Riassunto Lezioni Di Diritto Amministrativo Di Falcon

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DIRITTO AMMINISTRATIVO L’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA E I POTERI AMMINISTRATIVI “Amministrare” significa compiere un’attività rivolta alla più razionale o migliore utilizzazione di una cosa. Nel campo dell’amministrazione pubblica, chi amministra è tenuto a perseguire non l’interesse proprio, ma un interesse riferito genericamente alla comunità (quale ad esempio l’interesse alla salute pubblica) ossia l’interesse pubblico. L’attività di amministrazione pubblica è svolta da diverse persone giuridiche, organi, apparati ai quali è affidato il compito di curare i diversi interessi pubblici; e a costoro diamo il nome di pubbliche amministrazioni. Sono le norme dell’ordinamento giuridico che qualificano certi interessi come pubblici e che affidano, ad apparati che agiscono per contro della comunità, il compito di perseguirne la migliore possibile cura mediante l’attività amministrativa. Le PA non si trovano quindi nella situazione di autonomia privata, bensì sono costituite sin dall’inizio per il conseguimenti di pubblici interessi, che costituiscono per esse un vincolo finalistico. Nonostante l’attività delle PA sia regolata da una disciplina speciale (le PA, gli oggetti e gli scopi della loro azione sono individuati e regolati da specifici atti normativi a ciò rivolti), esse godono anche della piena capacità giuridica di diritto privato, alla pari di qualunque altro soggetto dell’ordinamento. La stessa legge n.241 del 1990 stabilisce che “la PA, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge non disponga diversamente”. Poiché i normali poteri di diritto privato di cui tutti i soggetti godono all’interno dell’Ordinamento, non sono molto spesso efficaci per la tutela di interessi pubblici, la legge affida alle autorità pubbliche un potere giuridico speciale (ad es. il potere di determinare con un proprio atto, quale l’espropriazione per pubblica utilità, il medesimo effetto della compravendita). Ovviamente questo potere è soggetto a precise condizioni e presupposti. E’ bene sottolineare comunque che questi poteri, pur in astratto tutelando gli interessi della collettività, finiscono in concreto per produrre vantaggi per certe persone e svantaggi per altre. La PA privilegia certi interessi a scapito di altri sulla base di un giudizio di necessità e convenienza. Ma chi è abilitato a formulare questo giudizio? Da dove vengono questi poteri speciali e soprattutto come accertare se un determinato potere esiste o meno? 1

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DIRITTO AMMINISTRATIVO

L’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA E I POTERI AMMINISTRATIVI

“Amministrare” significa compiere un’attività rivolta alla più razionale o migliore utilizzazione di una cosa. Nel campo dell’amministrazione pubblica, chi amministra è tenuto a perseguire non l’interesse proprio, ma un interesse riferito genericamente alla comunità (quale ad esempio l’interesse alla salute pubblica) ossia l’interesse pubblico. L’attività di amministrazione pubblica è svolta da diverse persone giuridiche, organi, apparati ai quali è affidato il compito di curare i diversi interessi pubblici; e a costoro diamo il nome di pubbliche amministrazioni. Sono le norme dell’ordinamento giuridico che qualificano certi interessi come pubblici e che affidano, ad apparati che agiscono per contro della comunità, il compito di perseguirne la migliore possibile cura mediante l’attività amministrativa. Le PA non si trovano quindi nella situazione di autonomia privata, bensì sono costituite sin dall’inizio per il conseguimenti di pubblici interessi, che costituiscono per esse un vincolo finalistico.

Nonostante l’attività delle PA sia regolata da una disciplina speciale (le PA, gli oggetti e gli scopi della loro azione sono individuati e regolati da specifici atti normativi a ciò rivolti), esse godono anche della piena capacità giuridica di diritto privato, alla pari di qualunque altro soggetto dell’ordinamento. La stessa legge n.241 del 1990 stabilisce che “la PA, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge non disponga diversamente”.

Poiché i normali poteri di diritto privato di cui tutti i soggetti godono all’interno dell’Ordinamento, non sono molto spesso efficaci per la tutela di interessi pubblici, la legge affida alle autorità pubbliche un potere giuridico speciale (ad es. il potere di determinare con un proprio atto, quale l’espropriazione per pubblica utilità, il medesimo effetto della compravendita). Ovviamente questo potere è soggetto a precise condizioni e presupposti. E’ bene sottolineare comunque che questi poteri, pur in astratto tutelando gli interessi della collettività, finiscono in concreto per produrre vantaggi per certe persone e svantaggi per altre. La PA privilegia certi interessi a scapito di altri sulla base di un giudizio di necessità e convenienza. Ma chi è abilitato a formulare questo giudizio? Da dove vengono questi poteri speciali e soprattutto come accertare se un determinato potere esiste o meno?1

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Secondo il principio di legalità, gli speciali poteri delle autorità amministrative esistono in quanto sono previsti dalle norme dell’ordinamento giuridico; le norme attribuiscono alle PA gli speciali poteri che sono ritenuti necessari. Questi devono essere previsti in via generale e astratta: devono dunque essere normativamente previsti prima che le PA possano disporne, esercitandoli. Quali fonti del sistema giuridico sono abilitate a prevedere e disciplinare i poteri amministrativi? Gli speciali poteri il cui esercizio si traduca o in una restrizione del patrimonio o in una limitazione della libertà dei destinatari debbono avere fondamento legislativo. Per prevedere poteri amministrativi è dunque necessaria una fonte di rango primario; il principio di legalità si traduce allora in un principio di riserva di legge. Riservata alla legge è la creazione del potere nei suoi elementi essenziali:

- il tipo, determinato in relazione agli effetti giuridici;

- i presupposti che ne consentono o impongono l’esercizio;

- la competenza di una PA

Non si tratta di una riserva assoluta bensì relativa: altri aspetti collegati alla forma e al procedimento possono essere disciplinati anche da fonti secondarie. E’ bene sottolineare subito che i poteri amministrativi, previsti e disciplinati dalla legge, non sono sempre atti puramente esecutivi di norme giuridiche; al contrario possono esse stesse lasciare alle PA il compito di scegliere quale potere sia più appropriato esercitare nel caso concreto. Si tratta del tema della discrezionalità amministrativa.

I poteri amministrativi appartengono alla più ampia famiglia dei poteri pubblici, la quale comprende anche i poteri normativi in genere e i poteri giurisdizionali.

- I poteri normativi sono i poteri rivolti alla produzione delle norme dell’ordinamento giuridico; sono contrassegnate dalle caratteristiche della generalità e dell’astrattezza. Anche questi sono soggetti al principio di legalità e dunque sono previsti da norme giuridiche (le cd. fonti del diritto).

- I poteri amministrativi si caratterizzano invece per il fatto che non hanno ad oggetto la produzione di norme giuridiche ma la produzione di effetti giuridici concreti in relazione a soggetti determinati. Tuttavia, in certi casi, una certa fascia di poteri di tipo normativo può essere accomunata ai poteri amministrativi veri e propri. Di regola, si tratta di poteri normativi di rango

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secondario, cioè subordinato alla legge: si tratta dei poteri regolamentari (che a livello statale spettano al Governo, a livello degli Enti locali ai Consigli mentre a livello regionale spetta allo Statuto e alle leggi designare l’organo titolare del potere). In secondo luogo, ad autorità amministrative sono spesso affidati poteri che hanno la sostanza di atti normativi: in genere si tratta di poteri di integrazione di atti normativi, attraverso la definizione di criteri, standard, modalità e simili. In terzo luogo, molti dei poteri di emergenza comportano la produzione di regole strutturalmente identiche alle norme giuridiche e che se ne distinguono solo perché sono destinate ad operare in una situazione specifica delimitata nel tempo e nello spazio.

- I poteri giurisdizionali consistono nel potere dato al giudice di stabilire ed applicare il diritto nei casi concreti, di regola in situazioni di controversia e sulla base dell’azione della parte interessata. Tali poteri sono svolti da un organo che costituisce un legittimo giudice, cioè un organo circondato dal adeguate garanzie di indipendenza e posto rispetto alle parti in una situazione di terzietà.

Possiamo distinguere i poteri amministrativi nelle seguenti categorie:

1. Poteri restrittivi

a. Si caratterizzano per il fatto che essi restringono la sfera giuridica del destinatario, o togliendo un diritto che prima aveva oppure imponendo un obbligo che prima non aveva.

2. Poteri ampliativi

a. Si caratterizzano per il fatto che ampliano la sfera giuridica del destinatario, rendendo lecita un’attività che altrimenti non sarebbe consentita e arricchendolo di nuove facoltà. Questi poteri si inseriscono in contesti normativi di divieto che definiscono a loro volta la “legalità” dei permessi.

3. Poteri regolativi

a. Non riguardano singole decisioni su singoli casi ma riguardano o situazioni previste in termini generali ed astratti, oppure riguardano istituzionalmente una pluralità di situazioni non individualmente definite. A seconda dei casi essi possono essere ampliativi o restrittivi. Si tratta in sostanza dei poteri regolamentari. Altri poteri regolativi si

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traducono nel potere di determinare la condizione o la qualità giuridica di determinati oggetti o beni (es. piani regolatori). Devono, ovviamente, essere previsti in atti normativi (di rango legislativo) che ne precisino il possibile contenuto.

4. Poteri gestionali

a. Corrispondono ad attività comuni anche ai soggetti privati, alle quali tuttavia le norme giuridiche danno carattere pubblicistico quando a compierle siano PA. Si riferiscono dunque alle modalità di esercizio di poteri di diritto comune (come il potere di concludere contratti) o a poteri che altrimenti sarebbero di diritto comune (come disporre dei beni che sono nella propria disponibilità). Le leggi vincolano le PA a scegliere (per esempio a chi affidare la fornitura di attrezzatura scolastica) sulla base di gare pubbliche; impongono inoltre che gli atti che concludono tali gare abbiano rilievo giuridico esterno e siano aperte alla contestazione dei concorrenti. Sono dunque poteri gestionali, quei poteri che sarebbero di natura privata se la legge non disponesse diversamente.

Ogni potere amministrativo si caratterizza per l’effetto giuridico che esso produce. In molti casi è importante distinguere l’effetto giuridico dell’atto che esercita il potere dal risultato pratico di interesse pubblico in vista del quale il potere è istituito ed esercitato. Infatti, l’effetto giuridico si produce immancabilmente come conseguenza del potere o subito oppure non appena si sia compiuto quanto necessario ai fini dell’acquisizione dell’efficacia. Ma non è detto che l’effetto giuridico del provvedimento soddisfi immediatamente l’interesse pubblico in vista del quale è stato emanato (così, se è ordinata la rimozione di un manufatto pericolante, l’interesse all’incolumità pubblica sarà soddisfatto soltanto dall’effettiva rimozione, e non certo dal sorgere del corrispondente obbligo).

Gli atti di esercizio dei poteri amministrativi sono suscettibili di ledere interessi, a seconda dei casi dei destinatari o dei soggetti terzi. Perciò, anche nel nostro Ordinamento vige il principio di giustiziabilità, secondo il quale i soggetti i cui interessi siano incisi da un atto di esercizio del potere amministrativo possono, entro certe condizioni di legittimazione, rivolgersi al giudice per far valere l’eventuale illegittimità di tale atto. L’art.113 Cost. afferma infatti che: “contro gli atti della Pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e

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degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa”.

L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA TRA ORDINAMENTO ITALIANO ED EUROPEO

L’esercizio concreto dell’attività amministrativa ha come momento a monte la rete delle norme giuridiche che guidano l’azione, come momento a valle la possibilità del sindacato giurisdizionale, a tutela degli interessi qualificati: normazione, amministrazione e giurisdizione sono tre momenti di una sequenza collegata. Da quando l’ordinamento Italiano è inserito nel più ampio ordinamento Europeo, sia il momento della normazione sull’attività amministrativa, sia quello della concreta amministrazione, sia infine quello del sindacato giurisdizionale sono ripartiti tra le istituzioni nazionali e le stesse istituzioni europee.

Una quantità importante delle norme dell’Ordinamento dell’UE si riferisce all’attività amministrativa; esiste infatti una vasta normativa europea che disciplina compiti e poteri da attuarsi mediante l’attività di autorità ed organismi amministrativi: ma di quali autorità ed organismi si tratta? I costituenti europei hanno fissato il principio dell’amministrazione indiretta: l’Unione Europea regola ma non amministra e l’amministrazione delle regole europee è affidata agli stati nazionali. Tuttavia, attualmente coesistono un’area molto vasta di amministrazione

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indiretta e un area molto vasta di amministrazione diretta (in genere è competente la Commissione Europea).

Il rapporto e la proporzione tra normativa comunitaria e normativa nazionale dipendono dal carattere della normativa europea, a seconda che si tratti di normativa posta con regolamento o direttiva.

- Quanto ai regolamenti, spetta alle norme nazionali di specificare quali autorità siano competenti. Dunque, anche se le amministrazioni applicheranno norme comunitarie per quanto riguarda le attività da compiere, esse applicheranno anche norme nazionali sulla competenza e la procedura, se il regolamento non ne contiene di specifiche.

- Quanto alle direttive, esse sono “atti rivolti agli Stati membri” e sembrano più che altro contenere norme rivolte agli Stati, “indirizzi” che questi sono obbligati a trasporre in norme di diritto nazionale entro il termine previsto. E’ accaduto tuttavia, che le d. hanno sempre più spesso assunto il contenuto di “normativa modello” che per essere trasposta in diritto interno non richiede altro che essere approvata. Questo, unito al fatto che singoli Stati spesso non riescano o non vogliano trasporla entro il termine previsto, ha portato la Corte di giustizia a stabilire il principio secondo il quale una direttiva per la quale sia scaduto il termine di recepimento e che contenga proposizioni normative chiare, precise e incondizionate, anche se non recepita deve comunque essere applicata quando riguardi rapporti tra le autorità pubbliche e i soggetti dell’ordinamento (cd. rapporti verticali). In ogni caso ciò non libera lo stato membro dall’obbligo di recepimento e la direttiva (che sta alle spalle della normativa nazionale di recepimento) conserva rilievo in diverse occasioni.

o In primo luogo, può darsi che la normativa nazionale di recepimento sia in contrasto con la direttiva: chi amministra che cosa deve applicare? La Corte ha stabilito che, in conformità al principio di supremazia del diritti comunitario, anche le autorità amministrative sono tenute ad applicare il diritto comunitario a preferenza di quello nazionale.

o In secondo luogo, poiché spesso la normativa nazionale “segue” letteralmente la direttiva, quando sorgono problemi d’interpretazione, questi sono sovente problemi d’interpretazione della stessa direttiva. Le autorità nazionali chiamate ad applicare la normativa saranno portate allora a chiedere la soluzione dei propri dubbi interpretativi

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direttamente agli uffici della Commissione, quale organo vertice dell’amministrazione europea.

o In terzo luogo, la direttiva comunitaria o sue singole norme potrebbero essere invalide, per contrasto con diritto europeo di rango superiore.

Nel diritto Italiano la competenza all’attuazione delle direttive spetta, a seconda delle materie, allo Stato o alle Regioni. Per le materie di esclusiva competenza statale l’art.11 della legge 11 del 2005 afferma che “nelle materie già disciplinate con legge, ma non riservata alla legge, le direttive possono essere attuate mediante regolamento se così dispone la legge comunitaria”, mentre il comma 6 precisa che “qualora le direttive consentano scelte in ordine alle modalità della loro attuazione, la legge comunitaria o altra legge dello Stato detta i principi e i criteri direttivi” e che “con legge dello Stato sono dettate le disposizioni necessarie per introdurre sanzioni penali ed amministrative o individuare le autorità pubbliche cui affidare le funzioni amministrative inerenti all’applicazione della nuova disciplina”.

In deroga al principio dell’amministrazione indiretta, esistono anche poteri amministrativi intestati direttamente alle istituzioni comunitarie ed in particolare alla Commissione Europea. A volte si tratta di compiti di attuazione amministrativa previsti dal trattato (es. la Commissione ha compiti nell’applicazione delle regole che tutelano la concorrenza tra imprese). Altre volte si tratta di poteri stabiliti con regolamento. Ovviamente, quando la competenza all’esercizio di poteri amministrativi spetta alle istituzioni comunitarie, queste applicano esclusivamente diritto comunitario.

Dagli atti di esercizio dei poteri amministrativi possono derivare controversie che devono avere un giudice. Di quale giudice si tratta quando la normativa che sta alla base del potere sia in tutto o in parte normativa europea? Quando i poteri amministrativi previsti dalla normativa europea devono essere esercitati dalle autorità amministrative nazionali, solo i giudici nazionali possono esercitare la giurisdizione sull’atto nazionale di esercizio del potere. Tuttavia, poiché in tali casi le autorità nazionali applicano diritto europeo, l’esercizio della giurisdizione da parte dei giudici nazionali pone il problema dell’uniformità nell’applicazione di tali regole. I trattati inoltre non prevedono che le decisioni dei giudici nazionali di ultimo grado (che applicano diritto europeo) possano essere a loro volta impugnate davanti a un giudice europeo.

La soluzione prospettata consiste nel sostituire ad un rimedio successivo, quale l’impugnazione della sentenza nazionale, un rimedio preventivo, consistente nel 7

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dare al giudice nazionale, la facoltà o l’obbligo di investire un giudice europeo della questione di diritto comunitario prima di decidere. Lo strumento ha preso il nome di rinvio pregiudiziale: rinvio, perché la questione di diritto europeo è rimessa al giudice europeo; pregiudiziale, perché la decisione del giudice europeo precede e condiziona la soluzione della controversia in sede nazionale.

