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RICERCA CEMISS

RELINT AF-SA-04

La primavera araba e la crisi libica.

Impatti del possibile riassetto geopolitico del

Maghreb e del Medio Oriente sulle politiche di

cooperazione nel settore della difesa e della

sicurezza.

NICOLA PEDDE

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Sommario

Executive Summary, p. 3

1. La primavera araba p. 8

1.1 Dinamica storica e dimensione del fenomeno p. 8

1.2 La genesi laica delle proteste e il ruolo dei social media p. 11

1.3 Rivolte, prima ancora che rivoluzioni p. 13

1.4 La primavera araba in Tunisia p. 16

1.5 Evoluzione del quadro politico in Tunisia p. 21

1.6 La primavera araba in Egitto p. 28

1.7 Evoluzione del quadro politico in Egitto p. 36

1.8 Le forze armate in Tunisia e in Egitto p. 44

1.9 La crisi libica e la fine del regime di Gheddafi p. 49

1.10 Evoluzione del quadro politico della Libia p. 53

1.11 Evoluzione del quadro politico in Algeria p. 63

1.12 Evoluzione del quadro politico in Marocco p. 74

1.13 Cosa ha cambiato la primavera araba? p. 86

2. La questione del popolo berbero p. 90

2.1 La questione del popolo berbero p. 90

2.2 I berberi d‟Algeria p. 95

3. La dimensione della cooperazione regionale del Maghreb con la NATO,

l’Unione Europea e l’Italia, p. 98

3.1 La coop. economica e per la sicurezza tra Europa e Maghreb, p. 98

3.2 La NATO e il Maghreb, p. 113

3.3 Gli interessi dell‟Italia nel Maghreb, p. 120

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Executive Summary

Gli eventi che hanno interessato il Nord Africa dalla fine del 2010, in parte ridefinendo gli

assetti politici della regione ed aprendo – almeno illusoriamente – una prospettiva di

democratizzazione nella regione, sono stati definiti come parte di un processo che la

stampa ha un po‟ troppo frettolosamente chiamato come la “Primavera Araba”.

In realtà, tuttavia, si è trattato di un fenomeno altamente eterogeneo, in larga misura

distinto da un Paese all‟altro, e solo in parte capace di rimuovere alla radice gli

autoritarismi che da circa quarant‟anni dominavano politicamente i popoli della regione.

Si è trattato, primariamente, non di rivoluzioni vere e proprie, quanto piuttosto di rivolte.

Contro generazioni del potere ormai al tramonto ed incapaci di qualsivoglia innovazione

libertaria o democratica. Nel vano tentativo di perpetuare forme di governo autoritarie e

prive della benché minima rappresentatività popolare.

Ogni processo di trasformazione, tuttavia, è stato unico e a sé stante. Con scarse, se non

nulle, similitudini rispetto a quello degli altri paesi della regione.

Nel caso della Tunisia e dell‟Egitto, la causa scatenante degli eventi è stata rappresentata

dalla povertà crescente e dalla sempre più arrogante e spregiudicata gestione della

politica e dell‟economia da parte dei vertici politici del paese. Comportamento che ha

determinato i presupposti di una rivolta popolare di ampie dimensioni che, in breve tempo,

è riuscita ad imporre dal basso un mutamento politico sono a pochi mesi prima

impensabile.

Sia in Tunisia che Egitto, la genesi della protesta non ha avuto alcunché di religioso od

ideologico, scaturendo anzi in seno alle moltitudini di giovani laici e mediamente istruiti. La

vittoria politica delle ondate di protesta è stata possibile grazie alla neutralità delle Forze

Armate, che con la loro inerzia hanno permesso di consolidare la protesta in modo

relativamente pacifico ma intenso. Determinando un‟accelerazione degli eventi altrimenti

impossibile.

Del tutto differente, invece, la dinamica di crisi in Libia. Non è stata la povertà o il

sottosviluppo ad alimentare la prima fase della protesta contro Gheddafi, ma la spontanea

avversione al ruolo autoritario e spregiudicatamente satrapico di Gheddafi per oltre

quarant‟anni. Un ruolo che ha congelato la Libia ed ogni sua aspirazione di cambiamento

e modernizzazione.

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Alla protesta spontanea e di matrice popolare, tuttavia, nel caso della Libia è subentrato

un elemento esogeno, trasformando ben presto i moti in violenza e scatenando la spietata

repressione di Gheddafi soprattutto nella regione della Cirenaica.

Gli interessi esterni al tessuto politico e sociale libico sono stati tuttavia preponderanti,

determinando una sorta di coalizione internazionale a difesa della sempre più variegata ed

eterogenea opposizione, e trasformando la protesta in una vera e propria – quanto

sanguinosa – guerra civile. Nel corso di circa un anno si è quindi combattuto

spietatamente, di villaggio in villaggio, e poi di città in città, sino alla rocambolesca fuga di

Gheddafi e alla sua successiva cattura ed esecuzione nella città di Sirte.

Un processo di crisi, quello libico, caratterizzato da una violenza e dalla partecipazione di

così tanti elementi esterni al tessuto sociale nazionale, da non permettere ad oggi alcuna

stima circa la definitiva normalizzazione. Ed anzi lasciando pericolosamente intravedere i

margini di una parziale restaurazione attraverso l‟ascesa di forze politiche tutt‟altro che

pacifiche e democratiche.

La Primavera Araba, quindi, è stata un processo di mutazione delle èlite politiche locali

non esattamente rivoluzionario, sorto sotto la spinta delle più giovani generazioni che,

tuttavia, non hanno saputo generare una vera e propria transizione generazionale. Anzi,

l‟azione delle generazioni più giovani è stata strumentale per portare alla luce la

complessa e ben radicata realtà sociale dei paesi del Nord Africa, ancor oggi dominata più

dalla tradizione e dalla religione che non dalla voglia di modernità ed innovazione politica.

Hanno quindi dominato la scena politica di tutti i paesi dell‟area le forze di ispirazione

islamica o quelle fondate sui principi del nazionalismo, soffocando le aspirazioni delle

generazioni laiche e liberali, ed impostando un processo di transizione in direzione di

modelli politici di fatto non così distanti da quelli rovesciati con la protesta.

Due paesi, poi, Marocco ed Algeria, sono stati solo marginalmente sfiorati dagli aventi

della Primavera Araba, almeno sino ad oggi. Ciononostante, gli avvenimenti di Tunisia,

Libia ed Egitto hanno profondamente inciso sulla linea politica di questi due paesi,

spingendo in direzione di un‟apertura ed un processo di costruzione del pluralismo. Azioni

alquanto tardive e prive di reale sostanza, tuttavia, che con ogni probabilità non

produrranno alcun risultato apprezzabile nelle rispettive società, lasciando aperta quindi la

porta per ulteriori sviluppi.

È necessario ricordare come, in tutta la regione, non sono venuti meno i presupposti del

malcontento e gli ingredienti che hanno scatenato le rivolte.

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Le cause scatenanti della cosiddetta Primavera Araba affondano le loro radici nella

povertà, nel sottosviluppo e nella gestione autoritaria del potere, e ben poco è stato fatto,

anche dall‟Europa, e dall‟occidente più in generale, per promuovere una trasformazione in

questa direzione e determinare le basi per un reale processo di sviluppo locale.

Anzi, l‟Europa ha sistematicamente frustrato ogni tentativo di trasformazione

dell‟isolamento locale e della conflittualità palese e latente nella regione, definendo

progetti concettuali brillanti e lungimiranti, che mai sono riusciti ad uscire tuttavia dallo

stato embrionale trasformandosi in realtà.

I regimi autoritari hanno costituito il presupposto per il mantenimento della sicurezza

dell‟Europa sul versante sud, arrestando l‟emergere di ogni alternativa politica e,

soprattutto di quella a matrice islamica. I governi europei hanno largamente sostenuto la

linea del sostegno ai regimi, in tal modo tuttavia frustrando per decenni le aspirazioni della

società, alimentando radicalismi religiosi e ideologici, ed impedendo l‟emergere di una

generazione politica moderata, più rispondente alle esigenze della regione e, in definitiva,

ben più funzionale dei regimi anche sotto il profilo del mantenimento della sicurezza e

della lotta al terrorismo.

È mancata, poi, la capacità europea – e occidentale in genere – di proiettare oltre la

sponda sud del Mediterraneo le basi di uno sviluppo economico locale che in modo assai

lungimirante era stato progettato nel 1995 in occasione della Conferenza di Barcellona.

Creando i presupposti per una costante stagnazione delle economie locali, per la crescita

esponenziale della disoccupazione e della povertà e, alla fine, generando quegli imponenti

flussi migratori che l‟Europa non ha saputo gestire in modo efficace e che continua a

concettualizzare come semplici emergenze momentanee.

Poco è stato fatto anche sotto il profilo della sicurezza, stante il sempre minore interesse

della NATO alla cooperazione con i paesi dell‟area, e in conseguenza di un generico

approccio alle questioni della sicurezza esclusivamente basato sulla cosiddetta “guerra al

terrorismo”.

Si dovrebbe al contrario lavorare per far emergere, soprattutto in Europa, un principio di

cooperazione per la sicurezza di nuova generazione, su scala essenzialmente regionale, e

mirato a rispondere alle esigenze non già della sola sponda nord, ma anche individuando

le priorità e le esigenze di sicurezza dell‟area del Maghreb.

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In tal modo si potrebbe definire una ben più fattiva e puntuale azione comune per il

mantenimento della sicurezza e la condivisione degli oneri economici e logistico-operativi,

assicurando ad ambo le sponde un soddisfacente risultato.

È necessario individuare ambiti di comune interesse e porre in essere in questi termini

azioni congiunte. Nell‟area del Mediterraneo, ad esempio, la sicurezza dei trasporti

marittimi, la protezione degli interessi energetici e la cooperazione per la gestione dei

flussi migratori sono senza dubbio aspetti su cui è possibile investire per l‟incremento della

cooperazione. Sia a livello NATO che di singola Unione Europea.

In termini di protezione degli interessi nazionali, infine, la cosiddetta “Primavera Araba”

non sembra avere – almeno per il momento – intaccato in modo significativo né la

quantità, né la qualità delle relazioni politiche ed economiche dell‟Italia nella regione.

In termini percentuali, la quota maggiore dei nostri interessi economici nell‟area è

assorbita dal settore energetico, solo temporaneamente ridotto nei flussi in conseguenza

della crisi libica. Il sistema di trasporto rigido – le pipeline – e lo sviluppo nel lungo termine

dei contratti italiani nel settore dell‟energia della regione restano essenzialmente sicuri e

invariati, sebbene la crisi libica sia ancora lontana da una soluzione. E quindi

potenzialmente capace di evolvere in modo non favorevole al nostro sistema nazionale, se

non gestita con la dovuta attenzione sia sul piano diplomatico che di pianificazione

economico-industriale.

In conclusione, quindi, la “Primavera Araba” è un fenomeno – in parte tuttora in corso –

caratterizzato da una prima forma di evoluzione politica regionale, che transita una parte

del Nord Africa dall‟autoritarismo laico e di estrazione militare in direzione di una forma

ibrida di democrazia dominata in larga misura dai movimenti islamici.

La Fratellanza Musulmana ha dimostrato di essere una struttura politica ben organizzata e

capace in termini organizzativi, e di rappresentare – almeno in questa prima fase di

transizione politica – circa la metà della popolazione egiziana e tunisina. Meno efficace il

risultato della Fratellanza in Libia, dove resta in ogni caso una forza politica importante e

con grandi potenzialità di crescita, soprattutto se le attuali autorità non avranno la capacità

di ristabilire l‟ordine e la sicurezza in tempi brevi.

L‟ascesa al potere in Egitto e Tunisia della Fratellanza Musulmana ha dimostrato come il

movimento fosse caratterizzato da una componente maggioritaria essenzialmente

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moderata e progressista, fugando in tal modo i timori di una minaccia del radicalismo

islamico come connaturata al movimento stesso.

Anzi, è apparso con chiarezza come il principale rischio nel cammino politico della

Fratellanza sia rappresentato dalle posizioni radicali di alcune frange estremiste, come nel

caso di quelle salafite, che il movimento è impegnato a contenere e depotenziare

attraverso un costante allargamento della base sociale di sostegno.

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La primavera araba

1.1 Dinamica storica e dimensione del fenomeno

Quella che, forse un po‟ troppo frettolosamente, è stata definita come primavera araba, è

un fenomeno politico e sociale teso al rinnovamento della classe dirigente di alcuni tra i

principali paesi del Maghreb, e che ufficialmente è iniziata nel dicembre del 2010 in

Tunisia.

Il fenomeno ha innescato, più o meno volontariamente, un meccanismo di adesione

popolare in numerosi paesi dell‟area, che sono stati a loro volta in tal modo interessati da

cambiamenti istituzionali e politici di varia e differente natura.

Un profondo errore, tuttavia, alimentato soprattutto dalla stampa, è stato quello di

accomunare le proteste di piazza che si sviluppavano nei diversi paesi della regione,

omologandoli nella matrice comune di un movimento omogeneo e transnazionale, definito

appunto primavera araba.

Al contrario, invece, la genesi e la dinamica di evoluzione delle proteste in Tunisia ed

Egitto prima, in Libia poi, e infine nello Yemen, in Bahrain e in Siria, è stata caratterizzata

da elementi totalmente distinti l‟uno dall‟altro.

Ognuna di queste crisi ha avuto non solo una sua radice autonoma e distinta, ma

soprattutto un meccanismo di maturazione di volta in volta del tutto differente dalle altre. In

alcuni casi, peraltro, accompagnato dall‟ingerenza e dalla diretta partecipazione di attori

esterni che hanno manipolato gli elementi originali del meccanismo di protesta locale,

trasformandolo e orientandolo in funzione di interessi distinti da quelli originali ed

autoctoni. Snaturando totalmente la natura del processo di cambiamento e, soprattutto,

sostituendo in numerosi dei casi in esame la compagine stessa delle forze politiche e

sociali coinvolte nel meccanismo di protesta originale.

Altro elemento da tenere in considerazione, poi, è dato dalla dimensione geografica

effettiva dei moti di protesta che hanno attraversato il Medio Oriente dalla fine del 2010 ad

oggi. Oltre ai casi più noti, dove si è assistito ad una sostituzione del sistema politico

locale o dove è ancora presente una diffusa e conclamata conflittualità, sono presenti

numerosi esempi di fenomeni solo parzialmente manifestatisi e rimasti in uno stato di

latenza potenzialmente mutevole nel corso del prossimo futuro.

In paesi come l‟Arabia Saudita, la Giordania, l‟Oman, il Kuwait ed altri ancora nella

regione, quindi, sono stati visibilmente e concretamente riscontrati i prodromi di un

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fenomeno di crisi che tuttavia, per ragioni anche in questo caso differenti da paese a

paese, non hanno – o non hanno ancora – manifestato un‟evoluzione critica o radicale in

funzione di una sostituzione del quadro dirigente locale o un mutamento del sistema

istituzionale.

Questo implica la necessità di un costante ed attento monitoraggio della regione e dei

trend politici e sociali che la attraversano, evitando categoricamente l‟errore di voler

ricondurre i vari fenomeni a modelli interpretativi unitari o transnazionali.

Se si vuole individuare una radice comune al fenomeno che ha interessato gran parte del

Medio Oriente nel corso degli ultimi due anni, questa deve essere individuata nel

progressivo mutamento generazionale in corso in quasi tutti i paesi della regione.

Il fallimento della transizione post-coloniale dei primi anni Sessanta ha portato, su scala

pressoché complessiva, ad una trasformazione dei sistemi istituzionali della regione,

favorendo lo sviluppo e il consolidamento di regimi autoritari e centralisti. Questi, spesso

cristallizzatisi sul ruolo di una singola figura politica e del suo entourage familiare o

clanico, hanno determinato il consolidamento di élite militari ed economiche ingessate e

corrotte, coinvolte da un lato nel processo di legittimazione dei vertici politici, e dall‟altro

nell‟acquisizione di una propria autonoma sfera di influenza e beneficio locale.

Che ha alla fine favorito la strutturazione dei regimi, la loro longevità e la capacità di

sostituzione e rigenerazione delle élite all‟interno del ristretto ed impermeabile tessuto

politico generato dalla verticalità del sistema.

Quando, per ragioni meramente generazionali, la classe dirigente di questi sistemi

autoritari ha iniziato ad assottigliarsi numericamente – e quindi contestualmente vedendo

diminuire la propria capacità di controllo sull‟apparato politico e istituzionale – si è

innescato uno spontaneo meccanismo di sostituzione dal basso. Un fenomeno peraltro né

nuovo, né sconosciuto all‟esperienza dell‟analisi politica, che ha determinato – con

soluzioni e manifestazioni di volta in volta differenti – una sua proiezione concreta

nell‟ambito delle differenti società della regione.

Altro elemento costante e in larga parte individuabile quale causa scatenante dei fenomeni

di crisi, è stata la diffusa e radicata corruzione nell‟ambito dei sistemi autoritari di ogni

singolo paese della regione, con il suo portato in termini di scarsa redistribuzione del

reddito, elevata disoccupazione e profonda frustrazione dei ceti medi e dell‟intellighentsia

verso le politiche di governo.

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A parte questi elementi, però, ben poche sono le similitudini tra le crisi o i semplici

fenomeni che si sono andati materializzando in ognuno dei paesi del Medio Oriente.

Alimentati, questi, da esigenze, problemi ed aspettative squisitamente locali, e maturati

nell‟ambito di retaggi storici e società estremamente differenti tra loro.

È questa la ragione che spiega, ad esempio, un‟evoluzione del tutto differente della

politica regionale in paesi come l‟Egitto o la Tunisia, da una parte, e l‟Algeria dall‟altra.

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1.2 La genesi laica delle proteste e il fenomeno dei social media

Uno degli elementi che ha probabilmente indotto maggiormente in errore, soprattutto in

Occidente, nella comprensione delle dinamiche della cosiddetta primavera araba, è stato

l‟approccio semplicistico e frettoloso nella valutazione della genesi del fenomeno.

Se da un lato è corretto sostenere che, in larga parte della regione, la manifestazione

iniziale del dissenso verso le rispettive élite politiche è scaturita in un ambito prettamente

laico, dall‟altro si è confuso non poco sulla composizione delle fasce generazionali che

manifestavano il dissenso, o erano pronte a farlo.

L‟utilizzo dei social media quale strumento di divulgazione e propagazione delle

informazioni relative alla protesta, ha fatto ritenere che questa fosse confinata ad una

fascia prettamente giovanile, non considerando invece in modo corretto e completo la

dimensione allargata del sentimento di ostilità alle élite politiche nell‟ambito delle società

della regione.

Il quadro iniziale della primavera araba, quindi, limitava ai giovani, laici, modernisti,

emancipati e tecnologicamente istruiti, l‟ambito della protesta, confinandola negli angusti

margini di una sorta di ‟68 arabo che avrebbe attraversato come un fenomeno culturale la

regione, distinguendosi da ogni altra preesistente o contestuale tipologia di pensiero ed

orientamento.

Venne sottovalutata largamente, quindi, la forte e ben radicata presenza delle

organizzazioni e delle posizioni ideologiche avverse al regime ma distinte dal movimento

giovanile, non includendoli in alcuna delle analisi di scenario che per mesi caratterizzarono

i tentativi di interpretazione del meccanismo di protesta e della sua futura evoluzione.

In questo modo, per mesi, si è seguita una linea interpretativa dei fenomeni che non ha

permesso di cogliere la reale e ben più complessa ed articolata essenza di ognuna delle

singole e differenti crisi. Interpretandola secondo modelli culturali e politici squisitamente

occidentali, e pervenendo dunque a conclusioni – quanto mai affrettate – spesso errate o

ideologicamente orientate a favorire una sola delle componenti attive sul terreno.

Con l‟evidente risultato di non aver saputo interagire con alcuna delle parti coinvolte e,

soprattutto, da parte occidentale, aver ingenerato nelle opinioni pubbliche locali

l‟impressione di voler favorire la continuità delle élite politiche tradizionali ed i loro apparati

istituzionali ed economici.

Questa lettura dei fenomeni, il più delle volte espressione dei meri desideri di alcune

cancellerie politiche Occidentali, divenne drammaticamente evidente allorquando i risultati

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elettorali delle prime elezioni post regime mostrarono con tutta evidenza la mappa sociale

dei paesi della regione e l‟indicazione delle organizzazioni e dei partiti con un reale e

solido radicamento nelle società dei singoli paesi.

La Fratellanza Musulmana, inizialmente sottovalutata in termini di capacità di

aggregazione e raccolta del consenso, divenne in tal modo l‟attore principale

dell‟evoluzione politica dell‟intera regione, manifestando al tempo stesso la propria

eterogenea ed assai conflittuale natura interna.

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1.3 Rivolte, prima ancora che rivoluzioni

I meccanismi di mutamento politico innescatisi in Nord Africa dall‟inizio del 2011, sono stati

prontamente definiti dalla stampa come rivoluzioni, senza tuttavia considerare nella giusta

maniera la dinamica e le proporzioni degli eventi che andavano via via concatenandosi.

La prima ad incendiarsi fu la Tunisia, che con la sua Rivoluzione del Gelsomino in breve

tempo provocò l‟uscita di scena del presidente Ben Ali dal paese, scardinando quello che

sembrava uno dei più solidi sistemi autoritari della regione. E subito dopo l‟Egitto, dove la

determinazione della folla in piazza Tahrir ha imposto la fine della quasi trentennale

presidenza di Mubarak.

Anche la crisi libica iniziò con rivolte di natura spontanea, soprattutto nella provincia

orientale di Bengasi, che ben presto assunsero tuttavia un connotato differente ed una

dinamica di scontro più violenta.

Sebbene importanti, tutti i processi di crisi che hanno interessato il Nord Africa, però,

hanno avuto ben poco di rivoluzionario. Andandosi anzi a connotare più come rivolte –

tranne il caso della Libia, più complesso e particolare – che non come vere e proprie

rivoluzioni.

Le rivoluzioni sono fenomeni rari, ed hanno come effetto quello di una rottura profonda e

spesso violenta con la realtà politica e sociale in cui vengono a manifestarsi. Sono attuate

quindi attraverso strategie di partecipazione delle masse innovative ed aggressive, e

connotate da una retorica chiara, incisiva e determinata.

Per determinare una rivoluzione, è poi necessario che si produca un mutamento radicale

rispetto al passato. Un mutamento irreversibile capace non solo – o non tanto – di

cambiare la fisionomia del sistema istituzionale, quanto del generale modo di intendere la

politica e la gestione del potere da parte delle masse. Una dinamica quindi totalizzante,

attraverso un programma ideologico di ricostruzione della società.

Le rivolte, al contrario, sono solitamente episodi solo parzialmente simili ai processi di

rivoluzione, ma da questi distinti soprattutto per la mancanza di due elementi. È in primo

luogo assente nelle rivolte la capacità di mutazione del contesto in cui si esplica l‟azione,

con il conseguente ripristino dopo intervalli temporali più o meno lunghi dello status quo.

Ed è poi assente nelle rivolte l‟impianto retorico che caratterizza invece le rivoluzioni,

lasciando le prime prive di una solida impalcatura su cui reggere lo scontro della fase

violenta. Le rivolte tendono quindi ad essere caratterizzate da un‟assenza di leadership o

da linee di comando assai confuse ed ignote alle masse, con la conseguente impossibilità

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di individuare i necessari punti di riferimento per gestione di un processo continuativo nel

tempo. Le rivolte, infine, tendono nell‟esperienza della storia più recente, non già ad

eradicare un sistema quanto a sostituirvisi.

Se l‟obiettivo è quindi quello di valutare la natura degli eventi in Nord Africa, il complesso

degli episodi che ha caratterizzato le due crisi sembra far escludere l‟ipotesi di una fase

rivoluzionaria.

Sia in Tunisia che in Egitto, alla fase attiva della rivolta ha fatto seguito un processo di

stabilizzazione ad opera delle forze armate, vero e proprio sistema portante delle due

nazioni, e poi di partiti di ispirazione religiosa. I militari hanno saggiamente mantenuto la

neutralità nella parte propulsiva degli eventi, fungendo invece da collante istituzionale e

sociale nel momento in cui la spinta iniziale veniva meno, incalzata dalla richiesta di un

rapido ritorno alla normalità. In entrambi i casi, quindi, le forze armate hanno dato luogo a

nuovi equilibri ed alleanze, quasi integralmente non rappresentativi della realtà sociale che

aveva scatenato le proteste, ma nuovamente solidi e capaci di mantenere gli equilibri nel

lungo periodo.

Questo processo ha favorito quindi la crescita e il successo dei partiti politici di ispirazione

islamica, presentatisi come portatori di valori nuovi e dell‟etica del buon governo, e

gradualmente sostituitisi alle disordinate ed eterogenee forze laiche della protesta iniziale.

Assai diversa, invece, la questione in Libia. Avviata come manifestazione spontanea di

protesta contro il regime di Gheddafi, soprattutto nelle aree della Cirenaica storicamente

ostili al ruolo del rais, la rivolta è stata oggetto sin dall‟inizio di un chiaro e conclamato

tentativo di colpo di Stato. Con il forte supporto – se non la regia – di alcuni paesi europei.

La dinamica degli eventi ha quindi preso rapidamente un corso differente rispetto a quelli

della Tunisia e dell‟Egitto, innescando una spirale violenta grazie alla distribuzione di armi

ai civili ed alla partecipazione di specialisti aventi un chiaro obiettivo tattico e strategico.

Qualcosa, tuttavia, non è andato secondo i piani, e quello che sembrava un Gheddafi

prossimo alla capitolazione è riuscito inaspettatamente a resistere e a reagire con forza in

tempi rapidi. Innescando una crisi regionale protrattasi per mesi e conclusasi solo grazie

all‟intervento massiccio di una coalizione internazionale che, grazie al supporto aereo, ha

determinato la sconfitta di Gheddafi sul campo.

In conclusione, quindi, non ci sono state rivoluzioni in Nord Africa, ma solo processi di

rivolta che hanno determinato processi di sostituzione, più o meno proficui, ma che non

hanno saputo alterare la natura autoritaria e verticale della tradizionale concezione del

potere locale. Vanificando le aspirazioni di ampie fasce della popolazione, consolidando

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gli equilibri di sempre, ed innescando fenomeni di crisi con cui l‟Europa dovrà confrontarsi

a lungo.

Una cosa tuttavia è cambiata. La convinzione, tutta occidentale, dell‟inerzia delle masse

arabe e della sua scarsa propensione all‟attivismo politico, sembra essere definitivamente

– e finalmente – svanita.

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1.4 La primavera araba in Tunisia

L‟evento che ha storicamente dato l‟avvio al processo di rivolta passato poi alla storia

come “primavera araba” è l‟immolazione, il 17 dicembre del 2010, di Mohamed Bouazizi,

giovane venditore ambulante tunisino di prodotti ortofrutticoli datosi alle fiamme in

conseguenza delle continue vessazioni da parte della polizia, che reclamavano tangenti

sul commercio.

Il gesto del giovane, morto successivamente in ospedale per la gravità delle ustioni

riportate, porterà ad una rivolta popolare, chiamata la Rivolta del Gelsomino (o anche “dei

Gelsomini”), che in breve tempo costrinse il presidente Zine El-Abdine Ben Ali ad

abbandonare nottetempo il paese e chiedere asilo in Arabia Saudita.

La rivolta, estesasi in breve tempo a tutta la Tunisa, viene resa possibile grazie

all‟imparzialità delle forze armate, che non si schierano apertamente, ma impediscono alla

Polizia di agire con mano pesante contro i manifestanti. Determinando in breve tempo la

caduta di uno dei regimi più autoritari e repressivi dell‟intera regione.

La caduta di Ben Ali aprì le porte per la transizione politica nel paese, ma dopo circa otto

mesi dalle rivolte che provocarono la fine del regime, la Tunisia risultava ancora essere il

paese con meno copertura mediatica tra quelli della cosiddetta “primavera araba”.

Avevano raggiunto le cronache estere della stampa occidentale solo le notizie del

processo – in contumacia – all‟ex presidente e alla sua famiglia, mentre era calato il

sipario sul complesso ed a volte animato clima pre-elettorale.

Aveva generato grande interesse tra l‟opinione pubblica tunisina il processo con cui si

condannava in contumacia Bel Ali e sua moglie Leila Trabelsi – insieme ad alcuni parenti

ed ex funzionari governativi – ma l‟assenza degli imputati, la fuga quantomeno sospetta di

alcuni indagati ed il giudizio tutto sommato moderato della giustizia non aveva soddisfatto

le aspettative della popolazione tunisina. Che, sempre di più, accusava le autorità

provvisorie di essere ancora fortemente permeate da esponenti del passato regime e di

perpetuare gli interessi della cerchia politica di Ben Ali1.

Le elezioni, la crisi economica e la fiducia dei tunisini

Le elezioni politiche per l‟Assemblea Costituente si sono tenute, come programmato, il 23

ottobre 2011, dove ha trionfato con una larga maggioranza il partito di ispirazione islamica

1 Political Transition in Tunisia, Alexis Arieff, in Congressional Research Service, Washington, June 18, 2012, p. 2

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Ennahda, guidato da Rachid Ghannouci e Hamadi Jebali. Che ha raccolto oltre 40% dei

voti, e 89 seggi su 217.

Due elementi sono risaltati in modo particolarmente evidente: lo svolgimento

complessivamente ordinato delle operazioni di voto e l‟immediata presa d‟atto delle

componenti laiche della vittoria del campo confessionale.

La Tunisia è stata apripista, al volgere del 2011, delle diffuse rivolte che hanno scosso la

sponda meridionale del Mediterraneo e il Vicino Oriente.

Il Paese si trovava alla vigilia di un lungo percorso costituente, durante il quale dovevano

essere tracciati i contorni delle future Istituzioni tunisine e definiti i rapporti tra i diritti

ritenuti fondamentali e la loro espressione nella sfera pubblica. A fronte di tale passaggio,

non sorprende che i tunisini abbiano scelto di indirizzare il proprio voto in ragione di due

elementi: la distanza dei candidati dal regime benalista e la capacità percepita di

affrontare le future sfide in maniera concreta, secondo linee definite ancorché non

condivise dalla maggioranza dei votanti. Tali erano i profili delle due formazioni laiche e a

orientamento socialdemocratico di Ettakatol di Moustapha Ben Jaffar e del Congresso per

la Repubblica (CPR) di Moncef Marzouki e soprattutto del movimento Ennahda, bandito

dal regime all‟inizio degli anni Novanta e perciò alieno dall‟avervi partecipato anche solo

come parvenza di opposizione; tale elemento ha contribuito al risultato mediocre del

Partito Democratico Progressista (PDP) di Najib El Chebbi.

Ennahda è un partito di ispirazione islamica a carattere moderato, che ha rassicurato sin

dalla sua discesa in campo la volontà di rispettare e tutelare la laicità della nazione,

sebbene nell‟ambito di un‟impronta di tipo conservatrice soprattutto in tema di rispetto dei

valori basilari della società tunisina, dell‟etica politica e del rapporto tra Stato e Istituzioni.

Non ha partecipato direttamente alla rivolta che ha determinato la fine del regime di Ben

Ali, ma ha saputo raccogliere nelle settimane successive il consenso di una maggioranza

dei tunisini che vede nel partito un modello di sobrietà e moralità che, di fatto, rappresenta

il contraltare alla corruzione e alla dissolutezza del precedente regime.

Una scelta etica, quindi, quella di molti elettori, alla ricerca di una strada che permetta alla

Tunisia di affrancarsi dal ricordo di una delle più odiose e repressive forme di autoritarismo

dell‟intera regione.

Le elezioni si sono tenute al termine di quasi un anno di instabilità politica, locale e

regionale, e soprattutto alla chiusura di una stagione turistica tra le più disastrose degli

ultimi decenni. Sono venuti inoltre a galla i limiti strutturali del sistema politico ed

economico tunisino, evidenziando l‟urgenza di riforme strutturali significative.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 18

L‟onda lunga della crisi politica locale, ed il conflitto nella vicina Libia hanno fatto

precipitare l‟industria del turismo, principale motore economico del paese, generando una

complessiva flessione dell‟economia nazionale e dimostrando ai tunisini quanto

complesso, e probabilmente lungo, sarà il processo di ricostituzione dell‟infrastruttura

politica ed economica del paese. Sebbene si siano placate le proteste di piazza nelle

grandi città, continuano ancor oggi nelle aree dell‟interno le manifestazioni contro la

disoccupazione, che resta attestata ai valori del 55%.

Al tempo stesso hanno assunto una dimensione maggiore le fragilità e le insufficienze del

precedente sistema istituzionale, economico e sociale, alimentando un crescente dissenso

ed ingenerando il dubbio che la “rivoluzione dei gelsomini” sia stata scippata e demolita. A

vantaggio delle vecchie élite e di non meglio precisati interessi esterni. Ricorrente

panacea post rivoluzionaria.

Si trattava, in realtà, per la Tunisia, di fare i conti con i suoi storici limiti strutturali, risultanti

dalla precisa volontà politica di Bourguiba prima e di Ben Ali poi, e dalla conseguente

incapacità della classe politica transitoria di saper offrire valide ed efficaci risposte per la

gestione della crisi ed il suo superamento. Circostanza che, ingenuamente, molti tunisini

sperano e credono di risolvere in breve tempo. Ma si dovrà invece lottare per molto tempo

contro una struttura istituzionale asfittica, ridondante ed altamente autoreferenziale, che

cercherà ancora, per lo spazio di una generazione, di perpetuare il ruolo di una struttura

per troppo tempo rimasta immobile.

Il ritorno del pluralismo politico

Sono stati oltre ottanta i partiti politici che si sono registrati per concorrere alle elezioni del

23 ottobre del 2011, rappresentando ogni ambito della sfera laica ma anche l‟emergente

nucleo dell‟elettorato laico. Anche in Tunisia, come in Egitto, lo spettro di una vittoria – o di

un considerevole risultato – da parte delle forze politiche come quella del partito islamista

Ennahda (Il Rinascimento) di Rachid Al Ghannouchi, avevano acceso un intenso dibattito

politico, alimentando un‟ingiustificata quanto spesso erronea campagna denigratoria

contro le forze di ispirazione religiosa.

I partiti laici tendevano a raffigurare Ennahda come una formazione politica di estrazione

radicale, retrograda ed orientata all‟applicazione della Sharia, insistendo in modo

particolare sul rischio rappresentato dal modo in cui avrebbe potuto incidere sui costumi

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del paese e sulla sua economia. Di fatto facendo intendere che una vittoria degli islamisti

avrebbe provocato il tracollo dell‟industria del turismo2.

Dall‟altro lato, il partito di ispirazione islamica ha sempre amato compararsi con il Partito

della Giustizia e dello Sviluppo turco, sostenendo di voler semplicemente portare i valori

dell‟etica religiosa nel tessuto politico locale, al fine di impedire l‟emergere di nuove forme

di dittatura quali quelle degli ultimi due presidenti. Il partito non ha peraltro mai manifestato

alcuna posizione radicale od estremista, ed è anzi storicamente conosciuto per la sua

moderazione e per quella degli uomini che lo compongono.

I tunisini si sono quindi trovati nel 2011 dinanzi alla prima vera evoluzione politica

pluralista della loro storia, vivendo in modo spesso contradditorio questa realtà. Da un lato

alimentando un diffuso entusiasmo unito alla prospettiva di poter partecipare in modo

diretto e concreto al futuro sviluppo del paese. Dall‟altro, tuttavia, il pluralismo ha anche

sconcertato una parte dell‟elettorato, in conseguenza della possibilità di veder emergere

l‟a lungo sopito sentimento religioso, politico e non, di una consistente porzione della

popolazione.

La capacità del movimento Ennahda di presentarsi quale fautore di un Islam sociale – nel

solco della Fratellanza Musulmana egiziana o dell‟AKP turco – ha stemperato le diffidenze

radicate nella società tunisina, che ha deplorato con enfasi la corruzione o i legami con il

regime che allignano in altri partiti ed è sembrata poco o per nulla interessata, eccezion

fatta per alcuni singoli gruppi di pressione, alle ambigue posizioni della dirigenza islamista

nei confronti di gruppi dichiaratamente confessionali quali il partito at-Tahrir di Abdelmajid

Habibi, di matrice radicale.

