Riassunti - Alle Origini Del Diritto Europeo

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ALLE ORIGINI DEL DIRITTO EUROPEO Capitolo I Natura e funzione dello ius commune romano-canonico nella dottrina italiana della prima età moderna Introduzione Secondo Giuseppe Ermini e Francesco Calasso sia il droit commun francese che il common law inglese sono qualificabili come diritti propri rispetto al ius commune romano-canonico ma è altrettanto vero che tutti e tre esprimono il medesimo concetto cioè quello di essere un diritto valido per tutti i soggetti che non pretende di essere l’unico ma si pone in rapporto dialettico con i diritti particolari di singole comunità o soggetti privilegiati, gli iura propria. La costruzione storiografica del sistema di ius commune romano- canonico Ius commune romano-canonico è l’unione tra il diritto civile romano della compilazione giustinianea e quello canonico risultante principalmente dal Decretum di Graziano e dalle Decretales di Gregorio IX. Diritto civile romano e diritto canonico formano insieme il cd. utrumque ius che significa appunto “l’uno e l’altro diritto”. Ebbene, con il ius commune coesistevano gli iura propria cioè la molteplicità di ordinamenti particolari: feudale, signorile, statutario, consuetudinario i quali danno vita a quello che il Calasso ha definito “sistema di diritto comune” cioè una gerarchia di fonti medievali in virtù della quale il giudice di un comune medievale doveva applicare dapprima il diritto statutario, in mancanza di norme statutarie doveva applicare il diritto consuetudinario e, solo in ultima istanza e in via sussidiaria, avrebbe fatto ricorso al ius commune romano-canonico. Il Calasso individua anche tre fasi storiche del sistema di diritto comune: 1) diritto comune “assoluto”, dal XII al XIII secolo, in cui il diritto comune è superiore ad ogni altra fonte del diritto; 2) diritto comune “sussidiario”, dal XIV al XV secolo, in cui il diritto comune è subordinato agli iura propria;

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ALLE ORIGINI DEL DIRITTO EUROPEO

Capitolo I

Natura e funzione dello ius communeromano-canonico

nella dottrina italiana della prima età moderna

Introduzione

Secondo Giuseppe Ermini e Francesco Calasso sia il droit commun francese che il common law inglese sono qualificabili come diritti propri rispetto al ius commune romano-canonico ma è altrettanto vero che tutti e tre esprimono il medesimo concetto cioè quello di essere un diritto valido per tutti i soggetti che non pretende di essere l’unico ma si pone in rapporto dialettico con i diritti particolari di singole comunità o soggetti privilegiati, gli iura propria.

La costruzione storiografica del sistema di ius commune romano-canonico

Ius commune romano-canonico è l’unione tra il diritto civile romano della compilazione giustinianea e quello canonico risultante principalmente dal Decretum di Graziano e dalle Decretales di Gregorio IX. Diritto civile romano e diritto canonico formano insieme il cd. utrumque ius che significa appunto “l’uno e l’altro diritto”. Ebbene, con il ius commune coesistevano gli iura propria cioè la molteplicità di ordinamenti particolari: feudale, signorile, statutario, consuetudinario i quali danno vita a quello che il Calasso ha definito “sistema di diritto comune” cioè una gerarchia di fonti medievali in virtù della quale il giudice di un comune medievale doveva applicare dapprima il diritto statutario, in mancanza di norme statutarie doveva applicare il diritto consuetudinario e, solo in ultima istanza e in via sussidiaria, avrebbe fatto ricorso al ius commune romano-canonico.Il Calasso individua anche tre fasi storiche del sistema di diritto comune:

1) diritto comune “assoluto”, dal XII al XIII secolo, in cui il diritto comune è superiore ad ogni altra fonte del diritto;

2) diritto comune “sussidiario”, dal XIV al XV secolo, in cui il diritto comune è subordinato agli iura propria;

3) diritto comune “particolare”, dal XVI al XIX secolo, in cui si ha il predominio del diritto degli Stati nazionali il quale promana dalla volontà del princeps che costituisce la superiore autorità legislativa all’interno dello Stato, nel quale il diritto comune vige solo a seguito di recepimento interno da parte di ogni singolo monarca nazionale.

Questo sistema, secondo la storiografia tradizionale, sarebbe entrato in crisi in età moderna quando dal punto di vista spirituale viene meno l’unità religiosa che aveva caratterizzato il Sacrum Imperium e dal punto di vista politico viene meno l’unità politica a seguito dell’insorgere degli Stati nazionali.Il sistema di diritto comune è stato largamente dominante nella storiografia tradizionale e considerato come un ipse dixit in quanto forniva un’efficace lente di ingrandimento per esaminare il complesso panorama delle fonti giuridiche medievali. D'altronde, è stato oggetto anche di notevoli critiche.La prima critica ha investito l’espressione di utrumque ius ed è stata mossa dal Cassandro secondo il quale non è vero che vi era un unità inscindibile tra diritto romano e diritto canonico già al tempo dei glossatori: il diritto comune era costituito solo dal diritto civile romano mentre il diritto canonico aveva la funzione di definire la normativa della Chiesa universale la quale normativa si poneva in rapporto dialettico con quella delle Chiese nazionali. Secondo il Legendre, inoltre,

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l’espressione utrumque ius serviva semplicemente a definire coloro i quali avendo compiuto gli studi di diritto romano e diritto canonico venivano insigniti del titolo di doctor in utroque iure.Un’altra critica ha investito l’idea della gerarchia delle fonti medievali ed è stata mossa dall’Astuti secondo il quale i giudici medievali non avevano cognizione di un sistema ordinato di fonti giuridiche ma si limitavano semplicemente ad applicare il criterio esegetico tradizionale per il quale la legge speciale deroga alla generale e questa colma le lacune della prima con funzione sussidiaria secondo l’antico brocardo latino lex specialis derogat generali.Altre critiche hanno investito la tripartizione in fasi storiche ideata dal Calasso. In particolare il Gorla ha sostenuto che non è affatto vero che l’autorità del princeps ha soppiantato quella dell’imperatore e conseguentemente il diritto nazionale surclassato il diritto comune anzi avrebbe addirittura rafforzato la validità del diritto comune in quanto i giudici medievali, avendo studiato e conoscendo principalmente il diritto romano-canonico, giudicavano soprattutto in base a questo. Ad ogni modo, anche la tesi del Gorla è stata oggetto di critiche onde appare più condivisibile la tesi secondo la quale la superiore autorità unitaria del princeps si manifestò non già nella funzione legislativa bensì in quella giudiziaria che esercitava per il tramite dei tribunali nazionali i quali giudicando soprattutto in base al diritto comune romano-canonico ne consolidarono la valenza di diritto generale valido per tutti i soggetti.

Il più recente dibattito sul ius commune. La natura del ius commune nella dottrina italiana

Un’altra critica al tradizionale sistema di diritto comune è arrivata di recente dallo spagnolo Alejandro Guzman Brito secondo il quale i glossatori non arrivarono mai a qualificare il diritto romano come ius commune. A tal fine, riprende un passo di Gaio, contenuto nella sua famosa “Omnes Populi”, nel quale distingueva tra ius civile cioè il diritto di ciascun popolo, definito ius proprium, e ius gentium cioè il diritto valido per tutti gli uomini, chiamato ius commune: “Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur”. Ulpiano, alla stregua di Gaio, definisce il diritto civile come ius proprium ma inserisce nel ius commune non soltanto il ius gentium ma anche il ius naturale. Ebbene i glossatori, secondo lo studioso spagnolo, non arrivarono mai a qualificare il diritto romano come ius commune rimanendo fedeli alla Omnes Populi di Gaio. Il primo passo avanti fu compiuto dalla scuola di Orléans e precisamente da Pierre de Belleperche il quale propose la distinzione tra due tipi di diritto civile: quello generale rappresentato dal diritto romano e quello speciale o particolare rappresentato dai diritti statutari e consuetudinari. Ma la demarcazione netta e chiara si ebbe con il grande giurista italiano Bartolo da Sassoferrato il quale ebbe il merito di definire il diritto romano non più come “diritto civile proprio generale” bensì come “diritto civile comune”. L’idea del diritto comune, dunque, riguardava solo il diritto civile romano non anche quello canonico; solo in età moderna si sarebbe consolidata l’idea di utrumque ius per cui deve essere accolta la tesi del Cassandro che critica l’idea del Calasso di un’unità inscindibile tra diritto romano e diritto canonico già a partire dalla Scuola della Glossa.In proposito, però, va detto che anche la storiografia più recente, dopo aver confutato l’idea del Calasso di un diritto comune costruito come un “sistema gerarchicamente ordinato di fonti giuridiche medievali”, conviene con quest’ultimo sulla legittimazione religiosa del diritto romano giustinianeo. Precisamente, Piano Mortari ha evidenziato il fatto che presso i glossatori il diritto giustinianeo godeva di un prestigio eccezionale e di un’autorità suprema ed inconfutabile al pari dei testi sacri della Chiesa cattolica; analogamente, Paolo Grossi conclude nello stesso verso ma confuta l’idea di una vera e propria “scienza del libro” sostenendo che la dottrina medievale, attraverso la sua interpretatio, si distaccò profondamente dal testo giustinianeo dando vita ad un “diritto sostanziale nuovo”. A partire da Irnerio e dalla Scuola della Glossa, infatti, il diritto civile giustinianeo divenne oggetto di una interpretatio continua in virtù della quale esso venne riadattato costantemente al contesto storico e sociale di riferimento attraverso una selezione delle norme e degli istituti giuridici che potevano ancora avere significato e scartando quelli che invece erano

