Riccardo Fubini, Biondo Flavio, in Dizionario Biografico – Treccani

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Enciclopedia Vocabolario Sinonimi Dizionario Biografico degli Italiani biondo flavio Login Home Dizionario Biografico Biondo Flavio Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 10 (1968) di Riccardo Fubini BIONDO Flavio. - Nacque a Forlì da Francesca e da Antonio di Gaspare Biondi nel novembre o dicembre 1392. Il nome di famiglia, stabilito da più generazioni (cfr. la soscrizione "Blondus Antonii Blondi de Forlivio", in B. Nogara, tav. II; e la menzione di "avum... meum Gasparem Blondum",Hist., p. 366), fu tuttavia ripreso nel nome proprio "Blondus", da cui fu poi ricavata la designazione umanistica "Flavius", propria specialmente del periodo giovanile; "Blondus Flavius" fu la forma affermatasi, certo secondo l'intenzione dell'autore, nella tradizione manoscritta delle opere e, di qui, nelle antiche stampe. L'ipotesi di G. Mini (v. c. 30) di una discendenza dalla stirpe magnatizia fiorentina dei Biondi, banditi e trapiantati verso la metà del sec. XIV in Romagna, non appare inattendibile; e se la rivendicazione campanilistica di B. ai Biondi stabiliti a Castrocaro urta l'evidenza, nulla esclude che il ramo collaterale di Gaspare abbia parallelamente acquisito la cittadinanza forlivese (si noti il ricorrere nelle genealogie fiorentine relative dei nomi di Gaspare, Antonio, Biondo, ecc.). Dotata di beni immobili, ma anche in difficili condizioni economiche (in una bolla di Niccolò V, 29 gennaio 1448, che sanziona la rinuncia dell'eredità, in favore di B., del fratello minore Matteo, sono ricordati i debiti lasciati dai genitori, pagati "ex eius laboribus et industria", cit. in G. Mini, c. 54), la famiglia non risulta dalle cronache come appartenente al novero dei maggiorenti cittadini; e la lacuna lasciata da Giovanni di Pedrino, là dove avrebbe dovuto indicarne la "parentela" (II, p. 397), nonché l'indicazione tardiva e senza altro riscontro del cronista forlivese di fine '400, A. Bernardi, "B. di Ravaldino" (Cronaca, Bologna 1895, p. 344), dovuta verisimilmente all'omonimia di un personaggio della nobile famiglia dei Ravaldini (cfr. Nogara, pp. XX s.), sembrano indicare che nell'ambiente forlivese già alla morte di B. il vero nome di famiglia fosse stato dimenticato. Motivo di distinzione familiare furono le capacità professionali del padre, il "providus vir ser Antonius Guasparini Blondi" (A. Zoli, p. 110), appartenente alla categoria di notai, cancellieri e amministratori che prestavano i loro servizi presso le comunità e corti signorili della Romagna. Lo troviamo presente alla corte di Rimini per le nozze di Galeotto Malatesta, fratello di Carlo, nel 1395; è inoltre attestata la sua funzione di "massaro" (tesoriere) del Comune di Bagnacavallo, "assumptum per magnificos dominos nostros de Polenta Oppizonem et Petrum fratres" negli anni 1402-06. Non senza rapporto, forse, con le benemerenze acquistate dal padre in questa, come presumibilmente in altre occasioni, è il privilegio, attestato per B. nel 1452, di "civis et habitator Ravenne"; e la sua fedeltà alla memoria degli antichi signori può essere indicata dall'aver egli acquistato, il 12 luglio 1455, il diritto di sepoltura per sé e la famiglia nel sepolcro dei Polentani nella chiesa di S. Pier Maggiore (v. S. Bernicoli; G. Mini, c. 64). In quel di Bagnacavallo B., come si compiacque di ricordare, incontrò Alberico da Barbiano, impegnato nel recupero delle terre pontificie intorno al 1403 (Nogara, p. 171; A. Zoli, p. 116). Non senza influsso sulla sua opera e orientamenti futuri saranno gli eventi salienti del tempo: l'ascesa di Gian Galeazzo Visconti, di cui la Forlì di Pino Ordelaffi rappresentava una sorta di protettorato, esaltato poi da B. come meritevole del regno, con parole non dissimili da quelle del cronista forlivese (Annales Forolivenses, in Rerum Italic. Script., 2 ed., XXII, 2, a cura di G. BIOGRAFIE in Archeologia BIOGRAFIE in Storia Vedi tutte le categorie forli wurzburg translatio imperii michele tramezzino martinus polonus cosma raimondi ludovico trevisan BIONDO FLAVIO Vedi tutti i risultati BIONDO FLAVIO Vedi tutti i risultati BIONDO Flavio si trova anche nelle opere BIONDO Flavio. - Con poca esattezza si dice comunemente Flavio Biondo, mentre Flavio è un nome secondario tratto, alla foggia umanistica, da Flavus, traduzione latina di Biondo. Egli poi nella maggior parte dei documenti si sottoscrive Blondus Forliv... Biondo Flavio Fra i piu illustri storiografi del Quattrocento, Biondo Flavio impresse una svolta in senso contemporaneo alla ricerca storica, misurandosi con il monumento liviano che tratta dalla fondazione di Roma ad Augusto mediante la narrazione ... Biondo Flavio in Dizionario Biografico – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/biondo-flavio_(Dizionario-Biograf... 1 di 28 18/11/2014 07:54

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Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 10 (1968)

di Riccardo Fubini

BIONDO Flavio. - Nacque a Forlì da Francesca e da Antonio di Gaspare Biondi nel

novembre o dicembre 1392. Il nome di famiglia, stabilito da più generazioni (cfr. la

soscrizione "Blondus Antonii Blondi de Forlivio", in B. Nogara, tav. II; e la

menzione di "avum... meum Gasparem Blondum",Hist., p. 366), fu tuttavia ripreso

nel nome proprio "Blondus", da cui fu poi ricavata la designazione umanistica

"Flavius", propria specialmente del periodo giovanile; "Blondus Flavius" fu la

forma affermatasi, certo secondo l'intenzione dell'autore, nella tradizione

manoscritta delle opere e, di qui, nelle antiche stampe. L'ipotesi di G. Mini (v. c.

30) di una discendenza dalla stirpe magnatizia fiorentina dei Biondi, banditi e

trapiantati verso la metà del sec. XIV in Romagna, non appare inattendibile; e se la

rivendicazione campanilistica di B. ai Biondi stabiliti a Castrocaro urta l'evidenza,

nulla esclude che il ramo collaterale di Gaspare abbia parallelamente acquisito la

cittadinanza forlivese (si noti il ricorrere nelle genealogie fiorentine relative dei

nomi di Gaspare, Antonio, Biondo, ecc.).

Dotata di beni immobili, ma anche in difficili condizioni economiche (in una bolla

di Niccolò V, 29 gennaio 1448, che sanziona la rinuncia dell'eredità, in favore di B.,

del fratello minore Matteo, sono ricordati i debiti lasciati dai genitori, pagati "ex

eius laboribus et industria", cit. in G. Mini, c. 54), la famiglia non risulta dalle

cronache come appartenente al novero dei maggiorenti cittadini; e la lacuna

lasciata da Giovanni di Pedrino, là dove avrebbe dovuto indicarne la "parentela"

(II, p. 397), nonché l'indicazione tardiva e senza altro riscontro del cronista

forlivese di fine '400, A. Bernardi, "B. di Ravaldino" (Cronaca, Bologna 1895, p.

344), dovuta verisimilmente all'omonimia di un personaggio della nobile famiglia

dei Ravaldini (cfr. Nogara, pp. XX s.), sembrano indicare che nell'ambiente

forlivese già alla morte di B. il vero nome di famiglia fosse stato dimenticato.

Motivo di distinzione familiare furono le capacità professionali del padre, il

"providus vir ser Antonius Guasparini Blondi" (A. Zoli, p. 110), appartenente alla

categoria di notai, cancellieri e amministratori che prestavano i loro servizi presso

le comunità e corti signorili della Romagna. Lo troviamo presente alla corte di

Rimini per le nozze di Galeotto Malatesta, fratello di Carlo, nel 1395; è inoltre

attestata la sua funzione di "massaro" (tesoriere) del Comune di Bagnacavallo,

"assumptum per magnificos dominos nostros de Polenta Oppizonem et Petrum

fratres" negli anni 1402-06. Non senza rapporto, forse, con le benemerenze

acquistate dal padre in questa, come presumibilmente in altre occasioni, è il

privilegio, attestato per B. nel 1452, di "civis et habitator Ravenne"; e la sua fedeltà

alla memoria degli antichi signori può essere indicata dall'aver egli acquistato, il 12

luglio 1455, il diritto di sepoltura per sé e la famiglia nel sepolcro dei Polentani

nella chiesa di S. Pier Maggiore (v. S. Bernicoli; G. Mini, c. 64).

In quel di Bagnacavallo B., come si compiacque di ricordare, incontrò Alberico da

Barbiano, impegnato nel recupero delle terre pontificie intorno al 1403 (Nogara, p.

171; A. Zoli, p. 116). Non senza influsso sulla sua opera e orientamenti futuri

saranno gli eventi salienti del tempo: l'ascesa di Gian Galeazzo Visconti, di cui la

Forlì di Pino Ordelaffi rappresentava una sorta di protettorato, esaltato poi da B.

come meritevole del regno, con parole non dissimili da quelle del cronista forlivese

(Annales Forolivenses, in Rerum Italic. Script., 2 ed., XXII, 2, a cura di G.

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BIONDO FLAVIO

Vedi tutti i risultati

BIONDO Flavio si trova anche nelle opere

BIONDO Flavio. - Con poca esattezza si dice

comunemente Flavio Biondo, mentre Flavio è un nome

secondario tratto, alla foggia umanistica, da Flavus,

traduzione latina di Biondo. Egli poi nella maggior

parte dei documenti si sottoscrive Blondus Forliv...

Biondo Flavio Fra i piu illustri storiografi del

Quattrocento, Biondo Flavio impresse una svolta in

senso contemporaneo alla ricerca storica, misurandosi

con il monumento liviano che tratta dalla fondazione di

Roma ad Augusto mediante la narrazione ...

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dello Stato visconteo e il disfrenarsi dei particolarismi e delle lotte faziose (fra cui la

cacciata popolare di Cecco Ordelaffi nel 1405); le conquiste veneziane in

terraferma, i cui echi giungendo in Romagna suscitavano nel 1405 un effimero

tripudio a Forlì, alla voce di una possibile sottomissione (Chronicon f. Hieronymi

de Forlivio, in Rerum Italic. Script., 2 ed., XIX, 5, a cura di A. Pasini, p. 8); e infine

l'energica opera per la restaurazione dello stato ecclesiastico del legato pontificio B.

Cossa, entrato nel 1407 a Forlì, dove, a memoria del governo dell'Albornoz,

rimaneva l'antico palazzo dell'erario, che, come ricorda B., "nos postea pueri ob

facti memoriam invisere delectabat" (Hist., p. 370). La provenienza da un centro

provinciale, ma politicamente nevralgico, e aperto perciò all'influenza dei maggiori

stati, segnerà la carriera di B., e Milano, Venezia, oltre che, naturalmente, la corte

romana, rappresenteranno i punti focali, così della sua vita come della sua opera

storiografica; mentre, pur nell'affezione verso la piccola patria forlivese e in genere

verso le terre della Romagna, e nei rapporti amichevoli, piuttosto che di natura

cortigiana, intrattenuti con le piccole corti signorili, sembra essere rimasto

estraneo a un municipalistico attaccamento al natio loco. Sintomatica al proposito

è la radicata ostilità verso gli "archityrannuli" (Hist., p. 541) e le lotte faziose; e la

riluttanza, che si nota nelle Storie, a chiamare per nome le divisioni di guelfi e

ghibellini, indicate perlopiù come "partes", "studia partium" ecc., trova

significativo riscontro nelle proibizioni di governanti energici, come l'Albornoz o i

Visconti, di fare professione nelle città soggette di guelfismo e ghibellinismo. Per

gli stimoli culturali che B. può aver ricevuto in patria, bisogna soprattutto guardare

agli influssi dell'importante centro di Padova e della corte carrarese, dove si

perpetuava e rinnovava l'eredità del Petrarca, in stretto contatto con il gruppo

fiorentino, e in particolare alle personalità di P. P. Vergerio e Ognibene Scola, non a

caso posti da B. alla testa del movimento culturale scaturito dall'insegnamento di

Giovanni da Ravenna (figura che nelle sue pagine appare piuttosto emblematica, in

omaggio alla patria adottiva, che concretamente storica, e in cui si confondono i

due omonimi G. Malpaghini e G. di Conversino; v. It. ill., p. 346). Che il Vergerio,

soprattutto, di cui sono noti i legami con la corte imolese, fosse stato un autore che

aveva avuto per lui un particolare significato, lo testimonia B. stesso con ripetute

menzioni nell'Italia illustrata, dove si compiace di citarne le lettere, e, a suo luogo,

con un elogio insolitamente enfatico, "quod... supra saepenumero diximus, inter

primos huius saeculi eloquentissimus" (p. 387; v. anche 345, 373).

B. seguì il corso di grammatica poetica e retorica del maestro cremonese Giovanni

Balestrieri (cfr. It. ill., p. 362; si tratta di quello stesso "mº Zohane grande mº da la

scola", che nel passo di Giovanni di Pedrino, I, p. 120, relativo al 1425, risulta

godere di credito e notorietà a Forlì); né forse senza rapporto con la sua istruzione

fu il passaggio per Piacenza, ricordato in It. ill., p. 358, in un periodo di poco

successivo alle devastazioni del 1402-04. Qui, nonostante le gravissime

devastazioni avvenute, era pur sempre la sede dello Studio generale, stabilito con

privilegio su tutto il ducato da Giangaleazzo Visconti e che soltanto nel 1412

sarebbe stato trasferito a Pavia. Considerati anche i tradizionali rapporti scolastici

tra Cremona, sede presumibile dell'insegnamento in quegli anni del Balestrieri, e

Piacenza (cfr. F. Bartoli, Lo studio di Cremona, in Circolo di studi cremonesi. Atti e

comun., I [1898], pp. 3-17), non sarà forse arrischiato supporre che in tale sede

universitaria, cui erano annessi corsi di notariato, B. abbia conseguito il titolo:

"publica auctoritate imperiali notarius ac iudex ordinarius"; né fa difficoltà la sua

più tarda affermazione (Nogara, p. 130) di non essersi mai applicato allo studio

professionale del diritto, essendo a quell'epoca la "practica tabellionatus" disgiunta

dalla disciplina giuridica, e connessa, se mai, all'educazione grammaticale.

L'istruzione ricevuta in Lombardia, che in se stessa dovette avere una finalità

piuttosto professionale che scientifica, fu per altro occasione di stabilire legami con

esponenti della fiorente cultura viscontea. Ne sono indizio l'amicizia, attestata in

età successiva, con membri della corte milanese come G. Corvini e P. C. Decembrio,

e, ancora di più, la precisa conoscenza che B. dimostra di uomini e testi

strettamente pertinenti all'ambiente, come per es. l'orazione "doctrina et rerum

variarum copia redundantem" di Pietro Filargo, arcivescovo di Milano, per

l'investitura ducale di Giangaleazzo (It. ill., p. 367). Né del resto a uno sconosciuto

sarebbe stato affidato da copiare nel 1422 il codice ciceroniano di Lodi, nella quale

impresa era impegnato il cremonese Cosma Raimondi.

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flavo

flavo agg. [dal lat. flavus], letter. – Di colore giallo,

biondo: Verde smeraldo, con f. iacinto (Ariosto); tra la

chioma flava Fioria quell’occhio azzurro (Carducci).

flavèdo

flavèdo (raro flavèdine) s. f. [lat. scient. flavedo, der. del

lat. class. flavus «biondo» sul modello di albedo (v.)]. –

1. In botanica, la parte più esterna, gialla, della buccia

del frutto degli agrumi. 2. In patologia vegetale, sinon.

di clorosi.

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Ben poco si sa del periodo trascorso da B. successivamente al ritorno in patria,

all'incirca negli anni 1410-20. L'invito rivoltogli insistentemente da Muzio

Attendolo, perché gli fungesse da segretario nelle Puglie (1412-13), suppone una

notorietà acquisita, per servizi cancellereschi, o d'altra natura, presso comunità e

corti locali; fra cui ricordiamo quella dei Malatesta di Rimini (la menzione relativa

nell'It. ill., p. 242, testimonia di un'intrinseca conoscenza); quella, insediata a

Castel Bolognese, di Bartolomeo Campofregoso e della moglie Caterina Ordelaffi,

dei quali vanterà poi "l'amicizia e benevolenza" (Nogara, p. 61), e col cui figlio

Giano rimarrà in corrispondenza, inviando una lettera di ammonimenti in

occasione della sua nomina a doge di Genova (1448; la risposta in R.

Sabbadini,Note umanistiche, pp. 301 s.); e, forse, quella di Mantova, dove nel 1410

Gian Francesco Gonzaga aveva sposato Paola di Malatesta dei Malatesti di Pesaro,

della cui familiarità con B. sono testimonianza gli straordinari elogi con cui la

ricorda nell'Italia illustrata (pp. 335, 361) e altrove (Nogara, p. 175).

I primi documenti diretti della sua attività culturale sono due note di possesso agli

attuali mss. Vat. Ottob. lat. 61 (Liber B. forliviensis Dovadule habitus a ser Luca

notario MCCCCXX; v. Nogara, p. XI); e Vat. Ottob. lat. 123 (Liber Blondi Antonii

B. forl., quem habuit a M.ro Francisco ser Federici pro aliis libris sibi datis,

Forlivii MCCCCXXI; v. G. Mercati,Codici lat. Pico-Grimani-Pio, Roma 1938, pp.

278 s.). Oltre l'interessante attestazione di un commercio librario fra notai e

maestri di scuola locali, è notevole la seconda soscrizione, che lascia supporre

un'attività scrittoria svolta da B., in apparenza confermata sia dalla sua scrittura

dell'epoca, una semigotica "libera, svelta e corsiveggiante" (G. Cencetti, Lineamenti

di storia della scrittura latina, Bologna 1954, p. 265), sia dall'inconsueta perizia

nella decifrazione dei caratteri antichi, di lì a poco dimostrata nella trascrizione del

codice ciceroniano di Lodi. Va inoltre rilevata la lettura filologicamente attenta del

testo (v. gli emendamenti in Ottob. 123 [S. Agostino,Soliloquia], alle cc. 4r, 6r,

8r-v, 12v, 14v, 15r-v, 16r, 17v): un piccolo documento insomma di un'attività di

studio perseguita così in ambiente illustre come umile, in un'applicazione continua

e senza clamore, segno di un puntiglioso e indipendente impegno personale.

Dell'ottobre 1420 è l'episodio dell'incontro di B. con Guarino, che ne trasse

impressione entusiastica ("quantus litterarum ardor, quantum ingenium!") e lo

accolse nella sua amicizia (Ep., I, p. 306). B. era venuto a Verona presentato

dall'umanista e patrizio veneziano, A. Giuliano, cui è diretta la lettera cit. di

Guarino, 15 ott. 1420. Sappiamo ora per altra via (cfr. S. Troilo,Andrea Giuliano...,

Genève-Firenze 1932, pp. 34-36) che nell'autunno di quell'anno, all'incirca fra

agosto e novembre, il Giuliano aveva soggiornato a Mantova per sfuggire alla

pestilenza. Argomento allora di discussione fra il Giuliano, Guarino e B. stesso era

lo scritto indirizzato da Guarino a L. Migliorati nel settembre 1420, "eane vocanda

sit oratio an epistula quam ad Ludovicum imperatorem dedi" (Ep., cit., p. 307).

Quest'ultimo, capitano al servizio di Carlo Malatesta, e allora in procinto di

affrontare il Carmagnola, come ricordato in Hist., p. 399, "venit... in Mantuanos",

dove verisimilmente ricevette l'epistola-orazione di Guarino, che appunto lo felicita

di avere in tal modo evitato il transito per il Veronese (Ep., I, pp. 300-03). Ciò

giustifica il particolare interesse degli amici umanisti al soggetto, e costituisce un

indizio di come B. avesse occasione di frequentare l'ambiente mantovano, dove si

può supporre poté conoscere il Giuliano e per tale via accreditarsi presso Guarino.

Dai rapporti col Giuliano, scolaro di G. Barzizza, e con Guarino B. fu indotto allo

studio di Cicerone, prendendo da loro a prestito i commenti alle Orazioni di

Cicerone di A. Loschi e di Asconio Pediano. Al Barzizza e agli studi ciceroniani

riporta pure il già menzionato episodio di poco seguente, quando B., venuto a

Milano nell'ottobre 1422 "publicis patriae tractandis negotiis", trasse copia del

Brutus per Guarino e per L. Giustinian (oltre che, beninteso, per se stesso, cui

rivendica l'appartenenza del codice, ora Vat. Ottob. 1592), parte dall'apografo

eseguito per conto del Barzizza, parte direttamente dall'antico esemplare di Lodi.

Insieme egli copiò l'allora recentissimo De militia di L. Bruni, episodio che

rappresenta la sua prima presa di contatto a noi nota con un autore poi

particolarmente influente su di lui, relativamente a un'opera dove, nella

comparazione di istituti antichi e recenti, appaiono tracciate le linee da cui si

sarebbe sviluppata la ricerca storico-antiquaria.

Già inserito nelle linee maestre dell'umanesimo settentrionale, B. trasse ulteriore

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beneficio dall'allontanamento forzato dalla patria nel 1423. Il bando, menzionato

per la prima volta in lettere di Guarino dell'estate 1423 (Ep., I, pp. 372-75),

coincide verisimilmente con la sommossa, guidata il 14 maggio dai principali

cittadini forlivesi, contro il governo di Lucrezia Ordelaffi e degli Imolesi, che aprì le

porte alla diretta ingerenza viscontea. Quale fosse la parte avuta da B. rimane

oscuro. La spiegazione più probabile è che egli, piuttosto che per la partecipazione

alle fazioni cittadine, si sia compromesso per i servizi prestati ai suoi signori, di cui

è esempio l'ambasceria milanese (forse riconoscibile in quella, menzionata da

Giovanni di Pedrino, I, p. 70, per chiedere un presidio al duca, contro le mire di

Caterina Ordelaffi). È inoltre indicativo che subito dopo il bando si sia rifugiato a

Imola (v. Guarino,Ep., I, p. 374). Appare tuttavia inesatto attribuire l'esilio a uno

spirito anti-visconteo, mostrandosi B. nelle Storie altrettanto ostile alla fazione

filo-fiorentina, su cui Lucrezia fu indotta ad appoggiarsi ("quibus fideret civium

abiectioribus consilia credere coepit", p. 403), che i cronisti forlivesi coevi. Il

decreto di bando gli fu revocato per disposizione ducale nell'ottobre 1425.

Entro lo stesso 1423 B. sposò la concittadina Paola di Iacopo Maldenti (v. A. Pasini,

nota a Giovanni di Pedrino, I, pp. 485 s.), da cui ebbe poi dieci figli.

Vagante dapprima fra Imola e Ferrara, accreditato da Guarino e dalla sua cerchia

(egli ricorda l'amicizia del giureconsulto veronese M. Maggi,It. ill., p. 376), B. entrò

presto al servizio dei magistrati veneziani di terraferma. Segnalatosi alle

dipendenze di F. Barbaro, podestà di Treviso nel 1423, lo seguì a Venezia, e fu

quindi suo segretario nella podesteria di Vicenza (1424-25). In questa occasione, su

istanza di F. Barbaro, gli fu concessa, insieme al fratello Matteo e ai legittimi

discendenti, la cittadinanza veneziana "pro gratia de intus", per decreto del

Maggior Consiglio, II nov. 1424 (documento cit. in G. Mini, cc. 4, 38, 68; v. lettera

di F. Barbaro a N. Barbo, 25 maggio 1453, in A. M. Quirini, p. 305). Raccomandato

nell'ott. 1425 a F. Barbarigo, capitano a Padova, non è accertato che accettasse

l'impiego, pensando allora al ritorno in patria per lo scadere del bando ("Flavio

locum ita cessit ut alia longe ei mens sit quam Patavium petere", Guarino,Ep., I, p.

496). Tuttavia egli era ancora al servizio veneziano dopo l'intervento della

Repubblica nella guerra contro Milano. Nell'aprile 1427 è segretario al campo di P.

Loredan, provveditore a Brescia, con cui collabora nella difesa militare della città.

Ancora a Brescia nel giugno, aspirava al ritorno in patria, dove nel 1426 il governo

della Chiesa era pacificamente subentrato a quello visconteo, e aveva perciò

bisogno dell'autorizzazione dei magistrati veneti (in tal senso vanno interpretate le

raccomandazioni di Guarino al capitano di Brescia, N. Malipiero,Ep., I, pp. 574 s.).

Nel settembre era finalmente a Forlì, dove veniva assunto al servizio del

governatore ecclesiastico D. Capranica.

Questa data segna la conclusione di un periodo della vita di B., del quale sono pure

notevoli le notizie degli studi compiuti, giovandosi della circolazione e divulgazione

di testi, di cui Guarino, era promotore. Lo vediamo così disporre di Plutarco,De

liberis educandis, tradotto da Guarino (Ep., I, p. 375); delle Epistulae di Plinio, di

cui trae copia (ibid., pp. 387, 473); degli Academica posteriora di Cicerone; del De

doctrina christiana di s. Agostino (p. 465); di Giustino, di cui collabora con

Guarino al restauro del testo (p. 469); e infine del De legibus di Cicerone. Circa la

menzione di Guarino di un "inauditum ... opus de Caesaribus" (Ep., I, p. 374), a lui

segnalato da B., l'identificazione del Sabbadini con i Caesares di Aurelio Vittore è

stata contestata, sia per ragioni di tradizione testuale, sia perché non si ritrova altro

indizio dell'uso di questo testo in B. (v. A. Momigliano,Secondo contributo..., pp.

182 s.). Da Guarino B. dovette pure essere invogliato allo studio del greco, come

indicano termini greci talvolta intercalati nelle lettere (v. Ep., I, pp. 355, 373 s.).,

ma tale applicazione rimase, come B. ammette (Hist., p. 43), di scarso profitto,

anche se mai interamente abbandonata.

Se importanti, forse decisive, furono le acquisizioni culturali derivate dalla

consuetudine con Guarino, non può dirsi per questo che dal maestro veronese

ricevesse un più preciso indirizzo di studi e di opere, né che i rapporti di amicizia

assumessero il carattere di un sia pur libero discepolato. In modo analogo le

benemerenze acquisite presso esponenti del patriziato veneto non lo indussero a

rinunciare alla propria libertà di movimento e di scelta, per un più stabile e

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politicamente responsabile impiego ai servizi della Repubblica. Alla partenza del

Capranica da Forlì (gennaio 1430), le mire di B. erano ormai rivolte alla carriera

curiale. La lettera di F. Barbaro che ce ne informa (22 giugno 1430, per invitarlo

come segretario a Bergamo) è anche notevole per il patronato da questi rivendicato

su B. e sulle sue decisioni future: "In qua re [sc. profectio in curiam romanam] ego

fortunae tuae consulam, tu vero habebis rationem dignitatis meae" (Nogara, p. LV,

n.). Quale fosse la sua destinazione negli anni 1430-31 si ignora; ma l'impegnativa

funzione di segretario di G. Vitelleschi, governatore della Marca d'Ancona dal

marzo 1432, in un periodo particolarmente denso di torbidi, attestata fino al 16

dicembre, presuppone un tirocinio curiale in veste non ufficiale, forse in

coincidenza con il pontificato del veneziano Eugenio IV (3 marzo 1431). Verso la

fine del 1432 B. era richiamato a Roma e nominato notaio della Camera apostolica,

importante ufficio esecutivo delle deliberazioni politiche e amministrative della

Chiesa. Quando, al principio del 1434, fu nominato segretario pontificio,

cumulando i due uffici e mantenendo una particolare attinenza con il camerlengo,

allora F. Condulmer, parente del papa ("Camere apostolice notarius, ss. d.ni nostri

et camerarii secretarius", Ottenthal, p. 231; nel 1436 entrerà anche nella cancelleria

come scrittore delle lettere apostoliche), egli era ormai divenuto uno dei più fidati

collaboratori di Eugenio IV, facilitato in questa rapida ascesa dalle condizioni

critiche in cui versava il suo pontificato, per il contrasto con il concilio di Basilea, la

defezione dei cardinali e la disgregazione dello Stato ecclesiastico. Inviato nel

febbraio a Bologna e nella Romagna - dove intimava a Guidantonio Manfredi la

restituzione dei castelli occupati nell'Imolese -, agì quindi a Venezia come

mediatore nella condotta stipulata dalla repubblica con Gattamelata da Narni, già

al servizio pontificio, in un delicato gioco diplomatico, atto ad accordare gli

interessi veneti con quelli del papa, impossibilitato d'intervenire direttamente, e in

particolare a garantire la fedeltà di Bologna. Tornò in tempo per stipulare il patto

di Calcarella con F. Sforza (25 marzo; i termini del trattato furono concordati,

insieme a B., dal vescovo di Tropea, N. Acciapacci; opera di B. furono invece i

successivi patti di condotta - "meo adinventa et excogitata ingenio", Nogara, p. 171

-, trattati a Todi e stipulati a Firenze, 29 novembre 1434, in L. Osio, III, pp. 120

ss.). Nel maggio B. era nuovamente a Venezia con l'Acciapacci, per vincere la

riluttanza della Signoria a versare un contributo di denaro per la condotta dello

Sforza (Eroli, p. 287); di ritorno, in giugno, fungeva da intermediario fra Venezia

(di cui appare godere la fiducia, ibid., p. 273) e il governatore ecclesiastico di

Bologna, la cui politica di attesa di fronte alla minaccia viscontea aveva allarmato il

Senato. Ribellatasi Bologna, per il prevalere della fazione filomilanese dei

Cannetoli, egli partecipò, apparentemente con funzione di commissario di campo,

allo sfortunato tentativo dei capitani veneziani di recuperare la città e le rocche

romagnole (Hist., p. 480). Rientrato nella Curia, ora riparata a Firenze, lo vediamo

assistere il papa e il camerlengo negli atti fondamentali, spirituali e politici, del

pontificato. Tra gli estensori del trattato di pace del 16 agosto 1435, e della

susseguente bolla, 26 gennaio 1435, che lo denuncia (Libri commemoriali, IV, pp.

191, 202), svolse un'attività particolarmente intensa durante la preparazione e lo

svolgimento del concilio di Ferrara-Firenze.

Il 20 luglio 1437 egli autentica l'accreditamento dell'imperatore e del patriarca

degli inviati greci G. Bissipato e E. Tarcagnota (Conc. florentinum, I, fasc. I, pp. 84

ss.); l'anno stesso presenzia alle riunioni del Concistoro, dando lettura delle

dichiarazioni di Eugenio IV, e delle bolle di convocazione del concilio e di

condanna dei Basileesi (ibid., III, fasc. 2, pp. 31 s.); redige in nome del camerlengo

i capitoli con Niccolò III d'Este e quindi con la Signoria di Firenze per il

trasferimento del concilio nelle rispettive sedi (ibid., III, fasc. I, pp. 17 ss., 50 ss.);

sottoscrive, o redige, il decreto di condanna del concilio di Basilea, 4 sett. 1439, e

quindi il solenne anatema dei principi conciliari indirizzato da Eugenio IV

all'università di Montpellier, 21 apr. 1441 (ibid., I, fasc. 2, pp. 101 ss.; fasc. 3, p. 35);

sottoscrive infine, solo fra i segretari, la "Bulla unionis Graecorum" (ibid., I, fasc. 2,

p. 77; Hist., p. 551; v. Conc. fl., III, fase. I, p. 79, per lo speciale versamento della

Camera apostolica a B. per tale atto), e così pure quelle susseguenti di unione dei

Copti (4 febbr. 1442) e dei Maroniti (7 ag. 1445; ibid., I, fasc. 3, pp. 63, 65, 105). Il

31 ag. 1441, presentatosi al concilio l'abate Andrea, inviato del patriarca nestoriano

Giovanni XI, ne tradusse il discorso, volgarizzato dall'originale "ydiomite

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Syrorum", in eloquente latino (testo ibid., III, fasc. 3, p. 62).

Tra gli atti seguenti si distinguono le istruzioni diplomatiche, "date... per me

Blondum, de mandato S.D.N. Eugenii IIII, cuius Sanctitas eas viderat et

relegaverat, 1442 22 maii", per la legazione al re di Francia di Pietro del Monte,

vescovo di Brescia, intimanti il ritiro della prammatica sanzione e dell'appoggio al

concilio, e preludenti all'abbandono del sostegno papale a Renato d'Angiò nel

Regno di Napoli (testo in A. Lecoy de la Marche, II, pp. 245 ss.); e si possono pure

menzionare i sondaggi sulla disposizione dei Bulgari verso il cattolicesimo e la

crociata, probabilmente nel 1443 (v. Nogara, p. 44: "quae mihi dudum pro magno

Eugenio agenti exploratissima fuere"). Vicino a Eugenio IV fu pure in una delle sue

attività peculiari, la riforma e riorganizzazione dei conventi. Ciò risulta non solo

dalle frequenti soscrizioni di bolle e brevi relativi (un es. significativo in Libri

Commemoriali, IV, p. 276), ma specialmente dalle commendatizie a lui indirizzate

da F. Barbaro (28 luglio 1435, per i gerolimini di Verona), e Alberto da Sarteano

(20 genn. 1446, per l'istituzione di un Ordine di clarisse a Brescia). Profittando

della posizione, B. promosse la carriera ecclesiastica del fratello Matteo (v. bolla di

Niccolò V, 29 genn. 1448, cit., sui benefici conseguiti "ex procuratione, industria et

sollicitudine prefati Blondi"), dapprima assicurandogli la pieve di S. Reparata a

Castrocaro, non senza una delicata vertenza con la Signoria di Firenze (bolla di

Eugenio IV, 7 apr. 1435, cit. in G. Mini, c. 54), e quindi facendolo nominare,

consacrato monaco benedettino, abate di S. Maria della Rotonda a Ravenna (bolla

di Eugenio IV, 24 nov. 1440, cit. in G. Mini, c. 51), occupandosi anche, "propriis

pecuniis", del restauro degli edifici (bolla di Niccolò V, cit.).

Segno dell'influenza acquistata in Curia da B. sono ancora richieste di

raccomandazione di personaggi eminenti, quali il legato apostolico in Inghilterra,

Pietro del Monte (lett. a Marco da Pistoia, 13 ag. 1440, per essere richiamato; v. J.

Haller,Piero da Monte, Roma 1941, p. 177) e il cancelliere del re d'Inghilterra,

Thomas Bekynton (lettera del 27 apr. 1441 per ottenere il vescovado di Bath; v.

Official Correspondence, p. 172). L. Bruni, inoltre, trovava in lui la persona idonea,

per posizione e congenialità di intenti, per accreditare la dedica a Eugenio IV della

versione della Politica di Aristotele (v. anche risposta di B., 8 marzo 1437: "Non

parvi etiam erit faciundum, qua re nostros fortassis aliquando superstitiosos cum

gentilium philosophis in gratiam redire facies", Nogara, p. 94).

Né ciò andava senza suscitare inimicizie, dentro e fuori la Curia, sia per motivi di

rivalsa politica - come il sequestro dei suoi beni, ordinato nel 1434 dal signore di

Forlì, Antonio Ordelaffi, per essere egli "bono servidore" di papa Eugenio -, sia

anche per ragioni più personali, favorite da certa sua rigidezza di carattere e

consapevolezza di sé ("troppo spiacevole", appariva a un postulante fiorentino; ed

egli stesso, in diversa occasione, attesta come gli venissero rimproverate "tum

elationem, tum rusticitatem"; v. G. Mancini, p. 200; Nogara, p. 193). L'autorità

acquisita da B. e insieme le insofferenze suscitate appaiono da un documento,

risalente agli anni 1436-37 del soggiorno della curia a Bologna: "...indomita cervice

ferox,... ordinas et disponis... Nunc autem domina ambitio ad crimen ariolatus et

ydolatrie per inobedientiam te compellit" (Mathias dei gratia Linconiensis filius

regis Anglie Blondo s.d., Bergamo, Bibl. Com., cod. Δ, V, 25, c. 48 r-v; dal contesto

il personaggio appare agire come procuratore della Chiesa a Parigi e Oxford, ed

aspirare, mediante i buoni uffici che B. avrebbe promesso e non mantenuto, a un

beneficio che lo liberasse del gravoso incarico).

A simili accuse, indipendentemente dalle beghe che potevano occasionarle, non

doveva esser disgiunto il proposito di colpire l'altro, fondamentale aspetto della

personalità di B., quello dell'umanista. Salito nella carriera curiale attraverso un

tirocinio essenzialmente politico, B. aveva trovato nell'ambiente di Firenze

l'occasione propizia per un'affermazione autonoma. Autore in precedenza di

piccole composizioni, destinate a non uscire da una cerchia di amici (a certi suoi

versi allude un epigramma anonimo: Flavio vati historico claroque, 1437 c.: "Iam

legi quam dulcis sit tibi fistula", Brescia, Bibl. Com., cod. A, VII, 7, c. 191v), ora

poteva non solo collaborare a imprese rilevanti, come gli emendamenti a Livio,

patrocinati dal card. Prospero Colonna, ma soprattutto misurarsi con gli umanisti

fiorentini, in particolare con il più illustre, L. Bruni, cogliendo i frutti di una lunga

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preparazione, forse più eclettica, ma anche più vasta e meditata. Ciò è palese sin

dal suo primo scritto importante, il trattatello De verbis romanae locutionis (1º

apr. 1435), sorto da una discussione tra segretari apostolici, e in cui B. sceglie come

interlocutore il Bruni.

Contro la supposizione di questi e di altri (C. Rustici, A. Loschi) della sussistenza di

un bilinguismo di dotti e indotti, "ut nunc est", nell'antica Roma, B., appoggiandosi

su di una serie di testimonianze di fatto (specie dal Brutus ciceroniano), nonché

sull'osservazione di sopravvivenze dialettali latine, afferma la sostanziale unicità

della lingua, concepita quale stabile istituzione dello stato romano, e quindi

corrottasi soltanto con le invasioni barbariche. Ma più che nella tesi in se stessa,

una singolare originalità è dimostrata nella coerenza metodica di attenersi a un

ordine di argomentazioni storiche e documentarie, in piena indipendenza dalle

nozioni scolastiche, grammaticali e retoriche, che avevano non poco contribuito a

confondere i termini della discussione. Per questo appaiono importanti la

distinzione fra gradi differenti di cultura e di proprietà di linguaggio e i tre

tradizionali stili della retorica (Nogara, p. 125), e quella analoga fra grammatica

intesa come scienza, e grammatica come proprietà comune di ogni linguaggio (p.

128). Lo scritto è altresì significativo nell'economia della produzione complessiva

di B., come scoperta consapevole di un campo autonomo di attività rispetto alla

ricerca della "eloquentia", valore precipuo degli "humanitatis studia".

L'insufficienza stilistica stessa, da B. confessata (p. 116), non è in realtà che un

adeguamento, in una studiata e caratteristica complessità espressiva, all'inconsueta

preoccupazione di motivare e soppesare i giudizi, di tener conto, per quanto

possibile, dell'insieme dei dati relativi alla questione in esame. Carattere infine già

qui ravvisabile, e comune poi ai suoi lavori maggiori, è la tendenza ad allargare

l'ambito dell'indagine, per cui il risultato conseguito diviene spunto per nuova

ricerca, vale a suggerire audaci e precorritori, se non sempre realizzabili, temi di

studio. Alla questione della lingua B. pensava ancora nel 1445, proponendo al

benedettino Girolamo Aliotti come a sviluppo del suo trattatello, l'argomento

inedito di una storia della latinità corrotta fino alla recente rinascita ("ut

declinationem linguae latinae postquam fluere in deterius coepit eiusque

propagationem a paucis retro annis... adgrediar scribere", in H. Aliottus, Epistolae

et opuscola, Arezzo 1769, I, p. 148). E basterà accennare alla continuità di simili

interessi nelle Decades, nell'Italia illustrata, nella Roma triumphans, dove il fatto

linguistico appare compiutamente risolto nella sua realtà storica, istituzionale,

consuetudinaria.

Nel 1435 o poco oltre B. poneva mano a una più ampia impresa, le storie del suo

tempo. Quella dello storico era per lui vocazione antica ("ab ipsa adolescentia",

come egli ricorda; v. Nogara, p. 31); ma ciò che lo indusse a darle forma fu ancora

l'esempio di L. Bruni, allora impegnato nella stesura delle Storie fiorentine, non a

caso ricordate nel De verbis rom. locutionis; né ovviamente meno determinante

era la capacità di personale indipendenza e di accertamento dei fatti, che gli aveva

garantito l'alta posizione in Curia. Cominciando dalla morte di Martino V (l'attuale

libro V, decade III, v. Nogara, pp. 103, 146), e progettando un ordinamento per

"decennali", egli rendeva nota una prima parte in quattro libri nella primavera

1437; tra i primi a prenderne visione furono F. Barbaro, il vecchio segretario e

diplomatico di F. M. Visconti, Giovanni Corvini, e Leonello d'Este. Informa di

questa prima fase del lavoro l'epistola indirizzata a B. da Lapo di Castiglionchio,

Bologna, 10 apr. 1437 (Vat. Ottob. lat. 1667, cc. 208v-217r), importante anche

perché, in forma encomiastica, lo scrivente ripete le idee programmatiche che

aveva udito da B. stesso.

La disciplina storica, nonostante il suo grande pregio, era andata trascurata dai

moderni, ed era quindi tanto maggior merito applicarvisi, che non alle tradizionali

scienze della filosofia, geometria, musica e astrologia. Vero è che Leonardo Aretino

l'aveva trattata da par suo: "tamen is patriae tantummodo res gestas complexus

est", mentre B. aveva colmato la lacuna, narrando i fatti "ex universa Italia", con

proposito di giovare non soltanto agli eruditi, "verum etiam multitudini". Tendenza

moderna era di rivolgersi esclusivamente alle cose antiche, dove era vano

gareggiare con i grandi autori, mentre B. aveva ritenuto altrettanto degni i fatti

moderni, "si quis in lucem proferre vellet", rivolgendosi così "ad ea illustranda", "ut

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intelligerent homines huius aetatis si qua strenue recteque aut contra nequiter et

perperam facerent, ea non modo vivos latere non posse, sed etiam nota posteritati

fore". Infine, in ossequio al principio della veridicità della storia, aveva

scrupolosamente vagliato le testimonianze: "Nam et plerisque ipse... interfuisti

rebus gerendis, et quibus minus interfuisses, eas investigando et percunctando ab

his apud quos gestae essent didicisti, e quibus locupletissimis testibus niterentur

pro veris probasti, quae vero sermonem vulgi auctorem rumoremque haberent, ut

falsa ac ficta omisisti". E ancora, attuando i classici precetti ("ordinem temporum,

locorum descriptiones, tum consilia, acta, eventus"), particolare cura aveva

prestato nel rispettare le ragioni dei singoli, "unicuique servata personarum

dignitate". L'Italia aveva così trovato il suo nuovo storico, "inter veteres illos

praestantissimos rerum scriptores non immerito collocandus".

In un secondo tempo, scartato il piano dei decennali, B. dava nuova disposizione

alla materia, che si era ampliata, prendendo come punto di partenza il principato di

Filippo Maria Visconti (1412), e, con procedimento a lui caratteristico, elinunava

dalla circolazione la parte dapprima composta ed edita. Nel 1440 erano pronti nove

libri (non però ancora definitivi), mentre un decimo, poi soppresso, comprendeva

"multa... vetustissima veteribus ac novis immixta historiis" (Nogara, p. 104), segno

di un'esuberante erudizione, incapace di tenersi nei limiti dei precetti storiografici.

Il lavoro di revisione e completamento si protraeva fino al principio del 1443,

quando erano distribuiti 11 dei 12 libri composti, con scrupolo di sottoporli a

personalità politiche e culturali delle principali capitali: Guarnerio da Castiglione e

P. C. Decembrio a Milano, F. Barbaro a Venezia, L. Bruni a Firenze, e infine a

Leonello d'Este, che aveva patrocinato fin dal principio il lavoro.

A quest'epoca era già incominciata la nuova parte dell'opera, "ab inclinatione

romani imperii", di cui inviava i primi 8 libri ad Alfonso d'Aragona (giugno 1443),

accreditato da P. C. Decembrio e dal Valla, e in concorrenza, ancora una volta, col

Bruni, suo costante termine di paragone, che l'anno precedente aveva inviato al

sovrano il suo De bello italico adversus Gothos ""nihil plus habet quam

Procopius",Hist., p. 43). Il nuovo disegno - anche se non va presa alla lettera la

giustificazione a posteriori di B., di avere cominciato "praepostero ordine" per

timore di non giungere a narrare i fatti recenti (lett. al re Alfonso, 13 giugno 1443

Nogara, p. 148) - fu concepito abbastanza precocemente, probabilmente prima del

1440, se egli afferma di essersi procurato Procopio direttamente da qualche dotto

bizantino ("nostra industria nuper habuit Italia",Hist., cit.), prima che il Bruni si

accingesse alla riduzione latina. Tracce del lavoro preparatorio sono in Vat. lat.

1795, sec. XIII-XIV, silloge di cronache medievali (fra cui, Gesta regum francorum,

Paolo Diacono,Hist. Langobardorum, Roberto Monaco,Hist. gestorum in concilio

claremontensi), che dai fogli di guardia, contenenti annali cittadini di fine sec. XIV,

appare di provenienza forlivese; e le numerose postille autografe, di tempi diversi e

relative anche a testi non adoperati (come Darete Frigio), lasciano pensare a un

interesse più antico rispetto alla composizione delle Storie.

Non si trattava, dal punto di vista di B., di un salto qualitativo rispetto al primitivo

programma, bensì dello sviluppo dell'idea affermata nell'epistola di Lapo, di

coprire il campo lasciato aperto dagli scrittori antichi, a cui ora si ricollega dal

punto stesso in cui cessava il loro racconto, indottovi indubbiamente dalle buone

accoglienze ricevute e dal sentimento sempre più alto del valore della propria

opera. Tuttavia egli non poteva tacere, in sede di introduzione, dei problemi affatto

nuovi di composizione e struttura che gli si erano presentati (discontinuità di

narrazione, ricorso a testi inadeguati e alla testimonianza di scrittori "etiam aliud

quam res gestas dicere intendentium",Hist., p. 4). L'ambito stesso dell'opera

rimaneva incerto: da una parte era la storia dell'"inclinatio" imperiale, e della

relativa sequela di sventure; dall'altra l'interesse si volgeva alle origini e vicende dei

popoli moderni, in particolare d'Italia, verso cui la narrazione doveva convergere.

Divulgando nel 1446 un'edizione provvisoria dei primi 11 libri, in una lettera a un

prelato (probabilmente Ermolao Barbaro) B. insisteva sull'aspetto, diciamo,

negativo dell'"inclinatio" (v. lett. di B., 1446, Nogara, pp. 161 s., importante anche

per la discussione sostenuta sulle ragioni della durata e decadenza dell'impero,

intorno a cui il corrispondente avrebbe voluto un maggiore ossequio alle

concezioni agostiniane); in una epistola dedicatoria inedita, di poco seguente, a

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Leonello d'Este, l'accento batte invece sulla varietà inopinata e istruttiva dei casi

posti in luce (Modena, Bibl. Est., cod. Lat. 237, memb., 1446-47; contiene 11 libri e

parte del dodicesimo; risulta di qui come non fosse ancora contemplato

l'ordinamento per decadi).

Solo nel 1453, o poco prima, l'opera era compiuta ed edita, con il titolo Historiarum

ab inclinatione romani imperii decades (decade I, dal 412, - data posta per il sacco

di Roma di Alarico del 410, forse per gusto di artificiose concordanze cronologiche

- al 754; decade II, fino al 1402; decade III, 1412-1439; decade IV, libri I-II,

1440-41; l'ultimo libro era annesso all'edizione per quanto incompiuto, tanto da

non essere compreso nella prima distribuzione delle Storie contemporanee nel

1443).

Nonostante le sproporzioni evidenti, si trattava pur sempre per B. di un testo

unitario, nell'idea a lui cara del grande corpo storico in cui i popoli moderni

potessero imparzialmente riconoscersi, e nella cui attuazione egli vide con orgoglio

uno dei maggiori motivi di gloria della sua epoca (It. ill., p. 350). Le linee direttive

sono quelle indicate dalle concezioni umanistiche, così per l'oggetto di indagine - le

tradizioni romane, l'Italia, l'Europa civile o Cristianità occidentale -, come per il

sentimento della rinascita e l'impegno culturale che ne consegue. In ciò la frattura

con la concezione ancora vigente della storia universale non potrebbe essere più

netta. La discussione sopra menzionata su s. Agostino mostra come la massiccia

impresa storiografica di B. non andasse esente dal proporre delicati quesiti

filosofici, e come tutt'altro che pacifica fosse una sua completa accettazione. In

effetti per B. il problema di un rapporto con la concezione biblico-

provvidenzialistica neppure sussiste. Per quanto egli possa menzionare miracoli e

appellarsi al volere divino, la sua rimane essenzialmente una storia positiva di fatti,

personaggi, istituzioni umane, nel termine costante di paragone con la più

maestosa delle istituzioni umane, l'impero romano (su questo punto, v. in

particolare Nogara, p. 162). La discussione stessa sulla "inclinatio", dove

distinguendo il "principium" - irruzione dei Goti - dalle "causae" dell'avvenimento

può accantonare, pur riferendole, sia la spiegazione "repubblicana" del Bruni, sia

quella etico-religiosa di Orosio, è istruttiva, ed esclude l'ipotesi (S. Mazzarino, pp.

78 s.) di un'incidenza nel termine di concetti biblici. Privo di un autentico

sentimento provvidenzialistico, B. è ugualmente poco disposto a concedere alla

fortuna: al centro della sua storia è un robusto senso della capacità e responsabilità

umana, che si traduce talvolta in duri giudizi verso chi ne prescinda (per es. addita

l'errore di Filippo Maria Visconti nel licenziare il Carmagnola, "ut qui ingentes

rerum moles mirandum in modum vel attollere vel deprimere fortunam culpamus,

alieno id errato quam coeco, ut ferunt, versatilique illius ductu saepius fieri

intelligamus", p. 419; lo spunto è suggerito dalla fonte usata, il cronista milanese A.

Biglia: "eodem tempore... fortuna aliud signum dedit", in L. A. Muratori, Rerum

Italic. Script., XIX, Mediolani 1731, col. 74). Da buon umanista, B. non manca di

assegnare un fine propedeutico alla storia; tuttavia egli evita studiatamente

l'accezione retorico-moralistica, intendendola essenzialmente come scuola di

prudenza politica, donde anche la dignità rivendicata allo storico di fronte ai

potenti (v. dedica cit. a Leonello d'Este, e anche le modificazioni recate al Proemio

dapprima scritto da F. Barbaro per l'Italia illustrata: questi encomia la storia,

"propter singularem utilitatem quam habet privatim et publice ad bene beateque

vivendum"; B.: "prudentia et exemplorum copia gerendis imperii rebus"). Nel

contesto della narrazione si ravvisa una certa rigidità di valutazione etica, o per

giudizio acquisito (per es. su Bonifacio VIII), o per motivi di avversione personale e

politica (per es. riguardo al Vitelleschi); né son evitati termini convenzionali di

riprovazione, come "perfidia", "iniquitas", ecc. (per es. verso le città ribelli al papa,

o più generalmente verso i "nemici del nome latino": gli imperatori tedeschi e

quelli bizantini, per non dire dei "barbari", dei saraceni e dei turchi). Ma

confrontando d'altra parte le Storie di B. con le cronache, antiche e

contemporanee, con cui si trova a che fare, si ha la misura di quanta parte dei

consueti moralismi sia da lui deliberatamente bandita. Le passioni e le rivalità

umane vengono accolte come dato di fatto, di cui lo storico deve tener conto. Tale

appunto è il pregio delle "universale historie" su quelle "particulare", "perché la

natura de li homini è sempre stata de havere invidia et vuluntiera supprimere laude

d'altri, in tanto che fradelli l'uno de l'altro et figliuoli, che li parà valere, de padri

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occultano la gloria" (Nogara, p. 211). Di qui anche lo studio, caratteristico nelle

Storie contemporanee, di prescindere dagli intenti propagandistici, di cui era

intessuto il materiale documentario adoperato. Ed anche nel caso isolato del

solenne encomio di F. Barbaro, difensore di Brescia nel 1439 (sollecitatogli dallo

stesso interessato, con l'invio dei commentarioli di E. Manelmi, suo segretario, da

cui B. dipende; cfr. E. Manelmi,Commentariolum de obsidione Brixiae, Brescia

1728, p. 13; Hist., p. 547), egli risolve la propaganda del magistrato veneto su di un

piano più generale, come modello del buon governo di un saggio, "ut intelligant hoc

exemplo populi quanta sit foelicitas sapientes viros et bonis praeditos artibus

publicis praefectos esse muneribus" (p. 547).

A informare i giudizi di B. è essenzialmente il comune clima di opinione formatosi

nella sodalità umanistica; così per es. nella condanna della milizia contemporanea,

che ripete uno spunto di L. Bruni (pp. 394, 488); o, contradittoriamente, nel

compiacimento per la sud periorità delle razionali tecniche di guerra degli Italiani

rispetto al "furore" dei transalpini (es. p. 469); o ancora, in altro campo, nel

caratteristico atteggiamento di sufficienza verso il clero contemporaneo, ignaro dei

suoi doveri (es. p. 435; Hay, p. 121). Motivo di fondo del racconto, come di tanti

altri testi contemporanei, è l'aspirazione pacifista. Storico in larga misura di

battaglie, a un certo punto B. lamenta di aver speso troppe parole, "pro parva

rerum dignitate", nelle interminabili guerre che affliggevano da un capo all'altro

l'Italia (p. 514). La stessa storia dell'"inclinatio" è in primo luogo quella di uno

stabile e pacifico assetto lacerato per catastrofe da una serie di sventure, fino alla

pressoché completa estinzione. Correlativo è quindi l'ideale di un'effettiva autorità

di governo, che valga a proteggere dai tirannelli, dalle lotte faziose, dalle invasioni

esterne, e a incrementare le ricchezze e le buone arti. In tal forma è presentato, per

bocca del legato veneto, il principato di Filippo Maria (pp. 422 ss.); biasimevole di

contro gli appare la situazione del Napoletano, conteso da due re in balia dei

rispettivi baroni, e sul disonore di tale "potentatus exilitas" B. prova persino

ritegno ad indugiare (pp. 569, 497, 552). Proiettato nel passato, lo stesso ideale è

riconosciuto, non senza influenza sulla storiografia futura, in personaggi come

Teodorico e Carlo Magno, o in papi come Gregorio Magno e Adriano I (pp. 111, 154

s.).

Si comprende di qui che, come storico del passato - non diciamo medioevo -, B. è

svincolato da tradizioni ideologiche e cronistiche, intendendo anzi,

storiograficamente parlando, inaugurare una tradizione nuova. L'impero

all'incoronazione di Sigismondo è giudicato ormai "collapsum" (p. 469); ma già la

fatidica deposizione di Romolo Augustolo gli suggerisce i termini di "imperii

romanorum non magis inclinationem quam occasum" (p. 30). Procedendo oltre, la

"translatio imperii" gli pare convalidata non soltanto dall'investitura papale, ma dai

suffragi dei popoli di tutt'Italia (p. 184). Non per questo perde di vista l'impero

orientale, e i contrasti tra questo e quello d'Occidente sono ritenuti causa prima

"inclinantis pridem imperii funditus evertendo" (p. 166). Più sensibile alle

situazioni di fatto che a concezioni universalistiche, vede ben presto uscire

dall'ambito imperiale, e quindi dalle direttive della sua storia, le antiche province,

in quanto "sui iuris factae" (pp. 100, 133). D'altra parte, in un singolare impasto di

antico e moderno, il Sacro Romano Impero è ben presente nel corso delle Decadi:

per es. alla sua "vacatio", dopo Federico II, "quo ad rem italicam", è attribuito il

fenomeno delle usurpazioni signorili (p. 340). Nelle lotte con gli imperatori

germanici, B. è naturalmente con la Chiesa e i Comuni. Ma non per questo può

essere detto "guelfo", non soltanto perché rappresenta in un'accorata invettiva le

lotte di guelfi e ghibellini alla stregua di un'infezione sociale, disseminata da

Federico II in poi per tutt'Italia (pp. 288 s.), ma soprattutto in quanto considera la

fioritura cittadina quale fenomeno, politico ed economico, autonomo rispetto alla

Chiesa (p. 30; It. Ill., p. 349), pur negli alterni vincoli di alleanza. Storico in larga

parte dei papi (e così pure, per ovvie preoccupazioni contemporanee, delle

crociate), B. guarda alla Chiesa con l'occhio del funzionario curiale laico, e cioè in

quanto organismo disciplinare, organizzativo e politico (v. per es. Hist., p. 391, sul

decreto di Bonifacio IX di riserva sulla collazione di tutti i benefici: "rerum

novam... quae successores suos non minus orbis christiani quam Romae dominos

reddidit"; v. di contro p. 237, dove B. rileva con stupore l'impotenza politica dei

papi medioevali in Roma).

Biondo Flavio in Dizionario Biografico – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/biondo-flavio_(Dizionario-Biograf...

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Page 11: Riccardo Fubini, Biondo Flavio, in Dizionario Biografico – Treccani

L'interesse dell'opera di B. sta in una, non sempre armonica, combinazione di salde

convinzioni acquisite, di ampiezza di interessi e curiosità culturali e di scrupolo

documentario. Di qui quelli che sono ad un tempo i suoi pregi e limiti di storico.

Con caratteristico procedimento di obbiettivazione, egli mira a registrare

fedelmente la notizia, raramente avventurandosi in apprezzamenti più generali,

nella misura in cui questa gli è resa accessibile, e quindi via via a verificarla e

arricchirla di nuovi riferimenti, e a inserirla in una sempre più ampia serie di

vicende. In tal modo la sua ricerca viene ad accrescersi su se stessa, per dir così, a

macchia d'olio, secondo direttive un po' casuali, entro schemi prefissati che,

nonostante i suoi sforzi, rischiano di rimanerle estrinseci.

Circa l'uso del materiale documentario e la sua tecnica narrativa, nella parte

contemporanea è evidente la preoccupazione di estrarre e concentrare (anche dal

punto di vista stilistico) l'essenziale, evitando amplificazioni (nello scrupolo, per

es., dei dati numerici) e particolari di colorito o interesse puramente locali. Storia

di fatti, tende a far risaltare plasticamente situazioni e ragioni obbiettive, ma

concede ben poco all'osservazione psicologica. In quanto "storia d'Italia", la parte

avuta dai potentati transalpini compare solo di riflesso, non senza pregiudizio per

la comprensione dell'insieme. L'oggetto è, secondo le regole, militare e

diplomatico, con gusto tuttavia per particolari concreti, come per es. sullo stato

d'animo delle popolazioni (Hist., pp. 551, 565), o sul deprezzamento del debito

pubblico a Venezia, per il timore della defezione di F. Sforza (p. 575). Abbastanza

raramente il racconto si distende in squarci narrativi (come per la fuga di Eugenio

IV, una delle primissime parti composte) o oratori (per es. in occasione del

dibattito per l'entrata in guerra di Venezia nel 1426), e sobriamente son trattate le

concioni di rito dei capitani. Circa le questioni ecclesiastiche, per lo più risolte nel

contesto politico, parte a sé hanno, oltre un cenno sui decreti di Costanza e l'ovvia

condanna dei Basileesi, le digressioni sul concilio di Firenze, ove riporta il decreto

di unione delle Chiese, il discorso di Pietro Diacono, legato del patriarca copto

(Nogara, p. 20; Conc. florentinum, III, fasc. 3, p. 63), ragguaglia sulle credenze

religiose degli Armeni (Hist., p. 548) e sulla condizione e sito degli Etiopi, così da

colmare una lacuna della geografia tolemaica (Nogara, pp. 22 ss.).

Per quanto riguarda le due prime decadi, l'intento critico risulta anzitutto tenendo

presente quanto delle tradizioni medioevali sia taciuto, come non meritevole di

discussione. Per esempio circa la mitica origine troiana dei Franchi, B. aveva

annotato a Gesta regum francorum, in Vat. lat. 1795, c. 10 r: "somnia"; ma nelle

Decadi si limita a scrivere: "Franci et ipsi Germani" (p. 12); lo stesso, fra l'altro, si

osserva per la donazione di Costantino.

Nell'uso della fonte narrativa, B. si attiene perlopiù al procedimento consueto della

perifrasi letterale, raramente confortata da citazione, integrando ove possibile con

particolari desunti altrove. Là dove egli più decisamente innova è nella ricerca

sistematica di tutti i testi accessibili (a volte anche redazioni diverse dello stesso

testo: v. Buchholz, p. 85, per il Liber pontificalis); nel conseguente postulato

metodico della preferenza da accordarsi all'autore più vicino cronologicamente e

geograficamente al fatto (per es. al Liber pontificalis sui compendi del XIII-XIV

sec.), donde anche la predilezione per epistolari illustri, ampiamente citati (s.

Girolamo, Cassiodoro, Gregorio VII, Petrarca, ecc.); nella ricerca di attribuzione di

fonti anonime (come quella a "Petrus Guillermus bibliothecarius" del Liber

pontificalis, p. 140); nel ricorso infine alla più ampia gamma di documentazione

sussidiaria come monumenti e pitture, il Decretum Gratiani e norme

consuetudinarie (p. 163, per Rimini), privilegi, trattati (pp. 238, 269, e Nogara, p.

34), e, per l'età più recente, a tradizioni orali e memorie di famiglia. È interessante

inoltre che, nonostante la condanna globale degli autori medioevali, di fatto egli

gradui la valutazione culturale della fonte ("Pandulphus... historiam diligenter

scripsit", "Ptolomaeus, alioquin vir doctus...", "Martinus Polonus errorum

ecclesiasticae historiae fomes", ecc., cfr. pp. 239 s.); e, per altro aspetto, che si

proponga quesiti non ovvi, per es. sul governo di Roma nel sec. IX (p. 172).

S'intende come in tale raccolta B. oltrepassi la concreta possibilità di un vaglio

metodico e organizzato dei dati; la sua stessa diffidenza critica tende inoltre a trarlo

in errore (per es. in modificazioni proposte alla serie dei papi, p. 140). Segno del

carattere precorritore dell'opera sono i suoi stessi scompensi letterari, del resto da

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B. stesso riconosciuti (v. Introd. a decade I), che approdano a un compromesso fra

una storia di tipo erudito, che inaugura, e una narrativa, retoricamente atteggiata,

da cui prende l'avvio (v. D. Hay, p. 124). Ma per B., in particolare, un risultato

importante era stato raggiunto. Partendo, nelle sue storie contemporanee, dalla

rivendicazione della "dignitas" riconoscibile alle cose moderne, e trattandole con

puntuale scrupolo documentario, egli era uscito dal puro ambito così di una

narrazione retorica come di una storia strettamente politica, contando soprattutto,

al di là delle vicende alterne di successi e insuccessi, il quadro di civiltà in cui esse

si svolgevano, alle cui più significative manifestazioni (la saggezza di F. Barbaro e le

ricchezze di Cosimo de' Medici, la cupola del Brunelleschi e le prove di bravura

oratoria, la bombarda e il galeone veneziano, ecc.) non era mancato il debito

risalto. Rivoltosi al passato, l'attenzione veniva a vertere in eguale misura sui fatti

narrati e sulla loro eterogenea documentazione, testimonianza in se stessa dei

mutamenti sopravvenuti rispetto all'antico, istituzionali, ambientali, di

consuetudini, denominazioni, non senza compiacimento per le innovazioni

moderne (lo sviluppo delle città, la polvere da sparo, ecc.). Per questo, nel

congiungere la prima alla seconda parte delle Storie, B. rivendica il diritto di usare

nomi "barbari", in quanto "rerum singularum, quas omnino ut sunt intelligi

oportet, vocabolorum mutatio talis est facta, ut si vetusta illis exponendis attulero,

mea ipse relegens scripta non intelligam" (p. 393). In altri termini, l'indagine

medioevale aveva avuto il valore di rafforzare la coscienza di un'Italia "nova" (p.

396) rispetto all'antica, volgendo l'interesse ai vari elementi che costituiscono gli

aspetti di una civiltà. Ma al momento in cui B. pubblicò le Decadi, tale sparsa

documentazione aveva già trovato una sistemazione più libera e adeguata nel

contesto descrittivo dell'Italia illustrata, per il tramite dell'indagine archeologico-

antiquaria della Roma instaurata.

All'origine della Roma instaurata (pubblicata sulla fine del 1446) è il clima creato

dal ritorno della curia a Roma nel 1443, e le susseguenti esigenze di riordinamento

amministrativo e urbanistico della città. Gli interessi archeologici di B., già attestati

in un passo delle Decadi relativo al 1434 (p. 479), erano inoltre stimolati dalla sua

frequenza nel circolo del card. Prospero Colonna, che accompagna e istruisce

nell'ispezione delle rovine. Una di queste gite è narrata in una lettera a Leonello

d'Este (13 nov. 1444), che anticipa passi delle opere, e che si conclude con

l'affermazione che tali e tanti sono i monumenti di Roma e dintorni da riempire

"libri magnitudinem, vel parcissima narratione" (Nogara, p. 159). Tra i precedenti

di tali indagini si possono menzionare gli interessi archeologici ed epigrafici di

Poggio e della sua cerchia, ma probabilmente non, come si scrive di solito la

descrizione di Roma nel De varietate fortunae, edito solo nel 1448, in cui sono forti

indizi di dipendenza dalla Roma inst. (per es., circa la contiguità delle terme

Alessandrine al Pantheon, Poggio afferma semplicemente: "scimus", Opera, Basilea

1538, pp. 135 s.; la posizione è dimostrata da B. in base al presunto Sesto Rufo, l. II,

par. 77; Poggio riconosce le terme di Domiziano nell'area della chiesa di S.

Silvestro, in base a quanto "scriptum in vita pontificum adverti"; la menzione

estesa della Vita di Silvestro è in B., II, 12; il paragrafo sugli acquedotti appare una

riduzione della sezione relativa di B.; analoghe corrispondenze si notano a

proposito del Colosseo, dell'Agone, delle Terme).

Presupposto fondamentale dell'opera è l'esperienza coeva delle Decadi, per

l'analogia stessa dell'intento sistematico di ricostruzione storica, in piena

autonomia dalla tradizione, in questo caso quella ancor vigente dei Mirabilia urbis.

La novità consiste appunto nella ricerca di dipanare l'antico dalle successive

trasformazioni ed edificazioni, l'attenzione per le quali non va disgiunta dallo

studio del materiale più propriamente archeologico (e forte risalto assume

nell'insieme l'assetto monumentale della città moderna). Frequente è pertanto il

ricorso a testi medievali (Lib. pontificalis, martirologi, Gregorio Magno, Beda,

ecc.), in un caso anche all'archivio di una basilica (SS. Apostoli, III, 79).

Guida alla ricerca è il Regionario da B. attribuito a Sesto Rufo, sulla base del codice

scoperto a Montecassino; la scoperta riguarda l'attribuzione, non il testo, già

altrimenti noto; cfr. I, 18; e R. Valentini-G. Zucchetti, I, pp. 200, 204; IV, p. 251).

Tuttavia l'opera non si limita a una trattazione topografica in senso stretto,

tendendo di frequente a sconfinare nel campo più ampio delle istituzioni

Biondo Flavio in Dizionario Biografico – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/biondo-flavio_(Dizionario-Biograf...

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Page 13: Riccardo Fubini, Biondo Flavio, in Dizionario Biografico – Treccani

(particolarmente ampia la digressione sui comizi, II, 67-72), o delle rievocazioni

storiche, antiche e anche medievali, secondo lo spunto offerto dai singoli luoghi e

monumenti. Anche per questo, le fonti letterarie, adoperate con tutta la consueta

larghezza di repertorio, finiscono per avere la prevalenza sui dati archeologici ed

epigrafici, pur attentamente considerati.

La prima parte dell'opera, pur con numerose digressioni, segue un ordine

topografico, passando in rassegna le porte (13 riconoscibili sulle 23 antiche) e i colli

(libro I), le terme e le regioni delle Carinae, Suburra, Tabernola e Sacra Via; quindi

(II, 40 ss.) dà alla trattazione un'organizzazione sistematica secondo istituzioni

(religione, governo e, nel libro III, spettacoli pubblici); infine (III, 67 ss.) considera

in ordine sparso singole rovine e monumenti, rispondendo a quesiti che gli erano

stati posti, e confutando pregiudizi correnti (per es. sulla formazione del Testaccio,

III, 74). Notiamo le ampie disquisizioni sulle terme, sui giochi, in particolar modo

sul teatro, dove lamenta l'avvilimento dei moderni istrioni rispetto all'onorata

professione antica (II, 116); il compiacimento per supposte continuità di usanze

(sui giochi Apollinari, III, 39); i ragguagli su recenti scavi, come per es. quelli

lateranensi o la scoperta dell'iscrizione del teatro di Pompeo (I, 86; II, 109).

Evidente è ovunque la preoccupazione di rifuggite, non soltanto dalle credenze

volgari, ma anche dall'ovvio o da opinioni assodate dei dotti (per es. sul termine

"trophaeum", II, 23; v. anche III, 56, sul "Marforio"). In quest'ordine di

considerazioni è la digressione sulla rovina degli acquedotti, attribuita non già ai

Goti, a torto calunniati, ma al venir meno di una tutela amministrativa e alle

susseguenti demolizioni, il cui perpetuarsi al presente è motivo di alta deplorazione

(II, 98-101; III, 7). Verso il termine B. dichiara lo scrupolo metodico, "ne ignota

impudenter asserere aut impossibilia vane et leviter conari compelleremur", per

cui lascia la descrizione delle rovine anonime a coloro "quibus fortassis curae erit

hanc describere quam nostrum habet saeculum. Romam" (III, 77, 84). Nella nota

conclusione, insieme al riconoscimento della grande superiorità civile della Roma

antica su quella moderna, B. non manca di prestare ossequio alla Roma cristiana e

ai suoi luoghi sacri, per cui essa può ancora dirsi capo del mondo. In questa pagina

non è solo da sottolineare l'aspetto polemico verso un classicismo irriverente, ma

anche la sua studiata posizione nell'economia del lavoro, per cui distingue la

menzione delle mete di pellegrinaggio dall'oggetto fondamentale, di ricostruzione

storica e descrizione monumentale, della ricerca, marcando in definitiva, senza

offendere la sensibilità di papa Eugenio, dedicatario dell'opera, il distacco dalla

tradizione dei Mirabilia.

Recentemente è stata segnalata (da G. Scaglia) la stretta corrispondenza, per

monumenti e didascalie, con la Roma inst., della pianta archeologica del cod.

Laurenz. Redi 77 (1471), copia di un prototipo anteriore al 1450, da cui furono

ricavate le illustrazioni di mss. tolemaici di Piero del Massaio (1452). L'ipotesi che

fosse stata una carta adoperata da B. è senza dubbio erronea, trattandosi

chiaramente del rapporto inverso; ma è comunque documento interessante di

quanto precocemente l'opera si fosse imposta, sia in campo archeologico e

letterario che, subordinatamente, geografico e artistico.

L'opera riconosciuta come la più personale di B., l'Italia illustrata, fu anche l'unica

sua che abbia avuto origine da una commissione. Se bene intendiamo l'allusione,

nel 1447 Alfonso d'Aragona gli aveva richiesto, attraverso il vescovo di Modena

Giacomo Antonio della Torre, un catalogo degli uomini illustri del tempo, secondo

un intento probabilmente analogo a quello poi realizzato da B. Facio (v. il Proemio

di F. Barbaro, in Quirini,Diatriba, p. CLXXII: "Unde peragrare ac lustrare Italiam,

coepi,ut non solum cum praesentis aevi hominibus in Italia nunc essem,quod a

principio quaesiveram, sed... intermortuam culpa temporum memoriam cum

doctissimis hominibus huius aetatis in lucem revocarem"; corsivo nostro). Un

modello in tal senso gli era offerto dall'Itinerarium di Ciriaco d'Ancona (1443), che

è, a suo modo, una rassegna dei dotti nelle varie città, la cui scelta corrisponde

abbastanza da vicino a quella di B. Ma lo schema si era subito modificato nei

termini a noi noti della descrizione geografica, archeologica e storica di tutt'Italia.

A tal fine egli era soccorso dalla contemporanea fioritura di studi geografici e

cartografici (ovvio e documentato è il suo interesse in materia nelle Decadi, per cui

richiese nel 1443 al re Alfonso di inviargli delle carte; l'idea stessa dell'"Italia nova"

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Page 14: Riccardo Fubini, Biondo Flavio, in Dizionario Biografico – Treccani

gli era suggerita da termini cartografici: "tabulae novellae", per es. "Italia novella",

"Palestina novella" ecc., era la designazione tecnica delle carte moderne aggiunte

alle tolemaiche; v. G. Uzielli,P. dal Pozzo Toscanelli, p. 141). Vi era inoltre

l'esempio di descrizioni storico-topografiche, quali quelle di Creta e delle isole

dell'arcipelago di C. Buondelmonti, o la stessa Descriptio orae ligusticae di G.

Bracelli, che, già composta nel 1442, egli si procurava nell'aprile 1448, attraverso i

buoni uffici del legato genovese a Roma, B. Imperiale (sulla data di composizione,

v. la lettera del Bracelli di presentazione dell'opera a A. Giustiniani, 10 apr. 1442, in

C. Braggio, p. 44; e la menzione nel testo al dogato attuale di Tommaso

Campofregoso, 1437-43; nella lettera di presentazione a B., 1º apr. 1448, in

Braggio, pp. 287 s., il Bracelli fa intendere di aver composto la Descriptio per

soddisfare la sua richiesta, ma si tratta evidentemente di una ricerca di

benemerenza dell'autore più oscuro rispetto al più illustre). Ma a segnare un salto

qualitativo, rispetto ai precedenti, era l'opera stessa precedentemente compiuta da

B.: la ricerca dell'Italia illustrata rappresentava per lui la prosecuzione di quella

della Roma instaurata, e su tutto stava il grande quadro storico delle Decadi, "per

eam quam sum nactus Italiae rerum peritiam" (St. ill., p. 293).

La stesura dell'opera si lega strettamente con l'episodio della temporanea disgrazia

di B. presso la Curia di Niccolò V. Le difficoltà dovevano già essere cominciate nel

1448, se B. avvisava il doge di Genova, Giano Campofregoso, che gli richiedeva i

suoi buoni servizi in Curia, che i "tempora et vivendi... modus" andavano

cambiando (v. lett. del doge a B., 22 apr. 1448, in Braggio, p. 26); e se,

verisimilmente per una riduzione degli emolumenti, egli aveva bisogno di

procurarsi i favori di Alfonso d'Aragona, attraverso un complicato giro di

raccomandazioni, a iniziativa di P. C. Decembrio per il tramite di Iñigo d'Avalos e

quindi del Bessarione (v. lett. di Iñigo al Bessanone, 1448, Bibl. univ. di Genova,

cod. C, VII, 46, cc. 15r-16v). Dispersasi la Curia per la pestilenza scoppiata a Roma,

e ritiratosi il papa a Fabriano con pochi collaboratori (15 maggio 1449), B. vi

anticipava il ritorno in agosto, "ansioso di guadagno" (Poggio, lett. a A. Fiocchi, 12

ag. 1449,Epistolae, III, Firenze 1861, p. 10). Ancora presente in settembre (v. lett.

di F. Barbaro a B., 15 sett. 1449), poco dopo egli abbandonava l'ufficio, forse in

coincidenza col ritorno del papa a Roma (29 settembre), e si ritirava quindi

successivamente nelle sue dimore di Romagna (a Monte Scudo, presso Rimini, v.

It. ill., p. 342), di Ferrara (a San Biagio presso Argenta aveva acquistato [1443] un

podere; nel 1457 B. è attestato come "civis ferrariensis"; v. G. Mini, c. 58) e di

Ravenna. In cerca di favori o unici, si recò inoltre a Milano, dove aveva come

fautore il Filelfo, probabilmente in occasione dell'insediamento di F. Sforza (marzo

1450), e a Venezia (estate 1451), dove incontrò i legati di Alfonso d'Aragona, A.

Panormita e L. Despuig, attraverso i quali fece pervenire al sovrano la parte

composta dell'Italia illustrata, accreditata dalla dedica scritta da F. Barbaro. Nel

1452 era alla corte di Napoli, e alla presenza dell'imperatore Federico III, in aprile,

pronunciò una solenne orazione per esortare alla crociata, nella dignità che gli

proveniva dall'essere lo storico dell'Europa e dell'Occidente latino (Oratio coram

serenissimo imperatore Frederico et Alphonso Aragonum rege inclito Neapoli in

publico conventu habita, in Nogara, pp. 107-114). Ritornato a Roma verso il

principio del 1453, dava ancora il suo contributo ai progetti caldeggiati per la

crociata con il trattatello De expeditione in Turchos, indirizzato ad Alfonso

d'Aragona il 1º ag. 1453 (Nogara, pp. 31-51), in cui passa in rassegna la situazione

dei popoli soggetti nella Grecia e nei Balcani; e inoltre, frequentando il card. D.

Capranica, ne assecondò la missione diplomatica a Genova (nov. 1453) con un

indirizzo al doge Pietro Campofregoso (Ad Petrum de Campofregoso illustrem

Genuae ducem, in Nogara, pp. 61-71), per esortare alla pacificazione interna,

condizione per collaborare alla causa comune. Tuttavia soltanto il 1º ottobre egli

era riammesso dal papa in carica (v. lett. a F. Barbaro, 26 ott. 1453, in Nogara, pp.

166 ss.; un breve sottoscritto da B., in data 5 ott. 1453, è in Arch. di Stato di Milano,

Sforza Pot. Est., 40).

La disgrazia di B. ebbe sicuramente uno sfondo politico, e insieme dei motivi più

strettamente personali. La testimonianza di Enea Silvio (De Europa, cap. LVIII),

che fosse venuto in disfavore di Niccolò V perché favorito dal predecessore, è quella

che, debitamente precisata, più ci accosta al vero. La carriera di B. si identificava

col pontificato di Eugenio IV, ed era, giova ricordarlo, una carriera essenzialmente

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politica, come sottolineato dall'attinenza mantenuta con la Camera apostolica e il

camerlengo. La funzione di segretario pontificio mancava tuttora di una precisa

configurazione e, così come variava nei compiti e nelle responsabilità, era

ampiamente soggetta a un potere discrezionale. Si capisce come B., già personaggio

influente, venisse con la morte del papa a trovarsi, per dir così, allo scoperto, e

compromesso nei mutamenti di indirizzo politico. Egli stesso lamenta

esplicitamente il danno derivatogli dall'amicizia dei Veneziani "apud hostes et

aemulos suos", senza un'apprezzabile contropartita (lett. a F. Barbaro, cit., in

Nogara, p. 167). Possiamo ricollegare l'affermazione con l'allusione di Poggio al

fatto che B. aveva concepito grandi speranze, poi deluse, "ex alterius amplitudine

quae certa sibi futura videbatur" (lett. al Fiocchi, cit.); allusione che va con buona

probabilità riferita al card. camerlengo Ludovico Trevisan, potentissimo e ritenuto

papabile al conclave, e poi messo in disparte da Niccolò V, proprio in coincidenza

con l'allontanamento di B. (v. P. Paschini,L. card. camerlengo, Roma 1939, p. 151).

D'altra parte B. incontrò la particolare e accanita ostilità di un alto personaggio,

sulla cui identificazione con il card. vicecancelliere F. Condulmer possono

sussistere ben pochi dubbi (nella lett. a F. Barbaro, 26 ott. 1453, B. discorre del suo

"nemico" come morente; il Barbaro, il 6 nov., ne attesta la morte: F. Condulmer

morì il 30 ottobre; esso era "notissimum" al Barbaro, del quale il Condulmer si

professava "compater", Quirini, App. p. 27; nei rimaneggiamenti alla prima

edizione dell'Italia illustrata, insieme alla dedica e menzioni per Niccolò V, sono

"accuratamente" soppresse quelle per il vicecancelliere: Nogara, pp. 217, 224; in

una lettera a G. Bracelli, 10 dic. 1454, Nogara, p. 168, B. attribuisce la sua disgrazia

ad alcuni "ex maioribus atque supremis e al vicecancelliere spettavano le sanzioni

disciplinari). Quali fossero le ragioni di tale avversione, rimane oggetto d'illazione;

certo è soltanto, da quanto B. dichiara al Bracelli, che la sua attività di studio influì

negativamente, in quanto giudicata, per pretesto o meno, incompatibile con

l'ufficio. Nell'insieme la spiegazione più plausibile dell'episodio sembra essere che

B., visti compromessi il suo prestigio e i suoi emolumenti, abbia cercato

volontariamente fortuna altrove, incorrendo in sanzioni, che egli stesso e i suoi

sostenitori stentarono in seguito a sanare.

La redazione dell'Italia illustrata seguì varie fasi, nella successiva rielaborazione dei

dati che B., direttamente o coll'aiuto altrui, andava raccogliendo. Con

procedimento già sperimentato nelle Decadi, egli inviò parti singole a personaggi

eminenti (come documentato per P. Colonna e Malatesta Novello, signore di

Cesena, v. A. Campana,Passi inediti), con dediche atte a procurargli collaborazione

e sovvenzioni, destinate peraltro a scomparire a opera compiuta. Di tale metodo ci

ragguaglia egli stesso, nella lettera a B. Facio, sett. 1451 : "in hoc: ... opere singulos

rogare et petere convenit, si quid sciant audiverintque in patria aut suae originis

regione", posto che "rudis et litterarum ignarus in soli patrii loco melius noverit

quam ego litteris copiosior" (Nogara, p. 106). Alle ricerche collaborò F. Barbaro,

per cui richiesta il canonico udinese Iacopo Simeoni compose il trattatello De

nobilitate et antiquitate civitatis aquileiensis (1448 c.; ed. in Miscell. di varie

operette, II, Venezia 1740, pp. 105 ss.), e che cointeressò anche Guarnerio

d'Artegna (lettera a Guarnerio, 20 maggio 1451 c., in A. M. Quirini, App., pp. 114

s.). Della fase preparatoria è documento superstite il ms. della Romandiola

segnalato dal Campana; del testo presentato ad Alfonso d'Aragona nel 1451, ancora

privo delle regioni meridionali, resta la dedica scritta dal Barbaro; ancora

patrocinata dal Barbaro ("de Italia quod monuisti faciam", Nogara, p. 167) era la

redazione dedicata a Niccolò V nel 1453, da cui B. con le modificazioni su esposte e

qualche correzione (Nogara, pp. 219-224) ricavava il testo poi passato alle edizioni

a stampa (per qualche più tardo ritocco al testo, v. Nogara, pp. 225-227).

La struttura dell'opera deriva dall'intento di "accomodare" la configurazione

dell'Italia augustea al presente assetto, e la suddivisione delle 18 regioni

continentali ("Liguria sive Genuensis; Etruria; Latina sive Campania Maritima;

Umbria sive Ducatus Spoletanus; Picenum sive Marchia Anconitana; Romandiola

sive Flaminia et Aemilia; Gallia Cisalpina sive Lombardia; Venetiae; Italia

Transpadana sive Marchia Tarvisina; Aquileiensis sive Foroiuliana; Istria;

Samnium sive Aprutium; Terra Laboris sive Campania vetus; Apuliae; Lucania;

Salentini sive Terra Hydrunti; Calabria; Brutii"; realizzate solo le prime 14), pur

tenendo per base la descrizione di Plinio, risulta un compromesso di antico e

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moderno. Nell'incertezza delle denominazioni attuali, B. tiene presente l'uso della

Chiesa (per es. p. 295, per la qualifica di "civitas") e comunque si attiene a quello

storicamente affermato, anche se, come nel caso della Marchia Tarvisina, il nome

gli paia barbaro e assurdo (p. 374). Lo schema di descrizione è in genere

abbastanza libero, anche in conseguenza della varità dei testi usati (Plinio,

Strabone, Tolomeo, Pomponio Mela, Solino, Anonimo Ravennate, ecc.), e alla

menzione dei confini ed estensioni, dei monti e fiumi, di città e castelli, si

aggiungono all'occasione ragguagli sulle colture e prodotti, sulle bellezze naturali,

sulle strade, e quindi via via su memorie e episodi, sugli uomini notevoli passati e

presenti, su opere d'arte, su luoghi sacri, in una parola su quanto in un determinato

luogo appaia meritevole d'attenzione. L'Italia illustrata non è tuttavia solo lavoro di

compilazione, ma anche di cernita critica. L'interesse di B. è volto in primo luogo a

definire i mutamenti avvenuti (nell'introduzione premette la considerazione della

situazione demografica e urbanistica, per cui non ritiene l'Italia presente

ragguagliabile a quella antica); per questo cerca di verificare e aggiornare i dati dei

geografi antichi (come nel caso della rotta del Po a Ficarolo, non registrata nelle

carte, p. 355; v. anche pp. 351 s.), e talora di correggerli (per es. Plinio, sulle fonti

del lago Fucino, p. 320). L'opera vuol essere in egual misura una guida alla

conoscenza dei luoghi e un prontuario per intenderne la storia ("non parvae partis

historiarum Italiae breviarium", p. 294). Per questo le denominazioni moderne

sono scrupolosamente rispettate, non senza intento polemico verso il classicismo

degli autori contemporanei (v. Hist., pp. 294 s.). Di particolare interesse sono gli

excursus sull'origine delle città, dove è più sensibile il distacco di B. dalle opinioni

correnti e dalle tradizioni municipalistiche. Il suo senso del concreto si nota, per

es., a proposito delle origini di Genova, quando, scartate le leggende etimologiche,

a cui ancora il Bracelli indulgeva, non ne ammette l'esistenza prima della menzione

di Livio al tempo della seconda guerra punica, e, nonostante il favorevole

retroterra, la ritiene sviluppata solo in età medioevale (p. 297); un'osservazione

analoga è su Venezia, che riassunse la funzione giàavuta nei traffici adriatici da

Spina, Adria e Aquileia (p. 385). A proposito di Siena, egli ricorre a documenti

originali (del monastero di S. Giorgio in Alga a Venezia, p. 307), e, per l'Aquila, a

tradizioni orali verificate su fonti scritte (p. 396).

La menzione dei personaggi, oltre i termini convenzionali di elogio, appare spesso

sfumata e frutto di meditato giudizio; in alcuni casi si tratta di preziosi

riconoscimenti precoci (come sul valore poetico del giovane Pontano, p. 330). Pur

ispirato ai criteri di valutazione umanistici, B. non pone rigide preclusioni, ed

elenca per es. fra i dotti Pietro Loredan, per il suo trattato della navigazione (p.

373). Debito risalto trovano le più significative opere e iniziative culturali del

tempo, fra cui la fondazione della biblioteca medicea di S. Marco e della

Malatestiana di Cesena; e così pure le realizzazioni tecniche, come nel passo

celebre sull'invenzione amalfitana della bussola. Nei singoli luoghi è reso omaggio

alle corti signorili, famiglie patrizie e uomini di chiesa, con studiata preoccupazione

d'imparzialità; non mancano peraltro giudizi assai severi, per es. sul saccheggio di

Piacenza del 1447 da parte delle compagnie di F. Sforza (p. 359). Spunto critico

d'altro genere, influente sulla storiografia successiva, è quello sull'"absurda

consuetudo" dell'incoronazione imperiale di Monza (p. 364). Caratteristica

dell'opera sono le digressioni, a cui motivi occasionali danno frequentemente

pretesto (per es. sulle "empie" consuetudini dei fraticelli, apprese da Giovanni di

Capistrano, pp. 337 s.). Le più importanti sono quelle della Romandiola, dove, con

compiacimento patriottico, B. mira a trarre il succo della civiltà del suo tempo:

così, a proposito di Giovanni diRavenna, egli delinea gli sviluppi dell'umanesimo,

considerato negli aspetti tangibili del diffondersi delle scuole e della circolazione

libraria; e, alla menzione di Alberico di Cunio, ripercorre la storia d'Italia, che,

grazie all'iniziativa del grande condottiero, era giunta a darsi armi proprie,

limitando i danni della guerra e la fuoruscita delle ricchezze, sì da godere ora di una

relativa prosperità, sconosciuta ai secoli precedenti (v. anche introd.: "saeculum

nostrum quod... quae ante patrum nostrorum aetates fuerunt saeculorum respectu

felix appellari potest", p. 294). Notevole interesse riveste pure la digressione sui

Longobardi (nella Marchia Tarvisina), considerati i veri eversori della civiltà

romana, anche riguardo alla lingua, contrariamente a quanto era affermato nel De

verbis romanae locutionis (è qui, p. 374, l'importante specificazione degli elementi

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dell'antica civiltà andati perduti, così poi parafrasata da Machiavelli nelle Storie

fiorent., I, 5: "le leggi, i costumi, il modo di vivere, la religione, la lingua, l'abito, i

nomi"). Non c'è dubbio che l'Italia sia sentita da B. come un'unità viva; ma,

nonostante la delimitazione geografica, tale è per lui soprattutto l'Italia centro-

settentrionale. Giunto alle regioni del Regno, ammette egli stesso un senso di

estraneità ("maius solito negotium"), dando un sommario della sua storia a partire

dai Normanni, proprio in quanto ritenuta poco nota (p. 389). Di fatto la

descrizione di questa parte appare più spoglia delle precedenti, limitandosi

perlopiù ai dati geografici e archeologici (per Napoli e dintorni); e se egli omise le

ultime regioni, avendo appena cominciata la Puglia, la vera ragione fu in un difetto

di conoscenza intrinseca, piuttosto che nella giustificazione contingente poi

addotta, di avere anticipato la pubblicazione a rimedio di un'edizione abusiva

(Nogara, pp. 227 s.).

Il significato dell'opera era sintetizzato da B. stesso nella Prefazione (ancora

modificando il testo del Barbaro), nell'immagine del grande naufragio della storia,

da cui trarre pazientemente a riva i relitti, "supernatantibus aut parum

apparentibus tabulis": non più un sentimento vago del mutare delle umane cose,

ma i due saldi, perché culturalmente qualificati, punti d'orientamento del presente

e dell'antichità, tra i quali era aperto il campo per una consapevole e concreta

indagine.

Dopo il ritorno in Curia, B., pur reintegrato nel collegio dei segretari, non svolse

effettivamente che un'attività ridotta. Dal 1454 non sembra che il suo nome

compaia più nei brevi pontifici (v. i numerosi originali presso l'Arch. di Stato di

Milano), e si riscontra soltanto in certe bolle (p. es. 27 apr. 1455, 22 apr. 1460, nella

Bibl. Com. di Forlì). Un breve di Callisto III, che gli prolunga un permesso

d'assenza "quamdiu libet", è indizio ulteriore di tale disimpegno (Milano, Bibl.

Ambros., cod. N 54 sup., c. 36v). A Roma è ricordato come frequentatore dei circoli

e delle biblioteche dei cardinali Capranica e Bessarione. Tra i viaggi compiuti è

notevole un soggiorno presso la corte di Urbino (1456 c.), con cui B. si dimostra in

rapporti confidenziali (v. Roma triumph., p. 193; Nogara, p. 175); nell'estate e

autunno 1456 dimora a Ravenna. La lettera a Nicodemo Tranchedini, datata da

Firenze, 28 febbr. 1457 (ma 1458, se, come possibile, adotta lo stile locale) - in cui

sollecita l'ambasciatore sforzesco a Firenze ad accorrere "pro negotiis et necessitate

illius fratris mei domini Cosmi", alludendo a una situazione che "in dedecus ipsius

domini Petri et omnium nostrorum redundare posset" - fa pensare, piuttosto che

ad "affari privati" (Nogara, p. 169), a una sua collaborazione politica con i Medici,

in un momento di crisi del regime (v. N. Rubinstein,The governm. of Florence

under the Medici, Oxford 1966, pp. 88 ss.; cfr. anche la lettera di Latino Orsini a

Lorenzo de' Medici, Roma, 20 apr. 1473, commendatizia per Matteo, "già fratello

de messer Biondo da Forlì, secretario apostolico, quale, come dovete sapere, fu

caro amico de la bona memoria de Cosmo et degli altri vostri", Arch. di Stato di

Firenze, MAP XLVI, 221).

Nel luglio 1454 B. pubblicava un ristretto di storia veneziana fino al 1291 (De

origine et gestis Venetorum, dedicato a F. Foscari), sia per soddisfare a richieste

pervenutegli (v. Nogara, pp. 167 s.), che per esortare alla crociata. Ma questi anni

furono soprattutto dedicati all'ultima grande opera, la Roma triumphans.

Il precedente più notevole era il De potestatibus romanorum di A. Fiocchi (1424

c.). Ma l'innovazione è sostanziale, non solo per la considerazione di parti da

questo trascurate (per es. l'età imperiale), ma perché non vuole essere un manuale

("commentariolum") delle magistrature sacre e profane, ma una ricostruzione

sistematica della vita pubblica e privata romana; non un sussidio alla lettura degli

storici, ma un'indagine indipendente di aspetti da questi non espressamente

trattati. Qui trova la sua più matura affermazione l'assunto metodico di B., per

nulla ovvio al tempo, di perseguire l'accertamento del fatto, indipendentemente da

enunciazioni retoriche, filosofiche e giuridiche, nel punto stesso in cui egli ha a che

fare con oratori, filosofi e giuristi (la distinzione è posta da B., pp. 54, 167, 181). Al

solito è fatto ricorso a tutto il materiale accessibile, latino e, se possibile, greco,

"uno specimen... della coltura storica e filologica dell'Italia verso la metà del

Quattrocento" (Nogara, p. CLV). Il modello di Varrone gli è ovviamente presente,

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ma, almeno in forma dichiarata, B. non sembra richiamarvisi specificatamente (il

termine stesso di "antiquitates", che si afferma più tardi, non è espressamente

enunciato); del resto, come in tutte le sue opere, pur nella generica imitazione degli

antichi, egli si riserva ampio margine per un'organizzazione personale della

materia. Questa è divisa secondo lo schema quadripartito, divenuto poi

istituzionale: religione (libri I-II: divinità, sacerdozi, culto, cerimonie);

amministrazione (libri III-V: magistrature; governo provinciale, comizi, senato,

cariche amministrative, diritto e procedimenti penali, cittadinanza, condizione dei

servi, ordinamento fiscale); milizia (libri VI-VII: composizione e gradi dell'esercito,

disciplina militare ricompense e privilegi ai soldati, congedo, ordinamento di

battaglia, insegne, flotta, ecc.); istituzioni private (libri VIII-IX: matrimonio,

divorzio, educazione, agricoltura, edifici urbani e rustici, suppellettili, vesti, strade,

mezzi di trasporto; per il l. X, v. oltre).

L'esposizione segue un metodo minutamente analitico, partendo, al modo dei

giuristi, dall'esposizione dei termini, dell'etimologia e del significato, per poi

procedere a più ampia disamina, adducendo il passo della fonte opportuna,

confrontato e discusso con altri testi. I passaggi da un argomento all'altro appaiono

spesso fortuiti, si da creare tensione fra l'intento sistematico e la ricerca in atto.

L'esposizione è qua e là ravvivata da digressioni metodiche, per es. dove B.

denuncia l'irresolubile difficoltà nel ragguagliare sul sistema monetario romano

(pp. 112 s.), oppure dove, a proposito della sontuosità delle abitazioni private

romane, tanto superiore alla presente e testimonianza della ricchezza diffusa,

esprime tutto l'entusiasmo di una personale scoperta. Al caso cita ampiamente testi

poco noti, come Erodiano (sul culto imperiale, pp. 44 s.) e Onosandro (sull'ottimo

generale, pp. 152 ss.), nelle versioni recenti di Ognibene Leoniceno e Niccolò

Sagundino. Un'ampia citazione di Giovanni Crisostomo gli serve a far risaltare le

realizzazioni civili dell'impero, rispetto ai disagi dei tempi dei patriarchi (pp. 201

s.).

L'ordinamento sistematico non gli impedisce di tener conto dell'evoluzione degli

istituti, specie nel trapasso dalla repubblica all'impero. L'uso delle fonti è, almeno

in via di principio, informato a questo criterio ("ratio temporis et locorum", p. 187);

per es. Vegezio non è considerato testo valido per la milizia repubblicana se non

quando segue Sallustio (p. 128). Lo stesso si osserva nell'uso del Digesto,

ampiamente confrontato con le autorità storiche e letterarie. Importanza talora

determinante ha il ricorso alle iscrizioni (per es. p. 33, sui legati ai collegi

sacerdotali). In un luogo notevole B. trova conferma a Livio, sul numero dei

senatori, in Maccabei, I, 8, 15. Più di una volta discute testi antichi (Valerio

Massimo, Gellio, pp. 41, 74, 83), e anche in Livio ravvisa oscurità e contraddizioni

(p. 60, sulla distribuzione censitaria e i primi conii del denaro). Nel campo delle

consuetudini private è attento alla sopravvivenza di tradizioni popolari (pp. 173,

181, ecc.); in un'occasione ricorre per questo a un antico strumento dotale (p. 174).

Il libro VII, a conclusione della parte sulla milizia, contiene una rapida sintesi della

storia romana, rimasta esclusa dalle Deche superstiti di Livio, e quindi un

ragguaglio delle fonti dell'età imperiale e della successione degli imperatori, fino al

terminus ad quem della "inclinatio". Fedele all'intento di registrare fatti e non di

pronunciare giudizi, B. evita di manifestare una preferenza per la repubblica o

l'impero (p. 148, su Cesare: "Nec satis scimus neque etiam nostri propositi est

discernere plus ne boni an mali rebus attulerit romanis sua... opinio principatus").

Di fatto la natura dell'opera non consente un'interpretazione coerente dell'una o

dell'altra età; tuttavia è manifesto che la rappresentazione di Roma di B. converge

verso l'età imperiale, specie nella sua esaltazione della concessione universale della

cittadinanza, considerata come il massimo frutto della civiltà romana (pp. 2, 106, e

passim). Tra le opere positive degli imperatori sono inoltre ricordate la

sollecitudine per le province, l'assistenza al popolo, la disciplina militare (pur

deplorando per altro la sediziosità dei pretoriani).

Il decimo e ultimo libro è dedicato ai trionfi, simbolo della grandezza romana, e

termina vagheggiando un trionfo cristiano, modellato all'antica, a conclusione della

crociata contro i Turchi, e riaffermando quindi l'idea della Chiesa quale vera erede

dell'universalità di Roma. Di qui proviene il titolo dell'opera, che B. accredita con

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l'autorità di s. Agostino, il quale avrebbe desiderato assistere a un trionfo ("qualem

beatus Aurelius Augustinus triumphantem, videre desideravit", p. 2; "quam

[formam triumphi] inspexisse Aurelium Augustinum optasse refertur", p. 212; non

è chiaro a che B. precisamente alluda).

È tuttavia evidente che non soltanto lo spunto conclusivo rimane estrinseco

rispetto alla sostanza dell'opera, ma che il ricorso al nome di s. Agostino è

pretestuoso. Una visione globale di Roma antica, additata a modello ai popoli

partecipi della sua eredità, non poteva non opporsi alla concezione che di essa si

era perpetuata nella tradizione cristiana dalle pagine del De civitate Dei. Trattare

in particolare della religione, significava ricostituire Varrone al di là di s. Agostino;

ed è palese in questo caso lo sforzo di B. di giustificare i Romani, attribuendo ad es.

le credenze più riprovevoli a culti esterni, che già gli antichi saggi condannavano

(pp. 10, 23; in implicita discussione con Agostino, B. asserisce inoltre la credenza

nell'immortalità, in base ai legati testamentari a istituti sacri, p. 34). Attenzione è

prestata agli aspetti umani e sociali del culto, proponendo alcuni parallelismi con

rituali cristiani (pp. 18, 28); analogamente le entrate dei collegi sacerdotali

vengono equiparate ai proventi del clero moderno, con uno spunto non privo di

intenzioni polemiche (pp. 31 ss.; più, esplicitamente, p. 15). I temi dell'apologetica

cristiana in B., come in altri testi umanistici del tempo, non sono ritenuti pertinenti

nell'apprezzamento dell'antichità. Per es., a proposito del valore delle lettere di

assegnare lodi e biasimo, egli cita s. Agostino, che, se non apprezzò le lodi "ex

christianae religionis institutis", "vituperationes tamen evitandas... innuit" (p.

100). Su questo punto cruciale, - l'"amor laudis", tacciato da Agostino come "unum

vicium" su cui riposavano le virtù gentili - la polemica diventa esplicita. Giunto a

trattare delle virtù pubbliche e private alla base della buona amministrazione di

Roma, "vix solis philosophis per aetatem nostram relictae" (p. 120), B. non manca

di attestare il dissenso dei più dei suoi contemporanei, i quali, "solis

philosophantes verbis, cum re ipsa longe a vera absint philosophia" (p. 117),

lodavano i Romani a denti stretti, rattenuti dalla condanna dell'amore di gloria. Per

B. al contrario lo stimolo della gloria e l'amore della virtù "propter se ipsam"

valevano come condizione per la salvaguardia del vincolo sociale, e, nonché di

pregiudizio, erano di vantaggio per la salute stessa dell'anima. Come già nelle

Decadi, non si pone problema di conciliare antichità e cristianesimo in una visione

storica generale; anzi la menzione di Paolo Diacono come "primo degli storici

cristiani" (p. 70) sembra indicare una più decisa esclusione della storia

ecclesiastica dal rango della storia propriamente detta. L'accordo stava in sostanza

nelle personali convinzioni etiche, a cui B. riconduce la pur sincera devozione

religiosa. Ciò è espresso con particolare vigore nelle due lettere che scrisse a

Galeazzo Maria Sforza (22 nov.; 12 dic. 1458, Nogara, pp. 170-178; 179-189,

sull'educazione umanistica e religiosa del principe), interessanti anche per quel che

attestano della vivace reazione di ambienti ecclesiastici alle sue concezioni. In lui

l'educazione cristiana è intesa, non differentemente da quella degli "humanitatis

studia", come guida alla virtù sugli esempi illustri del passato. È in questo contesto

che egli accenna a una significativa condanna delle tradizioni agiografiche

leggendarie (sull'esiguità del numero dei martiri, "certis ab auctoribus"; v. Nogara,

p. 182).

Gli ultimi anni di B. furono amareggiati dalle persistenti strettezze economiche, sì

da indurlo, mal ripagato dai lavori maggiori, a comporre e a progettare nuove

opere, che potessero far valere il suo talento e la sua reputazione presso i potenti

del momento.

Di questa natura è il trattatello Borsus sive de militia et iurisprudenzia -

praticamente un sunto delle questioni trattate nella Roma triumphans -,

occasionato alla dieta di Mantova dalle tradizionali dispute sulla preminenza

dell'uno o dell'altro ordine (su cui cfr. G. Salvemini,La dignità cavalleresca nel

comune di Firenze, Firenze 1896, pp. 43-49) e indirizzato al marchese estense il 10

gennaio 1460 (Nogara, pp. 130-144).

Analogamente nel 1462 egli dedicava a Pio II un libro di supplemento all'Italia

illustrata (Additiones correctionesque Italiae illustratae, Nogara, pp. 227-239), per

la gran parte a celebrazione dei fatti notevoli del suo pontificato, al fine di

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ottenerne il patronato per un'eventuale riedizione dell'opera intera, ove fosse

colmata la lacuna delle regioni meridionali (v. Nogara, p. 228). La medesima

ricerca di favori è ravvisabile nei trattatelli epistolari d'argomento archeologico

indirizzati a uno dei più vicini collaboratori del papa, Gregorio Lolli (12, 18, 30 sett.

1461; Nogara, pp. 193-207). Verso B., tuttavia, - legato al card. P. Barbo e a prelati

veneti come E. Barbaro e D. Domenichi - Pio II ebbe piuttosto considerazione di

stima che una reale familiarità (la lettera di D. Domenichi a E. Barbaro, 1º febbr.

1462, cit. in Nogara, p. CLXXIV, sui mancati aiuti a B., indica come le più tarde

accuse del Filelfo non mancassero di qualche fondamento).

Un disegno d'altro genere, non andato in porto, fu una storia "navigationum

expeditionumque atlanticarum" dei Portoghesi, rivelatrice di cose ignote agli

antichi, richiestagli, attraverso il legato a Roma G. Fernández, dal re Alfonso V,

senza che poi venisse inviato il materiale opportuno (lett. ad Alfonso, 1º marzo

1459, e a G. Fernández, 30 genn. 1461, in Nogara, pp. 190-193).

Un altro progetto, a cui pensò di applicarsi, fu la storia di Venezia, facendo

eccezione ai suoi principi di storico "generale". Alla dieta di Mantova egli pose la

sua candidatura ufficiale, in concorrenza con retori come Mario Filelfo, Giorgio

Trapezunzio e Pietro Perleoni, legati alla repubblica da condotte di insegnamento e

pertanto, come risulta, più graditi al senato (v. lettera di L. Foscarini a B., Udine, 1º

luglio 1462; Treviso, Bibl. Com., cod. 85, cc. 464 ss.). Appoggiato da patrizi come il

Foscarini e G. Barbarigo, nonché da E. Barbaro, B. si accinse sul principio del 1462

al lavoro, per cui aveva anche richiesto l'accesso agli archivi (v. lett. del Foscarini,

cit., c. 467: "maioribus officiis... coeptis tuis favebo, quam, tu studiis ex annalibus,

etiam, ut plerumque dixisti, ex archiviis senatus res venetas perquisiveris").

L'opera tuttavia non andò oltre una breve trattazione delle origini, che dà modo a

B. di insistere sul pacifismo delle tradizioni veneziane (Populi veneti historiarum

liber primus, Nogara, pp. 77-89; è notevole peraltro che dal frammento di B.

prenda spunto la storia delle antichità venete di B. Giustinian).

Ma l'impegno maggiore fu riservato al compimento delle Decadi, a cui pensava già

da tempo (v. lettera a G. Bracelli, 10 dic. 1454, per avere cronache genovesi), e a cui

era spinto da richieste insistenti degli interessati, fra cui Luigi XI di Francia (v.

Nogara, p. 212). In particolare B. fu in trattative con F. Sforza, che mise a

disposizione il materiale documentario relativo alla sua ascesa al ducato (lettera a

B., senza data, in F. Gabotto, p. 101). Al principio del 1462 B. aveva composto un

libro, che incominciava "dai tempi di papa Bonifacio IX", e lo inviava a Ermolao

Barbaro con il titolo di Nosce teipsum, a sottolineare il crescente senso di sfiducia e

disillusione (v. lettera di D. Domenichi a E. Barbaro, cit., Vat. Ottob. 1035, c. 36r-v;

v. anche Roma triumph., p. 216: "si eos qui ad clavum sedent rei publicae

christianae principes se ipsos nosse et quam susceperint curam mente et animo

considerare meliori solito Dei munere contingeret"). Nel gennaio 1463 era in

trattative con lo Sforza per il compenso (notevole il cenno sprezzante alla

storiografia cortigiana, le "frappe vane de le quali vi vogliono vestire alcuni",

Nogara, p. 212, che si riferisce probabilmente alla Sforziade del Filelfo). Le

trattative si prolungarono fino alla morte di B., avvenuta a Roma il 4 giugno 1463

(v. Arch. di Stato di Milano, Sforz. Pot. Est., 55, n. 217, dispaccio dell'oratore

Ottone del Carretto, 17 giugno: "A d. Biondo non farò l'ambasciata, imperoché egli

è andato a l'altro mondo, et io per adesso non mi curo andarli adietro").

Questa parte, considerata come smarrita o mai scritta, è invece conservata nel

volgarizzamento del fiorentino Andrea Cambini, in Bibl. Naz. di Firenze, cod. II,

III, 59. Il Cambini, che volgarizzò entro il 1491 l'intero corpo delle Decadi su

commissione dei duchi di Ferrara, dove era stato agente diplomatico nel 1482-83

(v. G. B. Picotti,La giovinezza di Leone X, Milano 1927, pp. 254, 287; Bibl. Naz. di

Firenze,Fondo ms. Ginori-Conti, 29, n. 22), si attribuisce abusivamente non solo le

parti aggiunte, ma, ignaro del testo vulgato, anche il libro XXXI con cui terminano

le edizioni a stampa (ed. princ., Venezia 1483), che appare peraltro ritoccato in

qualche punto ("libro adgiunto da A. Canbini", cc. 101-102, dopo la decade II, anni

1402-1417; "Libro primo, libro secondo adgiunto da A.C. alla storia di messer

Biondo da Furlì", cc. 284-320, dopo la decade III, anni 1440-1450, preceduti da un

Proemio). Risulta pertanto evidente che il traduttore disponeva di una redazione in

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cui il nuovo materiale (compreso il libro I, dec. IV) appariva separato dal resto, che

si può identificare con quella predisposta da Gaspare Biondi per un'edizione poi

non realizzata (v. dedica a D. Domenichi, 10 dicembre 1474, all'ed. princ. dell'It.

Ill., Roma 1474: "quam [historiam] tribus et triginta libris usque ad sua tempora

scripsit"). L'appartenenza a B. di detti libri è confermata da ulteriori prove interne

ed esterne, che chi scrive si riserva di documentare in sede di edizione del testo. Si

accennerà soltanto che essi furono noti agli autori contemporanei; per es. L.

Crivelli, scrivendo di B. nel 1464, si riferisce a "tribus decadibus suis iam magna ex

parte editis" in L. A. Muratori,Rerum Italic. Script., XIX, Mediolani 1731, col. 629);

e sopratutto furono ampiamente sfruttati dal Platina (Vitae pontificum) e da G.

Simonetta, che nei suoi Commentarii sulla vita di F. Sforza rifuse in blocco tutta la

parte aggiunta, a partire dal novembre 1440 (libri V-XX).

La prima parte delle nuove storie, senza dubbio quella di cui parla il Domenichi, e

destinata a colmare la lacuna cronologica fra la seconda e la terza decade, comincia

dalla morte di Giangaleazzo Visconti, e si sofferma in particolare sulle vicende dello

scisma e del concilio di Costanza, sulla conquista veneziana di Padova e su quella

fiorentina di Pisa; più di sfuggita sono trattati i fatti di Milano e della Lombardia.

Le fonti principali sono le cronache fiorentine dell'Anonimo (P. Minerbetti) e di D.

Buoninsegni, e il Liber pontificalis; ma è pure fatto ricorso a vari testi sussidiari,

non sempre identificabili, e forse anche a memorie personali.

Nei piani di B. era un completamento della decade IV, perlomeno fino alla pace di

Lodi (v. lettera a F. Sforza, 28 genn. 1463, cit., p. 212: "dicte due parti [sc. la vittoria

a Napoli di Alfonso e la spedizione lombarda di Renato d'Angiò, 1453]... haveranno

a essere in la quarta deca"). A tal fine rielaborò la materia già trattata, scartando il

libro XXXII dell'edizione del 1453 (che forse per ciò è escluso dalle edizioni a

stampa), e proseguendo il libro XXXI, sulla falsariga della documentazione

sforzesca, fino al matrimonio di F. Sforza e la pace di Cremona (novembre 1441; cc.

304v-320r). Il libro II termina con l'insediamento del nuovo duca a Milano, e qui

l'opera rimane incompiuta, verisimilmente ancora bisognosa dell'ultima revisione.

La narrazione appare assai spoglia, senza alcuna concessione alla retorica e

all'encomio, a singolare contrasto con la storiografia cortigiana del Simonetta, che

l'avrebbe di lì a poco rielaborata. Ciò che sta al centro degli interessi dell'ultimo B.

è, potremmo dire, il problema del potere: la sua, così per il principio del secolo

come per i fatti più recenti, è essenzialmente una storia, disincantata e senza

simpatia, di atti, spogliazioni, delitti politici. Non a caso, vantando le proprie

benemerenze storiografiche allo Sforza, egli sceglieva l'esempio di Ezzelino da

Romano, "crudele tiranno": "pur mo sanno molti chi et como ello fo grande et

tenuto in Italia" (Nogara, p. 211).

La diffusione dell'opera di B. fu immediata e d'ambito europeo. Quella che incontrò

maggiore favore fu la Roma instaurata, unita spesso all'Italia illustrata; le Decadi,

divulgate più spesso parzialmente che intere, ebbero la maggiore area di

penetrazione: le ritroviamo in biblioteche principesche, vescovili, monastiche, in

case borghesi. Personaggi come J. Hinderbach, vescovo di Trento, o H. Schedel ne

posseggono l'opera intera. Come già accennato, Gaspare B. curò l'edizione degli

scritti paterni negli anni 1470-74 c. (v. Pomponio Leto, dedica a G. B. dell'edizione

di Nonio, Roma 1472), sotto il patrocinio del Domenichi; solo per le Decadi, uscite

per ultime, sembra non sia stato rispettato tale piano editoriale, forse per gli

interessi di chi si era appropriato dell'ultima sezione composta.

Un altro figlio, Gerolamo, chierico e dottore in legge, raccolse una silloge di scritti

minori e di lettere, che tuttavia rimase senza eco.

L'uso delle opere di B. come testo primario ha la durata di circa un secolo. La Roma

instaurata (di cui si conoscono gli esemplari postillati da G. Marcanova e dal

circolo pomponiano: G. Valentinelli,Bibl. mss. adS. Marci Venetiarum, VI, p. 103,

e V. Zabughin, P. Leto, Roma 1909, I, p. 208) fu compiutamente superata dalla

seconda edizione della Topografia antiquae Romae (1544) di B. Marliani; così

l'Italia illustrata era soppiantata dalla fortunata Descrittione di tutta l'Italia

(1550) del domenicano bolognese L. Alberti (un filone particolare della fortuna di

B. presso i domenicani di Bologna è desumibile dalla Chronica... civitatis Bononiae

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[1497] di G. Borselli, in Rerum Italic. Script., 2 ed., XXIII, 2, a cura di A. Sorbelli,

p. 4). Fuori d'Italia l'opera offriva il modello per l'impresa di K. Celtis e degli

umanisti tedeschi di riconoscere l'identità nazionale nella somma delle sue

tradizioni. La Roma triumphans, d'ambito troppo vasto per essere direttamente

ripresa, influenzava disquisizioni storiche sul diritto romano (Aimar du Rivail, A.

d'Alessandro), e a partire dalla metà del sec. XVI era sostituita da trattati su

particolari settori antiquari (Panvinio, Sigonio, Ciacconio, ecc.). Le Decadi

contribuirono potentemente al fiorire della storiografia umanistica tra la fine del

sec. XV e il principio del XVI.

Ancora in circolazione sul principio del '700 (Voltaire annotava nei suoi taccuini

inglesi, 1726: "Quaere Romam triumphantem de autore Flavio",Notebooks, I,

Genève 1959, p. 45), B. estende la sua influenza anche quando i suoi testi erano

ormai divenuti ampiamente inadeguati. G. Voss, nel definire la scienza antiquaria

rispetto alla "historia iusta", parafrasa il proemio dell'Italia illustrata: "Antiquitates

sunt reliquiae antiqui temporis, tabellis alicuius naufragii non absimiles" (De

Philologia, 1650; v. A. Momigliano,Ancient history, p. 76); la prima ricerca

medievistica del Muratori, De corona ferrea (1698), prende spunto dal giudizio di

B. sull'"absurda consuetudo" di Monza (v. S. Bertelli,Erudizione e storia in L. A.

Muratori, Napoli 1960, p. 45); Gibbon, se non altro, gli deve il titolo della sua

storia.

In età romantica e positivistica B. fu riconosciuto, nei rispettivi ambiti,

"quodammodo parentem" (W. A. Becker, 1842) delle moderne discipline

scientifiche. Si tratta tuttavia di un apprezzamento a posteriori, che vale a suggerire

una continuità di sviluppi, che non fu nella realtà. Resta da spiegare la

sproporzione fra l'effettiva importanza dell'opera e i riconoscimenti saltuari,

raramente disgiunti da riserve, che sin dal suo tempo gli furono tributati, nonché il

rapido affievolirsi della memoria dell'uomo.

Autodidatta introduttore di schemi culturali nuovi, egli si affermò piuttosto

collateralmente che al centro del movimento culturale umanistico. Già alla morte

appariva fuori moda; il severo giudizio di Pio II, di aver badato più alla quantità

che alla qualità, rispecchia tale situazione, e non è sostanzialmente dissimile da

quello, pur di più equo riconoscimento, di P. Cortesi. Pomponio Leto, salvo che in

dediche precoci a Gaspare B., ne evitò un'esplicita menzione; a Raffaele Volterrano

non appariva abbastanza raffinato ("non admodum cultus"). All'organizzazione

sistematica si preferisce ora l'agile manuale, la pubblicazione e commento di testi,

la raccolta miscellanea, il calco sull'antico. I più tardi trattati sistematici raccolgono

i risultati di tali indagini specializzate, prescindendo ormai dalle precoci sintesi di

B., che continuano peraltro a circolare, grazie a un fortunato rilancio editoriale,

come testi indipendenti.

In sede storiografica le nuove esigenze retoriche e precettistiche lasciano scarso

margine per un apprezzamento di B. ("Quid attinet vera scribere, si omnia obscure

perturbaveris?": P. Cortesi, p. 228). D'altra parte, nel prevalere delle storie

"particulare", cortigiane, dinastiche, cittadine, non è raro il compiacimento di

coglierlo in fallo (v. per es. Platina, Hist.... Mantuae, o B. Giustinian). In P.

Prisciani la sua stessa materia diviene oggetto di curiose contaminazioni

astrologiche. Nell'ambito della storia generale, dove più B. fa testo, i suoi materiali

e spunti vengono assunti negli schemi più tradizionali della biografia (Platina),

della cosmografia e storia universale (Enea Silvio, Sabellico), dell'enciclopedia

(Raffaele Volterrano). Le Decadi (prima e seconda) furono più lette nella fortunata

Abbreviatio diPio II (di cui si serve il Platina) che nell'originale, venendo così

smembrate della parte storiograficamente più valida delle storie contemporanee.

La fama di B. si consolidò con la fioritura cinquecentesca in Italia di studi

archeologici e antiquari, e fu appunto essenzialmente fama di archeologo e

antiquario. Per il Giovio suo reale titolo di gloria era la Roma instaurata; un

antiquario, Lucio Fauno, ne curò la traduzione delle opere presso lo stampatore

veneziano M. Tramezzino. Su B., come storico d'Italia, pesò inoltre la stroncatura

del Sigonio,De regno Italiae (1574), che influenzò il Muratori, il quale, forse anche

per questo, lo escluse dalla raccolta dei Rerum Italicarum Scriptores.

Come per la produzione umanistica in genere, il corpus intero dell'opera di B. fu

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affidato alle stampe transalpine. Due eruditi transalpini, J. J. Boissard e G. Voss

furono tra quelli che ne trattarono più compiutamente. Nel nuovo interesse

settecentesco per il "rinascimento delle lettere", notevoli contributi

bio-bibliografici su B. furono offerti da A. Zeno e G. Tiraboschi. Ma fu solo nel sec.

XIX che venne rivendicata la sua importanza storiografica, cioè essenzialmente

come storico precoce del medioevo; tra i primi, al solito, Burckhardt. Alla scuola di

J. Voigt si deve la prima indagine sulle Decadi, nonché la prima monografia

sull'autore; per l'Italia ricordiamo, sotto questo riguardo, i nomi di G. Carducci, P.

Villari, G. Romano. Mancarono tuttavia indagini dell'ampiezza di quelle dedicate

ad altri umanisti, e il nome di B. rimase per lo più legato a tradizioni erudite locali.

Lo stesso ampio studio di B. Nogara, più che da un interesse specifico, fu

occasionato dallo spoglio dei fondi mss. vaticani. Osservazioni importanti, pur di

carattere marginale, su B. si trovano in opere di storia della storiografia o su singoli

problemi storiografici; nuovo interesse ha inoltre incontrato in più recenti studi di

storia dell'antiquaria.

Iconografia: dal ritratto, che secondo Vasari (Vita di Frate Giovanni da Fiesole)

Giovio avrebbe tratto dagli affreschi del Beato Angelico nella distrutta cappella del

Sacramento, fu ricavata l'incisione in P. Giovio,Elogia virorum literis illustrium,

Basileae 1577, p. 27, anche altrove riprodotta (Boissard, Graevius); e la copia,

commissionata da F. Borromeo, ora in Pinacoteca Ambrosiana, con la didascalia

Blondus Historicus (v. E. Müntz,Le Musée des portraits de P. Jove..., in Mémoires

de l'Académie des Inscriptions et Belles lettres, XXVI, [1900], 2, p. 237; Guida

sommaria per il visitatore della Biblioteca Ambrosiana e collezione annessa,

Milano 1907, p. 127; G. Mini, cit., c. 1); per il ritratto perduto di G. Bellini nella sala

del Maggior Consiglio di Venezia, v. P. Gothein, F. Barbaro..., Berlin 1932, p. 139.

Fonti e Bibl.: Le citaz. dal testo sono tratte dall'ediz. di Basilea,De Roma

triumphante libri decem... Romae instauratae libri tres,Italia illustrata;

Historiarum ab inclinato Romano imperio decades tres. Omnia multo quam

antea castigatiora, Froben 1531, 1559 (è compreso anche il De origine gestis

Venetorum; le Decadi hanno numerazione di pagine autonoma, e si trovano anche

in volume separato; l'impaginazione non varia nelle ristampa del 1559). Le opere

minori e le lettere sono raccolte in Scritti inediti e rari di B.F., con introduzione di

B. Nogara, in Studi e testi, XLVIII, Roma 1927 (la numerazione araba è relativa ai

testi, quella romana all'introduzione). Supplementi all'epistolario sono in: T.

Bekynton,Official Correspondence, I,Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores,

in Rolls Series, London 1872, pp. 169 s., 172 s.; A. Pasini,Un'ignota lettera di B.

F..., in Atti e mem. della Deput. di st. patria per la Romagna, s. 4, XXIII (1933),

pp. 282 s. La lettera alle pp. 101-104 è data in redazione migliore da A. Wilmanns,

in Göttingische gelehrte Anzeigen, 21 (1884), pp. 874-877.

Passi della Roma instaurata sono editi criticamente in R. Valentini-G.

Zucchetti,Codice topografico della città di Roma, IV,Fonti per la storia d'Italia,

XCI, Roma 1953, pp. 237-255. La sezione inedita delle Decadi è in corso di

pubblicazione per un "Quaderno" della rivista Rinascimento.

Edizioni antiche: Decades: Venetiis, Octavianus Scotus Modoetiensis, 1483; ibid.,

Thomas de Blavis, 1484. Roma instaurata: Romae 1470-71 c. (con De romana

locutione; Hain, 3242; Gesamtkatalog der Wiegendrucke, 4422); Veronae,

Boninus de Boninis, 1481-82 (con De origine et gestis Venetorum e Italia

illustrata; v. C. Perpolli,L'"Actio Panthea" e l'umanesimo veronese, in Atti e mem.

dell'Accad. di agricoltura,scienze e lettere di Verona, s. 4, XVI [1915], p. 21);

Venetiis, B. Venetus de Vitalibus, 1503 (stesse opere); ibid., G. De Gregoriis, 1510.

Italia illustrata: Romae, Philippus de Lignamine, 1474; e inoltre, Augustae

Taurinorum, Bartholomeus Sylva, 1527 (a cura di G. Bremio). Un

compendio,Flavius de locis et civitatibus Italiae, in P. Victor,P. Laetus,Fabricius

Camers,Raffaeles Volterranus de Urbe Romae scribentes…, Bononiae,

Hieronimus de Benedictis, 1520 (a cura di G. B. Pio). Roma triumphans: s. l. e d.

(Brescia, Georgius et Paulus Theutonici, 1473-75 c.: Hain, 3244,Gesamtkatalog,

4424; v. U. da Como,In brixianam editionem principem librorum de Roma

triumphante a F. B. conscriptorum brevis adnotatio, Bologna 1927); Brixiae,

Bartholomaeus Vercellensis, 1482; ibid., A. Britannicus, 1503; Venetiis, P. Poncius,

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1511; Parisiis, S. Colinaeus, 1533.

La silloge di Gerolamo Biondo è descritta dallo Herschel, F. B., in Serapeum, XV

(1854), pp. 225-228, ed edita per la prima volta da O. Lobeck, in Zeitschr. für

vergl. Literaturgesch., X (1892), pp. 223-248; XI (1893), pp. 513-541; e in

Programm des Gymnasiums zum heiligen Kreuz, Dresden 1892, pp. VII-XXII.