Viene ora da chiedersi, come le questioni di interpretazione e validità si pongano nell’ambito delle controversie relative agli atti amministrativi. Sappiamo che gli atti nazionali che esercitano poteri previsti dal diritto europeo sono sempre applicativi sia del diritto nazionale che del diritto europeo. Se la ragione di illegittimità consiste solo nell’affermata violazione del diritto nazionale non si pone alcuna questione di interpretazione del diritto europeo. Di regola, la censura di illegittimità consisterà nell’affermazione che le norme europee sono state violate; il che può tradursi in una questione di interpretazione di tali norme. Si pone invece una questione di validità quando l’atto di esercizio del potere amministrativo appaia conforme alla normativa di origine europea che lo prevede e disciplina, ma si assuma che è proprio tale normativa “a monte” dell’atto ad essere illegittima per contrasto con normativa europea di rango superiore (i Trattati). Quando ciò accade, il giudice nazionale investito dell’impugnazione dell’atto di esercizio del potere amministrativo può ritenere infondata la questione di validità respingendo il ricorso, oppure può rinviare alla Corte di giustizia la questione se ritiene invece il contrario.

La dicotomia “amministrazione diretta ”-“amministrazione indiretta” non è granitica: esiste infatti il fenomeno dei poteri amministrativi che sono disciplinati in modo tale che nell’atto finale di esercizio confluiscano decisioni prese sia da autorità nazionali che da autorità europee. Abbiamo così decisioni di istituzioni europee il cui contenuto è in parte condizionato da decisioni assunte in sede nazionale (vedi caso sovvenzioni produttori olio d’oliva). Oppure possiamo avere il caso di una decisione finale nazionale il cui contenuto (in caso di dissenso fra gli stati) è determinato da una decisione assunta in sede europea, il cui contenuto è a sua volta condizionato da un atto nazionale (vedi caso OGM). In questi casi, la presenza di elementi decisionali sia delle amministrazioni nazionali sia delle amministrazioni europee complica in modo rilevante il problema della giustiziabilità. In tutte le sentenze emesse, la Corte di giustizia ha ribadito che la contestazione della legittimità degli atti nazionali deve avvenire davanti ai giudici nazionali, mentre la contestazione della legittimità degli atti di istituzioni europee può farsi direttamente innanzi ai giudici europei solo per illegittimità proprie a tali atti.

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LEGALITA’ E DISCREZIONALITA’ DEL POTERE AMMINISTRATIVO

Secondo il principio di legalità, le norme devono individuare il potere nei suoi elementi essenziali; in relazione ai contenuti possibili o necessari, ai corrispondenti effetti giuridici, ai presupposti che ne consentono o impongono l’esercizio, alla competenza di una pubblica amministrazione. Questi elementi definiscono il tipo

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del potere. Poiché in virtù del principio di legalità i poteri amministrativi devono essere individuati nel tipo, si dice che essi sono soggetti al principio di tipicità. A tale principio si affianca quello di nominatività: i poteri amministrativi sono solo quelli individuati “nominativamente” dalle norme dell’ordinamento giuridico. Tali principi definiscono poi il principio di legalità in senso sostanziale: non è sufficiente che una norma facoltizzi un’autorità amministrativa a provvedere, è necessario infatti che vengano definiti anche i possibili contenuti, gli effetti, i presupposti che più precisamente individuano il potere e ne determinano la sostanza.

Le situazioni di necessità e i poteri atipici

Tuttavia, alcune norme legislative vigenti, sembrano corrispondere ben poco a questo schema. Ad esempio l’art.2 del R.d.773 del 1931 afferma che:

< Il prefetto, nel caso d’urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”>

La norma indica l’autorità competente “il prefetto”, i presupposti “nel caso d’urgenza o per grave necessità pubblica” e il fine del provvedimento “per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”: ma quanto ai possibili effetti essa nulla dice. Ciò che contraddistingue questa (come altre) disposizione è il riferimento a una situazione straordinaria e pericolosa tale da richiedere misure ben poco suscettibile di essere definite a priori. Il problema in questo caso, è quello dei limiti di ciò che può essere disposto mediante questi poteri atipici. Si può dire in generale, che le misure dovranno essere delimitate nel tempo e proporzionate alla necessità. La Corte costituzionale inoltre, in riferimento alla norma citata, ha affermato che i provvedimenti assunti dovranno essere sempre e comunque compatibili con i principi costituzionali.

Poteri vincolati e poteri non strettamente vincolati

Vi sono casi in cui l’esercizio del potere è così puntualmente disciplinato dalle norme da ridursi ad un fatto quasi meccanico. La PA in questi casi, non ha altro da fare che, da una parte accertare l’esistenza di una norma che preveda determinati eventi come presupposti per l’esercizio del potere, dall’altra accertare che quei presupposti esistano nella circostanza specifica. Ad esempio l’art.3 del R.d.773 del 1931 dispone che:

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< Il sindaco è tenuto a rilasciare alle persone di età superiore agli anni quindici aventi nel comune la loro residenza o dimora, quando ne facciano richiesta, una carta di identità >

In questa ipotesi vi sono dei presupposti da accertare ma nulla da realmente decidere. Ogni volta che sia possibile accertare i presupposti in modo che non vi siano apprezzabili margini di opinabilità e che una volta accertati i presupposti si debba provvedere in modo predeterminato si parla di potere vincolato.

Ma il fatto è che molto spesso il legislatore non può (o non intende) descrivere con precisione i presupposti ai quali è collegato il potere, oppure non può (o non ritiene) opportuno predeterminare esattamente quale conseguenza giuridica si debba trarre dal verificarsi di presupposti. Ad es. l’art.42 del R.d.773/31 dispone che:

< Il prefetto ha facoltà di concedere, in caso di dimostrato bisogno, licenza di portare pistole. La licenza non può essere concessa ai condannati per determinati reati e a chi non dà affidamento di non abusare delle armi >

Considerando i presupposti, la circostanza della condanna per determinati reati può essere accertata senza alcuna incertezza. Lo stesso però non può dirsi per il “dimostrato bisogno” né per il “dà affidamento di non abusare delle armi”. Si tratta di presupposti di fatto che sono il risultato di una valutazione che può avere margini più o meno ampi di opinabilità. Peraltro, in questo caso, l’esercizio del potere non è vincolato: il prefetto “ha facoltà” non l’obbligo di concedere il porto d’armi e quindi può fare la scelta che più ritiene opportuna.

I poteri collegati e i presupposti da valutare

La descrizione normativa dei presupposti per l’esercizio di un potere amministrativo mediante il ricorso ad espressioni che alludono a circostanze che possono essere riscontrate soltanto a seguito di un percorso valutativo più o meno complesso è un evenienza frequentissima. “Condizioni anormali di pubblica sicurezza”, “interesse storico, artistico, archeologico”, “eccezionale interesse culturale”, “abuso di posizione dominante”, “grave necessità pubblica”: quando i presupposti dell’esercizio del potere sono indicati dalla legge con espressioni di questo genere, è palese che l’autorità amministrativa, prima di esercitare il potere, dovrà procede in primis ad una precisazione interpretativa del concetto indeterminato usato dalla norma, ed in secundis riscontrare se la situazione di fatto corrisponda al concetto così determinato. Sovente, per interpretare correttamente il concetto si richiede una competenza specialistica, talvolta di ordine tecnico-scientifico, talora di ordina

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pratico o di esperienza. A volte, le norme stabiliscono precise procedure per accertare i presupposti necessari per l’esercizio del potere. E’ il caso dei poteri che hanno come presupposto l’accertamento di un’idoneità tecnica (es. patente di guida).

In questi casi, anche il funzionamento del principio di giustiziabilità diviene più complicato. In primis, poiché il giudice è privo delle competenza tecnico-specialistiche richieste ed in secundis perché, se pure il giudice fosse in grado di farsi un proprio convincimento mediante l’ausilio di esperti e consulenti tecnici, si tratterebbe pur sempre di un diverso convincimento “opinabile” come quello dell’Amministrazione. Inoltre, il giudice interviene quando l’autorità amministrativa ha già svolto il proprio compito esercitando il potere: perciò il sindacato si svolge come giudizio di legittimità di quanto l’amministrazione ha già fatto. Dunque, il sindacato giurisdizionale non potrà che avere carattere “esterno” e tradursi in un giudizio di ragionevolezza e adeguatezza tecnica dell’operato dell’amministrazione (il giudice non deve chiedersi ad es. se quel sito sia di “interesse storico” ma deve solo valutare se nel formulare quel giudizio la PA abbai applicato correttamente i canoni della disciplina di riferimento). Altre volte, tuttavia, la situazione appare diversa: ad es. l’autorità antitrust, nell’irrogare sanzioni amministrative per “abuso di posizione dominante”, deve sia accertare che l’impresa si trovi in quella posizione sia che di quella posizione essa abbia abusato. Questa valutazione però non sembra corrispondere ad un potere riservato alla PA ma alla necessità logica di compiere tali operazioni prima di decidere sulla sanzione. Di conseguenza, il sindacato del giudice chiamato a decidere sulla legittimità della sanzione inflitta partirà pure sempre dal materiale istruttorio usato dall’amministrazione, ma potrà condurre anche a valutazioni autonome del giudice stesso sull’esistenza o meno di una posizione dominante e sul carattere abusivo del comportamento tenuto dall’impresa, destinate a prevalere su quelle dell’amministrazione. Occorre ora chiedersi: quando ricorre la prima ipotesi (potere di valutazione riservato e sindacato sul suo esercizio) e quando la seconda (sindacato sostitutivo della valutazione pur partendosi dall’istruttoria amministrativa)?

1) Se la valutazione è oggettivamente opinabile e la PA che la compie è specializzata nella materia, o se sono previste apposite procedure di esame, potrà trattarsi di potere riservato

2) Se le norme considerano il presupposto da accertare come un dato di fatto oggettivo, si tratterà di mero accertamento dei fatti, che il giudice potrà nuovamente compiere nell’esercizio della propria giurisdizione

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La discrezionalità amministrativa

La discrezionalità amministrativa si può definire come il potere di scelta affidato dal legislatore all’amministrazione. Tale potere può riguardare l’opportunità stessa di esercitarlo (l’an), il momento di tale esercizio (il quando), o i contenuti da dare all’atto di esercizio del potere (il quomodo). La discrezionalità può riferirsi a tutti gli elementi indicati oppure a solo alcuni tra essi. Il legislatore, non è sempre in grado (o non ritiene sempre opportuno) di definire ex antea quale decisione sia la migliore da prendere; ecco che allora affida all’autorità competente il compito di decidere secondo il proprio prudente apprezzamento delle circostanza del caso. E’ chiaro, tuttavia, che la PA deve sempre decidere avendo come fine il soddisfacimento dell’interesse pubblico ad essa affidato. Chiamiamo allora discrezionalità amministrativa, la tipica situazione dell’amministrazione chiamata a compiere scelte nell’interesse pubblico, nell’esercizio di una pubblica funzione. Nella discrezionalità la PA deve operare una valutazione di interessi, comparandone il rispettivo peso al fine di decidere (e potranno allora essere in conflitto sia interessi privati e pubblici che diversi interessi pubblici).

Gli interessi pubblici e l’interesse pubblico

Gli interessi pubblici sono gli interessi che possono essere riferiti alla comunità nel suo insieme; il principio di legalità esige che essi emergano a livello normativo, venendo a costituire la ragione e il fine degli speciali poteri attribuiti alle autorità amministrative per la loro tutela. Il particolare fine di interesse pubblico per il quale è istituito un determinato potere amministrativo è allora determinato dalle leggi e forma parte del tipo di potere. Quando si tratti di provvedimenti discrezionali, nell’esercizio del potere l’autorità amministrativa deve tenere conto non solo del fine che sta alla base di tale potere, ma anche degli altri interessi (pubblici e privati) che caratterizzano la situazione concreta. Quello che da ultimo risulta è una valutazione complessiva rivolta a determinare e, mediante l’esercizio del potere soddisfare, l’interesse pubblico nel caso concreto: il quale dunque è il frutto di un giudizio di sintesi dell’amministrazione.

Le regole di esercizio dei poteri discrezionali

Le scelte discrezionali devono essere compiute rispettando regole o principi giuridici di ordine generale:

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- Il principio di completezza dell’istruttoria, implica che prima di assumere le decisioni, le PA chiariscano nei dovuti modi la situazione di fatto e che ove non lo facciano l’atto di esercizio possa risultare illegittimo.

- Il principio di completezza e pertinenza della valutazione, implica che l’autorità decidente debba prendere in considerazione tutte le circostanze rilevanti e non prendere in considerazione invece alcuna circostanza non rilevante in relazione al potere da esercitare.

- Il principio di imparzialità implica non solo il dovere di considerare la situazione in modo oggettivo ma anche il dovere di trattare in modo uguale situazioni uguali.

- Il principio di proporzionalità, afferma che la misura che l’amministrazione assume debba essere adeguata allo scopo, necessaria per il suo conseguimento, che il beneficio per l’interesse pubblico sia proporzionato al sacrificio imposto al privato e che esso non possa essere ottenuto con un sacrificio minore.

- L’onere di motivazione, collega il compito di assumere la migliore decisione possibile al dovere di indicare in modo obiettivo le ragioni di interesse pubblico che sono determinanti per la decisione assunta, anche in relazione ad eventuali contrapposti interessi tra privati. Nella pratica, il problema che spesso si pone è quello del grado di ampiezza ed analiticità che la motivazione debba avere: la risposta è influenzata dal tipo di potere, dal grado di incidenza su interessi privati e dalle caratteristiche concrete delle circostanze in cui è presa la decisione, nonché dal grado di congruenza tra la decisione assunta e le valutazioni emerse nel corso del procedimento.

IL PROVVEDIMENTO, IL PROCEDIMENTO E LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE

Spesso le norme che disciplinano l’azione amministrativa prevedono che una certa decisione venga presa da una determinata autorità e che tuttavia altre autorità abbiano anch’esse un necessario ruolo: capita che l’autorità debba farlo su proposta di una diversa autorità o che prima di prendere la decisione debba essere sentito il parere di altro organo, o che addirittura non si possa assumere la decisione senza che un diverso organo abbia prima concesso il proprio nullaosta. In tutte queste ipotesi, gli organi che intervengono esercitano anch’essi un potere “amministrativo”; ma questo potere si traduce in atti che non sono destinati a

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produrre essi stessi, direttamente, effetti giuridici, ma solo a “condizionare” la decisione dell’autorità amministrativa. I poteri che si riferiscono alla produzione di effetti giuridici esterni si chiamano poteri finali mentre i poteri che producono effetti solo per le decisioni di altre autorità amministrative si chiamano poteri strumentali. La stessa distinzione, collegata agli atti che costituiscono esercizio di tali poteri, ci conduce alla distinzione tra provvedimenti e meri atti amministrativi. Entrambi sono atti giuridici; tuttavia solo il provvedimento è destinato a produrre effetti giuridici all’esterno dell’amministrazione.

Caratteri del provvedimento amministrativo

Il provvedimento amministrativo è l’atto giuridico con il quale un’autorità amministrativa esercita un potere amministrativo finale ad essa attribuito dalle norme giuridiche, producendo così un effetto giuridico esterno alla stessa PA, cioè un effetto sulle situazioni giuridiche dei soggetti dell’ordinamento giuridico. I provvedimenti sono atti unilaterali poiché posti in essere dalla sola autorità amministrativa ed imperativi nel senso che si impongono ai destinatari a prescindere dal loro consenso (ciò vale solo per i p. che restringono la situazione giuridica dei destinatari). Tutti i provvedimenti presentano la caratteristica dell’autoritatività.

Dal provvedimento al procedimento

Il provvedimento è il frutto di una serie di attività precedenti. L’azione dell’amministrazione è esercizio del potere pubblico, ed è soggetta a regole in tutte le fasi di questo esercizio. Inoltre, ogni violazione delle regole è potenzialmente idonea a influire sul contenuto del provvedimento da assumere e può costituire un vizio di legittimità. Di conseguenza, il provvedimento deve essere studiato nel quadro dell’attività complessiva che lo prepara e che ne condiziona la stessa validità: nel quadro di ciò che viene chiamato procedimento amministrativo, per esprimere l’idea di un’attività amministrativa che procede finalizzata alla decisione da assumere nel caso concreto. La nozione di procedimento permette di cogliere in termini unitari tutta l’attività amministrativa finalizzata alla produzione del provv. e alla sua efficacia giuridica.

Il procedimento amministrativo

Il procedimento amministrativo può essere immaginato come una sorte di itinerario che l’amministrazione deve seguire nell’esercizio di un determinato potere amministrativo. Almeno alcune tappe di questo itinerario sono definite dalle norme

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(inizio, comunicazione dell’inizio a determinati soggetti, intervento di altre autorità e organi amministrativi, assunzione del provvedimento), altre sono rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione. Ogni procedimento consiste allora nella sequenza di atti ed attività previste in via astratta per pervenire al provvedimento ed alla sua efficacia. Per una disciplina legislativa espressamente rivolta al procedimento amministrativo in generale bisogna attendere in Italia sino alla legge 7 Agosto 1990 n.241 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e diritto d’accesso ai documenti amministrativi”.