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ritenuti inutili perché inadeguati al proprio tempo. Così facendo i giuristi medievali diedero vita ad un diritto sostanziale nuovo che, tuttavia, condivideva con il diritto romano la natura di diritto comune. È a questa interpretatio che i giudici medievali fecero riferimento sino al tramonto del medioevo ed è grazie a questa che, dunque, in età moderna, il diritto comune si presenterà come un diritto potenzialmente onnicomprensivo che non ammette rinvio ad altro diritto.

Il fondamento di legittimità del ius commune nel ‘500

Altra questione molto dibattuta dalla dottrina, sin dalle prime luci dell’età moderna, è quella del fondamento di legittimità del ius commune romano-canonico.Il giurista italiano Alberico Gentili equiparava i giuristi ai teologi, ai medici o ai filosofi perciò a tutte quelle scienze fondate sulla superiore autorità di un testo scritto; in altri termini, rinveniva il fondamento di legittimità del ius commune nella sua natura di “scienza del libro”.Lo spagnolo Fortunio Garcia de Erzilla, invece, equiparava il diritto civile a quello canonico sostenendo che entrambi perseguivano i medesimi fini e avevano la stessa origine perciò rinveniva il fondamento di legittimità del ius commune nella sua derivazione dal diritto divino naturale.Altri giuristi, invece, sostennero più compiutamente che la superiore autorità del diritto giustinianeo derivava dalla sua natura di aequitas constituta ovverosia nel fatto di tradurre il superiore principio di giustizia in diritto positivo e i giuristi medievali, con la loro interpretatio, si facevano arbitri aequitatis.

Il diritto canonico parte integrante del ius commune

Nella prima età moderna la dottrina accomunava il diritto canonico a quello civile sostenendo che entrambe perseguivano i medesimi fini e avevano la stessa origine: così Fortunio Garcia de Erzilla secondo il quale il diritto canonico e quello civile traevano la loro origine dal diritto divino naturale. In realtà, secondo lo storico Antonio Maria Corasi, si trattava di due “mondi separati” ossia due diritti universali e comuni ciascuno nella propria sfera di competenza: il diritto civile in temporalibus, quello canonico in spiritualibus e ciascuno veniva applicato dalle proprie corti di giustizia; in particolare, ciò era vero per le regioni dell’Italia centrosettentrionale che riconoscevano di far parte delle cd. Terre Imperii ma non per le regioni dell’Italia meridionale che riconoscevano di far parte delle Terre Ecclesiae ove il diritto canonico era riconosciuto competente anche nelle materie temporali mentre al diritto civile romano - e alla sua interpretatio - veniva attribuita una funzione meramente sussidiaria diretta a colmare le lacune temporali del primo.Secondo un’autorevole dottrina, però, la questione è più complessa: nelle Terre Ecclesiae i due diritti e le rispettive interpretationes si compenetrarono a tal punto che ormai i civilisti andavano accogliendo l’interpretatio dei canonisti e questi ultimi, a loro volta, recepivano l’interpretatio dei primi dando vita ad una vera e propria osmosi tra i due mondi che li fa apparire non già separati, come avverrebbe nelle Terre Imperii, ma uniti quasi fossero figli di un’unica tradizione dottrinale.

Princeps e ius commune

L’affermazione secondo la quale il diritto comune era dotato di una superiore autorità legislativa aveva effetti notevoli. Secondo la dottrina italiana della prima età moderna, la questione non era di poco conto perché significava che l’autorità del diritto comune era superiore a quella del princeps fatto che implicava l’immodificabilità del primo ad opera dei secondo e qui entra in gioco l’antica questione dei rescripta contra ius. Ebbene, già Ulpiano, a cavallo tra il II e il III secolo, ebbe a scrivere che “princeps legibus solutus est” cioè l’ordine del principe, in virtù dell’imperium di cui era titolare, vincolava tutti i soggetti di diritto tranne lui e i suoi successori: in altri termini, il principe non doveva sottostare alle leggi dettate dai suoi predecessori. La pericolosità di una tale affermazione, ai fini della certezza del diritto, venne ben compresa dagli imperatori Valentiniano e

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Teodosio d’Occidente i quali, nella constitutio Digna vox, sostennero che l’imperatore, pur non avendo il dovere giuridico di rispettare le leggi dei suoi predecessori, avrebbe governato degnamente se si fosse impegnato esplicitamente a rispettarle.Ebbene, su questa base la dottrina medievale affrontò la questione dell’osservanza delle leggi dell’imperatore da parte dei suoi successori. Infatti, secondo Azzone il rispetto della legge da parte dell’imperatore non è un dovere giuridico bensì un dovere morale cioè l’imperatore non poteva imporre la propria volontà legislativa ai suoi successori ma poteva ugualmente indurli a rispettare le proprie leggi mediante la persuasione: il primo argomento usato a fondamento della tesi era che proprio una legge, la lex regia de imperio, era a fondamento della potestà imperiale per cui tutti i successori di Augusto, per coerenza, dovevano sentirsi obbligati al rispetto delle leges; il secondo argomento inseriva l’osservanza delle leggi tra le virtù d’animo richieste all’imperatore nell’espletamento della sua funzione di giustizia.Tommaso d’Aquino distingueva all’interno della legge la vis coactiva dalla vis directiva: l’imperatore era sicuramente libero riguardo alla prima ma doveva sottostare alla seconda. In altri termini, l’imperatore poteva modificare una legge precedente ma, nell’emanare la nuova legge, era tenuto a rispettare la ratio legis della vecchia legge. In questo modo, secondo Tommaso, l’evoluzione della legge non intaccava la certezza del diritto né la giustizia.Su questa base, la dottrina medievale ha riconosciuto che il rescriptum contra ius era legittimo ma vi si poteva ricorrere solo in via del tutto eccezionale ovvero nei casi di norme obsolete o inique. In tali casi, era ammessa non la modifica o addirittura l’abrogazione ma, beninteso, la violazione del diritto civile giustinianeo da parte del re con norme più eque.Le conclusioni della dottrina medievale furono riprese dai giuristi della prima età moderna soprattutto in materia di dominium privato: così, per esempio, Ludovico Rodolfini sosteneva che i provvedimenti adottati dal re contro il dominium personale di un soggetto libero dovevano avere una giusta causa. Anche ricorrendo alla teoria della potestas absoluta del princeps, senza una giusta causa, i provvedimenti adottati dal sovrano contro i diritti di un soggetto derivanti da norme del diritto civile giustinianeo non potevano essere considerati legittimi.Sia nella prima età moderna che nel Medioevo, dunque, la dottrina continuò ad affermare la superiorità del diritto comune sul princeps il quale, solo in via del tutto eccezionale, poteva violare le norme del diritto romano-canonico.

Capitolo II

Gli iura communia della dottrina napoletana

Il ius commune romano-canonico nel regno di Napoli

La scienza giuridica napoletana dei secoli XVI-XVII tratta la questione del ius commune nel regno di Napoli in maniera leggermente diversa e più originale rispetto alle regioni dell’Italia centrosettentrionale.Già nel XIII secolo, Marino da Caramanico, docente di diritto presso lo Studium napoletano, nel Proemio della sua glossa ordinaria al Liber Constitutionum Regni Siciliae di Federico II, affermò che il diritto romano era vigente nel regno solo in virtù del riconoscimento esplicito o tacito da parte del monarca e rispetto ai diritti particolari del regno è considerato ius commune: si tratta della ben nota teoria della permissio regia.Nel XIV secolo, l’italiano Andrea d’Isernia espone la sua visione storicistica e innovativa del diritto romano. A differenza di Marino da Caramanico che trattava il diritto romano nella sua interezza, lo studioso afferma che il diritto romano va scisso in due parti:

1) leggi precedenti la donazione Costantiniana, in virtù della quale, tralaltro, le regioni meridionali sarebbero passate in mano alla Chiesa;

2) leggi successive.

