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PARTE PRIMA SVILUPPO – IDEE – METODI

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PARTE PRIMA

SVILUPPO – IDEE – METODI

Pedon A. - Maeran R.
Psicologia e mondo del lavoro
Queste pagine sono tratte da un volume pubblicato da LED Edizioni Universitarie. Cliccando su questa pagina si accede alla pagina web dedicata al volume.

1. Denominazione e settori della psicologia del lavoro12

131.1. Premessa

1.

DENOMINAZIONEE SETTORI DI INTERVENTODELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO

1.1. PREMESSA

Caratteristica comune ai vari settori della psicologia è di occuparsidelle questioni relative agli esseri umani, questioni che, in genere,riguardano problemi antichi quanto l’uomo e possono interessareun insegnante per lo scarso rendimento dei suoi alunni, un genitoreper l’anoressia mentale della propria figlia, un dirigente per la de-motivazione dei suoi dipendenti, ecc. Gli argomenti di cui si occupala psicologia del lavoro riguardano i problemi dell’uomo al lavoro.L’ottica con cui questa disciplina studia i problemi del lavoratorenon è quella individualista della fine del XIX secolo e dei primi de-cenni del XX; oggi essa considera il lavoratore all’interno del conte-sto psicosociale della relazione uomo-macchina-ambiente. A questoproposito, Nik Chmiel scrive:

La psicologia del lavoro si occupa dei sentimenti delle persone, dei loro at-teggiamenti, delle loro condotte e dei processi sociopsicologici che le so-stengono e delle prestazioni lavorative. Ciò si verifica non in modo a-stratto, pensando all’essere umano in generale, né considerando come do-vrebbe comportarsi seguendo leggi di funzionamento stabili e ubiquitarie,bensì facendo riferimento a contesti sociali e tecnici specifici. Pertantol’approccio usato è per natura interattivo e centrato sulla situazione socialeconcreta. Si considera nello stesso tempo la persona e il suo ambiente divita, operazionalizzando in diversi modi, facendo riferimento, cioè, ai vari

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aspetti che caratterizzano il lavoro, all’ambiente lavorativo, alle interazioninel gruppo di lavoro, alla struttura organizzativa, al sistema di regole socia-li e tecniche, al contesto culturale interno o esterno all’impresa, al sistemadi direzione, ecc. (Chmiel, 1998, pp. 20-21)

La psicologia del lavoro, quindi, può essere compresa correttamentesolo all’interno del più ampio panorama delle discipline psicologi-che e sociali. Per questo, non è esclusivamente una disciplina astrat-ta o teorica; i suoi obiettivi, anzi, sono molto concreti perché tendea migliorare l’efficacia delle prestazioni lavorative, la soddisfazionedelle persone nell’ambiente di lavoro, il successo di una organizza-zione, la salvaguardia della salute fisica e mentale del lavoratore, laspecificazione delle priorità, ecc. Tutto ciò nell’interesse sia dei sog-getti che operano nel mondo del lavoro, sia delle organizzazionistesse.

In psicologia del lavoro si continua a fare ricerca di base e ricer-ca applicata 1, anche se, a livello internazionale, è in corso un am-pio dibattito sullo stato della teoria in psicologia del lavoro. Le criti-che a volte sono severe; affermano che spiegazione e previsione so-no insoddisfacenti, che la ricerca non offre soluzioni adeguate aiproblemi di natura applicata, e così via. Si tratta delle stesse criticherivolte alla psicologia in generale 2.

Entrare in questa controversia con un atteggiamento di severacondanna o di assoluzione totale, evitando di cogliere le differenzeo di individuare e circoscrivere i nodi problematici che devono es-sere affrontati e risolti da tale disciplina, è poco proficuo.

1 Si noti che questa distinzione è spesso assai criticata. Già nel 1917, nellaPrefazione del «Journal of Applied Psychology», Münsterberg scriveva che lo psi-cologo ha intuito che, nel suo ambito, la vecchia distinzione tra scienza pura edapplicata sta perdendo sempre più significato, e sta iniziando a comprendere chequest’ultima non può più essere relegata a svolgere un ruolo minore.

2 Per un approfondimento di queste discussioni, si vedano, fra gli altri: J. Cu-rie, Métier du psychologue et recherche scientifique, «Psychologie et Education» 6,4 (1982), pp. 3-14; P. Gréco, L’épistémologie de la psychologie, in J. Piaget, Logiqueet connaissance scientifique, Paris, Gallimar («La Pléeiade»), 1973, pp. 927-991;G.B. Vicario, Psicologia generale, Padova, Cleup, 1988, pp. 43-47.

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1.2. DENOMINAZIONE

Nonostante il secolo di vita della disciplina, l’espressione psicologiadel lavoro è relativamente recente, perché è venuta a sostituire, al-meno nei Paesi europei, quella di psicologia industriale, che appar-ve per la prima volta nel 1904 in un articolo di Bryan come un erroretipografico al posto di psicologia individuale. Poiché in tale pub-blicazione si parlava della possibilità di rafforzare le potenzialità deitelegrafisti nella trasmissione e ricezione dei messaggi in codice Mor-se, l’errore venne in parte accettato.

