Riassunto storia medievale

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Riassunto manuale storia medievale Massimo Montanari Cap. 1 La metamorfosi del mondo romano e la fine dell’impero in Occidente Cap. 2 Il cristianesimo : le chiese episcopali e il monachesimo delle origini. Cap. 3 Le invasioni e i regni romano-barbarici Cap.4 L’impero romano d’Oriente Cap. 5 I Longobardi e le due Italie Cap.6 L’impero arabo islamico Cap. 7 I Franchi e l’Europa carolingia Cap 8 Conti e vassalli, feudi e comitati Cap9 Economia e paesaggi Cap. 10 La città Cap. 11 Alfabetismo e cultura scritta Cap.12 Le seconde invasioni e la ristrutturazione del territorio europeo Cap. 13 Il trionfo dei poteri locali nelle campagne e nelle città Cap. 14 Impero e regni nell’età post-carolingia Cap. 15 L’anno Mille: continuità e trasformazioni Cap 16 Il nuovo monachesimo e la riforma della chiesa Cap. 17 La costruzione delle monarchie feudali Cap. 18 Società cittadina e origine degli ordinamenti comunali Cap. 19 La nascita della cavalleria e l’invenzione delle crociate Cap. 20 L’impero bizantino e l’est europeo Cap. 21 Il rinnovamento culturale Cap.22 L’impero e la dinastia sveva Cap. 23 I comuni italiani Cap. 24 Il consolidamento dei regni europei Cap. 25 Papato universale e stato della chiesa Cap. 26 Eresie e ordini mendicanti Cap. 27 Crisi e nuovi equilibri Cap. 28 Gli stati regionali in Italia Cap. 29 Verso la formazione degli stati nazionali Cap. 30 L’invenzione del Medioevo Cap. 1 La metamorfosi del mondo romano e la fine dell’impero in Occidente. Secoli III-V 1.1 L’impero nel III secolo

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Riassunto del manuale base di Montanari per esami universitari e delle superiori. Può sostituire il libro originale per intero. E' fatto molto bene

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Riassunto manuale storia medievaleMassimo Montanari

Cap. 1 La metamorfosi del mondo romano e la fine dell’impero in OccidenteCap. 2 Il cristianesimo : le chiese episcopali e il monachesimo delle origini.Cap. 3 Le invasioni e i regni romano-barbariciCap.4 L’impero romano d’OrienteCap. 5 I Longobardi e le due ItalieCap.6 L’impero arabo islamicoCap. 7 I Franchi e l’Europa carolingiaCap 8 Conti e vassalli, feudi e comitatiCap9 Economia e paesaggiCap. 10 La cittàCap. 11 Alfabetismo e cultura scrittaCap.12 Le seconde invasioni e la ristrutturazione del territorio europeoCap. 13 Il trionfo dei poteri locali nelle campagne e nelle cittàCap. 14 Impero e regni nell’età post-carolingiaCap. 15 L’anno Mille: continuità e trasformazioniCap 16 Il nuovo monachesimo e la riforma della chiesaCap. 17 La costruzione delle monarchie feudaliCap. 18 Società cittadina e origine degli ordinamenti comunaliCap. 19 La nascita della cavalleria e l’invenzione delle crociateCap. 20 L’impero bizantino e l’est europeoCap. 21 Il rinnovamento culturaleCap.22 L’impero e la dinastia svevaCap. 23 I comuni italianiCap. 24 Il consolidamento dei regni europeiCap. 25 Papato universale e stato della chiesaCap. 26 Eresie e ordini mendicantiCap. 27 Crisi e nuovi equilibriCap. 28 Gli stati regionali in ItaliaCap. 29 Verso la formazione degli stati nazionaliCap. 30 L’invenzione del Medioevo

Cap. 1La metamorfosi del mondo romano e la fine dell’impero in Occidente. Secoli III-V1.1 L’impero nel III secoloVerso il 200 l’impero romano si estendeva in una zona che comprendeva i paesi affacciati sul Mediterraneo, l’Europa occidentale e la Britannia (meno la Scozia) ed a est verso la Mesopotamia. La sua popolazione di 50 milioni di abitanti era governata da una aristocrazia ristretta e omogenea capace di parlare greco e latino. Questa aristocrazia che da un secolo combatteva solo guerre difensive, stava perdendo la sua identità militare.In assenza di crescita economica, le spese furono sostenute soprattutto dal prelievo fiscale nelle province, già nel II secolo le spese erano superiori alle entrate. Su questa base si innestarono le minacce dall’esterno, le pressioni dei

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Barbari che divennero serie attorno alla metà del III secolo. Nel 271 si sentì il bisogno di cingere Roma con le mura Aureliane, la stessa necessità di difesa spinse a promuovere tra III e IV sec., dall’ultima età dei Severi all’epoca di Diocleziano e Costantino, riforme che riuscirono non solo a ristabilire la pace alle frontiere ma ebbero grandi effetti sulla sfera economica, politica e sociale.1.2 Le riforme del IV secolo La nuova organizzazione dell’esercito, formato ormai da 600.000 soldati, aumentò i costi del più del doppio. Non possedendo gli strumenti per una programmazione economica, la risposta all’aumento delle spese fu esclusivamente politica volta a bloccare i prezzi e a ridistribuire le ricchezze, si allestì in questo modo una macchina statale che non aveva precedenti. Le nuove necessità belliche condussero, infine, a escludere l’aristocrazia senatoria dai comandi e a promuovere militari di carriera provenienti dai ceti più bassi o periferici, con effetti di grande importanza per il ricambio del vertice sociale. Così gli uomini nuovi del IV sec diedero inizio ad una rinascita culturale e artistica finanziata col denaro delle imposte; queste divennero sempre più gravose cosicché, chiunque poteva cercava di sottrarvisi.1.3 La separazione tra Oriente e OccidenteLa diminuzione di ricchezza portò alla decadenza dei centri urbani minori e alla crescita di quelli maggiori (come era accaduto a livello sociale, i ricchi sempre più ricchi perché evadono le tasse e i poveri sempre più poveri).La riduzione del numero delle città si accompagnò a un processo di “localizzazione” delle aristocrazie accentuato sotto Costantino. Pesò:

1. L’ingresso di elementi germanici nelle gerarchie militari.2. La progressiva scomparsa della distinzione tra ordine senatorio ed equestre.3. Influì il ruolo di raccordo politico che Costantino, primo imperatore cristiano, conferì ai vescovi.4. Contò il ruolo sempre più importante che le imposte in natura assunsero nell’economia imperiale, rispetto a

quelle in denaro.L’effetto complessivo fu quello di una società più ancorata alla dimensione locale.La differenzazione tra Oriente e Occidente, ufficialmente distinti dalla riforma costituzionale con cui Diocleziano introdusse il decentramento politico, andò maturando in questo clima di esaltazione delle realtà locali a scapito dell’uniformità. Essa fu accentuata da Costantino che tra 324 e 330 spostò la capitale a Bisanzio, da ora chiamata Costantinopoli, ma si affermò definitivamente nel V secolo, con il conferimento di pari dignità ai vescovi di Roma e Costantinopoli stabilito dal concilio di Calcedonia 451, e con la morte di Valentiniano III nel 455, dopo il quale non vi fu più rapporto di parentela tra i due imperatori.Nelle province orientali il commercio e la produzione avevano un ruolo più importante nell’economia, per questo le ricchezze tesero a fluire da Occidente ad Oriente, dove non si verificò quel divario tra ricchi e poveri e città maggiori e minori che invece accadeva in Occidente. I contadini in Oriente riuscivano a pagare le tasse ricavando anche un profitto per se stessi, cosa che non accadeva più in Occidente, dove i cittadini per non pagare le tasse si rifugiavano in campagna dove venivano costretti a lavorare per i grandi proprietari terrieri.L’ultima fase si aprì in occasione di una nuova serie di movimenti di popolazioni di cui il sacco di Roma perpetrato dai Visigoti nel 410 costituì l’evento più drammatico. Le élites dell’Oriente e dell’Occidente si divisero sulla soluzione da dare al problema della presenza barbarica nell’esercito, divenuta sempre più intensa. La sostanziale tenuta delle istituzioni romane in Oriente, portò all’epurazione degli elementi germanici nelle truppe. In Occidente l’ascesa alle più alte cariche militari degli elementi germanici e la chiusura delle élites romane in un rigido patriottismo portò allo scollamento tra il potere politico e militare e alla sempre più frequente concessione alle popolazioni barbariche della possibilità di stanziarsi entro i confini dell’impero.Si arriva così al 476 data simbolo della fine dell’impero romano, quando lo sciro Odoacre depone l’ultimo imperatore Romolo Augustolo pur non prendendo per sé il titolo imperiale ma creando un regno romano-barbarico. In tal modo egli dimostra una capacità politica di alto livello, nella quale non c’è la volontà di farsi assimilare ma quella di costituire una nuova identità patriottica e cristiana.1.4 Interpretazioni del cambiamentoSin dal Rinascimento il periodo finale dell’impero romano è stato visto dagli storici come un’epoca di cambiamento per eccellenza. Sia coloro che, come sosteneva Momigliano, lo hanno letto come cambiamento in negativo e dunque come archetipo di ogni decadenza, sia coloro che al contrario lo hanno letto come un periodo di cambiamento necessario e positivo (soprattutto nel Novecento). Per Gibbon, che scriveva nella seconda metà del Settecento vi era

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una affinità tra la sua epoca e il II secolo d.C., momenti di massimo splendore della civiltà moderna e di quella classica, simili per Gibbon, erano anche, i processi che avevano condotto al declino e alla caduta dell’una e dell’altra. La nuova consapevolezza storica dell’Ottocento contribuì infine, a puntualizzare le diversità tra le due epoche, ma non a cancellare la convinzione che la trasformazione fosse stata negativa.Lo sviluppo delle scienze economiche e sociali portò gli storici a spiegare il cambiamento anche attraverso valutazioni di tale natura, oltre che politiche. L’influenza di Karl Marx si evidenziò nelle tesi che identificavano le ragioni della caduta dell’impero romano nella trasformazione di una struttura sociale e produttiva prima basata sulla schiavitù, in una fondata sul servaggio e sui rapporti feudali.Solo negli anni Sessanta e Settanta del Novecento gli storici hanno iniziato a parlare di tardo antico per intendere un periodo autonomo fatto di cambiamenti non necessariamente negativi, ma fatto anche di importanti permanenze.

