni fa sipensò di organizzare all’Universitàuna giornata di studi su dell’Arcoche avrebbe trovato sbocco in unvolume di Atti, nel quale avrebberotrovato posto anche scritti inediti.Fui coinvolto nel progetto, e ovvia-mente ne fui contentissimo, ancheperché delegato ai contatti con ilpoeta a Genzano. Mi vidi parecchievolte con Mario e insieme scorrem-mo diverse cartelle, nelle qualierano conservate lettere, progetti,appunti. La cosa andò avanti perun po’ di tempo, con assicurazioni

e sollecitazioni a continuare; equando già avevamo grossamenteapprontato il materiale, a una miasollecitazione più decisa mi si disseche sì, ma, forse, però, fatte certeconsiderazioni c’erano scrittori inattesa da più tempo, e poi dell’Arcoè un dialettale e tanti poeti in lin-gua aspettavano da tempo, eccete-ra, e giù con altre giustificazioni adir poco allucinanti.

Non sapevo come cavarmelacon dell’Arco, perché io avevomesso la faccia, come si dice, enon avrei mai voluto dirgli che diquella bella cosa pensata finalmen-te per lui non se ne faceva piùniente. Non se la prese troppo, conmia grande meraviglia; ma pensone abbia sofferto parecchio nell’in-timo. Con amicale delicatezza, sirese probabilmente conto che nonavevo responsabilità dirette nellafaccenda e con sensibilità avevacapito quanto ne fossi addolorato.

L’omnia e questi studi risarci-scono oggi quel grave peccato diignavia e arroganza accademica;quel che mi dispiace è che Marione avrebbe potuto godere da vivo.Le incoronazioni alla memoria mirattristano e mi irritano. Ma tant’è,le cose sono andate così, e pur nonavendo colpe di sorta, me ne restadentro una profonda amarezza.

Come ho detto, questo volumedi saggi ha il pregio della comple-tezza e presenta soprattutto un’u-nità insolita in una raccolta diinterventi critici, qui felicementecomplementari, quasi fosse statopreviamente stipulato un precisoaccordo di lavoro

Il saggio di Serianni, fonda-mentale per ampiezza di riferi-

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menti culturali e puntualizzazionidi rapporti stilistici e linguistici, siaffianca complementarmente aquello di Paolo d’Achille, altrettan-to esaustivo e veramente primus(in ordine di tempo, ma anche esoprattutto per organicità d’indagi-ne e profondità d’analisi), dove sienunciano e dimostrano la com-plessità e la ricchezza del registrodellarchiano, battendo finalmentein breccia l’equivoco — acritica-mente ripetuto ancora oggi — chevede nel dialetto di dell’Arco pocopiù di un italiano tinteggiato di ro-manesco, senza invece riconoscer-vi una specifica parole, una linguapersonalizzata, un’individuale scel-ta di poesia.

Un interessante complementoche offre anche un importante,suggestivo quanto sostanzialmenteinedito resoconto del rapporto fradell’Arco e il Gadda del Pasticciac-cio — noto, ma finora mai adegua-tamente indagato — è il saggio diGiorgio Pinotti: oltre a fornireimportanti osservazioni sulle di-rettrici correttorie perseguite dalpoeta romano, il giovane studiosoci offre per la prima volta — ed èfatica veramente meritoria — unaserie di schede tramite le quali èpossibile riconoscere i “crediti”delle diverse correzioni, distin-guendo quelli ascrivibili al Belli oai postbelliani, isolando le vocinon attestate in Belli ma presentiinvece nel dialetto parlato, e infinequelle non romanesche (soltantodue!).

Un altro rapporto d’àmbito let-terario di dell’Arco, certamente piùintenso e importante, è quello conPasolini, al centro del bel saggio di

Lucio Felici, che per le numeroseosservazioni d’ordine stilistico e lin-guistico si lega a quelli di Serianni edi d’Achille, ma che si addentra inmodo particolare nella definizionedi due punti fondamentali: in cosae quanto si addica a dell’Arco ladefinizione pasoliniana di «innova-tore della poesia romanesca» (eFelici ne evidenzia aporie e con-traddizioni, generatrici prime dellasuperficiale ed errata, ma diffusaopinione che giudica troppo debolel’impronta dialettale dell’opera del-larchiana); e quali siano i debiti e icrediti poetici di dell’Arco: questio-ne dibattuta, quest’ultima, sullaquale s’innestano i saggi di ClaudioCosta, Massimiliano Mancini eFranco Onorati, il terzo particolar-mente imperniato su un grande“creditore” e dichiaratissimo “delfi-no” quale fu Mauro Marè; mentreCosta imposta su una notevoledocumentazione l’indagine e ladefinizione del rapporto ambiguo econtraddittorio con Trilussa, inge-nerosamente sminuito all’indomanidella morte con quella sorta dipamphlet che è Lunga vita di Tri-lussa: uno sconcertante parricidioche Costa interpreta suggestiva-mente e convincentemente anchecome rabbiosa rivolta per l’inutileattesa di un segno e di un’ispirazio-ne sacra sparata in un momento incui dell’Arco avvertiva sulle propriespalle tutto il male del mondo e,morto il maestro, tutta la responsa-bilità di produrre una nuova poesia«impegnata civilmente e umana-mente alla ricerca di risposte;anche alle domande su Dio».

Mancini indaga a fondo i debitiverso i due grandi padri, Belli (e

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del «bellianesimo dellarchiano»definisce con notevole acutezzaqualità e caratteristiche) e natural-mente Trilussa; auspicando fra l’al-tro l’avvento di uno strumentoessenziale: una concordanza dellapoesia dellarchiana che oggi, a po-chissima distanza dall’auspicio, èmiracolosa realtà, grazie a una suaallieva, Claudia Pellegrini, che hastampato la propria tesi di laurea,per una volta non finita come tantealtre come un inutile relitto negliinaccessibili archivi delle nostrefacoltà, ma trasformata in prezio-sissimo strumento di lavoro pertutti noi.

E a proposito di strumenti, vor-rei elogiare quelli che sembranopuri complementi del libro, e co-stituiscono invece lavori ingratiper chi li esegue quanto meritori egraditissimi per chi li utilizza: miriferisco all’accurata Rassegna del-la fortuna critica e alla preziosa Bi-bliografia ragionata, dovute ambe-due ad Assunta Colazza; e all’ine-dito profilo di dell’Arco editoredisegnato da Carolina Marconi.