Superate alcune divergenze iniziali in merito alla natura e agli obiettivi del futuro

schieramento incaricato di redigere la nuova Carta costituzionale e sulle figure chiamate a

ricoprire gli incarichi di Presidente della Repubblica e di Primo Ministro di transizione, si è

raggiunto un accordo sulle linee comuni da perseguire in materia di politica economica

nazionale. Alla carica di Presidente è stato eletto Moustapha Ben Jaffar – di Ettakatol – ed

è stato raggiunto un accordo sul funzionamento dell‟Assemblea Costituente, incaricata di

legiferare fino alle prossime elezioni, previste per l‟anno successivo; l‟accordo prevede che

Moncef Marzouki ricopra le funzioni di Capo dello Stato e Hamadi Jebali sia Capo del

2 Karim Mezran, Silvia Colombo, Saskia van Genugten (a cura di), L‟Africa mediterranea, Donzelli Editore, Roma 2011, p. 145

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 20

governo3.

La Tunisia è tornata quindi al punto di partenza, entro un quadro areale e internazionale

che è tuttavia violentemente mutato e che non manca di riverberarsi sul contesto politico e

sociale interno, potenzialmente sollecitando nuove manifestazioni da parte degli attivisti,

giovani urbanizzati e istruiti, in reazione soprattutto alle non rassicuranti prospettive

economiche e sociali di breve termine e alle ormai labili ipotesi di riforme, proposte sin

dall‟allontanamento dal potere dell‟ex Presidente Ben Ali.

La Tunisia rimane un Paese laico, la cui reazione nei confronti di “fughe in avanti” degli

islamici può essere scomposta. Ove ciò dovesse realizzarsi, la concomitanza dell‟aumento

in tutto il nord Africa delle minacce terroristiche di matrice qaedista e dell‟attività di bande

di trafficanti che approfittano della debolezza delle Autorità di transizione libiche per

depredare i depositi di armi e trasferire tali carichi verso il Sahel e l‟area della Cabilia in

Algeria rappresenta un intreccio tale da generare un considerevole rischio di fallimento

dell‟esperimento politico appena iniziato nel Paese, in particolare nel medio periodo.

3 Marcella Emiliani, Medio Oriente, Una Storia dal 1991 a oggi, Laterza, Bari 2012, pag. 313

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1.5 Evoluzione del quadro politico in Tunisia

Le elezioni dell‟ottobre del 2011 e la nomina dell‟Assemblea Costituente Nazionale sono

stati due risultati particolarmente importanti per la Tunisia post regime.

Una nuova fase politica ha avuto inizio, e una grande euforia ha accompagnato il

processo di transizione, con la nascita di oltre 100 partiti politici, l‟abolizione della censura

e il ripristino della libertà di stampa e liberazione dei molti detenuti politici che

rappresentavano la pesante ed umiliante eredità della dittatura di Ben Ali.

La crisi economica, l‟eccessiva animosità politica in seno all‟Assemblea, la disoccupazione

ancora elevata e l‟industria del turismo pesantemente colpita dalla crisi mondiale e

dall‟effetto della transizione politica locale, hanno tuttavia rappresentato il contesto in cui

questa nuova fase della politica della Tunisia ha dovuto muovere i suoi primi passi.

La vittoria del partito islamista moderato Ennahda alle elezioni dell‟ottobre del 2011 è stata

accompagnata da timori ingiustificati e da una campagna stampa internazionale tesa a

raffigurare le forze di ispirazione islamiche come retrograde, radicali e orientate ad un

processo di chiusura verso l‟esterno delle nuove autorità politiche tunisine.

Il partito, al contrario, ha cercato sin dall‟esordio del suo nuovo mandato di rappresentare

un punto di riferimento unitario e fortemente democratico, nel rispetto della natura laica

dello Stato e soprattutto dell‟immagine conquistata dal paese a livello internazionale.

Nell‟Assemblea Costituente, Ennahda ha conquistato 89 seggi, ottenendo la maggioranza,

e guidando un governo di coalizione insieme al partito secolare di centro sinistra

Congresso per Repubblica (Cpr) e all‟Ettakatol, Forum Democratico del Lavoro e delle

Libertà (FDTL).

Il leader dell‟FDTL, Mustapha Ben Jafaar è stato eletto alla presidenza dell‟Assemblea, il

leader del CPR Moncef Marzouki alla carica di presidente della repubblica, e il segretario

generale di Ennahda, hamadi Jebali alla carica di primo ministro.

Sebbene altamente differenti tra loro, e spesso conflittuali, le storie dei tre partiti servono a

compensare il vuoto di democrazia e pluralismo che per decenni ha caratterizzato lo

scenario politico tunisino, favorendo per la prima un esperimento di forzata convivenza

delle anime più diverse dell‟ampio spettro ideologico locale.

Il compito dell‟Assemblea è quello di redigere la nuova costituzione, svolgere le attività

legislative temporanee e preparare il paese alle elezioni politiche del 2013, dove – a

seconda di quanto prevedrà la Costituzione – dovrà essere eletto il futuro capo del

governo (presidente o primo ministro) e il nuovo Parlamento.

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Ne consegue che, ad oggi, il più importante compito istituzionale dell‟Assemblea è

costituito dall‟incarico di verificare e definire la formula istituzionale più rispondente alle

richieste dell‟elettorato tunisino, garantendo un processo di evoluzione politica

democratica e pluralista e preparando il terreno per libere elezioni a suffragio universale.

Al tempo stesso, tuttavia, il governo è chiamato a curare gli affari correnti dello Stato e a

risanare l‟economia dopo un prolungato periodo di crisi, tuttora in corso, e un‟immagine

internazionale compromessa dalle rivolte e dalla successiva turbolenta definizione degli

equilibri politici interni.

L‟economia del paese, fortemente vincolata all‟industria del turismo, ha risentito

pesantemente della crisi economica globale e del timore generato dai disordini interni al

paese, vedendo crollare i numeri degli afflussi stagionali e compromettendo in modo

significativo l‟economia nazionale.

Ed è proprio sulle difficoltà rappresentate dall‟economia e dalle strategie per fronteggiare

la crisi che sono sorti i più importanti e recenti contrasti tra il partito islamico e le sue

controparti laiche della coalizione, nel dibattito relativo alle modalità di gestione

dell‟economia pubblica e di definizione dei piani di medio e lungo periodo per la ripresa

economica.

Il dibattito, chiaramente, si è spostato anche su posizioni di natura prettamente ideologica

e di approccio politico, dove Ennahda è stata accusata dai suoi detrattori di essere

orientata ad un approccio di tipo centralista ed autoritario, mentre al contrario le

opposizioni conservatrici le hanno rimproverato di aver abdicato ad una concezione

prettamente islamica dello Stato.

Accuse che riflettono il clima di grande difficoltà in cui versa la Tunisia oggi, ma che

indicano con chiarezza anche quanto profonde siano ancora le ferite lasciate dal

precedente regime e dal modello autoritario di governo che ha dominato la vita politica

tunisina sino al dicembre del 2010.

Un nuovo ed agguerrito fronte di opposizione ad Ennahda si è poi coagulato intorno ad

alcuni dei principali sindacati nazionali dei lavoratori, che rimproverano all‟Assemblea di

aver fallito gli obiettivi preliminari della ripresa trascurando le esigenze dei lavoratori a

favore delle istanze di tipo ideologico.

Scioperi e proteste si sono quindi susseguiti in tutto il paese nel corso del 2012, e

soprattutto nelle aree interne del paese, storicamente più arretrate economicamente e con

maggiori tassi di disoccupazione.

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Il ruolo del sindacato Ugtt

L‟Unione Generale Tunisina del Lavoro (Ugtt) è il principale sindacato nazionale dei

lavoratori, e ad agosto ha riportato nelle piazze migliaia di iscritti e simpatizzanti, per

protestare contro la disoccupazione e l‟incapacità dell‟Assemblea di rispondere ai bisogni

dei lavoratori. Entrando in tal modo in diretto scontro con Ennahda e proponendosi di fatto

come elemento politico antagonista al partito islamico4.

Houcine Abassi, segretario generale del sindacato, accusa i vertici di Ennahda non solo di

non aver adottato politiche economiche adeguate, ma di avere anche un atteggiamento

politico sempre più autoritario e verticista, di fatto accusando gli islamisti di essere una

sorta di prosecuzione del passato regime, con il quale condividerebbe una visione chiusa

e non libertaria della politica.

Dall‟altra parte, Ennahda accusa l‟Ugtt di essere manipolato da elementi del passato

regime, allo scopo di far naufragare il ruolo ed i compiti dell‟Assemblea, e restaurare il

sistema di privilegio della vecchia nomenclatura oggi esclusa dal potere politico ed

economico.

Uno scambio di accuse sterile, e improduttivo, derivante essenzialmente dalle sempre più

difficili condizioni economiche del paese, che hanno progressivamente esacerbato gli

animi, facendo svanire il clima di euforia e collaborazione che aveva accompagnato la

politica tunisina alla vigilia delle elezioni dell‟ottobre del 2011.

L‟Ugtt è riuscito a coagulare intorno alle proprie posizioni anche quelle di altri sindacati,

come quello dei medici, che sostengono le posizioni espresse da Abassi e riconoscono

nel sindacato l‟unico baluardo contro quello che considerano lo strapotere dell‟Assemblea

e del partito islamico in particolare.

L‟Ugtt ha il suo principale bacino di sostegno tra gli impiegati della pubblica

amministrazione, e conta oggi circa 520.000 iscritti, posizionandosi senza dubbio non solo

come il principale sindacato tunisino, ma anche come uno dei più importanti collettori di

voto dell‟intero contesto nazionale.

La natura dello scontro tra Ennahda e l‟Ugtt assume quindi oggi un valore puramente

politico, con il sindacato deciso a contrastare da un punto di forza esterno il ruolo

dell‟Assemblea e soprattutto del partito islamico, che individua come principale e più

temibile avversario.

4 Tunisia’s new opposition, Hèla Yousufi, in Le Monde Diplomatique, Novembre 2012

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 24

È quindi chiaro che l‟Ugtt intende presentarsi al prossimo appuntamento elettorale del

paese come una vera e propria forza politica indipendente ed autonoma, costruendo oggi

la propria credibilità con uno scontro politico ed ideologico impostato sui due piani della

difesa dei lavoratori e dell‟economia, ma anche della laicità dello Stato e del rispetto delle

libertà costituzionali espresse quale oggetto del mandato di lavoro dell‟Assemblea stessa.

In tal modo la politica tunisina si avvia verso una fase di polarizzazione, con le opposizioni

raggruppate essenzialmente intorno alle organizzazioni centriste e neoliberali, e la

maggioranza arroccata invece sulla sempre più fragile coalizione composta da Ennahda

con i due partiti di centro-sinistra del Cpr e dell‟Ettakatol5.

Una rigidità che non aiuta certo il paese in questa difficile fase di transizione, e che rischia

di vanificare il mandato dell‟Assemblea e del futuro assetto istituzionale della Tunisia.

Il dibattito religioso nel quadro politico tunisino

Molta parte del dibattito, e soprattutto dello scontro, all‟interno del tessuto politico tunisino

verte sul ruolo della religione e sull‟approccio che Ennahda intende adottare in tale ambito

nel definire la nuova Costituzione del paese.

Il dibattito ha ripreso vigore all‟indomani della proposta del partito islamico, lo scorso

febbraio, di vincolare la nuova Costituzione alla Sharia, di fatto contravvenendo agli

accordi sottoscritti con le opposizioni all‟epoca della campagna elettorale, dove era stato

deciso di mantenere inalterato l‟articolo 1 della nuova Costituzione rispetto alla

precedente.

Tale articolo, infatti, stabilisce che la religione della Tunisia è l‟Islam, la sua lingua l‟arabo

e la sua forma di governo la repubblica, separando nettamente la funzione politica da

quella religiosa, pur nel rispetto del credo della maggioranza dei tunisini.

Tale proposta, formulata sull‟onda delle sempre più pressanti richieste dei movimenti

conservatori e delle formazioni di ispirazione salafita ha rappresentato un errore di calcolo

di notevoli proporzioni per Ennahda, che in tal modo ha lasciato ampio spazio ai suoi

detrattori, e soprattutto alla gran massa di oppositori intenzionata a raffigurare il partito

islamico come conservatore, radicale e autoritario.

5 Global Security, “Union Génerale des Travailleurs Tunisiens (UGTT),” at http://www.globalsecurity.org/military/world/tunisia/ugtt.htm.

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Il partito islamico è stato quindi costretto a fare una frettolosa inversione di marcia,

ribadendo il suo originale intendimento, ma in tal modo compromettendo la propria

credibilità e prestando il fianco ai non pochi oppositori che l‟attendevano al varco.

In tal modo, Ennahda si è posta al centro di un fronte che la vede contrapposta sia ad una

parte delle forze laiche, sia a quelle conservatrici e di ispirazione salafita, che al contrario

vedono nelle scelte del partito islamico un tradimento dei valori ispiratori dell‟Islam e della

stessa rivolta che ha determinato la caduta di Ben Ali.

Le organizzazioni salafite sono nel frattempo divenute molto più attive e visibili nel dibattito

politico nazionale, assumendo spesso toni polemici e dando un‟immagine della

connotazione politica islamica assai antiquata e conservatrice. Fornendo ampio supporto

ai non pochi detrattori dei movimenti islamici in Tunisia, ma soprattutto all‟estero. Dove la

stampa ha per mesi raffigurato il quadro politico locale come fortemente contaminato da

spinte radicali e conservatrici, e confondendo l‟immagine e le posizioni di Ennahda con

quelle dei movimenti salafiti.

La situazione è poi peggiorata con lo scoppio di alcuni episodi di violenza nell‟ambito delle

manifestazioni politiche pubbliche dell‟ala conservatrice, e a poco è servita la dura

repressione ordinata dall‟Assemblea per fornire un‟immagine distinta tra questi gruppi e

quelli del partito islamico di governo.

L‟episodio sicuramente più dannoso in termini di immagine è stato quello della

manifestazione organizzata nel maggio del 2012 dall‟organizzazione Ansar al Sharia nella

città santa di Kairouan, dove migliaia di attivisti radicali si sono riuniti chiedendo al governo

l‟adozione della Sharia come sorgente unica di ispirazione delle leggi, ed accusando

l‟esecutivo di aver tradito gli ideali religiosi del popolo tunisino.

Il gruppo organizzatore, inoltre, porta il medesimo nome di una organizzazione a suo

tempo inserita nelle liste internazionali del terrorismo redatte dagli Stati Uniti, creando

ulteriore imbarazzo e offrendo lo spunto per generalizzare circa la presunta

radicalizzazione di tutta l‟ala politica dei movimenti tunisini.

A questo episodio ha fatto seguito la grave, quando anacronistica, azione di alcune cellule

di attivisti salafiti contro i negozianti di alcoolici, che si è risolta con pochi danni materiali

ma un enorme danno d‟immagine per il paese.

Lo stato dell’economia tunisina

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La grave crisi economica, unitamente al malgoverno, alla corruzione e alla prepotente

arroganza delle forze di polizia hanno costituito le principali cause del movimento di rivolta

che ha posto fine al lungo ed autoritario regime di Ben Ali.

Non quindi delle vere istanze politiche o libertarie hanno mosso lo spirito delle proteste,

quanto più semplicemente le ragioni dei bisogni più impellenti ed urgenti della

popolazione, che, esasperata, si è ribellata contro il suo vertice istituzionale.

Ed è ancor oggi la crisi economica il primo e più importante elemento per la stabilità e la

continuità politica del paese, che ha potuto godere di un relativo e modesto benessere

grazie soprattutto allo sviluppo dell‟industria del turismo e ad una modesta ma stabile

capacità di investimento dall‟estero nel piccolo mercato produttivo locale.

Entrambe le principali sorgenti di reddito del paese, tuttavia, sono state direttamente e

gravemente colpite dalla crisi economica globale prima, e dagli eventi politici e sociali

locali e regionali poi, determinando un crollo nella capacità di generare reddito e

incrementando, in tal modo, i già drammatici valori dell‟occupazione e della redistribuzione

del reddito pro capite.

A fronte di una crescita del 3,7% dell‟economia nel 2010, il dato ha subito una contrazione

dell‟1,8% l‟anno successivo, con previsioni ben peggiori per il 20126. La disoccupazione è

passata da un tasso del 13% del 2010 ad oltre il 20% nelle stime per il 2012, colpendo

soprattutto le aree interne del paese un tempo a tradizione agricola7.

La contraddizione più evidente nel dibattito relativo alla politica economica locale è oggi

rappresentato dal palese e manifesto orientamento liberista di quasi tutti gli esponenti

della politica, sebbene nell‟ambito di un quadro di programmazione economica garantito

dallo Stato e teso alla minimizzazione delle ineguaglianze economiche sul territorio e nella

società.

Una contraddizione, che ha tuttavia spinto l‟Assemblea ad adottare politiche fiscali

espansive allo scopo di favorire l‟occupazione ed attrarre gli investimenti stranieri.

La Tunisia, fino a pochi anni fa era uno dei più brillanti player economici africani dell‟area

non oil exporters, con una delle società più istruite del continente e un reddito pro capite

nella fascia medio alta delle classifiche continentali e regionali, ha subito un radicale

6 Bloomberg, “Arab Spring Turns to Economic Winter on More Joblessness,” March 27, 2012. 7 IMF Survey, “Mideast Outlook Varies Markedly Across Regions,” October 26, 2011. IMF Managing Director

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mutamento di status nel corso del 2011, mostrando in tutta evidenza la debolezza del

proprio sistema economico di fronte all‟emergere di una crisi locale.

La mancanza di una chiara e condivisa strategia di gestione della politica e della

programmazione economica ha impedito di agire con rapidità sul fronte dell‟industria del

turismo, certamente quella dove sarebbe stato possibile attivare flussi di denaro più

consistenti e rapidi per rimpinguare le ormai scarne casse dello Stato.

Ed è su questo fronte che si impernia gran parte dello scontro tra la coalizione alla guida

dell‟Assemblea e le forze dei movimenti conservatori e salafiti. Che, ben consci del proprio

potenziale sull‟immagine del paese, non hanno esitato a mettere in pratica azioni

dimostrative al mero ed unico scopo di convincere Ennahda del proprio ruolo e potenziale.

Un vero e proprio ricatto politico che rischia di provocare conseguenze gravissime per

l‟intero sistema economico e sociale nazionale.

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1.6 La primavera araba in Egitto

La protesta che ha portato alla defenestrazione di Hosni Mubarak in Egitto ha avuto

dinamiche solo parzialmente simili a quelle tunisine.

Iniziata nello stesso periodo, la rivolta egiziana ha avuto innanzitutto una collocazione

geografica essenzialmente urbana, limitatamente alle città del Cairo e di Alessandria.

Modeste, se non del tutto assenti, sono state le attività politiche al di fuori dei grandi centri

dell‟Egitto settentrionale, interessando quindi inizialmente le realtà professionali e sociali

della media borghesia e dei giovani.

In Tunisia, al contrario, la rivolta è partita nei piccoli centri rurali dell‟entroterra, spinta dalla

povertà e dal continuo abuso della Polizia, per spostarsi poi nella capitale e nelle principali

città della costa.

Al Cairo soprattutto, i manifestanti hanno scelto un rituale simbolico di protesta,

rappresentato dal presidio permanente sulla Piazza Tahrir, già luogo di storiche proteste e

fatti rilevanti nella storia del paese. Si è quindi voluto innescare un meccanismo di

“resistenza” al ruolo oppressivo e verticista del regime autoritario di Mubarak, non sulla

spinta della fame e della povertà – sebbene il fattore economico abbia inciso

profondamente – quanto su quello della libertà e delle aspirazioni di progresso della

popolazione. Stanco di un regime asfittico e imploso su sé stesso, alimentato da una

sinergia all‟interno del sistema militare, l‟Egitto si è voluto ribellare alla paralisi del sistema

e all‟impermeabilità del ceto politico di regime, alimentando una protesta essenzialmente

di natura sociale e culturale.

L‟errore nell‟interpretazione della dinamica della protesta egiziana è stato fatto tuttavia

nelle prime fasi di questa, quando un sentimento generalizzato di sfiducia e disprezzo

verso il regime, condiviso ad ogni livello della società egiziana, è stato confuso dagli

osservatori occidentali con un movimento di protesta e di ribellione delle classi più giovani

e istruite.

La stampa internazionale ha quindi diffuso un messaggio, decisamente erroneo, di una

dinamica di protesta esclusivamente giovane, laica ed intellettuale, che partendo dal

basso delle scuole e delle università chiedeva una trasformazione dell‟Egitto in chiave

moderna e libertaria.

Al contrario, invece, il malcontento e il desiderio di cambiamento era largamente diffuso in

ogni ambito della società egiziana, ed in particolar modo tra la grande massa di sostenitori

dei movimenti islamici e della Fratellanza Musulmana in particolare.

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Colti anch‟essi alla sprovvista dalla rapida dinamica degli eventi, i movimenti islamici non

hanno partecipato alle prime fasi delle rivolte e delle proteste idealmente localizzate sulla

grande Piazza Tahrir, ma hanno saputo ugualmente muovere le grandi e ben organizzate

strutture del proprio movimento in tempi relativamente rapidi.

Ingrossando in tal modo enormemente le fila dei rivoltosi, ma cambiando rapidamente la

fisionomia della protesta con l‟introduzione degli slogan e delle istanze di movimenti a

lungo tenuti al di fuori del normale ambito politico nazionale.

La Fratellanza Musulmana, a differenza dei movimenti giovanili laici, ha potuto contare su

una poderosa logistica organizzativa su tutto il territorio nazionale, una ben più chiara e

lineare struttura di vertice, e sul radicamento di una larghissima base di simpatizzanti ad

ogni livello della società egiziana.

I gruppi laici ed intellettuali della protesta, al contrario, hanno pagato lo scotto della propria

natura acefala e priva di una linea di comando, dove i personalismi e il correntismo hanno

in breve tempo portato a fratture e, più in generale, alla perdita di una linea di indirizzo.

Ciò ha confuso la massa, facendo optare una larga parte della società egiziana in

direzione dei movimenti e delle organizzazioni più strutturate.

Hanno quindi, di fatto, trionfato sulle ceneri dell‟attivismo giovanile di Piazza Tahrir i partiti

confessionali e quelli di matrice ideologica nasseriana, grazie alla loro capacità di

attrazione costruita sulla solidità delle strutture e sulla chiarezza dei messaggi diretti

all‟opinione pubblica.

Uno smacco per i molti giovani che avevano creduto nello spirito laico inizialmente

trionfante nelle strade e nelle piazze, ma al tempo stesso una straordinariamente grave

leggerezza nella conduzione delle attività pubbliche, dimostrando di aver trascurato ogni

più banale aspetto del coordinamento di base e della condivisione degli obiettivi.

Se, quindi, alla fine i partiti confessionali e quelli di matrice politica tradizionale sono

risultati vincitori nella dinamica di cambiamento del paese, questo è stato possibile non in

virtù di un colpo di mano da parte di pochi, ma per la presenza di una vasta parte della

società nelle dinamiche di rivolta – e quindi non solo i giovani e gli intellettuali – e per la

miglior capacità organizzativa e logistica della Fratellanza Musulmana.

Un errore di interpretazione che ha stupito l‟Occidente, impedendo di concepire in tempi

rapidi una efficace e credibile politica di relazione con i nuovi vertici del potere egiziano.

Appoggiandosi incautamente sul vecchio baluardo delle forze armate, senza capire che in

questo ambito le dinamiche del potere erano mutate e destinate a profonde

trasformazioni.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 30

L’illusione di una rivoluzione mancata e la gestione del disordine

L‟illusione di un cambiamento rivoluzionario in Egitto, successivamente all‟uscita di scena

di Mubarak, e della possibile evoluzione in chiave democratica del paese con un ruolo

subordinato delle forze militari, è durato lo spazio di poche settimane.

Il perdurare delle agitazioni, e non ultimo l‟incremento della violenza in alcuni ambiti urbani

dell‟Egitto settentrionale, sono stati l‟elemento più visibile e marcato del come una vasta

componente della società abbia chiaramente percepito la continuità del sistema transitorio

con il regime del deposto presidente. Innescando un meccanismo di protesta per impedire

una cristallizzazione della situazione ed un ritorno nei posti chiave della politica e

dell‟economia egiziana di esponenti civili e militari, espressione dell‟establishment

tradizionale.

Chi protestava, di fatto, non si è accontentato dell‟uscita di scena di Mubarak, e

domandava riforme di ben più ampio respiro, che i militari non sembravano tuttavia

intenzionati a concedere, creando nuovamente le condizioni per una frattura con la società

civile e, soprattutto, con la variegata ed eterogenea dimensione della comunità islamica

locale.

Ha serpeggiato per mesi tra la folla la voce secondo la quale sarebbero gli uomini

dell‟intelligence egiziana ad aver provocato i disordini che hanno visto contrapposte le

comunità musulmane e cristiane, provocando numerosi morti e feriti, con l‟intento di

spostare sul piano religioso la protesta contro il ruolo delle forze armate e le mancate

riforme. Sebbene le società arabe siano tradizionalmente propense alla diffusione di

visioni cospirazioniste, in questo caso non è da escludere che effettivamente si siano

determinate dinamiche artificiali atte a provocare ampie conflittualità tra le varie anime

della società egiziana. Molti elementi portano a sospettare il coinvolgimento degli uomini

della sicurezza interna nella gestione dei disordini di piazza, nel probabile perseguimento

di un disegno la cui logica non è sfuggita alla stampa ed alle molte organizzazioni laiche e

religiose sorte nell‟ambito delle proteste che hanno caratterizzato la vita politica e sociale

del paese.

Molti, in Egitto, hanno quindi apertamente sospettato che i resti del vecchio apparato

militare e di intelligence fedele a Mubarak, avessero posto in essere una preordinata

azione finalizzata a favorire il diffondersi di una diffusa instabilità – condizione prodromica

per un più incisivo ruolo dell‟esercito e delle forze di polizia – che potesse favorire la

separazione degli interessi della media borghesia rispetto a quelli delle masse in protesta,

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e che soprattutto esaltasse il rischio di una deriva religiosa negli scontri. Allarmando in tal

modo la comunità internazionale e cercando di sviluppare consenso intorno alle uniche

istituzioni capaci di limitare la portata dei problemi sul terreno: le forze armate.

In questo clima, quindi, si andava a maturare la fine del potere centrale politico

dell‟apparato militare – almeno nella misura in cui aveva gestito il paese sotto il

precedente regime – e l‟ascesa della Fratellanza Musulmana quale principale forza politica

organizzata del paese.

Il 19 marzo del 2011, con il 77,2% di “si”, passava il referendum sulle riforme

costituzionali, con il quale, in modo particolare, venivano modificati gli artt. 60 (le elezioni

ed i referendum sono supervisionati da commissioni composte da giudici), 76 (garantendo

la possibilità di elezioni aperte a più candidati presidenziali, non più necessariamente

membri del Partito Democratico Nazionale, ma anche solo sostenuti da parlamentari eletti

o da 30.000 votanti in almeno 15 province), 77 (mandato presidenziale fissato per un

massimo di quattro anni e limitato ad un massimo di due mandati consecutivi), 93 (La

Corte Suprema non potrà più giudicare sulla validità dei deputati), 148 (limitazione dei

poteri del Presidente nella proclamazione dello stato di emergenza, che dovrà adesso

essere sottoposto a referendum se superiore a sei mesi), 179 (il Presidente non ha più la

facoltà di sospendere le libertà civili ed i diritti politici), e 189 (obbligo di costituire

un‟assemblea di 100 parlamentari per redigere una nuova stesura della Costituzione entro

sei mesi dalle elezioni).

L‟elemento più significativo della riforma è rappresentato dalla competizione pluripartitica

per la conquista dei seggi in Parlamento, e per l‟elezione del Presidente, che apriva quindi

le porte ai candidati provenienti da qualsiasi partito che abbia almeno un seggio

parlamentare o da candidati con almeno 30.000 voti in 15 province.

Con il voto al referendum sono usciti manifestamente sconfitti i due candidati Amr Moussa

e Mustafa Mohamed el Baradei, che avevano annunciato in precedenza di volersi

candidare alle prossime elezioni presidenziali come indipendenti (di fatto quindi

confermando la loro opposizione al referendum del 19 aprile, che invece regolava

diversamente la possibilità di candidarsi).

Chi usciva trionfante dal referendum era quindi l‟apparato militare, che ne fu il promotore e

l‟artefice nell‟intento di trovarsi avvantaggiato nel poter organizzare una rosa di propri

candidati in seno al Partito Nazionalista Democratico.

Si schierò tuttavia a favore del referendum anche la gran parte dell‟eterogeneo complesso

di forze della Fratellanza Musulmana, consci del fatto che alle future elezioni, grazie alla

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 32

loro organizzazione capillare sul territorio, avrebbero in ogni modo goduto di notevoli

vantaggi rispetto alle forze laiche ed a quelle movimentiste giovanili.

Questa combinazione di interessi ha suscitato le proteste di molti indipendenti,

alimentando il sospetto – peraltro non peregrino – di un accordo segreto tra militari e

Fratellanza Musulmana per conquistare la maggioranza assoluta del Parlamento alle

elezioni, e dando vita in tal modo ad una nuova e proficua alleanza per la continuità del

vecchio sistema di potere, semplicemente allargandolo alla sfera politica religiosa.

Eccessivo risalto venne dato poi dalla stampa occidentale al rifiuto di procedere con la

modifica dell‟art. 2 della Costituzione, lasciando quindi valido il principio in base al quale la

religione musulmana resta la fonte primaria di ispirazione per la legge. Tale aspetto è stato

giudicato come la manifestazione di una vittoria delle forze della Fratellanza Musulmana,

mentre al contrario si è trattato di una precisa scelta della componente militare per

continuare a poter legiferare attraverso uno strumento dogmatico difficilmente contestabile

in sede politica.

La natura politica ed economica del conglomerato militare

Le forze armate egiziane, oltre che una componente militare tradizionale, sono state – e in

una certa misura ancora sono – un conglomerato potentissimo di interessi economici ed

industriali, sia nell‟industria prettamente dedicata alle necessità militari, sia – e soprattutto

– nei lucrosi segmenti dei beni di largo consumo, delle attività immobiliari ed infrastrutturali

e della gestione delle attività turistiche.

Tali interessi sono condivisi con la componente economica ed industriale civile del paese,

perlopiù articolata intorno ad alcuni potentissimi magnati, sorti e cresciuti nell‟ambito del

sistema creato in passato da Mubarak. È quindi evidente come la comunione di interessi

spinga entrambe le forze in direzione di una continuità del sistema politico ed economico

locale, favorendo trasformazioni fittizie e di facciata che non abbiano effettive prerogative

di cambiamento e che soprattutto impediscano lo sviluppo di un sistema di mercato libero

e competitivo.

Non esiste una stima precisa circa il valore economico del sistema controllato dalle forze

armate, sebbene alcuni analisti lo pongano tra il 35 ed il 45% dell‟intero valore

dell‟economia egiziana. Un dato che, anche approssimato per difetto, rende l‟idea degli

interessi che ruotano dietro ai vertici del Consiglio Supremo delle Forze Armate, e che

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spiega chiaramente perché, nel negoziato con le tante ed eterogenee nuove forze che si

affacciano sul piano politico egiziano, i militari pongano paletti chiari e significativi.

Tra questi, i principali vertono sul rifiuto di qualsiasi proposta di privatizzazione

dell‟industria militare, di trasferimento del controllo ad organismi diversi dal Ministero della

Difesa, e, non ultimo, di limitazione della capacità di espansione.

A chiedere l‟avvio di un processo di liberalizzazione è quindi la piazza, sebbene in

maggiore misura quella dei grandi centri urbani del delta del Nilo piuttosto che quella delle

realtà periferiche del paese. Non deve infatti essere trascurato il fattore occupazionale

generato dall‟industria sotto il controllo militare, e l‟interesse degli occupati a proteggere

ambiti industriali che in alcuni casi – come la produzione di beni e servizi per le forze

armate – non resisterebbero alle logiche del mercato liberalizzato e concorrenziale.

Le elezioni e il trionfo – parziale – della Fratellanza Musulmana

Dopo un braccio di ferro durato mesi tra le forze politiche egiziane emerse nel corso delle

prime elezioni parlamentari libere, e il Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF),

quest‟ultimo prese la decisione di sciogliere il Parlamento il 15 giugno del 2012, motivando

la decisione con la necessità di provvedere a nuove elezioni che tenessero conto dei non

pochi mutamenti legislativi intervenuti successivamente al voto, e che rendevano

illegittima l‟esclusione di numerosi candidati dalle liste elettorali.

Il Consiglio di Stato, infatti, aveva segnalato come la legge elettorale, più volte emendata

nel corso dell‟anno da parte dello SCAF, avesse di fatto fortemente penalizzato la

candidatura degli indipendenti rispetto a quelli delle liste di partito, chiedendo la revoca del

voto dello scorso ottobre.

Il 15 giugno, quindi, un imponente schieramento di forze militari aveva circondato il

Parlamento, impedendo ai parlamentari di accedere all‟interno e disperdendo la folla di

manifestanti che nel frattempo si era riversata nelle strade per protestare.

Avevano vivamente protestato contro la dissoluzione del Parlamento, definendo la

manovra senza mezzi termini come un “golpe bianco”, sia l‟organizzazione laica del

Movimento 6 aprile - che fu tra i principali artefici della rivolta di piazza Tahrir – sia quella

islamista del partito Libertà e Giustizia, direttamente riconducibile alla Fratellanza

Musulmana. Entrambe rivendicando la validità delle elezioni che avevano insediato la

camera bassa, e invitando gli egiziani a riconoscere il diritto dei parlamentari di esercitare

il proprio ruolo.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 34

La protesta, tuttavia, venne anche innescata in conseguenza di alcuni emendamenti

costituzionali, adottati surrettiziamente dallo SCAF e volti a limitare enormemente i poteri

del futuro presidente della Repubblica egiziana. Questi emendamenti, che di fatto

reintroducevano una sorta di legge marziale, assegnavano allo SCAF il potere legislativo,

il controllo sulle leggi di bilancio, la difesa, la sicurezza interna e il potere di veto sulla

nuova costituzione.

L‟emendamento costituzionale adottato dallo SCAF aveva certamente scarse possibilità di

essere accettato dall‟opinione pubblica egiziana, che apertamente accusava il vertice

militare nazionale di aver orchestrato la manovra nel momento in cui era apparso

chiaramente il predominio delle forze islamiste su quelle laiche, nel tentativo in extremis di

mantenere un potere che il popolo egiziano non era più disposto a voler negoziare con i

militari.

Si dovettero tuttavia arrendere all‟evidenza del cambiamento in atto, al vertice dello Scaf, il

31 maggio del 2012, dopo trent‟anni, venne revocato finalmente lo “stato d‟emergenza”.

In tale clima, quindi, si sono tenute le prime elezioni presidenziali libere del paese (primo

turno il 23 e 24 maggio del 2012, e secondo turno il 16 e 17 giugno) che hanno decretato

la vittoria del candidato espresso dalla Fratellanza Musulmana Mohammad Mursi, contro il

candidato espresso dall‟apparato militare Ahmad Shafiq.

Il grande sconfitto delle presidenziali è stato invece l‟ex segretario della Lega Araba, Amr

Moussa, mentre ha sorpreso il brillante risultato dell‟ala nasseriana rappresentata dal

candidato Hamid Sabbahi, che ha ottenuto quasi 5 milioni di voti facendo chiaramente

comprendere come la società egiziana sia alla fine spaccata in due metà sostanzialmente

eguali. L‟una essenzialmente laica e di ispirazione fondamentalmente nasseriana e pro

Forze Armate, l‟altra di ispirazione religiosa, a maggioranza progressista e moderata, di

orientamento vicino alla Fratellanza Musulmana.

Sebbene trionfatrice, la Fratellanza Musulmana ha confermato di essere il punto di

riferimento di una componente confessionale del paese alquanto eterogenea e spesso

conflittuale. Questo a dispetto delle valutazioni occidentali che tendono a dipingerla come

una struttura monolitica, verticista ed omogenea, priva di ogni capacità autonoma ed

indipendente di pensiero al suo interno.

Il candidato ufficiale della Fratellanza, Mohamed Mursi, emerso al primo posto per numero

di preferenze, è in realtà una scelta di ripiego in seno all‟organizzazione, che lo ha

preferito a Khairat al Shater, vero candidato “forte”, per dare un segnale distensivo alla

comunità internazionale e attirare anche il voto dell‟elettorato moderato–progressista.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 35

Shater resta, comunque, un esponente di spicco della Fratellanza, di cui è il responsabile

finanziario e, dal 1995, membro del Consiglio di Guida, organo di governo del movimento.