Cap. 2Le chiese episcopali e il monachesimo delle origini.Secoli IV-VI2.1 Cristianesimo e Europa“Cristianizzazione” è il termine che definisce il processo che condusse a una fede comune, si trattò di un processo che seguì due strade:

Una via istituzionale: incentrata sulle chiese urbane, intorno alle quali si riunirono i cittadini e che fu promotrice di una evangelizzazione delle campagne incentrata attorno a chiese battesimali, le pievi, direttamente dipendenti dal vescovo.

Una via individuale: la scelta monastica, che venne recuperata alla società attraverso l’organizzazione di una vita comune nei cenobi o monasteri. I monaci furono protagonisti primari dell’evangelizzazione delle popolazioni rurali lontane dalle città e dei cosiddetti “barbari”.

L’attività missionaria e di catechesi va dunque intesa come un processo di acculturazione, ossia di integrazione profonda e reciproca fra le nuove etnie che si stanziarono nel territorio europeo e la popolazione che tradizionalmente vi risiedeva. 2.2 Chiesa, città, diocesiNelle città dell’impero fra I e III secolo si organizzarono le prime comunità cristiane. Al loro interno, già alla fine del I secolo i laici apparivano separati dai sacerdoti; il gruppo sacerdotale era strutturato gerarchicamente in diaconi e preti e aveva a capo un vescovo. Dal IV secolo il cristianesimo diventò religione di stato: nel 313 l’imperatore Costantino con l’editto di Milano concesse ai cristiani libertà di culto; nel 380 l’imperatore Teodosio con l’editto di Tessalonica impose a tutti i cittadini dell’impero la religione cristiana.L’adesione al cristianesimo era stata soprattutto nei primi tempi una scelta aristocratica, di quella aristocrazia urbana che lontana dalle armi e dal lavoro manuale, viveva di rendita e si dedicava alla politica e alla filosofia. Tale originario sostrato sociale del cristianesimo aveva conferito grande autorevolezza alle gerarchie ecclesiastiche che svolgevano anche una sorta di supplenza dei poteri pubblici in città.2.3 Vescovi cittadini e pievi ruraliDal V secolo partì dalle città un’opera di evangelizzazione delle campagne attraverso la fondazione di chiese battesimali, le pievi, controllate dal clero cittadino e dall’episcopio. L’ambito di espansione di tali fondazioni fu la diocesi, cioè il territorio sottoposto all’autorità di ciascun vescovo, che corrispondeva a grandi linee, al territorio soggetto alla città nell’organizzazione amministrativa di età imperiale.L’opera di evangelizzazione è stata interpretata (Tabacco) come un processo di ACCULTURAZIONE in senso antropologico, ossia di reciproco scambio tra culture diverse. Il processo infatti non funzionò in senso unico: i culti tradizionali delle campagne incisero a loro volta sulla definizione dottrinale del cristianesimo, determinando per esempio l’affermarsi di aspetti della religiosità vicini alla sensibilità popolare, come il culto dei santi e delle reliquie.Nella parte centro meridionale della penisola italiana la presenza di una fitta rete di città, provocò il moltiplicarsi di sedi episcopali, che non ebbero la possibilità di estendere la propria influenza molto al di fuori della cinta urbana.

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Nell’Italia centro settentrionale, la minore presenza di centri urbani favorì lo sviluppo di circoscrizioni ecclesiastiche ampie.I vescovi delle diocesi che facevano capo alle grandi metropoli del mondo romano – Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, Roma, Ravenna, Aquileia e Milano – ottennero in breve tempo una sorta di supremazia sui vescovi delle città vicine. Tali diocesi furono dette metropolite.Un prestigio particolare era connesso alla sede episcopale romana, non solo per il ruolo della città, ma anche per una preminenza di fatto riconosciuta al vescovo di Roma come successore dell’apostolo Pietro.2.4 I monasteri e le campagneIl monachesimo è un fenomeno che si sviluppa in epoca successiva all’evangelizzazione delle città: solo dal III secolo in avanti ne sono attestate le prime manifestazioni nelle aree orientali dell’impero. Essa si presenta come una scelta strettamente individuale che prevede per un verso un radicale rifiuto del mondo e dall’altro la ricerca di una redenzione attraverso il sacrificio e l’ascesi. Nelle sue forme originarie la ricerca di solitudine si espresse in forme estreme e clamorose: Antonio, che fu eremita in Egitto, visse a lungo in una tomba vuota di una necropoli. Atri eremiti vennero detti dendriti ( dal greco dendron, albero) perché vivevano in cima agli alberi; gli stiliti (dal greco stylon, colonna) trascorrevano la loro vita in cima alle colonne.In Occidente invece la tendenza fu quella di condannare l’eccesso di individualismo e l’esibizionismo, introducendo regole di vita comune. In Oriente con Pacomio si diffuse la pratica del cenobitismo, ossia della vita in comune dei monaci sulla base di regole condivise che riguardavano ogni aspetto della vita quotidiana, la preghiera e il lavoro ma anche l’abbigliamento e l’alimentazione.In Occidente i primi gruppi monastici si formarono nella Gallia occidentale per opera di Martino, vescovo di Tours. Nel corso del V secolo i monasteri proliferarono in Gallia. In Italia le prime esperienze monastiche coinvolsero l’aristocrazia romana, decisiva fu in questo senso l’azione di Girolamo: originario della Dalmazia e appartenente alla classe senatoria, dopo aver studiato a Roma si convertì al cristianesimo e visse a lungo come eremita nel deserto siriano; tornò a Roma dove divenne il referente spirituale di molti aristocratici. Nei secoli V e VI il fenomeno dilagò e culminò con la fondazione del monastero di Montecassino a opera di Benedetto da Norcia. La comunità venne organizzata in base alla Regola redatta dallo stesso Benedetto attorno al 540. Essa prevedeva la coesistenza nella vita dei monaci di ore dedicate alla preghiera e al lavoro; nonostante l’accento posto sul valore penitenziale del lavoro nella vita comunitaria, la regola di Benedetto non condannava la scelta eremitica.L’altra area europea in cui il monachesimo si affermò assai precocemente fu l’Irlanda. L’isola non era mai stata assoggettata all’impero romano e non aveva conosciuto fenomeni di urbanizzazione: era organizzata in tribù a capo delle quali si trovavano sacerdoti del culto celtico, noti come druidi. Grazie a tale conformazione sociale, in Irlanda il modello monastico del cristianesimo si affermò con maggiore facilità rispetto all’organizzazione episcopale, al punto che i grandi abati svolgevano funzioni che altrove erano svolte dai vescovi. I monaci irlandesi si riversarono in Europa e presero a fondare, dapprima in Gallia e nell’Europa centrale, e poi anche in Italia, monasteri sottoposti a una regola assai più rigida di quella benedettina, che conobbe grande successo presso le aristocrazie franche e longobarde.2.5 La conversione dei Barbari:Un processo di acculturazioneUno degli aspetti più significativi dell’attività missionaria dei monaci fu l’opera di conversione dei Barbari. Mediante una deliberata strategia, la conversione iniziava dalle aristocrazie politico-militari: se il re si convertiva veniva meno per la popolazione il riferimento principale dei culti tradizionali e di conseguenza era più facile l’affermarsi della nuova fede.Anche le popolazioni barbariche, si dimostrarono estremamente sensibili al messaggio salvifico del cristianesimo, le aristocrazie di quei popoli, compresero quanto potessero essere proficuo, per rafforzare la loro preminenza sociale ed economica, intraprendere carriere ecclesiastiche che conducevano all’episcopato e all’abbaziato.Intraprendere una carriera ecclesiastica comportava come diretta conseguenza un’assimilazione della cultura latina e della tradizione classica da parte dei nuovi arrivati. I processi di acculturazione si svolgono sempre in duplice direzione: in questo caso, la penetrazione delle nuove aristocrazie militari nelle gerarchie ecclesiastiche e religiose comportò l’introduzione di valori tradizionali germanici, come la violenza e la forza, nel cristianesimo. Tali nuovi valori tesero ad esaltare il lato eroico e combattivo della religione (martiri): anche all’interno dei monasteri, i luoghi dove l’adesione