Felicissimo è poi l’intermezzo fi-gurativo, molto acuto e altamentestimolante, di Valerio Rivosecchi.

In chiusura, vorrei unirmi allaproposta avanzata da Marcello Fa-giolo in calce al suo raffinato sag-gio sul Leitmotiv dei fiori e dellepiante: la vogliamo mettere, signo-ri Sindaco e Assessore, la promes-sa iscrizione sulla casa natale delnostro finalmente consacrato Mae-stro della poesia novecentesca?*

* P.S. Al termine della mia presenta-zione sono stato contattato di personadalla dottoressa Patrizia Lapegna, del-l’Assessorato alle politiche per la fami-glia e l’infanzia; che, anche a nome delladottoressa Lia Di Renzo, si è offerta perappoggiare l’iniziativa di porre la targacommemorativa sulla casa dove nacquedell’Arco, all’incrocio fra via dell’Orso evia del Leuto. E solo due giorni dopo —onore al merito e mirabile auditu — horicevuto una telefonata che in praticadava via libera al progetto, previo l’inviodi un disegno.

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Nel solco delle celebrazioni delCentenario di Mario dell’Arco questiStudi, tra i frutti in assoluto miglio-ri fra quelli dati alla luce su coluiche è considerato il maggior poetain romanesco del Novecento. Esito(con opportune integrazioni) di unConvegno di studi svoltosi a Romail 4 ottobre 2005 presso la Fon-dazione Besso, questi saggi giungo-no tempestivamente dopo il volumecomprensivo di Tutte le poesie roma-nesche 1946–1995 e la bella appen-dice rappresentata da Roma diMario dell’Arco, poesia & architettu-ra. E costituiscono il primo volumecritico interamente dedicato alpoeta, se lasciamo da parte il libroStrenna per Mario dell’Arco, uscitonegli anni Novanta, in cui unpaziente Franco Onorati aveva rac-colto e coordinato molta dellabibliografia critica all’epoca esisten-te sul poeta romanesco.

Curioso l’iter della fortuna criticadi dell’Arco, documentato da un bel-l’intervento di Assunta Colazza (giàpresente nel volume di poesia & ar-chitettura con una intervista del ’93al poeta): dopo l’exploit iniziale, pa-trocinato da lettori eccellenti qualiAntonio Baldini (firmatario dellaprefazione a Taja ch’è rosso) e PietroPaolo Trompeo, e il sopraggiungere,solo negli anni Quaranta e Cin-quanta, di altre firme notevoli (Maz-

zocchi Alemanni, Petrocchi, Pancra-zi, Pasolini, Gatto, Vigolo, Govoni,Sciascia e altri), la poesia dell’autoreha sempre destato grande interessee sempre suscitato consensi negliambienti critici. Se pure un distaccoc’è stato, un affievolimento di inte-resse, anch’esso segnalato dalla Co-lazza e a suo tempo dall’Onorati del-la Strenna, esso non ha però impe-dito che altre firme notevoli suben-trassero a ricordare la “novità” (perriprendere il celebre giudizio pasoli-niano) del poeta. Il ritorno di fiam-ma vero e proprio c’è stato natu-ralmente con il volume complessivodell’anno scorso, a cura di CarolinaMarconi (che ha documentato il suolavoro in uno dei saggi di questiStudi), prefatore Pietro Gibellini epostfatore ancora Onorati. L’inte-resse così risollevato — complice lapossibilità di avere finalmente a dis-posizione tutte le raccolte, raccolti-ne e plaquettes che dell’Arco ha pub-blicato nella sua pluridecennale atti-vità — pone definitivamente l’autorea capo di un canone romanesco no-vecentesco per cui, ora più che mai,non sono più tollerate esclusioni dastorie letterarie o antologie delsecondo Novecento.

Ma veniamo più in dettaglio al-l’articolazione del volume. Dodici“specialisti” dicono la propria iso-lando un aspetto particolare di una

FRANCO ONORATI,CAROLINA MARCONI (a cura di), Studi su Mario del-l’Arco, Roma, Gangemi, 2006CLAUDIA PELLEGRINI, Concordanze della poesia di Mario dell’Arco,Roma, Nuova Cultura, 2006.

di Gabriele Scalessa

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scrittura poetica che ha impegnatol’autore fino alle soglie della morte.Che l’opera di dell’Arco sia statasempre distinta da una certa conti-nuità e coerenza interna è tanto piùpalese a coloro che si sono soffer-mati sulle peculiarità linguistichedi essa. Già il romanesco dell’auto-re sfugge a qualsivoglia tentativo ditaratura su scala sociolinguistica,notava Serianni in un intervento diqualche tempo fa; già il suo lin-guaggio non può essere determina-to nel modo in cui si è sempre fattoper quello dei suoi predecessori(per cui si è soliti affermare che ilromanesco del Belli è quello dellaplebe capitolina dell’Ottocento,quello di Pascarella il linguaggiodel cittadino di una Roma già capi-tale d’Italia e quello di Trilussa ilregistro del piccolo borghese fin desiècle e primonovecentesco). È in-somma non del tutto corretto limi-tarsi a collocare il linguaggio di del-l’Arco su una linea di progressivaitalianizzazione del romanesco che,partendo dall’aspro e difficile volga-re del Belli, prosegue con Pa-scarella e approda a Trilussa; quellastessa linea che De Mauro, in unluogo famoso della sua Storia lin-guistica dell’Italia unita, verificava,notando come il caso rappresentatodall’ultimo dei tre poeti menzionatifosse quello di un linguaggio chetende verso la lingua comune, di unlinguaggio cioè su cui si è esercita-ta una crescente sdialettizzazione.