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Secondo Andrea d’Isernia, le leggi precedenti la donazione costantiniana potevano essere considerate ius commune nelle regioni meridionali al pari delle regioni centrosettentrionali perché entrate in vigore durante l’Impero Romano quindi uniformemente sull’intero territorio peninsulare e costituenti un patrimonio giuridico mai modificato o abrogato; le leggi successive, invece, proprio perché successive alla caduta dell’Impero Romano necessitano di una diversa legittimazione: per poter essere osservate nel regno e considerate ius commune occorre che abbiano i caratteri della rationabilitas e dell’aequitas ovverosia devono essere razionali ed esprimere un superiore principio di giustizia. Attraverso questa divisione cronologica del diritto romano, Andrea d’Isernia fa perdere al diritto medesimo il carattere universale riconosciuto invece dalla dottrina centrosettentrionale.La tesi in esame non era condivisa a pieno dalla dottrina meridionale del XVI secolo: per esempio, lo storico Luca da Penne riprese la tesi dell’universalità del diritto romano inteso come diritto valido su tutto il territorio della penisola italiana al pari della dottrina centrosettentrionale.La tesi di Andrea d’Isernia fu ripresa da Matteo D’Afflitto il quale, però, la fuse con la tesi di Marino da Caramanico: secondo il D’Afflitto, la distinzione in leggi romane precedenti e susseguenti la donazione costantiniana è valida ma la giustificazione che da lo studioso delle seconde è diversa: esse sono valide nelle regioni meridionali a condizione che siano state riconosciute esplicitamente o tacitamente dal monarca (permissio) e siano razionali.Nella dottrina meridionale successiva al D’Afflitto, invece, non si rinviene più né la distinzione delle leggi romane né la teoria della permissio regia: ormai è unanimemente accolta l’idea del diritto romano quale diritto comune in virtù della sua superiore autorità legislativa.Per quanto riguarda il rapporto tra ius commune romano-canonico e iura propria la dottrina meridionale della prima età moderna sembra accogliere l’impostazione della dottrina delle regioni centrosettentrionali ma non senza qualche nota di originalità.Il diritto consuetudinario e quello statutario sono considerati ius proprium rispetto al ius commune romano-canonico il quale ha funzione di diritto sussidiario onde le norme consuetudinarie e degli statuti comunali dovevano essere interpretate secondo le categorie interpretative del diritto comune e quando si discostavano da questo non potevano essere estese a casi diversi da quello previsto. Camillo Borrelli, infatti, sostiene che le norme statutarie disciplinano un singolo caso concreto e non sono dotate di una ratio tale da poter astrarre una categoria giuridica più ampia in grado di ricomprendere anche altri casi non espressamente previsti dalla norma statutaria: in altri termini, non sono suscettibili di estensione analogica.Ius proprium era considerato anche il diritto regio nella forma di costituzioni, capitoli e prammatiche. Secondo Tommaso Grammatico, le leggi regie, al pari degli altri iura propria, quando si discostavano dal diritto comune potevano essere applicate esclusivamente ai casi disciplinati e non potevano essere estese per analogia. Inoltre, le leggi regie, potendo essere inquadrate entro le categorie interpretative offerte dal diritto comune, s’informavano dell’interpretatio che la dottrina medievale aveva sapientemente elaborato su di esso, fatto che risulta dalla prassi dei tribunali supremi del regno nonché dai commenti alle loro decisiones. Ma la dottrina meridionale non si limitava a ripetere le tesi tradizionali della dottrina giuridica delle regioni centrosettentrionali: secondo alcuni autori, per esempio, quando una materia era disciplinata contemporaneamente dal diritto comune e da un diritto particolare, il primo prevaleva sul secondo. Infatti, nella prassi dei tribunali del regno si riscontra come spesso i giudici applicavano dapprima gli iura propria, secondo l’interpretatio elaborata sul diritto comune e solo in via sussidiaria ricorrevano a quest’ultimo. A volte, però, il giudice si riferiva in via immediata ed esclusiva al diritto comune, senza tener conto della disciplina dei diritti particolari.Tutto ciò prova che il rapporto ius commune - iura propria nelle regioni meridionali era più complesso che nelle regioni centrosettentrionali.

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Gli altri iura communia della dottrina napoletana

A riprova del fatto che il rapporto ius commune - iura propria nelle regioni meridionali era più complesso che nelle regioni centrosettentrionali vi è un altro fattore.Nella dottrina napoletana, infatti, vi erano anche diritti particolari che rispetto al ius commune romano-canonico erano considerati ius proprium ma, allo stesso tempo, erano ius commune per gli altri diritti particolari del regno.Ius commune erano, per esempio, le consuetudini della città di Napoli in quanto aventi carattere quasi “ufficiale” ma soprattutto natura di diritto generale valido su tutto il territorio comunale a prescindere dai privilegi personali. Un diritto comune al quale era attribuito funzione sussidiaria di intervenire in caso di lacune negli altri ordinamenti particolari.Anche le leggi regie, secondo Roberto Maranta, erano considerate ius proprium nei confronti del ius commune romano-canonico ma erano al tempo stesso ius commune all’interno del regno in quanto aventi natura di diritto generale valido su tutto il territorio del regno a prescindere dai privilegi personali derivanti dallo status o da altri ordinamenti particolari. Secondo il Maranta, inoltre, dato che il carattere della generalità era riservato sia al diritto regio che al diritto comune, il primo in quanto diritto particolare rispetto al secondo poteva anche introdurre dei correttivi marginali.Inoltre, dal momento che la funzione principale del monarca era quella di assicurare la giustizia all’interno del regno, la legge regia poteva anche abrogare una consuetudine obsoleta od iniqua a condizione che la sostituisse con una norma regia più equa e razionale. Da questo punto di vista emerge anche una gerarchia delle fonti del regno di Napoli.

Il diritto longobardo nel regno

Il problema del diritto longobardo nasce dall’interpretazione di un breve passo della celebre constitutio Puritatem del Liber Augustalis di Federico II nella quale viene indicata ai giudici regi locali la gerarchia delle fonti del regno da seguire nell’esercizio della loro funzione giudiziaria: dapprima le costituzioni regie che hanno abrogato le consuetudini locali inique sostituendole con norme più eque; poi le consuetudini locali non modificate dalle costituzioni regie e “approbatae” cioè costantemente applicate dai tribunali locali; infine, in caso di lacuna delle suddette fonti, i giudici regi dovevano ricorrere al diritto longobardo e al diritto romano, entrambe qualificati come iura communia. La qualifica del diritto longobardo come “ius commune” ha diviso la dottrina dell’Italia meridionale sino alla prima metà del XVII secolo. Gli storici si chiedono, in particolare, se a quei tempi il diritto comune fosse il longobardo o il romano.Ebbene, il Calasso ha sostenuto che l’unico diritto comune è il romano-canonico mentre il diritto longobardo può essere definito comune solo in alcune regioni meridionali in cui era considerato diritto generale “territoriale”. La tesi è stata accolta dalla storiografia successiva, in particolare Giuliana D’Amelio ha sostenuto che il diritto longobardo era non solo un “diritto comune territoriale” ma anche “diritto comune feudale” il che apre la questione dei rapporti tra:

1) diritto longobardo e diritto romano e la conseguente definizione del primo come ius commune;

2) diritto feudale longobardo e diritto feudale franco poiché anche quest’ultimo era vigente nel regno.

Sotto il primo aspetto, già Andrea d’Isernia nel XIV secolo aveva interpretato quel passo della constitutio Puritatem nel senso che i giudici regi locali, in caso di lacuna di costituzioni regie e consuetudini locali approbatae, dovevano effettuare la preventiva escussione del diritto longobardo (in tal caso avrebbero fatto riferimento alla Lex Longobarda o, semplicemente, Lombarda) e solo in ultima istanza, in caso di lacune di quest’ultimo, applicare il diritto romano, quando si tratta degli abitanti di natio longobarda; invece, per gli abitanti di natio franca e quelli di natio romana, in caso di lacuna di costituzioni regie e consuetudini locali approbatae, i giudici regi locali dovevano applicare immediatamente il diritto romano.

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Il pensiero di Andrea d’Isernia, però, è suscettibile di una duplice interpretazione:1) secondo alcuni storici, lo studioso avrebbe voluto intendere il diritto longobardo come

diritto a carattere territoriale - e sussidiario rispetto alle costituzioni e alle consuetudini approvate - applicabile a tutti i cittadini del regno a prescindere dalla propria natio di appartenenza, ragion per cui poteva essere definito come ius commune proprio del regno ed essere applicato con priorità rispetto al diritto romano;

2) altri storici, invece, ritengono che lo studioso abbia inteso il diritto longobardo come diritto a carattere personale applicabile solo agli abitanti del regno di natio longobarda e che, dunque, i giudici regi locali avrebbero dovuto applicare solo ad essi il diritto longobardo – e, in caso di lacuna, quello romano – mentre agli abitanti del regno di natio franca o di natio romana avrebbero dovuto applicare direttamente il diritto romano.