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alla vita cristiana comportava un rifiuto della violenza, si diffuse una terminologia militaresca in base alla quale il monaco era definito miles Dei (soldato di Dio) e la sua vita classificata come militia Christi.Nella seconda metà del IV secolo gran parte delle popolazioni germaniche furono convertite al culto cristiano secondo la forma ariana. L’arianesimo prende il nome dal sacerdote di Alessandria Ario, il quale sosteneva che Gesù Cristo non aveva lo stesso grado di divinità di Dio padre, ma era a lui sottoposto. La dottrina fu condannata al concilio di Nicea (325) da tutti e trecento vescovi. Nonostante ciò l’arianesimo ebbe grande diffusione perché era professato dai monaci che per primi convertirono le popolazioni germaniche. In particolare fu importante l’opera di evangelizzazione di un vescovo, di origine visigota ma di formazione culturale greco-orientale, che provvide a tradurre il testo biblico in lingua gota. L’arianesimo divenne pertanto un simbolo di identità etnica più che teologica. Per molto tempo si è pensato che il successo dell’arianesimo fosse dovuto a una maggiore semplicità dottrinale, più consona cioè a popolazioni prive di tradizioni speculative. La critica storica tende oggi invece a leggere la prevalenza dell’arianesimo come conseguenza del modo in cui si verificò la loro prima conversione.2.6 Questioni dottrinaliAgli inizi del cristianesimo esisteva una grande varietà di interpretazioni dottrinali: ne nacquero forti divergenze dogmatiche, dietro le quali si manifestava anche lo volontà delle singole comunità cittadine di distinguersi, di salvaguardare la propria identità.Il problema centrale fu quello posto dalla Trinità: la molteplicità delle persone divine era in contrasto con la tradizione filosofica classica che concepiva l’Essere come Uno per definizione. Il dibattito dottrinale si accentrò pertanto sulla necessità di definire la natura della figura storica di Cristo.Il primo contrasto si risolse a Nicea quando venne definito il credo e condannato in via definitiva l’arianesimo. Il concilio fu anche importante perché per la prima volta un’assemblea di vescovi veniva convocata dall’imperatore, Costantino, preannunciando quella compenetrazione tra cristianesimo e potere politico che è stata definita “ortodossia politica”. L’episcopato investiva l’imperatore del compito di difendere la fede nella forma stabilita dal concilio.Nella parte orientale dell’impero, ancora molto attiva intellettualmente, le sedi ecclesiastiche di più antica tradizione erano Antiochia e Alessandria: entrambe le scuole di queste città elaborarono teorie sulla natura del Cristo. Ad Antiochia si valorizzava soprattutto l’umanità del Cristo (nestorianesimo, dal nome del patriarca Nestorio), mentre ad Alessandria si esaltava l’elemento divino a discapito dell’elemento umano (monfisismo – unica natura). Il concilio di Calcedonia tentò una soluzione di compromesso tra le due tesi, ma questo non ebbe esito duraturo. L’imperatore Zenone, infatti, nel 482 emanò un editto che rivedeva le posizioni di Calcedonia ed emarginava il monofisismo alessandrino al fine di recuperare all’autorità imperiale le comunità delle regioni centrali dell’impero e Costantinopoli. Le nuove disposizioni furono però mal tollerate dalle popolazioni della Siria ed Egitto dove prevaleva il monofisismo.La questione scoppiò violenta sotto il regno dell’imperatore Giustiniano. Per poter mettere in opera il suo progetto di riconquista di tutti i paesi del Mediterraneo sotto l’autorità imperiale, egli aveva bisogno di assicurarsi la fedeltà di Siria ed Egitto per recuperare il nord Africa dai Vandali; inoltre la diffusione del nestorianesimo oltre le frontiere dell’impero bizantino, rischiava di indebolire Bisanzio stessa soprattutto su un confine pericoloso come quello con l’impero persiano. Giustiniano allora emanò nel 544 l’editto dei Tre Capitoli (così chiamato perché diviso in 3 parti) con il quale venivano condannate le posizione teologiche di tre seguaci di Nestorio, in precedenza assolti dal concilio di Calcedonia. Questa iniziativa ebbe però un esito drammatico, che condusse ad una spaccatura all’interno della chiesa cristiana. I vescovi occidentali, guidati da Vigilio vescovo di Roma, si rifiutarono di accogliere il nuovo editto, anche per segnalare la loro distanza dalle mire espansionistiche di Giustiniano verso occidente. Vigilio fu arrestato, trasferito a Costantinopoli e costretto a ratificare l’editto, ma gli altri vescovi di Italia rifiutarono di aderire e da ciò nacque lo scisma detto per l’appunto dei Tre Capitoli: esso durò fino alla fine del VII secolo. Il tentativo di Giustiniano fu quello di attribuire maggiore autorevolezza alle sedi episcopali di Roma e Costantinopoli, ma mentre in Occidente dopo la fine dello scisma, la chiesa di Roma si affermò in modo sempre più sensibile rispetto a Milano, Ravenna e Aquileia, in Oriente Costantinopoli non riuscì a prevalere rispetto le altre sedi concorrenti.

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Cap 11Alfabetismo e cultura scrittaSecoli V-XI11.1 Pochi scrittori, pochissimi lettoriIl mondo romano era altamente alfabetizzato. Non ci sono dubbi sul fatto che al contrario la società occidentale dei secoli VII-XI fu una società analfabeta.Dai calcoli degli studiosi, sulla percentuale di persone in grado di scrivere almeno il proprio nome si è evidenziato come nel VII secolo, in Francia e nelle città italiane di tradizione romana come Roma e Ravenna, nessun ecclesiastico era analfabeta, mentre il 40% dei laici non sapeva scrivere il proprio nome. Le donne ormai non facevano più parte del gruppo dei letterati. Inoltre nelle campagne l’alfabetizzazione laica si riduceva rispetto alle città in modo drastico, fin quasi a scomparire.Dallo studio delle firme sui contratti e documenti dell’epoca si è evidenziato un cambiamento non solo quantitativo, relativo appunto alla capacità di scrivere almeno il proprio nome, ma anche qualitativo. Le scritture infatti erano diventate almeno due: una veloce e disinvolta, adoperata dai notai, l’altra più stentata e faticosamente tracciata, con le lettere ben separate, propria di scrittori meno alfabetizzati. Questo significa che esisteva ancora una istruzione di base, che consentiva ai laici più volenterosi di apprendere a scrivere, ma che il divario tra costoro e quelli che sapevano scrivere davvero si era ampliato enormemente. Dopo il VI secolo inoltre, scomparvero le officine librarie laiche che avevano contribuito alla diffusione della lettura; esse furono sostituite da piccoli centri di scrittura presso le cattedrali cittadine o i monasteri. A differenza di quelli antichi questi piccoli centri di scrittura non avevano alcun rapporto col pubblico di acquirenti e di fruitori estranei alla comunità a cui appartenevano. Come messo in evidenza dallo studioso Petrucci, nei mosaici ravennati del V secolo i libri sono rappresentati come oggetti d’uso, aperti e fittamente riempiti di parole. In quelli romani di duecento anni dopo appaiono come oggetti preziosi, ricoperti di gemme e chiusi. In seguito a questo processo di “chiusura del libro” il nuovo codice non era più scritto per essere letto ma perché rappresentasse valori di tipo estetico, simbolico e magico.11.2 L’educazione cristianaCon la caduta dell’impero romano d’Occidente anche le scuole laiche subirono un tracollo, solo quelle cristiane rimasero in piedi diventando il luogo dell’apprendimento non solo dei chierici ma anche dei laici. Ma la chiesa non si limitò a raccogliere l’eredità lasciata dalle scuole laiche, essa elaborò una nuova e autonoma politica culturale; fu in quest’epoca che si manifestò con più vigore l’evangelizzazione delle campagne, si stabilì ad esempio che i parroci rurali avevano il dovere di accogliere i “lettori” a cui insegnare a leggere il libro dei Salmi e altre parti della Sacra Scrittura.A guidare questo processo c’era il papato di Roma, il quale tra VI e VIII secolo affermò un’egemonia culturale in grado di acquisire un monopolio ecclesiastico della scrittura. Proprio la produzione pontificia costituisce una fonte importante per cogliere i caratteri della diffusione della cultura scritta. L’epistolario di papa Gregorio Magno, la fonte più importante di quest’epoca altrimenti poco illuminata dai documenti, mette in evidenza l’analfabetismo dei laici e la necessità, percepita dal pontefice, di spiegare la parola divina.Dall’ VIII secolo in poi i monasteri divennero anch’essi luoghi di studio con la nascita di scuole, come avveniva già presso le cattedrali e proprio in questi luoghi che con il passare del tempo si svilupparono i nuovi fermenti culturali.L’epoca carolingia risulterà importante per l’evoluzione qualitativa del sistema culturale, in particolare tre furono i punti sui quali fu improntata l’azione di Carlo Magno:

La riforma liturgica, volta a far pregare tutti i chierici dell’impero nello stesso modo. Il miglioramento della formazione del clero, soprattutto rispetto alla conoscenza della lingua latina. La riaffermazione dell’importanza della scrittura nell’amministrazione, nel diritto, nella diplomazia.