Il romanesco di dell’Arco è un ca-so a sé. Esso, per riprendere quelche diceva Serianni, sembra fuoridalla storia e non si identifica piùcon quello di un parlante specifico.Nonostante sia in molti casi italia-

nizzato, come italianizzato è quellodi Trilussa, esso sembra svincolarsidel tutto da ogni preoccupazione dicarattere mimetico. Questo è sen-z’altro uno degli aspetti che pongo-no dell’Arco fra i primi esponentidella nouvelle vague dialettale nove-centesca, all’interno della quale l’a-dozione di un dialetto, in poesia — equesto è vero più che mai per gliultimi trent’anni —, comporta pienoriconoscimento di dignità letterariaal dialetto stesso (dignità pari ora aquella della lingua), anche se dettodialetto non ha più molte risponden-ze nel parlato o è una variante dia-lettale marginale se non priva di tra-dizione letteraria. Non a caso il volu-me degli Studi, dopo un bell’iter te-matico di Marcello Fagiolo (figliodel poeta), propone un excursus diPietro Gibellini sulla poesia in dia-letto del Novecento, excursus cheprende avvio proprio da quel Salva-tore di Giacomo nella poesia delquale si suole, sulla base di una or-mai acquisita consuetudine critica,riconoscere il vero incipit di tutta lapoesia in dialetto del XX secolo.Rinvenire il nome di dell’Arco nellostesso capitolo in cui figurano poetiquali — oltre al poeta napoletano«che rimuove dai suoi versi ognimaschera popolare, in particolarequella ingombrante e poliedrica diPulcinella» (pp. 27–28) — VirgilioGiotti, Delio Tessa, Biagio Marin, Al-bino Pierro, Pier Paolo Pasolini(quello casarsese), Tonino Guerra,Raffaello Baldini ecc., è ormai ilsegno dell’innalzamento del poetaromanesco a statuto di classico delNovecento.

Se Gibellini sottrae dell’Arco allatradizione romanesca preferendo

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inserire il nome del poeta in un qua-dro più ampio, che si dipana suscala nazionale, Serianni, muoven-dosi su un piano prettamente lin-guistico, parla addirittura, per l’au-tore, di «libertà dal romanesco»,che si esprimerebbe in primo luogoin un «disinteresse per il dialogo»(tipico come si sa della tradizione,da Belli a Trilussa) «e dunque per ilmimetismo linguistico in variamisura a esso embricato» (p. 50), e,in secondo luogo, in una piccolarivoluzione nella topologia internaal verso, a volte più prossima a quel-la della poesia in lingua che a quel-la del parlato dialettale reale.

Su una strada ancora linguisti-ca Paolo D’Achille si sofferma sulvocabolario del poeta scoprendonetratti dialettali e italiani (o italia-neggianti), mostrando come essiconvivano all’interno della produ-zione da Taja ch’è rosso in poi,nella quale dell’Arco, assecondan-do proprie esigenze espressive, hafatto utilizzo ora di una forma eora di un’altra. È, senz’altro, unodegli aspetti che più affascina i let-tori, per il quale si cita in genere la“Nota sull’ortografia” che accom-pagna la pubblicazione di Torma-rancio (1950). In queste pocherighe il poeta ha tentato una picco-la sistemazione, per lo più dalpunto di vista diacritico, dell’orto-grafia romanesca, incoraggiando,fra l’altro, un generale alleggeri-mento, fondato sulla eliminazionedegli apostrofi fino a quel momen-to utilizzati per segnalare taluneforme tronche. È uno dei meritiriconosciuti di dell’Arco, il quale,mi permetterei di aggiungere, haanche reso un gran servigio alla

poesia romanesca (servigio chegeneralmente non viene ricordato)facendo piazza pulita degli accenticirconflessi, solitamente impiegatiper segnalare la contrazione di duevocali in una e adoperati da Tri-lussa e Jandolo.

Dopo le due analisi linguistiche,il volume offre in successione quat-tro capitoli atti a scandagliare il rap-porto che il poeta intrattenne conaltri autori, contemporanei e non.Di Massimiliano Mancini la riccadocumentazione che sta a testimo-niare della «fuga» e, nello stessotempo, del «ritorno a Belli» dell’au-tore. Se un immancabile allontana-mento, rispetto al grande autore deiSonetti, c’è dal punto di vista lingui-stico (anche se in dell’Arco talunepur rare pointes arcaizzanti sembre-rebbero testimoniare semmai il con-trario), una prossimità è però stataanche riscontrata da tutta quella cri-tica qui sottoposta al paziente vagliodel citato Mancini (e si pensi, sullascorta del Vigolo, alla potenza visio-naria e linguistica del Belli acclima-tata da dell’Arco nelle ottave de Lapeste a Roma).

Indagato da Claudio Costa il rap-porto — anch’esso, seppur in un al-tro senso, ambivalente — con l’assaipiù vicino (dal punto di vista crono-logico) Trilussa. Costa parte dal mo-numentale progetto, realizzato as-sieme a Lucio Felici, che ha condot-to nel 2004 all’edizione critica ditutte le poesie trilussiane per la col-lana “I Meridiani” dei tipi Monda-dori. Che il rapporto fra dell’Arco el’autore delle Favole fosse stato di-stinto da un’ambiguità di fondo erastato già documentato da FrancoOnorati, in un intervento discusso in

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un Convegno di qualche anno fasulla letteratura romanesca del se-condo Novecento. Ma ora Costa ap-profondisce questo aspetto interro-gandosi sui motivi che soggiaccionoa un accanimento che, in quegli an-ni, vista l’enorme popolarità diTrilussa in tutta Italia, doveva appa-rire certo fuori luogo. Così, passan-do in rassegna i più significativiscritti in cui dell’Arco ha parlato diTrilussa, giunge all’ipotesi affasci-nante di un problema del Padre(cioè di un nodo religioso) adombra-to dietro il rapporto con l’altropadre, quello terreno, che era Trilus-sa stesso, esempio da cui non potevaprescindere per chiara fama e a cuidoveva fra l’altro anche qualche pic-colo debito nelle strutture me-trico–rimiche di certe sue poesie.

Di Giorgio Pinotti un bel capitolosul rapporto con Gadda, del qualedell’Arco fu consulente nella revisio-ne degli aspetti romaneschi del Pa-sticciaccio. Più che di semplice revi-sione si trattò di «vera e propriarifondazione del lessico romanesco»del romanzo gaddiano, reso «pluri-dimensionale, stratificato, dotato diun sorprendente spessore diacroni-co», ma anche «aperto al parlato,alle innovazioni colte in loco» (pp.111–112), come dimostra l’autoredell’intervento dopo accurato spo-glio di alcune significative voci.

Dopo il rapporto con Trilussa,quello con Mauro Marè. Il notevo-le saggio a ciò destinato da FrancoOnorati tocca un tema inedito,quello, appunto, ricostruito dallostudioso con acribia documenta-ria, del legame fra i due poeti.Come già aveva fatto in Mariodell’Arco versus Trilussa, Onorati

procede per gradi e dimostra cosìche il rapporto fra dell’Arco e quel-lo che il grande poeta aveva desi-gnato come suo erede e “delfino” èin realtà distinto da divergenze,non solo continuità, come farebbecredere la metafora sottratta a uncontesto regale. Le conclusioni cuipoi giunge lo studioso sono tuttevolte a ritrovare nei testi di Marè lalezione dellarchiana, anche deldell’Arco che «smonumentava sen-za tanti complimenti la città eter-na» (p. 145).

