Renzo Vespignani. Tra due guerre · La sacra infamia: promemoria sul deprecato tabù della guerra...

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Renzo Vespignani TRA DUE GUERRE ADAC Edizioni

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Renzo Vespignani

TRA DUE GUERRE

ADAC

Edizioni

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Renzo Vespignani

TRA DUE GUERRE

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in copertina:Renzo Vespignani

I volti della patria, 1975

Fotografie: Ut Orpheus Edizioni S.r.l.

Progetto grafico e impaginazione:Micaela Bonavia

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Renzo VespignaniTra due guerre

Massa, Palazzo Ducale, 25 aprile - 2 giugno 2006

Esposizione a cura di Massimo BertozziConferenza inaugurale di Philippe Daverio

Provincia di Massa-Carrara

PresidenteOsvaldo Angeli

Assessore alle Politiche CulturaliLara Venè

Comune di Massa

SindacoFabrizio Neri

Vice Sindaco, delegato alla Memoria e alla Resistenza

Stefano Alberti

Fondazione Cassa di Risparmio di Carrara

PresidenteAlberto Pincione

ANPI - Sezione Provinciale di Massa

PresidenteErmenegildo Della Bianchina

Associazione Diffusione Arte Cultura

PresidenteAdriano Primo Baldi

ConsiglieriNoris Amadelli Ardilio CianassiIone Mantovani

Piero Selmi

CoordinatriceRina Cianassi

Relazioni esterneGiuseppe Stafforini

Archivio LuporiniAnnalisa Pedrazzi

Grafica e uff. RomaMicaela Bonavia

CollaboratoriEnrico BelleiLaura FasoloMara GozzoliAlfredo GuidiGiovanni Lodi

Cristina Margeri Giulia Redaelli

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Sebbene siano passati trent’anni da quando Renzo Vespignani realizzò la mostra Tra due guerre,che siamo lieti di ospitare al Palazzo Ducale di Massa, e ulteriori trent’anni ci separino dallafine della guerra e dalla caduta del fascismo, gli orrori che qui vediamo dipinti non smettonodi suscitare la nostra commozione per quello che è stato e di rafforzare il nostro impegno affin-ché tutto questo non si ripeta.Quando ogni anno celebriamo, nel mese di aprile, la Festa della Liberazione, non possiamoinfatti dimenticare che la primavera del 1945 arrivò dopo un inverno durato più di vent’anni,e non possiamo fingere di non sapere come quell’inverno, iniziato nell’ottobre del 1922, si eramanifestato e poi concretizzato.Non possiamo dimenticare cioè quella lunga stagione di aggressioni alla democrazia e allaconvivenza civile, in cui alla lotta politica e al confronto delle idee si sostituì la pratica dellaviolenza, l’intimidazione dell’avversario, l’assalto alle sedi di organizzazione e di discussionepolitica, la distruzione degli organi di informazione.Ricordare tutto ciò è non solo utile, ma anche doveroso, dal momento che troppo vediamo riaf-fiorare, nel confronto politico quotidiano, il germe dell’intimidazione e della prevaricazione,mentre dovrebbe essere chiaro per tutti che la libera espressione del pensiero è un connotatoirrinunciabile della democrazia, e non può in nessun caso prescindere dal rispetto, civile oltre-ché politico, dell’avversario.La mostra di Vespignani, che così bene denuncia la ferocia ma anche la stupidità della guerra,aveva rappresentato trent’anni fa una preciso richiamo a non dimenticare e a non rimuovere lavergogna che ogni uomo non può non sentire per tutti i massacri perpetrati in nome di unapretesa superiorità, di razza, di religione, di cultura.Riproposta oggi vuole essere una risposta alle tante pretese revisioniste, che vorrebberoriscrivere la storia per cancellare colpe e responsabilità, e perfino negare che tutto questo siaveramente successo. Siamo infatti convinti che l’esigenza, giusta e doverosa, di riconsiderarecon animo più distaccato i tragici avvenimenti che hanno segnato la lotta per la libertà e lademocrazia, non possa davvero spingersi fino al punto di falsare il giudizio storico, moralee politico su quello che fu, da qualunque punto di vista lo si guardi, un conflitto fra umanitàe barbarie.La mostra è così un omaggio a tutte le vittime di quell’immane catastrofe e un riconoscimentoalla memoria di quanti, istituzioni e associazioni partigiane, ma anche singoli cittadini, hannocontinuato, anno dopo anno, a ricordare quegli avvenimenti, a commemorare i morti, adammonire noi tutti sulla pericolosità dell’oblio e dell’indifferenza.Vuole essere dunque un impegno a non dimenticare, ma anche a rammentare ai più giovani, epiù in generale a coloro che non hanno vissuto quella stagione dolorosa della nostra storia,quanto sia pericoloso abbandonare la strada del confronto pacifico, e praticare comportamentiaggressivi e violenti nei confronti di altri popoli, altre civiltà, perdendo di vista il rispetto per ivalori fondamentali dell’uomo, che sono la libertà e l’uguaglianza, ma anche il sacrosantodiritto alla diversità.

Fabrizio Neri Sindaco di Massa

Osvaldo AngeliPresidente della Provincia di Massa-Carrara

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Ritengo importante che la mostra di Renzo Vespignani Tra due guerre venga inaugurata alPalazzo Ducale di Massa il 25 aprile, come monito verso tutte le guerre e come significativainiziativa di pace. Questo ciclo di opere è stato esposto nel 2004 al Complesso del Vittorianodi Roma a sessant’anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine, nell’ambito delle manifestazioni«Noi Ricordiamo – Memoria, Resistenza, Liberazione 1944-2004».Oggi, a due anni di distanza, e in occasione del sessantesimo della proclamazione dellaRepubblica, la Provincia di Massa-Carrara ha deciso di rendere omaggio a un grande maestrodella pittura italiana esponendo questa mostra con una presentazione di Massimo Bertozzi euna conferenza di Philippe Daverio. Vespignani è un artista, sì, ma non meno è un intellettuale di grande rigore che non riesce adimenticare anche a distanza di anni le nefandezze della guerra, le menzogne, gli inganni, isilenzi e le ipocrite giustificazioni di chi consapevolmente fingeva di non sapere. Nei quadriesposti emergono drammaticamente le sofferenze degli oppressi e l’arroganza di carnefici,che, stravolgendo l’idea di patria in delirante supremazia razziale, hanno scatenato una inim-maginabile violenza di massa. La tragedia della guerra supera i confini di ogni paese e coin-volge tutti i regimi, così come il culto del capo carismatico e l’uso violento e prevaricante delpotere apre la porta alle peggiori aberrazioni e al disprezzo dei più elementari valori umani.Queste opere ci chiedono di esaminare la storia fuori dall’influenza di passioni e interessi diparte, opere che gridano l’orrore degli uomini e il loro dolore. Un grido che Piero Calamandreiha impresso in un’epigrafe che mi colpì da adolescente: «Noi non volemmo morire, noi nonvogliamo essere morti. Col sangue dato da Dio, firmammo un patto sacro, costituito di libertà,di lavoro, di pace. Voi che ancora vivete non tradite questa legge giurata, datevi mano, apritecome volemmo le porte dei millenni nuovi. Fate la liberazione». È sicuramente utile leggerel’eloquente e documentato saggio di Gaspare e Roberto De Caro contenuto in questo volumee meditare sul numero dei morti e dei massacri che hanno insanguinato l’Europa in nomedella forza e del potere. Vespignani non ha mai smesso di pensare a quelle mostruosità e,come ricordano nei loro saggi Eugenio Riccòmini e Lorenza Trucchi, ha sentito il bisogno dicontinuare a denunciare le violenze di un’Europa impazzita. Il collezionista modenese FrancoFabbi ha consentito a Vespignani la realizzazione di questo ciclo pittorico che non si può certodire commissionato per speculazioni di mercato. Ringrazio la Provincia di Massa-Carrara, eper essa lo storico dell’arte Massimo Bertozzi, per aver dato seguito ad una proficua collabo-razione tra l’associazione Adac di Modena, che rappresento, e l’assessorato alla cultura dellaProvincia di Massa-Carrara la quale, sempre con un intervento di alto profilo culturale diPhilippe Daverio, ha recentemente realizzato nell’ambito di questa collaborazione unagrande mostra di Sandro Luporini. Tornando a questa esposizione, Tra due guerre, e prima di concludere, c’è ancora una piccolacosa che vorrei sottolineare. Renzo Vespignani era guidato dal talento, ma ha avuto comegrandi consiglieri lo studio, l’osservazione, la coscienza e l’onestà intellettuale. Ha rifiutato lafinzione e l’ipocrisia in diverse fasi della sua vita. Il nostro compito di operatori dovrebbeessere guidato dalla stessa onestà. Le nostre scelte pesano sulla formazione delle coscienze, e,se sbagliate, non solo non educano, ma possono, nel tempo, produrre irreversibili danni. Seuno dei compiti della cultura è quello di educare alla convivenza e allo spirito critico, abbiamotutti il dovere di denunciare alle nuove generazioni gli orrori prodotti dalle guerre. Non pos-siamo non vedere che nelle più diverse parti del mondo l’inizio del nuovo millennio è ancoraintriso di violenza, di sopraffazioni e di ingiustizie.

Adriano Primo BaldiPresidente Adac (Associazione Diffusione Arte Cultura)

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«[...] È una storia tra le due guerre, ma non tutta quella storia: mancano dalla scena ilpopolo, la sua avanguardia, le sue rivoluzioni. Qui è soltanto plebe trasferita da un teatro diguerra a un altro, da un’illusione a un’altra; una sfocata proiezione di membra piagate, difoto formato tessera. È martirio e morte: la morte, dopotutto, resta evento completo e inequi-voco, il solo che il potere dei monarchi, dei poliziotti, dei poeti guerrieri, non è riuscito adefraudare della sua qualità interamente umana. [...]Si può dire che tutto il mio lavoro non aggiunge niente a Reich, a Thayer, a Diks, a Nolte;niente che già non si sappia sui processi di trasformazione del cittadino in terrorista, suimodelli famigliari che sublimano la logica degli Einsatzgruppen. E veramente, nella dire-zione del saggio, la pittura non può scoprire o spiegare quanto la parola. A meno che nonrappresenti (renda presente) ciò che la parola allontana. I suoi “segnali” possono colpirequella zona della nostra coscienza che è appena sfiorata dalla informazione scritta. I datiscientifici, i documenti e le schede, possono diventare sulla tela “caldi” come organismiviventi. La immagine plastica sconvolge quel tanto di pacifico (o pacificato) che è nellacomunicazione critica: una cosa è dire sangue, un’altra vederlo. Il sangue che intride la terrasotto i fucilati di Goya è appena sgorgato, e spiega e complica la storia con veemenza inef-fabile; strappa l’accaduto da un contesto di fatti appiattiti e omologati, gli restituisce ilsenso dell’azzardo disperato, del guasto irreparabile. Torna a sorprenderci. Definire lanatura di questa sorpresa, la sua qualità di notizia totalmente nuova ed essenziale, significaspiegare il perché e la necessità del dipingere.»

Renzo Vespignani, Tra due guerreRoma, maggio 1975

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15Renzo Vespignani: Tra due guerre

17Renzo Vespignani

Nota biografica

19Tra due guerre

di Renzo Vespignani

23Tra due necessità

Ricordare e dipingeredi Massimo Bertozzi

27Marmo e sangue

Due parole su Vespignani, e sul dipingere la guerradi Eugenio Riccòmini

31Pessimismo esistenziale e coscienza critica nella pittura di Renzo Vespignani

di Lorenza Trucchi

35La sacra infamia: promemoria sul deprecato tabù della guerra

di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

Il ciclo Tra due guerreSchede critiche di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

53Il sangue è il vino dei popoli forti

73La pupilla del regime

109Gli attributi del potere

143Il sudore e la gloria

167Mythus

INDICE DELLE OPERE206

Opere della collezione Fabbi207

Altre opere riprodotte nelle schede critiche

Sommario

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Renzo Vespignani dipinse il ciclo Tra due guerre tra il 1972 e il 1975. Attualmente queste operesono quasi tutte raccolte nella collezione Fabbi. Esposte poi con qualche variante in Italia eall’estero, vennero presentate per la prima volta nel 1975 alla Galleria d’Arte Moderna diBologna, in occasione delle celebrazioni del trentennale della Resistenza. Nello stesso annoVespignani dedicò al ciclo anche un volume omonimo (Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, Torino),che ebbe una seconda edizione nel 1976 corrispondente alla raccolta Fabbi. Il ciclo, secondo ilpercorso indicato dall’autore, è diviso in cinque sezioni: Il sangue è il vino dei popoli forti; Lapupilla del regime; Gli attributi del potere; Il sudore e la gloria; Mythus. Ciascuna sezione è qui pre-ceduta da una scheda a cura di Gaspare De Caro e Roberto De Caro e da una silloge di motti ecitazioni scelti dallo stesso Vespignani per i volumi ricordati. All’interno di ciascuna scheda,nella relativa sezione, si riproducono, oltre agli 80 quadri della raccolta Fabbi, anche le operenon comprese in questa, ma presenti nella mostra del 1975 e nella prima edizione del citatovolume.

Tra due guerre, scrive Vespignani, è innanzitutto «una storia per immagini da Serajevo aNorimberga […], una riflessione sul fascismo e sulla cultura delle masse piccolo-borghesi, checementano nel buio, come il popolo delle termiti, la loro città-prigione». Ma è anche viaggio innulla consolatorio attraverso gli orrori del primo Novecento, richiamo al dovere di una memo-ria né selettiva né indulgente, presa di coscienza delle responsabilità dell’arte e delle specifichepossibilità della pittura, del suo insostituibile ruolo di Instrument der Erkenntnis, di strumentodi conoscenza, come scrisse Dieter Ruckhaberle in occasione dell’esposizione berlinese del1976. Alta storiografia figurativa, programmaticamente lontana dai nefasti turgori della peda-gogia civica, Tra due guerre disincrosta e scopre il filo feroce e resistente che lega «la strage filan-tropica» del ’14-’18 agli abissi della Shoah, il Mito della Nazione al Mythus della Razza: è ildoppio filo dei valori e dei simboli lungo il quale il Dominio spaccia ai dominati il propriosogno, secondo la stringente definizione che Simone Weil ha dato del Potere. Indagando afondo il tema, senza indulgere a facili accomodamenti, e respingendo la categoria sfuggente ein ultima analisi assolutoria dell’inintelligibilità del Male, Vespignani si assume con forza laresponsabilità morale del giudizio e della scelta, interpretando magistralmente e con rara one-stà intellettuale l’ineludibile lascito etico e politico di Hannah Arendt.

Renzo Vespignani: Tra due guerre*

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* Ad eccezione dello scritto di Massimo Bertozzi, il presente volume ripropone, per gentile concessione,testi e immagini tratti da Renzo Vespignani, Tra due guerre, Ut Orpheus, Bologna 2004: catalogo dellamostra tenuta a Roma, nel Complesso del Vittoriano, tra il 24 marzo e il 25 aprile 2004, con scritti diGaspare De Caro - Roberto De Caro, Eugenio Riccòmini e Lorenza Trucchi; e, per un commento a cia-scuna sezione, da Gaspare De Caro - Roberto De Caro, Renzo Vespignani: «Tra due guerre». Schede critiche,Adac - Ut Orpheus, Modena - Bologna 2004. Il testo riportato in questa pagina, la successiva nota biografica su Renzo Vespignani, le tavole sinottichedegli 80 quadri della raccolta Fabbi integrate dalla riproduzione di altre 21 opere a pieno titolo apparte-nenti al ciclo stesso e l’indice delle opere sono a cura di Gaspare De Caro e Roberto De Caro.

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Renzo Vespignani nasce a Roma il 19 febbraio 1924 da Guido e Ester Molinari. Bisnipote diVirginio – famoso architetto, cui si devono tra le altre cose la ricostruzione della Basilica di SanPaolo, l’erezione dell’obelisco di piazza del Popolo e la Scalinata della Dataria al Quirinale –dopo la morte del padre, stimato medico chirurgo e cardiologo, è costretto giovanissimo a tra-sferirsi con la madre nella zona proletaria di Portonaccio, adiacente al quartiere San Lorenzo.Nel 1943, in una Roma traumatizzata dai bombardamenti, inizia a disegnare e affida a un dia-rio le proprie riflessioni. Nel 1945 espone nella sua prima personale alla Galleria «LaMargherita» e comincia a collaborare a varie riviste letterarie con scritti, illustrazioni e disegnisatirici. Nel 1948 la Galleria «Hugo» di New York gli dedica una mostra: a 24 anni è già un arti-sta internazionalmente noto e Oskar Kokoschka lo raccomanda al Ministero per gli AffariEsteri per una borsa di studio per la Francia, definendolo «uno dei migliori disegnatori con-temporanei». Tra i massimi incisori italiani del secolo, a partire dagli anni ’50 Vespignanilavora anche a scenografie cinematografiche e teatrali per Elio Petri, Francesco Rosi, LuigiSquarzina, Luchino Visconti. Nel 1956 fonda insieme ad altri artisti, architetti, letterati, registiCittà aperta, rivista problematicamente rivolta alla cultura urbana, in aperta polemica con unmovimento neorealista che dopo Umberto D – ultimo, estremo e doloroso gesto sovversivo diquel Vittorio De Sica così importante punto di riferimento per Vespignani – aveva tradito lalucida intransigenza dell’indagine sociale per rientrare nei ranghi innocui e premianti del dis-senso compatibile. A partire dalla fine degli anni ’60 comincia a dipingere per grandi cicli:Imbarco per Citera (1969), sulla crisi del ceto intellettuale; Album di famiglia (1971), acuta inda-gine del quotidiano; Tra due guerre (1972-1975), «una storia per immagini da Serajevo aNorimberga». Nel 1982 si reca per la prima volta negli Stati Uniti. Nel 1985 espone a Roma, aVilla Medici, oltre cento opere nella mostra Come mosche nel miele, ciclo dedicato a Pier PaoloPasolini. Nel 1991, sempre a Roma, a Palazzo delle Esposizioni, antologica di 124 opere, tra lequali il ciclo Manhattan Transfer, sull’insostenibile delirio esistenziale dell’American Way of Life.Nello stesso anno espone alla Galleria «Gregory» di Roma 250 fotografie nella mostra Unromano a Manhattan. Sempre in stretto rapporto con poesia e letteratura, Vespignani pubblicaed espone più volte cicli per le opere di Henri Alleg (giornalista che denunciò nel libro LaQuestion, del 1958, l’uso della tortura da parte dell’esercito francese in Algeria), Belli,Boccaccio, Eliot, Kafka, Leopardi, Majakovskij, Porta, Villon: un elenco assolutamente elo-quente della radicalità del suo impegno morale e civile. Nel 1999 viene eletto Presidentedell’Accademia Nazionale di San Luca e nominato Grand’Ufficiale al Merito della Repubblica.Muore a Roma il 26 aprile 2001.