Abdel Moneim Abu al-Foutouh è certamente il candidato dell‟area islamica con il maggior

profilo culturale. Già membro della Fratellanza Musulmana, venne da questa espulso dopo

aver annunciato di volersi candidare alle elezioni presidenziali autonomamente,

allorquando la Fratellanza aveva comunicato di non voler presentare propri candidati.

Il candidato islamico indipendente Mohammad Salim al-Awa, infine, è un avvocato oltre

che un noto esponente intellettuale di posizioni relativamente moderate. Di ispirazione

fortemente liberista in campo economico, ha manifestato in più occasioni una tendenza

alquanto moderata anche sui grandi temi della politica internazionale e regionale.

Dopo un‟iniziale intenzione di boicottaggio delle elezioni, il Consiglio di Guida della

Fratellanza Musulmana aveva sostenuto la volontà di presentarsi al voto con un solo

candidato, indicando all‟uopo Mohamed Mursi.

Mursi ha quindi saputo incarnare e rappresentare l‟anima maggioritaria dell‟elettorato di

ispirazione religiosa, tradizionalmente moderato, ostile alle logiche verticiste e settarie

imposte dal sistema militare di Mubarak, e desideroso di un governo dettato da principi

etici di ispirazione islamica.

Questa componente è del tutto distinta rispetto a quella di orientamento salafita,

decisamente minoritaria, e promotrice di una visione più radicale del rapporto tra religione

e Stato, dove l‟unica fonte giuridica ed organizzativa dovrebbe essere impostata sui

principi della Sharia. Che deve quindi, nella sua, rappresentare il presupposto di

interpretazione delle leggi, e non semplicemente un criterio ispiratore.

Fin dall‟avvio del mandato presidenziale, quindi, è apparso con tutta evidenza come il

quadro delle alleanze e delle inimicizie di Mohammad Mursi si presentasse estremamente

delicato e particolare.

Se da un lato, infatti, gli avversari tradizionali del presidente sono identificabili nell‟area

politica di ispirazione laica e più vicina alla Forze Armate, è altrettanto vero che anche la

componente conservatrice in seno all‟ala religiosa, e in modo particolare i gruppi salafiti,

vedono con sospetto la moderazione di Mursi e il sistematico rifiuto ad insistere in

direzione di una più stringente aderenza ai principi della Sharia in ambito costituzionale.

Un rifiuto non compreso dai più, nel campo delle forze radicali, e anzi spesso frainteso

come un tradimento dei valori che hanno ispirato il progresso politico e sociale della

Fratellanza Musulmana nel corso dei tanti anni di oppressione e chiusura sotto il regime di

Hosni Mubarak.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 37

1.7 Evoluzione del quadro politico in Egitto

Mursi e il vertice militare egiziano

Mohammad Mursi ha ben calcolato sin dall‟inizio della campagna politica presidenziale la

necessaria strategia per la gestione del delicato rapporto con il vertice delle Forze Armate.

Un passo avventato, all‟inizio dell‟avventura politica della Fratellanza Musulmana, avrebbe

comportato probabilmente l‟adozione di una politica di chiusura e un irrigidimento da parte

dello Scaf, con conseguenze che avrebbero potuto spaziare dal ritorno all‟autoritarismo

militare, sino alla deflagrazione della violenza di piazza.

Al contrario, invece, la strategia della Fratellanza è stata impostata all‟adozione di un

programma cooperativo e non conflittuale, sempre alla ricerca di posizioni di

compromesso e, soprattutto, di costante rassicurazione dell‟apparato militare e del suo

ampio settore di interesse economico.

La Fratellanza Musulmana, in sintesi, ha esordito sulla scena politica egiziana attraverso

l‟adozione di una sorta di alleanza con l‟esercito, gestendo in modo assolutamente

cooperativo la difficile ed alquanto instabile fase della caduta di Mubarak. Fingendo di

ignorare il legame che continuava a legare l‟ex rais con il vertice dello Scaf, la protezione

di cui questi godeva e lo speciale status di detenzione.

La Fratellanza Musulmana comprese immediatamente come la reale priorità delle Forze

Armate non fosse quella della continuità del regime di Mubarak, bensì la continuità del

sistema di controllo dell‟apparato militare sulla politica egiziana e sulla propria sfera di

rilevantissimi interessi economici.

Fece quindi in modo da lasciar intendere allo Scaf che le intenzioni del partito islamico non

fossero quelle di mutare lo status quo, ma solo di ampliarlo con l‟inclusione delle legittime

aspettative di chi era emerso trionfatore nella rivolta che aveva provocato la fine del

regime di Mubarak.

Consapevole del rischio derivante da uno scontro frontale in sede pre-elettorale, Mursi ha

saputo digerire ogni tentativo di restaurazione da parte del Supremo Consiglio delle Forze

Armate, e soprattutto i tentativi di emendare la Costituzione in favore di una continuità del

ruolo e del potere dei militari, attendendo che i tempi fossero maturi per una rivincita

concreta, sostanziale e duratura.

Al tempo stesso, la rete della Fratellanza Musulmana iniziava un laborioso lavoro di

indagine sugli esponenti della seconda fascia di comando dell‟apparato militare,

raccogliendone il malcontento e le frustrazioni, ed individuando all‟interno di questa

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cerchia gli individui dotati di carisma e del necessario coraggio per affrontare un processo

di sostituzione generazionale.

Facendo leva sulla necessità di combattere la corruzione al vertice del sistema militare, al

fine di agevolare l‟incremento dei salari e degli investimenti per l‟intero settore della Difesa,

la Fratellanza Musulmana è riuscita a fare breccia in alcuni significativi comparti del

sistema militare, conquistandosi così la garanzia di un appoggio al programma di

sostituzione dei vertici iniziato con il siluramento del Maresciallo Mohammed Hussein

Tantawi ai primi di agosto del 2012.

Un siluramento che ha stupito tutti, e in primis i vertici stessi dello Scaf. Mursi ha infatti

agito in modo rapido ed estremamente coraggioso, giocando una carta che sino a poche

settimane prima sarebbe sembrata impossibile ai più, e forse avrebbe provocato una

reazione ben diversa tra i vertici militari.

Mursi non ha islamizzato le Forze Armate, ben conscio della difficoltà di poter fare breccia

all‟interno del settore militare agendo sulla leva confessionale. Ha semplicemente intuito la

presenza di un diffuso malessere, sedimentato negli anni e maturato in direzione di una

netta e decisa opposizione ai vertici legati al precedente regime. Che, agli occhi dei

militari, aveva trasformato l‟apparato militare in uno strumento imbelle, corrotto e

sedentario, senza più identità, orgoglio e dignità.

Il malessere tra i militari è fortemente cresciuto nel corso degli anni. La giunta al vertice del

settore ai tempi di Mubarak ha investito molto poco nel rinnovamento degli

equipaggiamenti e nella gestione del personale, consolidando al contrario il potere

economico dell‟enorme apparato industriale della Difesa e la sua sempre più ristretta

redistribuzione dei proventi nell‟ambito della cerchia apicale del comando. Insieme di

fattori che, unitamente alla sempre più instabile situazione nella regione e soprattutto nel

Sinai, ha contribuito a generare un forte sentimento di malessere all‟interno delle Forze

Armate.

Questa concatenazione di fattori ha di fatto privato i militari di rango intermedio e più

basso della loro dignità, del loro prestigio e del loro ruolo, bloccato al vertice da un sistema

clientelare che manipolava artificialmente ogni percorso professionale e alimentava la

proliferazione di gruppi e consorterie di potere ben più interessate alla dimensione

economica dell‟apparato, piuttosto che alla sua originale vocazione.

Mursi ha rimosso quindi senza colpo ferire non solo il Maresciallo Tantawi, ma anche il

Capo di Stato Maggiore dell‟Esercito Sami Hafez Enam, e i tre capi di Stato Maggiore di

Aeronautica, Difesa Aerea e Marina Militare. Lo ha potuto fare perché l‟epurazione era

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stata di fatto negoziata con i quadri intermedi delle Forze Armate, che non si sono opposti,

né tantomeno hanno permesso alcuna protesta in seno ai propri ranghi.

Così facendo, non ha islamizzato le Forze Armate come da più parti è stato scritto sulla

stampa occidentale. Ha al contrario restituito ai militari la dignità agognata. Li ha riportati

sul terreno e ha chiesto loro di fare il lavoro per il quale sono stati addestrati e per il quale

vengono pagati. Riportandoli ad una dimensione operativa che sembrava svanita da anni,

e che ha galvanizzato i comandanti più giovani, perlopiù espressione di una componente

politica del tutto estranea alla cultura e al rapporto con la Fratellanza Musulmana.

Ciò che i militari più giovani desideravano da tempo, ben prima dell‟arrivo al potere della

Fratellanza Musulmana, era un rinnovamento del quadro di comando della Difesa e un

piano strategico per ridare credibilità all‟immenso quanto screditato apparato militare.

Una richiesta di investimenti, quindi, per la crescita della capacità operativa ma anche per

ristabilire il ruolo e i privilegi un tempo riconosciuti ai militari dalla società egiziana.

Tuttavia, Mursi è riuscito ad azzerare il vertice delle Forze Armate, ma non a modificare il

sistema della Difesa nella sua interezza. Che resta sempre e comunque espressione di

una sorta di casta fortemente ancorata non solo ai non pochi privilegi concessigli nella

società egiziana, ma soprattutto all‟immenso patrimonio economico ed industriale che

chiaramente i militari non hanno alcuna intenzione di cedere.

La sicurezza dei confini e la strategia politica del Sinai

Nell‟agosto del 2012, cogliendo l‟occasione offerta da un attentato a ridosso del confine

israeliano, e per il quale una parte della stampa israeliana aveva accusato l‟Egitto di

scarsa cooperazione lungo la linea di frontiera, Mursi ha inviato – con il beneplacito di Tel

Aviv – un consistente rinforzo di truppe sulla penisola del Sinai. Conseguendo in tal modo

due risultati.

Il primo è stato quello di dimostrare ad Israele, ma ancor più alla comunità internazionale,

la volontà del nuovo Egitto di cooperare alla sicurezza regionale nel rispetto degli accordi

di Camp David e, più in generale, della linea che ha caratterizzato la politica estera e di

difesa egiziana negli ultimi vent‟anni. Smorzando le polemiche strumentalmente diffuse

circa una nuova attitudine imposta dalla Fratellanza Musulmana, ed ottenendo di non

interrompere i flussi di finanziamento di settore garantiti dagli Stati Uniti all‟Egitto.

Il secondo ha avuto invece un poderoso impatto nel quadro della politica interna egiziana,

concedendo alle Forze Armate di poter tornare ad una operatività sul terreno a lungo

agognata, e dimostrando ai nasseriani la capacità del governo di saper fare in breve

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tempo una concreta politica militare nel Sinai. Come a lungo richiesto non solo dai militari,

ma anche dall‟ampia fascia di sostegno politico del partito di Sabbahi.

La Fratellanza Musulmana ha inoltre colto l‟occasione dell‟attentato al posto di controllo

lungo la frontiera per alimentare la polemica contro i vertici delle Forze Armate, accusati di

concentrarsi sulle necessità politiche della propria compagine e di aver trascurato la

sicurezza dei confini nazionali. Di fatto addebitando a Tantawi la responsabilità politica

dell‟episodio, e al trattato di Camp David quella pratica.

A queste accuse hanno reagito con fermezza gli ultimi esponenti del sistema di potere

militare determinatosi sotto il regime di Mubarak, che per alcuni giorni sono riusciti a

contrattaccare Mursi, accusandolo di immobilismo e simpatie verso i movimenti integralisti

responsabili della strage. Circostanza che ha impedito a Mursi di presenziare il 7 agosto

alle esequie ufficiali dei sedici militari caduti sul Sinai.

Il giorno successivo, tuttavia, Mursi ha silurato inaspettatamente – e senza particolari

clamori – Murad Mowafi, successore di Suleiman al vertice dell‟intelligence, insieme al

Capo della Polizia Militare e della Milizia Territoriale del Cairo, sostituendoli con ufficiali più

giovani e semisconosciuti nel sistema della Difesa egiziana. Concludendo l‟opera il 12

agosto con la rimozione di Tantawi e dei quattro capi di stato maggiore dell‟esercito, della

marina, dell‟aeronautica e della difesa aerea.

Ma il vero e definitivo colpo mortale al vecchio establishment militare è stato sferrato pochi

giorni dopo, il 17 agosto, quando è stata annunciata in un messaggio televisivo la revoca

dell‟emendamento costituzionale attuato dallo Comitato Supremo il precedente 17 giugno

(quello relativo alla limitazione dei poteri del Presidente) e il contestuale passaggio al

Presidente di alcuni poteri un tempo in capo allo SCAF (potere legislativo in assenza del

Parlamento, nomina e revoca dei vertici militari).

La nomina di un quadro più giovane e motivato di ufficiali, e la contestuale attivazione di

numerose unità militari dispiegate nel Sinai, ha permesso a Mursi di gestire la radicale

epurazione delle Forze Armate senza provocare la benché minima protesta all‟interno del

sistema militare. Che, al contrario, fortemente motivato dalla ritrovata operatività, sembra

aver concesso un largo credito di fiducia al presidente.

L‟eccidio dei militari egiziani nel Sinai, quindi, ha permesso a Mursi di operare una

imponente rivoluzione nel sistema della Difesa e della politica estera nazionale,

accelerando il programma di marcia già impostato in sede di pianificazione politica dalla

Fratellanza Musulmana.

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Quella che Israele vede e denuncia come una minaccia di crescente misura per la propria

sicurezza e quella della regione, tuttavia, è al contrario più un affare di politica interna.

Con riflessi sulla politica estera, ma solo nella misura in cui il nuovo esecutivo intende dare

all‟opinione pubblica egiziana un chiaro e deciso segnale di inversione di rotta.

Dal governo Qandil alla crisi di Mursi

Il 24 luglio del 2012 Hisham Qandil è stato nominato alla guida di un governo tecnocratico,

con il gravoso compito di traghettare l‟Egitto al di fuori dell‟esperienza autocratica e

verticista del regime di Mubarak, di ridurre la conflittualità sociale e, soprattutto, di

rilanciare l‟economia egiziana.

L‟economia, primo e vero grande problema sul tavolo politico del governo, è gravata dal

rallentamento nelle due principali sorgenti di produzione del reddito nazionale, il turismo e

gli investimenti diretti dall‟estero, che hanno provocato un vistoso calo nelle riserve di

valuta straniera, alimentando la disoccupazione e un progressivo malcontento popolare.

Dopo l‟entusiasmo iniziale per la vittoria del partito islamico, Mursi ha dovuto confrontarsi

rapidamente con i problemi del paese, e con le endemiche difficoltà dell‟economia

egiziana, dove oltre il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, e dove

lo Stato è chiamato a fungere da calmieratore dell‟economia attraverso una intensa

politica di sussidi sui beni di prima necessità.

Il piano politico di Mursi, definito ambiziosamente come “rinascimento”, ha quindi dovuto

misurarsi con i limiti di una struttura economica, amministrativa e infrastrutturale assai

complessa e degradata, afflitta dalla corruzione ad ogni livello, e dove scarse sono le

possibilità di conseguire risultato in tempi brevi. E men che meno nei “primi cento giorni” di

governo come si era riproposto Morsi.

Ha cavalcato l‟onda del dissenso, quindi, l‟opposizione, denunciando l‟incapacità del

presidente ed accusandolo del tentativo di “islamizzare” l‟Egitto nel perseguimento dei

suoi obiettivi politici. Accusa di scarso fondamento, ma che ha avuto larga eco nell‟ambito

di una folla in parte pilotata ideologicamente e dall‟altro realmente insoddisfatta dalla

scarsa capacità del governo di produrre gli ambiti cambiamenti.

Tra le altre accuse mosse al presidente Mursi, poi, c‟è quella di aver imposto al

Parlamento la valutazione di una bozza costituzionale redatta in fretta e caratterizzata da

un forte carattere islamico, con evidenti elementi contrari alla legge e alla tutela dei diritti

umani. Accuse perlopiù pretestuose, anche in questo caso, ma facilmente alimentate e

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diffuse grazie al crescente malcontento popolare derivante dalla crisi economica e dai

sempre peggiori dati occupazionali. Vero elemento di crisi del paese e della sua società.

Un errore di catastrofiche dimensioni, invece, è stato quello con il quale Mursi ha decretato

un ampliamento dei poteri del presidente, sottraendo potere di intervento alla

magistratura, circa l‟irrevocabilità delle decisioni presidenziali.

Il provvedimento, nato dall‟esigenza di arrivare all‟approvazione della Costituzione in tempi

rapidi e concludere in tal modo la prima delicata fase di trasformazione politica e

istituzionale, ha in ogni caso carattere temporaneo. Questo aspetto, tuttavia, è stato

volontariamente occultato dalle opposizioni, che hanno quindi denunciato Mursi del

tentativo di imporre una nuova forma di autoritarismo, simile a quella del passato regime,

scatenando una serie di proteste di piazza che ha visto dopo quasi due anni i tank

dell‟esercito tornare per strada a difesa dei principali palazzi politici della capitale8.

Dopo mesi in cui le attività di piazza sembravano essere cessate a favore di un processo

di stabilità e di ripresa della coesione sociale, un gran numero di attività politiche e di

dimostrazioni di piazza hanno scosso nuovamente la citta del Cairo e alcuni altri centri

dell‟Egitto settentrionali, facendo piombare nuovamente il paese nella condizione in cui si

trovò meno di due anni fa con l‟avvio della poderosa protesta contro il presidente

Mubarak.

Nuove, quanto improbabili, coalizioni si danno quindi appuntamento oggi nelle piazze,

unite temporaneamente dal malcontento verso l‟amministrazione politica della Fratellanza

Musulmana, ma senza una propria capacità propositiva, consapevolmente ignorando in

modo strumentale gli oggettivi limiti della struttura economica e sociale egiziana.

La prima bozza costituzionale, diffusa il 10 ottobre scorso, riprende largamente la Legge

fondamentale del 1971 – la stessa che vigeva negli anni di Mubarak – e non sono quindi

presenti sostanziali modificazioni di ispirazione islamica o contrarie ai diritti umani, come

lamentato dalle opposizioni. Se una critica, anzi, può essere mossa alla bozza di

Costituzione, questa è proprio connessa alla scarsa capacità innovativa, poiché il

documento si basa sulle fondamenta del sistema precedente, e manca di una forza

trainante per il futuro.

Secondo il calendario del governo, la nuova costituzione dovrebbe essere approvata per

via referendaria entro dicembre 2012, al fine di consentire lo svolgimento di nuove elezioni

8 La tomba della rivoluzione egiziana?, di Lorenzo Kamel, Aspenia online, 6 dicembre 2012.

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legislative durante la prima metà del 20139. In uno stato democratico le elezioni

rappresentano solitamente una svolta politica e aprono la strada a nuove speranze.

Sembra tuttavia difficile, nell‟Egitto di Morsi, prevedere stabilità e chiarezza per un

prossimo futuro dal momento che i tre principali corpi della politica – islamici, liberali e

militari – non solo presentano profonde fratture al loro interno, ma potrebbero finire con il

creare un gioco triangolare destabilizzante. In tale contesto, un parlamento

rappresentativo della società egiziana del 2013 non potrà che essere un mosaico di

posizioni contrastanti, dalla dubbia efficacia.

Il governo della Fratellanza non gode del sostegno di tutto l‟elettorato religioso. La fede

non rappresenta un denominatore sufficientemente forte da unire la popolazione, poiché il

“voto islamico” si suddivide tra islamici di sinistra, salafiti, Fratelli Musulmani, jihadisti,

ciascuno con ideali e prospettive diversi, se non contrapposti. Ad esempio i salafiti, pur

essendo un agglomerato di gruppi privo di un leader comune, danno in generale

un‟interpretazione rigida e letterale dell‟Islam, e molti di loro si oppongono all‟eccessivo

“liberalismo” dei Fratelli Musulmani. Il dialogo politico avviatosi tra Ikhwan e Salafiti – che

insieme costituivano il 70% dell‟ultima Assemblea Generale – potrebbe rivelarsi un‟arma a

doppio taglio10. L‟influenza “letteralista” potrebbe rallentare la transizione democratica,

ripercuotendosi sulle scelte di governo (islamizzazione in politica interna, orientamento

anti-occidentale in politica estera) e su tutta la regione11. I Fratelli Musulmani, dal canto

loro, potrebbero cercare di attirare a sé parte dei consensi salafiti, accantonando però le

idee più moderniste e accettando maggiore ortodossia etica.

I partiti liberali e i movimenti moderati, di contro, devono necessariamente rafforzarsi e

compattarsi al fine di contrastare l‟ondata islamica, e presentare un‟alternativa politica.

Difficile, però, creare un unico blocco: basti pensare che in questa “anima non-islamista”

confluiscono anche i copti, minoranza cattolica, tradizionalmente avversa alla Fratellanza,

perseguitata dai salafiti, ma favorevole invece all‟impronta laica di Mubarak prima e del

Consiglio Supremo Militare poi, ovvero dei principali avversari dei liberali.

9 Il Parlamento è stato sciolto nel giugno 2012 su decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale. 10 Solo in Egitto alcuni gruppi salafiti hanno accettato il gioco parlamentare, facendo leva sull‟insoddisfazione popolare e attirando un elettorato deluso e conservatore. Gli omologhi in Yemen o Libia, invece, sposano la netta separazione tra religione e politica e si collegano piuttosto allo jihadismo qaedista. 11 Lo si è visto, del resto, con gli scontri avvenuti all‟Ambasciata USA del Cairo il 13 settembre 2012 dopo la pubblicazione del cortometraggio ritenuto blasfemo, di produzione americana, sul profeta Maometto.

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I militari, infine, non accetteranno di lasciare così facilmente il potere in mani civili. Ancorati

ai principali nodi dell‟economia nazionale, tenteranno di proteggere i loro interessi e la loro

immunità, pur rimanendo dietro le quinte. Sarà interessante monitorare dove confluirà quel

48% dell‟elettorato che a giugno 2012 ha sostenuto il candidato presidenziale dell‟esercito,

Ahmed Shafiq, considerando i militari non solo un fattore di ordine e stabilità ma anche

un‟utile barriera per contenere il potere degli islamisti.

In conclusione, ci si può chiedere se Morsi sia davvero rappresentativo della maggioranza

egiziana, come aveva dichiarato quando, salito alla presidenza, aveva lasciato le fila di

Libertà e Giustizia per divenire “il Presidente di tutti gli egiziani”.

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1.8 Le forze armate in Tunisia e in Egitto

Le forze armate tunisine

Le forze armate della Tunisia, costituite nel 1956, sono composte da un organico di circa

36.000 uomini, di cui 27.000 in forza all‟esercito, 4.000 all‟aeronautica e circa 5.000 alla

marina. A queste si aggiungono ulteriori 12.000 uomini delle forze paramilitari della

Guardia Nazionale.

Le forze armate sono ancora basate sul sistema della leva obbligatoria, che i cittadini di

sesso maschile sono chiamati ad adempiere (con eccezioni per permessi di studio e

lavoro, e sempre più per nepotismo) al compimento del ventesimo anno d‟età. Circa

27.000 giovani prestano servizio ogni anno per dodici mesi, nelle forze armate tunisine,

mentre sono circa 8.500/9.000 i militari (ufficiali e sottufficiali) in servizio permanente. Di

questi, il 60% è in forza all‟esercito ed il restante 40% equamente distribuito tra marina ed

aeronautica.

Le forze armate costituiscono un buon indicatore per la comprensione delle

diseguaglianze economiche e sociali del paese. I coscritti sono in larga misura provenienti

dalle aree centrali e meridionali del paese, mentre tra quelli della fascia costiera e del nord

è ben più rilevante l‟incidenza dei permessi di rinvio o dei congedi. La gran parte degli

ufficiali è invece riconducibile geograficamente alle aree più sviluppate del paese, e tra

loro non pochi sono espressione del sistema di potere dell‟establishment.

Le forze armate costituiscono quindi uno strumento non solo prettamente militare per la

difesa del paese e la partecipazione alle missioni internazionali, ma un vero e proprio

serbatoio sociale per contenere soprattutto in alcune aree i vertiginosi tassi di

disoccupazione.

La tradizione militare delle forze armate tunisine è riconducibile al modello militare

francese, del quale i tunisini sono stati prima parte e poi legati da comuni programmi di

formazione con la transizione coloniale.

Le forze armate egiziane

Le forze armate egiziane, con un totale di quasi 400.000 effettivi, sono le principali del

continente africano, e costituiscono uno dei pilastri del sistema di potere istituzionale del

paese.

La linea di comando riporta direttamente alla figura del Presidente, sebbene attraverso

una gerarchia di tipo tradizionale presieduta dal Capo di Stato Maggiore della Difesa.

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Le forze armate egiziane costituiscono in realtà un vero e proprio sistema organizzato, non

solo militare ma anche industriale, economico e sociale.

Le forze armate sono composte da personale in servizio permanente effettivo e personale

di leva, che serve per un periodo di circa due anni. Il personale di leva è arruolabile tra i

giovani di sesso maschile successivamente al compimento del 18° anno di età e sino al

30° in caso di rinvio. Quelli in possesso di un titolo di studio servono invece per un

periodo di un anno, e gli ufficiali di complemento restano poi a disposizione della Riserva.

Alle forze armate si sommano all‟incirca altre 400.000 unità di personale delle forze

paramilitari, soggette a mobilitazione e distribuite su una articolata struttura per certi versi

paragonabile alla Riserva di stampo occidentale.

Anche nel caso dell‟Egitto le forze armate rappresentano nella composizione della leva la

geografia delle disparità economiche e sociali del paese, costituendo peraltro un

importante elemento per il contenimento della disoccupazione.

Aspetto di non secondaria importanza è rappresentato dal potenziale economico ed

industriale delle forze armate. L‟apparato possiede infatti non solo un‟importante struttura

di produzione specializzata negli armamenti e nei materiali di supporto alla logistica

militare, ma anche una struttura industriale dedicata alla produzione di beni di largo

consumo, farmaceutici, elettronici, nonché allo sviluppo immobiliare soprattutto nelle aree

di maggiore interesse turistico.

Il ruolo politico delle forze armate in Egitto e in Tunisia

Le forze armate hanno sempre costituito un tassello importante nel sistema di potere

dell‟Egitto, sebbene una decisa crescita del loro ruolo si ebbe con la fine della monarchia

nel 1952 e l‟avvento dei governi repubblicani presieduti sistematicamente da ex ufficiali

delle forze armate. Sia Nasser che Sadat, e non ultimo Mubarak, hanno insediato nelle

istituzioni schiere di militari a loro fedeli, dando vita ad una vera e propria generazione di

uomini politici e tecnocrati di estrazione essenzialmente interna alla Difesa.

Le forze armate, quindi, sono diventate progressivamente la principale articolazione

politica ed economica del Presidente, con una marcata caratterizzazione politica ed

ideologica ed una forte connotazione nazionalista.

Plasmatesi sul campo nelle guerre con Israele, la sconfitta del 1967 portò ad un

complessivo ridimensionamento e ad una trasformazione dell‟intero apparato. Le forze

armate, e soprattutto l‟esercito, divennero con Sadat un sistema di potere fondato sul

controllo del potere politico ed economico dell‟Egitto, e l‟esperienza bellica del 1973 venne

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trasformata dal Presidente in una vittoria politica e nel riscatto dei militari dopo l‟onta della

sconfitta del 1967.

Sia Sadat che Mubarak intensificarono l‟azione di propaganda contro le forze di

opposizione, ed in particolare quelle di ispirazione religiosa, presentando le forze armate

come unico ed ultimo bastione contro l‟anarchia o l‟islamizzazione del paese.

Ciononostante, la penetrazione di elementi ostili al regime all‟interno delle forze armate ha

sistematicamente dimostrato come la sua matrice sociale alquanto eterogenea tenda ad

essere rappresentativa della complessa e variegata società egiziana. L‟assassinio di

Sadat, la rivolta dei cadetti delle Forze Centrali di Sicurezza nel 1986, ed altri episodi

minori, hanno ampiamente dimostrato come l‟apparato militare egiziano sia monolitico e

coeso solo nella sempre meno richiamata retorica nazionalista, costituendo invece in

termini pratici un articolato agglomerato di ceti sociali e posizioni politiche estremamente

differenti tra loro ed altamente rappresentative della demografia economica del paese.

Sotto la presidenza Mubarak, le forze armate hanno subito una ulteriore trasformazione,

diminuendo – sebbene in modo non sensibile – la propria rilevanza politica a favore invece

di una sempre maggiore capacità di controllo del vasto ed altamente redditizio settore

economico sotto il diretto controllo militare. Questo ha favorito lo sviluppo di una logica

altamente clientelare tra i ranghi militari ed un conseguente irrigidimento della sfera di

fedeltà al presidente, visto sempre più come arbitro delle fortune di settore e come garante

dell‟opulenta trasformazione della società militare egiziana.

Al contrario, in Tunisia, Bourguiba operò in funzione di una netta distinzione tra le forze

armate e la politica, di fatto estraniando queste ultime in modo quasi assoluto dal sistema

istituzionale centrale e rendendole sì un elemento di potere del Presidente, ma non un

centro di interessi autonomi. Il Presidente avocò a sé le prerogative del controllo e

dell‟esercizio, delle nomine e dell‟organizzazione, al fine di verticalizzare ed irrigidire la

linea di comando, senza tuttavia coinvolgere l‟apparato militare nella più ampia

dimensione istituzionale del paese.

L‟ossessione di Bourguiba era rappresentata dal modello nazionalista pan arabo di Nasser

in Egitto, e plasmò le forze armate quindi in modo speculare al modello egiziano,

epurandole dagli attivisti politici e religiosi e plasmando una gerarchia legata da un vincolo

di natura personale con il Presidente.

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In modo particolare, Bourguiba impedì alle forze armate di assumere alcun ruolo nel

sistema economico, rendendole anzi strettamente dipendenti dal potere centrale e

soprattutto da quello Presidenziale, e quindi particolarmente fedeli alla linea gerarchica.

La demografia delle forze armate tunisine ha sempre privilegiato l‟accesso di coscritti e

giovani ufficiali provenienti dalle aree più remote ed economicamente svantaggiate del

paese, mentre la componente della linea di comando è stata tradizionalmente espressione

della borghesia cittadina e costiera del paese. Questo ha determinato lo sviluppo nel corso

del tempo di una matrice culturale interna alle forze armate non necessariamente ostile

alle principali forze di opposizione al regime, storicamente quelle della sinistra marxista e

quelle di orientamento religioso. Trend continuato, ed anzi probabilmente ampliatosi,

anche sotto la successiva presidenza di Ben Ali, con una nuova generazione di ufficiali

formatisi all‟estero e con crescenti impieghi in teatri operativi per le missioni di

peacekeeping.

La variabile delle forze armate nel futuro di Egitto e Tunisia

In entrambi i paesi, le forze armate rappresentano il fattore chiave per il controllo della

sicurezza e della stabilità delle istituzioni. Sia in Egitto che in Tunisia le forze armate

hanno tuttavia di fatto deciso di non schierarsi apertamente con i presidenti da cui

dipendono o dipendevano, ed anzi si sono trasformate nel bastione per la difesa degli

interessi popolari e della protezione dalle forze di polizia, che al contrario hanno invece

risposto in tempi rapidi e con decisione – sebbene non a livello complessivo – alla

chiamata delle istituzioni contro le folle in protesta.

Sia i militari tunisini che quelli egiziani hanno dimostrato una grande disciplina e capacità

di controllo della situazione durante le rispettive crisi, impedendo il dilagare del caos e

soprattutto del potenzialmente pericoloso ruolo delle unità paramilitari scese a sostegno

dell‟establishment.

Sia i militari tunisini che quelli egiziani hanno poi di fatto rifiutato – in modo diretto i primi

ed indiretto gli altri – di obbedire agli ordini che sollecitavano una maggiore solerzia nel

ristabilire l‟ordine, adottando al contrario un comportamento cauto e pacato con la folla e

rifiutandosi categoricamente di avallare la spirale di violenza innescata da alcune

componenti delle forze di polizia o delle unità paramilitari.

Nessuna delle due forze armate era preparata per gestire una crisi di questa dimensione

ed ampiezza, e soprattutto per l‟Egitto il fattore di logoramento inizia a rappresentare una

variabile negativa e potenzialmente rischiosa.

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Entrambe le strutture poi, hanno dovuto sin da subito gestire i malumori nei propri ranghi

più bassi, ed in alcuni casi anche l‟aperto sostegno alle masse in protesta. Questo ha

comportato l‟immediata adozione di un atteggiamento profondamente cauto e bilanciato,

onde evitare di sperimentare un punto di rottura proprio nell‟ambito delle profonde e

variegate differenze sociali e culturali all‟interno della struttura militare.

Nel caso dell‟Egitto la più importante variabile oggi è quella della linea di continuità

espressa da vertici militari eletti però dalla Fratellanza Musulmana, che ha saputo

abilmente cavalcare il malcontento dei ranghi intermedi contro quelli superiori di nomina

precedente. Sostituendo senza colpo ferire questi ultimi e gratificando le forze armate con

una maggiore operatività sul Sinai e nella vita sociale del paese.

Nel caso della Tunisia, invece, le forze armate resteranno ancora a lungo a presidio della

sicurezza e della stabilità, ma non avranno con ogni probabilità alcun ruolo nella

definizione dei nuovi equilibri politici locali, destinati almeno sino ad oggi ad una

perpetuazione abbastanza corposa del precedente sistema di potere, e di una modesta ed

ancora indefinita apertura alle forze di opposizione.

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1.9 La crisi libica e la fine del regime di Gheddafi

La crisi libica ha avuto un esordio non dissimile da quello che ha provocato la caduta dei

regimi tunisino ed egiziano. Alcune proteste, spontanee e senza particolare strutturazione

ideologica, scoppiarono nella seconda settimana di febbraio del 2011 nella città di

Bengasi, anche in questo caso in segno di protesta per l‟arresto di un attivista dei diritti

umani.

Gheddafi, convinto di non temere alcun reale rischio, ma in ogni caso allarmato dalla

situazione nei paesi limitrofi, organizzò negli stessi giorni una serie di manifestazioni di

sostegno al suo regime in tutte le principali città del paese.

La violenza, tuttavia, non diminuì nella città di Bengasi, dove, anzi, il 17 febbraio si

registrarono scontri violenti, che provocarono la morte di numerosi manifestanti, in quella

che sarà ricordata come la “giornata della collera”.

Bengasi, storicamente dominata da forze ostili al rais e con una maggiore tradizione

islamista, si trasformò quindi nel principale centro della protesta e dell‟opposizione alla

continuazione del dominio di Gheddafi sulla Libia, allargando progressivamente all‟intera

Cirenaica la rivolta, sino a lambire Tripoli il 21 febbraio.

Conscio dell‟impossibilità di gestire gli eventi senza un uso spropositato della forza,

Gheddafi impartì quindi l‟ordine di colpire i ribelli con ogni tipo di armamento,

determinando un pericoloso rovescio nell‟impeto iniziale delle forze ostili al regime.

Iniziò in questo modo la guerra civile libica, con il progressivo prendere corpo di un‟autorità

politico-organizzativa delle forze ribelli, sotto il nome di Consiglio Nazionale di Transizione

(Cnt), e un‟aperta fase di ostilità in cui Gheddafi sembrò all‟inizio avere la meglio.

La fisionomia del conflitto, tuttavia, cambiò rapidamente corso. Nell‟arco di un breve

periodo di tempo, infatti, un gran numero di attori esterni interviene in modo più o meno

diretto nelle dinamiche della crisi, apertamente sostenendo le istanze dei gruppi in rivolta,

e segretamente trasferendo armi, munizioni, tecnologia e supporto logistico alle unità del

Cnt.

Spiccano, tra gli attori esterni, la Francia e il Qatar, impegnati in un sostegno alla rivolta

ben più ampio di quanto richiesto dalla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle

Nazioni Unite, e ben più incisivo di quanto la stampa si ostini al contrario a minimizzare.

Uomini delle unità speciali, contractor e specialisti nell‟uso di apparati elettronici per la

gestione delle telecomunicazioni arrivarono così in Cirenaica fornendo un poderoso aiuto

alle forze del Cnt, e lentamente cambiando il corso di quella riconquista del territorio che

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Gheddafi sembrava intenzionato a concludere in tempi brevi utilizzando la più pesante

delle mani.