A questo blocco di quattro sag-gi fa da pendant uno scritto piùbreve di Valerio Rivosecchi, guar-nito di belle illustrazioni a colori,in cui è tracciato un piccolo qua-dro, senza alcuna pretesa di esau-stività, del rapporto fra gli artistidella Scuola pittorica romana, giàin contatto con poeti e letterati, eMario dell’Arco.

Ho lasciato per ultimo (anche senella distribuzione dei saggi all’in-terno del volume occupa il terzo po-sto) lo scritto di Lucio Felici, inquanto, con la messa in discussionedella celebre definizione pasolinianadi dell’Arco («l’innovatore della lette-ratura romanesca»), definizione cherischia di essere abusata o accettatasenza adeguato vaglio critico ma cheFelici scopre in tutta la sua equivoci-tà, l’intervento dell’autore è destina-to a occupare un posto di rilievoall’interno del volume.

Chiudono gli Studi una corposabibliografia ragionata delle opere diMario dell’Arco, curata dalla citataColazza, e una nota bibliografica, acura di Carolina Marconi, riassunti-va dell’attività editoriale del poeta(sulla quale studi notevoli erano

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stati compiuti da Onorati semprenegli anni Novanta).

Segnalo infine un volume diConcordanze della poesia di Mariodell’Arco, curate da Claudia Pelle-grini, strumento che si rivelerà sen-z’altro utile per coloro che, sull’ondadella celebrazione del Centenario, sioccuperanno della poesia dell’auto-re. Lavoro di laurea accurato pub-blicato (per ora solo in versione car-tacea, non ancora elettronica) pres-

so una piccola casa editrice, il volu-me fa precedere le oltre trecentopagine in cui è inventariato tutto illessico impiegato dal poeta da unrapido itinerario critico che neattraversa l’intera produzione.

Il volume Studi su Mario dell’Arcoè stato presentato il 17 ottobre 2006alla Fondazione Besso da EugenioRagni, che ha anche fatto menzionedel volume di Concordanze.

La produzione libraria che haper argomento Roma è sempre nu-trita, tanto che si possono tentarefacilmente delle classificazioni.Una, ad esempio, distingue fra il fi-lone globale e quello settoriale. Ilsecondo filone è rappresentato dailibri dedicati a uno specifico monu-mento, a un determinato personag-gio, a un momento storico, a unparticolare settore di attività nellavita cittadina e, necessariamente, ipotenziali lettori ne sono per lo piùcoloro che già coltivano interessi inquel campo limitato. Il primo filoneè invece quello globale, in cui tuttaRoma viene presa in considerazio-ne, per usare una terminologiastrutturalista, nel suo insieme dia-cronico o sincronico, altrimentidetto nella sua vicenda storica onella sua consistenza urbana,

fermo restando che, anche in que-sto secondo caso, non si può pre-scindere dalla storia che quei luo-ghi o quelle pietre narrano.

Questo filone, che sommaria-mente abbiamo definito globale, èovviamente quello capace di attrarreil maggior numero di lettori, ancheperché, diciamocelo francamente,Roma è conosciuta in definitivapiuttosto poco e anche dagli stessiabitanti, per cui la maggioranzadella gente ha necessità di comincia-re a conoscerla nella globalità, pri-ma di addentrarsi nei particolari.

Il pericolo, tuttavia, è che il libroche abbiamo definito globale siatale, per struttura e per tecnica espo-sitiva, da sfiancare presto il neofi-ta–lettore, sicché il volume, dopo lapagina 80 o la 120, rimane terra in-cognita e va a impolverarsi definiti-

CLAUDIO RENDINA, Alla scoperta di Roma, Roma, Newton Compton,2006.

di Umberto Mariotti Bianchi

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vamente negli scaffali della più omeno ricca biblioteca domestica.

Un simile pericolo non corre cer-tamente il volume di Claudio Ren-dina, Alla scoperta di Roma. Il titolo,necessariamente sintetico, non spa-venti: già il sottotitolo (Duecento“cartoline romane” che rivelano gliaspetti meno noti, i luoghi scomparsi,i personaggi, i racconti e i segreti diuna città dalla storia millenaria)chiarisce che l’autore non ha intesoimporre una paludata DescriptioUrbis, quanto piuttosto accompa-gnare il lettore alla conoscenza diRoma attraverso lo stimolo della cu-riosità per quegli eventi storici equei particolari topografici cosiddet-ti minori che, diciamocelo, finisconoper sollecitare l’attenzione più dellagrande storia politica e della sontuo-sa storia della grande arte.

Altri, in passato, si sono messisulla stessa via: ma, a mio parere,senza la levità discorsiva e lo stilescorrevole di Rendina, il quale, infatto di curiosi particolari spaziadalle età più antiche ai giorni no-stri, dimostrando senza parere, ma

efficacemente almeno per il lettoreraziocinante, quale incredibile pa-linsesto sia la Città dei Sette Colli.

Senza contare che l’organizza-zione del volume è tale da non ri-chiedere necessariamente una let-tura sistematica, ma, appunto per-ché lo stesso autore lo definisceuna «raccolta di cartoline», con-sente di andar pescando di volta involta l’argomento che in quell’i-stante appare più ghiotto al letto-re, magari il venerdì sera, prima dicoricarsi, con il proposito d’andar-sene la mattina dopo a una rico-gnizione del luogo, dove a buonconto è passato tante volte, senzabadare e senza sapere.

Per concludere, vorrei sottoli-neare che le “cartoline” sono percosì dire stereoscopiche, nel sensoche tengono conto dello spazio edel tempo, inscindibili in fondo inogni creazione umana collettiva equindi particolarmente nei luoghiabitati; ed è un altro non piccolopregio di quest’ultima fatica d’unautore noto, apprezzato e prolificocome Claudio Rendina.

