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Regno delle Due Sicilie 1 Regno delle Due Sicilie Regno delle due Sicilie (dettagli) (dettagli) Descrizione generale Nome ufficiale: Regno delle due Sicilie Lingue: latino, italiano Inno: Inno al Re Capitale: Napoli Forma politica Forma di governo: Monarchia Re: Re del regno delle Due Sicilie Nascita: 1816 Causa: Unione dei regni di Napoli e di Sicilia dopo il congresso di Vienna da parte di Ferdinando IV di Borbone. Fine: 1860 Causa: occupazione garibaldina e annessione al Regno di Sardegna. Territorio e popolazione Bacino geografico: Lazio meridionale e parte dell'attuale provincia di Rieti (Cittaducale, Leonessa, Amatrice), Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia Territorio originale: Sicilia-Mezzogiorno Province: Abruzzo Ultra, Abruzzo Citra, Contado di Molise, Terra di Lavoro, Principato Ultra, Principato Citra, Capitanata, Terra di Bari, Terra d'Otranto, Basilicata, Calabria Citra, Calabria Ultra. Massima estensione: 102.700 km² nel 1859 Popolazione: ca. 10.000.000 nel 1859 Economia Moneta: Tornese, Carlino, Tarì

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Regno delle Due Sicilie 1

Regno delle Due Sicilie

Regno delle due Sicilie

(dettagli) (dettagli)

Descrizione generale

Nome ufficiale: Regno delle due Sicilie

Lingue: latino, italiano

Inno: Inno al Re

Capitale: Napoli

Forma politica

Forma di governo: Monarchia

Re: Re del regno delle Due Sicilie

Nascita: 1816

Causa: Unione dei regni di Napoli e di Sicilia dopo il congresso di Vienna da parte di Ferdinando IV di Borbone.

Fine: 1860

Causa: occupazione garibaldina e annessione al Regno di Sardegna.

Territorio e popolazione

Bacino geografico:Lazio meridionale e parte dell'attuale provincia di Rieti (Cittaducale, Leonessa, Amatrice), Abruzzo, Molise,Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia

Territorio originale: Sicilia-Mezzogiorno

Province:Abruzzo Ultra, Abruzzo Citra, Contado di Molise, Terra di Lavoro, Principato Ultra, Principato Citra, Capitanata,Terra di Bari, Terra d'Otranto, Basilicata, Calabria Citra, Calabria Ultra.

Massima estensione: 102.700 km² nel 1859

Popolazione: ca. 10.000.000 nel 1859

Economia

Moneta: Tornese, Carlino, Tarì

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Commerci con:Gran Bretagna, stati mediterranei (Penisola iberica, Francia, stati italiani, Austria-Ungheria, Impero Ottomano,Russia).

Religione e Società

Religioni preminenti: cattolicesimo

Religione di stato: cattolicesimo

Religioni minoritarie: ortodossia, protestantesimo.

Evoluzione storica

Preceduto da: Succeduto da:

Regno diNapoli

Regno diSicilia

Regno d'Italia

Regno delle Due Sicilie fu il nome che il re Ferdinando di Borbone dette al suo regno, allorché, nel 1816, dopo ilCongresso di Vienna, soppresse il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia e la relativa costituzione che li tenevaseparati, unendoli in un'unica entità statale.

TerritorioIl Regno comprendeva le attuali regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia e Sicilia, più partidel Basso Lazio (Cassino, Gaeta, Sora), e il Cicolano e i territori della valle del Velino, attualmente nella provinciadi Rieti.La città di Benevento, oggi in Campania, era al contrario un'enclave pontificia.

Suddivisioni amministrativeLe due principali suddivisioni erano fra la parte continentale del Regno (Reali Dominii al di qua del Faro) e laSicilia (Reali Dominii al di là del Faro), con riferimento al Faro di Messina.Il Regno era suddiviso in province, a loro volta suddivise in distretti.[1]

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Reali Dominii al di qua del FaroComprendevano le seguenti province:• I Provincia di Napoli (capoluogo: Napoli)

• Napoli• Casoria• Castellammare• Pozzuoli

• II Terra di Lavoro (capoluogo: Caserta)

• Caserta• Gaeta• Nola• Piedimonte• Sora

• III Principato Citra (capoluogo: Salerno)

• Salerno• Campagna• Sala• Vallo

• IV Principato Ultra (capoluogo: Avellino)

• Avellino• Ariano• Sant'Angelo de' Lombardi

• V Basilicata (capoluogo: Potenza)

• Potenza• Lagonegro• Matera• Melfi

• VI Capitanata (capoluogo: Foggia)

• Foggia• Bovino• San Severo

• VII Terra di Bari (capoluogo: Bari)

• Bari• Altamura• Barletta

• VIII Terra d'Otranto (capoluogo: Lecce)

• Lecce• Brindisi• Gallipoli• Taranto

• IX Calabria Citeriore (capoluogo: Cosenza)

• Cosenza• Castrovillari• Paola• Rossano

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• X Calabria Ulteriore Prima (capoluogo: Reggio)

• Reggio• Gerace• Palmi

• XI Calabria Ulteriore Seconda (capoluogo: Catanzaro)

• Catanzaro• Cotrone• Monteleone• Nicastro

• XII Contado di Molise (capoluogo: Campobasso)

• Campobasso• Isernia• Larino

• XIII Abruzzo Citeriore (capoluogo: Chieti)

• Chieti• Lanciano• Vasto

• XIV Primo Abruzzo Ulteriore (capoluogo: Aquila)

• Aquila• Avezzano• Castel di Sangro• Città Ducale• Sulmona

• XV Secondo Abruzzo Ulteriore (capoluogo: Teramo)

• Teramo• Città Sant'Angelo

Reali Dominii al di là del FaroComprendevano le seguenti province:• XVI Palermo

• Palermo• Cefalù• Corleone• Termini

• XVII Messina• Messina• Castroreale• Mistretta• Patti

• XVIII Catania• Catania• Caltagirone• Nicosia

• XIX Girgenti• Girgenti

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• Bivona• Sciacca

• XX Noto• Noto• Modica• Siracusa

• XXI Trapani• Trapani• Alcamo• Mazara

• XXII Caltanissetta• Caltanissetta• Terranova

Origine del nomeIl nome è alquanto singolare nella storia d'Italia. La prima menzione ufficiale si ha quando Alfonso V d'Aragonaunifica solo formalmente il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli sotto la corona di Rex Utriusque Siciliae. L'uso deitermini Regno di Sicilia al di là del faro e Regno di Sicilia al di qua del faro, in riferimento al faro di Messina equindi all'omonimo stretto, ha però origine già quando, incoronato Carlo I d'Angiò da Clemente IV rex Siciliae, lacorte aragonese di Catania e Palermo rivendicava per sé tale titolo[2] .La Pace di Caltabellotta, nel 1302, diede questa separazione (secondo gli accordi, alla morte del re aragoneseFederico d'Aragona, l'isola sarebbe dovuta tornare agli Angioini, cosa che in realtà non avvenne).Sotto il governo spagnolo i due regni continuarono ad essere del tutto indipendenti, uno con capitale Napoli, l'altrocon capitale Palermo.Nel 1816, all'indomani del Congresso di Vienna, Regno di Napoli e Regno di Sicilia furono per la seconda voltaufficialmente riunificate, dopo quasi 600 anni, con il nome di Regno delle Due Sicilie.

Storia ed avvenimenti del RegnoPrima della Rivoluzione Francese del 1789 e delle successive campagne napoleoniche, la dinastia dei Borboneregnava negli stessi territori, ma questi risultavano divisi nel Regno di Napoli e nel Regno di Sicilia (ad eccezionedell'isola di Malta che era concessa in feudo al Sovrano Militare Ordine di Malta). Generalmente si convienecomunque di inserire nella trattazione storica del Regno delle Due Sicilie tutto il periodo di sovranità borbonica suiregni di Napoli e Sicilia (a partire dunque dal 1734) per una evidente continuità tra le diverse entità statali.

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Il XVIII secolo

Carlo di Borbone

Mappa del XIX secolo del Regno delle Due Sicilie

Il 10 maggio 1734 Carlo di Borbone, figliodi Filippo V re di Spagna e di ElisabettaFarnese, fece il suo ingresso a Napoli; il 25maggio 1734 sconfisse definitivamente gliaustriaci a Bitonto, conquistò poi la Sicilia eil 2 gennaio 1735 assunse il titolo di Re diNapoli "senza numerazione specifica"; inluglio venne incoronato a Palermo anche Redi Sicilia. Nel frattempo, con decreto dell'8giugno 1735, provvide ad istituire un nuovoorgano con funzioni consultive egiurisdizionali: la Real Camera di SantaChiara.

Il regno non ebbe un'effettiva autonomiadalla Spagna fino alla pace di Vienna, nel1738, con la quale si concluse la guerra disuccessione polacca. Secondo gli accordistipulati, l'Austria cedeva a Carlo III diBorbone lo Stato dei Presidii, il Regno di Napoli nonché il Regno di Sicilia, che essa aveva scambiato con laSardegna nel 1720 a seguito della Pace dell'Aja. Nell'agosto 1744 l'esercito di Carlo, forte ancora della presenza ditruppe spagnole, sconfisse a Velletri gli austriaci che tentavano di riconquistare il regno.

La situazione politica ed economico-sociale dei due regni nella prima metà del '700 era disastrosa, a causa delmalgoverno, avutosi durante il secolare viceregno spagnolo e nei pochi anni dei due viceregni asburgici (Austria).Tra le prime riforme intraprese dal sovrano va ricordata la lotta ai privilegi ecclesiastici: nel 1741, con un concordatofurono drasticamente ridotti il diritto d'asilo ed altre immunità; i beni ecclesiastici furono sottoposti a tassazione.Analoghi successi non si ebbero tuttavia nella lotta alla feudalità: le iniziative che minacciavano maggiormente gliinteressi dei ceti privilegiati furono infatti boicottate dal ceto nobiliare.Durante il governo di Carlo, le cui riforme provvidero a riparare malanni secolari, si registrò un notevole sviluppodell'economia, dovuto all'aumento della produzione agricola e degli scambi commerciali connessi. Il rifiorire delcommercio fu reso possibile grazie anche alla conclusione di vari trattati commerciali e con la lotta al flagello dellapirateria. Nel 1755 fu istituita presso l'Università di Napoli la prima cattedra di economia in Europa, denominatacattedra di commercio e di meccanica. I corsi (in italiano e non in latino), seguitissimi, furono tenuti da AntonioGenovesi, il cui pensiero influì molto sull'Illuminismo dell'Italia meridionale. Questi segnali di risveglio dei dueregni furono parte dell'epoca che vide in tutta Europa il fiorire con il cosiddetto "dispotismo illuminato" diesperienze di rinnovamento dall'alto.Il Regno di Sicilia stesso cresce come quello di Napoli anche a livello demografico e tornano a vivere.

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Ferdinando IV e la Repubblica Napoletana

Mappa del territorio appartenuto al regno delle Due Sicilie (1815)rispetto alle regioni italiane odierne

Nel 1759, alla partenza di Carlo, divenuto re di Spagna,salì al trono all'età di soli 8 anni Ferdinando. Principaliesponenti del Consiglio di Reggenza furono DomenicoCattaneo, principe di San Nicandro, e il marcheseBernardo Tanucci. Durante la reggenza, come nelperiodo successivo, fu principalmente il Tanucci adavere in mano le redini dei due regni e a continuare leriforme iniziate in età carolina. In campo giuridico,molti progressi furono resi possibili dall'appoggio datoal ministro Tanucci da Gaetano Filangieri, il quale, conla sua opera "Scienza della legislazione" (iniziata nel1777), può essere considerato tra i precursori del dirittomoderno.

Nel 1768 Ferdinando sposò Maria Carolina, figliadell'imperatrice Maria Teresa e sorella della regina diFrancia Maria Antonietta. La nuova regina (in forza diuna specifica clausola dei patti matrimoniali che leconsentiva di partecipare al Consiglio di Stato dalgiorno della nascita dell'erede al trono) partecipòattivamente, a differenza del marito, al governo delregno. Gli unici campi, infatti, in cui Ferdinando si impegnò personalmente furono le opere pubbliche, i rapporti conla Chiesa e la realizzazione della colonia di San Leucio (Caserta), esperimento di legislazione sociale e di sviluppomanifatturiero anche se ad ispirare il Codice delle leggi leuciane fu la stessa regina che volle sperimentare nella RealColonia una normativa in cui apparentemente le donne e gli uomini erano uguali in tutti i campi, ma permanendo ildominio paternalistico della corona.

Nei primi anni di governo, Maria Carolina si mostrò sensibile alle istanze di rinnovamento e moderatamentefavorevole alla promozione delle libertà individuali. Tale tendenza subì tuttavia una brusca inversione di rotta dopola Rivoluzione Francese, quando la soppressione della monarchia, l'esecuzione del Re e gli anni del terrore portaronoal diffondersi di un vasto timore nei ceti dominanti ed alla richiesta di opporsi ad ogni istanza riformatrice. Dopo ladecapitazione dei regnanti francesi le misure repressive dei Borbone di Napoli portarono ad un'insanabile frattura trala monarchia e la classe intellettuale che fino a quel momento era stata in dialogo con la stessa regina MariaCarolina, impegnata nei programmi del dispotismo illuminato.I Francesi erano già entrati in Italia nel 1796 con Napoleone Bonaparte, che era riuscito facilmente ad aver ragionedelle armate austriache e dei deboli governi locali. Nel 1798 i francesi occuparono Roma; un tentativo di contrastodelle truppe del Regno di Napoli mentre il regno siciliano si tenne in disparte dalla contesa (ma successivamentediventerà una base bellica per gli inglesi) si risolse in un insuccesso e così i Francesi si trovarono la strada apertaverso Napoli. Il 22 dicembre 1798 il re abbandonò il regno di Napoli per andare nel regno dell'isola e nella suacapitale: Palermo, lasciando la città praticamente indifesa; gli unici ad opporsi alle truppe francesi (dal 13 al 23gennaio 1799) furono i cosiddetti lazzari. I popolani opposero alle truppe francesi una resistenza disperata matenace, come riconobbe lo stesso generale francese Championnet. I lazzari subirono anche un bombardamento daglistessi giacobini napoletani che erano riusciti a prendere il forte di Castel Sant'Elmo. La battaglia per la conquistadella città costò la vita a circa 8000 napoletani e 1000 francesi.Il 22 gennaio 1799 (per alcuni il 21), mentre i lazzari ancora combattevano contro gli invasori francesi i giacobini napoletani - tra i quali Mario Pagano, Francesco Lomonaco, Domenico Cirillo, Nicola Fasulo, Carlo Lauberg,

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Giuseppe Logoteta, proclamarono la repubblica. La Repubblica Napoletana non ebbe lunga vita, travolta dallareazione europea e incapace di garantirsi l'adesione dei ceti popolari (d'altra parte a Napoli non esisteva un nutritoceto borghese al quale potessero ancorarsi le riforme democratiche dei repubblicani napoletani) e delle province nonoccupate dall'esercito francese. Fu pesante il controllo esercitato dai francesi che temevano una reale forza edindipendenza di una libera Repubblica, con un vasto territorio, in Italia. Il governo repubblicano promosse tuttavia importanti innovazioni (soprattutto per sancire la fine della feudalità edella servitù che faceva gravare sulle popolazioni rurali e nell'ordinamento giudiziario), che però non riuscirono atrovare pratica attuazione nei soli cinque mesi di vita della Repubblica. Di valore europeo la testimonianzaintellettuale fornita dal ceto liberale meridionale, testimoniata dal giornale "Monitore Napoletano", diretto daEleonora Pimentel Fonseca, straordinaria figura di donna impegnata nella battaglia democratica fino al supremosacrificio. Nei territori provinciali si susseguirono rivolte popolari; furono densi di episodi di ferocia sia le"insorgenze" anti-repubblicane che la repressione attuata soprattutto dai francesi. Così, se durante i pochi mesi dellarepubblica vennero condannati a morte e fucilati dopo processi politici 1563 cittadini del Regno, di una spietatezzadivenuta proverbiale ed esecrata in tutta Europa fu il comportamento della cosiddetta armata sanfedista, costituita inbuona misura da delinquenti comuni e personalità declassate e disperate.Il 13 giugno 1799 i sanfedisti comandati dal cardinale laico Fabrizio Ruffo, ripresero la città di Napoli che nelfrattempo, il 7 maggio, era stata già abbandonata dai francesi (con al seguito un lauto bottino in opere d'arte),richiamati nel settentrione d'Italia, restituendola alla monarchia borbonica (regnante, durante la Repubblica, sul soloRegno di Sicilia). Nei mesi seguenti, una giunta nominata da Ferdinando cominciò i processi contro i repubblicani:su circa 8000 prigionieri, 105 vennero condannati a morte (di cui 6 graziati), 222 all'ergastolo, 322 a pene minori,288 a deportazione e 67 all'esilio, mentre altri furono liberati.

Il XIX secolo: i tumulti napoleonici e l'unificazione dei due regni

Il periodo napoleonico

Il successivo quinquennio vede il governo borbonico dei due regni seguire una politica altalenante nei confronti dellaFrancia napoleonica che, per quanto ormai egemone sul continente, rimane sostanzialmente sulla difensiva sui mari:questa situazione non consente al Regno napoletano - strategicamente posizionato nel Mediterraneo - di mantenereuna stretta neutralità nel conflitto a tutto campo fra Inglesi e Francesi.Dopo la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805, Napoleone regolerà definitivamente i conti con Napolidichiarando decaduta la dinastia borbonica e nominando suo fratello Giuseppe Bonaparte Re di Napoli.Ferdinando, rifugiatosi nuovamente nel regno di Sicilia, dovrà ben presto fare i conti con l'insidiosa politicabritannica, volta a trasformare l'isola in un protettorato (come nel frattempo già avvenuto con Malta). A GiuseppeBonaparte, nel 1808 destinato a regnare sulla Spagna (per un gioco del caso, al posto del fratello di Ferdinando,Carlo IV), succederà Gioacchino Murat, regnante sino al maggio 1815 che riprese per sé il titolo di Re delle DueSicilie cancellando l'autorità amministrativa del Regno di Sicilia in cui si era rifugiato Ferdinando I di Borbone eaccentrando il potere con un'unica nazione con capitale Napoli.[3]

Durante il regno di Napoli di Giuseppe Bonaparte, il 2 agosto 1806, fu emanata la celebre legge che pose fine alsistema feudale nel Regno di Napoli. La lotta alla feudalità, ripresa in questo periodo con gran vigore, con ilfondamentale contributo di giuristi come Giuseppe Zurlo e Davide Winspeare, sarebbe stata continuata daGioacchino Murat, e alla fine riuscì a portare ad un taglio netto col passato ed alla nascita della proprietà borghese.Tuttavia le riforme non riuscirono a raggiungere il loro obiettivo principale: far nascere una piccola e mediaproprietà contadina. La fine della feudalità portò comunque notevoli progressi anche in campo giurisdizionale edamministrativo.

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Pubblicazione ufficiale del Regno delle Due Sicilie

La restaurazione borbonica

Il secondo ritorno di Ferdinando a Napoli non fucaratterizzato da repressioni. Il sovrano mantenne granparte delle riforme attuate dai francesi (fu però, adesempio, abolito il divorzio), ponendosi di fatto così acapo di una più moderna monarchia amministrativa.Unico taglio di rilievo con il periodo napoleonico si ebbenei rapporti con la chiesa, che tornò ad occupare un ruolodi primo piano nella vita civile del Regno.

Dopo il Congresso di Vienna ed il Trattato di Casalanza(20 maggio 1815), l'8 dicembre 1816, Ferdinando IV riunìin un'unica nazione i regni di Napoli e Sicilia con ladenominazione di Regno delle Due Sicilie, abbandonandoper sé il nome di Ferdinando IV di Napoli e III di Siciliaed assumendo quello di Ferdinando I delle Due Sicilie.

Tale atto ebbe, tra l'altro, la conseguenza di privare difatto la Sicilia della Costituzione promulgata dallo stessoFerdinando.Sino al Congresso di Vienna, il Regno di Sicilia avevamantenuto la propria indipendenza, rappresentato dalParlamento Siciliano, nonostante l'unione personale(ovvero unico Re per due Regni) con il Regno di Napoli,infatti erano due regni del tutto indipendenti l'uno

dall'altro; Ferdinando riservava tuttavia maggiori attenzioni verso quest'ultimo, provocando grossi scontenti alpopolo siciliano. Nel 1812, il Re Ferdinando I di Borbone, scappando da una Napoli occupata da Napoleone, sirifugia in Sicilia, ove ad attenderlo vi sono gli onori dell'occasione, ma non solo: i Siciliani chiedono a gran voce unaCostituzione che sappia garantire una stabilità dello Stato e maggiore certezza di diritto. Spinto indirettamente anchedagli interessi economici che gli inglesi avevano sull'Isola, Ferdinando concede la Costituzione, di chiara ispirazioneinglese, che ben presto diverrà esempio di liberalità per i tempi. Nel 1814, però, a seguito del Congresso di Vienna, ilRe Ferdinando I di Borbone, compie un vero e proprio colpo di mano: riunisce Regno di Sicilia e Regno di Napolisotto una sola Corona, cioè quella del neonato Regno delle Due Sicilie, eliminando il Parlamento Siciliano chedichiara de facto decaduto. La monarchia borbonica compie la sua restaurazione, non ripristina l'unione dei regni diNapoli e di Sicilia nello status quo ante 1789, bensì fa un balzo indietro di cinque secoli e mezzo e restaura il regnodi Carlo I d'Angiò. L'atto viene visto dalla classe politica siciliana come un affronto verso quello cheininterrottamente, e da circa 700 anni, era stato un regno indipendente a tutti gli effetti. Quasi immediatamente hainizio una campagna anti-borbonica, accompagnata da una propaganda dell'identità siciliana, soprattutto per vocedelle èlites di Palermo. Ciò sfocia, nel 1820, ad una rivoluzione, a Palermo, che porta all'insediamento di un governoprovvisorio, dichiaratamente separatista. Tuttavia, la mancata coordinazione delle forze delle varie città siciliane,porta all'indebolimento del potere del governo provvisorio (Messina e Catania osteggiarono la rivendicazione diPalermo a voler governare l'Isola), che ben presto decade sotto i colpi della repressione borbonica. Il fallimento diquesta prima rivoluzione tuttavia non scoraggia le forze politiche sicilianiste, che riproveranno circa 20 anni piùtardi.Il primo luglio 1820, alla notizia che in Spagna era stata ripristinata la Costituzione del 1812, insorse a Nola ungruppo di militari capeggiato dai sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati. La rivolta fu appoggiata anche daalti ufficiali tra i quali si distinse il generale Guglielmo Pepe.

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Ferdinando, constatata l'impossibilità di soffocare la rivolta, concesse la Costituzione spagnola e nominò suo vicarioil figlio Francesco. Il primo ottobre iniziò i lavori il parlamento, eletto alla fine di agosto, nel quale prevalevano gliideali borghesi diffusi nel decennio francese. Tra gli atti del parlamento vi furono la riorganizzazione delleamministrazioni provinciali e comunali ed un provvedimento sulla libertà di stampa e di culto.Le novità introdotte nelle Due Sicilie non furono gradite dai governi delle grandi potenze europee, che convocaronoFerdinando a Lubiana. Alla partenza del re si oppose, tra gli altri, il principe ereditario Francesco.In seguito al Congresso di Lubiana il Regno fu invaso dalle truppe austriache che nel marzo 1821 sconfisserol'esercito costituzionale napoletano comandato dal generale Pepe. A fiaccare lo spirito combattivo dell'esercitoduosiciliano valse anche un proclama del re Ferdinando che, al seguito degli Austriaci, invitava a deporre le armi e anon combattere coloro che venivano a ristabilire l'ordine nel Regno.Il 23 marzo 1821 Napoli venne occupata, la costituzione venne sospesa e cominciarono le repressioni: si contaronoalla fine 30 condanne a morte (tra cui Pepe, Morelli, Silvati e Carascosa) e 13 ergastoli.

Francesco I delle Due Sicilie

Ai primi di gennaio del 1825 morì Ferdinando I e salì al trono Francesco I. I suoi sei anni di Regno furonocaratterizzati da progressi in campo economico e tecnologico. Sul piano politico perseguì una politica reazionaria,pur avendo avuto un atteggiamento favorevole nei confronti dei moti rivoluzionari durante il regno del padre.

Ferdinando II delle Due Sicilie

Stemma da intestazione di atto ufficiale del Regno delle Due Sicilie,1855

Alla morte di Francesco I, il 7 novembre 1830, ilRegno passò al figlio Ferdinando II. Il governo delnuovo sovrano (fino al 1847) fu caratterizzato daalcune riforme, volte a migliorare l'economia el'amministrazione dello Stato. In particolare, in campofinanziario fu attuata una notevole diminuzione dellafiscalità, resa possibile, tra l'altro, dalla diminuzionedelle spese di corte. Ferdinando provvide a richiamarein patria ed a reinserire negli incarichi numerosi esuli(tra i quali il generale Guglielmo Pepe, chiamato persedare i moti scoppiati in Sicilia, ed il Carascosa) ed adiminuire le pene per i condannati politici. Inoltre sispinse verso nuovi metodi di amministrazione dellecarceri, cercando di migliorarne le orribili condizioni[4]

e applicando per la prima volta i principi della scuolapositiva penale per il recupero dei malviventi.[5]

In politica estera Ferdinando cercò di mantenere ilRegno fuori dalle sfere di influenza delle potenzedell'epoca. Tale indirizzo era concretamente perseguitopur favorendo l'iniziativa straniera nel Regno, masempre in un'ottica di acquisizione di conoscenzetecnologiche che consentissero, in tempi relativamentebrevi, l'affrancamento da Francia ed Inghilterra; il cherese il sovrano (ed il Regno) inviso agli altri Stati europei e politicamente isolato.

Va bensì esplicitato che nel 1816 il Governo britannico si era fatto concedere da Ferdinando I il monopolio dello sfruttamento dello zolfo siciliano[6] (il 90% della produzione mondiale[7] ) dietro un pagamento quasi irrisorio.