L‟imposizione di una no-fly-zone da parte delle Nazioni Unite costituisce il presupposto alla

legittimazione di un intervento militare multinazionale internazionale a difesa del Cnt, che,

protetto dalla capacità offensiva dei lealisti, può quindi tornare all‟offensiva in direzione

della Tripolitania.

Le radici della rivolta, la sua trasformazione e la fine di Gheddafi

La rivolta contro il regime di Gheddafi non nacque dalla povertà o dal bisogno economico

dei libici. Al contrario della Tunisia e dell‟Egitto, dove la mala gestione del regime aveva

determinato l‟allargamento del divario sociale e la creazione di larghe sacche di povertà, la

crisi libica nasce essenzialmente da una esigenza di libertà e cambiamento delle giovani

generazioni locali.

Anche nel caso della Libia, il problema della sostituzione generazionale ha innescato la

miccia del cambiamento, incitando le generazioni più giovani a ribellarsi contro la logica

elitaria di regime, ma anche contro la consuetudine tribale e familiare della Libia, che da

secoli domina e regola non solo i rapporti politici, ma soprattutto quelli sociali.

Inizialmente, quindi, le proteste e gli scontri con le forze di polizia e della sicurezza

nazionale nascono dalla spontanea reazione della popolazione più giovane, e soprattutto

quella di Bengasi e della Cirenaica, storicamente regione ostile a Gheddafi e da questi

ricambiata con il più assoluto abbandono e carenza di infrastrutture.

Qualcosa mutò tuttavia, all‟esterno del paese, subito dopo la prima fase di esplosione

della violenza. Una chiara e manifesta volontà internazionale, riconducibile ad un novero

di paesi certamente ristretti ma estremamente motivati, guidati da Francia e Qatar, decise

di intervenire in modo deliberato e massicciamente organizzato per determinare la fine del

regime di Gheddafi.

Non solo una coalizione militare internazionale, cui prese parte anche l‟Italia, si arrogò il

diritto di intervenire per la gestione di una no-fly-zone sulla Libia, utilizzando

massicciamente le proprie forze aeree, ma venne deliberatamente agevolato l‟ingresso in

Libia di combattenti stranieri, di varia nazionalità, per fornire sostegno di terra alle forze

male addestrate ed equipaggiate del Cnt.

Tra queste unità, oltre a specialisti provenienti dalle forze speciali occidentali, si inserirono

con la complicità del Qatar e delle organizzazioni legate alle cellule salafite, un gran

numero di jihadisti con pregressa esperienza di combattimento in Iraq, Afghanistan,

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Yemen e Somalia. Con finalità e motivazioni diametralmente opposte a quelle della

coalizione internazionale e, paradossalmente, a quelle delle stesse forze del Tfg.

Gheddafi, vistosi abbandonato da alleati che sino a pochi mesi prima lo avevano accolto

ed onorato come un capo di Stato, non comprese tuttavia in tempi rapidi quanto la

situazione fosse ormai completamente fuori controllo. Cercò di giocare la carta del

nazionalismo e del tribalismo, lanciando proclami e cercando di consolidare la tradizionale

forma di alleanza delle tribù della Libia occidentale e meridionale. Perdendo però

progressivamente il controllo del territorio e vedendosi precludere ogni ipotesi di fuga, o di

cessione dignitosa del potere, già nelle prime fasi cruente della guerra civile.

Il sistema di potere su cui aveva costruito il suo dominio, quello delle tribù, si trasformò

paradossalmente nel principale meccanismo di opposizione al regime di Gheddafi. La

violenza, e le privazioni determinate dal conflitto, non poterono che ulteriormente

alimentare e accelerare la crisi del regime e la sua caduta.

Che, puntualmente, avviene tra il 20 e il 21 agosto del 2011, con l‟ingresso delle milizie

degli oppositori al regime a Tripoli, e la successiva caduta della città, alcuni giorni dopo.

Gheddafi riuscì a resistere, alla testa di poche unità lealiste superstiti, per circa due mesi

ancora, muovendosi costantemente nei villaggi ancora a lui fedeli, e cercando di

raggiungere un accordo con i ribelli, che veniva costantemente rifiutato.

Il 21 ottobre, nel tentativo di abbandonare Sirte, dopo la caduta della città, viene

intercettato dalle forze aeree francesi e costretto a fermarsi. Arrestato dalle milizie del Cnt,

venne immediatamente linciato sul posto. Mettendo in imbarazzo il nascente ruolo del

governo provvisorio di Mustafa Abd al-Jalil e portando crudelmente alla ribalta dei media

non solo la brutalità del conflitto, ma anche, e soprattutto, la sua torbida ed intricata rete di

interessi internazionali.

Concludendo in tal modo, nel sangue come era iniziata, la rivolta contro il regime e la

lunga e brutale dittatura di Gheddafi.

Considerazioni complessive sulla crisi libica e sul ruolo dell’Italia

Al pari di quella tunisina e di quella egiziana, anche la crisi libica ha preso avvio senza

particolari indicatori di crisi e, soprattutto, nella più totale impreparazione dell‟Europa e

degli Stati Uniti per la gestione degli eventi.

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L‟Italia, reduce da pochi mesi dalla firma del trattato di amicizia e cooperazione con

Gheddafi, suggellato dal governo Berlusconi, è stata letteralmente travolta dagli eventi e

incapace di comprendere con immediatezza le dinamiche in corso in Libia.

La scarsa disponibilità di informazioni puntuali ed aggiornate sulla crisi, unita alla evidente

incapacità di gestione degli eventi, hanno imposto un ruolo ambiguo e particolarmente

penoso al Paese, che è poi continuato con l‟appoggio alla coalizione internazionale anti-

Gheddafi attraverso l‟attiva partecipazione delle forze aeree italiane, e della logistica

nazionale, a sostegno della task force impegnata nell‟operazione a sostegno dei ribelli

libici.

Ha gravato sull‟intera vicenda il fondato sospetto di una pluralità di interessi internazionali

ostili a quelli italiani in Libia, soprattutto nel settore petrolifero e della realizzazione delle

infrastrutture, palesando una manifesta ambiguità soprattutto della Francia.

Alla fine del 2012, sebbene sia possibile affermare che gli interessi italiani siano stati tutto

sommato solo parzialmente intaccati dal conflitto e dalla caduta del regime, è possibile

formulare un bilancio altamente negativo per l‟Italia, in termini di immagine e di capacità

gestionale della crisi.

L‟eccessiva apertura dell‟Italia al regime nel suo ultimo anno di vita, posta in relazione alla

repentina inversione di marcia sin dalle prime fasi della crisi, hanno dato l‟impressione alla

comunità internazionale – in modo spesso anche ingiusto e strumentale – l‟ambiguità della

nostra politica estera e della nostra capacità di gestione del ruolo che, forse un po‟ troppo

ambiziosamente, avremmo interesse a ricoprire nel Mediterraneo e in Europa.

Gli interessi economici ed industriali italiani in Libia, infine, sono stati tutelati più dalla

credibilità delle controparti industriali nazionali, e dalla loro rapida capacità di interazione

con le nuove autorità libiche, che non dalla rapidità e capacità del Governo di intervenire

nel comporre i pezzi di una gravissima crisi regionale con evidenti e diretti impatti sul

sistema nazionale.

Difficile valutare, ad oggi, quale possa essere la capacità dell‟Italia di tornare a ricoprire un

ruolo significativo e prioritario in Libia, stante anche il perdurare della crisi politica locale e

la difficoltà di realizzare una sintesi degli interessi politici unitari delle varie anime emerse

trionfatrici con la caduta di Gheddafi.

Ciò che è certo è che l‟impegnativo e particolare rapporto con il “Rais” di Tripoli peserà

senza dubbio sulle future relazioni con la Libia. Determinando molto probabilmente la fine

di quel rapporto speciale che, a caro prezzo, era stato costruito con Muhammar Gheddafi.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 54

1.10 Evoluzione del quadro politico della Libia

La caduta di Bani Walid e la necessità di una politica di coesione nazionale per la

Libia

È caduta il 24 ottobre, infine, la roccaforte fedele a Gheddafi di Bani Walid, a circa 170

chilometri a sud est di Tripoli.

Con una popolazione di circa 70.000 abitanti (sebbene oltre 25.000 siano i profughi che

l‟hanno abbandonata a causa dei combattimenti), la città di Bani Walid fu una delle ultime

ad arrendersi nel 2012 dopo la caduta di Gheddafi. Qui si era asserragliato il figlio Saif al-

Islam, nel tentativo di organizzare una improbabile resistenza contro le preponderanti

forze dell‟opposizione, prima di fuggire nel deserto alla caduta della città.

E sempre in questa città si era organizzata una forma autonoma di governo, dopo aver

cacciato a Gennaio del 2012 i rappresentanti delle autorità rivoluzionarie di Tripoli, con la

proclamazione di un autonomo consiglio nel tentativo di non sottostare alle imposizioni

delle nuove autorità libiche.

Bani Walid, da allora ha vissuto in una surreale autonomia, fatta di nostalgia per il passato

regime e della ricerca di una propria indipendenza nell‟attesa di una più chiara definizione

degli assetti del potere nella Libia post-gheddafiana.

Al suo interno, tuttavia, si erano col tempo nascosti molti dei fedelissimi di Khamis

Gheddafi, in larga misura ex appartenenti alla 32a brigata, oltre a fuggiaschi di ogni altra

città libica compromessi con il passato regime. Organizzando improvvide azioni contro i

loro oppositori che, col tempo, hanno finito per attirare l‟attenzione sulla città e sui suoi

scomodi occupanti.

Lo scorso luglio il consiglio autonomo della città era stato apertamente minacciato di

attacco militare dalle autorità della città di Misurata, in conseguenza del rapimento e della

detenzione a Bani Walid di due loro giornalisti rapiti e lì detenuti.

Col tempo, quindi, Bani Walid si era fatta la reputazione di porto franco per tutti i ricercati

del paese e, soprattutto, per i fedelissimi dell‟ex regime. Reputazione che, a torto o a

ragione, ha determinato contro di essa una massiccia quanto scoordinata azione militare

iniziata ai primi di ottobre, e protrattasi per quasi un mese con scambi di artiglierie, razzi e

combattimenti sempre più cruenti.

La città, per mesi rimasta sotto il controllo di gruppi ostili alle nuove eterogenee autorità

libiche, è stata presa d‟assalto a più riprese dalle milizie provenienti dalle città di Misurata,

Tripoli e Zintan, cadendo definitivamente alla fine di ottobre.

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La caduta

L‟annuncio della caduta di Bani Walid è stato dato poco dopo l‟ingresso nella città dal

capo di Stato Maggiore delle forze armate libiche, Generale Yusuf Mangoush,

annunciando ufficialmente il completamento della missione iniziata il 2 ottobre ma senza

fornire particolari dettagli sulla condotta dell‟operazione.

Non poche, infatti, sono state nel corso dell‟assedio alla città, le critiche mosse al vertice

delle forze armate, soprattutto in merito alla presunta incapacità di gestire e coordinare in

modo efficace l‟azione delle diverse milizie che hanno concorso all‟assalto, generando

rallentamenti continui, perdite giudicate eccessive e, non ultimo, la probabile fuga da Bani

Walid di alcuni dei più importanti elementi della guerriglia. Una débâcle militare, in sintesi,

quella dipinta dai detrattori del Governo, mentre in realtà le condizioni del terreno e della

città hanno richiesto uno sforzo ed una capacità notevole da parte delle forze governative

impegnate nell‟assedio e nella successiva avanzata.

Sono stati utilizzati nel corso dell‟assalto alla città anche pezzi di artiglieria di grosso

calibro, oltre ai razzi Grad, che hanno determinato un numero elevato di perdite civili e la

distruzione di un‟ampia porzione della città. Ha confermato l‟utilizzo di queste armi,

ritenendola adeguata al tipo di operazione e commisurata alla natura della minaccia, lo

stesso Generale Mangoush, secondo il quale anche le forze opposte avrebbero utilizzato

artiglieria pesante e razzi.

Secondo quanto comunicato dal comando delle forze militari, poi, oltre 100 ricercati

sarebbero stati catturati alla caduta della città, e tra questi ci sarebbero stati numerosi alti

ufficiali della famigerata 32a brigata di Khamis Gheddafi.

In merito a quest‟ultimo, il portavoce del governo Nasser al-Manaa ha ufficialmente

presentato le proprie scuse per il flusso incontrollato di notizie che ne avevano a più

riprese riportato la morte, sostenendo come sia in seno ai vertici del sistema militare, sia

all‟interno del Congresso Nazionale, la voce avesse acquisito credibilità e rilevanza.

Si pone adesso, invece, il problema della ricostruzione della città e del re-dislocamento dei

circa 25.000 profughi sparsi nella regione e nelle città vicine. I danni al centro abitato sono

ingenti, così come elevato è il numero degli ordigni inesplosi e delle mine poste a difesa

delle principali aree di conflitto. Combinazione di fattori che non permetterà una gestione

immediata del problema e che, anzi, rischia di trasformarsi in un pericoloso ritorno

d‟immagine negativa per le autorità, che a Bani Walid hanno giocato la propria credibilità e

la propria forza politica.

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Liberazione o vendetta?

All‟euforia per la caduta di Bani Walid e per la cattura di alcuni importanti ricercati del

passato regime, ha fatto seguito la polemica relativa al comportamento delle milizie nelle

ore immediatamente successive alla vittoria.

Secondo quanto riferito da alcuni giornalisti libici presenti sul luogo della battaglia, infatti, i

miliziani di Tripoli e Misurata soprattutto si sarebbero abbandonati a violenze e distruzioni

gratuite subito dopo l‟ingresso nella città.

In particolar modo sarebbero stati inutilmente colpiti con l‟artiglieria, i mortai e gli RPG i

principali edifici del centro della città, in una furia distruttrice motivata secondo i testimoni

dal mero desiderio di vendetta contro i seguaci di Gheddafi e la loro ultima roccaforte.

All‟urlo di “Allah è il più grande”, i miliziani si sono riversati tra le macerie della cittadina

alla ricerca di altri sospetti facendo ampio uso delle armi e soprattutto delle granate,

danneggiando o distruggendo inutilmente un gran numero di abitazioni private, arrestando

e malmenando arbitrariamente molti cittadini inermi, giustiziandone alcuni con l‟accusa di

essere guerriglieri al soldo di Gheddafi e, più in generale, dimostrando come le autorità

centrali libiche abbiano ancora scarsa capacità di controllo ed esercizio della disciplina

sulle proprie unità militari.

Molti degli abitanti di Bani Walid fanno parte della tribù Warfala, storicamente alleata e

fedele a Gheddafi, e i miliziani che l‟hanno conquistata non hanno perso l‟occasione per

compiere vendette e regolamenti di conti.

In questo modo, tuttavia, si rischia fortemente di sviluppare un clima di odio tra le tribù,

ingenerando la sensazione che si debba punire ed escludere tutte quelle che non hanno

partecipato al conflitto, per timore, per interesse o perché presenti in aree poco

significative sotto il profilo delle possibilità d‟azione.

Hanno apertamente lamentato questo clima molti dei rappresentanti della città di Sirte, ad

esempio, denunciando di essere stati abbandonati ed esclusi da qualsiasi progetto di

ricostruzione in quanto collettivamente accusati di aver nascosto e sostenuto Gheddafi

sino alla sua cattura. Ed in un certo senso ha confermato questo atteggiamento anche la

teatrale mossa delle milizie subito dopo la cattura di Bani Walid.

Subito dopo la caduta della città, infatti, è stato issato sulle rovine degli ex palazzi

governativi del centro una gigantografia di Omran Shaban, il giovane ragazzo che scoprì e

fece arrestare a Sirte il colonnello Gheddafi. Il ragazzo, successivamente catturato la

scorsa estate dai lealisti e portato a Bani Walid, è stato torturato a lungo prima di essere

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rilasciato dopo una lunga trattativa. La gravità delle torture subite ha imposto tuttavia un

sua ricovero a Parigi, dove è alla fine spirato circa un mese fa in conseguenza dei postumi

del trattamento riservatogli dai fedeli di Gheddafi.

Vendicarne la morte, quindi, è stato senza dubbio uno degli obiettivi di alcuni miliziani

subito dopo l‟ingresso nella città, che si sono abbandonati a violenze e saccheggi

incontrollati, offrendo ancora una volta l‟immagine di vere e proprie bande con scarsissima

subordinazione al potere centrale e, al contrario, una forte indipendenza orientata al

perseguimento di interessi di clan o semplicemente personali degli aderenti.

Il “sangue dei vinti” e la necessità di una politica di riconciliazione nazionale

Le violenze di Bani Walid, l‟illusione autonomista e restauratrice del suo consiglio locale, e

più in generale la situazione politica della Libia, impongono di considerare con grande

attenzione il delicato e spesso fragile equilibrio venutosi a determinare conseguentemente

al collasso del regime di Gheddafi.

Gli attivisti di Human Rights Watch hanno da poco pubblicato un rapporto nel quale si

denunciano le violenze e le esecuzioni sommarie operate dalle più diverse milizie subito

dopo la caduta di Tripoli.

In modo particolare, il rapporto denuncia l‟efferatezza e l‟ampiezza delle esecuzioni

operate dalla milizia di Misurata, distintasi in più occasioni per crudeltà e violenza.

Sebbene possano esprimersi dubbi circa la portata complessiva dei morti addebitati ad

esecuzioni sommarie piuttosto che a combattimenti, l‟elevato numero di vittime registrato

successivamente al termine ufficiale del conflitto impone una riflessione complessiva circa

l‟effettiva capacità delle autorità libiche di poter e saper rappresentare una sintesi delle

diverse istanze politiche, claniche e sociali del paese.

Da più parti, infatti, vengono sollevati dubbi circa la possibilità per il Primo Ministro Ali

Zidan di poter effettivamente formare un esecutivo senza prima aver avviato un concreto e

sostanziale processo di riconciliazione nazionale che permetta di superare le traumatiche

conseguenze del violento processo di sostituzione politica.

Processo che deve necessariamente transitare attraverso un‟effettiva fase di ridefinizione

del ruolo e delle responsabilità delle tribù, e con l‟intento di riconoscere meriti e

responsabilità non solo di un anno di rivolte, ma anche dei decenni del regime. Impresa

non certo agevole, stante soprattutto il grado di ambiguità di molte delle tribù libiche nel

lungo e traumatico periodo del governo di Gheddafi.

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La difficile transizione politica

Le elezioni, il 7 luglio 2012, del Congresso Generale Nazionale, una struttura ad interim

composta da 200 membri, hanno portato alla fine dell‟esperienza del Cnt ed all‟avvio

dell‟agognata transizione politica di unità nazionale.

Ali Zidan, chiamato a condurre questa prima fase di trasformazione della Libia, deve ora

affrontare, tuttavia, i postumi di una dolorosa e spesso mal gestita fase di conflittualità

contro le forze lealiste di Gheddafi.

Le milizie, formatesi su base pressoché spontanea in tutta la Libia, e le unità indipendenti

fortemente infiltrate da attivisti islamici vicini alle formazioni salafite, pongono condizioni e

ostacoli alla loro smobilitazione e reintegrazione nel tessuto della società libica post

conflitto. Negoziando da un lato un ruolo politico, economico e sociale, ma anche – come

nel caso delle cellule islamiste – rifiutando di fatto una normalizzazione e una ripresa che

non vada in direzione di una forte islamizzazione del futuro Stato e delle leggi che dovrà

darsi.

Il ruolo delle milizie, oltretutto, è incrementato dall‟impossibilità delle autorità centrali di

garantire l‟ordine e la sicurezza solo con l‟ausilio delle proprie forze, dovendo quindi

necessariamente contare sul ruolo delle milizie stesse. Con l‟evidente necessità di

concordare con queste i limiti di impiego e le richieste a compensazione dei servizi

prestati. Che sempre più iniziano ad avere carattere politico.

Sussiste, quindi, in Libia un moderato ordine intervallato da sporadici episodi di violenza,

in un generale contesto dove è tuttavia chiaro come gli equilibri siano fragili e

potenzialmente mutevoli in tempi rapidi.

Il grave episodio dell‟attentato all‟Ambasciatore americano Christopher Stevens, a Bengasi

l‟11 settembre del 2012, rappresenta un ulteriore indicatore di allarme relativo alla

delicatezza della situazione, ricordando ancora una volta quanto concreto sia il problema

rappresentato dalle cellule radicali islamiche presenti nel paese. L‟aver trascurato il rischio

derivante dal loro ingresso sul suolo libico già nelle prime fasi della crisi è stato un errore

di proporzioni colossali, che solo adesso manifesta appieno la natura della minaccia, e

indica contestualmente quanto complessa sarà la gestione del fenomeno e la lotta allo

stesso.

Il 19 settembre 2012, il direttore dello U.S. National Counterterrorism Center, Matthew

Olsen, ha apertamente ammesso dinanzi ad una commissione del Senato americano

come l‟amministrazione non disponesse di “specifico intelligence” circa la presenza di

gruppi intenzionati ad agire contro gli Stati Uniti ed i suoi rappresentanti in loco, di fatto

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ammettendo la carenza informativa che ha permesso ad una cellula islamista di compiere

il grave attentato contro l‟Ambasciatore Stevens.

Al tempo stesso, il 28 settembre successivo, la CIA ha apertamente riconosciuto la natura

terroristica dell‟attentato, definendolo come “deliberato” e “organizzato”.

Il futuro della Libia

La lunga fase di transizione istituzionale libica si sta manifestando molto complessa e

dall‟esito incerto, nonostante le elezioni per il Congresso nazionale, tenutesi il 7 luglio

2012, abbiano avuto un relativo successo.

La prima, evidente, necessità nel processo di normalizzazione del paese è senz‟altro

costituita dall‟esigenza di interrompere le non poche ingerenze straniere sulla condotta

delle nuove autorità politiche e sui gruppi informali del potere politico e militare libico.

Per quanto più volte ripetuto dagli europei e dagli Stati Uniti, il principio di non ingerenza

viene sistematicamente disatteso dalle molteplici azioni a tutela – ipotetica e futura –degli

interessi economici che in molti vorrebbero assicurarsi in Libia. A queste interferenze si

assommano poi quelle del circuito internazionale del terrorismo e del jihadismo, che

vedono nella Libia una perfetta sintesi delle condizioni ottimali per l‟insediamento di cellule

e gruppi utilizzabili sia sul piano locale che in quello più ampio a livello regionale. Come

ampiamente dimostrato dalla straordinaria capacità logistica delle cellule operanti a

Bengasi nel fornire supporto alle milizie dell‟opposizione siriana.

Sul principio della non-ingerenza, quindi, sono emersi tutti i limiti della strategia politica

occidentale di gestione della crisi libica, e la successiva incapacità di coglierne i frutti

secondo uno schema di desiderata del tutto privi di fondamento nel tessuto sociale libico

ed irrealizzabili sul piano politico.

Il primo faticoso compito del nuovo Congresso è quindi quello di ristabilire lo stato di diritto

e riconquistare il pieno controllo territoriale.

Le difficoltà nella formazione di un governo riscontrate tra settembre e ottobre 2012, con

l‟incarico di governo rimesso al congresso nazionale da parte del primo ministro designato

Mustafà Abushagur e poi assegnato ad Ali Zeidan, sembra confermare le difficoltà nel

costituire una coalizione capace di esprimere un governo di unità nazionale e trovare un

punto di convergenza tra indipendenti, l‟alleanza laica di Mahmud Jibril (AFN) e il partito

della Fratellanza Musulmana.

Ciò che sembra delinearsi in termini di rischio, poi, è la manifesta incapacità dei libici di

ragionare politicamente secondo logiche che abbandonino il tradizionale ricorso al

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 60

tribalismo e alle logiche di clan, eleggendo quindi un governo legittimo secondo logiche e

modalità di scelta del voto espressione al contrario dell‟antiquata quanto dannosa logica

delle appartenenze di gruppo sul territorio.

La fase post-elettorale appare dunque non meno incerta di quella che ha preceduto le

consultazioni. Personalismi e localismi potrebbero avere la meglio. Il rischio è quello del

protrarsi dell‟impasse decisionale che ha caratterizzato il Consiglio Nazionale Transitorio,

con il rischio che l‟autorità centrale possa perdere ulteriore impulso nella risoluzione dei

gravi problemi interni facendo guadagnare consenso a chi chiede maggior autonomia per

le comunità locali e regionali oppure alle frange islamiste più radicali.

Sembra quindi profilarsi il rischio di una nuova Libia caratterizzata dalla compresenza di

elementi politici e sociali di radicata tradizione, come la struttura clanica, la matrice

islamica della società e la sua disaffezione verso le autorità centrali, ed elementi nuovi

solo apparentemente conciliabili con la cultura locale e le sue capacità istituzionali12.

Ulteriori dubbi scaturiscono poi dalla possibilità di essere contemporaneamente una

democrazia e un rentier state, uno stato che basa le proprie entrate sui proventi ottenuti

vendendo all‟estero le materie prime. I rentier states sono infatti caratterizzati dall‟assenza

di entrate generate dall‟imposizione fiscale interna, poiché la loro ricchezza di origine

naturale preclude la necessità di prelevare reddito dalla propria popolazione. Con tutto ciò

che ne consegue nella capacità di sviluppare istituzioni riconosciute e democratiche in

contesti caratterizzati da tali condizioni13.

Uno dei principali dubbi circa il futuro della Libia risiede ancor oggi nella valutazione

complessiva di quello che sarà il rapporto tra società e religione in futuro. Il ruolo ed il peso

della religione, cresciuto enormemente nel corso degli ultimi anni di regime di Gheddafi,

sebbene controllato e reso innocuo dal pervasivo rapporto tra Stato e società del regime,

non è chiaro in che misura stia evolvendo e trovando spazi nella società post-regime. Con

il rischio di averne ampiamente sottovalutato la portata, e quindi sottostimato il ruolo e

l‟efficacia nelle prima fasi di trasformazione istituzionale del paese.

12 Si vedano M. A. Muqtedar Khan “Islamic Democratic Discourse: Theory, Debates, and Philosophical Perspectives” Lanham, MD, Lexington Books, 2006; John O. Voll and John L. Esposito, “Islam and Democracy”, New York: Oxford University Press, 1996; Fareed Zakaria, “Islam, Democracy, and Constitutional Liberalism”, in Political Science Quarterly, Vol. 119, No. 1 (Spring, 2004), pp. 1-20. 13 Tra gli studi più importanti nel campo, cfr.: H. Beblawi, G. Luciani, The Rentier State, Croom Helm, London 1987; A. B. Smith, Oil Wealth and Regime Survival in the Developing World, 1960-1999, in “American Journal of Political Science”, 48, 2004, 2, pp. 232-46.

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La Libia sembra trovarsi oggi in una difficile fase di nation building, non solo di state

building, con la prospettiva, e il conseguente rischio, di un protratto periodo di instabilità.

Se non verranno assicurate condizioni di stabilità e sicurezza sul terreno in tempi brevi, la

capacità della Libia di produrre mutazioni positive nel suo impianto politico e sociale

saranno alquanto blande. Ma, al tempo stesso, la sicurezza e la stabilità non può essere

garantita da milizie di matrice tribale o di estrazione confessionale, per non determinare

l‟incremento di una inevitabile conflittualità.

Sono poi evidentemente presenti fattori disgreganti o centrifughi che sembrano porre sfide

di difficile soluzione – i localismi, i regionalismi e il ruolo delle milizie che hanno preso

parte alla guerra contro il regime – in costanza dell‟impossibilità di utilizzare elementi

aggreganti quale soluzione del problema.

Ulteriore rischio, in futuro, è quello rappresentato dal perdurare della tendenza in favore

del sistema delle agevolazioni economiche e delle politiche di calmierazione, che in una

società come quella libica possono solo contribuire a ridurre la coesione intorno alle

istituzioni e alla necessità di realizzazione di un vero ed articolato processo di

ricostruzione nazionale ottenuto con il contributo di tutti i cittadini. Al contrario, tuttavia,

sono ancora largamente popolari le forme di sovvenzione dei beni – non solo quelli di

prima necessità - allo scopo di guadagnare facile consenso politico. Già a fine febbraio

2012 il CNT aveva promulgato una legge per disporre la distribuzione di 2000 dinari (1250

euro circa) ad ogni famiglia libica14. Subito dopo era stata varata un‟altra legge che

donava fino a 4000 dinari a ogni rivoluzionario (tuwwar) che aveva preso parte alla lotta

contro il regime di Gheddafi. A fine ottobre 2012, infine, anche il nuovo Congresso

nazionale ha donato nuovamente 1000 dinari a ogni famiglia per celebrare l‟Eid Al-Adha15.

Incrementando una politica di “acquisto del consenso” altamente negativa per la

costruzione di una coscienza nazionale.

La variabile politica della religione islamica in Libia

Come in Egitto e in Tunisia, anche in Libia sembra profilarsi un ruolo politico attivo – se

non addirittura predominante – dei movimenti di ispirazione islamica. A differenza degli

altri paesi della regione, tuttavia, nel caso libico si pone l‟incognita rappresentata dalla

presenza non solo di forze politiche radicali come quelle salafite, ma anche di numerose

14 Legge n. 10, 2012, Consiglio nazionale transitorio. 15 Libya Herald, 11 ottobre 2012.

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unità combattenti del jihadismo che hanno partecipato alla guerra e pretendono oggi un

ruolo nella definizione dei futuri equilibri del paese.

Anche in Libia, quindi, sembrano presenti le condizioni per l‟emergere di una forte

componente politica di ispirazione islamica, caratterizzata, tuttavia, anche in questo caso

da profonde differenze ed eterogenee interpretazioni sul ruolo della politica e della

religione.

Lo scenario attuale presenta quindi l‟emergere di un crescente dualismo, in seno ai gruppi

islamici, tra i sostenitori della visione “repubblicana”, o costituzionalista, dell‟Islam, e cioè

quella che sembra aver intrapreso buona parte delle forze politiche appartenenti alla

Fratellanza Musulmana, e quella “jihadista”, alla quale sembrano guardare diversi gruppi

salafiti e le maggiori organizzazioni terroristiche come quelle affiliate alla rete

internazionale di Al Qaeda.

Stante l‟adesione maggioritaria al primo gruppo interpretativo, il rischio è quindi oggi

connesso alla possibilità che le componenti jihadiste rifiutino l‟integrazione e optino per

una continuazione della lotta iniziata nel corso della guerra civile. Una parte dei gruppi

salafiti, infatti, è priva di un vero e proprio modello politico alternativo a quello radicale e

totalitario del ruolo totale dell‟Islam, ed è probabilmente pronto – oltre che intenzionato - a

continuare la lotta per il conseguimento dell‟obiettivo.

Diventa quindi un imperativo, soprattutto per l‟occidente, comprendere come sia

assolutamente necessario riconoscere il ruolo e la capacità politica delle forze di

ispirazione islamica tradizionali e moderate, incrementandone il sostegno popolare ed

alimentando la capacità di attrarre nel suo alveo le componenti confessionali della società.

Allo scopo, chiaro e preciso, di rendere minoritarie e numericamente irrilevanti le anime

jihadiste del mondo islamico, condannandole ad un naturale e fisiologico oblio.

A questo proposito, come sottolineato da Massimo Campanini16, è necessario evidenziare

come i processi di cambiamento innescati dalle primavere arabe, consentendo ai partiti

islamisti di giocare un ruolo decisivo nell‟arena politica, aprano spazi interessanti di

rielaborazione, specificazione e aggiornamento del pensiero politico islamico, che dovrà

trovare risposte adeguate, sia pur attingendo ai suoi mezzi concettuali, alle sfide – del

tutto attuali – della gestione dello stato moderno.

Cosa aspettarsi dunque dalla Libia nell‟immediato futuro? La dolorosa esperienza della

guerra civile e la concezione sociale della politica basata su logiche arcaiche e

16 Cfr. Massimo Campanini, L’alternativa islamica. Aperture e chiusure del radicalismo, Milano, Bruno Mondadori, 2012.

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difficilmente mutabili nel breve periodo, lasciano poche speranze per una trasformazione

radicale e significativa della Libia sotto il profilo istituzionale.

Il futuro prossimo sarà quindi caratterizzato dalla necessità di individuare e consolidare

obiettivi e piattaforme comuni nell‟ambito di un variegato quanto particolarmente

eterogeneo sistema politico e sociale.

Con l‟esigenza primaria, tuttavia, di dover assicurare come primo obiettivo il concreto e

duraturo controllo del terreno e della sicurezza da parte delle costituende nuove realtà

istituzionali.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 64

1.11 EVOLUZIONE DEL QUADRO POLITICO IN ALGERIA

Inquadramento storico

L‟identità politica algerina affonda ancora profondamente le sue radici nella retorica della

lotta anti-coloniale, conclusasi con la proclamazione dell‟indipendenza nazionale il 1°

luglio del 1962.

Il paese è stato governato, dall‟indipendenza sino alla metà degli anni ‟80, dal partito unico

del Fronte Nazionale di Liberazione (Fln), sostenuto dalle forze armate e di orientamento

moderatamente socialista. L‟Algeria ha fatto parte del movimento dei paesi non allineati,

nell‟ambito del quale ha svolto un ruolo di primo piano, ma non ha mai aderito se non

marginalmente alle ripetute richieste dell‟URSS. Assumendo in tal modo un ruolo

pressoché neutro, ma cristallizzando al tempo stesso la sua politica nazionale.

Nel 1965, con un colpo di stato, venne destituito il presidente Ahmed Ben Bella e salì al

potere Houari Boumediénne, già esponente di spicco del movimento rivoluzionario, poi

Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate. Resterà al potere sino alla sua morte,

avvenuta nel 1978.

Gli successe Chadli Bendjedid, militare anch‟egli, ma di differente carisma. Venne in realtà

scelto proprio per la sua debolezza politica, per servire come presidente di transizione, o

di “compromesso”, successivamente al tumultuoso esito del Quarto Congresso del Fln di

fine gennaio del 1979, dove la leadership del partito era stata fortemente criticata e messa

in discussione apertamente la “linea di successione” politica preventivamente individuata

dal partito.

Bendjedid fu un presidente tutto sommato positivo. Cercò di promuovere un maggiore

ruolo dei privati nell‟economia, allentò la dura pressione del governo sulla libertà dei

cittadini, e cercò di modernizzare l‟apparato dello Stato rendendolo meno autoritario e più

efficiente.

L‟andamento dell‟economia mondiale, e il crollo dei prezzi petroliferi alla fine degli anni 80,

provocarono una gravissima crisi economica, che mise in discussione il modello semi-

liberista di Bendjedid e provocò disordini in tutto il paese.

Il sistema politico ordinò a quello militare una dura repressione, determinando l‟innesco di

un acceso scontro che alimentò la nascita di numerosi movimenti ostili al ruolo del partito

unico.

È quindi nella seconda metà degli anni Ottanta che iniziano a fiorire le prime formazioni

politiche di ispirazione islamica, che rifiutano la visione mono partitica e il suo centralismo

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 65

economico, chiedendo libere elezioni e libertà di espressione per le nuove e più giovani

generazioni algerine. Diverse nei valori rispetto a quelli anti-coloniali dei loro predecessori,

e soprattutto animate da uno spirito religioso sino ad allora rimasto sopito nell‟ambito della

tradizione cultural familiare algerina.

Il Fis e il consolidamento dei partiti islamici

Il presidente Bendjedid si dimostrò sin dapprincipio moderatamente disponibile ad una

apertura in direzione del multipartitismo, favorendo in tal modo l‟entusiasmo del ceto più

giovane e gli aderenti del già celebre Fronte Islamico di Salvezza (Fis), la prima e

principale formazione politica di ispirazione islamica.

Si trattava, in realtà, di una vasta coalizione di gruppi islamisti di varia estrazione, che si

riuniva sotto la comune bandiera della lotta al ruolo del partito unico del Fln e la

contestuale necessità di una politica di moralizzazione nazionale.

Nel 1990 il governo riconobbe il Fis come una forza politica ufficiale, accettandone la

candidatura alle elezioni parlamentari del dicembre 1991.

Si trattava di una vittoria epocale, e di un cambiamento senza precedenti nella concezione

della politica e dell‟assetto istituzionale da parte del Fln e delle gerarchie militari, sino ad

allora decise a mantenere inalterato il corso della politica algerina.

All‟interno della vasta e sempre più eterogenea dimensione del Fis, tuttavia, c‟erano anche

le formazioni più radicali e di ispirazione salafita, che non esitavano ad esortare gli elettori

per la determinazione di un governo islamico, e senza mezzi termini definendo blasfema e

non islamica la democrazia.