ITALO MICHELE BATTAFARANO, Cola di Rienzo. Mito e rivoluzione neidrammi di Engels, Gaillard, Mosen e Wagner. Con la ristampa del tes-sto di Friedrich Engels, Cola di Rienzo (1841), Trento, Editrice Uni-versità degli Studi di Trento, 2006.

di Tommaso di Carpegna Falconieri

Cola di Rienzo è una figurastraordinaria ed è il cittadino ro-mano più famoso del Medioevo.«Tribuno augusto», con il sogno di

divenire imperatore e di restituireall’Urbe la sua antica grandezza, lin-ciato durante un tumulto popolarenell’ottobre 1354, fu un uomo con-

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traddittorio, tuttora per molti versimisterioso e sfuggente. Mitizzato erivisitato, ha costituito un modellopolitico soprattutto nel corso del se-colo XIX. Recentemente sono uscitialcuni studi sul personaggio, a con-ferma del fatto che, seppure ridi-mensionato rispetto al passato, simantiene vivo un certo interesse perlui: mi è sembrato utile elencarequesti saggi alla fine del presentescritto, in modo da avere, per cosìdire, il polso della situazione attua-le. Ancora non sono stati pubblicati— e ne avvertiamo la mancanza —gli atti dell’importante convegno in-ternazionale organizzato nell’otto-bre 2000 dal Centro Studi G.G.Belli, nel quale Cola di Rienzo fuampiamente analizzato, nella suadimensione storica e nelle sue rein-terpretazioni culturali. Mentre con-tinuamo pazienti ad aspettare l’u-scita del volume, è possibile leggereC. Costa, Cola di Rienzo. Roma,8–10 novembre 2000, Cronaca delconvegno, in «Quaderni medievali»,LI (2001), I, pp. 223–245. Nel frat-tempo, alcune delle conferenze te-nute in quella occasione sono staterielaborate e pubblicate: è il casodei lavori di Andreas Rehberg e diAnna Modigliani (vedi la bibliogra-fia in fondo) e del libro del quale cioccupiamo da vicino in questa oc-casione: Italo Michele Battafarano,Cola di Rienzo. Mito e rivoluzionenei drammi di Engels, Gaillard, Mo-sen e Wagner. Con la ristampa del te-sto di Friedrich Engels Cola di Rienzi(1841), Trento, Editrice Universitàdegli Studi di Trento, 2006.

Il libro si compone di due parti.Nella prima parte sono analizzati,in distinti capitoli, il tema della for-

tuna incontrata dai personaggi ita-liani — come Cola, Masaniello,Savonarola e altri — nella letteratu-ra tedesca. Successivamente vengo-no presentate nel dettaglio le operedei quattro autori tedeschi che, neldecennio precedente il fatidicoQuarantotto delle rivoluzioni, scris-sero opere su Cola di Rienzo. La se-conda parte comprende invece latrascrizione del testo drammaticodi Friedrich Engels, un profilo bio-grafico degli autori e un’ampiabibliografia.

Il punto di vista del libro è pecu-liare, poiché, muovendo dalla pro-spettiva tedesca, si affrontano temitipicamente italiani: è dunquel’Italia rispecchiata negli autoritedeschi. Questo approccio è inte-ressante, poiché, come scrive l’au-tore: «Una rilettura della storia ita-liana da una prospettiva letterariastraniera può essere avvincenteoltre che utile, al fine di recuperareanche una visione europea dellanostra storia nazionale, originaria-mente fondata su forme letterarie»(p. 15). L’autore, che è professoreordinario di Letteratura tedescapresso l’Università di Trento, discu-te il tema affascinante della predile-zione dei drammaturghi tedeschiper i personaggi e le ambientazioniitaliani, che si colloca in fondo nel-l’ampio filone sentimentale dellapassione dei nordici per l’Italia, perRoma e per il mitico Sud. Batta-farano ritrova nella contrapposizio-ne Lutero/Goethe i due modelli op-posti di rappresentazione tedescadell’Italia: critica e rifiuto controaderenza e immersione (p. 28). Nelcaso particolare, ci troviamo difronte a un personaggio italiano

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che viene assunto a modello per ilsuo essere rispondente al messag-gio politico che si vuole far passare:un eroe romantico che vuole lacostituzione, il governo del popoloe la fine della nobiltà. Quello cheinsomma è stato davvero Cola diRienzo, nella sua qualità di «eroeneomedievale» rivisitato dal ro-manzo Rienzi, the Last of the Ro-man Tribunes, di Edward BulwerLytton, pubblicato nel 1835, ro-manzo che costituisce il riferimen-to letterario su cui si fondano lequattro opere tedesche presentatenel volume.

In queste quattro opere di autorigiovani e di belle speranze (solo Mo-sen aveva già raggiunto una certanotorietà), pur vivendo in mezzo apersonaggi di volta in volta diversi,e seguendo trame dissimili, i vari“Rienzi” si somigliano un po’ tutti,tanto nel carattere che nelle azioniche svolgono. Spiriti romantici epassionali, si contraddistinguonoper essere, alla fine dei conti, degliesempi «da non seguire nella prassipostrivoluzionaria» (p. 98), poichérappresentano il fallimento dellarivoluzione, fallimento determinatodalla difficoltà di passare dalla faserivoluzionaria (o carismatica) allaprassi ordinaria di governo, perl’impossibilità di controllare lemasse brute e per la continua so-vrapposizione e permeabilità trainteressi pubblici e privati. E ci sideve legittimamente domandarequanto la figurazione di un intellet-tuale borghese, rivoluzionario so-gnatore, non sottintenda un riferi-mento mimetico e autobiograficoagli autori, giovani intellettuali bor-ghesi ricolmi di volontà di cambia-

mento, che a quella figura si ispira-vano, e che temevano il fallimentodella loro rivoluzione, per colpadella nobiltà o del popolo.

L’opera di Friedrich Engels(1820–1895), il celebre filosofo po-litico, fu composta tra il 1840 e il1841 e ritrovata solo nel 1974.Attraverso l’analisi che ne compiel’autore, si ricava che detta operadoveva servire di base per un li-bretto operistico e che si trova inuno stadio avanzato di elaborazio-ne. Cola di Rienzi, ambientata in unRinascimento italiano metastorico,è una tragedia in cui è continuo ilgioco drammatico/dialettico trasfera pubblica e sfera privata e incui «tutti tradiscono e tutti si sento-no traditi» (p. 36). Interessante ilfatto che il popolo che vi viene rap-presentato è un soggetto passivo emanipolato, molto lontano dal«proletariato», parte politica attiva,del suo Manifesto del Partito Comu-nista (1848). Forse proprio questadistanza rispetto alla riflessionepolitica maturata di lì a poco, è laragione per la quale l’opera non fumai portata a termine.