Sulla base di questi principi si cercò di promuovere una complessiva riorganizzazione delle scuole ma anche questa politica non portò a un significativo incremento dell’alfabetizzazione in Europa.11.3 I modi dell’insegnamento

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Per tutto il periodo analizzato la lettura si insegnò ai bambini secondo il metodo classico, che prevedeva in primo luogo l’apprendimento delle lettere, poi quello delle sillabe e quindi la lettura e memorizzazione di frasi. Più raro fu l’insegnamento della scrittura. I ritrovamenti archeologici suggeriscono che avvenisse a un primo livello attraverso la copiatura di versi presi dai Salmi sulle tavolette di cera. Oltre alla lettura e scrittura la formazione primaria prevedeva nozioni di calcolo, di canto e di lingua latina.La formazione superiore si mantenne entro i quadri stabiliti in età tardo-antica delle arti del Trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del Quadrivio (matematica, geometria, astronomia e musica). La dialettica e le scienze matematiche del Quadrivio subirono una riscoperta nell’età carolingia e una vera rinascita nel X secolo. E’ il primo segno di una tendenza all’apertura e all’arricchimento culturale che maturò nell’ XI e prelude a fenomeni di rilievo come l’ingresso di laici nella produzione scritta (che era stata ad appannaggio esclusivo dei chierici) e la nascita della filosofia e della teologia scolastica.11.4 Avanguardie culturaliAttorno all’inizio del VI secolo, con la fine dell’impero occidentale e degli scambi commerciali che esso garantiva, si chiuse il canone dei testi classici destinato ad attraversare, quasi immutato, i secoli fino alle riscoperte degli umanisti. Si trattava di circa 150 opere utilizzate nella scuola imperiale, tra cui: Virgilio, Orazio, Ovidio , Lucano, Cicerone, Quintiliano, ma anche una raccolta di sentenze, un’opera enciclopedica di Capella, in cui compariva la distinzione tra Trivio e Quadrivio. L’esiguità di questo materiale era compensato dalla produzione cristiana.La provincia africana aveva rappresentato l’area di punta della produzione filosofica cristiana della tarda antichità, qui erano stati formati padri della chiesa come Tertulliano e Agostino, dopo l’interruzione dei contatti diretti tra le due sponde del Mediterraneo, la cultura classica africana giunse in Europa attraverso il tramite della Spagna visigotica. La conquista islamica interruppe l’ultima tradizione romana in Spagna, così come quella longobarda l’aveva interrotta in Italia. Solo il mondo anglosassone aveva conservato nei suoi monasteri una maggiore quantità di testi classici.Nonostante le sue dimensioni modeste il rinascimento carolingio segna uno spartiacque nella storia della cultura dell’Europa di questi secoli. In primo luogo perché nell’accademia palatina, cioè nel cenacolo di intellettuali riuniti da Carlo Magno, si raggiunse una confidenza con i classici che da tempo non si conosceva più; in secondo luogo la politica degli imperatori portò a intensificare la fondazione di nuovi monasteri e lo sviluppo di scuole vescovili. Grazie ai contatti tra i vari centri di cultura e gli sforzi dei Carolingi e dei loro successori, la disponibilità di testi classici e cristiani, aumentò in maniera significativa.

CAP 12Le seconde invasioni e la ristrutturazione del territorio europeoSecoli IX-XI12.1 Una lenta espansione: gli SlaviGli Slavi emergono per la prima volta nel corso delle prime invasioni barbariche, per poi scomparire quasi del tutto dalla documentazione e riapparire solo nel corso del VIII secolo, quando avevano portato sotto il loro controllo gran parte dei territori che dagli Urali si estendono sino all’Europa centrale. Proprio a causa della reticenza delle fonti conosciamo ben poco delle origini degli Slavi.Sappiamo che essi si caratterizzavano inizialmente soprattutto per il fatto di essere una popolazione sedentaria, dedita all’agricoltura e all’allevamento, coinvolta quasi suo malgrado nelle migrazioni causate dall’arrivo nei loro territori di origine di popolazioni bellicose come gli Unni. In questo periodo gli Slavi non erano inquadrati in regni ma organizzati in piccoli gruppi tribali privi di un coordinamento centrale. Nel corso dei secoli VIII e IX si delineano tre principali gruppi di popolazioni: gli Slavi Orientali, da cui scaturirono i Russi e gli Ucraini; gli Slavi occidentali, che ben presto si distinsero in Polacchi, Cechi e Slovacchi; gli Slavi meridionali, ovvero Serbi, Croati e Sloveni che approfittando della debolezza dell’impero bizantino si stanzieranno nei Balcani.Con un processo lento e meno eclatante rispetto alle invasioni dei germani, gli Slavi riuscirono a insediarsi in tutta l’Europa orientale. Tuttavia la loro estraneità alla tradizione storico-politica occidentale fa sì che l’espansione slava sia

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ancor oggi per molti versi poco conosciuta o percepita come secondaria rispetto a quella germanica. La particolare storia degli Slavi ha alimentato nel corso dell’Ottocento, sulla spinta dei nascenti nazionalismi, il mito di una “alterità slava” che nei casi estremi ha dato vita a teorie razziste, che presentavano lo slavo come “ospite non gradito” in Europa.Il pregiudizio negativo ottocentesco sugli Slavi fu alimentato anche dalla lentezza con cui si organizzarono in forme politiche stabili. Solo nel IX secolo gli Slavi occidentali e meridionali, poi quelli orientali diedero vita a organismi territoriali unificati, finendo spesso per scontrarsi con i due imperi del tempo, quello franco e quello bizantino. Proprio al fine di contenere l’espansione slava, i Franchi e i Bizantini favorirono l’invio di missionari cristiani per favorire la diffusione del cristianesimo tra gli Slavi. In particolare fu importante l’opera di due missionari bizantini Cirillo e Metodio, che tradussero la Bibbia per la prima volta in un nuovo alfabeto , chiamato poi cirillico, derivato da quello greco in modo da riprodurre i fonemi della lingua slava. In seguito alla missione dei due religiosi, i Serbi e i Bulgari furono attratti dalla sfera di influenza bizantina, mentre i Croati, Sloveni, Cechi e Slovacchi da quella franca.

12.2 I cavalieri delle steppe: gli UngariGli Ungari apparvero improvvisamente in Occidente nella seconda metà del IX secolo, e per circa 100 anni furono protagonisti di spedizioni militari devastanti che trovarono una vasta eco. Assimilati dai contemporanei agli Unni di Attila, a lungo gli Ungari furono l’incubo dell’Europa post-carolingia.Originari delle pianure attorno agli Urali settentrionali si spostarono più a meridione, in un’area chiamata oggi dagli storici col nome di Magna Hungaria, dopo una serie di migrazioni alla metà del IX secolo attraversarono i Carpazi e si stabilirono in quelle terre che al tempo romano costituivano la provincia della Pannonia e che dal loro insediamento avrebbe preso il nome di Ungheria. Durante questa fase ebbero i primi scontri con gli eserciti occidentali che rimasero colpiti dal loro metodo di combattimento particolarmente efficace, basato sulla cavalleria e su veloci spostamenti. Molto spesso, in particolare in Italia, le incursioni ungare sono state messe in rapporto con il fenomeno dell’incastellamento, ossia la proliferazione di castelli e borghi fortificati ; Tuttavia, oggi in seguito a diverse ricerche condotte sul territorio italiano si tende a ridimensionare questo rapporto di causa/effetto tra incursioni e incastellamento. Anche l’immagine degli Ungari riportata dalle fonti occidentali dell’epoca, secondi cui si trattava di un popolo primitivo è oggi unanimemente rifiutata. Non a caso le spedizioni ungare iniziarono ad essere contrastate efficacemente solo con l’introduzione anche negli eserciti occidentali della cavalleria leggera. In particolare si deve al re di Germania Ottone I la sconfitta più significativa riportata dagli Ungari. Sconfitta che ne mitigò l’aggressività e li spinse a cercare rapporti pacifici in particolare con i re di Germania. In seguito a ciò, gli Ungari entrarono nell’orbita d’influenza dell’Occidente e della chiesa romana e passarono dall’essere una popolazione nomade di allevatori ad una sedentaria di agricoltori.12.3 Pericoli dal Mediterraneo: i SaraceniL’immagine negativa riservata dalle fonti coeve agli Ungari è eguagliata solo da quella dedicata ai Saraceni, nome col quale le fonti occidentali designavano gli Arabi o le popolazioni islamizzate del Nordafrica. Tra il VII e VIII secolo avvennero i primi contrasti tra le popolazioni europee e quelle convertite all’Islam, tuttavia si tratta, soprattutto nel periodo abbaside, di incursioni e atti di pirateria dovuti all’iniziativa di singoli gruppi, come avvenne per la conquista della Sicilia per opera di musulmani partiti dall’Africa settentrionale, che impiegarono più di un cinquantennio per portare l’intera isola sotto il loro controllo. Da questo momento in poi la Sicilia divenne uno dei principali avamposti dai quali partirono incursioni mirate all’acquisizione di bottino e in alcuni casi, di nuovi territori. Queste incursioni colpirono soprattutto le zone costiere, ma, in alcuni casi, giunsero a toccare l’arco alpino. Là dove era possibile, infatti, i Saraceni conquistarono città e avamposti all’interno del territorio nemico, da dove avviavano ulteriori incursioni. Tra gli obiettivi delle incursioni saracene vi erano soprattutto le grandi abbazie, come San Vincenzo al Volturno, Montecassino e Farfa nell’Italia centro-meridionale, ma anche in Piemonte e in Svizzera, luoghi in cui si custodivano ricchezze di grande valore.12.4 Gli uomini del nordTra coloro che contribuirono a indebolire i Saraceni vi fu un altro popolo che con le sue incursioni e scorrerie a partire dal IX secolo aveva posto in allarme molte coste dell’Europa settentrionale: i Normanni. Con questa denominazione generica (in lingua franca Nortmann= uomini del nord) le fonti occidentali definirono popolazioni della penisola