Queste frange, sebbene minoritarie, avevano allarmato i circoli più conservatori e

tradizionalmente laici dell‟establishment politico, che non avevano perso tempo nel

mettere in guardia le forze armate dal rischio di una deriva islamica.

La campagna elettorale, condotta soprattutto attraverso un forte richiamo a slogan incitanti

alla moralizzazione della politica, vide trionfare il Fis sia nelle elezioni amministrative del

1990, sia al primo turno delle elezioni parlamentari del 26 dicembre 1991. Con la

prospettiva di aggiudicarsi la maggioranza del Parlamento nelle successive elezioni

programmate per il 16 gennaio del 1992.

Sfortunatamente, le Forze Armate vennero chiamate ad intervenire contro il successo

elettorale del Fis, costringendo Bendjedid alle dimissioni l‟11 gennaio del 1992 e

annullando integralmente il risultato elettorale conseguito. Venne quindi sconfitta la linea

politica del Presidente, favorevole alla continuazione del percorso elettorale e politico del

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 66

paese, e trionfò al contrario l‟ala militarista ed autoritaria del partito, non intenzionata a

permettere alcuna reale modificazione del sistema politico algerino, e terrorizzata dal

possibile insediamento di vertici politici religiosi e integralisti.

Venne nominato un Alto Consiglio di Stato, dominato dai militari e dai quadri più

conservatori e tradizionalisti del Fln, cui venne demandata la gestione politica e della

sicurezza del paese. Si trattava di una struttura formata da cinque membri presieduto dal

Ministro della Difesa Khaled Nezzar, il cui compito avrebbe dovuto esaurirsi l‟anno

successivo, allo scadere originale del mandato presidenziale del deposto Bendjedid. Gli

altri membri erano Ali Kafi, al vertice dell‟organizzazione Moudjahidine, l‟ex medico e

politico Tedjini Haddam, Mohamed Ali Haroun e Mohamed Boudiaf, entrambi esponenti di

spicco del Fln ed ex combattenti per la guerra di liberazione.

L‟Alto Consiglio invalidò le elezioni del precedente dicembre – di fatto estorta all‟uscente

presidente Bendjedid – e mise fuori legge il Fis, dando la caccia ai suoi vertici politici in

una sanguinosa battaglia che si protrasse per anni insanguinando il paese.

I metodi spicci e violenti dei militari algerini innescarono ben presto una reazione violenta,

e favorirono la riorganizzazione del Fis in clandestinità, dando ampio spazio in questa fase

agli esponenti più radicali ed estremisti.

Mohamed Boudiaf, un fervente esponente politico secolare, cercò di avviare un reale e

concreto programma di trasformazione democratica dello Stato, ma venne assassinato nel

mese di giugno del 1991 da una delle sue guardie del corpo. Alla morte di Boudiaf venne

eletto alla guida dell‟Alto Consiglio Ali Kafi, che nominò come primo ministro Belaid

Abdessalam, poco dopo sostituito nell‟agosto del 1993 da Redha Malek, in conseguenza

dei dissidi sulla definizione della politica economica nazionale.

Malek provò intorno alla fine del 1993 a sollevare la questione relativa al termine del

mandato dell‟Alto Consiglio, e alla necessità di un referendum popolare per identificare un

processo di successione lineare, ma i militari costituirono un Alta Commissione per la

Sicurezza nel gennaio del 1994, dissolsero l‟Alto Consiglio di Stato e nominarono Liamine

Zeroual alla presidenza della Repubblica.

Nel corso della prima metà degli anni ‟90, intanto, si erano intensificate le attività di

repressione contro gli esponenti del Fis, imprigionandone i vertici in campi di detenzione

nel deserto, in condizioni disumane e provocando un crescente risentimento nei confronti

delle autorità politiche e militari del paese.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 67

La creazione del GIA e l’avvio della guerra civile

L‟ala militante del Fis, non riconoscendosi nella linea di attesa e moderazione del partito

tradizionale, decise di dar vita ad una componente armata ed interventista, dal nome di

Groupe Islamique Armé (GIA) che dette ben presto avvio ad una violentissima strategia

d‟azione contro gli esponenti del sistema politico e militare, ma anche contro la comunità

intellettuale vicina alle autorità o comunque favorevole ad una trasformazione politica laica

e democratica.

La formazione del GIA (al-Jama‟ah al-Islamiyah al-Musallaha) venne ufficialmente

costituita nel giugno del 1992 da Mansour Meliani, come movimento armato non

centralizzato e frammentato, finalizzato al rovesciamento del governo algerino ed

all‟instaurazione di un governo islamico. Dopo l‟arresto di Meliani, la formazione venne

ricostituita nel gennaio del 1993 da Abdelhak Lavada, che prese ufficialmente le distanze

dal Fis, negando di esserne il “braccio armato” ed avviò una sanguinosa fase di scontro

che, si stima, abbia provocato circa 200.000 morti17.

Contrario al pluralismo politico e alla laicità dello Stato, Lavada si ispirò al radicale Omar

El-Eulmi, cercando di sviluppare un movimento organizzato su tutto il territorio nazionale.

La scarsa attenzione alla formazione dei nuovi reclutati e alla loro progressiva infiltrazione

nelle cellule operative, permise all‟intelligence algerina di penetrare sistematicamente il

movimento, infliggendo sanguinose sconfitte ed imponendo costanti processi di

riorganizzazione.

Il GIA si alienò progressivamente le simpatie della popolazione, anche e soprattutto quella

maggiormente religiosa e già simpatizzante per il Fis, a causa dell‟indiscriminata azione

violenta contro chiunque rappresentasse il sistema governativo sul territorio, provocando

in tal modo la morte di decine di migliaia di dipendenti pubblici di basso rango.

Il GIA iniziò poi una violenta campagna di omicidi contro gli stranieri, nel tentativo di

indebolire il governo centrale e ridurne le capacità di contatto con l‟estero, con il risultato di

un poderoso incremento della repressione da parte delle forze militari e di polizia, e la

morte di ulteriori decine di migliaia di civili nei sempre più frequenti scontri all‟interno dei

villaggi dove il GIA cercava rifugio imponendo il suo ruolo autoritario.

17 Islam and multiparty politics in Algeria, Robert Mortimer, in Middle East Journal, Vol. 45,

N. 4, Autumn 1991, pp. 575-593

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 68

Con la morte di Lavada e l‟ascesa al vertice di Cherif Gousmi, il GIA fece un ulteriore salto

di qualità. Il programma politico e militare fu orientato in direzione della costituzione di un

califfato in Algeria, e venne a tal fine intensificata l‟azione militare in tutto il nord del paese.

La nuova politica del GIA puntava a quel punto non solo a colpire i funzionari del governo,

ma soprattutto a terrorizzare le popolazioni civili, per costringerle ad accettare le

imposizioni radicali del gruppo e allontanarle dal Governo.

Tra il 2004 e il 2007 furono commessi alcuni tra i più efferati omicidi di tutta la guerra civile,

estendendo di tanto in tanto il raggio d‟azione anche al di fuori dei confini nazionali,

soprattutto in Francia dove corposa era la comunità algerina.

Djamel Zitouni successe a Gousmi, portando anch‟egli un incremento delle attività

condotte in Algeria e all‟estero (famoso resterà il dirottamento di un aereo dell‟Air France),

ed arrivando a minacciare chiunque si recasse alle urne durante le elezioni del 1995.

Una serie di conflitti interni scatenatisi nello stesso anno, tuttavia, portarono ad una

conflagrazione dell‟organizzazione, e alla sua divisione in gruppi minori e in lotta tra loro.

Lo stesso Zitouni fu ucciso nel luglio del 1996, e gli successe Antar Zouabri. Di gran lunga

più violento del predecessore.

Caduto in uno scontro a fuoco con le forze di polizia algerina nel febbraio del 2002,

Zouabri venne rimpiazzato da Rachid Abou Tourab, caduto anch‟egli poco dopo, nel 2004,

nel corso di uno scontro a fuoco.

Il successore, Boulenouar Oukil, fu arrestato poco dopo il suo insediamento, e Noureddine

Boudiafi prese il suo posto il 29 aprile del 2004. Per essere anch‟egli arrestato nel mese di

novembre dello stesso anno.

A causa della sanguinosa azione del GIA, i partiti di ispirazione islamica in Algeria persero

gran parte del loro sostegno nel corso degli oltre dieci anni di guerra civile, consolidando il

ruolo delle autorità civili e militari e facendo dimenticare il vergognoso colpo di mano del

1991, con il quale avevano di fatto provocato la rivolta e la successiva guerra civile.

Nel 1999, grazie ad un‟amnistia proposta dal governo, circa l‟85% delle milizie del GIA

depose le armi e tornò alla vita normale, indebolendo ulteriormente il movimento e

confinandolo alla conduzione di piccole azioni terroristiche su porzioni di territorio sempre

più modeste.

Il ruolo del GIA, quindi, andò progressivamente declinando, lasciando invece spazio ad

una cellula satellite di più tarda formazione, il Gruppo Salafita per la Preghiera e il

Combattimento, che dal 1998 emerse come la più pericolosa ed organizzata struttura

terroristica algerina.

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La nuova generazione della politica algerina, e l’ascesa di Bouteflika

Nel 1999 venne eletto alla presidenza della Repubblica Abdelaziz Bouteflika, che fu

l‟ideatore dell‟amnistia che depotenziò definitivamente il Gia e del successivo identico

provvedimento del 2005 con il quale riuscì ad arrestare anche l‟azione dell‟Islamic

Salvation Army, una sorta di tarda milizia del Fis sorta nei primi anni del nuovo millennio.

Bouteflika, con un passato di attivista per la guerra di liberazione (come la gran parte

ancor oggi dei vertici del sistema politico algerino), entrò giovanissimo in politica nei ranghi

del Fln, diventando in breve tempo il principale collaboratore di Boumediénne.

Coinvolto in uno scandalo finanziario nel 1981, venne arrestato e privato dei beni, ma

poco dopo amnistiato dal presidente Bendjedid. Rimasto ai margini della politica sino alla

fine degli anni ‟90, riuscì a vincere le elezioni presidenziali del 1999 (grazie soprattutto al

ritiro della candidatura di Zéroual) avviando un processo di stabilizzazione che portò di

fatto alla fine della guerra civile e alla normalizzazione della situazione politica algerina.

Nei primi cinque anni del suo mandato, Bouteflika cercò di rilanciare l‟economia attraverso

un piano di ripresa e sviluppo fortemente impostato sul potenziamento delle attività

agricole e sul consolidamento delle attività nel settore dell‟energia.

Venne dato forte impulso allo sviluppo dell‟industria del gas naturale ed importanti accordi

vennero siglati con l‟Italia, la Francia e la Spagna.

Riuscì a farsi rieleggere alla presidenza nel 2004, con l‟85% dei voti avviando

immediatamente dopo un referendum finalizzato a sostenere la “Carta della Pace e della

Riconciliazione”, da lui ideata per porre fine al lungo e sanguinoso conflitto con le

formazioni terroristiche del Gia, ma anche per trovare una formula di accordo per una

coesistenza pacifica con i non pochi sostenitori ancora presenti del Fis.

Poco dopo l‟elezione del suo secondo mandato, Bouteflika si ingegnò per attuare una

modifica costituzionale che gli consentisse di poter essere eletto per un terzo mandato nel

2009.

Grazie al ruolo svolto dal suo Primo Ministro Abdelaziz Belkhadem riuscì quindi a proporre

e far accettare dal Parlamento un emendamento che rimuoveva il precedente limite delle

due legislature, riuscendo a farsi rieleggere, per la terza volta, il 12 febbraio del 2009,

questa volta con il 90,24% dei voti.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 70

L’Algeria oggi

Ciò che distingue l‟Algeria dalla gran parte dei paesi del Maghreb, e della regione più in

generale, è la particolare e tremendamente violenta evoluzione del quadro politico

nazionale. L‟Algeria ha conquistato la sua indipendenza pagando un tributo di sangue che

gli storici valutano intorno al milione di morti. Cui si assommano le circa 200.000 vittime

della guerra tra le autorità centrali di governo e le milizie del GIA. Un numero di vittime

impressionante, soprattutto se considerato il relativamente breve intervallo temporale

nell‟arco del quale tali conflitti si sono generati.

Il fattore della violenza ha avuto effetti particolari nell‟evoluzione del quadro politico e

sociale algerino, generando da un lato un forte sentimento di ostilità verso l‟autoritarismo

politico delle istituzioni, ma dall‟altro anche un evidente timore nei confronti del radicalismo

islamico. Con il risultato di aver limitato enormemente la capacità di espressione della

società civile e dei movimenti moderati. Che in larga misura hanno obtorto collo

appoggiato la lenta e sempre incompleta evoluzione della trasformazione politica ed

istituzionale del paese.

I principali elementi di malcontento dell‟opinione pubblica algerina sono oggi

essenzialmente riconducibili alla sfera della gestione economica del paese. Nonostante i

numeri dell‟economia siano incoraggianti, spinti dal settore energetico nell‟ambito del

quale l‟Algeria è un player di notevoli dimensioni, i dati sull‟occupazione sono ancora

negativi, così come il dato del reddito pro capite. Effetto di una malagestione e di una

diffusa corruzione che l‟opinione pubblica lamenta sempre più a gran voce.

Il pluralismo politico è teoricamente stato avviato nel 1989, con la legge di riforma che

decretava la fine del sistema a partito unico e ammetteva la formazione di nuovi partiti.

L‟esperienza del 1991, tuttavia, ha largamente frustrato le aspettative dell‟opinione

pubblica, e solo in tempi recenti si è tornati ad un moderato pluralismo, sebbene

nell‟ambito di coalizioni che rispecchiano la linea ufficiale delle istituzioni militari e del Fln.

Il presidente Bouteflika è stato sostenuto sino ad oggi da una coalizione di tre partiti, nota

con il nome di “Alleanza Presidenziale”, e composta dal Fronte di Liberazione Nazionale

(Fln), l‟Unione Democratica Nazionale Rnd) e il partito islamico moderato del Movimento

Sociale per la Pace (Smp/Hamas), con legami diretti e palesi con la Fratellanza

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Musulmana egiziana. Questi ultimi, insoddisfatti della linea politica della coalizione, hanno

lasciato l‟Alleanza alla fine del 2011, presentandosi come partito indipendente alle elezioni

politiche del 201218.

L‟apparato politico è quindi sempre composto da una sinergia di posizioni e partiti che in

realtà rappresentano sempre l‟insieme degli interessi di quello che gli algerini chiamano

colloquialmente le pouvoir, ovvero l‟insieme delle differenti posizioni all‟interno

dell‟apparato militare e della sua espressione politica, il Fronte di Liberazione Nazionale.

Questo sistema è compatto verso l‟esterno e resistente ad ogni forma di innovazione od

apertura, ma altamente conflittuale al suo interno e dominato da personalismi, corruzione

e cordate di potere.

Si tratta quindi, per il presidente, di gestire un costante equilibrio all‟interno dell‟apparato

militare, mantenendo al contempo un profilo di apparente apertura verso le istanze della

piazza e della sempre più forte spinta per un effettivo pluralismo politico.

L‟apparato politico e militare al governo dell‟Algeria continua ad essere preoccupato dalla

possibilità di una nuova ondata di violenze ad opera degli attivisti dei movimenti islamici, e

quindi, nel tentativo di contenerne gli effetti, apre alle formazioni più moderate o

contribuisce alla creazione di formazioni di ispirazione islamiche pressoché fittizie e leali

alla linea politica ufficiale.

Bouteflika è stato abile nel gestire il processo di reintegrazione della gran parte degli

esponenti del GIA, favorito anche dalla manifesta volontà dell‟opinione pubblica algerina di

uscire dalla spirale di violenza innescatasi nel paese dopo il 1992.

La cosiddetta primavera araba ha avuto effetti solo marginali in Algeria, con sporadiche

proteste e richieste di maggiore apertura politica che non sono mai sfociate in vere e

proprie rivolte. Ciononostante, gli eventi di Tunisia, Libia ed Egitto hanno profondamente

allarmato i vertici del sistema politico locale, facendo presagire la possibilità di un contagio

alla società algerina, determinando una nuova e più agguerrita fase di proteste da parte

soprattutto delle forze politiche e culturali di ispirazione islamica.

Tutto questo, in realtà, non è accaduto. O almeno non ancora sino ad oggi, grazie

soprattutto a due fattori.

18 Algeria: Current Issues, Alexis Arieff, in Congressional Report Service, January 18,

2012

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Il primo è senza dubbio da identificarsi nella capacità politica del presidente e nella

costante azione tesa ad agevolare un pluralismo politico che, sebbene di facciata, aiuta a

mantenere bassi i profili della protesta e del dissenso.

Il secondo è invece identificabile nella costante immutata capacità delle forze

dell‟intelligence algerino, il DRS – Dipartimento per l‟Intelligence e la Sicurezza19, di

contenere l‟espansione dell‟attivismo politico più radicale e meno propenso al dialogo con

le autorità, attraverso una costante politica di repressione e detenzione degli esponenti

giudicati di maggiore pericolosità.

Il sistema istituzionale resta quindi caratterizzato dalla costante fragilità che ha sempre

connotato il sistema bicamerale algerino, dove il presidente nomina il primo ministro e un

terzo dei parlamentari del Consiglio della Nazione, che costituisce la Camera Alta. La

promulgazione delle leggi deve essere approvata da entrambe le Camere, ed è quindi

palese il ruolo ed il peso del presidente nel condizionare il ruolo della Camera Alta.

La disaffezione della popolazione verso la politica è evidente, come dimostrato anche

dalla bassa affluenza delle parlamentari del 2007, soprattutto per la consapevolezza nel

riconoscere al vecchio impianto politico militare della prima generazione politica algerina

una supremazia che potrà essere rimodellata solo attraverso un completo passaggio

generazionale.

La crisi economica mondiale, oltre a quella politica regionale, ha toccato poco l‟Algeria.

Nel 2011 si sono verificati disordini in alcune città del paese in conseguenza

dell‟incremento dei prezzi di alcuni generi di consumo, soprattutto alimentari, e nella

contestuale decisione del governo di diminuire la propria azione in materia di sussidi.

Le proteste sono state gestite con immediatezza senza permettere una reale escalation, e

gli effetti sono stati quindi marginali in termini politici. Il presidente, ancora una volta ha

dimostrato una grande abilità politica, nel revocare in occasione delle proteste il

pluriennale stato di emergenza nazionale, del tutto superato e inutile in termini pratici, ma

fatto passare come conquista del rinnovato e più ampio dibattito politico pluralista

nazionale.

Per evitare un contagio al paese delle istanze che nei paesi limitrofi avevano portato alla

cosiddetta primavera araba, il governo ha agito proattivamente deliberando una nuova,

quanto modesta, riforma agraria e impedendo in modo sistematico l‟emergere di grandi

dimostrazioni di piazza potenzialmente atte a sfociare in moti di protesta.

19 Da segnalare che il DRS è comandato dal 1990 da Mohamed “Tewfiq” Médiène, unico esponente della prima generazione militare a mantenere la sua posizione inalterata.

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Al tempo stesso, la leva dei sussidi economici su alcuni beni di prima necessità e di largo

consumo, ha contribuito ad alleviare l‟entità delle proteste, limitando grandemente le

proteste ed i conseguenti rischi in termini di ordine pubblico.

In Algeria, ha contribuito a non innescare meccanismi di protesta violenta, poi, anche il

timore generato in seno all‟opinione pubblica dagli eventi della vicina Libia. Le immagini

delle violenze, dei bombardamenti e delle sofferenze per la società trasmesse

costantemente dalla televisione, hanno sortito un poderoso effetto sugli algerini, sempre

timorosi della possibilità che la violenza degli anni Novanta possa nuovamente

materializzarsi portando le lancette del tempo indietro di vent‟anni.

Il problema delle aree berbere

La tradizionale chiusura delle istituzioni algerine verso le comunità berbere, in funzione di

un costante processo di supporto alla supremazia etnica del ceppo di origine araba, ha

provocato nel corso del tempo numerose forme di protesta, più o meno violenta, in seno ai

gruppi autoctoni della regione.

Le richieste per il riconoscimento delle identità culturali e linguistiche sono state a lungo

frustrate, sfociando di tanto in tanto in disordini nella regione della Kabilia, cui sono

seguite azioni di rappresaglia ed imposizione delle leggi che hanno ulteriormente

deteriorato il rapporto tra le due comunità.

Dopo i disordini del 2001, scoppiati quando un giovane berbero venne ucciso dalle forze di

polizia mentre era detenuto in carcere, il governo ha parzialmente modificato la propria

attitudine, accettando di riconoscere il Tamazight (lingua berbera) come una delle tre

lingue ufficiali dell‟Algeria, amnistiando i berberi reclusi in occasione delle proteste e

alleggerendo il dispositivo di controllo militare nelle aree a maggioranza berbera.

Mentre queste misure hanno contribuito positivamente nel rasserenare la dimensione del

rapporto tra le istituzioni di governo e le comunità berbere, l‟allentamento del controllo

nell‟intera regione della Kabilia ha prodotto come risultato l‟infiltrazione nella stessa delle

cellule ex GIA successivamente trasformatesi nella locale aderenza alla rete

internazionale di Al Qaeda (AQIM).

Si pone oggi, quindi, per le autorità militari algerine, il dilemma della gestione delle attività

di intervento nella Kabilia, dove risulta essere necessario incrementare la presenza e

soprattutto il controllo degli assi viari, ma dove il difficile equilibrio raggiunto con le

comunità berbere potrebbe essere vanificato da una più invasiva presenza sul territorio

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delle unità delle forze militari terrestri. Un problema senza dubbio, questo, anche in

conseguenza delle accertate – sebbene limitate – forme di sostegno concesse da alcune

comunità berbere in villaggi remoti della regione ad unità riconducibili alla sfera dell‟AQIM.

Minaccia che le autorità di Algeri non sembrano voler sottovalutare in alcun modo.

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1.12 Evoluzione del quadro politico del Marocco

Il sistema politico marocchino attraversa una profonda crisi derivante dal susseguirsi di

una politica istituzionale largamente imperniata sul ruolo assoluto del sovrano – sebbene

nell‟ambito di un sistema monarchico ufficialmente definito come costituzionale – e della

cerchia di potere direttamente sottostante.

Dal 1961 al 1999 il re Hassan II ha regnato sul Marocco come un monarca assoluto di

stampo medievale, costruendo un sistema di corte, di corruzione e di gestione del potere

estremamente difficile da sradicare ed orientare al modernismo ed alla democrazia.

Tale esercizio del potere e‟ stato possibile attraverso il perfezionamento dell‟antico

strumento del Makhzen, ovvero il centro del potere di corte, e la strumentalizzazione e la

sottomissione del potere esecutivo al monarca.

Nè ha potuto il figlio,succedutogli dopo la morte nel 1999, cambiare il sistema, dovendo

anzi rapidamente tornare ad affidarsi ai “leali servigi” del Makhzen per garantire continuità

alla corona ed al particolare e complesso sistema istituzionale marocchino.

Brevi cenni storici

Il Marocco, indipendente dal 3 marzo del 1956, è ufficialmente una monarchia

costituzionale con capitale Rabat.

Sotto il profilo della politica interna, il paese è sempre stato interessato da una intensa

attività parlamentare ed intellettuale ad ogni livello della vita politica e sociale.

Le radici del moderno sistema istituzionale sono rappresentate dal cosiddetto “Patto

Nazionale”. Dopo la Conferenza di Anfa del 1943, infatti, la monarchia e la destra

nazionalista del partito Istiqlal, definirono un‟alleanza finalizzata essenzialmente a

determinare la fine dello status di protettorato per il Marocco creando un sistema

indipendente imperniato sullo schema di una monarchia costituzionale.

Già nel periodo immediatamente successivo all‟indipendenza, tuttavia, i gruppi politici del

Movimento Nazionale – un‟alleanza di partiti particolarmente attiva nel periodo

dell‟indipendenza – ritennero maturi i tempi per avviare un processo democratico ed

antimonarchico così come era avvenuto in Egitto, Tunisia, in Iraq e nello Yemen.

In larga parte di ispirazione socialista, i partiti del Movimento Nazionale potevano contare

su un largo supporto da parte della classe media dei maggiori centri urbani del paese.

La reazione della corona, con il supporto della destra nazionalista, portò al rapido

accentramento dei poteri ed allo sviluppo di una forte rete di alleanze con i latifondisti,

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 76

grazie al supporto dei quali fu possibile indire con successo un referendum istituzionale

sul ruolo ed il potere della monarchia che, in sostanza, ratificava le decisioni d‟imperio già

pianificate ed attuate tra il 1960 ed il 1962.

Successivamente alla morte del Re Mohammed V, nel 1961, il successore Hassan II

concesse enormi benefici ed un ruolo sempre più ampio ai vertici delle forze armate,

esigendo tuttavia la più assoluta fedeltà e utilizzando i militari per reprimere moti di

protesta popolare – come nel caso di quelli di Casablanca del 1965 – e, in sostanza, come

forze di polizia politica incaricate dell‟arresto e della detenzione di leader politici dei partiti

di opposizione.

L‟alleanza con le forze armate, tuttavia, ebbe breve durata. Tra il 1971 ed il 1972, una

rivolta e due mancati attentati allo stesso sovrano da parte di unità dell‟esercito e

dell‟aeronautica militare, imposero l‟adozione di una generale revisione della strategia

politica del sovrano.

Dalla prima metà degli anni Settanta, quindi, inizia una nuova formula di gestione del

potere della corona basata essenzialmente sulla graduale e moderata apertura ai partiti

dell‟area di centro-sinistra, con una crescente disponibilità soprattutto nei confronti di

uomini politici remissivi e senza particolari doti di eccellenza.

Il primo atto formale di questa nuova politica fu l‟incontro tra il sovrano e Abderrahim

Bouabid, segretario dell‟Unione Nazionale delle Forze Popolari (UNFP), il principale partito

socialista locale.

Il Makzen (o Makhznan)

Letteralmente “il magazzino”, il Makhzen era un tempo il luogo dove venivano accantonati

i beni sequestrati o donati al Sultano. Nel corso degli anni ha assunto un significato

politico divenendo il termine con cui veniva indicata la cerchia incaricata del potere

amministrativo del sultano prima, e del re poi.

Storicamente il termine Makhzen assunse anche il significato di “territori amministrati dal

re”, ovvero i luoghi soggetti all‟esercizio del potere diretto del sovrano.

Con l‟indipendenza del Marocco, il Makhzen acquistò nuovamente una grande importanza

nel sistema istituzionale marocchino, raccogliendo nell‟ambito di una struttura dalle forme

e dalle dimensioni assai incerte, tutti i maggiori centri del potere religioso, politico e

amministrativo.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 77

Del Makhzen, quindi, fanno parte – come in una corte medievale soggetta al potere

assoluto del re – una schiera di burocrati di vario livello, organizzati gerarchicamente, cui il

sovrano delega l‟esercizio reale di alcune prerogative di potere.

I ministri, i parlamentari, i magistrati e, più in generale, tutte le più alte cariche pubbliche

dello Stato, sono titolari di un potere solo apparentemente garantito dalla Costituzione e

svincolato da quello del sovrano. In realtà è il re a ritenere ogni prerogativa reale del

potere esecutivo, richiamando la propria legittimità costituzionale a principi religiosi

vagamente riconducibili all‟imamato.

In tale quadro, quindi, non desta perplessità che l‟ex sovrano fosse solito appellare i

membri del governo come khudama, ovvero “servi leali del trono”. In tal modo, infatti,

Hassan II intendeva chiaramente e costantemente ricordare a tutte le cariche istituzionali

l‟assetto gerarchico del paese e la natura del proprio ruolo che, secondo la nozione del

bay’a, conferiva al sovrano un potere di derivazione divina e, in sostanza, di ultimo e

definitivo arbitro delle sorti del Paese.

Il Makhzen, quindi, sotto il regno di Hassan II in particolare, diverrà nuovamente e

concretamente un termine atto a definire un sistema di governo. Una monarchia

costituzionale dove, paradossalmente, vengono sovvertiti diametralmente i ruoli

conferendo ogni prerogativa del potere al sovrano, ed alla sua cerchia amministrativa, ed

un ruolo poco più che rappresentativo all‟esecutivo ed al parlamento eletto a suffragio

universale.

Una struttura di potere reale, e parallela, garantita da un tasso di analfabetismo tra i più

elevati al mondo e da una scarsa, se non scarsissima, concezione della democrazia così

come tradizionalmente delineata nei moderni impianti istituzionali.

Dalla svolta politica del 1993 alla morte di Hassan II

Con le elezioni amministrative del 1993, Hassan II volle praticamente sperimentare

l‟adozione del modello concepito e studiato nel corso dei vent‟anni precedenti.

Con l‟offerta di posizioni di responsabilità a numerosi membri delle forze socialiste e del

centro sinistra, il sovrano cercava di mantenere saldamente stabili il ruolo e le prerogative

della corona favorendo una traslazione dello scontro politico ed istituzionale direttamente

a livello di partito e mantenendo la figura del sovrano nell‟ambito di una sfera super partes

caratterizzata dalla principale funzione di garante della costituzione.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 78

Non subivano, tuttavia, alcuna modifica le prerogative di potere del Re che, al contrario

poteva pubblicamente palesarle come garanzia per il mantenimento dell‟ordine in un così

complesso e animato sistema istituzionale.

Un altro successo dell‟abile politica di Hassan II nel processo di trasformazione del

sistema politico marocchino, fu quello di favorire la nascita di un gran numero di partiti

minori di area moderata ma, in realtà di diretta emanazione del partito conservatore

Istiqlal.

In questo modo l‟arena politica del Marocco è stata alimentata con un gran numero di

“partiti fittizi” il cui scopo primario, in sintesi, è stato quello di impedire la crescita dei partiti

del centro-sinistra mediante il continuo – ed improduttivo – confronto tra forze create ed

alimentate solo in funzione del mantenimento di un particolare e delicato status quo.

Ciononostante, l‟insoddisfazione e la sfiducia dell‟opinione pubblica nei confronti del

sistema monarchico e politico del paese favorì la reale crescita anche di personaggi e

partiti virtualmente fuori dal controllo diretto della corona e – almeno in teoria – svincolati

dal rigido e particolare schema del Makhzen.

Le elezioni del 1997 resero possibile un certo grado di rinnovamento sia nell‟ambito dei

partiti conservatori che in quelli della sinistra. Questi ultimi, in realtà, negoziarono

pazientemente il loro ingresso nel sistema istituzionale del paese riuscendo – a fronte

dell‟evidenza dei dati elettorali – ad imporre un proprio candidato per la carica di primo

Ministro.

L‟incarico a Abderrahman Youssoufi, segretario generale dell‟Unione Socialista delle

Forze Popolari (USFP), fu quindi il risultato di una lenta e progressiva politica di

mediazione con il re Hassan II, più che una schiacciante vittoria elettorale.

Il governo Youssoufi, nonostante le promesse e l‟articolato programma di riforme

presentato a gran voce durante tutta la campagna elettorale, non produsse alcun risultato

pratico. La compagine di Governo, già fortemente permeata da tutti quei partiti satelliti

teoricamente progressisti nati il più delle volte da varie scissioni all‟interno dell‟Istiqlal,

costituì un eccezionale risultato di programmazione strategica da parte del sovrano.

Programmazione che, in modo lungimirante, aveva permesso un modesto accesso alle

funzioni amministrative anche per alcuni membri dei partiti islamici moderati, in tal modo

determinando una compagine di Governo ancor più eterogenea.

Senza alcun potere reale di governo, il mandato di Yousssoufi si caratterizzò solo per i

dibattiti e la retorica politica all‟interno della maggioranza, progressivamente alienando

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l‟opinione pubblica da quella compagine che – anche se per breve tempo – aveva

rappresentato il miraggio di una svolta reale.

Non solo. Buona parte dell‟esecutivo, come per tradizione, venne nominato direttamente

dal sovrano, vanificando in tal modo ancor più ogni speranza di rinnovamento reale.

In particolare, ciò risultò evidente con il rinnovo della nomina quale Ministro dell‟Interno di

Driss Basri, un fedelissimo di Hassan II e considerato – non a torto – uno degli uomini più

potenti del Marocco.

I progetti di rinnovamento politico e sociale del Primo Ministro si tradussero in pratica in

pochi e disorganici piani di contenimento della spesa pubblica, il più delle volte rasentando

il paradossale.

Il ruolo delle forze di ispirazione religiosa

È in questo periodo, invece, che emergono in modo sempre più evidente le forze

islamiche radicali ed intransigenti. La minaccia viene quindi a spostarsi dalle aree rurali

alle popolose periferie cittadine, dove il clero riesce in brevissimo tempo a reclutare più o

meno attivamente un gran numero di attivisti e simpatizzanti.

Sheikh Yassin, carismatico leader islamico marocchino, riuscì nell‟arco di un breve lasso

di tempo ad influenzare una considerevole parte dell‟elettorato, forzando il sovrano ad

assumere posizioni più caute e strategicamente rilevanti.

Una di queste fu quella, come poc‟anzi accennato, di favorire l‟inserimento nella

compagine di Governo dei partiti islamici moderati e, soprattutto, presieduti da esponenti

malleabili e manovrabili.

In tal modo si cercava di veicolare i voti drenati dai partiti islamici – soprattutto nelle città –

in direzione di un contesto potenzialmente favorevole alla corna e, con ogni probabilità,

atto a modellarsi al pari degli altri secondo le logiche e le forme imposte dalla tradizione

del Makhzen.

In modo assai ingenuo ed incauto, le forze islamiche moderate videro la possibilità di

instaurare un dialogo ed una forma di relazione paritaria con il sovrano ed il Makhzen,

restando invece travolte dalla contorta e complessa macchina istituzionale marocchina e

perdendo progressivamente il sostegno della base elettorale. Con ciò largamente

favorendo, peraltro, la crescita delle forze radicali ed estremiste.

L‟”islamizzazione” del Governo, peraltro, fu un rischio calcolato. Come alcuni esperti

analisti francesi di politica internazionale ebbero ad osservare verso la fine degli anni

Novanta, l‟“islamizzazione” rappresentava prima di tutto “l‟antidoto contro la

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democratizzazione”. Antidoto ottenuto attraverso un processo elettorale e,

conseguentemente, lecito e valido a tutti gli effetti agli occhi dell‟opinione pubblica.

Il regno di Mohammed VI

Hassan II morì il 23 luglio del 1999, dopo 38 anni di regno. Gli successe il figlio

Mohammed VI.

L‟ascesa al trono del giovane sovrano alawita alimentò enormemente le aspettative per un

reale cambiamento in seno alla stragrande maggioranza dal popolo marocchino.

Tradizionalmente estraneo alle logiche del potere di corte, senza particolari simpatie ed

amicizie in seno al Makhzen, Mohammed VI assunse il potere elencando una sterminata

lista di problemi per i quali era necessaria un‟immediata e radicale riforma all‟interno del

sistema istituzionale e sociale del Marocco.

Tra tutti, l‟analfabetismo e l‟emancipazione femminile sembrarono quelli cui poter offrire

una soluzione in tempi brevi, e a tal uopo attivò un poderoso programma – sebbene solo

in termini progettuali – largamente apprezzato e condiviso.

Sposando la giovane e non nobile Lalla Salma, un ingegnere informatico, il sovrano volle

offrire un primo tangibile segnale stante ad indicare l‟avvio di un reale ed irreversibile

processo di riforma anche degli antiquati costumi, rivendicando – seppur in modo

altamente ipocrita – un ruolo attivo ed a tutt‟oggi sconosciuto per le donne nell‟arretrato e

tradizionalista contesto sociale del paese. La giovane ed affascinante Salma, inoltre,

venne ufficialmente insignita del titolo di principessa – fatto nuovo in Marocco – e, al

contrario della consorte del padre Hassan II, costantemente presentata in pubblico in ogni

occasione formale.

Nonostante l‟opposizione di forze conservatrici islamiche, ha varato una riforma liberale

del diritto di famiglia, che garantisce alle donne diritti non riconosciuti in nessun altro

paese musulmano.

Un‟altra sensazionale mossa del giovane sovrano fu quella di sollevare dall‟incarico il

Ministro Driss Basri, elemento di spicco del Makhzen, potentissimo uomo politico e per

anni confidente particolare del padre, Hassan II, sostituendolo con Ahmed El Midaoui.