Riduzioni: Decades: Abbreviatio Pii II pontificis maximi supra decades Blondi ab

inclinatione romani imperii usque ad tempora Iohannis vigesimi tertii pontificis

maximi (1463; ed. princ., Romae 1481; v. Hain, 259); per l'epitome della decade III

aggiuntavi da Albino Lucano, v. T. de Marinis,La biblioteca napoletana dei re

d'Aragona, Milano 1947, I, p. 102; per l'aggiunta analoga di un sunto incompiuto

della decade III, per opera o per conto di D. Domenichi, nel 1476, v. G.

Valentinelli,Bibl. Mss. ad S. Marci Venetiarum, Venezia 1873, VI, p. 103. Roma

instaurata: per l'epitome di A. Ivani, dedicata nel 1481 a Lorenzo de' Medici, v. R.

Valentini-G. Zucchetti,Codice topografico, vol. cit., p. 253. De origine et gestis

Venetorum: un sunto di E. S. Piccolomini, in Opera inedita, a cura di G. Cugnoni,

in Mem. Acc. Lincei, CCLXXX (1882-83), pp. 482-94.

Volgarizzamenti: Andrea Cambini volgarizzò le intere Decadi (v. Proemio, cit.); il

cod. Il, III, 59 della Bibl. Naz. di Firenze, evidentemente il vol. II dell'opera,

comincia dal libro VIII, decade II; la traduzione autografa della decade I è in cod.

Laurenz. Ashburn. 541. Per la traduzione cinquecentesca del forlivese A. Numai, v.

F. Cavicchi,La prima delle Historiarum decades di F. B. volgarizzate da A. Numai,

in Atti e mem. della deputaz. di storia patria per la Romagna, s. 4, VIII (1918), pp.

281-296. Una traduzione completa recente delle Decadi èquella di A. Crespi, a cura

del comune di Forlì, 1963 (ma 1964).

Le traduzioni di Lucio Fauno uscirono nel seguente ordine: Le Historie di B. da la

declinatione di Roma insino al tempo suo (che vi corsero circa mille anni) ridotte

in compendio da papa Pio e tradotte in buona lingua volgare…, Venetia, Michele

Tramezzino, 1542, 1543, 1544, 1547; Seguito delle Historie del B. tradotte, 1544;

Roma ristaurata et Italia illustrata, 1542, 1543, 1548, 1558; Roma trionfante,

1544, 1548, 1549, 1588.

Per le biografie antiche si rimanda a A. Masius,F.B. Sein Leben u. seine Werke,

Leipzig 1879 (v. anche U. Chevalier,Répertoire des sources historiques du moyen

âge, I, Paris 1905, s.v.); la trattazione più esauriente è di B. Nogara, op. cit. pp.

VII-CXCIII. Per notizie e documenti biografici particolari: [A. M. Quirini],Diatriba

praeliminaris..., Brixiae 1741; Francisci Barbari et aliorum ad ipsum epistolae,

ibid. 1743,passim (e inoltre R. Sabbadini,Centotrenta lettere inedite di F. Barbaro,

Salerno 1881, pp. 101 s.; V. Branca, Un codice aragonese scritto dal Cinico. La

silloge di epistole di F. Barbaro offerta dal figlio Zaccaria a re Ferrante, in Studi

di bibliografia e storia in onore di Tammaro de Marinis, Verona 1964, I, pp. 214

s.); A. Wilmanns, rec. a Masius, in Göttingische geleherte Anzeigen, 2 (1879), pp.

1478-1499; C. Braggio,Giacomo Bracelli e l'umanesimo dei Liguri al suo tempo, in

Atti della Società ligure di storia patria, XXIII (1890), pp. 188 ss. dell'estr. e

passim; F. Gabotto,Alcune idee di F.B. sulla istoriografia, in La Biblioteca delle

scuole italiane, II (1891), pp. 99-103; R. Sabbadini,Note umanistiche. F.B., in

Giornale ligustico, XVIII (1891), pp. 301-309; Id., rec. a O. Lobeck, in Giornale

storico della lett. italiana, XXI (1898), pp. 425-429; A. M. Kemetter,F.B.'s

Verhältnis zu Papts Eugen IV., in Jahresbericht des K. K. Staats-Gynmasiums im

VI. Bezirke von Wien,für das Schuljahr 1895-96, Wien 1896, pp. I-XXXVII; L.

Colini-Baldeschi,Studio critico su F.B., Macerata 1896; Id.,F.B. segretario del

vescovo G. Vitelleschi legato della Marca anconitana, in Rivista delle Biblioteche e

degli Archivi, X (1899), pp. 122-125; A. Zoli,Bagnacavallo dall'anno 1392 al 1408,

in Arch. storico italiano, ss, XXI (1898), pp. 110 ss.; S. Bernicoli,F.B. in Ravenna,

in Il Ravennate. Corriere di Romagna, n. 278, 14 dicembre 1900; R.

Rocholl,Bessarion. Studien zur Geschichte der Renaissance, Leipzig 1904, pp. 103,

164 (e L. Mohler,Kardinal Bessarion, Padeborn 1923, pp. 252, 330); J. Guiraud,La

Chiesa e le origini del Rinascimento, trad. it., Siena 1905, pp. 108 ss., 156, 186 s.;

G. Mancini,La vita di L. B. Alberti, Firenze 1911,passim; G. Mini,Lo storico F.B. di

Castrocaro... ? Studio storico-genealogico-critico (1912), Bibl. com. di Forlì, ms.

Piancastelli IV, 58; Epistolario di Guarino Veronese, a cura di R. Sabbadini,

Biondo Flavio in Dizionario Biografico – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/biondo-flavio_(Dizionario-Biograf...

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Page 25: Riccardo Fubini, Biondo Flavio, in Dizionario Biografico – Treccani

Venezia, 1915-19,passim (v. anche A. Momigliano,Per una nuova edizione

dell'"Origo gentis romanae", ora in Secondo contributo alla storia degli studi

classici, Roma 1960, pp. 182 s.); A. Campana, rec. a Nogara, in La Romagna, XVI

(1927), pp. 487-498; Giovanni de M.º Pedrino depintore,Cronica del suo tempo, a

cura di G. Borghezio-M. Vattasso, note storiche di A. Pasini, in Studi e testi, L,

Roma 1929,passim; LXII, ibid. 1934,passim. Per contributi minori, v. A.

Vasina,Cento anni di studi sulla Romagna. Bibliografia storica, Faenza 1963, II,

pp. 184 s.

Per l'ambiente d'origine, v. J. Larner,The Lords of Romagna, New York 1965. Per

l'ufficio e l'attività diplomatica in Curia, v. A. Lecoy de la Marche,Le roi René. Sa

vie,son administration,ses travaux artistiques et littéraires, Paris 1875, II, pp.

245-251; Documenti diplomatici tratti dagli archiji milanesi, a cura di L. Osio, III,

Milano 1877, pp. 120 ss.; G. Eroli,Erasmo Gattamelata da Narni, Roma 1879, pp.

236-273; E. von Ottenthal,Die Bullenregister Martin V. und Eugen IV., in Mittheil.

des Instit. f. Oesterreich. Geschichtsforschung, Ergänzungsband I, 3 (1885), pp.

431 ss. (v. anche G. Mercati,Ultimi contributi alla storia degli Umanisti,Studi e

testi, XC, Città del Vaticano 1939, p. 105); I libri commemoriali della repubblica di

Venezia, a cura di F. Predelli, IV, Venezia 1896,passim; W. von

Hofmann,Forschungen zur Geschichte der kurialen Behörden, Rom 1914, I, pp.

271 s.; II, p. 111; L. von Pastor,Storia dei papi dalla fine del medioevo, trad. it. A.

Mercati, nuova edizione, I, Roma 1931,passim; Epistolae pontificiae ad concilium

Florentinum spectantes, a cura di G. Hofmann, in Concilium

Florentinum,Documenta et Scriptores, serie A, I, 1-3, Romae 1940-46,passim;

Acta Camerae Apostolicae et civitatum Venetiarum,Ferrariae,Florentiae,Ianuae

de concilio florentino, a cura di G. Hofmann,ibid., III, 1, Romae 1950,passim;

Fragmenta,Protocolli,Diaria privata,Sermones, a cura di G. Hofmann,ibid., III, 2,

Romae 1951, pp. 30 ss.; Orientalium documenta minora, a cura di G.

Hofmann,ibid., III, 3, Romae 1953, p. 62.

Gli inediti citati nel testo sono segnalati in: F. P. Luiso,Studi sull'epistolario e le

traduzioni di Lapo di Castiglionchio juniore, in Studi italiani di filologia classica,

VII (1899), pp. 245 s.; p. O. Kristeller,Iter italicum, I, London-Leiden 1963, pp. 11,

33, 245, 335.

Opere. De verbis romanae locutionis: R. Fubini,La coscienza del latino negli

umanisti: "an latina lingua romanorum esset peculiare idioma", in Studi

medievali, s. 3, II (1961), pp. 505-550, e bibl. ivi cit. Decades, studi specifici: P.

Buchholz,Die Quellen der Historiarum Decades des F.B., Naumburg 1881; D.

Hay,F.B. and the Middle Ages, in Proceedings of the British Academy, XLV (1959),

pp. 97-125; v. anche G. Arnaldi,Come nacque l'attribuzione ad Anastasio del Liber

pontificalis, in Bullettino dell'Ist. Stor. Ital. per il Medio Evo, LXXV (1963), pp.

334 ss. Per un inquadramento: G. Romano,Degli studi sul Medioevo nella

storiografia del Rinascimento in Italia, Pavia 1892; W. Rehm,Der Untergang

Roms in abendländischen Denken, Leipzig 1930, pp. 50 ss.; G. Falco,La polemica

sul medioevo, Torino 1933, pp. 19 ss.; E. Fueter,Storia della storiografia moderna,

trad. it., Napoli 1944, I, pp. 128-132; W. K. Ferguson,The Renaissance in historical

thought, Boston 1948, pp. 20 ss.; B. B. Reynolds,Latin historiography: a survey,

1400-1600, in Studies in the Renaissance, II (1955), pp. 10 ss.; S. Mazzarino,La

fine del mondo antico, Milano 1959, pp. 77 ss.; A. Tenenti,La storiografia in

Europa dal Quattro al Seicento, in Nuove questioni di storia moderna, II, Milano

1964, pp. 1002 ss. Italia illustrata: G. Uzielli,Paolo dal Pozzo Toscanelli iniziatore

della scoperta dell'America, Firenze 1892, pp. 141 ss.; Id.,La vita e i tempi di P. dal

Pozzo Toscanelli, Roma 1894,passim; J. Clemens Husslein,F. B. als Geograph des

Frühhumanismus, Würzburg 1901; A. Campana,Passi inediti dell'Italia illustrata,

in La Rinascita, I (1938), pp. 93-97; Id.,Due note su Roberto Valturio; Valturio e

B.F., in Studi riminesi e bibliografici in onore di Carlo Lucchesi, Faenza 1952, pp.

12-17. Roma instaurata e Roma triumphans: Chr. Callmer, F. B., in Skrifter

utgivna av Svenska Institutet i Rom, XVIII (1954), pp. 39-49; R. Weiss,B. F.

archeologo, in Studi romagnoli, XIV (1963, ma 1965), pp. 335-341; per un

inquadramento: G. F. Savagnone,Gli umanisti italiani e la storia del diritto

romano, in IlCircolo giuridico, XXIV (1903), pp. 257-281, 291-306; A.

Momigliano,Ancient history and the Antiquarian (1950), ora in Contributo alla

Biondo Flavio in Dizionario Biografico – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/biondo-flavio_(Dizionario-Biograf...

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storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 69-77; D. Maffei,Gli inizi

dell'umanesimo giuridico, Milano 1956, pp. 114 ss. (rec. di A. Momigliano, ora in

Secondo contributo, cit., p. 418 s.); R. Weiss,Lineamenti per una storia degli studi

antiquari in Italia dal XII secolo al sacco di Roma nel 1527, in Rinascimento, IX

(1958), pp. 162 ss.; E. Mandowsky-C. Mitchell,Pirro Ligorio's Roman antiquities...,

in Studies of the Warburg Institute, XXVIII, London 1963, pp. 12 ss.; Per la Roma

inst. v. anche G. Scaglia,The origin of an archeological plan of Rome by

Alessandro Strozzi, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XXVII

(1964), pp. 137-159.

Per giudizi indicativi di contemporanei: B. Fonzio,Oratio in historiae laudationem,

in Orationes, s.l. e d. (ma Firenze 1490 c.: Hain, n. 7227), pp. non numerate; R.

Maffei (Volterrano),Commentariorum urbanorum libri, XXI, Lugduni 1552, p.

640; E. S. Piccolomini (Pio II),Commentarii rerum memorabilium, Romae 1584,

p. 766; L. Crivelli,De vita rebusque gestis Sfortiae bellicosissimi ducis ac initiis filii

eius Fr. Sfortiae Vicecomitis Mediolanensium ducis commentarius, in L. A.

Muratori,Rerum Italic. Script., XIX, Mediolani 1731, col. 629; B. Sacchi

(Platina),Historia urbis Mantuae,ibid., XX, Mediolani 1731, coll. 814 s.; P.

Cortesi,De hominibus doctis, a cura di G. C. Galletti, Florentiae 1847, pp. 228 ss.;

Vespasiano da Bisticci,Vite di uomini illustri del secolo XV, Bologna 1892, II, pp.

232-234; per un giudizio di A. Patrizi, v. R. Avesani,Per la biblioteca di Agostino

Patrizi Piccolomini,vescovo di Pienza, in Mélanges Eugène Tisserand, VI,Studi e

testi, CCXXXVI, Città del Vaticano 1964, pp. 26 s. Per saggi sull'uso dei testi di B.:

V. Rossi, rec. a G. Lesca,I Commentari di E. S. Piccolomini, in Rassegna

bibliografica della letter. italiana, II (1898), pp. 185 s.; L. La Rocca,Il primo libro

delle Storie fiorentine di N. Machiavelli e del parallelismo con le Decadi di F. B.,

Palermo 1904, R. Bersi,Le fonti della prima Decade delle "Historiarum

venetarum" del Sabellico, in Nuovo Arch. Veneto, n.s., XIX (1910), pp. 422 ss.; XX

(1910), pp. 115 ss.; G. Gayda, prefazione a B. Platina,Liber de vita Christi ac

omnium pontificum, in Rerum Italic. Script., 2 ed., III, 1, a cura di G. Gayda, pp.

XXXV ss.; F. Guicciardini,Le cose fiorentine, ora per la prima volta pubblicate da

R. Ridolfi, Firenze 1945, pp. XXX ss. e passim; A. Rotondò,Pellegrino Prisciani, in

Rinascimento, XI (1960), pp. 102 ss.; N. Rubinstein,Poggio Bracciolini cancelliere

e storico di Firenze, in Atti e mem. dell'Accademia Petrarca di lettere,arti e scienze

di Arezzo, n.s, XXXVII (1958-1964) pp. 230 s.

BIONDO FLAVIO > ENCICLOPEDIA ITALIANA (1930)

BIONDO Flavio. - Con poca esattezza si dice comunemente Flavio Biondo, mentre Flavio è un nome secondario tratto,

alla foggia umanistica, da Flavus, traduzione latina di Biondo. Egli poi nella maggior parte dei documenti si sottoscrive

Blondus Forliv... Leggi

BIONDO FLAVIO > IL CONTRIBUTO ITALIANO ALLA STORIA DEL PENSIERO - POLITICA

(2013)

Biondo Flavio Fra i piu illustri storiografi del Quattrocento, Biondo Flavio impresse una svolta in senso

contemporaneo alla ricerca storica, misurandosi con il monumento liviano che tratta dalla fondazione di Roma ad

Augusto mediante la narrazione ... Leggi

Isidòro Valla, Lorenzo

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Isidòro (russo Isidor). - Ecclesiastico (n. probabilmente

a Monemvasia, Peloponneso, circa 1380 - m. Roma

1463), compì gli studî a Costantinopoli, dove si fece

monaco basiliano e divenne abate del monastero di

Demetrio. Nel 1434 fu uno dei legati greci a Basilea,

dove collaborò alla preparazione del concilio per

l'unione delle Chiese; fu poi nominato (1437)

metropolita di Kiev e di tutta la Russia. Nel 1438,

nuovamente delegato presso il concilio, riconobbe

Eugenio IV e raggiunse Ferrara, dove fu tra i più decisi

sostenitori dell'unione

Valla, Lorenzo. - Umanista (Roma 1407 - ivi 1457). Di

famiglia piacentina, studiò a Roma, dove il padre era

avvocato concistoriale. Nel 1429 lasciò Roma per

Pavia: qui insegnò eloquenza sino al 1431; due anni

dopo, lo scandalo destato tra i giuristi dello Studio

dalla sua Epistola de insigniis et armis lo costrinse ad

abbandonare la città. Peregrinò allora per diversi

luoghi, finché nel 1437 si stabilì a Napoli, segretario di

re Alfonso di Aragona, che costantemente lo protesse

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Lèto, Pomponio

Lèto, Pomponio (lat. Pomponius Laetus; anche Giulio

Pomponio, lat. Julius Pomponius). - Umanista (Diano,

Lucania, 1428 circa - Roma 1498). Erudito

ed appassionato cultore dell'antichità classica, insegnò

alla Sapienza e fu il fulcro dell'Accademia romana,

cenacolo di letterati entusiasticamente dediti allo

studio della romanità. Scrisse opere di grammatica

e di storia e curò edizioni di testi classici. Vita. Fratello

naturale di Roberto di Sanseverino, principe di

Salerno; ignoriamo il suo nome di battesimo. Fu

discepolo di L

Alessandri, Alessandro

Alessandri (ο d'Alessandro), Alessandro. -

Giureconsulto e umanista (n. Napoli 1461 - m. 1523).

Scolaro a Roma di Francesco Filelfo, applicò allo

studio del diritto la sua larga esperienza filosofica e

umanistica. Con i suoi Genialium dierum libri sex

(1522), dove tenta, tra l'altro, una restituzione delle

leggi delle XII Tavole, precorre l'opera della cosiddetta

scuola dei culti.

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