L’espressione psicologia del lavoro 3 è perfettamente giustificatase si concepisce il lavoro eseguito dall’uomo come un comporta-mento. L’accostamento dei termini lavoro e comportamento ha in-dotto molti autori a preferire questa denominazione a quella di psi-cologia industriale, anche perché quest’ultima, sul piano formale,forse non è ben indovinata. Infatti non è la psicologia che possiedeil carattere industriale, ma il suo oggetto: il lavoro. In effetti, nelmondo anglosassone, poiché la dizione psicologia industriale puòessere intesa con un significato troppo restrittivo, cioè riferita aduna sola forma di lavoro, quella svolta nell’industria, ci si sforza diindicare il campo da essa ricoperto. Così, Tiffin e McCormick (19725)scrivono che nel loro libro intendono usare l’espressione «psicologiaindustriale» in un senso molto più ampio, includendovi tutti gli a-spetti della produzione e dell’uso dei beni e dei pubblici servizi del-l’economia.

Praticamente includeremo dunque il comportamento umano in tutti i set-tori dell’«attività industriale», che comprende la fabbricazione, il trasporto,le comunicazioni, l’agricoltura, l’estrazione dei minerali, i servizi pubblicidi ogni genere, le istituzioni, il commercio, l’amministrazione dello Stato(compreso il servizio militare) e altri. Inoltre vorremmo includere il com-portamento umano nell’uso di questi beni e servizi, in altre parole il com-portamento delle persone quando agiscono come consumatori di beni e diservizi. (Tiffin - McCormick, 19725, p. 11)

3 In Italia, in un convegno tenutosi a Firenze nel 1951, Marzi propose di u-tilizzare la dizione psicologia del lavoro in luogo di psicologia industriale.

1.2. Denominazione

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Intorno agli anni ’50 del secolo XX, per indicare la psicologia del la-voro, nella letteratura anglosassone entrò sempre più frequentementein uso l’espressione occupational psychology, che negli Stati Unitiera riferita soltanto allo studio dell’orientamento professionale, men-tre in Inghilterra ad una psicologia che, oltre al lavoro industriale eall’orientamento professionale, si occupava anche di altri aspettidella vita lavorativa.

A partire dagli anni ’60, nei paesi di lingua inglese andò semprepiù diffondendosi l’espressione Work and Organizational Psycholo-gy, che indica sia la tradizionale psicologia del lavoro sia la prorom-pente attività di studio sulle organizzazioni. In Italia ed in Francia,invece, l’espressione psicologia delle organizzazioni indica gli a-spetti specifici del mondo dell’organizzazione, sebbene molti di essisiano studiati anche in psicologia del lavoro. La differenziazione trapsicologia del lavoro e psicologia delle organizzazioni ha originedall’approccio adottato dagli studiosi. A questo proposito, Depolo eSarchielli scrivono:

Uno sviluppo della psicologia del lavoro centrato su un approccio clinico-medico-ergonomico non si integra dunque facilmente con ciò che chia-miamo oggi psicologia dell’organizzazione. Dove questo tipo di svilupposi è verificato (come in Italia o in Francia), i due campi si stanno sviluppan-do con una certa autonomia reciproca; laddove invece questa tradizionemedico-ergonomica è stata meno forte (come negli Stati Uniti), l’integra-zione tra psicologia del lavoro e psicologia organizzativa è assai più netta edà luogo, per l’appunto, alla Work and Organizational Psychology. (Depo-lo - Sarchielli, 1991, p. 15)

1.3. AREE D’INTERVENTO DELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO

Delineare i tratti essenziali delle diverse aree di studio e di interven-to della psicologia del lavoro non è cosa semplice; il motivo delladifficoltà sta nella quantità di problemi connessi e nelle differentiposizioni legate alla diversità delle teorie accolte. Qui di seguitopresentiamo schematicamente le aree storiche più rinomate.

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1.3.1. La selezione

La prima in ordine di tempo, e grazie alla quale si è venuta de-finendo anche l’immagine dello psicologo del lavoro, è quella dellaselezione del personale. Si tratta di un’attività di lavoro e di ricercainerente alla gestione delle risorse umane che ha sempre goduto diun certo credito presso il mondo imprenditoriale. Ha stimolato losviluppo di metodi assai sofisticati di selezione, spesso divenuti ber-saglio di critiche e oggetto di discussioni scientifiche, politiche, deon-tologiche che hanno contribuito a definirne i limiti sia sul piano teo-rico che su quello operativo.

La selezione comporta un’operazione decisionale che presup-pone un accertamento qualitativo sugli aspiranti a un mestiere o auna professione. Tali decisioni si basano su fattori sia soggettivi cheoggettivi. I fattori soggettivi sono legati al candidato: l’interesse, leinclinazioni, le attitudini e il prestigio sociale; sono caratterizzatidalla predilezione per una determinata attività professionale e dallasua rilevanza sociale, a prescindere dagli aspetti economici che nepossono derivare. I fattori obiettivi sono la sicurezza sociale, le pos-sibilità economiche e di carriera: salario, stipendio, opportunità di a-vanzamento.

Dal punto di vista di una organizzazione, la selezione costituisceun momento di rilievo in quanto mira a individuare le persone me-glio qualificate e più produttive (selezione dei migliori) e a elimina-re di conseguenza le inadatte (selezione negativa); dal punto di vistadei candidati, la selezione offre l’opportunità e le indicazioni perorientarsi verso l’occupazione più soddisfacente, più gratificante emeglio adatta alle loro caratteristiche di personalità.