La legge 7 Agosto 1990 n.241 e il suo ambito di applicazione

Con le modifiche introdotte dalla legge n.15 del 2005 la legge 241/90 è divenuta davvero la disciplina generale del provvedimento amministrativo e del procedimento. Tuttavia, occorre tenere presente la struttura regionale dello Stato ed il riparto di competenze legislative. Occorre allora individuare in quali ambiti la legge sul procedimento operi direttamente ed esclusivamente, in quali direttamente ma non esclusivamente ed infine in quali ambiti si applichi alle sole amministrazioni statali, lasciando alle Regioni ed enti locali la disciplina del procedimento.

- Appartengono all’esclusiva competenza statale le regole che definiscono in generale il provvedimento amministrativo, anche in relazione al sindacato giurisdizionale e che quindi operano direttamente ed esclusivamente.

- Operano invece direttamente ma non esclusivamente le disposizioni “concernenti gli obblighi per la PA di garantire la partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro un termine prefissato e di assicurare l’accesso alla documentazione. In questi ambiti, le Regioni e gli enti locali “possono prevedere livelli ulteriori di tutela”.

- Per il rimanente, la stessa legge 241/90 chiama le Regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, a regolare le materie disciplinate dalla legge sul procedimento amministrativo “nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa”.

Fini e regole dell’attività amministrativa. La durata del procedimento.

L’art.1 della legge 241/90 stabilisce che:

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“l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità, di trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”

In questa definizione si sottolinea innanzitutto il principio di legalità. Si pongono poi in modo specifico i criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza, Tali criteri sono contemporaneamente indirizzati alle pubbliche amministrazioni per la concreta attività amministrativa ed indirizzi dati ai “regolatori” al fine di ispirare la disciplina dell’attività amministrativa. Agli stessi scopi inoltre, la legge pone particolare attenzione all’esigenza che il procedimento abbia una durata certa e conoscibile. A questo fine devono essere stabiliti precisi termini che decorrono dall’inizio d’ufficio del procedimento o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte (art.2 co.6). Non possono di regola essere superiori a 90 giorni (art.2 co.3), ma con un procedimento aggravato possono essere previsti termini maggiori (180 giorni). Il comma 7 art.6 disciplina la sospensione di tali termini per le ipotesi in cui debbono essere acquisite valutazioni tecniche di appositi organi o enti o acquisiti documenti. Il superamento del termine dato all’a. per provvedere non comporta il venir meno del potere di provvedere, ma può comportare conseguenze su altri piani. In particolare, le PA sono tenute “al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” (art.2 bis co.1). Inoltre, la mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce “elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale” (art.2 co.9).

Il responsabile del procedimento

Attraverso l’individuazione precisa di un funzionario (e dunque di una singola persona) la legge si propone di assicurare agli interessati un interlocutore con il quale interagire lungo tutto il corso del procedimento. Egli comunque, non dispone necessariamente della competenza a provvedere. Il responsabile è il punto di riferimento dell’intero procedimento; egli infatti “valuta, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento”, “accerta d’ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all’uopo necessari e adotta ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria”, “propone l’indizione o, avendone la 17

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competenza, indice la conferenza di servizi”, “cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti” (art.6). Sono le amministrazioni che hanno il compito di pervenire alla designazione del responsabile. Prima di tutto ogni singola amministrazione provvede ad individuare per i procedimenti di propria competenza “l’unità organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché all’adozione del provvedimento finale”. Questa è un ufficio e non ancora una persona responsabile. Tuttavia “il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all’unità, la responsabilità dell’istruttoria”. Può capitare che il procedimento si svolga per diverse parti presso diverse amministrazioni; in questi casi, ogni parte avrà il suo funzionario responsabile, anche se il responsabile “centrale” potrà svolgere un ruolo di coordinamento.

L’attività amministrativa e le situazioni giuridiche soggettive. La situazione di soggezione

Le PA dispongono della normale capacità giuridica spettante a tutti i soggetti. Dunque tra le PA e gli altri soggetti dell’ordinamento possono in primo luogo intercorrere le stesse relazioni giuridiche che possono intercorrere tra qualunque soggetto: relazioni specifiche di diritto ed obbligo, relazioni specifiche caratterizzate un reciproco dovere di attenzione e correttezza e relazioni generiche basate sul dovere generalizzato del rispetto di diritti assoluti (reali o personali).

Tuttavia, quando le PA esercitano i propri poteri amministrativi, gli altri soggetti non hanno che da prendere atto che il potere è stato esercitato e che gli effetti giuridici propri di quel potere si sono prodotti; essi, si dice, si trovano in una situazione di soggezione. Questa è una situazione giuridica passiva, che esprime la condizione d’impotenza del soggetto di fronte all’esercizio sfavorevole del potere altrui. In generale, si trova in una situazione di soggezione chiunque abbia, rispetto ad un possibile modo di esercizio del potere amministrativo, un interesse oppositivo.

Le situazioni attive di fronte al potere amministrativo

L’ordinamento giuridico protegge gli interessi dei soggetti attribuendo ad essi situazioni giuridiche attive, essenzialmente di tre tipi:

1. Partecipazione: è conferita la legittimazione a partecipare all’elaborazione di un determinato provvedimento. Secondo l’art.9 della legge 241/90 chi possa soffrire un pregiudizio dall’esercizio di un potere amministrativo è legittimato a partecipare al procedimento relativo alla sua emanazione.

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2. Tutela processuale: una volta emanato il provvedimento, il soggetto che da esso subisca una lesione del suo interesse, ove tale interesse possieda certe caratteristiche, è legittimato a provocare il sindacato di un giudice, al fine di ottenere l’eliminazione del provvedimento illegittimo dal mondo giuridico, e la rimozione retroattiva degli effetti giuridici da esso nel frattempo prodotti.

3. Responsabilità civile PA: la PA può, a certe condizioni, essere chiamata a rispondere del danno “ingiusto” cagionato, quando esercita illegittimamente un potere amministrativo.

Gli interessi legittimi

La distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi la troviamo nella Costituzione all’art.24 primo comma (“tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”), all’art.103 e all’art.113 (“contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa”). La questione fondamentale è però questa: quando l’interessato fa valere un interesse legittimo e quando un diritto soggettivo? Quando l’interessato contesta l’illegittimo esercizio di un potere amministrativo la sua posizione soggettiva è sempre di interesse legittimo, mentre si fa questione di diritto soggettivo ogni volta che non venga in considerazione l’esercizio del potere amministrativo, o che tale esercizio sia radicalmente nullo.

Dunque, l’interesse legittimo si è definito come la posizione soggettiva di vantaggio che coloro che si assumono lesi da un provvedimento amministrativo illegittimo possono far valere per ottenerne in primo luogo l’annullamento e, ove ne sussistano i presupposti, il risarcimento del danno ingiusto. Tuttavia, la sua tutela assicura sì l’eliminazione del provvedimento illegittimo, ma non assicura, o non sempre, che l’esercizio legittimo del potere soddisfi l’interesse sostanziale del ricorrente, dato che la constatazione di una illegittimità non porta di per sé ad escludere che il provvedimento lesivo possa essere rinnovato con lo stesso contenuto senza tale illegittimità. Si dice perciò che l’interesse legittimo è interesse strumentale, nel senso che mira alla tutela di un interesse sostanziale, la quale tuttavia non è garantita se non nei limiti in cui la riconduzione del provvedimento alla legittimità lo possa garantire.

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L’INIZIO DEL PROCEDIMENTO E LA PARTECIPAZIONE

E’ usuale analizzare il procedimento amministrativo e la sua disciplina positiva nelle sue diverse fasi. Corrisponde ad una versione consolidata che, dopo che il procedimento è iniziato, via sia una fase preparatoria, una fase costitutiva ed una fase dell’efficacia (detta spesso integrativa dell’efficacia). La fase costitutiva è quella nella quale viene in essere il provvedimento. Capita però che le regole giuridiche prevedano che il provvedimento, pur ormai esistente, non produca i propri effetti giuridici sino a quando non siano stati compiuti altri atti o attività: di qui si parla di fase dell’efficacia. E’ però evidente che la sostanza del provvedimento sta tutta nella fase preparatoria: questa viene normalmente suddivisa a sua volta nella sottofase dell’avvio del procedimento e dell’istruttoria vera e propri

PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

1. FASE PREPARATORIA

a. Sottofase dell’avvio del procedimento

b. Sottofase dell’istruttoria

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2. FASE COSTITUTIVA

3. FASE INTEGRATIVA DELL’EFFICACIA

Fase preparatoria: l’avvio del procedimento

I procedimenti amministrativi prendono avvio o su 1) domanda del soggetto interessato oppure 2) d’ufficio, ossia ad iniziativa della stessa amministrazione.

1) La domanda ha l’effetto di obbligare l’amministrazione a verificare se il provvedimento richiesto possa o addirittura debba essere rilasciato al richiedente. In sostanza, crea il dovere di procedere ed ancor prima di avviare il procedimento. Ovviamente, deve trattarsi della domanda di un provvedimento verso il quale l’interessato possa vantare un astratto titolo. In questo caso, il procedimento serve a verificare, nell’interesse pubblico, se sussistano i presupposti di fatto e di diritto ai quali la legge subordina il provvedimento.

2) Si aprono d’ufficio tutti i procedimenti rivolti alla potenziale emanazione di provvedimenti sfavorevoli. Qui l’interesse pubblico è soddisfatto dal contenuto proprio del provvedimento

La partecipazione al procedimento. I soggetti che possono partecipare

Il procedimento amministrativo è lo spazio per la verifica e la discussione delle decisioni da assumere in contradditorio tra le parti interessate e lo spazio nel quale gli interessati portano la loro visione della situazione, cercando di influenzare in una direzione favorevole la decisione dell’amministrazione. Quali soggetti sono legittimati a partecipare al procedimento?

L’art.9 stabilisce che può intervenire nel procedimento “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento”.

Tale criterio implica che la partecipazione al procedimento debba esser collegata ad un effettivo rapporto tra il soggetto interessato e la decisione da assumere. Quanto ai soggetti, si tratta in primo luogo dei “portatori” di interessi pubblici (ossia di regola le pubbliche amministrazioni o chi sia legittimato ad agire con tale veste giuridica come per es. un concessionario di servizio pubblico) e in secondo luogo dei

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“portatori” di interessi privati. Può trattarsi di persone fisiche o giuridiche come anche di organismi privi di personalità giuridica (associazioni e comitati). Va comunque detto che potranno partecipare solo quelle associazioni o quei comitati che abbiano finalità statutarie o istituzionali connesse all’oggetto del procedimento.

I destinatari della comunicazione ed il suo contenuto

La legge 241/90 stabilisce in capo all’amministrazione procedente il dovere di comunicare ai soggetti interessati l’avvio del procedimento e le altre informazioni utili per favorire la partecipazione. La legge, ha cercato un compromesso tra le esigenze della partecipazione e quelle dell’efficienza. Questo compromesso investe il se della comunicazione, il chi debba essere destinatario della comunicazione ed il modo stesso di essa.

- Quanto al Se della comunicazione, vengono in considerazione due aspetti tra loro connessi:

o Problema generale dell’urgenza. L’art.7 comma 1 dispone che l’amministrazione ha il dovere di comunicare l’avvio del procedimento “ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da a particolari esigenze di celerità”. Tuttavia, la ragione dell’impossibilità dovrà essere chiaramente individuata e resa esplicita nella motivazione del provvedimento.

o Problema specifico dei provvedimento cautelari. L’art.7 comma 2 dispone che resta salva la facoltà dell’amministrazione di adottarli “anche prima delle effettuazione delle comunicazioni”. Sono cautelari quei provvedimenti che servono a conservare intatta una situazione in attesa che si decida su di essa a ragion veduta.

- Quanto al chi, l’art.7 comma 1 distingue i soggetti in tre categorie:

o I destinatari cioè “i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti”

o I soggetti “che per legge debbono intervenirvi”

o I “soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai diretti destinatari” qualora da un provvedimento possa derivare per loro un pregiudizio

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La differenza tra i soggetti dell’art.7 e quelli dell’art.9 (ovvero tra coloro che debbono essere avvertiti e coloro che possono partecipare) sta nell’ambito della categoria dei soggetti non destinatari degli effetti diretti e non individuati dalla legge, cioè nel generale ambito dei terzi che possano subire un pregiudizio. L’art.7 si preoccupa di specificare “individuati o facilmente individuabili”; dunque la cerchia dei soggetti che debbono essere avvertiti è più ristretta di quelli che potenzialmente possono partecipare.

- Quanto al modo, la regola generale stabilita dall’art.8 comma 1 è quella della “comunicazione personale”. Personale significa rivolta individualmente alla persona interessata e non è richiesta una forma specifica. Tuttavia il comma 3 stabilisce che l’amministrazione possa informare gli interessati “mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall’amministrazione medesima” quando “per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa”.

La comunicazione deve contenere alcune informazioni enunciate dall’art.8 comma 2. In essa devono essere indicati:

- l’amministrazione competente

- l’oggetto del procedimento promosso

- l’ufficio o la persona responsabile del procedimento

- la data entro la quale deve concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia

- nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza

- l’ufficio in cui si può prendere visione degli atti

L’omissione della comunicazione di avvio e il suo rilievo giuridico

L’art.8 comma 4 l.241/90 precisa che “l’omissione di taluna delle comunicazioni prescritte può essere fatta valere solo dal soggetto nel cui interesse la comunicazione è prevista”. Questo comma è in contrasto con l’art.113/2 Cost. ai sensi del quale la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi “non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione”? No. Infatti, la partecipazione 23

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di ciascuno è prevista nel solo interesse del soggetto interessato, sicché la violazione della norma che mira ad assicurarla lede anch’essa il solo interesse del soggetto direttamente coinvolto il quale è il solo arbitro della stessa opportunità della sua partecipazione. Diversa è la questione se l’omissione nella comunicazione di avvio del procedimento renda illegittimo il provvedimento assunto. Occorrono fare alcune considerazioni:

1. La questione si pone esclusivamente in relazione a provvedimenti che nel contenuto siano lesivi dell’interesse della persona per la quale la comunicazione è stata omessa

2. Non vi è illegittimità del provvedimento se l’interessato abbia di fatto potuto esercitare i diritti di partecipazione, nonostante la mancata informazione dell’avvio del procedimento.

3. Molti provvedimenti vengono assunti su domanda degli interessati; ci si chiede se l’eventuale omissione della comunicazione dell’avvio del relativo procedimento possa rendere illegittimo il provvedimento negativo. La giurisprudenza lo esclude: l’interessato sa benissimo che un procedimento sarò iniziato e con un minimo di diligenza può chiedere egli stesso le informazioni necessarie.

La legge n.15 del 2005 ha chiarito comunque che la comunicazione rimane doverosa anche se la sua mancanza in ogni modo non sembra rilevare sul piano della legittimità del provvedimento. Ciò tanto più dopo che la legge citata ha previsto che nei procedimenti ad istanza di parte l’amministrazione debba preavvertire l’interessato del proprio orientamento negativo.

Una questione delicata si pone per i provvedimenti privi di discrezionalità. A che cosa può servire la partecipazione degli interessati se questi non possono mutare in nulla la situazione giuridica? In realtà anche il p. più vincolato richiede pur sempre che si accertino i fatti e che si interpreti il diritto; ed i soggetti coinvolti hanno interesse a dire la loro, cercando di convincere l’amministrazione, sia circa i fatti che quanto all’interpretazione del diritto. Il vero problema qui è quello del rapporto tra il procedimento amministrativo e i poteri del giudice al quale l’interessato si debba rivolgere contro il provvedimento lesivo. Quanto all’interpretazione del diritto, il giudice può e deve definire egli stesso direttamente la questione di diritto annullando il provvedimento solo se l’interessato ha ragione nel merito. Quanto all’accertamento dei fatti può essere nell’interesse della giustizia richiedere che ad esso provveda nuovamente l’amministrazione. 24

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L’art.21-octies legge n.241/90 ipotizza comunque che la PA “dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” e stabilisce che in questo caso “il provvedimento amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento”.

I diritti di partecipazione. Il diritto di prendere posizione e di contraddire

L’art.10 stabilisce quali siano i diritti di chi partecipa. Si tratta in particolare di due distinti diritti:

a) Diritto di prendere visione degli atti del procedimento (salvo quanto previsto nei limiti generali al diritto d’accesso art.24)

b) Diritto di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto

La lettera a) è il diritto di accesso ai documenti amministrativi. Tale diritto è strumentale alle lettera b) che è appunto il diritto di partecipazione; ossia il diritto di cercare di influire sulle decisioni dell’amministrazione. Il diritto di accesso serve appunto per poter esercitare l’altro diritto nel modo più consapevole ed informato a “parità di informazioni” con l’amministrazione. La partecipazione può avvenire mediante memorie scritte, documenti ed è inoltre previsto che in certi casi la legislazione regionale prevede ulteriori strumenti quali ad esempio l’istruttoria pubblica, nella quale ciascun interessato può intervenire esponendo anche oralmente le proprie ragioni. L’amministrazione ha l’obbligo di tenere conto delle memorie e dei documenti; ciò significa che nell’assumere la propria decisione dovrà dare prova di aver considerato le ragioni degli interessati e che ove non le accolga essa dovrà indicarne le ragioni (onere di motivazione).

L’art 10 bis aggiunge inoltre un nuovo diritto:

“il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno diritto di presentare per iscritti le 25

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loro osservazioni. Dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale”.

