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PON “Governance e Assistenza Tecnica 2007-2013” Obiettivo Operativo I.2 Progetto: “Supporto alle attività di valutazione del Quadro Strategico Nazionale 2007/2013Intervento: “Valutazione delle politiche per la Ricerca e l’Innovazione” REPORT Team di ricerca: Alfredo Del Monte (coordinamento e supervisione metodologica), Nadia di Paola, Luca Pennacchio, Emanuela Sirtori, Marco Valentini. Referente NUVAP: Paola Casavola.

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PON “Governance e Assistenza Tecnica 2007-2013”

Obiettivo Operativo I.2

Progetto: “Supporto alle attività di valutazione del Quadro Strategico Nazionale 2007/2013”

Intervento: “Valutazione delle politiche per la Ricerca e l’Innovazione”

REPORT

Team di ricerca: Alfredo Del Monte (coordinamento e supervisione metodologica), Nadia di Paola, Luca

Pennacchio, Emanuela Sirtori, Marco Valentini.

Referente NUVAP: Paola Casavola.

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Acronimi

ADITE: Associazione dei Distretti Tecnologici

CIS: Community Innovation Survey

CNR: Consiglio Nazionale delle Ricerche

CRA: Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura

DPS: Dipartimento per lo Sviluppo e la coesione economica

DT: Distretto Tecnologico

ENEA: Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile

FAR: Fondo per l’Agevolazione alla Ricerca

FIRB: Fondo Investimenti Ricerca di Base

FIRST: Fondo Investimenti per la Ricerca Scientifica e Tecnologica

FSC: Fondo nazionale per lo Sviluppo e la Coesione

FSE: Fondo Sociale Europeo

FSRA: Fondo Speciale per la Ricerca Applicata

INFN: Istituto Nazionale di Fisica Nucleare

PAC: Piano di Azione e Coesione

PONREC: Piano Operativo Nazionale Ricerca e Competitività

POR: Piano Operativo Regionale

PRIN: Progetti di Rilevante Interesse Nazionale

PST: Parchi Scientifici e Tecnologici

R&S: Ricerca e Sviluppo

SNA: Social Network Analysis

UE: Unione Europea

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INDICE

EXECUTIVE SUMMARY ............................................................................................................................................. 4

CAPITOLO 1 LINEE GUIDA E OBIETTIVI DELLA RICERCA ........................................................................... 8

CAPITOLO 2 LA LETTERATURA SULLA COLLABORAZIONE IN R&S ...................................................... 11

2.1 La letteratura empirica sui fattori che determinano la collaborazione in R&S ........................................................................... 11

2.2 I fattori determinanti la collaborazione nella R&S con diversi tipi di partners ........................................................................... 15

2.3 Le collaborazioni tra imprese ed enti di ricerca .......................................................................................................................... 16

2.4 Proprietà intellettuale, innovazione e politiche pubbliche .......................................................................................................... 18

CAPITOLO 3 LE POLITICHE PER LA RICERCA COLLABORATIVA ............................................................ 20

3.1 Le politiche nazionali per la ricerca collaborativa ...................................................................................................................... 20

3.2 Le politiche regionali per la ricerca collaborativa ....................................................................................................................... 23

3.3 Le politiche per la creazione dei distretti tecnologici.................................................................................................................. 25 3.3.1 L’esperienza dei distretti tecnologici e i risultati nel Mezzogiorno ...................................................................................... 26

3.3.2 Approfondimento sul funzionamento e sulle performance dei distretti ADITE ................................................................... 28

CAPITOLO 4 METODI E INDICATORI PER LA VALUTAZIONE DELLA RICERCA COLLABORATIVA ....................................................................................................................................................................................... 31

4.1 Criteri di addizionalità e metodi di valutazione .......................................................................................................................... 31

4.2 Descrizione di uno schema per la valutazione qualitativa delle politiche per la creazione di reti innovative ............................. 34

CAPITOLO 5 ANALISI DEI DATI .......................................................................................................................... 40

5.1 Un confronto internazionale su ricerca e innovazione usando la Community Innovation Survey .............................................. 40

5.2 La ricerca e innovazione collaborativa dai dati OpenCoesione .................................................................................................. 45

5.3 Riflessioni metodologiche sulle possibilità di utilizzare i dati OpenCoesione per analisi di valutazione d’impatto .................. 53

CAPITOLO 6 L’ANALISI DEI CASI STUDIO ....................................................................................................... 55

6.1 Analisi di contesto....................................................................................................................................................................... 55

6.2 I casi studio ................................................................................................................................................................................. 56 6.2.1 Il distretto tecnologico DARE (Puglia).................................................................................................................................. 56

6.2.2 Il distretto tecnologico AgroBioPesca (Sicilia) ..................................................................................................................... 58

6.2.3 Il distretto tecnologico R&D.Log (Calabria) ......................................................................................................................... 59

6.2.4 Il caso Marche ..................................................................................................................................................................... 63

CAPITOLO 7 CONCLUSIONI .................................................................................................................................. 66

BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................................................................... 75

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EXECUTIVE SUMMARY

Negli ultimi decenni la collaborazione nelle attività di ricerca e sviluppo ha suscitato un crescente interesse

tra i policy makers e gli studiosi. La letteratura economica si è sviluppata lungo due direttrici: la prima, di

natura teorica, volta ad evidenziare gli effetti positivi dell’attività collaborativa per le imprese ed il benessere

sociale; la seconda, di natura applicata, volta da un lato a verificare i determinanti dell’attività di

collaborazione e dall’altro a confrontare la struttura delle collaborazioni di tipo spontaneo con quelle sorte

come effetto di aiuti pubblici. Una delle conclusioni di tale letteratura è che i fallimenti del mercato

impediscono spesso che le imprese diano spontaneamente vita ad accordi di cooperazione nella R&S. Sono

state quindi attuate nei vari paesi, ed anche a livello della UE, politiche volte a favorire la collaborazione fra

imprese, e tra queste ultime ed istituzioni di ricerca. La necessità di politiche a favore della collaborazione si

presenta particolarmente importante per l’Italia che presenta un rapporto tra spesa in R&S e prodotto lordo

molto inferiore alla media dei principali paesi europei: nel 2013, ad esempio, tale valore si attestava all’1,3%

contro il 2,1% della media UE. Per quanto riguarda poi i livelli di collaborazione, i dati CIS-Eurostat

mostrano che la quota di imprese innovative italiane che coopera in R&S è circa un terzo di quella registrata

a livello europeo.

Numerosi studi hanno cercato di valutare gli effetti delle politiche per la R&S. I risultati riguardanti l’Italia,

a differenza di quanto risulta da molti lavori econometrici relativi ad altri paesi Europei (si veda ad esempio

Aerts e Czarnitzki, 2009), mostrano una scarsa efficacia dei programmi nazionali (Merito et al., 2007; De

Blasio et al., 2014). Altri lavori econometrici mostrano per contro un effetto positivo dei programmi

implementati a livello regionale (Corsino et al., 2012; Bronzini e Piselli, 2014; Fantino e Cannone 2013;

Ughetto e Cannone, 2014). Questi ultimi generalmente riguardano le imprese di piccole e medie dimensioni

che sembrano essere quelle su cui maggiormente hanno effetto gli incentivi pubblici; questo potrebbe

spiegare la differente efficacia enfatizzata dalla letteratura empirica. D’altro canto, i metodi statistici

utilizzati si concentrano solo sui risultati delle imprese e non tengono contro degli effetti indiretti degli

interventi pubblici su altri soggetti. Ciò è particolarmente importante nel caso di progetti di ricerca

cooperativi ove partecipano anche università e centri di ricerca e che, come nel caso dei distretti tecnologici,

si preoccupano anche di realizzare programmi di formazione. Inoltre, la costituzione di nuovi legami fra i

vari attori può avere effetti positivi anche sulla capacità di assorbimento delle imprese. Tali effetti però

possono essere colti solo nel lungo periodo. D’altronde gli studi econometrici sopraindicati ci danno

indicazioni sugli effetti delle politiche ma non riescono ad individuare le cause di eventuali fallimenti. E’

importante quindi integrare i lavori econometrici con analisi di casi studio.

Il presente lavoro affronta le problematiche relative alla valutazione delle attività collaborative di R&S

realizzate in Italia nell’ambito degli interventi finanziati dalla politica di coesione. Lo studio è un’analisi

esplorativa sulle dinamiche di collaborazione nella R&S e fornisce alcune considerazioni sulla politica in

favore dei distretti tecnologici nel Mezzogiorno. Purtroppo il limitato numero di casi studio considerati non

consente una valutazione generale degli effetti di tale politica. Lo studio parte da uno schema molto generale

che evidenzia il rapporto fra il contesto regionale di riferimento, le caratteristiche delle politiche, i

partecipanti alle reti, la governance e la tipologia di rete che ne risulta. Dopo aver passato in rassegna la

letteratura sui fattori che favoriscono la collaborazione e le metodologie per valutare le politiche in favore

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della R&S, il lavoro si concentra sui dati di OpenCoesione – la banca dati sui progetti finanziati dalle

politiche di coesione in Italia sviluppata dal Ministero dello Sviluppo Economico – per individuare i progetti

di ricerca collaborativa finanziati con fondi strutturali. L’analisi di tali dati, realizzata secondo criteri

altamente conservativi, indica che i progetti di ricerca collaborativa (definiti come quelli in cui oltre ad altri

attori vi è almeno un’impresa privata) al 31 dicembre 2014 erano 2.391, per un valore totale di 8.598 milioni

di euro ed un costo medio per progetto di circa 3,6 milioni. Il 54% del valore totale era costituito da fondi

pubblici.

L’analisi ha mostrato però che OpenCoesione non offre una base dati coerente per individuare con certezza

né i progetti collaborativi finanziati con fondi strutturali né l’insieme dei progetti collaborativi. Inoltre la

banca dati sulla cooperazione nella R&S ottenuta da OpenCoesione non ha prodotto dati sufficientemente

omogenei per effettuare un confronto fra progetti di ricerca cooperativa finanziati con fondi strutturali. In

sintesi, sembra che i dati di OpenCoesione siano solo l’inizio di una pratica che possa consentire di valutare

le politiche di coesione. Pratica che per raggiungere il pieno successo ha bisogno che gli stessi dati vengano

raccolti in maniera sempre più articolata. Laddove questo non risulti possibile, appare necessario integrarli

con altre fonti, prestando particolare attenzione alle indispensabili informazioni di contesto di volta in volta

più ritenute opportune.

Il lavoro ha poi esaminato quattro casi studio di ricerca collaborativa. Tre di questi casi riguardano progetti

di ricerca collaborativi implementati all’interno di altrettanti distretti tecnologici localizzati nel

Mezzogiorno, nelle regioni Puglia, Sicilia e Calabria. I distretti di Puglia e Sicilia operano nel settore

alimentare mentre quello calabrese è attivo nel settore del trasporto e della logistica. Il quarto caso studio

riguarda invece un progetto di ricerca collaborativo implementato come risposta ad un bando pubblico

emanato dalla regione Marche. In tal modo sono stati esaminati due differenti strumenti di politica pubblica,

il distretto tecnologico ed il bando regionale.

L’analisi dei casi studio evidenzia che vi è stata addizionalità di input e di collaborazione, ed in alcuni casi si

può parlare di addizionalità comportamentale. Non è del tutto chiaro se si può parlare di addizionalità di

output. Ad ogni modo non sono state raccolte sufficienti informazioni per verificare se i vari progetti hanno

rispettato o meno il criterio dell’efficienza. Nel caso delle Marche, le imprese hanno sviluppato delle

tecnologie che ora stanno cercando di commercializzare. Nel caso di R&D.Log (il distretto tecnologico della

Calabria) sono stati prodotti programmi software (quindi si sono avute delle innovazioni di processo) che,

anche se non commercializzati, sono utilizzati dalle imprese del distretto per migliorare la propria

competitività. Nel caso del distretto DARE (il DT pugliese), ci sono indicazioni che lasciano presupporre

addizionalità di output, ma è ancora presto per fare questa valutazione. Discorso analogo vale per il distretto

Agrobiopesca (il DT della Sicilia). Comune ai vari casi esaminati, in particolare nel Mezzogiorno, è che

l’addizionalità è stata maggiore per le piccole imprese locali piuttosto che per le grandi imprese nazionali.

Non si può escludere che le grandi imprese abbiano avuto un comportamento opportunistico.

E’ interessante notare il differente ruolo assunto dagli attori nei vari contesti. In alcuni casi, come nei

distretti DARE e Agrobiopesca, l’attore distretto ha avuto un ruolo positivo nel favorire le collaborazioni

grazie ai servizi offerti. Nel caso di R&D.Log, invece, il distretto non ha svolto una politica di governance

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volta a favorire le collaborazioni fra i singoli attori. Queste sono state essenzialmente il risultato di accordi

indotti dalla concessione degli incentivi pubblici. Nel caso delle Marche non vi è uno specifico organo di

governance. Le collaborazioni in questa regione sono senza dubbio il risultato delle caratteristiche dei bandi,

mentre l’esistenza di un tessuto industriale dominato da una certa propensione all’aggregazione ha agevolato

la formazione della partnership per la ricerca collaborativa. Inoltre, nel caso delle Marche ma in generale in

quello delle aree più sviluppate, l’esistenza di intermediari non pubblici e di consulenti aziendali locali in

grado di fornire assistenza tecnica per quanto riguarda le difficoltà burocratiche e amministrative connesse

con i progetti di ricerca ha svolto un ruolo molto positivo. In generale lo studio evidenzia che lo strumento

del bando pubblico, in cui si richiede collaborazione fra attori, ha buone probabilità di successo ove il

tessuto produttivo è più robusto e vi è un’adeguata presenza di consulenti specializzati e/o le imprese hanno

già una buona capacità di ricerca autonoma. In molte aree del Mezzogiorno tali elementi sono assenti per

cui, in linea di principio, appare necessaria la presenza di una struttura stabile come quella del distretto

tecnologico che sia in grado di individuare i bisogni delle imprese, nonché di supportare i vari attori nella

stesura e nell’implementazione dei progetti e, più in generale, nelle ricerca dei partners e nel coordinamento

delle partnerships. La governance del distretto dovrebbe inoltre essere rivolta al perseguimento degli

obiettivi dell’insieme degli attori e non di particolari gruppi. Purtroppo non sempre la governance dei

distretti meridionali si è mostrata all’altezza dei compiti richiesti.

L’evidenza empirica fornita dai casi studio inoltre suggerisce che per il successo di un intervento pubblico a

supporto della R&S collaborativa, è importante che vi sia una chiara complementarietà dei partners per

quanto riguarda le competenze. Una particolare attenzione a tale aspetto eviterebbe la partecipazione al

progetto di soggetti che, non avendo specifiche competenze, aderiscono esclusivamente per ragioni

opportunistiche. Un minor numero di partecipanti a ciascun progetto faciliterebbe il coordinamento tra gli

attori e renderebbe più rapido ed efficace lo scambio di informazione fra gli stessi. Un numero troppo

elevato di attori per progetto, invece, genera il rischio che vi siano eccessivi costi di coordinamento che a

loro volta, aumentando il rapporto fra costi e benefici, riducono il contributo del progetto al benessere

sociale. Da questo punto di vista sarebbe anche opportuno fare attenzione al finanziamento di progetti con

obiettivi troppi ampi e che coinvolgono un numero troppo elevato di soggetti. Questo implica che non è

opportuno stabilire un numero minimo di attori né tantomeno un ammontare minimo del progetto, anche alla

luce delle differenze tra i vari settori industriali. Soglie minime, infatti, in settori caratterizzati dalla forte

presenza di piccole imprese aumentano eccessivamente il numero di attori per progetto con il rischio di

elevare di molto i costi di coordinamento.

Un altro aspetto importante su cui occorre fare particolare attenzione è il costo del progetto rispetto alle

attività da svolgere. Questo impone un meccanismo di incentivi che favorisca la rivelazione dei costi

effettivi da parte degli attori.

In conclusione, l’analisi condotta sui casi studio ha confermato i potenziali vantaggi derivanti dalla

collaborazione individuati dalla letteratura economica, e quindi l’opportunità di politiche pubbliche a favore

della collaborazione. In assenza di una ricetta univoca per promuovere la cooperazione, è opportuno

sperimentare differenti strumenti di policy. Perché tali strumenti risultino efficaci e rispettino i criteri di

addizionalità ed efficienza, particolare attenzione deve essere data dal decisore pubblico ai seguenti aspetti:

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la governance del DT: questa deve dimostrarsi adatta a garantire il funzionamento del distretto,

coordinare i partner, assicurare la buona collaborazione tra grandi e piccole imprese, ridurre gli

oneri burocratici in capo alle imprese. E’ altresì necessario che i distretti, in quanto organi del

sistema regionale per l’innovazione, contribuiscano al perseguimento di politiche regionali di

sviluppo di medio-lungo termine;

il contesto di riferimento: le caratteristiche del tessuto produttivo (settori prelevanti, dimensione

delle imprese, ecc.), la presenza di centri di ricerca di rilievo, l’attitudine delle imprese

all’innovazione, il livello di fiducia e apertura delle imprese devono essere tenuti in considerazione

nell’ideazione di uno strumento di policy per la ricerca collaborativa e nella sua attuazione. Il

Distretto Tecnologico può avere un ruolo propulsivo importante in aree dove vi siano maggiori

resistenze alla collaborazione e dove prevalgono imprese con limitata propensione all’innovazione e

capacità di ricerca; il bando pubblico ad aggregazioni di imprese può avere effetti positivi laddove le

imprese sappiano coordinarsi tra di loro in autonomia per la realizzazione del progetto;

criteri di selezione e ammissibilità al finanziamento pubblico: l’analisi ha mostrato alcune

condizioni alla base dell’efficacia della collaborazione (partecipazione di centri di ricerca,

complementarietà tra le imprese, motivazione, fiducia, ecc.); tuttavia, criteri troppo rigidi per quanto

riguarda la selezione dei partecipanti (ad esempio la necessità di selezionare università locali, di

coinvolgere necessariamente grandi imprese) o soglie minime alla spesa sproporzionate rispetto alle

caratteristiche delle imprese possono ridurre l’efficacia o l’efficienza di un progetto. Tale trade-off

deve essere tenuto in considerazione in fase di scrittura dei bandi pubblici.

Il rapporto, pur evidenziando molte debolezze nell’attuazione della politica per i distretti tecnologici nel

Mezzogiorno, ritiene l’esperienza complessivamente positiva. Certamente i suggerimenti discussi in

precedenza possono contribuire ad incrementare l’efficacia di tale politica. Va infine rilevato che in base

all’analisi dei casi studio nei distretti del Sud non si è ancora raggiunta una situazione in cui la

collaborazione indotta dall’intervento pubblico possa proseguire con la stessa intensità in assenza di

incentivi finanziari ad-hoc.

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CAPITOLO 1

LINEE GUIDA E OBIETTIVI DELLA RICERCA

L’introduzione del progresso tecnico è un elemento essenziale del processo di crescita per cui negli ultimi

anni hanno preso sempre più consistenza politiche pubbliche volte a favorire l’attività di ricerca e sviluppo.

Tali politiche appaiono necessarie in quanto le attività che generano conoscenza soffrono di tre problemi che

determinano fallimenti del mercato: incertezza, indivisibilità, esternalità. Tali caratteristiche determinano il

cosiddetto problema dell’appropriabilità secondo cui gli innovatori corrono il rischio di ottenere solo una

parte del rendimento delle attività che generano conoscenza e da esse svolte. Vi è quindi la convinzione che

il mercato offra un incentivo inadeguato a introdurre innovazioni e che la produzione di informazione e

conoscenza lasciata al solo mercato sia insufficiente dal punto di vista della società. Gli strumenti utilizzati

nell’ambito di tali politiche sono stati finanziari, fiscali e giuridici per quanto riguarda la protezione

dell’attività intellettuale. Le politiche seguite dovrebbero soddisfare due criteri: la regola dell’addizionalità e

quella dell’efficienza (si veda il Capitolo 4). In base alla prima regola non dovrebbero essere finanziati

progetti che in ogni caso sarebbero stati realizzati con caratteristiche simili. In base alla seconda non vanno

finanziati progetti che utilizzano risorse che sarebbero impegnate in modo più produttivo in altre attività1.

Obiettivo di questo studio è affrontare le problematiche relative alle politiche relative alle attività

collaborative di ricerca e sviluppo (R&S) realizzate nell’ambito degli interventi pubblici finanziati dalla

politica di coesione. Particolare attenzione sarà data alla politica in favore dei distretti tecnologici e ai suoi

effetti in alcune regioni del Mezzogiorno. Partendo da uno schema molto generale (Figura 1.1) che

evidenzia il rapporto fra il contesto di riferimento, le caratteristiche delle politiche, i partecipanti alle reti, la

governance e la tipologia di rete che ne risulta, la presente ricerca analizzerà le esperienze di costruzione e

conduzione di alcuni cluster tecnologici2, individuando gli aspetti critici e le opportunità che li hanno

caratterizzati. Saranno quindi discusse le criticità e le pratiche di successo che hanno connotato tali

esperienze per trarre suggerimenti utili alle future politiche pubbliche.

Lo studio si articola nel seguente modo. Nel Capitolo 2 si presenta una sintesi degli argomenti teorici e dei

risultati empirici per quanto riguarda i fattori determinanti della cooperazione nella R&S. Nel Capitolo 3,

dopo una breve panoramica delle politiche e degli strumenti utilizzati in Italia per favorire la cooperazione

nelle attività innovative, si analizza la politica per i distretti tecnologici e i risultati da essa raggiunti sia a

livello nazionale e sia con particolare riferimento ad alcuni DT del Mezzogiorno. Nel Capitolo 4 si

espongono brevemente alcune metodologie utilizzabili per la valutazione delle politiche pubbliche in favore

1 Il concetto di efficienza cui si fa riferimento è quello di efficienza statica in base al quale un progetto va finanziato con un

sussidio tale che il rendimento privato e il rendimento sociale si eguaglino. In tal modo si massimizzeranno i benefici che la

società riceve dall’innovazione. Se il rendimento delle risorse utilizzate per il progetto sussidiato è inferiore al costo opportunità

delle risorse stesse, il progetto non dovrebbe essere finanziato. In realtà le informazioni relative all’intensità dei fallimenti del

mercato sono, a causa dell’incertezza, dell’asimmetria informativa e dell’azzardo morale, difficilmente disponibili per cui il

criterio di efficienza non è facile da verificare. Si dovranno utilizzare metodi appropriati per far rivelare al sussidiato, almeno in

parte, le informazioni in suo possesso. In ogni caso è facile che l’impresa sussidiata riuscirà a godere di una certa rendita (Laffont

e Tirole, 1993). Nei progetti di R&S occorrerebbe tenere conto, nella valutazione dei possibili effetti del progetto, della probabilità

di realizzazione dell’innovazione. Purtroppo l’esistenza di un’asimmetria informativa fra il proponente e l’agenzia di valutazione

sui parametri che determinano tale probabilità rende molto difficile tener conto di questo aspetto. 2 In questo rapporto i termini ‘cluster’ e ‘distretto’ sono utilizzati come sinonimi.

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della ricerca collaborativa (logica controfattuale e matching, analisi delle rete sociali, metodologia della

valutazione realista) e si individuano alcuni importanti indicatori utili per la valutazione dei progetti

collaborativi e dei distretti tecnologici. Nel Capitolo 5 viene analizzata la banca dati OpenCoesione,

sviluppata dal Ministero dello Sviluppo Economico e relativa ai progetti finanziati con Fondi Strutturali.

Partendo da tale banca dati si cerca di individuare l’insieme dei progetti collaborativi in R&S, definiti come

rapporti collaborativi di tipo formale fra una pluralità di attori di vario tipo (imprese, centri di ricerca

pubblici e privati, università). Nella versione presentata in questo rapporto, vengono individuati, in assenza

di ulteriori informazioni, solo una parte, anche se preponderante, dei rapporti collaborativi finanziati con

fondi strutturali. Sono state quindi elaborate statistiche descrittive a livello regionale per i progetti

cooperativi finanziati. Tali statistiche riportano la distribuzioni per tipologia degli attori coinvolti e

l’ammontare dei finanziamenti. Il Capitolo 6 è dedicato all’analisi dei casi studio, la cui versione completa

viene riportata in appendice. I casi studio sono stati scelti con riferimento a tre regioni del Mezzogiorno

(Calabria, Puglia, e Sicilia), dove sono stati esaminati altrettanti distretti tecnologici, e ad una dell’Italia

centrale (Marche), dove viene invece analizzato lo strumento del bando pubblico. I casi studio considerati

riguardano sia contesti regionali differenti sia tipologie di reti differenti. Le domande ai soggetti intervistati,

istituzioni e imprese, hanno coperto i seguenti aspetti: i) Ostacoli nelle attività di R&S collaborativa, dalla

fase iniziale di preparazione dei progetti fino alla fase conclusiva di rendicontazione; ii) Ruolo del

finanziatore pubblico in tutte le fasi delle attività collaborative (e possibile modifica di tale ruolo); iii)

Benefici della ricerca collaborativa. Infine, il Capitolo 7 conclude il rapporto, con alcune considerazioni

sull’efficacia delle politiche collaborative condotte in Italia - con particolare riferimento a quella per i

distretti tecnologici - e suggerendo alcune possibili modifiche elle stesse.

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Figura 1.1 - Schema interpretativo delle politiche di intervento a favore della ricerca collaborativa

Contesto

Caratteristiche delle

politiche di

intervento

Governance

Tipologie di

rete

Soggetti

Sostenibilità

della rete

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CAPITOLO 2

LA LETTERATURA SULLA COLLABORAZIONE IN R&S

La ricerca economica sulla collaborazione nella R&S e sulle reti innovative si è sviluppata lungo due

direttrici: la prima di natura teorica volta ad evidenziare i vantaggi che le imprese hanno dall’attività

collaborativa; la seconda, di natura applicata, volta da un lato a verificare i determinanti dell’attività di

collaborazione e dall’altro a confrontare la struttura delle collaborazioni di tipo spontaneo da quelle sorte

come effetto di aiuti di stato. Vantaggi relativi alla collaborazione nella R&S derivano da un lato dalla

complementarietà delle attività necessarie per la realizzazione di un progetto di ricerca e dal coordinamento

delle stesse e dall’altro dai vantaggi di tipo informativo. I vantaggi legati alla complementarietà sono legati

all’esistenza di risorse scarse specifiche all’impresa e non reperibili sul mercato per cui è solo attraverso

un’attività di coordinamento fra le imprese che è possibile sfruttare in modo comune tali competenze (Katz e

Ordover, 1990; De Bondt, 1997; Salant e Schaffer, 1998). I vantaggi derivanti dal coordinamento nelle linee

di ricerca sono: la riduzione dei costi fissi in quanto si evitano duplicazioni nell’attività di ricerca, lo

sfruttamento dei rendimenti di scala crescenti che possono caratterizzare la ricerca (questo può essere vero

superate alcune soglie di scala di investimento o raggiunta una massa critica di risorse), nonché la

condivisione di brevetti (Amir, 2000; Kamien et al., 1992).

Ci sono poi vantaggi di tipo informativo che dipendono in modo stringente dal tipo di rete istituita. Tali

vantaggi risiedono nella capacità di condividere e far circolare le informazioni e nella capacità di controllare

e monitorare il comportamento delle rivali. In un progetto di ricerca il raggiungimento dell’obiettivo

previsto (in particolare in settori come il farmaceutico, chimico, biotecnologico, nuovi materiali, etc.) può

partire da sentieri di ricerca differenti per cui la condivisione delle informazioni fra i partner può ridurre il

numero delle false partenze nelle fasi di progettazione e produzione. In tal modo si riducono i costi e si

accelera il tempo in cui un prodotto è portato sul mercato. Man mano che nuove imprese si aggiungono ad

una rete il pool delle informazioni disponibili dall’insieme delle imprese appartenenti ad una rete cresce e

quindi, per ciascun partner, aumenta l’utilità di appartenere ad una rete. Quindi la condivisione delle

informazioni accresce le esternalità di rete.

La letteratura analizzata si basa in parte su analisi di casi studio ed in parte su lavori econometrici. Il

paragrafo 2.1 considera i fattori che favoriscono la cooperazione nel suo insieme, il paragrafo 2.2 evidenzia

il differente impatto di tali fattori sulle collaborazioni instaurate con i possibili tipi di partners; il paragrafo

2.3 approfondisce i fattori più rilevanti nelle relazioni tra imprese ed enti di ricerca. Infine, nel paragrafo 2.4

si presenta una riflessione sulla protezione della proprietà intellettuale, un aspetto particolarmente delicato

nei rapporti di ricerca collaborativi.

2.1 La letteratura empirica sui fattori che determinano la collaborazione in R&S

In questo e nei successivi paragrafi intendiamo offrire una sintesi dei risultati raggiunti dalla letteratura

teorica ed empirica sui fattori determinanti della cooperazione nella R&S, discutendo anche delle

implicazioni in termini di benessere sociale. Ciò allo scopo di individuare le caratteristiche di una politica a

favore della costruzione di reti innovative.

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Tra i principali fattori determinanti della cooperazione nelle attività di ricerca e sviluppo un ruolo centrale è

giocato dalla possibilità di aumentare e migliorare il grado di conoscenza. Molti lavori trovano che

l’acquisizione e la creazione di nuova conoscenza rappresentano fattori chiave per l’instaurarsi di

collaborazioni in R&S (Caloghirou e Vonortas, 2000; Caloghirou et al., 2003). Elevati incoming spillovers e

outgoing spillovers incentivano le imprese ad allacciare accordi cooperativi. Inoltre, anche l’appropriabilità

dei risultati della ricerca ha un effetto positivo sulla propensione a collaborare (Cassiman e Veugelers, 2002;

Abramovsky et al., 2005). Le imprese più abili nel catturare i flussi di conoscenza esterna e nel proteggere la

propria base di conoscenze, quindi, appaiono maggiormente inclini a cooperare nelle attività innovative.

Altri lavori hanno analizzato come varia la propensione delle imprese a collaborare in base alle

caratteristiche del mercato di riferimento. I risultati mostrano che la difesa o l’incremento della quota di

mercato (Link e Zmud, 1984), la possibilità di ottenere le conoscenze tecniche necessarie per una

diversificazione orizzontale e/o verticale (Link e Bauer, 1989; Link, 1990) e la concentrazione del mercato

(Hernan et al., 1999) rappresentano incentivi validi alla cooperazione in R&S. I lavori elencati finora hanno

tutti verificato implicazioni derivate dalla letteratura teorica di Industrial Organization (I.O.).

Strettamente collegato con i flussi di conoscenza vi è il concetto di absorptive capacity introdotto da Cohen

and Levinthal (1990) e definito come la capacità di riconoscere, assimilare ed utilizzare per fini commerciali

la conoscenza esterna. Diversi studi trovano che le imprese con elevati livelli di absorptive capacity,

misurata come intensità della spesa in-house per la R&S o come percentuale di addetti nella R&S o ancora

con la presenza di una struttura permanente per la ricerca, ottengono maggiori benefici dalla cooperazione e

sono quindi più propense a stringere alleanze nella R&S (Bayona et al., 2001; Miotti e Sachwald, 2003;

Lopez, 2008; Arranz e Arroyave, 2008; Veugeles, 1997; Cassiman e Vuegelers, 2002).

Altri studi evidenziano che la probabilità di instaurare legami collaborativi è maggiore se i soggetti

presentano elevata complementarietà della conoscenza (Sakakibara, 1997; Hagedoorn, 1993). La

complementarietà ha un ruolo importante anche in relazione ad altre risorse. Hite e Hesterly (2001), ad

esempio, affermano che le imprese instaurano relazioni di rete con lo scopo di beneficiare di risorse

complementari sia in termini di assets e sia in termini di competenze. In linea con tale idea, Roller et al.

(1997) e Navaretti et al. (1999) trovano un impatto positivo della complementarietà di prodotto e Das e Teng

(2000) della complementarietà tecnologica sulla propensione a cooperare delle imprese. Rispetto alla

complementarietà tecnologica, tuttavia, si segnalano alcuni lavori che forniscono risultati contrastanti.

Cantner e Meder (2007), ad esempio, mostrano che la prossimità tecnologica, e quindi una maggiore

omogeneità tra i soggetti, ha un effetto positivo sulle collaborazioni nelle attività di ricerca. Di conseguenza

il ruolo della complementarietà tecnologica che emerge dalla letteratura non è univoco. Ciò può dipendere in

parte dalla difficoltà nel misurare empiricamente la similarità/dissimilarità tecnologica di due soggetti.

Altri fattori che spingono le imprese a collaborare riguardano i vincoli alle risorse. Alcuni lavori forniscono

evidenza empirica che la riduzione dei costi per lo sviluppo di nuovi prodotti/processi e la condivisione dei

relativi rischi spingono le imprese a formare accordi collaborativi. Lo stesso dicasi per i vincoli

organizzativi, intesi come carenza di personale specializzato nella R&S o come rigidità dell’organizzazione,

che obbligano a posticipare o ad abbandonare la realizzazione di progetti innovativi (Sakakibara, 1997;

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Bayona et al., 2001; Tyler e Steensma, 1995). Tuttavia, come rilevato da Chun e Mun (2012), non tutti gli

studi sono concordi con simili conclusioni. Miotti e Sachwald (2003), ad esempio, non trovano effetti sulla

probabilità di collaborazione né di riduzione dei costi né di condivisione del rischio.

Ulteriori analisi basate su casi studio hanno indicato la creazione di nuove opportunità di investimento e lo

sfruttamento di sinergie quali motivazioni che spingono le imprese a cooperare (Vonortas, 1997, 2000). I

lavori incentrati sulla complementarietà e sui vincoli delle risorse sono più vicini alla letteratura teorica di

tipo manageriale, con particolare riferimento alla resource-based theory.

La letteratura esistente ha dato ampia importanza anche alla dimensione d’impresa ed al settore

economico in cui questa opera. Riguardo alla dimensione, esiste una robusta evidenza empirica circa una

correlazione positiva con la probabilità di cooperazione nella R&S (Fritsch e Lukas, 2001; Roller et al.,

1997; Colombo e Garrone, 1996). Alcuni autori giustificano tale relazione osservando che le imprese di

maggiori dimensioni effettuano una più intensa attività di ricerca e sviluppo interna e quindi hanno una più

elevata absorptive capacity (Negassi, 2004). D’altronde, si potrebbe anche ritenere che, avendo maggiori

risorse umane e finanziarie, le grandi imprese sarebbero in grado di portare avanti da sole le proprie attività

di R&S, senza la necessità o l’utilità di collaborazioni esterne. In altre parole si potrebbe affermare che al

crescere della dimensione si attenuano i vincoli relativi alle risorse visti in precedenza. Per quanto riguarda i

settori di appartenenza delle imprese, ci sono diversi lavori che indicano come la propensione a collaborare

nella R&S sia maggiore nei settori a più elevata intensità tecnologica (Bayona et al., 2001; Miotti e Schwald,

2003; Dachs et al., 2008). Un simile risultato viene spiegato con la maggiore complessità tecnologica e con

la maggiore velocità del cambiamento tecnologico che caratterizza i settori ad alta intensità di tecnologia

(Leiponen, 2001; Klevorick et al., 1995; Pavitt, 1984). Tether (2002), inoltre, mostra che le imprese inclini

verso innovazioni di tipo radicale sono più propense a cooperare nelle attività di R&S rispetto alle imprese

che si concentrano su innovazioni incrementali.

Il finanziamento pubblico può stimolare le organizzazioni a collaborare e a condividere conoscenza,

incrementando il benessere sociale e la capacità innovativa delle imprese. Tuttavia un sussidio alla R&S può

ridurre i vincoli finanziari delle organizzazioni che ne beneficiano, diminuendo alcuni incentivi a collaborare

come ad esempio quelli legati alla condivisione dei costi. In tal caso si ha un effetto negativo sulla

probabilità di collaborazione. D’altronde un incentivo alle imprese per collaborare può aiutare queste ultime

ad allacciare una collaborazione ritenuta utile, ma che potrebbe non realizzarsi per la presenza di altri

fallimenti del mercato, come ad esempio la mancanza di coordinamento e di informazione, o l’opportunismo

dei partners. La grande maggioranza dei lavori empirici comunque mostra che i sussidi pubblici hanno un

effetto positivo sulla collaborazione in R&S (Badillo e Moreno, 2012; Gussoni 2009; Czarnitzki e Kraft

2012; Cassiman e Veugelers, 2002).

Buona parta della letteratura manageriale (Kale e Singh 2009; Ciborra, 1991; Ring e Van de Ven, 1994)

mette l’accento sulle collaborazioni spontanee. Ma occorre tener presente che molte reti di collaborazione

nascono come effetto di programmi pubblici. Un aspetto interessante, anche se non molto analizzato, è il

confronto fra le caratteristiche dei due tipi di collaborazioni. Va segnalato al riguardo il lavoro di Hagedoorn

e Schakenraad (1993) che confronta reti spontanee e reti sussidiate, mostrando che non vi sono forti

differenze in termini di numero e di intensità dei legami fra le imprese. Un recente lavoro (Matt et al., 2011)

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confronta alcune collaborazioni sponsorizzate nell’ambito dell’European Framework Programme con altre

collaborazioni spontanee. Il principale risultato del lavoro è che le collaborazioni finanziate dalla UE hanno

un carattere più esplorativo e si focalizzano su competenze periferiche. Esse inoltre sono meno flessibili a

causa delle rigide regole di monitoraggio che in ogni caso appaiono importanti ai fini del successo della

cooperazione. Per il resto, non vi sono grandi differenze fra collaborazioni spontanee e quelle finanziate

nell’ambito dei programmi UE.

Una letteratura empirica più recente ha cercato di verificare se la propensione a collaborare dipende in

qualche modo da aspetti di natura sociale e da aspetti di natura geografica. In base alla network formation

theory la posizione di un soggetto all’interno della rete è ritenuta un determinante chiave della cooperazione

(Bala e Goyal, 2000). Questo perché per valutare i benefici di una collaborazione bilaterale bisogna prendere

in considerazione non solo la conoscenza scambiata tra le due organizzazioni direttamente coinvolte, ma

anche la conoscenza a cui le organizzazioni possono indirettamente accedere tramite la propria rete di

collaborazione. Al momento ci sono pochi studi che verificano se le caratteristiche di una rete influenzano le

scelte di collaborazione delle organizzazioni che vi partecipano, o per utilizzare un termine della social

network analysis, dei propri nodi. Goyal et al. (2006), ad esempio, mostrano che il grado di coinvolgimento

all’interno della rete, ciò che nella letteratura di social network analysis è definita come structural

embeddedness (Granovetter, 1985; Uzzi, 1997), è un fattore chiave nello spiegare le strategie collaborative.

Conclusioni analoghe emergono da altre analisi empiriche (Sorenson e Singh, 2007; Chung et al., 2000).

L’idea sottostante di tale filone di letteratura è che il trasferimento tecnologico può realizzarsi sia attraverso

legami diretti, come in una collaborazione bilaterale, e sia attraverso i legami indiretti delle organizzazioni

all’interno delle propria rete di collaborazioni.

I vantaggi della collaborazione non riguardano solo le reti fra le imprese ma anche quelle fra istituzioni,

organismi di ricerca e imprese. Ciò è anzitutto sostenuto dal modello della Tripla Elica (università, industria,

istituzioni) (Etzkowitz e Leydesdorff, 2000; Leydesdorff e Meyer, 2006). Anche in questo caso la letteratura

empirica mostra che la collaborazione fra differenti tipi di organizzazioni (grandi imprese, piccole imprese,

università e centri di ricerca) può in particolari casi aumentare la profittabilità delle imprese impegnate nel

progetto (Oxley 1997, Caloffi et al., 2013).

Alcuni lavori hanno anche evidenziato il ruolo della conoscenza precedente quale fattore in grado di

favorire l’instaurarsi di legami cooperativi (Gulati, 1998). In questa direzione, Paier and Scherngell (2011)

forniscono evidenza empirica dell’effetto positivo di relazioni di lungo periodo e della conoscenza reciproca

sulla fiducia tra le organizzazioni, che a sua volta rende più probabile la nascita di collaborazioni strategiche

nella R&S.

Alcuni studi di geografia dell’innovazione hanno affermato che la prossimità spaziale favorisce le relazioni

interpersonali e quindi i processi innovativi (Zucker et al. 1994; Almeida e Kogut 1999; Singh 2005; Breschi

e Lissoni 2001; Mairesse e Turner 2006). Secondo tali lavori la vicinanza geografica può ridurre i costi di

coordinamento e rafforzare la condivisione della conoscenza, con un effetto positivo sulla cooperazione tra

organizzazioni. In verità, alcuni lavori come, ad esempio, Ponds et al. (2007) hanno rilevato che gli aspetti

geografici contano nelle scelte collaborative solo in quanto favoriscono le relazioni interpersonali e non di

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per sé. Tale idea è stata ripresa da studi successivi (Maggioni et al., 2007; Maggioni e Uberti, 2011) e

supportata empiricamente da alcuni studi (tra gli altri Autant-Bernard et al., 2007; Ardovino e Pennacchio,

2014)

Infine, alcuni lavori recenti hanno posto l’accento sull’importanza dell’ambiente esterno nel determinare le

strategie collaborative delle organizzazioni. Srholec (2015), ad esempio, mostra che le collaborazioni cross-

country, cioè le collaborazioni tra organizzazioni di paesi differenti, sono più diffuse nei paesi caratterizzati

da scarsa presenza di infrastrutture della ricerca e da sistemi di innovazione meno sviluppati. Bellucci e

Pennacchio (2015) invece mostrano che la collaborazione tra imprese ed enti di ricerca è più intensa nei

paesi in cui il sistema della ricerca ha una maggiore entrepreneurial orientation ed una più elevata qualità

della ricerca.

2.2 I fattori determinanti la collaborazione nella R&S con diversi tipi di partners

L’effetto sulla probabilità di cooperare dei fattori appena elencati non è univoco, ma varia in base a

molteplici dimensioni. Nel seguito si riassumono le principali evidenze empiriche della letteratura che ha

posto l’accento sull’effetto eterogeneo che i vari determinanti hanno sulla cooperazione con i diversi tipi di

partners. La scelta su quali e quanti tipi di collaborazione porre in essere rappresenta una vera e propria

strategia a disposizione delle imprese. Di conseguenza diventata interessante analizzare i fattori che

influenzano le imprese nella scelta dei loro partners nell’attività di R&S.

Una macro distinzione relativa alla tipologia di cooperazione ampiamente utilizzata nella letteratura

empirica riguarda la possibilità di un’impresa di collaborare verticalmente lungo la filiera produttiva

(vertical cooperation) oppure orizzontalmente (horizontal cooperation). In linea generale possono essere

individuati 5 tipi di collaborazione in relazione al punto in cui avvengono lungo la filiera produttiva:

1) Fornitori;

2) Consumatori o clienti;

3) Concorrenti;

4) Istituzioni di ricerca;

5) Consulenti esterni.

La cooperazione con i consumatori e i fornitori, può essere classificata come una cooperazione di tipo

verticale; a sua volta la cooperazione con i competitors ne individua una di tipo orizzontale. Classificare le

altre tipologie di cooperazione seguendo queste due dimensioni è leggermente più complicato, visto che

potrebbero riguardare vari aspetti della fase produttiva sia monte, sia a valle. Se si considera la “classica”

distinzione tra ricerca di base, applicata e sviluppo sperimentale, allora i rapporti con i centri di ricerca

riguardano prevalentemente la ricerca di base/applicata, mentre i rapporti con i consulenti (lancio di un

nuovo prodotto, design, ecc.) riguardano generalmente la ricerca applicata e lo sviluppo

sperimentale/commercializzazione.

La letteratura empirica ha analizzato soprattutto le prime quattro forme di collaborazione, dedicando invece

minore spazio alla cooperazione con i consulenti esterni (Aschoff e Schmiddt, 2008; Belderbos et al., 2004;

de Faria et al., 2010; Franco e Gussoni, 2010).

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Un primo risultato empirico conferma l’effetto positivo degli incoming spillovers su tutte le tipologie di

cooperazione (Badillo e Moreno, 2012; Gussoni, 2009; Czarnitzki e Kraft, 2012). Gli incoming spillovers

derivanti da collaborazioni con i competitors hanno un impatto minore rispetto a quelli derivanti da

collaborazioni di tipo verticale con fornitori e consumatori. Particolare importanza assumono invece gli

spillovers derivanti da cooperazioni con enti di ricerca, significativi per tutti gli altri tipi di cooperazione, e

con un effetto maggiore per le collaborazioni con gli istituti di ricerca (Cassiman e Veugelers, 2002). Tali

spillovers hanno un effetto anche sulle cooperazioni verticali e orizzontali.

L’absorptive capacity impatta in maniera decisamente eterogenea sui diversi tipi di cooperazione. Appare

come un fattore chiave nelle collaborazioni con gli enti di ricerca e un fattore importante ma meno rilevante

nell’aumentare la probabilità che si instaurino collaborazioni di tipo verticale. Non sembra invece in grado

di stimolare la cooperazione con i concorrenti.

La gran parte degli autori trova un impatto positivo e significativo della dimensione d’impresa e dei

finanziamenti pubblici sui vari tipi di collaborazione (Badillo e Moreno, 2012; Gussoni, 2009; Czarnitzki e

Kraft 2012; Cassiman e Veugelers, 2002). Per quanto riguarda la dimensione, l’effetto è particolarmente

rilevante nei rapporti di collaborazione con gli enti di ricerca. Le imprese di piccole dimensioni, quindi,

hanno una generale difficoltà ad instaurare rapporti di collaborazione in R&S con gli enti di ricerca. A

quest’ultimo proposito, tuttavia, i casi studio da noi esaminati (si vedano i Capitoli 6 e 7) mostrano come la

scarsa capacità di ricerca interna e la necessità di soddisfare vincoli di natura legale come nell’industria

alimentare, possono indurre le piccole imprese a stabilire rapporti di collaborazioni con università e centri di

ricerca. Per quanto riguarda i sussidi pubblici, si evince un simile effetto positivo che però non riguarda la

cooperazione con i competitors. Questo suggerisce che i sussidi tendono a promuovere soprattutto la

cooperazione di tipo non competitivo.

Le tre tipologie di vincoli (costo, rischio e organizzativo) non hanno in genere effetto significativo sulle

varie tipologie di collaborazioni, contrariamente a quanto previsto dalla letteratura.

2.3 Le collaborazioni tra imprese ed enti di ricerca

Diversi studi hanno analizzato le condizioni affinché si realizzino collaborazioni proficue tra mondo della

ricerca e imprese. Questi lavori mostrano che l’esistenza di relazioni di collaborazione precedenti, la

vicinanza territoriale, le caratteristiche della cultura organizzativa degli enti coinvolti, la dimensione

fiduciaria e relazionale e il livello di proceduralizzazione influiscono positivamente sulla propensione a

cooperare.

Relazioni di collaborazione precedenti. L’esito finale di rapporti di collaborazione è favorito da

precedenti esperienze di collaborazione tra enti di ricerca e imprese. La presenza di rapporti

precedenti tra enti facilita, infatti, il trasferimento di conoscenza interorganizzativo. È utile, altresì,

che la partecipazione a progetti comuni sia stabile anche per quanto riguarda gli individui

direttamente coinvolti nelle attività. Un elevato turnover all’interno dei singoli enti, o lo spostamento

di personale da una rete all’altra, potrebbero essere controproducenti dal punto di vista dello sviluppo

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di relazioni interpersonali, e di conseguenza un ostacolo al trasferimento di conoscenza (Goldhor e

Lund, 1983; Cyert e Goodman, 1997; Davenport et al., 1999).

Vicinanza territoriale. La prossimità territoriale tra imprese ed enti di ricerca universitari e non profit

incide positivamente sullo sviluppo di solide relazioni. La vicinanza spaziale dei membri della rete

contribuisce alla formazione di nuovi legami e facilita l’interazione tra gli enti e tra le persone, con

conseguente scambio di conoscenza, in particolare conoscenza tacita (Bonaccorsi e Piccaluga, 1994;

Vedovello, 1997; Fantino, et al., 2012).

Cultura organizzativa. Una cultura organizzativa stabile e fortemente orientate rappresenta la forza

di un’impresa poiché favorisce il raggiungimento della propria missione. In queste organizzazioni la

presenza di una cultura stabile è dimostrata dall’esistenza di un modo comune di procedere delle

persone e la tendenza a prendere decisioni di lungo termine. Gli stessi concetti possono essere

declinati nell’ambito delle reti tra imprese e centri di ricerca. In questo caso la cultura condivisa fa

riferimento alla misura in cui determinate norme di comportamento siano comunemente accettate.

Organizzazioni con una visione culturale comune riescono più facilmente a determinare degli

obiettivi condivisi in merito alla funzione della partnership e ai risultati che ci si propone di

conseguire. D’altro canto, i singoli enti in genere avranno anche i propri obiettivi individuali, il cui

raggiungimento può influenzare anche i risultati della rete nel complesso (Provan e Milward, 2001).

Focalizzare l’attenzione sugli obiettivi condivisi necessita che si valuti la misura in cui gli obiettivi

dei singoli enti sono compatibili tra loro, e con quelli della rete nel complesso. Anche il grado di

condivisione di una stessa cultura è un fattore favorevole per il trasferimento di conoscenza

soprattutto quella a conoscenza tacita; d’altronde, alcuni autori notano come le differenze tra partner

promuovano un processo di apprendimento (Phan e Peridis, 2000). Infatti, le differenze di cultura

possono essere elementi favorevoli al trasferimento di conoscenza. Per questa ragione, quanto

maggiore è l’apertura a differenze negli approcci, nell’ambito di una generale condivisione dei

principi di base, tanto più è probabile che si sviluppino processi di apprendimento.

Fiducia. La fiducia tra gli attori della rete rappresenta un fattore vitale per il successo e lo sviluppo

della partnership. Eventuali tendenze verso comportamenti opportunistici, infatti, possono essere

limitate da orizzonti temporali medio-lunghi entro cui collocare le attività, da interazione frequente

tra i membri, da elevata trasparenza nei comportamenti3. Tutto ciò tenderà a contribuire allo sviluppo

di mutua fiducia, e di conseguenza ad una maggiore disponibilità a trasferire conoscenza (Klofsten e

Jones-Evans, 1996; Davenport et al., 1999).

Reputazione. La reputazione dei singoli attori gioca un ruolo altrettanto fondamentale per il successo

della collaborazione. Nell’area delle relazioni tra università e imprese la alta/bassa reputazione di cui

godono alcuni membri è in grado di favorire/ostacolare la diffusione di fiducia tra i partecipanti al

network (Goldhor e Lund, 1983; Martınez e Pastor, 1995).

Procedurizzazione. Il livello di procedurizzazione aziendale, infine, pare impattare sulle possibilità di

costituire rapporti di collaborazione efficaci: le imprese con meccanismi operativi più definiti

3 Il concetto di opportunismo in economia è stato introdotto negli anni 70’ da Williamson nella sua teoria sui costi di transazione. I

comportamenti opportunistici nascono in condizioni di incertezza e di contratti incompleti allorché le parti cercano di sfruttare a

proprio vantaggio circostanze ad esse favorevoli e non regolamentate contrattualmente. La parte che ha un maggior potere

contrattuale può massimizzare i propri profitti a spese della controparte più deboli. In tali situazioni, relazioni fra le parti che

sarebbero utili dal punto di vista sociale non vengono realizzate.

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riescono a ottenere dei risultati migliori nei processi di trasferimento tecnologico. In altri termini un

elevato livello di istituzionalizzazione ha effetti positivi sull’efficacia delle collaborazioni tra enti di

ricerca e imprese (Geisler e Furino, 1993; Geisler, 1997).

Vincoli regolatori. Questo è un aspetto non molto considerato nella letteratura. Esso riguarda il fatto

che vincoli regolatori sulla qualità dei prodotti o dei processi possono spingere le imprese di piccola

dimensione e con scarse capacità di ricerca interne a stabilire rapporti collaborativi con università e

centri di ricerca. Questo risulta in modo chiaro per quanto riguarda l’industria alimentare del

Mezzogiorno e del Centro-Nord. I casi studio hanno sottolineato che la percentuale di imprese

innovative, in questo settore, è più elevato nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord.

2.4 Proprietà intellettuale, innovazione e politiche pubbliche

Uno strumento largamente utilizzato per risolvere, almeno parzialmente, i fallimenti del mercato che

nascono dal problema dell’appropriabilità dei risultati della spesa in R&S riguarda la protezione dell’attività

intellettuale tramite una specifica legislazione. Quest’ultima può proteggere l’innovatore dall’uso non

autorizzato da parte di terzi della conoscenza e delle informazioni da esso create. In tal modo le leggi

tendono a risolvere, anche se parzialmente, il problema della sottoproduzione di conoscenza che risulterebbe

dai fallimenti del mercato. D’altronde i diritti esclusivi concessi da tali leggi all’innovatore creano un

problema di sottoutilizzazione della conoscenza (ogni prezzo diverso da zero per l’uso di tale conoscenza

riduce il benessere sociale). Per rendere meno severo tale problema le leggi sulla protezione della proprietà

intellettuale hanno durata di tempo limitata, dopodiché la conoscenza diviene un bene pubblico e può essere

usata gratuitamente.

Un ulteriore strumento per superare il conflitto fra rendimento sociale e rendimento privato è la politica di

dare un sussidio alla attività di ricerca. In linea di principio il valore del sussidio dovrebbe essere pari al

valore della spesa sostenuta dall’inventore, ed in tal modo non si scoraggerebbe quest’ultimo dall’investire.

L’inventore, d’altro canto, dovrebbe autorizzare in modo indiscriminato tutti all’uso della conoscenza

prodotta. In altre parole, la conoscenza diviene un bene pubblico e non vi è riduzione di benessere sociale.

Questo si verifica con il finanziamento pubblico delle università e dei centri di ricerca. Una situazione

intermedia si ha nel caso in cui si finanzia la ricerca privata ponendo però limitazioni all’utilizzo del diritto

di monopolio sulla conoscenza realizzata dall’innovatore. La concessione di un sussidio alla ricerca privata

può risolvere il problema del sotto-investimento nella conoscenza nel caso in cui l’impresa privata in

assenza di sussidio non avrebbe realizzato l’investimento. Si tratta del cosiddetto effetto di addizionalità (si

veda il Capitolo 3), criterio spesso utilizzato per valutare l’efficacia di una politica di incentivi pubblici alla

R&S. Tale politica però può essere oggetto di tre critiche. La prima è che esso non risolve il problema della

sottoutilizzazione della conoscenza nel caso, come spesso accade, che all’innovatore venga egualmente

concessa la protezione della proprietà intellettuale. Il secondo problema è quello che nasce dal fatto che i

sussidi vengono finanziati con la tassazione, e ciò provoca distorsione nell’uso delle risorse. Infine il terzo

problema è che, a causa dell’asimmetria informativa fra l’impresa che chiede il contributo per l’attività di

R&S e la commissione che decide di concederla, il sussidio può divenire una rendita per l’impresa con

effetti molto modesti di addizionalità. Tali problemi rendono la politica per la R&S largamente imperfetta.

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Occorre quindi individuare metodi per ridurre la distorsione che essa può indurre. Ad esempio, si può

concedere all’inventore la scelta fra richiedere un incentivo alto con il rischio non di non essere finanziato o

chiedere un incentivo basso (o al limite nullo) e maggiore probabilità di essere finanziato. Inoltre, si può

anche dare la possibilità all’innovatore di scegliere fra un alto incentivo e la rinuncia alla protezione legale

della proprietà e fra un incentivo basso o nullo più la protezione legale. D’altronde, in molti casi, la rinuncia

alla protezione legale non implica che cessino gli incentivi all’innovazione. Questo accade allorché gli

innovatori riescono a mantenere il segreto sulle loro scoperte. In una simile situazione, se la segretezza

risolve il problema della sottoproduzione dell’attività di ricerca non risolve quello della sottoutilizzazione

della conoscenza. Il segreto limita la possibilità di diffusione e ciò è un costo per la società.

E’ anche possibile che l’investitore rinunci alla protezione legale, in quanto eccessivamente costosa, ed

accetti quindi il rischio dell’imitazione. Spesso l’imitazione non è immediata e implica particolari capacità

di assorbimento della conoscenza da parte dell’imitatore. Questo permette all’innovatore di godere di un

vantaggio comparato per un tempo sufficiente lungo in cui può recuperare le spese sostenute. Alcuni studi

empirici (si veda ad esempio Arnand e Galitonic, 2004) basati su interviste a managers hanno trovato che la

segretezza (per le innovazioni di processo) e strategie basate sul vantaggio della prima mossa (per le

innovazioni di prodotto) sono ritenuti strumenti migliori per ottenere adeguati rendimenti della spesa in R&S

della stessa protezione legale della proprietà intellettuale. Quindi l’esistenza di scarti temporali per i processi

di innovazione, l’esistenza di curve di apprendimento e adeguate capacità di marketing sono viste più

efficaci nella protezione della proprietà intellettuale di quanto non siano le norme legali. La principale

eccezione a quanto ora detto riguarda il settore chimico farmaceutico ove la protezione legale è importante

non solo per gli elevati costi sostenuti ma anche perché in tali mercati il cambiamento è cumulativo, nel

senso che lo sviluppo di un prodotto risulta da varie fasi di innovazione e ricerca. In tal caso i nuovi prodotti

devono utilizzare l’innovazione originaria e pagare una rendita al primo innovatore per l’uso della stessa4.

4 Un esempio interessante è quello della scoperta della sequenza del genoma umano da parte di Celera che ha utilizzato la

protezione della propria scoperta per chiedere una rendita sui geni scoperti aumentando i costi per i nuovi innovatori e rallentando

il flusso di innovazioni. (Williams, 2010)

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20

CAPITOLO 3

LE POLITICHE PER LA RICERCA COLLABORATIVA

3.1 Le politiche nazionali per la ricerca collaborativa

Come evidenziato nella letteratura, la ricerca industriale collaborativa è considerata come una possibile

soluzione alle barriere che impediscono alle imprese, individualmente, di realizzare efficacemente l’attività

di ricerca. La collaborazione permette alle imprese di unire le proprie risorse – finanziarie, fisiche e umane –

e condividere i rischi per riuscire a superare le barriere esistenti. La prossimità geografica è un potente

stimolo per la collaborazione tra imprese, grazie alla più facile diffusione di conoscenze e all’esistenza di

catene di fornitura comuni, che favoriscono la condivisione dei costi destinati alla ricerca e a servizi

accessori (ad es. di formazione). La collaborazione con organismi di ricerca (incluse le università) è un altro

importante fattore per assicurare l’efficacia della ricerca e innovazione. In particolare, la collaborazione tra

imprese ed enti di ricerca risponde alla necessità di internalizzare gli spillover informativi, permette alle

imprese di accedere a conoscenze, infrastrutture e servizi di ricerca di punta e incrementare la produttività

delle proprie attività di innovazione, e agli enti di ricerca di accedere a capacità e risorse industriali per

commercializzare le idee della ricerca o testarne il potenziale commerciale (Cunningham e Gök, 2013).

Tuttavia, in presenza di interazioni deboli tra i diversi attori, a causa dell’incapacità o della riluttanza delle

imprese a formare partnership e reti con altre imprese, la collaborazione nei processi di ricerca e

innovazione si riduce, creando così il presupposto per l’intervento pubblico. L’esistenza di potenziali

sinergie tra la ricerca e le politiche di sviluppo economico è riconosciuta dalla Commissione Europea fin dai

primi anni Novanta e continui tentativi di promuovere l’integrazione tra le politiche di sviluppo regionale e

le politiche di R&S sono stati fatti sin da allora (Commissione Europea 1998, 2006, 2010; EURAB 2007;

Consiglio Europeo 2000 e 2005). I dati di spesa dei Fondi Strutturali evidenziano un orientamento crescente

verso gli investimenti in R&SS: se nel periodo di programmazione 2000-2006 non più del 7% della spesa

della politica di Coesione è stata indirizzata ad attività connesse al mondo della R&S5, questa quota è

cresciuta a circa il 25% nel periodo successivo, pari a 86 miliardi di Euro (2007-2013)6 e ci si aspetta che

crescerà ulteriormente durante gli anni 2014-2020. Proprio la strategia Europa 2020, che stabilisce degli

obiettivi sul livello di spesa in R&S, e la definizione di strategie regionali di ‘specializzazione intelligente’

(Smart Specialization) che promuovono la ricerca e innovazione negli ambiti nei quali ciascuna regione

detiene un particolare vantaggio competitivo, dovrebbero dare nuovo impulso alla spesa regionale in R&S.

L’approccio della specializzazione intelligente, in particolare, intende superare il cosiddetto ‘paradosso

dell’innovazione’ (come definito da Landabaso et al. 2001 e 2002), secondo il quale l’innovazione tende

naturalmente a concentrarsi nelle aree più sviluppate, dotate di maggiori capacità e concentrazione di risorse.

Promuovere la R&S in determinate ambiti di specializzazione anche nelle aree più svantaggiate attraverso la

politica di coesione è ritenuto fondamentale per superare le barriere che impediscono di raggiungere gli

obiettivi di crescita del livello di R&S nell’Unione, nonché obiettivi di crescita e convergenza.

Anche l’Italia ha sviluppato nel corso del tempo specifiche politiche per la R&S collaborativa. Le prime

iniziative di supporto diretto alla ricerca applicata in ambito industriale risalgono alla fine degli anni

5 Più precisamente, il 5,5% secondo Technopolis (2006) e il 7,4% secondo la Commissione Europea (2014).

6 Commissione Europea 2014.

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21

Sessanta, con l’istituzione del Fondo Speciale per la Ricerca Applicata – FSRA (legge 1089/68) e

l’attuazione di una serie di interventi a valere su tale Fondo. Il FSRA intendeva incentivare progetti

presentati autonomamente dalle imprese e la costituzione di specifiche società di ricerca per favorire

l’incontro e l’aggregazione tra i differenti attori della ricerca. Negli anni successivi, il numero di strumenti di

policy a valere sul FSRA sono andati aumentando. Questi comprendevano sia strumenti di natura bottom-up,

come il sostegno a progetti di ricerca privata e di formazione professionale7, sia top-down, col

finanziamento di programmi nazionali di ricerca attraverso commesse pubbliche8. L’insieme dei soggetti

ammissibili agli incentivi del FSRA, definito dalla legge 46/1982 e successive modifiche, comprendeva sia

imprese individuali che consorzi e società consortili tra imprese industriali, a capitale misto pubblico e

privati, e consorzi comunque composti, purché a partecipazione finanziaria maggioritaria da imprese

manifatturiere. Alcune forme di supporto alla ricerca collaborativa erano dunque già formalmente previste

dal legislatore.

Dagli inizi degli anni novanta viene proposto un ulteriore strumento a favore della promozione della ricerca

e innovazione collaborativa e coordinata in ambiti territoriali determinati (soprattutto nel Mezzogiorno),

ovvero la creazione di Parchi Scientifici e Tecnologici (PST). Ai Parchi costituiti in forma di consorzio,

società consortile o società per azioni viene assegnato il ruolo di promozione dello sviluppo regionale e il

coordinamento della ricerca e innovazione svolta da diversi soggetti (università, enti pubblici e privati, centri

di ricerca pubblici e privati, imprese). I Parchi offrono infrastrutture e spazi per l’insediamento delle imprese

e/o dei loro centri di ricerca, permettono la condivisione di infrastrutture e laboratori, forniscono servizi di

consulenza, formazione, supporto per il trasferimento tecnologico e altri servizi (logistici, finanziari, ecc.) e

favoriscono la creazione di impresa all’interno di incubatori.

La deliberazione ministeriale del 25 Marzo 1994 individua 13 parchi ai quali è concesso il finanziamento di

diversi progetti di innovazione e di formazione. Tra i progetti di innovazione realizzati, possiamo citare il

progetto “Cooperazione ricerca-imprese e generazione di nuove imprese innovative” del PST della Calabria,

o “Sviluppo di un servizio pilota finalizzato a qualificare/ espandere/ potenziare le nicchie di mercato

biomedicale dell'implanto protesi e di biomateriali per la rigenerazione di tessuti duri e molli” a cura del

PST Ionico Salentino. Oggi esistono circa una trentina di PST in tutta Italia9.

Fino al 31 Dicembre 1998, il FSRA ha impiegato quasi 8000 miliardi per il finanziamento di progetti

autonomamente presentati dalle imprese. Di questi, l’80% è stato assorbito da grandi imprese, appartenenti

soprattutto al settore della meccanica ed elettronica, seguiti da chimica e farmaceutica. Dal punto di vista

geografico, solo il 20% dei fondi è stato allocato nelle regioni del Mezzogiorno (Sud e isole)10

. A questi dati

si devono aggiungere altri 95,7 miliardi di contribuzione a progetti di ricerca proposti dalle piccole e medie

7 Legge 46/1982, legge 22/1987, legge 346/1988, legge 67/1988, legge 151/1997, legge 196/1997.

8 Legge 46/1982 art. 9, Decreto ministeriale e Accordo di Programma del 1990 “Lo sviluppo dei Parchi scientifici e tecnologici

nelle aree meridionali”. 9 Ventisei dei quali iscritti all’Associazione Parchi Scientifici Tecnologici Italiani (elenco consultabile al sito:

http://www.apsti.it/index.php?id=53). 10

Quelle definite come Obiettivo 1 nel periodo di programmazione 2000-2006, ovvero Basilicata, Calabria, Campania, Puglia,

Sardegna e Sicilia.

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22

imprese ai sensi della legge 46/1982, art.4. Non si hanno informazioni precise sul livello di supporto a forme

di ricerca collaborativa.

Nel 1999 si avvia il riordino e lo snellimento della disciplina andatasi formando nei trent’anni precedenti (D.

Lgs. 297/1999) e si modifica il sistema di sostegno della ricerca scientifica e tecnologica. Al FSRA subentrò

il Fondo per l’Agevolazione alla Ricerca (FAR), comprensivo delle risorse del CIPE destinate alle aree

depresse. Il successivo decreto ministeriale 593/2000 introduce la possibilità di presentare progetti in modo

congiunto tra soggetti industriali e strutture del mondo pubblico della ricerca (Università e Enti pubblici di

ricerca), senza la necessità di assumere la forma di una struttura consortile. Per favorire le forme di

collaborazione nelle aree depresse del territorio, dove il numero di imprese che investono in R&S è

inferiore, l’impegno finanziario del soggetto industriale situato nelle regioni del Mezzogiorno può

rappresentare anche solo il 30% dell’impegno finanziario complessivo del progetto, a fronte di una

contribuzione maggiore del 50% richiesta alle imprese con sede in altre aree.

Il processo di riordino della disciplina continua nel 2007, con l’istituzione del Fondo Investimenti per la

Ricerca Scientifica e Tecnologica (FRS), in cui confluirono il FAR, il FIRB (Fondo Investimenti Ricerca di

Base) e le risorse annuali per i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale delle università (PRIN). Il

successivo intervento di revisione della disciplina è contenuto nel decreto sviluppo 83/2012, il quale

conferma la possibilità per ogni organismo giuridico di sviluppare progetti in associazione, consorzio, joint

venture e qualunque altra forma di collaborazione. In aggiunta agli strumenti di supporto più tradizionali,

quali i contributi a fondo perduto e il credito agevolato e in conformità con la disciplina comunitaria in

materia di aiuti di stato11

, a partire dal 2007 vengono introdotti il credito di imposta12

, la prestazione di

garanzie e altre agevolazioni fiscali, i voucher individuali di innovazione e gli appalti pre-commerciali di

ricerca e sviluppo dell’amministrazione pubblica. Inoltre, specifiche modalità di intervento vengono previste

in relazione a iniziative connesse ai cosiddetti Poli di innovazione e ai Distretti (o cluster) tecnologici.

I Poli di innovazione sono definiti dalla Commissione Europea13

come “raggruppamenti di imprese

indipendenti, start-up innovatrici, piccole, medie e grandi imprese, nonché organismi di ricerca attivi in un

particolare settore o ambito territoriale e destinati a stimolare l’attività innovativa incoraggiando

l’interazione intensiva, l’uso in comune di installazioni e lo scambio di conoscenze ed esperienze, nonché

contribuendo in maniera effettiva al trasferimento di tecnologie, alla messa in rete e alla diffusione delle

informazioni tra le imprese che costituiscono il Polo.” La missione dei Poli è di incoraggiare l’interazione

tra le imprese costituenti il Polo e organismi di ricerca, l’uso in comune di installazioni e lo scambio di

conoscenze, per contribuire al trasferimento di tecnologie e informazioni. Come sottolinea un documento

operativo della Regione Toscana (2011), “l’intensa interazione e lo scambio di conoscenza che si verifica

all’interno di un polo di innovazione ovviamente non preclude anzi facilita anche lo sviluppo di attività di

R&S in partnership tra i membri che aderiscono al polo, ma di fatto costituisce una conseguenza ed un

effetto indotto delle attività del Polo di Innovazione”. Il numero di Poli costituiti in ciascuna regione è

variabile. A titolo d’esempio, in Abruzzo ve ne sono 14 mentre in Puglia nessuno.

11

Comunicazione della Commissione Europea 2006C-323/01 e successivo DM 2.1.2008. 12

Legge finanziaria 2007 (296/2006). 13

Comunicazione 2006/C 323/01, ripresa dall’art. 2 comma 4 lettera h) del Decreto M.I.S.E. 27/3/2008 n. 87.

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23

Una differente forma di aggregazione è rappresentata dai Distretti Tecnologici, definiti dal Programma

Nazione della Ricerca 2011-2013 come “aggregazioni su base territoriale di imprese, università ed

istituzioni di ricerca guidate da uno specifico organo di governo focalizzate su un numero definito e

delimitato di aree scientifico tecnologiche strategiche, idonee a sviluppare e consolidare la competitività dei

territori di riferimento e raccordate con insediamenti di eccellenza esistenti in altre aree territoriali del

paese”. I distretti nascono dunque come luogo fisico di governo della ricerca industriale con l’obiettivo di

progettare congiuntamente attività integrate di ricerca e sviluppo tra imprese enti di ricerca ed università. I

primi protocolli di intesa per ammettere i distretti tecnologici al finanziamento ministeriale furono firmati a

partire dal 1999-2000. Nel Dicembre 2010, il MIUR ha avviato un intervento al fine di potenziare i distretti

già esistenti e favorirne la nascita di nuovi nelle regioni appartenenti all’Obiettivo Convergenza.

3.2 Le politiche regionali per la ricerca collaborativa

I principali orientamenti di policy sopra accennati si sono tradotti in programmi di finanziamento che

specificano la strategia di intervento, le priorità tematiche e un piano finanziario su base regionale o multi-

regionale/Nazionale. E’ interessante comprendere in che modo la ricerca collaborativa sia stata

effettivamente promossa dei programmi operativi, analizzando i bandi per il supporto alla ricerca e

innovazione. Nel periodo 2007-2013, sia i programmi a livello nazionale (Piano Operativo Nazionale di

Ricerca e Competitività – PONREC e il Piano di Azione e Coesione – PAC) sia quelli a livello regionale

(Piani Operativi Regionali – POR) hanno previsto la costituzione di aggregazioni stabili di imprese (come i

Poli di innovazione o i Distretti tecnologici) o il finanziamento di progetti di ricerca realizzati da

raggruppamenti temporanei di imprese (e eventualmente centri di ricerca) per i quali il requisito della

collaborazione poteva essere facoltativo oppure obbligatorio.

Un esempio di bando caratterizzato per una forte attenzione al requisito della collaborazione tra diversi

soggetti coinvolti in attività di R&S è il bando Start Up, lanciato nel 2013 dal Ministero dell’Istruzione,

dell’Università e della Ricerca14

nell’ambito del PONREC-PAC (quindi rivolto a tutte le regioni

Convergenza). La linea di intervento dedicata alla promozione di R&S nel campo delle tecnologie digitali

(linea 1 ‘Big Data’) ammette come potenziali beneficiari le micro, piccole, medie imprese esistenti da meno

di sei anni, per progetti individuali oppure congiuntamente tra loro, e/o con grandi imprese, con Università e

Istituti Universitari statali, e/o con Enti e Istituzioni Pubbliche Nazionali di ricerca. La linea di

finanziamento dedicata alla promozione della nascita e sviluppo di Cluster della Social Innovation e

l’aggregazione di competenze tecnologiche come mezzo per l’introduzione di strumenti finanziari innovativi

(linea 3 ‘Social Innovation Cluster’), è destinata a progetti presentati da micro, piccole e medie imprese

esistenti da meno di sei anni, e/o congiuntamente con Università e Istituti Universitari statali, e/o con Enti e

Istituzioni Pubbliche Nazionali di Ricerca vigilati dall'Amministrazione Pubblica Centrale, e/o con altri

organismi di ricerca in possesso. In questo caso è richiesto che i soggetti proponenti (non meno di tre), siano

riuniti in consorzi, società consortili, Associazioni temporanee di Impresa, Associazioni Temporanee di

Scopo. In totale, 61 progetti sono stati ammessi al finanziamento della Linea 1 e sette al finanziamento della

linea 315

.

14

All’epoca presieduto dal Ministro Francesco Profumo (Governo Monti). 15

E’ disponibile la lista di soggetti proponenti ammessi al finanziamento.

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24

Esempi simili possono essere riscontrati anche a livello regionale. La tabella seguente individua le principali

forme di aggregazione di imprese esistenti nelle regioni italiane, le quali sono frutto di specifiche scelte di

policy realizzate negli anni passati miranti alla promozione di progetti R&S congiunti. Per semplicità

limitiamo l’ambito di indagine alle regioni che hanno realizzato il maggior numero di progetti di ricerca e

innovazione nel periodo 2007-2013, come ricavabile dal database di Open Coesione (a tal proposito si veda

il capitolo 5): queste comprendono le quattro regioni Convergenza (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia) e

cinque regioni Competitività e Occupazione, tre al Nord (Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte) e due al

Centro (Toscana e Lazio).

Tabella 3.1 - Forme di aggregazione stabile o temporanea per la R&S collaborativa in nove regioni selezionate Obiettivo della

politica di

coesione

(2007-2013)

Regione Parchi scientifici e

tecnologici (PST):

- Infrastrutture e spazi per l’insediamento delle

imprese e/o dei loro centri di ricerca

- Condivisione di

infrastrutture e laboratori - Servizi di consulenza,

formazione, supporto

- Trasferimento tecnologico

- Creazione di impresa

(incubazione)

Poli di innovazione per la

R&S industriale (PI):

- Organizzazioni che

erogano servizi ai soggetti che aderiscono

al Polo stesso. - Condivisione di

istallazioni

- Diffusione di informazioni

- Facilitazione della

collaborazione e trasferimento tecnologico

Distretti tecnologici (DT):

- Organizzazioni che

attivano e coordinano progetti di ricerca e

innovazione collaborativi in partnership tra imprese

e enti di ricerca aderenti

al distretto

Altre forme di aggregazione:

- Aggregazioni temporanee di soggetti, in risposta a precise

richieste dei bandi, al di fuori di PST, PI e DT

- Altre forme di raggruppamenti e

aggregazioni rilevanti per le attività di ricerca e innovazione

Convergenza

Campania 2 0 7 Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente o

volontariamente dai bandi)

Calabria 2 8 2 /

Puglia 1 0 6 Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente o

volontariamente dai bandi)

Sicilia 1 0 8 Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente da un

bando)

Competitività e Occupazione

Emilia Romagna

2 0 17

- Tecnopoli

- Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente o

volontariamente dai bandi)

Lazio 5 0 4 Altri raggruppamenti temporanei (richiesti obbligatoriamente dai

bandi)

Lombardia 8 0 9

- Meta-distretti - Consorzio Milano-Ricerche

- Altri raggruppamenti temporanei

(richiesti obbligatoriamente o volontariamente dai bandi)

Piemonte 6 11 1

- Piattaforme tecnologiche

- Altri raggruppamenti temporanei

(richiesti obbligatoriamente dai bandi)

Toscana 3 12 5

Altri raggruppamenti temporanei

(richiesti obbligatoriamente dai bandi)

Fonte: Autori, basato su un’analisi di diverse fonti.

Le informazioni sono state raccolte attraverso un’analisi desk di documenti di policy (come le strategie

regionali per l’innovazione) e di materiale di comunicazione prodotto principalmente dall’amministrazione

regionale e dai soggetti gestori di Parchi scientifico-tecnologici, Poli di innovazione e Distretti tecnologici.

Differenti fonti informative sono state confrontate per realizzare una fotografia quanto più accurata e

aggiornata delle modalità di collaborazione per la R&S. Ciò non esclude completamente la possibilità che

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25

rimangano alcune imprecisioni che potrebbero essere sanate solo con un’analisi più approfondita e fondata

su interviste ad attori rilevanti. Il lettore interessato ad avere maggiori indicazioni sul quadro normativo di

riferimento, la strategia della programmazione 2007-2013 e le iniziative poste in essere nelle diverse regioni

Italiane riguardanti l’innovazione, ma non necessariamente la R&S collaborativa, può far riferimento a un

recente studio della Banca d’Italia (2014).

3.3 Le politiche per la creazione dei distretti tecnologici

Abbiamo detto che le politiche di distretto (o cluster) sono una particolare tipologia di politica largamente

utilizzate nell’esperienza italiana. Tali politiche sono generalmente considerate come un importante

strumento per stimolare la collaborazione secondo il modello della tripla elica. Uyarra e Ramlogan (2012)

riassumono così alcune osservazioni a proposito dei distretti che emergono dalla letteratura:

E’ opinione comune che le politiche di cluster forniscano le risorse e il quadro per promuovere il

potenziale di innovazione dei diversi gruppi di interesse;

La fornitura di servizi di supporto all'interno dei distretti (servizi al credito, di marketing, formazione

e business) è un elemento importante per la generazione di benefici a lungo termine;

I distretti hanno bisogno di un team direttivo che possieda un mix di competenze che conciliano

l'interesse dei partecipanti del settore pubblico e privato; sempre in termini di governance, è

importante garantire il coinvolgimento precoce del settore privato così da definire una strategia di

ricerca già orientata al mercato;

L’investimento pubblico per la creazione e lo sviluppo dei distretti è utile per attivare gli

investimenti privati, specialmente nei settori industriale a minore intensità tecnologia e più

tradizionali dove la propensione agli investimenti in R&S è inferiore;

Non c’è evidenza solida che i distretti riescano a generale un impatto significativo e sostenibile in

termini di innovazione, produttività e occupazione.

Le modalità attraverso le quali avviene l’interazione tra i soggetti che hanno deciso di attivare processi di

ricerca collaborativa possono determinare il successo o l’insuccesso della stessa, condizionando

pesantemente la sua efficacia e la possibilità di ottenere dalla relazione dei vantaggi concreti e tangibili. La

letteratura riconosce differenti modi attraverso i quali le imprese possono gestire le relazioni collaborative e

di scambio della conoscenza: socializzazione, internalizzazione, esternalizzazione, associazione (Nonaka e

Takeuchi, 1995). La scelta è essenzialmente operata sulla base della tipologia di conoscenza che si intende

trasferire.

La letteratura sembra concorde nel riconoscere una oggettiva criticità associata alle relazioni di ricerca

collaborativa, che consiste nella difficoltà di appropriarsi dei risultati comuni della ricerca, soprattutto

quando a interagire sono imprese che operano in aree di business simili o contigue e perciò ragionano in una

logica essenzialmente concorrenziale. Alcuni esempi concreti, ad esempio in materia di distretti tecnologici,

tuttavia dimostrano come tali aggregazioni possano essere opportunamente congegnate anche per superare

questi ostacoli. La precondizione per il successo di queste realtà e la generazione di benefici socio-

economici è la medesima: la condivisione di una certa capacità tecnologica e un interesse per lo sviluppo di

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26

tecnologie abilitanti, nonché l’esistenza di un ente capace di far emergere le sinergie e aiutare gli attori

coinvolti a mantenere rapporti stretti di collaborazione.

3.3.1 L’esperienza dei distretti tecnologici e i risultati nel Mezzogiorno

La letteratura empirica sulla valutazione delle politiche per la costruzione di distretti tecnologici nel

Mezzogiorno non è abbondante. Un recente lavoro (Bertamino, et al., 2013) si concentra sulle differenze di

performances fra imprese che appartengono ai distretti e imprese che non appartengono ai distretti,

utilizzando metodi di matching e stime differences-in-differences. I risultati ottenuti mostrano che dopo la

costituzione del distretto le imprese distrettuali non hanno avuto una performance parzialmente diversa da

quella fatta registrare da imprese simili ma non distrettuali. Solo per le imprese di minori dimensioni dei

distretti meridionali emergono alcuni segnali di un effetto positivo sul volume di attività. Purtroppo il

ristretto numero di imprese distrettuali (circa 50) considerate, comporta che il risultato debba essere preso

con grande cautela. L’approccio di cui sopra evidenzierebbe quindi scarsa efficacia delle politiche dei

distretti tecnologici. Bisogna tener conto che il metodo usato si concentra solo sulle imprese e non tiene

conto di effetti positivi anche indiretti che la costituzione di nuovi legami fra i vari attori può avere anche

sulla capacità di assorbimento delle imprese. Questo aspetto si può cogliere solo in un periodo di tempo

relativamente lungo.

D’altronde i risultati ottenuti si possono spiegare con il fatto che la politica per i distretti tecnologici in Italia

non ha certamente seguito i criteri di addizionalità e di efficienza precedentemente indicati per quanto

riguarda la scelta dei progetti e dei distretti. L’elevato numero e l’ eterogeneità dei distretti considerati mette

in evidenza come è prevalso in tal caso un criterio politico mentre per quanto riguarda la scelta dei progetti

hanno prevalso criteri di natura tecnologica più che economica.

Come si è detto i distretti tecnologici si possono distinguere per differenti caratteristiche e ciò vale anche nel

caso del Mezzogiorno. Oltre alla minor presenza di imprese innovative ed alla tradizionale inefficienza delle

pubbliche istituzioni le regioni meridionali si caratterizzano per indici di fiducia interpersonale molto

bassi16

. Tale indicatore non solo è inferiore per l’Italia rispetto agli altri paesi europei ma evidenzia forti

disomogeneità regionali. Mentre le regioni del Centro-Nord dell’Italia includendo l’Abruzzo ed escludendo

l’Emilia-Romagna, formano un’area culturalmente omogenea e sono simili a quelle della Spagna ed alla

zona di Lisbona, e l’Emilia Romagna costituisce un’area a sè con similarità con la Catalogna, i Paesi Baschi

ed il Belga Fiammingo, le regioni meridionali registrano valori sostanzialmente inferiori dell’indice di

fiducia con somiglianza con l’Estremadura della Spagna ed il Portogallo del Nord. Ciò fa pensare che

potenziali rapporti di rete, pur se efficienti dal punto di vista del benessere sociale, non si realizzeranno

spontaneamente a causa del basso livello di fiducia nel prossimo prevalente in tali regioni. Quindi una

politica per la costruzioni di reti innovative potrebbe contribuire allo sviluppo economico di tali aree.

Nei settori innovativi del Mezzogiorno o sono presenti grandi imprese pubbliche e private, sia nazionali che

multinazionali, o piccole e medie imprese che pur avendo capitale umano qualificato sono caratterizzate da

un mercato prevalentemente locale. Per quanto riguarda la prima tipologia di aree sono stati sviluppati alcuni

16

I dati utilizzano l’European Value Study relativo al 1995 e riguardano valori culturali delle regioni europee.

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27

studi, nell’ambito del progetto REPOS17

. Il concetto base è quello di “network additionality” inteso come

creazione di collaborazioni fra imprese e fra imprese e istituzioni che in assenza dello specifico intervento

non sarebbero sorte. Un primo lavoro (Del Monte, D’Esposito, Giordano e Vitale, 2010) analizza un

particolare distretto nel Sud Italia e verifica, attraverso un questionario tre configurazioni di rete (ex ante,

attuale, ex post). Risulta che vi è una tendenza alla crescita alla collaborazione fra le imprese intervistate

rispetto al tempo in cui si è costituito il distretto. Un altro lavoro (Ardovino e Pennacchio, 2012) ha

analizzato utilizzando la metodologia basata sui rapporti diadici fra i partners di 6 distretti tecnologici

indicati dal MIUR (2 nel Sud, 2 nel Nord-Ovest, 2 nel Nord-Est) i fattori determinanti la collaborazione. Un

interessante risultato è che la collaborazione è maggiore nei distretti in cui le università hanno maggior peso

e la governance segue una logica di mercato. La variabile governance è una variabile dicotomica con valore

1 se la collaborazione delle imprese è frutto di una azione spontanea dei vari attori e 0 se la scelta degli attori

è aiutata da una specifica autorità di governance (logica gerarchica). Un altro risultato del lavoro è che i

distretti tecnologici sembrano stimolare la cooperazione fra piccole imprese e fra piccole e grandi imprese.

La presenza di un organismo di tipo gerarchico sembra essere un elemento più importante ove più deboli

sono le forze di mercato nel favorire la collaborazione. Vi è poi un altro lavoro (Cucco e Savoretti, 2013)

che confronta un distretto tecnologico meridionale MIUR con un distretto tecnologico non MIUR del Centro

Italia. Nel primo opera una forma di governance di tipo gerarchico mentre nell’altro, anche se stimolate da

fondi pubblici, le collaborazioni fra gli attori sono di tipo spontaneo. Nel distretto meridionale caratterizzato

da un elevato numero di grandi imprese non locali le collaborazioni fra imprese appaiono più probabili che

le collaborazioni fra imprese e centri di ricerca. Nel distretto del Centro invece, le collaborazioni fra imprese

e università appaiono più probabili. Questo risultato non viene confermato allorché, come vedremo

nell’analisi dei casi studio (Capitolo 6), il confronto viene fatto con distretti meridionali caratterizzati da

piccole imprese. Nel Distretto meridionale gli attori che in passato hanno realizzato joint-ventures sono,

coeteris paribus, più disponibili a intrattenere rapporti di collaborazione. Per quanto riguarda il ruolo di

organismi misti del distretto volti a favorire la collaborazione non risulta dal modello di stima utilizzato,

ERGM, che essi svolgano un ruolo di particolare rilievo.

Questi studi mostrano che dove esistono grandi imprese che operano per i mercati nazionali e internazionali

e centri di ricerca sviluppati la probabilità che si costituisca una rete stabile e robusta sono abbastanza alte.

Le grandi imprese hanno, infatti, già esperienza di collaborazione ed è quindi più facile dar vita a legami con

altre imprese, specie se esistono adeguati incentivi. La presenza di piccole e medie imprese locali con

elevata capacità di assorbimento di nuove tecnologie e di capitale umano, così come centri di ricerca, può

indubbiamente facilitare la costruzione di reti innovative. In tal caso il problema non riguarda tanto

l’efficienza della rete, quanto la sua addizionalità. Quest’ultimo problema sarà tanto maggiore quanto

minore sarà il coinvolgimento delle piccole e medie imprese locali. Il mancato coinvolgimento delle imprese

locali limiterà anche la rilevanza degli effetti indiretti e quindi l’efficienza della politica. In ogni caso

l’esistenza di grandi imprese con mercati non locali differenziati, la presenza di un adeguato organo di

governance indipendente ed un corretto funzionamento delle istituzioni pubbliche può sviluppare reti stabili

ed efficienti.

17

REPOS (Reti, politiche pubbliche e sviluppo) progetto finanziato dalla Regione Campania nell’ambito del POR Campania FSE 2007-2013.

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28

Più complesso è il problema lì dove vi è una concentrazione di piccole e medie imprese, con scarsa

esperienza di collaborazione e che lavorano per un mercato locale. L’esistenza di centri di ricerca e di

capitale umano non è sufficiente a creare reti in assenza di un efficiente organo di governance. La presenza

di grandi imprese non locali può essere di aiuto ma, se queste operano per un mercato locale ed hanno

difficoltà a stabilire rapporti con le imprese locali per la loro attività, la rete che si crea come effetto della

politica per la creazione di distretti tecnologici rischia di essere instabile ed i progetti inefficienti anche se

addizionali.

3.3.2 Approfondimento sul funzionamento e sulle performance dei distretti ADITE

Risultati utili sulle problematiche delle politiche per i distretti tecnologici si possono ricavare da una recente

ricerca18

relativa a sei distretti tecnologici che aderiscono all’Associazione dei Distretti Tecnologici

(ADITE) – IMAST, DHITEC, Torino Wireless, CBM, SIIT, e Veneto Nanotech. Tali distretti hanno come

oggetto lo sviluppo di tecnologie elettroniche ed informatiche, di prodotti chimici e farmaceutici, e di nuovi

materiali ed operano quindi in settori non tradizionali. Nell’ambito della ricerca sono stati intervistai

rappresentanti del mondo universitario e imprenditoriale, nonché figure istituzionali deputate alla gestione

complessiva dei distretti, quali presidenti e amministratori delegati. Gli aspetti su cui si è concentrata la

ricerca hanno riguardato i seguenti temi i:

Nascita dei distretti;

Networking;

Governance;

Sostenibilità delle reti.

Per quanto riguarda la nascita dei distretti, i vari soggetti coinvolti hanno sottolineato l’importanza di una

forte presenza di enti pubblici, università e grandi imprese. In Puglia, ad esempio, il distretto è nato grazie

all’azione pubblica che ha favorito il coinvolgimento delle grandi aziende radicate sul territorio nelle attività

di ricerca e sviluppo. L’intervento pubblico ha, infatti, generato la nascita di laboratori pubblici-privati da

cui successivamente si è sviluppato il concetto di distretto tecnologico e di rete collaborativa. Allo stesso

modo anche per Torino Wireless è stato fondamentale il ruolo dell’attore pubblico che ha fornito chiare

indicazioni sulla direzione che avrebbe preso la politica locale. Anche in Campania e in Liguria la regione

ha avuto un ruolo fondamentale per la nascita dei distretti. Tuttavia anche la presenza di importanti enti di

ricerca, come università e CNR, hanno favorito il coinvolgimento delle grandi imprese, interessate a

collaborare con tali soggetti. I soggetti intervistati hanno inoltre posto l’accento sulla necessità di una linea

duratura e stabile generale entro la quale muoversi, e la necessità di un soggetto pubblico in grado di

supportare le imprese nella fase di accesso ai vari finanziamenti.

A sua volta il coinvolgimento della grande impresa, che in molti distretti rappresentava un obiettivo

privilegiato nella fase di start up, è stato il punto di partenza per il coinvolgimento delle piccole e medie

imprese. Queste ultime sono entrate nelle reti collaborative o perché già collaboravano con le grandi imprese

partecipanti ai distretti o perché interessate ad instaurare relazioni cooperative con tali soggetti. Nel caso del

18

Progetto PRIN “Teorie delle reti, valutazione dei distretti tecnologici e delle politiche per il loro sviluppo” (2008) coordinato

dal Prof. Alfredo Del Monte.

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29

CBM (Friuli-Venezia Giulia), ad esempio, è stato rilevato l’apporto fondamentale delle grandi imprese: le

piccole imprese, infatti, non sarebbero state in grado di gestire da sole i progetti di ricerca industriale perché

troppo complessi e troppo onerosi dal punto di vista economico. Il raccordo tra piccole imprese, spesso

tecnologicamente dinamiche e con valide idee innovative, e grandi imprese, dotate di risorse adeguate, è

stato quindi un risultato molto rilevante dei distretti tecnologici.

La ricerca ha confermato che la capacità di fare rete rappresenta la ragione d’essere e il principale punto di

forza dei distretti tecnologici. Tale concetto va inteso sia in termini di relazioni formali e sia in termini di

relazioni informali. Ogni soggetto che partecipa ad un distretto è caratterizzato dalle proprie competenze

distintive da cui dovrebbe discendere il proprio ruolo all’interno della rete. L’individuazione di ruoli ben

determinati rappresenta il presupposto necessario per la nascita di un sistema efficace di trasferimento

tecnologico in cui tutti gli attori della rete sono sia divulgatori e sia ricettori di conoscenza. Il distretto viene

visto come uno strumento per eliminare, o almeno diminuire, il gap potenziale tra piccola e grande impresa e

tra mondo imprenditoriale e mondo della ricerca. Nel SIIT, ad esempio, tale obiettivo è stato realizzato

creando un consorzio di piccole imprese, quindi una rete di imprese, che come soggetto individuale

partecipa alla rete più ampia del distretto. Il distretto si configura come una meta rete: alla base vi è la rete

generale del distretto; al suo interno operano altre reti che possono essere dei poli innovativi, dei parchi

scientifici o dei consorzi di imprese private. Il distretto tecnologico può quindi essere un formidabile

strumento per ovviare alla ridotta dimensione delle imprese italiane, spesso indicata come vincolo alla

crescita ed alla competitività sui mercati internazionali.

Un altro aspetto di cruciale importanza è la modalità di gestione delle relazioni all’interno del distretto

tecnologico, o in altre parole, la sua governance. Il buon funzionamento della governance è ritenuto un

fattore essenziale per l’intera attività del distretto e dovrebbe stimolare il coinvolgimento ed il senso di

appartenenza di tutti gli attori, evitando fenomeni di disaffezione e di progressiva inattività. La governance è

vista come un elemento qualificante dei distretti: se questi funzionano e perché la governance funziona e

permette ai vari attori di svolgere un ruolo attivo e ben preciso all’interno della rete.

I distretti tecnologici considerati, come già detto, non sono nati in maniera spontanea ma sono stati diretta

espressione della volontà del Ministero e delle regioni. Per tale motivo spesso mancano di una propria

identità. Alcuni distretti si stanno adoperando molto per guadagnare maggiore visibilità all’esterno e per far

capire che essi rappresentano uno strumento utile a tutti gli attori coinvolti. Tuttavia alcuni soggetti pubblici

vivono il distretto ancora in termini competitivi. Le università, ad esempio, hanno spesso espresso una certa

conflittualità tra di loro e nei confronti del distretto, considerando quest’ultimo come un’entità che sottraeva

risorse finanziarie e non come qualcosa di complementare per ottenere risorse aggiuntive. L’opinione degli

intervistati è che i vantaggi del distretto vanno ben al di là del semplice ottenimento di finanziamenti,

estendendosi a tutti i vantaggi di sistema e di collegamento con l’esterno. Per ottenere un simile risultato vi è

l’esigenza di una governance che assicuri il coordinamento/raccordo tra gli attori che costituiscono la rete,

che definisca in maniera chiara il ruolo e il contributo specifico di ciascun attore e che adotti modelli

organizzativi tali da promuovere la collaborazione tra pubblico e privato e tra il distretto ed i suoi

interlocutori esterni. Al fine di facilitare l’attività del distretto, gli intervistati hanno espresso la necessità di

un maggiore coordinamento sia all’interno del distretto e sia tra il distretto e gli altri interlocutori, nonché di

una più chiara condivisione di strategie a tutti i livelli.

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30

Infine gli intervistati hanno posto l’accento sull’importanza della sostenibilità delle reti create all’interno

dei distretti tecnologici. Al riguardo è stato affermato che la ricerca industriale da sola non è sufficiente, ma

deve necessariamente creare opportunità per la nascita di nuove iniziative economiche. L’attività di ricerca

deve essere accompagnata da tutti quei processi e strumenti che assicurano uno stretto collegamento sia con

l’innovazione, che consente di passare dal risultato della ricerca al valore economico, e sia con la

formazione. Per quest’ultima, ad esempio, sono state create delle vere e proprie facoltà ibride, con docenti

universitari ed esponenti di aziende private, che hanno l’obiettivo di creare una cultura condivisa tra il

mondo accademico e il mondo industriale. Si avverte quindi l’esigenza di una politica nazionale e regionale

che valorizzi i distretti tecnologici come strumento per l’innovazione e la crescita del territorio.

La ricerca ha anche evidenziato alcuni fattori critici sperimentati all’interno dei distretti tecnologici. Di

seguito un elenco dei più rilevanti:

La burocrazia rappresenta un ostacolo a volte insormontabile per gli attori dei distretti. Questo

riguarda sia la burocrazia esterna e sia quella interna al distretto. A ciò si aggiunge il problema della

tempistica. I processi per l’approvazione dei progetti sono spesso troppo lunghi. A volte dalla

presentazione del progetto alla sua approvazione passano diversi anni e questo blocca l’attività del

distretto. Inoltre risulta troppo lunga anche la tempistica relativa alla stipula degli accordi, all’avvio

dell’attività e all’erogazione dei finanziamenti;

Manca una programmazione generale da parte del governo che chiarisca su cosa focalizzare e

specializzare l’attività del distretto. A questo si aggiunge una scarsa coerenza tra politiche regionali e

nazionali. Tali fattori comportano una serie di inconvenienti, tra cui l’incapacità dei distretti

tecnologici di presentarsi sui mercati internazionali con la dovuta competitività. Gli attori

interrvistati sono consapevoli che in futuro i distretti dovranno proiettarsi anche su strumenti

internazionali di finanziamento; tuttavia senza il valido supporto dell’attore pubblico essi ritengono

che difficilmente saranno in grado di competere con le altre realtà straniere;

Gli attori dei distretti devono poter contare su un accesso al mercato più agevole. Questo può essere

assicurato da forme di semplificazione e da una maggiore certezza legislativa per l’ottenimento delle

risorse economiche destinate ai distretti;

Gli attori intervistati ritengono che in alcuni casi i piccoli soci sono riusciti a sviluppare grazie al

supporto, alle risorse e alle competenze delle grandi imprese nuove idee. Essi inoltre ritengono che le

piccole imprese possono contribuire con competenze specifiche in determinate nicchie di mercato e

con processi agili e rapidamente adattabili alle varie situazioni.

Lo sviluppo di un sistema regionale innovativo necessita che gli attori presenti nella regione rafforzino sia i

legami all’interno sia che si integrino a livello globale.

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31

CAPITOLO 4

METODI E INDICATORI PER LA VALUTAZIONE DELLA RICERCA COLLABORATIVA

4.1 Criteri di addizionalità e metodi di valutazione

Numerosi sono i motivi che sostengono l’opportunità di un sostegno pubblico all’attività di ricerca svolta

dalle imprese. In teoria il contributo pubblico ad un progetto di ricerca profittevole, può renderlo

conveniente o può velocizzare lo svolgimento dello stesso progetto, incoraggiando quindi l’attività privata in

R&S. Inoltre nel caso in cui il contributo, creando o ammodernando infrastrutture di ricerca, riduce i costi

fissi del progetto in esame, esso può stimolare la spesa in altri progetti non sussidiati. Inoltre il progetto

finanziato può stimolare spillovers di conoscenza e di capitale umano con effetti positivi su altre attività in

R&S. D’altronde non si può escludere l’eventualità che i contributi pubblici sostituiscano la spesa pubblica a

quella privata. Giacché è più economico per una impresa chiedere capitale pubblico piuttosto che ottenere

fondi sul mercato dei capitali, alcuni progetti che sarebbero partiti in ogni caso vengono di fatto finanziati in

modo sostanziale dalla spesa pubblica. D’altronde questi progetti sono probabilmente quelli a più alto tasso

di profittabilità e quindi il finanziarli garantisce all’amministratore pubblico che l’impresa che li ha ricevuti

avrà risultati positivi. Inoltre se l’offerta dei fattori R&S, come il personale per l’R&S, è inelastica

(Goolsbee, 1998) l’inizio dell’attività del progetto può spiazzare altri progetti.

Abbiamo visto nel secondo capitolo che i vantaggi relativi alla collaborazione nella R&S sono stati

analizzati da differenti approcci: l’Industrial Organization approach (I.O.) mette l’accento sulla presenza di

esternalità che determinano fallimenti del mercato; l’approccio manageriale mette l’accento sulla

complementarietà delle attività necessarie per la realizzazione di un progetto di ricerca e sui vantaggi

derivanti dal coordinamento delle stesse; l’approccio delle reti sociali mette l’accento sui vantaggi di tipo

informativo; l’approccio della tripla elica mette l’accento sui vantaggi di tipo sistemico derivanti dalle

relazioni fra università, imprese e istituzioni governative.

Partendo da questi approcci, si sono sviluppati nei vari paesi politiche volte a sviluppare la collaborazioni fra

imprese e fra imprese e istituzioni di ricerca pubbliche e private. D’altro canto l’erogazione di sussidi sia per

rafforzare i legami all’interno sia per attrarre imprese chiave dall’esterno non necessariamente irrobustisce la

capacità tecnologica di una regione e può creare sostanziali problemi di opportunismo e inefficienza. In

astratto sappiamo che una politica a favore della costruzione di reti innovative dovrebbe soddisfare due

criteri: la regola dell’addizionalità e quella dell’efficienza. In base alla prima regola non dovrebbero essere

finanziati progetti che in ogni caso sarebbero stati realizzati con caratteristiche simili. In base alla seconda

non vanno finanziati progetti che utilizzano risorse che sarebbero impegnate in modo più produttivo in altre

attività. I primi due approcci tendono a valutare gli effetti diretti e utilizzano metodologie econometriche e

statistiche, gli altri due approcci analizzano anche effetti indiretti. Il terzo approccio è anch’esso di tipo

quantitativo e utilizza indicatori tratti dalla Social Network Analysis mentre il quarto approccio si basa sulla

distribuzione e analisi di questionari con una metodologia di tipo qualitativo. I vari approcci saranno di

seguito analizzati.

Nel concreto esistono differenze nei territori ove le politiche a favore della cooperazione nella R&S vengono

effettuate per cui i risultati dipenderanno dal tipo di imprese esistenti nell’area oggetto dell’ intervento, dalla

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32

struttura economico – sociale della stessa e dalla tipologia di reti innovative esistenti. I criteri di valutazione

di tali politiche appaiono quindi influenzate dalle caratteristiche strutturali dell’area considerata.

La possibilità che il sussidio pubblico spiazzi l’attività privata ha portato a valutare il successo di un

programma di R&S sulla base del concetto di addizionalità. Nella letteratura sono state individuate tre

tipologie di addizionalità: (1) input additionality; (2) output additionality e (3) behaviour additionality.

L’input additionality riguarda il grado di sostituibilità della spesa dei privati con fondi pubblici e, quindi,

indica se i fondi pubblici spiazzando quelli privati portano o meno ad una crescita della spesa per R&S

nell’economia. L’individuazione di quale spesa in R&S sarebbe stata finanziata in assenza di contributo

pubblico è un problema notevolmente complesso. Idealmente si vorrebbe osservare cosa sarebbe accaduto

all’impresa se essa non avesse ricevuto il sussidio pubblico, ma ovviamente ciò non è osservabile e l’unica

cosa nota è l’ammontare di spesa per R&S effettivamente sostenuta dall’impresa.

L’output additionality riguarda, invece, l’incremento nel grado di progresso tecnico e nella creazione di

valore che si è avuta grazie al sostegno dei fondi pubblici. Infine, la behaviour additionality riguarda gli

effetti della politica degli incentivi sul comportamento delle imprese. Buisseret et.al (1995) hanno definito

quest’ultimo concetto come “il mutamento nel modo in cui l’impresa realizza l’attività di R&S che può

essere attribuito all’azione pubblica; ad esempio modifiche nei programmi di collaborazione, nei programmi

di management, nella sostenibilità delle reti di collaborazione, etc.

Per la valutazione dell’impatto dei programmi di supporto pubblico alla R&S a livello d’impresa vengono

solitamente usate varie metodologie di analisi Una prima metodologia per individuare l’addizionalità del

contributo pubblico consiste nel confrontare il comportamento di imprese che hanno ricevuto il contributo

con quelle che non l’hanno ricevuto. Per evitare problemi di distorsione del confronto fra i due gruppi sono

utilizzate particolari metodologie econometriche: (a) modelli di matching, (b) modelli di selezione e (c)

modelli panel.

Un’altra metodologia per stimare l’addizionalità si basa invece sulla raccolta di informazioni direttamente

presso le imprese che hanno svolto attività di R&S, tramite la somministrazione diretta di questionari. Un

primo problema che sorge con questa metodologia è la difficoltà da parte dell’intervistato nello stabilire ex

post l’ammontare di spesa in R&S che sarebbe stata fatta in assenza di incentivi. Un secondo problema è

inerente all’uso che secondo l’intervistato verrà fatto del questionario. In relazione a questa congettura egli

probabilmente darà un valore volutamente sovrastimato o sottostimato. Il questionario dovrà quindi essere

redatto in modo tale che incrociando le domande si possano individuare eventuali tendenze alla sottostima o

alla sovrastima dell’effetto.

Tornando agli aspetti più generali delle stime un ulteriore problema riguarda l’effetto dell’incentivo

pubblico su specifiche aree all’interno di un paese. In quest’ultimo caso oltre al problema dell’addizionalità

sulla R&S è importante analizzare le esternalità associate al progetto. Esse possono riguardare sia lo

sviluppo di capitale umano, sia la diffusione di nuove tecnologie e conoscenze, sia la costruzione di reti tra

le imprese e quindi il rafforzamento del capitale sociale presente sul territorio. Un contributo può non

determinare addizionalità a livello nazionale, ma può farlo a livello regionale. In tal caso, giacché l’obiettivo

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33

è lo sviluppo locale, l’addizionalità deve essere considerata a tale livello. Tali effetti non sono colti

facilmente dalle analisi econometriche per la mancanza di dati adeguati.

Il problema è ancora più complesso allorché si deve valutare l’efficacia della spesa pubblica effettuata per la

creazione di un distretto tecnologico. La difficoltà dipende dal fatto che non solo si deve valutare l’effetto

del contributo pubblico sul singolo progetto ma sull’insieme degli attori che partecipano alla rete con una

pluralità di progetti. A questo fine l’analisi delle reti sociali si presta abbastanza bene per analizzare l’effetto

complessivo. L’uso della Social Network Analysis (SNA) per la valutazione delle reti innovative è

abbastanza recente. L’analisi delle reti sociali permette di evidenziare sia i benefici degli effetti indiretti che

di quelli diretti19

. L’intensità degli effetti di rete dipenderà dal modo in cui viene trasmessa l’informazione.

La trasmissione delle informazioni avviene sia tramite legami diretti (rapporti di collaborazione fra imprese)

che indiretti, cioè fra parti che non hanno legami diretti; allorché A ha un legame (rapporto di

collaborazione) con B e C ha un legame con B (rapporto di collaborazione) il legame fra A e C è indiretto.

Senza intervento esterno saranno creati spontaneamente solo link individualmente profittevoli. Allo stesso

tempo, ogni nuovo link crea un beneficio indiretto a favore di altre imprese già connesse alle prime. La

somma dei benefici diretti ed indiretti è in questo caso una misura del livello di efficienza della rete. Di

conseguenza, possiamo affermare che non solo sarà efficiente dar vita ad ogni rete caratterizzata da benefici

netti aggregati positivi, ma anche che è più efficiente quella tipologia di rete che rispetto ad altre garantisce

il livello più alto di benefici netti aggregati. La valutazione degli effetti diretti ed indiretti dovrebbe essere

fra i criteri da tenere in considerazione per finanziare o meno reti innovative. Interessante notare la

differenza di questo approccio con quello visto generalmente utilizzato che si concentra sui benefici dei

singoli progetti. Nei modelli basati sulla SNA l’ammontare di beneficio che ottiene un’impresa appartenente

ad una rete è influenzata dai legami indiretti che ha la stessa impresa.

Uno degli aspetti interessanti dell’analisi delle reti è che è possibile pesare i link diretti ed indiretti per

valutare i benefici delle interrelazioni. Il valore di un singolo legame sarà diverso a seconda del tipo di

contributo apportato in termini di conoscenza e esperienza. Il problema è che le informazioni necessarie per

pesare i vari link, a parte il valore dei finanziamenti per i legami diretti, possono essere ottenuti grazie ai

questionari con cui i vari attori valutano il contributo degli altri partecipanti ed alle informazioni contenute

nel rapporto finale che ogni attore deve presentare.

Un altro punto di cui occorre tener conto nella valutazione dei distretti tecnologici è la tipologia dell’organo

che gestisce il distretto tecnologico. In questo caso gli elementi da prendere in considerazione sono

numerosi. Il primo riguarda la struttura di governance di un distretto. I distretti tecnologici presentano

differenti strutture di governance: in alcuni casi, come si è detto, vengono direttamente finanziate le imprese

e non vi sono specifici organismi di governance del distretto; in altri casi esistono particolari organismi che

sono i soggetti promotori del distretto. Tali organismi e non solo i centri pubblici di R&S, e le imprese

fruiscono di risorse pubbliche. Quindi nell’ottica della valutazione occorre distinguere fra la valutazione del

distretto tecnologico nel suo complesso e della specifica struttura di governance.

19

La valutazione degli effetti indiretti ha, a livello micro, un’antica tradizione nell’analisi costi benefici ed a livello macro

attraverso le matrici input-output. Quello della SNA è un approccio diverso in quanto mette l’accento sull’effetto dei legami fra

attori per l’efficacia nella trasferimento della informazione.

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34

Ad esempio, vi potrebbe essere uno specifico apporto dell’organismo di governance grazie al quale le

imprese investono di più in R&S di quanto avrebbero fatto in assenza della struttura di governance, ma in

presenza di un ammontare analogo di sussidi pubblici. Se una tale differenza esiste, essa va imputata

all’azione della struttura di governance. Discorso analogo vale per le altre attività svolte dall’organismo di

governance del distretto tecnologico quali l’attività di formazione di capitale umano (attività di formazione,

borse di studio etc.). Inoltre occorre anche considerare le attività di interrelazione fra i soggetti del distretto

create dalla struttura di governance ed eventualmente altre attività non direttamente finanziate con risorse

pubbliche.

Alla luce di quanto detto è possibile indicare alcune misure per la valutazione delle politiche per la creazione

di distretti tecnologici. Indicatori degli effetti diretti: Addizionalità di inputs del progetto (Spesa in R&S,

numero di addetti alla ricerca, etc..). Addizionalità di outputs del progetto (Indicatori di performances delle

imprese, numero di brevetti, numero di pubblicazioni, etc..). Addizionalità di comportamento delle imprese

aderenti al progetto (propensione a collaborare, modifiche nelle pratiche di gestione, etc..). Indicatori degli

effetti complessivi (diretti e indiretti). Addizionalità di rete delle imprese aderenti al distretto (utilizzo

indicatori della Social Network Analysis come ad esempio indicatori di densità, connettività, dipendenza,

etc..). Nascita di nuove imprese. Rapporto costi/benefici (Valutazione dei benefici dei legami /costi sostenuti

dalle pubbliche autorità, etc..).

Le misure indicate sono solo alcune che possono essere utilizzate per la valutazione. La costruzione di tali

indicatori può basarsi sia su giudizi di tipo qualitativo in assenza di adeguati dati sia di metodologie

quantitative del tipo di quelle indicate in precedenza qualora si abbia un numero sufficiente di informazioni.

Allorché il numero dei distretti esaminati è modesto sarà possibile usare solo metodi qualitativi ai fini della

valutazione. Può quindi essere utile costruire uno schema che permetta di dare giudizi qualitativi sulle

politiche effettuate.

4.2 Descrizione di uno schema per la valutazione qualitativa delle politiche per la creazione di reti

innovative

In questo paragrafo proponiamo uno schema utile per la scelta e la valutazione delle politiche collaborative

tenuto conto del contesto in cui operano. Vi sono vari elementi per caratterizzare le possibili politiche di

intervento ma riteniamo opportuno porre l’accento sulla tipo di connessioni prevalenti nei distretti di regioni

non particolarmente innovative. Vi è una vasta letteratura relativa alla costruzione di tipologie di distretti

(Markusen 1996; Powell e Grodal, 2005; Benneworth e Dasse, 2011) ma l’accento in questi lavori è messo

maggiormente sulle caratteristiche di distretti tecnologici ad alta produzione di conoscenza; meno analizzati

sono i distretti che sorgono come effetto di politiche di intervento in aree a non elevata produzione di

conoscenza. Il nostro contributo intende individuare una tipologia di distretti tecnologici presenti in aree a

non elevata capacità di produrre conoscenza (Figura 4.1).

Partiamo anzitutto dalle caratteristiche del contesto ove operano i distretti in quanto esse influiscono sui

rapporti di collaborazioni. Nel capitolo secondo sono stati indicati i principali fattori collaborazioni: la

fiducia, la capacità di assorbimento degli attori che dipende positivamente dal livello di spese effettuate, il

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35

capitale umano, il tipo di settore considerato, le dimensione delle imprese, la esperienza di attività

collaborative nella regione. Alla luce di tali distinzioni abbiamo individuato una tipologia di distretti che

possiamo trovare in aree a non elevata capacità innovativa.

Distretti hub and spoke (Distretti stellari)

1 Distretto di piccole imprese a bassa capacità innovativa - hub and spoke con università in ruolo core

nella produzione e trasmissione di conoscenza

2 Distretto di piccole imprese a bassa capacità innovativa - hub and spoke e stabilimenti di grande

impresa in ruolo core nella produzione e trasmissione di conoscenza

Distretti paritari

1 Distretto marshalliano di piccole e medie imprese con media capacità innovativa – non vi è un attore

core nella produzione e nel trasferimento di conoscenza

2 Distretto di grandi imprese presenti con branch plant e piccole imprese satelliti – non vi è un attore core

nella produzione e nel trasferimento di conoscenza

Nei distretti hub and spoke il ruolo delle università e della grande impresa è cruciale sia nella produzione e

trasferimento di conoscenza sia nello stabilire legami con le grandi reti innovative. Ovviamente il tipo di

legami con le reti globali permessi dalle università e grandi imprese può essere molto diverso con contributi

più o meno rilevanti per l’incremento della capacità innovativa delle aree oggetto delle politiche. Le

caratteristiche del contesto poi influiscono sulla capacità di assorbimento delle nuove tecnologie e quindi sui

benefici che le aree ricavano da tali legami.

Nel caso dei distretti paritari la produzione locale di conoscenza è certamente maggiore così come la

capacità di assorbimento delle nuove tecnologie. Essa è innanzitutto incorporata nelle imprese e l’università,

spesso non assume un ruolo molto importante, anche se esso può avere effetti positivi. Come abbiamo visto

nel Capitolo 2, l’università svolge un ruolo rilevante nei distretti caratterizzati da settori ad elevata

tecnologia. Essa ha una minore influenza negli altri.

Rispetto ai distretti tecnologici ad alta produzione di conoscenza da noi indicati, non vi è quel forte

collegamento fra grandi imprese, centri di ricerca, istituzioni con le piccole imprese in funzione di

subfornitori (il cosiddetto modello a tripla elica). Nelle aree a non elevata produzione di conoscenza il

problema è rafforzare i collegamenti sia fra i vari tipi di attori sia quelli con il mercato globale.

Abbiamo anche visto nel capitolo secondo che una serie di caratteristiche degli attori: livello dimensionale,

grado di reputazione, grado di procedurizzazione, tipo di cultura organizzativa, intensità della ricerca,

possono influire sulla probabilità e sulla performance della collaborazione. D’altronde i vari attori del

distretto in particolare gli stabilimenti della grande impresa e università possono avere caratteristiche

differenti che influiscono sui rapporti di collaborazione.

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Ad esempio le multinazionali, che possono essere viste come facilitatori della produzione e diffusione di

conoscenza, possono assumere caratteristiche differenti.

Bartlet e Ghoshal (1989) distinguono fra 4 tipi di imprese multinazionali che possono agire in modo molto

diverso come facilitatori di legami:

Imprese multinazionali che hanno attività simili in differenti paesi (vendono prodotti altamente

differenziati sui mercati nazionali);

Imprese globali organizzate secondo una divisione del lavoro molto spinta (vendono gli stessi

prodotti su più mercati);

Imprese internazionali che hanno una specializzazione locale (legata ma non determinata dalla

specializzazione del mercato locale);

Imprese globali con centri di expertise diffusi e limitati collegamenti locali ma con una divisione

interna del lavoro rivolta alla realizzazione di programmi significativi per la società.

Dove vi è un’unica grande multinazionale e molte piccole e medie imprese (PMI) non innovative in settori

confinanti, non appare opportuno finanziare direttamente la multinazionale; è invece opportuno stimolare le

PMI a lavorare con la multinazionale. Inoltre, nel caso di regioni molto dipendenti da una singola impresa, è

chiaro che occorre favorire la localizzazione di nuovi attori in grado di diversificare e sviluppare nuovi

legami con l’esterno. In regioni che hanno imprese già con legami internazionali ma che non cooperano fra

di loro può essere opportuna, invece, una politica per sviluppare dei clusters. In regioni ove vi sono clusters

che non collaborano fra loro, una politica volta a favorire l’interrelazione fra i clusters può permettere lo

sviluppo di aree specializzate in tecnologie multidisciplinari. In tutti questi casi possono essere presenti

ragioni opportunistiche a creare legami per cui la scelta del progetto finanziato deve tener conto del contesto

in cui opera.

Per quanto riguarda le università Boucher et al. (2003) distinguono quattro tipologie di connessioni che le

università possono sviluppare.

Università che operano come singolo attore nelle regioni periferiche: esse aiutano a costruire reti

locali che possono assorbire tecnologie portate nella regione dall’esterno. Nelle regioni ove la

produzione di conoscenza da parte di attori locali è molto modesta le università possono incoraggiare

le imprese locali sia attraverso spin-off, sia attraverso start-up di imprese che sfruttano la conoscenza

dell’università, sia attraverso programmi di consulenza;

Reti di università nelle regioni periferiche: mobilizzano le istituzioni e agiscono come soggetti che

possono favorire l’investimento di attori esterni nella regione;

Università tradizionali che operano nelle regioni chiave: esse trasferiscono la conoscenza alle

imprese locali attraverso la consulenza e lo sviluppo di programmi di formazione. Possono aiutare

inoltre ad individuare nuovi sentieri di ricerca per le imprese locali;

Università moderne orientate alla tecnologia nelle regioni chiave: esse contribuiscono allo

sviluppo di una cultura regionale aperta al mondo internazionale per facilitare la partecipazione in

reti più grandi.

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Ovviamente le differenze del contesto e le differenze nelle caratteristiche degli attori possono influire sui

risultati delle politiche per la cooperazione nella R&S e sugli indicatori di performances delle stesse e di ciò

bisogna tener conto oltre che nella scelta delle politiche anche nella valutazione ex post delle stesse.

Possiamo distinguere le politiche per favorire reti innovative partendo appunto dal tipo di connessioni che

esse intendono realizzare:

Politiche volte a rafforzare i legami fra attori locali (università e imprese);

Politiche volte a rafforzare i legami fra le reti locali e le reti globali grazie alla localizzazione nella

regione di imprese multinazionali;

Politiche volte a rafforzare i legami fra le reti locali e le reti globali promuovendo la competitività

delle imprese locali;

Politiche volte a favorire la localizzazione di imprese nazionali e internazionali e a creare anzitutto

legami fra di esse.

In regioni che non hanno sviluppato una solida rete fra attori locali e che a maggior ragione non sono

inserite in reti globali è indubbiamente prioritario creare tali legami incentivando attori produttori di

conoscenza come grandi imprese e università sia a favorire i legami fra le imprese locali sia a rafforzare il

loro accesso alle rete globali. I legami fra piccole imprese con grandi imprese innovative teoricamente

permettono alle imprese locali di godere dei benefici della rete globale della grande impresa leader,

Christopherson e Clark (2007). Infatti alcuni autori (Benneworth e Dasson, 2011) avanzano l’ipotesi che

migliorando i legami fra il sistema regionale di innovazione ed il sistema globale si può aumentare la

performance innovativa della regione. In particolare il policy maker deve assicurarsi che l’intervento fatto

localmente migliori le connessioni fra gli attori che agiscono a livello globale e l’area di intervento.

Quindi specialmente nelle aree a bassa produzione di conoscenza è opportuno che tali politiche coinvolgano

facilitatori di legami come università e multinazionali. Purtroppo le politiche seguite devono essere

particolarmente calibrate giacché il comportamento di tali facilitatori può divergere a seconda delle

circostanze per cui l’intervento di tali attori non necessariamente migliora la capacità innovativa di una

regione. Differenti tipi di produttori di conoscenza possono offrire differenti tipi di legami con il mondo

globale, in parte in relazione alla tipologia di produttori locali di conoscenza ed in parte al tipo di regione in

cui sono collocati.

La tipologia di distretti da noi indicato può essere vista come un tentativo di fornire uno strumento per

valutare una rete sulla base del flusso di informazioni e quindi di conoscenza che vengono trasmesse. E’

probabile che i distretti hub and spoke garantiscano una modesta capacità di produrre e trasmettere le

informazioni. Questo flusso sarà più elevato nei distretti marshalliani e probabilmente ancora maggiore

allorché tutti gli attori, piccole e medie imprese locali, università e centri di ricerca, grandi imprese esterne,

sono collegati fra loro per produrre e trasmettere e le informazioni. Il passaggio da una situazione di legami

nulli o molto limitati fra gli attori locali ed una situazione tipo 1 e 2 può essere valutata positivamente in

quanto determina un incremento i del flusso di informazioni e di conoscenza. Una politica che, oltre a

produrre conoscenza, permetta di passare da una situazione di assenza di legami ad una in cui esiste, anche

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se modesta, una rete, non può non essere valutata positivamente, specie se le situazioni opportunistiche

vengono limitate. Analogamente il passaggio da tipologie 1 e 2 a una tipologia tipo 3 può determinare un

incremento di conoscenza e quindi essere valutata positivamente. Lo stesso vale per il passaggio dalle

tipologie più basse alla tipologia 4.

Pur tenendo conto che potenzialità di trasferimento di conoscenza non sempre vengono sfruttate pienamente

in quanto dipendono dalle caratteristiche degli attori e dal contesto in cui si muovono la crescita di legami

dovuto alla presenza di nuovi attori sia per numero che per tipologia è indubbiamente un elemento positivo.

Quindi un’analisi del flusso di informazioni e di legami creati è indubbiamente molto utile per un giudizio

sulle politiche per la creazione di reti innovative. Lo schema proposto sarà quindi utilizzato nel Capitolo 6

allorché si presentano i vari casi studio.

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Figura 4.1 –Distretti tecnologici in aree a non elevato grado di innovazione

Distretto Hub and Spoke (Nodi asimmetrici piccole imprese non innovative e Università)

Distretto Hub and Spoke

(Nodi asimmetrici, piccole imprese non innovative e stabilimento di grande impresa)

Distretto marshalliano di piccole imprese innovative (nodi simmetrici)

Distretti di stabilimenti di grandi imprese con piccole imprese subfornitrici e università

Centri internazionali produttori di conoscenza

Centri internazionali produttori di conoscenza

Progetto A Progetto B

Progetto C

Legenda

Stabilimento di

grande impresa

non locale

Università

Piccola impresa

locale

Progetto C

c

Centri di produzione di conoscenza dell’economia globale

Progetto A

Progetto A

Progetto A

Progetto B

Progetto B

Progetto B

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CAPITOLO 5

ANALISI DEI DATI

5.1 Un confronto internazionale su ricerca e innovazione usando la Community Innovation Survey

L’Italia è notoriamente caratterizzata da bassi livelli di spesa per ricerca e sviluppo in rapporto a Pil: 1,3%,

rispetto al 2,1% dell’Unione Economica e Monetaria (Uem) e al 2,9% della Germania (Tabella 5.1).

Tabella 5.1 - Personale e spesa per ricerca e sviluppo per settore istituzionale

Paese Imprese Istituzioni pubbliche

Università e istituzioni

private no profit Tutti i settori

Spesa in rapporto al Pil - Anno 2013

Germania 1,99 0,43 0,51 2,94

Francia 1,44 0,29 0,49 2,23

Area Euro (18) 1,35 0,28 0,48 2,12

Regno Unito 1,05 0,12 0,46 1,63

Italia 0,67 0,19 0,39 1,25

Spagna 0,66 0,23 0,35 1,24

Personale percentuale del totale occupati - Anno 2012

Germania 1,03 0,28 0,79 2,1

Francia 1,3 0,20 0,69 2,19

Area Euro (18) 0,95 0,24 0,79 1,98

Regno Unito 0,69 0,06 1,22 1,97

Italia 0,71 0,21 0,67 1,59

Spagna 0,73 0,32 0,89 1,94

Spesa* per addetto - Anno 2011

Germania 112.804 88.945 39.030 81.998

Francia 75.004 97.994 46.568 67.998

Area Euro (18) 81.679 70.717 36.611 62.452

Regno Unito 99.019 143.569 24.421 54.292

Italia 62.113 49.529 36.983 49.642

Spagna 56.417 47.041 24.042 39.703 Nota: * Euro a parità di potere di acquisto a prezzi costanti 2005

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat.

Se si disaggrega la spesa in ricerca e sviluppo in base al settore istituzionale risulta che in Italia, rispetto alla

media dei paesi dell’Unione Economica e Monetaria, particolarmente basso è il dato delle imprese: 0,67%

contro 1,35%. Le istituzioni pubbliche e le università sono meno distanti: rispettivamente 0,19% e 0,39% in

confronto a 0,28% e 0,48% dell’Uem (Tabella 5.1). Gli stessi dati osservati utilizzando il numero di addetti

in funzioni di ricerca e sviluppo in percentuale del totale occupati mostrano divari meno ampi (Tabella 5.1).

In Italia l’1,6% degli addetti è impegnato in attività di ricerca e sviluppo, contro il 2% dell’Uem ed il 2,1%

della Germania, con un trend di crescita positivo e superiore alla media dell’eurozona. Avere un basso

livello di spesa per R&S e una quota di addetti più vicina al dato degli altri principali paesi europei significa

che ogni addetto ha a disposizione meno risorse. In media in Italia ogni addetto alla ricerca e sviluppo ha a

disposizione circa 50 mila euro, che salgono a oltre 62 mila nell’Uem. Particolarmente inferiori sono i dati

nelle imprese e nelle istituzioni pubbliche dove il divario è di circa 20 mila euro, circa un terzo in più delle

risorse dedicate pro capite in Italia.

Nonostante il basso livello di ricerca e sviluppo registrato, l’Italia in termini di competitività risulta ai primi

posti della classifica mondiale di competitività in molti settori (Tabella 5.2). È prima nel tessile,

abbigliamento e cuoio, seconda, dietro la Germania, nella meccanica. Cosa ancora più sorprendente,

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41

nonostante i chiari limiti di competitività di costo rispetto alle economie emergenti, è che non vi sono perdite

di posizioni tra il 2006 ed il 2013, anzi guadagna un secondo posto nel settore dei mezzi di trasporto,

sostituendo la Francia. Com’è possibile quindi che un Paese come l’Italia con bassi livelli di innovazione,

che non possa (a causa dei costi) o non voglia giocare l’arma dei prezzi, riesca ad essere e rimanere

competitiva?

Tabella 5.2 - Trade Performance Index*

Posizione al 2006 Posizione al 2013

Settore 1 2 3 1 2 3

Mezzi di trasporto Germania Francia Corea del Sud Germania Italia Corea del Sud

Meccanica non elettronica Germania Italia Svezia Germania Italia Svezia

Chimica Germania Olanda Francia Germania Olanda Belgio

Prodotti manufatti di base Germania Italia Svezia Germania Italia Taiwan

Prodotti diversi Germania Italia Svizzera Germania Italia Olanda

Meccanica elettrica ed elettrod. Germania Italia Francia Germania Italia Olanda

IT e elettronica di consumo Svezia Cina Singapore Malesia Olanda Singapore

Prodotti alimentari lavorati Olanda Germania Francia Germania Olanda Francia

Prodotti in legno Germania Germania Finlandia Svezia Germania Finlandia Svezia

Tessile Italia Germania Taiwan Italia Germania Cina

Abbigliamento Italia Cina Romania Italia Cina Turchia

Cuoio, pelletteria e calzature Italia Cina Vietnam Italia Cina Vietnam Nota: * L’indice è costituito da 22 indicatori quantitativi della performance commerciale, che per ciascun paese forniscono la dimensione delle esportazioni, la loro dinamica, il loro rapporto con i flussi di importazione, il grado di diversificazione dei prodotti e dei mercati, la competitività e la specializzazione sia settoriale

sia geografica. Per una descrizione completa del TPI si veda International Trade Centre (2007), Trade competitiveness map, Technical Notes.

Fonte: elaborazioni su dati UNCTAD e WTO.

Va detto che l’utilizzo di indicatori quali la spesa in R&S o il numero di brevetti comporta nelle statistiche

ufficiali una sottostima dello sforzo innovativo, soprattutto dove dominante è la presenza di imprese di

dimensione piccola e media, che tipicamente innovano senza registrare ufficialmente spese in R&S. In Italia

l’attività innovativa è abbastanza diffusa tra le imprese, ma si caratterizza per un avanzamento innovativo

meno marcato. Infatti, in termini di richieste di registrazione di marchi e design, l’Italia si colloca

rispettivamente al quarto e secondo posto in Europa. Anche in termini di numero di imprese che fanno

qualche tipo di attività di innovazione l’Italia mostra una quota del 56,1%, sopra la media Uem del 54,3%

(Figura 5.1).

A livello italiano sono le regioni del Nord che mostrano percentuali di imprese “innovative” più elevate

(Figura 5.2). In particolare a fronte di una media italiana del 52% di imprese che pratica attività di

innovazione il Veneto ed il Friuli Venezia Giulia mostrano quote superiori al 58%, seguite da Toscana

(55,9%), Lombardia (54,2%), Emilia Romagna (53,8%) e Piemonte (53,1%). In base a tale indicatore

risultano più arretrate le regioni del Mezzogiorno, prima delle quali si posiziona la Puglia (46,9%) seguita

dalla Campania (45,2%). In questa macro area ultima si colloca la Calabria (40,6%).

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Figura 5.1 - Quota di imprese per tipologia di innovazione (% sul totale imprese). Anno 2012

Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale,

garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o

servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia differisce da quello diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati nazionali in quanto Eurostat esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012).

Fonte: elaborazioni su dati Cis-Eurostat.

Figura 5.2 - Quota di imprese innovative per regione (% sul totale imprese). Anno 2012

Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale, garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o

servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati nazionali differisce da

Eurostat, in quanto quest’ultimo esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012). Fonte: elaborazioni su dati Cis-Istat.

Prendendo in considerazione la dimensione d’impresa (Figura 5.3) è il gruppo delle grandi imprese che

mostra percentuali di aziende che fanno attività di ricerca o innovazione oltre l’80% per l’Italia. Le imprese

di media dimensione (50-249 dipendenti) seguono con un tasso del 71,4% veramente vicine alla prima della

classifica considerata, ossia la Germania (74,3%). Oltre la metà delle piccole imprese dichiara di effettuare

attività di innovazione, percentuale al di sotto della Germania (63,3%) ma sopra le altre nazioni considerate,

compresa l’Unione monetaria.

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43

Figura 5.3 - Quota di imprese con innovazione per dimensione (% sul totale imprese della stessa classe).

Anno 2012

Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale, garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o

servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia differisce da quello diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati

nazionali in quanto Eurostat esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012).

Fonte: elaborazioni su dati Cis-Eurostat.

Considerando la capacità collaborativa delle imprese nell’attività di innovazione l’Italia si pone dietro agli

altri paesi con il 12,7% di imprese che collabora contro una media europea di oltre il 30% (con un picco del

66% per il Regno Unito, Tabella 5.3). Il modello di collaborazione italiano sembra incentrato nel

privilegiare i clienti pubblici (ma è da tener conto che solo una minoranza delle imprese ha come clienti un

ente pubblico), i fornitori, i consulenti e le università. Bassa la collaborazione intragruppo rispetto agli altri

paesi europei, ma questo è legato alla piccola dimensione delle imprese italiane. Infatti tale forma di

collaborazione sale al secondo posto per le grandi imprese del nostro paese. In generale la collaborazione

con le università e la ricerca è un veicolo di trasferimento di conoscenza importante per le imprese di grandi

dimensioni.

Disaggregando per dimensione sono le imprese più grandi che mostrano una capacità collaborativa

maggiore. In Italia le imprese innovative che cooperano sono il 39,6%, nel caso di quelle con più di 250

dipendenti, il 15,8% nel caso di quelle fra 50 e 249 dipendenti ed il 10,9% nel caso di quelle fra 10 e 49

dipendenti.

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Tabella 5.3 - Quota di imprese innovative che hanno cooperato per tipologia di controparte (% sul totale

imprese innovative della stessa classe). Anno 2012

Dimensione\Tipo di collaborazione

Paese

Italia Germania Spagna Francia Regno Unito UE15

10-49 dipendenti

Imprese impegnate in qualche tipo di collaborazione 10,9 18,2 23,4 29,1 65,5 26,8

Con altre imprese appartenenti allo stesso gruppo 1,7 3,8 3,8 8,5 29,4 8,8

Con competitors o altre imprese dello stesso settore 3,3 3,9 4,9 6,4 19,9 7,8

Con fornitori 3,8 6,2 7,3 9,9 45,0 13,4

Con clienti privati 1,8 3,3 2,0 3,0 20,4 0,0

Clienti pubblici 5,6 6,7 10,0 17,3 36,9 14,9

Con consulenti 4,4 10,3 7,2 8,0 19,4 10,2

Con enti pubblici e privati di ricerca 2,5 7,0 8,2 6,1 11,3 0,0

Con Università 4,4 4,3 5,6 9,5 22,3 9,0

50-249 dipendenti

Imprese impegnate in qualche tipo di collaborazione 15,8 31,0 38,2 42,8 70,0 37,4

Con altre imprese appartenenti allo stesso gruppo 5,5 11,0 14,2 23,5 36,4 17,4

Con competitors o altre imprese dello stesso settore 4,8 4,8 8,4 7,2 16,3 8,6

Con fornitori 4,5 10,6 11,9 13,3 44,0 16,7

Con clienti privati 1,8 3,7 4,0 4,3 18,0 0,0

Clienti pubblici 9,2 13,0 16,4 23,9 43,1 21,2

Con consulenti 6,9 18,4 13,3 15,1 19,6 16,5

Con enti pubblici e privati di ricerca 3,2 13,4 15,6 10,3 10,3 11,5

Con Università 7,6 7,9 10,1 14,4 23,1 13,0

250 e più dipendenti

Imprese impegnate in qualche tipo di collaborazione 39,6 54,2 54,5 60,2 71,4 57,0

Con altre imprese appartenenti allo stesso gruppo 23,0 31,9 33,0 44,7 45,1 37,5

Con competitors o altre imprese dello stesso settore 12,8 12,7 17,2 15,6 19,8 17,4

Con fornitori 13,4 27,5 18,6 24,1 45,9 29,2

Con clienti privati 6,0 9,9 8,5 11,2 20,2 0,0

Clienti pubblici 22,9 30,6 31,7 41,2 48,7 37,3

Con consulenti 26,0 40,1 28,5 31,9 22,8 35,5

Con enti pubblici e privati di ricerca 12,6 28,2 28,0 23,0 15,8 25,3

Con Università 20,6 20,3 22,7 30,4 32,5 27,1

Totale

Imprese impegnate in qualche tipo di collaborazione 12,7 23,7 29,3 34,8 66,7 30,9

Con altre imprese appartenenti allo stesso gruppo 3,0 7,4 8,5 15,0 31,6 12,4

Con competitors o altre imprese dello stesso settore 3,9 4,7 6,7 7,4 19,2 8,5

Con fornitori 4,3 8,7 9,2 11,9 44,8 15,0

Con clienti privati 1,9 3,9 3,0 4,0 19,9 0,0

Clienti pubblici 6,8 9,8 13,2 20,8 38,7 17,6

Con consulenti 5,6 14,3 10,3 11,6 19,6 13,1

Con enti pubblici e privati di ricerca 2,9 9,9 11,5 8,5 11,3 9,0

Con Università 5,5 6,3 7,9 12,4 22,9 10,9 Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale, garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o

servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia differisce da quello diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati

nazionali in quanto Eurostat esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012). Fonte: elaborazioni su dati Cis-Eurostat.

Tra le regioni italiane20

, sono quelle del nord ovest, guidate dal Piemonte (22,3%), che contano il maggior

numero di imprese innovative che dichiarano di collaborare (Figura 5.4). Dopo il Piemonte si posizionano

20 Tra gli indicatori territoriali per le politiche di sviluppo è stata inserita con dettaglio regionale la percentuale di imprese che

hanno svolto attività di R&S in collaborazione con soggetti esterni (l’indicatore fa parte del set di indicatori dell’Accordo di

Partenariato 2014-2020). I metadati connessi a tale dato non riferiscono l’indagine da cui è tratto e non sembra possa essere la

Community Innovation Survey. Secondo questa indagine risulta che in Italia tra le imprese che hanno fatto R&S circa il 20% ha

collaborato, percentuale che scende a circa il 5% per le imprese che dichiarano di non aver svolto R&S. Questi valori sono

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Lazio (17,7%), Friuli Venezia Giulia (16,8%) e Trentino Alto Adige (13,7%). Tra le regioni meridionali

spicca la Calabria (13,6%) che si colloca sopra il valore medio italiano (12,5%). Appena sotto si trovano

Campania (12,2%) e Puglia (12%). Molto distanti (sotto il 10%) troviamo Valle d’Aosta (9,6%), Abruzzo

(8,7%), Basilica (7,7%), Sardegna (7,1%) e all’ultimo posto la Sicilia (4,9%).

Figura 5.4 - Imprese con accordi di cooperazione per l’innovazione (% sulle imprese con attività innovative

di prodotto o processo). Anno 2012

Nota: l'indagine sull'innovazione nelle imprese con più di 10 addetti (Community Innovation Survey), basata sulle definizioni adottate in sede internazionale,

garantisce la confrontabilità a livello europeo. L’impresa innovatrice è quella che nel periodo 2010-2012 ha introdotto sul mercato innovazioni di prodotto (o servizio) o ha adottato al proprio interno innovazioni di processo. Il dato relativo all'Italia differisce da quello diffuso dall’Istat e riportato nella tavola dei dati

nazionali in quanto Eurostat esclude il settore delle costruzioni e alcuni settori dei servizi nel considerare le attività innovative centrali (Com.Reg. 995/2012).

Fonte: elaborazioni su dati Cis-Eurostat.

5.2 La ricerca e innovazione collaborativa dai dati OpenCoesione

Come noto, la politica di coesione è una politica volta a garantire il rafforzamento della coesione economica,

sociale e territoriale con l’obiettivo di ridurre le disparità di sviluppo fra le regioni ed uguagliare le

opportunità socio-economiche dei cittadini. Le politiche di coesione intervengono, quindi, sui territori per

eguagliarne le opportunità di sviluppo rispondendo a esigenze specifiche dei diversi luoghi, in termini di

infrastrutture o di servizi, ma anche di capitale umano e sociale.

OpenCoesione è l’iniziativa di open government (basata sui principi di trasparenza-collaborazione-

partecipazione) per le politiche di coesione in Italia, promossa dal Dipartimento per lo Sviluppo e la

coesione economica (DPS). Il portale OpenCoesione pubblica i dati di monitoraggio sull’attuazione dei

singoli interventi finanziati rilasciati dalle stesse amministrazioni responsabili dei programmi comunitari e

delle politiche nazionali di coesione. Su OpenCoesione sono navigabili e scaricabili, in formato aperto, dati

e informazioni sugli interventi finanziati dalle politiche di coesione in Italia, alimentate dai Fondi Strutturali

coerenti con la media di Tabella 5.3 che restituisce un 12% di imprese innovative che collaborano. Al contrario l’indicatore

territoriale Istat per le politiche di sviluppo non riporta il dato medio nazionale, ma solo quelli regionali, da cui risulta che in

Veneto, peggiore in Italia, il 28% delle imprese hanno svolto attività di R&S in collaborazione con soggetti esterni sul totale delle

imprese che svolgono R&S; in Basilicata, prima in Italia, tale percentuale è addirittura del 78%. Questi numeri sono difficilmente

coniugabili con quanto rilevato dalla indagine CIS (probabilmente perché includono non solo le imprese con innovazioni di

prodotto-processo), per questa ragione si è preferito ometterli dall’analisi.

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europei, dal Fondo nazionale per lo Sviluppo e la Coesione (FSC) e dal Piano d’Azione per la Coesione

(PAC). In particolare, sono presenti informazioni su: risorse assegnate ed effettivamente spese,

localizzazioni, ambiti tematici e settoriali, soggetti programmatori e attuatori, tempi di realizzazione dei

singoli progetti in attuazione con associata la serie storica bimestrale dei pagamenti cumulati. Vengono

pubblicati anche dati sulle assegnazioni a specifici progetti effettuate con Delibere CIPE a valere sul Fondo

Sviluppo e Coesione.

OpenCoesione identifica e dunque misura i progetti di ricerca e innovazione utilizzando diverse variabili. La

principale è il tema sintetico (si tratta di un’articolazione tematica sintetica dei progetti in 13 ambiti, basata

su un’aggregazione dei temi prioritari UE e delle classificazioni settoriali del Sistema Cup). In base a questa

variabile risulta che al 31.12.2014 erano stati finanziati 31.050 progetti di ricerca per un totale di 12,36

miliardi di euro di finanziamenti (Tabella 5.4).

Tabella 5.4 - Finanziamenti e numero dei progetti in base ai temi Tema sintetico N. Progetti Finan. Pubb.

Ricerca e innovazione 31.050 12.360.230.658

Agenda digitale 20.631 2.865.283.288

Competitività per le imprese 12.953 3.080.488.013

Energia e efficienza energetica 7.275 2.644.803.454

Ambiente e prevenzione dei rischi 7.219 10.173.932.797

Attrazione culturale, naturale e turistica 7.126 4.515.408.250

Trasporti e infrastrutture a rete 1.493 24.015.021.727

Occupazione e mobilità dei lavoratori 252.056 8.273.061.561

Inclusione sociale 308.624 4.645.729.478

Servizi di cura infanzia e anziani 1.877 401.989.553

Istruzione 215.966 8.847.429.038

Rinnovamento urbano e rurale 2.894 3.490.634.289

Rafforzamento capacità della PA 6.948 2.771.047.963

Totale 876.112 88.085.060.071 Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.

Questa definizione rischia però di sovradimensionare il vero numero dei progetti di ricerca e innovazione.

Infatti, la strategia Europa 2020 doveva consentire alla UE di raggiungere una crescita: intelligente,

attraverso lo sviluppo delle conoscenze e dell’innovazione; sostenibile, basata su un’economia più verde, più

efficiente nella gestione delle risorse e più competitiva; inclusiva, volta a promuovere l’occupazione e la

coesione sociale e territoriale. Per questa ragione non è improbabile trovare progetti catalogati come ricerca

e innovazione quando al contrario non lo erano propriamente.

Al fine di individuare i “veri” progetti di ricerca e innovazione sono state considerate quattro variabili:

- Tema sintetico (descritto in precedenza ed esemplificato nella Tabella 5.4);

- Codice Obiettivo Generale e la sua disaggregazione in Specifico: l’attuazione della politica regionale

per il periodo di programmazione 2007-2013 si articola in 10 priorità, definite nel Quadro Strategico

Nazionale (QSN);

- Cup Codice Settore, Categoria e Sottosettore: classificazione gerarchica a tre livelli (settore, sottosettore

e categoria) del progetto definita dall’amministrazione all’atto della richiesta del Cup;

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- Cup Codice Tipologia: classificazione gerarchica a due livelli (natura e tipologia) del progetto definita

dall’amministrazione all’atto della richiesta del Cup (la natura del progetto si articola in: acquisto di

beni, realizzazione e acquisto di servizi, realizzazione di lavori pubblici, concessione di aiuti a persone,

concessione di incentivi ad imprese, conferimenti di capitale).

Queste variabili non individuano esattamente gli stessi progetti di ricerca e innovazione e, da un loro esame

congiunto, nessuna risulta preferibile in termini di capacità di identificare i “veri” programmi di ricerca e

innovazione. Di conseguenza alcuni progetti possono essere ritenuti di ricerca e innovazione da una soltanto

delle variabili, altri per due o tre, fino al caso di perfetta coerenza di tutte e quattro le variabili. Al fine di

minimizzare l’errore di inclusione si è optato per una scelta conservativa: si sono considerati come “veri”

progetti di ricerca e innovazione solo quelli per cui contemporaneamente tutte e quattro le variabili

considerate (caso di perfetta coerenza) li indicavano come ricerca e innovazione. In questo modo sono stati

selezionati circa 8.900 progetti.

Tra i progetti di ricerca e innovazione l’analisi si è concentrata su quelli in cui era messa in pratica una

collaborazione formale tra i soggetti attuatori. Più rigorosamente per progetti di ricerca e innovazione

cooperativa si è inteso i progetti di ricerca e innovazione di cui sopra che abbiano tra gli attuatori:

- un distretto tecnologico; seppure sia un unico attuatore, per la sua stessa natura è collaborativo, in

quanto consorzio a cui aderiscono diversi attori pubblici e privati;

- un’impresa privata congiuntamente ad un altro attuatore di qualsiasi natura giuridica, o detto in altri

termini i progetti che abbiano almeno due soggetti attuatori tra cui un’impresa privata.

Per come sono compilati i dati in OpenCoesione può capitare che progetti che in apparenza sembrano

realizzati da un singolo attuatore in realtà siano messi in opera da più soggetti, ma con una rendicontazione

del progetto in capo a ciascuno di essi. Per risolvere questo problema è stato elaborato un apposito algoritmo

che ha permesso di individuare e riunire questi progetti, consentendo così di includerli tra i progetti

collaborativi. Questo processo di unione ha portato a ridurre il numero complessivo di progetti di ricerca e

innovazione da circa 8.900 a quasi 6.000 (Tabella 5.5).

In OpenCoesione se si considerano i progetti di ricerca e innovazione collaborativi si possono individuare

circa 2.000 progetti e quasi 2,7 miliardi di finanziamento pubblico (1,2 miliardi quello privato) (Tabella 5.5).

Pur essendo il loro numero circa metà dei progetti di ricerca e innovazione non collaborativi, il loro

finanziamento totale è circa due volte e mezza. Di conseguenza l’importo medio stanziato per ciascun

progetto è di circa 1,9 milioni di € a fronte di 400 mila € dei progetti non collaborativi.

Tabella 5.5 - Numero di progetti di ricerca e innovazione, soggetti attuatori e finanziamenti in base alla

collaborazione Tipo progetto N. Finanz. Privato Finanz. Pubb. N. Soggetti Fin. medio

Non Collaborativi 3.917 641.939.210 951.676.196 3.939 406.846

Collaborativi 2.082 1.227.535.607 2.670.000.316 6.408 1.872.015 Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.

In media i progetti collaborativi sono costituiti da tre soggetti attuatori (va considerato che questo numero è

un’approssimazione per difetto della realtà in quanto per alcuni progetti, come i Distretti tecnologici, si

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48

osserva solo il capofila). Osservando la distribuzione del numero di progetti in base al numero di soggetti

attuatori (Figura 5.5) si può vedere che circa il 60% dei progetti ha uno o due attuatori; la percentuale si alza

al 90% considerando fino a 6 attuatori.

Figura 5.5 Numero di progetti (val. ass. e percentuale cumulata) in base al numero di attuatori

Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.

Cercando di analizzare la composizione dei diversi gruppi che hanno partecipato alla ricerca collaborativa

(Tabella 5.6) si ricava che il modello di collaborazione è molto simile a quanto descritto dai dati CIS

(Tabella 5.3): le imprese principalmente collaborano con clienti e fornitori, poi con enti pubblici, università

ed enti di ricerca. Dai dati OpenCoesione emerge che per circa il 37% dei progetti la partnership è formata

da sole imprese21

a cui bisogna aggiungere le Ati (7%), nel 17% da università e imprese, 12% enti locali e

imprese. Queste forme da sole spiegano circa i tre quarti dei progetti. Va considerato, però, che anche

partnership che in apparenza non contengono forme di collaborazione con le imprese nella realtà ne hanno;

in particolare i distretti tecnologici e le altre strutture di ricerca spesso tra i loro soci contano imprese, solo

che non appaiono formalmente nei dati di OpenCoesione.

Tabella 5.6 - Numero (val. ass. e %) di progetti di ricerca e innovazione collaborativi per forma giuridica

dei soggetti partecipanti

Descrizione gruppo

Progetti Fin. Pubb. Fin. Priv.

N. Quota % € Quota % € Quota %

Solo imprese 779 37,4 330.603.563 12,4 159.754.219 13,0 Alta formazione e imprese 353 17,0 355.483.286 13,3 195.540.390 15,9

Enti locali e imprese 243 11,7 37.305.431 1,4 52.979.087 4,3 Ati 155 7,4 111.713.562 4,2 61.598.020 5,0

Ricerca, alta formazione e imprese 110 5,3 362.188.633 13,6 164.376.501 13,4

Solo ricerca 94 4,5 200.363.442 7,5 76.290.793 6,2 Ricerca e imprese 79 3,8 141.396.021 5,3 65.368.520 5,3

Alta formazione enti locali e imprese 61 2,9 188.780.825 7,1 85.117.875 6,9

Distretti tecnologici 58 2,8 268.252.745 10,0 99.075.682 8,1 Ricerca, alta formazione, enti locali e imprese 47 2,3 296.099.069 11,1 116.237.479 9,5

Enti ricerca pubblici e imprese 29 1,4 49.272.837 1,8 20.089.427 1,6

Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.

21 Le imprese private comprendono tutte le forme d’impresa: dai lavoratori autonomi e ditte individuali alle società cooperative. Gli enti locali comprendono i livelli amministrativi non nazionali: comuni, province, regioni, comunità montane, asl, tribunal. Gli enti nazionali comprendono i livelli amministrativi nazionali e

gli enti non di ricerca nazionali come Inps, Inail, Ice. Gli enti di alta formazione comprendono le Università pubbliche e private e gli Istituti tecnici superiori. La

voce distretti comprende i distretti tecnologici, così come classificati dal Miur 2011 e presenti in OpenCoesione. Ricerca privata comprende quelle forme di ricerca pubblica o a cavallo tra pubblico e privato come laboratori e parchi scientifici. Ati comprende le associazioni temporanee d’impresa.

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Analizzando i progetti di ricerca collaborativi in base alla regione di localizzazione del progetto (Tabella

5.7) si ricava che è la Campania la regione con il numero maggiore di finanziamenti pubblici, seguita dalla

Puglia, Sicilia, Calabria, Piemonte, Toscana. Sono Marche, Emilia Romagna e Abruzzo le regioni in cui la

quota di finanziamento privato è più elevata, rispettivamente 75,6%, 71,2%, 62,4% del finanziamento

pubblico. In termini di ampiezza media dei progetti collaborativi come numero di soggetti partecipanti, più o

meno tutte le regioni hanno un numero medio pari a 4 soggetti. Tra le più significative Trentino Alto Adige

ed Emilia Romagna22

si collocano ad un livello più basso, mentre Lombardia e Lazio si posizionano sopra la

media. È interessante notare che regioni come Friuli Venezia Giulia o Trentino Alto Adige con una più alta

quota di imprese collaborative (fonte CIS) non dedichino molte risorse su questo versante. Altre regioni al

contrario, come Piemonte, Lazio, Liguria, Campania e Puglia hanno medio-alti livelli di collaborazione tra

imprese in ambito di ricerca e innovazione (fonte CIS), forse anche perché dedicano quote superiori alla

media nazionale dei fondi di coesione. Regioni come Lombardia, Toscana, Marche, Emilia Romagna con

una media quota di imprese collaborative (fonte CIS), dedicano i fondi di coesione per la ricerca

collaborativa al di sopra della media. Infine da segnalare il Veneto con bassa incidenza di imprese

collaborative e basso uso dei fondi di collaborazione per questo scopo.

Tabella 5.7 - Numero di progetti, soggetti e finanziamenti ricevuti in progetti collaborativi di ricerca in base

alla regione di localizzazione e confronto con l’incidenza % della spesa per R&S sul totale della spesa della

pubblica amministrazione e la % delle imprese innovative e collaborative sul totale imprese che fanno

innovazione Incidenza %

Area N. Progetti

N. soggetti

attuatori

complessivi nel

progetto Finan. Pub. Finan. Privato

N.

medio

sogg. per

progetto

Finanz.

R&S

collab.

sul Tot

Fin.

Pubb.a

Spesa

R&S sul

Tot.

Spesa

Pubb.b

Imprese

collabor.

sul Tot.

Imprese

con

innovaz. c

Piemonte 487 1.776 340.716.873 218.758.711 3,6 10,6 0,2 22,3

Lazio 47 272 300.542.700 131.903.920 5,8 12,6 1,2 17,7

Friuli V.G. 31 114 17.049.529 7.373.036 3,7 2,2 0,4 16,8

Calabria 104 474 459.124.385 187.144.837 4,6 4,5 0,8 13,6

Trentino A.A. 25 60 11.476.629 5.940.878 2,4 1,7 0,8 13,3

Liguria 408 445 111.722.063 14.572.828 1,1 8,2 0,2 12,2

Campania 366 1.632 1.211.624.400 505.003.726 4,5 6,1 0,7 12,2

Puglia 172 739 784.222.368 300.940.768 4,3 4,8 0,6 12,0

Lombardia 119 622 201.484.592 56.807.949 5,2 7,5 0,2 11,6

Marche 56 217 76.352.757 57.685.537 3,9 7,7 0,1 11,6

Umbria 7 38 44.827.233 14.650.715 5,4 4,9 0,4 11,2

Veneto 5 33 30.117.324 12.996.686 6,6 1,8 0,2 10,8

Toscana 205 947 309.955.796 214.114.626 4,6 10,1 0,2 10,8

Emilia R. 249 596 135.973.843 96.829.154 2,4 7,9 0,3 10,5

Abruzzo 2 17 8.089.945 5.050.893 8,5 0,6 0,2 8,7

Basilicata 8 35 39.032.819 13.736.210 4,4 1,5 0,9 7,7

Sardegna 4 27 23.768.825 10.851.942 6,8 0,4 0,3 7,1

Sicilia 99 464 522.788.247 202.959.813 4,7 2,8 0,6 4,9

Molise 2 4 8.140.304 2.955.590 2,0 0,7 0,2 - Fonte: elaborazioni su dati: a.OpenCoesione al 31.12.2014; b. Anno 2011, Conti Pubblici Terrtoriali; c. Anno 2012, Istat-Cis.

22 La Liguria ha un numero basso in quanto compare solo il capofila.

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50

Tab. 5.8 - Distribuzione % del totale finanziamenti dei progetti di ricerca e innovazione collaborativi in base alla forma giuridica dei soggetti partecipanti e

alla regione di localizzazione

Regione Solo imprese Alta formazione

e imprese

Enti locali

e imprese Ati

Ricerca, alta

formazione e imprese Solo ricerca Ricerca e imprese

Alta formazione,

enti locali e imprese Distretti tecnologici

Ricerca, alta formazione,

enti locali e imprese

Enti ricerca pubblici

e imprese Altro Totale

Ambito nazionale 0,0 29,1 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 70,9 100,0

Piemonte 8,7 22,5 0,0 0,0 19,5 0,5 7,2 8,6 0,0 18,5 1,9 12,7 100,0

Lombardia 10,6 33,8 0,8 0,0 16,9 0,0 7,1 6,7 0,0 13,6 3,7 6,8 100,0

Trentino A.A 100,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0

Veneto 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,1 0,0 10,4 0,0 15,8 0,0 73,8 100,0

Friuli V.G. 37,1 37,7 0,0 0,0 14,5 0,3 2,0 0,0 0,7 0,0 0,0 7,7 100,0

Liguria 69,1 0,0 0,0 0,0 9,4 0,6 9,0 0,0 0,2 11,8 0,0 0,0 100,0

Emilia R. 4,8 4,5 35,8 0,0 4,0 0,0 2,8 7,1 0,0 22,3 0,0 18,7 100,0

Toscana 32,5 23,0 0,8 0,0 11,9 0,0 5,9 14,1 0,0 8,5 2,1 1,1 100,0

Umbria 0,0 20,7 0,0 0,0 12,8 2,3 0,0 25,8 0,0 0,0 0,0 38,5 100,0

Marche 43,9 3,4 0,0 0,0 9,4 0,0 0,0 11,4 0,0 24,4 0,0 7,4 100,0

Lazio 5,7 11,6 0,0 0,0 20,0 0,0 8,4 9,3 0,0 20,6 2,5 21,8 100,0

Abruzzo 32,8 0,0 0,0 0,0 67,2 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0

Molise 0,0 95,5 0,0 4,5 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0

Campania 2,9 10,5 0,0 7,2 20,5 9,4 7,1 5,9 3,3 16,3 2,0 14,9 100,0

Puglia 3,2 9,4 0,0 4,5 15,6 9,3 4,1 7,2 12,1 16,7 2,7 15,1 100,0

Basilicata 25,5 13,4 0,0 0,0 21,9 7,1 0,0 0,0 0,0 21,1 11,1 0,0 100,0

Calabria 0,4 11,0 0,0 0,0 18,6 12,7 1,8 9,6 7,2 24,2 1,1 13,6 100,0

Sicilia 5,4 12,2 0,0 0,0 8,6 2,5 3,5 10,2 18,2 22,2 0,8 16,3 100,0

Sardegna 0,0 21,9 0,0 0,0 0,0 2,9 0,0 0,0 0,0 75,2 0,0 0,0 100,0

Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.

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51

Suddividendo i progetti collaborativi in base alla composizione dei diversi tipi di collaborazione e alla

regione (Tab. 5.8) si può osservare che mentre per il centro-nord Italia il modello collaborativo prevalente è

tra imprese e imprese e università, con eccezione dell’Emilia Romagna, dove i progetti collaborativi

transitano attraverso Aster23

(anche il Veneto si distingue in questa classificazione, ma a causa del basso

numero di progetti collaborativi), per il sud Italia il modello è più esteso e coinvolge anche i centri di ricerca

e i distretti tecnologici.

Tab. 5.9 - Percentuale di pagamenti nei progetti di R&S collaborativi in base all’anno di inizio, la durata

effettiva ed il momento di pagamento

Anno

inizio Durata

A sei

mesi Alla chiusura del progetto

12 mesi dopo la

chiusura del progetto

24 mesi dopo la

chiusura del

progetto

Oltre 24 mesi dopo

la chiusura del

progetto

2008

18 45,1 45,3 86,5

24 43,4 44,6 82,7

30 78,2

36 63,9 71,9 92,3 97,2

42 7,3 43,3 70,0 77,2 83,2

48 48,8 61,2 68,6 69,9

54 64,3 85,8 87,9

60 58,0 89,1

2009

18 35,3 45,9 62,9

24 14,6 51,5 80,3 98,2

30 1,0 33,7 58,5 64,3 63,1

36 1,7 52,9 84,7 91,3 92,6

42 7,3 49,8 84,4 88,8

48 13,7 81,6 92,2 96,6

2010

18 2,0 10,6 48,1 73,9 80,3

24 2,6 30,8 66,3 89,9 92,6

30 2,4 42,6 77,7 83,3 83,9

36 0,7 55,7 75,0 80,1

42 2,3 48,1 67,5 70,4

48 0,7 56,6 70,2

54 80,0 87,7

2011

18 1,4 34,7 55,6 63,7 64,2

24 15,2 30,0 65,9 84,9

30 18,1 42,1 75,9 85,2

36 2,7 38,1 65,6

42 46,2 50,6

48 61,7

2012

18 21,5 67,3 68,8

24 0,7 30,9 58,1

30 1,7 36,7 54,4

36 3,7 40,0

2013 18 1,6 48,8 57,4

24 12,8 Note: sono considerati solo i progetti collaborativi di R&S iniziati dopo il 2008 con durata di almeno un anno e conclusi. Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.

Una delle criticità emerse dalle interviste svolte in questa ricerca risiede nei tempi di pagamento.

Considerando solo i progetti collaborativi di R&S iniziati dopo il 2008 con durata di almeno un anno e

23 Società consortile tra la regione Emilia-Romagna, le Università, gli Enti pubblici nazionali di ricerca CNR, ENEA, INFN e il

sistema regionale delle Camere di Commercio.

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52

conclusi, la Tabella 5.9 mostra la percentuale di pagamenti in base all’anno di inizio, alla durata del progetto

ed al momento del pagamento. Solo una minoranza dei pagamenti avviene entro sei mesi dall’inizio del

progetto; inoltre questa fattispecie ha dimostrato di realizzarsi in maniera più consistente solo recentemente,

con i progetti iniziati dal 2009. Alla chiusura del progetto la percentuale dei pagamenti risulta inferiore alla

metà dell’importo stanziato. In generale questa percentuale aumenta con la durata del progetto, dato che vi è

più tempo per iniziare e accumulare pagamenti. 12 mesi dopo la chiusura sono avvenuti all’incirca i due

terzi dei pagamenti e dopo 24 mesi circa i tre quarti. Ciò denota un certo scollamento (di circa due anni) tra

il fabbisogno finanziario legato alla realizzazione del progetto e la reale manifestazione finanziaria utile a

sopperire tale necessità.

Analizzando il settore di appartenenza (Tabella 5.10) dei soggetti attuatori di progetti di ricerca e

innovazione collaborativi si ricava che per entrambi i gruppi i settori più rappresentativi sono ricerca e

sviluppo, telecomunicazioni e informatica, metalmeccanica, elettronica, studi professionali, servizi

tradizionali alle imprese e petrolio plastica e chimica. All’interno di questi il numero medio di soggetti

coinvolti è abbastanza omogeneo e va dal 3,4 della metalmeccanica fino al 6,1 dei servizi alle imprese. Il

legno arredo e la metalmeccanica sono i settori con la quota di finanziamento privato più elevata, superiore

al 60% del valore del finanziamento pubblico. Rispetto al totale finanziamenti i settori che hanno avuto

maggiori risorse sono: R&S (80,4%), telecomunicazioni e informatica (25,7%), elettronica (24,8%). Anche

in termini pro capite i comparti che hanno ricevuto maggiori finanziamenti sono trasporti, R&S, petrolio

plastica e chimica ed elettronica.

Tab. 5.10 - Numero di progetti, soggetti e finanziamenti (val. ass. e %) per i progetti collaborativi in base al

settore del soggetto attuatore

Settore

N.

prog.

N. sogg.

stesso

progetto Fin. Pub. Fin. Priv.

N. medio

sogg. per

prog.

Rapp. %

Fin. Priv./

Fin. Pub.

Fin. Tot.

Pro

capite

Quota

% fin.

Tot.

Agricoltura 30 195 65.291.346 21.172.002 6,5 32,4 443.402 2,2

Alimentare bevande tabacco 79 458 138.113.738 51.529.140 5,8 37,3 414.067 4,9

TAC 50 208 46.915.275 23.701.940 4,2 50,5 339.506 1,8

Legno arredo 31 123 29.293.021 18.678.832 4,0 63,8 390.015 1,2

Metalmeccanica 431 1.469 289.302.860 181.965.107 3,4 62,9 320.809 12,1

Petrolio plastica chimica 200 944 411.203.786 177.327.057 4,7 43,1 623.444 15,1

Elettronica e precisione 336 1.585 645.842.860 322.551.134 4,7 49,9 610.974 24,8

Trasporti 112 615 341.665.347 146.694.996 5,5 42,9 794.082 12,5

Altra manifatt. 131 633 358.720.811 158.569.708 4,8 44,2 817.205 13,3

Energia acqua gas rifiuti 55 338 104.620.106 41.427.214 6,1 39,6 432.093 3,7

Edilizia 101 478 105.457.800 51.209.234 4,7 48,6 327.755 4,0

Commercio 107 569 120.725.683 53.250.395 5,3 44,1 305.758 4,5

Turismo alberghi e ristoranti 26 216 17.847.789 6.262.524 8,3 35,1 111.622 0,6

Telecomunicaz. informatica 521 2.205 679.609.261 321.826.555 4,2 47,4 454.166 25,7

R&S 1.290 4.881 2.144.655.445 987.286.244 3,8 46,0 641.660 80,4

Studi professionali 326 1.634 412.200.679 171.294.334 5,0 41,6 357.096 15,0

Editoria radio tv 37 152 27.396.980 12.960.441 4,1 47,3 265.509 1,0

Servizi tradiz. alle imprese 211 1.280 461.358.122 205.519.485 6,1 44,5 520.998 17,1 Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.

Cercando di comprendere se vi sia una certa ibridazione delle conoscenze all’interno dei progetti

collaborativi si può notare (Tabella 5.11) che principalmente l’ibridazione avviene con il settore ricerca e

sviluppo e in seconda battuta con altre imprese appartenenti allo stesso settore. In termini di finanziamenti

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53

pubblici, seppur siano pochi progetti, ottengono cifre abbastanza cospicue i raggruppamenti con tre settori,

che tutto sommato denotano una certa continuità, come per esempio: R&S, telecomunicazioni ed elettronica;

R&S, telecomunicazioni e trasporti; R&S, telecomunicazioni e servizi alle imprese; R&S, trasporti ed

elettronica.

Tab. 5.11 - Numero di progetti, soggetti e finanziamenti (val. ass. e %) per i progetti collaborativi in base ai

mix settoriali dei soggetti attuatori

Pos. Descrizione gruppo

Progetti Fin. Pubb. Fin. Priv.

N. Quota % € Quota % € Quota %

1 Solo R&S 358 17,2 648.513.591 24,3 285.073.005 23,2

2 Telecomunicazioni 163 7,8 67.970.576 2,5 21.672.756 1,8

3 R&S e metalmeccanica 116 5,6 45.586.594 1,7 35.374.576 2,9

4 Metalmeccanica 96 4,6 25.614.443 1,0 11.861.149 1,0

5 R&S e telecomunicazioni 78 3,7 89.397.251 3,3 53.677.773 4,4

6 R&S e elettronica 67 3,2 90.968.083 3,4 57.242.610 4,7

7 Elettronica 64 3,1 57.925.395 2,2 16.430.414 1,3

8 Studi professionali 52 2,5 42.165.464 1,6 12.685.795 1,0

9 R&S e studi professionali 48 2,3 44.279.068 1,7 22.850.190 1,9

10 R&S e petrolio plastica 46 2,2 102.490.849 3,8 40.258.292 3,3

11 Servizi alle imprese 40 1,9 50.300.994 1,9 18.837.189 1,5

12 Petrolio plastica chimica 37 1,8 22.892.114 0,9 10.444.100 0,9

13 R&S e altra manifatt. 29 1,4 26.387.503 1,0 13.162.716 1,1

14 R&S, telecomunicaz. e elettronica 28 1,3 74.023.003 2,8 36.487.796 3,0

15 R&S e trasporti 26 1,2 73.225.993 2,7 27.927.873 2,3

16 R&S e servizi alle imprese 23 1,1 27.100.419 1,0 14.451.600 1,2

17 R&S telecomunicaz. e studi profess. 23 1,1 16.011.103 0,6 5.123.007 0,4

18 R&S e ind. alimentare 20 1,0 20.876.347 0,8 9.766.946 0,8

26 R&S, telecomun. e servizi a imprese 11 0,5 31.285.516 1,2 17.140.077 1,4

42 R&S, telecomun. e trasporti 6 0,3 33.397.093 1,3 5.651.098 0,5

47 R&S, petrolio plastica altra manifatt. 5 0,2 40.742.161 1,5 16.158.950 1,3

58 R&S, elettronica e trasporti 4 0,2 21.391.747 0,8 7.478.210 0,6 Note: la tabella contiene i raggruppamenti con almeno 20 progetti, più altri quattro raggruppamenti con elevati finanziamenti pubblici.

Fonte: elaborazioni su dati OpenCoesione al 31.12.2014.

5.3 Riflessioni metodologiche sulle possibilità di utilizzare i dati OpenCoesione per analisi di

valutazione d’impatto

Per valutare gli effetti di una politica di coesione come quella relativa alla ricerca collaborativa innanzitutto

è necessario riconoscere qual è la dimensione su cui si va a misurare l’impatto. Sapendo che i dati

OpenCoesione non contengono informazioni di questo tipo un primo problema quindi da affrontare è quello

di unire OpenCoesione con altre fonti di dati, così da arricchire il set informativo con le variabili su cui

effettuare i test di valutazione di impatto.

Un altro problema è relativo al fatto che i progetti possono essere rendicontati in maniera accentrata dal

“capofila” o decentrata a ciascun partner. Anche se più difficili da contabilizzare, archiviare e gestire solo i

secondi permettono di valutare l’efficacia di una politica. I primi, infatti, non distinguendo il reale aiuto dato

ai diversi partner, non permettono di mettere in relazione lo sforzo con i risultati ottenuti, raggiungendo nella

migliore delle ipotesi effetti medi.

A differenza di altri programmi che si caratterizzano per essere shock immediati e permanenti, quindi

possono essere ben approssimati da variabili dummy, quelli relativi ad incentivi alle imprese differiscono

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54

per non essere permanenti; in altre parole questi incentivi hanno una certa evoluzione temporale. Questa

fonte di variabilità, essendo in parte esogena, è utile per identificare l’impatto, ma allo stesso tempo ne va

tenuto conto per non sotto o sovra dimensionare gli effetti. In questo senso in OpenCoesione si conosce con

una certa precisione il momento in cui inizia e finisce l’intervento, ma non si conosce la reale evoluzione del

progetto. L’unica approssimazione a questo scopo risiede nei pagamenti. Tenendo conto del ritardo con cui

questi avvengono si rischia di sottostimare gli effetti. Infatti se si utilizzasse uno stimatore differenze alle

differenze, si rischierebbe di calcolare la differenza, non tanto tra post e pre trattamento, ma almeno per una

parte tra post trattamento e post trattamento.

Sempre sul piano temporale, ma non direttamente connesso ai dati OpenCoesione, bisognerebbe tener conto

che i programmi rilasciano gli effetti con intensità diversa nel tempo e nello spazio, alcune volte inducendo

esternalità (effetti spillover) su soggetti limitrofi in termini di settore, area, lungo la filiera produttiva… Ecco

che diventa fondamentale conoscere bene il programma, l’ambito di applicazione e gli effetti attesi, onde

selezionare le variabili, la scansione temporale ed il controfattuale più adeguati.

Altra difficoltà da tener ben presente risiede nel fatto che il gruppo di controllo è costruito per essere il più

simile possibile al gruppo dei trattati con l’unica differenza del trattamento appunto. Nella realtà però non è

noto se le imprese non trattate abbiano beneficiato di un’altra politica che le ha sostenute. A titolo di

esempio, durante il periodo della crisi economico-finanziaria iniziata nel 2009 si è fatto ampio ricorso alla

Cassa Integrazione, se l’impresa trattata non ha utilizzato queste risorse, al contrario è molto probabile che

alcune imprese del gruppo di controllo lo abbiano fatto, andando così a “smorzare” gli effetti misurati

dell’impatto della politica sotto indagine. Per evitare di incorrere in questo tipo di critica è necessario

circoscrivere l’analisi nel tempo e nello spazio, e all’interno di questo perimetro effettuare analisi con dati

esterni ad OpenCoesione che permettano di capire se ci siano ed in quale misura politiche o fenomeni

paralleli a quelli che si vuole valutare.

In sintesi sembra che i dati OpenCoesione siano l’inizio di una pratica che permetta di valutare le politiche

di coesione. Pratica che per raggiungere il pieno successo ha bisogno che gli stessi dati OpenCoesione

vengano raccolti in maniera sempre più articolata e dove non possibile siano integrati con altre fonti di dati

ed arricchiti con le indispensabili informazioni di contesto di volta in volta più apportune.

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55

CAPITOLO 6

L’ANALISI DEI CASI STUDIO

6.1 Analisi di contesto

Abbiamo visto nel Capitolo 4 che esistono differenti tipologie di rete e che esse riflettono sia il contesto

esterno sia il tipo di governance. In questo capitolo esamineremo alcuni casi studio relativi a distretti

tecnologici e cercheremo, anche utilizzando la metodologia presentata nel Capitolo 4, di valutare l’efficienza

delle politiche seguite e di trarre indicazioni utili per gli interventi futuri. Per quanto riguarda i casi studio

sono stati scelti tre distretti tecnologici nati nel Mezzogiorno come effetto di specifiche politiche pubbliche

ed una regione, le Marche, ove non si è tentato di creare un distretto ma è stata seguita una politica di

incentivi alla collaborazione nella R&S tramite lo strumento del bando pubblico. Nella Tabella 6.1 sono stati

individuati alcuni indicatori del contesto economico-sociale delle regioni di localizzazione dei casi studio.

Tabella 6.1 Caratteristiche del contesto

Area Dimensioni

delle imprese

(Numero

addetti) (2012)*

Intensità della ricerca

(Spesa in R&S su

prodotto netto)

(imprese) (2012)*

Tassi di

innovazione del

settore

produttivo

(2012)*

Specializzazione

produttiva nei settori

ad alta intensità di

conoscenza (2013)**

Partecipazione

civica e politica

(2012)***

Fiducia

nelle

istituzioni

locali

(2012)*** Marche 3,6 0,42 24,5 2,7 69,6 4,2

Puglia 2,9 0,19 28,6 1,6 53,2 3,6

Sicilia 2,7 0,23 25 1,8 58,3 3,0

Calabria 2,5 0,03 20,3 1,1 54,6 3,4

ITALIA 3,9 0,69 33,5 3,4 67,0 4,0

Fonte: * Istat Indicatori territoriali per le politiche di sviluppo; ** Eurostat; *** Istat, Politica e Istituzioni.

Gli indicatori utilizzati evidenziano che le regioni considerate presentano dimensioni delle imprese e grado

di progresso tecnico inferiore rispetto alla media nazionale. Le differenze sono maggiori per le regioni

meridionali rispetto a quanto accade per le Marche. In sintesi, il tessuto produttivo è caratterizzato da piccole

imprese, bassa propensione all’innovazione e settori produttivi maturi. La regione Marche presenta valori

migliori per quanto riguarda gli indicatori sociali (partecipazione civica alla politica, fiducia nelle istituzioni

locali). Questi indicatori sembrerebbero testimoniare la presenza di un maggior capitale sociale nelle Marche

rispetto al dato nazionale. Data la relazione fra capitale sociale e fiducia, vi è quindi un ambiente ove

maggiori sono i livelli di fiducia. Ricordiamo che l’assenza di fiducia è vista in vari lavori come un grave

ostacolo alla collaborazione (si veda al riguardo il Capitolo 2).

Passiamo ora ad esaminare le caratteristiche dei singoli distretti tecnologici. Nella Tabella 6.2 vengono

presentati alcuni indicatori delle caratteristiche dei distretti studiati. I tre distretti del Mezzogiorno sono del

tipo hub and spoke mentre nel caso delle Marche si è più vicini ad un distretto di tipo marshalliano (si veda

Capitolo 4, paragrafo 4.2). Due distretti del Sud hanno come riferimento l’università per la creazione di reti

di collaborazione, mentre in un altro caso l’entità di riferimento intorno a cui si incentra l’attività del DT è

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56

una multinazionale, anche se l’università svolge un ruolo positivo nella produzione di conoscenza24

. La

realtà dei distretti del Mezzogiorno esaminati evidenzia tipologie di rete poco strutturate e più fragili anche

se la nascita di queste realtà evidenzia aspetti positivi25

. Nel caso delle Marche né l’università né la grande

impresa esterna hanno un ruolo rilevante per il funzionamento del distretto. La produzione ed il

trasferimento di conoscenza sono il risultato dell’attività di piccole e medie imprese locali.

Tabella 6.2 Caratteristiche dei distretti studiati (casi studio)

Nome distretto Natura Giuridica Dimensione

imprese

Intensità delle

attività di ricerca Tipo di settore

Capitale

umano

DARE Consorzio Prevalentemente

piccole (80%)

Innovazioni

incrementali di

prodotto e processo

attraverso l’utilizzo

della biotecnologia,

ICT e di altre

tecnologie.

Alimentare Medio-alto

concentrato

negli istituti di

ricerca e non

nelle imprese

AGROBIOPESCA Consorzio Prevalentemente

piccole

Innovazioni

incrementali

attraverso l’utilizzo

della biotecnologia e

dell’ICT

Alimentare Medio-alto-

concentrato

negli istituti di

ricerca e non

nelle imprese

R&D LOG Consorzio Mix piccole e

grandi imprese

Innovazioni

incrementali

Logistico Medio Alto

concentrato

nelle università

ed in alcune

imprese(sia

multinazionali

che locali)

MARCHE26

Associazioni

temporanee di

imprese (ATI) o

contratti di rete

incentivati

(assenza di

distretto)

Mix piccole, e

medie e grandi

(prevalentemente

medie)

Innovazioni

incrementali

Meccanica,

domotica,

arredamento.

Medio Alto

concentrato

nelle università

e nelle imprese

locali

6.2 I casi studio

6.2.1 Il distretto tecnologico DARE (Puglia)

Il Consorzio DARE è operante nel settore agro-alimentare e mira ad applicare nuove tecnologie alimentari e

altre tecnologie (ICT, biotecnologie, nanotecnologie, nuovi materiali, macchine e impianti) per generare

innovazioni connesse alla produzione di alimenti comuni. Il dato più rilevante del distretto è l’elevato

24

I due distretti riguardano il settore alimentare che è quello dove risulta più pronunciato, nell’ambito dei settori tradizionali, il

rapporto collaborativo fra imprese e università. Maietta (2015) evidenzia, attraverso un’analisi econometrica, che nell’industria

alimentare italiana la collaborazione fra università locali e imprese ha un effetto positivo sulle innovazioni, in particolari su quelle

di processo. Specie nel caso delle piccole imprese, la necessità di soddisfare le norme per la sicurezza alimentare della UE può

essere un elemento che spinge le imprese a ricercare la collaborazione delle università. 25

Vi sono nel Mezzogiorno anche distretti ove la collaborazione avviene fra stabilimenti di grande impresa con la partecipazione

delle università che evidenziano strutture di rete più robuste. 26

Nel caso dei distretti meridionali le caratteristiche si riferiscono ai soci del distretto, mentre nel caso delle Marche alle imprese

partecipanti ai bandi.

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57

numero di aderenti (oltre 100 soci) e la rilevante crescita degli stessi nel corso degli anni. E’ interessante

notare che l’incremento avviene in modo discontinuo, soprattutto negli anni 2006 e 2011. L’incremento che

avviene nel 2006 sembra collegato alla nascita del DT e all’azione di marketing operata dal DARE nei

confronti dei vari attori regionali. Il caso del 2011 è collegato alla pubblicazione nel 2010 del bando

destinato allo rafforzamento dei distretti tecnologici e quindi all’aspettativa che la partecipazione al distretto

permetta di godere di incentivi pubblici per lo svolgimento di attività di ricerca. Sembrerebbe che un ruolo

positivo nell’adesione al DARE sia stato anche giocato dal servizio di audit tecnologico realizzato dallo staff

tecnico del DT, che ha favorito la presentazioni di progetti caratterizzati da un equilibrio fra domanda e

offerta di innovazione.

Un altro punto interessante è l’elevato numero di attori che partecipano a ciascun progetto. Il numero è

molto più alto che in altri DT, sia meridionali come IMAST, sia a livello nazionale. Il numero medio di

attori per progetto collaborativi nella R&S che risulta dalla banca dati di OpenCoesione (Tabella 5.6) è 4,3

per la Puglia e 3,3 per l’Italia Tre diversi fattori possono spiegare l’elevato numero di attori per progetto nel

distretto DARE. Primo, da un punto di vista strategico, DARE dà grande importanza al principio di

inclusività, preferendo il coinvolgimento di quante più imprese possibile invece che poche imprese, più

grandi o più capaci, al fine di favorire la generazione e diffusione di capitale sociale nella regione. Una

seconda spiegazione deriva dalle specifiche del bando, che stabiliva un costo per il singolo progetto,

comprensivo della formazione, di almeno 5 milioni di euro (fino ad un massimo di 25). Date le ridotte

dimensioni delle imprese agroalimentari pugliesi per raggiungere tale limite occorreva coinvolgere un

elevato numero di soggetti. Nel caso delle Marche, invece il valore medio del progetto era intorno ad un

milione di euro ed in nessun caso sono stati superati i due milioni di euro. Terzo, si potrebbe far notare che

nel caso di un distretto tecnologico (a differenza del caso Marche), i costi di coordinamento e di transazione

nella costruzione della partnership sono di fatto assorbiti dal consorzio e ciò facilita la presenza di un

maggior numero di soggetti per progetto.

Nell’ambito dei progetti del DARE emerge addizionalità per quanto riguarda la propensione alla

collaborazione dei vari attori. I questionari e le interviste evidenziano un aumento del grado di

collaborazione fra le imprese e fra le imprese ed i centri di ricerca e università. Tale collaborazione appare

particolarmente positiva per quanto riguarda i rapporti fra imprese e università. Le università e i centri di

ricerca hanno permesso alle imprese di supplire a carenze di capacità e dotazioni strumentali interne.

L’intensità della collaborazione fra imprese e centri di ricerca appare legata alla presenza di capitale umano:

quanto maggiore è la presenza di capitale umano specializzato in ricerca e sviluppo all’interno delle imprese,

tanto più stretta è la collaborazione con i centri di ricerca27

. D’altro canto, il vantaggio della collaborazione

per le imprese con minori capacità in-house, che solitamente corrispondono a quelle di dimensioni micro o

piccole, è consistito nella possibilità di assorbire nuova conoscenza prodotta da altri soggetti. Inoltre, è stato

rilevato come le imprese più piccole abbiano maggiore convenienza ad aprirsi e collaborare tra loro per

raggiungere una massa critica utile a rafforzare la propria posizione sul mercato.

27

Per quanto detto nel secondo capitolo ciò è dovuto alla relazione positiva fra capitale umano e capacità di assorbimento di

nuova conoscenza.

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58

Con riferimento allo specifico progetto PROINNO BIT (25 partner, di cui 6 università e 19 imprese) in base

alle interviste effettuate, i risultati raggiunti sono stati in linea con gli obiettivi attesi. Vi è stato un effetto di

addizionalità sia per quanto riguarda l’ammontare di spesa in R&S e sia per quanto riguarda il grado di

innovazione dovuta alla partecipazione al progetto. Tale addizionalità appare maggiore per le imprese di

minori dimensioni, con minor esperienza in R&S e non dotate di attrezzature interne per la ricerca e la

sperimentazione. Anche per le imprese di grandi dimensioni il contributo pubblico ha determinato

addizionalità, nel senso che senza il supporto pubblico il progetto di ricerca sarebbe probabilmente partito

con dimensioni minori e caratteristiche diverse. Il giudizio che viene dato sul DT DARE è nel complesso

positivo anche se, come rilevato in precedenza, non è possibile quantizzare il beneficio totale netto

determinato dalle varie attività.

6.2.2 Il distretto tecnologico AgroBioPesca (Sicilia)

Il distretto tecnologico AgroBio e Pesca eco-compatibile (AgroBioPesca), nasce in Sicilia con l’obiettivo di

aumentare la competitività del territorio regionale attraverso le attività agroalimentari e la pesca eco-

compatibile. Il protocollo d’intesa collegato al DT risale al 1999 e l’accordo di programma quadro con la

regione Sicilia al 2005; tuttavia l’Atto costitutivo del DT è siglato solo nel 2009. La società consortile che

gestisce il distretto è composta da 26 soci fra università, enti di ricerca, altri enti e imprese. La compagine

sociale del DT risulta stabile nel tempo, e nel 2015 il numero dei soci risulta aumentato di sole due unità

rispetto al 2009. In termine di capitale sociale, le imprese (singole e consorzi) ne detengono una quota del

30%, mentre le università ed i centri di ricerca superano il 50%. Da questo punto di vista si conferma che

uno degli obiettivi del DT è la valorizzazione degli attori siciliani della ricerca, innanzitutto rispetto alle

imprese e agli altri stakeholder del territorio. Il DT, perciò, punta a incrementare la collaborazione fra

imprese e centri di ricerca attraverso le attività che promuove. Fra i soci privati di AgroBioPesca vi sono

quattro consorzi di imprese; questo fatto è senza dubbio una caratteristica distintiva del distretto rispetto ad

altre realtà, e perciò il calcolo delle imprese complessivamente coinvolte è maggiore rispetto al numero dei

soci. Dai questionari somministrati ai soci del DT risulta un giudizio positivo sull’adesione allo stesso.

Il DT Agrobiopesca complessivamente sembra avere diversi punti di contatto con il DARE. Innanzitutto, il

contesto delle due regioni (Sicilia e Puglia) è abbastanza simile, come risulta dalla Tabella 6.1. Inoltre,

entrambi i distretti operano nel settore alimentare, concentrandosi nelle produzioni tipiche regionali che, in

alcuni casi, sono simili. Entrambi vedono una rilevante presenza di università e centri di ricerca ed un peso

elevato di imprese di piccola dimensione (che nel DT AgroBioPesca partecipano per mezzo dei consorzi).

AgroBioPesca è attualmente impegnato in 6 progetti nell’ambito del Programma Operativo Nazionale

Ricerca e competitività 2007 -2013. Il numero medio di partner per ciascun progetto è alto, pari 11,5, con un

minimo di 7 nel caso di due progetti ed un massimo di 16. Complessivamente, il set di progetti impegna 69

partner, divisi in modo abbastanza equo fra università e centri di ricerca da un lato, e imprese dall’altro.

Appare indubbiamente eccessivo il numero degli enti di ricerca coinvolti in ciascun progetto, anche se una

possibile spiegazione, che sembrerebbe valere per il progetto DIMeSA (Valorizzazione di prodotti tipici

della Dieta Mediterranea e loro impiego a fini salutistici e nutraceutici), è che i progetti sono divisi in sotto-

progetti, ognuno dei quali necessita di competenze diverse e specialistiche, possedute da pochi partner.

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59

Il progetto DIMeSA vale complessivamente poco più di 9 milioni di euro, ha iniziato le attività il 1 Ottobre

2012 e dovrebbe terminare il 31 dicembre 2015. Le filiere sulle quali si concentra il progetto sono quella

olivicola, cerealicola, ortofrutticola. Il progetto si propone di creare prodotti nuovi e di migliorare quelli

esistenti, anche attraverso l’utilizzo delle biotecnologie; esso pertanto si propone di sviluppare innovazioni

sia di prodotto e sia di processo. Il progetto coinvolge 16 partner, di cui 8 enti di ricerca e università e 8

imprese. La percentuale di completamento delle attività progettuali, comprese le attività formative, è ad oggi

quantificabile nell’84%.

Per quanto riguarda i risultati e gli effetti di addizionalità del progetto DIMeSA, risulta che le imprese di

maggiori dimensioni, che presentano già capacità di ricerca autonoma, avrebbero portato avanti in

autonomia una progettualità di ricerca anche senza i fondi del progetto. Discorso analogo vale per i centri di

ricerca pubblici. Tuttavia, la presenza dell’incentivo pubblico ha stimolato la collaborazione dei centri di

ricerca con le imprese, in particolare di piccole dimensioni, che in caso contrario probabilmente non

sarebbero state coinvolte nelle attività di ricerca. Inoltre, in assenza di incentivo pubblico, le dimensioni e le

caratteristiche di rischiosità del progetto sarebbero state di minore entità. Quindi, sembrerebbe che vi sia

stato un effetto di addizionalità sia relativamente all’ammontare di R&S sia in relazione all’attività di

collaborazione fra enti di ricerca e imprese (ed in misura minore fra imprese). Da quanto emerso

dall’indagine sul campo, inoltre, sembrerebbe esserci stata anche addizionalità per quanto riguarda gli

output. I soggetti coinvolti sono riusciti ad accedere sia a meccanismi di innovazione incrementale, per

quanto riguarda i processi e i prodotti, sia a innovazioni radicali. Questi effetti di addizionalità sembrano

maggiori per le piccole e medie imprese, molte delle quali hanno dichiarato di lavorare alla definizione di

procedure che le rendano in grado di assorbire al loro interno la conoscenza presente nei centri di ricerca con

cui hanno collaborato. Sembrerebbe quindi che un altro effetto positivo della partecipazione al progetto sia

stata l’addizionalità di comportamento, anche se non è quantificabile come questo si sia tradotto in termini

di maggiore efficienza ed efficacia.

Un aspetto interessante, osservato anche nel caso del progetto PROINNO_BIT del DARE, è che la metà

delle sotto-attività del progetto DIMeSA è stata svolta da un partner di ricerca e da un’impresa

congiuntamente. In tre attività sono state coinvolte più imprese contemporaneamente. Nel complesso gli

attori coinvolti nel progetto DIMeSA hanno dato un giudizio positivo sui risultati del progetto, anche se

hanno indicato come elemento di debolezza la lentezza nei tempi di gestione ed erogazione dei fondi da

parte del soggetto pubblico finanziatore. Sembrerebbe che nel progetto DIMeSA, così come in molti altri

casi, l’effetto addizionalità è stato maggiore per le piccole imprese, anche se il coinvolgimento delle grandi

imprese ha permesso un nuovo apporto di conoscenza di cui le piccole imprese hanno beneficiato. Le

piccole imprese, inoltre, hanno potuto intraprendere processi innovativi di tipo sistematico e inoltre hanno

potuto accedere ad asset materiali di cui non disponevano internamente.

6.2.3 Il distretto tecnologico R&D.Log (Calabria)

Il caso del Distretto Tecnologico della Logistica e della Trasformazione nella regione Calabria gestito dalla

società consortile R&D.Log s.c.r.l presenta sostanziali differenze rispetto ai due distretti esaminati in

precedenza. Se da un lato, come risulta dalla Tabella 6.2, la Calabria si caratterizza per un contesto

socioeconomico ancora più fragile di Puglia e Sicilia, dall’altro il settore oggetto dell’intervento (logistica e

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60

software) presenta elevate caratteristiche di innovatività. Esso inoltre è un settore che anche a livello

internazionale è in forte espansione. L’obiettivo del distretto era quello di costituire una rete di imprese

fortemente integrate fra di loro in grado di produrre servizi innovativi (ad esempio pacchetti software) non

solo per il mercato della logistica trainata dal porto di Gioia Tauro, ma anche per il mercato nazionale ed

internazionale. La nascita del distretto è legata all’esistenza del porto di Gioia Tauro che nel 2004 era il

principale porto italiano in termini di movimentazione merci ed era al ventesimo posto su scala mondiale,

con una movimentazione merci di circa 3,5 miliardi di TEU. Negli anni della crisi economica (2007-2011) il

traffico portuale del porto ha subito una caduta di oltre il 40% e solo a partire dal 2012 si è avuta

un’inversione di tendenza che ha quasi permesso di raggiungere i livelli pre-crisi. D’altronde, a partire dal

2010, vi è stata una modifica nella politica regionale della regione Calabria per cui non sono stati più

finanziati i due distretti tecnologici esistenti ma i Poli di Innovazione. Il distretto R&D.Log ha realizzato

complessivamente 7 progetti, tutti approvati nel periodo 2005-2010. Successivamente al 2010, in parte a

causa del mutato orientamento della politica regionale, non è stato realizzato alcun progetto. Dopo il 2010,

invece, il distretto ha avuto la gestione del Polo di Innovazione per i Trasporti, la Logistica e la

Trasformazione. Tale Polo ha avuto un finanziamento di circa 3 milioni di euro per la realizzazione di

realizzato 7 progetti.

Un aspetto problematico del distretto ha riguardato la diminuzione del numero di soci. Inizialmente erano

presenti 31 soci di cui 3 multinazionali, 6 università e centri di ricerca, 5 imprese nazionali, e 16 imprese

locali. I soci partecipanti ai progetti nel periodo 2005-2010 sono stati 25. Nel 2015 il numero di soci si era

ridotto a 18. Un ruolo centrale nel distretto è stato svolto dalla multinazionale MCT che gestisce lo scalo di

Gioia Tauro. Vi erano inoltre, fra i soci, la multinazionale tedesca BLG che è un colosso mondiale per la

logistica del settore auto ed imprese dell’ICT locali, nazionali e multinazionali. Vi erano anche altre piccole

imprese che offrivano servizi vari e 6 università e centri di ricerca con adeguate competenze rispetto

all’obiettivo del progetto. La maggioranza del CDA è in capo ai soggetti privati che quindi assumono la

gestione complessiva del DT.

Per quanto riguardo il progetto PROMIS (Logistic Process Management & intelligence System), in relazione

al quale sono state fatte le interviste, esso ha lo scopo di sviluppare un sistema innovativo per

l’ottimizzazione del processo di gestione dei terminali marittimi fondato su una visione orientata ai processi

delle attività di logistica integrata che avvengono all’interno dei grandi hub portuali collegati a reti di

trasporto intermodali. Il progetto aveva un costo di circa otto milioni di euro con la presenza di 9 soggetti

soci del distretto (6 imprese e tre centri di ricerca). Il costo era sostenuto per il 30% dai privati. Per quanto

riguarda il grado di innovazione del progetto, la costruzione di un modello matematico che permette di

ottimizzare le operazioni di movimentazioni di un grande porto può essere visto come attività di ricerca. Il

risultato ultimo è un software applicativo che può essere considerato come un’innovazione di processo

finalizzata alla riduzione dei costi e dei tempi delle operazioni di movimentazione. Oggi le società che

vogliono movimentare il proprio carico possono scegliere fra porti alternativi. Il fattore di scelta è meno

dipendente dai costi di trasporto interni e dalla localizzazione del porto e più dalla qualità del servizio

all’interno del porto. Per rendere competitivi i servizi di un porto occorre influire sui tempi delle operazioni

di carico e scarico, sulla capacità dei magazzini, su infrastrutture efficienti di trasporti intermodale

all’interno dei porti, sulla rapidità di individuazione dei carichi e sull’assenza di danni allo stesso. Un

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61

software tipo quello prodotto dal progetto PROMIS può aumentare la competitività di un porto. In questo

senso è indubbio che il risultato del progetto PROMIS è stato quello di aumentare la competitività del porto

di Gioia Tauro. Esisteva la necessità di sviluppare un software di ottimizzazione della movimentazione.

Generalmente questo tipo di software è sviluppato in-house, anche se esistono società specializzate in grado

di aiutare i gestori dei porti a realizzare tale software. Grazie al progetto PROMIS non è stato necessario

ricorrere a expertise esterne alla regione. Nella misura in cui il progetto PROMIS ha evitato il ricorso a

expertise esterne si può parlare di addizionalità dello stesso, anche se la multinazionale che gestisce il porto

di Gioia Tauro può non aver aumentato, rispetto all’assenza di incentivo, la sua spesa di investimento. Il

ricorso a società di software locali per il progetto è stato un indubbio beneficio per la regione. Egualmente

positivo è il probabile incremento di competitività che l’applicazione del software ha avuto per il porto di

Gioia Tauro.

Nel complesso, i soggetti che hanno partecipato al progetto PROMIS lo considerano come un’esperienza di

successo. In termini di addizionalità di input, il progetto ha stimolato alcune aziende coinvolte ad

intraprendere attività di R&S più rischiose che altrimenti non sarebbero state avviate. Inoltre, ha ingrandito

la scala delle operazioni di R&S di alcune imprese che hanno beneficiato dell’utilizzo di migliori strutture di

ricerca e di una maggiore qualificazione delle proprie risorse interne.

In termini di addizionalità di output, si è effettivamente registrata una crescita di addetti in capo alla società

MCT. Tale crescita, tuttavia, è stata inferiore rispetto alle 200 unità programmate, attestandosi a circa 90

addetti28

.

E’ stato poi realizzato il dimostratore (pacchetto software previsto), di cui hanno beneficiato soprattutto le

grandi imprese attive nel distretto e coinvolte nel progetto (come la capofila MCT), ma vi sono stati dei

risultati utili anche per imprese di minori dimensioni. Le attività di ricerca svolte durante il progetto, infatti,

hanno portato allo sviluppo di modelli per la gestione della turnistica che sono stati utilizzati da alcune

piccole imprese coinvolte nel progetto.

L’obiettivo di installare il dimostratore in circa 30 porti non è stato raggiunto, in quanto allo stato attuale

esso viene utilizzato solo nel porto di Gioia Tauro e nel porto di La Spezia, dove le operazioni di

transhipment vengono gestite dalla società Contship, del cui gruppo fa parte la MCT. Ciò ha indubbiamente

determinato contrasti fra piccole imprese e multinazionali. Le piccole imprese erano interessate alla

commercializzazione dei prodotti innovativi sviluppati all’interno del progetto (in questo specifico caso i

software), mentre le grandi imprese mostrarono scarso interesse verso la possibilità che tali prodotti fossero

utilizzati all’esterno del distretto. Secondo le piccole imprese di informatica non vi è stata una sufficiente

sensibilità da parte delle grandi imprese nell’integrare le piattaforme standard utilizzate per la gestione

dell’hub di Gioia Tauro con i pacchetti software nell’ambito dei singoli progetti e ciò ha indubbiamente

ridotto la capacità di mercato dei prodotti realizzati nei vari progetti. Inoltre, l’eventuale

commercializzazione dei software avrebbe richiesto un’attività di adeguamento di quanto prodotto

28

Bisogna tener conto che la MCT è presente in altri due progetti e quindi l’incremento di occupazione non è imputabile al solo

soggetto PROMIS.

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62

all’interno del progetto e non era stato specificato nel bando quale soggetto avrebbe dovuto sopportarne i

relativi costi. In realtà, dato il limitato numero nel mondo di grandi porti, le specificità di ciascuna di essi, e

la preferenza a sviluppare in-house i software di movimentazione l’idea di poter vendere sul mercato i

pacchetti sviluppati dal progetto PROMIS non sembra molto realistica. I grandi porti come Rotterdam,

Singapore e Shangai hanno già a disposizione pacchetti software per l’ottimizzazione della movimentazione

anche di qualità superiore a quelli di Gioia Tauro. D’altro canto, una società di gestione di un porto che ha

sviluppato questo pacchetto di software non ha interesse a metterlo a disposizione dei concorrenti in quanto

in tal modo aumenterebbe la loro competitività. Inoltre, giacché tali pacchetti devono essere aggiornati per

tener conto delle modifiche interne ed esterne, un’eventuale società acquirente che gestisce porti, verrebbe a

dipendere da un concorrente per una risorsa essenziale. Per queste ragioni si ritiene che non vi sia un

mercato importante per i software prodotti (a differenza di quanto ipotizzato dalle piccole imprese

informatiche).

Un altro problema che si è verificato nel corso del progetto è che non vi è stato un adeguato coordinamento

fra i partecipanti per quanto riguarda l’avvio delle attività di ricerca. Alcuni soggetti avevano iniziato a

lavorare prima dell’erogazione dei contributi, mentre altri avevano aspettato la prima erogazione. I ritardi

nei pagamenti hanno inoltre determinato problemi finanziari che misero spesso in discussione l’attività degli

operatori, soprattutto delle piccole imprese. Tutto ciò si verificò in un contesto di scarsa fiducia

interpersonale e di illegalità diffusa; l’inefficienza della pubblica amministrazione contribuì ad accentuare

tali difficoltà.

Per quanto riguarda l’addizionalità del progetto, sia di input e sia di output, bisogna distinguere tra le grandi

e le piccole imprese. Le prime, infatti, hanno dichiarato che avrebbero intrapreso il progetto anche senza il

finanziamento pubblico e su identica scala. Tuttavia avrebbero implementato il progetto in maniera

individuale e non collaborativa. Sembra esserci stata invece una buona addizionalità per le piccole imprese

che in assenza del finanziamento pubblico non avrebbero avuto la possibilità di intraprendere simili attività

di ricerca e di conseguire gli stessi risultati. Alcune imprese hanno dichiarato che grazie agli incentivi

pubblici è cresciuta la propria spesa per le attività di R&S.

Per quanto riguarda gli effetti sulla propensione alla collaborazione, nonostante effetti positivi, il distretto

nel suo complesso non sembra aver avuto successo nella creazione di un’ampia rete tra i soggetti del sistema

regionale dell’innovazione. Come è stato già rilevato in precedenza, il distretto ha coinvolto un numero

esiguo di soci che, nel corso del tempo, sono anche diminuiti. Questo probabilmente è spiegabile sia in base

agli elementi esogeni già discussi, ma forse anche al fatto che la grande impresa, che di fatto assume la

complessiva gestione delle attività distrettuali, è interessata soprattutto alla collaborazione con le università e

gli altri enti di ricerca pubblici e poco alla collaborazione con altre imprese, specialmente se di piccole

dimensioni. Nel progetto PROMIS, ad esempio, la grande impresa ha dichiarato che la partecipazione delle

università ha avuto un ruolo fondamentale per il raggiungimento dei risultati e che probabilmente in futuro

instaurerà ulteriori collaborazioni con tali soggetti. Grazie ai progetti di ricerca implementati nel distretto,

inoltre, la grande impresa ha intensificato i rapporti collaborativi con le università e con gli altri enti di

ricerca pubblici, mentre è rimasto sostanzialmente basso il suo grado di collaborazione con le piccole

imprese. Queste ultime, per contro, ritengono molto importante sia la collaborazione con le università e gli

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altri enti di ricerca e sia con le altre imprese con cui cercano di creare sinergie. Allo stesso tempo però la

partecipazione al progetto PROMIS ha avuto uno scarso effetto nel migliorare i rapporti con le altre imprese

coinvolte nel progetto e nell’incrementare la probabilità di future collaborazioni. E’ stata invece valutata

positivamente l’esperienza di cooperazione con le università che ha consentito un certo grado di

trasferimento tecnologico.

E’ infine interessante notare che alcune piccole imprese partecipanti al distretto hanno sviluppato progetti di

ricerca che hanno ricevuto finanziamenti pubblici anche al di fuori del distretto.

6.2.4 Il caso Marche

Il caso Marche è molto diverso da quelli considerati in precedenza sia per le caratteristiche di contesto sia

per l’assenza di uno specifico organismo che si ponga come compito di organizzare e coordinare la

collaborazione fra i vari attori. Nelle Marche non vi sono distretti tecnologici.

Il tessuto produttivo marchigiano è caratterizzato dalla presenza di imprese di ridotte dimensioni che

operano prevalentemente in settori tradizionali a bassa/media intensità tecnologica. Tra questi, hanno una

particolare rilevanza il comparto della moda (tessile, abbigliamento e calzature), l’alimentare e il

legno/mobili. Negli ultimi decenni va comunque evidenziato che il tessuto industriale si è trasformato a

favore di settori a più elevata intensità tecnologica: all’interno della manifattura sono sensibilmente cresciuti

gli occupati nei vari comparti della meccanica, in particolare nella fabbricazione dei macchinari. Il modello

di innovazione prevalente si caratterizza per la scarsa propensione all’attività innovativa e per la preferenza

verso innovazioni di tipo incrementale. Un aspetto di contesto della regione Marche che la caratterizza

rispetto alle in precedenza considerate è il modello organizzativo del distretto industriale. L’agglomerazione

territoriale delle imprese nei distretti industriali ha avuto diversi vantaggi tra cui i più importanti riguardano i

risparmi di costo, la capacità di adattamento al mercato, l’assorbimento degli shock esterni, il progressivo

emergere della media impresa e la forte propensione verso l’internazionalizzazione. Oltre a tutto questo,

probabilmente, l’organizzazione di tipo distrettuale ha favorito la nascita ed il consolidamento di una cultura

orientata ai rapporti con il mondo esterno che ha fatto sorgere una buona propensione alla cooperazione tra

imprese e tra queste ultime e mondo accademico ed istituzionale. Le imprese marchigiane mostrano quindi

una buona propensione alla collaborazione.

Per quanto riguarda i soggetti attivi nel sistema regionale della ricerca e dell’innovazione, va rilevato il peso

preponderante delle università pubbliche rispetto a strutture pubbliche di ricerca (CNR, ENEA, INFN e

CRA).

La regione, nel supportare l’attività innovativa delle imprese locali, non ha puntato su settori specifici ma ha

preferito puntare su ambiti tematici trasversali ai vari settori ritenuti prioritari e strategici per lo sviluppo del

territorio. Tra questi ambiti vi sono la meccanica avanzata, la domotica, lo sviluppo di nuovi materiali, la

salute e benessere e l’efficienza energetica. Molti progetti di ricerca sono stati sviluppati nell’ambito

tecnologico della domotica, dove la regione vanta alcune eccellenza tecnico-scientifiche; la domotica inoltre

è un ambito di assoluta rilevanza anche al di fuori della regione, come testimoniano i numerosi progetti di

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ricerca finanziati con risorse nazionali e comunitarie, in grado di dar vita ad importanti partenariati tra

imprese, università, centri di ricerca e di trasferimento tecnologico.

La strategia complessiva della regione si caratterizza per alcuni elementi chiave che fanno da filo conduttore

ai diversi interventi realizzati. Da un lato si è puntato a finanziare i progetti di ricerca delle imprese e

dall’altro si è cercato di valorizzare e qualificare il capitale umano. Particolare attenzione è stata data negli

ultimi anni agli incentivi per la ricerca collaborativa, con l’obiettivo di mettere in rete i protagonisti del

sistema regionale dell’innovazione e di promuovere l’aggregazione tra le imprese e le relazioni di queste

ultime con gli altri soggetti pubblici e privati regionali attivi nel campo della ricerca. In particolare la

regione ha pubblicato sullo strumento del bando pubblico per supportare la ricerca collaborativa.

L’intervento prevedeva il finanziamento di progetti collaborativi presentati dalle imprese per lo sviluppo di

nuovi prodotti e di nuovi processi in determinati ambiti tecnologici ritenuti strategici per l’economia

regionale e in linea con le vocazioni produttive e le eccellenze tecnologiche locali.

L’intervento intendeva favorire uno stretto raccordo tra domanda e offerta di innovazione coerentemente con

il concetto di smart specialization, sostenendo lo sviluppo di tecnologie innovative ad alto contenuto di

conoscenza e agevolando un orientamento al mercato dei risultati della ricerca. A tal fine era richiesto che i

progetti di ricerca dovessero essere necessariamente presentati da clusters di soggetti comprendenti almeno

tre imprese indipendenti tra loro, tra cui non più di una grande impresa e almeno una piccola o una micro

impresa29

, nonché almeno un soggetto a scelta tra enti di ricerca (università o altri istituti di ricerca di diritto

pubblico o privato), centri per l’innovazione e il trasferimento tecnologico e parchi scientifici e tecnologici

del territorio. La collaborazione doveva essere formalizzata attraverso un accordo di partenariato nella forma

di un contratto di rete o di un raggruppamento temporaneo di imprese. La partecipazione degli enti di ricerca

era formalizzata attraverso un contratto di consulenza in ricerca e sviluppo. I programmi di investimento

dovevano avere un costo complessivo compreso tra 500.000 e 2.000.000 di euro.

Per quanto riguarda il progetto esaminato (Smart Green Housing Unit) esso ha visto la partecipazione

dell’Università Politecnica delle Marche, di INRCA - Istituto di Ricovero e Cura a carattere Scientifico, e di

quattro imprese: CBI Europe Spa, Garofoli Spa, ITC Italian Technology Centre Srl, Gatto Cucine Srl. La

capofila del progetto (nonché promotrice dello stesso) è la CBI Europe Spa, che produce prodotti per il

mercato edilizio venduti largamente all’estero. Poco dopo l’approvazione del progetto, la società Gatto è

entrata in procedura di concordato fallimentare. Rinunciare allo sviluppo delle soluzioni tecnologiche

originariamente assegnate a Gatto avrebbe significato il mancato raggiungimento degli obiettivi del

progetto. Si è pertanto deciso di sostituire Gatto con un’altra impresa marchigiana, Modula Srl. Le quattro

imprese hanno collaborato attivamente tra di loro nello svolgimento del progetto.

L’azienda capofila CBI ha avuto un ruolo determinante nella formazione della partnership e nella

definizione dell’idea progettuale iniziale, oltre che nel coordinamento delle parti durante la fase di

implementazione. Le aziende partecipanti sono state scelte nel rispetto delle specifiche del bando e sulla

base di conoscenze personali comuni. Nonostante le imprese del partenariato operassero già in settori ad alto

29

Il requisito dimensionale si riferisce all’art. 3 della Raccomandazione della Commissione Europea del 6 maggio 2003 e al

Decreto Ministeriale delle Attività Produttive del 18 aprile 2015.

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65

livello tecnologico e innovativo, e avessero risorse interne incaricate di attività di sviluppo, tutte le imprese,

dalla più piccola alla più grande, si sono avvalse anche della consulenza di studi tecnici esterni.

Il progetto di ricerca Smart Green Housing Unit complessivamente ha realizzato gli obiettivi tecnici che si

era proposto. Il progetto ha permesso alle imprese di realizzare nuove soluzioni tecnologiche che possano

essere commercializzate separatamente dalle imprese partner nella prospettiva di aprire nuovi sbocchi

commerciali grazie al know-how acquisito. Inoltre, i vantaggi ottenuti da alcune imprese nello svolgimento

in collaborazione delle attività di ricerca, le hanno portate a stabilizzare questo genere di attività, prevedendo

di svolgere futuri progetti di ricerca collaborativa con i partner con cui si sono trovate bene. Per il progetto

Smart green housing, la CBI è stata segnalata come best practice dalla regione, e ha ricevuto una visita da

parte di una delegazione comunitaria.

Sia il promotore del progetto (CBI) che le imprese partner dichiarano che non avrebbero affrontato il rischio

connesso allo sviluppo di questo prodotto innovativo e rischioso, destinato a un mercato differente da quello

in cui abitualmente operavano, se non ci fosse stata l’opportunità di ottenere il finanziamento del progetto.

Gli aspetti cruciali per il successo di un simile progetto possono essere sintetizzati nella partecipazione di

specifiche imprese al progetto, nell’elevato livello di specializzazione e formazione dei ricercatori coinvolti

nel progetto; nella condivisione degli interessi e obiettivi della ricerca; nel supporto finanziario da parte del

settore pubblico (anche se in misura minore rispetto agli altri fattori).

Fra gli ostacoli indicati vi sono i tempi di selezione e approvazione del progetto per il cofinanziamento

pubblico, ed i tempi di erogazione delle risorse pubbliche di cofinanziamento. La rigidità del bando, che

imponeva alcuni vincoli sul tipo di partenariato da formare, se da un lato ha costretto le imprese a

collaborare generando quindi effetti di addizionalità, dall’altro sembra aver avuto anche alcuni effetti

negativi sul buon avanzamento del progetto. Fra i problemi messi in evidenza vi è stata la difficoltà a gestire

il partenariato. Infatti, dal lavoro di indagine è emerso che la scelta dei partner è un elemento cruciale per il

successo dell’esperienza di collaborazione, e che se i partner non sono allineati (sia in termini di livello di

avanzamento tecnologico che di abitudine e motivazione a collaborare) rispetto all’obiettivo comune si

rischia di minare l’efficacia complessiva del progetto e di allungare i tempi per il raggiungimento dei

risultati.

Nel complesso viene confermato per le Marche quanto altre ricerche (Bellucci et al., 2015) hanno

evidenziato e cioè che i contributi per la ricerca hanno avuto addizionalità sia dal punto di vista degli input

che degli output, ma anche di comportamento delle imprese (propensione a collaborare). Essendo il progetto

appena concluso ed essendo la commercializzazione dei prodotti tecnologici sviluppati nell’ambito del

progetto in fase di avvio, è troppo presto per fare una valutazione dell’addizionalità di output realizzata (in

particolare in termini di numero di addetti totali e redditività).

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66

CAPITOLO 7

CONCLUSIONI

L’analisi della letteratura presentata nel Capitolo 2, ha messo in evidenza che la cooperazione fra imprese e

fra imprese e istituzioni di ricerca comporta effetti positivi non solo per la performance delle imprese, ma

anche per il benessere sociale. D’altronde la presenza di fallimenti del mercato rende opportuna una politica

a favore della cooperazione nella R&S. Purtroppo l’Italia non si caratterizza per un’elevata intensità della

cooperazione nella R&S. Non solo essa registra livelli di spesa in R&S nettamente inferiori agli altri paesi,

ma si caratterizza anche per una minore quota di imprese innovative che hanno effettuato progetti

collaborativi di R&S (Tabella 5.2). Ciò non è solamente determinato dalle dimensioni delle imprese,

inferiori che negli altri paesi europei. Infatti, anche nella classe di addetti 10-49 la percentuale di imprese

innovative che hanno collaborato nella R&S ha livelli decisamente inferiori che nei principali paesi europei.

Nella Tabella 7.1 abbiamo indicato, distinguendo per settori produttivi, il grado di cooperazione nel caso

delle imprese innovative. Si nota la bassa percentuale dell’Italia in tutti i settori rispetto alla media degli altri

paesi europei considerati. Si va da un valore medio del 17,5 %, nel caso del settore legno, ad un valore

medio del 32,8% nel settore tessile abbigliamento. Per quanto riguarda la collaborazione delle imprese con

università e centri di ricerca, le differenze rispetto alla media europea sono simili. Si va da un minimo del

18,9 % del settore tessile e abbigliamento ad un massimo del 41,6% nel caso del settore chimico etc. Le

imprese collaborano poco sia fra di loro e sia con l’università.

Tabella 7.1 - Quota di imprese innovative che hanno effettuato progetti di R&S collaborativa (valori percentuali) Produzione prodotti

alimentari, bevande,

etc.

Tessile, abbigliamento,

cuoio etc

Legno, Carta,

Poligrafiche etc.

Chimica, farmaceutica,

gomma, prodotti in

plastica, raffinazione del

petrolio, etc.

Elettronica, macchine

elettriche, mezzi di

trasporto, prodotti in

metallo

Mobilio, gioielli,

strumenti musicali, etc

Impres

e che

coopera

no con

univers

ità ed

altri

istituti

di

ricerca

Imprese

impegnate

in attività di

cooperazion

e

Imprese

che

cooperan

o con

universit

à ed altri

istituti di

ricerca

Imprese

impegnate

in attività di

cooperazion

e

Imprese

che

cooperan

o con

universit

à ed altri

istituti di

ricerca

Imprese

impegnate

in attività di

cooperazion

e

Imprese

che

cooperan

o con

universit

à ed altri

istituti di

ricerca

Imprese

impegnate

in attività di

cooperazion

e

Imprese

che

cooperan

o con

universit

à ed altri

istituti di

ricerca

Imprese

impegnate

in attività di

cooperazion

e

Imprese

che

cooperan

o con

universit

à ed altri

istituti di

ricerca

Imprese

impegnate

in attività di

cooperazion

e

Belgio 20,3 51,8 10,0 39,7 33,8 67,2 20,5 48,3 21,2 59,6

Germania 6,0 7,7 25,4 42,9 5,3 15,5 21,5 37,2 18,8 29,4 10,1 21,9

Spagna 8,7 26,9 3,4 26,7 4,8 20,1 12,8 32,5 9,2 29,1 5,3 18,2

Francia 7,6 30,7 9,7 31,9 6,9 25,4 17,8 41,8 12,8 34,1 8,7 27,9

Italia (A) 3,0 9,7 2,5 11,4 2,3 5,4 9,4 12,3 6,3 11,7 2,8 10,3

Olanda 9,6 27,9 8,2 28,9 7,9 41,6 20,5 48,2 12,0 33,7 13,1 35,7

Austria 10,8 29,7 5,6 32,4 9,7 34,0 43,1 54,7 30,0 46,5 13,4 42,3

Regno-

Unito

12,6 60,1 18,8 69,3 12,3 65,2 22,0 75,3 17,7 65,9 18 54,4

Valor

Medio (B)

9,8 30,6 13,2 34,8 7,4 30,9 22,6 46,2 15,91 37,3 11,6 33,8

A/B*100 30,5 31,7 18,9 32,8 31,1 17,5 41,6 26,7 39,59 31,3 24,2 30,5

Fonte: Ns elaborazioni su dati CIS - Eurostat

Alla luce dei dati presentati e delle osservazioni fatte nei capitoli precedenti appare pertanto particolarmente

opportuno il disegno e la realizzazione di politiche nazionali e regionali che favoriscono la cooperazione

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67

nelle attività di R&S e che tengano conto dell’eterogeneità delle regioni italiane per quanto riguarda la

struttura economica e sociale, la quale determina anche una notevole diversità nella propensione a stipulare

accordi di cooperazione. La realizzazione di tali politiche, però, richiede una certa cautela in quanto i

progetti e le reti finanziate, almeno in parte con fondi pubblici, dovrebbero soddisfare il duplice criterio

dell’efficienza (si veda il Capitolo 1) e dell’addizionalità. Vi è il rischio, infatti, che il supporto alla ricerca

collaborativa svolta dalle grandi imprese non soddisfi il criterio dell’addizionalità, oppure che la

cooperazione fra piccole imprese non soddisfi il criterio dell’efficienza. Per quanto riguarda quest’ultimo, la

letteratura ha evidenziato che nel calcolo dei benefici occorre considerare non solo gli effetti diretti ma

anche quelli indiretti generati dalla collaborazione. D’altro canto, bisogna riconoscere che l’erogazione di

sussidi sia per rafforzare i legami all’interno della rete sia per attrarre imprese chiave dall’esterno non

necessariamente irrobustisce la capacità tecnologica di una regione e può creare sostanziali problemi di

opportunismo e inefficienza.