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scandinava che in fonti inglesi sono chiamate Vichinghi e in quelle dell’Europa orientale Variaghi. Al di là delle denominazioni, che ancora una volta confermano come i nomi delle popolazioni dipendano spesso da una percezione esterna o da una particolare definizione non etnica, è importante ricordare che questi popoli, a partire dall’ IX secolo furono protagonisti dapprima di brevi incursioni costiere o piratesche e, in seguito di conquiste territoriali destinate a incidere profondamente nella storia di importanti regioni europee.L’espansione normanna si propagò lungo diverse direttrici, favorita dall’ubicazione delle regioni di partenza e dall’uso di particolari imbarcazioni che dal mare riuscivano a risalire il corso dei fiumi e quindi ad assalire località apparentemente protette. Per lo più dalla Norvegia partirono coloro che si diressero verso Occidente e che diedero vita a stanziamenti più o meno duraturi. Assai importante per le vicende dell’Europa settentrionale fu lo stanziamento normanno in alcune propaggini settentrionali della Gallia, che proprio da essi prese il nome di Normandia. Dopo duri contrasti con i Franchi in età carolingia, i Normanni riuscirono a far riconoscere la legittimità del loro insediamento da re Carlo il Semplice, che assegnò al loro capo, Rollone, il titolo ducale. Nell’XI secolo partirono nuove spedizioni, si trattava però di spedizioni non più rivolte a conseguire un bottino ma ad acquisire nuove terre su cui stabilire un controllo duraturo, attraverso una politica volta ad inserirsi nei contrasti politici locali. Fu ciò che accadde nell’Italia meridionale, dove agli inizi del secolo XI alcuni condottieri provenienti dalla Normandia furono assoldati da signori bizantini e longobardi in lotta fra loro. Ben presto essi riuscirono a condurre una politica autonoma: in particolare Roberto il Guiscardo, della famiglia degli Altavilla, stabilì la propria supremazia sugli altri capi normanni e avviò la conquista di gran parte dell’Italia meridionale e della Sicilia, ponendo di fatto fine al dominio arabo sull’isola. Altrettanto rilevante fu la conquista, pressoché contemporanea, del regno di Inghilterra da parte del duca di Normandia Guglielmo. Questi, nella battaglia di Hastings del 1066, con il suo esercito sconfisse quello di re Aroldo, ponendo fine la dominio anglosassone. In ambedue i casi si stabilirono le basi di un dominio destinato ad avere un forte peso sugli equilibri politici dell’Europa.

Cap 16Il nuovo monachesimo e la riforma della chiesaSecoli X-XII16.1 Verso la riforma della chiesaIl secolo XI fu decisivo per l’affermarsi di un’organizzazione centralizzata della chiesa, basata su un modello monarchico. Un contributo importante al rinnovamento della chiesa venne dal mondo monastico; all’interno di alcuni monasteri si avvertì la necessità di ridare un prestigio e una credibilità morale alla chiesa, per permetterle di difendere più efficacemente la sua posizione di guida della cristianità. Al contrario di quanto si è spesso sostenuto, questa “riforma monastica” non contestava le ricchezze e i beni ecclesiastici, che, anzi, erano visti come legittimi se servivano a dimostrare e rappresentare il fulgore della chiesa; ciò che si proponeva era l’estensione a tutta la chiesa del modello monastico, basato sulla preghiera e la purezza del corpo. Principali portavoce di questa posizione furono i monaci di Cluny, un’abbazia fondata attorno al 910 in Borgogna da uno dei “grandi” della Francia del tempo, Guglielmo duca d’Aquitania. Fu merito dei suoi abati e della loro abile politica di mediazione tra i potenti locali e il papato, se l’abbazia riuscì ad acquisire una forte autonomia.L’abbazia di Cluny raggiunse grande notorietà anche per il modello di vita monastica che riuscì ad elaborare, basato sulla specializzazione liturgica. Furono proprio i monaci di Cluny a elaborare e a diffondere la festa dei morti che ancor oggi il mondo cristiano celebra il 2 novembre e a ribadire il valore della verginità come requisito necessario per chi volesse fare da mediatore tra mondo terreno e mondo celeste. Il “modello monastico” proposto da Cluny incontrò ben presto un ampio favore in quanto non metteva in discussione l’ordine sociale, anzi Cluny ben presto divenne una delle abbazie più ricche d’Europa, grazie alle donazioni dei potenti che confidavano nelle preghiere dei monaci per salvare l’anima; inoltre, sottraendosi al controllo vescovile, gli abati di Cluny si sottoposero direttamente al papa, di cui riconobbero il primato. Nacque in tal modo una rete di priorati (così definiti in quanto affidati a un priore, ovvero un “vice abate”) che costituirono una congregazione.Cluny non fu l’unica protagonista del rinnovamento monastico, in Italia, per esempio, nel medesimo periodo iniziarono a sorgere piccole comunità monastiche che rifiutavano la trasformazione di molte abbazie benedettine in

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centri di potere. Esemplare da questo punto di vista fu la figura di Romualdo da Ravenna, che, ispirandosi ai “padri del deserto” fondò nell’Italia centrale alcuni “eremi”, il più importante fu quello di Camaldoli nell’appennino tosco-romagnolo.A partire soprattutto dai movimenti riformatori monastici si diffusero istanze critiche nei confronti del clero, che contestavano usanze largamente diffuse quali la simonia e il nicolaismo. Col primo termine, derivato dal nome di un personaggio biblico, Simon Mago, che tentò di comprare da Pietro il dono delle guarigioni, si indicava l’acquisto di cariche ecclesiastiche , una pratica che dal X secolo era divenuta assai comune. Col secondo termine, che appare già nell’Apocalisse di Giovanni e che probabilmente deriva dal nome di un diacono, chiamato Nicola, si indicavano i favorevoli al concubinato o al matrimonio degli ecclesiastici . I movimenti antisimoniaci e antinicolaiti si posero l’obiettivo di “moralizzare” la chiesa e ben presto fecero breccia tra le frange riformatrici della stessa gerarchia ecclesiastica.Accanto ai movimenti riformatori interni all’ordinamento ecclesiastico si diffusero anche movimenti religiosi di ispirazione “pauperistica”, che predicavano un ideale evangelico di povertà, la rinuncia ai beni secolari e il ritorno alla chiesa delle origini. Presenti soprattutto in ambito cittadino, essi contestarono in particolare l’alto clero locale. Perciò trovarono in alcuni casi degli inaspettati alleati in quei papi che, nei medesimi anni, tentavano di rafforzare il controllo sulle chiese locali. Esemplare fu il caso della “patarìa”, un movimento d’ispirazione pauperistica che si diffuse a Milano nel secolo XI in seguito alla predicazione del diacono Arialdo; esso fu ben presto coinvolto nella lotta che in città contrapponeva il clero riformatore al vescovo. Sappiamo che i patarini si trasformarono in uno strumento attraverso il quale la chiesa romana riuscì a riportare sotto il proprio controllo quella milanese, infatti la loro critica contro la corruzione del clero milanese fu fatta propria da alcuni esponenti riformatori, che cercavano di rafforzare l’autorità papale mediante la subordinazione gerarchica delle chiese locali.16.2 La ridefinizione del papatoL’accelerazione verso un profondo rinnovamento della chiesa avvenne, paradossalmente, quando l’elezione papale fu riportata sotto il diretto controllo imperiale, dopo che, per diversi anni, era stata monopolizzata da alcune famiglie influenti dell’aristocrazia romana.La pratica della simonia anche nel conferimento della carica papale non era una novità, tuttavia la drammaticità di questi eventi e la contemporanea presenza di tre papi determinarono l’intervento dell’imperatore Enrico III. Convocato un concilio a Sutri, egli fece deporre tutti e tre i papi e nominare un vescovo “tedesco”, estraneo agli ambienti romani.Il sistema della “chiesa imperiale” si basava su un’attenta selezione, anche morale, delle persone che andavano a ricoprire la carica vescovile, in quanto il potere regio dipendeva direttamente dalla loro affidabilità. Fu così che in Germania prima che altrove vi furono vescovi antisimoniaci. Tra i papi voluti da Enrico III il più duraturo fu Leone IX, che chiamò a Roma alcuni dei principali esponenti riformatori e ingaggiò una dura battaglia contro la simonia e il nicolaismo. Nella sua opera di ripristino dell’autorità pontificia, Leone IX si scontrò con il patriarca di Costantinopoli, riguardo al controllo delle chiese locali nell’Italia meridionale. Proprio a partire da questo conflitto si giunse nel 1054 alla rottura definitiva tra chiesa di Roma e chiesa di Costantinopoli, con uno scisma ancor oggi non ricomposto.Leone IX morì lo stesso anno ma la sua opera di riforma fu proseguita dai successori; morto anche Enrico III, fu eletto imperatore il figlio che però era ancora minorenne. In questo vuoto di potere ripresero il sopravvento le famiglie dell’aristocrazia romana, che dovettero confrontarsi con altri potenti dell’Italia centrale, come gli esponenti della famiglia Canossa-Lorena. La nuova situazione d’incertezza si rispecchiò nel rapido susseguirsi di papi sostenuti dai vari schieramenti, Una nuova svolta si ebbe con l’elezione di Niccolò II, sostenuto dai riformatori e dai Canossa-Lorena. Il nuovo papa volle fissare nuove regole per l’elezione pontificia, legalizzando, di fatto, la procedura che l’aveva portato al soglio pontificio in spregio alla Constitutio romana secondo la quale era l’imperatore a dire la parola definitiva nell’elezione pontificia. Promulgò pertanto il decreto col quale si stabiliva che il diritto di scegliere il papa spettava esclusivamente ai cardinali. Che tutto ciò non potesse facilmente essere accettato dalla corte imperiale risultò chiaro quando si dovette procedere all’elezione del successore di Niccolò II.In nuovo eletto Alessandro II, non fu riconosciuto dalla corte imperiale che gli contrappose un altro papa. Era ormai chiaro che attorno all’elezione papale si giocavano equilibri più ampi. Gli intellettuali d’area riformatrici enfatizzando il ruolo del papa e ripristinando un nuova moralità, parallelamente toglievano alla carica imperiale quegli elementi di sacralità che l’avevano contraddistinta sin dall’età di Carlo Magno; se l’imperatore era solo uno dei tanti re, perché avrebbe dovuto intromettersi nell’elezione papale? Se era privo di sacralità, come poteva permettersi di nominare dei