In pratica, l’interessato ha diritto a una sorta di preavviso del provvedimento negativo ed ha facoltà di contrastare le ragioni portate dall’autorità decidente. Questa fase di contradditorio comporta inevitabilmente un prolungamento del procedimento, ma risulta utile sia al richiedente (che facilmente eviterà dinieghi basati su equivoci o su meri difetti di comunicazione) sia all’amministrazione. Lo stesso art.10 bis delimita il proprio campo di applicazione, escludendo da esso in primis le “procedure concorsuali” ed inoltre i “provvedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti in seguito a istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali”.

Il diritto di accesso ai documenti amministrativi

La legge 241/90 ha dato grande importanza a questo diritto, tale da invertire il rapporto tradizionale con il segreto d’ufficio, nel senso che, ormai, costituisce violazione del segreto d’ufficio soltanto la rilevazione di informazioni riguardanti provvedimenti od operazioni amministrative al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. L’accesso ai documenti amministrativi costituisce “principio generale” dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza (art.22 co.2) e la sua ampiezza emerge sia dal suo oggetto, sia dai soggetti in relazione ai quali esso si esercita, sia dagli strumenti previsti per la sua tutela.

Quanto all’oggetto, l’art.22 co.1 lett.d) precisa che costituisce “documento amministrativo ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una PA e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”. Non sono accessibili i documenti coperti da segreto di Stato. Tuttavia, la legge impone che sia comunque garantito agli interessati “l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”. Dunque, l’accessi può avvenire solo ove effettivamente necessario per curare o difendere interessi giuridici. Non può essere in ogni caso divulgato più di quanto strettamente necessario. Costituisce inoltre un limite all’esercizio del diritto di accesso la facoltà data alle amministrazioni di “differirlo” (l’art.25 co.3 stabilisce che deve essere 26

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motivato). Tuttavia l’art.24 precisa che “l’accesso ai documenti amministrativi non può essere negato ove sia sufficiente fare ricorso al potere di differimento”.

Quanto ai soggetti in relazione ai quali il diritto d’accesso è destinato ad esercitarsi. l’art.23 li individua non solo nelle pubbliche amministrazione ma anche nelle aziende pubbliche e speciali, negli enti pubblici e nei gestori di pubblici servizi (i quali possono essere all’occasione soggetti privati). In definitiva, sono soggetti al diritto di accesso tutti coloro che svolgono, a qualunque titolo, compiti di pubblica amministrazione.

Infine, il diritto d’accesso gode di una speciale tutela. In tutti i casi in cui una richiesta di accesso venga in tutto o in parte respinta il richiedente può nel termine di trenta giorni presentare ricorso al TAR, il quale se del caso ordina l’esibizione del documento a seguito di un processo rapido (art.25 ultimo comma).

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L’ISTRUTTORIA E LA DETERMINAZIONE DEL CONTENUTO DEL PROVVEDIMENTO

Della fase istruttoria, ossia l’attività volta alla ricognizione e valutazione degli elementi rilevanti per la decisione finale, è pienamente responsabile l’amministrazione. In particolare, al responsabile del procedimento tocca di assicurare che ogni circostanza di fatto e di diritto sia chiarita in vista del provvedimento.

Nella maggior parte dei casi, l’istruttoria sarà essenzialmente documentale; ad es. l’età, il domicilio, la condizione professionale ecc. saranno provate semplicemente mediante acquisizione delle corrispondenti certificazioni da parte della stessa amministrazione che, secondo art.18 co. 2 e 3 dovrebbe provvedervi d’ufficio ove “i fatti, gli stati e le qualità” da dimostrare debbano essere certificati o siano attestati da una PA. In numerosi casi, fatti, stati e qualità potranno essere semplicemente “autocertificati” dall’interessato, salvi i controlli che le amministrazioni sono tenute a fare ove occorra.

Nei procedimenti che iniziano d’ufficio molto spesso alcuni atti istruttori sono compiuti prima che il procedimento inizi: si tratta della generica attività di vigilanza normalmente compiuta da certi corpi (es. Polizia di Stato), la quale conduce all’accertamento di situazioni che provocano l’apertura del procedimento.

Altri atti istruttori invece, sono compiuti dopo l’avvio del procedimento: per esempio le acquisizioni documentali, i sopralluoghi, le ispezioni, le verifiche tecniche ecc. Fanno parte del materiale istruttorio anche le memorie e i documenti presentati dai partecipanti al procedimento, tra i quali ci possono essere anche altre PA, tutelanti interessi pubblici diversi da quelli della PA procedente.

Quando le situazioni da accertare richiedono conoscenze tecniche specializzate, le norme che disciplinano il procedimento possono prevedere che appositi organismi esprimano le proprie valutazioni tecniche. L’art. 17 co.1 dispone che, qualora l’organismo designato non vi provveda entro un determinato termine, il “responsabile del procedimento deve chiedere le suddette valutazioni tecniche ad altri organi dell’amministrazione pubblica o ad enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero ad istituti universitari”. Tuttavia, tale sostituzione non è possibile quando le valutazioni tecniche “debbano

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essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini” (art.17. comma 2).

I pareri

Può darsi che l’autorità procedente, prima di decidere, debba o possa avvalersi, del parere di una diversa autorità amministrativa specializzata nella materia della decisione da assumere. I pareri non vanno confusi con gli atti di partecipazione al procedimento: essi non sono destinati ad introdurre nel procedimento interessi diversi da quelli rimessi all’autorità che ha la competenza a decidere, ma sono rilasciati imparzialmente dallo stesso punto di vista di tale autorità, perseguendo gli interessi istituzionali del provvedimento. I pareri sono atti valutativi; quali le differenze con le valutazioni tecniche? Le valutazioni tecniche servono a chiarire le situazioni di fatto ed appartengono dunque alla fase iniziale dell’istruttoria, mentre i pareri presuppongono la situazione di fatto chiarita ed esprimono un punto di vista già correlato al possibile o necessario provvedimento. In generale, la richiesta di un parere facoltativo costituisce una scelta propria dell’autorità procedente; tuttavia, l’art.1 co.2 ha introdotto il divieto di “aggravare il procedimento” stabilendo un limite potenziale a questa attività.

Distinguiamo diverse categoria di pareri:

- PARERE FACOLTATIVO: costituisce esercizio di una facoltà dell’autorità procedente. L’organo cui il parere è richiesto ha il dovere di renderlo quando esso ha istituzionalmente tale compito.

- PARERE OBBLIGATORIO: le norme che disciplinano il potere amministrativo impongono che, prima di assumere il provvedimento, l’autorità decidente senta il parere di un altro organo. Essa è dunque obbligata a chiederlo.

Facoltativo o obbligatorio, una volta reso il parere produce il suo effetto di influenza. L’amministrazione non è legalmente vincolata a decidere secondo il parere bensì a tenerne conto: il che si traduce in uno specifico onere di motivazione della eventuale decisione difforme. In certi casi, la libertà di discostarsi potrà rilevarsi più teorica che pratica (vedi ad esempio il caso di un parere chiesto al Consiglio di Stato).

- PARERE VINCOLANTE: le norme che disciplinano il potere impongono che questo venga esercitato su parere conforme di un altro organo. Dal punto di

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vista sostanziale si realizza allora una condivisione del potere di decisione tra autorità decidente e autorità ufficialmente consultiva.

L’art.16 co.2 afferma che, se l’organo cui il parere obbligatorio è richiesto non lo rende entro il termine previsto, è facoltà dell’amministrazione richiedente di procedere indipendentemente dall’espressione del parere (tale disposizione non si applica quando i pareri devono essere rilasciati da “amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, forestale, territoriale e della salute dei cittadini”). L’organo consultivo, ove ritenga che non gli siano stati forniti tutti gli elementi necessari per formulare il parere ha la possibilità di chiedere elementi istruttori integrativi: in questo caso, il parere deve essere reso entro quindici giorni dalla ricezione degli elementi.

In ogni caso, il parere che sia sopraggiunto fuori termine dovrà essere sempre tenuto in considerazione dall’amministrazione, ove questa non abbia già provveduto. Se avesse già provveduto, il parere dovrebbe essere comunque preso in considerazione per valutare se la decisione presa debba essere mantenuta, senza che vi sia però un dovere di provvedere di nuovo.

Atti che predeterminano il provvedimento. Accertamenti di requisiti e prove idoneative e selettive

Molto spesso il procedimento è congegnato in modo che il possibile contenuto del provvedimento si precisa nel corso del procedimento, di modo che l’emanazione non rappresenta il momento in cui il contenuto viene deciso, bensì quello in cui viene tradotto in un provvedimento. In questi casi, nel procedimento intervengono atti che, pur privi di valore provvedimentale (non producono cioè effetti esterni all’amministrazione), hanno un autonomo valore decisorio.

Ciò accade, in primis, quando è previsto che il possesso di determinati requisiti e abilità, che la legge richiede ai fini dell’emanazione di determinati provvedimenti, sia verificato attraverso appositi accertamenti tecnici o attraverso il superamento di prove d’esame idoneative (ad es. la prova scritta per la patente). Molti di questi atti hanno un valore decisorio puramente negativo, nel senso che, qualora siano negativi, precludono l’emanazione del provvedimento. Qualora invece gli stessi abbiano contenuto positivo il procedimento prosegue, senza che ne sia da essi predeterminato l’esito finale.

Può accadere, che i diversi atti che compongono il procedimento siano congegnati e concatenati in modo tale che dopo l’ultimo di essi non rimanga più nulla da

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decidere, e la sola cosa da fare sia formalizzare il provvedimento in relazione all’esito complessivo del procedimento. In questo caso il provvedimento, finisce per avere un contenuto procedimentalmente determinato, di modo che la fase “costitutiva” di esso non coincide con la fase decisoria.

Gli accordi sul contenuto discrezionale del provvedimento

Quando l’esercizio del potere comporti (o comporti anche) valutazioni discrezionali, può accadere che il contenuto del provvedimento possa (o addirittura debba) determinarsi prima dell’effettivo esercizio del potere, sia per ragioni che attengono al rapporto tra interesse pubblico e interessi privati, sia per ragioni che attengono al coordinamento tra i diversi interessi pubblici.

Quanto ai rapporti tra interesse pubblico e interessi privati, l’art.11 co.1 afferma che “in accoglimento di osservazioni e proposte” presentate a norma dell’art.10 ( e dunque da privati) l’amministrazione procedente, nel “perseguimento del pubblico interesse”, può concludere “accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale”. Tali accordi debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, e ad essi si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti “in quanto compatibili”. Gli accordi così stabiliti sono giuridicamente vincolanti, pur se l’amministrazione conserva il potere di recedere unilateralmente dall’accordo “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse”, salvo l’obbligo di indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatosi in danno del privato.

Le determinazioni relative agli accordi sostitutivi di provvedimento

L’art.11 co.1 prevede (oltre agli accordi rivolti a determinare il contenuto discrezionale del provvedimento) la possibilità, in accoglimento di osservazioni e proposte, di stipulare accordi in sostituzione del provvedimento stesso. L’accordo in questo caso, contiene l’atto dispositivo e la diretta disciplina del rapporto tra amministrazione e privato, in sostituzione del provvedimento. In questi casi dunque, il procedimento amministrativo viene a concludersi con un accordo. La legge rende possibile la sostituzione dell’accordo al provvedimento senza particolari limitazioni, tuttavia il comma 4 bis dell’art.11 afferma che:

“a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, in tutti i casi in cui una PA conclude accordi nelle ipotesi previste dal co.1, la stipulazione dell’accordo è preceduta da una determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento”.

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Di conseguenza, il provvedimento è sostituito da due atti: l’accordo e, prima, la determinazione unilaterale relativa all’accordo. Questa soluzione corrisponde ad un esigenza di tutela dei terzi, estranei all’accordo ma interessati al procedimento ed al provvedimento che lo avrebbe altrimenti concluso. Rispetto ai terzi la determinazione di concludere con un determinato privato un accordo con un determinato contenuto “definisce” la posizione dell’amministrazione: ove tale definizione risulti lesiva la determinazione che la contiene potrà essere impugnata. Per i terzi dunque, la determinazione preliminare all’accordo è un provvedimento. Si noti che la previa determinazione sembra necessaria anche per gli accordi sul contenuto del provvedimento; il che produrrebbe, per tali casi, una sequenza di tre atti: previa determinazione, accordo e provvedimento.

Gli istituti per il coordinamento degli interessi pubblici

In certi casi, la necessità della previa determinazione del contenuto del provvedimento è collegata all’obiettivo del coordinamento tra interessi pubblici diversi. A volte, il problema non si pone in modo esterno alla decisione poiché la stessa autorità procedente può avere il compito di tenere conto di tutti gli interessi pubblici in gioco. Quando invece gli interessi pubblici sono affidati alla cura di autorità diverse, l’obiettivo del coordinamento può essere perseguito in diversi modi e con diversi meccanismi, di diversa intensità e forza.

1. Il meccanismo più semplice consiste nella possibilità di spontaneo intervento nel procedimento, data a qualunque autorità, a tutela degli interessi pubblici ad essa affidati. Allo stesso ambito appartiene lo strumento della conferenza di servizi istruttoria, ossia quella che qualunque autorità può convocare “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo”

2. All’estremo opposto, quale meccanismo che massimamente garantisce il coordinamento, vi è lo strumento della perfetta contitolarità del potere. In questo caso, il potere dovrà essere esercitato in modo congiunto, dando luogo ad un atto che si usa chiamare atto complesso: è il caso degli atti interministeriali. In questo caso l’accordo tra i due ministeri emerge solo al momento dell’emanazione comune dell’atto

3. Tra i due estremi la legislazione conosce fenomeni “intermedi”, in relazione ai quali la decisione che verrà formalizzata nel provvedimento viene parzialmente o totalmente predeterminata nel contenuto:

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a. Una prima tecnica è quella del nulla osta. La legge assegna ad un autorità la competenza a provvedere in una certa materia, ma al tempo stesso stabilisce che l’autorità in questione non possa provvedere favorevolmente, senza il previo consenso di una diversa autorità, titolare della cura di specifici interessi pubblici inevitabilmente coinvolti dal provvedimento, la quale verifica che tali interessi non siano danneggiati dal provvedimento. Se il nullaosta viene negato, il provvedimento richiesto non può essere rilasciato, mentre se esso è dato il provvedimento richiesto potrà essere ancora negato se ve ne sono le ragioni: ragioni collegate a interessi pubblici diversi da quelli dei quali si è disposto con il nullaosta. Il suo carattere decisorio emerge quando deve essere contestato in giudizio: la concessione del nullaosta potrà essere eventualmente impugnata dal terzo danneggiato mentre il suo rifiuto potrà essere impugnato dal destinatario nell’occasione dell’impugnazione del diniego del provvedimento richiesto.

Concerti e intese

Capita che diverse autorità abbiano ciascuna, in relazione ad un determinato potere, un interesse a che esso venga esercitato e che questo avvenga in un certo modo. La legislazione tende in genere ad evitare le situazioni di pura contitolarità, bensì cerca di risolvere il problema attribuendo ad una delle due autorità il compito di provvedere (e dunque la titolarità del potere), al tempo stesso richiedendole di acquisire sul contenuto del provvedimento il concerto o l’intesa di una diversa autorità. Mentre nel caso del nullaosta l’altra autorità si limitava a verificare che gli interesse ad essa affidati non fossero lesi, in questo caso il contenuto del provvedimento interessa nel suo insieme entrambe le autorità.

- L’espressione concerto è in genere usata per i rapporti tra i diversi ministeri: viene affidato ad uno il compito di provvedere, di concerto con uno o più altri, di modo che il primo diviene il ministro concertante mentre gli altri i concertati. Dal punto di vista formale, è il concertante che ha la responsabilità del procedimento.

- L’espressione intesa è utilizzata ogni volta che l’amministrazione titolare del potere di provvedere ha il dovere di acquisire il previo consenso di una diversa amministrazione sul contenuto del provvedimento. Si possono ricordare le intese tra Stato e Regioni interessate per le nomine dei presidenti di determinati enti o per le decisioni circa la realizzazione e la localizzazione di

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determinate opere pubbliche. E’ previsto inoltre che, nel caso in cui l’intesa non si raggiunga entro un termine determinato, lo Stato possa esercitare ugualmente il potere, fornendo adeguata motivazione: in questo caso si dice che l’intesa ha carattere debole.

La conferenza di servizi decisoria

Questa conferenza di servizi serve per decidere. Essa ha luogo quando la disciplina del potere amministrativo prevede la necessità che l’autorità titolare del potere di provvedere acquisisca previamente l’intesa, il concerto, il nullaosta o un altro atto di assenso di una diversa amministrazione pubblica. Inizialmente, la conferenza di servizi, pur accelerando positivamente il procedimento, conservava immutati i rapporti tra i poteri delle diverse autorità amministrative, nel senso che il dissenso di una di esse titolare di uno dei poteri indicati (es. dare o negare un nullaosta) impediva l’emanazione del provvedimento. Successivamente, la disciplina della conferenza di servizi decisoria si è evoluta nella direzione di un progressivo indebolimento dei poteri delle autorità chiamate a consentire l’esercizio del potere o a dissentire da esso. In generale vale la regola stabilita dall’art.14ter co.6bis ossia che all’esito dei lavori della conferenza, l’amministrazione procedente:

“adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede”

Ciò significa che il provvedimento può essere emanato anche a fronte dei dissensi espressi se, a giudizio dell’amministrazione procedente, le posizioni favorevoli risultino prevalenti; con riferimento non solo al numero ma anche al rilievo oggettivo di ciascuna posizione.