Julius Mosen (1803–1867),drammaturgo e poeta, pubblicò lasua opera nel 1837 e riuscì a farlarappresentare solo nel 1845: treanni dopo il Rienzi di Wagner, cosache suscitò il suo sdegno. Il temadella tragedia, come egli stessoscrisse, è «il fallimento dell’idearivoluzionaria a causa della rozzez-za delle masse popolari» (p. 45). Ildramma, nel quale i riferimentiall’attualità sono evidenti, si fondasul binomio giustizia e libertà, cheè la causa per cui si accende loscontro sociopolitico. Rienzi, nuo-

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vo Bruto (come già lo aveva chia-mato Petrarca!) è un perfetto — esfortunato — eroe repubblicanocontro il tiranno Stefano Colonna,entrambi campioni di due ceti so-ciali, popolo e nobiltà, che si con-trappongono nella lotta di classe. Ilsuo fallimento avrà inizio quandoRienzi si trasformerà da Bruto inCesare, abbagliato dal potere per ilpotere. Infine passando dal visio-nario al crudele calcolatore, giun-gerà a somigliare a Robespierre,nella convinzione che solo la re-pressione più severa permetta diconservare il potere: gli ultimi mesidel suo dominio, dunque, vengonoequiparati implicitamente al Ter-rore di quarant’anni prima, ancoranella memoria di tutti.

L’opera Rienzi. Der Letze derTribunen di Richard Wagner(1813–1883) fu iniziata nel 1848 erappresentata nel 1842, terza dellesue opere giovanili. L’opera, cheebbe un grandissimo successo,vede la presenza di un protagoni-sta, Rienzi appunto, e di una sortadi deuteragonista, Adriano Co-lonna, innamorato della sorella deltribuno. Il discorso politico diWagner è vicino a quello di certiambienti della sinistra hegeliana,fino al pensiero dell’anarchicoBakunin. Vi è descritto il fallimen-to della rivoluzione capeggiatadagli intellettuali borghesi, chenon può riuscire perché la massa èabbrutita e incapace di riconosce-re i propri interessi: la cosa èparaddosale, pensando alla famache ebbe questa opera durante ilnazismo, quando Hitler, che inRienzi trovava diversi elementi disomiglianza, faceva introdurre i

suoi comizi dall’Ouverture dell’o-pera wagneriana. Certo, il Rienzidi Hitler non è quello di Wagner, ebene fa Battafarano ad augurarsiche «il Rienzi di Wagner [sia] libe-rato dalle perversioni di una rice-zione hitleriana» (p. 81).

L’opera di Carl Gaillard(1813–1851), politico e drammatur-go, fu pubblicata nel 1846 e mostraun motivo ispiratore parzialmentediverso dalle altre. Infatti la storiache racconta ha anch’essa una fun-zione dichiaratamente allegoricadell’attualità, ma i termini di riferi-mento mutano: «Gaillard rivisita lastoria romana nei termini della piùradicale teologia protestante» (p.85), cioè in senso dichiaratamenteantiasburgico, antipapale e di con-verso filoprussiano. Più che altripersonaggi della storia italiana, isuoi modelli sembrano essere glispiriti più radicali della protesta delsecolo XVI, come l’anabattistaThomas Müntzer.

Mi paiono infine notevoli glispunti di riflessione che l’autoresuggerisce sul rapporto tra storio-grafia e letteratura, ovvero tra laricostruzione storica e l’elaborazio-ne immaginifica di un accadimentoo di un personaggio (spec. pp. 21–25e 98–99). Nella fattispecie, il Cola diRienzo di Wagner o degli altri auto-ri non è certamente il personaggiostorico del Trecento, e queste operesono inservibili per ricostruire la vi-cenda autentica del Tribuno. Os-serva giustamente Battafarano: «Se,pertanto, è senza dubbio vero cheEngels, Wagner, Mosen e Gaillardcon le loro opere drammatiche nonoffrono nulla che possa servire aglistorici odierni del medioevo, è però

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altrettanto vero che essi diconomolto allo storico che si accinga astudiare la Germania dell’Otto-cento» (p. 23), e chiude il capitolocon una notevole sentenza: «La let-teratura è la rappresentazione dellastoria dell’umanità rivisitata conti-nuamente nel mito» (p. 25). Il rap-porto tra storia e letteratura si pre-senta dunque come uno dei temiprofondi del libro.

L’argomento appare particolar-mente pertinente proprio in rela-zione a questo personaggio polie-drico, almeno per tre ragioni:prima di tutto perché lo stessoCola di Rienzo confondeva i pianidi realtà, attribuendo alla scritturaretorica un ruolo di azione politicache essa, in realtà, non potevasvolgere; in secondo luogo, per ilfatto che la memoria di Cola diRienzo è già, ab origine, connotatain modo letterario, convivendonella sua immagine il mito che eglistesso creò intorno a sé e quelloforgiato da Petrarca; infine, per ilfatto che la sua vita è stata raccon-tata in cento modi diversi daaltrettanti autori, che lo hannocontinuamente reinventato: insie-me a Gaillard, Mosen, Wagner eEngels, anche nomi del calibro diSchiller, Byron, D’Annunzio.

Nota bibliografica: opere su Cola diRienzo, aa. 2002–2006:

T. di Carpegna Falconieri, Cola diRienzo, Roma, Salerno Editrice, 2002;A. Collins, Greater than Emperor. Cola diRienzo (ca. 1313–54) and the World ofFourteenth–Century Rome, Ann Arbor,The University of Michigan Press, 2002;L. Gatto, Temi e spunti di propagandapolitica nella Roma del Trecento: il casoCola di Rienzo, in La propaganda politi-ca nel basso medioevo nel basso medioe-vo, atti del convegno, Todi, 14–17 otto-bre 2001, Spoleto, CISAM, 2002, pp.411–453; C. Crescenti, Cola di Rienzo.Simboli e allegorie, Parma, Edizioni al-l’Insegna del Veltro, 2003; R.G. Musto,Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo andthe Politics of the New Age, Berkeley,University of California Press, 2003; A.Rehberg, Clientele e fazioni nell’azionepolitica di Cola di Rienzo, in A. Rehberg,A. Modigliani, Cola di Rienzo e il comu-ne di Roma, Roma, Roma nel Rina-scimento, 2004, vol. I; A. Modigliani,L’eredità di Cola di Rienzo. Gli statuti delComune di popolo e la riforma di PaoloII, in Rehberg–Modigliani, Cola diRienzo cit., vol. II (2004); T. di CarpegnaFalconieri, L’uomo che si credeva re diFrancia. Una storia medievale,Roma–Bari, Laterza, 2005; J.-Cl. MaireVigueur, Cola di Rienzo, «Medio Evo.Un passato da riscoprire», a. 10 n. 3(110), marzo 2006, pp. 93–121; T. diCarpegna Falconieri, Il carisma nelmedioevo: una considerazione e due casidi studio (Cola di Rienzo e «reGiannino», in Carisma e istituzioni nelsecolo XI, atti del Convegno, FonteAvellana, 29–30 agosto 2005, Negarinedi San Pietro in Cariano, Il Segno deiGabrielli Editori, 2006, pp. 219–242.