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Ricordiamo che lo zolfo era una materia d'importanza strategica, con la quale si produceva la polvere da sparo;detenere il suo monopolio significava dominare una fonte essenziale per la guerra. Ferdinando II, deciso a ridurre la tassazione attraverso l'abolizione della tassa sul macinato, gabella invisa alle classidisagiate, decise di affidare il monopolio ad una società francese che concedeva un pagamento più che doppiorispetto all'Inghilterra: questa misura innescò la cosiddetta "questione degli zolfi". Parlmerston mandò subito una flotta militare davanti al Golfo di Napoli, minacciando di bombardare la città.Ferdinando II tenne duro, preparando flotta (all'epoca assai sviluppata) ed esercito alla guerra. La guerra fu sfiorata con l'intervento di Luigi Filippo Re dei Francesi: il Re dovette rimborsare sia gli inglesi che ifrancesi per il presunto danno arrecato.Il regno, però, fu nuovamente oggetto di moti rivoluzionari nel 1848, moti che, peraltro, in quell'anno interessarononumerosi Stati europei, dall'Austria alla Francia alla Prussia, con risvolti anche di carattere sociale.Il Re cercò di arginare le richieste liberali concedendo la Costituzione, per primo in Italia, con regio decreto del 29gennaio, ispirandosi al modello francese - giudicato il migliore - (analogo criterio seguirà due mesi dopo il Regno diSardegna). Paradossalmente, i moti quarantotteschi in Francia travolgevano, a fine febbraio, proprio quel migliormodello di Costituzione ed il re Luigi Filippo di Borbone - Orleans.L'11 febbraio venne promulgata la Costituzione, giurata il 24 febbraio, nel medesimo giorno della fuga di LuigiFilippo da Parigi.A seguito dei moti in Sicilia, il 25 marzo del 1848, si riuniva il Parlamento Generale di Sicilia, con un governorivoluzionario presieduto da Ruggero Settimo e composto da ministri eletti dallo stesso presidente che proclamòl'indipendenza dell'isola. La vita del neonato Parlamento siciliano fu breve e già con il cosiddetto decreto di Gaetadel 28 febbraio 1849 Ferdinando di Borbone riprendeva possesso della Sicilia, sciogliendo l'assise, e massacrando ebombardando la popolazione della città di Messina, Palermo, Catania e di tutte le città insorte, guadagnandosil'appellativo di "re bomba".Nel gennaio del 1848, dopo una prolungata crisi economica, a Palermo, a Chiazza dâ Feravecchia, ha inizio unanuova rivoluzione indipendentista, capitanata da Giuseppe La Masa. Dopo sanguinosi scontri, La Masa, al comandodell'esercito popolare, riesce a scacciare la luogotenenza generale e gran parte dell'esercito borbonico dalla Sicilia,costituendo un «comitato generale rivoluzionario» dagli inizi di febbraio. Il comitato generale istituisce un governoprovvisorio a Palermo; tra le felicitazioni generali e l'ottimismo, Ruggero Settimo, un liberale moderato appartenentealla nobiltà siciliana, viene nominato presidente. Ma all'ottimismo ben presto succederà la disillusione; le forzepolitiche in coalizione appaiono infatti assai in contrasto: vi è nutrita presenza di liberali moderati, contrapposta ademocratici e a qualche mazziniano.I campi che accendono la miccia delle rivalità sono soprattutto l'istituzione di una Guardia Nazionale e del suffragiouniversale, entrambe sostenute soprattutto da Pasquale Calvi, membro democratico del governo. Scarse prese diposizione vi erano soprattutto su che linea di comportamento intraprendere verso il governo di Napoli e la possibilitàdi prendere o meno parte alla formazione dello Stato Italiano, quest'ultima sostenuta solo dalla minoranzamazziniana. Intanto, nonostante l'appoggio concreto delle città siciliane al governo provvisorio di Settimo, le areerurali diventano scarsamente controllate, e agitazioni contadine mettono in serie difficoltà le amministrazioni locali.La violenta repressione borbonica dell'estate del 1849, contro un governo provvisorio ormai instabile, decretava lafine dell'esperienza del 1848-1849 e la creazione di una frattura totalmente insanabile tra la classe politica siciliana equella napoletana.Le elezioni del Regno delle Due Sicilie si tennero nel mese di aprile, ma il superamento di questa grave fase nonpose termine a una disputa fra il Sovrano, che considerava la Costituzione appena concessa come base del nuovoordinamento rappresentativo, e la parte più radicale dei neoeletti che, al contrario, intendeva "svolgerla" - come sidiceva con terminologia apparentemente neutra - ovvero il primo atto del Parlamento avrebbe dovuto essere lamodifica della Costituzione appena promulgata.

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I convulsi avvenimenti del 15 maggio, il giorno successivo all'apertura della Camera, (sbarramenti delle viecittadine, in specie quelle prossime alla Reggia, con barricate da cui partirono fucilate in direzione dei repartischierati) determinarono la reazione regia e lo scioglimento della Camera.Un mese dopo, il 15 giugno, si tennero nuove elezioni ma gli eletti furono in gran parte quelli della passata elezione.Dopo la prima seduta, la riapertura della Camera fu rinviata diverse volte di mese in mese fino al 12 marzo 1849,quando fu riaggiornata "a tempo indeterminato".Se quindi non vi fu una formale revoca della Costituzione, ma una sua "sospensione" a tempo indeterminato, apparvechiaro l'incapacità della casa di Borbone di mettersi a capo di una riforma costituzionale del Regno.Anche in questo caso vi fu un seguito di processi e condanne, tra cui quelle di Luigi Settembrini illustre figura difilosofo ed educatore, già autore dalla Protesta del popolo delle Due Sicilie, Filippo Agresti e Silvio Spaventa.Al ristabilimento dell'assolutismo seguì una dura repressione del movimento liberale ed il soffocamento dei tentativiinsurrezionali (F. Bentivegna, Carlo Pisacane).Nel campo economico, infine, bisogna sottolineare il notevole sforzo industriale sostenuto con Ferdinando II, chepermise di pareggiare il confronto con gli altri stati europei. Svariati anche in questo campo furono i primati delregno, tra cui si cita la prima ferrovia d'Italia che, al momento dell'Unità, aveva già collegato Napoli a Portici.

Le tappe dell'unità d'Italia

Francesco II e la fine del Regno

Francesco II salì al trono nel 1859. Dicarattere mite, non riuscì a romperel'isolamento politico del regno e a impedirnela dissoluzione. Infatti il Regno sopravvissefino al 1861, quando, dopo la conquistadella massima parte del suo territorio adopera di Giuseppe Garibaldi, con la"Spedizione dei Mille" iniziativa capace daun lato di raccogliere le volontàrivoluzionarie dei democratici del Partitod'Azione, dall'altro di agire con un tacito eparziale, ma reale, appoggio di Savoia, leultime fortezze borboniche (Gaeta, Messinae Civitella del Tronto) si arresero agliassedianti piemontesi. L'impresa diGaribaldi stupì i contemporanei, ed ancorasorprende per l'ardimento dei volontari, lacapacità di garantirne guida, strategia edisciplina da parte di Garibaldi e dei suoiufficiali, per la rapidità delle conquiste deiMille data l'enorme disparità delle forze incampo. Nel frattempo nel regno avvenivano insurrezioni popolari a favore dell'Unità d'Italia, la prima delle quali siebbe a Potenza, il 18 agosto, in cui la provincia di Basilicata si proclamò annessa al Regno d'Italia; seguita il 21agosto dalla Puglia con l'insurrezione di Altamura. Le armate borboniche (120.000 unità) non riuscirono adorganizzare un'efficace resistenza, sebbene in ciò ebbero parte anche episodi documentati di corruzione degli stessialti ufficiali del Regno[8] . Solo nella parte conclusiva della campagna, nei territori più legati alla Casa regnante, conla battaglia del Volturno, il Sud ritrovò la dignità di un'ultima resistenza. Il generale Giosuè Ritucci diresse

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valorosamente le truppe, e la volontà, sia pure largamente simbolica, di non arrendersi dimostrata dalla fortezzaassediata di Gaeta, dove si era rifugiata la famiglia reale, nella quale l'esercito napoletano si trovò a fronteggiareanche le armate del regno di Sardegna, giunte nel frattempo (invadendo lo Stato Pontificio, pur senza dichiarazionedi guerra), ad affiancare le armate garibaldine, superandole in numero e in armamenti. Circondata, Gaeta fusottoposta ad un blocco navale e pesantemente bombardata dal mare e da terra, sino alla resa.Il Regno delle Due Sicilie venne annesso al Regno di Sardegna dopo l'esito di un plebiscito (il 21 ottobre 1860)contestato, in cui non fu generalmente garantita la segretezza del voto ed al quale partecipò solo una minima partedegli elettori. Nella capitale, ad esempio, si ebbero seggi presieduti da bersaglieri, carabinieri e garibaldini. Nel restodelle province andò peggio, con intimidazioni e manifestazioni di cambio di opinione e schieramento da parte deinobili e dei possidenti. La legittimità storica doveva essere data dalla raggiunta unità d'Italia e da istituzionidemocratiche, l'obiettivo dei garibaldini e dei repubblicani. Non realizzandosi, venne cercata nel plebiscito pernegare, considerato il passaggio da una dinastia all'altra, che si fosse trattata di una pura conquista militare di unostato sovrano. Inoltre si voleva escludere qualsiasi ipotesi di mantenimento di uno Stato meridionale autonomo oconfederato, tanto in una paventata forma repubblicana (ipotesi caldeggiata anche da Garibaldi), chemonarchico-murattiana.Di fatto, il Regno Delle Due Sicilie cessò di esistere il 20 marzo 1861, giorno della resa della Fortezza di Civitelladel Tronto, ultima roccaforte dei duosiciliani. La caduta del Regno resta un momento importante nella storia d'Italia,ma le forme che lo determinarono e soprattutto le scelte della monarchia, dell'esercito e dei governi della nuova Italiafurono ben lontane dall'assicurare la realizzazione di quegli ideali di unità della patria e di eguaglianza dei cittadiniadombrati dall'idealismo di Giuseppe Mazzini e della generazione protagonista delle lotte risorgimentali.

Primati del RegnoTra le realizzazioni del regno, principalmente in ambito scientifico e tecnologico, vanno certamente ricordate, tra lealtre, la prima nave a vapore nel Mediterraneo (1818) realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al ponte di Viglienapresso Napoli[9] e, nel 1839, la prima linea ferroviaria italiana, tra Napoli e Portici (fino all'unità d'Italia furono peròrealizzate solo limitate estensioni[10] ).Tali opere sono regolarmente citate in opere e scritti coevi, in quanto la novità delle stesse colpì i contemporanei.Ma, pur se meno appariscenti, non vanno tralasciati altri primati che, per loro natura, denotano il carattere nonepisodico dei buoni livelli raggiunti dalle industrie e manifatture meridionali. Si possono ricordare, fra gli altri, ilprimo ponte sospeso in ferro realizzato nell'Europa continentale (1832), la prima illuminazione a gas in Italia (1839),il primo osservatorio vulcanico del mondo, sul Vesuvio (1841).Non meno rilevante fu la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa (1840), espressione della politica di Ferdinando II cheperseguiva l'affrancamento del Regno da forme di dipendenza, anche tecnologica, dall'estero. Alla fabbrica vera epropria si affiancava infatti una scuola per macchinisti ferroviari e navali, grazie alla quale il Regno poté sostituire,nel giro di pochi anni le maestranze inglesi utilizzate in precedenza. Il primo battello a vapore con propulsione adelica del quale si abbia notizia nel Mediterraneo è il Giglio delle Onde, usato per servizio passeggeri e postaleappunto nel Regno, dal 1847.

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Il ponte Real Ferdinando sul Garigliano

A puro titolo di paragone, il piroscafo sardo Cagliari impiegato daCarlo Pisacane nella sfortunata avventura di Sapri del 1857imbarcava personale inglese per le macchine (il che fornì a Cavourun appiglio per ottenere, grazie alle imposizioni britanniche, larestituzione del battello).

È d'altro canto da considerare che, perduta l'indipendenza,entrarono in crisi proprio quei settori industriali che avevano vistoil Regno primeggiare in Italia.Infatti, finché il nuovo Stato non avviò una politica diindustrializzazione (1878), i principi liberisti allora in vogasegnarono la fine delle piccole e non più "protette" imprese meridionali rispetto alla concorrenza britannica efrancese, in una competizione che si svolgeva sostanzialmente sul mercato interno.

Alla crisi contribuì inoltre l'incameramento delle casse del Banco nazionale delle Due Sicilie (443 milioni diDucati-oro, all'epoca corrispondenti ad oltre il 60% del patrimonio di tutti gli stati pre-unitari messi insieme) da partedi quelle esauste del Piemonte, indebolite drammaticamente anche dalla intrapresa guerra di conquista. Lo stessoistituto di credito fu poi scisso in Banco di Napoli e Banco di Sicilia.

Cronologia dei regnanti• Ferdinando IV di Napoli (III di Sicilia) 1759-1806 (continuò a regnare in Sicilia fino al 1815, quando fu

restaurato anche a Napoli; nel 1816 assunse il nome di Ferdinando I delle Due Sicilie 1816-1825• Francesco I delle Due Sicilie 1825-1830• Ferdinando II delle Due Sicilie 1830-1859• Francesco II delle Due Sicilie 1859-1861

Bibliografia• Pino Aprile, Terroni .- Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero "meridionali", ediz.

Piemme, Milano 2010• Antonio Boccia, A sud del Risorgimento, ediz. Tandem, Lauria 1998• Giorgio Cucentrentoli, I 200 drammatici giorni della Fedelissima Civitella del Tronto, Edigrafital, 1997• Hercule De Sauclières, Il Risorgimento contro la Chiesa e il Sud. Intrighi, crimini e menzogne dei piemontesi.

Controcorrente, Napoli, 2003. ISBN 978-88-89015-03-2• Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia! Piemme 2003 ISBN 88-384-7040-5• Gino Doria, Storia di una capitale. Napoli dalle origini al 1860., Ricciardi, Milano-Napoli, 1975• Nicola Forte, Viaggio nella memoria persa del Regno delle Due Sicilie. La storia, i fatti, i fattarielli ed.

Imagaenaria, Lacco Ameno 2007 - ISBN 88-89144-70-X• Vittorio Gleijeses, La storia di Napoli dalle origini ai nostri giorni, Napoli, 1977.• Salvatore Lucchese, Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini, Lacaita, Bari 2004• Denis Mack Smith, Storia d'Italia, Laterza, Roma-Bari, 2000. ISBN 88-420-6143-3• Mario Montalto, L'Esercito delle Due Sicilie• Mario Montalto, L'armata di mare delle Due Sicilie• Ruggero Moscati, I Borboni d'Italia, Newton Compton ed., Roma 1973.• Francesco Saverio Nitti, La Scienza delle Finanze, 1903• Francesco Saverio Nitti, Nord e Sud, 1900• Pietro Summonte, Historia della città e del regno di Napoli, Napoli, 1748• Verdile Nadia, Carissima compagna mia, Caserta, Garma, 2007

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• Verdile Nadia, Un anno di lettere coniugali, Caserta, Spring Edizioni, 2008• Verdile Nadia (introduzione di), L'utopia di Carolina. Il Codice delle Leggi leuciane, Napoli, Regione Campania,

Stamperia Digitale, 2007• Verdile Nadia, Tra leggi illuminate e lettere private: il 1789 di Maria Carolina d'Asburgo, in "Archivio per la

Storia delle Donne", V, 2008; pp.71-106

Voci correlate• Linea di successione al trono delle Due Sicilie• Regno di Napoli• Regno di Sicilia• Elenco dei monarchi di Napoli e Sicilia, cronistoria dei sovrani e delle diverse denominazioni dei regni• Presidenti del Consiglio del Regno delle Due Sicilie• Ministri dell'interno delle Due Sicilie• Ministri di grazia e giustizia delle Due Sicilie• Inno al Re• Faro di Messina• Regia Marina del Regno delle Due Sicilie• Trattato di Casalanza• Storia della Sicilia• Mezzogiorno

Collegamenti esterni• Mario Intrieri, Situazione storica, politica, economica e sociale del Regno delle Due Sicilie al momento

dell'annessione del 1861 [11], sala conferenze FABI, Cosenza 2009• Cinquantadue Primati del Regno delle Due Sicilie [12]

• Ulisse - Il Regno delle Due Sicilie - Napoli [13] (You Tube).• Primati del Regno delle Due Sicilie [14] (You Tube).

Note[1] Mappa del 1842 riprodotta qui (http:/ / www. eleaml. org/ immagini/ due_sicilie/ carta2sicilie_marzolla_1842_1858. jpg)[2] Sono stati segnalati atlanti storici di autorevoli editori che indicano l'opposto (ovvero la Sicilia = al di qua del faro dimostrando l'ufficiosità

dell'uso dei termini fino al regno di Carlo III di Spagna; ci si attiene qui alla versione desunta da Atti ufficiali, Leggi e Decreti del periodoborbonico (immagine a sinistra)

[3] Murat1.jpg (image) (http:/ / bp3. blogger. com/ _24klMrIuq58/ Rl6iFe3-oZI/ AAAAAAAAANE/ Ys2vdy9W3rA/ s1600-h/ Murat1. jpg)[4] Ferdinando II di Borbone, Roberto Maria Selvaggi, Tascabili Newton[5] Primati del regno delle Due Sicilie, anno 1853[6] Agli inglesi il monopolio dello zolfo siciliano - 24 settembre 1816 (http:/ / www. irsap-agrigentum. it/ miniera6. htm). URL consultato il

18-03-2010.[7] Il Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità (seconda parte) (http:/ / www. positanonews. it/ articoli/ 30067/

31102009__il_regno_delle_due_sicilie_prima_dellrsquounita_seconda_parte. html) in Positano News. URL consultato il 18-03-2010.[8] Aldo Servidio, L'Imbroglio Nazionale, Alfredo Guida Editore (http:/ / books. google. it/ books?id=gIgWYlOzvukC& pg=PA197&

lpg=PA197& dq=piastre+ turche+ corruzione& source=bl& ots=orVvpHiFhU& sig=onfX0yKD3Nn66cWPYczfZFvaWB8& hl=it&ei=wOhJSoSrMY7FsgaX16XBBQ& sa=X& oi=book_result& ct=result& resnum=8)

[9] Ressmann Claudio, Rivista Marittima, Febbraio 2007[10] Si veda la mappa della rete ferroviaria italiana al 1860 (http:/ / www. miol. it/ stagniweb/ libri/ if1850. gif)[11] http:/ / www. studistoricicosenza. it/ GIORNALE_ON_LINE/ INTRIERI_DUESICILIE/

aaaa_RELAZIONE%20UFFICIALE%20IL%20REGNO%20DELLE%20DUE%20SICILIE. pdf[12] http:/ / www. vocedimegaride. it/ html/ primatidelregno. htm[13] http:/ / www. youtube. com/ watch?v=WE-h12f-Mfs[14] http:/ / www. youtube. com/ watch?v=Pm-M2hDjFDM

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Fonti e autori delle voci 16

Fonti e autori delle vociRegno delle Due Sicilie  Fonte:: http://it.wikipedia.org/w/index.php?oldid=33013710  Autori:: -kayac-, 5Y, 92bari, Adam91, Aedo89, Aiace, Al Pereira, Aldo Iannotti, Alfogra, Alfovel, Aliogiu,Almadannata, Almax, Andreur, Angelosante, AnjaQantina, Anthos, Antoninodgng, Apokolo, Arestaino, Ary29, Avemundi, Baku, BigGeorge, Borboniano, Brownout, Bultro, Carmine Colacino,Ciro, Cloj, Cotton, Crccri, Cruccone, Demart81, Demimarc2, Denghiù, DueSicilie, Ediedi, Eltharion, EmSiV, Emme17, Emmeauerre, Erinaceus, Euron, F l a n k e r, F.chiodo, Fabrizio Fiorita,Filos96, Franco aq, Frieda, Friedrichstrasse, Frà Diavolo, Gac, Galhad, Generale Lee, Gregorovius, Guy Stair Sainty, Gvf, Hal8999, Hrundi V. Bakshi, Hyeronimus, Il conte, Il palazzo, Ilprincipe,Ita01, K92, Kaho Mitsuki, Kanchelskis, Lachimera, Leopold, Lilja, Lorenzo Santiago Policarpo, Lp, Luca Visentin, Lucio silla, LuckyLisp, Luiclemens, Luke18389, LukeWiller, LupoCapra,Lyell01, M7, MM, MaEr, Madip86, Magma, Marcok, Marcol-it, Marcuscalabresus, Mascarinho10, Massimo Macconi, Mastrob88, Mauro Tozzi, Maximix, Melkor II, Moloch981, Musso, Mystic,Nanae, Nemo bis, Nicola Romani, Nicoli, Nuno Tavares, Olando, Oren neu dag, Paginazero, Panairjdde, Paolo da Reggio, Parabro, PassErme, Pdn, Pequod76, Phantomas, Piero Montesacro,Pietro, Pigr8, Pinea, Pio, Pracchia-78, Progettualita, Rago, Razzairpina, Renato Caniatti, Retaggio, RiccardoP1983, S141739, Sbazzone, Sbisolo, Senza nome.txt, Sinigagl, Skyluke, Snowdog,Suisui, The White Lion, Tobia Gorrio, Tooby, Triph, Triquetra, Truman Burbank, Twice25, Vermondo, Vipstano, Virnupok, Vittorio bordo, Vittozena, Vituzzu, Webmasto, Wento, Wentosecco,Yerul, Yuma, Zappuddu, Zomas, 221 Modifiche anonime

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Editoriale Il Giglio

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Su alcune industrie del Regno di Napoli: pasta, ceramica e carta

d i Gennaro De C rescenzo

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Editoriale Il Giglio

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Il testo è tratto dal secondo capitolo del volume Le industrie del Regno di Napoli, Ed. Grimaldi, Napoli 2003, per gentile concessione dell’Autore.

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LE INDUSTRIE ALIMENTARI La pasta La storia dei pastifici nel Regno di Napoli è una storia profondamente legata ai loro prodotti, a quegli spaghetti o a quei maccheroni che sono diventati il simbolo di Napoli, dei meridionali e di tutti gli italiani nel mondo. La storia del cosiddetto "oro bianco" è nello stesso tempo storia del costume e della società e se le immagini dei venditori di maccheroni, dei "maccaronari", appartengono ad un'iconografia ricorrente, non è altrettanto conosciuta la storia dei pastifici sotto l'aspetto economico-industriale. Già dall’antichità si hanno notizie di laganae (lasagne o fettuccine di pasta) arrivate forse dalla Calabria e già conosciute dai Greci che abitavano Sibari e Crotone: di esse era golosissimo lo stesso Mecenate secondo quanto ci riferisce il poeta Orazio. Ma, secondo una diffusa tradizione, dopo l'occupazione normanna di Amalfi nel XII secolo, alcuni maestri locali, già in contatto con i mercati e i mercanti orientali, sarebbero sfuggiti agli invasori rifugiandosi presso Gragnano, tra i monti Lattari, continuando lì la tradizione delle paste. Da Gragnano si sarebbero spostati nella zona della futura Torre Annunziata perché più adatta al commercio per mare e verso la città di Napoli, che iniziava la sua crescita progressiva. Alcune leggende riportate anche da Matilde Serao riferiscono di un'origine napoletana dei "vermicelli" che sarebbero stati inventati intorno al tempo di Federico II di Svevia da un mago che abitava in una grotta al vico dei Cortellari, nel seggio di Portanova: un tale mago Chico, infatti, era impegnato nei suoi misteriosi esperimenti tra fumi e tracce di un liquido rosso che sembrava sangue; la moglie di uno sguattero della corte di Federico II, tale Giovannella di Canzio, rubò al mago il suo segreto: si trattava di maccheroni con il sugo di pomodoro (che sarebbe arrivato a Napoli solo qualche secolo dopo); la nuova ricetta fece la felicità della corte e, ben presto, di tutto il popolo napoletano costringendo alla fuga per la rabbia il mago-pastaio. E’ certo, invece, che tra i secoli XVII e XVIII i pastifici napoletani raggiunsero una fama indiscussa e la corporazione dei "Maccaronari" era tra le più potenti in città, tanto da impedire l'importazione dai centri vicini1. Dalla fine del XVIII secolo, però, il livello di consumi fu così alto che fu necessario acquistare pasta anche da Portici, Resina, Gragnano e, soprattutto, Torre Annunziata. Quest'ultima città vesuviana diventò uno dei centri commerciali più importanti di tutto il Regno assorbendo nella produzione della pasta tutta la manodopera locale e parte di quella dei dintorni. Fino al Cinquecento i produttori di pane erano anche produttori di paste e la gramolazione (l'impasto della semola di frumento con l'acqua) doveva avvenire prima che l'acqua si raffreddasse ritagliando rapidamente tagliatelle, gnocchi o cappelletti. Per questo motivo la pasta non era diffusissima come alimento. Dagli inizi del Seicento, invece, si cominciò a meccanizzare la produzione con torchi e impastatrici e a Napoli e nel napoletano nacquero le prime vere e proprie fabbriche di pasta venendo progressivamente incontro all'esigenza di consumare alimenti a base di cereali, in conseguenza della crisi di produzione orticola e dell'incremento demografico che rendeva difficoltoso il consumo di carni. La "minestra maritata", piatto tipico che univa, appunto, verdure e carni, fu sostituita da

Gragnano: essiccazione della pasta

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maccheroni e spaghetti, con motivazioni di carattere pratico (perché conservabili e trasportabili) e nutrizionale (nacque praticamente così la famosa "dieta mediterranea"). Per tutto il Seicento, comunque, si ritrova spesso un uso successivamente abbandonato della pasta: veniva servita alla fine del pranzo come dolce, magari “semmenate de zuccaro e cannella (cosa da fa sperire le perzune)” seguendo le parole del poema “Tiorba a taccone” di Filippo Sgruttendio nel capitolo dedicato ai “maccarune donate da Cecca”2. Nel Settecento ormai i maccheroni erano diventati un vero e proprio piatto nazionale. Nella stessa cucina reale borbonica quasi quotidianamente si consumavano ravioli, vermicelli, tagliolini al burro, lasagne, maccheroni con le salsicce o con i classici pomodori tanto da rendere necessaria l’installazione di una “maccaroneria” di proprietà reale con macchine per la produzione meccanica fin dal 1776. L’ultimo Re di Napoli, del resto, Francesco II di Borbone, veniva chiamato affettuosamente “lasa” dal padre Ferdinando II. Nella prima metà dell'Ottocento si avvertì l'esigenza di un nuovo cambiamento per migliorare la quantità e la qualità della produzione e a questa esigenza venne incontro la politica economica che i Borbone seguivano in quegli anni proteggendo e stimolando le industrie locali. Sempre in quegli anni fu favorita così la pubblicazione di una sorta di manuale per l'organizzazione di un "novello e grande stabilimento di paste alimentari per togliere l'uso abominevole di impastare coi piedi" sostituendolo con "l'uomo di bronzo", una nuova impastatrice con lamine di bronzo inventata a Napoli e alcune fabbriche hanno conservato un sistema simile di produzione che rende la pasta meno liscia e quindi più adatta a trattenere il condimento3. Nello stesso testo si davano indicazioni sulle macchine ritenute indispensabili ad un pastificio moderno, sulle attrezzature e sulle norme necessarie per garantire l'igiene, la produttività e una proficua commercializzazione4. Comunque, nonostante l'alto numero di fabbriche piccole e tradizionali, i pastifici della provincia di Napoli raggiunsero degli ottimi risultati commerciali in Italia e all'estero per la notevole presenza di mulini adibiti alla produzione per il mercato, per la tendenza a realizzare impianti a ciclo completo (dal grano alla pasta) e grazie all'investimento di buoni capitali5. Nel 1856 proprio la produzione delle paste napoletane fu premiata all'Esposizione Universale di Parigi anche se con una rocambolesca partecipazione: il legato a Parigi, Luigi Cito, infatti, raccontò di aver consegnato alla commissione una "cassetta con collezioni di paste" che aveva portato "ad uso suo", pensando, come realmente avvenne, che avrebbero "ben figurato in mezzo alle paste d'Italia e di Francia"6. Negli stessi anni la produzione si era diffusa in tutto il Regno: a Napoli e a Gragnano, dove c'erano "81 macchine per manifatture di maccheroni e 28 macchine per molire i cereali"7, a Torre Annunziata, a Ischia, con una fabbrica per "paste lavorate" che dava lavoro a 20 persone8, a Rapolla, presso Melfi, con 40 operai9; dalle Puglie alle Calabrie, soprattutto nelle zone di Bari, Molfetta, Barletta, Crotone, Cosenza e Catanzaro10. Circa un centinaio, complessivamente, gli stabilimenti e in molti si erano diffusi ormai gli impianti azionati a vapore11. I famosi maccheroni venivano esportati praticamente in tutto il mondo, a New York come a Rio de Janeiro, a Odessa, Algeri, Atene, Algeri, Malta, Pietroburgo o Amburgo12 e ancora oggi sono il prodotto italiano più conosciuto in ogni angolo del pianeta, anche se ormai i rari stabilimenti di Torre Annunziata, di Gragnano o della provincia di Napoli hanno perso tutti i loro primati.