Il processo di selezione deve essere preceduto da un’attenta jobanalysis, che permetterà di delineare le caratteristiche, le abilità e leconoscenze che un nuovo assunto deve avere per essere considera-to idoneo a svolgere un determinato tipo di lavoro (costruzione delprofilo del candidato ideale). Nel primo stadio di selezione si effet-tua lo screening dei curricula ricevuti, valutando l’idoneità dei sog-getti sulla base del profilo precedentemente stabilito. La fase succes-siva consiste nell’adottare i metodi più efficaci per individuare lepersone da inserire nell’organizzazione. Generalmente gli strumentiutilizzati sono di due tipi: i test e le interviste.

1.3. Aree d’intervento della psicologia del lavoro

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I test consentono di ottenere dati che permettono una buona ca-pacità di previsione circa il comportamento lavorativo futuro. Devo-no, però, soddisfare determinate condizioni di validità e affidabilità 4.Fino ad alcuni decenni fa, in alcune aziende era presente la figuradel testista, ossia di colui che si occupava esclusivamente della scel-ta, applicazione e valutazione dei test psicologici. Questo ruolo oggiè scomparso, anche se l’applicazione dei test richiede operatori com-petenti, specializzati e abilitati.

Per la selezione, attualmente si fa sempre più ricorso alla tecnicadegli Assessment Centre (A.C.), il cui scopo è di capire che cosa lepersone sono in grado di fare e come potranno poi affrontare il la-voro. L’A.C. è un setting consigliato soprattutto quando si vuole se-lezionare candidati destinati a posti dirigenziali; le persone parteci-pano a gruppi di discussione (role playing, discussione di casi, ecc.);svolgono, quindi, delle esercitazioni che presentano una forte ana-logia con quanto dovrà essere realizzato nel contesto lavorativo. Inquesto contesto entra con tutta la sua rilevanza il metodo delle inter-viste, che ha lo scopo di integrare, approfondire e ampliare le infor-mazioni sul candidato raccolte con gli altri strumenti.

1.3.2. L’orientamento professionale

È il secondo settore che si è sviluppato, come il precedente, già agliinizi della psicologia del lavoro. Ne fanno fede i primi congressi dipsicotecnica dedicati all’orientamento e le numerose pubblicazionifocalizzate sul rapporto tra attitudini e riuscita professionale. All’ini-zio del ’900 furono i paesi industrializzati, in particolare Stati Uniti,Inghilterra e Francia, a prendere in considerazione l’orientamentocome problema di interesse collettivo finalizzato a indirizzare i gio-vani nella scelta di un lavoro che fosse nello stesso tempo rispon-dente alle loro attitudini e produttivo per il sistema economico. Intale contesto, sia la fisiologia che la psicologia elaborarono strumen-

4 Per validità si intende che il test misuri realmente ciò che si vuole misurare,mentre l’affidabilità riguarda la coerenza interna, il grado di concordanza tra duemisure distinte e la stabilità di tale misura nel tempo o nell’ambito di popolazionidifferenti.

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ti e conoscenze partendo dall’assunzione contenuta nel motto «l’uo-mo giusto al posto giusto» (Lave, 1929); pertanto, la funzione del-l’orientamento non è solo quella di tener conto del bisogno dell’in-dividuo di realizzarsi nel lavoro, ma anche di ottenere maggiori pro-fitti impiegando in modo più razionale e produttivo la forza lavoro.

Nata convenzionalmente nel 1909 con la pubblicazione del vo-lume di Parsons Choosing a vocation, l’area dell’orientamento pro-fessionale e scolastico ha avuto numerosi cultori tra i primi psicologidel lavoro italiani. Da ricordare, fra gli altri, Guido Della Valle 5 chestudiò il rapporto tra attitudini e riuscita professionale. Analogo in-teresse per questo terreno di ricerca e di applicazione si manifestòpure in altri Paesi europei. Così nel 1920 Edouard Claparède e LeonWalther fondavano a Ginevra il Consiglio Internazionale di Psicotec-nologia, successivamente denominato Association International dePsychotecnique.

Un primo fondamento scientifico dell’orientamento professiona-le è dato dalla psicofisiologia (Ancona, 1960), in cui si ricercano lecoincidenze tra le attitudini dell’individuo e i requisiti professionalinecessari per svolgere uno specifico lavoro. Questa fase, definitadiagnostico attitudinale 6, si sviluppò dopo l’introduzione dei meto-di dell’analisi fattoriale, che portarono alla costruzione di batterie at-titudinali multiple, mediante le quali era possibile individuare, clas-sificare e definire le diverse capacità.

Verso gli anni ’30, la fase diagnostico-attitudinale fu progressiva-mente sostituita da quella caratterologico-affettiva, che poneva l’ac-cento sul concetto di interesse, considerato come variabile psicolo-gica fondamentale per l’adattamento dell’uomo al lavoro. Il concettodi attitudine fu messo in crisi dai risultati di alcune ricerche empiri-che sul rendimento lavorativo che evidenziarono come la riuscita la-vorativa fosse migliore nelle persone con più alto grado di interessea parità di attitudini. Un interesse elevato, inoltre, è in grado di com-pensare l’eventuale mancanza di specifiche attitudini.