Gli accordi tra pubbliche amministrazioni

L’art.15 prevede lo strumento dell’accordo tra pubbliche amministrazioni come modo di “disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune” e stabilisce che “per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste dall’art.11 commi 2,3 e 5”. Gli accordi tra PA hanno dunque lo stesso regime giuridico degli accordi tra PA e privati salvo che per un tratto. Non essendo richiamato il comma 4 non vi è la possibilità di recedere unilateralmente dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse. Ciò si spiega dal fatto che entrambe le PA sono portatrici di interessi pubblici, pertanto non vi è motivo di consentire all’una di liberarsi, mettendo a repentaglio l’interesse pubblico tutelato e

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rappresentato dall’altra. Per il resto il regime giuridico è uguale; soprattutto vige la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

E’ bene sottolineare che in questo caso non abbiamo un determinato procedimento amministrativo al cui interno si colloca l’accordo. Ognuna delle due amministrazioni seguirà un proprio procedimento rivolto a contribuire a determinare la possibilità e i termini dell’accordo.

L’accordo tra PA è un atto di tipo negoziale; qual è allora la differenza rispetto ai comuni contratti di diritto privato stipulati tra PA? La sola circostanza che può indurci a qualificare un accordo tra due PA come accordo di diritto amministrativo è la particolarità del suo oggetto: vi sarà accordo amministrativo solo quando dell’oggetto non possa disporsi mediante contratto di diritto privato, perché esso ha un regime necessario di diritto pubblico (es. due Comuni confinanti si impegnano ad esercitare in un certo modo i propri poteri di pianificazione urbanistica).

Un tipo di accordo amministrativo specificamente disciplinato dalla legge è costituito dagli accordi di programma previsti dall’art.34 d.lgs.n.267 del 2000 per la “definizione e l’attuazione di opere, interventi, programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’azione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali e altri soggetti pubblici”. L’accordo viene approvato con atto formale del presidente della Regione, della provincia o dal sindaco. Esso assume il valore di un provvedimento ai fini della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza.

LA FASE COSTITUTIVA E LA FASE INTEGRATIVA DELL’EFFICACIA

Ad un certo punto, le diverse attività istruttoria e “predecisorie” devono cessare per lasciare il campo all’emanazione del provvedimento vero e proprio, attraverso il quale la decisione viene assunta, o se già assunta in precedenza, viene formalizzata nell’atto destinato a produrre gli effetti esterni. Il provvedimento costituisce sempre un atto volontario: la mancanza di volontà ne causa la nullità. Altra questione è se nel suo contenuto il provvedimento esprima una volontà. I p. infatti non sono tutti uguali: i p. di tipo ordinatorio esprimono senz’altro un contenuto volitivo mentre non si può dire la stessa cosa per gli accertamenti abilitativi o gli atti permissivi; l’interesse pubblico è soddisfatto dagli accertamenti e dalle verifiche che precedono il provvedimento e quest’ultimo, alla fine, non “vuole” proprio nulla.

La forma del provvedimento

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Il provvedimento sarà normalmente un atto scritto, posto in essere attraverso una sola determinazione di una sola autorità competente, cioè un atto semplice. Il carattere di atto scritto corrisponde ad un’esigenza di conoscibilità, certezza e conservazione. L’atto scritto dovrà essere anche sottoscritto, al fine di rendere evidente che l’atto è stato effettivamente voluto dal competente organo. Le autorità competenti saranno a volte organi monocratici (es. il sindaco, il prefetto) altre volte organi collegiali (es. il Consiglio dei ministri, la giunta comunale). L’atto dell’organo collegiale è un’unica determinazione, imputata al collegio nel suo insieme: anche se per la individuazione del suo contenuto è necessario computare i voti espressi dai componenti del collegio secondo le regole proprie della decisione da prendere. L’atto collegiale è dunque un atto semplice. Quanto alla forma, la deliberazione collegiale non è un atto scritto; essa è però, a pena di nullità, documentata per atto scritto attraverso la redazione del verbale. Questo è un atto pubblico ed è sottoscritto nei modi richiesti.

Elementi essenziali e struttura ordinaria del provvedimento

Affinché possa parlarsi di provvedimento amministrativo alcuni elementi sono essenziali:

- Deve risultare identificata l’amministrazione che compie l’atto

- Ci deve essere l’identificazione del potere esercitato (previsto da norme giuridiche)

- Deve esserci un dispositivo nel quale consiste l’esercizio del potere, il quale ovviamente muta a seconda dell’atto

- Devono essere presenti gli elementi formali richiesti (atto scritto, sottoscrizione)

Tuttavia, nella sua struttura ordinaria il provvedimento non si riduce certo a questo. Nella sua ordinarietà, infatti, il provvedimento è articolato nel seguente modo:

- Intestazione che identifica l’amministrazione e l’autorità da cui l’atto proviene

- Data di assunzione o emanazione

- Numero di protocollo e oggetto che lo individuano e ne consentono l’immediato reperimento ogni volta che sia necessario

- Preambolo, formato da considerazioni diverse introdotto da espressioni quali visto, preso atto, sentito, considerato ecc. che serve per illustrare il contesto

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di diritto e di fatto nel quale interviene il provvedimento, nonché l’itinerario procedimentale compiuto. La parte finale si traduce di solito nella motivazione vera e propria

- Parte dispositiva, introdotta da parole che esprimono il tipo specifico del provvedimento, quali ordina, autorizza, concede, aggiudica e simili. Inoltre, a norma dell.art.3 co.4, devono essere indicati il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere

- Sottoscrizione, essenziale per imputare l’atto all’autorità emanante

L’assenza del provvedimento. Il provvedimento permissivo con procedimento di verifica

Vi sono delle ipotesi, nei provvedimenti richiesti dagli interessati, e dunque frutto di procedimento ad istanza di parte, in cui l’amministrazione non assume il provvedimento permissivo.

La prima deriva da disposizioni di legge che radicalmente sostituiscono il provvedimento permissivo con un atto dichiarativo dello stesso privato interessato, al quale fa seguito un procedimento amministrativo di verifica. Non si tratta tuttavia di una vera e propria assenza del provvedimento bensì di una sostituzione di un provvedimento con una procedura di verifica successiva, che potrebbe condurre ad un provvedimento repressivo successivo.

Secondo l’art.19 della l.241/90 invece:

“ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nullaosta comunque denominato” comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio “dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi” e che non rientri tra quelli eccettuati “è sostituito da una dichiarazione dell’interessato” corredata dalle certificazione e dalle attestazioni necessarie.

Il legislatore intende sostituire con la dichiarazione del privato i provvedimenti che da un lato non siano discrezionali né richiedono valutazioni complesse, dall’altro debbano e possano essere rilasciati a tutti coloro che lo richiedano. Che cosa debbono e possono fare dopo la “dichiarazione” sia il privato dichiarante che la PA

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alla quale la dichiarazione è rivolta? Quanto al privato, egli deve in ogni caso attendere 30 giorni, decorsi i quali può iniziare l’attività dandone comunque comunicazione all’amministrazione competente. Quanto all’amministrazione, essa deve iniziare il procedimento rivolto a verificare se in effetti l’attività sia regolarmente svolta e, se ne ricorrono i presupposti, adottare motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività. Per assumerli, la PA dispone di un termine di 30 giorni dal ricevimento della comunicazione. Anche decorso tale termine, la PA può sempre assumere i provvedimenti necessari per far cessare eventuali irregolarità, ove l’interesse pubblico lo richieda.

Questa sostituzione ha reso più complicato la questione della tutela del terzo danneggiato dall’attività in questione. Sostituito il provvedimento con la denuncia di inizio attività, contro quale atto egli può rivolgere il proprio ricorso? La giurisprudenza si è divisa:

- Alcuni sostengono che possa essere impugnata la denuncia stessa, pur essendo atto privato, avendo acquistato la natura di un autorizzazione implicita

- Altri invece, ritengono che il terzo dovrebbe rivolgere il suo ricorso contro il mancato esercizio del potere inibitorio da parte dell’amministrazione o addirittura chiedere l’accertamento, nei confronti dell’amministrazione e del denunciante, dell’insussistenza dei presupposti per la denuncia di inizio attività

L’art.19 co.5 precisa che “il ricorso giurisdizionale, esperibile da qualunque interessato nei termini di legge, può riguardare anche gli atti di assenso formati in virtù delle norme sul silenzio assenso previste dall’art.20”.

Il silenzio-inadempimento

Al di fuori dei casi di applicazione della dichiarazione di inizio attività, i procedimenti relativi agli atti permissivi, aperti da una domanda dell’interessato, dovrebbero concludersi con la determinazione, positiva o negativa, dell’amministrazione. Ciò significa che, tranne nel caso di apertura discrezionale, la conclusione tacita del procedimento costituisce di per sé una violazione dei doveri incombenti sull’autorità amministrativa. Ma il fatto che la conclusione tacita del procedimento sia illegale

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non significa che essa non si verifichi. Di fronte al silenzio dell’amministrazione la legge può assumere diversi atteggiamenti:

- Può introdurre rimedi amministrativi rivolti a far sì che l’omissione cessi, prevedendo una competenza sostitutiva della prima non esercitata

- Può direttamente qualificare l’omissione, assimilandola ad una decisione che può essere:

o negativa (silenzio-diniego)

o positiva (silenzio-assenso)

Rimane comunque il problema relativo alle ipotesi in cui al “silenzio” dell’amministrazione non è assegnato alcun significato, e nelle quali dunque esso non assume altro valore che quello di inadempimento di un dovere giuridico. La legge n.205 del 2000 ha stabilito che, ove di fronte ad un istanza l’amministrazione rimanga inerte, e tale inerzia non sia espressamente qualificata come decisione negativa o positiva, l’interessato potrà reagire attraverso un apposita azione. Ed a seguito di tale azione il giudice amministrativo potrà anche “conoscere della fondatezza dell’istanza”.

Il silenzio assenso

L’ipotesi dell’assimilazione del silenzio ad una determinazione positiva (cd. silenzio assenso) privilegia l’interesse dei richiedenti, che rimane in definitiva soddisfatto, a potenziale scapito dell’interesse pubblico. Stabilisce l’art.20 della l.241/90 che fatti salvi i casi in cui il provvedimento permissivo sia sostituito dalla dichiarazione dell’interessato:

“nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide nel caso l’amministrazione non provveda entro il termine previsto”

Il silenzio assenso non si applica, ovviamente, senza eccezioni. La legge prevede che esso non si applichi agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale, la sicurezza pubblica, l’immigrazione, l’asilo, la cittadinanza, la salute, la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti formali ed ai casi in cui la legge qualifica il silenzio come rigetto dell’istanza (co.4). Inoltre il Pres. del consiglio può

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individuare altri atti e procedimenti in relazione ai quali non opera il silenzio assenso.

Anche nell’ambito di applicazione del silenzio assenso, comunque, l’amministrazione ha modo di scegliere una via diversa, ove nei 30 giorni dalla presentazione della domanda indica una conferenza di servizi “anche tenendo conto delle situazioni giuridiche dei controinteressati” co.2. Si ricordi comunque che anche nei casi in cui è previsto che il silenzio valga come assenso l’autorità amministrativa ha il dovere di provvedere in modo espresso; dunque questo non consegue ad un procedimento “speciale” ma ad un procedimento che segue tutte le regole normali, tranne il fatto che ove l’amministrazione ometta di provvedere la legge dà per acquisito un provvedimento positivo.

Su che cosa si forma precisamente l’assenso?

Occorre fare riferimento alla domanda del privato, il cui oggetto definisce anche il contenuto del (fittizio) provvedimento. Pur essendo frutto di una violazione del dovere di conclusione espressa, il provvedimento così assunto non può essere considerato illegittimo dato che è la legge stessa che equipara il silenzio all’atto positivo. Ciò non toglie che esso possa essere illegittimo per altre ragioni: ad es. perché le norme, rettamente interpretate, non consentirebbero di dare il permesso richiesto. Ugualmente, chi abbia un interesse opposto al rilascio del permesso può impugnare la decisione silenziosa per contestarne la legittimità.

Il provvedimento perfetto

Esercitato il potere amministrativo il provvedimento è perfetto. Ciò non significa che questo sia anche legittimo. Ugualmente, solo un provvedimento perfetto può essere efficace, nel senso di produrre gli effetti giuridici che gli sono propri.

Si tenga presente che un provvedimento amministrativo può produrre solo effetti giuridici, anche se il suo scopo ultimo e produrre effetti pratici. Naturalmente, il provvedimento è posto in essere perché divenga giuridicamente efficace, il che a sua volta è necessario affinché esso possa risultare anche pienamente efficace. Tuttavia, non è detto che il provvedimento perfetto sia anche immediatamente efficace. Può accadere infatti, che le norme che disciplinano il potere condizionino l’efficacia del provvedimento ormai perfetto all’intervento di altri atti o fatti.

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In sintesi dunque, il provvedimento perfetto può essere, a seconda dei casi, legittimo o illegittimo, efficace o inefficace.

L’integrazione dell’efficacia.

Le ragioni per le quali le norme che disciplinano il potere possono disgiungere il momento dell’efficacia giuridica dal momento della perfezione della fattispecie del provvedimento, e subordinare l’efficacia all’intervento di ulteriori atti o fatti giuridici, sono riconducibili a quattro esigenze:

1) l’esigenza che l’esistenza del provvedimento sia previamente conosciuta

2) l’esigenza che l’opportunità o la validità legale del provvedimento siano previamente verificate

3) l’esigenza che certi provvedimenti non producano i loro effetti in assenza di un atto di accettazione da parte del destinatario

4) l’esigenza che l’attuazione del provvedimento favorevole al destinatario sia preceduta da adempimenti che interessano l’amministrazione

L’esigenza che l’esistenza del provvedimento sia previamente conosciuta si distingue a seconda che riguardi singoli soggetti o una pluralità (un insieme o una comunità).

Nel primo caso si usano gli strumenti di comunicazione personale (notificazione, lettera raccomandata); queste forme di comunicazione sono rivolte a produrre nel destinatario la conoscenza dell’atto, ma in realtà ciò che esse garantiscono e che l’atto entri nella sua sfera di conoscibilità. E’ opportuno precisare poi che la previsione di una comunicazione non significa autonomamente che tale comunicazione costituisca condizione di efficacia del provvedimento. Quando questo accade il provvedimento si usa chiamare recettizio, per indicare che la comunicazione personale costituisce condizione di efficacia.

Nel secondo caso, l’efficacia viene spesso subordinata al presupposto della pubblicazione (“ogni attività idonea a portare un fatto o atto a conoscenza di una generalità di soggetti”) che potrà consistere in pubblicazioni a mezzo stampa, affissioni in appositi spazi, pubblicazioni nella rete internet (l’art.32 co.1 stabilisce che “gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati”). Anche per la pubblicazione occorre distinguere a seconda se tale adempimento è richiesto

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come presupposto dell’efficacia dell’atto oppure no (la p. è allora detta meramente notiziale).

L’esigenza che l’opportunità o la validità legale del provvedimento siano previamente verificate si soddisfa attraverso atti di controllo. I controlli sugli atti si distinguono in controlli di legittimità o di merito, a seconda che il parametro di giudizio siano le norme giuridiche o criteri di opportunità e di buona amministrazione.

I controlli di merito permettono al controllante di sovrapporre le proprie valutazioni discrezionali a quelle dell’autorità dotata della competenza: se è vero che in teoria il potere di controllo è solo negativo, in pratica l’autorità competente, per poter agire, deve per forza assicurarsi il consenso dell’organo di controllo, con la conseguenza che il potere di decidere risulta nei fatti condiviso, pur se la responsabilità dell’atto rimane alla sola autorità competente. Tali controlli sono praticamente scomparsi dall’ordinamento italiano.

I controlli di legittimità anticipano, sulla base di un parametro “oggettivo”, un sindacato che potrebbe poi essere esperito dal giudice e in un certo senso proteggono la stessa amministrazione dalle conseguenze negative dei provvedimenti illegittimi. Con la sentenza n.64 del 2005 la Corte costituzionale ha confermato che “con il nuovo Titolo V, i controlli di legittimità sugli atti amministrativi degli enti locali debbono ritenersi espunti dal nostro ordinamento”. Rimangono, attualmente, i controlli di legittimità della Corte dei conti su alcuni provvedimenti amministrativi dello Stato e gli eventuali atti di controllo previsti dalla legislazione nei rapporti tra lo Stato e altri enti pubblici. Dove esista, il controllo deve essere effettuato entro un termine breve, decorso il quale l’atto acquista efficacia ugualmente. Una volta intervenuto l’atto positivo di controllo, il provvedimento diviene efficace; si ritiene che l’efficacia retroagisca fin dal momento della perfezione dell’atto.

Alcuni atti non acquistano la loro piena efficacia sino a quando non intervenga l’accettazione del destinatario. Si tratta naturalmente di provvedimenti favorevoli. Richiedono l’accettazione gli atti che da un lato non siano stati espressamente richiesti, dall’atro, pur essendo favorevoli comportino anche doveri. E’ il caso tipico del conferimento della titolarità di organi mediante elezione o nomina.

Infine, l’efficacia dei provvedimenti può essere subordinata ad adempimenti vari, sia da parte della stessa amministrazione sia da parte dello stesso interessato. Così il

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permesso edilizio non può essere utilizzato se non viene ritirato, ed il ritiro è subordinato al pagamento degli oneri di urbanizzazione.