Venditore ambulante di maccaroni

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I liquori Tra le altre industrie alimentari ricordiamo anche alcune industrie di minore importanza ma pure significative per lo sviluppo che avrebbero avuto o che avrebbero potuto avere. Si contavano diverse distillerie a Napoli, a Salerno, dove c'era una buona industria di prodotti ricavati dal sorgo cinese (alcool, rhum, farina di semi)13, a Mugnano del Cardinale con la "distilleria di spirito" Borel14, a Potenza, con 11 operai e la capacità di esportare nella capitale15; altre industrie "dello spirito dal vino" si potevano trovare presso Caserta, ad Aversa, presso Nola, a Cicciano (13 stabilimenti), a Marigliano (5 stabilimenti) con prodotti esportati in Inghilterra, Francia e America. I nostri lambicchi, del resto, “vincevano in perfezione quanti ne furono immaginati in Francia,in Inghilterra e in Germania”16. Numerose, poi, erano le fabbriche di spirito "tolto dal granone di farina"17 e siccome molta povera gente si nutriva proprio di granone in molte province del Regno, Francesco II ne proibì l'utilizzazione come materia prima nella distillazione degli alcool per evitare che aumentasse il prezzo18. Gli industriali colpiti protestarono con il governo poiché, secondo la loro tesi, la quantità di granone usato per la distillazione era comunque esigua e, di fronte alle conferme della proibizione (anche da parte del successivo governo italiano), spesso inumidivano illecitamente i granoni per dimostrare che erano guasti e li distillavano19. Si potevano contare, poi, circa dieci birrerie: la prima di esse fu fondata con tecnici e macchine bavaresi intorno al 1850 nei pressi di Capodimonte da Luigi Caflish, proprietario dei famosi caffè. Varie anche le fabbriche di liquori dolci, secondo la moda dell'epoca, fra cui il "Centerbe" di Beniamino Toro di Tocco Casauria (Pescara), le essenze di agrumi in Calabria, della locale Società Economica, le acquaviti e i rosoli (anisetta, curacao, melarancino o l’orzata) di Genovais, di Tomas e Costan a Rodi in Capitanata (Maraschino, Vainiglia, Perfetto Amore, Specifico per la Salute e Essenza di Puntsch i loro prodotti più famosi) o di Giovanni Di Cola da Ortona a Mare (Rosa, Diavolone e Cedrato le sue specialità). Già molto diffuse le essenze di agrumi: «e varie specie di agrumi che per natura di suolo e di clima abbondevolmente si coltivano lungo le contrade marittime del Reggitano distretto, offrono il destro a quelli industriosi naturali di estrarre dalla frutta (bergamotto, arancio, portogallo, limone, cedrato) l’olio volatile che chiamasi essenza»; un Nicola Barilla e un Luigi Auteri di Reggio avevano inventato una macchina a tale scopo. A Napoli, poi, si era diffuso un liquore chiamato “elisir” e molto simile al nostro amaro grazie all’invenzione (sulla base di un’antica ricetta) del proprietario di uno dei caffè più famosi della città a piazza Dante. Nello stesso locale, agli inizi dell’Ottocento, il greco Demetrio Gallo fu uno dei primi a portare in città l’uso e l’industria del caffè come bevanda (acqua e caffè bollivano insieme in una pentola di terracotta servendolo poi in misurini di forma conica anch’essi di terracotta). L’acquavitaro, del resto, era un mestiere abbastanza diffuso: con una cassetta legata al collo, illuminata da una candela e piena di bottiglie e di prese (bicchierini), passava per le vie della città per tutta la notte offrendo ai suoi clienti centerbe, rumme, annese, sambuchelle, stomateca, ammennola amara, cafè o mescolanze (gli attuali cocktail). Più di cinquanta rosoli diversi (spesso frutto di antiche ricette familiari) venivano prodotti già alla fine del Settecento e puntualmente serviti alla fine dei pranzi napoletani.

Macchina per l’estrazione

dell’essenza di bergamotto. Museo Laografico, Bova Marina - RC

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L’abitudine di bere bibite anche non alcoliche fredde faceva fiorire il commercio della neve durante tutto l’anno: in mancanza di ghiaccio e di frigoriferi, dalle montagne vicine la neve veniva raccolta e conservata in fosse profonde coperte di paglia o di frasche per raffreddare l’acqua spesso unita a limone, arancia o sambuco. Ancora più diffusa era l’abitudine di bere limonate preparate dagli “acquaiuoli” con l’acqua “zurfegna” o “suffregna” (sulfurea e ferruginosa) raccolta dalle fonti ancora esistenti presso Santa Lucia e il Chiatamone e conservata nelle caratteristiche “mummare” (anfore di terracotta)20. I vini Anche la produzione vinicola andò lentamente industrializzandosi come dimostra un esempio significativo: dopo i trattati di commercio stretti con gli Stati Uniti d'America, l'esportazione del vino aumentò dalle 989 botti del 1845 alle 2934 botti del 1846; lo stesso aumento si ebbe per un altro tipo di produzione, quello della frutta secca21. Già Plinio, del resto, aveva scritto la storia delle nostre viti, della grande varietà delle nostre uve e dei metodi che caratterizzavano la produzione dei vini ma “un tempo, e ne sono fresche le memorie, noi arrossivamo di vestir pannine o portar cappelli o avere arnese qualunque che non fosse opera di mani straniere: ed avevamo vergogna ad imbandire le nostre mense di vini indigeni. Re Ferdinando imprese a vendicare l’onore delle nostre vigne nelle sue Reali Delizie, ogni cura adoperando per avere vini fatti come l’esperienza, di utili metodi sagace maestra, e le novelle teoriche della chimica consigliavano. I nostri vini con sommo accorgimento destinati dal Monarca a rendere più splendidi i suoi conviti e levati a cielo dai più illustri ospiti stranieri scossero la nostra scioperata indolenza e presto non fu gran possedente il quale non amasse segnalarsi con quelli delle sue terre. La quale bella gara sarebbe stata assai più profittevole se non si fosse desto in molti il desiderio d’imitare con le nostre uve or l’uno or l’altro liquore straniero […] perché le vigne le quali danno il delizioso Geraci o il Capo di Leuca non daran mai né il Bordò né il Borgogna… Ma già gli amatori lodano a cielo il bianco del Ponte della Valle o dell’arse terre che copruono le estreme falde del Vesuvio o i vini bianchi della famosa Capri e quelli del dolce monte di Posilipo dolcemente generosi, pieni di gradevole profumo e perciò da un greco poeta appellati Vini di Giove, ristoratori della salute e rallegratori del cuore”. Un’apposita Società Enologica era stata istituita per raccogliere notizie sui siti e sull’estensione delle vigne, sulla quantità di vino che esse producevano, sul gusto e sul profumo che distinguevano un vino dall’altro, sui possibili trapianti di uve, sui metodi di coltivazione e di produzione, sulle ragioni che rendevano i vini più o meno pregiati, sui metodi di trasporto per mare e per terra. La Società curava anche la pubblicazione di un Giornale Enologico per approfondire gli stessi temi e possedeva delle cantine in proprio per le sperimentazioni tra le vaste e antiche grotte di Posillipo e a Pozzuoli con oltre trentamila botti. Tra le qualità di vini più famose a Napoli e in provincia “un vino eccellente chiamato greco, un vino leggerissimo acquoso che la minuta gente chiama marano, un altro assai dolce detto lambiccato; e ci viene udito che un tempo si facea la malvasia a Torre del Greco e che alcuni proprietari fanno del buon moscato a Posillipo”. Il vino greco, assai pregiato e resistente, era di colore roseo e i vitigni per produrlo si trovavano principalmente alle falde di Somma e del Vesuvio; a Portici e a Resina veniva anche definito lagrima (o mezza lagrima unendolo ad altre uve bianche); a Portici, a Resina e a Torre del Greco erano pregiati anche l’aglianico e il piede palumbo. Da un elenco molto parziale di uve che

Vigneto di aglianico, sul fiume Vulture

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venivano coltivate solo nei dintorni di Napoli si evidenzia già la grande varietà varietà delle uve stesse (e dei corrispettivi vini). L’impoverimento dell’agricoltura e la vera e propria estinzione di molte varietà di produzioni locali è uno dei problemi più attuali del nostro territorio. Tra le uve più volte citate si ricordano, ad esempio, l’aglianica, la pignola, la dolcetta, la pie’ palumbo, la S. Niccola, la cavalla, la colagiovanni, la tintora, l’olivella, l’olivella bastarda, la parasacco, la forcinola, la sanseverina, la castagnara, la sanfrancesco, la lugliesa, la cascaveglia, la mangiaverra, la S. Francesco22. L’olio Molto diffusi erano i trappeti, stabilimenti per la spremitura delle olive. Soprattutto in Puglia si cominciavano ad organizzare a livello industriale anche per un’esportazione diretta quasi in tutto il mondo: ogni anno si esportavano circa 200.000 salme di olio per un valore di 5.000.000 di ducati. Nei confronti del Levante e del Nord Africa si utilizzava il vantaggio di poter contare su un raccolto all'anno, dato che i raccolti biennali di Puglia e Calabria si alternavano23. “Chi non loda gli oli dei monti Tifatini, dell’amena Sorrento e delle memorabili rupi di Capri? Le alpestri rocce di Venafro danno olio che fa ricordare il vanto loro attribuito dal cantore di Venosa Da Popoli alle rive dell’Adriatico non ci ha picciola terra che non dia olio squisitissimo. Nelle Calabrie, dove la natura fa pompa di tutte le sue ricchezze più che in altra parte ella nostra penisola […] quei vasti uliveti sorgono quasi sempre sui colli nell’esposizione più acconcia a favorire la vegetazione [...], somma è l’arte perché nel ricolto niuna oliva vada perduta e niuna offesa al tronco ed ai rami si faccia. Dal frutto che, ove non ispiccasi a mano ed a varie riprese lasciasi cadere o sopra strati di felci secche o sopra aie che si apparecchiano sotto gli alberi […] ed estraggonsi dolcissimi oli fra i quali è avanti a tutti rinomato quello delle terre reggine, primo onor delle mense”. Sono sempre più numerosi oggi i coltivatori che, dalle Puglie alle Calabrie, hanno preferito o preferiscono abbattere i propri alberi in cambio di qualche finanziamento comunitario. Le vastissime esportazioni da Bari, Bisceglie, Gallipoli, Lecce, Molfetta, Manfredonia, Taranto, Mola, Gioia, Bisceglie, Monopoli, Ortona e Ancona, Reggio, Catanzaro, Procida, Castellammare o Napoli, raggiungevano Genova, Venezia, Trieste, Amburgo, Liverpool, Marsiglia, New Orleans, New York, Pietroburgo, Costantinopoli, Buenos Aires o Rio de Janeiro. Gli oli della Calabria, provenienti da ulivi più grandi e poco curati, erano meno pregiati e spesso venivano trasportati a Gallipoli e mescolati a quelli pugliesi rendendo necessari controlli e certificazioni di "origine controllata" nelle esportazioni. Gallipoli deteneva quasi un monopolio sull'esportazione dell'olio di qualità pregiata per le sue ottime cisterne tagliate nella roccia24. A dimostrazione degli interessi economici che giravano intorno all'olio pugliese c'è un episodio abbastanza curioso: un fratello di Garibaldi, Felice, intorno al 1835 era diventato socio di un mercante barese di olio, Paolo Diano25.

Frantoio cilentano, 1856

Oliveti dell’alto Tavoliere delle Puglie

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Dalla liquirizia ai formaggi Diverse le fabbriche che lavoravano la liquirizia soprattutto in Calabria (tra le più consistenti quella del barone Barracco) e in Puglia con diverse centinaia di addetti e buone esportazioni soprattutto in America; diverse anche quelle per la conservazione e la salagione del pesce, di insaccati, di miele (soprattutto Macchia in Terra d’Otranto); buona la produzione di zucchero (con lo zuccherificio della Società Industriale Partenopea a Sarno) e anche di un prodotto non meglio identificato ma di grande successo: “l’eleosaccaro, specie di zuccherinolo di molto gusto”. Per la liquirizia gli stabilimenti più produttivi erano quelli di Altilia, San Lorenzo di Vallo (39 addetti) e Isola (Calabria), di Silvi, presso Teramo (47 addetti). Anche l'esportazione di liquirizia verso gli U.S.A. era aumentata dopo i trattati di commercio da 1741 casse a 2417 casse e grazie alle nuove tecnologie utilizzate in fabbriche come quelle di Carafa a Foggia, era cresciuta la potenza della compressione , “era migliorata la distillazione, la raffinazione e cottura dei così detti brodi: si è giunto ad ottenere dalla radice il venti per cento di liquirizia compatta, fragile, lucida, quale debbe essere per qualificarsi come ottima”. Numerose le fabbriche dolciumi e di cioccolato: “da che gli scopritori del Messico nel 1520 conobbero che quei popoli usavano in alimento e in bevanda i semi del cacao leggermente abbrustoliti e polverizzati, ne introdussero l’uso nella Spagna e poi fu adottato dagli italiani e dai francesi: su le prime il cacao si condiva semplicemente con gli aromi, dopo vi si aggiunse lo zucchero e da quest’epoca propriamente prende origine il nostro cioccolatte”. Clouet a Napoli aveva inventato una nuova macchina col “vantaggio di dare al cioccolatte una raffinatezza d’assai maggiore di quello preparato nel consueto modo, evitando lo schifoso sudore dell’operaio ed ogni specie di maneggiamento […] con un cioccolatte pregevole per l’ottimo sapore e per l’eleganza delle forme”26. Molti erano i formaggi tradizionalmente prodotti nel Regno di Napoli e intorno al 1850 alcune realtà artigianali si trasformarono in piccole realtà industriali ad esempio presso Caserta, nel Salento e presso L'Aquila. Tra i più famosi ne ricordiamo alcuni ancora prodotti anche se non sufficientemente “protetti” dall’attuale legislazione comunitaria: la mozzarella, esistente certamente con il nome di “mozza” almeno fin dal Quattrocento e prodotta con il latte di bufala (oggi ormai senza nessuna esclusiva) nella zona “dei Mazzoni” tra Capua, Nola e Aversa, nel Salernitano e in Capitanata: al latte portato ad una certa temperatura si unisce il caglio che lo solidifica in una pasta filante che viene tagliata (“mozzata”) in forme rotonde o a volte intrecciata; il fiordilatte, prodotto con latte vaccino, di una pasta differente per colore e consistenza dalla precedente; la provola affumicata, mozzarella esposta al fumo di legna; i bocconcini di Cardinale, piccoli bocconcini di mozzarella non passati in salamoia e conservati nel latte o nella panna; il provolone, che comprende tutta una serie di formaggi diversi per stagionatura e sapore, da quelli più freschi e dolci a quelli più piccanti (tra quelli medi è famoso il provolone del monaco, tipico della penisola sorrentina tra Agerola e Vico e molto apprezzato anche presso la corte borbonica); il caciocavallo, più compatto del provolone (per questo anche da grattugiare) e di forma diversa, solitamente legato in coppia per la “testa” e sospeso con una corda “a cavallo” di un bastone; i burrini, pasta di provolone dolce ripiena di burro e tipica di alcune zone della Puglia; la ricotta di fuscella, leggera e conservata ancora umida in cestini di forma conica tagliata per farne colare il siero; la ricotta salata, prodotta con latte di pecora, conservata sotto sale e consumata soprattutto durante le festività pasquali27.

Museo della liquirizia Amarilli, Rossano Calabro

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Le altre produzioni alimentari erano legate a tradizioni artigianali che non ebbero sviluppi di carattere industriale. Tra gli esempi più famosi quello della produzione dei gelati o dei "sorbetti" dei venditori ambulanti forniti di "subbrettere" (cilindri di stagno per l'impasto e recipienti di legno per conservare la neve insieme alle bottiglie degli sciroppi) o di alcune gelaterie rinomate. Famosa nella capitale la sorbetteria di Vito Pinto a Piazza Carità, diventato "ricchissimo e barone a furia di ottimi gelati", uno dei motivi principali per cui Giacomo Leopardi si era legato a Napoli, secondo le parole di Antonio Ranieri. Quest’ultimo aveva cercato di risolvere "l'insolubile problema" dei gelati del grande poeta accordandosi con un gelataio di Torre del Greco senza riuscire ad accontentarlo, però, perché "a Leopardi si rizzavano i capelli al solo pensiero che non fossero proprio del Sì Vito [...] al quale "nelle frottole che ci scappavano di sera a veglia, aveva consacrato, in lode dei gelati, un terzetto, onde mi ricordo ancora il verso: Quella grand'arte onde barone è Vito". Leopardi, tra l’altro, era anche molto goloso di confetti, altra produzione tipica e diffusa soprattutto negli Abruzzi, dove erano molto abili nella lavorazione dello zucchero e anche nella creazione di vere composizioni artistiche28. Stesso discorso si potrebbe fare per la produzione varia e diffusa dei salumi o per la pasticceria famosa e pregiata in tutta l'Italia del Sud ed in particolare della Campania e della Sicilia (dalla pastiera alla cassata, dalle sfogliate ai babà, dai cannoli ai calzoncelli, dai torroni alle paste di mandorla, dal cioccolato al marzapane). Tenuto conto che i prodotti alimentari all'epoca si consumavano quasi sempre freschi, la grande tradizione dell'industria conserviera meridionale si affermò, con le nuove tecniche di conservazione, soprattutto agli inizi del Novecento, secolo durante il quale molte delle produzioni alimentari tipiche, invece, furono abbandonate o soppiantate da produzioni industriali qualitativamente inferiori ma in grado di reggere le attuali leggi del mercato internazionale.

LE CERAMICHE Le porcellane della Real Fabbrica di Capodimonte rappresentano un altro prodotto di grande prestigio internazionale che il Regno poteva vantare. Le Reali Manifatture furono il frutto della fusione di tradizioni artigianali e di sensibilità artistica dei ceramisti, della capacità organizzativa industriale degli imprenditori, della precisa volontà di Carlo di Borbone e di tutto l'ambiente culturale napoletano. L'organizzazione del lavoro, la sua regolamentazione, la gerarchizzazione delle specifiche competenze, anche senza privare gli artisti-artigiani della loro autonomia, dimostrano che fin dal primo anno di attività (1741) le manifatture della ceramica erano parte integrante della storia industriale del Regno.

La Real Fabbrica di porcellane, nel bosco di Capodimonte

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La stessa vastità e la qualità dei prodotti, gli sforzi fatti per l'organizzazione delle vendite, il successo incontrato come genere di consumo delle nuove classi emergenti con il loro desiderio di lusso, sono altri elementi per considerare le porcellane di Capodimonte un prodotto industriale e non una semplice "manifattura reale", il frutto di un semplice desiderio di un re, di una regina e di tecnici esterni della Sassonia, come spesso si è sostenuto29. I primi anni furono dedicati quasi esclusivamente alla sperimentazione e alla ricerca partendo fin dalla determinazione dell'impasto e dai criteri per lavorarlo. Con l'organizzazione di Joan Joachin di Montealegre e la sperimentazione di Livio Vittorio Schepers e del figlio Gaetano si arrivò alla composizione di una pasta tenera definita "porcellana", misto di "terre bianche" provenienti da Atri già usate in Abruzzo e un'altra dalle falde del Monte Maiella, la prima "gessosa, salina e plumbea, l'altra alcalina, assorbente e leggiera"31. Tutti gli esperimenti di chimica e mineralogia effettuati furono successivamente codificati da una commissione scientifica verso la fine del secolo, con Ferdinando IV di Borbone32. Con ricerche scientifiche simili per i colori furono raggiunti livelli di produzione di grande qualità. Nella costruzione della fabbrica, all'architetto di corte Ferdinando Sanfelice fu affidato il compito di riadattare una palazzina del bosco di Capodimonte in precedenza abitata dalla Guardia Maggiore. Seguendo i modelli industriali più moderni e, nello stesso tempo, le esigenze degli stessi ceramisti, Sanfelice realizzò una struttura funzionale e ospitale dove gli operai lavoravano coralmente conservando la propria individualità33. Diversi appartamenti superiori, più o meno grandi a seconda dei nuclei familiari, ospitavano gran parte degli stessi lavoratori (93 nel 1758)34. La struttura comprendeva: la Galleria del Modello (o delle forme), la Galleria della Pittura, una Camera degli Intagliatori, una Camera dei Tiratori di ruota (per lo stampo delle forme); vi lavoravano, oltre al compositore ed al suo assistente, molinari (per la macinazione delle materie prime), fornaciari (addetti all'accensione del forno e al mantenimento del suo calore), battitori d'oro (per la macinazione dell'oro usato nei colori), giornalieri, garzoni di stalla e custodi del magazzino35. La fabbrica contava anche numerosi giovani apprendisti, dai 9 anni in su, il cui lavoro, però, era rigidamente regolato da uno statuto che prevedeva anche altre regole come l'orario del "travaglio" che andava "dal sorgere del sole a mezzodì" e, dopo un'ora per il pranzo (due nei mesi estivi) "procedeva fino alle 23 e mezzo"36: un orario che potrebbe sembrare massacrante secondo gli attuali contratti di lavoro ma che per l'epoca era del tutto normale anche nel resto del mondo. Vi si producevano "zuccheriere, ciotole, caffettiere, chicchere, piattini, ciotole alla genovese, boccali, boccalini, fiaschetti, tabacchiere, cornetti e pomi di bastone, scatole a conchiglia di mare, scatole lavorate, cucchiaini" e statuine raffiguranti persone, animali, frutti o fiori37. Anche dopo la pausa seguita alla partenza di Carlo di Borbone per la Spagna nel 1759 la fabbrica continuò la sua attività senza perdere mai qualità e originalità, nonostante la progressiva industrializzazione della produzione. Tra arte e artigianato, tra manifattura e fabbrica, Capodimonte costituì un esempio importante per l'organizzazione del lavoro e per la formazione professionale anche in altri settori e la tradizione delle ceramiche, con dimensioni notevolmente ridotte e tra alterne vicende, resiste ancora oggi38. Nel 1860 l'antica manifattura Giustiniani aveva raccolto in qualche modo l'eredità delle Reali Manifatture (entrate in crisi già durante il periodo francese) e dava lavoro a 60 maestri direttori e 120 adiutanti che producevano tutto ciò che si poteva produrre con l’argilla (proveniente, tra l’altro, dalla Sicilia, dalla Calabria, da Ischia, da Ponza o da Gaeta). Niccola Giustiniani detto anche

Manifattura Giustiniani

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Niccola Pensiere per il suo ingegno sagace, era arrivato a Napoli da Cerreto (dove la produzione delle ceramiche era già un’antica tradizione) e aveva incontrato presto un successo enorme perfezionandosi nella produzione delle maioliche abbellite con ornamenti di carminio, di azzurro e di altri delicati colori a smalto. Già alla fine del Settecento altri imprenditori avevano seguito il suo esempio: tra essi il Migliuoli, il Tressanti presso Foggia o Gennaro e Niccola Del Vecchio che ebbero in prestito da Ferdinando IV diciottomila ducati per fondare una fabbrica “ad imitazione delle stoviglie gialle degli inglesi”. Presto le stoviglie napoletane diventarono tra le prime d’Europa anche grazie all’abilità dei disegnatori che riproducevano forme e colori dei vasi greci e romani spesso estratti dagli scavi di Pompei ed Ercolano. Le stoviglie napoletane venivano così vendute in Francia, in Inghilterra, in Russia, in Germania, in tutta l’America e nel resto dell’Italia: tra i clienti italiani si ricordavano il Granduca di Toscana Leopoldo II e la regina di Sardegna Maria Cristina che adornò una sua villa con pavimenti che riproducevano mosaici romani39. Produzioni simili, tra quelle artistiche e artigianali-industriali, erano quelle di piastrelle di cotto (le famose "riggiole") smaltate e decorate nel napoletano e nel salernitano ed esportate in molti paesi del Mediterraneo40. Altre ceramiche e maioliche erano prodotte presso Teramo (36 fabbriche con esportazioni notevoli verso lo Stato Pontificio), presso la costiera amalfitana (soprattutto a Vietri) e nella stessa capitale41. Circa una trentina le vetrerie e le cristallerie dalle dimensioni spesso modeste con una produzione di bottiglie, fiaschi, damigiane e bicchieri e vetri vari, in grado comunque di soddisfare i quattro quinti della crescente richiesta locale e di esportare a Tunisi, ad Algeri, a Malta e in America42. Tra gli opifici più grandi quelli di Palazzo Donn'Anna a Posillipo (di Vincenzo Nelli), di S. Giovanni a Teduccio, nel Rerale Albergo dei Poveri (una vetriera e una cristalleria molto apprezzate), S. Arcangelo a Baiano, Aversa, Molina, Giffoni, Montecorvino o Bagnara Calabra, di San Giorgio a Cremano (di Giuseppe e Saverio Bruno), del Granatello a Portici (di Luigi Rossi) e di Vietri (per lastre e campane di vetro, che erano diventate molto di moda per coprire orologi, bronzi, vasi, fiori o altri soprammobili); verso il 1850, poi, Giuseppe Walh aveva ottenuto la privativa di un fornello di sua invenzione per lavorare in maniera innovativa i cristalli ed in modo particolare quelli destinati agli orologi. La vetreria più importante, comunque, era quella di Vincenzo Nelli che nel 1822 ebbe la privativa per fabbricare cristalli in lamine e di ogni altra maniera. La fabbrica fu aperta “alle falde della ridente collina di Posillipo nel vasto edificio volgarmente appellato di Donn’Anna”. Successivamente una ricca Compagnia subentrò ai primi proprietari migliorando la produzione e la situazione societaria: “dopo pochi anni le nostre lamine di cristallo sostenevano non senza gloria il confronto di quelle giustamente vantate di Francia o di Germania e il Regno si sottraeva al tributo che era uso pagare agli stranieri e gli oscuri vetri della maestra Venezia sparivano anche dalle finestre delle nostre più picciole terre. Nel lusso sempre crescente di questa città nostra i sacri templi, la Reggia, i pubblici e privati edifizi presto erano forniti solo di lamine di cristallo della nostra fabbrica […]. Oggi questa bella manifattura, vinti tutti gli ostacoli, è fatta nazionale: gli operai venuti di Francia divennero napoletani per nozze contratte ed i loro figliuoli, ammaestrati in un’arte della quale i padri serbano tenacemente i segreti come patrimonio di famiglia, sono già nel numero dei lavoratori e non saprebbero abbandonare la terra dove sortirono la culla ed a cui sono legati con tenaci vincoli di affezione e di sangue… Nostre sono le materie adoperate e con somma diligenza si va cercando di rinvenire nel Regno al finissima silice che siamo obbligati a far venire dalla Francia”43.

CORALLI E GIOIELLI Concludendo questa breve panoramica sui prodotti tra arte e artigianato non si può non citare la lavorazione del corallo, specie nella zona di Torre del Greco, che valse al Regno di Napoli il primo premio "per i coralli tagliati e incisi" alla Mostra Internazionale Industriale di Parigi del 185644.

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Fino al XVIII secolo il corallo veniva pescato e venduto sulla piazza di Livorno soprattutto a mercanti ebrei; solo successivamente si iniziò a lavorarlo, soprattutto dopo l'introduzione di nuove tecniche e nuovi strumenti inventati da un artigiano francese all'Albergo dei Poveri a Napoli (vera e propria struttura produttiva oltre che centro di assistenza sociale)45. Quella della lavorazione fu un'attività diffusa soprattutto verso la fine dell'Ottocento in conseguenza della sovrapproduzione degli anni precedenti, del calo dei prezzi e della chiusura dei fertilissimi banchi di coralli di Sciacca in Sicilia. 40, comunque, le fabbriche per la lavorazione dei preziosi "cammei" e circa 300 le barche attrezzate per la pesca del corallo, continuando una tradizione che si cercò di difendere anche con provvedimenti singolari: nel 1835 il governo decise di esonerare i torresi dal servizio militare perché i giovani, abilissimi pescatori di corallo, "emigravano spesso per sottrarsi alla leva, portando la loro industria nei paesi stranieri e cagionando grave scapito alla popolazione di quel Comune". A proposito della grande tradizione dei coralli a Torre del Greco sono significativi alcuni versi di un canto popolare torrese composto nel Settecento e musicato da Francesco Florimo nel 1836: «Sò quatt'anne ca partiste,/sò quatt'anne ca t'aspetto [...] Me diciste chillu juorno:/vaco a ppesca a lu ccurallo,/quanno tornno, t'aggio tutta,/t'aggio tutta cummiglià[...]Ma si tuorne e io sò morta/fa na croce de curallo/e a la fossa de la morta,/chella croce aie da pusà»46. Restando nello stesso settore, venivano lavorate anche le pietre vulcaniche del Vesuvio e dell’Etna e “dei camei incisi in quelle pietre vulcaniche si adornavano le più gentili donne d’Italia, di Francia, d’Inghilterra e di tutto il Settentrione”. Anche i lavori di tartaruga e di osso vinsero la concorrenza francese e tedesca soprattutto “per gli smisurati pettini di unghie di bue che debbono oggi troneggiare sul capo di ogni donna gentile”. A Solofra era famosa una fabbrica di “oro falso” gestita da un Raffaele Di Majo. L’argento era lavorato in forme che ricordavano “il gusto, l’eleganza, la precisione di disegno onde i nostri orafi si celebravano nell’età in cui il Cellini era maraviglia d’Italia e di Francia”; gioiellieri come il Sarno a Napoli, seguendo un’antica tradizione che trovò il sostegno anche di Carlo di Borbone realizzavano lavori in oro che “per vaghezza di disegno e solidità, vinsero negli animi gentili delle nostre donne l’antica e matta avversione per ornamenti non comprati a caro prezzo sulla Senna e sul Tamigi”47.