La seconda interpretazione è senz’altro più coerente col pensiero di Andrea d’Isernia che pone l’accento sul carattere personale del diritto longobardo ed è stata pienamente condivisa da Luca da Penne, com’era ovvio che fosse dato che condivideva a pieno la tradizionale dottrina del ius commune, secondo la quale l’unico diritto comune è il romano-canonico. Ebbene, il da Penne sosteneva che il diritto longobardo era un diritto personale per coloro i quali si dichiaravano appartenenti alla natio longobarda mentre era territoriale nelle regioni del regno in cui si era affermato come diritto generale. Questa tesi trova conforto non soltanto nella lettura della constitutio Puritatem ma anche nella prassi forense della Gran Corte della Vicaria. Inoltre, secondo lo studioso, non si poteva neanche dire che il diritto longobardo essendo entrato in vigore dopo quello romano lo abbia sostituito. Secondo Luca da Penne, dunque, l’unico diritto comune era il romano in quanto espressione di ratio scripta e dell’aequitas constituta ragion per cui si trattava di un diritto potenzialmente onnicomprensivo, a differenza del diritto longobardo che rispetto al ius commune romano restava pur sempre ius proprium contenente la disciplina di singoli casi concreti quindi insuscettibile di estensione ad altri casi non espressamente disciplinati in quanto “asininum” cioè privo di ratio.La tesi di Luca da Penne è stata accolta dalla dottrina successiva (Matteo D’Afflitto e Roberto Maranta), anche se non in modo unanime: per esempio, Prospero Rendella sostenne che la qualifica di diritto comune spettava, al pari del diritto romano, anche a quello longobardo ma in qualità addirittura di diritto universale applicabile non già agli abitanti di una sola natio o di un solo territorio bensì a tutti gli abitanti di tutte le regioni del regno. Secondo Rendella, dunque, il diritto longobardo - insieme con le costituzione regie - è ius commune nell’Italia meridionale ma resta pur sempre ius proprium rispetto al ius commune romano-canonico.In conclusione, fino alla prima metà del XVII secolo, la dottrina meridionale non era riuscita a trovare un accordo sull’interpretazione del passo contenuto nella constitutio Puritatem.

Diritto longobardo, diritto franco e ius commune feudorum

Anche sul tema dei rapporti tra diritto longobardo e diritto franco in materia di ordinamento feudale del regno vi è una pluralità di opinioni ma è possibile ugualmente individuare una linea interpretativa comune a tutta la dottrina meridionale.Già Andrea d’Isernia, nel XIV secolo, aveva sostenuto che, in caso di lacuna di costituzioni e consuetudini approvate, i giudici regi locali dovevano applicare il diritto longobardo e il diritto romano ma non il diritto franco che la dottrina medievale unanimemente definisce diritto speciale. Infatti, una delle differenze tra il diritto longobardo e quello franco sta proprio in questo ed emerge dalla disciplina delle successioni: mentre nel primo, il feudo, alla morte del de cuius, veniva diviso in parti uguali tra tutti i figli maschi; nel secondo, vi succedeva solo il primogenito maschio. Inoltre, secondo Prospero Rendella, in materia di successione i vassalli di natio franca seguivano il diritto franco, quelli di natio longobarda seguivano il diritto longobardo ma per tutte le altre materie dell’ordinamento feudale sia gli uni che gli altri seguivano il diritto longobardo; lo stesso Rendella, però, si chiese se ciò fosse sufficiente a qualificarlo come ius commune feudorum. Ebbene, la

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risposta al quesito è stata fornita intorno alla prima metà del XVI sec. da Giovanni Tommaso Minadoi secondo il quale il diritto longobardo era certamente ius commune “territoriale” del regno ma non poteva assumere la natura di ius commune feudorum che invece era costituito dai Libri Feudorum che formavano la X Collatio e in virtù del loro inserimento nei libri legales avevano acquistato autorità di ius commune. Dunque, secondo il Minadoi, il diritto longobardo in materia feudale presentava la stessa duplice natura degli altri ordinamenti particolari del regno: ius commune rispetto agli usi locali e ius proprium o speciale nei confronti del ius commune feudorum risultante dai Libri Feudorum. Tralaltro, secondo il Rendella, il ius commune feudorum non si limitava a svolgere una funzione meramente sussidiaria nei confronti degli iura propria ma era dotato di una ratio che consentiva l’estensione delle sue norme agli altri casi non espressamente disciplinati dal diritto particolare e, quindi, finanche le costituzioni regie che disciplinavano i rapporti vassallatici potevano essere lette alla luce delle sue categorie interpretative.In conclusione, i Libri Feudorum, inseriti nei libri legales, divenivano ius commune feudorum, dunque, un diritto a carattere sussidiario e potenzialmente onnicomprensivo; la cosa interessante è che il diritto longobardo rispetto a quello era ius proprium nonostante fornisse la disciplina generale della maggior parte dei rapporti vassallatici del regno.

Il sovrano e il ius commune romano-canonico

Tra i doveri principali che il monarca medievale aveva verso la comunità vi erano:1) la difesa dagli attacchi esterni;2) il mantenimento della pace interna;3) l’amministrazione della giustizia;

Nella dottrina meridionale, però, si rinviene un’altra funzione essenziale del monarca: quella legislativa. Ebbene, mentre era chiaro, nella stessa dottrina, il rapporto tra leggi regie e consuetudini inique, che potevano essere abrogate dalle prime e sostituite da norme rispondenti alla ratio e all’aequitas, non lo era altrettanto il rapporto tra leggi regie e consuetudini eque nonché quello tra leggi regie e diritto romano-canonico.Giovanni Tommaso Minadoi era favorevole ad una modifica legislativa delle consuetudini eque, purché fosse salvaguardata la ratio iuris, in quanto considerava di prioritaria importanza la partecipazione del monarca all’evoluzione legislativa e al miglioramento delle norme del regno.Nunzio Pelliccia, invece, era di parere diverso. Per lo studioso, infatti, il re, una volta verificata la rispondenza delle consuetudini locali all’aequitas e alla ratio iuris, non poteva procedere alla loro modifica legislativa ritenendo preminente la certezza del diritto rispetto alla partecipazione del monarca all’evoluzione legislativa delle norme del regno.Se, quindi, questi sono i limiti alla modifica da parte del monarca delle consuetudini locali eque, i limiti alla modifica regia del diritto romano-canonico sono ancor più stretti, quasi invalicabili.Secondo il de Nigris le leggi regie non potevano ovviamente modificare o abrogare le norme del ius commune romano-canonico in quanto queste ultime erano tradizionalmente considerate espressione massima della ratio scripta. Allo stesso modo la pensava il de Franchis, secondo il quale un solo criterio poteva giustificare la modifica di norme del ius commune romano-canonico ed era quello della ratio iuris: in altri termini, le nuove norme dovevano risultare ispirate da una ratio iuris superiore a quella delle norme modificate. Il diritto sostanziale romano-canonico, dunque, non poteva essere modificato dalle leggi regie e, solo in via del tutto eccezionale, potevano essere apportate delle correzioni marginali al fine di rendere la disciplina di alcune materie più conforme alle necessità concrete delle comunità meridionali. Il ius commune romano-canonico, dunque, anche in Italia meridionale come in Italia centrosettentrionale costituiva ancora il fondamento della certezza del diritto.

Capitolo III

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Droit commun coutumier, diritto romano,leggi fondamentali nei giuristi francesi

Natura del droit coutumierCom’è noto, dal punto di vista del diritto vigente, nel regno di Francia vi era la tradizionale divisione in due grandi aree territoriali:

1) pays de droit écrit vale a dire i paesi di diritto scritto, costituiti dalle regioni meridionali;2) pays de droit coutumier ovvero i paesi di diritto consuetudinario, rappresentati dalle regioni

centrosettentrionali che svilupparono un complesso apparato di consuetudini locali e regionali le quali, tuttavia, a partire dal XII secolo, furono oggetto di compilazioni scritte, per esempio: il Très ancien coutumier de Normandie del XII secolo, la Summa de legibus Normandie anche nota come Grand coutumier de Normandie del XIII secolo, e poi le raccolte di usi regionali o locali “ufficiali” dei secoli XV-XVI.