Il concetto di interesse fu oggetto di discussioni volte tutte a de-finirlo in modo più concreto e valido da un punto di vista operativo(importante il contributo dato dai metodi psicometrici). Tra gli stru-

5 G. Della Valle, Le leggi del lavoro mentale, Torino, Paravia, 1910.6 Fra i tanti studiosi, ricordiamo Viglietti (1981).

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menti messi a punto per determinare gli interessi ricordiamo l’inven-tario degli interessi professionali Vocational Interest Blank di Strong(1943), e il Kuder Preference Vocational di Kuder (1954-1956), cheprendono in esame aree generali di attività in modo da classificaregli interessi in categorie 7.

In seguito, l’orientamento non fu più inteso come momento a séstante, ma come processo che avrebbe avuto più significato se inse-rito all’interno della dinamica della personalità. A questo proposito,Pombeni scrive:

La filosofia dell’uomo giusto al posto giusto che aveva caratterizzato la fasepsicoattitudinale e psicometrica lascia il posto all’idea che il lavoro devesoddisfare i bisogni dell’uomo; sarà il presupposto concettuale che caratte-rizzerà tutta la fase clinica o dinamica dell’orientamento (1945-60) e chetroverà nella psicoanalisi il più grosso contributo scientifico. (Pombeni,1990)

In questa fase va inserito il contributo di Gemelli, che fu un entusia-sta promotore dell’orientamento nel nostro Paese. Gemelli indicòcome fattore fondamentale dell’orientamento le inclinazioni e nongli interessi, poiché le inclinazioni costituiscono l’espressione deibisogni profondi della personalità umana, e non può esserci riuscitaprofessionale senza la corrispondenza tra lavoro svolto e inclinazio-ni (Gemelli, 1960). L’interesse indica una preferenza globale per unaprofessione, mentre l’inclinazione una disposizione specifica versoun ambito più vasto di attività; l’interesse è originato da fattori ester-ni alla personalità del soggetto (ad esempio il contesto ambientale),mentre l’inclinazione trova la propria motivazione nei meccanismiinconsci; gli interessi si manifestano in fase adolescenziale e posso-no variare nel tempo, mentre le inclinazioni sono espressione tipicadella maturità della persona e, quindi, sono più stabili. Per rilevarele inclinazioni è necessario ricorrere ai colloqui clinici o a reattiviproiettivi.

Gli anni ’70 segnano un ulteriore salto di qualità, forse anchesotto la spinta dell’evoluzione del sistema economico-produttivo(processo di deindustrializzazione, avvento di nuove tecnologie). In

7 Si ricorda che questi due test, sebbene siano abbastanza datati, sono anco-ra oggi sottoposti a ricerche, miglioramenti e revisioni.

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questo contesto, in cui le esperienze formative e lavorative si con-notano sempre più come processi di transizione, l’orientamentopassa dalla selezione all’educazione alla scelta.

Orientare significa porre l’individuo in grado di prendere coscienza di sé edi progredire per l’adeguamento dei suoi studi e della sua professione allemutevoli esperienze della vita con il duplice obiettivo di contribuire al pro-gredire della società e di raggiungere il pieno sviluppo della persona. (Se-minario UNESCO, Bratislava, 1970, in Pombeni, 1990, p. 26)

L’individuo diviene l’agente principale, il protagonista del proprioprocesso di orientamento, processo continuo ed evolutivo.

Attualmente, due sono i quadri teorici di riferimento per quantioperano nell’attività di orientamento: gli studi di Super (1953; 1957)con la psicologia vocazionale e il filone di ricerche legato al temadella socializzazione al lavoro (Sarchielli, 1978; De Carlo, 2001) 8.

1.3.3. La formazione

Un altro settore della psicologia del lavoro è quello relativo alla for-mazione. Si tratta di un’area che ha acquistato un ruolo importantenel mondo del lavoro e delle organizzazioni in quanto costituisce ilmomento di trasmissione e di acquisizione del sapere tecnico-pro-fessionale. Il termine formazione è relativamente recente e provienedalla cultura del mondo produttivo. Esso sta ad indicare un’azioneintenzionale e programmata di cambiamento, mediante interventiche accrescono le competenze degli utenti; cioè indica tutto un pro-cedimento complesso che comprende le fasi di educazione, istru-zione e addestramento 9.

Il processo formativo si articola nelle seguenti tappe: identifica-zione di bisogni formativi 10, definizione degli obiettivi, sviluppo dei

8 L’argomento verrà approfondito nel capitolo sesto.9 Cfr. fra gli altri C. Kaneklin - G. Scaratti, Formazione e narrazione, Milano,

Raffaello Cortina, 1998.10 Il successo di un intervento di formazione deriva dall’accurata analisi dei

bisogni formativi che sono presenti nelle organizzazioni. Per identificare tali biso-gni è necessario focalizzare l’attenzione sui tre livelli dell’organizzazione, ossia l’in-

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metodi e dei materiali formativi, realizzazione del programma, valu-tazione dei risultati.

Questo processo è influenzato dai vincoli o dalle opportunitàproprie di ogni specifica organizzazione. Pertanto, i bisogni formati-vi non possono essere identificati in modo astratto, poiché derivanodai bisogni dell’organizzazione e dal suo livello di efficienza; cosìl’analisi del compito deve tener conto del background di conoscen-ze ed abilità dei lavoratori. Gli obiettivi non possono essere intesicome aspirazioni generali di sviluppo personale, ma devono essereespressi in modo concreto e misurabile, dato che scopi specifici a-gevolano sia l’apprendimento che la prestazione (Latham - Stelee -Saari, 1982). Infine, obiettivo dei programmi formativi è quello di fa-cilitare l’apprendimento di conoscenze e capacità che possono esse-re immediatamente trasferibili nella situazione lavorativa.