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vescovi? Queste domande furono alla base dell’aspro contrasto che si determinò nella seconda metà del secolo, quando l’imperatore Enrico IV, uscito dalla minorità, cercò di difendere un ruolo e un titolo che, dalla morte di suo padre, erano stati svuotati di gran parte delle loro prerogative.16.3 Enrico IV, Gregorio VII e la lotta per le investitureTradizionalmente, il contrasto fra chiesa e impero che caratterizzò la seconda metà del secolo XI viene ricordato come “lotta per le investiture”. In realtà la questione delle investiture, ovvero la possibilità per gli imperatori di eleggere vescovi, che tradizionalmente esercitavano i poteri pubblici nelle città, era solo uno degli aspetti di un contrasto più radicale, che riguardava la stessa legittimazione del potere imperiale.L’uscita di Enrico IV dalla minorità segnò un momento importante nella lotta con il papato, anche perché fu nominato papa uno dei fautori principali del movimento riformatore, il monaco che assunse il nome di Gregorio VII. La sua nomina avvenuta per acclamazione popolare e non secondo quanto stabilito dal decreto di Niccolò II, pose immediatamente il problema della sua legittimità. Gregorio VII inviò in Germania dei legati cercando di ricondurre a proprio vantaggio il malumore di alcuni grandi del regno, poco propensi ad accettare il ripristino del potere imperiale dopo la lunga parentesi della minorità di Enrico. L’intromissione dei legati pontifici nelle questioni interne dell’impero produsse però un effetto contrario a quello sperato: gran parte dei vescovi tedeschi si schierarono apertamente a favore di Enrico IV. Si scatenò a questo punto una serie di interventi di reciproca delegittimazione tra papa e imperatore. Gregorio VII condannò le investiture imperiali, rendendole nulle. Probabilmente nel medesimo anno cercò di dare un fondamento dottrinale al primato papale attraverso il cosiddetto Dictatus papae, un insieme di 27 proposizioni che definivano ruoli e funzioni del papato e delle chiesa di Roma.Solo il papa, si afferma in alcune proposizioni, può istituire o deporre i vescovi; solo lui può deporre l’imperatore; solo lui può usare le insegne imperiali; solo lui può sciogliere i sudditi dall’ubbidienza verso i sovrani. Negli anni successivi Gregorio VII cercò di trasformare queste affermazioni in realtà di fatto, Enrico IV, di fronte all’opera di delegittimazione perseguita dal pontefice, non rimase inerte. Come pronta risposta convocò a Worms un concilio dei vescovi tedeschi che dichiarò deposto Gregorio VII. A sua volta Gregorio VII comminò all’imperatore la scomunica, fatto di particolare gravità in quanto significava lo scioglimento dei sudditi dall’obbligo di obbedienza. Gli oppositori interni di Enrico IV non tardarono a trarne profitto e a sollevarsi contro l’imperatore. Fu in questo contesto che avvenne il famoso episodio di Canossa. Enrico IV si vide costretto a scendere a patti con il papa. Nell’inverno del 1076-1077 si recò presso il castello di Canossa, nell’appennino emiliano, dove la potente contessa Matilde, stretta alleata di Gregorio VII, ospitava il papa e l’abate di Cluny. Enrico IV fu umiliato: in veste di penitente dovette aspettare tre giorni e tre notti prima di essere ammesso al cospetto del papa, che però fu costretto a ritirare la scomunica. Rilegittimato il proprio potere, l’imperatore tornò in Germania e riprese la precedente politica con più vigore. Fu così che Enrico IV convocò a Bressanone un sinodo di vescovi filo imperiali che elesse papa l’arcivescovo di Ravenna che assunse il nome di Clemente III. Quattro anni dopo l’imperatore occupò Roma e insediò Clemente III sulla cattedra di Pietro, Gregorio VII fu portato in salvo dalle truppe normanne di Roberto il Guiscardo. Dopo la morte di Gregorio VII la conflittualità tra chiesa e impero continuò, anche se i suoi successori cercarono di attuare una politica più flessibile.Dopo circa un quindicennio di conflitti e di trattative nel 1122 la lotta per le investiture fu risolta con il concordato di Worms, sottoscritto dall’imperatore Enrico V e da papa Callisto II. In esso si conveniva che l’elezione dei vescovi doveva essere fatto ovunque nel rispetto dei canoni, cioè dal clero e dal popolo delle città, ma che nel regno di Germania era ammessa la presenza dell’imperatore. Per sottolineare anche visivamente tutto ciò fu stabilito che l’imperatore dovesse consegnare al vescovo cui attribuiva degli incarichi uno scettro, ma non l’anello e il pastorale simboli dell’investitura ecclesiastica. Si concludeva così, sia pure in modo compromissorio la “lotta per le investiture”.Gli scontri dell’XI secolo lasciarono un’eredità rilevante anche al di fuori della chiesa. L’aspra lotta tra Gregorio VII ed Enrico IV contribuì a minare profondamente l’ideologia imperiale. A partire da quest’epoca gli imperatori tedeschi videro sempre più messa in discussione la loro autorità e, nonostante l’apparire sulla scena di importanti personalità come Federico I o Federico II di Svevia, le loro ambizioni universalistiche apparvero sempre più improbabili di fronte al rafforzamento di altri sovrani europei.

Cap 25

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Papato universale e stato della chiesaSecoli XII-XIV25.1 L’elezione del papa e il cardinalatoIl decreto che nel 1059 aveva stabilito una procedura per l’elezione del papa, consistente nella scelta preliminare da parte dei cardinali vescovi, nella consultazione dei cardinali preti e infine nell’acclamazione da parte del clero e del popolo di Roma, invece di diventare una norma accettata, aveva dato luogo a nuovi scontri durante tutto il corso della lotta per le investiture. A metà del secolo XII questi scontri non si erano ricomposti. Per porre freno all’abitudine dei cardinali di prolungare in maniera eccessiva il momento dell’elezione papale, dando luogo a lunghe vacanze della sede apostolica durante le quali i conflitti divampavano, Gregorio X emanò la costituzione Ubi periculum, in cui stabiliva alcune norme tese ad accelerare l’elezione del nuovo papa. Il decreto stabilì che i cardinali elettori sarebbero stati costretti a risiedere in uno spazio chiuso a chiave (conclave) nel quale nessun altro avrebbe avuto accesso. Inoltre a differenza di quanto era avvenuto sino a quel momento, non avrebbero potuto godere delle entrate normalmente dovute al papa.L’istituzione del conclave, pur regolando l’elezione del papa, non minava affatto la posizione di preminenza acquisita dai cardinali, che rimanevano i detentori esclusivi della possibilità di eleggere il sovrano pontefice. Oltre a ciò, fra XII e XIII secolo i cardinali si attestarono come i principali collaboratori del papa: lo assistevano durante il concistoro, il più importante consiglio della curia romana, firmavano le lettere e i privilegi emessi dal papa, formavano commissioni.Per diventare cardinale occorreva la nomina papale. Tra la metà del XII secolo e gli inizi del XIV il numero dei cardinali oscillò tra più di trenta e meno di dieci. Potenzialmente vi erano più di cinquanta “titoli” (le chiese romane collegate alla nomina), ma il numero dei cardinali tese a diminuire poiché molti titoli rimanevano vacanti e altri furono accorpati. Con la riduzione del collegio cardinalizio il potere dei singoli cardinali aumentò, e in tal modo le nomine divennero uno strumento fondamentale per la strategia politica dei pontefici. Una precondizione che fu sempre molto importante per diventare cardinale fu l’appartenenza alla famiglia o alla clientela del papa.25.2 Lo stato pontificioAlla crescita del potere pontificio si opponevano all’interno i baroni, signori territoriali dell’area laziale, e i comuni cittadini, tra cui quello che si era formato a Roma assumendo il nome antico e legittimante di “senato romano”; all’esterno i sovrani normanni. Dalla metà del XII secolo anche la presenza dell’impero tornò a farsi sentire in Italia; per difendersi, il papato rinsaldò i legami diplomatici e politici con le altre forze anti-imperiali, soprattutto i comuni del nord Italia. Al termine del conflitto cono Federico Barbarossa, Alessandro III riuscì a ottenere la concessione delle ragalìe. La congiunzione tra la corona del regno di Sicilia e l’impero che si realizzò con Enrico VI stringendo lo stato della chiesa da nord e da sud, sembrò arrestarne lo sviluppo, ma con la morte precoce di Enrico l’opera di allargamento territoriale dello stato pontificio poté riprendere. La prima fase di questa espansione fu condotta da Innocenzo III che la definì “recupero” presentandola come ricostruzione di un ordine antico. Innocenzo si fece giurare fedeltà da nobili e città del Lazio, dell’Umbria e delle Marche e riuscì con l’aiuto dei comuni e dei signori locali a scacciare i rettori imperiali. Al termine del suo pontificato Innocenzo III aveva ormai delineato i tratti essenziali dello stato pontificio, articolato in quattro province maggiori (Campagna e Marittima nel Lazio meridionale, patrimonio di Tuscia nel Lazio settentrionale, ducato di Spoleto in Umbria, marca di Ancona nella Marche). Si trattò sin dal principio, di uno stato che concedeva ai propri sudditi larghe zone di autonomia, in materia fiscale, giudiziaria e militare.Lo stato pontificio, oltre a essere in sé un vasto territorio, aveva una funzione strategica particolarmente importante. Era posto al centro dell’Italia e separava due regioni che si trovavano sotto l’influenza imperiale: il regno di Sicilia, passato agli Svevi, e l’antico regnum Italiae, l’Italia centro-settentrionale ormai divisa in comuni. La reazione papale a questo accerchiamento si organizzò dopo la morte di Federico II (1250), quando il pontefice Urbano IV, francese, sollecitò il fratello del re di Francia, Carlo d’Angiò, a intervenire in Sicilia per cacciarne gli ultimi eredi della dinastia sveva, Manfredi e Corradino. Peraltro, dopo averli sconfitti, Carlo si sciolse dalla tutela pontificia e iniziò lui stesso a condizionare la politica papale. L’influenza degli Angiò si indebolì solo quando persero la Sicilia, che dopo la rivolta dei Vespri (1282) passò agli Aragonesi. L’espansione territoriale non contribuì a rimuovere gli strutturali fattori di debolezza che per tutto il Duecento e oltre continuarono a caratterizzare lo stato pontificio. Rispetto agli organismi