Fu proprio questo uno dei primi temi affrontati dalla dottrina francese, a partire dal XVI secolo, vale a dire se le consuetudini, tradizionalmente definite ius non scriptum, possano conservare la loro natura anche dopo la redazione scritta o se, viceversa, essendo quest’ultima avvenuta su iniziativa del re ed essendosi conclusa con la sua approvazione, non fossero diventate leggi regie.Sebbene una gran parte della storiografia recente abbia sostenuto la tesi della trasformazione della norma consuetudinaria in norma regia, tra i giuristi francesi della prima età moderna sembra prevalere decisamente l’opinione opposta della conservazione della natura originaria di norma consuetudinaria anche dopo l’intervento del monarca. Uno dei primi sostenitori della tesi in esame fu Pierre Rebuffi, secondo il quale l’intervento regio aveva la sola funzione di dichiarare le norme consuetudinarie razionali, eliminando ogni dubbio sulla legittimità della loro applicazione. Un’altro sostenitore della tesi in esame era Charles Du Moulin, giurista della prima metà del XVI secolo, secondo il quale l’intervento regio aveva la sola funzione di certificare la rispondenza delle norme consuetudinarie all’aequitas e alla ratio iuris; in virtù di tale accertamento le norme consuetudinarie divenivano legittime. Ne era convinto anche Louis Charondas Le Caron, studioso vissuto intorno alla metà del XVI secolo, secondo il quale la sanzione regia aveva lo scopo di definire il diritto consuetudinario vigente e rafforzarne l’osservanza. In altri termini, la redazione scritta delle consuetudini regionali o locali per ordine del monarca aveva la funzione di garantire e perfino rafforzare la certezza del diritto facendo in modo che tutti gli abitanti del regno conoscessero con certezza il diritto consuetudinario vigente.

Droit coutumier come ius communeAltra questione affrontata dalla dottrina francese della prima età moderna era quella della qualificazione del droit coutumier come ius commune del regno di Francia. In particolare, Charles Du Moulin, confrontando la situazione italiana con quella francese, sostenne che la scolastica francese, educata agli schemi tradizionali elaborati dalla dottrina bolognese del ius commune romano-canonico, non era in grado di cogliere la vera natura delle coutumes regionali ed erroneamente le considerava ius proprium al pari degli statuti comunali italiani. Nel regno di Francia, invece, proseguiva il Du Moulin, il ius commune era non già quello romano-canonico bensì le coutumes della tradizione comune a tutte le regione del regno. Il Droit coutumier regionale aveva autorità di ius commune, un’autorità che gli derivava dalla forza della tradizione ovverosia dal fatto di essere profondamente radicato nella vita concreta della società, a differenza delle costituzioni regie che sono espressione di istanze individuali contingenti perciò, non essendo radicate nella società, sono destinate ad avere vita breve. Per questo motivo le costituzioni regie, per la dottrina francese, non meritano l’appellativo di ius commune.La dottrina francese, però, era ben consapevole che il Droit coutumier regionale era un diritto lacunoso, ragion per cui individuava i criteri per colmarle.A tal fine, Louis Charondas Le Caron sostenne che la coutume di Parigi era dotata di un’intrinseca autorità superiore perciò aveva natura di diritto sussidiario rispetto alle coutumes delle altre regioni

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del regno e ciò derivava dalla superiorità politica della capitale, dell’ampiezza della sua circoscrizione territoriale rientrante sotto la giurisdizione del Parlamento di Parigi e per l’autorevolezza di questa corte sovrana.Di parere sostanzialmente analogo era Guy Coquille secondo il quale, però, la superiorità del coutume di Parigi rispetto alle coutumes delle altre regioni non era un fatto intrinseco ma esteriore cioè riconosciuta da tutte le regioni del regno per via dell’autorevolezza riconosciuta alla sua corte sovrana: il Parlamento di Parigi.La tesi che assegnava alla coutume parigina la funzione di diritto sussidiario per le coutumes delle altre regioni era generalmente accolta dalla dottrina francese.

Diritto romano in FranciaNella dottrina francese della prima età moderna erano ben note le differenze tra il ius commune romano-canonico e il droit commun francese: il primo era potenzialmente onnicomprensivo, il secondo doveva necessariamente essere integrato; quello era inteso come punto di riferimento ultimo dei diritti particolari, questo solo come un momento di uniformità particolarmente significativo ma non definitivo.Effettivamente se si guarda al diritto consuetudinario regionale francese ci si accorge che le materie disciplinate erano davvero limitate, fatto che lasciava un ampio spazio all’integrazione non soltanto da parte degli usi locali ma anche da parte del diritto romano giustinianeo.L’atteggiamento della dottrina francese della prima età moderna verso il diritto comune romano-canonico e la scienza giuridica italiana medievale è piuttosto variegato ed è possibile rinvenirne tre diversi orientamenti:

1) nelle università prevaleva il mos gallicus che criticava aspramente l’interpretatio della dottrina italiana perché fondata su testi filologicamente scorretti, perché ignorante circa la lingua latina classica e perciò incapace di cogliere il significato autentico dei termini e delle espressioni contenute nei testi giustinianei, perché basava la lettura dei testi giustinianei sul presupposto che si trattava di testi universali ed eterni, fatto che le impediva di contestualizzarli cioè di riportarli al momento storico e sociale di riferimento. A questo movimento aderiva Francois Hotman secondo il quale il diritto romano era estraneo alla tradizione giuridica delle comunità francesi sia perché diritto esclusivo del popolo romano sia per l’impossibilità di identificarlo con l’aequitas constituta.

2) Altri giuristi, invece, ritenevano che il diritto romano giustinianeo fosse espressione dell’aequitas constituta e della rationabilitas ragion per cui esso diveniva indispensabile punto di riferimento per le decisioni di giuristi, giudici e principi. Era di questa opinione Baldo degli Ubaldi ma anche i giuristi francesi Charles Du Moulin e Guy Coquille per i quali il diritto romano non era automaticamente vigente in Francia – o meglio nei pays de droit coutumier – ma rappresentava il punto di riferimento a cui giuristi, giudici e legislatori potevano richiamarsi in caso di dubbio o lacuna nel diritto francese. In virtù di questo richiamo, la norma del ius commune romano-canonico diveniva norma vigente nell’ordinamento francese.

3) Un terzo indirizzo, invece, riteneva che finanche nei pays de droit coutumier il vero droit commun non era costituito dalle coutumes regionali bensì dal diritto romano-canonico e dalla sua interpretatio. E infatti la disputa più accesa dei secoli XVI-XVII fu quella tra i sostenitori del diritto romano-canonico come ius commune del regno e i fautori delle coutumes regionali come droit commun. Di tale disputa ne viene data testimonianza dal Coquille che riporta il dibattito tra i due presidenti del Parlamento di Parigi Pierre Lizet e Christophle de Thou: il primo sosteneva il diritto romano, il secondo gli opponeva le consuetudini regionali come droit commun dei francesi. Ebbene, il Coquille si attestò sulle posizioni di quest’ultimo e con lui parte della dottrina francese dell’epoca.

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Quale ruolo avesse il diritto romano-canonico in Francia è questione ancora aperta sino alla prima età moderna, anche se sembra di gran lunga prevalente il secondo indirizzo che identifica il diritto romano giustinianeo con l’aequitas e la ratio scripta.Nel confronto tra il regno di Napoli e il regno di Francia emergono delle differenze profonde nella recezione del ius commune romano-canonico: nel primo, la dottrina meridionale non ha nessuna difficoltà nell’attestarsi sulle posizioni della dottrina centrosettentrionale: di fatto, continua a considerare il diritto romano-canonico come ius commune a carattere sussidiario e potenzialmente onnicomprensivo; nel secondo, invece, la dottrina francese appare molto più variegata e talvolta è molto ostica nei riguardi del ius commune romano-canonico e della sua interpretatio.Inoltre, secondo il Du Moulin, il ius commune feudorum, in Francia, non è quello dei Libri Feudorum inseriti nella X collatio dei libri legales, come avviene nel regno di Napoli, ma è rappresentato dalle coutumes della tradizione comune a tutte le regioni del regno. È questa un’altra differenza fondamentale tra i due regni che viene generalmente accolta dalla dottrina francese della prima età moderna.

Il sovrano e il droit commun coutumierUn’altra differenza tra la dottrina francese e quella italiana della prima età moderna è nel rapporto princeps-ius: mentre in Italia, infatti, il ius commune romano-canonico era universalmente considerato dalla dottrina come dotato di un’autorità superiore e ultraterrena che non consentiva la sua modifica ad opera finanche delle maggiori potestà terrene e solo in via del tutto eccezionale era ammessa la loro violazione, in Francia, la dottrina non sembra riconoscere universalmente la medesima autorità alle coutumes.In particolare, Pierre Rebuffi, nella prima metà del XVI secolo, affermava la netta superiorità delle coutumes francesi sulla legge regia: il re francese, dunque, non poteva modificare ne tanto meno abrogare le consuetudini regionali con una sua legge, salvo che, in via del tutto eccezionale, questa indicasse espressamente la norma consuetudinaria che modificava. L’opinione del Rebuffi sembra inserirsi nel quadro della dottrina prevalente nel XVI secolo che considerava la monarchia francese come il prototipo della monarchia temperata in quanto riusciva a contemperare perfettamente le tre classiche forme di governo – monarchia, aristocrazia e politeia secondo la ben nota tripartizione aristotelica - prendendo il meglio da ciascuna delle tre: infatti, il monarca governava con il consiglio dell’aristocrazia, espressa nel Parlamento di Parigi, e del popolo, espresso negli Stati Generali.La tesi storiografica classica, formulata compiutamente da Olivier-Martin intorno alla metà del XX secolo, è quella secondo la quale, invece, la monarchia francese a partire dal XIII secolo avrebbe progressivamente affermato la propria potestà legislativa imponendola come primaria rispetto al droit coutumier sin dall’inizio dell’età moderna e tollerando la compresenza di altre fonti giuridiche solo per rispetto della tradizione pluralistica del regno. Dello stesso parere era Jean Bodin, illuminato teorico della potestà legislativa del sovrano, il quale affermava che la funzione primaria del monarca era quella legislativa e non già quella giudiziaria.In realtà, recenti studi sulla storia istituzionale della Francia della prima età moderna hanno messo in evidenza i limiti della monarchia francese e soprattutto quanto povero ed inefficace fosse il suo intervento in campo legislativo per cui pare che la legge regia abbia affidato la disciplina del diritto privato alle coutumes limitandosi a disciplinare ben poche materie, per es. quella processuale. Anche i fautori della tesi in esame, però, non possono fare a meno di riconoscere che, a partire dal XVI secolo e ancor più nel XVII, la monarchia francese assunse un ruolo centrale nel governo del regno per cui i giuristi francesi, ad un tratto, si trovarono di fronte al problema di conciliare l’autorità regia con il rispetto dei diritti tradizionali delle comunità, evitando che la prima abusasse della propria posizione per violare questi ultimi. Di questa opinione era, per esempio, Pierre Gregoire che, sul finire del XVI secolo, sottolineò che era dovere morale e religioso del sovrano non abusare della propria autorità per non tradire la missione affidatagli da Dio, ripetendo dunque l’idea, abbastanza diffusa nella dottrina medievale, secondo la quale la funzione principale del sovrano è quella giudiziaria stante nel garantire la corretta amministrazione della giustizia. Una

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funzione che, tuttavia, non escludeva ma, anzi, sollecitava il ricorso alla legge come strumento per eliminare le consuetudini contrarie all’aequitas ovvero per tradurre l’aequitas in ius. Solo così il monarca avrebbe reso pienamente giustizia. Le affermazioni di Pierre Gregoire, anche se saldamente ancorate alla dottrina tradizionale, rappresentano un cambiamento significativo rispetto alla posizione del Rebuffi che escludeva ogni forma di intervento regio in campo consuetudinario.

Le leggi fondamentaliL’idea della monarchia temperata implicava, altresì, secondo la dottrina francese della prima età moderna, l’idea della subordinazione monarchica a norme superiori poste alla base dell’ordinamento giuridico del regno: le leggi fondamentali.Secondo Claude Seyssel era tale la legge sull’inalienabilità del demanio regio, precisata definitivamente sotto il regno di Carlo V, nella seconda metà del XIV secolo, che vietava ai suoi successori di dissipare il patrimonio territoriale regio forse pure per evitare ciò che stava accadendo nell’impero germanico dove si ricorreva di continuo a cessioni di beni demaniali per far fronte alla spese correnti con la conseguenza di non esercitare più un’effettiva signoria territoriale.Si trattava di una legge fondata sulla tradizione che, secondo Seyssel, veniva costantemente confermata dai monarchi mediante continui atti d’imperio.Charles Du Mulin, invece, considerava fondamentale la legge salica che regolava la successione al trono ed era fondata su una lunga tradizione costantemente confermata dai monarchi ma che, secondo lo studioso, derivava la sua superiore autorità dall’antichità della sua vigenza prima ancora che dalla conferma regia. Dunque, a differenza del Seyssel che poneva l’accento sulla volontà regia, il Du Mulin poneva l’accento sulla forza della tradizione.La tesi del Du Mulin sulla natura delle legge salica trovò pieno accoglimento nella dottrina successiva: così, per esempio, Francois Hotman concludeva che, pur non essendovi alcuna legge franca che escludesse la successione femminile al trono, tale regola consuetudinaria era da secoli seguita dal popolo franco. Ma colui che teorizzò compiutamente la natura delle leggi fondamentali fu Jean Bodin che definì la legge salica come connaturata alla monarchia francese e, dunque, immodificabile perché trattasi di una “legge riguardante la struttura stessa del regno e il suo assetto fondamentale” e, aggiungeva, “le uniche consuetudini modificabili dal re sono quelle non riguardanti la struttura fondamentale de regno”.Da tutto ciò emerge un’altra differenza fondamentale tra la dottrina italiana e la dottrina francese della prima età moderna: mentre la prima considerava il ius commune romano canonico come un diritto eterno ed immutabile ma, al tempo stesso, violabile dal monarca in casi estremamente eccezionali, la seconda, invece, riteneva che il droit commun fosse modificabile dal sovrano, ma vi erano casi di coutumes, definite appunto come leggi fondamentali, che erano assolutamente immodificabili dal monarca.

Diritti particolari, droit coutumier, ratio scriptaUn’altra differenza fondamentale tra la dottrina italiana e la dottrina francese della prima età moderna è nel rapporto tra diritto comune e diritti particolari: mentre, infatti, la dottrina italiana non si limitava ad attribuire al ius commune romano-canonico la natura di diritto sussidiario al quale rinviare in caso di lacunosità dei iura propria ma lo considerava, altresì, come espressione della ratio scripta attraverso la quale le sue norme avevano la capacità di astrazione cioè di essere applicate analogicamente a qualunque caso non espressamente disciplinato dagli altri ordinamenti particolari: questi ultimi, infatti, si limitavano a disciplinare singoli casi in concreto ed erano considerati perciò “asininum” cioè privi di ratio dunque non estensibili ai casi non espressamente previsti. La dottrina francese della prima età moderna, invece, attribuisce al droit commun coutumier regionale la sola funzione di diritto sussidiario al quale rinviare in caso di lacunosità delle coutumes locali ma non è considerato come espressione della ratio scripta dunque non è presentato un diritto potenzialmente onnicomprensivo bensì con un diritto lacunoso che necessita

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dell’integrazione da parte delle coutumes locali e finanche del diritto romano giustinianeo. È ciò che pensa Charles Du Mulin, e con lui è concorde tutta la dottrina francese coeva e successiva, quando sostiene che il droit commun coutumier regionale assolve una mera funzione suppletiva ma non ha in se stesso le categorie interpretative alla luce delle quali è possibile leggere la molteplicità di norme degli ordinamenti particolari. Esso non ha dunque alcuna possibilità di estensione analogica.

Capitolo VI

Il common law in Inghilterra

Definizione di common law nella dottrina ingleseIl common law è definito dalla dottrina inglese come il diritto consuetudinario della tradizione comune a tutti gli inglesi, a prescindere dai privilegi derivanti dallo status o dall’appartenenza ad ordinamenti particolari, che non pretende di essere l’unico diritto del regno ma si pone in rapporto dialettico con gli ordinamenti particolari e gli usi locali. Alla formazione del common law britannico hanno contribuito, secondo la dottrina britannica della prima età moderna e quella successiva, tre elementi:

1) innanzitutto, il common law nasce, intorno al XII secolo, con l’introduzione del sistema del writ regio attraverso il quale un soggetto libero poteva far valere il proprio diritto di possesso ottenendo dal sovrano un writ cioè l’ordine scritto, inviato allo sceriffo della contea di residenza del libero, di istituire un consiglio di dodici uomini saggi il quale avrebbe avuto il compito di istruire la vicenda dinanzi alla corte dei giudici itineranti che avrebbe poi deciso in merito alla legittimità del possesso. Inizialmente il sistema del writ regio era previsto per cinque ipotesi tassative denominate petty assizes o possessory assizes che costituiscono il primo embrione del common law britannico anche se poi, col passare del tempo, il sistema del writ fu esteso ad altri casi.

2) Alla formazione del common law ha contribuito notevolmente l’attività delle tre corti centrali di giustizia nate tra il XII e il XIII secolo dalla curia regis di origine normanna: la Corte dello Scacchiere, composta dai magnati laici e competente soprattutto in materia di entrate fiscali; la Court King’s Bench, formata dai familiari e dai fedelissimi del sovrano che aveva una competenza generale e seguiva il re ovunque egli andasse; la Court Common Pleas, formata da esperti del diritto e competente soprattutto in materia di common law.