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Luigi Matt, autore di questostudio sugli usi linguistici gaddia-ni, ripercorre, attraverso un’anto-logia di brani commentati, l’itine-rario stilistico dello scrittore mila-nese la cui cosiddetta «vocazioneal plurilinguismo» (da sempre rile-vata a marcare più che altro la lon-tananza da qualsiasi concessionealla lingua dell’uso medio), purprescindendo «in buona misuradal tipo testuale di volta in voltaaffrontato», appare profondamen-te e volutamente differenziata aseconda dell’argomento.

Nell’Introduzione che fa da prelu-dio al libro è tracciata una panora-mica dei criteri che sembrano gui-dare la scrittura di Gadda, la quale,con il supporto di una bibliografiaimponente, viene qui ricostruitanelle sue più nascoste dinamichemediante l’analisi di fenomeni lin-guistici tipici, analisi sistematica cheprecede quella nel dettaglio dei sin-goli brani dell’antologia.

Per Gadda, come è noto, la lin-gua costituì uno strumento cono-scitivo di primissima importanza ingrado di rappresentare e dar voce alcaos dell’esistenza e alle varie sfac-cettature del reale. Da qui la com-presenza sulla pagina di elementieterogenei: dagli arcaismi ai voca-boli rari e ricercati, fino ai calchiletterari in funzione parodica.

Nell’ambito di questo difficile evariegato sistema compositivo, im-

portante risulta l’uso dei dialetti (ein particolare di quelli milanese,fiorentino e romanesco) che, comepiù volte attestato dalla critica,pertiene al tentativo di dar contodella complessità e instabilità delmondo circostante attraverso lacompresenza sulla pagina di parla-te anche molto diverse fra loro.

La funzione di ogni dialetto,come del resto di ogni altro feno-meno linguistico all’interno dellaproduzione gaddiana, si specializ-za a seconda del contesto: il mila-nese è usato per lo più con inten-zioni polemiche nei confronti diuna borghesia vista come bersa-glio per un’acuta critica sociale; ilfiorentino, in accordo con una tra-dizione letteraria attestata, diventail mezzo per la creazione di untono fra il comico e il conversevo-le; il romanesco, quello in primoluogo dei sonetti di Belli (autore a-matissimo da Gadda che gli dedicòun saggio appassionato) servirà in-vece, nel Pasticciaccio, a ricreareun clima politico dominato daldisordine e da un senso di tragediadiffuso.

Sempre in accordo con proces-si creativi in continuo fermento,frequenti, nel tessuto linguisticogaddiano, saranno i prelievi dallelingue classiche come da quellestraniere moderne.

I latinismi semantici, quei vo-caboli cioè «magari comuni ma

LUIGI MATT, Gadda, Roma, Carocci, 2006.

di Alice Di Stefano

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utilizzati secondo un’accezione,sconosciuta all’italiano, che ri-manda al latino», caratterizzano inparticolare molte pagine dell’auto-re, impegnato in un’operazione direcupero diacronico della linguaantica, capace di seguire da vicinole differenziazioni via via stratifi-catesi durante i secoli.

All’interno delle varie opere,inoltre, saranno spesso presenticitazioni dal latino cristiano (chesi sostituirà al latino arcaico ascopo per lo più parodico) per unuso esplicitamente dissacrante del-la lingua.

Sempre con intenti destabiliz-zanti sembrano nascere la ripresadel macaronico nonché alcuni pre-lievi da lingue morte quali l’etru-sco che sono stati evidenziati daMatt proprio a dimostrare la tena-ce curiosità linguistica dell’autore,parallela alla volontà di ricreareanche stilisticamente il caos dell’e-sistenza.

Tra le lingue straniere, il france-se domina incontrastato e i france-sisimi, come fa notare lo studioso,abbondano soprattutto negli scrit-ti gaddiani a carattere saggistico;un «uso particolare» degli elemen-ti stranieri, invece, viene riscontra-to nei testi «milanesi» in cui èchiaramente sbeffeggiata la linguaartefatta della borghesia me-dio–colta dell’epoca.

Un discorso a sé è costituitodalla presenza diffusa in tutta l’o-pera di Gadda di un lessico di pro-venienza tecnico–scientifica, pre-senza da sempre sottolineata dallacritica e ricondotta in genere allacultura di formazione dell’«inge-gner Gadda».

Matt, in disaccordo con alcuneinterpretazioni precedenti, ricon-duce il fenomeno a una curiosità apiù vasto raggio, innata, che avreb-be informato l’autore costante-mente in cerca di termini desueti eparticolarità lingustiche, preziosi-smi e puntuali riferimenti allarealtà circostante, anche al di làdella propria specializzazione. Aconferma di questa idea starebbela gran quantità di tecnicismi trat-ti dalla medicina e dalla psicanali-si, branche non direttamenteesplorate dal tecnico–scrittore.

Più in generale, è detto che«non c’è quasi linguaggio settoria-le da cui Gadda non riprendaalmeno qualche parola o qualcheimmagine» proprio a denotare unavivace attenzione verso ogni ambi-to pratico della lingua, esercitatacon l’intenzione di aricchire untessuto già sovrabbondante divocaboli ed espressioni della piùvaria origine.

Come per ogni altro termineutilizzato, comunque, anche i tec-nicismi risultano “incastonati” neltessuto letterario e variamentecombinati in modo da caricarsi divalenze diverse o ulteriori rispettoal significato originario adattando-si ogni volta al contesto e alle cir-costanze in uso, al genere adottatoo al registro stilistico via via pre-scelto.