LE ANTICHE CARTIERE Continuando una tradizione antica di quasi sette secoli, delle duecento cartiere presenti nel Regno nel 1848 sessanta si potevano contare nei comuni della costiera amalfitana. Amalfi poteva considerarsi il centro dell'attività delle cartiere meridionali: ancora nel 1815, in occasione dell' Esposizione Nazionale dell'Industria Manifatturiera, la migliore carta "si era avuta d'Amatruda d'Amalfi e da Forte di Vietri".

Lavorazione del corallo Torre del Greco, 1847

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La carta in questione, filigranata e morbida, era utilizzata per gli atti giudiziari e pubblici al posto delle pergamene; nel 1858 fu concessa ai suoi produttori anche una privativa per la sua proprietà di non lasciare scolorire l'inchiostro48. La produzione variava da queste carta pregiata detta "di bambace" contenente un terzo di cotone nelle fibre a quella "di strazzo" o "straccia" o "emporica" di cui si faceva largo consumo tra i commercianti (pescivendoli, fruttivendoli o salumieri) per avvolgere i loro prodotti negli antichi "cuoppi" (contenitori di forma conica ottenuti avvolgendo la carta su se stessa). Oltre alla cartiera del Lucibello sulla costiera amalfitana si contavano comunque più di 30 cartiere per circa 650 operai49. Bassa produttività e costi alti misero in crisi queste cartiere fino a farle scomparire quasi del tutto con la riduzione post-unitaria delle tariffe doganali. Ne restano spesso solo gli edifici o i ruderi tra la Valle dei Mulini, alle spalle di Amalfi, nella Valle del Dragone, sotto Ravello e presso Tramonti50. Esse furono praticamente sostituite dalle cartiere del Fibreno in Terra di Lavoro, di proprietà del conte Lefebvre, "le prime di queste province meridionali e forse d'Italia per qualità e quantità di prodotti che offrono al commercio interno ed esterno, per la vastità dell'intrapresa, per le grandi macchine che danno carte senza fine, bianche, nonché di colori, cartoni, carte di parati per ornamento sul gusto di Francia, che danno ogni anno 1.130.000 metri di carte differenti [...] e che alimentano circa 500 individui di diversa età e sesso"51. Quella del Fibreno era l’unica cartiera in Italia ad usare una nuova macchina detta “senza fine”. Situata tra due fiumi, il Liri e il Fibreno, essa utilizzava le acque e i boschi vicini costituendo un vero e proprio complesso industriale che si inseriva in maniera armoniosa nel contesto paesaggistico. “In tutta quella beata regione, le copiose opere di manifatture assicuravano un agiato vivere ad ogni persona che aveva braccia e voglia di lavorare: sulla pubblica via di continuo si osservavano operai di ogni specie, di ogni sesso ed età che si recano ove sono richiesti. La vita attiva ed industriosa lì era abituale in tutte le classi”. Lefebvre si era attrezzato per produrre da solo finanche il cloruro necessario alle sue produzioni e che fino ad allora veniva importato dall’estero52. Ad Atina la cartiera Visocchi occupava 110 operai; altre cartiere si trovavano presso il Liri e Isola di Sora (1326 operai complessivi nella Valle del Liri) e presso L'Aquila, Torre Annunziata, Sarno, Scafati, Vietri, Nusco, Atripalda e in Calabria. Numerose anche le "cartiere a mano", che lavoravano a livello artigianale stracci di cotone neri o colorati per produrre carte da imballaggio e cartoni53. Le cartiere del Fibreno dovettero comunque causare non pochi problemi a tutte le altre cartiere del Regno per la loro capacità produttiva anche se non mancavano i problemi soprattutto per il mercato degli stracci. Nel 1858, ad esempio, il proprietario si lamentava per il fatto che i raccoglitori di stracci esportavano senza dazio gli stracci a Genova, dove le "fabbriche straniere" producevano le carte per le arance siciliane creando danni notevoli alle "industrie napoletane" (affermazione in cui è interessante anche notare la relatività del concetto di "straniero" e di "napoletano")54.

Pressa per la carta, in uso ad Amalfi

Amalfi, 1827 - Cartiera Chiarito, incisione di J. Remond

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Le esportazioni arrivavano fino alla Grecia, alle isole Jonie e all'Inghilterra (soprattutto carta a grandi dimensioni per disegno)55. Strettamente collegate a quelle della carta erano le "industrie" dei libri, le tipografie: oltre 400 i titoli pubblicati annualmente (un vero primato nell’Italia del tempo), 2500 circa gli addetti (120 le stamperie attive solo a Napoli nel 1833); la qualità dei prodotti era buona per l'impaginazione, per le incisioni, la legatura e la carta utilizzata56. Famose la "Stamperia Reale", la "Reale Tipografia Militare", la tipografia del Tramater; il "Reale Officio Tipografico" produceva eccellenti carte geografiche e topografiche. Le litografie, soprattutto quelle del Cuccinelli e del Bianchi, erano all’avanguardia e i disegni del Viaggio pittorico delle Due Sicilie ne erano un’efficace dimostrazione. La diffusione delle gouaches che riproducevano i paesaggi del Regno o usi e costumi popolari indusse Ferdinando IV a creare una sorta di brevetto per la vendita diretta soprattutto agli stranieri. Nel 1848 si registrarono degli scioperi a Napoli proprio tra i numerosi addetti alle tipografie57. E' più che nota l'attuale crisi dell'editoria meridionale nonostante, evidentemente, le antiche tradizioni.

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NOTE

1. M. Serao, Leggende napoletane, Roma 1895, p. 94. Cfr. P. Gargiulo, L. Quintavalle, L'industria della pastificazione a Torre Annunziata e Gragnano, in Manifatture in Campania, Napoli 1983, p.158. È interessante, a questo proposito, la lettura del romanzo di M. Orsini Natale, Francesca e Nunziata, Milano 1995 (la storia di una famiglia di pastai borbonici dalla costiera amalfitana alla foce del Sarno tra il 1848 e il 1940).

2. Per il "pignato maritato" cfr. Bartolommeo Capasso, Masaniello, Napoli, 1919 (rist.1979), p.89. Cfr. anche P.Gargiulo, cit., pp.174-175. Sull'argomento v. anche E. Sereni, Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i Napoletani da "mangiafoglie" a "mangiamaccheroni", in Cronache meridionali, nn. 4,5,6, 1958. Quello citato è un poema in lingua napoletana composto dal poeta Filippo Sgruttendio identificabile con ogni probabilità con Giulio Cesare Cortese, autore di altre bellissime opere in lingua napoletana. Questo il testo intero del sonetto “Maccarune donate da Cecca”: “E me deze no piatto Ceccarella/de cierte saporite maccarune/semmenate de zuccaro e cannella/cosa da fa sperire le perzune./Penzatelo vuie tutte, cannarune/quanto fu bbona chella menestrella./Io me ne fece priesto doie voccune/e le mannaie deritto a le bodelle./Sautaie pe l’allegrezza comm’a grillo,/ca furono cchiù duce de la manna/e ghianche comm’ a latte de cardillo./Sa che me sanno buono e me ne manna!/Ma pozzo dire comme dice chillo:/Ammore m’ha pigliato pe la canna.” Cfr. per questa e altre notizie V. Gleijeses, Feste, farina e forca, Napoli 1972, pp. 226-234.

3. Cfr. C. Spadaccini, Novello e grande stabilimento di paste coll'uomo di bronzo per togliere l'uso abominevole di impastare coi piedi, costruito da Cesare Spadaccini nella sua proprietà, strada Campo di Marte, Napoli 1833. L'ing. Spadaccini era proprietario egli stesso di una fabbrica sita, appunto, a Napoli presso il Campo di Marte. Cfr. A. De Iorio, Indicazione del più rimarcabile in Napoli e contorni, Napoli 1835, p. 34: "Per rendere questo lavorio meno dispendioso, si è inventata una macchina in cui l'uomo di bronzo supplisce all'azione dell'uomo. Questo meccanismo di invenzione napoletana ha avuto il più facile successo come può osservarsi nel locale di rimpetto al Real Albergo de’ Poveri". Per i riferimenti relativi alla pasta presso la corte dei Borbone cfr. in particolare L. Mancusi Sorrentino, Maccheronea, Napoli 2000.

4. P. Gargiulo, cit., p.180. 5. S. de Majo, Manifattura e fabbrica, in Napoli, un destino industriale, a cura di A. Vitale, Napoli

1992, p.80. 6. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 246. 7. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 484, 29

maggio 1859. 8. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 484, 15

dicembre 1858. 9. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, 15 ottobre

1857. 10. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fasci 240, 484. 11. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 484, 24

maggio 1859: a Gragnano si contavano 81 macchine con torchio "di Archimede", "28 ad acqua pressa per molire i cereali"; cfr. anche A. Mangone, cit., p.75; M. Petrocchi, cit., p.22.

12. Per i dati relativi alle esportazioni cfr. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fasci 170,171,172,512, anni 1851-1858.

13. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 243, anno 1857.

14. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 243, anno 1855.

15. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 484, anno 1858.

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16. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 513, anno 1861. Per le notizie relative ai lambicchi v. Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, vol. I, gennaio, febbraio, marzo e aprile 1833, Delle arti e manifatture delle Due Sicilie, Napoli, 1833, p. 67. Il metodo di distillazione usato era quello di Adam ma erano numerosi i tentativi di migliorarlo (da citare quelli di Zecca, Brostaret e del cavaliere Pietro Pulli).

17. Le fabbriche più importanti sorgevano a Poggioreale, Castellammare, Salerno, Marigliano, Pomigliano, Pozzuoli.

18. Decreto del 18 agosto 1859. 19. Archivio di Stato, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 527, anni 1858,

1859, 1860. 20. F. Passananti, I caffè storici di Napoli, Napoli 1995, pp.16-17, 27; per l’acquavitaro v. la

famosa raccolta di F. De Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, Napoli 1853 e P. Gargano, I mestieri di Napoli, Napoli 1995, p.10; per altre notizie relative ai rosoli v. i testi di V. Corrado ed in particolare Il credenziere di Buon Gusto, VI ed., Napoli 1820; cfr. anche J. Carola Francesconi, La cucina napoletana, Roma 1992, pp. 677-678). Per le notizie relative ai rosolii e alle essenze cfr. G. M. Paci, Relazione della solenne pubblica esposizione di arti e manifatture del 1853, Napoli 1854, pp. 109-110 e Disamina eseguita…, cit., pp.248-249.

21. L'esportazione di frutta secca verso gli U.S.A. aumentò da 7069 casse a 10.078 casse; cfr. L. Radogna, cit., p.104 e A. Graziani, Il commercio estero del Regno delle Due Sicilie, in Archivio economico dell'unificazione italiana, vol.X, Torino 1960, p.27; J. Davis, cit., p.93.

22. Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, vol.I, gennaio, febbraio, marzo e aprile 1833, Delle arti e manifatture delle Due Sicilie, Napoli1833, pp. 65-67.

23. Per questo motivo il governo borbonico nel 1844 istituì il marchio d.o.c. di cui si è detto in precedenza.

24. Per le esportazioni cfr. Archivio di Stato, Ministero Finanze, fasci 14097, 14108, 14109, 14114; cfr. anche Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 516 e C. Afan de Rivera, Considerazioni sui Mezzi da restituire il Valore proprio a’ doni che ha la Natura largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie, Napoli 1833, vol.II, p.516.

25. M. Viterbo, Un fratello di Garibaldi commerciante in olii a Bari, in Archivio Storico Pugliese, anno XXII, fascicoli I-IV, gennaio-dicembre, 1970.

26. Cfr. Disamina eseguita..., cit., pp. 205, 246, 252 e Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Finanze, fascio 14151, 10 marzo 1859; fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 484.

27. Archivio di Stato di Napoli fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fasci 513, 217, 221, anni 1853 e 1861. Per i formaggi v. J. Carola Francesconi, La cucina napoletana, Roma 1992, pp.43-46.

28. Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Napoli MCMXX, pp.54-55; per i confetti v. Disamina eseguita…cit., p. 247.

29. Sulle ceramiche di Capodimonte cfr. S. Musella Guida, La Reale Fabbrica della Porcellana di Capodimonte: la sperimentazione, la struttura produttiva, la commercializzazione del prodotto, in Manifatture in Campania, Napoli 1983, pp.68 e sgg.; F. Strazzullo, Le Manifatture d'Arte di Carlo di Borbone, Napoli 1979; C. Minieri Riccio, Notizie intorno alle ricerche fatte dalla Real Fabbrica della porcellana in Napoli, in Atti dell'Accademia Pontaniana, Napoli, 10 febbraio 1878; F. Stazzi, L'arte della ceramica, Capodimonte, Milano 1972; G. Novi, La fabbricazione della porcellana in Napoli e dei prodotti ceramici affini, in Atti dell'Accademia Pontaniana, Napoli, 3 novembre 1879; A. Mottola Molfino, L'arte della porcellana in Italia, Busto Arsizio, 1978; L. Mosca, Napoli e l'arte ceramica dal XIII al XX secolo, Napoli 1908.

30. S. Musella Guida, cit., p.70. 31. C. Minieri Riccio, cit., pp.4-5. 32. Cfr. A. Scherillo, La storia del Real Museo Mineralogico di Napoli, in Atti dell'Accademia

Pontaniana, Napoli 1966. 33. C. Minieri Riccio, cit., pp.11 sgg.

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34. S.Musella Guida, cit.,pp.84 e sgg. Alla parrocchia di Santa Maria delle Grazie a Capodimonte nel 1758 risultavano appartenere ventotto nuclei familiari tutti legati alla produzione delle ceramiche e residenti nella fabbrica stessa, negli edifici della Regia Corte, nelle case del Giardino della Regina, nel Palazzo Reale e nei palazzi signorili ubicati fuori dal recinto della tenuta reale.

35. Ibid. 36. C. Minieri Riccio, Gli artefici e i miniatori della Real Fabbrica di Napoli, in Atti dell'Accademia

Pontaniana, Napoli 17 marzo 1878, p.14. 37. C. Minieri Riccio, Delle porcellane della Real Fabbrica di Napoli, delle vendite fattene e delle

loro tariffe, in Atti dell'Accademia Pontaniana, Napoli, 7 aprile 1878, pp.4 e sgg. 38. Una curiosità interessante: tra i nomi dei ceramisti del Settecento risultano le famiglie Tucci e

Mollica, attive anche in tempi recenti con le loro fabbriche nel napoletano (cfr. note 31 e 33). 39. Cfr. C. Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea (1750-1850), Perugia-

Venezia, pp.285-286; cfr. A. Mangone, cit., p.78. Per le notizie relative al Giustiniani e alle altre fabbriche di stoviglie cfr. Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, vol.I, gennaio, febbraio, marzo, aprile 1833, Delle arti e manifatture delle Due Sicilie, Napoli 1833, pp. 69-70.

40. Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, vol.I, gennaio, febbraio, marzo e aprile 1833, Delle arti e manifatture delle Due Sicilie, Napoli 1833, p.77.

41. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 239, 22 agosto 1851.

42. Ivi, fascio 170, anno 1856 e cfr. C. Barbagallo, cit.,p.284. 43. Ivi, fascio 513; cfr. Disamina eseguita...,cit.; cfr. A. Mangone, cit., p.66 e Annali Civili del

Regno delle Due Sicilie, vol.I, gennaio, febbraio, marzo e aprile 1833, Delle arti e manifatture delle Due Sicilie, Napoli 1833, pp. 70-71.

44. Ivi, fascio 246, 1 ottobre 1856. 45. S. de Majo, Manifattura e fabbrica, in Napoli, un destino industriale, a cura di A. Vitale, Napoli

1992, p.78. 46. Cfr. Rapporto di Santangelo, Ministro degli Interni, sulla marina mercantile, in "Annali Civili

del Regno delle Due Sicilie", fasc.XII, 1835, p.III; J. Davis. cit., p.139; M. Petrocchi, cit., p.70. Per la pesca e la lavorazione del corallo cfr. G. Tescione, Italiani alla pesca del corallo ed egemonie marittime nel Mediterraneo, Napoli 1940, pp.386 sgg. (con l'accurato regolamento della pesca istituito da Ferdinando II con decreto del 29 gennaio 1856); P. Balzano, Del corallo, della sua pesca e della sua industria, in "Annali Civili del Regno delle Due Sicilie", vol.XVI, 1838, pp.115-142; AA.VV., La pesca del corallo nelle acque nord-africane (1734-1860) nelle fonti dell'Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1985; R. Raimondo, Uomini e fatti dell'antica Torre del Greco, Ercolano, 1985, pp.443 sgg.; E. Torrese, La città del corallo. Torre del Greco dall'Unità alla seconda guerra mondiale, Milano 1988. Per i canti popolari torresi v. R. Raimondo, cit., pp.472-473.

47. Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, vol.I, gennaio, febbraio, marzo, aprile 1833, Napoli 1833, pp.72-74, 78.

48. E. Guida, Tipologia e morfologia edilizia della fabbrica tra paleoindustria e rivoluzione industriale, in Manifatture in Campania, Napoli 1983, p.46. Sulle cartiere amalfitane cfr. F. Assante, Le cartiere amalfitane: una riconversione industriale mancata, in Fatti e idee di storia economica nei secoli XII-XX, Studi dedicati a Franco Barlandi, Bologna, 1976; M. Camera, Istoria della città e costiera d'Amalfi, Napoli 1836; M. Del Treppo e A. Leone, Amalfi medievale, Napoli 1977; F. Assante, La ricchezza di Amalfi nel Settecento, Napoli 1966, p.759; C. Prisco, Memoria riguardante le arti, le manifatture e le industrie del Regno, e su dei mezzi da praticarsi pel loro miglioramento, e incoraggiamento, Napoli 1821.

49. E. Guida, cit., p.60. 50. Ivi, p.63. 51. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 513, 15

ottobre 1861.

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52. Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, Della fabbricazione della carta né Reali Domini di qua del Faro, gennaio-aprile 1833, pp.81-90.

53. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Finanze, fascio 14121, 9 dicembre 1854 e cfr. M. Petrocchi, cit., pp.64-65.

54. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Finanze, fascio 14121, anni 1858 e sgg. 55. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 513, 15

ottobre 1861. 56. T. Pedio, cit., p.89. 57. Ibid. e per gli scioperi Ivi, pp.101 sgg. Per le tipografie e le litografie v. Annali Civili del Regno

delle Due Sicilie, vol.I, gennaio, febbraio, marzo e aprile 1833, Delle arti e manifatture delle Due Sicilie, Napoli 1833, pp. 62, 71.

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Convegno

L’IDENTITA’ TRADITA

L’unificazione italiana contro la tradizione

Napoli, 30 maggio 2008

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Il testo della relazione dal prof. Gennaro De Crescenzo, Presidente dell’Associazione Culturale Movimento Neoborbonico, tenuta al Convegno L’identità tradita. L’unificazione italiana contro la tradizione, organizzato dall’Editoriale Il Giglio e dal Movimento Neoborbonico, e svolto a Napoli il 30 maggio 2008, data in cui si celebrava la festa onomastica di S. M. il re Ferdinando II.

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LA LEGGENDA NERA DELLE DUE SICILIE

di Gennaro De Crescenzo (presidente Ass. Cult. Movimento Neoborbonico, Napoli)

Oggi, nella festività di San Ferdinando, continuando una tradizione borbonica, dedichiamo questo Convegno alla memoria di S. A. R. Ferdinando di Borbone, Duca di Castro, scomparso qualche mese fa.

Consentitemi di fare una piccola premessa e di collegare questo Convegno a quello che sta

avvenendo qua fuori. Probabilmente stiamo vivendo uno dei momenti più cupi della storia di questa città dal 1860 ad oggi.

Nessuno che sappia, che voglia o che possa rappresentare questo popolo in maniera dignitosa: circondati e assediati da giornalisti a caccia di notizie più o meno colorate, intellettuali locali prima complici e poi silenziosi, politici colpevoli e con il coraggio di continuare a restare dove sono stati per quasi 20 anni, commissari più o meno straordinari che niente hanno risolto, opinionisti che ci spiegano come fare la differenziata («a Varese mia nonna già me la insegnava da piccolo…» e noi che, a proposito di identità, abbiamo inventato il teorema di Pitagora, secondo voi non sapremmo mettere la spazzatura in 4 secchi colorati?), territori devastati e specialisti della prima e dell’ultima ora che ci chiedono fiducia (dov’erano mentre migliaia di tonnellate di rifiuti nocivi del Nord riempivano anche legalmente quelle discariche?), aziende (del Nord) plurimiliardarie che non hanno fatto quello che dovevano fare e continuano a gestire tutto e alle quali nessuno chiede niente (sempre le stesse e di Torino, dell’inceneritore di Acerra, degli inceneritori della Germania e del futuro ponte sullo stretto). Tutti compatti contro le proteste, spesso eccessive, spesso strumentalizzate, ma probabilmente, di fronte a tutte queste colpe, giustificate: ma quale camorra?

È un popolo abbandonato e disperato che non crede più a niente e a nessuno. Meglio tornare alla nostra storia, allora. E rifare il percorso all’indietro, cercare di capire le

vere cause di una situazione come questa, aspettando di ritornare a camminare con le nostre gambe senza l’aiuto, vero o finto e non richiesto, di nessuno.

A proposito di identità cancellata e da ritrovare sono significative le parole usate da

Benedetto Croce, lo storico “ufficiale” che più ha condizionato e condiziona fino ad oggi la nostra cultura, per commemorare lo storico Bartolommeo Capasso. Sono parole importanti per capire perché abbiamo perso quella identità e pesano ancora di più se si tiene conto del fatto che il filosofo dovette addirittura limitare le sue critiche, considerato il momento in cui fu chiamato a scrivere (Capasso era morto da pochi giorni).

Per chi non lo ricordasse, Capasso è stato uno dei più grandi studiosi della nostra terra, autore di numerosissimi testi e saggi sulla Napoli del periodo Ducale (quel medioevo tanto criminalizzato dalla nostra storiografia), su Masaniello o sulla Napoli greco-romana. In molti ricordavano don Bartolommeo (amava la doppia “m” napoletana del suo nome, come ci ricordava Angelo Manna nella prefazione di un suo libro) chinato, già curvo e con i capelli bianchi, a raccogliere e a baciare di nascosto la terra vicino al monastero della Croce di Lucca la notte prima dell’abbattimento voluto dal cosiddetto “risanamento” (per una illogica scelta urbanistica si creava così lo spazio per il “vecchio policlinico”).

Amante appassionato e disinteressato della storia di Napoli, non fu mai coinvolto dalla cultura liberale dominante: non c’era posto per idee e teorie astratte e lontane nella sua mente impegnata a ritrovare, a leggere e a studiare le carte della nostra storia. Alcuni anni fa, facendo dei rilievi presso i resti dell’antico teatro romano a Napoli, ci accorgemmo della scientifica precisione dei dati raccolti, con i palmi, dal Capasso, autore che seppe unire sempre un estremo rigore alla capacità, per esempio, di descrivere la ricetta della “minestra maritata”.

Per tutto questo fu accusato di “regionalismo”, di “municipalismo” o di “localismo” proprio dal Croce e messo ai margini della nostra storiografia.

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Torniamo a quelle parole di Croce: «Noi che non per nostro merito viviamo nella vita della nuova Italia, anzi della vita internazionale per partecipare alla quale la nuova Italia è sorta, non possiamo più appassionarci, com’egli s’appassionava, per le imprese di mare e di terra del napoletani del Ducato… Noi non sentiamo più la continuità storica con quei napoletani fedeli a Roma di cui Annibale non osò assaltare le mura e che in aiuto di Roma inviarono schiere di abilissimi scagliatori di pietre; Masaniello non è più per noi l’eroe domestico; le vecchie strade e case di Napoli non ci parlano più il linguaggio eloquente che parlavano all’autore di Vicaria vecchia; il tempo in cui Napoli fu corona, quando regnava casa d’Aragona, è per noi un semplice episodio secondario del movimento del rinascimento in Italia… Noi studiamo la storia dell’arte e della letteratura a Napoli, pronti a riconoscere che l’una e l’altra cosa furono di solito poca e, spesso, brutta cosa: la Napoli che ancora ci scuote e ci esalta è quella dei suoi perseguitati o solitari filosofi e dei cosmopolitici idealisti della rivoluzione del 1799, il cui sangue scorre ancora nelle vene della società moderna. Non è questo un mutamento totale di punto di vista? Non è un sentimento nuovo affatto diverso dal suo?»1.

Significativo un altro episodio raccontato sempre dal filosofo: di fronte ad un provvedimento del Comune di Firenze da lui citato, il Capasso lo interruppe subito esclamando: «noi abbiamo le nostre tradizioni, gli altri fanno bene a seguir le loro e noi guardiamo alle nostre! Sentii in quell’uomo come una ribellione di dignità offesa per conto della sua città»2.

Si creò in quegli anni, del resto (e il caso del Capasso è emblematico), un distacco netto tra fase pre e post-unitaria nell’ambito della produzione storiografica sul Mezzogiorno.

Fu cancellata, mistificata o ridimensionata nell’ambito regionalistico-localistico e spesso folcloristico la grande e gloriosa storia della nostra città, alla pari di tante altre storie di piccole città italiane e con esse tutta un’identità. E lo stesso fenomeno, sempre seguendo le direttive del Croce, si verificò nell’ambito della letteratura e del suo immenso patrimonio linguistico e di quello artistico3.

Le tesi crociane, che saranno seguite supinamente senza cambiarle di una virgola per oltre un secolo da intellettuali e storici ufficiali, rappresentano il vero nemico da sconfiggere anche nei prossimi anni. Da smantellare con i nostri studi sempre fieri di essere “localistici”, recuperando storici “pronti a ribellarsi per la dignità offesa della loro città” come i Capasso o i Buttà o i de’ Sivo, cancellando la famosa “leggenda nera” costruita intorno al nostro Regno e ai Borbone, la dinastia che meglio lo rappresentò (e per questo subì un destino ancora più “nero”), costruendo ex novo un’altra storiografia, a partire proprio dall’epoca borbonica, passando per quella medioevale fino a quella delle nostre origini. Una storia e una cultura finalmente e profondamente radicate che non possono prescindere da uomini, fatti ed eroi finora ignorati o sconosciuti perché Croce ed i suoi fedeli seguaci così decisero cento anni fa.

Da oltre 15 anni siamo impegnati a rintracciare questo filo rosso, consistente e lungo, un

vero e proprio “cordone” materno, potremmo dire, dell’identità napoletana e spesso l’abbiamo ritrovato tra le scelte fatte da Carlo o Ferdinando di Borbone, tra le imprese compiute dai napoletani del 1799, i calabresi del 1806 o i lucani del 1860. E quel filo rosso c’era, era chiaro e netto e, continuando il nostro viaggio nel tempo, era lo stesso che teneva uniti i popoli dal Tronto a Trapani, da quel 1860 ai primi insediamenti greci, passando per Normanni e Svevi, Angioini e Spagnoli. Nessuno di questi popoli, però, da quando il Sud era diventato regno, quasi mille anni fa, si era mai permesso di toccare, di offendere o di cancellare la nostra identità, la nostra lingua: addirittura fin da quando, da città greca, dal 90 a.C., da alleati diventammo un vero e proprio Municipio romano anche se ottenemmo, con un “patto napoletano” (Foedus Neapolitanum) la possibilità di continuare ad usare la lingua greca e di seguire le nostre tradizioni, privilegio davvero raro a quei tempi e che dimostra della forza di un’identità notevole già a quei tempi: non è una leggenda, del resto, che lo stesso imperatore Nerone amasse fare le prove dei suoi spettacoli nel teatro di Neapolis (dalle parti dell’Anticaglia), fidandosi solo del gusto e della sensibilità artistica e culturale dei seguaci di Partenope.

E meno che mai un normanno o un angioino, con una sostanziale e intelligente continuità, osarono mai attaccare quella stessa identità quando coincideva con i valori cristiani così profondamente radicati nel DNA dei napoletani: di qui l’assenza di reazioni di fronte ai “nuovi re” del momento. Di qui la reazione violenta di fronte a quegli invasori che, per la prima volta con i franco-giacobini nel 1799 e in seguito con garibaldini e piemontesi, colpivano la nostra gente nei suoi simboli religiosi e negli affetti più sacri.

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Non è un caso, allora, se i popoli più radicati e fieri del proprio passato (anche quando non ce l’hanno o quando non sarebbe poi così glorioso: due esempi per tutti a questo proposito nella cosiddetta Padania, frutto di fantasie più che di storie o negli stessi Stati Uniti) sono i popoli ad avere più successo anche oggi sotto il profilo, per esempio, economico. Vale per l’Irlanda degli ultimi anni, ad esempio, o per la Spagna dove prevale, sempre e comunque, un senso di appartenenza a noi sconosciuto che vi fa perdere gli aerei magari se non conoscete il catalano a Barcellona, non vi fa prendere i soldi nei bancomat se non conoscete il castigliano a Madrid, ma che ha fatto diventare quelle due città degli esempi finora impossibili da imitare dalle nostre parti (nonostante qualche recente, retorico e goffo tentativo).

Solo che a Valencia si restaura e si guarda con una sorta di sacralità una porta. Di passaggio in vacanza a Valencia, diverse guide illustravano, tra i monumenti della

splendida città spagnola, una delle Torres de Quart famosa per le tracce dei colpi di cannone sparati dall’esercito napoleonico durante l’invasione di due secoli fa e ancora visibili anche durante l’attuale fase di restauro.

E qui da noi siamo ancora a combattere per raccontare la verità storica a chi continua a celebrare quell’invasione come esempio di “libertà o fratellanza”, a chi continua a disprezzare il nostro popolo che “osò opporsi alle civili riforme napoleoniche” (sono le parole utilizzate in un recente Convegno a Lauria da un “intellettuale” locale). Solo disprezzo per i Napoletani massacrati nel 1799 o nel 1806 o dopo l’unificazione italiana; “lazzari” e “briganti” da allora ad oggi, magari tra le pagine del cronista d’assalto di turno che ha la presunzione di raccontare finalmente la verità sui terroni.

E quel filo rosso è stato colpevolmente spezzato o cancellato, ad esempio, dai nostri libri di

storia, i famigerati libri di scuola, nei quali, oltre a non trovare riferimenti alla storia dell’epoca borbonica o alle verità sul ’99 o sul 1860, non troverete (è un’analisi che faccio ogni anno a spese delle case editrici che mi inviano libri per farli adottare) riferimenti alla Magna Grecia o alla grandezza di Federico II o alla sapienza degli architetti angioini e aragonesi (paghiamo ancora, secondo gli storici ufficiali, l’assenza dell’esperienza dei Comuni, noi che già vivevamo in uno dei regni più grandi e potenti del mondo) o all’amore che molti vicerè spagnoli (altra “leggenda nera”) provavano per Napoli (da Pedro di Toledo con la sua rivoluzione urbanistica a quel Marchese del Carpio che volle farsi seppellire sotto l’uscio della chiesa del Carmine con il volto rivolto con umiltà verso i piedi di quei napoletani che aveva tanto amato e rispettato nella sua vita). Troverete, in quei libri (in gran parte dei casi scritti a Nord di Napoli), la storia dettagliata del Duomo di Mantova o di Lucca e non quella del Duomo di Napoli; troverete la storia delle province più sperdute della Francia ma non quella dei quartieri della città dei nostri ragazzi: e perché mai uno di questi ragazzi dovrebbe interessarsi o innamorarsi di quelle storie spesso senza avere la possibilità di vederle mai “da vicino” e senza toccarle o “calpestarle” tutti i giorni?

Lo stesso filo rosso (sarebbe più bello dirlo “azzurro” per ovvi motivi) dell’identità

napoletana lo avremmo potuto e dovuto ritrovare tra i mille esempi della storia di una lingua che da quando è nata ha avuto dignità letteraria di lingua e mai di dialetto: dai primi scherzosi e sconosciuti esempi delle lettere caricaturali di Boccaccio a Napoli alle opere del Sannazaro o a quelle seicentesche del Basile (l’autore del Cunto de li cunti, una delle opere più tradotte e imitate del mondo): al nostro Palazzo Reale pensava il giuglianese mentre scriveva di quella scarpetta di Cenerentola diventata famosa per le traduzioni più recenti. Ma la nostra cultura, lo sappiamo, ha dato più spazio alle Mirandoline venete che alle Zezolle napoletane…

E “identità” e radici potevano essere, potranno essere, le musiche che da noi hanno da sempre composto i Paisiello o gli Scarlatti o i quadri di un Giordano o di un Vaccaro o di un Salvator Rosa.

In questa smania di distruzione ci lasciarono solo in parte la storia di quelle canzoni che hanno fatto poi il giro del mondo ma forse solo perché la loro epoca d’oro (quella digiacomiana) coincise con la fine di Napoli capitale ed esse potevano essere una sorta di “risarcimento” sociale e culturale di fronte alle altre distruzioni e agli altri saccheggi. Nota a margine: abbiamo in città un museo “del ghiaccio”, fra qualche mese un museo “del corpo umano” ma non uno per la canzone napoletana.

Per chi ama la nostra cultura, del resto, non è faticoso (e sarebbe ancora utile) tornando

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alla lingua, ripercorrere le sue origini dalle derivazioni greche (“renzecata” o “crisommola”, per fare qualche esempio semplice), a quelle latine o francesi o spagnole con una stratificazione che ha accompagnato tutte le nostre espressioni: Napoli è una città fatta a strati. Più sotto andiamo (magari facendo degli scavi archeologici) e più troviamo cose antiche. Sulle case e sulle botteghe greche furono costruite altre case e altre botteghe nell’epoca romana; su quelle romane quelle medioevali e su quelle medioevali quelle del Cinquecento o del Seicento e così fino ai nostri giorni. Napoli, allora, è una città “stratificata”: la storia, l’arte, l’architettura, la musica, il nostro modo di pregare e di mangiare, di bere e di gesticolare, di parlare e di vivere: il passato si lega al presente e il presente al futuro. Siamo un popolo antico ma non vecchio, che accumula e stratifica per continuare a “vivere sopra” a ciò che è già stato, pietra di tufo o parola greca.

Per questo siamo l’unica città al mondo ad avere un centro storico vivo dove, cioè, a differenza di altri centri storici come quello di Roma o Atene, ad esempio, si vive esattamente nei luoghi dove vivevamo prima, casa su casa, trattoria su trattoria, chiesa su tempio, senza interruzioni, come se il tempo non fosse trascorso, come in quei presepi dove il tempo si ferma e che solo noi sappiamo riconoscere e amare a Natale, costruendo le nostre cucine sui sedili del teatro romano a via San Paolo, affacciandoci da un balcone piantato in una torre spagnola a Porta Nolana o giocando a pallone sul sagrato della chiesa della Pietrasanta ai Tribunali.

La leggenda nera, però avvolse e travolse tutto e tutti senza lasciarci vie di fuga, con

governi e politiche sempre più lontani da Napoli, sempre più “contro” Napoli. Del resto, per oltre sette secoli, i re di Napoli avevano governato certamente facendo i

propri interessi e quelli della loro dinastia ma, fino al 1860, i propri interessi e quelli dinastici coincidevano quasi sempre con gli interessi dei popoli governati: la frattura tra governanti e governati, la disarmonia tra la politica e la gente fu il frutto di una conquista che voleva solo sfruttare, colonizzare e cancellare una nazione, l’unica vera nazione presente sulla penisola fino a qual momento.

Tra il 1830 e il 1834, Ferdinando II fece coniare una intera collezione di medaglie dedicate

agli “uomini illustri del Sud”: da Archimede a Flavio Gioia, da Cicerone a San Tommaso, da Bernini a Ovidio o dal matematico Francesco Maurolico a Genovesi, da Trotula de Ruggiero (medico donna della Scuola Salernitana) al pittore seicentesco Pietro Novelli. Un’ulteriore e poco conosciuto esempio di come i Borbone si sentissero “orgogliosi di essere napoletani” e di come si impegnassero nella divulgazione e nella difesa di questo sentimento.

Lo stesso sentimento non era mai assente nei provvedimenti governativi, nei dispacci dei funzionari pubblici, nei giornali del tempo: centinaia le citazioni poetiche e anche retoriche sulla bontà dell’olio pugliese o sulle stoffe fatte nel salernitano o sui cammei lavorati a Torre o sulle “paste alimentari” della costiera.

Al contrario, nello stesso giorno in cui arriva Garibaldi a Napoli, inizia, insieme allo smantellamento sistematico di tutti i gigli dai monumenti o dei nomi delle strade, quel processo di disidentificazione e di sradicamento che fu, anche più dei saccheggi e dei massacri, la conseguenza più dannosa e anche più attuale di quella unificazione.

Inizia in quei giorni quel processo di sradicamento prima politico e poi sociale, economico e

culturale più o meno consapevole, ancora in corso e gravido di conseguenze per una questione meridionale nata allora e mai risolta.

Da un lato l’accusa di essere “borbonici” o “reazionari”, come si è visto, con un regime poliziesco che non trovava precedenti nella storia del Regno, assicurava la galera, il licenziamento o, nel migliore dei casi, il congelamento di una carriera; dall’altro l’adesione più o meno entusiastica al nuovo regime assicurava se non altro la sopravvivenza.

Uno dei primi decreti firmati da Garibaldi, a dimostrazione di una pianificazione scientifica della ricerca dei “traditori” e del conseguente consenso, provvede a “indennizzare i municipii per i danni cagionati dalle truppe borboniche” e a “soccorrere le famiglie dei combattenti per la patria” (18 maggio 1860, a poche ore dallo sbarco siciliano).

Furono centinaia, allora, i discorsi che qualcuno giustamente definì “della pagnotta” per ingraziarsi il vincitore garibaldino: il presidente della Suprema corte di Giustizia, Niutta, ad esempio, “ringrazia Dio per avere scelto Garibaldi per attuare la gloriosa e sublime idea dell’Unità”; il presidente del Tribunale Civile cita Giambattista Vico, invece, definendo Garibaldi

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“divino, eroico, umano”. Furono vere e proprie lacerazioni sociali e culturali con un’eredità che arriva (non fatemi fare esempi!) fino ai politici di oggi, sistematicamente, stupidamente o colpevolmente subalterni al sistema politico di turno.

C’è, allora, tutta un’identità da ritrovare e da ricostruire con i mille esempi di un percorso

che, fino al 1860, era stato lineare, coerente, efficace e funzionale alla crescita e allo sviluppo di un popolo intero.

Nei prossimi anni, non c’è dubbio, lo scontro vero sarà tra intellettuali e politici radicati e

tra intellettuali e politici sradicati: poco importa se siano di destra, di sinistra o di centro. Poco importa se chi ci governa, ci ha governato e ci governerà sia nato dalle nostre parti:

quanto hanno inciso positivamente sul nostro territorio quei politici nati dalle parti di Napoli o di Afragola o di Lecce o di Palermo?

Che rapporti, che legami avevano con i territori dai quali provenivano, cosa conoscevano e che cosa hanno fatto per quei territori e per la loro gente? Se non si conosce la propria terra e la propria gente non si amano la stessa terra e la stessa gente e non si potrà mai rappresentarle e difenderle culturalmente, politicamente o economicamente.

Classi dirigenti radicate, fiere e consapevoli della propria identità non avrebbero mai ridotto la capitale del Regno delle Due Sicilie come la vediamo oggi uscendo da questa sala. Lavoriamo, allora, per formare classi dirigenti veramente degne di rappresentarci e continueremo a credere nella possibilità che anche una serata come questa, una ricerca in più o un libro in più possano essere utili e preziosi per questo scopo e per liberarci di una spazzatura che da troppo tempo non è solo materiale.

Gennaro De Crescenzo Presidente Movimento Neoborbonico

Note (1) B. Croce, Il Capasso e la Storia regionale, Napoli, 1900, p. 43 (2) B. Croce, Napoli Nobilisima, Napoli, 1900, pp. 46, 47 (3) Cfr. Angelo Russi, Bartolommeo Capasso e la storia del Mezzogiorno d’Italia, San Severo, 1993

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Questione meridionale 1

Questione meridionale

« Sappiamo bene che c'era già una "Questione meridionale": ma sarebbe rimasta come una vaga "leggenda nera" dello Statoitaliano, senza l'apporto degli scrittori meridionali. »(Leonardo Sciascia)

La definizione questione meridionale venne usata per la prima volta nel 1873 da un deputato al parlamento italiano,intendendo la disastrosa situazione economica che si era venuta a creare nel Mezzogiorno d'Italia a seguitodell'unificazione italiana.

Storia

Situazione prima dell'Unità

Mappa del XIX secolo del Regno delle Due Sicilie

L'economia dell'Italia preunitaria era, ingenere, svantaggiata rispetto quella deglialtri Stati dell'Europa occidentale. A metàOttocento, tuttavia, in alcune regioni delPaese si stava avviando un certo sviluppoindustriale, sebbene con modalità alquantodisomogenee. In Lombardia, la produzionedella seta innescò una crescita del settorelegato alla meccanizzazione dei processiproduttivi. In Piemonte lo sviluppoindustriale fu favorito dall'apertura deimercati e dall'investimento pubblico sottoforma soprattutto di infrastrutture (ferrovie,porti, canali e strade), grazie allalungimiranza del governo Cavour. Il Sud siavviava pure all'industrializzazione, chedivenne presto notevole in diverse aree delcasertano e della provincia di Napoli,mentre sorgevano alcuni impianti siderurgici in Calabria, a Mongiana e Ferdinandea. Lo Stato dei Borbone costruì lostabilimento metallurgico di Pietrarsa, nel napoletano, enorme insediamento industriale polifunzionale. Perproteggere queste industrie, soprattutto quelle del settore tessile, il governo borbonico adottò una politicaprotezionistica, alzando una barriera daziaria contro le importazioni di merci estere. Queste aziende però eranospesso frutto di investimenti pubblici. Anche per ciò che riguarda il sistema infrastrutturale i due tronconi d'Italiaimboccarono strade diverse. Se il Regno di Sardegna fece notevoli investimenti nel settore ferroviario, dotandosi diun sistema di comunicazione interno e con i paesi confinanti, il Regno delle Due Sicilie, dove pure fu realizzata laprima ferrovia d'Europa, preferì favorire il trasporto via mare. In campo marittimo, infatti, le regioni meridionalidisponevano già di uno sviluppo costiero notevole e sicuramente superiore a quello degli altri Stati pre-unitari e diuna favorevole posizione al centro del Mediterraneo. La flotta mercantile borbonica era la terza in Europa pernumero di navi e per tonnellaggio complessivo [1] Peraltro, fu a Napoli che venne costruita la prima nave a vaporenel Mediterraneo (1818)[2] nonché la prima nave italiana con propulsione ad elica, il Giglio delle Onde.

Dal punto di vista delle finanze pubbliche, il bilancio del Regno delle Due Sicilie non si indebitò mai al livello in cui si trovava il Regno di Sardegna. La pressione fiscale era la più bassa d'Europa, a causa della polarizzazione

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fortissima delle ricchezze. I conti pubblici piemontesi invece erano stati gravemente inficiati dalla politicaespansionistica adottata da Cavour e dagli investimenti nello sviluppo di infrastrutture primarie (ferrovie, strade,canali d'irrigazione), resi necessari dalla volontà del Regno di Sardegna di modernizzare la propria economia perinserirla nei circuiti commerciali continentali. Con la nascita dell'Italia unita l'attivo di bilancio del Regno delle DueSicilie fu incamerato nelle casse del neonato Stato italiano. Finiscono così al Nord 443 milioni di lire d'oro, quandotutte le banche degli altri Stati preunitari detenevano un patrimonio totale di 148 milioni[3] . L'Italia unita ebbe poi un primo vero impulso verso l'industrializzazione nell'ultimo scorcio del secolo, con ilgoverno Giolitti, quando furono privilegiate le aree del Nord del Paese.

Il nuovo Regno

Ritratto di Marco Minghetti

Concluso il Risorgimento, le classi dirigenti settentrionali siaccorsero quasi subito di quanto il Paese appena riunito fosse inrealtà diviso al suo interno. Gli italiani erano diversi pure nelmodo di parlare: l'italiano era una lingua letteraria, usata solo dauna ristretta minoranza della popolazione e, comunque, in ambitimolto limitati (atti pubblici, insegnamento, giornalismo e simili).

Di fronte a queste differenze, all'ostilità manifestata da importantiforze interne quali i cattolici e alle difficoltà nei rapporti con ipaesi confinanti - con l'Austria soprattutto, ma anche con laFrancia - il nuovo Stato reagì adottando un modelloamministrativo di tipo dirigista e autoritario, in cui le autonomielocali venivano sottoposte al rigido controllo del governo centrale.

Il programma del ministero Cavour per la verità era impostato inmaniera diversa. Nel marzo 1861 il ministro dell'Interno, MarcoMinghetti infatti presentò un progetto di legge che prevedeva unnotevole decentramento amministrativo. Di fatto però il progettoMinghetti non superò l'esame delle commissioni parlamentari evenne ritirato "temporaneamente" dal Consiglio dei ministri il 9maggio successivo. In realtà, le istanze dei Federalisti - chevolevano un maggiore rispetto per le specificità locali - vennero completamente abbandonate e l'applicazione delleleggi del Regno di Sardegna venne estesa al resto d'Italia provocando il collasso del sistema economico meridionalee una crisi senza precedenti nel secolo che sfocerà nel corso forzoso della lira (1866). Il 6 giugno morì Cavour. Aottobre il nuovo presidente del consiglio Bettino Ricasoli infatti estese a tutta Italia l'ordinamento locale piemontese,stabilito con il decreto legge Rattazzi del 1859. La legge Cavour del 1853 sull'amministrazione del Regno diSardegna (Legge 23 marzo 1853 n. 1483) viene applicata al neonato Regno d'Italia, cancellando le organizzazioniamministrative, anche gloriose, degli Stati preunitari e si realizza un modello organizzativo della pubblicaamministrazione di progressiva "piemontesizzazione" del Paese. Vittorio Bachelet parlerà di "un certo atteggiamentocolonizzatore assunto dall'amministrazione unitaria in alcune regioni"[4] . Invero, lo stesso espansionismopiemontese era mirato in un primo tempo ad uno Stato comprendente le regioni dell'Italia settentrionale e non ad unoStato Nazionale delle proporzioni della nuova Italia. L'annessione del Regno delle Due Sicilie era stato un fattocasuale e dovuto ad una serie di contingenze. E d'altronde il Piemonte non aveva un ordinamentogiuridico-economico adeguato alla gestione di un paese di 27 milioni di abitanti con grandissime differenze culturalie strutturali al suo interno.

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Questione meridionale 3

Il Brigantaggio

Alcuni briganti lucani: Caruso, Cafo, Lamacchia e Tinna

I plebisciti per l'annessione si svolsero nel Sud conmodalità vergognose: voto palese, seggi presidiatidall'esercito piemontese e dalla camorra, percentualifalsificate e forzature al voto, tanto da far dichiarareall'ambasciatore inglese "I risultati delle votazioni inNapoli e in Sicilia rappresentano appena i diciannovetra i cento votanti designati; e ciò ad onta di tutti gliartifizi e violenze usate" (Dispacci del Ministrod'Inghilterra a Napoli, Eliot, in data 16 ottobre e 10novembre 1860).

Vennero comunque disattese le aspettative sia deidemocratici sia dei repubblicani che pure avevanofavorito l'unità, ma che auspicavano un nuovoordinamento agrario e adeguati spazi politici nellagestione del paese, il controllo dell'ordine pubblicodivenne sempre più problematico.Molti braccianti meridionali avevano sperato che ilnuovo regime assicurasse una qualche riforma agraria.Non solo le loro aspettative andarono deluse, ma ilnuovo governo introdusse la leva obbligatoria edinasprì le imposte, portando alla rovina milioni di persone, ai meridionali infatti furono fatti pagare ,attraverso uncarico fiscale più alto rispetto al resto dell'Italia, i debiti accumulati dall'ex Regno di Sardegna ed anche le spesedella ricostruzione della guerra, una guerra iniziata non per loro volere [5] . Lo scioglimento dell'esercito borbonico edi quello garibaldino mise poi in circolazione migliaia di soldati sbandati. Il malcontento, le difficili condizionieconomiche sopravvenute, il durissimo atteggiamento delle truppe di occupazione piemontesi, suscitarono le iredella popolazione che sfociarono nella rivolta armata.

Molti scontri si erano già verificati in varie parti del meridione fin dalla fine del 1860, particolarmente aspri intornoalla cittadella borbonica di Civitella del Tronto. In aprile scoppiò una rivolta popolare in Basilicata. Nel corsodell'estate, in molte regioni dell'interno bande di ribelli, formate in gran parte da contadini, ex soldati borbonici, exgaribaldini delusi e persino da preti, diedero vita a forme di guerriglia violentissima, impegnando le forze piemontesie battendole ripetutamente. In molti centri del sud fu rialzata la bandiera borbonica. Il Governo rispose in manieraspietata, ordinando esecuzioni sommarie anche di civili e l'incendio di interi paesi. Il luogotenente di Napoli,Gustavo Ponza di San Martino, che aveva tentato nei mesi precedenti una pacificazione, venne sostituito dal generaleEnrico Cialdini, che ricevette dal governo centrale pieni poteri per fronteggiare la situazione e reprimere la rivolta.Nel 1860-61 le truppe presenti nel sud ammontavano a 22 000 unità, l'inasprirsi della guerra richiese l'invio dirinforzi. I soldati raggiunsero quota 55.000 a fine 1861, diventarono 105 000 nel 1862 ed arrivarono a 120 000 neglianni successivi.Fu una vera e propria guerra civile, combattuta con ferocia da entrambe le parti e di cui fece le maggiori spese comesempre la popolazione civile: una triste situazione che si ripeté continuamente per tutta la durata della guerra civileera il saccheggio di un paese da parte delle bande di ribelli, seguito dall'intervento dell'esercito alla ricerca dicollaborazionisti, che comportava sistematicamente un secondo saccheggio, la distruzione degli edifici che venivanodati alle fiamme, esecuzioni sommarie e spesso la dispersione dei sopravvissuti.

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Questione meridionale 4

Genesi della mafiaNella seconda metà dell'Ottocento, emersero federazioni di famiglie organizzate su base regionale, che sarebbero poidiventate: Cosa Nostra in Sicilia, la Camorra in Campania, e la 'Ndrangheta in Calabria, e più tardi il gruppo deiBasilischi in Basilicata. Fu soprattutto per i clan di malavitosi formati da italiani espatriati negli Stati Uniti, che siutilizzò, anche nei film di Hollywood, il termine "mafia" come sinonimo di "crimine organizzato".

Inizio dell'emigrazione meridionaleL'emigrazione meridionale ha inizio solo dopo l'unità d'Italia, laddove nella prima metà del XIX secolo aveva giàriguardato diverse zone del Nord, in particolare del Piemonte, del Comacchio e del Veneto. Le ragioni storiche dellaprima emigrazione meridionale della seconda metà del XIX secolo sono da ritrovare per letteratura diffusa sia per lacrisi delle campagne e del grano, sia per la situazione di impoverimento economico che colpisce il Sud all'indomanidell'unità, quando gli investimenti industriali si concentrano nel Nord[6] , nonché per altri fattori[7] .L'emigrazione meridionale è fenomeno che segue diverse ondate storiche di partenze e differenti mete geografichenei diversi periodi. È fenomeno che non si arresta nelle statistiche nemmeno nell'attualità quando l'emigrazione sicaratterizza per un notevole flusso di spostamento geografico di laureati e professionisti meridionali, qualificandosicome emigrazione intellettuale, al di là dei normali flussi di mobilità della forza lavoro, che impoverisceulteriormente il substrato sociale e culturale delle regioni meridionali[8] .

La pubblica istruzione

Giovanni Giolitti

Le varie leggi che cercarono di istituire una, seppur minima,istruzione gratuita ed obbligatoria, trovarono un'applicazionedifficile soprattutto al sud. L'onere di mantenere le scuoleelementari, infatti, incombeva ai comuni, con la conseguenza chemolte amministrazioni meridionali non riuscivano ad affrontare lespese necessarie. Bisognerà aspettare l'epoca del fascismo perassicurare un'istruzione di base, quella del secondo dopoguerra perun'istruzione di massa, e la televisione per assistere all'utilizzodell'italiano in sostituzione dei vari dialetti.

Solamente a partire dall'epoca giolittiana il governo centrale feceprova di un primo e tentennante interessamento verso il meridione.Benché non abbia ridotto la povertà o l'emigrazione, nei primi annidel novecento si dotò il sud di amministrazioni pubbliche analoghea quelle del nord, cosa che portò all'assunzione di un certo numerodi impiegati statali. La cosa si accompagnò alla corruzione e alnepotismo che ancora oggi contraddistinguono l'Italia, ma si trattòpur sempre di una costante, benché modesta, somma di denaro chela fiscalità nazionale rimetteva in circolo al sud. Fu sempre meritodel governo centrale se nel 1911, quando lo Stato prese in carico l'istruzione elementare, fino ad allora prerogativadei comuni,il Mezzogiorno vide le prime, seppur rare, scuole elementari, e l'analfabetismo incominciò a diminuireanziché aumentare come avvenuto dall'Unità fino ad allora.

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Questione meridionale 5

La Prima guerra mondialeLa Prima guerra mondiale vide l'Italia combattere contro l'Austria-Ungheria. Sebbene il conflitto avesse prosciugatole risorse di tutto il paese, il meridione ne risentì maggiormente il peso. Il relativo sviluppo del nord, fondatosull'industria, venne favorito dalle commesse belliche, mentre al sud, che l'Unità ebbe condannato ad un'esclusivavocazione agricola, per via dell'abbandono dei grandi piani industriali iniziati durante l'amministrazione borbonica, ilrichiamo alle armi dei giovani lasciò nell'incuria i campi, privando le loro famiglie di ogni sostentamento. A guerrafinita, poi, fu la borghesia imprenditoriale del nord a profittare dell'allargamento dei mercati e delle riparazioni diguerra.

Il fascismoIl fascismo ebbe un ruolo molto importante nelle vicende del Mezzogiorno. Lo stato fascista, ansioso di allargare ilproprio consenso e interessato ad una crescita economica che sostenesse la sua politica espansionista, preseseriamente in carico il problema dello sviluppo del meridione.Attraverso vari organismi quali l'I.R.I. (Istituto per la Ricostruzione Industriale) e l'I.M.I. (Istituto MobiliareItaliano), il governo promosse numerose opere pubbliche che dotarono di infrastrutture le aree più depresse delpaese, diedero lavoro a numerose persone, e favorirono commerci ed investimenti. Vennero migliorati i porti (comea Napoli e Taranto), costruite strade e ferrovie (tra cui il tratto marittimo adriatico, iniziato sotto i Borboni edabbandonato per quasi un secolo), furono bonificate paludi e acquitrini, creati canali e acquedotti (come quello delTavoliere Pugliese), razionalizzate e meccanizzate certe colture (come quelle dell'uva e delle olive in Sicilia). Dopola crisi di Wall Street, quando tutti gli stati occidentali incominciarono ad intervenire pesantemente nell'economia, ilfascismo aumentò ulteriormente il suo impegno economico nel meridione: venne finanziata la creazione di industrie,lo stesso stato ne fondò diverse (soprattutto belliche), vennero acquistati macchinari agricoli per meccanizzarel'agricoltura, l'impiego pubblico raddoppiò i propri salariati. La politica agraria voluta da Mussolini danneggiòprofondamente il mezzogiorno, infatti la produzione si concentrò principalmente sul grano (battaglia del grano) ascapito di colture più specializzate e redditizie che venivano coltivate nel mezzogiorno.La politica bellica e coloniale ai danni di Africa, Albania e Spagna portarono alla conquista di nuovi mercati masoprattutto di nuove terre, cosa che permise di indirizzare verso rotte migratorie utili alle finanze del regno l'enormemassa di emigranti che ogni anno lasciava l'Italia, la crescita dell'esercito fornì un'occupazione a molti giovani, e lerimesse di coloni e soldati diedero un mezzo di sussistenza alle rispettive famiglie.Il fascismo, quale Stato totalitario, fece ricorso a strumenti anche al di fuori dello Stato di diritto (tortura, leggispeciali) per combattere ogni forma di malavita organizzata nel Sud. Celebre fu la nomina di Cesare Mori, che vennepoi chiamato "Prefetto di ferro" per i suoi duri metodi, quale prefetto di Palermo con poteri straordinari su tuttal'isola. Tuttavia la mafia, fortemente colpita, non fu del tutto sradicata; e si alleò agli anglo-americani durante laSeconda guerra mondiale.

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Seconda guerra mondiale

1943: gruppo di uomini e donne fotografati in unpaese del sud Italia

La Seconda guerra mondiale, esattamente come la Prima, sfavorì più ilsud che il nord. Ma questa volta le disparità che ne risultarono, più cheeconomiche, furono di carattere politico. Nel 1943 gli alleati stavanopreparando lo sbarco in Sicilia per invadere l'Italia, e, tramite i clanoperanti negli Stati Uniti, trovarono un'alleata nella mafia, che si offrìdi fornire informazioni strategiche e legittimazione morale agliinvasori in cambio del controllo civile del sud Italia. Il comando alleatoaccettò, e così le zone via via conquistate da questi passarono sotto ilcontrollo dei vari clan mafiosi, che approfittarono della fase perconsolidare, anche militarmente, il loro potere. Al crollo dell'apparatorepressivo statale conseguì il ritorno del problema del banditismo,soprattutto in Sicilia, dove certi suoi esponenti si collegarono ai movimenti politici indipendentisti, che chiedevanol'indipendenza dell'isola o l'annessione come 49º stato agli Stati Uniti.

Il governo provvisorio decise di non reprimere il movimento, che peraltro non aveva contenuti o rivendicazionisociali, ma di corromperlo. Grosse quote del piano Marshall furono dirottate verso le zone in fermento, e la protestavenne privata dell'interessamento attivo della popolazione. I capi banda vennero pagati per deporre le armi, e,attraverso manovre politiche complesse, si convinsero alcune delle bande rimaste, pagandole, a compiere attentaticontro la popolazione civile, che finì per isolare i gruppi armati. Parallelamente si scatenò una campagna stampadenigratoria nei confronti degli insorti. Per finire la nuova costituzione repubblicana concesse una certa autonomiaalla Sicilia, cosa che privò gli ultimi ribelli di ogni legittimazione politica. Le poche bande rimaste venneroindividuate ed eliminate nell'indifferenza della popolazione. Come ottant'anni prima, però, la mafia aveva già presole distanze dai gruppi armati, ritornando in clandestinità e confondendosi fra la popolazione. Parte integrante diquesta strategia è la collaborazione della gente ordinaria, particolarmente attraverso l'omertà, ovvero il fatto diostacolare la forza pubblica nascondendo o tacendo informazioni sensibili.

La Prima RepubblicaDopo la guerra la mafia acquistò un enorme potere nell'Italia meridionale, particolarmente in Sicilia.Della questione meridionale si discusse a lungo in Assemblea Costituente e fu previsto, nell'articolo 119 dellaCostituzione, che "Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, loStato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali". Tale riferimento sarà poi abrogato con la legge direvisione costituzionale n. 3/2001.A varie riprese il governo italiano destinò fondi allo sviluppo del Mezzogiorno, e creando pure un istituto finanziariochiamato Cassa del Mezzogiorno per gestirne i flussi. La mafia dal canto suo investì i propri proventi in attivitàlegali. Ma tali movimenti finirono, rispettivamente, a dirottare denaro pubblico e a riciclare i proventi di crimini, enon a finanziare imprese produttive. Nel migliore dei casi gli investimenti statali vennero utilizzati male, e servironoa creare industrie pubbliche sovradimensionate, in aree mal servite dalle infrastrutture, con una sede dirigenzialesituata spesso lontano dagli impianti di produzione.Certi gruppi privati furono incitati tramite sovvenzioni pubbliche a stabilirsi nel sud, ma tali scelte si rivelaronoantieconomiche, e gran parte di questi esperimenti industriali fallirono in breve tempo. Le aziende facevano ricorso aprassi clientelari nelle assunzioni, e non venne mai messa nessuna enfasi sulla produttività o sul valore aggiuntodalle attività imprenditoriali.Queste pratiche corporative ebbero come conseguenza la profonda alterazione delle leggi di mercato e l'aborto di ogni possibile sviluppo economico delle aree depresse del paese. I capitali privati, italiani come stranieri, evitavano il Mezzogiorno, considerando che ogni investimento effettuato in chiave produttiva fosse destinato alla perdita a causa

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di tali pratiche. Benché oggigiorno la situazione sia sensibilmente diversa, atteggiamenti clientelari e nepotistiperdurano ancora.Quando il governo si ritrovò a prendere provvedimenti legislativi o a negoziare accordi internazionali in ambitoeconomico, l'attenzione si diresse, ancora, alle industrie del nord. Per esempio, quando negli anni quaranta ecinquanta emigranti italiani, soprattutto meridionali, incominciarono a raggiungere massivamente le minierecarbonifere del Belgio, il governo italiano chiese e ottenne da quello belga una tonnellata di carbone all'anno perogni lavoratore espatriato, questo approvvigionamento non beneficiò le regioni d'origine dei minatori emigrati,essendo destinato alle fabbriche prevalentemente ubicate nelle aree settentrionali della nazione.Negli anni sessanta e settanta le aree industrializzate vissero un periodo di sviluppo economico, incentratosull'esportazione di prodotti finiti, chiamato miracolo “italiano”. Il fenomeno attirò manodopera dal Mezzogiorno, ela disparità dei due livelli di vita diventò evidente e largamente discussa. In reazione, gli emigranti inviarono rimessealle loro famiglie rimaste nel sud, e lo stato dedicò importanti risorse allo sviluppo dei servizi essenziali, ma questerisorse non erano in grado di essere reinvestite in circoli produttivi, e rinforzarono al contrario i meccanismi di quelloche diventerà noto col termine dispregiativo di assistenzialismo: un innalzamento limitato delle condizioni di vitaattraverso sussidi esterni, tale da aumentare le attese della popolazione e necessitante di continui finanziamenti perrestare in funzione.A partire dagli anni ottanta l'organo giudiziario cercò un altro compito, e si focalizzò sulla criminalità organizzata.Evoluzioni sociali come l'individualismo e la spettacolarizzazione della vita pubblica contribuirono a crearecondizioni tali per cui il sistema di potere utilizzato dalla classe dirigente incominciò a rivelare delle crepe. Varieleggi rinforzarono la lotta contro la corruzione e la criminalità: una che confermava la separazione del poteregiudiziario da quello esecutivo, un'altra che istituiva sconti di pena e altri vantaggi agli accusati che collaborano conle indagini in corso, ed infine una che individuava nell'appartenenza ad un'associazione mafiosa un reato più graverispetto alla semplice associazione per delinquere. Tutto questo permise negli anni ottanta di arrivare ad ottenere deiprimi progressi nella lotta antimafia.

Situazione attualeIn questo periodo viene intrapreso un parziale risanamento del debito pubblico accumulato dalle amministrazioniprecedenti, impresa che si accompagna a riduzioni e razionalizzazioni della spesa pubblica. La fine di sovvenzionipubbliche significa la chiusura di molte imprese nel sud Italia, ma anche la timida emergenza di una mentalitàimprenditoriale inedita.L'Unione Europea accompagna parzialmente questo processo finanziando progetti imprenditoriali a carattere sociale,ecologico o culturale, ma queste iniziative non sono di natura tale da creare meccanismi di autofinanziamento, e ivantaggi derivati sono molto ridotti. Al riguardo è importante ricordare che l'Abruzzo differentemente da tutte lealtre regioni del meridione, è uscita dal c.d. (ed ormai passato) obiettivo 1[9] .In termini assoluti la situazione economica del meridione è indubbiamente migliorata negli ultimi sessant'anni; intermini relativi, però, il divario con il nord è drasticamente aumentato. Anche inglobato nell'Unione Europea,difficilmente il Mezzogiorno potrà conoscere uno sviluppo economico in tempi brevi.Ancora oggi vari problemi strutturali ipotecano le sue possibilità di progresso economico: la carenza storicad'infrastrutture, la dimensione troppo piccola delle imprese e una loro scarsa internazionalizzazione, la presenza diun sistema bancario poco efficiente, i ritardi di una pubblica amministrazione spesso pletorica, l'emigrazione di tantigiovani che non trovano un lavoro adeguato al loro livello culturale e alle loro aspettative, l'incapacità di sfruttare lerisorse ambientali e paesaggistiche, l'infiltrazione nell'economia sana della malavita organizzata.

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Indicatori economici[10]

Regione Popolazione(2007)

PIL pro capite (PPP) % della media UE27 (2006) Tasso di disoccupazione (2009)

Abruzzo 1.320.000 84,9 9,7

Basilicata 590.000 74,3 11,3

Calabria 2.000.000 67,0 11,7

Campania 5.800.000 66,1 13,4

Molise 320.000 77,6 9,9

Puglia 4.070.000 67,4 13,6

Sardegna 1.660.000 79,5 14,1

Sicilia 5.020.000 66,9 14,3

Italia 59.100.000 103,8 7,9

Riferimenti culturali

Pasquale Villari

Vari studiosi e uomini politici hanno affrontato la Questionemeridionale, cercando le cause dell'arretratezza del sud. Ecco i più noti.• Giuseppe Massari (1821 - 1884) e Stefano Castagnola (1825 - 1891)

furono due deputati italiani che diressero una commissioneparlamentare d'inchiesta sul brigantaggio fra il 1862 ed il 1863.Sebbene parziale e puramente descrittivo, il loro lavoro espose benecome la miseria e l'invasione sabauda avessero un ruolo capitalenella nascita della rivolta.

• Pasquale Villari (1827 - 1917) passò tutta la vita a studiare ilfenomeno. Ne concluse che il Mezzogiorno era affetto da una seriedi handicap: non aveva terre pianeggianti, scarseggiava d'acqua, icollegamenti erano difficili, era più affetto da malattie e il soletoglieva ogni energia ai suoi abitanti. Prese seriamente in conto ilcarattere caotico dell'evoluzione della sua economia, e sottolineò forse più di ogni altro intellettuale il peso che lacriminalità organizzata costituiva per lo sviluppo della regione.

• Stefano Jacini senior (1827 - 1891), a lungo ministro dei lavori pubblici, si interessò alla necessità di costruireinfrastrutture e creare una classe di piccoli proprietari terrieri.

• Stefano Jacini junior (1886 - 1952), suo nipote, constatò due generazioni dopo che la situazione non era cambiata,e riprese le stesse posizioni.

• Leopoldo Franchetti (1847 - 1917), Giorgio Sidney Sonnino (1847 - 1922) ed Enea Cavalieri (1848 - 1929)realizzarono nel 1876 una celebre e documentata inchiesta sulla Questione meridionale, nella quale mettevano inluce i nessi fra l'analfabetismo, il latifondo, la mancanza di una borghesia locale, la corruzione e la mafia,sottolineando la necessità di una riforma agraria.

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Stefano Jacini

Giustino Fortunato

• Giustino Fortunato, uomo politico conservatore, effettuò vari studiin materia, e pubblicò nel 1879 il più conosciuto di essi, in cuiesponeva gli svantaggi fisici e geografici del sud, i problemi legatialla proprietà della terra, e il ruolo della conquista nella nascita delbrigantaggio. Era decisamente ostile ad ogni tipo di federalismo, esebbene difendesse la necessità di redistribuire la terra e difinanziare servizi indispensabili come scuole e ospedali, fu ritenutoda alcuni interpreti pessimista per la sfiducia che mostrava neiconfronti delle classi dirigenti del paese nell'affrontare la questionemeridionale.

• Benedetto Croce (1866 - 1952), filosofo storicista, rivide in chiavestoriografica le vicende del Mezzogiorno dall'Unità fino alNovecento, mettendo l'accento sull'imparzialità delle fonti. Il suopensiero divergeva parzialmente da quello del suo amico GiustinoFortunato riguardo all'importanza da attribuire alle condizioninaturali in riferimento ai problemi del Mezzogiorno. Riteneva infattifondamentali le vicende etico-politiche che avevano condotto aquella situazione. Entrambi ritenevano fondamentale la capacitàdelle classi politiche ed economiche, nazionali e locali, peraffrontare e risolvere la questione. La sua Storia del Regno diNapoli, del 1923, rimane il punto di riferimento essenziale per lastoriografia posteriore, sia per i discepoli che per i critici.

• Gaetano Salvemini (1873 - 1957), uomo politico socialista, perse lasua famiglia durante il terremoto di Messina del 1908. Concentrò lesue analisi sugli svantaggi che il sud aveva ereditato dalla storia,criticò aspramente la gestione centralizzata del paese, e predicòl'alleanza degli operai del nord coi contadini del sud.

• Francesco Saverio Nitti (1868 - 1953), più volte ministro, si dedicòmolto allo studio dell'economia meridionale. Ne analizzò il timidosviluppo industriale, l'emigrazione, ed esortò la creazione di unprimo stato sociale. Dopo la Seconda guerra mondiale, proposeanche un vasto programma di lavori pubblici, di irrigazione e dirimboschimento, ed affermò come altri prima di lui l'urgenza di unariforma agraria.

• Antonio Gramsci (1891 - 1937), noto pensatore marxista, lesse ilritardo del sud attraverso il prisma della lotta di classe. Studiò imeccanismi in corso nelle rivolte contadine dalla fine dell'Ottocento fino agli anni venti, spiegò come la classeoperaia fosse stata divisa dai braccianti agricoli attraverso misure protezionistiche prese sotto il fascismo, e comelo stato avesse artificialmente inventato una classe media nel sud attraverso l'impiego pubblico. Auspicava lamaturazione politica dei contadini attraverso l'abbandono della rivolta fine a se stessa per assumere una posizionerivendicativa e propositiva, e sperava una svolta più radicale da parte dei proletari urbani che dovevano includerele campagne nelle loro lotte.

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Gaetano Salvemini

Antonio Gramsci

• Guido Dorso (1892 - 1947) fu un intellettuale che rivendicò ladignità della cultura meridionale, denunciando i torti commessi dalnord ed in particolare dai partiti politici. Effettuò esaurienti studisull'evoluzione dell'economia del Mezzogiorno dall'Unità fino aglianni trenta e difese la necessità dell'emergenza di una classedirigente locale.

• Rosario Romeo (1924 - 1987), storico e politico, si oppose alle tesirivoluzionarie ed evidenziò le differenze esistenti, prima e dopo ilRisorgimento, fra la Sicilia ed il resto del sud. Attribuì i problemidel Mezzogiorno a tratti culturali, caratterizzati dell'individualismoe lo scarso senso civico, piuttosto che a ragioni storiche o strutturali.

• Paolo Sylos Labini (1920 - 2005) professore ed economista, ripresetesi che vedevano nell'assenza di sviluppo civile e culturale leorigini del divario economico. Considerò la corruzione e lacriminalità come endemiche della società meridionale, e videl'assistenzialismo come principale ostacolo allo sviluppo.

Storiografia del problemaL'interpretazione della Questione meridionale ha vissuto profonde evoluzioni nel tempo. Originalmente il dibattito era fortemente influenzato dalla censura e propaganda della corona sabauda, preoccupata di legittimare la conquista, l'annessione e lo sfruttamento del sud. Tale censura ha impedito che pervenissero fino ad oggi documenti attendibili su molti aspetti, come il numero di vittime della repressione. Anche dopo la fine del regno i dati storiografici disponibili impedirono una corretta lettura degli eventi. Solo recentemente nuovi studi hanno messo in causa la visione classica della vicenda, e certi fatti, come lo stato economico del Regno delle Due Sicilie o il brigantaggio hanno preso un'altra dimensione. Oggigiorno tesi come l'inferiorità genetica delle popolazioni del sud Italia, una

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volta abbastanza consensuali, non sono più accettate accademicamente.Si possono comunque distinguere tre approcci storiografici principali, che ricalcano in grosse linee dibattitiideologici e politici più ampi:• La storiografia classica, così chiamata perché nata prima, tende a vedere l'arretratezza del Mezzogiorno come

segno di un'evoluzione atipica o ritardata, dove altre condizioni avrebbero permesso alla regione di inserirsi consuccesso in una dinamica di crescita e di integrazione.

• La storiografia moderna, così chiamata perché proposta a partire da Gramsci e Salvemini, vede il persistere dellamiseria come una componente essenziale del capitalismo, che è basato sulle dualità sfruttatore - sfruttato,sviluppo - sottosviluppo, anche su base geografica.

• L'interpretazione deterministica, che vede nella demografia (attraverso tesi razziste) o nella geografia del sud leorigini, spesso insormontabili, della povertà nella quale si trova il Meridione.

Bibliografia• Giustino Fortunato, Il mezzogiorno e lo stato italiano, Firenze 1973.• Francesco Saverio Nitti, Napoli e la questione meridionale, Bari 1958.• Antonio Gramsci, La questione meridionale, Roma 1966.• Renato Brunetta, Sud: un sogno possibile, Roma, 2009. ISBN 9788860364456• E. Paolozzi, Il liberalismo democratico e la questione meridionale, Napoli, 1990.• Antonio Russo, Governare lo sviluppo locale, Roma, 2009. (Capitolo sulla ricostruzione storica della questione

meridionale e dell'intervento straordinario per il Mezzogiorno).• Pino Aprile, "Terroni: tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del sud diventassero meridionali", Milano,

2010.

Voci correlate

Momenti storici• Spedizione dei Mille• Risorgimento• Unità d'Italia• Brigantaggio• Miracolo italiano• Fascismo

Protagonisti• Casa Savoia• Borbone di Napoli• Camillo Cavour• Giuseppe Garibaldi• Nino Bixio• Giovanni Giolitti• Benito Mussolini• Cesare Mori

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Istituzioni• Stati italiani preunitari• Regno di Sardegna• Regno di Sicilia• Regno di Napoli• Regno delle Due Sicilie• Regno d'Italia• Repubblica italiana• Prima Repubblica• Seconda Repubblica• Regioni italiane• Regione autonoma a statuto speciale• Statuto Albertino• Costituzione della Repubblica Italiana

Criminalità organizzata• Mafia• Cosa Nostra• 'Ndrangheta• Camorra• Sacra Corona Unita

Altro• Guerra civile• Riforma agraria• Latifondo• Economia di mercato• Razzismo• Terrone• Corporativismo• Nepotismo• Clientelismo• Mezzogiorno• Questione settentrionale• Revisionismo storiografico sul Risorgimento italiano

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Collegamenti• La questione meridionale inizia con l'Unità d'Italia, lo confermano il CNR e l'Università di Catanzaro [11]

• Nord e Sud (rivista)• Fondazioneperilsud [12]

Altri progetti

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• Wikisource contiene opere originali di o su Questione meridionale

Note[1] Mario Di Gianfrancesco, La rivoluzione dei trasporti in Italia nell'età risorgimentale, 1979, L'Aquila, pp. 151 ss.[2] Ressmann Claudio, Rivista Marittima, Febbraio 2007[3] Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, Einaudi, 1973 (http:/ / books. google. it/ books?ei=5u6pS_WpKs2O_AaByPmiAQ& ct=result&

id=8H1oAAAAMAAJ& dq=443+ milioni+ di+ Ducati+ oro& q=443)[4] V. Bachelet, Evoluzione del ruolo e delle strutture della pubblica amministrazione, in AA. VV., L'amministrazione in cammino. Una guida

alla lettura degli scritti giuridici di Vittorio Bachelet, Giuffrè, 1984, 44[5] Pino Aprile, Terroni: tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del sud diventassero meridionali.[6] IZA - Institute for the Study of Labor, "the industrialisation process being concentrated mainly in the North western regions" (http:/ / ftp. iza.

org/ dp938. pdf)[7] G. Rosoli (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana. 1876-1976, Centro studi emigrazione, Roma 1978[8] E. Pugliese, Emigrazione e trasformazioni sociali nel Mezzogiorno, in QA Rivista dell'Associazione Rossi-Doria, Franco Angeli, n. 2, 2009[9] Si veda un documento dell'UE sulle politiche regionali (http:/ / ec. europa. eu/ regional_policy/ innovation/ innovating/ pdf/ abruzzo_it. pdf)[10] http:/ / www. economist. com/ displaystory. cfm?story_id=14214871[11] http:/ / www. napoli. com/ viewarticolo. php?articolo=33612[12] http:/ / www. fondazioneperilsud. it/ home/

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La questione meridionale Una breve ricerca per capire le cause e le conseguenze del fenomeno che ha caratterizzato in negativo gli anni post-unificazione. 19 settembre 2004 - Daniele Marescotti Fonte: http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/q/q017.htm http://www.homolaicus.com/storia/moderna/ottocento/questione_meridionale.htm http://digilander.libero.it/makan/ipertesti/ris/brigant1.htm http://www.polyarchy.org/basta/crimini/quattro.html G. De Luna, M. Meriggi, A. Tarpino; La scena del tempo vol. 3, Paravia, Torino 2003, p. 57

Le tappe storiche fondamentali dell'Italia dopo l'unificazione - 1860: spedizione dei Mille di Garibaldi, annessione del sud e unificazione dell'Italia - 1861: proclamazione del Regno d'Italia; elezioni a suffragio ristretto (vota il 2% ossia i più ricchi); destra liberale al governo - 1866: annessione del Veneto (terza guerra di Indipendenza) - 1870: conquista di Roma - 1876: sinistra liberale al governo - 1882: allargamento del suffragio (è ammesso al voto il 7% della popolazione più ricca) - 1887-91: primo governo Crispi - 1893-96: secondo governo Crispi con tendenze autoritarie (scioglie le organizzazioni socialiste fra cui i Fasci siciliani); nel 1896 comincia l'avventura coloniale con la guerra contro l'Etiopia e la sconfitta di Adua - Segue un periodo di forte autoritarismo che culmina nella sanguinosa repressione (1898) dei moti popolari di Milano contro il caro vita - 1903: governo Giolitti: viene tollerata la crescita pacifica del movimento operaio socialista - 1911: guerra coloniale di Libia - 1913: suffragio universale maschile Che cosa è la questione meridionale? La questione meridionale fu un grande problema nazionale dell'Italia unita. Il problema riguardava le condizioni di arretratezza economica e sociale delle province annesse al Piemonte nel 1860-1861 (rispettivamente gli anni della spedizione dei Mille e della proclamazione del Regno d’Italia). I governi sabaudi avevano voluto instaurare in queste province un sistema statale e burocratico simile a quello piemontese. L’abolizione degli usi e delle terre comuni, le tasse gravanti sulla popolazione, la coscrizione obbligatoria e il regime di occupazione militare con i carabinieri e i bersaglieri, creò nel sud una situazione di forte malcontento. Da questo malcontento vennero fuori alcuni fenomeni: il brigantaggio, la mafia e l’emigrazione al nord Italia o all’estero. Il brigantaggio: la risposta violenta alla politica sbagliata del governo Dopo l’unità d’Italia vi fu un rigetto nei confronti del governo da parte della povera gente del meridione. Tale rigetto si manifestò fra il 1861 e il 1865 con il fenomeno del brigantaggio. Il brigantaggio era localizzato in Calabria, Puglia, Campania e Basilicata dove bande armate di briganti iniziarono vere e proprie azioni di guerriglia

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nei confronti delle proprietà dei nuovi ricchi. I briganti si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni. Fra i briganti, oltre ai braccianti estenuati dalla miseria, c’erano anche ex garibaldini sbandati ed ex soldati borbonici. Non mancavano poi numerose donne audaci e spietate come gli uomini. La repressione del brigantaggio I briganti non furono "criminali comuni", come pensava la maggioranza al governo, ma un esercito di ribelli che non conoscevano altra forma di lotta se non quella violenta. Del resto, tenuti per secoli nell'ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e quindi non avrebbero mai potuto agire con mezzi legali. La politica di repressione adottata nei confronti dei briganti fu durissima. Per debellare il fenomeno furono impiegati 120.000 soldati (pari alla metà dell’esercito italiano) comandati dal generale Cialdini. Si scatenò una vera e propria guerra intestina che portò ad un numero molto elevato di morti in particolare fra i briganti e i contadini che li appoggiavano. Fu tra prigioni a vita, fucilazioni e uccisioni varie che il fenomeno del brigantaggio venne debellato nel 1865. Le conseguenze furono un ulteriore aumento del divario fra nord e sud e un’esaltazione dei briganti la cui figura venne paragonata, nell’immaginario popolare, a quella di “eroi buoni”. Il fenomeno dell’emigrazione Una volta debellato il brigantaggio le condizioni economiche e sociali dell’Italia meridionale non migliorarono. Anzi, il fenomeno dell’emigrazione si manifestò in maniera consistente a causa delle difficili condizioni di vita nel sud Italia. Il motivo di tale fenomeno era perlopiù occupazionale. La difficoltà di trovare lavoro e di raggiungere un tenore di vita se non dignitoso almeno accettabile, portò ad un’ondata migratoria sia verso il nord Italia sia all’estero. “Si stima che fra il 1876, anno in cui si cominciarono a rilevare ufficialmente i dati, e il 1985 circa 26,5 milioni di persone lasciarono il territorio nazionale”. (Fonte: http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/e/e035.htm). Quanto fin qui emerso ci fa comprendere meglio che l’emigrazione fu una delle pesanti conseguenze della mancata risoluzione, da parte dei governi italiani, della questione meridionale. Gli intellettuali che hanno studiato il problema Furono diversi gli intellettuali (ma anche gli uomini di politica) che analizzarono le cause e denunciarono la questione meridionale. Fra i più importanti troviamo lo storico socialista Gaetano Salvemini (1873-1957). Egli denunciò l'arretratezza del Mezzogiorno se paragonata al decollo economico avviato nel nord soprattutto da Giolitti. Quest’ultimo venne da lui definito “il ministro della malavita” per il cinismo con cui, con l’aiuto della mafia, approfittava dell’arretratezza e dell’ignoranza del sud per raccogliervi consensi. Il 14 marzo 1909 infatti Gaetano Salvemini pubblicò sull'"Avanti" un articolo contro Giovanni Giolitti accusandolo di aver incentivato la corruzione nel Mezzogiorno e di essersi procurato il voto dei deputati meridionali mettendo "nelle elezioni, al loro servizio, la malavita e la questura". Salvemini considerava l’industrializzazione estranea alle condizioni economiche e geografiche del sud e avrebbe voluto invece che si valorizzasse la vocazione agricola del meridione. Egli attaccò inoltre il Psi e la Cgil accusandoli di favorire la classe operaia settentrionale a danno dei contadini meridionali. Salvemini avrebbe voluto che il governo promuovesse la vocazione agricola del sud Italia. Chi teneva in quel

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momento le redini del Paese tuttavia non fu dello stesso avviso e agì a modo suo optando per leggi speciali e per interventi localizzati. Le leggi speciali prevedevano la concessione degli sgravi fiscali alle industrie e l’incremento delle opere pubbliche. Questo portò ad una crescita della spesa statale che andò ad alimentare i ceti improduttivi e parassitari. Tali ceti garantivano voti alla maggioranza al governo e in cambio ricevevano appalti di opere pubbliche insieme ad altri favori. Un altro intellettuale di spicco, Antonio Gramsci (1891-1937), nel primo dopoguerra ideò una strategia che mirava all'alleanza tra operai del nord e contadini del sud al fine di realizzare una rivoluzione socialista italiana.

Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".

In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate. La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.

Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato. L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.

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Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie. Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato. In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale). Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".

A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi. Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca). Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.

Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione. Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle

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corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.

Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate. L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".

Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.

Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".

La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario. Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro. Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%. Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità. L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.

Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista. Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero. Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole. La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli

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eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri. Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.

L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.

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LA MAFIA DALLE ORIGINI AI GIORNI NOSTRI

Cercheremo, nello spazio esiguo consentito da una breve ricerca, di

approfondire l'evoluzione storica della mafia, evidenziandone i momenti

sia di continuità che di cambiamento. Molti studiosi fanno partire la

storia della mafia dall'Unità d'Italia. E questo non perché prima fosse

assente nella Penisola una qualche forma di criminalità che somigliasse

a quella mafiosa, ma perché è in quel momento storico che si evidenzia

un conflitto palese tra questa criminalità - che va organizzandosi in

maniera sempre più rigida - e lo Stato, almeno nelle forme centralistiche

e oppressive in cui quest’ultimo si evidenziò all’indomani dell’unità

nazionale.

L'Unità d'Italia rafforzò nel Mezzogiorno un processo di fine della

struttura feudale delle campagne, nel momento in cui l'economia veniva

integrata, seppure faticosamente, a quella del resto del Paese. Come è

già stato accennato, il nuovo governo piemontese si sovrappose infatti

ad una struttura sociale meridionale già per molti aspetti affermata in

modo originale nel tessuto sociale, senza riuscire ad interagire

positivamente con essa. Conseguenza di questi cambiamenti fu che nelle

campagne i grossi latifondisti, che avevano detenuto interamente il

potere fino a quel tempo, cominciarono ad aver bisogno sempre più di

qualcuno che garantisse loro un controllo effettivo delle proprietà, sia

per difendersi dal brigantaggio, sia per resistere alle nascenti pretese

delle classi contadine per una più equa distribuzione del prodotto del

loro lavoro.

Questo ruolo, che in altri paesi ed anche in altre zone d'Italia fu

tipicamente un compito affidato alla classe borghese imprenditoriale,

aiutata nella sua affermazione dallo stato liberale, venne assunto da

alcuni personaggi che presero il nome di "campieri" (perché

controllavano i campi) o "gabelloti", in quanto riscuotevano, per conto

del padrone, le "gabelle". Quindi, fin dal principio, la mafia si delinea

come un'organizzazione che assume dei ruoli pubblici per eccellenza,

che altrove sono di competenza dello Stato.

Per farlo, i mafiosi ebbero fin dalle origini contatti molto stretti con il

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potere pubblico. A quell'epoca le collusioni più evidenti erano con il

corpo dei "militi a cavallo", una forza di polizia addetta al controllo delle

campagne. Poiché tali militi avevano una responsabilità diretta per i

danni arrecati alle proprietà rurali, che erano tenuti a risarcire, avevano

la tendenza a cercare di evitare i furti, spesso mettendosi d'accordo con

briganti e mafiosi perché li facessero in territori non di loro competenza.

Ma le collusioni, fin d'allora, non si limitavano ai bassi livelli, ma

arrivavano a toccare le autorità prefettizie (che avevano allora molto più

potere che oggi) e, segno di grande continuità con l'oggi, i politici. Ed è

del tutto naturale che il terreno per queste collusioni era più nelle città,

dov'era concentrato il potere politico, che nelle campagne. In questo

senso, di recente, S. Lupo ha sostenuto che è un errore considerare la

mafia delle origini soltanto come mafia rurale, in quanto il ruolo delle

città, come luogo politico e commerciale, era invece molto importante.

-

-

-

STORIA DELLA PAROLA MAFIA

-

L’origine della parola Mafia non è conosciuta precisamente. Secondo

una versione dei fatti, nacque dall’invasione francese della Sicilia nel

1282 e dal motto "Morte alla Francia Italia Anela" o M.A.F.I.A.

- Per altri deriva invece dal nome della tribù araba che si stanziò a

Palermo(Ma-afir), per altri dal toscano maffìa (miseria);mentre lo

studioso del folclore G.Pitrè lo ricava dal vocabolo del gergo palermitano

che in origine significava "bellezza, coraggio, superiorità."

Solo nel 1865 venne usato nel suo significato più attuale per indicare

un’insolita forma di associazione a delinquere*.

Del tutto fantasiosa è invece l’interpretazione di mafia come acrostico di

Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti.(sic!).

-

Lo "spirito della mafia" indica una mentalità di eccessivo orgoglio, di

prepotenza e superbia, secondo cui per essere veri "uomini d’onore"

bisogna far valere le proprie ragioni senza scrupoli morali con ogni

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mezzo: dal duello rusticano all’agguato con la lupara.

Lo "spirito della mafia" poggia su un codice d’onore, non scritto ma

egualmente rispettato, retto da due regole inderogabili: l’omertà, che

impone a tutti il più assoluto silenzio e l’avvertimento preliminare

dell’avversario nel "regolamento di conti".

- Il rapporto tra gli “uomini d’onore” e gli affiliati è molto stretto, in

quanto è proprio da questo che si intrecciano i collegamenti tra affiliati e

“cosca”,

- Questa parola deriva dal dialetto siciliano e significa “carciofo” : essa

sta ad indicare il rapporto assai stretto che si viene a stabilire tra i

membri, uniti tra di loro come le foglie del carciofo.

- Tale rapporto si rinvigorisce, assumendo i tratti tipici della

sussidiarietà e del reciproco sostegno e aiuto in caso di necessità,

attraverso la ferrea legge storica dell’omertà ( assoluta segretezza circa

le informazioni, che possono circolare solo all’interno della ristretta

cerchia degli adepti come in tutte le società segrete).

- E’arrivato adesso il momento di riassumere in modo sintetico la storia

più recente del fenomeno mafioso.

-

Agli inizi del '900 a causa della grave crisi agricola, un' imponente

massa di contadini meridionali e in particolare siciliani emigrò nel

"Nuovo Mondo", soprattutto negli USA. Dunque la mafia fu trapiantata

negli Stati Uniti e si chiamò "mano nera" o anche "Cosa Nostra". Questa

nuova organizzazione assunse ben presto caratteristiche gigantesche.

- Nel primo decennio del Novecento Giovanni Giolitti, lo statista più

“longevo” della storia recente dell’Italia, si giovò dell’operato degli

“uomini d’onore”(i gentiluomini) per rafforzare il controllo governativo

dell’elettorato meridionale, specie nelle campagne.

-

Durante il regime fascista la mafia siciliana fu sottoposta a severissime

misure repressive. Memorabile fu l’opera svolta dal prefetto C. Mori che

costrinse numerosi mafiosi a trasferirsi negli Stati Uniti

- .

Al termine della II guerra mondiale la mafia riacquistò vigore grazie

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all’opera delle truppe d’occupazione e delle popolazioni locali

- .

L’agitato periodo post-bellico offrì alla mafia l’opportunità di rinforzarsi

e di estendere i suoi interessi fino ad occuparsi dello spaccio di droga e

del racket del commercio, nel mercato generale, nell’industria e

nell’edilizia.

Negli anni '60 una nuova mafia più spietata e sbrigativa di quella

tradizionale cominciò a contendere alla mafia "storica" il controllo del

territorio.

Le numerose cosche mafiose entrarono in guerra tra loro in un

crescendo di violenza, contraddistinta da numerosi delitti "trasversali"

(per punire o eliminare intere famiglie).

-

Durante gli anni '80 la mafia ha incrementato ulteriormente il suo

potere nonostante l’infaticabile opera degli organi di polizia e della

Magistratura.

Numerosi investigatori e magistrati hanno pagato con la vita il loro

impegno professionale e civile contro la "Piovra".

Le organizzazioni sindacali stanno organizzando forme di resistenza

collettiva alla mafia, consapevoli del fatto che è la solitudine a

consentire alla mafia di colpire.

-

Fra tutte le numerosissime organizzazioni mafiose, "Cosa Nostra

Americana” è quella che raggiunge le dimensioni di un vero e proprio

Stato. Non è un’associazione per delinquere, ma un’organizzazione

criminale strutturata come uno Stato, con un "popolo" (gli "uomini

d’onore"), un "territorio", un "ordinamento giuridico" che prevede

regole ataviche, quali l’omertà, il rispetto delle gerarchie, il rigido

controllo da parte delle famiglie e delle cosche, lo scopo mutualistico

degli associati e le relative sanzioni. "Cosa Nostra" è divenuta un

"contropotere criminale", in quanto la sua struttura organizzativa non è

protesa solo a consumare delitti, a controllare attività economiche, a

conseguire vantaggi ingiusti o allo scambio di voti, ma è altresì volta al

perseguimento di vere e proprie strategie, ora in collusione ora in

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contrasto con i poteri legittimamente costituiti.

- .

Come tutte le società segrete, la mafia ha in genere una struttura di tipo

verticale. Il capofamiglia nomina il "sottocapo" ed i capidecina che

hanno il compito di coordinare gli uomini d’onore, i picciotti.

L’organizzazione base è la famiglia, non quella di sangue, ma un gruppo

mafioso che controlla un pezzo di territorio, in genere un paese o un

quartiere di una grande città oppure più paesi se questi sono piccoli. E’

una funzione vitale, quella del controllo del territorio, che si snoda

attraverso forme di contiguità con ambienti della politica e delle

istituzioni.

Sempre più spesso la struttura decisionale ha carattere territoriale (la

commissione , l’organismo più importante di Cosa Nostra, in Sicilia. è

regionale).

- In questi ultimi si è accresciuto il potere assoluto di alcuni Boss, come

Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Giuseppe Madonna in Sicilia.Il

numero uno è sicuramente Totò Riina e subito dopo viene Giuseppe

Madonia. Questi due sono stati anche indicati come rappresentanti

mondiali a Palermo, nel senso che vi è un altro organismo più in alto che

comanda tutte le famiglie di Cosa Nostra sparse nel mondo. Il 30

Giugno 1992 il pentito Leonardo Messina rivelò ad un pool di magistrati

la struttura e gli uomini di Cosa Nostra.

- .

Oggi a capo di Cosa Nostra ci sarebbe Bernardo Provenzano che molti

credevano morto. S’è rifatto vivo dopo l’arresto di Riina con una lettera

inviata al Presidente del Tribunale di Palermo. Fotografie vecchie di 30

anni lo descrivono come un tipo biondo e tarchiato. Nessuno da allora lo

ha più visto, ma tutti i pentiti sono concordi nel definirlo una belva

assetata di sangue, proprio come Riina del quale è stato compagno di

giochi e nefandezze. La sua morte era data per certa fino all’aprile 1992,

quando la moglie Saveria Palazzolo, ricomparve in paese assieme ai tre

figli dopo un’assenza di 10 anni. Come se non fosse successo nulla in

tutto quell’arco di tempo, la donna riaprì la vecchia casa e riprese a

vivere in mezzo alla gente, lasciando di stucco tutti, compresi i

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rappresentanti delle forze dell’ordine. Accanto a Provenzano, fino al 20

Maggio 1996, c’era Giovanni Brusca, considerato il capo dell’ala militare

di Cosa Nostra. Figlio di Bernardo, ex componente della "commissione"

nella sua qualità di Boss della famiglia di San Giuseppe Iato, è accusato

di crimini orrendi come la strage di Capaci (fu lui ad azionare il

congegno che fece saltare in aria il giudice Falcone, la moglie e gli

uomini della scorta), gli attentati a Roma, Milano e Firenze e l’omicidio

di Giuseppe Di Matteo, 11 anni, figlio di un collaboratore di giustizia,

strangolato e dissolto nell’acido. 36 anni, latitante dal 1990, è stato

arrestato assieme al fratello Vincenzo nell’Agrigentino mentre alla

televisione stava vedendo il film di Michele Placido sulla strage di

Capaci. Dopo la cattura di Brusca, oltre a Provenzano, capo indiscusso

dell’ala "politica" di Cosa Nostra, alla macchia resta Pietro Aglieri, a cui

spetta il compito di ricucire le fila e di rilanciare la mafia sfiancata dagli

attacchi concentrici dei pentiti.

- I RITI DI INIZIAZIONE

- Il neofita* prima del giuramento viene cautamente sondato per vedere

se è disponibile per partecipare a un non meglio identificato sodalizio

volto a proteggere i deboli. Dopo essere stato sondato, viene portato in

un luogo appartato (che può essere anche un'abitazione) alla presenza di

tre o più uomini d'onore della famiglia e, quindi, il più anziano dei

presenti lo avverte che la mafia ha lo scopo di proteggere i deboli ed

eliminare le soperchierie. Si buca un dito di una mano del giurante e il

sangue viene versato su una qualunque immagine sacra. L'immagine

viene posata sulla mano dello stesso e le si dà fuoco. A questo punto il

neofita, che deve sopportare il bruciore, la passa da una mano all'altra

fino a totale spegnimento, giura di mantenere fede ai principi di "Cosa

Nostra", affermando solennemente: "le mie carni devono bruciare come

questa "santina" se non manterrò fede al giuramento". Dopo il

giuramento - e solo allora - l'uomo d'onore viene presentato al capo

famiglia, del quale prima non doveva conoscere la carica, né, tanto

meno, l'esistenza di clan e gli viene spiegata l’organizzazione di Cosa

Nostra.

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-

-

- LA ‘NDRANGHETA

-

Il termine ‘Ndrangheta è di incerta derivazione. A parere di alcuni

storici sarebbe mediato dal Greco e significherebbe "società degli

uomini valorosi".

La parola avrebbe origine dalla forma dialettale "ndrino" (uomo dritto

che non piega la schiena)

- .

Origini storiche

-

Le remote origini della ‘Ndrangheta risalirebbero alla "garduna",

associazione criminosa che si interessava al gioco e al baratto, costituita

a Toledo nel 1412 e portata nell’Italia meridionale dai conquistatori

spagnoli, mantenendo alcune caratteristiche poi diventate comuni ad

ogni fenomeno mafioso: la "tirata" (ossia il duello di coltello tra gli

adepti), il codice d’onore, la legge ferrea dell’omertà.

Comunque sia, le più dirette origini storiche della ‘Ndrangheta vanno

ricercate nella camorra napoletana

- .

Nel 1861, nel 1863 e nel 1865 tre ondate di brigantaggio sconvolgono la

Calabria, la Lucania e la Campania. Di esse si hanno scarse e a tratti

strumentalizzate notizie, ma è fuor di dubbio che si tratti di una sorta di

disperata guerriglia, di una lotta di classe sulla "questione meridionale"

i cui capi provengono dalle masse anonime dei contadini renitenti ai

vantaggi del governo italiano: la leva obbligatoria, le nuove tasse, la

mancanza di opportunità di lavoro, se si esclude il bracciantato agricolo

di tradizione feudale ( colonia).

-

Dal brigantaggio alla ‘Ndrangheta

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Gli storici tendono a scorgere proprio in questa esplosione di

brigantaggio il primo vero enuclearsi della mafia calabrese anche se non

tutti concordano nell’unificare i due fenomeni. La mafia divenne

sinonimo di brigantaggio, camorra, malandrinaggio, senza essere

nessuna delle tre cose, poiché il brigantaggio è una lotta aperta con le

leggi sociali, la camorra è un guadagno illecito sulle transazioni

economiche, il malandrinaggio è specie di gente volgare, rotta al vizio e

che agisce sopra gente di pochissima levatura.

-

- Codice e regole della ‘Ndrangheta

-

Come ogni associazione la ‘Ndrangheta presenta regole interne,

gerarchia, statuti che garantiscono "dignità" alle sue azioni e

l’accettazione di esse da parte dell’adepto. Notizie sui codici sociali della

‘Ndrangheta si hanno da varie fonti: dalle testimonianze scritte

sequestrate nel corso di perquisizioni alla letteratura mafiosa degli stessi

affiliati.

-

Il simbolo della ‘ndrina è costituito dall’albero della scienza diviso in sei

parti: il fusto (il capo della società o capo bastone, che ha potere di vita e

di morte sugli altri affiliati), il rifusto (contabile e maestro di giornata), i

rami (camorristi di sgarro e di sangue), i ramoscelli (i picciotti), i fiori

(giovani d’onore) e le foglie (traditori destinati a cadere per terra)

- .

Gli sviluppi della mafia calabrese presentano una certa analogia con

quella della camorra e della mafia siciliana. Prevale nella mentalità

comune una interpretazione eroica delle cosche mafiose viste come

strumenti di assistenza e protezione ai più deboli. L’inizio del secolo è

un periodo aureo per "l’onorata società" che si estende già in tutto il

territorio della provincia di Reggio. Gli anni dell’immediato dopoguerra

registrano una recrudescenza della ‘Ndrangheta ad opera di Rocco

Muscari. Questa che imperversa nelle montagne del Reggino è ritenuta

responsabile di un omicidio, due tentati omicidi, rapine a contadini,

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abigeati, ferimenti, nonché di due reati che segnano la nuova

specializzazione della mafia calabrese: l’estorsione e il sequestro di

persona.

La nuova ‘Ndrangheta

-

Negli ultimi decenni la ‘Ndrangheta si trasforma notevolmente:

cambiano i reati, le vittime, le armi; resta immutata la zona di

operazioni e di rifugio, dal capoluogo all’Aspromonte. Dal settore

dell’agricoltura la ‘Ndrangheta si sposta alle attività commerciali,

all’edilizia, all’industria. Proprietari, piccoli e grandi operatori

economici vengono forzosamente "protetti": nei confronti di coloro che

si rifiutano di pagare la "mazzetta" si agisce con gravissimi atti minatori,

incendi, attentati. Colonna portante diventa l’industria dei sequestri:

persone sono prese in ostaggio, con periodi di prigionia

sull’Aspromonte, che vanno da poche ore a molti mesi.

- Conclusioni

- Trarre conclusioni che siano esaurienti e insieme oggettive da un

fenomeno estremamente complesso come quello mafioso sarebbe un

compito vano e fuorviante.

- Si può comunque trarre qualche breve riflessione dal nostro excursus

storico.

- La prima riflessione ci dice che la mafia si è storicamente affermata

come un contro-potere : localismo contro centralismo, tradizione contro

innovazione, privilegio contro legalità.

- In secondo luogo il potere mafioso sembra essersi affermato come una

necessità storica; altre volte è piuttosto apparso come il risultato di un

rapido processo di deterioramento del tessuto economico e sociale.

- Viene così confermata la tesi di chi sostiene che la mafia si presenti

comunque come un fenomeno degenerativo di una società che non sa

più riconoscersi, né affermare i valori etici che sono da sempre il

fondamento dell’agire.

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Schede di libri sulla mafia

Per l’elaborazione degli argomenti interni alla tematica si è fatto ricorso

allo studio e consultazione del testo scolastico “Oltre il Duemila”, Agorà

Edizioni, Torino, 2000

Si è inoltre fatto ricorso alla consultazione delle seguenti opere, da cui si

è ricavata una sintetica scheda illustrativa :

Per conoscere la mafia. Una bibliografia, a cura di G. R. Lanfranchini e

B. Marin, Milano, Strumenti editoriali, 1993.

Nata da un'iniziativa de "La Rivisteria", e' la piu' completa bibliografia

sulla mafia - sia pure limitata agli scritti in volume - che sia stata edita

in Italia negli ultimi anni. Comincia inevitabilmente ad invecchiare, ma

è utilissima per la conoscenza di tutto ciò che è stato scritto

sull'argomento fino al 1993.

La mafia. Economia politica società, a cura di E. Morosini e F.

Brambilla, Torino, Einaudi Scuola, 1995.

Antologia molto ben curata di scritti sulla mafia, corredata da un'ottima

bibliografia e da una completa filmografia.

Di particolare interesse gli ampi brani tratti dal libro di Diego Gambetta,

La mafia siciliana. Un'industra della protezione privata, Torino,

Einaudi, 1992.

Umberto Santino, La mafia interpretata, Soveria Mannelli (CZ),

Rubbettino, 1996.

L'autore, un sociologo dell'Università della Calabria, ha cercato di fare il

punto sui diversi approcci al fenomeno mafioso presenti nella

letteratura scientifica. Lo scopo dichiarato del libro è quello di creare un

maggiore collgamento tra studi di discipline diverse (sociologici,

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economici, politici, giuridici, criminologici).

Molto utile per le indicazioni bibliografiche, estese anche a quanto è

stato scritto in altri paesi sull'argomento. Ad esempio, è possibile farsi

una bibliografia essenziale sugli approcci all'economia criminale che

sono stati tentati nei paesi anglosassoni.

Marcelle Padovani e Giovanni Falcone, Cose di cosa nostra, Milano,

Rizzoli, 1991, anche in edizione economica BUR (Milano, 1993) e in

edizione annotata per le scuole (Bompiani, 19..)

E' il libro ideale per iniziare delle letture sulla mafia. E' composto di una

lunga intervista che M. Padovani, una giornalista francese, ha fatto al

giudice Falcone poco tempo prima della sua morte. Viene considerato

come il testamento politico e culturale del coraggioso magistrato

siciliano.

Il quadro di Cosa Nostra negli anni Settanta e Ottanta è delineato con

straordinaria lucidità, e con benemerita facilità di lettura.

Antonino Caponnetto, I miei giorni a Palermo, Milano, Garzanti, 1993.

Scritto da un magistrato di prima linea, racconta, con un equilibrio

davvero sorprendente per chi è così direttamente coinvolto nei fatti,

l'esperienza vissuta a fianco di Falcone e Borsellino, nel ruolo di Capo

dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.

Il libro arriva fino alle stragi di Capaci e di via D'Amelio e le pagine sui

funerali di Borsellino sono così vive da risultare strazianti anche per il

lettore più indifferente.

Sul fenomeno mafioso, in specie nei suoi aspetti più recenti, abbiamo

inoltre ricavato le seguenti indicazioni bibliografiche :

Nando Dalla Chiesa, Storie di boss ministri tribunali giornali

intellettuali, Torino, Einaudi, 1990

Nando Dalla Chiesa, Il giudice ragazzino, Torino, Einaudi, 1992

Corrado Stajano, Un eroe borghese, Torino, Einaudi, 1991

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Marco Bettini, Pentito. Una storia di mafia, Torino, Bollati Boringhieri,

1994

Pino Arlacchi, Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella vita del

grande pentito Antonino Calderone, Milano, Mondadori, 1992, ora

anche in edizione economica Oscar Mondadori, 1994

Salvatore Lupo, Storia della mafia, Roma, Donzelli, 1994.

Si tratta del volume più completo e documentato sulla storia della mafia

dall'Unità d'Italia ad oggi. E un po' arduo da leggere, ma è sicuramente

prezioso per chi voglia davvero approfondire l'argomento: con impegno,

ma con notevole soddisfazione.

I giovani e la mafia

Il reclutamento dei giovani è fondamentale per il potere della

famiglia.Tutti i capi vogliono famiglie grandi,con tanti soldati giovani e

attivi.Anche i soldati anziani sono importanti,perché hanno relazioni

con le vecchie personalità del luogo,conoscono molta gente influente

nella mafia e fuori,hanno esperienza delle cose di Cosa Nostra.Ma il

ruolo principale ,a livello dei soldati è dei giovani.Sono loro che

producono,che rappresentano la forza d’urto sulla base della quale viene

valutata la potenza di una data famiglia.E’ per questo che bisogna stare

molto attenti a non strafare e non farne entrare in famiglia troppi in una

volta,a non fare sbagli mettendosi dentro persone

inaffidabili,insicure,per amore di potenza e di grandezza.

I giovani uomini d’onore sono preziosi perché sono più forti e più svegli

dei vecchi,ma sono irrequieti,tendono a non rispettare la disciplina e la

gerarchia,e devono essere governanti con mano ferma.L’obbedienza agli

ordini è tutto in famiglia:Il capodecina è importantissimo,proprio per

questa ragione,perché da lui dipendono i soldati e le azioni più

rischiose.Il capodecina deve essere un conoscitore di uomini.Deve

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capire come usare i soldati che sono a sua disposizione:se Tizio non è

capace di fare un omicidio,allora gli si fa rubare un automobile o

un’arma….oppure gli si fa sparare alle gambe a qualcuno,lo si manda a

vendere merce rubata o di contrabbando.Si cerca di valorizzare le

tendenze e le qualità di ognuno.

La Sacra Corona Unita

La fondazione risale al 1983,la quale s’ispira al modello di ‘nadregheta

calabrese.IL nome Sacra Corona viene intesa quella del rosario,e la

regione in cui si sviluppò di più fu la Puglia dove fin a quell’epoca non

aveva conosciuto questa forma criminalità.

La Sacra Corona unita viene definita quarta mafia,e le sue attività

principali si basano sul racket,gioco d’azzardo,contrabbando di sigarette

e stupefacenti.

Durante l’immigrazione albanese,avuta recentemente nel nostro paese

ha permesso alla delinquenza pugliese di unirsi alla malavita albanese,la

quale importa grandi quantità di eroina,hashish e marijuana.

Anche per la sacra Corona Unita i peggiori nemici sono i “pentiti”,con i

quali si è concluso nel 1991 un maxiproccesso con pene durissime da

scontare. Si teme però che la Puglia diventerà presto un specie di mercato di droga e che il risveglio della quarta mafia sia terribile e che non sia migliore delle altre forme di criminalità.  

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Cassa del Mezzogiorno 1

Cassa del MezzogiornoLa Cassa del Mezzogiorno (Casmez) è stata un ente pubblico italiano creato dal governo di Alcide De Gasperi perfinanziare iniziative industriali tese allo sviluppo economico del meridione d'Italia, allo scopo di colmare il divariocon le regioni settentrionali.

StoriaNata nel 1950 dalla mente del meridionalista Pasquale Saraceno, e alcuni suoi collaboratori quali Menichella,Giordano, Cenzato, Morandi e Novacco, già fondatori della Svimez, la cassa intendeva ricalcare le agenzie disviluppo locale avviate negli Stati Uniti durante il New Deal. Essa subì una profonda modifica nel 1984, conl'istituzione dell'AgenSud, per cessare totalmente la sua attività solo nel 1992.Dall'inizio dell'operatività, nel 1951, sino al 1992 (ultimi dati conosciuti) e sotto il nome sia di Cassa per ilMezzogiorno che AgenSud, ha elargito alle regioni meridionali un totale di 279.763 miliardi di lire, pari a circa 140miliardi di euro[1] . La spesa media annuale è stata di 3,2 miliardi di euro.

RisultatiIl risultato della Cassa è stato discutibile per quanto riguarda l'utilizzo dei capitali pubblici, anche se bisognaconsiderare l'arretratezza del sud del paese nel 1950 rispetto al resto del paese in termini di risorse infrastrutturali ereddito pro capite. Fino agli anni settanta si sono realizzate opere importanti per il sud in particolare per le risorseidriche e viarie, successivamente la politicizzazione degli apparati ha comportato un degrado e una bassa qualitàdella spesa, compresi fenomeni diffusi di illegalità.Nonostante quasi 50 anni di finanziamenti a fondo perduto e investimenti significativi, oggi il divario di ricchezzapermane in termini di PIL pro capite e in termini di produttività. Il reddito pro capite è mediamente il doppio al Nordrispetto al Sud, e i tassi di disoccupazione così come il lavoro nero sono pari al doppio al Sud rispetto che al Nord.Il fallimento parziale delle politiche assistenzialistiche tramite finanziamenti a pioggia non ha giovato alMezzogiorno, né ha giovato l'abolizione improvvisa della Cassa per il Mezzogiorno, con l'avvento della nuovapolitica degli incentivi in chiave europea con il varo della legge 488 del 1992. La nuova legge infatti ha iniziato afunzionare solo nel 1996 determinando una situazione di generale crisi nel Sud che ha coinvolto imprese, enti localie banche.Una valutazione più approfondita degli investimenti nel Sud evidenzia che i fondi investiti in termini di quantità(0,5% del PIL), pur in presenza di una legislazione speciale, sono stati inferiori agli investimenti pubblici realizzatiin via ordinaria negli stessi anni nel Nord del paese (35% del PIL). Questa constatazione tuttavia non vuolegiustificare la bassa qualità della spesa nel Mezzogiorno e la responsabilità della classe politica e dirigenziale.L'obiettivo che si era posto la politica industriale nel 1950 solo in parte è stato raggiunto e questo pone dei dubbi suiparadigmi alla base dello sviluppo che si era ipotizzato. Il tentativo artificioso di impiantare la grande impresa apartecipazione pubblica e i finanziamenti alle imprese del Nord, non hanno innescato alcun circolo virtuoso nellearee in cui sono state insediate, anzi hanno favorito la creazione nel Sud di un semplice mercato di sbocco per laproduzione dell'industria dell'Italia settentrionale o l'acquisto di macchinari usati da altre imprese del nord.Le nuove frontiere per lo sviluppo del Mezzogiorno, che sono oggetto anche della programmazione comunitaria2007-2013, sono la qualità del capitale umano e il rafforzamento del capitale sociale.Per approfondire: Antonio Russo. Governare lo sviluppo locale. Aracne editrice, Roma, 2009. ISBN978-88-548-2638-0.