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Renzo VespignaniNota biografica

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Una storia per immagini da Serajevo a Norimberga non può non essere, in larghissima parte,una riflessione sul fascismo e sulla cultura delle masse piccolo-borghesi, che cementano nelbuio, come il popolo delle termiti, la loro città-prigione. Questa cultura è un glutine di statid’animo puerili, di umiliazioni e di solitudini antiche. Hitler pensava a se stesso quando scri-veva che «la natura della maggioranza è femminea, e giuoca sempre tra due poli, uno negativoe uno positivo, amore e odio, diritto o ingiustizia, verità o bugia». E meglio di tutti profitteràdi quel bisogno di giustizia e di verità, leggendovi un’utile (per lui) disposizione al rifiutodella ragione, all’arroganza vendicativa, alla violenza sul «diverso». Certo i compiti piùingrati, da macellaio, questa massa glieli affiderà restando nel privato auto-compassionevolee mite. (Scomponendo l’orrore ci si accorge che è fatto di atomi di arrendevolezza, di lealtàcameratesca, di onorabilità, di filiale rispetto.) Una struttura caratteriale, peraltro, che stingeben al di là dei ceti medi, e filtra nel sottosuolo delle masse popolari con la ovvietà del sensocomune. Per quanto spiacevole, non mi pare che si possa smentire l’affermazione di Reich,secondo la quale «il fascismo come movimento politico si differenzia da altri partiti reazionariper il fatto che viene sostenuto e diffuso dalle masse umane»; e che «non è, come si credegeneralmente, un movimento puramente reazionario, ma costituisce un amalgama tra emo-zioni ribelli e idee sociali reazionarie».Naturalmente «qualcosa» o «qualcuno» dovrà agire sull’inerme e sul frustrato, perché possaconquistare gradualmente un adattamento psicologico al ruolo di assassino o di complice.Assai prima dei fatidici anni venti, in Italia, piove su questo terreno di cultura «battericamenteinerte» il reagente di una cultura superiore e solenne, organicamente elaborata da letterati,filosofi, poeti, artisti, smaniosi di temprare la coscienza nazionale. È una cultura cripticamentefascista: almeno nella misura in cui bergsonismo, neoromanticismo, misticismo, decadenti-smo, creano il culto dell’eros e della santa violenza patriottica. Affermando il diritto della poe-sia a farsi politica, ovvero il diritto della politica a realizzare una romanità da biblioteca, gli«araldi della patria» premono in realtà l’acceleratore dell’imperialismo; che sarà cinico, dilet-tantesco e spiritualista. Assai prima di Marinetti, fu Corradini a intravvedere nella modernaguerra meccanizzata una estetica e una morale purificatrici. Senonché, nella prosa e nelleimmagini di questi profeti, il dramma della guerra ha il candore zuccherino della statuariacimiteriale. Alla maniera di Sacconi, tra capitelli corinzi e colonne rostrate, avanza un popolodi guerrieri nudi, efebici e insieme corrucciati, trascinandosi dietro le spose, i figli, le madri, legiovenche, come in una migrazione biblica. È un popolo di costruttori, di santi, di navigatori,non di emigranti e di cafoni prosciugati dalla pellagra. L’Italia alfabetizzata, quella che fortu-nosamente ha realizzato l’unità, si appresta a realizzare gli italiani: vagheggia per loro undestino da fregio ellenistico (rivisitato da Dossena). L’espansionismo a danno dei barbariavrebbe unito il Nord al Sud, il ricco al povero, col suggello del sangue sparso in comune. Aibraccianti sarebbe toccata la terra come ai legionari di Roma, a compensare il trionfo suiTeutoni, sui Cimbri, sui Cartaginesi. Già nel ’90 l’esercito era il cuore della nazione: non si deveaspettare Mussolini per cantare di guerra civilizzatrice, con vanghe, libri e moschetti.

Tra due guerre*

di Renzo Vespignani

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* Il presente testo è stato pubblicato per la prima volta nel catalogo della mostra Tra due guerre, organiz-zata dalla Galleria d’Arte Moderna del Comune di Bologna tra il 18 giugno e il 27 luglio 1975.

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La bramosia di un grande destino, implica il disprezzo della idea parlamentare. L’Italia deiRastignac, dei Morasso, dei Turiello, dei Federzoni, sogna di superare all’indietro questa rap-presentanza di avvocatucoli di provincia, modellando l’idea di un autoritarismo da secoloaugusteo; odia il paziente pragmatismo del «ragionier» Giolitti, e pavimenta la strada allamistica del condottiero; misura «la vita in termini di letteratura, la letteratura in termini diazione», e non passerà molto perché si dica che «è necessario vincere ma ancora più necessa-rio combattere».Dunque si cerca di rompere il silenzio degli spiriti, dando fiato alle trombe della nevrastenianazionale. A rileggere questa letteratura, che non è solo dilettantesca o giornalistica, sirimane stupefatti dalla terminologia lampeggiante, dallo scialo di evocazioni macabre e diturgori millenaristici. Che diventasse il gergo della piccola borghesia era inevitabile. Se ilsignificato sfuggiva, la musica degli esametri restava: essa faceva letteralmente esplodere dientusiasmo i ceti acculturati da un paio di generazioni, la minuta burocrazia degli scrivani edegli uscieri comunali, dai ruoli ancora informi. Era una fonte di luce viva nella penombradelle mortificazioni quotidiane, quasi un poetare collettivo. Le orazioni di D’Annunzio chepreludevano alle sanguinose spallate sul fronte dell’Isonzo, sono tipiche di una rettorica chesodomizza l’ignoranza o l’antica cultura etnocentrica del popolo italiano: incomprensibiliperché zeppe di Leonidi, di Cornelie, di Cesari, di grifi e fiere rampanti, di allusioni omeri-che e virgiliane, o forse solamente perché dette nell’italiano dei Lincei, fungevano da viaticoper il supremo olocausto. Battaglioni di analfabeti, mangiati dai pidocchi, si vedevano trasfor-mati nella legione tebana.Se il mio ciclo s’apre con alcuni ritratti di D’Annunzio, non è dunque in omaggio al gusto,oggi diffusissimo, dei revivals nostalgici. Il personaggio, «avido di recitare la propria biogra-fia», dà inizio ad una avventura culturale che dalla casa di Andrea Sperelli, «teatro di perfet-tissime emozioni», conduce alle Fosse Ardeatine; a una scena assai diversa, certamente, macongegnata dallo stesso «delicato istrione», dallo stesso «abilissimo apparecchiatore»; soloorribilmente sfigurato e incrudelito dalla vecchiaia.Una latinità liberty, poi novecentesca, si sfascia sotto le bombe: bandiere e trofei, tronchi mar-morei e vecchie foto, sorrisi, vestiti di seta, uniformi sudicie e ventagli di piume, il ricordo delcielo nella prima sera di guerra, sono i rottami di un progetto, nella sua essenza, paranoico.Al pittore non resta che raccoglierli e tentare di classificarli.Un materiale ostile, ai fini della restituzione plastica. Per tre anni ho vissuto insieme a spettriche avevano la fragilità, l’odore vagamente ripugnante e uggioso dei vecchi documenti; tuttele mie cognizioni di pittore, trapassandoli, si sono scomposte come un fascio di luce all’uscitadi un cristallo sfaccettato. Pertanto, queste tele registrano la resa dell’autore-demiurgo-arbitrodi forme ad un tema «impossibile»: la storia assunta dalla ragione, impersonalmente. Era unprezzo da pagare: sapevo fin dall’inizio che non avrei potuto tirare, tra me e i grandi cimiteridella patria, il confine invalicabile di una linea purissima.È una storia tra le due guerre, ma non tutta quella storia: mancano dalla scena il popolo, la suaavanguardia, le sue rivoluzioni. Qui è soltanto plebe trasferita da un teatro di guerra a un altro,da un’illusione a un’altra; una sfocata proiezione di membra piagate, di foto formato tessera.È martirio e morte: la morte, dopotutto, resta evento completo e inequivoco, il solo che ilpotere dei monarchi, dei poliziotti, dei poeti guerrieri, non è riuscito a defraudare della suaqualità interamente umana. Ammetto il pessimismo decadente del racconto. Ma ho dovutorileggere troppo D’Annunzio per arrischiarmi a cantare il volo di una Nike, anche se di unaNike operaia.Si può dire che tutto il mio lavoro non aggiunge niente a Reich, a Thayer, a Diks, a Nolte;niente che già non si sappia sui processi di trasformazione del cittadino in terrorista, suimodelli famigliari che sublimano la logica degli Einsatzgruppen. E veramente, nella direzionedel saggio, la pittura non può scoprire o spiegare quanto la parola. A meno che non rappre-senti (renda presente) ciò che la parola allontana. I suoi «segnali» possono colpire quellazona della nostra coscienza che è appena sfiorata dalla informazione scritta. I dati scientifici,i documenti e le schede, possono diventare sulla tela «caldi» come organismi viventi. Laimmagine plastica sconvolge quel tanto di pacifico (o pacificato) che è nella comunicazione

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critica: una cosa è dire sangue, un’altra vederlo. Il sangue che intride la terra sotto i fucilatidi Goya è appena sgorgato, e spiega e complica la storia con veemenza ineffabile; strappal’accaduto da un contesto di fatti appiattiti e omologati, gli restituisce il senso dell’azzardodisperato, del guasto irreparabile. Torna a sorprenderci. Definire la natura di questa sor-presa, la sua qualità di notizia totalmente nuova ed essenziale, significa spiegare il perché ela necessità del dipingere.

Roma, maggio 1975

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«Dov’eri tu, o mio Signore, quando io soffrivo, dov’eriquando il mio cuore era nel fango?»; «Io ero lì, nel fango».(Santa Caterina da Siena)

A piedi nudi e col sangue agli occhi Renzo Vespignani esplora le profondità dell’abisso.Trent’anni dopo la catastrofe, quando il ciclo Tra due guerre fu realizzato, così come ancora oggi,dopo altri trent’anni, la sua pittura è lì a dire dove sprofondarono le magnifiche sorti e progres-sive della nostra civiltà.Perché una cosa è chiara, il nemico non fu un estraneo. Non venne da fuori. Era cresciuto inmezzo a noi, parlava la stessa lingua; aveva letto gli stessi libri e diceva di professare gli stessivalori. Eppure fu empio e malvagio. Senza pudore e senza vergogna, dissennato e paranoico.Partorito da una civiltà che aveva illuminato il mondo e che ora, spaventata dal futuro, acce-cava i suoi stessi figli.La catastrofe insomma non venne da sola. Ci fu chi la preparò e chi la lasciò venire, per inte-resse o per rassegnazione; ci fu soprattutto chi era destinato a subirla. Perché quando la storiaammannisce il banchetto possono cambiare i commensali, ma a pagare il conto sono sempregli stessi.«Dio è con noi», proclamava l’arroganza blasfema del nazismo. «Se Dio esiste, perché tuttoquesto?», sembra chiedersi Vespignani, affidando alle immagini l’ultimo pensiero del martiredelle Fosse Ardeatine, del Partigiano impiccato, dell’ebreo bruciato a Treblinka, del vicino dicasa rimasto sotto le macerie del bombardamento di San Lorenzo.E la domanda, vecchia come l’uomo, che già leggiamo nel libro di Giobbe, «Se c’è Dio, dadove il male?», sembra trovare la stessa risposta suggerita da Hannah Arendt: il male vivebanalmente in mezzo a noi, ci cammina accanto, e perciò si deve temerlo senza farsi accecaredalla paura, bisogna imparare a conoscerlo per tenerlo a bada, isolarlo per non farlo cresceree prevalere.E per Vespignani la pittura è a tutti gli effetti uno strumento di conoscenza. Pur utilizzando un linguaggio formale di forte impatto espressivo, nel tratto concitato e nellalinea contorta, come nella composizione drammatica e mossa, la sua pittura scansa la cadutaespressionista e prende così le distanze da ogni elaborazione sentimentale della realtà. Qui è larealtà ad essere crudele e violenta non le immagini che la raccontano. I colori si spengono e sisfaldano, macerati essi stessi dal dolore che gli tocca esprimere, perché la brutalità cheabbiamo di fronte non ha davvero bisogno di essere esasperata.Per questo credo che si sia troppo insistito sull’ascendenza espressionista della pittura diVespignani. E a torto si sono anche individuate ispirazioni e analogie con i tedeschi, GeorgGrosz e Otto Dix in particolare, perché i temi della denuncia e della condanna morale delpotere sono solo un momento delle intenzioni poetiche di Vespignani, ma soprattutto perchéné lo stile corrosivo del primo, né la visione allucinata del secondo hanno mai fatto parte delsuo bagaglio formale.Per quanto terribile possa apparire l’immagine, la pittura che la sostiene è misurata, compostae laconica, perché di fronte al dolore anche un’altra sola parola può essere di troppo, e alloraVespignani sente che non c’è bisogno di incedere nell’orrido o di scivolare nel grottesco, per

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Tra due necessitàRicordare e dipingere

di Massimo Bertozzi

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tracciare i contorni di una condizione umana che deve riflettere, nella sua essenza fisica e men-tale, gli aspetti morali e sociali di un mondo che è stato ingiusto e dissoluto prima di diventareviolento e distruttivo. Insomma la pittura deve testimoniare, e anche commuovere, ma non per questo deve amman-tarsi di commozione. Soprattutto se come in questo caso, si tratta di testimoniare non undolore fisico e contingente, ma il ricordo di una pena infinita. Vespignani si dispone così ad unatteggiamento analitico, che non vuol dire distaccato, per recuperare una realtà che non hadavvero alcun bisogno di essere enfatizzata dall’urlo espressionista, perché ha già in sé unacarica emozionale sconvolgente, che la rende efficacemente espressiva, senza che ci sia biso-gno di esasperarne la rappresentazione artistica.Ogni dipinto di questo ciclo ha così i toni amari di una cronaca raccontata da un punto di vistasofferto, e che tuttavia si sforza di rimanere neutrale, senza enfasi e senza cinismo, depurata daogni approccio idealista, che per questo si affida a una figurazione asciutta e ad una narrazioneconcisa, dove ogni deformazione ha valore espressivo senza diventare caricatura, confidandosu una franchezza di linguaggio che sconvolge ed emoziona, senza cercare la volgarità maanche senza scansarla ad ogni costo.Ecco così la creazione di immagini solide, rette da una saldezza organica delle figure che si sta-gliano nell’indeterminatezza dei contesti. Ecco la macerazione del colore, a dire la cancrenafisica della carne ma anche la putrefazione morale dei simboli del potere. Vespignani sa didover mostrare le ferite della guerra senza dover riaprirle e allora gli tocca tenere aperte leferite della pittura, perché l’immagine possa rivendicare tutta la sua autonomia, senza rom-pere il fragile equilibrio che c’è tra lo sdegno morale e le motivazioni civili del furore. La pittura deve restituire identità agli oggetti, alle manette dei torturati e alle scarpe dei truci-dati, ma anche ai guanti dei carnefici, connotandone la funzione, ma logorandoli fin quasi allosfaldamento, come cose sottratte alla distruzione e all’oblio, recuperate direttamente dalmagma ancora incandescente di una eruzione appena placata.La pittura si arriccia e si impasta, il segno articola le forme senza badare a definire i contorni,l’immagine è drammatica, penosa e crudele, eppure tutto ciò non attenua minimamente quelsenso di felicità del dipingere, che a questi quadri conferiscono le superfici morbide e acco-glienti, tela o cartone che siano, e la sobria eleganza del colore che si è depositato al posto giu-sto e nei toni giusti, come una naturale secrezione della fantasia.L’impianto corporeo delle figure di Vespignani non sopporta in ogni caso di essere destruttu-rato; la carica espressiva dell’immagine ha bisogno di energia interiore quanto di compostezzaformale, per cui non può davvero disporsi alla forzatura, alla deformazione, alla caricatura,ma deve cercare piuttosto nel rapporto fra la figura e lo spazio circostante, il terreno doveallentare quel po’ di rigidità che inevitabilmente si annida nella retorica compositiva dei pienie dei vuoti.Di fronte alla crudezza delle immagini che gli interessa evocare, Vespignani sente che qualun-que foga espressionista rischierebbe davvero la caduta retorica, del già fatto e del già visto, eallora chiede alla pittura di essere misura a se stessa. Ed ecco allora che la pittura richiama l’at-tenzione sul particolare ma è reticente sui contesti. Nonostante la macerazione delle carni el’abbrutimento dei volti la pittura non macera i colori e non abbrutisce le forme. Tutto si riduceall’essenziale, come se dopo aver composto il quadro Vespignani lo scuotesse, come si fa conun albero, da cui si vuole far cadere tutto quello che è posticcio, morto o moribondo, e lasciareal suo posto solo la parte buona, essenziale, necessaria. Si vorrebbe, e si dovrebbe, dire quale carica di sensazioni e di emozioni erompe dalla sempli-cità a cui Vespignani costringe la sua pittura: dalla vacua decadenza del salotto di D’Annunzioal volto alieno di Papini, dall’innocenza dei bambini costretti a giocare con le maschere a gasalla putrefazione, morale oltreché fisica, del volto di Rockefeller, di contro alla profonda tri-stezza del volto di chi Si arrende, a Malaga, a Varsavia, a Stalingrado o non importa dove, malimitiamoci a guardare fra i tanti «attributi del potere», quasi tutti feroci e militaristi, l’incon-gruenza di un Impermeabile, dipinto davvero con niente, con poca ombra – ma quante vibra-zioni di grigio in quell’ombra! – e bruciato da tanta luce, ridotto ad essere il guscio vuoto di uncorpo mutilato, inespressivo e finalmente inoffensivo.