Dal punto di vista teorico, l’attività di formazione si rifà alle teo-rie psicologiche sull’apprendimento lavorativo, che possono esseredistinte in due approcci:• Approccio comportamentista: risale agli studi sul condizionamen-

to strumentale oltre che operante e alla teoria dell’apprendimentosociale di Bandura (1977). Punto centrale di tale approccio è chedifferenti tipi di stimolo possono condizionare il comportamentoche viene appreso e mantenuto mediante adeguati rinforzi, l’osser-vazione e l’imitazione delle altre persone. I programmi di trainingche si rifanno a questo approccio utilizzano differenti tecniche dirinforzo e di modellamento (ad esempio, la rappresentazione disequenze di comportamenti videoregistrati).

• Approccio cognitivo: si basa sugli studi relativi all’acquisizione dicapacità e conoscenze in relazione a differenti tipi di esperienzedi apprendimento e al loro grado di trasferibilità in ambito lavora-

dividuo, il compito e l’organizzazione stessa. L’analisi dell’organizzazione com-porta l’individuazione dei diversi ambiti che richiedono specifiche azioni formati-ve, considerati gli obiettivi a breve o a lungo termine fissati dall’organizzazione; sideve tener conto del rapporto costi-benefici del progetto formativo e del grado dicoinvolgimento da parte dei lavoratori. A livello del compito verranno, invece,messe in luce le conoscenze, le abilità e le skills che sono necessarie ai lavoratoriper svolgere determinati compiti. Si utilizzano, pertanto, le tecniche di job analysis.A livello della persona si concentra l’attenzione sulle caratteristiche degli indivi-dui e dei gruppi presenti nell’organizzazione.

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tivo. I programmi di training si avvalgono della distinzione tra o-peratore novizio ed esperto per rilevare le differenze nel modo diorganizzare la conoscenza e di trasferirla nei diversi contesti d’uso.Tengono conto anche del livello di comprensione necessario peraffrontare i problemi che oggi sono presenti con frequenza sem-pre maggiore in ambienti lavorativi complessi e ad alto grado ditecnologia.

La valutazione dell’intervento formativo non è una pratica moltodiffusa nei contesti organizzativi; spesso ci si limita a rilevare le im-pressioni, le reazioni immediate che vengono espresse dopo la par-tecipazione ad uno specifico corso. Sottovalutare l’importanza diquesta fase può apparire quasi paradossale se pensiamo ai costi ele-vati che un intervento formativo comporta anche in termini di tem-po sottratto all’attività lavorativa. Una corretta valutazione è funzio-ne dell’analisi dei bisogni formativi, dato che questi rappresentano ilmetro con cui confrontare gli effetti del training. Per valutare i risul-tati della formazione, le misure principali si basano sulle valutazionidei formandi – comprese quelle relative alla soddisfazione dell’e-sperienza formativa –, sulla percezione del valore di tale esperienza,sul riconoscimento di quanto appreso, sulla trasferibilità delle cono-scenze assimilate nei contesti pratici, sul conseguimento di obiettiviorganizzativi come l’aumento della produttività o il miglioramentodella qualità. Per Quaglino (1985, pp. 23-29)

la formazione deve essere pensata e realizzata in termini di processo: loschema nelle quattro tappe dell’analisi dei bisogni, della progettazione,dell’azione formativa, della valutazione dei risultati è noto […] la formazio-ne condivide un significato ed un orientamento strategico […] la formazio-ne richiede tecnologia ed espressione di valori, la formazione va orientatasecondo la configurazione della complessità […]. Dunque formazione co-me processo, orientamento strategico, tecnologia ed espressione dei valorirappresentano le condizioni vincolanti ogni attività formativa al pieno rag-giungimento delle finalità individuate dal legame tra apprendimento indi-viduale e cambiamento organizzativo.

La richiesta di formazione continua ad essere sempre molto elevata.Anzi, si può dire con Gian Piero Quaglino che

in questi ultimi anni il fenomeno formazione sembra vivere una nuova fasedi espansione e diffusione rilevante se confrontata con gli anni «eroici» che

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si collocano tra il 1969 e il 1973 e con il successivo periodo di assestamen-to tra il 1974 e il 1978. Espansione che si caratterizza soprattutto in riferi-mento ad una domanda crescente e al tempo stesso sempre più consape-vole delle esigenze che esprime: diffusione che si concretizza in particola-re nel coinvolgimento di nuovi territori organizzativi sulle problematichedella preparazione professionale di quanti in essi operano e agiscono. Ac-canto al mondo per così dire tradizionale delle aziende, si tratta di banche,enti pubblici, imprese di vario tipo. 11

1.3.4. Sicurezza e infortuni sul lavoro

Si tratta di un’area che ha destato ben presto l’interesse degli psico-logi del lavoro. Gli studiosi che si sono interessati al fenomeno han-no attribuito gli infortuni inizialmente allo strumento o al materialeusato nell’attività lavorativa, successivamente a cause di predisposi-zione soggettiva.