Il fenomeno più rilevante dellalingua di Gadda rimane comunquequello delle neoformazioni in cuila straordinaria inventiva dell’au-tore, secondo solo a Dante percreatività sul piano del lessico, dàvita a un vero e proprio vocabola-rio che viaggia (secondo un calco-

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lo solo approssimativo) sulle mi-gliaia di termini, con un numerostupefacente di coniazioni.

Nella pagina gaddiana, infine,persino i segni d’interpunzionesembrano assumere una valenzaspeciale soprattutto in virtù deglieffetti ritmici in grado di creare,effetti, ottenuti e perseguiti con di-versi accorgimenti mirati, sempretesi d’altra parte alla variatio stili-stico–espressiva.

Al di là degli aspetti squisita-mente formali o di quelli lessicaliche caratterizzano la prosa del-l’autore, Matt, soprattutto sull’e-sempio di Pier Vincenzo Men-galdo che in passato già ha affron-tato l’argomento, tratta della sin-tassi dell’autore, luogo di massi-ma sperimentazione secondo en-trambi i critici, rintracciandovielementi di grande novità e un an-damento mosso, dicontinuo non-ché caratterizzato da frequentimoduli antitetici proprio a volerdare l’impressione di una scrittu-ra in perenne movimento.

A conferma del ruolo privilegia-to della lingua in Gadda e dellalucida riflessione che lo accompa-gnava, sono segnalati con partico-lare evidenza gli interventi meta-linguistici dello scrittore (presentinei vari testi insieme a veri e pro-pri commenti storico–linguistici)che «pressoché in ognuno dei suoiscritti interviene a chiarire il signi-ficato o l’etimologia di un termineraro o dialettale, o a precisare l’ac-cezione specifica nella quale vaintesa una parola comune».

Nelle pagine che introducono isingoli brani dell’antologia, luogopiù specifico di verifica di quanto

detto, dopo aver ripercorso levicende editoriali di ciascuna delleopere da cui originano, Matt netraccia un minuzioso commentoche figura nella sezione ricorrentededicata ai “Principali aspetti lin-guistici” in cui sono passati alsetaccio i diversi fenomeni e siprocede dal generale al particola-re, dalla visione d’insieme all’os-servazione al microscopio.

Le pagine scelte, a fornire unapanoramica compatta (al di làdella spontanea esuberanza delcorpus originario) e contempora-neamente a dimostrare un’eccezio-nale eterogeneità stilistica nonchéespressiva, sono le più varie spa-ziando dal saggio linguistico alromanzo.

La sezione comprende passipiù o meno celebri ricavati da testigaddiani fondamentali: un branoda Lingua letteraria e lingua dell’u-so, articolo di carattere saggistico,il ritratto dissacrante di Ciceronetratto dal racconto antiborgheseSan Giorgio in casa Brocchi, cin-que pezzi (proprio a segnalare lacompresenza di registri completa-mente differenti) tratti da Lacognizione del dolore e qui ribat-tezzati significativamente Le villedel Serruchòn; I pasti di Gonzalo;La madre; I signori ai “restau-rants”; L’infanzia di Gonzalo, l’in-cipit con la presentazione di In-gravallo nonché il passo relativoall’arresto di Ascanio Lanciani(con la descrizione del mercato,vero e unico protagonista dellascena) da Quer pasticciaccio brut-to de via Merulana, l’inizio di Erose Priapo (con l’enunciazione ditutti i temi che saranno affrontati

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nel libro) e infine Due articoli dirotocalchi e cioè Risotto patrio.Rècipe e La nostra casa si trasfor-ma: e l’inquilino la deve subire,esempio speciale di scrittura gior-nalistica d’autore.

L’intera parabola gaddiana,quindi, con la sola quanto signifi-cativa eccezione dell’Adalgisa lacui esclusione è giustificata e comecompensata dall’introduzione dipezzi coevi, viene ricostruita mi-nuziosamente nelle sue più mini-me sfumature linguistiche al finedi fissare regole nonché costantiche guidarono la prassi creativadell’autore.

Chiude il libro la rassegna bi-bliografica dei testi di critica con-sultati, nell’ideale riferimento, inparticolare, ai lavori di due studio-si quali Gianfranco Contini e Gia-como Devoto, figure decisive per lafortuna gaddiana, le cui categorieestetiche sono tuttora adottate perdefinire gli scritti dell’autore, mo-dello a loro volta per una progeniepiù o meno dotata di «nipotini», fi-

no alle cosiddette «funzioni Gad-da» relative all’eredità lasciatadallo scrittore alle generazioniattuali.

Il libro, non solo studio comple-to sui principali procedimenti lin-guistico–stilistici adottati dall’au-tore (alcuni divenuti ormai “gad-diani” per definizione) ma ancherassegna ragionata di sfumature,dettagli, spunti di varia natura in-terni al suo modus scribendi, va adarricchire di un prezioso contribu-to (pur imperniato su un esito tut-to particolare della prosa novecen-tesca) la collana di “Storia lingui-stica italiana” diretta da Luca Se-rianni, attenta e scrupolosa rico-struzione di fenomeni espressiviinterni alla letteratura nostranache segue di alcuni anni e ideal-mente completa (grazie a lavoripiù specifici su singoli autori egeneri letterari) quella ormai stori-ca di “Storia della lingua italiana”a cura di Francesco Bruni (per ilMulino), divisa più tradizional-mente per secoli.

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Libri ricevuti

GIULIANO MALIZIA, Profumo de Roma. Raccolta di poesia nel dialettodella Città eterna, Roma, Terresommerse, 2006.

PIER MATTIA TOMMASINO, La befana e er battiscopa. Presentazione diUgo Vignuzzi, Roma, Edizioni Cofine, 2006.

Poeti in romagnolo del Novecento, a cura di Pietro Civitareale,Roma, Edizioni Cofine, 2006.

CLAUDIO STERPI, Co tanto de colore e de bandiera, Roma, SportAction Editore, 2006.

ANNA VERGELLI, Roma in scena e dietro le quinte, Roma, Aracne,2006.

Vincenzo FANI, Er–il Romanesco. Autori – Opere – Considerazioni,Roma, Nuova Impronta Edizioni, 2006, pp. 208.

Lì comincia ‘na vallata che pare un budéllu. Testimonianze dialettalidelle Alte Valli del Potenza e dell’Esino, a cura di M. Pucciarelli eA. Regnicoli, San Severino Marche, 2006, pp. xiv–160.

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Finito di stampare nel mese di giugno del dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.»

Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma