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Metodologia e ricerca

Report del primo anno di progetto 1

Report del primo anno di progetto

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Indice

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L’umanizzazione in ospedale di Anita Donna Bianco

La comunicazione sociale di Christian Racca

Gli adolescenti e la cura di Elvia Roccia

INTRODUZIONE I. RICERCA METODOLOGIA E PROGETTAZIONE

1. La maker education e le discipline STEM2. Analisi di mercato3. Approccio psicologico e pedagogico

— Approccio pedagogico: passaggi e valorizzazione di competenze

— Approccio psicologico

4. Ricerca contestuale — Degenza

— Centro Trapianti

— Day Hospital

— Apparecchiature tecniche

5. User research — Interviste

6. Esigenze, requisiti e prestazioni di progetto7. Progettazione delle attività8. User testing9. Etnografia: osservazioni e interviste10. Valutazione

— Questionario per i pazienti

— Questionario per i genitori

— Intervista semistrutturata agli operatori

— Intervista semistrutturata al personale ospedaliero

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II. LABORATORI

1. Cir-cut. Circuiti elettrici e LED2. Joybit. Videogame controller3. Codix. Programmazione a blocchi e robotica4. Eye-Oh! Disegno vettoriale e visori VR5. Preent- Modellazione e stampa 3D

III. ANALISI DELL’OPERATIVITÀ

1. I pazienti — La dimensione educativa

— La dimensione relazionale

— La dimensione contestuale

— La dimensione organizzativa

— La dimensione corporea

— La dimensione educativa

2. I genitori3. Gli operatori4. Considerazioni conclusive

IV. COMUNICAZIONE

1. Brand identity2. Piano di comunicazione

V. SOSTENIBILITÀ ECONOMICA

CREDITI E RINGRAZIAMENTI

APPENDICE I

APPENDICE II: ESERCIZI CODIX

1. Skating2. Victory Lap3. Javascript4. Escape5. Soluzioni

APPENDICE III: RISORSE VR

1. Creare2. Imparare3. Viaggiare

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L’umanizzazione in ospedale

Nel linguaggio clinico anglosassone esistono due termini, cure e care, che possono essere tradotti rispettivamente come cura e prendersi cura. Il primo indica il trattamento medico-scientifico (approccio biomedicale), il secondo si riferisce all’accudimento globale del paziente e delle sue esigenze (approccio bio-psico-sociale). Il passaggio dal primo al secondo approccio si traduce nell’umanizzazione, pratica progettuale che in ambito ospedaliero mira imprescindibilmente alla funzionalità, ma senza dimenticare la dimensione sociale che rende l’ospedale un ambiente emotivo, oltre che di somministrazione di cure.

In ospedale i maggiori fattori di criticità sono legati all’ambiente, nuovo, diverso e sconosciuto, al tempo, spesso percepito come dilatato rispetto ai normali ritmi del quotidiano, e alle relazioni, non necessariamente legate al solo sistema sociale, ma anche allo spazio fisico, con regole e funzionamenti differenti.

L’obiettivo dell’umanizzazione è quello di contribuire, su vari livelli, a prendersi cura della persona attraverso soluzioni innovative che mitighino la condizione di disadattamento che la malattia spesso comporta, immaginando l’ambiente ospedaliero come supporto protesico al processo di cura e progettandolo con una visione multidimensionale del benessere del paziente.

La pratica dell’umanizzazione include dunque diverse scale progettuali e comporta il coinvolgimento di diverse discipline, chiamate di volta in volta a confrontarsi e mettere in rete i propri saperi.

Anita Donna Bianco

presidente di DEAR - Design Around onlus

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La comunicazione sociale

Nel 2010 fondammo l’Associazione Plug con un payoff esplicito e conciso: «Social Design Communication», che abbiamo poi declinato sul nostro sito web e su molti dei nostri supporti; ciononostante, a essere sinceri, ancora oggi, dopo 7 anni di attività, riusciamo a fatica a esprimere e sintetizzare il concetto di «comunicazione sociale».

Certo ci sono definizioni più o meno consolidate, come quella certamente calzante di Rossella Sobrero nel suo volume Introduzione alla comunicazione sociale:

«La comunicazione sociale è uno strumento di conoscenza e di persuasione utilizzato da soggetti pubblici e privati per coinvolgere la persona (cittadino, consumatore, donatore) e spingerla all’azione, rendendola partecipe dei problemi ma anche delle soluzioni.»

In questo tentativo didascalico sono da apprezzare gli espliciti richiami al coinvolgimento delle persone e all’incitamento all’azione, nell’ottica appunto di creare prima consapevolezza e poi impatto attraverso il cambiamento.

Ma anche in questo caso intravediamo solo la punta dell’iceberg e le parole non sono sufficienti a evidenziare tutti i risvolti per noi impliciti della comunicazione e del design per il sociale; ancora peggio, «inorridiamo» quando nel mondo corporate o profit questi concetti vengono schiacciati e confinati nell’ambito esclusivo della corporate social responsability… C’è di più, c’è davvero molto di più, o non saremmo qui a raccontarlo.

In primis l’amore per la progettazione, l’attenzione esasperata per i dettagli (sottili ma sostanziali), l’opera volontaria come slancio puro e svincolato da interessi economici o logiche cliente-venditore. E poi il desiderio di contribuire in modo positivo sulla società

e sull’ambiente, per non stare semplicemente a guardare subendo scelte e volontà terze, bensì per contaminare come un «virus positivo» gli altri, le persone vicine e lontane, sfruttando i canali digitali. Infine il pretesto per costruire una realtà nuova, orizzontale, partecipativa in cui coniugare i valori della multidisciplinarietà, del rispetto reciproco e del miglioramento costante.

Abbiamo instillato la nostra visione e il nostro approccio in ciascuno dei progetti che hanno visto PLUG in prima fila: Posterheroes, Fa bene, Print Club Torino, Torino Graphic Days e naturalmente Robo&Bobo.

A ben guardare una definizione non è poi così necessaria e sarebbe in ogni caso riduttiva. Preferiamo quindi continuare a raccontarvi e spiegarvi l’importanza della comunicazione sociale attraverso i fatti concreti e i nostri progetti.

Christian Racca presidente di PLUG

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Gli adolescenti e la cura

L’adolescenza è un periodo della vita caratterizzato da numerosi cambiamenti a livello biologico, cognitivo, affettivo e sociale. Per la maggioranza delle ragazze e dei ragazzi tali cambiamenti, seppur portatori di un certo disagio, sono vissuti in maniera naturale e sono parte integrante di un percorso di crescita continuativo. Per altri, invece, la portata dei cambiamenti è enorme, e si inserisce all’interno di un percorso di crescita intermittente caratterizzato da episodiche difficoltà. Queste difficoltà inerenti la fase adolescenziale si amplificano se, ad essere presi in considerazione, sono adolescenti e giovani adulti che stanno vivendo l’esperienza della malattia tumorale.

Tra le patologie ad alto indice di mortalità, la malattia tumorale è senz’altro quella che suscita maggiore angoscia, probabilmente perché associata non solo alla morte, ma anche al dolore e all’evidente deterioramento corporeo. Essa comporta per l’individuo continue trasformazioni e riadattamenti, sia dal punto di vista fisico sia emotivo e affettivo. Se vissuta in età preadolescenziale o adolescenziale, oltre a rappresentare una minaccia per la vita, costituisce da subito un elemento di grave crisi per l’intero nucleo familiare, accompagnata dalla rottura e dalla perdita della quotidianità.

La necessità di cura e le frequenti ospedalizzazioni comportano per i giovani un forte disagio dovuto all’interruzione delle normali attività, per esempio lo sport, le uscite con amici e fidanzati, la possibilità di frequentare liberamente ambienti a scopo ricreativo (cinema, pub, piscina ecc.). Il ricovero è sovente vissuto come una punizione che porta i giovani a isolarsi e a disinvestire sulle attività proposte dall’ospedale, che invece risultano essere ben accolte dai bambini più piccoli.

Sebbene negli ultimi decenni il miglioramento dei protocolli di cura e di ricerca abbia permesso che la sopravvivenza a 5 anni dalla

diagnosi passasse dal 20% al 75%, sia per quanto riguarda i tumori dei bambini (72%) sia per i tumori degli adolescenti (82%), questi ultimi corrono spesso il rischio di trovarsi in una zona di confine tra il mondo dell’oncologia pediatrica e il mondo dell’oncologia medica dell’adulto. Per tale motivo, a parità di condizione clinica (malattia e stadio), hanno minori probabilità di guarigione rispetto ai bambini, spesso in relazione alla rapidità con cui si arriva alla diagnosi, alla qualità della cura e all’arruolamento nei protocolli clinici. Questa tipologia di pazienti necessita infatti di protocolli adeguati che, a volte, richiedono l’interazione degli oncologi pediatri con gli oncologi e/o ematologi dell’adulto.

Curare gli adolescenti vuol dire riconoscerne la complessità nella gestione e la necessità di una presa in carico globale del paziente – e della sua famiglia – attraverso un’équipe multidisciplinare.

Curare gli adolescenti vuol dire quindi essere in grado di offrire infrastrutture e servizi adeguati: avere cioè staff, spazi e progetti dedicati, un reparto senza vincoli di età che limitino l’accesso di pazienti a cavallo tra l’età pediatrica e quella adulta, servizi indispensabili come quello della preservazione della fertilità e un’équipe in grado di affrontare problemi scolastici e di orientamento professionale.

Per tutti questi motivi un progetto come Robo&Bobo ha suscitato un particolare interesse nei giovani pazienti, comportando un’adesione e una frequenza continuativa alla partecipazione dei laboratori.

Questo perché le attività proposte hanno un aspetto formativo ed educativo, oltre che progettuale: l’obiettivo non è solo quello di distrarre o far trascorre il tempo ai pazienti degenti, ma insegnare loro competenze da sfruttare al di fuori dell’ospedale, che permettano di aprire una vera e propria finestra sul futuro.

dott.ssa Elvia Roccia

Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino

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Robo&Bobo è un progetto che promuove l’alfabetizzazione nei campi del design, dell’elettronica e della programmazione attraverso un percorso didattico-laboratoriale rivolto ai pazienti adolescenti e preadolescenti (11-18 anni) del reparto di Oncoematologia pediatrica e Centro Trapianti dell’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino.

Robo&Bobo è nato nel 2016 dalla collaborazione di due associazioni di Torino, Dear - Design Around Onlus, impegnata nell’umanizzazione degli ambienti di cura attraverso progetti che si muovono nell’ambito delle discipline creative e dei linguaggi contemporanei, e PLUG, che si occupa di social design communication realizzando e promuovendo concorsi, eventi, conferenze e progetti didattico-formativi. Le attività in ospedale sono state co-progettate con TODO, che ha fornito anche la consulenza tecnica.

La prima edizione (2016/2017) è stata sponsorizzata dalla Fondazione Vodafone

(tramite il bando «Digital for social») e dalla Compagnia di San Paolo, con il sostegno di 3DP, Roland, Flying Tiger, Bare Conductive e Born in Berlin come sponsor tecnici.

Robo&Bobo è stato ideato come un percorso laboratoriale per avvicinare i giovani pazienti al mondo dei maker e alle discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Math) in modo stimolante e ludico. L’intento primario è quello di potenziare l’offerta formativa e occupazionale all’interno della struttura ospedaliera, di offrire ai ragazzi strumenti utili ad affrontare i tempi della degenza, anche al di fuori dei momenti guidati, in modo che possano approfondire quanto appreso in progetti di interesse personale, diventando costruttori attivi del proprio percorso di conoscenza.

Robo&Bobo si è contraddistinto da subito per la sua natura multidisciplinare, e per questo ci si è avvalsi di una rete di professionisti di diversa formazione.

INTRODUZIONE

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

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CAPITOLO 1

Metodologia e ricerca

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

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I. Ricerca, metodologia e progettazione

1. LA MAKER EDUCATION E LE DISCIPLINE STEM

La scuola e le istituzioni sentono sempre più urgente la necessità di aggiornarsi verso un programma che sia al passo con la tecnologia, educando i giovani all’uso e alla comprensione degli strumenti digitali. Lo scopo primario della maker education, che al giorno d’oggi si sta diffondendo sia nelle scuole sia negli spazi dedicati ai bambini e ai giovani, è appunto quello di offrire la possibilità di esplorare materiali fisici ed elettronici, stimolando lo spirito innovativo e la creatività dei ragazzi. Sempre più spesso, per esempio, si sente parlare di fablab inaugurati all’interno di licei o istituti tecnici e di stampanti 3D messe a disposizione degli studenti delle scuole pubbliche o private.

FABLAB

Questo approccio consente di lavorare con qualsiasi tipo di materiale o oggetto, come cartoncino, legno, tessuto,

plastilina, LEGO, piante, ma anche rifiuti o ritagli, tramite l’uso di martelli, colla, seghe, saldatori, macchine per cucire ecc. Vengono poi introdotti nuovi elementi con cui lavorare, per esempio microcontrollori come Arduino o Raspberry Pi, software per la programmazione dei microcontrollori, macchinari per taglio laser, stampanti 3D.

In materia di istruzione informatica degli studenti, l’importanza di introdurre microcontrollori e programmazione è d’altronde ormai risaputa in molti Paesi. È stato dimostrato che l’attività pratica ed esplorativa aiuti l’apprendimento, e l’unione fra nuovi strumenti, come i componenti elettronici, ed elementi più familiari, come la carta, permette la creazione di oggetti di qualsiasi tipo.

ARDUINO

L’avvento delle nuove tecnologie ha rivoluzionato di recente anche il mondo della pedagogia. Le discipline STEM, che includono scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, danno agli studenti la possibilità di pensare in modo creativo e di trovare soluzioni progettuali e ingegneristiche a problemi di varia entità nel mondo reale. Attraverso queste discipline,

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

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inoltre, i giovani sono spinti a essere curiosi, attivi e coinvolti nell’ambiente che li circonda. Per tale motivo sono in costante fase di sviluppo giocattoli e metodi educativi per insegnare la scienza anche ai più piccoli.

Utilizzare la tecnologia per risolvere i problemi è uno dei principi fondamentali della maker education, e attraverso la componente ingegneristica propria delle discipline STEM si pone l’accento sul processo di progettazione di soluzioni, invece che sulle soluzioni stesse. Questo tipo di approccio, improntato al problem-solving, permette agli studenti di esplorare la matematica e la scienza in un contesto più personalizzato e pratico, sviluppando un pensiero critico che potrà poi essere applicato a molti altri ambiti. La componente tecnologia consente agli studenti di applicare ciò che hanno imparato utilizzando applicazioni specializzate e professionali, simulazioni e animazioni.

Pertanto la maker education, abbinata alle discipline STEM, crea un buon equilibrio tra la manipolazione del mondo fisico finalizzata all’apprendimento e gli strumenti straordinari messi a disposizioni dai computer e dall’information technology.

2. ANALISI DI MERCATO

Spesso sotto forma di progettazione di macchinari e spazi dall’aspetto ludico e famigliare, solo di recente il design, inteso appunto come progettazione multidisciplinare, è entrato all’interno dell’ambito ospedaliero con lo scopo di alleviare lo stress vissuto dai giovani pazienti e renderne meno traumatica la degenza.

La nostra ricerca di progetti educativi contestualizzati in questo ambito ha però dato scarsi risultati, dimostrando che il lavoro da compiere in quest’ottica è ancora lungo.

Di seguito è riportato un elenco di progetti su scala nazionale e internazionale che prevedono l’apporto del design in campo ospedaliero.

Presbyterian Morgan Stanley di New York →

Sala TAC trasformata in un vascello dei pirati al fine di diminuire stress e ansia per migliorare l’esperienza ospedaliera.

A.C. Camargo Cancer Center di São Paulo →

Storytelling e gamification per i malati tumorali.

Astro-Tac, Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma →

Astro-Tac è una sala TAC a tema base spaziale, per prevenire, alleviare e controllare il dolore fisico ed emozionale dei bambini, sia durante sia dopo il periodo di ospedalizzazione.

The Nature Trail, Ormond Street Children Hospital di Londra →

Installazione interattiva progettata per distrarre i bambini da ciò che li attende, formata da pannelli di LED integrati e sensori di presenza: il percorso nel corridoio, dal reparto alle sale operatorie, diventa un’avventura attraverso una foresta, dove si intravedono animali luminosi che passano tra gli alberi.

London Children Hospital →

Quindici artisti hanno collaborato per rendere il London Children Hospital un posto migliore in cui guarire.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

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Jeff Koons at Advocate Children’s Hospital, Oak Lawn, Illinois →

L’installazione pop che illumina il reparto di radiologia dell’Advocate Children’s Hospital rende meno traumatica l’esperienza ospedaliera del paziente. Per trasformare lo spazio, la TAC della Philips è stata dipinta di un blu vibrante e le sono state applicate delle decalcomanie giganti della famosa scimmia di Koons. L’iconico cane palloncino, lo «Hanging Heart» e il «Donkey» sono stati affissi come carta da parati al fine di illuminare ulteriormente la stanza.

Philips Kitten Scanner →

Un mini CAT scanner a misura di bambino, creato perché i più piccoli possano acquisire familiarità con il processo della macchina, prima che lo vivano su loro stessi.

Maschera elefante per aerosol →

Maschere progettate per ridurre nei bambini la paura del trattamento con una maschera aerosol, incoraggiandone l’uso.

Giocattoli in legno →

Giocattoli sviluppati per rassicurare i bambini sottoposti a cure mediche e aiutarli a comprendere l’esame e il trattamento in ospedale, riducendone l’ansia e la paura.

Toyssimi →

Un progetto che ha visto coinvolti 100 bambini assieme a 100 designer, per creare il giocattolo dei loro sogni.

KonneKt di Job Jansweijer →

Kit di elementi magnetici da assemblare dai due lati dei vetri di divisione delle aree per pazienti immunodepressi.

JOB JANSWEIJER - KONNEKT

Ancora più rara del design in ospedale è la presenza del mondo maker, per il quale abbiamo evidenziato un solo progetto:

Mobile Maker Space - Tennessee University Hospital →

Carrello su ruote destinato a sostenere gli sforzi dei pazienti nella definizione e realizzazione di progetti di design e invenzione grazie alla sua ampia gamma di dispositivi digitali.

GOKUL KRISHNAN - MOBILE MAKER SPACE

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

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3. APPROCCIO PSICOLOGICO E PEDAGOGICO

APPROCCIO PEDAGOGICO: PASSAGGI E VALORIZZAZIONE DI COMPETENZE

La linea pedagogica del progetto ha definito nel tempo le modalità operative, inserendosi all’interno della proposta didattica con l’intento di trovare strategie più aperte e disponibili ai vincoli del contesto ospedaliero e di degenza.

Il punto forza della proposta risiede nelle competenze in azione, quindi nelle risorse del personale operativo sul campo; difatti non si tratta di semplici operatori, ma di veri e propri progettisti. Quindi il valore aggiunto è dato dallo scambio di esperienza su diversi piani: quello tra pedagogista e progettisti, quello tra operatori e pazienti. Quest’approccio definisce i pazienti come fruitori, più che come utenti, chiamando in causa le risorse personali di ogni bambino e ragazzo, collocandosi tra i limiti e le possibilità.

Per ogni laboratorio sono state considerate le azioni e i materiali, la pertinenza rispetto al contesto e all’età, la risposta dei fruitori: tutte considerazioni che talvolta hanno visto emergere le competenze che già molti bambini posseggono rispetto agli strumenti utilizzati.

L’intento è di considerare le cinque attività laboratoriali come un momento di scambio di competenze secondo la formula «siamo dei progettisti, vuoi progettare con noi?» Un atteggiamento, questo, più rispettoso delle facoltà dei ragazzi coinvolti e soprattutto più consono alla loro età.

Per definire le attività sono state analizzate le sequenze di azioni e le possibilità di presentazione, e sono state elaborate strategie sempre diverse, per avvicinarsi ai bisogni dei ragazzi.

Per costruire le proposte si sono dimostrati fondanti i seguenti passaggi:

— come è fatto — come funziona — a che cosa serve — come lo posso trasformare

Alcune attività partono dall’acquisizione di strumenti tecnologici per arrivare a costruire oggetti a uso personale secondo bisogni o desideri. Diversamente alcuni laboratori si soffermano sul piano tecnologico per insegnare l’utilizzo di strumenti che comunemente i ragazzi non hanno a disposizione, creando un momento esclusivo.

Durante le prime settimane di sperimentazione in ospedale è emersa l’esigenza di creare azioni anche brevi, per non perdere la possibilità di interagire con piacere senza dover a tutti costi arrivare a dei risultati prestabiliti. Sicuramente il progetto si fonda su basi solide che prevedono dei prerequisiti tecnici, ma queste non devono prevalere sull’intento primario dell’umanizzazione: creare un contesto piacevole e dargli anima. Talvolta quindi i dati tecnici sono passati in secondo piano in favore di momenti empatici e creativi. Nell’evoluzione del progetto, il desiderio è vedere questi laboratori sotto una forma più creativa e meno didattica, concedendo più spazio a varianti di materiali e strumenti.

Si prevede quindi un’ulteriore rivisitazione dei cinque laboratori per trovare nuove strade d’incontro tra tecnologia e creatività, concedendo maggior spazio alle interpretazioni personali di oggetti e programmi.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

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APPROCCIO PSICOLOGICO

La malattia tumorale pone di fronte a un’esperienza fortemente traumatica, costringe a sostare nell’incertezza prognostica, comporta trattamenti intensivi e aggressivi sul corpo e ripetute ospedalizzazioni, che mettono in sospeso la quotidianità così come la si conosce. Dal punto di vista psicologico questo implica una serie di ripercussioni profonde e dolorose sullo stato mentale dei ragazzi in età preadolescenziale e adolescenziale, nonché sulle modalità con cui le persone di riferimento si mettono in relazione con loro.

Nell’ottica di umanizzazione delle cure ospedaliere, l’approccio psicologico alla progettazione si è sviluppato a partire dalla focalizzazione di alcuni effetti della malattia oncologica in preadolescenti e adolescenti, per poi individuare linee guida in grado di contenerli.

La malattia stravolge la vita del ragazzo e della sua famiglia, minaccia pesantemente il senso psicologico di continuità di sé, implica una certa dissociazione tra la parte che vive («non sono io, è un incubo, sono sveglio altrove, non sono più nel mio corpo») e l‘altra che muore («mi sembra di impazzire, non ho più la forza di vivere, esplodo dall’ansia, vado in pezzi»).

La diagnosi della malattia crea una frattura tra il prima e il dopo, un buco nero, un vuoto di significato che rischia di risucchiare le risorse proprio in un momento evolutivo in cui il compito di sviluppo prevede non solo di mantenere ciò che si è acquisito, ma soprattutto di continuare a esplorare sé stessi e il mondo.

Affrontare la malattia tumorale significa ingaggiare una guerra contro un mostro e non sapere se la si vincerà.

Per preadolescenti e adolescenti vuol dire affrontare concretamente l’ipotesi della morte in una fase evolutiva in cui l’angoscia di morte dovrebbe essere un sentimento legato alla naturale perdita del mondo infantile, un sentimento vitale che ha a che fare con il cambiamento e con la crescita.

In questo viaggio impervio dall’esito incerto, l’angoscia di morte e la disperazione si alternano a momenti di speranza e di trionfo onnipotente. I ragazzi sentono che l’esperienza di malattia li costringe a una maggiore maturità, a un’anticipazione della consapevolezza sulla vita e a un’improvvisa perdita di spensieratezza, sentimenti che li fanno sentire profondamente diversi dal gruppo dei pari.

Effetto dell’incertezza prognostica è anche la perdita di investimento sul futuro, la perdita di un progetto: «avrei potuto», «sognavo di». Come se lo sguardo prospettico sulla propria vita non potesse che fermarsi a mano a mano su ogni step di cura.

Essere sottoposti a trattamenti intensivi e a ripetute ospedalizzazioni è un’esperienza innaturale, destabilizzante, stressante, un’esperienza di violenta separazione e di perdita della normalità del «prima», della routine, degli spazi e degli oggetti quotidiani, di sradicamento da persone di riferimento, amicizie, attività scolastiche e passioni, in un momento in cui «le mie cose», «il mio gruppo di amici», «le mie passioni» fondano il senso di sé.

La malattia stravolge anche le relazioni famigliari: i genitori, sotto il peso dei sentimenti di dolore, responsabilità e impotenza, sono anche loro vittima dell’effetto traumatico legato alla malattia, che sembra distruggere ogni cosa, compreso il ruolo educativo.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

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Il tempo si fissa, si gioca tutto nella lotta alla malattia e per il resto si pensa alla soddisfazione immediata dei desideri del figlio, per garantirgli un minimo di felicità. Il futuro è sospeso, il giovane paziente non riceve più limiti, regole, richiami, richieste. A fronte di un apparente beneficio in termini di gratificazioni e di facilitazioni, questa situazione crea una regressione allo stadio infantile di soddisfazione di ogni bisogno, ponendo un ulteriore ostacolo al benessere psicologico dei ragazzi.

Alla luce di questi effetti della malattia e dei bisogni che ne emergono, le linee guida individuate per la progettazione delle attività sono:

— focalizzare l’attenzione sull’acquisizione di nuove competenze da parte dei ragazzi: il processo di esplorazione del mondo e di costruzione di sé insito nella preadolescenza e nell’adolescenza deve poter continuare;

— prevedere un apprendimento step by step: il futuro continua a costruirsi un passo alla volta, acquisendo competenze che potranno servire da grandi;

— strutturare setting di laboratorio che pongano limiti e regole, per tutelare il senso delle cose che si fanno, senso che non si dovrebbe esaurire solo nel «passare del tempo divertendosi»;

— pensare a setting flessibili che consentano di partecipare in modo diverso e sensato a seconda dello stato fisico del ragazzo: si esce dalla logica insita nella lotta alla malattia «o tutto o niente», «o vinco o muoio»;

— fare richieste ai ragazzi, avere aspettative su di loro, uscire dalla logica del condannato a cui si deve concedere tutto senza chiedere nulla;

— proporre contenuti sintonizzati con l’età, per contrastare la regressione allo stadio infantile;

— favorire l’esperienza con il gruppo dei pari, vitale per i preadolescenti e gli adolescenti, sia favorendo quanto più possibile l’esperienza in gruppo nel «qui e ora» dei laboratori, sia creando un ponte con il mondo dei pari al di fuori dell’ospedale, attraverso la condivisione del percorso laboratoriale tramite social network.

4. RICERCA CONTESTUALE

Questa fase di ricerca si è articolata in due direzioni, la prima volta ad analizzare l’ambiente di svolgimento delle attività, la seconda più focalizzata sulle persone coinvolte nel processo di ospedalizzazione dei pazienti del reparto di Oncoematologia pediatrica e Centro Trapianti dell’Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino. Riguardo a quest’ultima si è stabilito di escludere i pazienti stessi e i genitori, al fine di evitare ogni invadenza che avrebbe potuto urtare la loro sensibilità; ci si è rivolti invece alle figure che entrano in contatto con loro durante il percorso di cura, ovvero medici, psicologi, insegnanti e volontari.

La Struttura Complessa di Oncoematologia Pediatrica e Centro Trapianti del Regina Margherita tratta le patologie oncoematologiche in età pediatrica (0-18 anni), che includono leucemie acute, leucemia mieloide cronica, tumori del sistema nervoso centrale, osteosarcoma, neuroblastoma, nefroblastoma, sarcomi delle parti molli, istiocitosi, tumori rari e linfomi di Hodgkin e non-Hodgkin.

La leucemia pediatrica è un tumore che si presenta nei bambini e si sviluppa a partire dalle cellule immature che danno origine a globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, e che si trovano nel midollo osseo, cioè nella parte di tessuto spugnoso contenuta all’interno delle ossa. Dal midollo osseo,

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto28 29

punto di partenza della leucemia, la malattia in genere si diffonde piuttosto velocemente anche nel sangue e attraverso questa via raggiunge altri organi, per esempio i linfonodi, la milza e il fegato. Altri tipi di tumore (neuroblastoma, tumore di Wilms) colpiscono il midollo osseo dei bambini, ma hanno origine da altri tipi di cellule e di conseguenza non si tratta di leucemie. La leucemia è senza dubbio il tumore più diffuso nell’età infantile: nei bambini circa un tumore su tre (30%) è infatti una leucemia. In Italia ogni anno si ammalano di leucemia circa 5 bambini ogni 100.000 abitanti.

La Struttura del Regina Margherita comprende il Day Hospital, il reparto di Degenza e il Centro Trapianti di Cellule Staminali e Terapia Cellulare, oltre all’Ambulatorio e al Servizio di Psiconcologia.

L’équipe del reparto è costituita da dirigenti medici, dirigenti psicologi, psicologi convenzionati, infermieri, infermieri pediatrici, OSS (operatori socio-sanitari), personale amministrativo. Oltre ai famigliari dei pazienti, in alcuni momenti della giornata sono presenti i volontari UGI (Unione Genitori Italiani), il gruppo volontario di ex pazienti CVP (Con Volontà Puoi), gli insegnanti in corsia e le persone che conducono attività laboratoriali.

All’interno del reparto vengono effettuate le diagnosi, la stadiazione e viene impostata la terapia, compresa quella di supporto, secondo i protocolli di diagnosi e cura nazionali e internazionali. Sono effettuati cicli di chemioterapia complessi, radioterapia e trapianti di cellule staminali emopoietiche; viene organizzato il programma dei controlli per i pazienti in terapia e fuori terapia. Viene inoltre attivato e portato avanti, qualora opportuno, l’intervento psicologico.

I pazienti presenti nel reparto della Degenza sono immunocompromessi: le loro difese nei confronti delle infezioni sono ridotte in relazione sia alla patologia sia al trattamento chemioterapico, e le persone che entrano in contatto con loro devono attenersi ai protocolli per evitare di portare batteri e virus all’interno degli spazi. Anche i pazienti che per le cure si recano al Day Hospital sono immunocompromessi e si sottopongono a una terapia che può essere affrontata anche ambulatorialmente, con sessioni di cure puntuali proprio all’interno della struttura.

Alcuni pazienti, nel corso dell’iter terapeutico, necessitano di un ricovero all’interno del Centro Trapianti Cellule Staminali e Terapia Cellulare, per essere sottoposti al trapianto di cellule staminali ematopoietiche. In questo reparto la degenza è in «isolamento protettivo» (ambiente a bassa carica microbica): significa che l’accesso e la degenza, in tale reparto, sono regolate diversamente dalla degenza ordinaria.

All’interno del reparto, il Servizio di Psiconcologia offre un supporto psicologico al paziente e alla famiglia ed è inoltre presente nelle riunioni fra paziente, genitore e medico.

Al momento alla stesura di questo documento (giugno 2017) è in fase di avviamento un ulteriore spazio hospice posto al settimo piano, chiamato «Isola di Margherita» e fornito di 6 stanze per la degenza di bambini e ragazzi affetti da patologie rare e incurabili con le relative famiglie. L’Isola di Margherita è stata esclusa dalla nostra analisi in fase di ricerca, perché non ancora accessibile; verrà probabilmente inserito nelle future eventuali edizioni del progetto.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto30 31

CIVICO 20 ISOLA MARGHERITA

Ai fini della pianificazione delle attività abbiamo escluso dalla ricerca anche l’Ambulatorio, essendo questo un luogo di passaggio per esami e controlli, spesso sovraffollato e privo di spazi disponibili per lo svolgimento di attività ludiche o didattiche.

L’iter di cura dei pazienti comincia spesso dalla Degenza e finisce con il Day Hospital. Per i casi più difficili in cui chemioterapia e radioterapia non sono sufficienti, i ragazzi vengono sottoposti a un trapianto di midollo osseo dopo la degenza. Dopo il trapianto, in casi di rigetti o recidive, può essere necessario che i pazienti debbano tornare in Day Hospital o in Degenza (alle volte anche a distanza di anni).

DEGENZA

In Degenza sono presenti 16 camere individuali e 2 stanze comuni, una per i bambini e una per gli adolescenti. Tale secondo spazio, risultato di una recente donazione, è l’unica area dedicata a questo target di età in tutto l’ospedale.

I ragazzi ricoverati in Degenza possono fermarsi da pochi

giorni fino a diversi mesi, in base alle condizioni cliniche e alle necessità di isolamento. Ogni stanza ha un secondo letto e un bagno privato; nella maggior parte dei casi è presente un genitore per l’intera durata della degenza.

FOR A SMILE ONLUS

I pazienti ricoverati in quest’area sono quelli più debilitati dalle cure poiché sottoposti a cicli di chemioterapia molto aggressivi o prolungati, che spesso hanno l’effetto collaterale di debilitare le difese immunitarie.

Sulla porta di ogni stanza possono essere presenti due simboli che indicano quanto è immunodepresso il paziente e dettano le precauzioni necessarie:

— pallino a metà: il paziente è mediamente immunodepresso, ma può uscire dalla propria stanza indossando una mascherina. Chiunque entri nella stanza deve indossare una mascherina.

— pallino pieno: il paziente è fortemente immunodepresso e non può uscire dalla stanza. Chiunque entri nella stanza deve indossare camice, mascherina e igienizzare materiali e oggetti portati con sé.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto32 33

In assenza di questi simboli il paziente è libero di uscire e chi entra non deve prendere particolari precauzioni (a parte igienizzarsi le mani, sempre buona norma in ospedale).

L’area Degenza è aperta sette giorni su sette.

Tutti i letti sono muniti di un tavolino telescopico che normalmente resta piegato a fianco del letto e può offrire una superficie d’appoggio al momento di mangiare. Tale supporto è utilizzabile solo se il paziente riesce a stare seduto.

CENTRO TRAPIANTI

Il Centro Trapianti è costituito da 6 camere in isolamento con accesso interno riservato esclusivamente ai medici. Ogni stanza ha un lato vetrato che si affaccia su una veranda dove amici e parenti possono comunicare con i pazienti attraverso un interfono.

I pazienti trascorrono qui circa un mese, di cui una settimana preparatoria – mirata a rinforzare le difese immunitarie in previsione del trapianto – e tre settimane di assestamento. La trasfusione di sangue midollare dura normalmente 24 ore ed è seguita da 2 settimane durante le quali i pazienti sono molto debilitati e nella maggior parte dei casi non riescono ad alzarsi dal letto. Durante l’ultima settimana di ricovero, invece, spesso i pazienti stanno meglio, ma continuano a rimanere isolati per rinforzare il sistema immunitario e monitorare eventuali rigetti.

Quando non c’è compatibilità midollare con i famigliari, i pazienti vengono messi in lista d’attesa per un donatore. La probabilità di compatibilità è pari a 1:100.000.

Le stanze sono individuali e normalmente ospitano un genitore per l’intera durata del ricovero. Qualunque materiale introdotto nelle stanze deve essere disinfettato dal personale

medico con prodotti specifici, e chiunque entri nelle aree protette deve cambiarsi gli abiti e lavarsi con detergenti idonei.

Anche il Centro Trapianti è aperto sette giorni su sette.

CENTRO TRAPIANTI

DAY HOSPITAL

In Day Hospital sono presenti 9 stanze di diverse dimensioni: 8 possono ospitare da 1 a 6 persone, per un totale di 20 posti letto, mentre la nona contiene 4 poltrone reclinabili.

I ragazzi vengono ricoverati qui la mattina intorno alle ore 8 e restano fino al primo pomeriggio, fatta eccezione per alcuni che si fermano fino alle 17 circa.

I pazienti che frequentano il Day Hospital sono spesso in fase di mantenimento dopo periodi di degenza o trapianti.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto34 35

STUDIO MIROGLIO, LUPICA - DAY HOSPITAL

I ragazzi di quest’ala del reparto sono quelli nelle condizioni migliori, infatti a fine cura possono recarsi a casa propria a dormire. Alcuni pazienti tornano per diversi giorni consecutivi, mentre altri proseguono le cure più sporadicamente o a cadenza regolare (settimanale o mensile).

Le stanze di quest’area hanno un doppio accesso dal corridoio principale e dalla veranda, dove di solito si fermano genitori e amici, per non intralciare il personale medico che accede dal corridoio principale.

Il pranzo viene servito alle 12:30 e la mattina passano le insegnanti in corsia, che dedicano alle lezioni dalla mezz’ora all’ora, alle volte anche in gruppo, se l’età e le condizioni dei ragazzi lo permettono.

Quest’area del reparto è in funzione dal lunedì al venerdì.

Anche in questo caso tutti i letti sono muniti di un tavolino telescopico che normalmente resta piegato a fianco del letto e può offrire una superficie d’appoggio per mangiare. Tale supporto è però utilizzabile solo se il paziente riesce a stare seduto.

STUDIO MIROGLIO, LUPICA - DAY HOSPITAL

APPARECCHIATURE TECNICHE

Il reparto è dotato di una rete wifi gratuita, risultato di una sponsorizzazione privata. Il numero e la durata degli accessi sono però limitati. La registrazione di un profilo per il login è peraltro molto macchinosa, specialmente se effettuata da dispositivi molto recenti o Apple; il login è possibile solo se il richiedente vi accede da uno smartphone (non da tablet) ed è in possesso di un numero di cellulare italiano, sul quale ricevere un codice necessario a ultimare l’iscrizione. Questo esclude dall’utilizzo della rete wifi i possessori di tablet e i pazienti stranieri.

Grazie a un’altra sponsorizzazione privata da parte della Fondazione Giovanni Agnelli, il reparto è stato dotato di tablet che, tuttavia, vengono riservati alla scuola in corsia o ai ragazzi in isolamento a casa, che devono poter proseguire il percorso di studi anche nei casi in cui gli insegnanti in corsia non riescono ad andare di persona.

Le stanze della degenza sono inoltre dotate di monitor con CPU integrata montati a muro, parte anch’essi di una passata

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto36 37

sponsorizzazione finalizzata alla digitalizzazione della scuola in ospedale e alla facilitazione del contatto tra i pazienti e la scuola di provenienza. Tuttavia il sistema intranet che rendeva il servizio disponibile non è al momento (giugno 2017) in funzione e gli schermi sono quindi inutilizzabili.

5. USER RESEARCH

Il progetto è stato dedicato a un target preadolescente e adolescente per rispondere alle esigenze di una fascia anagrafica spesso esclusa dalle attività extracurricolari e didattiche proposte dall’ospedale. Sia in Degenza sia in Day Hospital, infatti, esiste una fitta agenda di attività organizzate per bambini e preadolescenti (come circo, arti marziali e cinema, per citarne solo alcune), che lasciano però esclusi gli adolescenti e in generale i pazienti del Centro Trapianti.

L’adolescenza è, com’è noto, un’età critica, nella quale i ragazzi vogliono evadere la realtà e rompere con il «sistema» (identificato anche con genitori e insegnanti). È anche il periodo in cui per la prima volta ci si interessa all’altro sesso, badando all’estetica propria e altrui. Per questa e altre ragioni il tumore e le conseguenze che esso produce sull’aspetto fisico sono particolarmente difficili da affrontare.

L’ampio range di età (11-18 anni) ha implicato che le attività fossero flessibili il più possibile.

INTERVISTE

Dalla ricerca contestuale sono emersi alcuni punti chiave da considerare per la user research. L’ambiente ospedaliero, prima di tutto, completamente diverso rispetto alla realtà quotidiana di un bambino o di un ragazzo, sia in fatto di abitudini sia in fatto di relazioni personali.

L’analisi del contesto ci ha permesso di individuare le persone che più influenzano la vita dei pazienti, che quindi abbiamo deciso di intervistare. Per meglio capire le necessità dei pazienti senza parlare direttamente con loro, oltre che a volontari e infermieri ci siamo rivolti a medici e insegnanti di livello primario e secondario, grazie ai quali è stato possibile comprendere gli aspetti della malattia e le circostanze che il paziente si trova ad affrontare. È stato inoltre possibile apprendere quali sono le attività educative e ricreative proposte e quali effetti producono sul paziente.

In ospedale la scuola dell’obbligo prosegue con i cosiddetti «insegnanti in corsia»: maestre e professori, dipendenti statali, che invece di operare tra le mura scolastiche prestano servizio a tempo pieno in ospedale. Ogni settimana gli insegnanti in corsia ricevono materiale didattico dalle varie scuole da cui provengono i pazienti e si premurano di seguirli uno a uno nel loro avanzamento. Il percorso dovrebbe in teoria proseguire anche quando i ragazzi continuano la degenza a casa propria, ma spesso ciò non è possibile a causa della mancanza di fondi della scuola pubblica.

Per approfondire gli aspetti medici e psicologici della degenza e della malattia abbiamo intervistato la dott.sa Elena Barisone (dirigente del reparto), la caposala Silvia Vigna e la dott.sa Marina Bertolotti (responsabile psicologia).

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto38 39

Al fine di capire le circostanze, le opportunità e le difficoltà della scuola in corsia abbiamo intervistato la maestra Francesca Michelon per la scuola elementare, le professoresse Maria Aliberti (matematica) e Mariagrazia Ciravegna (italiano) per la scuola media e Luisa Chiambretto (scienze), Simona Sartori (italiano) e Giorgio Bodrito (matematica e fisica) per la scuola superiore.

Dott.sa Elena Barisone e caposala Silvia Vigna

«I pazienti sono un’unica popolazione che si sposta da un reparto all’altro».

La dottoressa ha spiegato che in generale i pazienti intraprendono un percorso di cura che li porta da un’area all’altra dell’ospedale: ci sono pazienti che passano dal Day Hospital alla Degenza, per poi essere spostati, se necessario, al Centro Trapianti.

Ogni paziente rappresenta un caso diverso non solo dal punto di vista clinico, ma anche in quanto a personalità. Non ci sono particolari differenze tra le malattie curate nelle diverse aree: tutto dipende dalla gravità e dallo stato della patologia, e da come questa reagisce alle cure.

In Italia ogni anno si ammalano di cancro 1400 persone in età pediatrica, dagli 0 ai 18 anni, 800 dei quali sono adolescenti. Le probabilità che la cura abbia effetto e che la malattia scompaia del tutto sono in genere dell’80%.

Dopo la diagnosi, il medico responsabile della patologia, insieme a una psicologa, comunica al paziente la malattia e quale percorso di cura intraprendere. Ai pazienti non

viene mai detto quale sarà la percentuale di probabilità di guarigione, e pur rendendosi conto della gravità della malattia, l’obiettivo, fino alla fine, è sempre quello di riuscire a guarire. Per perseguire tale obiettivo e il conseguente ritorno alla normalità, i pazienti si impegnano nel rispettare gli obblighi e i divieti che le cure richiedono.

Il distacco dalla vita sociale e affettiva è spesso la principale preoccupazione dei pazienti ed è per questo che viene loro permesso di avere sempre un genitore accanto a sé all’interno del reparto, oltre a visite frequenti da parte di amici stretti e parenti.

Il percorso più «semplice», naturalmente, si presenta quando le patologie vengono trattate al Day Hospital e il paziente, finite le cure, può fare rientro a casa. Il percorso più complicato è invece quello del paziente la cui diagnosi necessita un ricovero prolungato a causa di cure particolarmente invasive o una forte immunodepressione. La degenza può precedere e/o seguire un trapianto di midollo osseo.

Dott.sa Marina Bertolotti

In generale non esiste un buon momento per ammalarsi di una malattia come il cancro, ma l’età peggiore in assoluto è proprio l’adolescenza, in quanto le malattie oncoematologiche sviluppate in questa fase si intrecciano a problematiche molto importanti.

Un primo problema legato all’età è quello dell’identità: ci si domanda «chi sono?», «chi sarò?», e durante la malattia questo genere di domande può mettere in crisi l’adolescente

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto40 41

che vede davanti a sé un futuro incerto, mentre il proprio corpo si trasforma per la malattia e le cure cui è sottoposto. I capelli cominciano a cadere, il colore della carnagione cambia e spesso questi ragazzi si gonfiano e ingrassano perché sottoposti a cure di cortisone.

Le principali fonti di stress nel paziente sono l’interruzione della quotidianità, il cambiamento delle abitudini alimentari, il fatto di non vedere più gli amici, la distanza dal gruppo e la reclusione. Nonostante le angosce che insorgono nei giovani, allo stesso tempo l’esperienza li fortifica e li fa maturare più velocemente, facendo loro capire quali sono gli aspetti importanti della vita.

La scuola all’interno dell’ospedale può diventare un forte investimento cognitivo ed emotivo e, anche a seconda di come stanno, ci sono ragazzi che investono molto nell’apprendimento. I pazienti adolescenti si distinguono per la voglia di lottare e porsi degli obiettivi, pur conoscendo lo stato della malattia. Per loro diventa importante soprattutto porsi degli obiettivi vicini e raggiungibili.

L’idea di inserire dei laboratori nei quali i ragazzi affrontano l’aspetto della progettualità e raggiungono degli obiettivi a breve termine può essere d’aiuto e significare molto per loro, a livello simbolico. Le attività di gruppo influiscono molto positivamente sull’adolescente e la pianificazione di attività pensate appositamente per loro può essere una vera e propria risorsa.

Per quanto riguarda il ruolo degli educatori, con un pubblico adolescente è importante mantenere il proprio ruolo e un atteggiamento professionale, senza diventare troppo amichevoli e farsi coinvolgere eccessivamente a livello

emotivo, perché i pazienti potrebbero usare questa tensione psicologica a loro vantaggio. Gli educatori devono inoltre cercare di non mettere in risalto le proprie qualità fisiche, evitando per esempio capelli lunghi, trucco eccessivo o abiti eleganti, nel rispetto della difficile condizione psicologica dei ragazzi, dovuta anche all’alterazione dell’aspetto fisico

Francesca Michelon

Ai ragazzi piace tenere un diario delle attività svolte, dà loro un senso di continuità, e spesso le attività di successo (con i bambini) partono da una loro necessità, più che da una pianificazione «stagna» della maestra.

I ragazzi tengono a finire le attività e ad avere degli obiettivi a breve termine per poterlo fare: la prospettiva dell’obiettivo da raggiungere è molto importante.

Nel concepire attività a distanza (per esempio nella possibilità che i bambini allettati seguano tramite tablet l’attività svolta nella sala comune) bisogna pensarle senza tempi morti e altamente partecipative (che non comportino quindi la passiva osservazione da parte del paziente isolato).

Per quanto riguarda gli operatori, devono avere grande slancio nell’improvvisare e adattare le attività alle situazioni e alle necessità dei pazienti, diverse di volta in volta. Empatia e capacità didattiche sono al momento desiderata più cruciali delle competenze tecniche (che si possono apprendere più facilmente).

Gli operatori devono essere vestiti e acconciati in modo poco vistoso, che non esalti la loro bella presenza.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto42 43

ATTIVITÀ SU IPAD - FRANCESCA MICHELON

Prof.se Maria Aliberti e Mariagrazia Ciravegna

Nei mesi di luglio e agosto i ragazzi del reparto si annoiano, poiché scuola e attività extracurricolari si interrompono, e per i genitori e parenti diventa molto difficile distrarli e tenerli occupati tutto il tempo. Sarebbe opportuno organizzare delle attività (anche se in fase di test) proprio in questo periodo.

La realtà aumentata (VR) è un soggetto di grande interesse nei ragazzi delle scuole medie: si potrebbe quindi inserire l’argomento nelle attività da pianificare.

Ai ragazzi delle medie già vengono proposti corsi di Arduino, Lego Mindstorm e programmazione di base, che di solito vengono accolti con entusiasmo; sarebbe interessante creare un collegamento con Robo&Bobo in modo da offrire un obiettivo congiunto.

Ci sono molti ragazzi stranieri, che provengono principalmente da Kirghizistan, Venezuela, Romania, Albania e Ucraina. Non

parlano italiano o inglese, ma più di tutti hanno bisogno di attività, poiché sono molto isolati.

I bambini ricoverati nella sezione Trapianti di solito vengono ricoverati 3-5 giorni prima, in modo da essere in ambiente sterile a lungo prima dell’operazione. Quei giorni sono per loro i più tediosi, perché sono ancora in salute, ma non possono uscire. Sarebbe un buon momento per includerli nelle attività.

LEGO MINDSTORM

Prof.sa Luisa Chiambretto, prof.sa Simona Sartori e prof. Giorgio Bodrito

Non si possono pensare attività identiche per ragazzi di 11-12 anni e quelli di 17-18, quindi le attività devono essere modulari e adattabili in base alle situazioni e alle età.

Di settimana in settimana il personale medico produce dei «piani di battaglia» che indicano quali e quanti pazienti saranno presenti la settimana seguente nelle varie aree del reparto. Nonostante questo documento sia soggetto

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto44 45

a cambiamenti legati a emergenze, può essere un buon punto di partenza per capire quanti operatori e quali attività si possono svolgere in base all’età, alle condizioni e al numero dei pazienti previsti.

Alle volte la biblio-mouse (la biblioteca donata all’ospedale nel 2001 dalla Fondazione Ronald McDonald e sita al piano terra) viene usata dagli insegnanti del liceo per le lezioni, quindi nel caso in cui fosse necessario la si può avere a disposizione.

A volte non ci sono adolescenti tra i trapiantati per settimane intere e non sempre quelli presenti vogliono o si sentono di partecipare ad attività di alcun tipo: le attività devono essere sufficientemente flessibili per adattarsi a target diversi in assenza di quello desiderato.

La Fondazione Giovanni Agnelli in passato ha donato all’ospedale dei tablet, che vengono perlopiù dati ai ragazzi che tornano a casa ma ancora non possono reinserirsi a scuola e proseguono il programma scolastico a distanza (la scuola non è obbligata a mandare un insegnante domiciliare).

I ragazzi più grandi sono contenti se i genitori non sono presenti durante le ore di lezione, quindi sarebbe meglio se le attività non ne rendessero necessaria la presenza. I genitori inoltre hanno spesso bisogno di riprendere fiato e distaccarsi un po’: attività che non ne richiedono la presenza consentirebbero loro di riposarsi e allentare la pressione.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto46 47

6. ESIGENZE, REQUISITI E PRESTAZIONI DI PROGETTO

In seguito a quanto evidenziato nella fase di ricerca, abbiamo definito una tabella che, a partire dalle esigenze di tutti gli stakeholders, definisce i requisiti del progetto e le prestazioni necessarie a soddisfarli. La stessa tabella è stata uno strumento di confronto per tutta la durata del progetto e per le valutazioni finali.

ESIGENZE DEGENZA CENTRO TRAPIANTI

DAY HOSPITAL

REQUISITI PRESTAZIONI

Esi

genz

e cl

inic

he

Una grossa percentuale

di pazienti è fortemente

immunodepressa ed esiste

il rischio di passare germi

da un partecipante all’altro

(specialmente in area

Trapianti).

Materiali interamente

igienizzabili.

I materiali utilizzati saranno disinfettati

prima di ogni attività. Materiali non

disinfettabili saranno totalmente

esclusi dall’area Trapianti.

Alcuni pazienti sono

fortemente debilitati dalle

cure.

Attività che richiedano una

bassa soglia d’attenzione.

Le attività saranno strutturate in 3

moduli di apprendimento da 30 minuti

l’uno, in modo da trasmettere qualcosa

anche a coloro che non riescono a

seguire l’attività intera.

I pazienti stanchi e debilitati

fanno fatica a seguire lezioni

puramente teoriche; inoltre il

rapporto 1:1 con l’insegnante

rende difficilmente applicabile

l’approccio frontale alle

lezioni.

Approccio pratico e ludico

alla didattica.

Le attività sono improntate alla

partecipazione attiva e all’utilizzo di

principi pratici a supporto della teoria

scientifica.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto48 49

ESIGENZE DEGENZACENTRO TRAPIANTI

DAY HOSPITAL

REQUISITI PRESTAZIONI

Esi

genz

e lo

gist

iche

Tra le ore 8 e le 10 i pazienti

vengono sottoposti a esami

clinici.

Le attività non possono

svolgersi prima delle ore

10:00.

Le attività del mattino inizieranno alle

ore 10:30.

Al mattino in Degenza e

Centro Trapianti hanno luogo

le lezioni scolastiche e gli

esami medici.

Le attività non possono

svolgersi al mattino in

Degenza e area Trapianti.

Le attività in Degenza e area Trapianti

si svolgeranno nel pomeriggio.

Ai pazienti viene servito il

pranzo tra le ore 12:30 e le

13:30, poi riposano per circa

un’ora.

Le attività non possono

svolgersi tra le 12:20 e le

14:30.

Le attività del mattino non andranno

oltre le ore 12:30 e quelle del

pomeriggio inizieranno alle ore 15.

In Day Hospital la maggior

parte dei pazienti viene

dimessa subito dopo pranzo.

Le attività non possono

svolgersi di pomeriggio in

Degenza e Trapianti.

Le attività in Day Hospital si

svolgeranno in tarda mattinata, in

modo da avere partecipanti, ma senza

intralciare troppo le insegnanti in

corsia.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto50 51

ESIGENZE DEGENZACENTRO TRAPIANTI

DAY HOSPITAL

REQUISITI PRESTAZIONI

Esi

genz

e te

cnic

he

Alcuni pazienti non possono

muoversi dal proprio letto.

Attività individuali. Le attività saranno flessibili, in modo

da poter essere svolte individualmente

o in gruppo. Se i partecipanti saranno

numericamente superiori agli

operatori, questi ultimi cercheranno di

gestire le attività in parallelo, seguendo

i ragazzi un po’ alla volta.

Alcuni pazienti possono

muoversi da una stanza

all’altra.

Attività di gruppo. Gli operatori incoraggeranno ove

possibile lo svolgimento delle attività

di gruppo per favorire la coesione ed

evitare l’isolamento di alcuni pazienti.

Alcuni pazienti non hanno a

disposizione un tavolo nella

stanza.

Mancanza di superficie

d’appoggio.

Gli operatori saranno muniti di

valigette rigide (disinfettabili) che

potranno utilizzare come superficie

d’appoggio.

Tutti i pazienti del reparto

sono attaccati a una flebo

dalla batteria limitata.

Necessità di attacco elettrico

per flebo.

Gli operatori dovranno essere muniti

di prese multiple qualora fosse

necessario ricaricare i dispositivi

elettronici necessari alle attività senza

usare le prese allocate per le flebo.

Alcuni pazienti sono in

isolamento totale.

Attività da svolgersi senza

contatto fisico.

Le attività per l’area Trapianti dovranno

essere autoesplicative e gli operatori

dovranno avere tutto il necessario per

svolgere in parallelo attraverso il vetro.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto52 53

ESIGENZE DEGENZACENTRO TRAPIANTI

DAY HOSPITAL

REQUISITI PRESTAZIONI

Esi

genz

e di

tar

get

La maggior parte delle attività

extracurriculari e ludiche

organizzate in reparto non

copre i ragazzi adolescenti e

preadolescenti.

Target adolescente e

preadolescente (11-18).

Le attività avranno contenuti flessibili

in modo che gli operatori, in base a

età e interessi dei pazienti, possano

adattare il livello di difficoltà e i

contenuti delle attività.

L’OIRM è una struttura

pubblica e i pazienti

provengono da famiglie di

fasce economiche diverse.

Strumenti low-cost o open. Le attività includeranno quanto più

possibile freeware software e open

hardware, per incoraggiare la filosofia

open e mettere tutti i partecipanti

nelle condizioni di proseguire

l’apprendimento per conto proprio.

Molti pazienti sono stranieri,

con prevalenza di kirghisi,

ucraini, rumeni e venezuelani.

Attività multilingua. Software multilingua e istruzioni a

pittogrammi serviranno da supporto

alle attività per partecipanti che

parlano lingue diverse da italiano,

inglese e spagnolo (al momento

coperte dagli operatori).

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto54 55

7. PROGETTAZIONE DELLE ATTIVITÀ

A partire dall’analisi dei risultati della ricerca e grazie al coinvolgimento di due professionisti in ambito maker ed educativo, abbiamo ipotizzato una matrice che incrociasse discipline STEM e maker education con i potenziali interessi del target di riferimento.

FORMAZIONE OPERATORI

Com

pete

nze

TEMI

Suono Luce Cinetica Videogiochi VR

Circuiti di base Come funziona la

corrente elettrica nel

creare un suono (speaker

magnetico a bobina)

Come funziona la corrente

elettrica nell’accendere una

luce (LED)

Come funziona la corrente

elettrica nel creare movimento

(piezo)

/ /

Elettronica Creare suono Creare luce Creare movimento Input e output /

Programmazione Programmazione a

blocchi + controllo midi

Programmazione a blocchi +

controllo luci digitali

Programmazione a blocchi +

robotica

Programmazione

a blocchi

Web

Disegno vettoriale / Pepakura lamp / Disegnare avatars Visore modificato

Modellazione 3D Cono amplificatore per

speaker (ricostruire,

modificare un oggetto

3D)

Lampada (ricostruire,

modificare un oggetto 3D)

/ / /

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto56 57

La selezione delle 5 attività evidenziate nella matrice (celle verdi) è stata svolta nell’ottica di dare un goal progettuale a ciascuno dei laboratori, oltre a un risultato fisico che i partecipanti possano conservare personalmente o in piccoli gruppi. La scelta è stata anche guidata dai materiali disponibili sul mercato (e in un dato range di costo) per realizzare i laboratori in un ambiente così critico.

Per ovviare al problema dell’isolamento si è pensato, in Degenza, di svolgere le attività in parallelo tra la stanza comune e le stanze degli isolati, usando una videocamera in streaming in real time sugli smartphone dei pazienti allettati o sui tablet messi a disposizione dal progetto. Gli operatori serviranno da facilitatori, accertandosi che gli allettati possano seguire e comprendere ciò che accade nella stanza comune.

Ciascuna delle attività è suddivisa in 3 fasi da 30 minuti ciascuna:

— per la teoria, con una dimostrazione pratica da parte dell’operatore;

— per la ripetizione da parte dei partecipanti di quanto dimostrato dall’operatore;

— per esplorare liberamente il sistema/software/kit con un esercizio aperto.

In questo modo anche i ragazzi che per ragioni di salute non riescono a proseguire oltre la prima mezz’ora possono acquisire una base d’apprendimento minima e potranno, se vorranno, esplorare individualmente l’argomento nel tempo libero.

A questo fine, ogni attività è correlata di materiali di riferimento, possibilmente in diverse lingue (italiano, inglese, spagnolo), sotto forma di link, affinché i ragazzi possano

estendere le proprie conoscenze individualmente.

Per quei laboratori dove non sarà possibile lasciare un artefatto funzionante ai partecipanti, è previsto vengano lasciati in ospedale i materiali elettronici perché i ragazzi possano continuare a usarli tra un’attività e l’altra.

L’obiettivo dei materiali aggiuntivi e degli artefatti lasciati ai ragazzi è quello di invogliare i partecipanti a proseguire l’apprendimento anche per conto proprio, con l’obiettivo finale di far percepire loro che il periodo di ospedalizzazione non li ha lasciati indietro rispetto ad amici e compagni, ma li ha arricchiti di strumenti nuovi e innovativi che la scuola tradizionale ancora non offre.

Al completamento di ogni attività è previsto che il partecipante riceva una spilletta corrispondente al laboratorio, in modo da incentivare la partecipazione a quelli successivi (per collezionare più badge) e aggiungere elementi di peer-education, trasformando i partecipanti in co-operatori nel caso in cui si trovino a dover ripetere un’attività; per esempio, chi ha già il badge di un certo colore, ed è quindi a un livello intermedio, può aiutare i beginner oppure accedere a un livello più complesso di progettazione, portando avanti un progetto personale che usi la stessa tecnica discussa nel laboratorio in questione.

Gli operatori avranno un kit per ogni attività e le lezioni sono state concepite per essere di tipo partecipativo e non frontale, in modo da coinvolgere i partecipanti attivamente (ponendo loro delle domande per esempio) ed evitare che si distraggano ascoltando nozioni teoriche in modo passivo troppo a lungo.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto58 59

8. USER TESTING

I test di usabilità sono una tecnica che appartiene alla metodologia dello user centered design. Tale pratica, applicata a servizi e prodotti, prevede, ancora in fase di progettazione, la possibilità di testare un prodotto/servizio in un contesto d’uso e con degli utenti il più possibile vicini alla realtà. Questo al fine di modellare il prodotto/servizio intorno alle esigenze dell’utente ancora prima che venga ultimato e prodotto.

I test di usabilità vengono di solito impiegati per testare cibi, prodotti a contenuto tecnologico o interfacce digitali. Nell’ambito di Robo&Bobo abbiamo deciso di applicare questa metodologia perché consapevoli della difficoltà di progettare attività adatte a un target così vario e delicato. Spesso infatti una delle difficoltà maggiori di un progettista è quella di mettersi nei panni dei propri utenti, e in questo caso il target d’utenza era particolarmente sensibile.

Per validare le 5 attività sono stati effettuati dei test suddivisi in 7 giornate intere.

I test sono avvenuti in ospedale con pazienti ricoverati nelle 3 aree coinvolte dal progetto.

Il personale medico ha accolto positivamente la proposta di testare le attività, anticipando quindi l’ingresso del progetto in ospedale, poiché nel periodo estivo i ragazzi ospedalizzati sono particolarmente annoiati a causa dell’interruzione di attività scolastiche e di volontariato.

L’obiettivo dei test era di verificare ogni attività con 3-5 pazienti in ogni area del reparto, in base naturalmente alla loro disponibilità. Questo obiettivo si è rivelato raggiungibile per le aree di Day Hospital e Degenza, mentre in Centro Trapianti non è stato possibile avere più di un partecipante per entrambe le attività testate. Per ognuna delle

attività il numero di partecipanti è stato dunque variabile (si veda la relativa tabella).

Le attività di test si sono svolte in maniera non consecutiva nei mesi di luglio, agosto, settembre e ottobre 2016.

Durante ogni test erano presenti dai 3 ai 4 operatori, che individualmente o a coppie hanno accompagnato i pazienti attraverso lo svolgimento dell’attività in modo informale e flessibile, evitando lezioni di tipo frontale e scalette troppo rigide, favorendo quindi il coinvolgimento dei partecipanti e accomodando le loro condizioni psicofisiche e le diverse età.

Erano inoltre sempre presenti un operatore video o foto per documentare (durante i test, così come per l’intera operatività, foto e riprese sono state eseguite a seguito dell’autorizzazione del paziente e di una liberatoria firmata da un genitore) e un osservatore passivo incaricato di prendere appunti senza interferire con le attività. In questo modo si è potuta svolgere un’analisi più oggettiva degli esiti, sulla base della quale pianificare le modifiche. A seguito dei test un’attività su 5 è stata radicalmente cambiata e in un’altra sono stati rilevati problemi tecnici di realizzazione, ragione per cui quest’ultima è stata testata due volte.

USER TESTING

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto60 61

PARTECIPAZIONI TEST

PARTECIPANTI DH PARTECIPANTI DG PARTECIPANTI CT

3 3 0

3 2 0

5 2 0

0 0 1

1 1 0

3 4 1

2 2 0

I test hanno evidenziato alcune buone pratiche e accorgimenti per meglio integrare gli operatori in ospedale. A seguito di queste attività si è infatti deciso di fornire gli operatori di grembiuli e valigette per renderli più riconoscibili e infondere maggiore fiducia nel personale ospedaliero e nelle famiglie dei pazienti, ormai fin troppo abituati a furti e intrusioni in ospedale. L’accorgimento ci ha anche permesso di essere facilmente identificati dai pazienti desiderosi di unirsi alle attività.

La possibilità di usare streaming e lezioni di gruppo si è rivelata difficilmente realizzabile perché i pazienti spesso non avevano voglia di essere socievoli e preferivano lezioni singole.

Nonostante l’intenzione di fornire agli operatori kit diversi per ogni attività, a seguito dei test si è deciso di munirli di una valigetta personale contenente tutti gli strumenti e materiali necessari, con lo scopo di minimizzare la perdita, la dimenticanza o la confusione di materiali e strumenti, e di responsabilizzarli alla custodia della propria valigetta personale.

OPERATORI

Come già si è detto, le attività escludono volutamente i genitori, sia per offrire loro un momento di tregua sia per distaccare i pazienti dalla propria condizione di ospedalizzati. I test hanno però dimostrato che questa strategia impossibilita i genitori a seguire e incoraggiare l’eventuale prosecuzione dell’apprendimento che auspichiamo i partecipanti intraprendano a seguito dei laboratori. Si è quindi deciso di integrare i materiali delle attività con del materiale cartaceo e digitale di supporto.

Gli interfono delle stanze del Centro Trapianti si sono rivelati malfunzionanti e ciò ha portato a ridefinire le istruzioni per le attività svolte in quest’area, munendo gli operatori di tutti i materiali per replicare l’attività attraverso il vetro, mostrando ai partecipanti come realizzarle passo dopo passo.

In generale la partecipazione è stata più bassa del previsto e questa consapevolezza ha permesso, prima di partire con l’operatività, di ridimensionare la previsione di spesa per i kit, fornendo più materiali a meno ragazzi.

Non è stato possibile svolgere attività di modellazione 3D su

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto62 63

tablet, perché le interfacce di controllo non erano abbastanza usabili, e in tutti e 5 i modelli di tablet testati i processori non erano abbastanza veloci, creando ritardi e attese spesso snervanti. Si è quindi deciso di munire gli operatori di PC per quest’attività.

Tutti i materiali dei kit per pazienti e operatori sono stati adattati e integrati in seguito ai test, in particolare aggiungendo cancelleria generica, multiple elettriche e router wifi per ovviare ai problemi tecnici interni al reparto.

La pratica ospedaliera ha infine mostrato la necessità di ridurre al minimo il numero di persone presenti in ospedale per il progetto: gli spazi sono pochi, e gruppi numerosi di estranei possono mettere in soggezione pazienti e famiglie, nonché intralciare il personale medico. In genere la presenza di chi svolge attività non terapeutiche in reparto dovrebbe essere «invisibile», e per questo si è deciso di alternare sempre fotografo, videomaker e osservatori di progetto, in modo da lasciare lo spazio agli operatori e all’antropologa.

9. ETNOGRAFIA: OSSERVAZIONI E INTERVISTE

L’antropologia medica nasce come branca dell’antropologia culturale per investigare le rappresentazioni soggettive dell’esperienza della malattia, maturandole nell’analisi più ampia del significato sociale attribuito alla dimensione generale del benessere, intorno a cui ruotano dinamiche politiche, economiche, sociali e culturali. Se in passato l’antropologia si occupava delle costruzioni culturali di società considerate «altre» (lontane, esotiche, indigene), a partire dagli anni ‘70 ha cominciato a orientare la propria attenzione verso società complesse, scoprendo come anche il nostro sistema medico centrato sulla biomedicina sia frutto di costruzioni culturali e storiche.

Un importante contributo teorico all’antropologia medica è stato dato da Arthur Kleinman e dalla sua illness narrative, ovvero la narrazione dell’esperienza della malattia, che coinvolge i significati, le emozioni, i valori culturali espressi dal soggetto e che danno forma al sintomo. Distaccandosi dalla disease, che rappresenta la malattia in senso biologico, il sunto di base è che la sofferenza e la malattia non siano mai solo fattori biologicamente determinati, ma siano esperienze psicologiche, culturali, famigliari, emotive, soggettive e intersoggettive. Alle teorie di Kleinman, Allan Young aggiunge il concetto di sickness inteso come la malattia in un particolare contesto sociale e ambientale.

Nel corso del tempo l’antropologia medica si è sviluppata verso un approccio più politico e critico verso i modi in cui la malattia è costruita dalla società. Da questo orientamento più militante (le cui teorie sono interessanti e importanti, ma non rientrano nel nostro campo di studio) è emersa la necessità di concentrarsi non sui simboli della malattia, ma sulla materia principale della salute: il corpo.

La concezione biomedica del corpo nasce dalla visione dualistica cartesiana che separa mente e materia; per l’antropologia non vi è alcuna differenza tra il corpo come soggetto dell’esperienza e il corpo come oggetto, tra «essere un corpo» e «avere un corpo», ciò che Nancy Schepher-Hughes e Margaret Lock chiamano mindful body. La biomedicina e il suo sistema (di valori) non si domandano che cosa significhi il corpo, ma come esso funzioni. L’esperienza sociale della malattia, però, passa dal proprio «essere corpo», poiché è attraverso di esso che noi apprendiamo e riproduciamo cultura. Se il nostro corpo entra in crisi, avviene ciò che Ernesto De Martino definisce «crisi della presenza»: il nostro

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto64 65

essere al mondo muta e tutta la realtà deve essere rinegoziata, avviando quindi un processo di produzione di significato e di senso della malattia.

Portare questi approcci antropologici all’interno di attività di design per pazienti oncologici significa guardare il contesto in cui si opera con uno sguardo diverso, esaminandolo a partire dall’idea che il reparto di Oncoematologia pediatrica sia una comunità, con le proprie regole, i propri significati, i propri simboli e attori. Inoltre, nei laboratori e nelle relazioni che i pazienti creano con gli oggetti, le tematiche e gli operatori, è possibile vedere in atto sia la «crisi della presenza» sia le rappresentazioni del corpo ferito e dei significati attribuiti alla malattia e al vivere l’ospedale. Adottare un approccio antropologico permette quindi di ricostruire in maniera analitica quelle che sono le percezioni degli individui a partire dalla propria esperienza corporea nel mondo in cui sono inseriti e che a sua volta li produce.

Nell’ambito di un progetto multidisciplinare come Robo&Bobo, l’antropologia consente inoltre di assumere uno sguardo d’insieme, fornendo spunti di riflessione su criticità e punti di forza, oltre a eventuali soluzioni analitiche basate su una conoscenza approfondita di uno specifico contesto culturale.

L’antropologo eseguirà, come strumenti di ricerca, non solo le interviste e la raccolta di narrazioni da parte degli individui, ma anche l’osservazione dei partecipanti dall’interno, ricostruendo quella stessa realtà insieme agli individui. L’individuo quindi non viene configurato come oggetto di studio, ma come co-attore, figura attiva nell’elaborazione analitica del contesto. Al contrario di altre scienze di ricerca sull’uomo, infatti, l’antropologia utilizza tecniche investigative mirate alla raccolta di dati dal punto di vista emico degli attori sociali studiati, e

attraverso l’etnografia il ricercatore riesce a descrivere una data cultura vivendo con e come le persone che la condividono, diventando lui stesso strumento diretto di indagine.

Anche l’ospedale, come abbiamo detto, è una realtà che può essere osservata e indagata dal punto di vista antropologico, e il reparto di Oncoematologia Pediatrica può essere considerato una comunità con le proprie norme, i propri significati, simboli, eventi importanti, comportamenti, gerarchie ecc.

La tecnica di ricerca utilizzata è stata l’osservazione partecipante. Nel condurre un’etnografia nulla di ciò che si osserva viene dato per scontato, e si è deciso di entrare nel campo di ricerca senza conoscenze che potessero creare un pregiudizio sull’ambiente, scegliendo di acquisire quante più informazioni riguardanti il campo vivendolo in prima persona: attraverso l’osservazione, appunto. Il lavoro di ricerca è stato quindi costruito per tentativi, osservando situazioni e interazioni differenti all’interno degli spazi dei laboratori.

Con un piccolo stratagemma, la presenza della ricercatrice nel reparto è stata giustificata con la necessità della firma della liberatoria per le foto e i video. Per questo motivo, in una sorta di gergo amichevole, gli altri operatori hanno cominciato a definire l’antropologa «il plug-in del fotografo», poiché si presentava nel reparto come una sua estensione. L’atto di far firmare la liberatoria ha permesso non solo di inserire tranquillamente questa enigmatica figura, ma anche di avviare un dialogo con i primi attori sociali con cui è entrata in contatto: i genitori. Le prime osservazioni e i primi dati sul reparto sono stati raccolti proprio dal dialogo con i genitori, nell’intento di comprendere il loro modo di vivere il reparto.

Dall’osservazione delle dinamiche interne al reparto si è

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto66 67

poi passati a osservare come i pazienti interagissero con i laboratori proposti. Nello specifico si è tentato di notare in che modo la realtà della vita in ospedale si riflettesse sulle attività, quali elementi emergessero nei gesti, nelle reazioni e nelle narrazioni.

Per fare ciò l’osservazione partecipante avveniva in maniera differente a seconda delle situazioni: se più ragazzi lavoravano nella stessa stanza li si osservava prima in un quadro generale, poi individualmente; se erano divisi in stanze diverse a volte si decideva di concentrarsi su un preciso operatore o su un preciso ragazzo. In questo modo è stato possibile osservare le dinamiche di gruppo, l’umore e le energie che si creavano in una situazione collettiva, ma anche le strategie scelte da ogni operatore nella relazione con il paziente e con il laboratorio. Per i pazienti che partecipavano con più frequenza è stato possibile analizzare l’andamento nel tempo.

Dopo aver speso ogni giornata di lavoro a stretto contatto con gli operatori, mischiandosi a loro, ben presto ci si è trovati a interrogarsi su come impiegare i dati raccolti e come applicarli al lavoro che si stava svolgendo. Quando si effettua ricerca al di fuori dal contesto accademico, con ritmi differenti rispetto a una consueta ricerca di campo, a stretto contatto con altre figure professionali, l’etnografia classica pretende di essere ricollocata, di diventare altrettanto operativa. Così in maniera spontanea, nel corso dei mesi, le osservazioni non erano più fini a sé stesse, ma sono diventate dati utili per avviare una collaborazione e un dialogo con gli operatori. L’antropologa è stata coinvolta nei processi decisionali degli operatori, discutendo con loro, suggerendo e riflettendo sulle possibile estensioni dei laboratori, sui loro effetti e sui limiti. Non essendo una progettista e utilizzando tecniche di ricerca

volte a una comprensione emica del contesto, gli operatori le hanno fatto testare i laboratori perché potesse provare a immedesimarsi in un paziente medio. In questo modo non solo ha osservato i pazienti interagire con i laboratori, ma ha vissuto questi ultimi in prima persona, aprendo una riflessione corporea ed esperienziale sulle attività, unendosi ai processi creativi portati avanti dagli operatori.

10. VALUTAZIONE

Verso il termine del progetto si è deciso di verificarne la compatibilità con le premesse e i piani successivamente predisposti, a partire dagli spunti offerti dal progetto europeo Digital Social Innovation for Europe (DSI4EU, https://digitalsocial.eu/) sugli indicatori di valutazione che i maker dovrebbero costruire per valutare appunto i propri progetti, in quanto innovativi e originali rispetto al range di progetti che generalmente impattano il vivere sociale.

Per fare ciò si è deciso di utilizzare una metodologia ibrida in grado di restituire la complessità e la ricchezza di un percorso sperimentale: se da una parte sono stati predisposti strumenti classici della valutazione, come l’inchiesta campionaria e l’utilizzo di indicatori quantitativi, dall’altro si è proceduto con un’indagine etnografica antropologica sull’esperienza generata dalla sperimentazione dei laboratori in analisi. Questo tipo di ibridazione risulta altrettanto innovativo per due ragioni:

— generalmente l’antropologia è una scienza conoscitiva, utilizzata in fase pre-progettuale per comprendere il contesto in cui andare a lavorare, ma risulta storicamente esclusa dai processi valutativi;

— antropologia e sociologia, pur essendo discipline cugine, sono generalmente poco collaborative.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto68 69

La figura dell’antropologa è stata inserita a progetto avviato. La sua ricerca quindi non è stata usata per una user research in fase pre-progettuale, ma i dati e le osservazioni raccolte esprimevano bene la ricchezza di contenuto e la complessità delle attività svolte, tanto da poterle integrare con metodi più tradizionali di valutazione generalmente provenienti dalla sociologia, che risultavano comunque indispensabili e che non sono di competenza dell’antropologia.

La valutazione del progetto non era stata considerata inizialmente, ma è stata pensata on going per la fase finale delle attività. Per rispondere alle problematiche emerse nella costruzione della valutazione, l’antropologa e due sociologi hanno lavorato insieme, integrando le competenze tecniche della ricerca valutativa con la conoscenza antropologica del contesto. La valutazione quindi risulta un lavoro sperimentale.

Per prima cosa si sono individuati gli indicatori da utilizzare per orientare la valutazione, estrapolandoli dagli obiettivi del progetto per controllare che fossero rimasti coerenti durante tutto il percorso.

CRITERI INDICATORI

I ragazzi coinvolti diventano

costruttori attivi del proprio

percorso di conoscenza;

potenziare l’offerta formativa

all’interno della struttura

ospedaliera.

1) creazione di artefatti (dati)

2) propositività personale da parte

dei ragazzi (etnografia)

Migliorare le condizioni dei

singoli pazienti offrendo allo

stesso tempo opportunità di alta

formazione e opportunità di svago

in grado di alleviare la degenza.

1) partecipazione/assenza

volontaria (dati)

2) considerazione personale del

progetto (questionario)

3) indice di gradimento

(questionario)

4) funzionamento del

metodo usato da operatori

(questionario)

5) relazioni (questionario)

6) parlano di noi» (questionario)

Offrire strumenti volti a favorire

l’espressione personale e il

potenziamento cognitivo.

1) processo di creazione

individuale di un artefatto

(etnografia)

2) storia degli artefatti prodotti

(etnografia, interviste)

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto70 71

Il progetto si muove su due piani, organizzativo (all’interno del reparto di Oncoematologia pediatrica, aree di Day Hospital, Degenza e Centro Trapianti) e tecnico (per portare le competenze di design in un contesto diverso, come quello ospedaliero). Anche la valutazione si muove su due piani: da una parte i main goals del progetto, dall’altro il tentativo di cogliere la dimensione organizzativa, ossia la dinamica e il processo che consentono di passare dalla fase progettuale all’implementazione e, dunque, agli esiti finali di tale esperienza.

In primo luogo è necessaria una considerazione su ciò che determina un particolare esito di un progetto: non semplicemente la definizione progettuale e la sua implementazione, ma anche l’intervento di tutti gli attori coinvolti in tali processi, anche in ruoli che potrebbero apparire marginali. Questa convinzione ha radici nell’idea che i vari attori siano portatori di interessi, logiche e motivazioni che producono comportamenti differenti e che la variabile-composizione di questi sia determinante per l’esito finale. Inoltre alcuni attori, pur non essendo centrali nell’attuazione e definizione del progetto, possono rivelarsi osservatori privilegiati e riportare utili punti di vista periferici.

Per questa ragione inizialmente si è deciso di includere nella costruzione del flusso valutativo le voci di tutti gli attori coinvolti: pazienti, genitori, operatori e personale medico. Tuttavia, rispetto a quanto ipotizzato in sede di disegno della ricerca, non sempre è stato possibile, per limiti di tempo e necessità organizzative, svolgere tutte le azioni valutative previste, che comunque permangono almeno come prospettiva futura, come nel caso delle interviste al personale medico e del questionario destinato ai genitori.

In secondo luogo è stata cura dei ricercatori individuare le dimensioni e i possibili indicatori che consentissero di fissare alcuni obiettivi del progetto e allo stesso tempo permettessero di valutarne gli esiti, anche se in via preliminare. Per fare ciò, in questa prima fase sperimentale, sono stati rielaborati i fini esposti nella progettazione dei laboratori Robo&Bobo con l’intento di valutare la coerenza delle azioni intraprese con gli esiti raggiunti.

Nella tabella successiva sono riassunti le dimensioni e gli indicatori utilizzati per riflettere sugli esiti del progetto in analisi. Inoltre sono riportate le fonti tramite cui sono stati raccolte le evidenze, anche se non risultano essere esclusive.

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto72 73

DIMENSIONI INDICATORI

1. Educativa.

I ragazzi coinvolti diventano

costruttori attivi del proprio

percorso di conoscenza; potenziare

l’offerta formativa all’interno della

struttura ospedaliera;

1) creazione di artefatti (dati)

2) sviluppo creativo personale da

parte dei ragazzi (etnografia)

3) laboratori come stimolo alle

pratiche proposte (questionario)

4) riflessione sul metodo da

parte degli operatori (intervista)

2. Contestuale.

Migliorare le condizioni dei

singoli pazienti in quanto offre,

al contempo, opportunità di alta

formazione e opportunità di svago,

in grado di alleviare la degenza

2a. Relazionale.

1) partecipazione/assenza

volontaria (dati di output)

2) indice di gradimento

(questionario)

a)relazioni tra gli attori

(questionario e interviste)

b) «parlano di noi« (con gli altri?

oppure come hanno saputo di

voi?) (questionario)

4. Corporea

Offrire strumenti volti a favorire

l’espressione personale e il

potenziamento cognitivo;

1) processo di creazione

individuale di un artefatto

(etnografia)

2) storia degli artefatti prodotti

(etnografia, interviste)

Le tecniche prescelte di costruzione del dato valutativo sono due: il questionario autocompilato in forma anonima (per i pazienti e i genitori) e l’intervista semistrutturata (per operatori e personale medico). Per quanto concerne la distribuzione del carico del lavoro e la somministrazione dei questionari nell’ambiente ospedaliero, le interviste ai pazienti e genitori (integrate alle osservazioni derivanti dal campo) sono rimaste di competenza dell’antropologa, che ha organizzato, secondo le indicazioni dei colleghi, l’insieme dei dati output raccolti durante tutto il periodo di attività. La matrice-dati prodotta, in questo modo, restituisce informazioni relative al numero di partecipanti, alle ore di lavoro, al tasso di abbandono e motivazione, all’ effetto contagio nell’iniziare le attività, alle motivazioni di ingresso.

QUESTIONARIO PER I PAZIENTI

I pazienti, in quanto attori diretti delle attività, rappresentano la voce principale ai fini della valutazione. Essi possono restituire dati significativi sul gradimento del lavoro svolto, ma anche su ulteriori dimensioni che permettono di far emergere criticità sul lavoro in itinere e possibili implementazioni per il futuro.

Il questionario è uno strumento atto a rilevare un numero elevato di dati in grado di attenuare alcuni problemi legati alla complessità del contesto in valutazione, quantificando in modo più esaustivo quanto la ricerca etnografica non è in grado di far emergere. Nello specifico, l’elaborazione del materiale quantitativo permette di produrre statistiche descrittive che riassumono e presentano in maniera sintetica la distribuzione dei diversi caratteri (qualitativi e quantitativi) e delle tendenze all’interno campione esaminato.

Lo strumento è stato costruito su Google Form online e la

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto74 75

somministrazione è avvenuta tramite un’autocompilazione via tablet alla presenza dell’antropologa come supporto, nel caso si fossero presentati dubbi nella compilazione (entrambe le soluzioni sono state effettuate in coerenza con il progetto in esame).

La popolazione in indagine è stata ritenuta esperta su 3 delle 4 dimensioni individuate come rilevanti nel processo valutativo:

— Dimensione educativa (per esempio: il progetto fornisce competenze? Le integra col percorso scolastico?)

— Dimensione relazionale (per esempio: il progetto migliora le relazioni all’interno dell’ospedale tra simili? Non influisce con le relazioni esterne? Che tipo di relazione con l’operatore viene privilegiata?)

— Dimensione contestuale (per esempio: agevola la situazione di inclusione all’interno dell’ospedale rispetto alle attività proposte da altre associazioni che però sono indirizzate a bambini e non adolescenti? Agevola il periodo passato in Day Hospital o in Degenza?)

— Dimensione organizzativa (per esempio, feedback sulle modalità di svolgimento delle attività, eventuali consigli sulla progettazione e sull’organizzazione dei laboratori).

Per far sì che il campione raccolto fosse significativo, nei limiti del possibile, si è deciso di somministrare il questionario a pazienti che avessero svolto almeno 3 laboratori su 5, e solo a coloro che rientravano nel target definito dal progetto. In fase di elaborazione dei dati però è emerso che, su una popolazione complessiva di 96 pazienti, erano 9 i questionari somministrati e di conseguenza il campione raccolto, per quanto permetta di scorgere alcune possibili tendenze, non può essere considerato rappresentativo, in quanto limitato

numericamente. Queste somministrazioni rappresentano a ogni modo un buon test dello strumento predisposto, passaggio necessario per un follow up futuro del piano di valutazione.

QUESTIONARIO PER I GENITORI

In fase di progettazione i ricercatori hanno costruito un questionario da somministrare ai genitori, che risultano figure centrali nella vita dei figli ospedalizzati e in maniera indiretta sono coinvolti nelle attività. Le loro percezioni sono considerate rilevanti in quanto essi sono testimoni privilegiati del tempo passato in ospedale.

Attraverso la creazione di un questionario ad hoc, è stato possibile rilevare se le attività rappresentino un momento di alleggerimento del loro compito di care, sia da un punto di vista emotivo sia di tempo. Se il genitore partecipa più o meno direttamente alle attività del figlio risulta osservatore dell’esperienza, e se non vi partecipa ne raccoglie comunque i feedback.

Nello specifico, lo strumento è stato strutturato in modo da far emergere l’opinione dei genitori in relazione alla sfera emotiva (valutazione carico emotivo della degenza del figlio/scarico di tempo personale) e a quella operativa (se partecipano raccolgono impressioni dirette come osservatori/se non partecipano diventano serbatoi di feedback da parte del figlio).

Anche in questo caso, la modalità di somministrazione prescelta consiste nell’autocompilazione assistita via tablet. In fase di elaborazione dati è emerso che solo un genitore ha svolto il questionario e, di conseguenza, non può essere considerato rappresentativo. In questo caso dunque il materiale etnografico e le interviste svolte dall’antropologa

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Metodologia e ricercaCapitolo 1

Report del primo anno di progetto76 77

risultano essere una risorsa unica e fondamentale per restituire un punto di vista importante come quello dei genitori dei pazienti.

Per consultare il testo integrale del questionario si veda l’Appendice.

INTERVISTA SEMISTRUTTURATA AGLI OPERATORI

Gli operatori sono un nodo centrale nella rete che si crea intorno ai laboratori, in quanto non solo sono «mente» nella strutturazione operativa di ogni singola attività, ma anche attori che agiscono fisicamente sul campo di ricerca: in senso operativo, nella conduzione del laboratorio, e in ottica relazionale, interagendo direttamente con i ragazzi, i genitori e in maniera incidentale con il personale dell’ospedale.

Il loro può essere considerato un punto di vista denso poiché

— sono in grado di cogliere le variazioni del percorso pensato di un’attività, di percepire lo scarto tra la progettazione e l’implementazione e, di conseguenza, di riflettere sulle modalità e sui metodi del «fare i laboratori»;

— raccolgono i feedback diretti sulle attività da parte dei pazienti (attori centrali) in base al grado di risposta/partecipazione/coinvolgimento nel laboratorio e, in secondo piano, dei genitori e degli infermieri (attori di secondo livello).

— raccolgono impressioni sul contesto, sulla relazione e l’impatto che hanno i laboratori nel reparto.

La proposta dell’équipe di ricerca è stata quella di creare un momento di riflessività sul lavoro svolto che si esplica a diversi livelli:

— sulla modalità operative di progettazione, organizzazione e conduzione dei laboratori;

— sulle relazioni che si instaurano tra i diversi attori coinvolti; — sul più ampio contesto ospedaliero in cui il progetto è inserito.

In quest’ottica le riflessioni possono essere parte integrante della valutazione di un percorso sperimentale lungo un anno e concorrono a diventare una base per la progettazione futura.

Lo strumento adeguato a cogliere i punti di vista e al contempo a stimolare la riflessività degli operatori è l’intervista semistrutturata: ne sono state condotte 4 con tutti gli operatori del progetto.

INTERVISTA SEMISTRUTTURATA AL PERSONALE OSPEDALIERO

In fase di strutturazione della valutazione, l’équipe di ricerca aveva vagliato la possibilità di stimolare una riflessione sulle attività del progetto anche all’interno della struttura ospedaliera, privilegiando un confronto diretto con il personale attraverso la creazione di una traccia di intervista.

A causa dei tempi ristretti e della presenza di una sola persona per somministrare gli strumenti di valutazione, al momento l’intervista strutturata con il personale ospedaliero non è stato inserito in questa valutazione sperimentale. Lo si tiene in considerazione per il futuro.

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LaboratoriCapitolo 2

78 79Report del primo anno di progetto

CAPITOLO 2

Laboratori

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LaboratoriCapitolo 2

80 81Report del primo anno di progetto

II. Laboratori

I 5 laboratori si sono susseguiti nell’arco di 9 mesi con cadenza settimanale; per facilitare gli operatori nell’organizzazione dei materiali, ogni laboratorio è stato proposto per due settimane consecutive.

I 4 operatori selezionati per svolgere le attività in ospedale, già in possesso di competenze in materia di design e digital fabrication, sono stati formati prima dello svolgimento dei test. Si è scelto di lavorare con professionisti pagati, invece che con volontari, per poter dare alle attività la continuità necessaria e richiedere un tipo di impegno e di supporto progettuale in itinere che altrimenti non sarebbe stato dovuto.

Per la natura del contesto e dei partecipanti, le attività descritte di seguito non vanno interpretate come rigide sequenze di blocchi d’apprendimento: gli operatori hanno infatti adattato e modulato continuamente i laboratori in base alle condizioni fisiche, mentali e motivazionali dei pazienti dell’OIRM, nonché alle diverse età.

Le attività hanno poi subito degli adattamenti dovuti alla pratica ospedaliera e a problemi emersi con il susseguirsi dei laboratori. La possibilità di avere un portafogli di esercizi e risorse tra le quali scegliere di settimana in settimana si è rivelata una strategia vincente nel gestire queste sfide senza che fossero i pazienti a rimetterci.

1. Cir-cut. Circuiti di carta

I circuiti elettrici sembrano qualcosa di estremamente noioso, come quelle interminabili lezioni di fisica a scuola nelle quali non si capisce mai niente.

Non è così, e lo può assicurare il robottino Cir-cut, che ha dimostrato ai nostri ragazzi quanta creatività possa nascondersi dietro un circuito elettrico.

Regis (10 anni) ha addirittura iniziato a parlare, come per magia, dopo aver conosciuto Cir-cut! È bastato dargli dello scotch di rame, un foglio di carta e una batteria: meticolosamente e con molta curiosità, seguendo i tracciati che gli avevamo dato, Regis ha fatto illuminare una piccola lucina LED, semplicemente unendo i poli opposti del rame con la batteria, piegando un foglio di carta. Ma abbiamo voluto stupirlo ancora, facendogli costruire un bracciale magico che, sfruttando la semplicità del circuito con il filo di rame, si illumina. Quando se l’è visto al polso, opera delle sue stesse mani, Regis non solo ci ha regalato un sorriso, ma ha dimenticato la timidezza incominciando a parlare come un fiume in piena.

La scienza, la fisica, l’elettronica partono da principi che tutti possono imparare: la straordinarietà di un oggetto sta anche dietro la bellezza della sua semplicità. In questo caso non è solo l’idea di indossare una luce che si illumina sempre, ma la forza creativa di quelle piccole mani che sono riuscite a portare la luce a partire da poco o niente.

ATTIVITÀ

I partecipanti creano dei circuiti usando nastro adesivo in rame, batterie da 3V, LED adesivi e vernice conduttiva.

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LaboratoriCapitolo 2

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L’attività inizia con l’osservazione del contenuto del kit. Si domanda ai ragazzi quali oggetti riconoscono (di solito batteria, clip e nastro di rame), quali analogie sono riscontrabili (simbolo + e – su batteria e LED adesivi) e si descrivono le caratteristiche degli strumenti sconosciuti (normalmente inchiostro conduttivo e LED adesivi).

Si introduce il concetto di circuito cercando di ricavare una definizione insieme ai ragazzi partendo da ambiti conosciuti come automobilismo e ciclismo, spiegando poi la collocazione e il ruolo dei diversi elementi all’interno di un circuito elettrico. Si svolgono quindi i primi esercizi su template per capire il funzionamento di un circuito semplice, il concetto di intermittenza e il circuito in parallelo.

Un esercizio bonus consiste nella creazione di un braccialetto luminoso in feltro e neoprene con circuito integrato: la produzione di un elaborato interessante e indossabile incentiva l’entusiasmo dei partecipanti e costituisce una degna conclusione del laboratorio nel caso in cui il ragazzo si senta stanco e decida di interrompere l’attività.

In seguito agli esercizi si verifica se i concetti base sono stati appresi correttamente e si fanno delle dimostrazioni per evidenziare i possibili errori che causano il non funzionamento del circuito. Successivamente si passa alla realizzazione di un circuito libero che abbia caratteristiche diverse rispetto agli esercizi precedenti, per esempio tridimensionalità, un percorso articolato con elementi figurativi o testuali, o addirittura l’utilizzo dell’arredo della stanza come supporto alternativo.

In seguito a un esito positivo del circuito libero o con i partecipanti più grandi è possibile esplorare le funzionalità di altri sensori e attuatori adesivi (interruttore, sensore

luminoso, microfono e timer), nonché chip adesivi per effetti (blink, fade, twinkle e heartbeat). Un’altra attività che è stata sperimenta è l’hacking of things. Lo scopo dell’esercizio è quello di modificare una parte del corpo o un oggetto del reparto creandovi circuiti a proprio piacimento; questa pratica permette al paziente di riappropriarsi degli spazi ospedalieri mentre familiarizza con la materia d’esame.

Analoga a quest’ultima, si propone come attività supplementare la creazione di tatuaggi high-tech con l’utilizzo dell’inchiostro conduttivo, totalmente atossico e soprattutto lavabile.

LED ADESIVI E NASTRO DI RAME - ADAFRUIT INDUSTRIES

AREE DI SVOLGIMENTO

Degenza, Day Hospital e Centro Trapianti.

OBIETTIVI DIDATTICI / CHE COSA SI IMPARA

Teoria base dei circuiti, funzionamento e direzionalità della corrente, concetto di interruttore/ponte, connessione seriale e parallela.

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84 85Report del primo anno di progetto

OBIETTIVO PROGETTUALE / CHE COSA SI REALIZZA

La costruzione di un circuito a forma libera utilizzando a piacere nastro di rame o inchiostro conduttivo. Applicare le conoscenze precedentemente apprese per produrre un elaborato funzionante con caratteristiche diverse dagli esercizi precedenti.

SYLLABUS GENERICO/QUAL È LA SEQUENZA DI ATTIVITÀ DELL’UNITÀ

— Spiegazione su LED, polarità, conduttività e direzionalità della corrente.

Introduzione ai materiali contenuti nel kit.

— 3 esercizi guidati. — Esercizio bonus: bracciale luminoso. — Ragionamento sulle caratteristiche fondamentali di un circuito e dimostrazione dei possibili errori.

— Esercizio libero.

RISORSE WEB AGGIUNTIVE

Conductive paint: regole di base →

Conductive paint: come proteggere la vernice da sbavature →

Conductive paint: come diluire la vernice →

PDF →

STRUMENTI SW NECESSARI

Non sono richiesti software.

STRUMENTI HW NECESSARI

LED e sensori adesivi.

CRITICITÀ E FATTIBILITÀ TECNICA

Workshop di fascia semplice, forse troppo per gli adolescenti.

COMPETENZE RICHIESTE AGLI OPERATORI

Conoscenza approfondita di teoria (e pratica) dei circuiti di base. Conoscenza delle principali caratteristiche della vernice conduttiva.

MATERIALI

Kit partecipante Degenza & Day Hospital

— 3 LED adesivi bianchi — 6 LED adesivi colorati — 2 batterie a bottone da 3 V — 2 clip colorate per carta da 2 cm — 1 tubetto inchiostro conduttivo — 1.5 m nastro di rame adesivo — manuale e template stampati su carta

Kit partecipante Centro Trapianti

— 3 LED adesivi bianchi — 6 LED adesivi colorati — 2 batterie a bottone da 3 V — 2 clip colorate per carta da 2 cm — 1 tubetto inchiostro conduttivo — 1.5 m nastro di rame adesivo — manuale e template stampati su acetato trasparente — acetati colorati — 2 fogli acetato colorato — 1 forbice piccola

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Kit operatore

— nastro di rame adesivo — 1 tubetto inchiostro conduttivo — pennelli — vaschette per pennelli straccetti per pulizia — clip per carta — batterie a bottone da 3 V — LED adesivi — forbici — carta — acetati

2. Joybit. Videogame controller

A chi non piacciono i videogame? Ma quanti saprebbero trasformare una banana in un joystick? O un foglio di carta in una vera e propria pianola?

Adriano (8 anni) e Diana (16 anni) ci hanno mostrato che tutto è possibile con Joy-bit, il robottino dell’elettronica che insegna ai ragazzi le magie realizzabili con una touchboard, della frutta, dell’inchiostro conduttivo e un po’ di fantasia.

Due ragazzi diversi, timida lei, chiacchierone lui, ma entrambi sorridenti. Hanno lavorato insieme per scoprire le infinite possibilità realizzabili con Joy-bit.

Gli abbiamo dato una touchboard che hanno collegato a delle banane e a dei mandarini, imparando come, con un tocco, tutto possa produrre suoni o essere convertito in un joystick per videogiochi. Ma non si sono accontentati: hanno preso in mano un pennello e con la vernice conduttiva hanno disegnato i tasti di un pianoforte su un normalissimo foglio di carta.

È bastato così poco per riempire la stanza di risate e stupore, trasformando l’ambiente in una sala musicale dove Adriano, con maestria, ha dato vita al foglio suonando per noi. In questo modo i nostri giovani maker sono diventati artefici della propria creatività, senza fermarsi alle regole di un videogioco, ma creando gli strumenti che servissero al gioco stesso.

La magia più grande è stata mostrare loro la possibilità di dar vita a oggetti inanimati, come la frutta o un foglio di carta, e spezzare il silenzio del pomeriggio con le loro splendide risate.

ATTIVITÀ

Il laboratorio comincia con un’introduzione ai principi di elettronica (sensori, attuatori, antenne) e a seguire con un piccolo esercizio che consiste nel suonare tracce midi salvate sulla touchboard (un piccolo microprocessore) premendone i sensori capacitivi.

Il proseguimento dell’attività prevede diversi esercizi testati lungo l’intera operatività.

Inizialmente l’attività principale consisteva nella costruzione di un joystick usando della frutta, collegata tramite cavi jumpers e cavi coccodrillo ai sensori della touchboard. Collegando poi quest’ultima al cellulare dei pazienti (o ai tablet degli operatori), questi avrebbero potuto pilotare dei videogiochi (controllabili da tastiera) usando la frutta. Tuttavia questa attività, a causa del gesto di infilzare i cavi nella frutta, per due pazienti si è rivelata reminescente degli aghi utilizzati nella terapia, e si è quindi deciso di sostituirla con esercizi diversi.

Un esercizio testato successivamente è stato quello di creare una porzione di pianoforte con l’inchiostro conduttivo per

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poi collegarla alla touchboard e lasciar suonare i pazienti. Questa opzione ha destato interesse solo su chi aveva già predisposizione o interesse nei confronti della musica e, nello specifico, del pianoforte; per questo si è deciso di aggiungere la possibilità di creare una batteria, seguendo lo stesso principio.

L’attuazione di queste attività a letto ha però comportato problemi con l’inchiostro conduttivo, che rischiava di sporcare tutto e non è solidale nelle connessioni con la touchboard come i cavi coccodrillo. Per questo si è deciso di fornire gli operatori di fogli A4 interamente dipinti con inchiostro conduttivo, dal quale i pazienti potessero ritagliare i sensori per poterli collegare, usando i cavi coccodrillo, ai sensori capacitivi della touchboard. Inoltre è stata creata una basetta in legno per fissare la touchboard al pianoforte usando viti m3.

Si è infine deciso di introdurre la registrazione (e play-back) di suoni prodotti dai pazienti, per personalizzare l’attività introduttiva.

BARE CONDUCTIVE - TOUCHBOARD

AREE DI SVOLGIMENTO

Degenza, Day Hospital.

OBIETTIVI DIDATTICI / CHE COSA SI IMPARA

Concetti base di input/output (sensori/attuatori).

Come porre in relazione il mondo reale con il mondo digitale attraverso l’uso dell’elettronica.

Che cos’è una antenna (principi base).

OBIETTIVO PROGETTUALE / CHE COSA SI REALIZZA

Progettare e realizzare un controller per videogiochi attraverso l’uso di vernice conduttiva o oggetti comuni (metallici e/o contenenti acqua) e la scheda touchboard, per agire su semplici videogiochi da controllare a tastiera (per esempio Super Mario, Flappy Bird ecc.) con il proprio smartphone.

Produrre e realizzare una tastiera e/o una batteria con vernice conduttiva e touchboard.

SYLLABUS GENERICO / QUAL È LA SEQUENZA DI ATTIVITÀ DELL’UNITÀ

— Touchboard intro: che cos’è e come funziona. — Prime prove relazione suono-sensore. — Scelta dell’attività (videogioco, pianoforte, batteria). — Realizzazione sensori capacitivi. — Test.

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RISORSE WEB AGGIUNTIVE

Utili per cominciare:

Manuale →

Touchboard: mouse e tastiera

Link 1 →

Link 2 →

Link 3 →

Interfacce midi:

Link →

STRUMENTI SW NECESSARI

— Arduino IDE — Videogame controllabili da tastiera a scelta tra: Flappy bird, Crossy Road, Crazy Taxi, Super Mario, Alsphalt 8.

— Piano app — Soundtrap (webapp)

STRUMENTI HW NECESSARI

— Tablet (che legga chip OTG per far funzionare mouse e tastiere)

— Touchboard (o altri microprocessori per prototipazione)

CRITICITÀ E FATTIBILITÀ TECNICA

La disponibilità e stabilità della rete internet è fondamentale.

COMPETENZE RICHIESTE AGLI OPERATORI

— Capacità di utilizzo e interpretazione di base del codice e della IDE Arduino.

— Competenze di elettronica di base (sensori, attuatori, interfacciamento midi).

— Conoscenze di base sull’uso della vernice conduttiva.

MATERIALI

Kit operatore

— carta — frutta — tablet — cavo OTG microUSB-USB femmina — cavo USB C-USB femmina — cavo USB-microUSB — touchboard — cavi coccodrillo — cavi jumpers — forbici — clip — pinzette — adattatore microSD-USB — inchiostro conduttivo — pennelli e straccetti per pulizia — nastro di rame adesivo — computer

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3. Codix. Programmazione a blocchi e robotica

Diciamocelo, gli hacker e i programmatori sono i maghi del nostro tempo. Chi non vorrebbe essere in grado di parlare quel linguaggio pieno di lettere e numeri, e di far muovere il mondo dal proprio computer? Impossibile, direte voi, bisogna essere dei geni. Beh, non se avete Codix come amico. Se non lo conoscete vi raccontiamo la sua storia e l’esperienza di Stefano (15 anni).

Stefano pensava che il coding fosse una cosa difficile, di quelle che solo gli adulti possono capire. Come suo fratello maggiore, che a scuola già si destreggiava tra computer e robot. Lui invece aspettava con ansia di essere grande abbastanza per andare alle superiori e cominciare ad apprendere tutti i segreti che il fratello non voleva rivelargli. Un giorno, in Day Hospital, gli presentammo Codix, il nostro laboratorio di easy logic coding. Gli spiegammo che «da un grande potere derivano grandi responsabilità» e che quindi, prima di rivelargli i segreti più profondi di Codix, avrebbe dovuto superare delle prove. Lo portammo nel mondo di Blockly per affrontare videogiochi sempre più difficili a mano a mano che avanzava di livello. Si allenò duramente fin quando i videogiochi e il coding non ebbero più segreti per lui. Era pronto: come un Jedi cui si dona la spada laser, Stefano poteva ora conoscere il braccio destro di Codix, il piccolo Ozobot. Non fatevi imbrogliare dal suo aspetto buffo e tenero: Ozobot è un robot dalle mille capacità, a volte però un po’ dispettoso, e va controllato con fermezza. Ma che cosa fargli fare?

Fu allora che Stefano ebbe un’idea grandiosa. Gironzolando per la stanza, cominciò a raccogliere strani oggetti, distribuirli nello spazio, montarli tra loro. Ed ecco la grande fantasia di Stefano: un percorso per far giocare Ozobot!

Imparare facendo, è questo che rende Codix così divertente. Perché la programmazione a blocchi non è un mistero, ma un facile mezzo da acquisire per aprire le porte alla robotica educativa. Stefano voleva scoprire i segreti del fratello, ma con Codix è riuscito a fare molto di più: con la curiosità e la logica ha trovato un modo divertente di usare Ozobot, capendo non solo come funziona, ma anche come sfruttare l’ambiente dell’ospedale a proprio vantaggio. Con Stefano abbiamo potuto osservare le meraviglie del pensiero computazionale in atto. E non c’è stato bisogno di diventare hacker (o di essere adulti) per riuscirci.

ATTIVITÀ

La programmazione a blocchi è un modo intuitivo per approcciarsi ai concetti di logica e programmazione attraverso la combinazione di blocchi grafici che possono rappresentare azioni, variabili, sensori, attuatori e tanto altro ancora. In quanto strumento open source, Blockly è uno dei più diffusi editor di programmazione a blocchi e può generare codice in diversi linguaggi. In questo caso è stato usato per scrivere in Javascript.

Durante l’attività i pazienti imparano le basi di Blockly attraverso i tutorial offerti dalla piattaforma stessa, per poi passare a Ozoblockly, un editor customizzato per funzionare con Ozobot, un piccolo robottino che può essere controllato (movimento e luce) attraverso line following o codice a blocchi (caricato direttamente attraverso lo schermo del tablet o del computer).

Non potendo lavorare su un percorso a mappa a causa del fatto che Ozobot tende a destra, inizialmente l’attività

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LaboratoriCapitolo 2

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prevedeva un’esplorazione libera dell’editor di Ozoblockly. Questo approccio si è però rivelato poco attraente per i partecipanti, che non avendo un obiettivo progettuale non erano motivati. Inoltre era difficile spiegare loro il collegamento tra l’interfaccia grafica e la programmazione che nasconde.

Per sopperire a tali problematiche si è quindi deciso di aggiungere degli esercizi basati su delle liste di istruzioni da trasformare in blocchi, in modo da fornire uno scopo ai ragazzi. Un esercizio inoltre prevedeva di tradurre uno script semplice di Javascript in blocchi. Questi cambiamenti nella struttura dell’attività si sono rivelati efficaci e hanno creato un rinnovato interesse nei partecipanti (si veda l’Appendice).

AREE DI SVOLGIMENTO

Degenza, Day Hospital e Centro Trapianti.

OBIETTIVI DIDATTICI / CHE COSA SI IMPARA

Principi di logica e programmazione a blocchi del tipo «click and drag».

OBIETTIVO PROGETTUALE / CHE COSA SI REALIZZA

Programmazione del robot Ozobot tramite il linguaggio Blockly.

SYLLABUS GENERICO / QUAL È LA SEQUENZA DI ATTIVITÀ DELL’UNITÀ

— Introduzione alla programmazione e la sua ubiquità. Introduzione alla programmazione a blocchi.

— Introduzione ai tutorial di Blockly e svolgimento dei primi 5-10 esercizi.

— Portare il codice nel mondo reale con Ozo-Blockly tramite esercizi guidati ed esplorazione libera.

RISORSE WEB AGGIUNTIVE PER CHI HA GIÀ SVOLTO L’ATTIVITÀ

Move with code in Minecraft, flappy bird, hungry birds, zombie vs plants:

https://studio.code.org/s/mc/stage/1/puzzle/1

https://studio.code.org/flappy/1

https://studio.code.org/hoc/1

https://studio.code.org/s/course3/stage/2/puzzle/1

Code your videogame (per chi vuole aumentare la difficoltà):

http://make.gamefroot.com

Make your own music (for girls):

Music mixer →

Drumming →

STRUMENTI SW NECESSARI

— Blockly — Ozoblocky

STRUMENTI HW NECESSARI

— Tablet (con schermo che non usi PMW e grande almeno 8«) — Ozobot

CRITICITÀ E FATTIBILITÀ TECNICA

Il passaggio di comprensione dal blocco grafico al codice contenuto (Javascript) può essere difficile da capire per i più piccoli.

Il robottino Ozobot è poco soddisfacente per i ragazzi più grandi, che si dovranno focalizzare sulla programmazione.

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LaboratoriCapitolo 2

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COMPETENZE RICHIESTE AGLI OPERATORI

Competenza dei principi di logica, ciclo, variabile e funzione, propri della programmazione. Preparazione avanzata nell’uso specifico dei blocchi di codice presenti in Blockly. Comprensione di base di Javascript.

MATERIALI

Kit operatore

— carta e pennarelli per la funzione line following — istruzioni e soluzioni stampate — tablet — Ozobot — powerbank

EDITOR OZOBLOCKLY

4. Eye-Oh! Disegno vettoriale e visori VR

Marco (13 anni), Luca (16 anni), Andrei (11 anni) e Gianandrea (16 anni) sono stati in posti incredibili. Alcuni hanno volato, altri sono stati nello spazio, altri ancora sott’acqua… È bastato veramente poco e non si sono spostati dal letto.

Prendete del cartone, piegatelo, aggiungeteci delle lenti tridimensionali e immergetevi nella realtà virtuale. Non è fantascienza, ma Eye-oh!, il robottino che ha mostrato ai nostri giovani maker le mille potenzialità del VR cardboard.

Marco è stato per la prima volta sulle montagne russe.

Gianandrea ha fatto un giro sotto la tour Eiffel.

Luca ha spiccato il volo, volteggiando tra le stelle.

Andrei ha nuotato con le balene.

Sono state esperienze uniche, che non avevano mai vissuto prima.

La meraviglia più grande nasce dalla possibilità di vivere queste esperienze attraverso oggetti creati con le nostre mani. I ragazzi hanno costruito e decorato il proprio visore utilizzando una sagoma di cartone e adesivi in vinile disegnati da loro. Una volta indossato il visore, il mondo intorno sparisce e improvvisamente si cammina per le strade affollate di New York, finché non si comincia a fluttuare nel cielo. Ed è possibile percepirlo nel proprio corpo, quel momento di suspense prima della discesa dalle montagne russe, o il canto magico delle balene, con il rumore ovattato del mare nelle orecchie.

La realtà aumentata fornisce un’opportunità unica per esplorare le frontiere della tecnologia e delle nostre impressioni. Non per dimenticare il luogo in cui siamo, ma per tornarci con un nuovo stupore negli occhi.

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LaboratoriCapitolo 2

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ATTIVITÀ

I partecipanti vengono introdotti al disegno vettoriale attraverso un software per disegnare liberamente e scrivere testi su tablet. Si spiegano le differenze tra un file vettoriale e un file raster e la casistica in cui è preferibile utilizzare uno o l’altro tipo. Si prende dimestichezza con il software e si passa all’ideazione di un elaborato grafico monocromo che diventerà uno sticker da applicare su un supporto (cover cellulare, laptop) scelto dal ragazzo. Il file verrà esportato in formato .svg e condiviso su una cartella Dropbox dedicata. A questo punto un operatore procede al taglio su vinile adesivo del colore scelto e durante la lavorazione illustra le caratteristiche della macchina. Si spiega come eseguire l’applicazione del vinile sul supporto mediante pellicola transfer.

Il partecipante potrà allora procedere ad assemblare il visore di cartone o polipropilene. Si fa notare che anche lo sviluppo del visore è ottenuto da un disegno vettoriale, ma tagliato con un macchinario a laser, il cui funzionamento viene brevemente descritto. Durante il montaggio si introducono nozioni di ottica per spiegare il corretto posizionamento delle lenti e si spiega il funzionamento del «pulsante» magnetico. Si scarica l’app Google Cardboard e si imposta tramite codice QR il modello di cellulare che verrà utilizzato. Si procede poi all’esplorazione di diverse app educational legate alla realtà virtuale. Esiste una grande varietà di applicazioni gratuite che possono andare incontro a diversi interessi. È inoltre possibile registrare sul posto delle riprese a 360 gradi da rivedere o condividere.

Il modulo è suddiviso in due fasi ben distinte: la prima riguardante il disegno vettoriale e il taglio vinile, la seconda incentrata sulla realtà virtuale. In relazione allo stato di salute e all’interesse dei partecipanti alcune volte si può

scegliere di eseguire solo una parte del laboratorio.

La sperimentazione diretta della realtà aumentata genera sempre grande entusiasmo e di conseguenza distrazione; è bene quindi tenerla come fase conclusiva del laboratorio e, se possibile, non invertire le due fasi.

GOOGLE CARDBOARD

AREE DI SVOLGIMENTO

Degenza, Day Hospital e Centro Trapianti.

OBIETTIVI DIDATTICI / CHE COSA SI IMPARA

Principi di disegno vettoriale.

Conoscenza base di piattaforme di realtà virtuale su cellulare.

OBIETTIVO PROGETTUALE / CHE COSA SI REALIZZA

Costruire e personalizzare, con adesivi tagliati su un plotter da taglio, un visore VR per il proprio telefono, da usare con una serie di app selezionate.

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LaboratoriCapitolo 2

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SYLLABUS GENERICO / QUAL È LA SEQUENZA DI ATTIVITÀ DELL’UNITÀ

— Ai pazienti viene spiegato che cos’è il disegno vettoriale e in cosa differisce dai pixel.

— Introduzione al software e agli strumenti di base. — I partecipanti tagliano gli adesivi da loro disegnati e assemblano il visore.

— Ai pazienti viene data una lista di risorse da esplorare con lo smartphone e il visore appena creato.

RISORSE WEB AGGIUNTIVE

Vedi appendice III per risorse VR.

STRUMENTI SW NECESSARI

Android: Infinite Design. iPad, Mac, Windows: 123d Design.

STRUMENTI HW NECESSARI

Tablet (che legga chip OTG per far funzionare il mouse) Mouse Vinyl cutter

CRITICITÀ E FATTIBILITÀ TECNICA

Non tutti i pazienti (o i loro genitori) possiedono uno smartphone moderno: in tal caso i partecipanti rimangono con un visore, ma non hanno modo di usarlo. Compatibilità software multipiattaforma (Android, Apple, Windows).

COMPETENZE RICHIESTE AGLI OPERATORI

Disegno vettoriale. Operatività e manutenzione vinyl cutter (con pennarelli e cutter).

MATERIALI

Kit partecipante Degenza & Day Hospital — 1 visore in cartoncino da montare — 2 lenti biconvesse — 1 magnete al neodimio ad anello — 1 magnete in ferrite a disco — 0.5 m di velcro adesivo — 1 elastico di gomma colorata — 1 rotolino di scotch di carta colorata (decorativo) — lista di risorse app VR

Kit partecipante Centro Trapianti — 1 visore in pp da montare — 2 lenti biconvesse — 1 magnete al neodimio ad anello — 1 magnete in ferrite a disco — 0.5 m di velcro adesivo — 1 elastico di gomma colorata — lista di risorse app VR

Kit operatore — plotter da taglio — tablet — mouse — rotolo di vinile adesivo — adesivo di trasferimento — magneti — lenti — velcro — pinzette per pulire gli adesivi — forbici — cancelleria varia — visori extra da montare

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LaboratoriCapitolo 2

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5. Preent. Modellazione e stampa 3D

Avete presente 2001: Odissea nello spazio e il misterioso monolite nero che porta all’uomo la forza creatrice e la capacità d’innovazione? Ora immaginate la nostra stampante 3D, una scatola nera piena di potenzialità misteriosa, proprio come quel monolite.

Verrebbe da pensare che con una macchina del genere non ci sia più spazio per la creatività e la manualità umana. Ma sarebbe un errore.

Quando Preent ha portato la nostra stampante 3D in Ospedale, si è aperto uno spazio fascinoso in cui coltivare la curiosità e la fantasia. Ylenia (17 anni) per esempio non si è accontentata di vedere la stampante in funzione e di ordinarle di produrre un oggetto scelto da un catalogo di possibilità. Si è creata la sua possibilità da sola.

Nel mondo degli adolescenti sappiamo che la musica ha un ruolo fondamentale, ma quanto è fastidioso perdere tempo a sbrogliare i cavetti delle cuffie! Ylenia ha preso ispirazione dal catalogo per poi progettare un avvolgi-cuffie con la forma del suo animale preferito, un gatto spaparanzato. Lo ha disegnato a mano, lo ha trasferito sul computer e solo dopo averne perfezionato ogni parte ha lasciato alla stampante 3D il compito di produrlo. In questo modo Ylenia è diventata designer per sé stessa.

ATTIVITÀ

L’attività prevedeva la personalizzazione di un padiglione amplificatore per uno speaker, che i partecipanti avrebbero poi assemblato con l’elettronica necessaria per farlo suonare. Una volta ottenuta una stampante 3D ci siamo però resi conto

che i tempi di stampa necessari per ultimare uno speaker superavano di molto il tempo a disposizione. Si è quindi passati a un esercizio più libero che permettesse ai pazienti di scaricare un oggetto da Thingiverse per poi modificarlo, ma anche questo approccio si è rivelato fallimentare per la mancanza di un vero obiettivo progettuale che motivasse i pazienti e per la scelta di oggetti spesso inutili o difficili da stampare.

Si è quindi deciso di proporre sempre una piccola sfida progettuale. In alcuni casi si può decidere di integrare una componente funzionale a oggetti già esistenti, aggiungendo per esempio un manico, una base o un occhiello. In altri casi invece si può partire dalle necessità espresse dal ragazzo per progettare da zero un oggetto o strumento personalizzato da utilizzare nella quotidianità.

I partecipanti vengono introdotti alla modellazione attraverso alcuni esercizi per imparare a muoversi nella vista prospettica, spostare oggetti, modificarne la scala, eseguire somma e differenza booleana. Si prosegue con un ragionamento sulla tipologia di oggetto su cui si desidera lavorare e parallelamente si effettua una ricerca online sull’esistente, per prendere ispirazione e confrontare i risultati della ricerca con le proprie necessità. Si passa quindi all’ideazione di un concept e alla sua rappresentazione su carta, per comprendere meglio la forma e il volume che l’oggetto finale dovrà avere.

In ultimo si effettua la modellazione sul software open source Thinkercad oppure 123D Design, se il ragazzo ha capacità più avanzate o il modello presenta un grado di complessità superiore. Una volta terminato il modello si passa a Z-Suite, il programma dedicato per i settaggi di stampa, e infine l’oggetto

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LaboratoriCapitolo 2

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viene stampato.

Durante la stampa si spiega il funzionamento della tecnologia FDM e si descrivono le componenti principali della macchina. Quando è possibile si consegna l’oggetto finito. Se il tempo per stampare non è sufficiente, i file vengono stampati in remoto e consegnati la settimana successiva.

ZORTRAX 3D PRINTER

AREE DI SVOLGIMENTO

Degenza, Day Hospital

OBIETTIVI DIDATTICI / CHE COSA SI IMPARA

Principi di modellazione 3D.

Principi di stampa 3D.

OBIETTIVO PROGETTUALE / CHE COSA SI REALIZZA

Progettare e stampare in 3D un oggetto personalizzato utile nel quotidiano (per esempio un avvolgiauricolari, un portachiavi, un oggetto libero).

SYLLABUS GENERICO / QUAL È LA SEQUENZA DI ATTIVITÀ DELL’UNITÀ

— Ai pazienti si spiega che cos’è la modellazione 3D e la stampa 3D di tipo FDM (fused deposition modeling). Introduzione al software (Tinkercad) e agli strumenti di base.

— Introduzione al disegno 3D attraverso alcuni esercizi per imparare a muoversi nella vista prospettica, spostare oggetti, modificarne la scala, eseguire somma e differenza booleana.

— Si carica un premodello da modificare oppure si disegna un modello da zero (per i più grandi o con conoscenze pregresse); nel secondo caso si esegue una parte di ricerca su internet e progettazione su carta per poi passare alla realizzazione del modello nel momento in cui tutti i dettagli dell’oggetto risultano definiti.

— Ai pazienti viene mostrato come vengono caricati i file sulla stampante 3D e l’inizio della stampa. Gli oggetti stampati che finiranno oltre la durata del workshop potranno essere recuperati dai pazienti (o dai loro genitori) tramite gli operatori UGI.

RISORSE WEB AGGIUNTIVE

www.thingiverse.com

STRUMENTI SW NECESSARI

Tinkercad 123D design

STRUMENTI HW NECESSARI

Stampante 3D Computer

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LaboratoriCapitolo 2

106 107Report del primo anno di progetto

CRITICITÀ E FATTIBILITÀ TECNICA

L’esercizio ha bisogno di un computer portatile, poiché i tablet nella media non sono abbastanza potenti per gestire la modellazione 3D e le interfacce da mobile non sono abbastanza ottimizzate.

COMPETENZE RICHIESTE AGLI OPERATORI

Modellazione 3D (nurbs e mesh).

Operatività e manutenzione stampante 3D con tecnologia FDM.

MATERIALI

Kit operatore

— computer — stampante 3D + strumenti di manutenzione e pulizia — filamenti per stampante 3D

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

108 109Report del primo anno di progetto

CAPITOLO 3

Analisi dell’operatività

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

110 111Report del primo anno di progetto

III. Analisi dell’operatività

Prima di presentare gli esiti della somministrazione del questionario, di seguito sono riportati alcuni dati generali sulle attività svolte dal progetto Robo&Bobo.

Sono stati implementati 185 laboratori con 96 pazienti.

Adolescenza 14-17

Pre-adolescenza 10-13

Infanzia 6-9

29%

39%

32%

I minori coinvolti hanno un’età media di 11 anni e mezzo e sono suddivisi equamente in tre fasce: infanzia dai 6 ai 9 anni, preadolescenza dai 10 ai 13 anni, adolescenza dai 14 ai 17 anni.

Si noti come un terzo dei partecipanti presenti un’età inferiore rispetto al target di riferimento del progetto. Ciò può dipendere dalla complessità del contesto in esame, in quanto risulta complicato operare una selezione e un diniego di fronte alle richieste dei genitori di inserire il proprio figlio nel progetto anche se al di fuori del range di età predisposto. Di fronte a tali situazioni, da parte degli operatori sono state messe in opera strategie che consentano di mediare tra la partecipazione di bambini di età inferiore e il rischio, da parte degli adolescenti, di sentirsi infantilizzati: in alcuni casi, per esempio, ai bambini è stato assegnato il ruolo di «aiutanti» dell’operatore, mentre gli adolescenti svolgevano la normale attività laboratoriale.

«Un ragazzo di 9 anni con uno di 15: c’è un mondo in mezzo... Non li puoi fare lavorare insieme perché il ragazzino di 15 anni si sente un po’ come riportato indietro, ma se tu fai partecipare il ragazzo più piccolo come tuo assistente, l’altro ragazzo si sente più grande, e questo ostacolo si sorpassa» (operatore n. 4).

«Era complicato capire come inserire ragazzi più piccoli senza svalutare il laboratorio agli occhi dei ragazzi più grandi: abbiamo discusso tanto su come risolvere queste situazioni. In alcuni casi abbiamo deciso di inserire i ragazzi più piccoli come aiutanti, come piccole mascotte… In altri casi abbiamo fatto i laboratori privilegiando il target del progetto da 10 anni in su, mentre dopo, se c’erano tempo e richieste, si elaborava una versione semplificata per i più piccoli» (operatore n.1)

Si può contare una lieve maggioranza di maschi rispetto alle femmine coinvolte nei laboratori: 55% rispetto al 45%.

Femmine

Maschi55%45%

Dall’elaborazione dei dati inseriti è stato possibile estrapolare le informazioni sulla distribuzione dei pazienti partecipanti ai laboratori nei diversi reparti.

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

112 113Report del primo anno di progetto

Trapianti

Isola della Margherita

Day Hospital

Degenza

38%

59%

2%1%

Per quanto possibile, nonostante le difficoltà nel monitorare i percorsi dei pazienti coinvolti, si è preso nota degli eventuali abbandoni e delle assenze ai laboratori da parte dei ragazzi. La maggior parte di questi abbandoni sono causati dall’uscita dalla condizione ospedaliera dei pazienti, mentre in alcuni casi è dovuta a un aggravamento delle condizioni di salute, evidenziata anche dal passaggio dal Day Hospital alla Degenza.

Non sono stati registrati casi in cui il rifiuto sia stato manifestato per disinteresse o per altre motivazioni legate direttamente ai laboratori.

1. I PAZIENTI

L’intento del questionario era di far emergere non solo gli esiti e le valutazioni del progetto da parte dei pazienti, ma anche se questi esiti subivano variazioni in base ad alcune variabili di controllo (età, livello di istruzione). Obiettivo, questo, che a valle risulta non raggiunto per l’esiguità del campione raccolto.

Nei prossimi paragrafi saranno esposti i risultati derivanti dall’elaborazione dei dati ottenuti dai questionari somministrati ai pazienti, così da restituire un primo sguardo su quanto raccolto e sulle informazioni che si potranno raccogliere in futuro.

Le risposte aperte sono state ritenute non indicizzabili e non elaborabili quantitativamente. La scelta è stata quella di trattarle come materiale qualitativo in senso stretto, dunque di trascriverle integralmente e di riportarle come citazioni dirette e anonime all’interno del testo, per restituire punti di vista soggettivi e opinioni dei pazienti.

Nella prima e nell’ultima parte del questionario è posta una serie di domande che cerca di cogliere alcune variabili e informazioni sui pazienti, utili a corredare i profili degli stessi anche in relazione alle tematiche centrali del questionario. Al paziente viene chiesto, per esempio, se anche nel contesto privato casalingo possieda o abbia accesso ad alcuni supporti tecnologici, utili per proseguire le attività in modalità autonoma.

Il primo grafico si riferisce al possesso di smartphone e tablet, mentre il secondo riguarda il personal computer.

1. «Hai la possibilità di utilizzare uno smartphone o un tablet a casa?»

Tablet

Nessuno dei due

Entrambi

Smartphone

11,1%

88,9%

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

114 115Report del primo anno di progetto

2. «Hai la possibilità di utilizzare un pc a casa?»

No

11,1%

88,9%

Un ulteriore esempio di questa tipologia di domanda è quella volta a raccogliere informazioni circa la scuola frequentata dai pazienti. Come mostra il grafico corrispondente, quasi la metà dei ragazzi frequenta la scuola Media Superiore (44%), circa un terzo la scuola Media Inferiore (33%), l’11% le scuole elementari. Possiamo affermare che la risposta evidenziata dall’etichetta «ragioneria» (11%) possa essere ragionevolmente ricondotta alla categoria delle scuole superiori, supponendo una non piena comprensione della domanda.

3. «Che scuola frequenti?»

Ragioneria

Scuola Media Superiore

Scuola Media Inferiore

Scuola elementare

11,1% 11,1%

33,3%44,4%

LA DIMENSIONE EDUCATIVA

Data la complessità della dimensione educativa, si è rivelata necessaria la costruzione di un set di domande sulle attività svolte utili a far emergere, tra i pazienti, opinioni e punti di vista che mettessero in luce le potenzialità e il valore didattico del progetto in esame.

La domanda di apertura della sezione permette di conoscere a quali e quante attività laboratoriali i minori hanno partecipato.

4. «A quali laboratori hai partecipato?»

Cir-Cut 44,4%

Eye-oh 77,8%

Joy-bit 66,7%

Codix 44,4%

Preent 66,7%

Invitati a esprimere una preferenza, in scala da 1 a 5, sui laboratori frequentati, i pazienti si sono espressi in maniera congrua: per tutti i laboratori la moda delle risposte è 5, tranne che per Joy-bit, il cui valore più alto assegnato è 4.

In seguito è stato chiesto ai ragazzi di indicare il laboratorio che avevano preferito, oltre a un piccolo contributo qualitativo che motivasse la scelta. Di seguito riportiamo integralmente le riposte.

« Cir-cut, perché oltre a essere quello che mi è venuto meglio, mi ha divertito di più farlo e capire come collegare.»

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

116 117Report del primo anno di progetto

« Mi è piaciuto il visore perché con quello sembra di stare in un altro posto.»

« Mi è piaciuto di più Cir-cut, per i braccialetti e il rame conduttore. Anche gli altri però mi sono piaciuti moltissimo.»

« Stampa 3D: ero già predisposta per la scuola che frequento e mi interessava.»

« Codix, perché l’ho trovato il più divertente e costruttivo.»

« Eye-oh, perché ho visto dei video bellissimi come ci fossi dentro.»

In merito alla domanda atta a misurare una serie di possibili funzioni dei laboratori, possiamo rilevare che i pazienti indicano che le attività sono, per loro, un momento di divertimento e di svago, un’occasione per rilassarsi e stimolare la curiosità; inoltre la totalità del campione concorda nel dissentire che i laboratori siano troppo impegnativi e stancanti.

Poiché la domanda riguardava anche la dimensione del rapporto con il contesto ospedaliero, è possibile affermare che i pazienti sottolineano sia la valenza educativa sia quella ricreativa, e la capacità di migliorare la permanenza nel luogo di cura.

Sempre al fine di valutare se i laboratori fossero in grado di stimolare l’interesse verso le attività proposte, da un lato, e dall’altro di fornire alcune competenze tecnologiche di base per svolgere autonomamente tali attività, è stato chiesto ai ragazzi se avessero avuto occasione e possibilità di approfondire da soli le tematiche dei laboratori. Si può dare su entrambi gli obiettivi una valutazione discretamente positiva, come evidenziato dai grafici sottostanti.

5. «Ti è capitato di continuare i laboratori da solo?»

Sì, mi è capitato per divertirmi quando sono solo

Sì, mi è capitato più volte

Sì, mi è capitato una volta

No, avrei voluto ma non riuscivo da solo

No, vorrei ma non ho avuto occasione/possibilità di tempo e strumenti

No, non mi interessa

11,1%11,1%

11,1%11,1%

22,2%33,3%

5. «Quale laboratorio hai svolto da solo (o avresti voluto farlo)?»

Cir-Cut 25%

Eye-oh 50%

Joy-bit 25%

Codix 12,5%

Preent 25%

I pazienti hanno poi dichiarato di non aver mai svolto attività simili in precedenza, nemmeno in ambito scolastico, e dopo averle provate la totalità del campione concorda sull’utilità di inserire questi laboratori anche nel contesto di istruzione.

Uno degli obiettivi specifici del progetto, per quanto concerne la dimensione educativa, riguardava la possibilità di fornire strumenti per sviluppare un iter autonomo di conoscenza. Dalle osservazioni è emerso uno sviluppo del percorso svolto dai pazienti, in relazione al progressivo adattamento delle strategie adoperate dagli operatori, anche grazie ai consigli forniti dalla psicologa e dall’antropologa.

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

118 119Report del primo anno di progetto

Nella fase finale del progetto, poi, è stato possibile notare come l’intenzione di stimolare la competenza progettuale nel paziente sia stata una scelta vincente, accolta con entusiasmo. Progettare infatti è un’attività di controllo che permette di comprendere se le competenze sono state acquisite e di declinarle in senso pratico, dando ai pazienti autonomia, ma con un metodo, per non farli sentire persi. Sono stati presi come riferimento i pazienti che hanno svolto quasi tutti i laboratori in maniera abbastanza continuativa, in un lasso di tempo relativamente ampio (più di un mese) e in grado di esprimere una preferenza sulla base di un confronto tra l’attività com’era stata progettata inizialmente e la stessa attività riprogettata.

Il grafico racconta la storia dell’operatività (come si è evoluta, quali erano le strategie all’inizio del progetto e come si è sviluppato in seguito) e allo stesso tempo il percorso che gli operatori hanno svolto assieme ai ragazzi.

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

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Nel caso di Ozobot, per esempio, M. (13 anni) inizia l’attività comprendendo le istruzioni date dall’operatrice (con cui ha un rapporto già instaurato, fattore determinante per il modo in cui viene svolta attività); riesce a svolgere ogni esercizio in maniera autonoma e progressiva, e conclude il laboratorio esprimendo il desiderio di provare a progettare e programmare un percorso in maniera autonoma. Afferma che questo è stato il suo laboratorio preferito.

C. e D. (entrambi 11 anni) sono riusciti a creare i bracciali a LED previsti dall’upgrade di Cir-cut in maniera totalmente autonoma: D. ha assemblato il braccialetto in assenza dell’operatore, spiegando al suo ritorno come avesse fatto, dimostrando di aver compreso i principi elettrici alla base dell’attività, mentre C., una volta tornato a casa, ha creato un bracciale da regalare al fratello, dichiarando: «non ricordavo come lo avevamo fatto in ospedale, ma mi ricordavo cosa mi avevate insegnato e quindi sono andato per logica».

M. (13 anni) ha apprezzato molto l’attività di progettazione di un circuito elettrico; in questo caso non erano disponibili i disegni preimpostati, quindi per comprendere i principi M. e l’operatrice hanno disegnato i circuiti per tentativi, introducendo anche un circuito errato, il che ha reso più semplice la comprensione e la progettazione.

La progettazione e l’insegnamento di un metodo hanno una valenza di riparazione molto forte nella dimensione della malattia, poiché il paziente non è un oggetto passivo di attenzioni, ma è parte del proprio processo di autodeterminazione. Per G. (17 anni) ciò che incide sulla qualità della vita in ospedale è proprio la possibilità di essere riconosciuto come un attore portatore di opinioni e capacità d’azione.

Nelle attività successive si è pensato di progettare con i pazienti oggetti o modelli che potessero essere tramandati ad altri pazienti. Non sono stati raccolti sufficienti dati per avere un’opinione certa dei ragazzi al riguardo, ma alcuni di loro hanno accolto con entusiasmo l’idea: come Y. (16 anni) il cui avvolgicuffie, interamente progettato da lei partendo da uno schizzo su un foglio, è servito d’ispirazione per altri pazienti, o D. (9 anni), che ha affermato: «se volete farne altre, di queste [astronavi], da dare ad altri bambini come avete fatto con l’avvolgicuffie [di Y.], per me va bene!»

LA DIMENSIONE RELAZIONALE

L’intento di un’altra sezione di domande del questionario è quello di comprendere se Robo&Bobo sia in grado di attivare relazioni sociali all’interno dell’ambito ospedaliero e di aiutare il mantenimento di relazioni con l’esterno nel gruppo dei pari (amici, compagni di scuola).

«Il nostro intento, emerso parlando con psicologa, è stato quello di fare un po’ gruppo, perché nel gruppo ci si diverte di più e si sviluppa anche un po’ di sana competizione: “quello lo sta facendo quindi lo faccio”, “Lo fa bene allora ci provo anche io”» (operatore n.4).

Il laboratorio, a detta degli operatori, si è rivelato nel corso del tempo un buon catalizzatore delle relazioni tra i pazienti all’interno dell’ospedale.

«All’inizio vedevamo che i ragazzi non volevano socializzare molto tra loro… Per loro la malattia è un momento difficile della vita e prendersi anche il rischio di qualcun altro, diventare amici di qualcuno

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

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che possono perdere o magari che gli ricorda questo momento, è difficile. Non abbiamo mai notato nessuno che fosse amico di un altro all’inizio, o almeno era quello che pensavamo. Quindi si facevano attività singole. Poi verso gli ultimi mesi la situazione è cambiata tantissimo… Ci sono alcuni ragazzi che si conoscono molto bene, si scrivono, ordinano la pizza. È capitata una volta che c’erano due o tre ragazzi adolescenti in Degenza, nella sala comune, e al posto di fare il laboratorio ci siamo messi a parlare, erano interessati a parlare con noi, a socializzare, ed è giusto così: i laboratori sono un mezzo per fare rete» (operatore n.3).

I canali d’informazione per l’accesso ai laboratori risultano variegati; inoltre sembra che i pazienti parlino tra loro di questo progetto e si generino dinamiche di interesse fra i gruppi di ospedalizzati. Complessivamente, la totalità del campione afferma che consiglierebbe le attività cui ha partecipato ad altri ragazzi in cura.

7. «Hai consigliato Robo&Bobo a qualche altro ragazzo/a del reparto?»

No

33,3%

66,7%

Risulta minore invece il contenuto relazionale rispetto alle reti esterne: solo 1/3 degli intervistati afferma di aver condiviso la personale esperienza dei laboratori con amici e compagni di scuola. È possibile immaginare la difficoltà, per minori in tali condizioni, di comunicare a persone esterne sia l’esperienza della malattia, sia ciò che avviene nel contesto ospedaliero, per quanto non direttamente collegato al processo di cura. Inoltre è possibile ipotizzare una frequenza scolastica discontinua dovuta alle condizioni di salute, motivo di allentamento o rottura di alcuni legami.

La questione dell’isolamento e della socialità è stata particolarmente pregnante nell’osservazione delle attività. I pazienti si sentono isolati, ed è una sensazione che si rivolge verso l’esterno, mentre all’interno dell’ospedale è una condizione che costruiscono loro stessi.

All’inizio il progetto e la buona volontà degli operatori non sono riusciti a creare interazioni tra i pazienti, anzi spesso, soprattutto in Degenza, la possibilità di scegliere tra rimanere in camera con l’operatore o condividere il lavoro con altri pazienti in sala adolescenti era una determinante della partecipazione. Anche in Day Hospital, quando più pazienti collaboravano, l’interazione si limitava all’attività ed era quasi minima.

Un cambiamento significativo si è rilevato verso l’ultimo mese di attività grazie a un paziente in particolare, G. (17 anni): «sono 10 anni che entro ed esco da qui, ed è come fosse casa mia. Capisco che gli altri vogliano credere fermamente che lo stare qui sia temporaneo, ma isolarsi, chiudersi in camera e non fare amicizia, secondo me, quando stai tanto male, ti fa stare ancora peggio. Allora, se posso fare qualcosa per gli altri, dato che ho più esperienza ci provo. E stare in compagnia è fondamentale». Oltre che da uno stato di salute psicofisico

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

124 125Report del primo anno di progetto

migliore e cure meno invasive, l’ingresso di G. nel progetto non è stato determinato da un interesse reale verso le attività, né da tecniche persuasive degli operatori (per mesi ha sempre declinato l’invito a partecipare), ma da un’altra dimensione importante, ovvero la presenza di operatori giovani.

Le strategie da loro sviluppate per coinvolgere i pazienti e i consigli della psicologa e della pedagogista sono stati fondamentali per creare buone e positive relazioni con i ragazzi: non si è registrato nemmeno un caso di abbandono dell’attività a causa dei metodi educativi, e anzi questi sono serviti per consolidare la partecipazione. Per G. potersi relazionare con persone giovani ed esterni al contesto di cura lo faceva sentire «compreso». Grazie alla sua collaborazione e a tutte queste dinamiche verso la fine delle attività si è registrata una maggiore apertura e disponibilità da parte di altri pazienti adolescenti ricoverati in Degenza, che hanno espresso la volontà di continuare i laboratori e di lavorare in gruppo.

LA DIMENSIONE CONTESTUALE

Con il seguente set di domande l’équipe di ricerca ha tentato di cogliere le impressioni dei pazienti sul progetto Robo&Bobo e su altre attività offerte in ospedale e calibrate sullo stesso target, anche in ottica comparativa. In generale, il 66% dei minori dichiara di aver partecipato ad attività diversi dal progetto in esame (nello specifico arti marziali, circo, shiatsu, Dynamo Camp e lavorazione della creta). Le preferenze, rispetto a queste altre attività, non risultano essere molto significative, in quanto non tutti ne hanno svolta più di una.

8. «In ospedale, hai partecipato ad altri laboratori/attività oltre a quelli Robo&Bobo?»

No

33,3%

66,7%

È stata posta infine una domanda volta a indagare, anche in questo caso, la percezione dei minori sulle possibili funzioni delle attività in senso lato (non solo Robo&Bobo) svolte all’interno dell’ospedale.

Invitati a indicare una preferenza (in scala da 1 a 5), tutti i pazienti intervistati ritengono che siano «un modo per sconfiggere la noia» ed esprimono giudizi molto positivi (tra il 4 ed il 5), perché «oltre a passare il tempo acquisisco competenze utili e mi sento stimolato». La quasi totalità del campione dichiara di non aderire solo per mancanza di attività alternative incentrate su ambiti diversi o più interessanti, né ritiene che siano attività inutili

Interrogati a esprimere, invece, se l’offerta di modi per passare il tempo in ospedale sia adeguata, gli intervistati si distribuiscono sull’intero spettro di alternative possibili manifestando opinioni diverse.

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

126 127Report del primo anno di progetto

Durante la ricerca di campo è stato possibile catalogare le principali problematiche legate all’ospedalizzazione cui le attività sono riuscite a rispondere o possono farlo in futuro. In primo luogo l’attesa e la noia, entrambe evidenti in pratiche differenti sia in Day Hospital sia in Degenza. M. (13 anni), che ha svolto tutti i laboratori e ha sempre mostrato interesse e coinvolgimento, ha più volte raccontato come in Day Hospital non ci fosse assolutamente nulla da fare: «La parte peggiore dello stare qui è che ti annoi e il tempo non passa più». Diversi genitori hanno dichiarato di apprezzare il contributo delle attività nel superare la noia, che rende i ragazzi e i bambini irritabili e poco collaborativi. La mamma di V. (5 anni): «Il bambino viene più volentieri se sa che c’è qualcosa da fare: anche se dobbiamo stare solo qualche ora, tra il viaggio e la noia, si stanca, si irrita... Ora mando delle foto agli zii, così vedono che sorride e si diverte». La mamma di C. (10 anni) ha organizzato l’intero ciclo di cura del figlio intorno al progetto, affermando: «Ruota tutto intorno a questo. Non riuscirei a portarlo qui se non ci fosse questo laboratorio, per tutta la settimana non aspetta altro. Tutto si regge su questo».

I pazienti (soprattutto quelli molto piccoli, ma in forma differente anche quelli più grandi), provano ansia durante il periodo di attesa in Day Hospital (prevalentemente per l’anestesia), e durante la somministrazione delle cure, quando il dolore o la nausea non sono debilitanti, richiedono attività per distrarsi.

Molteplici sono stati gli episodi. S. (9 anni), convinta dalla sua amichetta e dalla mamma a partecipare per distrarsi dalla paura dell’anestesia, per il periodo di attività ha rivolto totalmente la concentrazione sul lavoro (inizialmente si lamentava e chiedeva alla mamma di massaggiarle la pancia,

al termine lavorava da sola con l’amichetta alla creazione di un oggettino da portare ai famigliari a casa, senza lamentarsi e senza la presenza della mamma). In modo analogo, in Degenza sono stati molti i pazienti che, pur debolissimi, hanno insistito nel partecipare alle attività con l’assistenza degli operatori.

L’assenza da scuola e la mancanza di stimoli emergono chiaramente nei pazienti nella fascia d’età tra i 10 e 15 anni, soprattutto in coloro che avrebbero dovuto terminare le scuola medie o iniziare il primo anno di scuola superiore. G. (17 anni), da molto tempo ospedalizzato, ha raccontato che il periodo più bello è stato proprio durante l’inizio della scuola superiore, in cui ha potuto passare un anno continuativo a scuola e stringere le amicizie che ancora oggi gli danno sostegno durante i ricoveri: «È stato il periodo più bello, non solo per il fatto di non avere il cancro, ma anche di poter andare... di stare a scuola. A me piace studiare e passare quel tempo con i miei amici». L. (15 anni), che ha ricevuto la diagnosi a metà del primo anno di studi da tecnico-geometra, è stato entusiasta di poter imparare il disegno vettoriale e i software di modellazione 3D, chiedendo di sua iniziativa di permettergli di accrescere le competenze (ha dovuto interrompere la frequenza a scuola proprio quando stava imparando a usare AutoCad). La mamma di D. (12 anni) ha raccontato che il figlio generalmente non vuole mai partecipare ad alcuna attività in ospedale, ma «la tecnologia è la sua passione e sa già che dopo le medie vuole studiare informatica, e dato che per il momento a scuola non ci può andare questi laboratori sono perfetti e lo incuriosiscono tanto».

Il progetto ha poi avuto un significativo riconoscimento da parte della struttura ospedaliera. Infatti è importante

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

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sottolineare come, per permettere agli operatori di organizzare al meglio il lavoro e possibilmente dare loro lo spazio per sperimentare con target specifici, il personale ospedaliero abbia fornito un elenco settimanale con i nominativi e le età dei presenti in Day Hospital.

LA DIMENSIONE ORGANIZZATIVA

Alcune delle domande del questionario sono volte a raccogliere impressioni e consigli direttamente dai partecipanti ai laboratori. Si è infatti ritenuto che gli utenti siano le persone più informate rispetto ai propri bisogni e alle necessità legate alla loro specifica condizione (in quanto adolescenti e in quanto malati). Inoltre il fine è quello di integrare la riflessione sui possibili sviluppi e miglioramenti al progetto in valutazione.

Posti in ottica riflessiva e valutativa, i pazienti sono stati invitati a esprimere consigli, ove presenti, per migliorare i laboratori di cui avevano fatto esperienza. Avendo la possibilità di esprimere ed elaborare liberamente il proprio pensiero, nessuno degli intervistati ha espresso giudizi negativi. Di seguito vengono presentate le cinque risposte registrate.

10. «Hai dei consigli per migliorare i laboratori Robo&Bobo?»

No, nessuno. No sono perfetti. No. No, per me sono perfetti, nonostante questo do un consiglio: aggiungete sempre nuovi laboratori. Più laboratori per ragazzi che hanno già fatto quelli esistenti.

In ultimo viene presentata una domanda che affronta,

in maniera trasversale, più di una dimensione: quella organizzativa e quella relazionale con gli operatori, i genitori e gli altri pazienti. Il dato che emerge, tra gli altri, è che la maggior parte dei pazienti preferisce che non sia presente un famigliare durante lo svolgimento dei laboratori. Ciò può esser ricondotto al fatto che i ragazzi, essendo in maggioranza preadolescenti o adolescenti, preferiscono vivere questa esperienza in autonomia, in linea con il processo di crescita.

Per quanto concerne l’espressione di una preferenza nello svolgere l’attività in gruppo, in modo che il laboratorio sia non solo un’occasione per imparare ma anche per instaurare relazioni con il gruppo di pari, prevale la modalità neutra, il numero 3 della scala, che non permette di suppore alcun tipo di preferenza, né positiva né negativa. Numerose risposte positive si contano, invece, per quanto riguarda il lavoro uno a uno con l’operatore.

11. «Quanto sei d’accordo/in disaccordo sulle modalità con cui si svolgono i laboratori?» (scala1-5)

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

130 131Report del primo anno di progetto

LA DIMENSIONE CORPOREA

La dimensione corporea dei pazienti non viene rilevata attraverso lo strumento del questionario, ma dalle osservazioni da campo condotte dall’antropologa.

Sono stati condotti alcuni esperimenti per comprenderne le reazioni, nell’eventualità di reinserire tali attività nella progettazione futura. Questi esperimenti sono anche un tentativo di rispondere in maniera positiva ad alcune problematiche contestuali emerse durante il periodo di attività. Durante lo svolgimento di Joy-bit è emersa per esempio la dimensione della «corporeità ferita» e del trauma subito dalla chemioterapia da parte dei ragazzi: alcuni di loro, soprattutto bambini molto piccoli, hanno espresso fastidio nel conficcare un ago in un frutto, proiettando la propria esperienza sull’oggetto in questione. Da questi episodi si è palesata una problematica nota ma non del tutto compresa. Si è quindi tentato di fare un esperimento di biohacking: a C.(11 anni) è stato chiesto di isolare la mano di un’operatrice e creare un circuito elettrico su di essa per accendere una luce a led. Lo stesso è stato chiesto a D. (5 anni). Nel caso di D. è emersa, come accaduto con altri bambini nello stesso laboratorio (Joy-bit), una particolare fissazione sulla dimensione corporea: infatti declinava l’atto di isolare la mano dell’operatrice con lo scotch di carta come un ricoprirla di cerotti, e non come le veniva proposta. Nel momento di verificare la conduttività della mano si è momentaneamente scordata della dimensione corporea, ma ancora una volta è emersa la corporeità ferita. Nel caso di C., invece, nel presentare l’attività le sono stati spiegati i concetti di biohacking e di cyborg, e l’interazione con una parte del corpo è riuscita in maniera positiva. Da qui è possibile ipotizzare

che l’idea di utilizzare il corpo come strumento può essere positiva purché si elimini qualsiasi elemento che richiama la dimensione traumatica della cura.

Un altro esperimento riguarda la trasgressione e la riappropriazione degli spazi esplorati attraverso la pratica dell’hacking of things: attraverso la vernice conduttiva o il nastro adesivo di rame o i cavi per la conduzione, i ragazzi hanno sperimentato i principi dei laboratori su oggetti e superfici dell’ospedale, nel rispetto delle regole. Questa è una pratica sempre ben accolta che va sicuramente sviluppata in futuro.

2. I GENITORI

La maggior parte dei genitori presenti in Day Hospital ha avuto una qualche forma di interazione con il progetto, a volte direttamente, nel coinvolgimento con le attività, altre volte indirettamente, parlando con gli operatori o l’antropologa delle proprie impressioni sui laboratori, ma anche del vissuto emotivo della malattia.

Un caso specifico del ruolo giocato dai genitori riguarda i pazienti stranieri che non padroneggiavano la lingua italiana, e si è rivelato fondamentale tranne che in un unico caso, in cui è servito ricorrere alla figura della mediatrice linguistica poiché anche i genitori non parlavano italiano. A. (11 anni), per esempio, ha partecipato a due laboratori grazie al supporto del padre che faceva da traduttore e da mediatore con l’operatore, il che ha richiesto da parte sua un certo impegno: «Io non sono molto portato per la tecnologia, ma a lui piace e ci proviamo». Per Eye-oh! si è impegnato insieme all’operatrice a capire le risorse e i passaggi di cui avevano bisogno per usare il visore in autonomia: «Le indicazioni sono state

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utilissime, ci abbiamo giocato tutto il giorno». Il padre è stato d’aiuto non solo per la questione linguistica, ma anche per attivare l’interesse del figlio, provando il visore in prima persona per spiegargli il funzionamento.

La figura del genitore come mediatore, partecipante più o meno diretto delle attività, è stata ricorrente nel corso del progetto. In alcuni casi il genitore era colui che si premurava di raccogliere le informazioni necessarie per permettere al figlio di continuare le attività da solo o di partecipare ai laboratori. In molti casi, l’accesso ai laboratori è stato agevolato proprio dai genitori, che venivano a chiedere informazioni sulla partecipazione o chiedevano agli operatori di insistere per convincere i figli. Il padre di A. (10 anni), per esempio, intercettava gli operatori al loro arrivo per informarli dello stato di salute e di interesse del figlio, soprattutto quando A. è stato spostato in Degenza con l’obbligo di rimanere isolato nella stanza.

La mamma di C. (11 anni), che abbiamo già citato, non ha mai partecipato ai laboratori con il figlio, ma per permettergli di seguirli ha organizzato con l’ospedale il ciclo di terapie in Day Hospital in modo che fosse presente il giovedì; ha anche raccolto con diligenza le brochure di ogni laboratorio, in cui venivano illustrate le risorse open-source disponibili online, per svolgere le attività da casa e in autonomia.

Seppur C. avesse un interesse molto forte verso le attività, la complicità della madre è stata determinante non solo per come sono stati svolti i laboratori, ma ha aperto agli operatori uno spazio in cui sperimentare con maggiore libertà. C. infatti è stato uno degli attori privilegiati per testare gli upgrade dei laboratori nel periodo finale del progetto e si è dimostrato interessato a collaborare in futuro.

Nel caso di D. (11 anni) la madre non ha mai veramente interagito con le attività, ma ha permesso al figlio di partecipare, negoziando con le maestre l’ora di lezione o prolungando la permanenza in Day Hospital.

In alcuni casi il genitore-mediatore era fondamentale per ovviare ai problemi logistici, come nel caso di A., per la lingua, o di O. (11 anni), che ha avuto bisogno del supporto della madre quando è stata ricoverata in area Trapianti.

In alcune circostanze il genitore-parente è stata la figura che ha permesso al paziente di mettersi a proprio agio per svolgere serenamente le attività. La sorella di G. (11 anni) e la mamma di M. (12 anni) hanno sempre accompagnato i ragazzi ai laboratori, senza partecipare direttamente, ma rimanendo presenti nella situazione. Erano presenze che non caricavano di ansia i ragazzi, ma li sostenevano in maniera discreta.

Vi sono poi state situazioni in cui la presenza del genitore è stata causa di ansia sia per il figlio, sia per l’operatore. È quanto è avvenuto per M. (11 anni) la cui mamma, pur senza parlare, esprimeva un forte senso di agitazione che ha compromesso la serenità del laboratorio.

Molti genitori decidono di rimanere presenti nella situazione, spesso per curiosità, spesso perché essi stessi si annoiano e hanno piacere di osservare il figlio che si diverte e sorride; in alcuni casi, come per la mamma di M., il genitore rimane presente più per controllare e proteggere il figlio.

I genitori sono stati i primi attori a fornire un quadro della vita in ospedale e della dimensione della malattia dei giovani pazienti. Lo strumento primario con cui si è riusciti a interagire con loro è stata la firma per il consenso al trattamento dell’immagine.

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Negoziare con i genitori per le foto ed i video è stato utile per fornire loro maggiori informazioni sul progetto, in modo da rasserenarli e aprire un canale comunicativo. Chi si è soffermato a descrivere il contesto ospedaliero e la patologia ha anche parlato della vita prima del tumore, raccontando come fosse il figlio, quali passioni avesse, quali aspettative, e come tutto si sia interrotto a causa di quel male che non viene mai, in nessun modo, chiamato con il suo nome, ma emerge nelle narrazioni come un momentaneo «incidente di percorso» o «questa cosa che è successa».

La sofferenza per il contesto emerge e viene espressa molto più chiaramente dai genitori che non dai pazienti stessi. La vita in ospedale e la malattia sono totalizzanti soprattutto per i genitori, come ha raccontato la mamma di S. (9 anni): «Quando sto qui dentro mi ricordo qualsiasi cosa, sono iperorganizzata sulle cure, poi esco, vado a al supermercato... e nemmeno mi ricordo perché ci sono andata». Per questo alcuni genitori, anche su suggerimento degli operatori che colgono in anticipo il livello di stanchezza del parente, approfittano delle attività per assentarsi e dedicare un po’ di tempo a sé stessi.

3. GLI OPERATORI

La prima riflessione affrontata con gli operatori del progetto riguarda lo sviluppo ongoing delle modalità di attuazione e svolgimento dei laboratori, nel tentativo di ricostruire le trasformazioni messe in atto al fine di adattare le pratiche al contesto.

In generale gli intervistati raccontano lo scarto tra come erano state progettate e organizzate le attività e la messa in opera

delle stesse, sottolineando come questo si articoli in varie dimensioni: target, organizzazione, contenuti.

In fase di progettazione i laboratori erano stati immaginati come unità singole destinate a pazienti sempre diversi, ma nell’implementazione gli operatori si sono confrontati con casi di minori che, per il perdurare della condizione ospedaliera, partecipavano più volte allo stesso laboratorio, e hanno quindi affrontato la necessità di rimodulare i laboratori in attività progressivamente non ripetitive.

«Sono cambiati sicuramente. È successo che in fase di progettazione si visualizzava uno scenario che prevedeva un ricambio molto frequente di ragazzi: questi laboratori erano pensati come unità singole, divisibili in 3 momenti, quindi un laboratorio di un’ora e divisibile in tre parti da mezz’ora, in modo tale da tararsi sullo stato fisico del ragazzo partecipante. Però poi di fatto ci siamo accorti che molti dei ragazzi si ripresentavano, quindi succedeva di dover riproporre lo stesso laboratorio senza avere contenuti aggiuntivi per implementare la conoscenza sull’argomento. Questo è stato il tema cruciale che abbiamo dovuto affrontare in corso d’opera: è stato necessario portare degli ampliamenti per variare la proposta, e quindi in alcuni casi ci sono anche state delle partecipazioni molto continuative da parte di alcuni ragazzi. In tali casi lo stimolo è stato di lavorare con un percorso più personalizzato basato sul carattere, sull’interesse della singola persona. Questo è stato un po’ un limite, nello svolgimento del nostro lavoro» (operatore n.1).

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Una volta percepito il gap tra la progettazione e la pratica, l’équipe di operatori ha messo in atto una serie di azioni volte a colmarlo. Gli intervistati riportano le proprie strategie di adattamento alle specificità di contesto incontrate e come queste specificità li abbiano indotti a riflettere su alcune modalità di fare i laboratori.

«Cir-cut..[...] all’inizio era pensato molto come una serie di esercizi da far fare ai ragazzi per imparare la teoria dell’elettricità e come funziona un circuito elettrico. Poi, avendo visto che risultava un po’ noiosetto, abbiamo pensato introdurre un braccialetto che tu produci e ti tieni, un elaborato finito. È importante alla fine dargli fisicamente qualcosa da portarsi a casa… e molti ragazzi hanno fatto fare il braccialetto al fratello e all’amico, e queste sono belle soddisfazioni. È molto importante non limitare l’attività al solo scopo ludico: non si tratta solo di avere un oggetto divertente, ma di unire gli esercizi alla teoria, anche perché se tu non gli dai nulla, oltre al ricordo di che cosa hanno fatto, poi non capiscono come l’hanno creato» (operatore n.3).

«Ti faccio l’esempio di Codix: non funzionava perché i robottini erano un po’ infantili per il target adolescenziale, quindi abbiamo cambiato le modalità rendendolo un po’ più intrigante, facendo in modo che avessero un percorso e degli obiettivi da seguire per arrivare a un traguardo... e non so, il fatto che lo strumento fosse un robottino e fosse infantile non veniva più preso in considerazione… Se non avessimo dato loro uno stimolo un po’ più forte, con gli adolescenti non avrebbe funzionato» (operatore n.3).

Il buon esito dei laboratori, riscontrato anche dall’elaborazione dei primi questionari somministrati ai pazienti, si può ricondurre alla creatività e alla capacità degli operatori di modificare sia il proprio atteggiamento nel lavoro sia il laboratorio stesso, in base alle esigenze di contesto e dei partecipanti.

Gli intervistati riconoscono, inoltre, una trasformazione e una maturazione del proprio modo di porsi nei confronti dei pazienti e dell’ambiente ospedaliero in generale. Tutti sottolineano la difficoltà di approccio a un contesto così sensibile e come questo sia stato occasione di crescita individuale, oltre che lavorativa.

«Rispetto al mio atteggiamento, in una prima fase sicuramente ero più rigida, magari avevo anche più paura a sbilanciarmi su certi argomenti, su certe fragilità che avevo paura di sfiorare, invece questo è solo dovuto all’abitudine, alla sicurezza di essere riconosciuto che acquisisci» (operatore n.1).

La figura esterna della psicologa emerge come punto di riferimento fondamentale che li ha accompagnati durante questo primo anno di sperimentazione. Le periodiche sedute di gruppo sono state sia momento di condivisione emotiva e di rielaborazione di eventuali difficoltà incontrate, sia un modo per creare un flusso comunicativo di informazioni sempre aggiornate su ciò che accadeva in ospedale.

«Parlando, poi, abbiamo deciso di affrontare insieme tutta una serie di momenti, tra cui le sedute dalla psicologa, anche per creare un momento di comunicazione veloce e diretto su ciò che succedeva

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in ospedale ogni settimana, in modo che tutti fossero informati. Tutte queste cose hanno contribuito a darmi quella sicurezza che sicuramente prima non avevo: anche su che cosa toccare e che cosa non toccare, che cosa dire e che cosa non dire, avere delle persone che ti sostengono aiuta molto» (operatore n.2).

Anche l’approfondirsi delle relazioni con i minori coinvolti nei laboratori è stato importante per maturare e modificare l’atteggiamento, dapprima rigido, poi molto più naturale, nei loro confronti, come emerso da alcuni episodi narrati dagli operatori.

«Mi ricordo un episodio: stavamo facendo delle maschere con il taglio vinile, visto che eravamo sotto Carnevale pensavamo di fare questa variazione. Stavo aiutando un ragazzo a misurare la lunghezza dell’elastico per la sua maschera, provando la cosa gli un po’ tirato i capelli ed era la fase in cui stava un po’ perdendo i capelli, quindi gli ho chiesto scusa e lui mi ha risposto: «ma sì, tanto poi li perdo, che me ne frega» (operatore n.1).

In quanto attori centrali del progetto, gli operatori sono invitati a riflettere sull’impatto avuto sui minori partecipanti, sui genitori e più in generale sul reparto ospedaliero. Inoltre sono gli osservatori più diretti e immediati dei feedback che si possono cogliere durante lo svolgimento delle attività.

Nel complesso gli intervistati hanno riscontrato un atteggiamento positivo da parte dei pazienti, sia per quanto concerne il grado di partecipazione alle attività, sia per quanto riguarda il grado di interesse mostrato nelle attività

stesse. Tale gradimento viene confermato dal questionario sottoposto ai pazienti e dalle impressioni dei genitori raccolte nell’etnografia. Nonostante ciò, gli atteggiamenti erano altalenanti sia per interesse generale e predisposizione ai temi trattati nelle attività, sia per quanto riguarda le condizioni di salute che impattavano sulla concentrazione e la riuscita stessa del laboratorio.

«Ci sono capitate diverse situazioni, sia quelle con il ragazzo “facciamo il laboratorio e ciao” (e lì non ci puoi fare nulla, dipende anche dal carattere), sia quelle con ragazzi entusiasti e partecipi con cui si è instaurata una relazione fin da subito. È servito, credo, in generale, creare laboratori che fossero un po’ diversi dal normale. Sarà che siamo giovani, anche molto più giovani della media degli operatori che fa attività in ospedale, ed è stato come se ogni giovedì portassimo loro aria fresca, non so come dire» (operatore n.2).

«In alcuni casi è stata proprio la ricerca di compagnia, di un po’ di svago… in altri, con i ragazzi con un interesse specifico, entusiasmo a mille: partecipazione attiva, richiesta di informazioni extra, dove reperire i materiali eccetera» (operatore n.1).

Gli operatori riportano, nelle loro narrazioni, anche le opinioni di alcuni genitori.

«Da parte dei genitori abbiamo sempre trovato grandissimo supporto e interesse. È capitato che ci venissero a cercare e ci dicessero: «ma può partecipare anche mio figlio?« Tante volte questa è stata anche

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una difficoltà perché venivano genitori di ragazzi fuori target, più piccolini.... È molto difficile dire no in queste situazioni, dividerli. Loro sono ricoverati tutti insieme, l’ambiente è unico» (operatore n.1).

Le interviste agli operatori permettono di cogliere alcune prime indicazioni rispetto a come sono visti laboratori da parte dei genitori, colmando parzialmente le lacune dovute alla mancata somministrazione del questionario riservato ai parenti. Come si evince dai passaggi successivi, i laboratori hanno dato loro la possibilità di prendersi delle piccole pause dall’onere di cura, anche se in alcuni casi è stato possibile osservare una comprensibile apprensione da parte dei più protettivi.

«Buona parte dei genitori coglievano l’occasione per prendersi una boccata d’aria e quando non lo facevano glielo consigliavamo noi. Ma è capitato altre volte di trovare genitori apprensivi che tenevano un po’ più sott’occhio o cercavano di dare una mano, anche se non ce n’era bisogno… Paradossalmente mi è capitato di osservare genitori di adolescenti che erano più protettivi di quelli dei bambini più piccoli» (Operatore n.4).

«Di solito sono tutti molto contenti che vengano proposte delle attività per i ragazzi, è un momento di svago sia per i ragazzi sia per loro che non hanno più l’onere di seguire il figlio per non farlo annoiare o svagare. Questo compito spetta a noi e loro si sentono sollevati. O partecipano, o vanno a prendersi un momento di pausa. Alcuni sono molto entusiasti e desiderano approfondire ciò che i figli hanno imparato,

a volte vogliono ordinare su internet i materiali per riprodurli a casa o si guardano le brochure, alcuni ci scrivono ed è molto bello perché vuol dire che l’interesse si è acceso» (operatore n.4).

È stato chiesto, successivamente, di raccontare il proprio punto di vista in merito all’impatto dei laboratori sull’ospedale nel suo complesso e sulle figure già presenti nella vita del reparto: medici, infermieri e altre associazioni.

Appare concorde l’opinione di un ingresso al campo non agevole sotto diversi punti di vista: l’apprensione iniziale, l’imbarazzo dovuto alla mancata familiarità con un contesto sensibile come il reparto oncologico. Tuttavia, appena compresi alcuni meccanismi di contesto (dovuti per esempio ai tempi di cura e al riconoscimento del proprio ruolo tra le diverse figure presenti), si è instaurata una relazione positiva basata sulla curiosità e la collaborazione reciproca.

«In una prima fase è stato un po’ difficile entrare nel contesto, perché il personale medico è abituato ad avere esterni (volontari Ugi, personale di altre associazioni), però bisognava capire come inserirsi nello spazio senza dar fastidio, capire per esempio quando è il momento della terapia e quindi si interrompe il laboratorio, te ne esci dalla sala e poi riprendi più tardi. Queste dinamiche all’inizio generavano un po’ di imbarazzo, di dubbio, poi sono entrate nella normalità. Non è stato comunque difficile inserirsi nell’ambiente: da parte degli infermieri e del personale medico proprio c’è l’attitudine ad alleggerire il più possibile la situazione, e anche con le maestre in corsia c’è cooperazione. Questo soprattutto da quando abbiamo iniziato a indossare il grembiule:

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eravamo riconoscibili e c’era il pretesto per fare una domanda su quello che stavamo facendo… Abbastanza rapidamente hanno iniziato a riconoscerci e costruire un buon rapporto» (operatore n.1).

«Io credo che ci siamo fatti più scrupoli noi, nel senso che avevamo molti dubbi sulle reazioni del personale medico, di dottori e infermieri. Avevamo sempre un occhio di riguardo, facendo attenzione a non disturbare lo svolgimento delle cure dei ragazzi... Ma poi ci siamo resi conto che innanzitutto loro erano molto interessati a ciò che veniva fatto. Erano incuriositi perché arrivavamo con i macchinari, eravamo forti nell’impatto visivo. Questo loro atteggiamento positivo ha portato a sintonizzarsi con noi e anche a coordinarci meglio nei tempi di cura e di laboratorio, quasi che loro che non volessero disturbare l’attività, dandoci importanza» (operatore n.2).

In chiusura dell’intervista, al termine del primo anno di sperimentazione, è stato proposto un ulteriore momento di riflessione relativo al progetto nel suo complesso. È stato chiesto di far emergere punti di forza, debolezza e proposte per eventuali sviluppi futuri di questa esperienza.

Si evidenzia in primo luogo l’esigenza di una maggiore attenzione nella progettazione dei laboratori, che tenga presente l’esperienza scaturita dalla sperimentazione in analisi.

«Credo che sia importante che lo sviluppo e la progettazione venga fatta da chi poi svolge le attività in

ospedale. Ciò che ha funzionato a rilento è stato che ci fosse una figura esterna, in questo caso un’agenzia di design, che progettava e poi parlava con noi e noi lo implementavamo. Questa figura non seguiva la parte operativa e non sapeva cosa succedeva in ospedale, quindi era un casino perché noi provavamo, sperimentavamo, capivamo cosa non andava e poi riportavamo a loro. C’era uno scarto tra chi progettava e chi implementava» (operatore n.2).

In secondo luogo, l’esperienza di questo primo anno permette una serie di considerazioni che mirano ad arricchire l’offerta delle attività da proporre in ospedale. Si evidenzia la necessità di colmare alcune lacune nella progettazione, in quanto, per la mancata conoscenza approfondita delle dinamiche di contesto ospedaliero, non era stata prevista la possibilità che per alcuni pazienti minori il ventaglio di attività laboratoriali fosse troppo scarno rispetto a un tempo di degenza prolungato. Inoltre, per quanto il progetto abbia il proprio focus sugli adolescenti, si ritiene necessario strutturare i laboratori in modo più variegato in base alle diverse fasce d’età per renderli più inclusivi possibili, evitando, dove possibile, situazioni di esclusione in un contesto così fragile.

«Sicuramente non abbiamo pensato che la degenza è molto molto lunga: magari i ragazzi che vediamo a ottobre poi li rivediamo anche a marzo, e non è stata pensata una varietà un po’ più ampia di sottocategorie di laboratori, diciamo, in modo tale che i ragazzi facciano cose differenti. Fare due volte la stessa cosa non è entusiasmante. Se ci fosse una riprogettazione dei laboratori bisognerebbe pensarli molto più vasti,

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pensare vari step, passaggi ed esercizi in modo tale che ci sia una varietà di proposte, sempre legate ai cinque macroargomenti che abbiamo trattato» (operatore n.3).

Le considerazioni precedentemente esposte comportano profonde conseguenze sul lavoro degli operatori, i quali riferiscono l’esigenza di costruire un’offerta formativa solida e declinabile nelle situazioni più variegate, avendo come interlocutori pazienti di target diverso.

«L’interesse nostro è di essere più sicuri sulla proposta formativa. Questo significa aprire un ventaglio di possibilità su ogni laboratorio, cioè aver la possibilità di declinare in vari modi lo stesso argomento e poter scegliere al momento, a seconda della persona che si ha davanti, quale è più giusto utilizzare in quel contesto per interesse e fascia di età» (operatore n.1).

Per quanto sembri emergere un generale accordo sulla necessità di progettare i laboratori per più fasce di età, uno dei punti di forza del progetto è proprio il target adolescenziale che era stato immaginato in prima battuta. Questo in particolare per l’assenza di attività specifiche per tale fascia di età, spesso assimilata a quella dei bambini, nonostante sia connotata da interessi e bisogni differenti.

«In generale non c’è una grande proposta di attività per adolescenti e quindi spesso si ritrovano un po’ banalizzati, un po’ considerati sul piano dei bambini più piccoli» (operatore n.1).

Nonostante ciò sono state poste alcune critiche allo scarto

fra target individuato dal progetto e effettivo immaginario proposto nello stesso, a partire dal nome e dall’immagine coordinata, che sembrano essere più appropriati per bambini rispetto che per preadolescenti o adolescenti. Come già detto in precedenza, tali ostacoli sono stati superati grazie alla creatività e al lavoro degli operatori in questa prima fase, ma meriterebbero sicuramente una riflessione in un prossimo spazio di progettazione.

«Io credo che questo focus sul target non sia stato fatto in maniera corretta fin dall’inizio, nel senso che già in fase di progettazione dell’immagine coordinata e di stesura del progetto per il bando, e anche durante la fase di user research, secondo me il target non è stato focalizzato così bene... Il nome Robo&Bobo è infantile, l’immagine che gli viene associata è infantile, quindi una difficoltà che abbiamo avuto è questa, di non aver focalizzato bene il target. Infatti poi, nella fase di ampliamento dei laboratori, ci siamo resi conto che la proposta non era adeguata in alcuni casi a solleticare l’interesse di quella fascia di età, e abbiamo ragionato sul fare proposte che fossero un po’ più accattivanti per ragazzi adolescenti» (operatore n.1).

4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE SUI LABORATORI

Poiché i singoli laboratori non sono stati inseriti nella valutazione quantitativa, le considerazioni conclusive e i possibili suggerimenti futuri su di essi provengono dalla ricerca di campo svolta dalla figura dell’antropologa e dall’esperienza accumulata da operatori e progettisti. L’analisi che segue non si basa quindi su dati raccolti tramite questionari, ma su osservazione partecipante e interviste

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informali ai pazienti, seguite da un confronto con gli operatori.

Consideriamo all’unanimità Robo&Bobo 1.0 un successo da un punto di vista progettuale, giudizio confermato dalle email di supporto ricevute dai volontari delle associazioni presenti in ospedale, dai ringraziamenti espressi dai genitori, dall’aver visto la diffidenza del personale ospedaliero trasformarsi in collaborazione, ma soprattutto dall’entusiasmo crescente che i partecipanti hanno dimostrato nell’arco di quasi un anno, aspettando con gioia l’arrivo del giovedì per portare avanti i loro esperimenti.

Ciononostante, ci siamo confrontati internamente per analizzare il nostro operato, come progettisti, operatori, pianificatori, antropologi, psicologi e pedagoghi, per capire come migliorare e ampliare le attività, nell’ottica di tornare in ospedale a settembre 2017 con un nuovo Robo&Bobo 2.0.

Svolgendo le attività così come descritte nelle schede di progetto ci siamo resi conto dell’importanza della progettualità nella definizione degli esercizi e della sua mancanza in alcuni di essi. L’acquisizione di capacità tecniche dovrebbe essere vista come un mezzo per realizzare un progetto definito da e con il partecipante, e non come un obiettivo di per sé. Un goal di questo tipo aiuterebbe anche i pazienti ad avere un obiettivo più a lungo termine, a supporto della terapia. Una struttura più aperta e meno legata agli esercizi consentirebbe inoltre di ampliare l’offerta formativa, permettendo più flessibilità nel gestire le grosse diversità di età dei partecipanti.

Abbiamo inoltre notato una certa diffidenza da parte degli insegnanti in corsia, che ci hanno forse visto, in alcune situazioni, come una distrazione.Con loro ci piacerebbe, in una seconda edizione del progetto, intessere un rapporto

collaborativo che da un lato validi i nostri contenuti con i ragazzi e dall’altro fortifichi il concetto di progettualità.

In quest’ottica di ampliamento e collaborazione, ci piacerebbe inoltre intessere rapporti stabili e di scambio con chi, sul territorio locale, porta avanti da anni tematiche maker in ambito giovanile, quindi con i Fablab e i Maker Spaces di Torino e dintorni, con il duplice obiettivo di ampliare il nostro know-how tecnico nelle attività (e nella loro progettazione) e aiutare le loro comunità a crescere. Questo faciliterebbe inoltre uno dei principali obiettivi didattici di Robo&Bobo e cioè fornire ai partecipanti i mezzi per proseguire le attività per conto proprio.

Un’ulteriore riflessione è sicuramente legata a progettazione e operatività, che in questa prima edizione sono state gestite separatamente e in questo ordine. Vista la complessità e la varietà delle problematiche incontrate in corsia (emotive, fisiche e relazionali) ci piacerebbe in futuro mischiare di più queste fasi, progettando con gli operatori, non per loro, e portando avanti un approccio più iterativo, senza limitare i test a una fase iniziale ben precisa, ma trasformando tutta l’operatività in un test progressivo, atto al continuo miglioramento e adattamento delle attività.

Infine ci piacerebbe contestualizzare ancora di più le attività nell’ambito ospedaliero, da un lato legandole di più alle problematiche causate della malattia (esclusione, accettazione del proprio corpo, solo per dirne alcune) e dall’altro usandole come strumenti per alleviarne gli effetti.

Anche nello specifico delle 5 attività svolte fino a oggi abbiamo individuato degli aspetti che ci piacerebbe migliorare in una possibile seconda edizione.

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Analisi dell’operativitàCapitolo 3

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Eye-oh!

Da un lato ci piacerebbe lavorare di più sui contenuti VR offerti ai ragazzi, rendendoli più coerenti, dall’altro vorremmo creare degli obiettivi progettuali più forti nella parte di disegno vettoriale, andando oltre la semplice personalizzazione del visore.

Preent

Ci piacerebbe orientare maggiormente i ragazzi verso la costruzione di un progetto, distaccandoci dalla mera esecuzione di un gadget in cui spesso si ricade con la stampa 3D. Inoltre, l’approccio di scelta degli oggetti da modellare è al momento molto individualistico, sarebbe interessante trovare degli obiettivi più legati all’hacking dello spazio personale e degli altri e quindi alla collaborazione (per esempio ridisegnare le manopole del calcetto nell’area ricreazione), spingendo i ragazzi a pensare l’ospedale come a una comunità, più che una prigione.

Joybit

Con la durata ridotta dell’attività settimanale e la mancanza di conoscenze di base in materia, è stato difficile far percepire la reale utilità dell’elettronica e il suo collegamento con le altre attività. Potrebbe valer la pena cambiare o integrare gli strumenti usati fino adora per quest’attività, provandone di più semplici e intuitivi. Servirà inoltre ampliare il know-how tecnico del team per renderlo più flessibile nell’offrire un portafogli di possibilità ai ragazzi.

Codix

I limiti attuali del laboratorio sono principalmente due. Il primo è legato al target adolescenziale, in quanto gli attuali

software di programmazione a blocchi, pensati per un target di bambini, possono essere percepiti dai più grandi come infantili. Il secondo è invece legato alla mancanza di una progressione nell’apprendimento: come abbiamo già avuto modo di rilevare, se un ragazzo frequenta il laboratorio per una seconda o terza volta rischia di annoiarsi perché le attività sono ripetitive. Per questo sarebbe utile identificare una modalità per costruire un percorso di apprendimento che si sviluppa su più moduli di un singolo laboratorio.

Il nuovo metodo testato per le ultime due ripetizioni dell’attività funziona bene: varrebbe la pena tornare a testarlo magari con hardware più affidabile di Ozobot, che ci ha dato molti problemi nel caricare gli script.

Cir-cut

L’attività ha sempre funzionato bene e abbiamo visto un crescente entusiasmo nello svolgimento di esercizi più liberi che ci piacerebbe quindi estendere, permettendo ai partecipanti di usare anche le superfici della stanza e magari del proprio corpo.

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ComunicazioneCapitolo 4

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CAPITOLO 4

Comunicazione

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ComunicazioneCapitolo 4

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IV Comunicazione

Il progetto di comunicazione si è articolato in 3 fasi:

— creazione dell’identità del brand; — costruzione dell’esperienza di interazione con il pubblico di riferimento;

— sviluppo di strategie di engagement finalizzate alla creazione di una community.

Nel progetto Robo&Bobo queste 3 fasi, che tradizionalmente hanno una natura sequenziale, si sviluppano attraverso un processo iterativo in stretta relazione con l’andamento del progetto e le varie fasi di coprogettazione.

La prima fase relativa alla creazione dell’identità del brand prevede l’analisi del pubblico (che deriva dall’analisi del target di utenza più ampio del progetto), l’identificazione di linguaggi che trasmettano i valori e le specificità del progetto e, infine, la progettazione grafica dell’identità visiva, che si affianca alla creazione di un linguaggio verbale adatto a veicolare i messaggi ai diversi target.

Innanzitutto sono stati identificati i pubblici destinatari della comunicazione, per ognuno dei quali vi è un differente obiettivo e quindi anche una differente strategia di comunicazione.

1. Adolescenti e preadolescenti: target principale o beneficiari diretti del progetto, devono essere raggiunti dalla comunicazione in due momenti del percorso di cura:

— durante la loro presenza in ospedale vengono raggiunti attraverso una comunicazione inizialmente mediata dalle associazioni già strutturalmente integrate in

ospedale (UGI); in seguito, grazie allo sviluppo di un rapporto di fiducia, l’interazione avviene in modo diretto attraverso la presenza degli operatori. I supporti di comunicazione sono quindi funzionali a veicolare l’immagine ludica del progetto e hanno il fine di avvicinare i ragazzi e coinvolgerli nel laboratorio. Inoltre la possibilità di ricevere delle spillette che testimoniano lo svolgimento del laboratorio attiva un primo livello di gamification.

— in seguito all’uscita dall’ospedale, la comunicazione è finalizzata a fornire del materiale che consenta di proseguire il percorso laboratoriale. In questa fase il veicolo principale è il materiale di approfondimento pubblicato sul sito web del progetto.

2. Famigliari: target secondario. L’obiettivo è quello di sviluppare un rapporto di fiducia all’interno dell’ospedale che possa estendersi anche al contesto esterno. La partecipazione ai laboratori come osservatori esterni può innescare un ruolo da testimoni declinato nella creazione di contenuti online (User Generated Content).

3. Pubblico generalista, con l’obiettivo di creare brand awarness del progetto attraverso i canali online.

4. Stakeholder, con l’obiettivo di veicolare l’impatto sociale del progetto attraverso un documento di reportistica (Toolkit) che espliciti la complessità della progettazione multidisciplinare, il metodo progettuale, la metodologia di analisi dell’impatto e i risultati.

5. Potenziali finanziatori: privati e aziende interessati a finanziare il progetto attraverso strumenti diversificati. La costruzione della campagna di comunicazione con l’obiettivo di identificare possibili finanziatori diventerà obiettivo di una pianificazione strategica successiva.

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ComunicazioneCapitolo 4

154 155Report del primo anno di progetto

TARGET OBIETTIVO STRATEGIA SUPPORTI ANALOGICI SUPPORTI DIGITALI

BROCHURE

distribuite in

ospedale

SPILLE

distribuite in

ospedale

SITO FACEBOOK INSTAGRAM TOOLKIT

Adolescenti e

preadolescenti

durante la

presenza in

ospedale

Engagement Gamification Descrizione

delle tecnologie

e delle

tecniche del

laboratorio

Riconoscimento

dell’obiettivo di

completamento

del laboratorio

Adolescenti e

preadolescenti

in seguito

all’uscita

dall’ospedale

Fidelizzazione Education Descrizione

delle tecnologie

e delle

tecniche del

laboratorio

SEZIONE

ISTITUZIONALE:

Risorse aggiuntive

Famiglie Reputazione PR SEZIONE

RACCONTI:

Racconti di

laboratori e

metodologia

Storytelling live

e UGC

Pubblico

generalista

Brand

awarness

Storytelling SEZIONE

RACCONTI:

Racconti di

laboratori e

metodologia

1) Content

curation

relativo ai temi

della cura, del

design e della

tecnologia

2) Divulgazione

dello

storytelling

Storytelling live

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ComunicazioneCapitolo 4

156 157Report del primo anno di progetto

TARGET OBIETTIVO STRATEGIA SUPPORTI ANALOGICI SUPPORTI DIGITALI

Stakeholder Reputazione SEZIONE

ISTITUZIONALE:

Risorse aggiuntive

Descrizione

della

metodologia

e dell’impatto

sociale

Finanziatori Funding Scalabilità e

sostenibilità

del progetto

1. BRAND IDENTITY

Il concept che ha orientato lo sviluppo dell’identità del brand Robo&Bobo è legato all’assemblaggio, alla tecnica, alla giunzione, alla composizione tipica delle tecnologie utilizzate nei laboratori; quindi al mondo dei maker, della robotica, del coding, degli sviluppatori e delle open cultures di Internet basate sull’apprendimento collaborativo e sulla costruzione di una progettualità condivisa.

I vari elementi che compongono la brand identity sono il risultato della giustapposizione di diverse componenti, ognuna con la sua rispettiva funzione: quella tecnologica, con funzione educativa, e quella ludica, con funzione divulgativa. Grazie all’assemblaggio dei vari elementi si costruisce un prodotto capace di generare un’esperienza.

A livello di linguaggi, tale concetto è stato declinato in

1. naming: Robo & Bobo. Robo è il nome dei robottini, Bobo quello del bambino, protagonista ideale dei laboratori;

2. logo: il marchio parola declina il naming Robo&Bobo attraverso un lettering progettato ad hoc che vuole essere un richiamo alla progettualità maker, con forme geometriche squadrate (che ricordano la materialità dei bulloni) abbinate a forme più morbide, funzionali ad avvicinare la durezza dei tecnicismi alla dimensione ludica;

3. mascotte: per rappresentare visivamente i 5 laboratori sono state ideate 5 mascotte che si presentano come altrettanti robot colorati, ognuno dei quali creato integrando elementi figurativi propri della tecnologia che li caratterizza. Ogni mascotte ha un nome in inglese che

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ComunicazioneCapitolo 4

158 159Report del primo anno di progetto

gioca con i sensi uditivi utilizzando l’onomatopea, il ritmo e il neologismo per creare nuove parole che rimandino alle attività svolte. Al nome è associato un payoff che esplicita il tipo di progettualità proposta durante il laboratorio.

BOOMBOX easy logic controller

EYE-OH virtual eyes

JOYBIT easy logic coding

CIR-CUT interactive origami

CODIX videogame controller

L’identità visuale è stata declinata sui seguenti supporti analogici:

4. brochure dedicate ai 5 laboratori e distribuite in ospedale;5. spille che rappresentano i 5 robottini e vengono

consegnate in seguito alla frequenza del laboratorio;6. grembiuli indossati dagli operatori durante le attività in

ospedale per essere riconoscibili, sui quali sono riprodotti i 5 robot;

7. valigie degli operatori, brandizzate con il marchio parola.

I supporti di comunicazione digitale sono stati pensati con il doppio obiettivo di veicolare la comunicazione istituzionale nei confronti degli stakeholder e di raccontare la dimensione emozionale del progetto, rivolgendosi anche a un pubblico più ampio.

2. PIANO DI COMUNICAZIONE

La strategia di comunicazione del progetto Robo&Bobo in una prima fase è stata finalizzata a un’attività informativa. Attraverso i canali digitali quali il sito internet e il canale facebook è stata comunicata la mission e la progettualità di Robo&Bobo.

Nel corso dello svolgimento dei laboratori è stata quindi realizzata una documentazione video-fotografica finalizzata

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ComunicazioneCapitolo 4

160 161Report del primo anno di progetto

a raccontare il primo anno di progetto. Parte di essa è andata ad arricchire la comunicazione informativa attraverso un video istituzionale. Oltre a questo è stato sviluppato uno storytelling emozionale: i cinque laboratori sono stati raccontati attraverso microracconti e clip video che hanno l’obiettivo di divulgare il progetto a un pubblico più allargato attraverso il sito e i canali social.

La terza fase è finalizzata a creare un maggior coinvolgimento del pubblico. A questo scopo sono stati aperti nuovi canali quali un account Instagram e si è attivata una strategia maggiormente partecipativa di valorizzazione di contenuti generati dagli utenti.

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Sostenibilità economica: fundraisingCapitolo 5

162 163Report del primo anno di progetto

CAPITOLO 5

Sostenibilità economica: fundraising

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Sostenibilità economica: fundraisingCapitolo 5

164 165Report del primo anno di progetto

V. Sostenibilità economica: fundraising

Al fine di assicurare al progetto una sostenibilità economico-finanziaria, si è deciso di lavorare su una strategia di fundraising, strumento capace di connettere una comunità di sostenitori interessati al consolidamento e allo sviluppo del progetto con un approccio che declina tale sostegno in forma di donazione (individui), erogazione liberale (aziende), sponsorship e altre forme di supporto opportunamente declinate in relazione al soggetto «promotore».

In tal senso, e sulla base del fatto che il fundraising è uno strumento che esplica al meglio la sua capacità «attivatrice« di relazioni - e, come conseguenza, di fondi – su un arco temporale almeno triennale, è stata definita una strategia multi-target che tenesse in considerazione 3 anni per raggiungere gli obiettivi strutturali del progetto.

Per strategia multi-target si intende il collegamento delle campagne di fundraising, che ne costituiscono l’operatività, in relazione a tipologie differenti di donatori: individui (persone fisiche) e aziende (inclusi esercizi commerciali, fondazioni, club service). In tal modo la diversificazione assicurerà il coinvolgimento di un panel ampio di sostenitori e, allo stesso tempo, abbasserà il rischio derivante dal venir meno di uno tipologia o di una parte di essa.

In particolare la prima fase del lavoro ha visto l’analisi dei fabbisogni necessari al consolidamento e allo sviluppo del progetto, così da assicurarne la sostenibilità nel prossimo triennio e, a regime, la capacità di autosostenersi.

Ciò ha comportato un focus sulla visione di lungo periodo connessa al progetto, riguardante in particolare le sue potenzialità in termini di replicabilità e scalabilità.

Ad esso è stata affiancata la necessaria attività di «mappatura dei costituenti«, intendendo con tale espressione la ricognizione puntuale di tutte quelle relazioni attivabili dai soggetti coinvolti nel progetto – ideatori, operatori, volontari in primis – al fine di sensibilizzarli rispetto allo stesso, coinvolgerli e renderli parte attiva del progetto medesimo mediante forme di sostegno.

In tal senso sin dall’inizio ci si è concentrati sulle aziende e sui grandi donatori che, da un punto di vista strategico, apparivano come un target più promettente in termini temporali rispetto alla necessaria – e più lunga – attività di coinvolgimento di individui/piccoli donatori e altri target che richiedono azioni diversificate, meno personalizzate e più orientate a una comunicazione allargata.

La relazione sottesa alla richiesta di sostegno fatta a un’azienda o a un grande donatore presuppone un contatto personale consolidato e consente un scouting delle ipotesi di sostegno più rapido e, in tempi brevi, più incisivo dal punto di vista degli impatti (€) sul progetto.

Per questo motivo tutta la prima fase è stata incentrata sulla campagna di sostegno diretta ad ottenere «molto da pochi».

Tale campagna, che comprende anche la produzione di contenuti ad hoc sul sito web dell’associazione e di una brochure come materiali di comunicazione atti a facilitare l’interazione rispetto al fundraising, proseguirà in modo permanente – con le eventuali opportune variazioni – anche nella seconda fase, così da ampliare e consolidare il bacino

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Sostenibilità economica: fundraisingCapitolo 5

166 167Report del primo anno di progetto

dei costituenti interessati a sostenere il progetto.

Gli strumenti che sono stati associati alla campagna coprono vari ambiti del cosiddetto corporate fundraising: dalla «classica» erogazione liberale a forme di sponsorizzazione, da iniziative di Cause Related Marketing a partnership con esercizi commerciali ad eventi da organizzare in azienda.

Oltre a tale campagna, la prima fase ha incluso anche la produzione di una campagna diretta alla promozione del 5x1000, con una nuova immagine e un nuovo claim, la comunicazione tramite social network anche mediante clip, una sezione ad hoc sul sito e un’azione di passaparola orientata a far conoscere Robo&Bobo e a sollecitare i contatti personali – quelli più coinvolti – a destinare il proprio 5x1000 al progetto.

Le due azioni sono servite a porre le base per la successiva implementazione della strategia di fundraising che, a partire dall’autunno 2017, avrà come obiettivo la definizione del piano completo: questo, in un arco temporale triennale, dovrà portare alla creazione di un panel di sostenitori del progetto in grado di definirne la sostenibilità economica.

La strategia, dunque, verrà sviluppata a partire dalla definizione degli obiettivi di lungo periodo di Robo&Bobo e, di conseguenza, dall’ampliamento della base di donatori potenziali e dalla messa a punto di una campagna di fundraising che, a partire dalle basi costruite nella prima fase, «lavori» anche sulla strategia di comunicazione del fundraising in grado di rendere il progetto maggiormente visibile e «riconoscibile».

In tal senso verrà arricchita la mappatura delle aziende potenziali sostenitrici, anche alla luce dei feedback ricevuti

nella prima fase di scouting, e verrà in particolare sviluppato il settore delle donazioni da individui, che statisticamente costituiscono l’ossatura di qualunque campagna di fundraising.

Le campagne mirate a raccogliere fondi da individui seguiranno il meccanismo della membership attraverso forme legate al concetto di «amico di Robo & Bobo», così da favorire meccanismi di fidelizzazione dei donatori.

Le stesse, poi, unitamente alla campagna per aziende, verranno declinate sul Natale, così da costruire un piano di fundraising omogeneo e attivo lungo tutto il corso dell’anno.

Alle campagne di fundraising verrà data la necessaria visibilità attraverso la definizione di un piano editoriale di comunicazione, in particolare focalizzato sul rafforzamento della comunicazione online (tramite e-mailing e social media) per ampliare la base di potenziali sostenitori del progetto.

Uno spazio ad hoc verrà riservato, tra gli strumenti di fundraising, agli eventi, il cui piano verrà definito anche in relazione alla futura mappatura dei potenziali donatori persone fisiche.

In generale, l’obiettivo sarà quello di diversificare le fonti di raccolta e gli strumenti utilizzati, così da ampliare le opportunità per l’organizzazione legate alla visibilità e al fundraising vero e proprio all’interno di una cornice omogenea e preordinata al raggiungimento della sostenibilità del progetto e, possibilmente, al suo ampliamento, sia per numero di strutture ospedaliere coinvolte sia per numero di operatori.

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Crediti

La prima edizione di Robo&Bobo (2016/2017) è stata possibile grazie al lavoro di:

Ideatori del progetto

• Anita Donna Bianco• Fabio Guida

Progettazione strategica

• Anna Donna Bianco• Fabio Guida• Giorgio Olivero

Advisor

• Christian Racca

Project management

• Anita Donna Bianco, Michelle Nebiolo

Sviluppo concept maker education

• Giorgio Olivero, Alice Mela, Serena Cangiano con Marco Cassino, Emanuele Lomello

User research

• Ginevra Rudel

Consulenza pedagogica

• Paola Cappelletti (millemodi.org)

Consulenza psicologica

• Alessandra Crispino (Associazione Ulisse)

Consulenza antropologica

• Isabel Farina

Consulenza sociologica

• Erica Adamo, Eugenio Graziano

Content editor

• Alessandro Argenio

Formazione operatori

• Marco Cassino, Emanuele Lomello

Formazione psicologica

• Alessandra Crispino (Associazione Ulisse)

Operatori in ospedale

• Walter D’Esposito, Valeria Francescato, Alessia Pagotto (Sotterranea Officina Sperimentale), Silvia Galfo

Grafica e strategia di comunicazione

• Quattrolinee

Foto e video

• Tania Ciurca, Davide De Martis

Ufficio stampa

• Silvia Ferrero

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Ringraziamenti

Si ringrazia il personale del Reparto di Oncoematologia dell’OIRM: dott.ssa Franca Fagioli, dott.ssa Marina Bertolotti, dott.ssa Elena Barisone, dott.ssa Mareva Giacchino, Silvia Vigna.

Un ringraziamento alle insegnanti di reparto Francesca Michelon, Mariagrazia Ciravegna, Giorgio Bodrito, Luisa Chiambretto, Simona Sartori, Maria Aliberti e a Marcella Mondini e Domenico De Biasio dell’UGI.

APPENDICE I

Link questionario pazienti →

Link questionario genitori →

TRACCE INTERVISTA OPERATORI

Domande in entrata

Vorremo chiederti quali attività hai seguito come operatore del progetto e un tuo breve racconto personale.

Hai partecipato fin dalle prime fasi dei laboratori, quando sono passati dall’idea alla applicazione pratica. Ci piacerebbe sapere come, nell’arco dei mesi, siano cambiati i laboratori e per quali motivazioni.

Sui laboratori (dimensione organizzativa)

1. Credi che nel periodo trascorso si siano modificati anche le modalità con cui «facevi i laboratori»? Se sì, perché? C’è stato qualche episodio in particolare che ti ha fatto riflettere?

2. Credi che le attività svolte siano sufficienti?3. Quando hai iniziato ti sentivi preparato ad affrontare

laboratori con ragazzi con queste problematiche di salute? Ora qual è la tua impressione? Avresti voluto un approccio iniziale diverso?

Sui pazienti (feedback sulle attività e dimensione relazionale)

L’aver partecipato come operatore al progetto ti rende un testimone qualificato di come sono stati svolti questi laboratori.

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1. Quali ti sono sembrate le reazioni dei ragazzi coinvolti rispetto ai laboratori? (Con esempi.)

2. Ti è capitato di chiacchierare con i partecipanti dei laboratori che seguivano? Che commenti ti hanno riportato?

Sui genitori (feedback sulle attività)

1. Ti è capitato di parlare dei laboratori con i genitori o osservare le loro reazioni a questo tipo di esperienze dei figli (sollievo, ansia, stacco, felicità, preoccupazione)?

Sull’ospedale e il personale medico (impatto e dimensione contestuale)

1. Qual è stato il rapporto con il personale medico? Qual è stato il rapporto con gli infermieri?

2. In generali quale pensi sia stato l’impatto nel reparto nel suo complesso? Ti mai capitato di sentirti di intralcio?

3. Percepivi incoraggiamento da parte del personale dell’ospedale? Ti è capitato di confrontarti su qualche paziente?

4. Il personale si è fatto coinvolgere, dando consigli e facendo osservazioni o anche critiche?

Valutazione (punti di forza, debolezza, prospettive future)

1. Quali ti sembrano i principali punti di forza del progetto Robo&Bobo? Quali le principali criticità?

2. Se dovessi riscrivere tu il progetto oggi cosa riproporresti? Che cosa aggiungeresti? Che cosa cambieresti?

3. Quali sono secondo te i principali insegnamenti di questo primo anno di attività ?

APPENDICE II. Esercizi Codix

1. SKATING

Traduci le seguente istruzioni in blocchi:

— Aspetta 2 secondi fermo — Accendi una luce rossa — Muoviti secondo un percorso a zig-zag — Ruota su te stesso di 180° verso destra — Accendi una luce verde — Muoviti di due passi verso destra — Fai un giro piccolo completo verso destra — Accendi una luce azzurra — Muoviti in avanti secondo un movimento ondeggiato — Fai una piroetta verso destra.

2. VICTORY LAP

Traduci le seguente istruzioni in blocchi:

— Accendi il LED superiore di rosso — Fai un giro largo lentamente, in avanti, verso destra e per 3 secondi.

— Ruota verso sinistra di 90° — Ripeti per 2 volte questi comandi:

— fai un passo avanti a velocità media — e poi uno indietro alla stessa velocità

— Accendi le luci da discoteca — Ruota verso destra di 90° — Accendi il LED superiore di verde brillante — Fai un giro largo a velocità media, in avanti, verso destra e per 4 secondi.

— Accendi le luci da discoteca

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— Fai una piroetta verso sinistra — Ora ripeti per sempre tutto quanto scritto sopra.

Teoria del colore:

3. JAVASCRIPT

Traduci il seguente script in blocchi:

wait(3); for (var count = 0; count < 4; count++) { move(FORWARD, 4, SPEED_MEDIUM); smallCircle(SPEED_FAST, BACKWARD, RIGHT, 2); }

4. ESCAPE

Scarica e stampa la seguente mappa: PDF →

Traduci le seguente istruzioni in blocchi:

— Aspetta 2 secondi fermo — Accendi il LED superiore di verde — Ripeti per 2 volte questi comandi:

— segui la linea fino al prossimo incrocio o fine linea — scegli la linea direzionata verso destra

— Segui la linea fino al prossimo incrocio o fine linea — Scegli la linea direzionata verso avanti — Segui la linea fino al prossimo incrocio o fine linea — Muoviti avanti veloce finché non trovi una linea e poi… [attenzione: qui si potrebbero confondere con i comandi della sezione «Line navigation»]

— Se l’intersezione con la linea è nera: — allora scegli la direzione verso destra

— Segui la linea fino al prossimo incrocio o fine linea — Muoviti avanti veloce finché non trovi una linea e poi… [attenzione qui si potrebbero confondere con i comandi della sezione «Line navigation»]

— Se l’intersezione con la linea è blu: — - allora accendi il LED superiore di azzurro chiaro

— Aspetta 5 secondi fermo

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5. Soluzioni

Soluzione 1: Skating

Soluzione 2: Victory Lap

Soluzione 3: javascript

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Soluzione 4: Escape

APPENDICE III. Risorse VR

1. CREARE

Google camera 3d →

Google camera →

Panorama 360 →

Tilt brush VR →

2. IMPARARE

Anatomia

Anatomyou →

Cardio VR →

Astronomia

Titans of Space →

Mars is a real place →

Solar system →

View Masterspace →

Skyview free →

Biologia

Incell VR Android →

Incell VR IOS →

Inmind VR Android →

Inmind VR IOS →

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Archeologia

KingTut VR Una visita nella tomba di Tutankhaten, Il faraone egizio della diciottesima dinastia

Android →

IOS →

Museo maya

Android →

Egypht360

Android →

Egypt chamber →

Arte

Dulwich Picture Gallery →

Museum of Stolen Art →

Virtual bedrooms →

Arte360 →

Natura

DinoTrek VR Experience →

Discovery VR →

Jurassic VR →

Virtual Gorilla →

Sea World VR2 →

Tecnologia

Virtualizer science →

Modelli 3D →

3. VIAGGIARE

Bosch VR →

Within VR →

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Report del primo anno di progettoSettembre 2017