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Cassa del Mezzogiorno 2

Voci correlate• Mezzogiorno• Meridionalismo

Note[1] Lo Spreco di Gian Antonio Stella, pagina 84

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Fonti e autori delle voci 3

Fonti e autori delle vociCassa del Mezzogiorno  Fonte:: http://it.wikipedia.org/w/index.php?oldid=32048306  Autori:: Chestnut, Dans, Eudigioia, Fedemar, Il conte, Lilja, Luca P, Musso, No2, OpakO92, Paginazero,Rago, RaminusFalcon, Retaggio, Samoano, Saveriocoppola, 23 Modifiche anonime

LicenzaCreative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unportedhttp:/ / creativecommons. org/ licenses/ by-sa/ 3. 0/

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Ricolfi: attenti, il Gattopardo si farà un boccone del federalismo La provocazione Il Sud non ha interesse a cambiare, lo stato di cose gli permette di vivere al di sopra dei suoi mezzi

L a tentazione, per qualcuno, sarà irresistibile: sentirci profumo di dio Po,

ampolle sacre in viaggio dal Monviso al Delta, gonfaloni e folle padane. Il titolo -

e molti, quasi tutti i numeri che in chiave scientifico-liberale rileggono la

«contabilità ufficiale» - potrebbe del resto giustificarlo. Il sacco del Nord: così

Luca Ricolfi ha battezzato il suo ultimo saggio (Guerini e Associati). E per

«sacco» intende proprio quello. Il saccheggio. Dimostrato, confronto dopo

confronto. Lui stesso lo dice senza nascondersi dietro eufemismi: basta, davvero

basta con «i vittimismi del Sud», con «la retorica del divario». Perché non

servono al Mezzogiorno. Perché i nuovi numeri del «sacco» danno ragione al

Nord persino più di quanto spesso si pensi: sono almeno 50 i miliardi che «ogni

anno se ne vanno ingiustificatamente». Perché non è con un' altra retorica -

quella in cui scivola il principio di solidarietà quando «conduce all' opportunismo

e all' irresponsabilità» - che si esce dalla trappola. E però Ricolfi non sarebbe

Ricolfi se non sparigliasse. Lo fa già abbastanza così: lui, il sociologo

dichiaratamente di sinistra ma sempre tanto scomodo da ribadire, anche qui, che

questa di oggi «ha completamente smarrito la bussola», spinge il suo abito

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politically uncorrect al punto da sfornare un testo «adottabile» dalla Lega? Sì, se

ci si ferma alle statistiche lungo cui si snoda questo Saggio sulla giustizia

territoriale, ai numeri e alle formule matematiche che ambiscono a «ricostruire

dalle fondamenta la contabilità nazionale» perché «servono lenti nuove per

guardare l' Italia senza le lacune e le zone cieche della contabilità ufficiale». Solo

che è proprio a fermarsi lì, che scatta l' altra trappola: quella del federalismo. Uno

legge, per dire, le analisi che accompagnano la mappa regione per regione del

«tasso di parassitismo» (per la cronaca: Lombardia sotto il 15 per cento, Sicilia al

45 per cento) e la conclusione è automatica: sì, la risposta è il federalismo. Lo è

pure per Ricolfi. In teoria, però. Nei fatti, dice, quello che servirebbe è «un

federalismo innovativo», uno scenario in cui la politica «si rende conto che l'

unica possibilità che l' Italia ha di fermare il declino» è riconoscere che «il divario

Nord-Sud è solo un divario di produzione, non di consumi e tenore di vita.

Brutalmente: il Mezzogiorno non ha alcun interesse immediato a cambiare uno

stato di cose che gli ha permesso di vivere largamente al di sopra dei propri

mezzi». Musica per la Lega? Di nuovo: in teoria. Nella realtà, è inutile

nascondersi: un federalismo «continuista conviene alla maggior parte del ceto

politico, di destra e di sinistra, che non ha alcun interesse a razionalizzare la

spesa: vorrebbe dire segare il ramo su cui si è seduti». Il che non è solo

improbabile: sarebbe comunque complicato, visto che seguire la strada

«innovativa», anziché «un federalismo mal fatto, pasticciato o di bandiera che

può essere peggio di nessuna riforma» («farebbe solo lievitare la spesa

pubblica»), implicherebbe affrontare «resistenze e tensioni fortissime». Ed è

ovvio: «Non si può semplicemente chiudere i rubinetti. Avremmo le rivolte nelle

piazze, il crollo dell' occupazione, la recrudescenza della criminalità organizzata».

Alibi perfetto perché tutto continui come prima. Strada sicura perché il declino

italiano diventi irreversibile. Non, però, unica strada. È chiaro, dice Ricolfi, che se

per esempio tagliassimo gli 8 miliardi che lo Stato paga ai falsi invalidi la rivolta

non sarebbe indolore: sono sacche parassitarie «e» serbatoi elettorali. Se però

facessimo un baratto virtuoso? «Se per ogni cento falsi invalidi scoperti si

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inaugurasse solennemente un nuovo asilo nido?». Ci sarebbero mamme e papà e

datori di lavoro «grati». Solo che «è difficile pensare» che «le aspirazioni dei

cittadini» possano prevalere sulle «esigenze di autoconservazione del ceto

politico». Per cui, rassegniamoci: «È probabile che il sacco del Nord continui e

con esso il lento declino del Paese». RIPRODUZIONE RISERVATA Il saggio Il

volume di Luca Ricolfi «Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale» è

edito da Guerini e Associati (pp. 271, 23,50)

Polato Raffaella

No alla guerra santa del nord Quando ho iniziato a ricostruire gli squilibri fra le regioni italiane, a

raccogliere le cifre per il mio libro, non mi aspettavo un risultato così

clamoroso: 50,6 miliardi all’anno è una cifra grossa, è l'equivalente di due o

tre finanziarie.

Eppure è questo l'ordine di grandezza del flusso di risorse che,

silenziosamente, ogni anno lascia le regioni del Nord e si dirige

prevalentemente verso il Sud e il Lazio.

Di questi 50 miliardi, 20 sono dovuti al fatto che il resto del Paese è meno

efficiente nell’erogazione dei servizi pubblici; 18 sono dovuti al fatto che il

resto del Paese si permette una maggiore evasione; e 12 sono dovuti al fatto

che nel resto del Paese la spesa pubblica discrezionale è eccessiva. La somma

di queste tre voci fa, appunto, 50 miliardi di euro all’anno, che il Nord

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potrebbe recuperare se ci fosse un po’ più di giustizia territoriale. Scoprire

tutto questo è stato uno choc anche per me, se non altro perché il calcolo che

conduce a questa cifra non è stato condotto ipotizzando un federalismo

fiscale spinto, o radicale, o egoista, bensì immaginando il più solidarista fra

gli infiniti federalismi possibili. Se avessi assunto un modello di federalismo

poco o per niente solidarista il credito del Nord sarebbe risultato ancora

maggiore, circa 80 miliardi all'anno.

E tuttavia attenzione. Ricostruendo i conti di ogni regione italiana, e

facendolo separatamente per l'evasione fiscale, il parassitismo, gli sprechi

nella pubblica amministrazione, non si scopre semplicemente che esiste una

enorme ingiustizia nell’allocazione territoriale delle risorse, una ingiustizia

che penalizza il Nord e avvantaggia (soprattutto) il Sud, ma si scopre che

esistono altre linee di frattura, diverse da quella Nord-Sud, e che Nord e Sud

non sono affatto omogenei al loro interno.

Le regioni autonome, ad esempio, sono meno virtuose delle regioni limitrofe

a statuto ordinario, sia al Nord sia al Sud. Ciò vale in modo particolare per

Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige al Nord, per Sardegna e Sicilia al Sud. Ci

sono poi le differenze interne alle due grandi aree del Paese, il Centro-Nord

e il Sud. Il Centro-Nord ha le sue regioni relativamente viziose, come

Liguria, Umbria e Lazio. E il Sud ha le sue regioni relativamente virtuose,

come la Puglia e l'Abruzzo. Per non parlare delle differenze dentro le singole

regioni, che emergono quando si hanno dati a livello provinciale o

comunale: nella Campania sommersa dai rifiuti c'è anche Salerno, il comune

capoluogo più virtuoso in materia di raccolta differenziata.

Tutto questo non cancella lo squilibrio Nord-Sud, che resta enorme e

certamente va attenuato, sia pure con saggezza e gradualità. Però ci mostra

un lato importante del problema politico del federalismo: se vuole far

strada, il federalismo non può fondarsi sul patriottismo efficientista del

Nord, chiamato a una sorta di guerra santa contro il Sud sprecone. E questo

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non tanto e non solo perché il patriottismo del Nord provocherebbe una

reazione uguale e contraria del Sud, con la nascita di un contro-patriottismo

conservatore e corporativo (il «partito del Sud», di cui ogni tanto si sente

parlare). Ma perché, se l'obiettivo è ristabilire un po’ di giustizia territoriale,

allora non possiamo ignorare che alcuni territori del Nord hanno ancora

molta strada da fare, e alcuni territori del Sud ne hanno già fatta una parte.

Insomma, è vero che il grosso dell'aggiustamento che dovremo mettere in

atto corre lungo la frattura Nord-Sud, ma non si può ignorare che una parte

non trascurabile di esso taglia trasversalmente sia il Nord sia il Sud.

Visto da questa angolatura il problema dei prossimi anni non è di spostare

direttamente, con atto d’imperio, risorse economiche da Sud a Nord, ma è di

costruire un sistema di premi e punizioni che renda conveniente per tutti

diventare più efficienti, più parsimoniosi, più rispettosi dei doveri fiscali.

L'amministratore che razionalizza la spesa ospedaliera, investe nella raccolta

differenziata, combatte il lavoro nero, non può essere trattato come quello

che sperpera il denaro pubblico. I codici etici e gli inviti alla moralità

servono a ben poco: quel che ci vuole - perché può funzionare - è un

meccanismo che renda politicamente remunerative le virtù pubbliche. Ci

vuole una sfida dello Stato centrale agli amministratori locali, una sfida che

li costringa a giocare un nuovo gioco: il gioco della modernizzazione del

Paese.

Se la politica saprà fare questo non ci sarà nessuna spaccatura Nord-Sud, e

vedremo nuove alleanze, convergenze inedite, come è capitato a me qualche

giorno fa in un dibattito radiofonico con il sindaco di Verona Flavio Tosi e il

sindaco di Salerno Vincenzo De Luca. Uno della Lega, l'altro del partito

democratico, uno del Nord, l'altro del Sud, non solo non litigavano fra loro,

ma erano d'accordo su tutto. E sapete perché?

Perché entrambi avevano accettato la sfida, entrambi stavano già provando

a giocare il nuovo gioco.

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Il Sud che poteva essere

di

Gennaro De Crescenzo

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L’ucronia, la storia dei se, è una scienza affascinante perché può rispondere in maniera razionale a molte delle nostre domande legate alla nostra storia.

Che storia avremmo avuto se Ferdinando II di Borbone non fosse morto nel 1859? Quale “risorgimento” ci sarebbe stato se Francesco II fosse andato di persona a difendere la Sicilia nel ’60? Che Sud avremmo avuto se i Borbone avessero governato magari fino ad oggi? Quale cultura e quale economia avrebbe avuto il Regno delle Due Sicilie senza l’invasione piemontese?

Se è certo che dopo l’unificazione italiana fummo costretti ad essere prima briganti e poi

emigranti, è altrettanto certo che i Meridionali, senza le imposizioni piemontesi e senza le violenze fisiche e morali arrivate insieme alle baionette dei bersaglieri, non avrebbero mai iniziato una guerra tanto devastante come quella che in pochi mesi si diffuse in tutto il Regno.

Nella storia del nostro Sud, del resto, per motivazioni di carattere essenzialmente religioso e culturale, raramente i popoli Meridionali avevano impugnato spade, picche o fucili: non a caso questo succede proprio nel 1799 e nel 1860 di fronte, cioè, a due invasioni straniere che stavano minacciando la vita stessa di un popolo anche nei suoi valori più profondi e radicati.

I Meridionali capirono che era necessaria una difesa proprio perché si trovavano contro un nemico che avrebbe condizionato anche la loro storia futura.

Nessun brigante, allora, sarebbe sceso in guerra se i Borbone avessero avuto la possibilità di

governare nel Sud. E briganti sarebbero rimasti quei pochi delinquenti comuni che pure esistevano nel regno borbonico come in tutti gli altri paesi del mondo, in percentuali pari a quelle degli altri Paesi anche italiani e certo non tali da giustificare l’invio di centinaia di migliaia di soldati per oltre dieci anni: basterebbe semplicemente e banalmente questo dato per distruggere le basi di una tesi storiografica molto diffusa presso la cultura ufficiale e accademica secondo la quale il brigantaggio post-unitario continuava una storia iniziata quasi nel periodo medioevale.

E nessun emigrante, probabilmente, avrebbe conosciuto l’America o l’Australia o il Belgio o la

Germania. Prima dell’unificazione italiana nessuno era stato costretto ad emigrare e senza le scelte politiche ed economiche del nuovo governo unitario avremmo continuato a lavorare e a vivere dignitosamente nella nostra terra.

Né briganti né emigranti, dunque, nel Sud che poteva essere e che non è stato. Né briganti né emigranti se riflettiamo magari sui fatti più significativi degli ultimi anni e degli

ultimi mesi di vita del Regno delle Due Sicilie, cercando di capire quali prospettive avrebbe avuto il Sud in uno stato ancora autonomo.

È opportuno prima di tutto indicare alcune linee di sviluppo dell’economia meridionale pre-unitaria.

La risorsa-mare Una delle risorse più ricche di prospettive era e sarebbe stata quella del mare: i Borbone

dimostrarono di aver capito concretamente l’importanza commerciale e strategica del Mediterraneo. Nel 1856 nella sola capitale c’erano 25 compagnie di navigazione; la prima, la più poderosa in Italia, era la Società di navigazione delle Due Sicilie: le navi napoletane toccavano tutti i porti del Mediterraneo, attraversavano l’Atlantico arrivando fino a New York, Boston, fino al Brasile, alla Malesia o all’Oceania1.

«La marina mercantile era capace a gareggiare con gli stessi clippers americani, di tal che gode presentemente di una meritata considerazione e preferenza presso l’estero»2.

L’importanza della risorsa-mare fu sottolineata anche dalla valorizzazione dei porti di Pescara, Vasto, Manfredonia, Trani, Bari, Taranto, Catanzaro, Salerno, Torre del Greco o Pozzuoli.

Tra il 1839 e il 1855 la flotta mercantile aveva esportato merci per circa 89 milioni di

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ducati. Nel giugno del 1854 per la prima volta una nave italiana a vapore, dopo 26 giorni di

navigazione, arrivò a New York: era il piroscafo Sicilia, voluto da Ferdinando II «per il tragitto periodico tra i Reali Dominii e le Americhe [...] spezialmente pel traffico di quelle derrate che in lungo viaggio soggette andrebbero a deteriorarsi»3.

Alcuni anni dopo l’unità d’Italia, lungo la stessa rotta, quelle derrate saranno tragicamente sostituite da milioni di Meridionali costretti ad emigrare.

Numerose erano anche le scuole nautiche come quelle istituite a Castellammare, a Procida, Gaeta, Reggio Calabria, Trapani o Catania.

E che il governo borbonico fosse molto attento alla formazione professionale lo dimostrano

anche la Scuola per macchinisti di Pietrarsa (fondata per liberarsi finalmente dalla dipendenza dai macchinisti inglesi), la Scuola di Arti e Mestieri annessa dal 1856 al Reale Istituto di Incoraggiamento, la Scuola per l’incisione dell’acciaio, annessa dal 1858 alla prestigiosa Zecca di Stato o la Scuola di Mosaici e pietre dure4.

Che tassi di disoccupazione avremmo conosciuto se le industrie avessero continuato a

svilupparsi senza conquiste settentrionali? L’industria e l’agricoltura Quali briganti e quali emigranti avremmo avuto se avessero assecondato lo sviluppo dei

cantieri di Castellammare (il cantiere più grande e moderno d’Europa nel 1860) con i suoi 1800 operai?

A Pietrarsa avevamo la più grande fabbrica metalmeccanica con 1050 operai mentre l’Ansaldo a Genova ne occupava solo 480 e la FIAT non era ancora nata.

E se parlare di agricoltura o di pastifici può sembrare scontato, sembrano meno scontati gli oltre 2000 addetti complessivi delle ferriere di Mongiana in Calabria.

E sembra meno scontata la produzione di locomotive, rotaie, gru, motori o finanche di lavatrici (installate all’interno del Reale Albergo dei Poveri a Napoli e capaci di lavare fino a 1200 camicie al giorno)5.

Pietrarsa: il tabernacolo

Edicola votiva eretta dagli operai dopo la demolizione della cappella dell’opificio. Vi sono collocate le statue dell’Immacolata Concezione, patrona del Regno; di San Gennaro, patrono di Napoli; di San Ciro, patrono di Portici.

Solo nel settore tessile si contavano 1200 fabbriche e 48.000 operai nel Mezzogiorno continentale.

Il settore chimico, farmaceutico e profumiero contava oltre 90 opifici e circa 3000 addetti e quale necessità ci sarebbe stata di partire dalla Calabria se solo Reggio esportava 200.000 libbre di olio di bergamotto ogni anno?

L’antica tradizione dell’industria conciaria regalava al Regno un altro primato: la produzione di 700.000 dozzine di paia di guanti (mentre nel resto dell’Italia se ne producevano solo 100.000).

Tra cultura ed economia, altri due dati oggi ci sembrano particolarmente significativi: solo a Napoli si stampavano il doppio dei libri stampati a Roma e a Firenze e circa 400 erano i titoli pubblicati annualmente nel Regno6.

E che prospettive avrebbe avuto la nostra industria alimentare, una delle nostre vocazioni industriali, con gli oltre 300 pastifici che esportavano in Italia, negli Stati Uniti, in Russia, in Germania, in Austria, in Svezia, in Tunisia, in Turchia o in Brasile?7 Produzione, quella della pasta, che ci valse un primato, insieme alla lavorazione dei coralli, alla Mostra Industriale di Parigi nel 18568.

Chiusero quasi tutte queste fabbriche perché fummo conquistati ed era normale che i

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conquistatori facessero di tutto per chiuderle e per farci diventare una loro colonia. Ed è normale che oggi anche pasta e pomodori vengano dal Nord.

Chiusero perché delle 600 locomotive occorrenti alle ferrovie italiane solo 70 furono ordinate a Pietrarsa. E agli operai della nostra antica fabbrica voluta da Ferdinando II «per affrancarci dal braccio straniero», quando si riunirono nel cortile per protestare contro i licenziamenti, spararono con le baionette: quattro di loro furono ammazzati e sono stati dimenticati anche se sono stati i primi martiri della storia operaia. Chiusero quelle fabbriche, vittime delle 34 nuove tasse del governo di Torino o schiacciate dalle politiche prima liberistiche e poi protezionistiche funzionali solo allo sviluppo delle industrie dell’Italia del Nord9.

Un discorso simile si potrebbe fare per l’agricoltura, risorsa economica di fondamentale

importanza: la produzione agricola era aumentata negli ultimi dieci anni del 120% rispetto al 1750 e dell’80% dal 1830. Questo grazie alla coltivazione di terre prima improduttive o utilizzate come pascolo e per le grandi bonifiche volute da Ferdinando II: un milione di moggia bonificate solo tra il 1820 e il 1859. Uno degli ultimi provvedimenti di Francesco II (1 marzo 1860) era mirato proprio a favorire l’irrigazione e ad eliminare le terre paludose.

A questo proposito qualche studio più approfondito andrebbe fatto in relazione alla gestione e alla valorizzazione del territorio se pensiamo a Sarno, a quello che i Borbone fecero per tutta la valle e a quello che coloro che sono venuti dopo (dai Savoia ai nostri politicanti) non hanno fatto con le conseguenze che tutti, purtroppo, conoscono.

L’amministrazione pubblica Inutile forse citare il pubblico impiego, dai tanti soldati del disciolto esercito regio a quelle

migliaia di impiegati a diversi livelli (18.000 solo a Napoli) che dall’oggi al domani dovettero abbandonare ambasciate, ministeri, amministrazioni centrali e periferiche, la corte, il governo stesso.

E a proposito di prospettive e garanzie dal punto di vista economico, è utile fare qualche riferimento ad un settore del quale il governo borbonico aveva intuito l’importanza: quello dei cosiddetti beni culturali.

Già da tempo Napoli e molte delle città del Regno erano mete obbligate nei tour dei grandi viaggiatori stranieri, e anche per questo fu proprio nella capitale che nacquero le prime agenzie turistiche. La tutela dell’immenso patrimonio storico-artistico-archeologico, però, si legava soprattutto alla sensibilità e alla formazione culturale di chi governava e in questo sono particolarmente significativi alcuni provvedimenti, senza considerare ciò che da Carlo di Borbone in poi era già stato realizzato e conservato. Ferdinando II disciplinò la manutenzione dei monumenti con un Decreto Reale del 16 settembre del 1839: i privati avrebbero realizzato i restauri delle opere d’arte con il permesso del Ministero dell’Interno sentito il parere della Reale Accademia delle Belle Arti. Fu regolamentata l’esportazione degli oggetti antichi e d’arte in maniera molto severa, prescrivendo l’assistenza di un agente di polizia presso gli scavi archeologici. Fu vietato lo spostamento di un qualunque oggetto di interesse storico-artistico dal suo sito di origine10. Nel 1842 fu portato a termine un inventario dei monumenti di Napoli e provinciae nel maggio del 1848 fu riordinato il Real Museo Borbonico «a seconda delle ragioni dei progrediti studii dell’archeologia, della storia e del bello nelle arti»11. Nel 1857 fu finanziato e definito un piano complessivo di restauro di chiese e conventi12.

Lo stesso Francesco II, nel brevissimo tempo che ebbe a disposizione per fare il Re, dimostrò quali potevano essere le prospettive e le linee di sviluppo della politica governativa. Fu creato con lui, ad esempio, un vero e proprio piano regolatore per la città di Napoli che «doveva tenere conto dell’accresciuta popolazione e delle continue e straordinarie richieste di ampie località create dal grande sviluppo delle industrie, del commercio e della navigazione di questa città capitale»13.

Che Sud ci sarebbe stato senza quell’unificazione sbagliata? In questa sintesi troppo breve si è cercato solo di trovare qualche indicazione. Un Sud

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certamente senza briganti e senza emigranti, dove certamente non tutto sarebbe stato perfetto ma un Sud con una precisa identità culturale, religiosa, politica ed economica. Un Sud dove magari industria, agricoltura, commercio o turismo avrebbero avuto un loro sviluppo forse lento ma adeguato alle esigenze del territorio. Un Sud che in una confederazione di Stati italiani sarebbe stato rispettato e avrebbe avuto il ruolo che gli spettava, un Sud rispettato e protagonista anche in Europa e soprattutto nel Mediterraneo.

Se la storia dei se rischia spesso di perdere la sua scientificità, è davanti ai nostri occhi la storia vera, quella che ha portato alla rivolta di un intero popolo per oltre dieci anni, al suo massacro fisico e culturale, alla distruzione della sua economia, alla sua colonizzazione, ad una diaspora che non ha pari nella storia dell’umanità e che non è ancora terminata.

È storia di ieri e di oggi la totale assenza di una classe dirigente veramente legata al Sud: quel rapporto diretto che avevamo con chi ci governava e che spingeva Ferdinando II a dare fino a 50 udienze al giorno lo abbiamo perduto per sempre nel 1860 ed è da allora, forse, che il Sud non è stato più difeso e rappresentato come meritava. La speranza è che anche una vecchia legge o un monumento, una pietra o semplicemente una frase di chi ha amato prima di noi la nostra terra, possano essere utili per chi continua ad amarla ancora oggi.

NOTE 1. 1. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fasci 484, 172, 512

2. 2. Da un discorso del vice-presidente della Camera Consultiva di Commercio, Archivio di Stato di Napoli,

fondo Ministero agricoltura Industria e Commercio, fascio 171.

1. 3. Archivio di Stato di Napoli, Ministero Finanze, fasci 14132; 14149

2. 4. A. Mangone, L’industria del Regno di Napoli, Napoli 1972, pp.21-22

3. 5. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 484

4. 6. Disamina eseguita dal Reale Istituto di Incoraggiamento de’ saggi esposti nella solenne Mostra

Industriale del 30 maggio 1853, Napoli, 1855

5. 7. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero agricoltura Industria e Commercio, fasci 172, 179, 512

6. 8. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fascio 246

7. 9. A. Mangone cit., p.89

8. 10. Collezione delle leggi e de’ decreti Reali del Regno delle Due Sicilie,13 - 14 maggio 1822; 22

settembre 1824; tomo II 1839, n. 5647; tomo I, n. 5218

9. 11. Collezione delle leggi e de’ decreti Reali cit., 1848, tomo I, n. 203

10. 12. Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Affari Ecclesiastici, fascio 3089, fascicolo 7915

11. 13. Collezione delle leggi e de’ decreti Reali cit., 1860, n.676

L’immagine in copertina mostra la statua di Ferdinando II di Borbone, posta sul belvedere delle Officine di Pietrarsa. Realizzata su modello in gesso dello scultore napoletano Pasquale Ricca, con i suoi 4,50 metri di

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altezza é una delle maggiori statue in ghisa fuse in Italia. Fu inaugurata l'11 gennaio 1853.

BORBONICO = aggettivo qualificativo dispregiativo. Sinonimi: retrogrado, farraginoso, paternalistico, corrotto, inefficiente; reazionario. È la sintesi delle definizioni del termine “borbonico” riportate dalla totalità dei dizionari della lingua italiana. Si tratta della ricaduta linguistica di un processo culturale avviato qualche tempo prima dell’unificazione d’Italia, quando la leggenda nera sul Regno delle Due Sicilie e sulla dinastia borbonica fu creata ad arte, per aprire la strada agli eventi militari e politici che avrebbero cambiato al faccia della Penisola. Era necessario costruire un’immagine negativa del Regno per tacitare la reazione internazionale che sarebbe stata suscitata dall’invasione armata. Il Regno delle Due Sicilie, quindi, fu associato alla campagna denigratoria, tanto violenta quanto menzognera, già scatenata in tutta Europa contro lo Stato Pontificio, orchestrata dalla massoneria internazionale e condotta con particolare zelo dall’Inghilterra protestante e dal Piemonte. Fu così che il governo di Ferdinando II divenne “la negazione di Dio” attraverso le lettere di Gladstone, e l’opinione pubblica fu informata sulle “torture” nelle carceri napoletane dai pamphlet di d’Azeglio. La campagna diffamatoria, funzionale all’imminente offensiva risorgimentale, continuò anche dopo l’unificazione allo scopo di cancellare la memoria storica dei Meridionali e convincere le nuove generazioni che prima dell’Italia tutto fosse “pianto e stridor di denti”, nonché per giustificare la ferocia della lotta contro i cosiddetti briganti, ovvero i renitenti al nuovo ordine. Ahinoi, a lungo andare le menzogne tante volte ripetute divennero luoghi comuni e si radicarono nell’immaginario collettivo, fino a far parte della nuova cultura italiana. Ciò che prima era “borbonico” divenne “meridionale” e la leggenda nera non riguardò più una dinastia ma un intero popolo, retrogrado, corrotto, inefficiente. Quello del significato del termine “borbonico”, dunque, è un elemento non marginale ma sostanziale della battaglia culturale per il recupero dell’identità meridionale e va affrontato, come sempre, ripulendolo dalle incrostazioni ideologiche e riportandolo alla verità documentale. In questa direzione va il testo che mettiamo a disposizione dei nostri lettori, esaminando gli aspetti peculiari dell’amministrazione pubblica borbonica. Ne è autrice la prof. Mariolina Spadaro, ricercatrice presso dell’Università Federico II di Napoli, che ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Regno delle Due Sicilie, a partire dall’epoca spagnola.