Non solo, la costituzione di una commissione di inchiesta sul ruolo e l‟operato dello stesso

Makhzen rivelò l‟esistenza di ogni tipo di reato e violazione, indicando genericamente le

cariche di coloro i quali avrebbero potuto eventualmente risultare come imputati da una

corte.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 81

Driss Basri, uno dei più temuti e potenti esponenti della “sicurezza nazionale” (fu

responsabile, con il grado di Colonnello, della sezione di counterintelligence alla DST negli

anni Settanta), nella sua carica di Ministro dell‟Interno presiedeva l‟intero sistema della

sicurezza del Marocco espandendo il suo potere di controllo sino ai governatori delle

singole province. Era, inoltre, il supervisore delle questioni relative al Sahara Occidentale

e, in tale carica, poteva esercitare un forte ruolo anche in seno ai vertici delle forze armate.

Da sempre aveva rivestito, in ossequio a quanto richiesto dal sovrano, il ruolo del duro e

del despota, ottenendone in cambio una pressoché totale immunità ed un potere ben

superiore a quello conferitogli in virtù della carica ministeriale. Non ultimo sotto il profilo

economico, ambito nel quale Basri poteva contare su una fitta rete di contatti e di attività

gestite in larga misura a titolo personale.

La revoca di Basri da parte del sovrano avviene, ancora una volta secondo il tradizionale

modus operandi della corona, nel più assoluto disprezzo del ruolo istituzionale del Primo

Ministro.

Quest‟ultimo, infatti, in visita ufficiale in Francia, apprese della decisione del sovrano dai

mezzi di informazione, e non ebbe alcuna possibilità di intervento sulla scelta.

Ciononostante, l‟assenza di una reale forma di supporto in seno al Makhzen ed

all‟esecutivo, unitamente ad un attentato terroristico, comportò il rapido arenarsi

dell‟azione riformista del sovrano, forzandolo anzi in direzione di una posizione di

compromesso a tutela soprattutto dell‟istituzione della corona.

Mohammed VI fu quindi costretto ad una revisione del programma politico rimodellandolo

sul principio della continuità e dell‟opposizione al comune nemico rappresentato dalle

forze radicali islamiche e del clero militante.

Le elezioni del 2002

Le elezioni per il rinnovo del Parlamento del settembre 2002 sono state caratterizzate

principalmente da un forte astensionismo. Chiaro indice di un crescente sfiducia e di una

generale forma di insoddisfazione da parte dell‟elettorato marocchino che, deluso anche

dalle formazioni di sinistra resesi, in sostanza, complici del sistema di potere del Makhzen,

ha percepito peraltro l‟evidente rischio di brogli. D‟altra parte quella del Marocco e‟ oggi

un‟opinione pubblica sempre meno disposta a concedere fiducia e credito, ad una classe

politica oramai compromessa, e fortemente corrotta.

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Solo alcuni partiti vennero ammessi a concorrere alla tornata elettorale e questo ha fornito

la più chiara ed evidente prova di un coinvolgimento diretto del Makhzen nel sistema di

gestione dell‟intero processo e, virtualmente, del futuro operato dell‟esecutivo.

A nulla, peraltro, valsero i ripetuti e crescenti sforzi del sovrano in direzione di una retorica

nazionalista, in virtù della quale nel 2002 venne decisa la patetica occupazione degli

isolotti di Perejil (o Leila), da lungo tempo oggetto di disputa con la Spagna, e liberati

pochi giorni dopo da uno sparuto gruppo di soldati spagnoli.

L‟incarico di Primo Ministro venne affidato dal Re a Driss Jettou, un tecnocrate stimato e

rispettato, sebbene non certo considerabile estraneo all‟entourage di corte ed al sistema

del Makhzen.

Jettou avviò il suo mandato con l‟adozione di una politica di coesione nazionale che portò

allo sviluppo di una coalizione politica composta da sei partiti e dominata dall‟Istiqlal e

dall‟UFP (conservatori e socialisti).

Ciononostante, quello che non cambiò fu il ruolo ed il peso della corona e del Makhzen

nella gestione del potere esecutivo, ancora ben lontano dal poter essere considerato

autonomo ed indipendente anche solo nella scelta delle linee programmatiche o nella

definizione degli incarichi e delle relative candidature.

La scelta di Jettou quale Primo Ministro, venne tuttavia valutata positivamente dalla gran

parte delle forze politiche e dei centri di potere del paese. Jettou, infatti, non era solo

considerato un tecnocrate di grande esperienza, ma, soprattutto, un uomo di dialogo ed

un politico onesto, nell‟ambito di un panorama di corruzione tra i peggiori al mondo.

Al Primo Ministro la corona chiese non tanto la gestione di un potere formale di governo

nell‟ambito della coalizione venutasi a creare, bensì un piano strategico preciso ed

efficace contro l‟emergere della minaccia delle formazioni islamiche radicali e militanti.

Mentre la gestione ordinaria della politica è un esercizio routinario e caratterizzato da

meccanismi e logiche ben collaudate dal sovrano e dal Makhzen, l‟azione di contrasto al

radicalismo islamico impone con evidente chiarezza l‟adozione di politiche e strategie

nuove, oltre che di uomini in grado di poterle perseguire.

È quindi attraverso una calibrata politica di contatto e mediazione con il PJD (gli islamici

moderati) che Jettou avviò il suo mandato. Nell‟ottica con ogni probabilità di coinvolgere

anche i gruppi islamici nel sistema politico e di governo per trasformarli progressivamente,

come già accaduto con quelli di centro sinistra e sinistra, in “elementi del sistema”.

Questa strategia, in alcun modo diversa da quella per oltre trent‟anni adottata dall‟ex

sovrano Hassan II, tendeva in estrema sintesi a rendere progressivamente inerti le

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formazioni di nuova generazione, attraverso il coinvolgimento, e successiva assimilazione,

nel tradizionale sistema di gestione del potere.

La realtà del Marocco di oggi, tuttavia, non sembra poter permettere alchimie particolari

sotto il profilo della politica interna. Soprattutto nei confronti del radicalismo islamico e

della sua forte vocazione transnazionale.

Nel maggio del 2003 una potente esplosione distrusse a Casablanca un centro ebraico ed

un circolo spagnolo, provocando oltre 40 morti.

Per la prima volta la corona ed il Governo avvertirono la possibilità di una escalation e di

una trasformazione del radicalismo islamico locale, individuando cellule marocchine

potenzialmente – o realmente – collegate con quelle straniere della rete del terrorismo

La riforma costituzionale e la Primavera Araba

La gestione del potere politico del re Mohammad VI, per tutta la seconda metà del primo

decennio del nuovo secolo, è stata impostata lungo un percorso di annunciate e mai

realizzate trasformazioni del paese, perpetuando una linea politica già ben consolidata e

sperimentata nel decennio precedente.

La spinta in direzione delle riforme generata dai fatti dell‟11 settembre negli USA e la

conseguente nascita del pericolo rappresentato dalle organizzazioni radicali islamiche,

portò alla definizione di un modello politico tutto sommato caratterizzato dall‟esigenza di

apertura verso le componenti moderate dell‟universo politico di ispirazione confessionale,

senza tuttavia mai sintetizzare queste aperture in reali programmi di mutamento

dell‟arcaico sistema politico marocchino.

Nella seconda metà del primo decennio del nuovo secolo, oltretutto, il sovrano si convinse

del progressivo venir meno del rischio rappresentato dal qaedismo originale e delle sue

gemmazioni in Nord Africa, riducendo contestualmente la spinta in direzione

dell‟integrazione delle forze islamiche nella convinzione dell‟esaurimento della loro fase

storica.

I fatti di Tunisia ed Egitto del Dicembre 2010, quindi, piombarono in modo del tutto

inaspettato al cospetto del sovrano, rafforzati dalle manifestazioni di piazza che, anche in

Marocco, andavano prendendo corpo in tutta la prima parte del 201120.

L‟effetto della cosiddetta Primavera Araba, quindi, impose al sovrano l‟adozione di nuove

e più mirate mosse atte a contenere il rischio di una espansione del fenomeno di protesta

20 Marina Ottaway and Marwan Muasher, Islamist Parties in Power: A Work in Progress, Carnegie Endowment, May 23, 2012

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nel regno, che si tradussero in prima battuta nella tradizionale elencazione di proposte per

un processo di riforma della politica e della società marocchina. Alle quali, tuttavia, in

pochi erano disposti questa volta a credere e a concedere fiducia.

Le intenzioni del sovrano di apportare mutamenti per incrementare il rispetto dei diritti

umani, della democrazia, della trasparenza e dell‟etica di governo, risultarono poco

credibili alla popolazione, che accolse le proposte del sovrano con freddezza e

indifferenza.

La strategia venne allora completata attraverso una politica di incremento dei salari dei

dipendenti pubblici, nel tentativo di contenere alla base il problema che aveva determinato

le crisi tunisina ed egiziana.

Ma, nell‟intento di allargare quanto più possibile la base del consenso attraverso le

riforme, il sovrano decise di operare una modifica costituzionale apparentemente destinata

a trasformare l‟assetto istituzionale del paese.

La nuova costituzione, redatta da una commissione nominata dal re e fortemente

permeata da esponenti del Makhzen, venne alla fine approvata mediante referendum nel

luglio del 2011.

La principale novità risiede nel potenziamento del ruolo del Primo Ministro, non più

nominato dal Re, ma espressione del partito di maggioranza, che assume per la prima

volta il titolo di “capo del Governo”, unitamente ad un corposo irrobustimento della

magistratura, nelle intenzioni resa più autonoma ed indipendente.

Nel solco della tradizionale ritrosia della corona a trasformare il proprio ruolo, il sovrano

mantiene anche con la nuova costituzione ampi poteri politici e militari, restando l‟arbitro

ultimo nella gestione del Parlamento, nel comando delle Forze Armate, e al vertice del

sistema religioso nazionale.

Nel tentativo di mostrare un volto nuovo della politica marocchina e di quella reale in

particolare, il re ha poi promosso una intensa campagna pubblica a favore dei diritti umani,

sebbene caratterizzata da modesti reali mutamenti, e da un tentativo di riavvicinamento

con le forze islamiche più radicali concretizzatosi con una sorta di amnistia di alcuni

attivisti salafiti. Mossa quanto mai pericolosa e indicativa dell‟incapacità del sovrano di

comprendere come, al contrario, sia necessario potenziare il rapporto ed il ruolo dei

movimenti tradizionali e moderati. Dei quali tuttavia il sovrano teme il potenziale politico,

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persistendo in questa politica del divide et impera, che rischia di travolgere in prima

istanza la stessa monarchia21.

La riforma costituzionale, quindi, non ha modificato significativamente il ruolo e le

prerogative del sovrano nel controllo del paese, limitandosi ancora una volta ad un mero

maquillage atto a convincere l‟opinione pubblica della reale intenzione della corona di

voler trasformare il paese stando al passo con le istanze provenienti dalla società.

Ciò che il sovrano tende a trascurare ancora una volta, tuttavia, è il mutato contesto in cui

si muove oggi la politica regionale. Se da un lato, infatti, gli interventi politici e i correttivi

economici hanno portato al conseguimento di risultati che allontanano il reddito pro capite

dei marocchini da quello dei vicini ribellatisi ei propri governi, il ruolo delle organizzazioni e

dei partiti islamici nella regione è tornato ad assumere un peso ed una rilevanza che

sembra sfuggire alla capacità di analisi del sovrano. Che, temendo meramente un ruolo

politico, alimenta come da tradizione una competizione all‟interno del contesto religioso

favorendo moderatamente le formazioni jihadiste e salafite quale contraltare politico e

sociale delle organizzazioni islamiche moderate. Un errore di portata epocale, che rischia

di produrre ripercussioni ben più gravi e concrete di quelle di una mera apertura politica a

livello nazionale.

Sebbene, quindi, il partito islamico moderato della Giustizia e Sviluppo (Pjd), conosciuto

anche come il Misbah, sia riuscito a conquistare la maggioranza dei voti nelle elezioni

legislative del 2011, andando a guidare il governo attraverso una coalizione composta

insieme ai nazionalisti dell‟Istiqlal, i centristi del Movimento Popolare e i più piccoli

moderati di sinistra del Partito del progresso e del Socialismo, le logiche della gestione del

potere vengono mantenute ancora dal sovrano attraverso un costante ruolo di indirizzo,

reso possibile dalla competizione artificiale tra gruppi alimentata dalla corona22.

I reali problemi del paese

Il Marocco resta ancor oggi al 126° posto – su 175 in totale – in termini di sviluppo umano

secondo le classifiche redatte dalle Nazioni Unite, con un tasso di analfabetismo tra i più

elevati al mondo ed una percentuale di disoccupati elevatissima (tra il 19 ed il 22% in

media nelle aree urbane).

21 Le Monde, Maroc: Les Réformes Politiques du Roi Sont Plébiscitées, July 3, 2011. 22 UMCI News, “Morocco King Keeps Checks on Islamist Govt,” January 4, 2012; Driss Bennani andn Fahd

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Il livello di corruzione è tra i più elevati al mondo e la forza delle sfere consolidate del

potere – governo, istituzioni, industria e forze armate – è a tutt‟oggi inalterata rispetto al

passato.

Il sistema giudiziario del Marocco è uno dei più corrotti ed inefficienti al mondo, così come

riconosciuto anche dalle Nazioni Unite. La tortura e la detenzione per reati d‟opinione

continua ad essere una realtà dalla quale il paese non riesce ad affrancarsi, e gli arresti

per reati connessi all‟espressione del pensiero politico sono nuovamente aumentati subito

dopo l‟insediamento del nuovo re. Poco ci si aspetta, dunque, dalla riforma costituzionale

in questo specifico ambito.

L‟emergere di un sistema locale organizzato ed autonomo del terrorismo islamico,

essenzialmente riconducibile come matrice alla Salafiya Jihadiya – una organizzazione

ideologicamente legata ai gruppi islamici algerini e afgani – presenta oggi il cupo scenario

di un salto qualità e di una internazionalizzazione, con capacità operative potenzialmente

ben più ampie e, probabilmente, capaci di operare oggi anche al di fuori dei confini

nazionali.

Le forze armate, con l‟alleggerimento dell‟operatività imposta dalla presenza nel Sahara

Occidentale, riemergono in modo sempre più evidente come una possibile minaccia per la

monarchia e per l‟ordine costituzionale del paese.

Tradizionalmente avulse da qualsivoglia nozione o concetto di democrazia, queste

potrebbero maturare la decisione di intervenire autoritariamente per modificare il ben noto

e secolare ruolo dell‟ambiguo rapporto tra il sovrano, il Makhzen ed il Governo, imponendo

una soluzione dei problemi secondo il modello algerino.

Ritenendosi minacciate sia dall‟ambigua politica di corte che dal ruolo apparentemente

progressista e democratico di un esecutivo dominato da forze maggioritarie di ispirazione

islamica, le Forze Armate potrebbero come in passato alimentare al proprio interno

componenti poco propense a correre il rischio di un passaggio traumatico come quello

della Primavera Araba in Tunisia ed Egitto, valutando ogni ipotesi di controllo dell‟ordine

sociale, politico ed economico del Marocco.

Questo rischio sarà tanto più evidente, quanto maggiore risulterà la crescita delle forze

islamiche radicali.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 87

1.13 Cosa ha cambiato la primavera araba?

Il vasto fenomeno di agitazioni sociali e mutamenti politici che ha interessato una

significativa parte del Medio Oriente tra il dicembre del 2010 ed oggi, con esiti ancora di

difficile valutazione stante la perdurante fase di cambiamento, sembra aver risposto

prioritariamente all‟esigenza di trasformazione degli autoritarismi locali da parte di una

società tutt‟altro che imbelle e soggiogata.

Se alla “piazza araba” era stata storicamente negata una capacità e volontà d‟azione nel

corso degli anni, ci si è dovuti concretamente ricredere dopo i fatti della Tunisia, dell‟Egitto

e della Libia.

Ciononostante, il generico nome di Primavera Araba attribuito all‟intera gamma dei

fenomeni che sono occorsi nella regione, risponde più ad esigenze interpretative – o

semplicemente desiderata – occidentali, piuttosto che ad un vero fil rouge comune a tutte

le esperienze politiche e sociali della regione.

È necessario ribadire, inizialmente, come gli accadimenti della cosiddetta Primavera Araba

sono stati il prodotto di cause e ragioni del tutto diverse e separate tra loro, dove solo

alcuni degli elementi scatenanti (come ad esempio la diffusa povertà) hanno

rappresentato variabili comuni.

In generale, al contrario, ognuna delle crisi maturata – o in via di maturazione – ha avuto

sue specifiche ed uniche ragioni di sviluppo, determinatesi all‟interno di sistemi autoritari

ed antidemocratici generalmente arrivati al termine della propria esperienza politica, ma

incapaci di comprendere i gravi elementi di crisi che ne minavano alla base la

sopravvivenza.

Questo ha determinato, con differenti intensità, l‟uso della forza – o il tentativo di utilizzarla

– da parte dei sistemi istituzionali, alimentando un volano di crescita delle proteste che ha

semplicemente accelerato i processi di crisi e di crollo delle vecchie amministrazioni.

Ma anche l‟intensità della violenza è stata differente di caso in caso, determinando in tal

modo epiloghi differenti in ognuna della realtà sociali coinvolte.

I sistemi militari dei vari paesi hanno giocato ruoli differenti e non omologabili tra loro,

garantendo – con l‟eccezione della Libia – la stabilità complessiva, e determinando alla

fine con la neutralità il crollo dei regimi che sino ad allora avevano servito.

Hanno giocato un ruolo straordinario, nella prima fase di sviluppo delle rivolte, i movimenti

giovanili laici e progressisti, dimostrando notevole coraggio e tenacia e rappresentando il

vero elemento di forza nella sostituzione delle élite al potere. Al contrario, tuttavia, non

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 88

hanno saputo comprendere l‟importanza di una fase di raccordo in direzione di una

piattaforma comune, e sono stati quindi successivamente marginalizzati dalle ben più

organizzate forze di ispirazione islamica, capaci di ampie e consolidate ramificazioni sul

territorio.

I movimenti religiosi e le forze politiche islamiche, al contrario, sono state pressoché

assenti nella prima fase di sviluppo delle rivolte, spesso anzi palesandosi contrarie ad

ipotesi radicali di cambiamento, per poi dominare la scena nelle fasi successive al crollo

dei regimi. Quando la capacità organizzativa dei movimenti si è dimostrata fondamentale

in occasione delle campagne politiche pre-elettorali.

In seno alle forze di ispirazione religiosa, poi, è immediatamente emerso il dualismo

accentuato tra quelle di orientamento moderato e progressista, e quelle – minoritarie – di

stampo radicale e conservatore. Con la conseguente competizione all‟interno del

medesimo schieramento per la supremazia e la conquista del voto.

L‟emergere delle forze politiche islamiche ha allarmato ingiustificatamente l‟occidente, che

ha saputo a fatica riconoscere un ambito politico estremamente variegato ed eterogeneo

in seno alle stesse, mancando in parecchie occasioni di sostenerne la parte moderata a

danno di quella radicale.

Più in generale, le cancellerie occidentali hanno assunto un atteggiamento di profonda

diffidenza verso i movimenti di ispirazione religiosa, favorendo tuttavia in tal modo le forze

meno moderate dei medesimi consessi, o quelle laiche con forti radicamenti e legami con

le precedenti strutture autoritarie.

Mancando l‟occasione per una più rapida e fattiva collaborazione con le anime più

moderate del contesto politico, e contribuendo ad alimentare la conflittualità all‟interno

delle singole realtà nazionali.

Cosa ha cambiato la Primavera Araba?

Molto, e poco allo stesso tempo. Sono caduti alcuni tra i regimi più autoritari della regione,

per lungo tempo considerati partner affidabili dell‟occidente, nella miope visione di

cancellerie alla mera ricerca di alleati politici nella lotta al radicalismo islamico.

L‟aver trascurato a lungo le istanze della società locale – anzi, nella maggior parte dei casi

negando persino l‟esistenza di un sentimento autonomo e spontaneo di rivalsa sociale

sugli autoritarismi – ha portato alla repentina ed immediata necessità di familiarizzare in

tempi rapidi con i fenomeni di crisi che interessavano i vari paesi dell‟area, determinando

scelte politiche dettate dall‟urgenza.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 89

Sempre in virtù della scarsa conoscenza delle società della regione, è stata fraintesa la

prima ondata laica di protesta giovanile come avanguardia di un sentimento totalitario

nazionale, ignorando sistematicamente la presenza di altre componenti politiche e sociali,

e soprattutto quelle islamiche. Emarginate per trent‟anni e relegate dagli occidentali nella

loro interezza al rango di organizzazioni radicali ed antidemocratiche.

Una seconda fase di incomprensioni e rigidità politiche è quindi emersa in occasione delle

tornate elettorali che, a vario titolo, hanno portato alla ribalta nell‟intera regione le forze

islamiche aderenti alla Fratellanza Musulmana. E, ancora una volta, non si è compreso

come e quanto eterogeneo fosse il tessuto sociale dei movimenti islamici, e quanto

necessario fosse rafforzare le componenti moderate e progressiste al fine di limitare, al

contrario, quelle radicali e conservatrici dell‟area salafita.

In Tunisia e in Egitto, la caduta dei regimi rispettivamente di Ben Ali e Mubarak, ha

determinato l‟emergere politico dei movimenti islamici e la progressiva uscita di scena

delle forze laiche giovanili, vittime della loro stessa destrutturazione ed estrema

eterogeneità di pensiero.

In Libia, al contrario, ad una prima fase caratterizzata da proteste è seguita una

sanguinosa guerra civile che ha provocato un gran numero di vittime, determinando una

profonda frattura all‟interno della società e ristabilendo il primato del tribalismo. Di fatto

annullando il benefico effetto della caduta del regime ed instaurando un pericoloso periodo

di instabilità sul terreno conseguenza di un confronto tra bande e milizie di varia natura e

confessione.

In Algeria e Marocco, la Primavera Araba ha solo parzialmente dispiegato i suoi effetti

rivoluzionari, venendo subito repressa pacificamente attraverso processi di riforma politica

e costituzionali di varia grandezza e natura che, almeno temporaneamente, sembrano

aver arrestato la spinta del cambiamento iniziata nella parte centro-orientale del Nord

Africa.

Algeria e Marocco presentano tuttavia condizioni economiche e sociali non paragonabili a

quelle degli altri paesi della regione, costituendo questo una barriera – almeno provvisoria

– contro l‟emergere del malcontento e della protesta.

In termini complessivi, invece, la Primavera Araba non ha mutato sostanzialmente la

dimensione concettuale dei sistemi istituzionali della regione. Agli autoritarismi che la

dominavano in passato si sono sostituite forme di governo ancora ben lontane dal potersi

definire democratiche e pluraliste, spesso fortemente permeate da esponenti dei

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 90

precedenti regimi, e, cosa ancor più importante, basate su Costituzioni non così dissimili

da quelle dei regimi abbattuti.

Determinando certamente un cambiamento politico, o quantomeno una trasformazione,

ma certamente non generando quel cambiamento epocale e democratico che venne a

gran voce chiesto dalle avanguardie giovanili e laiche cui deve essere indiscutibilmente

riconosciuto il merito dell‟aver avviato e gestito l‟intero processo di trasformazione politica

della regione.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 91

2. La questione del popolo Berbero

Da Limes 5/12, Fronte del Sahara

2.1. Chi sono i “berberi”?

L‟etimologia stessa del nome “berbero”, rende l‟idea di come e perché degli originari

abitanti del Nord Africa se ne parla oggi in termini di minoranza e ceppo distinto.

Il termine berbero, infatti, discende dal francese berbère, barbaro, stante ad indicare la

natura selvaggia di un popolo non sottomesso ed ostile alla dominazione francese.

Nel riferirsi agli Amazigh – vero nome del popolo oggi definito come “berbero” – come

“barbari”, tuttavia, ben prima del francese berbère gli arabi utilizzavano la parola al-barbar

.di chiara derivazione dal latino barbarus ,همجي))

Sin dai tempi della dominazione romana della regione, quindi, gli Amazigh hanno

rappresentato un ceppo autonomo e non disposto all‟assimilazione, venendo

progressivamente emarginato e collocato al di fuori delle logiche di appartenenza di coloro

che riuscirono a dominare le coste e le aree coltivabili del Nord Africa.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 92

In tal modo, quindi, i “berberi” si spinsero oltre gli spazi tradizionalmente abitati dai

conquistatori assumendo un carattere prevalentemente nomade e non integrandosi in

nessuna delle fasi di dominazione della regione, favorendo in tal modo l‟oblio sulla propria

storia e soprattutto sulle proprie origini autoctone del Nord Africa e di una consistente

parte dell‟Africa sub-sahariana.

Si è quindi perso anche l‟utilizzo del vero nome dei berberi, Amazigh, riferito oggi solo ai

ceppi che utilizzano l‟idioma tamazight, relegando l‟etnia a mera componente minoritaria e

senza alcun interesse per la sua integrazione o, peggio ancora, per un suo effettivo

riconoscimento.

Non esiste ad oggi un censimento preciso degli Amazigh, che si stima siano compresi tra i

50 e 70 milioni, e distribuiti in un vasto territorio compreso tra il Marocco, l‟Algeria, la

Tunisia, la Libia, la Mauritania, il Mali, il Niger e persino l‟Egitto.

Sebbene la gran parte della popolazione del Maghreb sia di origine Amazigh, o berbera, la

dominazione araba ha cancellato questa eredità etnica, soprattutto attraverso l‟oblio e il

non riconoscimento della lingua tamazight, e spingendo quindi in direzione di una forte

arabizzazione. A tutt‟oggi dominante.

La cultura berbera e l’organizzazione politico-sociale

L‟elemento fondante della comunità berbera, sia nella stanzialità del villaggio che nel

nomadismo, è rappresentato dal nucleo familiare.

La famiglia è tuttavia riconosciuta nell‟arco di un limitato numero di generazioni, andando

in tal modo a creare gruppi omogenei ma non eterni di dominazione delle dinamiche

politiche e sociali, e distinguendosi in tal modo nettamente dal concetto di clan.

L‟insieme di un certo numero di ceppi familiari, poi, dà vita alla struttura della tribù, il

taqbilt, che rappresenta l‟entità aggregativa tradizionale della struttura organizzativa del

popolo Amazigh.

L‟insieme di più tribù costituisce invece la federazione, sebbene questo livello

organizzativo comune non sia frequente, e ogni federazione vive ad ogni modo di vita

propria ed indipendenza amministrativa e sociale, senza alcun rapporto di subordinazione

con altre strutture similari.

L‟organizzazione territoriale politica ed economica delle tribù berbere, o delle federazioni,

è basata sul sistema dei çoff, aggregazioni informali assimilabili alle ”leghe” di tradizione

europea.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 93

I çoff sono costituiti sotto forma di sistemi di alleanza e mutua assistenza, che restano

autonomi nella loro gestione ordinaria, ma che possono contare sulla presenza e sul

supporto delle altre tribù per sopperire alle difficoltà, alle aggressioni e, non ultimo nella

gestione del commercio.

L‟adesione al çoff è libera, e non è infrequente assistere al passaggio di tribù o federazioni

da un çoff all‟altro, a seconda dell‟interesse e della convenienza.

I çoff, tuttavia, rappresentano anche linea di demarcazione tra la stabilità e l‟instabilità

delle comunità berbere, costituendo spesso il presupposto per la bellicosità, la

competizione o la più semplice segregazione.

All‟interno di questa architettura politica e sociale, vige una forma organizzativa basata

sulla partecipazione di ogni individuo di sesso maschile – dopo il raggiungimento della

maggiore età – alla vita politica della tribù, nella forma di una sorta di assemblea

denominata djemma. Tutti i maschi maggiorenni devono concorrere al benessere e alla

gestione della tribù, ed è quindi obbligatorio partecipare alle riunioni, che si tengono

solitamente con cadenza settimanale.

La particolarità nella gestione della vita sociale e politica è data dalla necessità di giungere

al consenso dei partecipanti per assumere le decisioni di interesse della tribù.

Nell‟interesse della continuità e della coesione dei nuclei familiari all‟interno della tribù, le

decisioni non vengono prese a maggioranza, ma attraverso un lungo processo finalizzato

all‟ottenimento del consenso generale.

Al tempo stesso non è presente una linea gerarchica di comando all‟interno della struttura

sociale della tribù, essendo le decisioni di interesse comune prese dalla collegialità dei

membri della comunità. E dove, quindi, le minoranze hanno un ruolo e un peso,

depotenziando automaticamente ogni forma di conflitto all‟interno dei gruppi.

Lo stesso sistema regola la giustizia della comunità, dove i crimini sono giudicati dalla

comunità, che eroga successivamente le pene.

Il berberismo e i rischi della crisi nel Mali

Alla ricerca di un‟identità a lungo negata, ma anche in conseguenza delle sempre più

repressive norme per l‟integrazione delle minoranze, alcune comunità berbere hanno dato

vita nel corso degli ultimi vent‟anni ad una lotta politica per il proprio riconoscimento e, se

non per la propria indipendenza, almeno per il riconoscimento di una autonomia territoriale

in alcune aree di consistente presenza.

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Questa politica, definita come il “berberismo”, o timmuzya, si è inizialmente manifestata

come processo di lotta socio-culturale tesa al riconoscimento dell‟identità etnica e

geografica dei berberi, manifestandosi soprattutto nelle regioni della Cabilia algerina e nel

sud del Marocco.

Il motivo centrale della lotta berbera è quello di impedire una arabizzazione forzata del

proprio popolo, puntando quindi al riconoscimento di una forte e distinta identità etnica e

culturale dei berberi rispetto a quella del ceppo etnico arabo che domina politicamente la

regione.

I touareg, popolo berbero dell‟Africa Subsahariana, hanno tuttavia trasformato le istanze

della lotta per il riconoscimento della propria cultura in vera e propria lotta armata, in Niger

e soprattutto nel Mali.

L‟escalation di questa crisi, nel corso del 2012, ha portato all‟autoproclamazione di uno

stato de facto berbero nel Mali, dal nome di Azawad, con la conseguente perdita di

controllo del territorio da parte delle autorità centrali di Bamako e lo sviluppo di una

sanguinosa guerriglia che ha provocato un numero crescente di vittime.

I touareg, tuttavia, nel perseguimento del loro obiettivo politico e territoriale, hanno definito

un‟alleanza con alcune cellule jihadiste di manifesta aderenza qaedista, che si sono

installate nella regione aiutando i berberi nella conquista del loro territorio, ma esigendo

poi l‟instaurazione di un regime radicale di matrice islamica.

Le milizie islamiche di Ansar Dine sono quindi rapidamente entrate in conflitto con le tribù

touareg, operando spesso anche a ridosso del confine con l‟Algeria e il Niger e destando

la preoccupazione dei governi occidentali, che hanno di conseguenza apertamente

progettato di organizzare una missione militare per contrastare il ruolo delle unità jihadiste.

Tale intenzione è bastata per convincere la gran parte delle forze dei touareg a prendere

definitivamente le distanze da quelle degli islamisti, spesso portandoli ad abbandonare i

centri urbani conquistati durante la ribellione del 2012 nel timore di attacchi aerei da parte

di una coalizione internazionale.

L‟esperienza indipendentista dell‟entità territoriale dell‟Azawad è quindi stata nel suo

complesso fallimentare e a detrimento degli interessi berberi in generale e dei touareg in

particolare.

L‟illusione di una facile conquista territoriale, e la leggerezza del definire un‟alleanza con

una cellula jihadista tradizionalmente ostile alla causa berbera ha dimostrato l‟incapacità

politica e decisionale delle tribù touareg e la loro inconsistenza sotto il profilo della

solidarietà federativa.

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La crisi scaturita nel 2012, come largamente preannunciato, tra le milizie di Ansar Dine e

le tribù touareg ha inoltre dimostrato la profonda differenza e capacità tra le comunità

berbere del Nord Africa e quelle dell‟Africa Subsahariana, sotto due aspetti in modo

particolare. In primo luogo per quanto concerne la dimensione delle rivendicazioni

identitarie, che i berberi del Nord Africa pongono su un piano culturale ed etnico, a

differenza dei touareg che lo individuano anche sotto il profilo territoriale. E poi, ma non

certo in subordine, per la capacità di analisi nel valutare e comprendere la propria

posizione politica e sociale all‟interno della vasta area geografica in cui vivono le

popolazioni berbere, valutando in modo del tutto differente – e pericolosamente

inappropriato – la validità delle alleanze sul territorio e soprattutto la natura della minaccia.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 96

2.2 I berberi d’Algeria

Sebbene l‟Algeria abbia fatto concreti ed importanti passi in direzione del riconoscimento

dei berberi, ad esempio con il riconoscimento del tamazight come lingua ufficiale dello

Stato algerino, la gran parte dei berberi lamenta una scarsa sostanza nelle aperture del

governo definendo poco più che di facciata le decisioni prese per riconoscere

l‟indipendenza culturale del proprio popolo.

Inoltre, i berberi denunciano l‟opportunismo delle aperture governative, a loro avviso

dettate esclusivamente da ragioni di sicurezza del territorio e nel tentativo di coinvolgere i

berberi, addossandogliene il peso operativo, nella lotta al jihadismo e nell‟individuazione

delle cellule qaediste di base nel Mali e nel sud dell‟Algeria.

Sulla base di queste premesse, quindi, sia le autorità algerine che quelle del Marocco

ritengono essere presenti numerosi indicatori di rischio connessi all‟attivismo politico

berbero e al suo ritrovato vigore in alcune aree del Nord Africa e dell‟Africa Subsahariana.

Non ci sono particolari allarmismi in funzione di una ribellione armata, tuttavia, e

l‟esperienza dei touareg nel Mali viene considerata dall‟intelligence algerino come un

episodio isolato e del tutto scollegato rispetto alla tradizionale matrice dell‟attivismo

berbero.

I berberi continueranno quindi la loro azione di protesta – perlopiù pacifica – per il

riconoscimento delle loro istanze identitarie e culturali, senza presentare rischi di entità

maggiore a quelli del normale ordine pubblico.

Ma, se il processo di integrazione e riconoscimento dovesse essere costantemente

frustrato dalle autorità algerine e, contestualmente, se il rischio di attacchi e razzie da

parte delle milizie islamiste presenti nell‟area dovesse continuare e crescere per intensità

senza che l‟esercito di Algeri intervenga, sarà possibile assistere con ogni probabilità nel

breve periodo ad un radicale mutamento di attitudine da parte dei berberi. Più su base

auto difensiva che offensiva, ma in ogni caso di natura diversa rispetto a quello

essenzialmente pacifico e inoffensivo di oggi.

I berberi algerini e il rischio del fondamentalismo islamico

Esistono profonde differenze tra i gruppi berberi residenti nel territorio algerino e quelli

delle popolazioni touareg del Mali, nonostante la relativamente breve distanza tra loro

sotto il profilo geografico.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 97

I touareg hanno definito un‟alleanza temporanea, e assai fallimentare, con le milizie

jihadiste di Ansar Dine nell‟illusione di poter dominare tale rapporto politicamente e

militarmente, e soprattutto al fine di un comune interesse strategico contro le truppe

maliane nella regione.

I berberi algerini, al contrario, sono storicamente ostili alle formazioni radicali che nel

tempo hanno operato in Algeria, dal GIA ad AQIM, ed anzi temono fortemente il rischio di

un conflitto con queste.

Dal canto loro, le milizie islamiche algerine considerano i berberi come una popolazione

essenzialmente laica, se non addirittura eretica per il modo di concepire la religione e

soprattutto l‟organizzazione della propria società, minacciando a più riprese le comunità

tribali berbere della Cabila soprattutto, e apertamente sostenendo la necessità di

conversione ad un Islam puro e tradizionale delle varie entità regionali.

I berberi algerini, che rifiutano ogni commistione tra religione e politica, e professano

un‟interpretazione laica dell‟organizzazione delle tribù e dei çoff, sono quindi ben consci

del pericolo rappresentato dalla presenza delle milizie islamiche radicali nella regione.

Coincidono quindi gli obiettivi dell‟Algeria e dei berberi algerini in direzione della lotta al

radicalismo islamico, ma è ad oggi mancata una reale capacità di trasformare questa

comunione di interessi in un‟azione concreta a sostegno dell‟identificazione e del

contenimento delle cellule jihadiste in Algeria. Essenzialmente perché i berberi, di fatto,

continuano a temere al pari degli islamisti anche le autorità statuali algerine, che vedono

come ipocritamente interessate solo alla gestione del problema sicurezza e non già alla

trasformazione del modo di gestire l‟autonomia berbera e la difesa delle peculiarità etniche

e culturali del popolo Amazigh.

Ciononostante, tuttavia, è doveroso ammettere – qualsiasi ne sia stata la ragione

sottostante – che il governo algerino ha compiuto passi decisamente significativi in

direzione del riconoscimento dei berberi e della loro identità etnico-culturale.

Trasformando e di fatto cancellando la spinta arabizzante che per secoli aveva

caratterizzato l‟attitudine dei popoli non berberi della regione, e ponendo in essere

programmi di ampia portata come il riconoscimento della lingua berbera come lingua

ufficiale dello Stato.

Decisione dalla quale ne è derivata una corposa e prolifica serie di attività culturali e

divulgative come la creazione di un canale televisivo in lingua berbera, la diffusione di

giornali e pubblicazioni dedicate specificamente alla comunità Amazigh della Cabilia e, più

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 98

in generale dando vita ad enti ed organizzazioni estremamente attivi nella promozione

culturale e nel processo di diffusione e tutela del patrimonio identitario del popolo berbero.

Carta della distribuzione geografica dei berberi.

Con il colore azzurro vengono indicati i berberi del ceppo touareg e Siwa, distribuiti tra

Mali, Niger, Algeria e Libia.

Con il colore arancione e quello rosa sono indicati i due ceppi berberi Tamazight Zenati.

Con il colore verde sono indicati i berberi Ghadamsi.

Con il colore giallo e amaranto i due ceppi berberi Taqabaylit.

Con il colore blu sono infine indicati i berberi Tashelhit Atlas.

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3. La dimensione della cooperazione regionale del Maghreb con la NATO, l’Unione

Europea e l’Italia

3.1 La cooperazione economica e per la sicurezza tra Europa e Maghreb

La sponda nord e quella sud del Mediterraneo condividono una vasta sfera di interessi

comuni sotto il profilo della sicurezza.

Ciononostante, molto poco è stato fatto in direzione di un piano concreto di cooperazione

tra le due regioni, lasciando il più delle volte che fossero le contingenze delle situazioni di

emergenza a dettare l‟agenda di lavoro e a impostare le dinamiche del dialogo bilaterale.

I primi, significativi sforzi in direzione di una comune visione della sicurezza e della

cooperazione vennero effettuati nel 1995 in occasione della Conferenza di Barcellona,

storico quanto purtroppo fallimentare – nei fatti – accordo per garantire lo sviluppo della

sponda sud del Mediterraneo, creare un mercato comune e garantire la sicurezza di

entrambi i contesti regionali.

Alle lodevoli intenzioni della conferenza di Barcellona si è purtroppo sostituita la crudele

realtà di un sistema internazionale afflitto da conflitti e da una crescente crisi economica,

dalla perdurante incapacità di fondo degli europei di ragionare in termini di sistema unitario

a vantaggio del dialogo unilaterale e quindi indipendente dei singoli Stati, e del cronico

arretramento politico ed economico della sponda sud del Mediterraneo, caratterizzata

allora esclusivamente dalla presenza di regimi autoritari, da istituzioni afflitte dall‟endemico

problema della corruzione, e da una società divisa dal tribalismo e dagli interessi delle

comunità di base del sistema di aggregazione umana.

L‟occasione offerta dalla Conferenza di Barcellona era dunque ghiotta. Cambiare registro

nella condotta della visione politica bilaterale e spingere in direzione di un multilateralismo

che avrebbe nel medio periodo ripagato tutti i partecipanti attraverso la costruzione di un

sistema integrato e caratterizzato da regole condivise.

Venne al contrario pagato lo scotto di una classe politica europea mediamente poco

influente e poco capace di incidere sulle dinamiche internazionali comuni, solitamente di

profili non adeguati alla gestione degli ambiziosi programmi dettati a Barcellona, e quindi

incapace di sostenere il peso e lo sforzo necessario per la sua attuazione a livello

internazionale. I fatti dell‟11 settembre del 2001, poi, con la conseguente estesa

conflittualità in larga parte del Medio Oriente, determinarono la pratica impossibilità di

sostenere politicamente ed economicamente lo sforzo di un processo integrativo comune,

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 100

come dettato nel 1995 a Barcellona, determinando quindi l‟arresto del programma e il suo

progressivo oblio.

Ciononostante, stante il persistere degli elementi di instabilità che dettarono l‟agenda della

Conferenza di Barcellona, sono continuati i rapporti bilaterali tra Stati, determinando forme

di cooperazione regionale su scala ridotta e, solitamente, con azioni dettate dalle

emergenze più che dalla visione di lungo termine.

Principali assi viari del sistema di trasporto terrestre in Nord Africa (Fonte, UN)

Minacce alla sicurezza regionale

Il primo ambito di cooperazione per la definizione di azioni dirette allo sviluppo della

sicurezza regionale è stato dettato, in termini di agenda, dalla lotta al terrorismo.

La sponda sud del Mediterraneo, infatti, venne individuata come una delle possibili aree di

ingresso sul territorio europeo della minaccia jihadista che a partire dal 2001 dettò

prioritariamente l‟agenda di lavoro delle cancellerie europee e più in generale occidentali.

Il controllo dei flussi umani in movimento nel Mediterraneo divenne quindi una priorità

condivisa, sebbene con altalenanti capacità di sostegno da parte dei paesi europei, divisi

sulle modalità di gestione dei flussi migratori.

Il deterioramento del quadro socio-economico delle regioni del Nord Africa e del Sahel, in

aggiunta, determinò una crescita esponenziale dei flussi migratori in direzione sud-nord,

alimentati dalla povertà, dai conflitti e dal proliferare degli autoritarismi politici.

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Questo fenomeno degenerò in breve tempo un vero e proprio allarme, imponendo

l‟adozione di una politica coordinata di gestione di controllo dei flussi e della gestione dei

profughi, riversatisi con numeri sempre maggiori sulla sponda nord del Mediterraneo e

determinando un‟emergenza gestionale che i paesi rivieraschi esigevano fosse trattata a

livello comunitario.

Il problema dei flussi migratori, quindi, era – ed è – portatore di una duplice insidia sotto il

profilo della sicurezza. La prima, e più generica, è quella della gestione dei profughi, che

determina solitamente della capacità di individuazione e salvataggio, di accoglienza o di

rimpatrio dei migranti. La seconda, e più complessa insidia è invece quella inerente la

capacità di individuazione di una minaccia di tipo terroristico o criminale all‟interno dei

flussi di migranti. Azione che necessariamente implica una capacità investigativa e di

analisi sofisticata, solitamente poco efficace se non coordinata con i paesi di provenienza

dei migranti, dove è fisicamente possibile – sebbene con difficoltà – accedere ad

informazioni utili per l‟individuazione della minaccia.

Ne consegue, quindi, che sotto entrambi gli aspetti della duplice valenza del problema dei

flussi migratori, non è possibile adottare una efficace campagna di prevenzione e gestione

della sicurezza senza al contempo sviluppare un‟efficiente formula di cooperazione con le

controparti statuali della sponda sud del Mediterraneo.

Definendo una struttura del problema assai complessa e dettata dall‟esigenza di

individuare in modo pragmatico e pratico una soluzione, necessariamente basata sulla

cooperazione.

Sono presenti, poi, in connessione al fattore di rischio rappresentato dai flussi migratori,

una vasta gamma di fenomeni collaterali di minore rilevanza, ma caratterizzati da un

notevole potenziale di rischio. Tra questi spiccano senza dubbio i traffici illeciti, dominati

dal traffico di stupefacenti e da quello delle armi e degli esplosivi. Che hanno come

immediato effetto quello di alimentare il tessuto della criminalità organizzata nelle aree di

ricezione, determinando concreti effetti sulla sicurezza e sulla gestione dell‟ordine pubblico

e sociale.

In questo settore, l‟esperienza ha dimostrato come solo un‟efficace e mirata azione di

intelligence, coordinata con le controparti regionali ove i flussi vengono originati e gestiti,

possa permettere una puntuale individuazione delle attività illecite, soprattutto nelle fasi di

imbarco e sbarco nelle aree di origine e destinazione, e quindi prima dell‟avvio verso i

centri di destinazione finale delle partite, dove più difficile è poi l‟intercettazione ed il

sequestro.

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Ultimo, ma non certo meno rilevante, è il rischio rappresentato dalla gestione sregolata e

spesso illecita delle attività commerciali e produttive nel Mediterraneo, come nel caso della

pesca, che ha più volte causato incidenti di frontiera, sequestri ed episodi di violenza.

Gli sconfinamenti delle imbarcazioni da pesca, sia della sponda sud che di quella nord,

sono stati per anni una regola, con ripetuti incidenti di differente gravità conclusisi spesso

con il sequestro delle imbarcazioni e l‟arresto degli equipaggi.

Più volte, le associazioni di categoria regionali hanno lamentato l‟esigenza di una più

efficace regolamentazione del fenomeno, sia per quanto concerne la sostenibilità delle

attività connesse alla pesca23, sia per la gestione delle attività di monitoraggio e verifica

delle aree di competenza delle flottiglie, che, lamentano in molti, vengono

sistematicamente violate dai natanti delle più diverse nazionalità.

Area di dislocazione e di operazioni nell‟Africa Subsahariana delle forze jihadiste legate

Alla rete di Al Qaeda (Fonte, Counterjihad)

La gestione del problema alla sorgente

Come si era brillantemente intuito all‟epoca della Conferenza di Barcellona del 1995,

l‟unica vera possibilità per agire in termini reali di contrasto contro l‟emergere e il

progredire delle più diverse fenomenologie di rischio nel rapporto tra la sponda nord e sud

23 In tal senso anche il documento prodotto dalla Commissione Europea “La pesca europea”, Bruxelles, n. 21 Aprile 2004.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 103

del Mediterraneo, è quella di operare per la rimozione delle cause alla radice del

problema.

La principale ragione dell‟instabilità della regione del Nord Africa è senza dubbio

rappresentata dalla presenza, almeno sino all‟avvio del processo di rivolta della cosiddetta

“Primavera Araba”, di sistemi politici autoritari, antidemocratici e repressivi. Cui va

imputata la responsabilità prima dell‟aver impedito un pacifico e normale sviluppo delle

libertà politiche e di pensiero in tutta la regione per cinque decenni.

La sopravvivenza politica ed economica dei regimi della regione è stata ampiamente

garantita dalla complicità dell‟occidente e dell‟Europa in particolar modo, nell‟ottica di

impedire l‟emergere di forme di governo democratiche e pluraliste – ma, potenzialmente,

ostili o non propense al mantenimento di un rapporto di sudditanza con la sponda Nord –

e soprattutto per evitare in modo categorico l‟emergere di movimenti e formazioni politiche

di ispirazione islamica.

L‟ostracismo nei confronti dei movimenti e delle organizzazioni religiose, in modo

particolare, non ha fermato il lento ma progressivo incremento del loro ruolo, soprattutto in

termini di assistenza sociale, formazione e sanità, conquistando in ogni caso il consenso

di ampie fasce della popolazione e favorendo al tempo stesso l‟emergere e il consolidarsi

delle fazioni radicali ed interventiste.

Il timore del radicalismo islamico ha tuttavia generato reazioni differenti e spesso ambigue

e contrastanti, soprattutto grazie al ruolo consenziente e pragmatico di quei paesi – come

l‟Arabia Saudita – che hanno sempre finanziato le organizzazioni radicali ed estremiste

allo scopo di garantire la propria sicurezza interna spostando fuori dai propri confini la

dimensione della minaccia. Il finanziamento alle organizzazioni radicali wahabite e salafite

ha inoltre rappresentato lo strumento di legittimazione della corona saudita con il locale

clero, creando un pericoloso equilibrio dal quale sono sorte alcune delle più pericolose

organizzazioni jihadiste della recente storia regionale e globale.

In aggiunta ai sistemi politici autoritari ed antidemocratici, hanno contribuito all‟instabilità

della regione le costanti conflittualità, palesi e latenti, tra Stati o all‟interno delle singole

realtà statuali.

In modo particolare, ha pesato enormemente il deterioramento della stabilità nell‟Africa

Subsahariana, dalla quale proviene percentualmente la maggior parte dei flussi migratori,

spingendo milioni di esseri umani ad intraprendere drammatici cammini in aree desertiche

pur di sfuggire alla peggior forma di povertà, alle guerre e ad alcuni tra i sistemi politici più

autoritari e repressivi del pianeta. Come nel caso dell‟Eritrea, regime militarizzato e

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 104

brutalmente repressivo, da cui proviene circa il 20% dell‟intero flusso di migranti che ogni

anno raggiunge le coste del Nord Africa per raggiungere l‟Europa24.

Migranti deceduti in europa (Fonte, United for Intercultural Action)

Il contenimento dell‟espansione delle crisi militari, e la gestione di un più efficiente sistema

di relazione con i paesi autoritari, esercitando pressioni politiche ed economiche adeguate,

potrebbe nel ridurre significativamente la consistenza dei flussi migratori regionali,

incrementando lo sviluppo economico locale e favorendo l‟avvio di un lento ma certamente

proficuo circolo virtuoso di crescita.

La conflittualità regionale non ha solo una dimensione di tipo militare, o comunque di

conflitto conclamato, ma si manifesta spesso anche sotto forma di criticità latenti o di

interruzione delle normali attività politiche o commerciali, come nel caso del confine tra

Marocco e Algeria, la cui prolungata chiusura ha determinato in passato la perdita di

24 Unietd Nations Migration Report, New York, anno 2011

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importanti ritorni economici e commerciali nell‟interesse di entrambi i paesi25. Una

condizione di crisi che solo in tempi recenti è stata oggetto di una rinnovata attenzione in

termini di modificazione nell‟interesse dell‟interscambio tra i due paesi, e più in generale

dell‟Unione per il Maghreb Arabo (UMA), ultimente penalizzato dalla crisi nel Mali.

Alla conflittualità latente tra Marocco e Algeria, quindi, è imputabile la gran parte dei

rallentamenti nel processo di integrazione regionale nell‟area del Nord Africa, con

conseguenze di natura sistemica su gran parte dell‟area settentrionale del continente.

Perché è necessario credere nel Maghreb?

Il principale problema del mancato sviluppo del Maghreb risiede, in larga parte, nella

storica scarsa cooperazione tra i paesi della regione, e all‟impermeabilità delle frontiere in

direzione di un sistema di scambi a vantaggio dell‟insieme degli Stati della regione e le

aree limitrofe. Europa compresa.

L‟unica esperienza storica di unità regionale risale al periodo compreso tra l‟undicesimo e

il dodicesimo secolo, sotto il dominio delle dinastie marocchine al-Moravid e al-Mohad.

L‟esperienza coloniale sotto il dominio ottomano prima, ed europeo dopo, ha

artificialmente unito alcuni dei paesi della regione per periodi di tempo relativamente

prolungati, senza tuttavia innescare alcun reale meccanismo di collaborazione ed apertura

tra le singole realtà.

In tal modo, quindi, mentre l‟esperienza della lotta anti-coloniale ha unito

momentaneamente gli sforzi e gli interessi dei paesi della regione – l‟Algeria in quanto

parte del dominio francese, e il Marocco e la Tunisia quali protettorati – il periodo

immediatamente successivo alla conquista dell‟indipendenza ha visto trionfare una visione

prettamente nazionale, indipendente, autonoma e spesso bellicosa della dimensione di

rapporto con i paesi vicini. Determinando nel tempo crisi di varia natura ed ampiezza

soprattutto nella definizione dei confini.

Il Marocco e l‟Algeria entrarono in aperto conflitto nel 1963 prima, e nel 1975 poi,

disputandosi pezzi tutto sommato marginali delle proprie aree di confine nelle regioni

desertiche meridionali. La Tunisia e l‟Algeria ebbero un breve conflitto nel 1963, per le

medesime ragioni, e poi fu la volta nel 1985 di un breve ma assai cruento conflitto tra

l‟Algeria e la Libia.

25 “Contenzioso tra Algeria e Marocco, Rabat ha tutto da guadagnarci a risolverlo”, di Mezak T., La Libertè, 4 aprile 2010

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Complicò ulteriormente il quadro della situazione l‟accordo strategico siglato dall‟Algeria,

dalla Tunisia e dalla Mauritania nel 1983, con il quale si attuava una politica

dichiaratamente anti marocchina ed anti libica, impedendo la libera circolazione dei

cittadini e dei flussi commerciali, strangolando, di fatto, gran parte del sistema di traffici e

commerci che alimentava l‟intero sistema delle economie regionali26. L‟accordo si

inserisce nel quadro di una annosa diatriba regionale, che vede primariamente coinvolte

l‟Algeria e il Marocco, ma che estendeva la sua portata anche alla Libia di Gheddafi,

determinando sul piano politico e commerciale la pressoché totale impossibilità di sviluppo

di un piano orizzontale di relazioni nella regione27.

Nel 1989 venne definita la creazione dell‟Unione del Maghreb Arabo, una sorta di alleanza

regionale per favorire l‟incremento degli scambi commerciali, i flussi di beni e capitali e la

partecipazione a programmi comuni di cooperazione per la difesa. Il progetto, innovativo e

nell‟interesse comune del Maghreb, venne tuttavia congelato già nel 1995 a causa delle

continue frizioni tra Algeria e Marocco, che impedivano sistematicamente la sua

implementazione a danno dell‟intera unione.

Nel 1997 il Marocco e la Tunisia hanno aderito al GAFTA, Greater Arab Free Trade Area,

vedendo tuttavia frustrato lo sviluppo degli effetti di tale adesione dalla mancata

partecipazione dell‟Algeria e della Libia, che determinarono una “barriera” geografica

insormontabile per la gestione dei traffici terrestri.

Infine, nel 2010, l‟Algeria ha creato un‟alleanza regionale anti-terrorismo con tre paesi

dell‟Africa-Subsahariana, deliberatamente escludendo il Marocco, limitando in tal modo

esponenzialmente la capacità operativa soprattutto in supporto al Mali e al Niger.

Una storia, quindi, quella del Maghreb, fatta essenzialmente di divisioni, conflitti ed ostilità

più o meno palesi dettate da miopi agende nazionali, antichi rancori e retaggi mai

cancellati della devastante esperienza coloniale francese.

L‟Europa ha cercato di favorire a più riprese il dialogo e la cooperazione dei paesi del

Maghreb, sebbene con sforzi e capacità non costanti, mancando a sua volta di una

politica chiara e unitaria, limitando, grandemente, in tal modo gli effetti del suo impegno.

26 “Why the Maghreb matters, threats, opportunities and options for cross-border cooperation in North Africa”, di William Zartman, Potomac Institute for Policy Studies and Conflict Management Program (SAIS) at Johns Hopkins University, 31 marzo 2009. 27 Per una più approfondita disamina delle complesse relazioni tra Algeria e Marocco, vedasi l‟articolo di Carmine Finelli Marocco-Algeria: le complicate relazioni bilaterali, Equilibri, 22 marzo 2012, http://www.equilibri.net/nuovo/articolo/marocco-%E2%80%93-algeria-le-complicate-relazioni-bilaterali

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 107

Quattro furono, in particolare, i principali tentativi europei di favorire una cooperazione

regionale sul piano orizzontale e, potenzialmente su quello verticale dei rapporti tra le

sponde nord e sud del Mediterraneo.

Il primo fu il Piano d‟Azione Mediterraneo, sponsorizzato dall‟Environmental Program delle

Nazioni Unite nel 1975, seguito poi esattamente vent‟anni dopo nel 1995 dall‟Euro

Mediterranean Partnership. Poi fu la volta nel 2004 della Politica Europea di Vicinato e,

infine, dell‟Unione per il Mediterraneo nel 2007. Le proposte del 1995, del 2004 e del 2007

furono tutte coordinate sotto l‟egida dell‟Unione Europea, nel solco del dialogo avviato a

Barcellona con l‟Euro Mediterranean Partnership nel 1995, teso a determinare le

condizioni per un intervento nelle aree del Maghreb atto a favorire lo sviluppo economico,

la democratizzazione e, non ultimo, l‟arresto dei flussi migratori attraverso lo sviluppo

dell‟economia locale.

Una concezione nuova del dialogo regionale, quindi, non più impostata sull‟integrazione

orizzontale del Maghreb, ma orientata questa volta all‟ampliamento complessivo del

sistema di alleanze con l‟Europa.

Nessuna di queste azioni riuscì tuttavia ad integrare, anche solo parzialmente, la regione

del Maghreb, e a legare questa all‟Europa. I paesi dell‟area continuano quindi a gestire i

loro sistemi economici in modo indipendente, entrando in diretta competizione su larga

parte della propria produzione nazionale e non godendo di alcuno dei vantaggi che

deriverebbero da una politica di sinergie e cooperazione.

È conseguentemente cresciuto il tasso di disoccupazione, mediamente attestato nella

regione intorno a valori del 20%, facendo crollare nel corso degli ultimi trent‟anni i valori

del reddito pro capite regionale, e creando larghe sacche di povertà che sono state alla

base dei flussi migratori a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta.

In queste stesse sacche ha pescato a piene mani il radicalismo islamico, reclutando

manovalanza che ha poi costituito l‟avanguardia dei movimenti e/o delle cellule jihadiste,

prima della loro internazionalizzazione con l‟avvento di Al Qaeda.

Alla visione ed agli interessi europei (o comunitari),sono prevalsi quelli nazionali, in

particolar modo francesi ed italiani, che hanno favorito lo sviluppo di rapporti economici e

politici bilaterali, facendo definitivamente crollare ogni ipotesi di multilateralismo e, di fatto,

condannando la regione ad una costante condizione di sudditanza.

La gestione bilaterale delle relazioni con l‟Europa ha anche determinato un irrigidimento

delle attività intra-regionali, limitando gli scambi e cristallizzando il sistema di barriere e

dazi che sin dall‟indipendenza aveva reso deboli le economie della regione.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 108

La separazione e l‟isolamento all‟interno del Maghreb ha quindi riguardato ogni aspetto

della vita politica, economica e culturale, limitando i contatti tra le élite accademiche,

impedendo le connessioni e gli scambi diretti e, in sintesi, alimentando un sistema di

isolamento nazionale di ciascun paese senza precedenti.

Questo sistema di crisi ha quindi reso rigidi i sistemi economici e poco flessibili quelli

politici, determinando – anche a seguito dell‟incremento demografico dell‟intera regione –

spaventose percentuali di disoccupazione, dalle quali sono derivati la maggior parte dei

fenomeni connessi al deterioramento della sicurezza e della stabilità politica dei singoli

Stati.

Né, tuttavia, ha compreso l‟Europa questo fattore ed i rischi ad esso connessi e nulla o

poco ha fatto per scoraggiarlo, alimentando, al contrario, la tendenza alla

massimizzazione dei profitti commerciali di alcuni paesi membri che hanno ulteriormente

favorito la condizione di separazione ed isolamento di tutti i paesi del Maghreb. In tal

modo non solo ha tradito gli auspici della Conferenza di Barcellona del 1995, ma ha anche

creato i presupposti per un significativo innalzamento dei propri fattori di rischio.

I poderosi flussi migratori degli ultimi dieci anni, e la minaccia jihadista in Europa, sono

essenzialmente il prodotto di questa miope e biecamente economica visione del rapporto

con il Maghreb.

Per questa ragione, e soprattutto in conseguenza di ciò che questa instabilità ha prodotto

anche in Europa nel corso dell‟ultimo decennio, è necessario riconsiderare la politica di

relazione con il Maghreb, facendola il più rapidamente possibile ri-transitare attraverso la

più ampia maglia di rapporto dell‟Unione Europea, favorendo un rapido quanto intenso e

fattivo interscambio regionale ed una effettiva apertura delle frontiere sul piano

orizzontale, ma, soprattutto, individuando i meccanismi economici, tecnologici e

imprenditoriali per una solida e concreta rivitalizzazione del tessuto economico locale.

In tal senso potrebbe essere opportuno rivedere innanzitutto le barriere doganali ed il

sistema dei dazi, che per anni hanno costituito l‟elemento maggiormente problematico a

monte dell‟immobilismo sul piano regionale. L‟Unione Europea dovrebbe dare il proprio

contributo per favorire in modo efficace e duraturo, quindi, l‟espansione di un mercato

regionale aperto e vitale, attraverso una politica di maggiore cooperazione ed apertura tra

gli Stati della regione, incrementando la capacità di investimento all‟interno dell‟area e, di

fatto, realizzando un mercato aperto e allargato in ogni dimensione regionale del

Mediterraneo.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 109

Gli Stati regionali devono essere in tal modo incoraggiati a superare le tradizionali ritrosie

alla collaborazione sul piano orizzontale, mediante l‟erogazione di incentivi che - almeno

in una fase iniziale – possa far comprendere i vantaggi di una più ampia e duratura

apertura agli scambi con i paesi confinanti.

Nessuna ipotesi di reale sviluppo regionale, tuttavia, potrà prescindere dal potenziamento

degli assi di comunicazione terrestre nell‟area del nord Africa. Questi, limitati

essenzialmente alla dimensione costiera e con ramificazioni quasi esclusivamente

nazionali, dovrebbero essere concettualmente ripensati in modo da favorire lo sviluppo

dell‟asse est-ovest, con la realizzazione di arterie stradali efficienti e funzionali, interporti

per la trattazione delle merci e delle formalità doganali, una adeguata copertura di stazioni

di servizio e la contestuale attuazione di una funzione di controllo efficiente ed efficace per

la gestione in sicurezza dei trasporti.

Non meno importante risulta lo sviluppo di una rete ferroviaria transregionale, ad oggi

limitatissima, antiquata e dotata di mezzi e strutture obsoleti ed affatto competitivi. La

realizzazione di una rete ferroviaria integrata in grado di trasportare flussi costanti di merci

dal Marocco all‟Egitto, soprattutto se abbinata allo sviluppo di una altrettanto adeguata

rete stradale, potrebbe effettivamente favorire una rivoluzionaria trasformazione della

politica economica regionale, legando indissolubilmente i paesi del Maghreb e del

Machrek, e dando in tal modo impulso in modo forzoso alla definizione di una politica di

cooperazione efficace e duratura.

È necessario che l‟Europa attui concreti programmi di investimento e diversificazione

industriale nella regione, anche delocalizzando parte della propria produzione, al fine non

solo di ottimizzare i costi complessivi della produzione industriale, ma anche, e soprattutto,

per creare un mercato allargato nel Maghreb e nell‟Africa Sub Sahariana che possa

costituire una alternativa e un‟opportunità per la sempre più asfittica situazione del

mercato europeo. Favorendo in tal modo lo sviluppo regionale negli Stati della fascia sud

del Mediterraneo, arrestando l‟impoverimento determinato dai massicci flussi migratori in

direzione nord, e al tempo stesso contribuendo fattivamente alla mitigazione delle

principali fenomenologie di rischio connesse alla diffusione della povertà e del

sottosviluppo.

Scelte non facili, in periodi di crisi, ma assolutamente necessarie nell‟ottica di impostare

una ripresa economica di nuova generazione basata sul principio di partecipazione,

anziché su quello di esclusione.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 110

Secondo i dati di uno studio condotto dal Peterson Institute of International Economics28,

l‟impatto potenziale di una cooperazione politica ed economica, e soprattutto dell‟adozione

di una reale e completa area di libero scambio tra i paesi del Maghreb, porterebbe un

immediato ed iniziale risultato nel commercio stimato in circa un miliardo di dollari, con

prospettive di crescita esponenziale nell‟arco di un decennio ed il determinarsi di un

sistema di cooperazione economica “senza ritorno”, e quindi destinato a durare nel tempo

nell‟interesse di tutti i partecipanti.

Sempre secondo lo studio del Peterson Institute of International Economics, se questa

forma di cooperazione venisse poi estesa all‟Unione Europea, i valori dell‟interscambio

commerciale sarebbero immediatamente assestati nell‟ordine di circa 5 miliardi di dollari,

espandibili a circa 10 nel caso di un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.

Numeri e valori, quindi, non solo del tutto superiori all‟attuale dimensione dell‟interscambio

regionale, ma anche, e soprattutto, di quelli relativi ai singoli rapporti bilaterali degli Stati

europei con il Maghreb. Un indiscutibile vantaggio economico per tutti, quindi, arrestato

dalla costante miopia politica di ambo i sistemi regionali, e dalla scarsa capacità di visione

delle élite politiche europee, che non sono mai riuscite a trasformare la progettualità

definita a Barcellona nel 1995 in un fenomeno concreto e reale.

La strategia di sicurezza europea nel Maghreb

Numerose, come si è visto, sono le minacce provenienti dall‟area del Nord Africa, e la gran

parte di queste affonda le sue radici nelle endemiche condizioni di sottosviluppo del

tessuto politico, sociale ed economico locale.

La cooperazione nel settore dell‟antiterrorismo tra Europa e Maghreb si inserisce nel più

vasto quadro della Politica Europea di Vicinato (ENP), definita nel 2004 come elemento di

sopravvivenza del Processo di Barcellona, e con il chiaro obiettivo – per quanto solo

parzialmente soddisfatto – di impedire la determinazione di un divario tra nord e sud nel

Mediterraneo. Sedici paesi sono chiamati a far parte dell‟ENP, e tra questi tutti i paesi del

Nord Africa.

Il quadro generale di riferimento dell‟ENP, assai ampio, prevede specificamente anche

l‟impegno dei paesi aderenti nella lotta al terrorismo, sia attraverso l‟individuazione e la

28 “Maghreb Regional and Global Integration: A Dream to Be Fulfilled”, di Gary Clyde Hufbauer e Claire Brunel, in Policy Analyses in International Economics, n. 86, Ottobre 2008

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 111

correzione delle cause che concorrono ad alimentarlo, sia attraverso la pratica e concreta

azione di contrasto al fenomeno.

Il Marocco ha fatto notevoli passi in avanti nella lotta alle organizzazioni jihadiste presenti

sul proprio territorio nazionale, soprattutto a seguito dei sanguinosi attentati del 2003 a

Casablanca.

La cooperazione nel settore dell‟antiterrorismo tra Unione Europea e Marocco ha

permesso l‟individuazione di numerose cellule attive e di ramificazioni sul territorio

europeo, producendo risultati concreti e tangibili altamente apprezzati dalle principali

agenzie di intelligence europee.

In Algeria, la strategia politica dell‟amnistia e della reintegrazione degli ex jihadisti di GIA

ha dato buoni frutti sul piano nazionale, assottigliando enormemente i numeri delle

organizzazioni terroristiche e permettendo di marginalizzare sul terreno le formazioni più

radicali. La trasformazione di alcune unità in quella che è oggi definita l‟AQIM, ovvero Al

Qaeda in the Islamic Maghreb, da un lato preoccupa le forze di sicurezza per la presunta

affiliazione internazionale alla rete del terrore di Al Qaeda, dall‟altro rende evidente una

difficoltà delle organizzazioni terroristiche a ricostruire la propria rete di consenso e

protezione sul territorio, dovendosi spingere sempre più all‟interno, in aree dove la stessa

logistica organizzativa assume contorni estremamente critici.

Ciononostante, alcune cellule jihadiste hanno organizzato e portato a termine alcuni

attentati nel corso degli ultimi anni, sebbene di intensità e capacità molto differente ai

vecchi standard operativi del GIA29.

Una maggiore integrazione dell‟Algeria nel sistema regionale della sicurezza, e un

costante processo di aggiornamento secondo standard e metodologie occidentali,

potrebbe portare al conseguimento di risultati ben maggiori, utilizzando dall‟altra parte la

straordinaria esperienza dell‟intelligence algerina nella regione.

La Tunisia è il paese dell‟area dove sono stati compiuti i meno significativi passi in avanti

nello sviluppo di un efficiente sistema di contrasto al terrorismo. Complice il rigido sistema

di controllo politico imposto dal regime di Ben Ali, e il forte dualismo tra la componente

delle Forze Armate e quella delle forze di polizia, l‟apparato della sicurezza aveva sempre

mostrato maggiore interesse ed attenzione per le minacce di natura politica al regime,

piuttosto che più in generale per quelle del terrorismo.

29 “Security Through Trust-building in the Euro-mediterranean Cooperation: Two Perspectives for the Partnership”, di Ali Bilgic, in Southeast European and Black Sea studies, Dicembre 2010).

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Verso la fine degli anni Ottanta il paese aveva subito l‟azione del Movimento di Tendenza

Islamica, che aveva colpito alcune località turistiche, provocando una durissima

repressione e la messa al bando di tutte le organizzazioni di ispirazione islamica.

L‟operazione venne condotta personalmente da Ben Ali, all‟epoca ancora Ministro

dell‟Interno, e poi implementata con ancora maggiore durezza non appena asceso alla

carica di presidente.

Solo verso la fine degli anni Novanta la pressione sulle organizzazioni islamiche venne

allentata, per ordine dello stesso presidente, nel tentativo di coinvolgere quelle più

moderate e progressiste nel processo di trasformazione politica che consentirà al

presidente un ulteriore decennio di ruolo politico pressoché assoluto.

Sebbene gli Stati Uniti avessero giudicato positivamente la politica anti-terrorismo della

Tunisia, nella realtà dei fatti la politica nazionale fu più rivolta in direzione delle minacce al

sistema politico, senza alcun interesse per le cellule tunisine operanti al di fuori del

contesto nazionale, e che invece costituiranno un problema tra il 2003 e il 2009 sia in Iraq

che in Europa.

Nel 2000, peraltro, era stata segnalata la costituzione di una nuova cellula, conosciuta con

il nome di Gruppo Combattente Tunisino, che successivamente aderì alla galassia di Al

Qaeda prendendo parte a numerosi conflitti in Medio Oriente.

La cooperazione tra il Maghreb e l‟Unione Europea, invece, a dispetto della rilevanza che

il fenomeno della sicurezza e dell‟anti-terrorismo ha assunto nel corso degli ultimi quindici

anni, ha avuto al contrario una dimensione alquanto marginale e poco più che simbolica.

La gran parte dei programmi organizzati congiuntamente ha riguardato la cooperazione

nei programmi di supporto al ruolo della magistratura, dell‟organizzazione delle forze di

polizia e delle strutture carcerarie, e della protezione delle aree di confine e dei valichi di

frontiera.

Tutte attività ordinarie, quindi, con scarso interesse per quelle specificamente indirizzate in

modo diretto e concreto – peraltro in accordo con i principi della politica di vicinato - alla

lotta al terrorismo.

Ancora minore, infine, il livello di cooperazione con le forze libiche ed egiziane, dove

l‟impegno dell‟Unione Europea ha pagato lo scotto derivante dall‟incapacità di gestire il

non semplice rapporto politico con Gheddafi e con Mubarak, favorendo quindi lo sviluppo

di piani e programmi solo a livello bilaterale.

L‟Egitto, fortemente colpito nel corso degli anni Novanta dal terrorismo di matrice islamica,

si è dotato nel tempo di una poderosa struttura anti-terrorismo e di analisi in seno

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all‟intelligence, riuscendo in modo efficace a debellare il rischio di ulteriori attentati e

limitando in tal modo il ritorno negativo d‟immagine per il paese.

Al tempo stesso tuttavia, l‟Egitto ha negoziato e definito con gli Stati Uniti un corposo

programma di collaborazione, che ha permesso la gestione di un lungo ed assai intenso

processo di contenimento del radicalismo islamico, della sua vera e propria soppressione,

e della partecipazione alla gestione della sicurezza regionale30.

La caduta del regime di Mubarak non sembra aver mutato in alcun modo il percorso entro

il quale si erano mosse le forze di sicurezza egiziane, e, anzi, oggi Mursi spinge

fortemente per una politica di controllo sia delle forze radicali salafite che di quelle copte,

vere nemiche, sebbene con sfumature diverse, della svolta islamista moderata nel paese.

Anche la Libia, infine, aveva gestito la sua politica anti-terrorismo, e più in generale della

sicurezza, sulla base di accordi bilaterali con i paesi della regione.

L‟Italia, chiaramente, fu il principale interlocutore di questa politica sulla sponda nord del

Mediterraneo, scontrandosi con l‟imprevedibile opportunismo politico negoziale di

Gheddafi, con cui siglò un trattato di cooperazione finalizzato, soprattutto, al contenimento

dei flussi migratori, abilmente utilizzati dal leader libico per far leva sull‟Italia e più in

generale sull‟Europa per l‟annullamento delle sanzioni economiche imposte alla Libia nel

1988.

Non è chiaro quale sarà l‟attitudine delle nuove autorità libiche in relazione alle politica di

gestione della sicurezza con l‟Italia, sebbene i segnali della prima fase post-Gheddafi

siano moderatamente incoraggianti ed orientati nel solco della cooperazione.

In termini complessivi, invece, da più parti si chiede – e giustamente – una revisione

dell‟approccio europeo alla sicurezza nel Maghreb attraverso una ridefinizione olistica

delle procedure comuni di contrasto. Puntando maggiormente sulla prevenzione delle

cause che alimentano il fenomeno, e gestendone gli effetti mediante politiche di contrasto

comuni, condivise e, soprattutto, inserite in un quadro dimensionale di più ampio respiro31.