L’INVALIDITA’ DEL PROVVEDIMENTO

Quali conseguenze produce l’emanazione di un provvedimento, in violazione di taluna delle regole che disciplinano il provvedimento stesso o il procedimento da seguire per la sua emanazione? Il vero problema sta nel collegamento che debba o possa essere stabilito tra la violazione delle regole e gli effetti giuridici che il provvedimento ha prodotto o era destinato a produrre. Occorre domandarsi:

- Qualunque violazione delle regole produce conseguenze sulla capacità del provvedimento di produrre gli effetti che gli sono propri?

- Tali conseguenze quali sono? Sono sempre le stesse?

Nel nostro ordinamento non è detto che qualunque violazione produca conseguenze sulla capacità del provvedimento di produrre validamente gli effetti che gli sono propri. A tal proposito si distinguono 3 diverse categorie di violazioni.

1) Irregolarità: la violazione non comporta alcuno stato di invalidità (vedi art.21 octies l.241/90)

2) Nullità: la violazione comporta il disconoscimento del nesso tra il venire in essere del provvedimento e gli effetti che in teoria gli sono propri; il provvedimento in questo caso non produce effetto alcuno

3) Annullabilità: la violazione comporta che gli effetti del provvedimento sono suscettibili di essere eliminati d’ufficio dalla stessa amministrazione o a seguito di apposita azione esperita entro termini di decadenza innanzi al giudice amministrativo da soggetti provvisti di una speciale legittimazione all’impugnazione del provvedimento

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Da tale distinzione si deduce che la sanzione dell’invalidità dell’atto non è una conseguenza naturale della violazione della norma bensì una conseguenza disposta dall’ordinamento a tutela dell’interesse pubblico. Dunque la sanzione dell’invalidità ha un senso quando vi sia un ragionevole collegamento tra la violazione commessa e la lesione degli interessi.

In definitiva, la questione fondamentale è quella del rapporto tra la violazione ed il contenuto lesivo del provvedimento. Secondo l’art.21 octies, la violazione risulterà irrilevante, ove l’atto sia vincolato ed ove la natura dovuta di quel provvedimento sia palese. A tali condizioni l’atto, dice la legge, non è annullabile, con ciò intendendosi che esso non è invalido.

Gli stati di invalidità. Il regime ordinario di annullabilità

Il regime ordinario del provvedimento invalido è quello dell’annullabilità, caratterizzato da alcuni elementi caratteristici.

a. L’esistenza del provvedimento comporta la produzione degli effetti giuridici che gli sono propri, a prescindere dalla questione di invalidità

b. La facoltà di esperire i rimedi giuridici avverso il procedimento non è aperta a tutti, bensì è ristretta ai titolari di specifiche situazioni soggettive, che normalmente vengono definite come situazioni di interesse legittimo.

c. La facoltà di esperire i rimedi giuridici avverso il procedimento è soggetta a un termine breve (generalmente 60 giorni) decorso il quale il provvedimento diviene inoppugnabile, e le situazioni giuridiche da esso create si consolidano, e non possono ulteriormente essere poste in discussione.

La nullità e l’inesistenza

L’art.21 septies della legge 241/90 stabilisce che:

“è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato e negli altri casi stabiliti dalla legge”

Alla luce dei primi due punti è nullo dunque un provvedimento:

- In cui non sia stata completata la fase costitutiva

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- In cui manchi una forma richiesta come requisito essenziale

- Che non sia possibile riferire ad un’autorità amministrativa

- Che sia il frutto dell’esercizio da parte di un’autorità amministrativa di un potere esistente ma estraneo alle proprie attribuzioni o al proprio ambito territoriale

- Che sia il frutto dell’esercizio di un potere esso stesso inesistente nell’ordinamento giuridico

Quanto al terzo punto, si ha violazione o elusione del giudicato quando l’amministrazione si ostini a non rispettare la statuizione giurisprudenziale passata in giudicato emanando provvedimenti formali che con questa si pongano in contrasto. Si riconosce inoltre l’applicabilità ai provvedimenti amministrativi nulle del principio fissati per i contratti dall’art.1424 del cod.civ. in base al quale l’atto nullo può produrre gli effetti di un atto diverso, dei quali contenga i requisiti di sostanza e di forma, ove si debba ritenere che l’autorità lo avrebbe voluto ove avesse conosciuto la nullità dell’atto emanato (cd. conversione del p. nullo).

I vizi che determinano l’annullabilità. Il principio di giustiziabilità

Ogni violazione di regola o principio giuridico relativa al procedimento o al provvedimento determina l’annullabilità di questo, quando non si rientri in un caso di mera irregolarità o in una delle eccezionali ipotesi di nullità. Ogni classificazione delle ipotesi di annullabilità non può avere che un valore di conoscenza pratica. Infatti, la giurisprudenza individua i casi di annullabilità raggruppandoli nei diversi tipi di vizio che più frequentemente ricorrono.

L’art 113 della Costituzione enuncia il principio di giustiziabilità dei provvedimenti:

“Contro gli atti della Pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi. Tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”

L’art.21-octies afferma che “è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o viziato da incompetenza”. E’ bene sottolineare come questa non sia una definizione limitativa dei vizi di legittimità; i tre vizi elencati sono in realtà dei “contenitori” che possono essere riempiti di contenuti sempre nuovi.

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L’incompetenza

L’incompetenza è il frutto di un errore di diritto sulla titolarità del potere: agisce un’autorità diversa da quella cui è assegnato il potere.

Se il potere non è assegnato ad alcuna autorità è chiaro che il potere non esiste e che quindi si tratterebbe di un caso di nullità.

Più complessa è invece la situazione se il potere amministrativo esercitato esiste, ma è attribuito ad una diversa autorità amministrativa; così com’è questa definizione finisce infatti per assegnare il regime di annullabilità ad ipotesi per le quali esso non appare adeguato. Si pensi al caso di una patente di guida rilasciata dal rettore di un Università: la radicale estraneità dell’organo agente al potere esercitato ha portato a ritenere questa grave forme di incompetenza come incompetenza assoluta ed ad affermare che questa provochi la nullità ed inesistenza del provvedimento. Si ha incompetenza assoluta allora, quando l’organo provvedente e l’organo competente appartengono a diverse amministrazioni.

Si ha invece incompetenza relativa quando il provvedimento è assunto da un organo che appartiene alla stessa amministrazione cui appartiene l’organo che avrebbe dovuto legalmente provvedere. Problemi possono sorgere quando diverse amministrazioni abbiano competenza in relazione a poteri simili o esercitano competenze connesse; in simili casi si ritiene non esista un difetto assoluto di attribuzione.

La violazione di legge

Per violazione di legge si intende la violazione di qualunque norma vigente, che l’amministrazione sia tenuta ad osservare, indipendentemente dalla sua origine e dal suo rango nel sistema delle fonti.

In realtà anche il vizio di incompetenza è, da questo punto di vista, una violazione di legge; tuttavia è risultato agevole intendere per violazione di legge ogni violazione di una precisa norma giuridica, diversa dalla violazione delle norme sulla titolarità del potere, cioè sulla competenza.

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In concreto potrà trattarsi della violazione sia di norme organizzative che di norme sul procedimento, che di norme sul provvedimento: e queste potranno riguardare sia i presupposti che lo stesso contenuto del provvedimento.

L’eccesso di potere. Lo sviamento

In che cosa consiste il vizio di eccesso di potere? Alla categoria non può essere attribuito altro significato che quello che esso ha storicamente assunto; esso è la categoria che la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha utilizzato per mano a mano individuare e colpire tutti i difetti del provvedere, che non fossero ben inquadrabili in alcune delle altre due situazioni, e nei quali non fosse riscontrabile alcuna violazione di una precisa norma giuridica. Essa ha dunque assunto la funzione di una sorta di clausola residuale in relazione a vizi “innominati” e di meno agevole identificazione.

Il primo vizio ad essere classificato come eccesso di potere fu lo sviamento di potere: questo è una deviazione rispetto al fine istituzionale del provvedimento che si riscontra quando il fine effettivamente perseguito nel provvedere risulti diverso. I casi di sviamento sono quelli in cui il p. si presenta in apparenza come legittimo, ma in cui vi sono ragioni oggettive per ritenere che in realtà persegue un fine diverso da quello previsto per legge. La sua dimostrazione non è agevole poiché l’atto non dichiara il motivo reale e questo deve risultare in qualche altro modo: ad esempio dagli atti del procedimento, o da provvedimenti concomitanti o di poco successivi, o da circostanze note e risapute da tutti ecc.

Le figure sintomatiche

La giurisprudenza ha progressivamente allargato il campo di applicazione dell’eccesso di potere, attraverso l’individuazione e l’elaborazione delle cosiddette figure sintomatiche. Esse sono:

1. Difetto di motivazione

2. Vizi di una motivazione esistente

a. Motivazione apparente (es. il mero richiamo a ragioni di interesse pubblico non meglio individuate)

b. Motivazione insufficiente (pur indicando i motivi, non si tiene conto di un parere contrario)

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c. Motivazione contradditoria (si traggono conseguenze incongrue rispetto alle premesse)

3. Ingiustizia manifesta: provvedimento talmente incongruo da superare i confini di ogni pensabile scelta discrezionale

4. Disparità di trattamento: provvedimenti sfavorevoli emanati nei confronti di certi destinatari, mentre altri destinatari in identica situazione hanno ottenuto un provvedimento favorevole

5. Violazione della prassi: implica l’immotivato allontanamento dal modo in cui l’amministrazione ha provveduto nel passato nella stessa situazione

6. Travisamento dei fatti: il provvedimento è assunto sulla base di una base conoscitiva erronea

7. Insufficienza istruttoria: la base conoscitiva assunta nel procedimento, pur non essendo erronea, è inadeguata all’importanza e complessità delle scelte da compiere

I principi di ragionevolezza e di proporzionalità

Le figure sintomatiche in realtà possono venire qualificate come specifiche manifestazioni di principi giuridici codificati nella Costituzione; in particolare i principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione sanciti dall’art.97.

Contemporaneamente, appaiono principi nuovi:

- In primo luogo, emerge come criterio di verifica delle scelte dell’amministrazione sul piano della legittimità il principio di ragionevolezza, riferito sia al contenuto delle decisioni prese sia alle modalità con cui esse vengono prese.

- In secondo luogo, con particolare riferimento ai provvedimenti che impongono oneri ai privati pe il conseguimento dei fini pubblici, si afferma come parametro di legittimità il principio di proporzionalità. Esso consente di sottoporre il provvedimento oneroso dell’amministrazione a una triplice verifica:

o Se esso sia idoneo a raggiungere lo scopo

o Se esso sia necessario al raggiungimento di tale scopo

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o Se il sacrificio imposto al destinatario sia proporzionato allo scopo da raggiungere

Concludendo, l’eccesso di potere non è altro allora che una formula di carattere residuale per indicare tutti i vizi – diversi tra di loro – che non si esauriscono nella mera trasgressione di una specifica norma giuridica.

EFFICACIA ED ESECUZIONE DEL PROVVEDIMENTO

L’ambito di efficacia nello spazio del provvedimento corrisponde a quello dell’ordinamento che prevede il potere amministrativo, nel senso che ogni ordinamento non può disporre nulla al di fuori del proprio ambito di operatività. Quale significato allora assumono i provvedimenti di autorità di un certo ordinamento (es. italiano) per un altro ordinamento? Conviene distinguere tra provvedimenti che si riferiscono ad attività localizzate in Italia e p. che si riferiscono ad attività che possono essere svolte anche nell’altro ordinamento. Nel primo caso, gli altri ordinamenti si limitano a prenderne atto. Nel secondo caso invece, possono riconoscere i provvedimenti dati da uno Stato per consentire all’interessato di svolgere la stessa attività nel proprio territorio. In questo caso è necessario che esistano norme che riconoscano, spesso sulla base di accordi o unilateralmente, efficacia giuridica ai provvedimenti stranieri.

Tale fenomeno ha assunto un significato particolare nell’ambito dell’UE. Così il principio di libera circolazione delle merci implica il mutuo riconoscimento delle discipline e dei provvedimenti che riguardano quei prodotti. Per certi prodotti soggetti negli ordinamenti nazionali a procedure autorizzatorie, sono state create apposite procedure che consentono a tutti gli Stati membri di partecipare alla decisione sulla domanda presentata nell’ambito di un singolo Stato, e che in caso di disaccordo tra gli Stati spostano la competenza al livello europeo. Nei casi disciplinati dal diritto europeo, l’operatività dei provvedimenti per tutto il territorio europeo si fonda direttamente sulle regole dell’ordinamento europeo.

L’efficacia del provvedimento nel tempo

Come si collocano gli effetti giuridici del provvedimento nel tempo una volta prodotti? Per regola generale gli effetti si producono per il futuro; il provvedimento non retroagisce. La retroattività è un fenomeno eccezionale che può giustificarsi sulla base di una espressa disposizione di legge in questo senso.

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Dal punto di vista del momento in cui si produce, l’efficacia del provvedimento quale atto giuridico è sempre istantanea, nel senso che il p. quale atto giuridico diviene efficace in un certo punto nel tempo. Tuttavia il rapporto del contenuto dispositivo del p. con la dimensione temporale può essere diverso.

- Vi sono provvedimenti ad efficacia istantanea che si riferiscono a comportamenti o fattispecie specificatamente e concretamente individuati, costituenti un evento o azione unici e non ripetibili. Tuttavia, il compimento dell’azione così legittimata talvolta richiede tempo, al punto che i suoi termini temporali possono o devono essere fissati nel tempo; trascorsi i termini c’è decadenza dalla possibilità di compiere l’azione.

- Altri provvedimenti si riferiscono a classi o tipi di comportamento destinati a essere ripetuti nel tempo. In questi casi si parla di provvedimenti con efficacia di durata o continuata. In particolare in relazione a tali atti si pone il problema del sopraggiungere di circostanze, in relazione alle quali quanto disposto dal p. risulti incongruo. In simili casi, si pone la questione del potere o dovere della PA di revocare il provvedimento. Molto spesso il legislatore si cautela in anticipo, stabilendo una durata legale al provvedimento, cioè delimitando nel tempo il periodo nel quale il comportamento è consentito.

Efficacia ed esecutività. Provvedimenti che non richiedono attuazione

Una volta terminato il procedimento, il provvedimento produce i propri tipici effetti giuridici. Non è detto, tuttavia, che la produzione degli effetti giuridici sia sufficiente a soddisfare gli interessi pubblici in vista dei quali il provvedimento è stato emanato. Spesso, tali interessi vengono in realtà soddisfatti soltanto dalla concreta attuazione del provvedimento. Il rapporto tra gli effetti giuridici del provvedimento e gli interessi pubblici che ne costituiscono la ragione non è sempre lo stesso:

- Vi sono provvedimenti che non richiedono attuazione alcuna

- Vi sono provvedimenti che richiedono attuazione da parte del privato

- Vi sono provvedimenti che devono essere attuati dalla stessa PA

- Vi sono provvedimenti che devono essere attuati da altri p. o atti giuridici, della stessa o di altre PA

Si indica con il termine esecutività la condizione del provvedimento che, divenuto efficace, può o deve essere eseguito, o del provvedimento del quale l’interessato può cominciare ad avvalersi. Il fatto che il provvedimento efficace sia esecutivo non 50

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significa che tutti i provvedimenti richiedano specifica attuazione, dal punto di vista dell’interesse pubblico (non richiedono attuazione i provvedimenti permissivi resi ai privati su loro richiesta e nel loro esclusivo interesse quale ad es. il rilascio della patente di guida). In questo caso, l’interesse pubblico è soddisfatto dall’esistenza stessa del procedimento di verifica dei requisiti, e la connessa garanzia che in assenza di tali requisiti il permesso sarà negato e l’attività rimarrà illecita.

Provvedimenti che creano un obbligo di esecuzione nei privati destinatari. I provvedimenti esecutori

Altre volte il provvedimento costituisce lo strumento per obbligare il destinatario ad un comportamento. Si tratta tipicamente degli ordini. In questo caso la procedura non soddisfa affatto l’interesse pubblico e neppure lo soddisfa l’effetto giuridico del provvedimento. Esso risulta soddisfatto solo dal comportamento del destinatario, ove questo si conformi all’obbligo creato dal provvedimento. Se egli non lo fa le norme dell’ordinamento predispongono i necessari rimedi. In alcuni casi potranno tradursi in sanzioni amministrative, penali o di diverso genere. In altri casi può essere essenziale un rimedio che garantisca in pratica un risultato equivalente a quello della spontanea esecuzione. Questo fenomeno prende il nome di esecutorietà che consiste nel potere dell’amministrazione di portare ad esecuzione coattiva taluni dei propri provvedimenti. L’esecutorietà caratterizza solo quei provvedimenti che determinano un dovere in capo al privato destinatario ed inoltre soltanto nei confronti di quei provvedimenti, che le norme dell’ordinamento che disciplinano il potere, autorizzano l’amministrazione ad eseguire coattivamente.

L’art. 21 ter della legge 241/90 stabilisce che: “le PA possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti, solo nei casi e nelle modalità stabilite dalla legge. Qualora l’interessato non ottemperi, le PA, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge”

Provvedimenti che devono essere seguiti dalla PA. Relazione tra provvedimenti connessi

Numerosi provvedimenti devono essere eseguiti dalla stessa PA. In primo luogo si tratta dei p. emanati per assicurare l’esecuzione di un provvedimento ordinatorio rimasto inadempiuto. Ugualmente devono essere eseguiti di regola dalla PA i provvedimenti emessi nell’esercizio dei poteri “gestionali”.