Nel seguito sono riportate le principali conclusioni del presente studio.

La banca dati OpenCoesione

Un importante apporto del gruppo di lavoro è stato quello di utilizzare la banca dati OpenCoesione per

ricavare i progetti svolti in collaborazione sia nell’ambito di distretti tecnologici e sia indipendenti da questi.

Utilizzando uno specifico algoritmo, si è ottenuto un elenco di due tipologie di progetti collaborativi: da un

lato i progetti svolti da imprese non appartenenti a DT, ma che hanno partecipato a bandi delle regioni in cui

si richiedeva la collaborazione. Questo è il caso di gran parte dei progetti collaborativi che troviamo nelle

regioni Marche, Toscana ed Emilia Romagna. Dall’altro lato progetti in cui appare come attuatore il distretto

tecnologico ma ai quali hanno partecipato anche i soci del distretto e che quindi sono a tutti gli effetti dei

progetti collaborativi. Questi ultimi progetti sono ampiamente diffusi nelle regioni ammesse ai programmi

dell’Obiettivo Convergenza.

Quanto emerge dall’analisi, in estrema sintesi, è che, seppur sia stato necessario attendere il 2011 per

intensificare la collaborazione nelle attività di ricerca e innovazione, da tale anno in poi la maggior parte dei

finanziamenti è stata indirizzata verso progetti di tipo cooperativo. Alla fine del 2014, infatti, il totale dei

finanziamenti pubblici ai progetti collaborativi era il triplo rispetto a quelli ricevuti dai progetti non

collaborativi. Con riguardo alle forme di collaborazione, si è potuto riscontrare che circa l’80% dei progetti

comprendeva meno di quattro partner. Inoltre, il tipo di attori (imprese, enti di ricerca, formazione…) ed i

settori compresi nella coalizione sono in linea con i risultati che si possono ricavare dall’indagine

campionaria CIS. A livello territoriale alcune regioni hanno fatto un uso più ampio dei fondi strutturali ai

fini della ricerca collaborativa: Lazio, Piemonte, Toscana, Liguria, Emilia Romagna, Marche e Lombardia.

Partendo dall’ipotesi che questo tipo di investimenti non sarebbe stato intrapreso senza la politica

incentivante, dai dati emerge con chiarezza uno dei limiti all’uso di questi strumenti: il ritardo nei pagamenti

e quindi il rischio per le imprese di andare incontro a crisi di liquidità.

Sebbene si siano utilizzate diverse fonti esterne per integrare i dati forniti da Opencoesione ed individuare

con la massima precisione i progetti collaborativi, non è possibile avere la certezza che siano stati

individuati per tutte le regioni ed in modo omogeneo tutti i progetti collaborativi. Quindi, in attesa di

prossimi e auspicabili aggiornamenti di Opencoesione e della sua unione con altri archivi, i risultati appena

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68

descritti sull’intensità delle collaborazioni in R&S finanziate con fondi strutturali forniscono una prima

incoraggiante, ma ancora parziale, quantificazione del fenomeno. Il lavoro ha quindi evidenziato i limiti

attualmente esistenti in Opencoesione per l’analisi di questo tipo di progetti e la direzione verso cui occorre

muoversi per poter usare la banca dati in modo più efficace (ricordiamo per esempio l’attuale difficoltà a

completare le informazioni sulle tipologie di legami fra gli attori appartenenti ai vari progetti, così da poter

utilizzare le metodologie della Social Network Analysis per confrontare cluster e distretti tecnologici).

Problemi di valutazione delle politiche per la collaborazione nella R&S

Il lavoro condotto sui casi studio per la valutazione delle politiche per la costruzione di distretti tecnologici

ha permesso di evidenziare aspetti, di seguito riportati, che non vengono colti da metodi quantitativi come le

stime econometriche basate su modelli di matching (si veda il Capitolo 4). D’altro canto tali metodologie

consentono di cogliere solo i risultati conseguiti dalle imprese e non tengono contro degli effetti indiretti del

progetto su altri soggetti. Ciò è particolarmente importante nel caso di progetti cooperativi nella R&S ove

partecipano anche università e centri di ricerca e che, come nel caso dei distretti tecnologici, si preoccupano

anche di realizzare programmi di formazione. Inoltre, la costituzione di nuovi legami fra i vari attori può

avere effetti positivi anche sulla capacità di assorbimento delle imprese, effetti però che si colgono solo nel

lungo periodo. I modelli econometrici, inoltre, non riescono a cogliere completamente alcune debolezze

nell’attuazione di tali politiche, e tantomeno riescono a tener conto della eterogeneità dei distretti

tecnologici. Modelli in grado di cogliere anche gli effetti indiretti, come quelli basati sulla Social Network

Analysis, incontrano notevoli difficoltà nell’ottenere le informazioni necessarie a costruire le reti dei vari

distretti e comunque non riescono a cogliere le debolezze dell’attuazione di tali politiche. D’altronde, una

valutazione basata solo su casi studio soffre delle distorsioni inerenti alle risposte degli intervistati. Inoltre

anche se, come è stato fatto in questo lavoro, si confrontano reti innovative diverse fra di loro (sia per le

caratteristiche e sia per il tipo di politiche seguite) è difficile ottenere risultati che possano essere

statisticamente significativi. Il fatto che ogni metodo di valutazione permette di catturare aspetti specifici

implica che, per avere una visione completa degli effetti delle politiche, appare opportuno adottare una

strategia di valutazione che combini diversi strumenti metodologici.

Evidenza sugli effetti addizionali della collaborazione

I casi studio sintetizzati nel Capitolo 6 hanno evidenziato che i progetti di ricerca collaborativa analizzati

sono generalmente associati ad addizionalità di input (incremento della spesa in R&S) e comportamentale

(incremento della propensione alla collaborazione, in particolare con le università). Non è del tutto chiaro se

si può parlare di addizionalità di output30

. In ogni caso non sono state raccolte sufficienti informazioni per

verificare se i vari progetti hanno rispettato o meno il criterio dell’efficienza. Nel caso delle Marche, le

imprese hanno sviluppato delle tecnologie che ora stanno cercando di commercializzare. Nel caso di

30

Per quanto riguarda l’addizionalità di output, come deriva dalle considerazioni riportate nel Capitolo 2, l’utilizzo del brevetto

come indicatore di successo di un programma di ricerca pubblico spesso non è una corretta misura di risultato, in particolare nei

settori ove le spese per R&S non sono eccessivamente elevate. In questo caso il costo di ottenere il brevetto è abbastanza alto ed i

tempi abbastanza lunghi per rendere effettiva la protezione legale; la richiesta del brevetto può quindi non essere conveniente.

Inoltre, il fatto che in ogni caso, grazie al brevetto, un numero di informazioni è reso pubblico e rende possibile, come

nell’industria del software e nell’elettronica tecniche di “reverse engineering” (ingegneria inversa), può ulteriormente scoraggiare

la richiesta di protezione legale. Questo potrebbe spiegare perché alcuni studi econometrici (ad esempio Scotchmer, 2004) trovano

che il valore dei brevetti è inferiore al costo medio dell’innovazione.

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69

R&D.Log sono stati prodotti programmi di software (innovazioni di processo) che, anche se non

commercializzati, sono utilizzati dalle imprese del distretto per migliorare le propria competitività. Nel caso

della Puglia, ci sono indicazioni che lasciano presupporre addizionalità di output, ma è ancora presto per fare

questa valutazione. Discorso analogo vale per il distretto Agrobiopesca. Comune ai vari casi esaminati, in

particolare nel Mezzogiorno, è che l’addizionalità è stata maggiore per le piccole imprese che per le grandi

imprese non locali. Non si può escludere che le grandi imprese abbiano avuto un comportamento

opportunistico.

Il ruolo del Distretto e di altri attori nella realizzazione della ricerca collaborativa

E’ interessante notare che nei casi esaminati vi è stata una differenziazione di ruolo dei vari attori. In alcuni

casi, come DARE e Agrobiopesca, l’attore che governa il DT ha avuto un ruolo positivo nel favorire le

collaborazioni grazie ai servizi offerti. Nel caso di R&D.Log la governance del distretto non ha avuto un

ruolo significativo nel favorire le collaborazioni. Queste sono il risultato di accordi spontanei fra gli attori.

Nel caso delle Marche non esiste un DT e le collaborazioni sono il risultato delle specifiche dei bandi.

Inoltre, l’esistenza di un tessuto industriale dominato da una certa propensione all’aggregazione, come

abbiamo visto nel Capitolo 6, ha agevolato la formazione della partnership per la ricerca collaborativa. Lo

strumento del bando pubblico è quindi stato particolarmente efficace in un tessuto produttivo robusto, dove

le imprese hanno già una buona capacità di ricerca e attitudine all’innovazione e dove il capitale sociale è

più forte. In generale nelle aree più sviluppate del paese, il ricorso a intermediari non pubblici e consulenti

aziendali locali in grado di fornire assistenza tecnica per quanto riguarda le procedure burocratiche e

amministrative al progetto ha un ruolo molto positivo. Inoltre tali consulenti possono individuare i partner

potenzialmente interessati e adatti allo svolgimento delle attività di ricerca, ed assicurare il parziale

allineamento/complementarietà rispetto alle prassi di lavoro, al livello tecnologico, e agli obiettivi

manageriali e imprenditoriali31

. Mentre nei distretti marshalliani sono presenti tali figure, le piccole imprese

del Mezzogiorno non possono e/o non vogliono sopportare il costo di un consulente che non sia il fiscalista

o un commercialista che possa facilitare l’accesso al credito bancario. Ciò ovviamente limita il mercato per

consulenti veramente specializzati nell’offrire il complesso di servizi necessari per il successo della

collaborazione. In molte aree del Mezzogiorno appare necessaria, in linea di principio, la presenza di

distretti tecnologici che siano in grado di individuare i bisogni delle imprese e coordinare i vari attori nella

stesura e implementazione dei progetti. La governance del distretto dovrebbe essere rivolta al perseguimento

degli obiettivi dell’insieme degli attori e non di particolari gruppi. Purtroppo non sempre la governance dei

distretti al Sud si è mostrata all’altezza dei compiti richiesti.

Il ruolo delle università e dei centri di ricerca

Per quanto riguarda i rapporti tra le imprese e università/centri di ricerca, essi sono stati particolarmente

fruttuosi nei distretti DARE e Agrobiopesca, dove la gran parte delle imprese non aveva sviluppato una

capacità autonoma di ricerca e quindi università e centri di ricerca hanno prodotto e trasmesso conoscenza

altrimenti non disponibile. In questi casi la collaborazione ha permesso alle università di acquisire una

31

In realtà vi è una vasta letteratura (si veda Howells, 2006 ) che evidenzia l’importanza di differenti organizzazioni non

necessariamente pubbliche che svolgono il ruolo di intermediari nei processi innovativi facilitando i legami fra attori che sono

impegnati nella produzione di conoscenza. Anche nel caso della regione Toscana, ove vi sono distretti marshalliani come nelle

Marche, alcuni lavori empirici hanno evidenziato il ruolo positivo di tali intermediari sia per le performance delle imprese (Caloffi

et al., 2013) e sia per la formazione delle reti innovative (Caloffi et al., 2013)

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70

maggiore sensibilità rispetto alle esigenze concrete delle imprese, e queste ultime hanno avuto l'occasione di

usufruire delle conoscenze e competenze delle università per risolverli. Questo risultato è in linea con una

recente indagine di SRM (2013) dove si evidenzia che la percentuale di imprese del Mezzogiorno che hanno

realizzato innovazioni grazie alla collaborazione con le università è maggiore della media nazionale. Nel

settore manifatturiero tale percentuale è pari all’11,5% delle imprese intervistate, contro il 9,7 % nazionale.

Nel settore alimentare essa è pari al 28,3% per il Mezzogiorno ed al 12,5% per l’intera Italia. Quindi il

settore alimentare, a conferma di quanto trovato per i distretti DARE e Agrobiopesca, trova nell’università e

nei centri di ricerca esterni un possibile sostituto al fatto che le imprese, per le loro ridotte dimensioni, non

hanno sviluppato adeguate competenze interne per la R&S. Un ruolo positivo dell’università, ma non

necessariamente indispensabile, vi è stato nel caso del distretto R&D.Log, dove la grande impresa nazionale,

pur sviluppando al proprio interno attività di ricerca, ha avuto la possibilità di utilizzare risorse

complementari presenti nell’università. Nel caso delle Marche, non sembra che i centri di ricerca esistenti

nella regione abbiano svolto un ruolo rilevante32

. In questo caso è possibile che il partner università non era

adeguato e che l’obbligo del bando a collaborare con università localizzate nella regione abbia reso meno

proficua la collaborazione33

.

In generale si può dire che la condizione per l’efficacia della collaborazione tra università e imprese è che

l'offerta di R&S delle università sia in grado di soddisfare i bisogni di innovazione espressi dalle imprese e

dal loro mercato. D’altronde la letteratura sottolinea, ed il modello della tripla elica ne è un esempio, che

l’università svolge un ruolo cruciale nei distretti ad alto livello di tecnologia basati su settori ad alto

progresso tecnico. Si potrebbe dire dunque, alla luce dei risultati da noi trovati e delle conclusioni della

letteratura, che le università hanno un ruolo rilevante nel supportare la ricerca collaborativa in settori

tradizionali ed in contesti dove l’attività di R&S è poco sviluppata e la capacità di assorbimento delle

piccole imprese è bassa34

. Ciò è vero anche nelle aree ove sono concentrati settori ad alto progresso tecnico

e i centri di ricerca e l’università sono produttori di conoscenza molto avanzate. In situazioni intermedie,

come quella delle Marche dove non vi sono settori ad alto progresso tecnico e la produzione di conoscenza,

anche se modesta, viene svolta dalle imprese, il ruolo dell’università è meno rilevante. In ogni caso, le

informazioni raccolte con l’analisi dei documenti e le interviste sul campo mostrano che i progetti di ricerca

collaborativi hanno spesso rafforzato la fiducia delle imprese nei confronti delle università e dei centri di

ricerca, rendendo chiari i vantaggi dell’innovazione e incrementando quindi la loro propensione alla

collaborazione. In molti casi la politica per i distretti tecnologici ha permesso, nel Mezzogiorno, di passare

da una situazione di assenza di rapporti alla messa in relazione di soggetti che precedentemente non avevano

collaborato. Anche per le imprese che avevano rapporti di tipo consulenziale si è avuto un miglioramento

della qualità delle collaborazioni che invece già esistevano, grazie all’aumento della frequenza delle

interazioni tra i soggetti collegati. Molte delle imprese intervistate hanno dichiarato che collaborerebbero di

32

Anche nella regione Toscana, che ha caratteristiche simili alle Marche, alcuni lavori (Caloffi et al., 2013; Mariani e Mealli,

2014) evidenziano che la presenza delle università nei consorzi non migliora la performance delle piccole e medie imprese. 33

L’eliminazione nel bando pubblico del vincolo a favore dell’università locale probabilmente non avrebbe modificato la scelta

delle imprese. La letteratura mostra, infatti, che la prossimità geografica ha un ruolo determinante nella collaborazione fra imprese

e università (D’Este et al., 2013). 34

La letteratura sui determinati della collaborazione università-impresa non dà risultati univoci. In un lavoro sulle piccole imprese

giapponesi (Okamuro, 2007) si evidenzia che la collaborazione con le università migliora le performance delle imprese. Anche

Maietta (2015) trova per settore alimentare un effetto positivo ma significativo solo al 10% della cooperazione università –

imprese sull’innovazione di prodotto.

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71

nuovo volentieri in futuro con gli enti di ricerca. In questi casi il ruolo del distretto come attore autonomo è

stato di grande importanza. Esso ha permesso a molte piccole imprese di avvicinare l’attività di R&S. Resta

ovviamente il rischio di comportamenti di rent-seeking in particolare per quanto riguarda le imprese di

maggiori dimensioni per le quali l’interesse alla collaborazione è più strettamente legato all’incentivo offerto

dal cofinanziamento pubblico.

Il ruolo della grande impresa

Per quanto riguarda il ruolo della grande impresa nazionale o internazionale, la letteratura evidenzia come

solo in alcuni casi (si veda il Capitolo 4) essa svolge un ruolo rilevante nella creazione di legami, in

particolare con le piccole imprese. La grande impresa solitamente è caratterizzata da proprie capacità di

condurre attività di ricerca, e in quanto tale, è meno dipendente dal trasferimento di conoscenze offerte dalle

università. Tuttavia, nel caso di R&D.Log, la grande impresa è sembrata più interessata a sviluppare rapporti

di collaborazioni con l’università per aumentare la propria competitività che con le piccole imprese.

Collaborazioni reciprocamente fruttuose fra grandi e piccole imprese possono avvenire allorché le piccole e

medie imprese hanno sviluppato una capacità autonoma di ricerca. La letteratura mette in evidenza che

effetti positivi della politica di sussidi alla R&S, in particolare nel caso della cooperazione, si hanno solo se

le piccole imprese hanno una adeguata capacità di assorbimento (Capitolo 2 ). Se non vi sono tali condizioni

si può sviluppare un conflitto fra grande impresa, entrata nel progetto per beneficiare degli incentivi, e

piccole imprese, desiderose anche di sviluppare proficui legami con il mondo esterno alla regione di

localizzazione. D’altronde, se le piccole imprese non riescono ad essere effettivamente utili, la grande

impresa potrà sviluppare un atteggiamento predatorio e poco utile al benessere sociale35

. In tali casi la

governance del distretto ha un ruolo cruciale nell’individuare i partners dei progetti, evitando che per

pressioni politiche o per opportunismo, partecipino attori poco adeguati. La governance del distretto

dovrebbe anche essere particolarmente efficace nel cogliere le possibili occasioni offerte dal contesto interno

ed esterno.

Caratteristiche delle imprese partner per una collaborazione di successo

L’analisi dei casi studio e della letteratura suggerisce che, affinché la collaborazione nella ricerca generi

effetti positivi, è preferibile che i partner: 1) siano motivati a partecipare al progetto sin dalle prime fasi della

sua ideazione; 2) condividano gli interessi di ricerca; 3) abbiano dimensioni pressoché simili; 4) siano

allineati e/o complementari in termini di conoscenze tecniche e capacità manageriali; 5) si fidino gli uni

degli altri.

L’aspetto relativo alla fiducia appare particolarmente importante. La fiducia genera effetti positivi nel medio

e lungo periodo, poiché contribuisce ad avvicinare il tessuto imprenditoriale all’innovazione, e di fatto ad

35

La letteratura evidenzia sia effetti positivi che negativi della presenza della grande impresa nei progetti collaborativi di R&S.

Okamuro (2007) stima che la presenza di una grande impresa come partners del progetto migliora la performances delle piccole e

medie imprese. Chistopherson e Clark (2007) sostengono, osservando la situazione di Rochester nel New Jersey, che le imprese

multinazionali hanno organizzato la rete di imprese locali così da massimizzare i benefici per loro, e nel contempo marginalizzare

le piccole e medie imprese. Analoga osservazione è fatta da Gray et al. (2001). D’altronde, l’esperienza del Mezzogiorno con la

polemica sulle cattedrali nel deserto, anche se spesso non giustificata, conferma le difficoltà nei rapporti fra grande impresa e

piccole imprese locali. L’esperienza del Mezzogiorno nell’aereospazio e nell’ICT mostra che l’effetto indotto più rilevante

riguarda le filiali di grandi imprese che si sono localizzate al Sud, al seguito dell’impresa leader. Le piccole imprese locali hanno,

come subfornitori, un ruolo molto marginale per le grandi imprese.

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72

accrescere nel tempo (medio/lungo) la capacità di assorbimento e di apprendimento dei soggetti più deboli

del sistema. Inoltre, essa incoraggia ad intraprendere progetti di ricerca più rischiosi e di dimensioni

consistenti, che difficilmente si sarebbero avviati in autonomia, generando comunque un effetto espansivo

della spesa in ricerca e sviluppo del territorio. Anche nei casi in cui l’esperienza di collaborazione si è

rivelata infruttuosa, o complessa da gestire, può emergere tuttavia la consapevolezza dei possibili vantaggi

della collaborazione, e perciò la volontà di ripetere l’esperienza di progetti di ricerca collaborativa. In

generale si può dire che l’esperienza pregressa dei partner in progetti di ricerca può risultare determinante

per il successo o l’insuccesso della collaborazione. Dai casi studio analizzati sembrerebbe che vi sia stato un

accrescimento della fiducia fra gli attori, sia appartenenti al sistema della ricerca sia al mondo

imprenditoriale, come effetto delle politiche seguite. I soggetti coinvolti nei meccanismi di collaborazione

sono: 1) soddisfatti degli esiti della collaborazione, alla quale ex-post è riconosciuta una specifica utilità; 2)

consapevoli di aver avuto accesso a un network di relazioni molto più ampio e diversificato rispetto a quello

che altrimenti avrebbero conosciuto; 3) pronti a proseguire l’esperienza di ricerca collaborativa con i

soggetti dei quali si fidano. La complementarietà tra i partner per quanto riguarda le loro competenze è

ritenuta un elemento di successo per un progetto di R&S collaborativa (si veda anche il Capitolo 2 a questo

proposito).

Fattori che possono compromettere l’efficienza della collaborazione

Mentre è abbastanza chiara l’esistenza di una certa addizionalità (si veda sopra), non è altrettanto evidente se

i progetti di ricerca analizzati abbiano sempre soddisfatto il requisito dell’efficienza. E’ possibile che in

molti casi la realizzazione dell’obiettivo del progetto comportava costi minori di quelli che sono stati

riconosciuti. Ciò deriva da un classico problema di asimmetria informativa fra i proponenti del progetto e la

commissione esaminatrice. L’esistenza di differenze sostanziali nei costi imputati ai progetti e oggetti di

cofinanziamento pubblico e costi effettivi, in particolare nelle regioni meridionali, è evidenziata da molta

letteratura36

.

Un altro punto da sottolineare è che un numero elevato di attori per progetto richiede costi di coordinamento

elevati, con possibili effetti negativi in termini di efficienza. In modo analogo la dimensioni degli

investimenti individuali, specie nei cluster composti da piccole e medie imprese che hanno una limitata

capacità di management, può sostanzialmente aumentare i costi di coordinamento e ridurre l’efficienza.

Quindi particolare attenzione deve essere posta a queste due variabili, tenendo particolarmente conto della

tipologia del settore considerato. Da questo punto di vista, l’introduzione di soglie minime per la

presentazione del progetto, come è avvenuto in alcuni bandi dei DT del Mezzogiorno, può favorire

comportamenti opportunistici e ridurre l’efficienza della spesa. Tali soglie minime potrebbero avere

aumentato il numero degli attori per progetto che, come abbiamo visto nei distretti del Mezzogiorno,

appaiono alquanto elevati. Il problema è che la soglia minima deve essere adattata alle specificità del settore

ed in particolare all’esistenza o meno di economie di scala. Si potrebbe comprendere il vincolo di una soglia

minima elevata in settori tecnologicamente avanzati ma non in altri, come ad esempio quello agroalimentare,

caratterizzato da imprese di piccole dimensioni.

36

Anche il lavoro del 2014 della Confcommercio “La spesa pubblica regionale” affronta questo problema.

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73

Un ulteriore aspetto critico emerso dalle interviste riguarda la lentezza delle procedure amministrative che

può avere gravi effetti negativi sul successo della politica per la collaborazione. I procedimenti per

l’approvazione dei progetti sono spesso troppo lunghi. A volte dalla presentazione del progetto alla sua

approvazione passano diversi anni e questo blocca l’attività del distretto, la cui operatività è fortemente

legata al sostegno pubblico. Inoltre, risulta troppo lunga anche la tempistica relativa alla stipula degli

accordi, all’avvio dell’attività e all’erogazione dei finanziamenti. Questi problemi sono presenti in tutti i casi

di finanziamenti pubblici ma sono acuiti allorché vi siano diversi partners che devono collaborare. In molti

casi il mancato coordinamento dei partners rende più complesso sia il soddisfacimento dei criteri per

ottenere i finanziamenti sia la fase di rendicontazione. Tutto ciò ovviamente allunga i tempi per la

costituzione della partnership e per l’erogazione dei fondi. Specialmente nel caso di piccole imprese, ciò

aumenta di molto i costi e porta i vari attori a gonfiare la richiesta di finanziamento. Questo ovviamente può

avere effetti negativi sul grado di addizionalità dei progetti in quanto le imprese, dopo un’esperienza

negativa relativa alla lungaggine dei finanziamenti, si limiteranno a fare domanda solo per progetti che in

ogni caso avrebbero realizzato.

Implicazioni dei risultati ottenuti per le politiche di cooperazione nella R&S

Criteri di selezione e ammissibilità al finanziamento pubblico

Alla luce delle considerazioni precedenti si ritiene che per il successo di un programma pubblico in favore

della R&S collaborativa, è importante che vi sia una chiara complementarietà dei partners per quanto

riguarda le competenze (si veda il Capitolo 2). Una particolare attenzione a questo aspetto eviterebbe la

partecipazione al progetto di soggetti che non posseggono specifiche competenze ma che vi aderiscono solo

per ragioni opportunistiche.

E’ importante inoltre, come già detto, fare molta attenzione a non consentire, specie nei settori tradizionali,

un numero troppo elevato di attori per progetto e limitare la spesa per ogni singolo attore. Questo implica

che non è opportuno stabilire soglie minime per progetto finanziato, date le elevate differenze settoriali.

Soglie minime, infatti, in aree di piccole imprese aumentano eccessivamente il numero di attori per progetto

con il rischio di elevare di molto i costi di coordinamento.

Per quanto poi riguarda la possibilità di regolamentare nei bandi la protezione legale dell’attività intellettuale

abbiamo visto nel Capitolo 2 che tale protezione non è vista dagli innovatori come un elemento

indispensabile. Alla luce di ciò appare difficile fornire regole rigide e precise per quanto riguarda la

combinazione ottimale di intensità della protezione legale e di livello dei sussidi.

La scelta della governance

Il problema della governance appare particolarmente importante nel caso dei distretti tecnologici, in quanto

essa può fare la differenza per quanto riguarda la politica a favore della R&S. Ad esempio, vi potrebbe

essere uno specifico apporto dell’organismo di governance grazie al quale le imprese investono di più in

R&S di quanto avrebbero fatto in assenza della struttura di governance, ma in presenza di un ammontare

analogo di sussidi pubblici. Se una tale differenza esiste, essa va imputata all’azione della struttura di

governance.

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74

Proprio per questo bisogna fare particolare attenzione a che venga scelta la governance più adatta per il buon

funzionamento del distretto, tenendo bene in considerazione le condizioni del contesto di riferimento. In aree

ove sia le grandi imprese e sia le piccole e medie imprese hanno sviluppato una buona capacità di

assorbimento, la presenza di intermediari può facilitare il successo delle politiche collaborative. Tali

intermediari non devono tuttavia essere necessariamente pubblici né tanto meno è necessario che esista un

organismo strutturato denominato distretto tecnologico.

Nel caso di aree ove dominano piccole e medie imprese con bassa capacità di assorbimento, la presenza di

un DT ben gestito è in grado di stimolare gli innovatori a collaborare, di facilitare la presentazione delle

domande, e di meglio coordinare i vari attori. E’ chiaro che non sempre è facile riuscire ad avere una

gestione del distretto con tali caratteristiche per cui l’ente regione deve essere molto attento ad utilizzare le

forze già presenti e funzionanti sia fra le associazioni imprenditoriali sia in istituzioni preesistenti.

Struttura degli incentivi

Bisogna poi dedicare particolare attenzione ad un meccanismo di incentivi che favorisca la rivelazione dei

costi effettivi da parte degli attori. Ciò può essere fatto costruendo un indice (Del Monte, 2014) in base al

quale ordinare i progetti da finanziare. Tale indice, coeteris paribus, ha un valore inverso al contributo

richiesto da ogni attore per il progetto37

. Quanto più alto è tale indice, maggiore sarà la probabilità che il

progetto sia finanziato. Se gli attori chiedono un elevato valore di contributo potranno ricevere una somma

alta come incentivo, ma si troveranno ad avere un basso valore di tale indice e quindi saranno posizionati in

basso in graduatoria. La probabilità di finanziamento del progetto sarà bassa. D’altronde, se gli attori

chiedono un valore basso del contributo, risulterà un valore elevato di tale indice ed un alta probabilità di

essere finanziati. In tal caso, tuttavia, il finanziamento pubblico potrà essere insufficiente a finanziare il

progetto con il rischio di subire una perdita. L’esistenza di tale trade-off dovrebbe spingere i partecipanti al

progetto a richiedere un valore dell’incentivo non lontano da quello effettivo.

Inoltre, è bene ricordare che è l’inefficienza delle procedure relative alla scelta dei progetti ed al loro

finanziamento che influisce negativamente sull’ammontare dei finanziamenti richiesti e sulla loro efficienza.

Tale punto appare quindi molto importante per l’efficacia delle politiche collaborative.

37

Tale indice, coeteris paribus, ha un valore inverso al contributo richiesto da ogni attore per il progetto. Quanto più alto è tale

indice, maggiore sarà la probabilità che il progetto sia finanziato. Se gli attori chiedono un elevato valore di contributo potranno

ricevere una somma alta come incentivo, ma si troveranno ad avere un basso valore di tale indice e quindi saranno posizionati in

basso in graduatoria. La probabilità di finanziamento del progetto sarà bassa. D’altronde, se gli attori chiedono un valore basso del

contributo, risulterà un valore elevato di tale indice ed un alta probabilità di essere finanziati. In tal caso, tuttavia, il finanziamento

pubblico potrà essere insufficiente a finanziare il progetto con il rischio di subire una perdita. L’esistenza di tale trade-off

dovrebbe spingere i partecipanti al progetto a richiedere un valore dell’incentivo non lontano da quello effettivo.

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