3) Accanto alle tre corti centrali di giustizia operava sin dall’inizio del XII sec. un’altra corte: la Magna Curia Regis che costituiva la suprema corte di giustizia del regno. In particolare, la Magna Carta Libertatum del 1215, oltre ad aver chiarito una volta per tutte, mettendoli nero su bianco, quali erano i diritti vigenti nel regno, aveva stabilito che la Magna Curia Regis doveva essere convocata necessariamente ogni qualvolta vi era una richiesta di sussidio straordinario da parte del monarca ai suoi vassalli diretti qualificandolo come “commune consilium regni nostri”. Agli inizi del XIII secolo, dunque, la Magna Curia Regis risultava ancora formata da due componenti: il re e i suoi ministri, da un lato e la nobiltà laica e gli alti dignitari ecclesiastici, dall’altro. Durante il regno di Edoardo I, nella seconda metà del XIII secolo, si affermò l’uso del monarca di convocare dinanzi all’Assemblea Generale i rappresentanti di contea che ben presto divennero una componente importante della Magna Curia Regis la quale, dunque, sul finire del XIII secolo risulta già composta da due camere: la House of Lords, composta dal re e i suoi ministri nonché dai nobili laici ed ecclesiastici e l’House of Commons, formata sempre dal re e i suoi ministri nonché dai rappresentanti di contea. Proprio durante il regno di Edoardo I, nella seconda metà del XIII secolo, la Magna Curia Regis cominciò ad essere chiamata Parliament. Il Parlamento cominciò proprio in questo periodo ad essere convocato di frequente, oltre che per le richieste di sussidio straordinario, per questioni di interesse generale che

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riguardavano l’intera collettività e le decisioni del Parlamento erano denominate statutes o acts of Parliament.

Nel medioevo, gli statutes, al pari delle sentenze delle tre corti centrali, non avevano la funzione di creare il common law ma solo quella di certezza del diritto vale a dire rendere noti a tutti gli abitanti del regno quali diritti erano vigenti nello stesso e costituivano perciò il common law. Per questa ragione, la dottrina inglese della prima età moderna e la storiografia più recente è concorde nel ritenere che con l’espressione common law si indica non soltanto il diritto consuetudinario della tradizione comune a tutti gli inglesi, in contrapposizione agli ordinamenti particolari e agli usi locali, ma anche il diritto stabilito dalle sentenze delle tre corti centrali di giustizia e quello fissato dalle decisioni del Parlamento entrambe le quali, a stretto rigore, costituirebbero diritto scritto.

Le fondamenta del common law: a) la continuità ab immemorabiliLa superiore autorità del common law deriva, secondo la dottrina inglese della prima età moderna, da tre fattori fondamentali:

1) la continuità ab immemorabili;2) la conformità al ius naturale;3) la rationabilitas o reasonable.

Per quanto riguarda la prima, i giuristi inglesi convenivano nell’accettare “come discrimine tra l’immemorabile e il memorabile” la data d’incoronazione di Riccardo I avvenuta il 3 Settembre 1189. Secondo John Selden, giurista vissuto a cavallo tra i secoli XVI-XVII, il common law sarebbe il “frutto di una stratificazione storica” cominciata in epoca preromana e proseguita sino all’insediamento dei normanni. Secondo Arthur Duck, invece, con i normanni, in particolare con la vittoria nella battaglia di Hastings del 1066, con la quale i normanni s’insediarono stabilmente in Inghilterra, si ebbe una profonda trasformazione dell’ordinamento anglosassone in quanto i primi introdussero in Inghilterra il proprio ordinamento e lo imposero ai sassoni. Ebbene, secondo Arthur Duck il common law sarebbe nato, nel suo nocciolo duro e più significativo, proprio con l’insediamento dei normanni in Inghilterra. La tesi del Duke rientrava nell’alveo delle tesi regaliste sulla superiorità monarchica, tuttavia, se fosse stata accolta, la Magna Carta Libertatum del 1215 avrebbe dovuto essere ascritta ai normanni e non agli anglosassoni precedenti al loro insediamento e, non rientrando neanche, per sua datazione, tra le norme immemorabili, non avrebbe dovuto essere considerata automaticamente vincolante perché trattasi di un atto legislativo innovativo, rientrante tra le norme memorabili. Ciò avrebbe avuto ripercussioni disastrose sull’assetto istituzionale del regno minando le basi stesse della monarchia temperata inglese ovverosia l’autorità del Parlamento. Per questa ragione i common lawyers la respingevano con vigore. In particolare, Edward Coke scrisse che la Magna Carta avrebbe avuto il merito di rendere esplicite le libertà e i diritti vigenti nel regno da tempo immemorabile e costituenti il common law inglese. Essa, dunque, non poteva essere considerata come un atto legislativo innovativo, secondo quanto sostenuto dal Duck, ma aveva natura di statute cioè un atto del Parlamento che, al pari delle sentenze delle corti centrali di giustizia, aveva la sola funzione di svelare il contenuto implicito del common law.Il Selden, inoltre, a favore della continuità ab immemorabili sosteneva che il Parlamento inglese altro non era che l’erede diretto della curia regis di origine normanna la quale, a sua volta, era un evoluzione dell’assemblea dei witenagemot di origine sassone, formata dal re e dai grandi signori sassoni e avente il compito di amministrare la giustizia, stabilire norme generali e adottare decisioni riguardanti tutta la comunità del regno. Guglielmo il Conquistatore aveva mantenuto in vita tale assemblea alla quale partecipavano sia i grandi signori normanni che i grandi signori sassoni che lo avevano accettato come sovrano.Anche Edward Coke si schierò contro le tesi regaliste arrivando ad affermare addirittura la piena identità tra witenagemot e Parlamento: diversamente dal Selden, per il quale, seppure in continuità con la tradizione sassone, vi era stata una evoluzione dell’ordinamento inglese, per il Coke, invece, il common law della tradizione era rimasto immutato sin dalle origini.

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Le fondamenta del common law: b) la conformità al ius naturaleLa mera continuità ab immemorabili non era da sola sufficiente a giustificare la superiore autorità del common law ragion per cui essa era sostentata da un altro argomento fondamentale: la conformità del common law al diritto naturale. Secondo il Selden il diritto naturale corrispondeva non soltanto alla natura umana ma anche alla natura delle varie comunità sociali e poiché il common law era il diritto consuetudinario della tradizione comune a tutti gli inglesi era, di conseguenza, il diritto naturale del popolo inglese.

Le fondamenta del common law: c) la rationabilitasIl common law oltre ad essere antico e conforme al ius naturale era anche conforme alla ratio: era, per dirla con la dottrina inglese, reasonable e ciò costituiva il terzo elemento fondamentale che giustificava la superiore autorità del common law anzi, per alcuni era persino considerato principale rispetto agli altri due: così John Davies, nel ricostruire la formazione di una norma di common law affermava che “un comportamento conforme alla ragione, fondato sulla natura umana e ripetuto costantemente nel tempo diventava norma vincolante”. La rationabilitas appariva come il presupposto primo della trasformazione dell’atto in norma di diritto positivo.Edward Coke specificò ulteriormente il concetto sostenendo che la ratio che compone il common law non era la ragione umana propria di ogni singolo individuo ma era una “ragione artificiale” frutto di una lunghissima esperienza e di approfonditi studi compiuti dai giudici operanti nelle corti di common law.