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Spesso l’esecuzione dei provvedimenti richiede altri provvedimenti e altri atti; si può dire che vi sono provvedimenti che sono “anelli” di una catena di provvedimenti, tutti necessari per la realizzazione del risultato (ad es. la realizzazione di un opera pubblica).

In altri casi provvedimenti diversi sono connessi in modo tale che l’uno sta “a monte” dell’altro, o l’uno forma il necessario presupposto dell’altro, senza però che tale rapporto si possa definire un vero rapporto di attuazione: piuttosto il primo contribuisce a definire, integrando le norme di legge, il quadro dei riferimenti e dei vincoli giuridici al cui interno deve collocarsi il secondo.

I PROVVEDIMENTI DI SECONDO GRADO

I provvedimenti di secondo grado sono i provvedimenti che hanno ad oggetto altri provvedimenti. Il loro scopo è sempre di regolare determinati rapporti della vita, soltanto che tali rapporti non vengono regolati direttamente bensì attraverso un intervento sul precedente provvedimento che già li regolava. I provvedimenti di secondo grado possono avere ad oggetto:

- Il contenuto del precedente provvedimento, dando luogo a:

o modifiche o varianti

- Gli effetti del precedente provvedimento, dando luogo a:

o sospensione

o proroga

o rinnovo

o revoca

o rimozione

- Il provvedimento stesso come fattispecie complessiva dando luogo a:

o convalida

o annullamento

o conferma

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Modifiche o varianti

E’ suscettibile di modifica il contenuto dei provvedimenti rivolti a regolare un’attività che si prolunga nel tempo, sia che si tratti di un’unica azione complessiva, sia che si tratti di una pluralità di comportamenti ripetibili nel tempo, e sempre che il contenuto regolativo del provvedimento non sia esaustivamente predeterminato dalla legge. Le modifiche costituiscono esercizio dello stesso potere amministrativo esercitato per il provvedimento originario e sono soggette in linea di massima alle stesse regole di queste. Tuttavia può accadere, quando il procedimento si base sia molto complesso, che per varianti minori possa essere previsto un procedimento semplificato. Le modifiche operano dal momento dell’efficacia del provvedimento di modifica.

Sospensioni, proroghe e rinnovi

La sospensione consiste in un temporaneo venir meno dell’efficacia o dell’esecutività di un provvedimento che l’avesse già acquisita. L’art.21 quater co.2 dispone che:

“l’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge”

Pare difficile ammettere che possano essere sospesi in via amministrativa atti i cui effetti sono irreversibilmente compiuti (es. un espropriazione per pubblica utilità) o entrati nel patrimonio del destinatario (ed. la patente di guida). Quando l’a. possa ancora disporre degli effetti dell’atto potrà non risultare chiaro ed è necessario dunque una attenta interpretazione della specifica normativa di riferimento. Lo stesso art.21 quater inoltre prescrive che il termine della sospensione deve essere “esplicitamente indicato nell’atto che la dispone” e che esso possa “essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze”. Attenzione! Tale potere generale di sospensione non va confuso con il potere (o dovere) che talvolta le leggi prevedono di sospendere l’efficacia di provvedimenti favorevoli come misura sanzionatoria di abusi o illeciti amministrativi commessi dal destinatario.

Sono soggetti a proroga i provvedimenti che si riferiscono ad attività che devono essere compiute entro un ambito temporale limitato, e la proroga consiste nel prolungamento di tale ambito oltre il termine originariamente previsto. Affinché la

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proroga sia possibile occorre che il tempo di efficacia non sia rigidamente definito dalla norma o che questa preveda questa possibilità.

Funzionalmente simili alle proroghe sono i provvedimenti di rinnovo. Questi si riferiscono ad attività che di per sé sono destinate ad essere svolte per un tempo indeterminato, mentre il provvedimento che le consente è efficacie per un periodo determinato. Il provvedimento è tuttavia istituzionalmente rinnovabile. La ragione del termine di efficacia posto al p. originario e della necessità del rinnovo, sta nell’opportunità di procedere a verifiche periodiche del perdurante possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento dell’attività. I rinnovi sono realmente provvedimenti di secondo grado? La connessione con il p. rinnovato rimane rilevante sotto molti profili. Da un lato il procedimento di rinnovo potrebbe risultare semplificato rispetto al precedente, dall’altro il diniego di rinnovo equivale in sostanza a un provvedimento che vieta l’attività, e come tale lo tratta la giurisprudenza amministrativa, sospendendone, ove ne ricorrano i presupposti, in via cautelare l’esecuzione.

La revoca

La revoca consiste nella privazione dell’efficacia di un provvedimento favorevole ad efficacia durevole attualmente operante. Esistono diverse forme di revoca.

- Si parla di rimozione o abrogazione quando nel corso del tempo vengano meno i requisiti legali o le circostanze oggettive alla cui esistenza era subordinato il provvedimento: in questo caso l’autorità amministrativa avrà non solo il potere ma altresì il dovere di porre nel nulla gli effetti del provvedimento

- Esistono poi forme di revoca sanzionatoria, collegate all’esigenza di colpire con una misura deterrente determinate trasgressioni, da parte del titolare di una licenza, delle regole di svolgimento dell’attività autorizzata. Queste forme di revoca sono soggette a principio di legalità e dunque possono esistere in quanto espressamente previste

Al di fuori di queste ipotesi la revoca è ora disciplinata dall’art.21 quinquies, secondo il quale:

“per sopravvenuti motivi di interesse pubblico ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il

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provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge”

La revoca determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti; inoltre, se la revoca comporta pregiudizi nei confronti dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo e vige la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Misure relative ad atti illegittimi. L’annullamento d’ufficio

L’art.21 nonies co.1 ha stabilito che il provvedimento illegittimo:

“può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e degli controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.

La sola illegittimità non è dunque sufficiente a giustificare l’annullamento d’ufficio, ma è necessario che tale misura sia richiesta per la tutela di uno specifico interesse pubblico. La legalità è infatti un valore importante, ma non è il solo; sono valori importanti anche la certezza e la stabilità delle situazioni create dal provvedimento. La norma precisa inoltre che l’annullamento d’ufficio deve intervenire “entro un termine ragionevole”; scaduto tale termine il provvedimento non potrà essere più annullato d’ufficio. Inoltre, la “ragionevolezza” del termine dipenderà da un complesso di fattori, quali il carattere palese o nascosto del vizio, il tempo della sua scoperta, la consapevolezza che le stesse parti private possano averne, la rilevanza rispettiva degli interessi pubblici e privati.

Convalida e sanatoria

L’art.21 nonies co.2 ha stabilito che:

“è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole”

Per convalida, si intende un provvedimento che espressamente rimuove un vizio di legittimità che colpisce un precedente provvedimento. Sicuramente non sono

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suscettibili di convalida i provvedimenti viziati nel contenuto o per la mancanza dei presupposti richiesti, o i p. affetti da vizi quali lo sviamento di potere, irragionevolezza, difetto di proporzionalità, disparità di trattamento, travisamento dei fatti. Né sono convalidabili atti affetti da vizi “procedimentali” come l’omissione della comunicazione dell’avvio del procedimento o del preavviso di rigetto di un’istanza. Il solo caso non problematico è la convalida del provvedimento viziato da incompetenza relativa, che è anche il solo che trova un fondamento legislativo specifico nell’art.6 l.249n del 1968. Essa si effettua mediante una espressa determinazione in questo senso da parte dell’autorità competente e, può intervenire anche nel corso di un giudizio di impugnazione già instaurato avverso il procedimento.

Si parla invece si sanatoria, quando l’effetto sanante può essere prodotto dal successivo intervento di atti che secondo il normale svolgimento procedimentale avrebbero dovuto intervenire prima del provvedimento (es. successivo venire in essere di un nullaosta che l’autorità avrebbe dovuto acquisire prima di provvedere). Si noti che nessun effetto sanante viene riconosciuto al successivo intervento di pareri che avrebbero dovuto essere attesi prima della decisione. Ciò perché molto spesso gli organi consultivi fanno parte della stessa amministrazione decidente, e vi è il timore che pareri che intervengano successivamente possano essere essi stessi influenzati dalla decisione assunta.

Ancora diverso è il caso dei provvedimenti rilasciati in sanatoria: in questi casi, a certe condizioni previste dalle leggi in via ordinaria o straordinaria, l’autorizzazione che avrebbe dovuto essere richiesta prima dell’inizio dell’attività può essere rilasciata dopo, con l’effetto di rendere legittima la permanenza di ciò che costituisce il risultato dell’attività. Non si tratta di un provvedimento di secondo grado dato che manca un precedente provvedimento.

Gli atti confermativi

Capita che un soggetto chieda all’amministrazione di riesaminare un provvedimento a lui sfavorevole, che non è stato impugnato e per il quale è scaduto il termine di impugnazione, allegando elementi nuovi o circostanze sopraggiunte che ne importerebbero l’annullamento o almeno la rimozione. Se l’amministrazione si convince delle ragioni del richiedente provvederà ad annullare d’ufficio o a rimuovere il procedimento oppure se non se ne convince comunicherà la conferma del provvedimento.56

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Che cos’è questa “conferma”? La giurisprudenza distingue tra:

- L’atto confermativo, che si presenta quando non viene svolto alcun nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto e nessuna nuova valutazione e l’amministrazione si limita a richiamare, ricordandone il contenuto, un precedente provvedimento

- Il provvedimento di conferma, che si verifica quando l’amministrazione compie una nuova valutazione degli elementi di fatto e di diritto, riesaminando la situazione alla luce della richiesta dell’interessato; con ciò manifesterebbe la volontà di rivedere ex novo l’affare e dunque opererebbe una novazione della volontà amministrativa, la quale consisterebbe addirittura nell’annullamento del primo provvedimento.

Sembra evidente che se il richiedente allega fatti idonei a far sorgere nell’amministrazione il dovere di riconsiderare il precedente provvedimento, saranno in primo luogo impugnabili sia la semplice inerzia dell’amministrazione sia l’atto con il quale essa neghi tale idoneità, e che dunque il giudice potrà stabilire il dovere dell’amministrazione di decidere sull’istanza in modo appropriato.

Ove invece l’amministrazione, prese in doverosa considerazione le allegazioni del richiedente, ritenga che esse non conducano all’annullamento o alla rimozione del precedente provvedimento, questa decisione sarà certamente impugnabile da chi affermi che le ragioni allegate dall’amministrazione siano viziate o incongrue: ma oggetto dell’impugnazione sarà esclusivamente il nuovo procedimento, mentre alla rimozione o annullamento del precedente non potrebbe che giungersi in sede di esecuzione della sentenza favorevole.

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LE ATTIVITA’ DI SERVIZIO PUBBLICO

Costituiscono servizio pubblico le attività rivolte a produrre utilità per la comunità, quando il loro stesso svolgimento e le relative modalità sono determinati dalle decisioni regolative delle istituzioni pubbliche e non dalle spontanee convenienze del mercato. Dunque, esiste un servizio pubblico laddove esso sia organizzato direttamente o almeno a cura dell’amministrazione pubblica che lo ha deciso (mediante un soggetto, detto concessionario, che svolge l’attività per conto e su mandato dell’amministrazione).

La nozione specifica di servizio pubblico non comprende l’esercizio dei pubblici poteri né l’esercizio dei poteri amministrativi in generale. Costituiscono invece servizio pubblico le attività, gestite o almeno predisposte dalle PA, rivolte alla produzione in favore della comunità di specifiche utilità materiali, in relazioni alle quali gli atti giuridici necessari al loro compimento abbiano carattere strumentale.

I servizi pubblici sono utili alla comunità ma in nessun modo si suppone che essi siano necessariamente essenziali; tuttavia, la nozione di servizio pubblico essenziale ha un rilievo giuridico nell’ambito delle restrizioni al diritto di sciopero previste dalla l.146/90.

Infatti non poche esigenze essenziali della vita di una comunità sono soddisfatte dall’ordinario funzionamento del mercato (es. l’approvvigionamento di generi alimentari). Non che questa attività sia priva di regolazione pubblica; al contrario è soggetta a permessi e disciplinata a rigorosi controlli. Si tratta di attività che il normale funzionamento del mercato assicura in termini più efficienti e soddisfacenti di quanto potrebbe fare un servizio appositamente organizzato a cura delle istituzioni pubbliche; gli interessi pubblici coinvolti richiedono sì determinate regolazioni ( rilascio di permessi, effettuazione di controlli, sottoposizione dell’attività a vincoli particolari rivolti ad assicurare la disponibilità e non raramente un determinato costo del servizio) ma non richiedono tuttavia che le istituzioni pubbliche assumano su di sé la responsabilità complessiva dell’attività.

Attività economiche e servizi pubblici nella Costituzione italiana

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L’istituzione di un servizio pubblico altera il funzionamento del mercato nel corrispondente settore; in quali casi e misura essa è consentita?

La Cost. enuncia che l’iniziativa economica privata è libera, tuttavia essa precisa che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, libertà e dignità umana e che la legge può determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica privata e pubblica possa essere coordinata e indirizzata a fini sociali (art.41). Il servizio pubblico consisterebbe dunque in un’attività economica pubblica o privata programmata e coordinata per il conseguimento di fini sociali. Per il tema specifico del servizio pubblico rileva naturalmente anche l’art.43. Tale disposizione, sancisce la preminenza della tutela dell’interesse generale sulle stessa attività economica privata che al limite estremo potrà essere interdetta o riportata nell’ambito pubblico, ove si riferisca a servizi pubblici essenziali. L’espressione presuppone che si tratti di imprese che producono utilità delle quali la comunità non può prescindere.

I servizi pubblici essenziali nell’orizzonte comunitario

Le istituzioni europee sono nate come istituzioni di una comunità economica. Principio fondante dell’Unione è quello di un “economia di mercato aperta ed in libera concorrenza”; dunque, lo sviluppo ed il benessere della società europea devono essere innanzitutto assicurati dalla costituzione e dal funzionamento di un grande e ben regolato mercato. L’UE comunque, non trascura la logica del servizio pubblico; nella terminologia europea sono chiamati “servizi di interesse economico generale”. I trattati non stabiliscono in modo preciso quali limitazioni possono essere imposte al mercato in nome del servizio pubblico, ma richiedono essenzialmente che tali limitazioni corrispondano ad un criterio di proporzionalità; l’impatto del servizio pubblico sul mercato deve essere il minimo necessario per consentire al servizio di svolgere la sua missione. Questa impostazione ha fatto sì che nei diversi Stati si aprisse un processo di apertura alla concorrenza di settori già caratteristici del servizio pubblico (es. servizio telefonico). Espressione di questo processo è la legge n.481/95 che ha introdotto la nozione di servizi di pubblica utilità, che richiedono, anche se svolti da privati, una particolare regolazione, affidata in larga misura alle apposite autorità indipendenti previste dalla stessa legge.

La nozione di servizi di pubblica utilità esprime una prospettiva diversa da quella del servizio pubblico.

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- La nozione di servizi di pubblica utilità si limita a prendere atto che certe attività economiche, svolte in termini di impresa da un numero più o meno ampio di operatori, riguardano bisogni essenziali della comunità e richiedono una speciale regolazione

- La nozione di servizio pubblico presuppone invece che pubblica sia la decisione di base circa l’esistenza stessa del servizio, che in questi termini viene svolto come servizio pubblico

Modalità di gestione dei servizi pubblici

Non esiste un'unica modalità di gestione dei servizi pubblici. Ai due estremi troviamo da un lato troviamo la gestione diretta da parte della stessa PA (detta in house) e dall’altra la gestione da parte di soggetti privati.

Quanto alla gestione pubblica solo per i servizi elementari essa può affidarsi all’ordinaria organizzazione amministrativa, con una gestione detta in economia. Per i servizio che richiedono un’ organizzazione imprenditoriale può essere utilizzata la forma dell’azienda speciale (struttura facente capo a una PA, dotata o meno di personalità giuridica, di regola con rapporti di lavoro di diritto privato) anche se negli ultimi anni essa è stata soppiantata dalla gestione attraverso società per azioni a partecipazione pubblica maggioritaria o totale.

Tuttavia è diffusa anche la gestione mediante affidamento tramite gara pubblica ad un soggetto esterno. Tradizionalmente lo strumento classico è quello della concessione di pubblico servizio; le regole di svolgimento del servizio ed i rapporti reciproci tra amministrazione e concessionario sono stabiliti dall’atto di concessione o in uno specifico contratto allegato (concessione-contratto). Appositi contratti detti contratti di servizio pubblico, vengono spesso stipulati con i gestori di pubblici servizi per stabilire in modo specifico gli obblighi di servizio pubblico, cioè quegli obblighi che il soggetto che normalmente svolge il servizio non assumerebbe ove considerasse solo il proprio interesse commerciale. L’assunzione di specifici obblighi di servizio pubblico può talora essere imposta a tutti coloro che eroghino quale propria attività d’impresa certi tipi di servizi, che non sono come tale considerati servizi pubblici, ma il cui svolgimento è soggetto ad autorizzazione.

Nell’ambito locale è prevista, per i servizi non imprenditoriali, anche la forma dell’istituzione quale “organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio di servizi sociali” dotato di autonomia gestionale.