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Renzo Vespignani realizza il ciclo Tra due guerre negli stessi anni in cui Elsa Morante scrive LaStoria, e in entrambi c’è la stessa intenzione: di dipingere e scrivere per tutti, perché è di tuttiche qui si parla. La storia è stata essenzialmente un eccidio di innocenti, e ha colpito soprat-tutto coloro che subiscono impotenti le conseguenze di decisioni che ignorano, così come laguerra colpisce soprattutto gli inermi, che una guerra non sanno affrontarla dal momento chenon riescono neanche a concepirla. Ma se per Elsa Morante la storia è «uno scandalo che dura da diecimila anni», Vespignani nonpuò non registrare il soprassalto di crudeltà ammannitoci dalla storia nel secolo scorso. Unsecolo cominciato in ritardo, e male, finito, e molto peggio, in anticipo.Un secolo che si apre e si chiude a Serajevo. Ma cos’è che separa il gesto individuale, ancorchéviolento e regicida, di un giovane nazionalista serbo, dal martirio inflitto alla città bosniacaottant’anni dopo dalla ferocia razzista dei militaristi serbi? Non la violenza, che c’è semprestata, non l’odio per il nemico, che alimenta tutte le guerre, quanto il tentativo di annientare ildiverso nell’unica cosa che altrimenti ce lo rende simile, e quindi fratello, la sua umanità.Il segno terribile che ha squarciato la nostra civiltà in quell’età della catastrofe, che è stato ilperiodo fra le due guerre mondiali, è proprio questo tentativo di disumanizzare l’individuo,negandone l’identità, cancellandone l’immagine, distruggendone il corpo. Ed è sul corpo dell’uomo che Vespignani misura la ferocia del potere, la mistica della violenza,gli orrori della guerra.Un corpo dilaniato dalle bombe, asfissiato dai gas, bruciato nei forni, putrefatto nelle fossecomuni, al punto da far credere a molti che non solo non potesse essere più misura della bel-lezza, ma che non fosse più nemmeno raffigurabile.Ma Vespignani è fra quanti non credono che la pittura possa essere autosufficiente, che possacioè riassumere in se stessa, nei suoi valori formali e cromatici, ogni possibilità espressiva etutta la carica emozionale dell’immagine.Perché è convinto che questi corpi, così come la pittura che ce li rende presenti, debbano pas-sare attraverso lo strazio macerante della decomposizione e dello sfaldamento, per alimentarequel sentimento di pietà che rende sopportabile la memoria. Perché occorre mettere al sicuroalmeno i morti dalla ferocia della storia, prima di poter aspirare ad una ricomposizione for-male, che se non potrà essere la resurrezione della carne possa almeno aspirare al salvamentomorale dell’immagine.

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Piaghe, ferite purulente o rinsecchite, stracci macchiati di sangue e velati di terriccio, di restiumani esumati, capestri stretti dal peso d’un corpo, fiori che appassiscono accanto alle fotoin bianco e nero sul luogo d’un eccidio, cappotti militari in pelle dagli ampi risvolti, frustinida cavallerizzo, guanti anch’essi in pelle, mutande di pizzo che s’ammainano su glutei fem-minili tenuti stretti con finto pudore, e vessilli in bacheca, e decorazioni; e ancora piaghe, eferite in fretta ricucite come dopo un’autopsia, e cinturoni borchiati, e mostrine, e stivali; e ilvate della lussuria e della guerra fra i suoi alani, e la casacca dell’arciduca in bacheca, primadi tutto quel primo macello, e corpi ignudi di reclute in posa ginnica, e gli stessi corpi riversie ulcerati sulla trincea, e quelli dei loro simili, poi, anch’essi a terra dopo la raffica, control’intonaco sbrecciato dal piombo; e la Patria impassibile e marmorea, con l’elmo crestato e ilpeplo candido, nuovamente fidiaco, e deltoidi e tricipiti di atleti anch’essi di marmo lustro enon ancora scalfito dal tempo, fra lo strepito acclamante di volti eccitati, oscenamente scom-posti; e così via. Per tre anni, fino alla primavera del 1975, Renzo Vespignani ha convissutocon centinaia di immagini fotografiche, antiche e recenti, che illustravano o documentavanoaspetti, ora tronfii ora penosi, e sempre sciagurati e senza consolazione, delle due grandiguerre d’Europa. Aveva davanti agli occhi i volti superbi di chi, quelle guerre, le aveva invo-cate e attese, fremendo; e di chi tremando e bestemmiando le aveva subite. Aveva davantiagli occhi i marmi superbi dei monumenti, e le case sventrate dalle esplosioni, e come denu-date. Si accostavano, in quelle immagini, la polita superficie statuaria degli eroi, dei ginna-sti, e i grumi informi delle giubbe dei fucilati. Da quella lunga ed emozionata meditazionevisiva, e dal continuo rileggere testi di quegli anni, ufficiali e pomposi o anche alatamenteispirati, oppure sgrammaticati e senza speranza, sono nati questi dipinti, a decine. Riuniti inuna mostra itinerante, furono esposti in varie città del nostro continente, al di qua e al di làdel muro che allora lo divideva. Con grande successo di pubblico, dicono le cronache; maanche senza visibile effetto sulle tendenze dell’arte di quegli anni, volta a tutt’altro e clamo-roso genere di spettacolo; proprio allora si stava costruendo e assemblando, tanto per ricor-dare, la grande macchina del Centro Pompidou, nel cuore della vecchia Parigi; e a Vienna, ealtrove, Nitsch scandalizzava gli astanti con le sue macellerie. E la figurazione stava già pre-parandosi a far ritorno in scena in pompa magna e con non poco clamore; ma privilegiandocalcolate ingenuità, tra i modi primitivi e quelli infantili, tenendosi ben discosta da ogni esi-bizione di professionale destrezza; quasi a voler dire che, per far pittura, non c’è alcun biso-gno d’esser pittori.Come viatico a tutto quel suo lavoro pittorico, Vespignani stilò di suo pugno due o tre pagine,senza alcuna nota filologica, senza neppure un accenno a dichiarazioni di principio, o di parte.Ed è bene pubblicarle di nuovo, ora che ci si trova ancora di fronte a quel suo lavoro assiemecosì personale e datato, eppure senza tempo preciso; come senza tempo, perché efficaci inqualsiasi momento, sono sia l’amarezza per le condizioni tragiche della vita umana, sia lo stu-pore ammirato per l’efficacia del dipingere. In quelle poche righe, così strettamente legate aitemi e ai modi di questi dipinti, Vespignani tracciava la storia d’una emozione profonda eprofondamente vissuta; e confessava la difficoltà di farne narrazione con i mezzi della pittura,che in ogni caso (sì: anche in Grünewald, anche nei fucilati di Goya) aprono gli occhi alla bel-lezza. «Sapevo fin dall’inizio», scriveva, «che non avrei potuto tirare, tra me e i grandi cimiteridella patria, il confine invalicabile d’una linea purissima».

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Marmo e sangueDue parole su Vespignani, e sul dipingere la guerra

di Eugenio Riccòmini

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Nelle righe di chiusura di quel testo, il pittore rammentava anche le tante pagine narrative, sto-riche, apologetiche, celebrative, critiche di cui s’era nutrito, e che avevano accompagnato queisuoi tre anni di lavoro. Rendeva loro il dovuto omaggio, e ne riconosceva l’insostituibilità,come fonti d’informazione, come documenti, come luoghi di maturazione del pensiero. Maaggiungeva che la parola scritta avvolge gli eventi fisici, inevitabilmente, in un’aura più tersa;che le parole, si potrebbe aggiungere, seguono un loro paratattico disporsi, analogo alla conse-quenzialità del ragionare, del dedurre, dell’argomentare. E che per contro la «necessità deldipingere» (così, appunto, diceva) persegue altri fini: alla ragione del dire oppone, o affianca,quella non meno forte del vedere, del far vedere di colpo, e senza pausa, e tutto d’un tratto laevidenza ottica, e fisica, di ciò che è, di ciò che accade.Di certo, sotto l’urgere delle emozioni di quei tre anni di convivenza con l’orrore e la stupidità,Vespignani non aveva alcuna voglia di far teoria, né tanto meno d’impancarsi a far da profes-sore d’estetica. Gli era chiaro, certo, che quella sua «necessità del dipingere» iniziava a farsimanifesta, almeno, dagli uri di Lascaux, dai bisonti di Altamira, fino alle incoronazioni napo-leoniche di David, agli spaccapietre di Courbet, alle sue donne nude assopite, e fino anche altremolio del sole tra le ninfee dello stagno di Giverny. Ma sapeva che quella lunghissimavicenda s’era d’un tratto interrotta con l’affermarsi della civiltà industriale, della fotografia,del cinema; e con l’affermarsi delle avanguardie. Pensava, con ogni probabilità, che tuttequelle riproduzioni di Guernica allora appese al muro d’ogni adolescente in vena di ribellione,o anche solo insofferente del presente stato delle cose, indicassero non più che un’opinione,magari anche ferma e di certo ben motivata; anche se la celeberrima tela di Picasso intratte-neva, a ben vedere, un rapporto solo simbolico e perdipiù elegantemente stilizzato con lo spes-sore fisico della distruzione, della sofferenza, della morte.Di certo Vespignani non aveva la minima intenzione di stare fuori dal suo tempo, in qualchezona marginale. Voleva proprio starci in mezzo. E infatti, nel suo studio, s’era circondato diprodotti dell’industria visiva: centinaia di fotografie, di manifesti cinematografici, di cataloghidi musei, di mostre. Maneggiava ogni giorno i ritratti in posa del vate, del duce, dei volti ano-nimi degli arditi e degli squadristi in camicia nera, dei balilla in foto di gruppo, della borghe-sia in parata o in vacanza, dei signori ariani bellissimi e sinistri nell’uniforme maschia e son-tuosa, belli e virili come le statue degli stadi, dei nuovi fori italici mediterranei; e a quelle fotosi mischiavano, senza distinzione, quelle della città ferita dalle incursioni, dei corpi ridotti afagotti di cenci, appena estratti dai calcinacci, dei polsi rattrappiti entro la stretta dei legacci,delle carni segnate dalla stella di Davide.Ma quella era, appunto, la messe ancora da cogliere; era solo l’oggetto della sua impresa pitto-rica. Erano figure, certo, ma non ancora pittura. O così gli pareva; secondo, ovviamente, l’ideache della pittura s’era fatto, facendola ogni giorno. E non è affatto facile, nel giro di pocheparole, o frasi, far cenno di ciò che intendeva Vespignani, quando parlava del suo mestiere; intempi (i suoi, i nostri: è lo stesso) in cui l’arte del dipingere sfugge a qualsiasi possibile defini-zione, su cui tutti ci si possa intendere. È ben difficile, intanto, collocare la sua attività entroqualche cassetto chiaramente etichettato: perché, se è fin troppo trasparente la sua matriceideale e perfino politica, essa non corrisponde peraltro ad alcuna tendenza stilistica, o sempli-cemente del gusto. Tanto per dire: la sua raffinatissima sapienza pittorica sta parecchio a disa-gio entro le maglie di quel nuovo tentativo di realismo, in debito verso Picasso e verso laBrücke, che Togliatti approvava, sia pure un poco obtorto collo, e che durò fin che durò, perqualche anno. E i rapporti con la pittura dei progressisti americani, come Ben Shan ed altri, unpoco s’avvertono, e un poco no: perché, nelle sue cose giovanili, e soprattutto negli splendididisegni delle periferie romane, si tratta d’affinità di tema, e assai meno di stile, di lingua.Vespignani, insomma, cammina per proprio conto; e ciò si vede benissimo in tutte queste tele.Ed è, in tempi di totale e indistinguibile cosmopolitismo, pittore del tutto italiano. Una siffattadefinizione non gli sarebbe piaciuta, forse. Ma non c’è, in essa, alcun accenno ai sacri confini.Della tradizione pittorica italiana, dei grandi maestri come di quelli quasi dimenticati,Vespignani (e qualche altro, con lui: ma tutti senza conclamata fama) trascinava senza appa-rente sforzo, nell’oggi, una invidiabile destrezza di mano, una facilità, una sprezzatura da stu-pire. Sono le qualità nostre: un poco eccessivamente esibite, forse, come l’abilità dei giocolieri,

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degli acrobati; ma, un tempo, tutti i pittori stranieri ne restavano stupefatti, e si mettevano inviaggio, e valicavano le Alpi per apprendere quella magia, quel segreto. Quella magia, ecco,Vespignani l’ha appresa sostando lungamente in qualche aula d’accademia, e imparando pocoa poco il mestiere; che mai si finisce d’imparare.E così, di fronte al martirio e alla ferocia e alla brutalità del nostro tempo, Vespignani si metteall’opera come un maestro antico chiamato a dipingere martirii antichi, antiche ferocie. Mettein campo ogni suo sapere, ogni sottigliezza del disegno, ogni brivido delle tinte. E studia, comesempre s’è fatto, parte a parte ogni dettaglio della sua composizione. E infatti molte di questetele sono studi d’un panneggio, d’un torso, d’una testa su un fondo lasciato incompiuto. E poi,come sempre s’è fatto, congegnava attentamente il montaggio d’ogni parte, eliminando eaggiungendo, rifinendo e completando o lasciando zone appena sfiorate dal pennello. Cosìfacendo, certo, gli restavano nell’occhio il taglio moderno delle fotografie da cui era partito, laloro mimetica verità, o l’accentuazione plastica che la pellicola registra, impressionata dallaluce. Non si trova quindi, in questi dipinti, la solenne calma della luce degli stanzoni d’accade-mia; ma piuttosto l’aggressività e la flagranza dell’immagine da rotocalco, dello scatto improv-viso dell’obbiettivo che fruga un frammento di realtà. È su questa realtà che Vespignani, da pit-tore di anche nefande squisitezze, medita e riflette. Da essa, e da ciò che dell’esistenza umanarivela, trae succhi pittorici di avvelenata raffinatezza. E fa aggallare su queste tele, assiemeall’infamità e all’orrore, assieme all’aspro sapore dell’annullamento e della sconfitta, la fragilevittoria del dipingere.

Bologna, 20 gennaio 2004

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«L’Io si sceglie». Questa norma di Louis Lavelle1 è particolarmente pertinente per RenzoVespignani, artista esistenzialista per eccellenza.A venti anni Vespignani voleva diventare scrittore (il manoscritto di un suo libro di raccontiscomparve tra le macerie della sua casa durante il bombardamento di San Lorenzo) e questoperché sebbene già dipingesse con innata perizia, «la realtà» gli sembrava impenetrabile, el’arte bugiarda, come si muovesse in una stanza immersa nel buio, e sconosciuta».2 Ma il suomodo di guardare e, quindi, di capire e dipingere senza menzogne, cambia d’improvviso.Ancora nel Diario Vespignani ne precisa le circostanze e perfino la data esatta: «Il 19 luglio,quando, cancellato da una nuvola lattiginosa di calcina, il cortile mi apparve deformato da unaluce arcana. Uscivo dalla cantina in un vuoto fulgente, e incespicavo, il viso levato al cielo…Lentamente mettevo a fuoco la strada, il cortile, e più lontano, dov’era stata la Basilica di S.Lorenzo, in una specie di fiamma bianca e allungata, il sole. Da quel giorno la realtà, semprepiù spesso, cominciò a ferirmi come un’annunciazione».Vespignani non parla dunque laicamente di scoperta né metafisicamente di rivelazione, bensìdi annunciazione. Una buona novella ma anche una chiamata che mentre lo elegge e lo fa ido-neo al compito del dipingere gli indica un cammino perigliosissimo quanto irrinunciabile. Èin questo impatto fulmineo e lacerante tra la morte che lo circonda e la vita che forsennata-mente pulsa nel suo giovane corpo, tra l’oscurità della inconsapevolezza e la luce della con-sapevolezza abbagliante fino alla ferita, che egli sceglie per sempre il proprio destino di uomoe di artista.A ripercorrere l’iter di Vespignani, sia pure a tappe successive come suggerisce l’andaturaciclica del suo lavoro, ci si avvede quanto egli possieda la cognizione del dolore. Un semeamaro nato con la sua stessa vocazione all’arte, che non ha cercato di estirpare ma all’oppo-sto ha nutrito e coltivato con lucida determinazione. Lavoratore indefesso ha impegnato ilsuo raro talento, la sua prodigiosa perizia tecnica, la sua acuminata intelligenza a documen-tare, evocare, persino esaltare privilegiandola su ogni altra, la dimensione tragica dell’esi-stenza fino a farci percepire il vuoto e il nulla che ci circonda. L’indissolubile unità dell’esi-stenza e dell’esistente che si avverte nella sua opera fa di lui uno dei rari e più autentici artistidell’esistenzialismo laico che, come è noto, si è espresso più attraverso l’arte, la letteratura, ilteatro, che non attraverso compendi dottrinali, giacché come afferma Simone De Beauvoir,«se la descrizione dell’essenza dipende dalla filosofia propriamente detta, solo il romanzo (e leopere d’arte) consentono di evocare nella sua realtà completa, singolare, temporale, il sorgereoriginale dell’esistenza».3

Questa coscienza della congenita ed invincibile solitudine dell’uomo fa anche dell’impegnopolitico di Vespignani un fatto prima di tutto umano, privato, vissuto dal di dentro: la sua pit-tura di storia è autobiografia, è «testimonianza di come ci sentiamo». Assieme a questa com-ponente di confessione, di diario spietato, l’altra componente primaria dell’arte di Vespignaniè la presenza invadente, ossessiva del corpo, che egli sente ed analizza con impietosa pietà.Non sembri un gioco di parole che tale è il suo cannibalismo linguistico, quel modo di posse-dere con il colore e più con il segno, l’immagine dell’uomo tanto spesso offesa, snaturata,martoriata.Vespignani non crede al riscatto trascendente del dolore, tutto per lui si compie ed esauriscenella materia, nella vita biologica, semmai come ha detto a proposito delle illustrazioni per le

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Pessimismo esistenziale e coscienza critica nella pittura di Renzo Vespignani

di Lorenza Trucchi

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Metamorfosi di Kafka, crede nella capacità di adattamento, di riorganizzazione in forme«diverse», ad un ipotetico, traslato ricongiungimento al mondo animale e vegetale. Ma èchiaro che il destino di Gregorio Samsa resta una mera speranza (o menzogna?) poetica. Benpiù spesso esibisce lo spettacolo della morte con crudezza e questo cedere e corrompersi delcorpo è tanto più terrificante per quanto la morte è provocata dalla cieca violenza, dalla follecrudeltà. Esempi di questa morte innaturale si hanno soprattutto in tre cicli. Quello giovaniledetto del Portonaccio, dedicato in prevalenza alle vittime e ai disastri del bombardamento diSan Lorenzo, quello intitolato Tra due guerre, oggetto di questa mostra e quello ispirato all’omi-cidio di Pasolini, forse il più spietato, che segna di fatto la spaccatura di Vespignani con la suacittà pur tanto amata: «Nel ’79 Roma sembrò tornare quella del dopoguerra… Tutto somi-gliava al tempo della mia giovinezza, ma tutto era diverso: le passioni non bruciavano permigliorare il mondo, ma per cauterizzare una immensa delusione».4 Una delusione connessacon l’impegno politico come confessa con dolente ironia: «Che ridere, che tenerezza, ricordarecerte discussioni sui massimi sistemi: la responsabilità dell’artista, la moralità del suo linguag-gio specifico, la natura della sua intellettualità. E, mamma mia, ve lo ricordate? il vecchio impe-rativo dell’impegno sociale».5 Di fatto di questa delusione Vespignani aveva precocementedato conto con l’Imbarco per Citera (1967-’69), ispirato al famoso capolavoro di Watteau, unaffresco sontuoso e macabro tra dolcevita e contestazione o come è stato definito «il gran ballofinale di una generazione impegnata». Per questo suo embarquement l’artista adotta colori inu-sitati – rossi di fiamma e rosa aurorali, blu zaffiro, note di verdi crudi e gialli squillanti, fram-misti a ogni sorta di neri e lividi bianchi – ed una sintassi alleggerita quasi impressionista, chetramuta la tragica denuncia in una aggraziata commedia, innocente nella sua ferocia.Personalmente considero l’Imbarco per Citera dal ritmo così leggero e lieve che mirabilmenteTestori ha definito «un passo di danza, un volo di funebri farfalle», unico e magistrale, tale datrovare una collocazione di primissimo piano nella pittura figurativa della seconda metà delNovecento, accanto, pur nella totale divergenza delle motivazioni ideologiche e nella diversitàsintattica, al gruppo di opere, altrettanto agili, fragranti e comunicative, che David Hockneydedicò al tema delle piscine e dei giardini, accorpabile sotto il titolo A Bigger Splash, dal filmche Jack Hazan consacrò al pittore inglese.Dopo un intervallo riservato alla sfera del privato, ritratti della madre, dei figli, della moglie edipinti, disegni, studi consacrati alla propria immagine spinti sino allo scandaglio minuziosoe ossessivo di ogni parte e frammento del viso e del corpo (Rapporto sull’autore, 1968-’71),Vespignani torna ad occuparsi dei mali della guerra e della violenza. Lo fa ora non in manieradiretta, da involontario testimone, come in giovinezza né da allarmato spettatore come acca-drà nel ciclo pasoliniano allorché si cala in una realtà disumanizzata e feroce alla quale corri-sponde l’elementarietà dei sentimenti e la brutale riduttività delle azioni e dei gesti, bensì perla prima volta da storico, sia pure salutarmente di parte. Si tratta dunque di «Una storia tra ledue guerre, ma non – come egli stesso dichiara – di tutta quella storia: mancando nella scena ilpopolo, la sua avanguardia, le sue rivoluzioni». Protagonista è «soltanto plebe trasferita da unteatro di guerra a un altro, e da un’illusione a un’altra. […] È martirio e morte: la morte, dopo-tutto, restando l’evento completo e inequivoco, il solo che il potere dei monarchi, dei poliziotti,dei poeti guerrieri, non è riuscito a defraudare della sua qualità interamente umana».6 Edancora a giustificare con la consueta lealtà il pessimismo letterario del racconto Vespignaniprecisa: «ho dovuto rileggere troppo D’Annunzio per arrischiarmi a cantare il volo di unaNike, anche se di una Nike operaia».7 Non sta a me indagare sulla esattezza storica della tesiche l’artista propone ed illustra nel ciclo Tra due guerre. Tesi peraltro non nuova e sotto moltiaspetti corretta, secondo la quale alla base della ideologia fascista vi sia una «cultura superioree solenne, organicamente elaborata da letterati, filosofi, poeti, artisti, smaniosi dì temprare lacoscienza nazionale».8 In altre parole «bergsonismo, neoromanticismo, misticismo, decadenti-smo» creando «il culto dell’eroe e della santa violenza patriottica» sarebbero movimenti cultu-rali «cripticamente fascisti». Ecco così alternarsi e mischiarsi: eleganze floreali e rovine espres-sioniste, vestiti di seta e uniformi, ventagli di piuma e carni martoriate. Un materiale contrad-dittorio e mutevole, difficile da gestire, persino ostile, che Vespignani affronta con l’audacia eil coraggio del torero nell’arena. Del resto alla fine quello che su tutto emerge e tutto travolge

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e pianifica è ancora una volta la morte, non solo quella più diretta delle vittime della guerra,dei bombardamenti, degli atroci campi di sterminio dove sono ammassati dei poveri cristi«senza divinità», ma la morte che subdolamente si annida nelle immagini algide, persino apol-linee, dedicate agli apparati del potere, ai suoi miti e ai suoi riti. L’incubo del vero, esibito emorbosamente dettagliato, talvolta si fa quasi insostenibile, ma Vespignani non ci dà tregua,soprattutto non si dà tregua. Autentica è la sofferenza dell’autore che traspare da tutto il ciclotalché si resta sedotti da quel suo saper vivere così a lungo e ossessivamente a tu per tu con ipropri personaggi, con i propri spettri, ben sapendo fin dagli inizi che il prezzo da pagare èalto: quello, come ha confessato, «di non poter tirare tra se stesso e i grandi cimiteri dellapatria, il confine invalicabile di una linea purissima».9

Da un punto di vista linguistico il ciclo non ha connotazioni o riferimenti precisi. Del restoabbandonati i grandi modelli, così amorevolmente studiati in giovinezza, Rembrandt, Goya eil più familiare Fattori (soprattutto per quel che attiene il breve momento delle marine e dellespiagge caratterizzate da un pigro aprirsi di bianchi parasoli ), Vespignani si è creato una lin-gua tutta sua seppure volutamente contaminata, dove alterna l’ossessione analitica e dettagli-stica a momenti più impetuosi e liberatori. Così anche in Tra due guerre, di volta in volta, aseconda che il tema lo richieda, eccolo indulgere sia all’ornato floreale e al ricalco dei fregi mar-morei dell’Altare della Patria sia ad un nitore apollineo che si deforma nelle prospettive impos-sibili e nei primi piani di efebici eroi (L’Italia di marmo) sia infine cimentarsi in alchimie e ricettemateriche e gestuali che si riconnettono alle già provate ricette dell’Informale. Comunqueanche in questo ciclo resta di fondamentale importanza la componente grafica. Che Vespignanisia più un disegnatore che un colorista è cosa risaputa. Io stessa agli inizi degli anni Cinquantascrissi che il suo segno corrispondeva a quello di Wols. Era cioè il sensibile sismografo dellasua stessa esistenza. Ma mentre il pittore tedesco, proseguendo la lezione di Klee, badavasoprattutto al perpetuo sommovimento della vita organica e più che «creare si lasciava avve-nire», Vespignani restava un implacabile diarista. Disegnare significava allora soprattuttocomprendere «non solo i profili, le linee, i colori ma il senso vero degli uomini e del loro pae-saggio». Un compito che è restato costante e appassionato fino all’ultimo, tanto da fare dellasua ampia e mirabile opera grafica un eccezionale documento esistenziale del nostro passato.

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1 Louis Lavelle, La conscience de soi, Grasset, Paris 1933.2 Renzo Vespignani, Diario 1943-1944, Carte Segrete, Roma 1991.3 Simone De Beauvoir, Littérature et métaphysique, in Les Temps Modernes, 1, 7, avril 1946.4 Renzo Vespignani, Come mosche nel miele, Catalogo della Mostra omonima, Villa Medici, Roma 1951.5 Ivi.6 Renzo Vespignani, Tra due guerre, in questo stesso volume.7 Ivi.8 Ivi.9 Ivi.

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Ed ecco, uscì un altro cavallo, rosso, e a colui che stava sopra fu dato ilpotere di togliere la pace dalla terra e di far sì che gli uomini sisgozzassero fra di loro e gli fu consegnata una grande spada.(Apocalisse, 6,4)

Quando il Secondo Cavaliere, tornato a confutare la grande illusione, ebbe completato l’opera,lasciò dietro di sé oltre 50 milioni di morti, 35 milioni di feriti, 3 milioni di dispersi.Scomparvero 20,6 milioni di sovietici, 11,8 di cinesi, 6,8 di tedeschi, 5,8 di polacchi, 3 di giap-ponesi, 1,5 di jugoslavi, 600.000 francesi, 455.000 italiani, 400.000 inglesi, 300.000 statunitensie centinaia di migliaia di persone di altre nazionalità.1 Il Secondo Cavaliere non aveva por-tato solo morte, aveva anche generato il frutto maturo della Modernità: la dimostrazioneostensiva del genocidio burocratico, il deserto morale della «mentalità del solving problem»2

nell’irresistita fascinazione medusea del Potere sul Sapere – sulla scienza e sulla tecnologia.Ma Auschwitz3 e Hiroshima, apici di strutture mostruose,4 entrambi efferati prodotti finali diprogrammi di sterminio ramificati e diversificati, non esaurirono affatto possibilità ed esitidi quelle strutture e di quei programmi. Da una parte, anche se è difficile prendernecoscienza, l’orrenda reiterazione di Nagasaki va oltre Hiroshima e la dottrina della guerrapreventiva nella specie di un delirante monito ai sovietici: essa ostenta protervamente, senzanecessità di ulteriore appello, l’inesistenza di limiti all’esercizio di un potere assoluto e cri-minale. Dall’altra, pressati dall’avanzata dell’Armata Rossa sul fronte orientale, i tedeschievacuano i Lager e costringono i superstiti, stremati dalla inumana detenzione, a trasferirsiad ovest, verso la Germania. Almeno un terzo dei 750.000 prigionieri sottoposti a questaulteriore tortura furono uccisi o morirono di stenti durante le «marce della morte», quando itedeschi avevano già perso ogni speranza di vittoria. L’ossessione della Endlösung, la «solu-zione finale», non si attenuò neanche di fronte alle difficoltà logistiche della ritirata, all’og-gettiva convenienza strategica, così come aveva quasi sempre finito per far premio sulle esi-genze di sfruttamento schiavistico nell’agricoltura e nell’industria bellica e civile del Reich.E se non si poteva più usufruire dell’efficienza del modello fordista applicato al progettogenocida,5 si poteva però ripiegare sulle forme più arcaiche, comunque efficaci, delle esecu-zioni sommarie e delle privazioni, che avevano già dato buona prova di sé prima che laDeutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung mbH (Società tedesca di lotta contro iparassiti) coronasse le migliori aspettative dei gerarchi nazisti fornendo alla fabbrica dellosterminio immense dosi di Zyklon B.Le cifre della politica di annientamento nazista sono spaventose: 2.250 Testimoni di Geova,9.000 omossessuali, 270.000 malati di mente, 500.000 zingari, 1 milione e 50.000 tra detenutipolitici, ‘asociali’ e internati militari nei campi di concentramento, 3,3 milioni di prigionieri diguerra sovietici, tra i 5 e i 6 milioni di ebrei,6 di cui almeno i due quinti fucilati o lasciati morirenei ghetti. Circa 11 milioni di esseri umani furono cancellati dalla faccia della terra secondo unprogetto che si andò perfezionando durante il corso della guerra, ma le cui linee erano stateinesorabilmente tracciate e rese pubbliche ben prima dell’invasione della Polonia, quandoHitler veniva armato e assecondato quasi unanimemente dai governi stranieri, nonché inter-nazionalmente omaggiato, come in occasione delle olimpiadi berlinesi del 1936, quasi un anno

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La sacra infamia: promemoria sul deprecato tabù della guerra

di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

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dopo l’approvazione delle leggi di Norimberga sulla purezza della razza che privarono gliebrei dei diritti civili e di cittadinanza. Il Führer non era isolato: tutti sapevano e consentivano.Del resto, pur dotato di sufficiente creatività personale, condivideva con zelo imitativo modelliecumenicamente apprezzati: se certamente subì la fascinazione di Mussolini e Stalin (il primoper l’audacia putschista e l’uso dichiarato dell’omicidio politico, il secondo per le grandiosevisioni genocide7), l’idea di rinchiudere «gli agitatori di stirpe giudaica in campi di concentra-mento»,8 che cominciò a coltivare fin dal 1921, gli veniva dai durissimi concentration camps incui all’inizio del Novecento i britannici rinchiusero e perseguitarono nell’Orange e nelTransvaal le famiglie dei coloni boeri. Egli stesso lo ricordò anni dopo in un discorso pubblico:«I campi di concentramento non sono stati inventati in Germania, ma dagli Inglesi per spez-zare con questi mezzi la spina dorsale di altri popoli».9 Il Drang nach Osten, la devastante con-quista di Lebensraum ad est, di spazio vitale nella terra degli Untermenschen, i sottouomini daeliminare o schiavizzare, si configurava per i nazisti, anche sotto il profilo giuridico, come unennesimo episodio di colonizzazione dell’imperialismo europeo; ma personalmente Hitlerprediligeva piuttosto la «conquista del West» come archetipo di espansione e genocidio deinativi: «la lotta che muoviamo ai partigiani – spiegava nel 1942 – è paragonabile a quella cheveniva mossa agli Indiani dell’America del Nord».10 Hitler d’altronde conosceva la storia,almeno quella che poteva servirgli, e sapeva quanto facilmente si perdoni qualunque cosa aivincitori: «Chi parla ancora, oggi, del massacro degli armeni?» sentenziò il 22 agosto del 1939in un discorso rivolto ai comandanti in capo delle forze armate del Reich per incitarli al rapidosterminio dei polacchi. Quel massacro era stato rapidamente archiviato e il nuovo ordineaccettato perché, aggiunse, «il Mondo crede soltanto ai successi».11

C’era poi chi si organizzava in proprio, senza camere a gas: «A primeggiare per efferatezzesono soprattutto le bande ustascia dello Stato “indipendente” croato, il satellite più feroce delTerzo Reich. 487.000 serbi ortodossi, 27.000 zingari, all’incirca 30.000 ebrei, nonché migliaia dicomunisti» furono vittime del regime di Ante Pavelic, «fondato sull’amalgama di devozionecattolica e di fanatismo nazionalista […]. Gravi le collusioni della Chiesa […]. Come ormai èaccertato, i francescani si macchiano in quelle terre di innumerevoli delitti, uccidendo, incen-diando case, saccheggiando villaggi; il clero croato invita a sgozzare non solo i serbi, ma anchegli ebrei».12 E Pio XII, more solito, taceva.13

L’immensa tragedia non si concluse con la cessazione delle ostilità. Venne la stagione della ven-detta. Lo sterminio proseguì. È abbastanza noto che a partire dal gennaio 1945, terrorizzati dal-l’incalzare delle truppe sovietiche, i tedeschi della Polonia e della Prussia Orientale fuggirono apiedi verso la costa baltica per cercare di imbarcarsi. Si calcola che circa un milione di personemorirono di freddo, patimenti e sevizie. Inoltre, in osservanza dell’articolo 13 del protocollo diPotsdam, nell’inverno di quello stesso anno venne «effettuato il trasferimento in Germania deitedeschi rimasti in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria». Circa 14 milioni di persone furono spo-state ad ovest in condizioni disperate e altri 2,1 milioni di tedeschi morirono. Alcune di questecomunità abitavano da secoli le regioni evacuate.14 Molto meno noto è cosa ne fu dei prigionieri.Alla fine degli anni Ottanta, dopo oltre quattro decenni di insabbiamenti, silenzi e bugie e aseguito di una rigorosa ricerca, lo scrittore canadese James Bacque, coadiuvato da due coraggiosicolonnelli dell’esercito statunitense,15 fece luce sul destino dei militari tedeschi, ma anche di molticivili, detenuti nei campi francesi e americani nell’immediato dopoguerra:

Alla fine del 1945, sulla maggior parte del fronte occidentale il tuono dell’artiglieria era statosostituito dal rumore di milioni di paia di stivali trascinati dalle colonne di tedeschi in marciastancamente verso i campi alleati. […] Le rese in massa nell’ovest contrastavano fortemente conle ultime settimane sul fronte orientale dove le unità superstiti della Wehrmacht combattevanoancora contro l’Armata Rossa avanzante, per permettere al maggior numero possibile di cameratidi sfuggire alla cattura da parte dei russi. […] Dal punto di vista tedesco questa strategia conse-gnava milioni di soldati tedeschi nelle mani che essi credevano più pietose degli Alleati occiden-tali, sotto il supremo comando del generale Dwight Eisenhower. Tuttavia, dato l’odio feroce eossessivo del generale Eisenhower non solo per il regime nazista ma anche per tutto quanto fosse

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tedesco, questo credo risultava nel migliore dei casi un azzardo disperato. Più di cinque milionidi soldati tedeschi nelle zone americana e francese erano costretti nei campi, molti letteralmentespalla a spalla. Il terreno attorno a loro presto divenne una palude di sporcizia e malattie. Espostialle intemperie, mancando anche delle più primitive strutture sanitarie, sottonutriti, i prigioniericominciarono presto a morire di fame e malattia. A partire dall’aprile 1945, gli eserciti americanoe francese annientarono con indifferenza circa un milione di uomini, per la maggior parte neicampi americani [circa il 75%].16 Mai erano avvenute simili crudeltà sotto il controllo della auto-rità militare degli Stati Uniti, sin dai tempi degli orrori della prigione di Andersonville, ammini-strata dai confederati, durante la guerra civile americana. Per più di quarant’anni, questa trage-dia senza precedenti è rimasta nascosta negli archivi alleati.17

Anche la sorte dei 7 milioni di profughi sopravvissuti agli eccidi del nazismo in molti casi futerribile. A cominciare da quella che toccò a 100.000 ebrei superstiti, costretti a restare inGermania «sovente in caserme dell’esercito tedesco, come il campo di Hohne, detto di Bergen-Belsen, e in ex KZ [Konzentrationslager], come Dachau». Gran parte di loro per tutto il 1945 eanche oltre (l’ultimo di questi campi di ‘transito’ chiuderà nel 1952) dovettero rimanere nelpaese dei carnefici sia perché le comunità originarie erano state completamente distrutte e nonvi era possibilità di rientro nelle nazioni di provenienza, sia perché leggi draconiane sull’im-migrazione avevano chiuso le porte della Palestina, del Canada, degli Stati Uniti. Nei campialleati gli ebrei dovettero subire l’ignominia di essere trattati da criminali: sottoposti a copri-fuoco, sottoalimentati, spesso lasciati con la divisa del Lager, in caso di proteste venivanorepressi dalla polizia tedesca, esplicitamente autorizzata, che, come è facile immaginare,sovente si mostrava ostile. «I rapporti tra l’esercito americano e gli ebrei peggiorarono a talpunto» che nell’agosto del 1945 dovette intervenire il presidente Truman e incaricare di un’in-dagine Earl G. Harrison, «preside della facoltà di Diritto dell’Università della Pennsylvania erappresentante presso il Comitato interministeriale dei rifugiati», il quale fu perentorio: «Allostato attuale delle cose, stiamo trattando gli ebrei come hanno fatto i nazisti, salvo che non listerminiamo. Sono ammassati in gran numero in campi di concentramento sotto la sorve-glianza del nostro esercito, che ha preso il posto delle truppe SS».18

Peggio ancora, se possibile, andò ai superstiti dell’Armata Rossa, i quali nella gerarchia dei Lagerdel Reich occupavano, tra i prigionieri di guerra, «il rango più basso».19 Essi avevano già dovutosubire la furia del Rassenkrieg, la guerra razziale, che come si è detto ne portò alla morte 3,3milioni: un elevatissimo numero, legato alle «Direttive per il comportamento delle truppe inRussia» emanate dal Dipartimento dello Stato maggiore della Wehrmacht prima dell’operazione«Barbarossa». Ai militari tedeschi si ordinava «un intervento energico e spietato contro agitatoribolscevichi, partigiani, sabotatori, ebrei e la totale eliminazione di ogni resistenza attiva e pas-siva».20 Per gli Untermenschen sovietici non doveva esserci scampo. Nei Lager la disparità di trat-tamento tra le diverse nazionalità fu enorme: «il tasso di mortalità tra i prigionieri sovietici arrivòquasi al 60%, mentre quello dei circa 100.000 prigionieri americani nello stesso sistema di inter-namento e spesso persino alloggiati negli stessi campi era del 4%».21 Nel famoso Stalag XVII, «uncampo di prigionia completamente ‘normale’, […] dei circa 4.000 sottufficiali americani comples-sivamente solo quattro persero la vita, il che corrisponde ad un tasso di mortalità di uno su 1.000,nello stesso campo tra i sovietici ne moriva uno ogni 10».22 Ebbene, questa gente che aveva attra-versato il calvario della guerra e dei campi di concentramento e di sterminio ora doveva fare iconti con l’insaziabile crudeltà di Stalin, il quale fin dall’agosto del 1941 «aveva definito quantierano caduti in mano tedesca come traditori della patria o collaborazionisti, che al loro ritornoavrebbero subito rappresaglie non solo in prima persona, ma anche nelle loro famiglie»23 e decre-tato che «i parenti dei soldati dell’Armata Rossa» che si fossero lasciati «prendere prigionieri»non avrebbero ricevuto «alcun sostegno o aiuto da parte dello Stato».24 Nonostante le notevolidivergenze di valutazione sulle cifre e i destini dei reduci sovietici,25 risulta «chiaramente che lametà degli ex prigionieri e dei lavoratori civili ebbe a soffrire le rappresaglie più disparate»,almeno fino all’amnistia del 1957, che tuttavia non comportò una loro «piena riabilitazione […].Il “marchio di Caino” […] rimase fino all’epoca della perestrojka e caratterizzò così per decennila vita di queste “vittime di due dittature”».26

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Poi ci furono le rappresaglie e gli eccidi a fini geopolitici, come quelli titoisti contro gli italianinel maggio-giugno del 1945 in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, terre che tra il 1941 e il 1943avevano conosciuto gli orrori nazifascisti, vertice di un ventennio di brutale dominio delloStato italiano. Migliaia di persone morirono nelle foibe carsiche o nei campi di prigionia slo-veni e croati e non solo esponenti fascisti e responsabili di crimini di guerra, come affermatoufficialmente da Belgrado, ma anche numerosi cittadini comuni italiani e slavi, partigiani,comunisti dissidenti, membri dei comitati di liberazione nazionale. Insomma, chiunque siopponesse alle ambizioni annessioniste della «nuova» Jugoslavia.27

Il grande massacro non veniva dal nulla. L’«inutile strage» del ’14-’18 ne aveva gettato le solidebasi. E non solo perché per la prima volta sperimentò su scala continentale contro i corpi senzadifesa di milioni di uomini, al fine esplicito della massima distruzione, la devastante sinergiadi Scienza, Industria e Arte militare (inclusi i prodigi della chimica dei gas). Ma soprattuttoperché in seguito l’establishment delle democrazie occidentali si guardò bene dal legittimare ildibattito etico su quanto era avvenuto. La guerra ancora una volta non fu disonorata, comeaveva inutilmente auspicato Maupassant dopo gli orrori del conflitto franco-prussiano. Alcontrario, fu esaltata. I suoi valori – il patriottismo, il nazionalismo, il militarismo, l’eroismo, lavirilità – non furono messi in discussione dai vincitori e tantomeno dai vinti.28 In effetti, per gliinteressi degli Stati e dei ceti dominanti che ne garantivano il funzionamento e ne rivendica-vano la proprietà, quella strage non fu affatto «inutile», liberò i tesori ancora inespressi della«civiltà superiore», come la chiama chez nous la Bocca della Verità. I 13 milioni di individuistrappati alla vita (oltre il «doppio rispetto al totale dei caduti in tutti i conflitti di rilievo svol-tisi tra il 1790 e il 1914» in Europa29) erano in larga parte contadini e operai che in nome dellerispettive patrie vennero costretti dai relativi parlamenti a massacrarsi a vicenda.30 Un salassoterapeutico fortemente voluto dal Capitale e infatti del tutto consono ai suoi interessi: la lottadi classe era vinta, il pacifismo distrutto,31 l’internazionalismo bandito. D’altra parte la GrandeGuerra fu anche la causa scatenante della rivoluzione in Russia e, come avrebbe sostenutoSimone Weil, non fu affatto una buona causa.32

C’erano dunque, alla fine del primo conflitto mondiale molte condizioni perché la grande illu-sione che l’inutile strage fosse stata l’ultima si rivelasse appunto un’illusione. Tra le forze checoncorsero a smentirla, soffocando il tabù della guerra, santificando la carneficina e prepa-rando gli animi alla reiterazione, la trahison de clercs diede il suo peculiare, applaudito contri-buto mitopoietico. Anche gli intellettuali cominciarono allora a diguazzare nel fango dellaSchuldfrage, dove lo sterminio è orribile solo se lo perpetrano gli altri. La seconda volta però sivide ancora meglio a che cosa serva una Schuldfrage: a riconoscere e datare il Peccato Originalecosì da cancellare collusioni e complicità pregresse, nonché a separare l’Atrocità mostruosa deicolpevoli dalla Ritorsione riparatrice degli innocenti. I magistrati fecero di conseguenza ildover loro, agli intellettuali spettò di acclarare l’ortogenesi del Male e la Filosofia non mancòall’appello. Sviluppando la diagnosi intuitiva di Norimberga, l’assioma che identificava ildelitto contro l’umanità con la peculiare inumanità del colpevole, Theodor W. Adorno e glistudiosi ispirati da lui elaborarono una teoria tesa a dimostrare che i movimenti fascisti eranocostituiti da individui antidemocratici dai «forti impulsi aggressivi sottostanti», attirati dallapossibilità di coniugare la propria «aggressività con la violenza autorizzata contro gruppiesterni stigmatizzati ideologicamente».33 Coniarono pertanto il concetto di «personalità autori-taria»,34 che avrebbe spiegato in chiave psicologica la veemente attitudine alla violenza di que-sti specifici soggetti. Tale dottrina, in realtà priva «di riscontri empirici» ma «in confortanteconsonanza con i desideri subconsci della platea accademica»,35 contribuiva ad accreditarel’accomodante visione di episodica estraneità del fenomeno nazifascista alla cultura e alla sto-ria delle società europee e godette quindi sin dalla sua formulazione e per lungo tempo dimolta fortuna. Fino a che il sociologo Zygmunt Bauman, a partire dagli studi di Raul Hilbergsullo sterminio degli ebrei in Europa durante il nazismo e dagli esperimenti di StanleyMilgram e Philip Zimbardo,36 non la mandò definitivamente in pezzi, mostrandone la natura

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grottescamente tautologica: «Per Adorno e i suoi colleghi il nazismo fu crudele perchéfurono crudeli i nazisti, e i nazisti furono crudeli perché le persone crudeli tendevano adiventare naziste».37 La teoria della «personalità autoritaria» non solo non spiegava nulla,ma era decisamente contraddetta dai risultati della ricerca storica.38 Si trattava invece moltopiù seriamente di indagare quella che Primo Levi aveva con grande severità definito «zonagrigia»39 – l’area dell’ambiguità, del compromesso, della collaborazione, attiva o passiva, conil Potere –, di spiegarne le cause, comprenderne i meccanismi. Ne risultò che il Male ha lafaccia feriale della normalità, come aveva detto Hannah Arendt, che «la novità più terribilerivelata dall’Olocausto e da ciò che si era appreso sui suoi esecutori non era costituita dallaprobabilità che qualcosa di simile potesse essere fatto a noi, ma dall’idea che fossimo noi apoterla fare».40 D’altra parte, nella vicenda apparentemente incomprensibile della collabora-zione degli ebrei al progetto del proprio annientamento, Bauman mise in rilievo «la capacitàdel potere moderno, razionale, burocraticamente organizzato, di promuovere azioni chesono funzionalmente indispensabili ai propri scopi, sebbene si trovino in stridente contrastocon gli interessi vitali degli attori».41 Questo è un punto chiave. La capacità dello Stato diindurre gli individui ad agire contro se stessi è un tratto specifico della modernità. La coer-cizione è incessante e estremamente duttile, esprimendosi secondo evenienza e necessità,trasformandosi funzionalmente anche all’interno di uno stesso programma di persuasione.La potente macchina della propaganda interventista messa in moto dalla Prima guerra mon-diale diede un esempio su larga scala dell’opportunità di associare funzionalmente il con-senso delle vittime alla coercizione, scatenando entusiastiche adesioni di volontari pronti adifendere i sacri seppur mobili confini della Patria, anche se la maggior parte dei persuasi,una volta giunti sulla Marna o nel mattatoio carsico, ebbero bisogno di stimoli complemen-tari per confermarsi nella volontà di uscire dalle trincee e opporre i propri corpi alle mitra-gliatrici. Comunque nella circostanza la «zona grigia» si dimostrò essenziale terreno di cul-tura dei processi autodistruttivi: i carabinieri addetti a fucilare sul posto gli indecisi e lepatriottiche esortazioni al sacrificio – soprattutto da parte di chi «alla fronte» non ci sarebbecomunque andato – erano denti del medesimo vampiro, dissetato dalla cooperazione gra-tuita ma non innocente di infiniti complici. In Im Westen nichts Neues di Remarque è il pro-fessore di greco che un anno dopo l’altro spinge i diletti allievi a farsi scannare: carnefice nonmeno efficiente e irrinunciabile dei cannoni francesi, senz’altra paga che l’ebbrezza dei pro-pri irresponsabili miti, proprio come gli scienziati dell’Olocausto si esalteranno poi alleluminose visioni dell’eugenetica.Nelle moderne società democratiche, la «zona grigia» ha nella delega politica, nell’obbedienzaafasica e servile mascherata da volontà sovrana, il corrispettivo generale del processo di dere-sponsabilizzazione individuale analizzato da Bauman a proposito del rapporto tra modernitàe Olocausto: «nel contesto moderno non si scorge alcun segno di superamento dell’antico con-flitto, delineato da Sofocle, tra legge morale e legge della società. Esso tende, semmai, a dive-nire più frequente e più profondo, mentre la sorte sembra favorire le pressioni societarie allasoppressione della morale».42 Di questo conflitto occorre avere piena consapevolezza, tantopiù quando i Custodi del gregge tornano ad evocare l’Apocalisse, ad armare il braccio dellagiustizia infinita perché si abbatta su milioni di uomini. Nessuno può dichiararsi innocente perdelega se il Secondo Cavaliere e il suo Blitzkrieg si reincarnano nel programma eugenico dellademocrazia universale e nell’ecatombe preventiva; nessuno può assolversi per incompetenzada quando il XX secolo ha recitato la sua lezione feroce: «Auschwitz si trova in fondo allastrada di chi accetta che siano altri a rispondere al posto suo».43 Del resto è vero che l’assun-zione individuale di responsabilità non è gratuita:

In molte occasioni comportarsi moralmente significa assumere un atteggiamento definito perdecreto come antisociale o sovversivo dai poteri esistenti e dall’opinione pubblica (sia essa aper-tamente dichiarata o semplicemente espressa dall’azione o dall’inazione della maggioranza). Inquesti casi la promozione del comportamento morale comporta la resistenza all’autorità societa-ria e un’azione mirante all’indebolimento della sua presa. Il dovere morale deve contare sullapropria fonte originaria: la fondamentale responsabilità umana verso l’«altro».44

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Non è un dramma nuovo e non sono nuovi gli interrogativi sull’adeguatezza della rispostaindividuale allo strapotere delle armi e alla sanguinaria determinazione di chi ne dispone. Machi ha vissuto il conflitto tra legge morale e legge della società negli anni atrocemente didatticidel XX secolo ha detto in proposito quanto deve bastare agli uomini di buona volontà:

l’impotenza in cui ci si trova in un certo momento, impotenza che non deve mai essere conside-rata definitiva, non può esentare dal rimanere fedeli a se stessi, né scusare la capitolazionedavanti al nemico, qualunque maschera assuma. Il nemico capitale rimane l’apparato ammini-strativo, poliziesco e militare, qualunque sia il nome di cui si fregi: fascismo, democrazia o ditta-tura del proletariato. E non è il nemico che abbiamo di fronte, perché lo è solo nella misura in cuiè quello dei nostri fratelli, ma è il nemico che dice di essere il nostro difensore e fa di noi deglischiavi. Il peggior tradimento possibile, in qualunque circostanza, consiste sempre nell’accettaredi sottostare a questo apparato e di calpestare in se stessi e negli altri, per servirlo, tutti i valoriumani.45

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1 Per i dati cfr. Roberto Finzi - Mariella Bartolotti, Storia, III, Verso una storia planetaria, Zanichelli,Bologna 1990, pp. 1686 s.

2 Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1992, p. 53 n.3 «Auschwitz, l’enorme campo in Polonia che associa lo sfruttamento del lavoro e l’eliminazione,

diventa l’emblema di un potere che utilizza e sistematicamente fagocita le “razze inferiori”. Simbolodella brutalità organizzata, forma estrema del potere assoluto, il Lager nazista è caratterizzato da uncinismo smisurato, come attesta il riciclaggio di singole parti del corpo degli stessi cadaveri. Della suaefficienza disumanizzante si giova, in larga misura, il capitalismo tedesco: colossi come la IG Farben,d’intesa con le SS, lucrano altissimi profitti» (Francesco Soverina, Pluralità e unità degli olocausti: gliebrei, e le altre vittime, in AA.VV., Olocausto/Olocausti. Lo sterminio e la memoria, a c. di FrancescoSoverina, prefazione di Luigi Cortesi, Odradek, Roma 2003, p. 23: un libro di utili messe a fuoco). AdAuschwitz morirono più di 1 milione di persone, in massima parte ebrei.

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4 Sul tema cfr. Angelo D’Orsi, Se questa è storia. Auschwitz e Hiroshima macerie della modernità; CesarePianciola, Auschwitz e Hiroshima, eredità del secolo, entrambi in AA.VV., Olocausto/Olocausti..., cit., pp.171-188 e 189-198.

5 Un modello non solo in senso tecnico-organizzativo: fu anche questione di analoga Weltanschauung.Violentissima fu infatti la campagna stampa contro gli ebrei condotta negli anni ’20 da Henry Ford,antisemita dichiarato. Il Dearborn Indipendent, periodico di sua proprietà, rilancia negli USA la mistifi-cazione dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion. La campagna abbonamenti è affidata alla catena dei ven-ditori di auto Ford, la tiratura è di circa 300.000 copie. «Gli articoli antisemiti del settimanale vengonoraccolti nel volume The International Jew (L’ebreo internazionale). La sua tiratura raggiunge il mezzomilione di copie e il volume è tradotto in 16 lingue fra cui tedesco, russo, spagnolo. Più avanti neltempo una edizione abbreviata sarà sistematicamente diffusa dalla propaganda nazista […]. Ford nonsi limita a far pubblicare testi antisemiti: assolda detectives per scoprire dove abbia sede e da chi sia for-mato il comitato segreto dei Savi di Sion; invia in Mongolia un emigrato russo in cerca dell’immagina-rio originale ebraico dei Protocolli». Il debito ideologico del nazismo nei confronti del filantropico isti-tutore della Ford Foundation non sarà ignorato: Hitler conserverà sempre una sua fotografia sultavolo, «anche dopo che Ford avrà abbandonato la militanza antisemita» (Roberto Finzi,L’antisemitismo. Dal pregiudizio contro gli ebrei ai campi di sterminio, Giunti, Firenze 1997, p. 74). Del restoHitler era pieno di ammirazione per i grandi interpreti dell’American Dream e sapeva all’occorrenzapremiare i loro servigi. Il 28 giugno del 1937 a Berlino conferì solennemente a Thomas J. Watson, pre-sidente dell’IBM – senza la cui tecnologia lo Stato tedesco sarebbe andato incontro a paralisi durantela guerra e lo sterminio nei campi non avrebbe certamente potuto avere luogo con così devastante effi-cacia – la Croce al merito dell’aquila tedesca con stella, la medaglia «più prestigiosa di cui si potessefregiare un non tedesco». Watson, amico di Roosevelt e presidente della Camera di commercio inter-nazionale, era stato premiato «per il dono prometeico della tecnologia delle schede perforate cheaveva consentito al Reich di raggiungere straordinari livelli di efficienza sia nel programma di riarmosia nella guerra contro gli ebrei». Egli andava molto fiero della medaglia e la esibì un po’ ovunque inquegli anni, ma il 6 giugno 1940, obtorto collo, dovette riconsegnarla. In una lettera del 1937 indirizzataa Hjalmar Schacht, ministro nazista dell’Economia, Watson chiarisce bene i termini ideologicidell’«alleanza tra l’IBM e i nazisti»: «il mondo avrebbe dovuto “nutrire una profonda comprensioneper il popolo tedesco e per gli scopi che esso si è prefisso sotto il comando di Adolf Hitler”» (cfr. EdwinBlack, L’IBM e l’Olocausto, Rizzoli, Milano 2001, pp. 158 e 56, passim). Il numero che marchiava i prigio-nieri nei Lager tedeschi non era solo un elemento decisivo nel processo di disumanizzazione delle vit-time: era innanzitutto una necessità gestionale. La lettura delle schede perforate per mezzo delle mac-chine IBM fu la prima applicazione della tecnologia computistica al controllo sociale di massa e simostrò straordinariamente efficiente. L’era del silicio è anche figlia dei campi di sterminio, così come iprogressi della genetica.

6 Sui problemi relativi alle stime cfr. Francesco Soverina - Emilia Taglialatela, Valutazioni numeriche dellevittime, in AA.VV., Olocausto/Olocausti..., cit., pp. 230-234.

7 «[…] i nuovi dati che emergono dall’aggiornamento costante della ricerca storiografica sul regimesovietico sottolineano con forza due elementi. Il primo è il ruolo diretto e personale esercitato da Stalinnella formulazione dei criteri repressivi e nella verifica della loro applicazione […]. Il secondo ele-mento è quello del meccanismo delle “quote”. A partire dalla collettivizzazione forzata dei primi anniTrenta, il centro del regime sovietico impartisce alle amministrazioni periferiche degli obiettivi da rag-giungere in termini di detenuti e giustiziati per ciascuna delle categorie da colpire: controrivoluzio-nari, kulaki, ma anche dal 1937 “nazionalità della diaspora”, cioè minoranze nazionali legate a Statistranieri. In base a queste direttive centinaia di migliaia di famiglie vengono deportate e recluse (per ibambini è previsto l’internamento in appositi orfanotrofi da approntare per l’occasione), il capofami-glia condannato alla pena capitale. Il nemico della rivoluzione viene quindi individuato secondo mericriteri di appartenenza etnica (con un’estensione automatica delle sue colpe ai familiari) e il terrori-smo repressivo è utilizzato esplicitamente come test di efficienza della macchina statale, all’interno diun quadro di pianificazione e di colossale ingegneria sociale» (Giovanni Gozzini, Capire Auschwitz: laricerca e l’insegnamento, in AA.VV., Olocausto/Olocausti..., cit., pp. 44 s.).

8 Adolf Hitler, Rathenau und Sancho Panza, in Völkische Beobachter, 13 marzo 1921, cit. in Gozzini, op.cit., p. 43.

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9 Discorso pronunciato dal Fuehrer al Palazzo dello Sport di Berlino il 30 gennaio 1941, Roma, s.i.t., 1941, p. 6,cit. in Gozzini, op. cit., p. 43 n. La filantropa inglese Emily Hobhouse pubblicò nel 1901 un Report of aVisit to the Camps of Woman and Children in the Cape and Orange River Colonies, che «venne prontamentetradotto in tedesco e fu in seguito ripreso dalla propaganda sia nazista che sovietica» (ibid.).

10 Adolf Hitler, Conversazioni segrete ordinate e annotate da Martin Bormann durante il periodo più drammaticodella seconda guerra mondiale (5 luglio 1941 – 30 novembre 1944), Richter, Napoli 1954, p. 660 (8 agosto1942), cit. in Gozzini, op. cit., p. 43.

11 Cit. in Marco Impagliazzo, Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), Guerini e associati, Milano 2000, p. 11. Lo sterminio ordinato dal governo turco riguardò soprat-tutto gli armeni, «ma la tragedia» colpì «tutte le comunità cristiane dell’impero, talvolta in manierasostanziosa […]. Quel che è avvenuto in Turchia è un tragico episodio di pulizia etnica, come è suc-cesso molte volte nel tramonto dell’impero ottomano. La storia dei Balcani è contrassegnata da taliepisodi volti a creare Stati omogenei e su base cristiana. In Anatolia succede proprio il contrario. […]questa pagina buia della storia del Novecento […] vide la scomparsa di più di un milione di personee lo sconvolgimento totale del quadro politico-sociale in cui quelle popolazioni erano immerse dasecoli. Prima del 1915, infatti, i cristiani in Anatolia costituivano il 30% circa della popolazione; dopola guerra solo l’1%!» (ivi, pp. 17 s.).

12 Soverina, op. cit., pp. 27 s.13 Non «può essere sottovalutato il fatto che la mancata denuncia dell’Olocausto si lega pure al silenzio

del Vaticano sui “genocidi locali” in Polonia e Croazia che hanno preceduto la “soluzione finale”. Isilenzi della Chiesa come delle Potenze alleate, le complicità e la collaborazione di parte non trascura-bile delle società europee hanno facilitato il compito dei nazisti, degli ustascia, dei miliziani slovacchi,delle Croci frecciate ungheresi, delle guardie baltiche e ucraine, dei fascisti francesi e dei repubblichiniitaliani» (ivi, p. 29). Su Pio XII cfr. Giovanni Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Secondaguerra mondiale e Shoa, Rizzoli, Milano 2000; John Cornwell, Il papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII,Garzanti, Milano 2000; inoltre, dopo la recentissima apertura degli archivi vaticani relativi al periodoche va dal 1922 al 1939, stanno emergendo nuovi documenti a conferma di quanto Pio XII fosse infor-mato sulla natura e i progetti del nazismo (cfr. Marco Politi, Pacelli sapeva, in la Repubblica, 20 febbraio2003). Sulla questione croata cfr. Marco Aurelio Rivelli, L’Arcivescovo del genocidio. Monsignor Stepinac,il Vaticano e la dittatura ustascia in Croazia 1941-1945, Kaos Edizioni, Milano 1999.

14 I dati in John Keegan, La Seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano 2002, pp. 596-598.15 Philip S. Lauben e Ernest F. Fisher, noto storico militare, entrambi distaccati in Germania nel biennio

’45-’46 e testimoni diretti degli avvenimenti.16 «La percentuale di morte dei prigionieri comunicata riluttantemente dai francesi e dagli americani

dagli anni ’50 fino agli anni ’90 ai tedeschi timidamente indaganti era così ridicolmente bassa da risul-tare inferiore a quella dei civili nello stesso periodo di tempo. Questa straordinaria notizia – che genteaffamata che dormiva in buche di fango avesse una mortalità più bassa di quella dei civili che man-giavano ogni giorno nelle case – non colpì gli osservatori tedeschi. Essi ignorarono superficialmentel’evidenza che stava davanti ai loro occhi» (James Bacque, Gli altri Lager. I prigionieri tedeschi nei campialleati in Europa dopo la 2a guerra mondiale, Mursia, Milano 1993, p. 183). Ma i tedeschi non volevanoricordare: «Forse l’aneddoto più cocente sulla volontà di dimenticare dei tedeschi venne raccontato daun ex prigioniero, Johannes Heising, che ha scritto un libro sulle sue esperienze nel campo diRemagen. Dopo la pubblicazione del libro, Heising stava parlando, nel 1991, con un altro prigionierodi Remagen, Franz-Josef Plemper, che gli ricordò qualcosa che egli non aveva descritto nel libro: unanotte, gli americani avevano seppellito con i bulldozer uomini vivi nelle loro buche di terra. Plempergli descrisse la scena: “Una notte nell’aprile del 1945, fui risvegliato di colpo dal mio sopore nella piog-gia e nel fango da strazianti grida e da forti lamenti. Balzai in piedi e vidi in distanza (circa 30-50 metri)i fari di un bulldozer. Vidi poi che il bulldozer stava avanzando attraverso la folla di prigionieri stesia terra. Aveva davanti una lama che tracciava una strada nel terreno. Non so quanti dei prigionierifinirono sepolti vivi nelle loro buche. Non fu più possibile rendersene conto. Odo ancora chiaramentele grida di ‘Assassino!’”. E allora Heising ricordò…». La medesima morte dei soldati iracheni nel con-flitto del 1991, quando i blindati statunitensi li seppellirono vivi nelle trincee scavate nel deserto: «Ilfurente dibattito sui soldati iracheni sepolti vivi sotto la sabbia dai carri armati americani nelle trinceee nei bunker del Kuwait ha costretto l’America a chiedersi quante vittime abbia fatto la guerra del

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Golfo Persico e se le sue truppe si siano macchiate di atrocità. Messa di fronte alla realtà del conflitto –esso non è stato quella operazione chirurgica sperata da Bush – la superpotenza ha mosso per la primavolta serie critiche ai suoi militari per il loro operato contro l’Iraq. A Fort Riley nel Kansas, dove è distanza la prima divisione motocorazzata che nella sua avanzata sotterrò nel deserto migliaia di nemicio feriti o intrappolati, la protesta è stata particolarmente emotiva. Il Pentagono ha subito cercato di ras-sicurare la popolazione. “Nessuna atrocità” ha dichiarato il portavoce Williams. “Non c’è modo indo-lore di morire in battaglia”. “I caduti iracheni potrebbero essere stati centomila” ha aggiunto la Dia, ilsuo servizio segreto. […] Gli ufficiali della ‘grande rossa’ [la prima divisione motocorazzata dell’eser-cito U.S.A., soprannominata ‘The Big Red One’ e divenuta famosa durante la Seconda guerra mon-diale] non si sono mostrati pentiti dell’accaduto. “Fu più facile per gli iracheni nelle trincee e neibunker arrendersi prima di venire sepolti vivi che per gli iracheni bombardati dagli aerei o colpiti dallecannonate nelle loro postazioni o nelle città”» (L’America sbigottita dalla strage nel deserto, in laRepubblica, 14 settembre 1991). La medesima morte di Rachel Corrie, pacifista statunitense di venti-quattro anni, assassinata a Gaza da un bulldozer dell’esercito israeliano che l’ha sepolta sotto uncumulo di terra e detriti mentre cercava di ostacolare con il proprio corpo la distruzione di una casapalestinese: una morte tutt’altro che rara nei territori occupati, solo che gli uccisi palestinesi non hannodi norma né nome né volto (cfr. Enrico Franceschini, Schiacciata dal bulldozer, ivi, 17 marzo 2003).

17 Ernest F. Fisher, Prefazione a Bacque, op. cit., p. 13. Lo sterminio per fame dei prigionieri tedeschi, tra iquali numerosi le donne, i vecchi e i bambini, avvenne in piena sovrapproduzione alimentare. Inoltrefu costantemente impedito alla Croce Rossa di consegnare le ingenti scorte di cibo di cui era dotata,che rimasero quindi inutilizzate. In Francia, nei 1.600 «bagnes de mort lente», spesso i prigionierisopravvissero solo grazie alla generosità dei civili, «principalmente contadini e abitanti dei villaggi»,anche se esercitarla non era certo facile: «Sembra che sotto i francesi siano aumentate le fucilazioni acaso, sebbene entrambi gli eserciti cercassero di nascondere i fatti e i dati possano risultare distorti. Inogni modo, il rapporto del tenente colonnello Barnes in aprile, “27 morti per cause non naturali”, eralargamente superato in una notte dagli ufficiali francesi ubriachi, che, a Andernach, guidarono la lorojeep attraverso il campo ridendo e gridando mentre sparavano sui prigionieri con i loro mitragliatoriSten. Le perdite: 47 morti e 55 feriti. Un ufficiale francese rifiutò il permesso alla Croce Rossa tedescadi dar da mangiare ai prigionieri su un treno nonostante il rifornimento fosse stato già concordato trala Croce Rossa e il comandante francese del campo. Le guardie francesi di un campo, sostenendo diaver notato un tentativo di fuga, uccisero a fucilate dieci prigionieri nei loro recinti. […] Nel 108°Reggimento di Fanteria la violenza raggiunse tali limiti che il comandante militare della regione, ilgenerale Billotte, su suggerimento del comandante del reggimento, tenente colonnello deChampvallier, che aveva rinunciato a cercare di disciplinare i suoi uomini, raccomandava che il reggi-mento venisse sciolto. I treni che trasferivano i prigionieri dalla Germania Federale in Francia eranotalmente terribili che gli ufficiali responsabili avevano ordini permanenti di evitare soste nelle stazionifrancesi, per timore che i civili potessero vedere come venivano trattati i prigionieri. […] In questicampi di prigionia appare il primo accenno del futuro coinvolgimento americano nella guerra del VietNam. I francesi affamarono deliberatamente alcuni tra i prigionieri per costringerli a servire “volonta-riamente” nella loro Legione Straniera. Molti dei legionari che combatterono in Viet Nam erano tede-schi consegnati dagli americani ai francesi nel 1945 e 1946» (ivi, pp. 98 s., 117). Dopo questo addestra-mento, il generale De Gaulle avrebbe impiegato con pari ferocia l’esercito francese in Indocina e inAlgeria. Nei 200 campi statunitensi in Germania, semplicemente vigeva la pena di morte per i civiliche intendevano aiutare i prigionieri: «Fu solo un giorno dopo la fine della guerra, l’8 maggio 1945,che il Governo Militare di Eisenhower dichiarò che dar da mangiare ai prigionieri tedeschi era un cri-mine capitale per i civili tedeschi. […] Eisenhower aveva già raccomandato ai capi di Stati Maggioririuniti a Washington che l’esercito non nutrisse i milioni di prigionieri di guerra, ma che se ne lasciasseil compito ai tedeschi, sebbene egli dubitasse che fossero in grado di farlo. Che ci fosse una chiaraintenzione dietro a questi ordini apparentemente contrastanti, era chiaro a tutti i soldati in Germaniaa quel tempo» (ivi, p. 170).Sui campi inglesi e canadesi non c’è ancora chiarezza, ma pare non ci siano «tracce di simili atrocità.Alcune scarse prove» indicherebbero che i prigionieri rimasero in buona salute, «eccetto circa 400.000trasferiti agli inglesi dagli americani nel 1945. Molti di questi erano morenti quando vennero trasfe-riti». In effetti, «quando l’esercito canadese chiese l’importante monografia di Phillimore (sui prigio-

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nieri tedeschi in mano inglese) al governo britannico, ottenne un rifiuto, perché era definita “ancora inuso”. Praticamente niente sul trattamento di milioni di prigionieri tedeschi in mano a canadesi einglesi in Europa rimane negli archivi di Ottawa e di Londra. Il Comitato Internazionale della CroceRossa a Ginevra, che recentemente ha aperto i suoi archivi a due scrittori che facevano ricerche suicampi nazisti, ha rifiutato di concedermi di fare ricerche negli stessi archivi sui prigionieri di guerranei campi inglesi e canadesi. L’ICRC mi ha rifiutato ripetutamente di vedere lettere sull’argomento,nonostante le mie richieste fossero trasmesse dall’esercito canadese e dalla Croce Rossa canadese. Siagli inglesi che i canadesi sapevano quanto si stava facendo nei campi americani. Gli inglesi furonotestimoni delle atrocità in almeno un campo. Solo il governo canadese ha protestato una volta» (ivi,pp. 16 s.). Dopo l’uscita del volume in Canada, nel 1989, una trentina di case editrici negli USA si rifiu-tarono di pubblicarlo per il mercato statunitense, fino al 1991. Gli storici del Pentagono respinsero leaccuse e contestarono il numero dei morti e il metodo statistico che aveva consentito a Bacque di sta-bilirlo. Tuttavia i dati di base non poterono essere messi in discussione e generarono un duro scontrodietro le quinte tra le diplomazie di Germania, Francia e Stati Uniti, con l’avvio di un’inchiesta riser-vata. Anche perché, come scrisse Ennio Caretto (Un milione di tedeschi morì nei Lager alleati, in laRepubblica, 23 febbraio 1992) «sulla serietà del lavoro di Bacque, estremamente documentato, ci sonopochi dubbi». Di recente il quotidiano inglese The Guardian ha infranto «un mito propagato ad arte perdecenni», come afferma Sherman Carroll, Director of Public Affairs della Medical Foundation for theCare of Victims of Torture, cioè «l’idea secondo cui la Gran Bretagna non usò la tortura durante laSeconda Guerra mondiale e subito dopo». Dagli abissi degli archivi statali, nonostante «i tentativi dibloccare lo scoop del giornale» da parte della Difesa, sono emersi foto e documenti riguardanti il cen-tro di detenzione di Bad Nenndorf, un’ex stazione termale nei pressi di Hannover, dove tra il 1945 e il1947 il War Office britannico portò avanti un programma di torture «sui sospetti comunisti per carpireinformazioni sui sovietici» e su «nazisti, ex SS, industriali che avevano fatto fortuna sotto Hitler». 372uomini e 44 donne finirono nelle mani dei carnefici, talvolta ricevendone la morte: «Il segreto è rima-sto gelosamente custodito negli archivi perché, annotò già allora un ministro a Londra, meno personepossibile “devono sapere che le autorità britanniche si sono comportate in un modo che ricorda i lagernazisti”» (Stefania Di Lellis, I lager inglesi della Guerra fredda: un segreto svelato dopo 60 anni, ivi, 4 aprile2006). Joachim Fest, «massimo storico tedesco vivente e miglior biografo di Hitler, commenta scossole rivelazioni del Guardian […]: “la guerra libera gli istinti del Male: è la madre di ogni crudeltà. […]muri e barriere che i paesi civili erigono per limitarsi crollano spesso davanti a emergenze presunte oreali. E si passa a metodi sempre uguali. Nessuna nazione è al riparo da certi ordini dall’alto. […] GliOccidentali nella Guerra Fredda non erano diversi o migliori rispetto agli uomini dall’altra parte. […]Guai a una società e a un sistema di valori che vuole difendersi tradendo i suoi principi”» («Un’orribilerisposta ai gulag di Stalin», intervista di Andrea Tarquini a Joachim Fest, ivi). Quasi l’avesse ascoltato,qualche ora dopo il ministro della Difesa John Reid, che si era appena rifiutato di rispondere alledomande del Guardian sui Lager di Sua Maestà, constatava la necessità democratica di cambiare iprincipi per non infrangerli e dettava alle agenzie una requisitoria contro lacci e lacciuoli dellaConvenzione di Ginevra, definendola «un impedimento all’azione delle truppe britanniche» e propo-nendo di cambiare «alcune regole» «troppo antiquate» che «ostacolano l’Occidente», in specie, ofcourse, quelle riguardanti il «trattamento dei prigionieri, gli attacchi preventivi e gli interventi per fer-mare le crisi umanitarie» (Gran Bretagna: ministro della difesa propone modifica Convenzione di Ginevra, inwww.corriere.it, 4 aprile 2006).

18 Joël Kotek - Pierre Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: la tragedia delNovecento, Mondadori, Milano 2002, pp. 358 s.

19 Barbara Stelzl-Marx, Prigionieri di guerra sovietici nel Terzo Reich, in AA.VV., Olocausto/Olocausti…,cit., p. 113.

20 Ivi, p. 116.21 Ivi, p. 120.22 Ibid.23 Ivi, p. 126.24 Ordine n. 270 del Comando generale dell’Armata Rossa (ivi, p. 128 n.).25 «Secondo Viktor Zemskov, fino al 1° marzo 1946 due milioni di reduci sovietici passarono nei campi

del Nkvd [Ministero degli interni sovietico], che vennero chiusi solo nel 1947. Di questi cittadini sovie-

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tici ‘filtrati’ il 57,8% venne rilasciato e mandato a casa, il 19,1% richiamato nell’esercito, il 14,5% asse-gnato ai battaglioni di lavoro del Commissariato del popolo per la difesa (Nko), il 6,5 messo a dispo-sizione del Nkvd, mentre un ulteriore 2,1% si trovava ancora a quella data nei punti di raccolta. A con-clusioni diverse giungono Nikolaj Tolstoj e lo storico sovietico in esilio Aleksandr Nekric. Essi fannoriferimento ad un numero complessivo pari a 5,5 milioni di displaced persons rimpatriate fino al 1947:di queste circa il 20% venne condannato a morte o a 25 anni di detenzione nei campi, dal 15 al 20%ricevette pene detentive da cinque a dieci anni, il 10% venne deportato per almeno 6 anni in Siberia, il15% degli ex lavoratori forzati inviato in zone inospitali, dal 15 al 20% ottenne il permesso di ritornarea casa e il rimanente 15–20% morì durante il viaggio verso casa o riuscì a fuggire» (ivi, pp. 128 s.).

26 Ivi, p. 128.27 Cfr. Gianni Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori, Milano

2002. Il problema in Italia della memoria delle «foibe» – tra coloro che negano, coloro che giustificanoe coloro che ne fanno oscena moneta di scambio – è specchio di un più generale fenomeno politicointernazionale che vede trattare le tragedie della storia secondo le proprie convenienze: negazionismoe riduzionismo riguardano tutti, non solo i neonazisti. Ad ogni buon conto, per i negazionisti di ognisorta vale quanto detto da Primo Levi: «Chi nega Auschwitz è quello stesso che sarebbe pronto arifarlo» (la frase è tratta da un’intervista-testimonianza raccolta da Emanuele Ascarelli in Ritorno adAuschwitz, documentario girato nel 1982 da Daniel Toaff per la trasmissione RAI Sorgente di vita inoccasione di una visita di Levi al campo. La trascrizione integrale dell’intervista, con una nota intro-duttiva di Ascarelli, in Il racconto della catastrofe. Il cinema di fronte ad Auschwitz, a c. di FrancescoMonicelli e Carlo Saletti, Cierre Edizioni, Verona 1988, pp. 91-101). Per i riduzionisti vale quantoscritto da James Bacques: «L’eufemismo è il primo passo verso l’atrocità» (op. cit., p. 189).

28 George L. Mosse in Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti (Laterza, Roma-Bari 1990) ha rico-struito la genesi e lo sviluppo del «Mito dell’Esperienza della Guerra»: «Il lutto era generale. Eppure,diversamente da come ci si potrebbe attendere, questo tema non avrebbe dominato incontrastato lamemoria della prima guerra mondiale. Un sentimento d’orgoglio si mescolava spesso al lutto: il sen-timento di aver avuto parte in una nobile causa, e di aver sofferto per essa. […] Furono i ricordi di queireduci che nella guerra scorgevano elementi positivi – e non quelli di coloro che rifiutarono la guerra– che vennero generalmente adottati dalle rispettive nazioni come veridici e legittimi […]. Il compitoconsolatorio fu adempiuto ad un livello pubblico oltreché privato; e ciò in nome della rievocazionedella gloria piuttosto che dell’atrocità della guerra, del suo senso e della sua finalità piuttosto che dellasua tragedia. Coloro che si occupavano dell’immagine e della perduta attrattiva della nazione lavora-rono alla costruzione di un mito volto a cancellare l’orrore della morte in guerra. […] La realtà dell’e-sperienza della guerra giunse a trasformarsi in quello che potremmo chiamare il Mito dell’Esperienzadella Guerra, che guardava al conflitto come ad un evento carico di senso, positivo, e anzi sacro.Questa visione della guerra si sviluppò (ma non esclusivamente) nei paesi sconfitti, dove ve n’era uncosì pressante bisogno. […] Dopo il conflitto, il culto del soldato caduto divenne un elemento centraledella religione del nazionalismo, ed ebbe la sua maggiore influenza politica in nazioni che, come laGermania, avevano perso la guerra, e che la transizione dalla guerra alla pace aveva portato sull’orlodel caos. Grazie al mito che giunse a circondarla, l’esperienza della guerra fu innalzata nel regno delsacro» (pp. 6-8).

29 Ivi, p. 3. «[…] nella campagna contro la Russia (la più cruenta fino al 1914) Napoleone perse 400.000uomini, ovvero una cifra inferiore di circa 600.000 unità a quella dei caduti su entrambi i lati del frontedurante la battaglia della Somme nel 1916 (una battaglia peraltro nient’affatto risolutiva). Il piùgrande conflitto dell’Ottocento – la guerra franco-prussiana (1870-71) – vide 280.000 morti francesi,mentre i prussiani caduti in battaglia furono 44.780» (ivi, pp. 3 s.).

30 Naturalmente in termini assoluti il paragone delle perdite tra ufficiali e truppa è improponibile. Main termini relativi è assai significativo e di qualche ulteriore interesse per quanto riguarda l’Italia: purse «l’adesione alla guerra delle classi colte italiane fu probabilmente maggiore nel 1915-18 che nonnel 1940-43», tuttavia «anche nella grande guerra, l’ardore guerresco di quella parte dell’élite fonda-mentale per assicurare l’efficienza militare fu straordinariamente flebile. Nel 1915-18, l’assenza rela-tiva del corpo degli ufficiali di carriera dell’esercito dal campo di battaglia produsse un tasso di morticomplessivo del 7,7 per cento, un sacrificio di sangue pari alla metà di quello di tutti gli italiani mobi-litati, e a meno di un terzo di quello degli ufficiali di carriera tedeschi, il cui tasso di mortalità nel

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1914-18 raggiunse un vertiginoso 24,8 per cento». Il «terrore disciplinare del regio esercito nel 1915-18» e il «disastroso» «grado di attenzione per la condizione delle truppe» erano un trattamento riser-vato sostanzialmente ai poveri, soprattutto ai contadini (2/3 della fanteria e 90% dei caduti): «Leunità languirono per mesi nelle trincee, in mezzo al fango e agli escrementi, dato che non esisteva unadeguato sistema di rotazione. Furono le malattie a uccidere quasi il 30 per cento dei circa 500.000morti al fronte […], rispetto a meno del 10 per cento dell’esercito tedesco, nonostante le privazionipatite da quest’ultimo a causa del blocco alleato. Per i vertici militari, gli uomini in trincea valevanomeno delle bestie da soma. Un mulo morto, notò un ufficiale subalterno, costava denaro e quindirichiedeva “verbali su verbali, inchieste. Quando muore un soldato è molto più semplice, un fregonel ruolino e la notizia schematica nel rapportino giornaliero”». Ma la ferocia delle élite italiane nonaveva davvero limiti e la rassegnazione con cui i poveri contadini dovettero subire il proprio stermi-nio nella «guerra dei signori» fu anche oggetto di scherno: «Il consulente di psicologia militare diCadorna, padre Agostino Gemelli, celebrò con singolare ottusità il carattere che egli ascriveva ai sol-dati-contadini italiani: “rozzi, ignoranti, passivi, hanno subito […] l’influenza della vita militaresenza ribellione, senza resistenza”» (le citazioni e i dati sono tratti da MacGregor Knox, Alleati diHitler. Le regie forze armate, il regime fascista e la guerra del 1940-1943, Garzanti, Milano 2002, pp. 173ss.). Ma non era affatto ottusità quella dell’illustre biologo, dell’illuminato promotore in Italia dellapsicologia applicata, del fondatore e rettore (fino al 1959, anno della morte) dell’Università Cattolicadi Milano: era razzismo. Sul numero del 5 agosto 1924 della rivista Vita e pensiero, di cui era direttore,scrisse: «Un ebreo, professore di scuole medie, gran filosofo, grande socialista, Felice Momigliano, èmorto suicida. I giornalisti senza spina dorsale hanno scritto necrologi piagnucolosi. Qualcuno haaccennato che era rettore dell’Università Mazziniana […]. Ma se insieme con il Positivismo, ilSocialismo, il Libero Pensiero e con il Momigliano morissero i Giudei che continuano l’opera deiGiudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio? Sarebbe unaliberazione ancora più completa se, prima di morire, pentiti, domandassero l’acqua del Battesimo».Il sant’uomo sciorinò il suo dotto repertorio anche a propositò delle leggi razziali. Il 9 gennaio 1939,chiamato all’Università di Bologna per la commemorazione di Guglielmo da Saliceto, così parlò aprofessori e studenti: «Tragica senza dubbio, e dolorosa, la situazione di coloro che non possono farparte, e per il loro sangue e per la loro religione, di questa magnifica patria; tragica situazione in cuivediamo, una volta di più, come molte altre nei secoli, attuarsi quella terribile sentenza che il popolodeicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di unapatria, mentre le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo»(entrambi i testi in Rosetta Loy, La parola ebreo, Einaudi, Torino 2002, pp. 54 s.). Al riguardo De Felicecommenta: «Dopo un simile saggio della prosa di padre Gemelli non potrà certo meravigliare ilsapere che Farinacci, su “Il regime fascista” del 10 gennaio, si precipitasse a proclamare tutto compia-ciuto Non siamo soli e facesse un vero panegirico del discorso bolognese del Gemelli e, neppure duemesi dopo, chiedesse addirittura a Mussolini di nominare quest’“uomo veramente nostro”all’Accademia d’Italia». Ma il Duce rispose: «No – non è ancora maturo» (in Renzo De Felice, Storiadegli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961, p. 372 e 373 n.). La «magnifica patria» ebbeperò modo di risarcire il francescano di tanta crudele ingratitudine e tra l’altro gli intitolò a Roma ilPoliclinico della Facoltà di Medicina e Chirurgia del «Sacro Cuore», ufficialmente istituita nel 1958grazie agli sforzi di questo «strenuo difensore della vivisezione», per il quale era «ovvio che gli espe-rimenti» dovessero «turbare le funzioni vitali degli animali e causare in essi sensazioni dolorose»,senza del resto turbare altri, poiché dove «non v’è partecipazione della coscienza non v’è dolore» (cfr.www.geocities.com/notarianni_gabriele/recapiti_sacro_cuore.htm).

31 «Il pacifismo non riuscì mai a sfondare davvero, a divenire cioè parte del credo delle classi medie, eneppure delle classi inferiori. Nell’intero periodo tra le due guerre, in nessun momento riuscì a diven-tare una forza politicamente potente, né a conquistarsi l’adesione di una parte considerevole dellapopolazione» (Mosse, op. cit., p. 219). Giova ricordare che quando nel 1930 venne diffuso All Quiet onthe Western Front – mirabile omaggio ai vinti, monumento della cultura antimilitarista alla pietas e allapace del regista e reduce statunitense di origine ebraica Lewis Milestone, nato nel 1895 a Chisinau, inBessarabia, e vissuto in gioventù a Odessa – la Repubblica di Weimar lo mise immediatamente albando su pressioni della destra «perché tale da costituire una minaccia all’ordine interno e all’imma-gine della Germania nel mondo» (ivi, p. 220). Im Westen nichts Neues, il romanzo di Erich Maria

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Remarque da cui era tratto il film, fu invece dato alle fiamme dai nazisti all’Università di Berlino, il 10maggio 1935, insieme a tutte le sue opere. Un caso di «continuità delle istituzioni». È anche bene ricor-dare che il protagonista del film, Lew Ayres, avendo preso sul serio il messaggio pacifista di Remarquee Milestone, nel 1942 rifiutò di arruolarsi e la MGM patriotticamente lo licenziò.

32 Non sembra che in proposito ci sia molto da aggiungere o da togliere ai giudizi espressi da SimoneWeil sin dal 1933: «La Costituzione sovietica ha avuto la stessa, identica sorte della Costituzione del1793: proprio come Robespierre, Lenin ha abbandonato le sue dottrine democratiche per costituire ildispotismo di un apparato di Stato centralizzato, ed è stato di fatto il precursore di Stalin, comeRobespierre lo fu di Bonaparte. La differenza sta nel fatto che Lenin, il quale aveva, del resto, già dalungo tempo preparato questo dominio dell’apparato statale costituendo un partito fortemente cen-tralizzato, deformò successivamente le proprie dottrine per adattarle alle necessità del momento. Cosìnon fu ghigliottinato, e funge ora da idolo per una nuova religione di Stato. La storia dellaRivoluzione russa è tanto più sconvolgente in quanto la guerra vi costituisce costantemente il pro-blema centrale. La rivoluzione fu compiuta contro la guerra, da parte di soldati che, sentendo l’appa-rato governativo e militare sfasciarsi sopra di loro, si affrettarono a scrollarsi di dosso un giogo intol-lerabile. […] I bolscevichi fecero allora appello alla lotta contro l’imperialismo; ma era la guerra stessa,e non l’imperialismo, a essere in questione, e loro per primi se ne accorsero quando, una volta alpotere, si videro costretti a firmare la pace di Brest-Litovsk. Il vecchio esercito era allora a pezzi e Leninaveva ripetuto, con Marx, che la dittatura del proletariato non poteva comportare né esercito, né poli-zia, né burocrazia permanenti. Ma le armate bianche e il timore di interventi stranieri non tardarono amettere la Russia intera in stato d’assedio. L’esercito fu allora ricostituito, venne soppressa l’elezionedegli ufficiali, e trentamila ufficiali del vecchio regime furono reintegrati nei quadri; la pena di morte,la precedente disciplina, la centralizzazione furono ristabilite. Parallelamente, la burocrazia e la poli-zia vennero ricostituite. Si sa ormai abbastanza bene ciò che in seguito questo apparato militare, buro-cratico e poliziesco ha fatto del popolo russo. La guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione[…]. Un paese avanzato, in caso di rivoluzione, non incontrerebbe le difficoltà che nella Russia arre-trata rappresentano la base del barbaro regime di Stalin; ma una guerra di una certa ampiezza nesusciterebbe altre perlomeno equivalenti. A maggior ragione una guerra intrapresa da uno stato bor-ghese non può che trasformare il potere in dispotismo, e l’asservimento in assassinio. Se la guerrasembra talvolta un fattore rivoluzionario, ciò avviene solo perché costituisce un autentico banco diprova del funzionamento dell’apparato statale. Al suo contatto, un apparato male organizzato si sfa-scia. Ma se la guerra non finisce subito e senza contraccolpi, o se il disfacimento non è stato tropporadicale, ne consegue solo una di quelle rivoluzioni che, secondo la formulazione di Marx, perfezional’apparato statale anziché abbatterlo» (Simone Weil, Riflessioni sulla guerra, in Sulla guerra. Scritti 1933-1943, a c. di Donatella Zazzi, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1988, pp. 35-37).

33 Christopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, Einaudi, Torino1999, p. 172.

34 Cfr. Theodor W. Adorno - Else Frenkel-Brunswik - Daniel J. Levinson - R. Nevitt Sanford, The authoritarianpersonality, Harper & Brothers, New York 1950; ed. it. La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità,Milano 1973.

35 Bauman, op. cit., p. 213.36 Nel 1974 Stanley Milgram, uno psicologo statunitense della Yale University, pubblicò i risultati di una

ricerca sperimentale per comprendere i meccanismi dell’obbedienza (Obedience to Authority: AnExperimental View, Harper & Row, New York; ed. it. Obbedienza all’autorità, Bompiani, Milano 1975).Ignari volontari furono indotti dalla mera autorità di uno pseudo-medico a operare per il bene dellascienza infliggendo dolore tramite elettricità a un attore-vittima, il quale reagiva – coerentemente con ilpresunto graduale aumento d’intensità delle scosse – prima con lamenti, poi con urla e richieste d’aiuto,infine con un terrificante silenzio. I due terzi dei partecipanti all’esperimento smisero solo dopo aversomministrato il massimo grado di elettricità, smentendo quanto previsto dalla quasi totalità degli«individui maschi della classe media» e dei «competenti e rispettati professionisti della psicologia a cuiMilgram chiese quali sarebbero stati i probabili risultati degli esperimenti […]»: essi si mostrarono«sicuri che il 100 per cento dei soggetti avrebbe rifiutato di cooperare via via che cresceva la crudeltàdelle azioni da compiere, e che la prova sarebbe stata interrotta in una fase relativamente precoce»(Bauman, op. cit., p. 215). Gli esperimenti condotti a Stanford da Philip Zimbardo (Craig Haney - W.

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Curtis Banks - Philip G. Zimbardo, Interpersonal Dynamics in a Simulated Prison, in International Journal ofCriminology and Penology, I (1973), pp. 69-97) riguardavano il comportamento di un gruppo di individui‘normali’, casualmente suddivisi in prigionieri e secondini e invitati a comportarsi come tali. Il divietoper le ‘guardie’ di esercitare qualunque violenza fisica non bastò ad impedire la precipitosa sospensionedell’esperimento, dopo una sola settimana sulle due previste, per evitare che i ‘prigionieri’ subisseroirreparabili danni psico-fisici. «L’improvvisa trasformazione di amabili e gentili ragazzi americani inindividui simili a mostri del tipo di quelli che presumibilmente dovrebbero trovarsi solo in luoghi comeAuschwitz o Treblinka è terrificante. Ma è anche sconcertante. […] l’orgia di crudeltà da cui Zimbardo ei suoi colleghi furono colti di sorpresa scaturiva dal contesto sociale e non dalla malvagità dei parteci-panti. Se i ruoli dei soggetti dell’esperimento fossero stati invertiti, il risultato complessivo non sarebbecambiato. Ciò che importava era l’esistenza di una polarità, e non chi ne occupava gli estremi […]. Aquanto sembra, il punto principale della questione sta nella facilità con cui la maggior parte delle per-sone scivola nel ruolo che richiede la crudeltà o quantomeno la cecità morale, purché quel ruolo sia statodebitamente rafforzato e legittimato da un’autorità superiore» (Bauman, op. cit., pp. 230 s.). Ma in tuttiquesti esperimenti ci sono stati anche «casi, relativamente rari, in cui gli individui hanno trovato la forzae il coraggio di resistere agli ordini dell’autorità e, avendoli giudicati contrari alle proprie convinzioni, sisono rifiutati di eseguirli […], esattamente come hanno fatto quei pochi, dispersi e solitari individui chesfidarono un potere senza limiti e scrupoli, e rischiarono la morte tentando di salvare le vittimedell’Olocausto» (ibid.). «Non importa quante persone abbiano preferito il dovere morale alla razionalità dell’au-toconservazione, ciò che importa è che qualcuno l’abbia fatto. Il male non è onnipotente. È possibile resistergli.La testimonianza di coloro che effettivamente gli hanno opposto resistenza scuote la validità della logicadell’autoconservazione. Mostra ciò che essa è, in ultima analisi: una scelta. Ci chiediamo quante personedebbano sfidare questa logica affinché il male sia ridotto all’impotenza. Esiste una soglia magica di resi-stenza al di là della quale la tecnologia del male cessa di funzionare?» (ivi, p. 280).Per un impressionante riscontro storico dei risultati degli esperimenti di Milgram e Zimbardo e delleanalisi di Bauman cfr. Browning, op. cit., pp. 174-184.

37 Bauman, op. cit., p. 213.38 «La particolare importanza del libro non era data dalle sue specifiche affermazioni – praticamente

tutte furono in seguito messe in discussione e confutate –, ma dalla sua individuazione del problemae dalla strategia di ricerca che ne derivava. […] Come suggerisce il titolo del libro, gli autori cercaronola spiegazione del regime nazista e delle atrocità che ne seguirono nell’esistenza di un particolare tipodi individuo: una personalità incline all’obbedienza con i forti e alla brutalità senza scrupoli, spessocrudele, con i deboli. Il trionfo dei nazisti doveva essere stato un esito dell’insolita accumulazione dipersonalità del genere. Ma gli autori non spiegano né desiderano spiegare perché ciò accadde. Essievitano accuratamente l’analisi di tutti gli eventuali fattori sovraindividuali o extraindividuali chepotessero produrre la personalità autoritaria; né si preoccuparono della possibilità che tali fattori pos-sano provocare un comportamento autoritario in individui altrimenti privi di una personalità autorita-ria. […] Il modo in cui Adorno e il suo gruppo articolarono il problema era importante non tanto percome venivano distribuite le colpe, ma per l’ottusità grazie alla quale tutto il resto dell’umanità neusciva assolto. Il punto di vista di Adorno divideva il mondo in due parti: i protonazisti congeniti e leloro vittime. Veniva così soppressa l’oscura e sgradevole idea che molte persone gentili possanodiventare all’occorrenza crudeli. Il sospetto che anche le vittime possano perdere buona parte dellapropria umanità sulla strada verso la perdizione fu bandito con una tacita proibizione, che arrivò atoccare l’assurdità nel ritratto dell’Olocausto fatto dalla televisione americana» (ivi, pp. 213 s.).Bauman si riferisce, e non a caso, allo sceneggiato televisivo Holocaust, prodotto negli Stati Uniti allafine degli anni Settanta e trasmesso anche in Germania e in Francia. Il serial, che ottenne un colossalesuccesso di pubblico, suscitò numerose reazioni indignate soprattutto da parte dei superstiti a causadella versione edulcorata dello sterminio che ne risultava. Tuttavia l’opera rispondeva alle medesime,superiori esigenze della teoria di Adorno, così come, un quarto di secolo dopo, Schindler’s List diSteven Spielberg, che con la sua crudezza avrebbe sì soddisfatto le attese di molti dei superstiti, ma alquale, come indica Annette Wieviorka, si attaglia perfettamente l’analisi di Alvin H. Rosenfeld: «Faparte dell’ethos americano il fatto di porre l’accento sulla bontà, l’innocenza, l’ottimismo, la libertà, ladiversità e l’uguaglianza. E allo stesso ethos appartiene anche il fatto di sminuire o di negare i lati buie crudeli della vita e di sostituirli accentuando il potere salvifico dell’atteggiamento morale e dei

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mezzi collettivi di Redenzione. L’americano preferisce pensare in modo positivo e affermativo. Lavisione tragica è, dunque, antitetica alla visione americana del mondo, che vuole che gli uomini trion-fino rispetto alle avversità e non continuino a rimuginare le loro pene» (The Americanization of theHolocaust, in Thinking about the Holocaust after half a century, Indiana University Press, Bloomington eIndianapolis 1997, p. 123). Nel suo L’era del testimone (Raffaello Cortina, Milano 1999) – testo impor-tante per capire il fenomeno dell’«americanizzazione dell’Olocausto» e da cui è tratta la citazione diRosenfeld – Wieviorka opportunamente aggiunge: «Il problema è che tale visione non coincide affattocon quella che si forma lo storico allorché studia il genocidio degli ebrei» (pp. 131 s.). È interessanterilevare che le legittime aspettative del popolo circa la propria educazione ispirarono qualche annodopo a Spielberg un’analoga operazione di sistemazione storico-didattica di un altro genocidio. Nel1997, sempre sulla scorta della traiettoria aperta da un serial televisivo di grande successo – Radici,diretto da Marvin Chomsky, lo stesso di Holocaust! – e forte del suo ruolo dominante e autorizzatodi guru hollywoodiano, il filantropico regista concepirà a beneficio delle masse una nuova, assairiposante vulgata della tratta atlantica e della conseguente schiavitù dei neri d’America. In Amistad– una storia «vera», ça va sans dire, accaduta nel 1839 – si forniranno subliminalmente all’uomo dellastrada le nozioni necessarie per liberarsi definitivamente, e «più non dimandare», del problemadello sterminio degli afroamericani: i cattivi risulteranno essere gli europei latini (spagnoli e porto-ghesi), gli africani stessi, sempre in guerra tra di loro, gli schiavisti arabi e i cinici abolizionisti; ibuoni gli anglosassoni: gli inglesi (campioni della lotta alla schiavitù) e soprattutto il popolo degliStati Uniti, le cui superiori virtù civiche e morali – cioè i principi costituzionali dei padri fondatorie il corso normale della giustizia nel paese dove il Bene, nonostante tutto, non può che trionfare –riusciranno in nome della libertà a prevalere e successivamente, si lascia capire, anche a sconfiggerei residui schiavisti locali (non per mezzo degli infidi abolizionisti, s’intende – ché magari sono purepacifisti –, ma attraverso una carneficina dura ma giusta). Spielberg naturalmente sapeva quel chefaceva e nel film si concederà l’ammiccante vezzo di far pronunciare all’ex presidente degli StatiUniti Quincy Adams (buono) l’apoftegma programmatico ispiratore del progetto: «in un’aula di tri-bunale, chi racconta la storia migliore vince». L’operazione ebbe la sua efficacia nel rispondereall’incessante esigenza dei ceti dominanti U.S.A. di plasmare l’immaginario collettivo con semprenuovi prodotti stupefacenti, ma non fu certo paragonabile al successo ottenuto con Schindler’s List,nonostante la collaborazione della critica, che offrì spesso una sponda all’ambiguità del suo patriot-tismo metonimico. Da noi Irene Bignardi non afferrò il concetto e giudicò il film un tentativo «nobile[…], generoso e spettacolare» di raccontare «un episodio fondamentale della storia dell’abolizioni-smo» e di denunciare «l’ipocrisia della legge bianca» (la Repubblica, 13 marzo 1998. Va detto che il 4settembre successivo per Bignardi il film era già diventato «generoso ma retorico»). Spielberg com-pletò il compito edificante e assolutorio l’anno seguente, con Saving Private Ryan, trasferendo sul«campo dell’onore» le sue mirate parabole patriottiche.

39 Al concetto di «zona grigia» Levi dedicherà un capitolo del suo ultimo, fondamentale lavoro, I som-mersi e i salvati – pubblicato da Einaudi nel 1986, un anno prima della morte – che egli stesso definì «unlibro politico […], un libro morale» (Risa Sodi, Un’intervista con Primo Levi [1987], in Primo Levi.Conversazioni e interviste 1963-1987, Einaudi, Torino 1997, p. 237).

40 Bauman, op. cit., p. 212.41 Ivi, p. 173.42 Ivi, p. 268.43 Gozzini, op. cit., p. 56.44 Bauman, op. cit., p. 268.45 Weil, op. cit., p. 39.

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Renzo Vespignani

TRA DUE GUERRESchede critiche

di Gaspare De Caro e Roberto De Caro

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L’insistenza di Vespignani sul ciclo Tra due guerre – a brevissima distanza la mostra bolognese del1975 e le due edizioni torinesi dell’omonimo volume – testimonia l’importanza che il pittoredovette attribuire alla riflessione sul passato della nazione, su caratteri e costumi di vertici e dimasse nel momento di un nuovo grande Ritorno all’Ordine dopo le convulsioni degli anni Ses-santa. Per un artista della sua generazione e delle sue esperienze ed esigenze politiche, osserva-tore attento e amaro – come testimonia assiduamente la sua opera grafica – di un trentennio ditrasformazioni sociali che non cambiano la natura ultima delle cose e di adeguamenti istituzio-nali che riflettono e alimentano la miseria delle coscienze, la riflessione sul fascismo non puòessere una questione di archiviazione storiografica. Infatti, se rende omaggio agli storici cui

apparentemente è in debito di categorie interpreta-tive – il fascismo come fenomeno piccolo-bor-ghese, di dannunzianesimo diffuso –, perché chia-merebbe la pittura a sconvolgere «quel tanto dipacifico (o pacificato) che è nella comunicazionecritica»1 se non per testimoniare la persistenza delpassato nei drammi del presente? perché parle-rebbe di «guasto irreparabile» se non per includerenel bilancio un presente senza speranza? Del resto

Vespignani eccede esplicitamente e giustamente di cronologia e di senso l’angustia di quellecategorie, più icastiche che storiograficamente esaustive. A ragione vede nello scorcio delXIX secolo i prodromi dei «fatidici anni venti», nel classicismo mortuario di Sacconi l’antici-pazione degli stilemi di Mussolini. Aveva un bel protestare don Benedetto che la sua genera-zione era stata carducciana e non dannunziana: se si considera quanto il terreno di cultura«battericamente inerte» degli italiani ancora da fare si abbeverasse alla linfa massonica e raz-zista, al tronfio antiquariato vaticinante del professore di Bologna, e aggiungiamoci pure iltorbido sobbollire della «grande proletaria» nella cucina romagnola di Mariù, se ne ammet-

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Il sangue è il vino dei popoli forti

I. Gabriele D’Annunzio, 1973 II. Vittoriale, 1973

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terà la confluenza nell’epitome dan-nunziana suggerita da Vespignani,che pertanto dopo tutto risultaanche buona storiografia.Analogamente per quanto riguarda ladilatazione che Vespignani imponealle nozioni di «struttura caratteriale»e di «cultura delle masse piccolo-bor-ghesi», largamente travalicante l’acce-zione sociologica. Di questa culturache è «un glutine di stati d’animo pue-rili, di umiliazioni, di solitudini anti-che» beneficiano certamente «i cetiacculturati da un paio di generazioni,la minuta burocrazia degli scrivani edegli uscieri comunali, dai ruoliancora informi»; ma se la strutturacaratteriale che ne deriva «stinge benal di là dei ceti medi, e filtra nel sotto-suolo delle masse popolari», non sene separano affatto i piani alti dellasocietà. Le madri dell’Intervento diVespignani non sono piccolo-bor-ghesi, sono dame appena uscite daalcove dannunziane e nessuna mogliedi scrivano comunale potrebbe dotareil suo bimbo di una così lussuosadivisa da piccolo bersagliere: la mito-logia guerriera, le facinorose allocuzioni interventiste di quel «radioso maggio» e di quelli avenire, la «rettorica che sodomizza l’ignoranza» sono dotazione comune, in alto e in basso. Lespese però non saranno ripartite con altrettanta equità. Ritorno alla terra, Le reliquie dell’Isonzo,Caporetto, Piave dicono come e a chi tocchino comunque i premi dell’epopea.Vespignani evoca nell’immagine di Giovanni Papini, dal quale deriva il titolo della sezione, ilruolo di una cultura che, affiancata didatticamente alla putredine morale del dannunzianesimo,«misura “la vita in termini di letteratura, la letteratura in termini di azione”» e «pavimenta lastrada alla mistica del condottiero». A lastricare quella strada tuttavia lavorò parecchia mano-valanza, non solo la rigatteria vitalistica di Papini con ovvio destino mistico: la completezza delquadro sembra legittimare una chiosa. Non pare trascurabile infatti, per equità e perché il temaha qualche diritto di attualità, il contributo di quello che amò chiamarsi «interventismo demo-cratico»: Gaetano Salvemini, tanto per fare un nome, ma andrebbero altrettanto bene LeonidaBissolati o i preti modernisti alla Romolo Murri o i repubblicani di Romagna o Piero Jahier, pernon trascurare i poeti. Senza contare le democratiche oscenità belliciste che Salvemini scrivedurante la battaglia interventista e durante la guerra, che non andrebbero comunque dimenti-cate, non ha nulla da invidiare alla tipologia cui Vespignani fa riferimento l’identikit dei capi diun nuovo «partito socialista rivoluzionario» che Salvemini disegna nel 1914: «uomini di animosemplice ma potente, unilaterali e convinti, che sappiano odiare ed amare barbaramente, cheabbiano una visione apocalittica della vita». E, tanto per fare anche lui un nome, dice BenitoMussolini, l’«uomo necessario».2 Con democratici così, che bisogno c’era di reazionari?

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1 Le citazioni di Renzo Vespignani dal suo articolo Tra due guerre, in questo stesso volume.2 Gaetano Salvemini, Rinascita socialista, in L’Unità, 1° maggio 1914, ora in Id., Movimento socialista e

questione meridionale, a cura di Gaetano Arfè, in Opere, IV, II, Feltrinelli, Milano 1968, p. 553.

III. Le madri dell’Intervento, 1972

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IV. Le reliquie dell’Isonzo, 1973

V. Caporetto, 1974

VII. L’Altare della Patria, 1972

VI. Piave, 1974

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…Morte, mutilazioni, malattie, stragi, distruzioni… gli orrori della guerra sono altresì una cosa di unasuprema bellezza morale: sono l’animo umano che li supera.

Enrico Corradini

Nessuna più grande liberazione oso sognare per ora alla mia patria, e nessuna più grande conquista leauguro che quella della coscienza del male parlamentare.

Giuseppe Prezzolini

Il sangue è il vino dei popoli forti; il sangue è l’oblio di cui hanno bisogno le ruote di questa macchinache vola dal passato al futuro.

Giovanni Papini

O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere.Beati quelli che hanno vent’anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per essere vergini a questo primo e ultimo amore.Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la frontericoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia.

Gabriele D’Annunzio

Io vi immagino, miei valorosi, forti e impetuosi come il torrente che, rotto gli argini, straripa travol-gendo tutto quello che trova sotto le sue mani.

il Duca d’Aosta, comandante della III Armata

D’ora innanzi il vostro grido sarà l’alalà, col quale Achille aizzava i cavalli alla battaglia. Il barbarico hip! sarà sostituito dalla dolce e sonora esclamazione latina eja! A Pola quando tutte lebombe saranno lanciate, ogni equipaggio, prima di riprendere la via del ritorno, lancerà il grido tra ifuochi di sbarramento.

Gabriele D’Annunzio(ai suoi equipaggi prima del bombardamento di Pola)

L’avanzata è quella cosache si fa muovendo il passo:come è bello dietro un sassoveder gli altri ad avanzar.

canzonetta anonima

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1. Gabriele D’Annunzio

4. La reliquia di Serajevo 8. I volti della patria

9. Museo militare

10. Italia

5. Allegoria interventista

6. Palazzo di giustizia

7. Ritorno alla terra

2. Il salotto del poeta

3. Papini

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1. Gabriele D’Annunzio1975, olio su cartone, cm 102 x 146

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2. Il salotto del poeta1975, olio, cm 213 x 153

3. Papini1973, olio su cartone, cm 97 x 143

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4. La reliquia di Serajevo1973, tecnica mista, cm 100 x 140

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5. Allegoria interventista1975, olio su tela, cm 97 x 195

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6. Palazzo di giustizia1975, olio su tela, cm 132 x 93

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7. Ritorno alla terra1974, olio, cm 162 x 97

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8. I volti della patria1975, olio su tela, cm 140 x 162

9. Museo militare1975, olio, cm 100 x 140

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10. Italia1975, olio su cartone, cm 99 x 143

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