Common law e statute lawLa dottrina inglese del XVI secolo attribuisce al Parlamento la funzione di suprema corte di giustizia del regno: esso aveva non soltanto il compito di garantire la certezza del diritto, assicurandone il rispetto, ma anche quello di far chiarezza sul diritto vigente, cancellando gli usi desueti e svelando quanto già implicitamente contenuto nel common law attraverso la definizione di nuove norme. Il Parlamento era titolare cioè dello stesso arbitrium riconosciuto dalla dottrina italiana ai giudici dei comuni medievali, arbitrium che si sostanziava nel potere di creare direttamente la norma da applicare al caso concreto quando vi fosse una lacune nel diritto positivo; il giudice doveva esercitare tale arbitrium secondo l’aequitas e nel perseguimento dell’utilitas publica e, di conseguenza, le sue decisioni dovevano necessariamente essere coordinate con il diritto vigente. In Inghilterra, tale potere di arbitrium era riconosciuto al Parlamento i cui statutes, però, pure con il rispetto dei limiti in questione, finivano spesso per contrastare con il common law. La dottrina inglese della prima età moderna, dunque, si chiese, in caso di contrasto tra statute e common law, quale dovesse prevalere.Ebbene, la tesi di gran lunga dominante nella dottrina inglese è quella della superiorità del common law sul Parlamento. In particolare, Edward Coke ebbe modo di spiegare il suo pensiero nel celebre Dr. Bonham’s case del 1606: nel 1606 il medico Thomas Bonham fu sottoposto a giudizio dal Royal College of Physicians per aver esercitato la professione medica senza aver ottenuto la licenza da parte del collegio medesimo. Giudicato colpevole, venne multato e gli venne ordinato di non esercitare la professione. Il Dr. Bonham trasgredì l’ordine ragion per cui fu arrestato e condannato una seconda volta. Al che, egli si appellò dinanzi alla Court Common Pleas, presieduta da Coke, contestando la validità della sentenza del Collegio in quanto, a suo parere, quest’ultimo avrebbe operato come parte in causa e, al tempo stesso, come giudice. Ebbene, la domanda fu accolta con un dispositivo che sanciva la superiorità del common law sullo statuto e dava ai giudici delle corti di common law il compito di verificare la conformità del secondo al primo. Il motivo di questa decisione appare chiaro se si pensa al significato dell’espressione “ragione artificiale” adottata dallo stesso Coke e che costituisce uno dei tre fondamenti del common law: i giudici delle corti di common law erano in possesso di un’esperienza ed una cultura giuridica che non potevano vantare i membri del Parlamento perciò erano considerati i più idonei a controllare la conformità degli statutes al common law.

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Le conclusioni della dottrina inglese a riguardo sono che il Parlamento poteva modificare il common law in virtù dell’arbitrium di cui era titolare e le nuove norme entravano immediatamente a far parte del common law ma la loro effettiva vigenza era pur sempre subordinata al controllo di conformità operato dalle corti di common law e qualora tale controllo avesse avuto esito negativo, nel senso della inconciliabilità delle nuove norme con il vigente ordinamento di common law, gli atti del Parlamento sarebbero rimasti privi di efficacia.

Il sovrano e il common lawIl problema del rapporto in esame è stato ampliamente trattato dalla storiografia soprattutto per via delle sue implicazioni politiche.Ad ogni modo, la dottrina inglese della prima età moderna era pienamente concorde nel ritenere che il monarca, all’interno del regno, fosse titolare di un’autorità superiore a quella di ogni altra potestà terrena, temporale o spirituale, in modo da escludere la dipendenza del regno da qualsiasi altra autorità.La dottrina, però, si divideva quando esaminava il rapporto tra il monarca e l’ordinamento interno di common law. Uno dei giuristi che ha trattato con maggiore originalità la questione è l’italiano Alberico Gentili, secondo il quale si poteva applicare in Inghilterra la distinzione tra potestas ordinaria e potestas absoluta elaborata dalla dottrina italiana del diritto comune: la stessa dottrina, pur considerando il diritto romano giustinianeo come un diritto eterno ed immutabile, ammetteva, in via del tutto eccezionale, la violazione delle norme del ius commune romano-canonico da parte del monarca ma non è mai giunta a legittimare un’ipotesi di modifica o abrogazione delle stesse. Ebbene, la teoria della potestas absoluta assume in Alberico Gentili contorni originali: secondo lo studioso, infatti, la potestas absoluta era analoga alla cd. “prerogativa regia” riconosciuta al monarca inglese, in virtù della quale egli poteva derogare al common law. Per il Gentili, dunque, la potestà assoluta consisteva nel tradizionale potere di arbirium di cui era titolare il giudice di un comune medievale il quale era tenuto ad esercitarla conformemente all’aequitas e in vista del perseguimento dell’utilitas publica. Per questa ragione la potestas absoluta, nel suo significato di prerogativa regia o arbitrium del re, non era assolutamente illimitata ma doveva essere conforme alla ratio altrimenti gli atti del sovrano sarebbero rimasti privi di efficacia. E fa riflettere che un accanito sostenitore della potestà assoluta del monarca, quale era il Gentili, ne abbia previsto dei limiti.Limiti ulteriori alla potestas absoluta del monarca venivano individuati da John Cowell secondo il quale i provvedimenti adottati dal re in virtù della sua potestà assoluta dovevano comunque rispettare i diritti dei terzi e conciliarsi con le norme del vigente ordinamento di common law ma, più tardi, ammetterà la legittimità dei provvedimenti regi volti a tutelare meglio il bene della collettività cioè aventi una utilitas pubblica.Secondo Robert Filmer, addirittura il common law derivava da una concessione del monarca.Diametralmente opposto era il pensiero del Edward Coke per il quale la prerogativa regia non poteva violare il common law in quanto derivava da quest’ultimo quindi non poteva essere usata contro di esso. La dottrina inglese contemporanea e successiva al Coke concordava con la tesi di quest’ultimo e, infatti, non finì mai per riconoscere al monarca la potestas plaena o absoluta.

Leggi fondamentali e massime generali di common lawLa dottrina inglese della prima età moderna, quando parlava di “fundamental laws”, era solita riferirsi all’intero complesso di norme consuetudinarie o statutarie facenti parte del common law e non già ad un nucleo limitato di consuetudini o statuti. Dunque, a differenza della dottrina francese che qualificava come leggi fondamentali solo alcune norme consuetudinarie, quelle riguardanti l’assetto istituzionale del Regno, la dottrina britannica, invece, difendeva l’intero complesso di norme del common law perché riteneva che esse fossero l’insostituibile strumento per garantire ad ogni cittadino la tutela sia del diritto di proprietà che del diritto di libertà personale: liberty and property costituivano la sostanza del common law, le singole norme di questo avrebbero potuto essere modificate purché le nuove norme non fossero in contrasto con quei due diritti. Dunque, la Magna Carta non era una legge fondamentale nel senso francese, ma uno statuto cioè un atto del

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Parlamento che aveva definito chiaramente i diritti e le libertà di ogni cittadino inglese svelando quanto già implicitamente contenuto nel common law.Tuttavia, il common law, come il droit commun coutumier, disciplinava una vastissima casistica che non conosceva alcun processo di astrazione teorica che consentisse di estrapolare delle categorie interpretative più ampie alla luce delle quali poter leggere gli usi locali come avveniva nel ius commune romano-canonico. Ebbene, la dottrina inglese era ben consapevole della natura spiccatamente pragmatica del common law ragion per cui cercò di individuare, nella moltitudine disordinata delle norme comuni, alcuni principi generali allo scopo di guidare i giudici nella soluzione dei casi - più difficili o dubbi - non espressamente disciplinati. Tali principi generali sono definiti da Edward Coke con l’espressione di “maxime” cioè le massime del common law.

Common law e diritti particolariDunque il common law, al pari del droit commun, non conteneva al suo interno categorie interpretative più ampie alla luce delle quali poter leggere la molteplicità degli usi locali. Da questo punto di vista si differenziava nettamente dal ius commune romano-canonico.La dottrina inglese, quindi, si chiese se anche il common law, come il droit commun, assolvesse ad una funzione sussidiaria nei confronti degli usi locali.La risposta al quesito viene da uno dei cinque casi originari di common law definiti petty assizes o possessory assizes tassativamente previsti, durante il regno di Enrico II, per l’attivazione del sistema del writ regio: è il caso della cd. mort d’ancestor cioè la morte di un coltivatore libero di un’azienda curtense.Il caso aveva due conseguenze opposte in due ordinamenti diversi:

1) nel common law era prevista la successione del figlio maschio, erede naturale del de cuius;2) nell’ordinamento signorile era previsto che, invece, il signore potesse procedere a nuova

assegnazione del fondo.Ebbene, la giustizia regia optava per la prima soluzione facendo prevalere il common law sul diritto particolare. Pare, dunque, che non sia possibile delineare una gerarchia delle fonti tra diritto comune e diritti particolari nel regno inglese, analoga a quella prevista nel regno francese: il common law non interveniva in via sussidiaria in caso di lacuna del diritto particolare, anzi, in alcuni casi eliminava la norma particolare e la sostituiva con la propria.La regola resta immutata anche nella prima età moderna, come risulta dagli scritti di John Cowell il quale ribadisce l’assenza di una gerarchia delle fonti e nega il carattere sussidiario del common law rispetto agli usi locali. Il common law, dunque, prevaleva su tutti i diritti particolari vigenti nel regno, eliminando ogni norma che contrastasse con le proprie. Di conseguenza, il diritto particolare era legittimo solo se conforme al common law. In realtà, vi era qualcuno in dottrina, come ilBrydall, che ammetteva la legittimità di usi locali contrari a norme del common law a condizione che fossero conformi alla ratio e non pregiudicassero né l’interesse individuale né quello collettivo. Ma la tesi rimase isolata e, in ogni caso, restava salva la regola della non sussidiarietà del common law rispetto agli usi locali.