Le trasformazioni tecnologiche attuate in ambito lavorativo com-portano nuove richieste agli operatori, soprattutto di tipo cognitivo.Gli incidenti sul lavoro ogni anno fanno registrare un bilancio moltopesante; il problema diviene, quindi, lo studio delle cause di tali in-cidenti. Brown (1990) sostiene che per valutare la sicurezza di un si-stema sociotecnico in condizioni operative è necessario poter con-tare su una descrizione dettagliata degli incidenti. Per Brown un in-cidente può essere definito come la «conseguenza non pianificatadi un comportamento improprio» (Chmiel, 1998, p. 121). L’attenzio-ne dovrebbe essere rivolta al tipo di lavoro, alle modalità di compar-sa, al tipo di conseguenze, alle caratteristiche della vittima. In gene-re la documentazione sugli incidenti non considera questi aspetti; siregistrano i resoconti verbali e retrospettivi, legati alla reazione chesi ha verso l’accaduto, piuttosto che analizzare incidenti simili giàaccaduti o errori.

Negli ultimi anni, gli incidenti e gli infortuni in ambito industria-le sono tornati al centro dell’attenzione in vari paesi. In Italia è incorso una ripresa dell’interesse sociale sviluppatasi già negli anni ’60del secolo scorso e culminata verso la fine degli anni ’70 con la crea-

11 G.P. Quaglino, Presentazione, in Quaglino - Carrozzi, 19895, p. 7.

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zione dei servizi di medicina del lavoro. Un decisivo salto di qualitàè stato realizzato con il decreto legislativo 626/94, che recepisce ot-to direttive comunitarie riguardanti la salute e la sicurezza dei lavo-ratori nei luoghi di lavoro. Tale decreto segna una svolta culturale ri-spetto alle metodologie di intervento, perché passa da una logica dicontrollo a quella di partecipazione attiva e collaborazione dellepersone coinvolte, a vario titolo, sia nell’elaborazione che nell’attua-zione delle soluzioni in tema di prevenzione e sicurezza. Inoltre,dopo l’introduzione della legge 626, gli interventi vengono predi-sposti tenendo conto delle caratteristiche specifiche di ogni realtàlavorativa e non più, come accadeva precedentemente, senza consi-derare il contesto organizzativo.

Affrontare le problematiche relative alla sicurezza significa pun-tare l’attenzione sulla relazione che intercorre tra le caratteristicheindividuali e il comportamento sicuro. Due sono le prospettive d’a-nalisi: quella della psicologia cognitiva e quella della psicologia so-ciale.

La psicologia cognitiva focalizza il problema dell’errore umanonella prestazione come funzione delle operazioni di elaborazionementale 12; la psicologia sociale, invece, punta la sua attenzione sul-la personalità, sugli atteggiamenti, sulle percezioni e sulle relazioniin ambito lavorativo.

Più recentemente gli psicologi del lavoro hanno iniziato a inte-ressarsi anche dello stress lavorativo 13. Secondo la definizione diSelye (1936), lo stress è il risultato aspecifico di ogni richiesta, pro-veniente dall’ambiente, nei confronti dell’organismo avente effettimentali o somatici. Sebbene vi sia un’ampia letteratura sugli aspetti

12 Per approfondire questo ambito ricordiamo Reason (1990, p. 208), che divi-de le azioni pericolose in due grandi categorie: le attività non intenzionali e quel-le intenzionali. Tale tassonomia costruita partendo dall’analisi dei diari e degli er-rori quotidiani e sugli studi di casi di disastri tecnologici (ad esempio Cernobyl)ricorda quella costruita da Norman (1988) basandosi sulle osservazioni delle a-zioni quotidiane. La relazione tra errori e incidenti sul lavoro non è ancora statacompletamente chiarita nonostante siano numerosi gli studi condotti anche daprospettive diverse.

13 Tale campo di studio ha inizio con la lettera che Hans Selye scrisse nel1936 alla rivista internazionale «Nature»; infatti egli metteva le basi per la nascitadi un filone di ricerca che oggi annovera più di 160.000 pubblicazioni.

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del compito lavorativo che determinano stress, non vi sono ancoramolti studi in grado di validare la relazione tra situazioni stressantida una parte e incidenti o infortuni sul lavoro dall’altra.

Va, inoltre, tenuto conto che i lavoratori potrebbero non metterein pratica le procedure di sicurezza in quanto non percepiscono osottostimano il rischio associato a certe attività 14. Scarsa attenzione,infatti, è stata prestata allo studio degli atteggiamenti individuali neiconfronti della sicurezza e al grado con cui questi atteggiamenti in-cidono sul comportamento sicuro da mettere in atto sul posto di lavo-ro. Cox e Cox (1991) hanno evidenziato che gli atteggiamenti dei la-voratori verso la sicurezza possono essere strutturati in base ad alcu-ni fattori quali: lo scetticismo personale, che comporta percezioniimprontate al cinismo e tese a svalutare l’importanza della sicurezza;la responsabilità individuale e l’impegno diretto che le persone sen-tono di avere per lavorare in sicurezza; l’immunità personale, che e-sprime la convinzione secondo la quale gli incidenti possono non ri-guardare direttamente la persona ed essere evitati in base all’espe-rienza accumulata e all’expertise personale.