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politici coevi, lo stato pontificio non disponeva né di una dinastia che ne tutelasse la continuità nel tempo, né dell’appoggio di ampi strati sociali.25.3 Le relazioni con le chiese locali e l’universalità del papatoA questi elementi di debolezza facevano riscontro alcuni punti di forza: in particolare la funzione di coordinamento delle strutture ecclesiastiche che il pontefice aveva rivendicato a sé. Per i pontefici romani affermarsi come il vertice supremo della cristianità significò riscuotere tasse da tutta Europa e intervenire attivamente in molte sfere di competenza dei vescovi. Sul piano ideologico ciò volle dire consolidare la propria regalità ed elaborare una figura di sovrano assoluto che nei secoli successivi sarebbe stata presa a modello anche dai poteri laici.Dal punto di vista finanziario al papa spettavano sia i tributi che i sudditi gli dovevano come sovrano, sia quelli che riscuoteva in quanto signore territoriale (censi, affitti), a questi si aggiungevano le decime locali, cioè i versamenti obbligatori che proprietari e coltivatori dovevano versare alle chiese locali e ai monasteri. Anche dal punto di vista giurisdizionale il Duecento segnò un momento di crescita del papa. Se fino ad allora si era limitato a proteggere le chiese locali dagli attacchi dei poteri concorrenti, dal XIII secolo esso cominciò a controllarle sempre più strettamente. Tale azione di controllo si estese a vari ambiti, così mentre assieme al diritto laico si sviluppava e veniva approfondito anche quello canonico, si moltiplicarono le cause che richiedevano l’arbitrato del pontefice: crebbe anche i numero dei cosiddetti “peccati riservati” (per esempio l’adulterio), dai quali si poteva essere assolti solo grazie all’intervento pontificio.I pontefici acquistarono sempre più potere anche nel controllo dei benefici, cioè delle rendite e dei possedimenti assegnati a chi riceveva incarichi ecclesiastici. Il raggio d’azione dei pontefici si estese anche nell'ambito più strettamente spirituale, mediante una più stretta disciplina dei fenomeni di religiosità spontanea, da cui nacquero nel XIII secolo i nuovi ordini mendicanti, e del culto della santità.Le nuove istanze di controllo e di intervento nella politica e nell’amministrazione delle chiese locali comportarono il moltiplicarsi dei documenti e delle lettere che partivano dalla curia pontificia per le varie destinazioni. Al fine di gestire questa massa di lettere, all’inizio del Duecento la cancelleria fu dotata di un numero crescente di ufficiali. Nonostante lo sviluppo di questo grande apparato burocratico, alcuni storici hanno sostenuto che lo stato pontificio restò sempre un potere debole. Tra gli argomenti usati si invocano l’opinione dei contemporanei che notavano la difficoltà di pacificare internamente il territorio, o il deficit tra entrate e uscite. Il rischio di una simile posizione è quello di giudicare una configurazione politica del XIII secolo con parametri moderni e, soprattutto, di sottovalutare l’importanza che il modello di sovranità inventato dai pontefici romani ebbe quale fondamentale punto di riferimento per i principi di epoca successiva. Ciò avvenne in virtù del potere spirituale che il papa, a differenza degli altri sovrani, affiancava a quello temporale. Partendo da questo elemento i teologi e i canonisti del Duecento definirono il potere del papa come maggiore degli altri; già Innocenzo III sostenne che il potere spirituale dei papi era superiore al quello temporale e che in caso di necessità il papa avrebbe potuto sostituirsi agli altri sovrani. Fu però con Bonifacio VIII (1294-1303) che questa idea di superiorità raggiunse il suo punto massimo: nella bolla Unam sanctam del 1303, egli riscrisse l’intera gerarchia dei poteri ponendo al suo vertice il papato.25.4 Il papato ad AvignoneLa redazione dell’Unam sanctam da parte di Bonifacio VIII si inserisce nel quadro di una politica volta a rilanciare la figura del papa e la centralità di Roma in un momento in cui da molte parti si levavano voci di protesta che auspicavano un rinnovamento della chiesa e un ritorno ai valori del Vangelo. Per canalizzare queste spinte, e anche per rispondere al movimento millenaristico secondo cui nel 1300 avrebbe avuto luogo la fine del mondo, il pontefice stabilì per quell’anno il primo giubileo, con il quale concedeva l’indulgenza a chiunque avesse visitato Roma e i suoi luoghi santi. Non ebbero altrettanto successo altre iniziative politiche di Bonifacio, in particolare quelle promosse contro la corona francese che aveva sottoposto a tassazione anche il clero, in precedenza esente. La Unam sanctam fu redatta anche per rispondere a quest’azione, vista da Bonifacio come un attentato alla libertà e all’indipendenza della chiesa. Il re di Francia, Filippo il Bello, rispose con una campagna di discredito e con l’organizzazione di una spedizione ad Anagni, in quel momento sede della curia, che avrebbe dovuto prelevare il papa, tradurlo davanti a una corte francese e processarlo per lesa maestà. L’operazione non andò in porto ma, dopo la morte di Bonifacio e il breve pontificato del suo successore, il re riuscì a far eleggere papa un suo candidato che salì al soglio pontificio con il nome di Clemente V (1305-1314) e, nel 1309 decretò il trasferimento della curia ad Avignone.

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Quello avignonese è stato giudicato per molto tempo come un periodo di crisi del papato. In realtà in questo periodo l’organizzazione della curia, libera dai conflitti tra le grandi famiglie baronali di Roma e del Lazio, fu perfezionata in senso statale: attorno al palazzo di Avignone si intensificò l’attività finanziaria; l’accentramento iniziato nel Duecento proseguì, con la privazione della maggior parte delle autonomie che ancora rimanevano alle chiese locali. I papi francesi contribuirono in politica estera a creare un asse “guelfo” che estendeva la propria sfera d’influenza su tutta l’Europa facendo perno sulla corte di Parigi. Solo alla fine del periodo avignonese si aprì un nuovo conflitto interno, stavolta in seno al collegio cardinalizio, per la prima volta dopo tanti anni spaccato al punto da eleggere due papi diversi. Si apriva una stagione difficile per il papato che ebbe tra le sue conseguenze la definitiva fine dell’idea teocratica elaborata dai pontefici tra XII e XIV secolo, ma non delle loro innovazioni economiche, burocratiche, politiche, che diedero importanti frutti nelle corti europee