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Altri servizi pubblici vengono erogati attraverso specifiche forme istituzionali; si pensi alla organizzazione dei servizi di pubblica istruzione o a quelli di servizi sanitari.

Le discipline generali dei pubblici servizi. I limiti al diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali

In materia di servizi pubblici la competenza legislativa appartiene allo Stato o alle Regioni secondo le regole poste dagli art.117 e 118 della Costituzione. I servizi pubblici essenziali hanno ciascuno la propria specifica disciplina, mentre sono poche le normative generali. Una di queste riguarda i servizi pubblici che il legislatore ritiene essenziali, in quanto volti a garantire il godimento dei diritti della persona costituzionalmente garantiti, alla vita, salute, libertà, sicurezza, libertà di circolazione, assistenza e previdenza sociale, istruzione e libertà di circolazione. La legge 146/90 individua tali servizi allo scopo fondamentale di stabilire limitazioni al diritto di sciopero, sia di ordina sostanziale che di ordine procedurale. Le prime consistono nell’obbligo di fornire comunque le prestazioni indispensabili. Le limitazioni procedurali consistono nell’obbligo di comunicare con un preavviso di dieci giorni la durata e le modalità di attuazione dello sciopero, oltre alle sue motivazioni.

La qualità e i principi di erogazione dei servizi

La codificazione dei Principi sull’erogazione dei servizi pubblici è stata compiuta con la direttiva della Presidenza del consiglio dei ministri del 27 gennaio 1994. Dopo la definizione dell’oggetto e dell’ambito di applicazione, tali principi sono suddivisi in tre parti:

- Principi fondamentali

- Strumenti

- Tutela

I principi fondamentali sono l’eguaglianza, intesa come divieto di ogni ingiustificata discriminazione, l’imparzialità e la continuità. Ad essi si affiancano il diritto di scelta e quello di partecipazione, per il quale viene adottato il modello dalla disciplina del procedimento.

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Gli strumenti sono la determinazione di standard di qualità e quantità collegati a procedure di verifica periodica, la semplificazione delle procedure, l’informazione degli utenti e in generale il rispetto di regole specifiche nei rapporti con essi, la previsione di forme di rimborso procedurale agevoli quando il servizio reso sia inferiore agli standard pubblicati.

La tutela si fonda sul dovere dei soggetti erogatori di prevedere procedure di reclamo dell’utente in relazione alla violazione dei principi regolatori dei servizi pubblici. Tali procedure dovranno essere di facile utilizzazione, svolgersi in tempi rapidi e predeterminati, assicurare un indagine completa e imparziale circa le irregolarità denunciate e garantire all’utente un informazione periodica circa lo stato di avanzamento dell’indagine stessa, prevedere una risposta completa all’utente e forme di ristoro adeguate, ivi comprese il rimborso per il pregiudizio subito.

LE PROCEDURE CONTRATTUALI

Le PA concludono ogni giorno una grande quantità di contratti; contratti di lavoro con i dipendenti pubblici, contratti di fornitura, contratti di acquisto di servizi ed i contratti di appalto di lavori. Le PA possono in linea di principio, concludere ogni tipo di contratto; fanno eccezione soltanto i contratti che presuppongono che il soggetto sia una persona fisica. Dal punto di vista della posizione che le PA possono assumere nel contratto, si usa distinguere tra i contratti dai quali derivi un’entrata (contabilmente detti attivi) e i contratti dai quali derivi una spesa (detti passivi).

Contratto di diritto privato e procedure pubblicistiche

Nel diritto privato tutto ciò che precede il contratto è irrilevante e ciò vale in particolare per la scelta del contraente: il privato utilizza risorse proprie e dunque ne dispone come crede. Invece, per le PA l’attività di diritto privato è pur sempre attività amministrativa, cioè svolta per mezzo di risorse pubbliche e 62

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istituzionalmente rivolta alla cura di interessi pubblici; in quanto tale essa deve rispettare i principi che la Costituzione e le leggi prescrivono (imparzialità, buon andamento, economicità, efficienza ecc.). Inoltre, per la conclusione della maggior parte dei contratti valgono procedure specifiche, che le leggi hanno posto per due differenti ragioni:

1. Proteggere gli interessi della comunità che ha generato le risorse assicurando che le PA le utilizzino nel modo migliore

2. I contratti pubblici sono considerati un’opportunità che deve essere assegnata secondo regole precise e predeterminate, mediante procedure alle quali gli interessati hanno il diritto di partecipare in condizioni di parità

Il risultato è che nella maggior parte dei casi la PA arriva alla conclusione del contratto a seguito di una procedura complessa, il cui svolgersi ed i cui atti seguono il regime del provvedimento amministrativo.

Le procedure selettive per l’accesso ai contratti di lavoro negli impieghi pubblici

A seguito del processo di “privatizzazione” del pubblico impiego (d.lgs.165/01) “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, Titolo II, del libro V del Codice civile” e “dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”. I rapporti individuali di lavoro sono dunque “regolati contrattualmente” sia mediante contratti collettivi che mediante contratti individuali. La giurisdizione sulle relative controversie è stata affidata alla competenza del giudice del lavoro.

Però le amministrazioni non sono libere di stipulare il contratto di lavoro in modo diretto con persone di propria scelta. A norma dell’art.97 Cost., i contratti di lavoro possono essere stipulati soltanto con i vincitori del concorso pubblico. La legge inoltre stabilisce che le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle PA restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo. Il concorso costituisce una gara alla quale debbono iscriversi i candidati al posto, per essere valutati al fine di verificare quali siano i più meritevoli. Questo si apre con un bando, nel quale sono stabiliti i posti che formano oggetto del concorso, i requisiti richiesti per la partecipazione, i termini e le modalità di presentazione delle domande. Ad esso partecipano i candidati che non siano stati esclusi per difetti dei requisiti, o per tardività o altro vizio della domanda. Il concorso, bandito dalla PA interessata, è però svolto da un’apposita commissione indipendente. Essa cura lo svolgimento delle prove del concorso e ne valuta gli esiti,

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procedendo quindi alla formazione della graduatoria dei candidati idonei. Il concorso si chiude con l’approvazione dei relativi atti e a questa consegue alla verifica che le operazione concorsuali si siano svolte regolarmente, secondo quanto disposto dal bando. La conclusione individua dunque le persone con cui la PA dovrà o potrà stipulare il contratto di lavoro, ma non costituisce essa stessa tale stipulazione.

Le procedure di evidenza pubblica per gli altri contrati dell’amministrazione

I contratti mediante i quali le PA si procurano quello di cui hanno bisogno sono, ovviamente, contratti di diritto privato anche se a volte sono soggetti a disciplina speciale. Tali c. sono stipulati sulla base di apposite procedure, rivolte a dare evidenza pubblica all’intera vicenda, e a individuare il contraente privato. L’evidenza pubblica comincia usualmente con la deliberazione di contrattare. Questa è un provvedimento amministrativo di tipi gestionale con il quale sono stabiliti l’oggetto del contratto e le sue clausole essenziali, il fine che con esso si intende perseguire e le modalità di scelta del contraente con le rispettive ragioni. Il risultato è che l’intera fase che precede il contratto, dalla decisione di concluderlo fino all’individuazione precisa del contraente e del contenuto contrattuale, è regolata da norme che prevedono una determinata sequenza procedimentale, attraverso la quale si viene svolgendo una gara pubblica. La procedura di gara si chiude con un atto di aggiudicazione a favore del vincitore, ma per il perfezionamento è necessaria la stipulazione del contratto. L’aggiudicazione deve essere comunicata ai non vincitori ed il contratto non può di regola essere stipulato prima di 30 giorni da tale comunicazione, per consentire eventuali rimedi giurisdizionali. A volte, è previsto che il contratto stipulato a seguito dell’aggiudicazione non diventi efficacie senza un apposito atto di approvazione, attraverso il quale si realizza il controllo di regolarità amministrativa e contabile.

La normativa di contabilità di Stato

La legislazione di contabilità di Stato risale al r.d.2440 del 1923. In quel tempo sono stati disciplinati quattro modi di contrattazione differenziati:

1) Procedura per pubblici incanti o asta pubblica; essa è caratterizzata dalla pubblicazione di un bando o avviso d’asta, in base al quale chiunque avesse i requisiti previsti poteva presentare offerta.

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2) Licitazione privata; l’amministrazione rivolge una lettera d’invito a specifiche imprese ritenute in grado di eseguire al meglio il contratto. Questo metodo è ammesso solo in casi eccezionali.

Sia l’1) che il 2) risultano adatte per contratti dei quali fosse già chiaramente definito l’oggetto. Invece, per i casi in cui l’amministrazione richiedesse al futuro contraente in primo luogo di definire il contenuto del contratto mediante specifiche soluzioni contrattuali, sono state previste ulteriori procedure:

3) Appalto-concorso; essa ha in comune con la licitazione privata la ristrettezza del numero degli invitati a partecipare alla gara, ma se ne differenzia per la grande discrezionalità dell’aggiudicazione, connessa alla scarsa comparabilità di progetti anche molto differenti.

4) Trattativa privata; consiste nel trattare direttamente con un potenziale contraente dopo aver interpellato, se ciò ritenuto più conveniente, più persone o imprese. Non vi è dunque una gara pubblica e la PA agisce liberamente come un soggetto privato.

Nel 1972 l’art.3 del r.d.2440 fu modificato nel senso di distinguere tra contratti statali da cui deriva un’entrata e c. statali da cui deriva una spesa, e di stabilire che solo i primi debbono necessariamente seguire la procedura dei pubblici incanti, mentre per i secondi può essere fatta la gara “mediante pubblico incanto o licitazione privata a giudizio discrezionale dell’amministrazione”. Estendendosi l’uso della licitazione privata, divenne critico il problema degli inviti; con la legge n.14/73 fu introdotto l’istituto della previa pubblicazione di un avviso di gara a seguito del quale gli interessati potevano chiedere di essere invitati.

La disciplina europea dei contratti di appalto di lavori, forniture e servizi

La materia è disciplinata dalla direttiva n.18 del 2004.

In primo luogo, le regole comunitarie riguardano di per sé gli appalti il cui valore superi determinate soglie, mentre per i contratti di valore inferiore gli Stati rimangono liberi di dettare la disciplina che credono.

In secondo luogo le regole si riferiscono ai contratti appaltati da quelle che il linguaggio comune definisce “amministrazioni aggiudicatrici”: Stato, enti pubblici territoriali, organismi di diritto pubblico, associazioni costituite da uno o più di tali enti pubblici territoriali o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico.

Quanto alle procedure, nel diritto dell’UE si distingue tradizionalmente tra:65

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- procedure aperte; p. in cui ogni operatore economico può presentare un’offerta

- procedure ristrette; p. in cui ogni operatore economico può chiedere di partecipare, ma in cui solo gli operatori invitati dalle amministrazioni aggiudicatrici possono presentare un’ offerta

- procedure negoziate; p. in cui le amministrazioni aggiudicatrici consultano gli operatori economici da loro scelti e negoziano con uno o più di essi le condizioni dell’appalto

Tuttavia, la direttiva ha previsto per gli appalti complessi anche il dialogo competitivo ed ha distinto la procedura negoziata a seconda che essa preveda o meno un bando di gara.

La regola di base è che le amministrazioni aggiudicano gli appalti pubblici mediante procedura aperta o mediante procedura ristretta. La differenza tra le due attiene esclusivamente alla partecipazione alla gara mentre non vi è alcuna differenza in relazione ai criteri di valutazione delle offerte e di conseguente aggiudicazione. In entrambi i casi la gara può essere aggiudicata o secondo il criterio del prezzo più basso o secondo il criterio dell’offerta economica più vantaggiosa. Si potrebbe temere di aggiudicare ad un prezzo troppo basso; quando un’offerta risulti anormalmente bassa l’amministrazione chiederà la giustificazione dell’offerta, e la escluderà ove la spiegazione manchi o risulti insoddisfacente. Mentre per il secondo criterio il valore dell’offerta viene calcolato anche tenendo conto di elementi diversi dal prezzo, quali la qualità, il pregio tecnico, la reddittività, l’assistenza tecnica ecc. Sia nelle procedure ristrette che in quelle aperte viene pubblicato il relativo bando.

Dialogo competitivo e procedure negoziate

Il dialogo competitivo è definito come una procedura alla quale qualsiasi operatore economico può chiedere di partecipare e nella quale l’amministrazione aggiudicatrice avvia un dialogo con i candidati ammessi; si differenzia dalle procedure ristrette in quanto esso si riferisce a situazioni complesse, nelle quali l’amministrazione non è in grado di definire le caratteristiche specifiche di un progetto ed il corrispondente costo base. Si distingue inoltre dall’appalto concorso per una caratterizzazione della procedura come uno strumento attraverso il quale l’amministrazione arriva progressivamente a definire il progetto, sempre in contatto con offerte competitive che via via si precisano anch’esse, ed a fine procedura giudica l’appalto. Il dialogo competitivo rimane una gara pubblica che è da

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aggiudicare esclusivamente secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Le procedure negoziate sono invece quelle in cui le amministrazioni aggiudicatrici consultano gli operatori economici da loro scelti e negoziano con uno o più di essi le condizioni dell’appalto. La direttiva europea scompone le procedure negoziate in due diverse specie:

- procedure negoziate con pubblicazione di bando di gara ; sono molto simili alla gara pubblica; le amministrazioni negoziano con gli offerenti le offerte presentate per cercare l’offerta migliore. Inoltre nel corso della negoziazione le amministrazioni devono garantire la parità di trattamento fra tutti gli offerenti.

- Procedure negoziate senza bando di gara ; è limitata ad ipotesi di assoluta necessità ed è circondata da oneri di comunicazione al fine di permettere alla Commissione un effettivo controllo.

Accordi quadro, sistemi dinamici, aste elettroniche

La più recente normativa comunitaria legittima l’uso di alcune modalità di acquisto rivolte a rendere più semplice l’appalto di forniture o prestazioni ripetitive o a consentire di usufruire di modalità informatiche.

Si possono così stipulare accordi quadro, ossia accordi il cui oggetto consiste nello stabilire le clausole relative agli appalti da aggiudicare durante un dato periodo, in particolare per quanto riguarda i prezzi e le quantità previste.

Il sistema dinamico di acquisizione che si riferisce ad acquisti di uso corrente; esso deve essere limitato nel tempo ed aperto per tutta la sua durata a qualsivoglia operatore economico che soddisfi i criteri di selezione e che abbia presentato un’offerta indicativa al capitolato d’oneri. La gestione del sistema è interamente elettronica e questo costituisce un quadro di offerte indicative al cui interne si aprono, per ogni singolo appalto, confronti competitivi tra gli operatori che fanno parte del sistema.

L’asta elettronica è una particolare modalità di svolgimento del confronto tra le offerte entro le forme di gara che lo consentono.

Il codice dei contratti pubblici

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La direttiva europea n.18 del 2004 è stata recepita con il d.lgs.n.163/2006 o Codice dei contratti pubblici. Questo opera non solo per i lavori pubblici statali ma anche per quelli delle Regioni e degli enti locali. Esso prevede tra l’altro che anche ai contratti il cui valore rimane al di sotto delle soglie previste dal diritto comunitario si applichino le medesime norme previste per i contratti sopra soglia, tranne per quanto sia espressamente previsto dallo stesso Codice.

La regolamentazione internazionale degli appalti pubblici

In virtù di un trattato stipulato tra gli Stati aderenti al WTO, gli appalti pubblici al di sopra di determinate soglie devono seguire le regole delle procedure aperte o ristrette e solo eccezionalmente quelle negoziate non competitive. L’accordo richiede inoltre che alle imprese che partecipano alle gare siano date sedi giurisdizionali indipendenti, di fronte alle quali far valere eventuali illegittimità delle procedure e delle aggiudicazioni. Inoltre lo Stato che ritenga che altro Stato abbia scorrettamente aggiudicato un appalto, può investire della controversia gli appositi organi dello stesso WTO.

Le regole sulle procedure contrattuali e la tutela delle imprese interessate

Quando l’amministrazione dia vita ad una delle gare pubbliche descritte, le eventuali illegittimità intervenute nel corso della procedura potranno essere fatte valere, in generale, attraverso la contestazione davanti al giudice competente (in Italia il giudice amministrativo) dell’atto conclusivo della gara, cioè dell’atto chiamato aggiudicazione, che assegna l’appalto ad una delle imprese partecipanti, dichiarandola vincitrice in base al criterio proprio della gara.

Inoltre, la normativa europea più recente impone che l’aggiudicazione venga comunicata ai concorrenti non vincitori, che il contratto non possa essere stipulato prima che sia trascorso un termine entro il quale questi possono proporre un ricorso, e che in caso di proposizione del ricorso il contratto non possa essere stipulato fino ad una decisione cautelare dell’organo decidente. Tuttavia, ciò non esclude che l’aggiudicazione possa venire annullata dopo che il contratto è stato stipulato; quali sono allora le conseguenze sul contratto dell’annullamento dell’aggiudicazione? Si prospettano due tesi diverse:

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- Secondo la prima (Consiglio di Stato) l’annullamento dell’atto di aggiudicazione travolgerebbe automaticamente anche il contratto già stipulato

- Secondo la seconda (Cassazione) il venire meno dell’aggiudicazione si limiterebbe a privare il contratto di un elemento di legittimazione, rendendolo annullabile ad istanza della stessa amministrazione, in quanto tutelata dalla norma

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