Agli infortuni si può collegare lo studio degli aspetti psicopato-logici del lavoro. La psicopatologia del lavoro esamina, in primoluogo, le reazioni patologiche dell’uomo in situazioni di lavoro; inseconda istanza, si interessa alle conseguenze negative sull’uomo esulla sua vita attribuibili alle condizioni organizzative. In quest’am-bito si studia anche la personalità e non soltanto la psicopatologia.Nei primi anni del ’900 si parlava di propensione all’infortunio, cioèsi riteneva che alcune persone avessero una predisposizione relati-vamente stabile verso gli infortuni (questa concezione provenivadalle analisi degli incidenti condotte nelle fabbriche di munizioni inInghilterra durante la prima guerra mondiale). Tale ipotesi era sug-gestiva in quanto offriva alle imprese una soluzione per ridurre rapi-

14 Per approfondire il tema del rischio, si veda Pidgeon et al. (1992): gli autoridefiniscono il rischio «come una minaccia alle persone e alle cose che hanno perloro un valore». Pertanto, sulle valutazioni di rischio incidono influenze sociali,culturali e politiche che caratterizzano l’ambiente di vita di una persona. Recentistudi sull’industria petrolifera hanno evidenziato percezioni di rischio diverse (intermini di gravità, possibilità di prevenzione …) in gruppi di lavoratori differentiper reparto, anzianità di servizio, ruolo (Mearns - Flin, 1996).

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damente il tasso di infortuni: rimuovere queste persone da determi-nati ruoli lavorativi o licenziarli. Le ricerche condotte negli anni suc-cessivi non confermarono, però, questa ipotesi. Un aspetto dellapersonalità che oggi viene studiato in relazione agli infortuni è il lo-cus of control (Rotter, 1966).

Infine, le ricerche hanno messo in evidenza una elevata relazio-ne tra il successo dei programmi di sicurezza e il clima di sicurezza(Zohar, 1980) presente all’interno delle organizzazioni. Il clima di si-curezza si riferisce alle percezioni che i lavoratori hanno rispetto algrado di impegno che la loro organizzazione manifesta verso i pro-blemi della sicurezza 15. Pertanto, oggi si privilegiano due fattori: lepercezioni dei lavoratori rispetto all’impegno della direzione versola sicurezza e il coinvolgimento dei lavoratori sul tema della sicurez-za (Dedobbeleer - Beland, 1991).

1.3.5. Ergonomia

Il termine ergonomia 16 risale solo al 1949, e la formulazione discipli-nare di quest’area non ha molti decenni. Diversamente, l’applicazio-ne di conoscenze più o meno sistematiche ai problemi posti da unasituazione lavorativa ottimale risulta molto più antica, e assai lungapotrebbe essere la lista dei precursori che hanno contribuito a darnela fisionomia attuale. Ad esempio, Bonaventura, nel 1929, nell’intro-duzione al VII Congresso Nazionale di Psicologia sperimentale ePsicotecnica, affermava che la psicofisiologia del lavoro costituiva la

15 Zohar (1980) ha proposto otto dimensioni del clima di sicurezza: importan-za della sicurezza nei programmi di formazione, atteggiamenti della direzioneverso la sicurezza, tener conto delle condotte sicure per effettuare le promozioni,il ritmo delle richieste e il loro effetto sulla sicurezza, la presenza di un responsa-bile della sicurezza, gli effetti che un comportamento sicuro ha sullo status socia-le del lavoratore, presenza e funzionamento del comitato aziendale per la sicu-rezza.

16 Questo neologismo (dal greco ergon = lavoro, e nomos = legge naturale oregola) viene attribuito allo psicologo inglese Murrell (1965), ma il termine erastato usato già nel 1857 da Jastrzebowki, naturalista polacco, autore di un’operadal titolo Précis d’ergonomie ou de la science du travail basée sur des vérités tiréesdes sciences de la nature.

1.3. Aree d’intervento della psicologia del lavoro

1. Denominazione e settori della psicologia del lavoro28

base storica e scientifica di ogni psicotecnica e che intorno ad essasi potevano organizzare i contributi della sociologia, dell’economia,della politica, della pedagogia, della medicina, della biochimica: «Viè la tendenza a riunire tutti gli apporti di quelle varie discipline percostruire la scienza del lavoro, la ergologia come dicono già alcuni»(Avallone, 1994, p. 75).

L’ergonomia studia prevalentemente gli aspetti psicologici deisistemi di lavorazione: le relazioni tra l’uomo e il suo ambiente lavo-rativo, la razionalizzazione degli strumenti di lavoro, ecc., ricorren-do all’apporto scientifico di diverse discipline, come l’ingegneria, lamedicina del lavoro, la fisiologia, la sociologia, la psicofisiologia, ol-tre s’intende alla psicologia. Pertanto, l’obiettivo unificante dell’er-gonomia è sempre stato quello di studiare il lavoro, le sue trasfor-mazioni e le modalità reali di funzionamento del lavoratore, comepure di offrire soluzioni tecniche capaci di rendere meno costrittival’attività concreta. Questo si è verificato sia con l’«ergonomia classi-ca», centrata sulle caratteristiche del posto di lavoro, sia con l’«er-gonomia dei sistemi», orientata allo studio delle comunicazioni uo-mo-macchina, sia con l’«ergonomia degli errori», tesa a sottolinearele compatibilità e le disfunzioni dell’interazione uomo-macchina.