Cap 26Eresie e ordini mendicantiSecoli XII – XIV26.1 Le prime eresie (secoli XI e XII)Uno scoppio improvviso di predicazioni eterodosse scosse la Francia meridionale all’inizio del secolo XI. Gli uomini della chiesa che ne lasciarono memoria non avevano strumenti per comprendere questi fenomeni e li relegarono nel mondo della follia, dell’influenza demoniaca, della marginalità. E “marginali” in apparenza erano i protagonisti: contadini, semplici preti, persone ignoranti istigate da forze oscure. Il ricorso a pratiche ascetiche di purificazione, il rifiuto della mediazione ecclesiastica e dei sacramenti, la lettura integrale della Bibbia che assicurava un contatto diretto con Dio, sono elementi comuni a tutti gli episodi ereticali di questi anni. Queste spinte religiose si sovrapponevano a un più esplicito processo di contestazione delle strutture ecclesiastiche ufficiali, molti laici si erano levati contro la corruzione del clero, la ricchezza delle canoniche delle cattedrali, la prepotenza politica. Molti movimenti evangelici, definiti più tardi ereticali dalla chiesa romana, non avevano in realtà elaborato alcuna dottrina estranea ai dettami cristiani. Così per esempio, il movimento popolare nato a Milano chiamato “patarìa”. Similmente alla fine del secolo XII, i seguaci di Valdo, un ricco mercante di Lione che, dopo aver rinunciato ai suoi beni, visse in povertà predicando il Vangelo. Il peccato che costò a Valdo una condanna e poi la scomunica ufficiale, non fu la scelta di vivere in povertà, ma la presunzione di predicare nonostante il divieto delle gerarchie ecclesiastiche. Il controllo della predicazione doveva infatti rimanere monopolio della chiesa. I seguaci di Valdo, invece, ritenevano la predicazione laica una fondamentale necessità, al punto che, nella diocesi di Lione, persino le donne la praticavano.26.2 Nascita e sviluppo dell’eresia cataraIn questo mondo così vivace, si sviluppò un altro tipo di eresia, il “catarismo”, basata su presupposti dottrinali fortemente in contrasto con la dottrina cristiana. I catari (il nome viene dal greco e significa “puri”) professavano una religione di stampo dualistico, che credeva cioè nell’esistenza di due principi eterni, il bene e il male, che si affrontano in una lotta incessante. Quando venne individuata, l’eresia catara si era già diffusa in tutti gli strati sociali, organizzata in chiese con strutture territoriali ricalcate su quelle cattoliche, guidata da una gerarchia di “vescovi”. Nel 1167, evento quasi eccezionale per una chiesa eretica, fu celebrato addirittura un concilio, in Francia. Assieme ai vescovi di Francia e di Lombardia intervenne in quella occasione un “papa”, Niceta che impose all’assemblea un dualismo radicale, più estremo di quello moderato seguito fino ad allora (che ammetteva un principio primo, il bene, insidiato da un essere maligno dopo la creazione). Per i catari radicali, invece, male e bene erano entrambi principi eterni e increati, e il mondo terreno era opera di Satana (il dio dell’Antico Testamento) che aveva imprigionato nei corpi le anime degli angeli caduti. La lotta fra il bene e il male coinvolgeva tutti e sola via di salvezza era liberarsi dalla materia attraverso una continua opera di purificazione o, nei casi estremi, l’autodistruzione. Ciò spiega la severità dei riti riservati ai “perfetti” che avevano ricevuto il “consolamento”, sorta di battesimo durante il quale si riceveva lo spirito santo. I più perfetti dei perfetti erano quanti, lasciandosi morire di fame, segnavano la vittoria estrema dello spirito sul corpo. La promessa di una liberazione dal male, il fascino dell’anti-chiesa e l’esempio folgorante dei perfetti favorirono la diffusione del catarismo in Italia settentrionale. Si conoscono sei grandi chiese con indirizzi dottrinali diversi: 1)

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Concorezzo (presso Milano) che professava un dualismo moderato; 2) Desenzano, dualista radicale; 3) Bagnolo (vicino a Mantova), 4) Vicenza; 5) Firenze; 6) la valle spoletina. Ma gli eretici erano presenti in tutte le città comunali.Inutilmente i pontefici ordinarono punizioni sempre più severe. Nel 1208 venne bandita dal pontefice una vera crociata contro i catari di Albi e della contea di Tolosa, nella Francia meridionale, che provocò un massacro della popolazione. Nel 1215 si ribadì l’anatema per gli eretici e i loro fautori.

26.3 La risposta della chiesa: gli ordini mendicantiPer la chiesa si faceva via via più urgente l’esigenza di riappropriarsi del primato nella predicazione e nel proselitismo. Durante il pontificato di Innocenzo III e poi di Onorio III furono accettati all’interno dell’ortodossia religiosa due movimenti, quello domenicano e quello francescano, che in questa prospettiva si dimostrarono vincenti.Domenico di Guzmàn era un sacerdote della cattedrale di Osma in Castiglia. Uomo inquieto, decise di dedicarsi alla conversione degli eretici della Francia meridionale. Egli organizzò dapprima una sorta di comunità itinerante costituita da sacerdoti suoi seguaci, che, in coppia, si recavano a predicare in diverse città francesi del sud; più tardi si stabilì a Tolosa, dove ottenne per il suo ordine l’approvazione vescovile. Nel 1215 Domenico richiese l’approvazione a papa Innocenzo III; l’anno successivo fu il nuovo pontefice Onorio III a riconoscere l’ordine. Da quel momento i frati “predicatori” poterono espandersi in tutto il territorio europeo. I seguaci di Domenico seguivano la regola agostiniana, la stessa adottata dai canonici “regolari”. A tale regola fu aggiunto l’obbligo della povertà non solo personale ma per l’intero ordine, e a ciò è legata la definizione “ordine mendicante” che contraddistinse i domenicani come pure i francescani, i quali potevano sostentarsi solo con quanto veniva loro donato in elemosina.Francesco nacque ad Assisi nel 1182 da una famiglia di ricchi mercanti. Poco più che ventenne si associò come eremita alla comunità benedettina che viveva alle pendici del monte Subasio. Dopo tre anni di eremitaggio ritornò alla vita associata, dedicandosi in completa povertà alla predicazione itinerante della penitenza. Attorno alla sua figura carismatica si raccolse un piccolo gruppo di confratelli, che si dissero minores, ossia più piccoli. Il movimento francescano non aveva ai suoi esordi alcuna caratteristica che potesse distinguerlo dagli altri movimenti pauperistici. Soltanto con l’ascesa al soglio pontificio di Onorio III i francescani cominciarono a godere di simpatia presso gli ambienti romani. La confraternita crebbe rapidamente ed ebbe a partire dal 1213 anche una sezione femminile guidata da Chiara: dal 1217 fu organizzata territorialmente per province e iniziò la sua espansione in Francia, Germania, Spagna e Ungheria. In questi paesi i francescani furono spesso perseguitati dal clero regolare; in Francia e in Germania furono scambiati per albigesi e incarcerati. Francesco era contrario a una istituzionalizzazione del movimento che aveva creato, ma infine, su pressione dei suoi stessi confratelli, si decise a stendere una regola che, eliminati gli aspetti più radicali della sua predicazione, potesse essere approvata a Roma. Tale regola, nota come Regula bullata, ossia approvata dal pontefice, fu accolta da Onorio III nel 1223, Francesco morì pochi anni dopo, nel 1226. Nel 1228 fu dichiarato santo. Dopo la morte di Francesco, l’ordine si divise presto in correnti diverse, alcune delle quali si trovarono spesso in bilico sul crinale dell’eresia. I francescani più moderati trovarono invece un pieno inquadramento nella chiesa cattolica dopo il concilio di Lione che soppresse tutti gli ordini mendicanti sorti dopo il 1215, a eccezione dei domenicani, dei francescani moderati e degli eremiti di sant’Agostino. Gli ordini mendicanti, domenicani e francescani, furono protagonisti soprattutto della vita cittadina e non solo per l’attività di predicazione: sin dai primi decenni del Duecento si stabilirono in conventi ai margini delle aree urbane, dove i contrasti fra vecchi e nuovi interessi erano più evidenti. Si fecero promotori di un associazionismo religioso favorevole alla pacificazione sociale. I domenicani soprattutto divennero tramite fra il papato e i governi locali per favorire l’introduzione negli statuti cittadini di norme antiereticali. Il successo dei nuovi ordini negli ambienti urbani fu enorme proprio perché riuscivano a coinvolgere i laici in attività religiose che rimanevano nell’ambito dell’ortodossia.26.4 Il tribunale dell’inquisizioneLa nascita e l’approvazione degli ordini mendicanti si rivelarono un evento decisivo nella lotta contro l’eresia. Francescani e domenicani dovevano combattere gli eretici sul piano dottrinale, attraverso un’opera capillare di predicazione e sottraendo consensi con l’esempio di una vita “mendicante” ma pienamente ortodossa. Agli stessi ordini fu affidata la “santa inquisizione”, un tribunale dipendente dal papa, con poteri giurisdizionali speciali in materia di fede. La risposta degli eretici fu ancora una volta violenta. Nel 1239 a Orvieto fu distrutto il convento dei

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domenicani. Nel 1252 l’inquisitore per la Lombardia, Pietro da Verona, fu ucciso nei boschi presso Milano. Ma la macchina era stata messa in moto. Tra il 1268 e il 1280 una grande ondata di processi portò alla distruzione fisica di importanti comunità ereticali. Sul piano politico il sostegno all’eresia diventava difficile anche per i comuni più indipendenti. L’egemonia di Carlo d’Angiò sulle città guelfe dell’Italia centro-settentrionale aveva favorito e avallato un conformismo religioso che confondeva eresia e opposizione politica, fede e ubbidienza: nei primi decenni del Trecento i grandi nemici ghibellini del papato furono combattuti proprio con l’accusa di eresia.26.5 Le eresie del Trecento fra pauperismo e rivolta socialeLa mancanza di un retroterra favorevole, oltre lo spontaneismo iniziale, segnò il destino delle ultime grandi manifestazioni ereticali. Così fu per gli “apostolici”, seguaci di Gerardo Sagarelli che predicava la povertà assoluta e la preghiera. Nessuna teoria eterodossa, ma lo scandalo della predicazione giustificò ancora una volta la repressione violenta: Gerardo fu condannato al rogo nel luglio 1300. La sua opera fu continuata da Dolcino di Novara, un frate, che riorganizzò il movimento con intenti più spiccatamente politici. Incerto è lo spessore dottrinale delle sue tesi. Più che altro sono regole di comportamento, che attaccano frontalmente la mediazione ecclesiastica in tutte le forme in cui essa si manifestava, dal papato agli ordini mendicanti. Più concreto l’aspetto politico. Dolcino si alleò con i signori ghibellini, combatté la chiesa sul campo; per quattro anni tenne testa alle forze papali, fino alla sconfitta infertagli dall’esercito “crociato” mosso contro di lui da Clemente V. La sua fine si tinse di martirio, anche per la straordinaria fermezza d’animo di Dolcino, che rifiutò sempre di rinnegare la sua fede.

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