30 “Europe, security and islamism: misunderstandings and manipulations”, Louisa Dris-Athamadouche, in Journal of Contemporary European Studies (september 2009). 31 “European Democracy Promotion in North Africa: Limits and Prospects”, di Richard Gillespie e Laurence Whitehead, in The European Union and Democracy Promotion: The Case of North Africa, Londra, Frank Cass, 2002.

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3.2 La NATO e il Maghreb

Il rapporto tra la NATO e, a carattere generale, l‟area del Maghreb è sempre stato

caratterizzato dall‟assenza formale di specifiche forme di accordo, e da una cauta forma di

reciproca osservazione in funzione dei comuni interessi di sicurezza.

Diverso il discorso con la Libia, dove a più riprese paesi della NATO hanno partecipato o

messo a disposizione le proprie infrastrutture per la gestione di operazioni militari contro il

regime del Colonnello Gheddafi, sia nel recente passato che più indietro, a partire dagli

anni Ottanta.

Ne deriva quindi un quadro generale di relazione caratterizzato dall‟assenza di alcun

elemento formale, in questo momento soprattutto impostato su una cauta attesa da parte

della NATO, impegnata nella valutazione dell‟evoluzione degli eventi nelle aree

interessate dai processi di sostituzione politica.

I maggiori timori per la sicurezza regionale provengono dalla Libia, dove potrebbe essere

necessario impostare in breve tempo una qualche forma di programma di assistenza per

aiutare le nuove autorità libiche a garantire un rapido ritorno alla normalità. Ma anche

l‟Egitto rappresenta un‟incognita che la NATO valuta con crescente preoccupazione, nel

timore di una escalation politica con esiti disastrosi sulla stabilità nazionale.

E, in aggiunta, la NATO guarda con costante interesse anche alle aree dove la cosiddetta

Primavera Araba non ha provocato sostanziali mutamenti politici, come l‟Algeria e il

Marocco, ma dove sono comunque presenti sintomi di un malcontento generale e di una

effervescenza del tessuto sociale, tali da lasciar presagire la possibilità di future – più o

meno cruente – attività volte al mutamento del quadro politico ed istituzionale.

La crisi economica globale, e il riassetto delle priorità strategiche degli Stati Uniti e di gran

parte dei paesi europei, tuttavia, lascia presagire una sempre minore volontà della NATO

di interessarsi all‟area del Nord Africa, spostando invece la lente dei suoi interessi verso le

regioni dell‟Africa Subsahariana e dell‟Oriente.

La cronica carenza di risorse economiche, e i postumi non certo positivi dell‟esperienza

libica, stanno gradualmente spingendo la NATO in direzione di un approccio con la

regione basato sulla mutua capacità di difesa, e non più sul concetto di “ombrello”

protettivo offerto dall‟Alleanza.

In sintesi, quindi, ciò che in molti suggeriscono ed auspicano nella NATO, è la presa di

coscienza nella regione del Maghreb, o del Nord Africa più in generale, della necessità di

una forma di alleanza locale sul piano regionale. Frutto della condivisione della minaccia e

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 115

della volontà di conseguire comuni obiettivi nel settore della difesa e della sicurezza,

ottimizzano i non certo cospicui budget da ogni singolo paese investiti nel settore.

In questi termini, quindi, la NATO potrebbe trovare un interesse cooperativo nuovo, legato

soprattutto alla possibilità di espandere il proprio ruolo e la propria capacità, senza dover

necessariamente ridefinire il proprio concetto strategico e investire ulteriori – mancanti –

risorse nello sforzo di allargare in modo tradizionale a sud l‟ambito geografico e la portata

operativa dell‟Alleanza.

Una sorta di alleanza regionale per la difesa e la sicurezza, inoltre, incontrerebbe il favore

e il sostegno dell‟Unione Europea, che faciliterebbe senza dubbio il processo di

integrazione con il proprio dispositivo di difesa, e vedrebbe con grande entusiasmo la

possibilità di uno sforzo condiviso soprattutto nella gestione dei flussi migratori e del

controllo in funzione della prevenzione anti-terrorismo.

Questa potrebbe essere un‟ottima occasione per dimostrare che i programmi di

cooperazione europea non sono in realtà così drammaticamente privi di sostanza,

trasformando in realtà almeno una parte delle azioni più volte indicate come priorità di

cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo a partire dalla metà degli anni Novanta.

Come ha affermato Gilles Merrit, un grande esperto di problemi connessi alla difesa

europea, in una recente intervista32, “Dal timido Processo di Barcellona degli anni

Novanta, al „molto rumore per nulla‟ generato dall´attuale Unione per il Mediterraneo, il

Vecchio continente si è diviso tra la preoccupazione per la stabilità nordafricana e una

serie di misure egoistiche di protezione della propria cultura e della propria economia. La

tempesta politica nel mondo arabo è lungi dall´essere terminata, e i politici europei

lentamente si rendono conto che devono costruire relazioni molto più generose e

lungimiranti. Non sarà solo un dispositivo di sicurezza, ma non potrà essere nemmeno

limitato ai soli aspetti economici”.

Una visione senza dubbio brillante e veritiera di quello che dovrà – o quantomeno

dovrebbe – essere il rapporto tra l‟Unione Europea e la regione, costruito su meno

ipocrisie e su una più fattiva e concreta visione dell‟interesse bilaterale ad ampio spettro.

Non è possibile, in sintesi, chiedere al Maghreb di contribuire alla difesa e alla sicurezza

del suolo europeo, gestendo poi le relazioni economiche in modo da creare barriere e

forme di evidente sottosviluppo nelle aree della sponda sud. È necessario investire per

32 “In Maghreb nuova NATO cercasi”, di Marco Ciaccia, in Formiche, 24 febbraio 2012.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 116

una costruzione concreta sul piano multilaterale, e che tenga conto della necessità

primaria della regione del Maghreb: lo sviluppo economico.

Come la NATO potrebbe aiutare ad incrementare la sicurezza nel Maghreb

È bene non nutrire troppe speranza circa la possibilità di un ruolo nuovo e più attivo della

NATO nell‟area del Maghreb, stante – come già detto – non solo la cronica carenza di

fondi, ma anche un minore interesse politico in direzione dello sviluppo di un piano di

gestione della sicurezza nella regione.

Ciononostante, alcune significative implementazioni delle attività a tutt‟oggi attive e

validamente in corso tra la NATO e la regione, potrebbero essere oggetto di un processo

di trasformazione e crescita nell‟indubbio vantaggio di entrambe le parti.

In primo luogo, potrebbe quindi essere presa in considerazione una espansione delle

attività condotte nell‟ambito dell‟ombrello rappresentato dal “Dialogo Mediterraneo” della

NATO, trasformandolo in una sorta di contesto informale a sostegno della transizione

politica regionale e per la definizione di nuovi modelli concettuali nel settore della difesa e

della sicurezza, condivisi con la NATO.

Il quadro concettuale del Dialogo Mediterraneo, definito nel 1994 in partnership con la

Mauritania, il Marocco, l‟Algeria, la Tunisia, l‟Egitto, Israele e la Giordania, potrebbe

trovare immediata applicazione, ad esempio, nella definizione di una formula comune di

valutazione sulle politiche di maritime security, che rappresenta un ambito di comune e

collegiale interesse, e che potrebbe facilmente vedere l‟attiva partecipazione della gran

parte dei paesi europei della NATO, anche non rivieraschi.

È poi presente un ulteriore quadro concettuale dove eventualmente ricondurre gli sforzi di

un processo di dialogo comune in materia di difesa e sicurezza, e questo è rappresentato

dalla Istanbul Cooperation Initiative (ICI), definita nel 2004 ed estesa a quattro dei sei

paesi aderenti al Consiglio di Cooperazione del Golfo (Bahrain, Qatar, Kuwait, Emirati

Arabi Uniti).

Questo ulteriore quadro, se ben raccordato con quello del Dialogo Mediterraneo, potrebbe

fornire un piano di intervento regionale su un‟ampia scala geografica, massimizzando i

ritorni attesi e soprattutto favorendo una più concreta e razionale forma di comunicazione

e cooperazione tra gli Stati dell‟intera regione del Medio Oriente.

È di fondamentale importanza, tuttavia, individuare un meccanismo concettuale che

consenta alla NATO di vincolare i suoi interessi regionali a quelli dei paesi della sponda

sud, in modo da definire una piattaforma comune e di lungo periodo.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 117

Come già detto, quindi, ambiti operativi come la sicurezza marittima, ma anche la lotta alla

pirateria e l‟impegno nella gestione delle politiche dell‟anti-terrorismo, potrebbero

trasformarsi in quadri operativi di comune sviluppo e di lunga durata.

La NATO, oltretutto, potrebbe avvantaggiarsi della cooperazione dei paesi della regione

nella lotta ai traffici umani, delle armi e delle sostanze stupefacenti, potendo in tal modo

contare su un poderoso contributo esterno nel limitare i flussi, e soprattutto gli effetti dello

specifico mercato illecito sul territorio europeo e più in generale nella regione.

Come in passato, ciò che oggi sembra impedire progressi in questa direzione, è la scarsa

disponibilità dei partners a sviluppare attività multilaterali. La cooperazione con i paesi

nord africani, oggi limitata all‟Egitto e al Marocco, è fondata su accordi di “cooperazione

rafforzata bilaterale”. Pesa inoltre sul completo coinvolgimento dei partners arabi, la

questione palestinese, e la contestuale continua mancanza di un progresso nel negoziato

per la stabilità dell‟autonomia palestinese.

L‟instabilità politica della gran parte dei paesi del Nord Africa, inoltre, alla ricerca di un

equilibrio duraturo dopo gli eventi politici che ne hanno parzialmente stravolto la fisionomia

istituzionale a partire dalla fine del 2010, ha complicato ulteriormente il processo di

gestione del rapporto regionale con la NATO.

Nella gran parte dei paesi del Nord Africa, mentre da un lato la spinta islamista ha

accentuato le posizioni delle forze politiche e sociali tradizionalmente contrarie ad un

maggiore impegno con la NATO, in quanto espressione degli Stati Uniti, ha dall‟altro

imposto alle autorità di governo (composte da ampie coalizioni dominate dalle stesse forze

islamiste) una più moderata e pragmatica posizione sull‟argomento.

Non sfugge infatti alle élite politiche regionali come gli aiuti esteri, e soprattutto quelli degli

Stati Uniti, costituiscano oggi il più importante elemento di stabilità economica per la gran

parte dei paesi dell‟area, dovendo quindi maturare posizioni politiche ben più moderate

rispetto a quelle delle proprie basi elettorali.

In particolar modo la Fratellanza Musulmana ha saputo – e dovuto – attuare una politica di

relazioni di basso profilo con Washington caratterizzata da una intensa dimensione nel

rapporto di vertice, e dal contestuale basso profilo della relazione pubblica. Questo, in

modo particolare, per contenere il rischio dell‟emergere di posizioni radicali da parte delle

componenti politiche e sociali legate all‟universo salafita, mantenendo in tal modo sotto

controllo l‟animosità dell‟opinione pubblica e soprattutto di quella parte di elettori che a

gran voce chiede la revisione della gran parte dei trattati di cooperazione con l‟estero, e

con l‟occidente in particolare.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 118

D‟altro canto, invece, con l‟ondata di proteste e rivolte in tutto il Nord Africa, è stato

repentinamente portato all‟attenzione delle principali cancellerie europee il tema della

sicurezza energetica, che per la prima volta dopo quarant‟anni ha interessato una vasta

area geografica della produzione e del sistema di trasporto.

Anche l‟energy security, quindi, rappresenta un elemento significativo di interesse

nell‟ambito del quale poter estendere i termini di una nuova e più incisiva forma di

collaborazione con la NATO, nell‟interesse reciproco al mantenimento della sicurezza,

della regolarità nella produzione e nella gestione dei flussi in transito nel sistema della

distribuzione. Con evidenti ed immediati vantaggi per entrambe le parti.

La NATO, infine, potrebbe promuovere nell‟ambito dell‟approccio comprensivo che

caratterizza il Dialogo Mediterraneo, anche misure di confidence-building e promozione

della sicurezza per la regione del Maghreb, con l‟obiettivo condiviso di rendere più sicuro il

Mediterraneo e i flussi umani e commerciali che lo interessano. Questo, ovviamente,

potrebbe estendersi sino alla sicurezza del Mar Rosso e del Canale di Suez, dove transita

la gran parte del petrolio e delle merci provenienti o dirette verso il Medio Oriente e l‟Asia.

La promozione di un approccio comprensivo avrebbe anche il vantaggio di incrementare il

processo di trasparenza e fiducia con le controparti del Nord Africa e della regione più in

generale, non solo nei termini della cooperazione tecnica, tattica ed operativa, ma anche

in quella del confidence-building, del coalition-making e più in generale del dialogo politico,

sociale ed economico. Probabilmente l‟unica vera opportunità di concreto investimento

possibile nella regione in questa particolare fase della sua evoluzione politica.

Un gran numero di variabili negative, tuttavia, giocano oggi a sfavore di un ruolo più

consistente per la NATO nella regione. Non solo l‟impatto l‟economico della crisi globale

ha imposto una razionalizzazione delle spese complessive, e una più attenta

programmazione soprattutto della complessa missione in Afghanistan, ma la stessa

ridefinizione delle priorità strategiche di lungo periodo degli Stati Uniti, con una evidente e

sempre più marcata esposizione asiatico-pacifica, ha determinato un‟ulteriore revisione

nella concezione complessiva della mission.

Il vertice NATO di Chicago del maggio 2012 ha dato poi chiare indicazioni circa il futuro

dello sviluppo delle attività dell‟alleanza, anche per quanto concerne l‟area del Nord Africa

e del Mediterraneo.

A prevalere su ogni altro aspetto sarà il principio di efficienza stabilito con l‟introduzione

del concetto di smart defence, che comporterà una più attenta e ragionata condivisione

della spesa militare in direzione di progetti condivisi. E, questo, significherà per l‟area del

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Mediterraneo e del Nord Africa essenzialmente un potenziamento del ruolo tecnologico ed

infrastrutturale dell‟Alleanza, a discapito di quello fisico delle unità militari.

Pesa, inoltre, su ogni ipotesi di cooperazione diretta e allargata, la percezione della NATO

nella regione come una sorta di longa manus degli Stati Uniti, e non in modo significativo è

mutata questa percezione con l‟avvio del secondo mandato presidenziale di Barack

Obama. Nonostante un netto e deciso raffreddamento delle posizioni di Washington nei

confronti dell‟alleato israeliano, infatti, gli Stati Uniti sono ancora generalmente percepiti

come una potenza egemone interessata a dettare una sua propria linea di indirizzo politico

nella regione. Valutazione forse oggi non più aderente alla realtà, ma ancora dettata dai

sentimenti maturati nella regione nei primi dieci anni del nuovo secolo.

La sommatoria di questi elementi, in sintesi, spingono in direzione di una valutazione

essenzialmente pessimistica circa il ruolo – potenziale o reale – della NATO in Nord Africa

e nel Mediterraneo nel prossimo futuro.

Aprendo tuttavia a considerazioni di diversa natura circa le potenzialità dell‟Unione

Europea, che, al contrario, potrebbe largamente capitalizzare dalla mutata capacità

d‟intervento regionale della NATO.

In termini propositivi, quindi, sarebbe altamente auspicabile la definizione di una nuova

politica regionale di cooperazione dettata da un‟agenda comune dei paesi rivieraschi in

modo particolare, ed attuata attraverso una fattiva e mirata inclusione dei partner regionali

della sponda sud del Mediterraneo.

La cooperazione per la sicurezza potrebbe espandere il concetto attualmente

rappresentato dalla formula di cooperazione cosiddetta del “Dialogo 5+5”, che comprende

da un lato Italia, Spagna, Francia, Portogallo e Malta, e dall‟altro Algeria, Tunisia,

Marocco, Libia e Mauritania, includendo anche l‟Egitto e Cipro, e possibilmente allargando

alla parte del Levante Mediterraneo la formula di cooperazione complessiva.

L‟Unione Europea potrebbe in tal modo promuovere in modo efficace e significativo il

proprio ambito di cooperazione politica ed economica mediterranea, costruendo sulla

capacità di cooperazione per la sicurezza il presupposto per una reale ed effettiva

capacità di cooperazione politica ed economica regionale sul piano orizzontale.

Questa cooperazione potrebbe trovare espressione dapprima attraverso una semplice

forma di compartecipazione nella gestione del pattugliamento marittimo e nella lotta ai

traffici nell‟area del Mediterraneo, favorendo gradualmente una progressiva integrazione

sul piano della sicurezza terrestre.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 120

Ogni ipotesi di sviluppo di una strategia condotta dall‟Unione Europea, dovrebbe poi

essere accompagnata da una contestuale formula propositiva sul piano della

cooperazione regionale nell‟area del Nord Africa, essenzialmente sul piano economico,

ma anche con risvolto di natura politica atti ad incrementare il processo di confidence-

building tra i diversi attori regionali.

Un obiettivo di grande rilevanza, infine, sarebbe quello inerente il definitivo sblocco delle

frizioni politiche tra l‟Algeria e il Marocco, di cui l‟Unione Europea potrebbe farsi promotrice

attraverso l‟organizzazione di un tavolo negoziale nell‟ambito del quale definire passi

concreti di cooperazione economica transfrontaliera.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 121

3.3 Gli interessi italiani nell’area del Nord Africa

Il Nord Africa è un‟area strategica per gli attori europei ed è storicamente una regione

chiave per gli interessi italiani, tanto pubblici quanto privati. Questi ultimi attengono ai

comparti dell‟edilizia, dell‟energia, del tessile e delle telecomunicazioni, che si tramutano in

un fervente interscambio commerciale, in particolare di prodotti del settore agricolo e

agroalimentare, tessile, macchinari e tecnologie industriali. Rilevante, per la sua funzione

connettiva, è il flusso di rimesse degli immigrati diretto verso la sponda sud del

Mediterraneo.

Secondo i dati elaborati dall‟ISTAT e dal Ministero dell‟Interno, vivono oggi in Italia circa

650.000 emigrati dal Nord Africa, di cui 453.000 marocchini, 106.000 tunisini e 91.000

egiziani. La rilevazione del 2011 presenta un netto incremento rispetto a quella del 2005,

che contava un totale di 426.000 migranti dalla stessa regione.

Come già accennato, anche nel caso del nostro paese, le connessioni politiche si

strutturano ancora su basi eminentemente bilaterali, nonostante l‟esistenza di meccanismi

interni all‟Unione europea quali la Politica Europea di Vicinato, l‟Unione per il Mediterraneo

e il Partenariato Euro-Mediterraneo e lo strutturarsi, accanto a questi programmi, di due

fori di consultazione e cooperazione: il “Dialogo 5+5” e l‟UMA. La regione è del resto

attraversata da numerose ed evidenti fratture: da un lato, esse rendono più difficile

l‟azione di penetrazione economica e la tessitura di scambi politici utili alla creazione di

sfere di influenza. Dall‟altra, l‟Italia – che con il Trattato dell‟agosto 2008 aveva chiuso la

questione coloniale con la Libia – cerca di sfruttare le frizioni esistenti tra le elite locali e le

vecchie Potenze coloniali nel Nord Africa francofono (Maghreb) e anglofono (Egitto) per

svolgervi con successo un ruolo più incisivo e autonomo.

Ciò soprattutto per quanto riguarda il primo gruppo di Paesi, ricompresi nell‟area

magrebina. Si rileva come qui l‟Italia sia ormai uno dei partner economici principali, in

aperta concorrenza con la Francia e in continuità con una scelta nata agli albori della

politica estera italiana, poi perseguita con slancio in particolare nel contesto della Guerra

Fredda e della decolonizzazione. Il coronamento di tale sforzo è stato reso possibile da

una duplice strategia. Se negli anni Cinquanta e Sessanta si è perseguito l‟obiettivo della

creazione di legami in campo energetico – schierando in prima linea i grandi gruppi

industriali italiani – a ruota sono seguite le piccole e medie imprese, che oggi

rappresentano una parte importante della presenza italiana e un complemento

significativo delle strategie areali, in particolare in Tunisia.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 122

La dimensione strategica della presenza italiana è data appunto dall‟intreccio tra la sfera

“macro”, propria delle grandi imprese multinazionali e quella “micro”, realizzata in genere

tramite la delocalizzazione di stabilimenti industriali facenti capo a nostre imprese. Il saldo

commerciale complessivo permane in negativo per la dimensione e il valore delle

importazioni in idrocarburi – 40 miliardi di euro il volume complessivo, di cui circa 25

ascrivibili al comparto energetico – ma la strategia d'insieme sembra premiante nel

conseguire l‟obiettivo della capillare presenza italiana in tutta l‟Africa settentrionale,

tassello per la strutturazione e la salvaguardia di una rete di accordi vitale per il nostro

Paese. La vicinanza politica e diplomatica (e militare, nel caso degli accordi sottoscritti con

numerosi paesi nordafricani) risulta essere, in questa ottica, garantita proprio dalla

persistenza e dalla piena operatività di legami economici mutualmente vantaggiosi e i cui

esempi più evidenti sono dati dalle attività Eni in Algeria e Libia, di Benetton in Tunisia e di

Italcementi in Egitto e Marocco, contornati da numerose imprese di dimensioni più

contenute: una galassia di iniziative che funziona da substrato sul quale poi costruire

impalcature più visibili, quali le iniziative culturali. La solidità e la imperturbabilità del

cerchio strategico così delineato risiede, da parte italiana, nella costante e attenta

alimentazione dei meccanismi di innesco e nel garantire il buon funzionamento di tutte le

sue componenti.

Le tensioni areali giocano evidentemente a sfavore, sebbene in misura sostanzialmente

analoga per tutti gli attori sin qui coinvolti; la crisi economica mondiale contribuisce vieppiù

ad aumentare le difficoltà, in un contesto che già sul finire del 2010 mostrava invero come

gli attori nordafricani indulgessero maggiormente alla volubilità e a un certo grado di

imprevedibilità. Nemmeno i decisori delle strategie politico-diplomatiche ed economiche

italiane adottano un approccio uniforme e lineare: la tessitura dei legami sembra anzi, in

ultima analisi, aver più di recente abdicato a perseguire il pieno raggiungimento degli

interessi nazionali nell‟area e sembrerebbe essere ora maggiormente funzione delle scelte

politiche e diplomatiche proprie di ciascun Governo in carica.

Il repentino dispiegarsi di conflitti sociali già latenti nell‟intero arco areale nordafricano

deve, al contrario, influenzare la riconsiderazione di una integrazione economica

reciprocamente vantaggiosa.

Le relazioni economiche e commerciali tra Italia e Maghreb dopo la Primavera Araba

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 123

La componente energetica è stata, come già detto, il fattore trainante di una intensa

cooperazione tra Italia e Maghreb sin dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Questa

dimensione, tuttavia, si è espansa e largamente diversificata nel coso dei due decenni

successivi, incrementando enormemente i valori del comparto non-oil e che – secondo

quanto stimato da Confindustria – si attesta oggi sul considerevole valore dell‟11%

dell‟export italiano.

I dati relativi alla nostra bilancia commerciale con il Maghreb non sono stati rielaborati, né

dal Ministero degli Affari Esteri, né da Confindustria, nel periodo successivo alla cosiddetta

Primavera Araba, ed è quindi estremamente difficile calcolare e valutare l‟impatto dei

fenomeni politici degli ultimi due anni sulla dimensione complessiva del rapporto con

l‟Italia.

Secondo la gran parte degli analisti economici, tuttavia, sebbene importante sotto il profilo

politico, il fenomeno della Primavera Araba ha solo marginalmente intaccato la dimensione

dei volumi e dei flussi economici con l‟Italia e con l‟Europa, lasciando quindi con ogni

probabilità una realtà non così dissimile da quella del 2010.

In Libia, dove più cruenta è stata la fase di rivolta, sono stati sostanzialmente paralizzati gli

scambi e i traffici con l‟Italia per oltre un anno, per riprendere poi gradualmente sotto la

spinta soprattutto dell‟industria petrolifera e dei forti interessi italiani in merito a questa.

Dei circa 22 miliardi di euro che rappresentava il volume degli interscambi tra Italia e Libia

prima della caduta di Gheddafi, si stima che almeno il 70% non sia stato interessato dal

fenomeno di crisi, ma solo congelato per periodi di tempo più o meno prolungati. L‟attività

di produzione e distribuzione degli idrocarburi è ripresa, sebbene non a pieno regime e

con prospettive di reintegro della capacità complessiva entro la fine del 2013.

Il temuto impatto della sostituzione dei vertici politici del paese, con la ventilata ipotesi di

cancellazione di contratti ed appalti, alla fine non sembra essersi tramutata in realtà,

inducendo le nuove quanto eterogenee élite libiche a non intraprendere la via del

contenzioso, a favore invece della più lucrosa e consolidata scelta di continuità.

Il settore che sembra aver sofferto maggiormente della recente crisi è quello dello sviluppo

immobiliare, dove l‟Italia iniziava ad avere consistenti quote di mercato a partire dal primo

semestre del 2010, e sulle cui prospettive pesa ancor oggi l‟instabilità delle aree

extraurbane e delle periferie delle principali città, dove la gran parte dei cantieri era

ubicata.

La Tunisia, prima della Primavera Araba, rappresentava un valore di circa 6 miliardi di

euro per la bilancia commerciale italiana, collocandosi al secondo posto dei nostri interessi

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 124

economici nel Maghreb. L‟Italia, per la Tunisia, è il secondo partner economico più

importante, dopo la Turchia, definendo una dipendenza strategica ed economica dall‟Italia

che è sempre stata altamente vantaggiosa per il nostro paese.

La Tunisia, oltre alla rilevanza strategica rappresentata dal transito delle condutture di gas

del Transmed, dall‟Algeria verso la Sicilia, è di interesse per l‟Italia soprattutto per l‟export

di macchinari industriali ed agricoli, oltre che beni di largo consumo, abbigliamento e

raffinati.

La Tunisia, inoltre, è anche un importante centro industriale per il completamento dei

prodotti semilavorati italiani, che dal Nord Africa vengono poi distribuiti e commercializzati

in larga parte della regione e dell‟Africa Occidentale.

Nel corso degli ultimi dieci anni sono oltre 700 le aziende italiane che hanno poi deciso di

delocalizzare in Tunisia, aprendo succursali produttive caratterizzate da un basso costo

della manodopera e un‟accresciuta facilità nella gestione dei trasporti e della distribuzione.

Tra gli effetti negativi di questo processo, tuttavia, è da segnalare il vuoto legislativo locale

sulla tutela dell‟ambiente che ha ulteriormente contribuito al processo di delocalizzazione.

Ciò ha spinto numerose imprese straniere ad aprire stabilimenti e centri di

riprocessamento ad altissimo impatto ambientale, non consentiti sul territorio europeo se

non attraverso l‟adozione di costosi e tecnologicamente avanzati processi di trattamento.

Difficile stabilire quale possa essere effettivamente stato l‟impatto sulla nostra economia

delle recenti vicende politiche che hanno interessato i paesi della regione. Anche se, come

nel caso della Libia, non sembra al momento riscontrarsi alcuna reale flessione nei volumi

e nel più generale livello di relazioni economiche e politiche tra l‟Italia e la Tunisia.

L‟Algeria ha sempre storicamente costituito un importante polo di sviluppo per il settore

energetico italiano, ed in particolar modo nel settore del gas naturale.

La bilancia commerciale tra i due paesi si aggira intorno ai 12 miliardi di euro, è

largamente dominata dall‟industria degli idrocarburi, ma con una forte crescita nel corso

degli ultimi dieci/quindici anni nel settore dei macchinari industriali ed agricoli.

In Algeria è fortemente cresciuta anche la dimensione dei progetti a guida italiana per lo

sviluppo di infrastrutture, sia nel settore civile che in quello industriale e della produzione

di energia, con lo sviluppo di impianti e centrali ad opera di Eni, Enel, Ansaldo ed Edison.

Il Marocco, infine, è quello caratterizzato dai numeri meno significativi nell‟interscambio

con l‟Italia, con valori da tempo assestati intorno ai 2 miliardi di euro.

Ai tradizionali traffici nel settore dei beni di largo consumo, dell‟abbigliamento e dei

macchinari industriali ed agricoli, nel corso dell‟ultimo decennio si è aggiunto quello dello

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 125

sviluppo immobiliare ed infrastrutturale, soprattutto nelle aree settentrionali e centrali del

paese, sebbene con numeri non altamente significativi.

Il settore energetico, cuore del rapporto economico

L‟elemento di maggiore rilevanza nel rapporto complessivo tra Italia e Maghreb è

rappresentato dal settore degli idrocarburi, che marca significativamente i rapporti

commerciali con la Libia e l‟Algeria. Allargando il quadro geografico di riferimento alla

regione del Nord Africa è possibile inserire anche l‟Egitto nella mappa degli interessi di

sviluppo energetico del nostro paese, sebbene con numeri e valori del tutto inferiori a

quelli del Maghreb.

Circa il 37% del fabbisogno di gas del mercato italiano è assicurato dalla produzione

algerina, incrementato in tempi più recenti da un ulteriore 10% circa derivante dalla

produzione libica di gas naturale.

La dimensione di maggiore rilevanza è tuttavia ancor oggi – sebbene in lento declino – sul

piano della produzione petrolifera, dove la Libia pre-rivolta rappresentava circa il 25% del

fabbisogno nazionale italiano, seguita da Algeria e Russia.

Sono particolarmente significativi anche i sistemi di connessione nel sistema di trasporto

del gas, che vedono l‟Italia strettamente legata all‟Algeria con il Transmed e alla Libia con

il Greenstream. Questi gasdotti, da più parte ritenuti l‟espressione del nostro vincolo

strategico nei confronti della regione del Maghreb, costituiscono tuttavia anche la garanzia

dello sviluppo energetico ed economico nazionale dei singoli paesi produttori, bilanciando

in tal modo fortemente il peso con la dipendenza italiana, e trasformandoli in termini

generali in veri strumenti di crescita economica bilaterale.

La primavera araba ha solo marginalmente intaccato gli interessi energetici ed

infrastrutturali dell‟Italia nella regione, diminuendo i flussi nel periodo della più accesa

conflittualità, ma non facendo venir meno la dimensione complessiva della storica

collaborazione.

È quindi altamente improbabile che, nel prossimo futuro, tale dimensione possa in qualche

modo risultare intaccata negativamente. Ciononostante, l‟Italia dovrebbe intervenire con

vigore nel potenziamento dei propri interessi energetici, agendo rapidamente per un

rinnovato e paritariamente vantaggioso rapporto anche con le nuove autorità libiche.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 126

Indicazioni per l’Italia

La crisi politica nazionale non deve in alcun modo permettere alcun cedimento nella

costante politica di monitoraggio e protezione degli interessi italiani nella regione.

I cambi al vertice in Tunisia, Libia ed Egitto, dovrebbero anzi spingere in direzione di un

ulteriore azione politica volta non solo al consolidamento, ma anche e soprattutto

all‟espansione degli interessi economici nazionali.

In particolar modo, potrebbe risultare in questo momento estremamente conveniente

sostenere lo sforzo di penetrazione delle nostre industrie non facenti parte del comparto

energia, al fine di consolidare la presenza italiana anche in settori terzi rispetto a quelli

trainanti, ampliando in tal modo la dimensione complessiva della rilevanza nazionale.

Tra gli altri, potrebbero avere facile successo i progetti di penetrazione nel settore

automotive, information technology, defence industry, machinery e food&beverage, tutti

ambiti nei quali il sistema industriale italiano presenta numerose eccellenze e grandi

capacità di attrazione.

È bene tuttavia impostare una politica di sostegno all‟internazionalizzazione delle imprese

concepita ed attuata in modo completamente differente dal passato, strutturando

organicamente la capacità di promozione del made in Italy, sostenendo la capacità

finanziaria delle aziende interessate ad investire nei mercati regionali, e soprattutto

favorendo un complessivo mutamento nelle convinzioni di una classe imprenditoriale

convinta troppo spesso del facile e proficuo ingresso sui mercati stranieri.

Andrebbe, in tal senso, ridefinita nel suo complesso la capacità operativa e di

pianificazione dell‟ICE (Istituto del Commercio Estero), liberandone le non poche

potenzialità e trasformando quindi l‟Istituto in una vera struttura virtuosa per

l‟identificazione delle opportunità di sviluppo commerciale e la pratica realizzazione dei

progetti sul campo.

Sul fronte della cooperazione nel sistema della difesa, l‟Italia potrebbe agevolmente porsi

in questa delicata fase di transizione delle élite politiche regionali, come capofila di una

proposta europea per lo sviluppo e l‟integrazione di una cooperazione regionale ad ampio

raggio.

I vantaggi, del tutto evidenti, di una politica di tal fatta, potrebbero spaziare dalla

cooperazione logistica e di pianificazione strategica, sino allo sviluppo di un mercato per la

vendita di armi ed equipaggiamenti, in paesi caratterizzati in media dalla vetustà dei propri

materiali e dalla contestuale esigenza di ammodernamento.

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 127

Il sostegno all‟integrazione regionale dei locali sistemi militari, peraltro, comporterebbe il

conseguimento di un vantaggio competitivo di notevoli dimensioni per l‟intero sistema

nazionale, che vedrebbe in tal modo anche incrementate le proprie capacità di difesa degli

interessi nazionali colà ubicati, oltre ad assistere all‟espansione del proprio portafogli

commerciale.

Lo sviluppo di un piano impostato secondo la linea sin qui raffigurata ha tuttavia necessità

di essere sviluppato nell‟ambito di un consesso politico forte e credibile, con prospettive di

lunga durata e con un orizzonte temporale nella pianificazione ben superiore a quello della

singola legislatura. Condizioni, queste, sistematicamente mancate nel corso degli ultimi

quindici anni, ed imperativamente necessarie oggi per il prossimo futuro.

Tra i principali ostacoli alla definizione di una politica attiva e più corposa nella regione,

devono essere certamente considerate le evidenti incompatibilità con le politiche regionali

di Francia e Gran Bretagna, che non accetterebbero di buon grado un eccessivo attivismo

dell‟Italia. È, a maggior ragione, quindi necessario favorire non solo un forte

consolidamento del sistema politico nazionale, ma anche una poderosa svolta nel modo in

cui l‟Italia conduce e persegue le proprie prerogative in ambito europeo.

Sul fronte delle potenzialità nel settore della difesa, infine, lo sviluppo di una maggiore e

più significativa forma di collaborazione con i partner della sponda sud del Mediterraneo,

potrebbe apportare anche in sede bilaterale i risultati auspicati in seno alla politica c.d.

della smart defence in ambito NATO.

Una più mirata ed efficace suddivisione dei compiti sul piano della sorveglianza marittima,

del pattugliamento aereo e della sicurezza delle rotte di navigazione nel Mediterraneo,

infatti, comporterebbe non solo un progressivo alleggerimento dei compiti oggi affidati in

via pressoché esclusiva all‟Italia, ma anche un incremento della consapevolezza dei

termini di sicurezza da parte degli attori regionali della sponda sud.

Che, per incrementare le proprie capacità, dovrebbero quindi progressivamente

incrementare lo stato di efficienza dei propri mezzi e delle proprie dotazioni tecnologiche,

favorendo in tal modo la possibilità per l‟industria italiana della difesa e dell‟alta tecnologia

di acquisire nuove commesse e definire in tal modo nuovi mercati regionali di sviluppo per

ogni segmento del proprio business.

Un insieme di azioni e progettualità che, nonostante la gravità del momento politico sul

piano nazionale, sono nel modo più assoluto alla portata dell‟Italia sia sotto il profilo della

credibilità nazionale, sia sotto quello della capacità industriale. Attraverso una formula di

pianificazione degli interventi e della linea politica regionale dell‟Italia, infatti, unitamente

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CeMiSS – Piano di ricerche 2012 Pag. 128

ad una capacità di supporto nel processo di internazionalizzazione ed espansione

dell‟industria nazionale, potrebbero essere conseguiti in tempi relativamente brevi

successi politici e commerciali oggi inimmaginabili.

Considerando infine quanto forte e potente potrebbe essere il traino ed il supporto del

poderoso ruolo dell‟industria energetica nazionale nella regione, non deve stupire il livello

delle potenzialità del sistema politico ed industriale nazionale, semplicemente inespresso

oggi in termini di numeri e di capacità di espansione.