La relazione tra psicologia ed ergonomia – scrive Sarchielli – vaapprofondita

soprattutto considerando la questione del carico mentale che dipende nonsolo dalle richieste del lavoro (come costo dell’attività svolta), ma anchedalle capacità della persona di rispondere in modo adeguato ed economi-co: le condizioni di lavoro a elevata tecnologia esigono una sempre mag-giore elaborazione mentale con effetti sul lavoro tali da richiedere soluzio-ni e dispositivi per ridurre i rischi di fatica e di degrado delle capacità e delbenessere lavorativo. (Sarchielli, 2000, p. 11)

Oggi siamo nella fase denominata ergonomia dei sistemi, che nascedalla svolta dei primi anni ’70, ovvero quando dagli studi di personeisolate, considerate separatamente dal contesto, si è passati all’inte-resse per la relazione che intercorre tra le persone e tra queste el’ambiente circostante. In questa prospettiva vengono presi in consi-derazione gli strumenti usati e i rapporti stretti con gli altri membridel gruppo. Questa fase segna il passaggio da una concezione ato-mistica del lavoro ad una di tipo relazionale. Si abbandona la meta-

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fora dell’adattamento dell’uomo alla macchina a favore di una con-cezione preventiva. La svolta degli anni ’70 ha tratto origine da dueprocessi di cambiamento: l’oggetto dell’ergonomia, cioè il lavoroumano, e gli strumenti. Il lavoro quasi non comporta più, nelle so-cietà avanzate, fatica muscolare ma richiede all’operatore funzionidi controllo.

1.3.6. Psicologia dell’organizzazione

Si tratta del settore più recente della psicologia applicata e che nu-merosi studiosi (specie in Italia e in Francia) vedono distinto dallapsicologia del lavoro perché non mutua il proprio punto di vista daun quadro di riferimento di tipo clinico-medico-ergonomico, comeè stato detto sopra. La psicologia dell’organizzazione indaga i trerapporti basilari che si possono osservare in ogni organizzazione(fabbriche, uffici, società). Il primo rapporto è quello che intercorretra l’individuo e gli incarichi a lui affidati; il secondo riguarda la rela-zione tra individuo e il suo ambiente sociale circostante (superiori,colleghi e subordinati); infine, il terzo rapporto si riferisce alla rela-zione tra l’individuo e la struttura formale dell’organizzazione. Lapsicologia dell’organizzazione si interessa dei fenomeni, delle con-dizioni e degli effetti di questi rapporti sulla vita e sul comportamen-to delle persone inserite nelle organizzazioni. Infine essa studia lapossibilità di mutamento di tali rapporti con l’obiettivo di renderepiù «umana» la vita del lavoro.

In questo momento storico, le organizzazioni sentono la neces-sità di dotarsi di una struttura gerarchica più snella, la quale peròtende a mettere in crisi i modelli di leadership e di membership o-rientati ai paradigmi di razionalità. Un altro aspetto importante con-siste nel prestare attenzione alla relazione tra dimensione macro emicro, cioè alla distanza tra ciò che è dichiarato e ciò che in realtàviene attuato.

La psicologia delle organizzazioni ha focalizzato il proprio og-getto di studio a livello micro, sviluppando interventi sui processimicrosociali nell’organizzazione. L’attenzione è rivolta ai processiorganizzativi, alla cultura, alle persone inserite in gruppi di lavoro. Aquesto proposito sono state proposte delle metafore che, descriven-

1.3. Aree d’intervento della psicologia del lavoro

1. Denominazione e settori della psicologia del lavoro30

do l’organizzazione, ci consentono di percorrere le tappe dello svi-luppo di questo settore di studio.

Una delle prime metafore ci presenta l’organizzazione comemacchina o orologio: considera l’organizzazione come determinataa priori e indipendentemente dai suoi membri, pianificata secondoun modello ideale e astratto. In quest’ottica, l’individuo è inteso co-me l’elemento di un ingranaggio a cui deve adattarsi rapidamenteper non essere sostituito. Metafora dell’organismo: l’organizzazioneè vista come un sistema che immette input dall’esterno, li trasforma,li emette come prodotti. In questo caso l’elemento centrale è datodal contesto mutevole e turbolento al quale l’organizzazione deveessere in grado di adattarsi per sopravvivere. In questa metafora sisottolinea l’importanza della flessibilità organizzativa e della capaci-tà di adattamento dei suoi membri. Anche in questa concezione ilcriterio della razionalità è predominante. Metafora del computer:l’attenzione è focalizzata sull’importanza dei processi informaziona-li. Metafora dell’arena: i sistemi sociali sono costrutti determinati aposteriori dalle interazioni inizialmente casuali poi sempre più istitu-zionalizzate tra i membri. Le persone, considerate come attori su unpalcoscenico, si relazionano tra loro dando vita a giochi (metaforadell’arena) che, attraverso la loro ripetizione, acquisiscono stabilità,carattere di norma e valore; mediante questa metafora l’attenzione siconcentra sulla scena lavorativa senza dimenticare il livello simbolico.

Da queste metafore emerge il concetto di fondo: le organizza-zioni sono espressioni di realtà assai più complesse della macchinaprogettata per realizzare specifici obiettivi di produzione.

Se si vuole veramente capire un’organizzazione, conviene partire dallapremessa che le organizzazioni sono fenomeni complessi, ambigui e para-dossali. (Morgan, 1986, p. 390)

1.3.7. L’analisi delle mansioni

Consiste nella rilevazione sistematica, cioè eseguita mediante ido-nee procedure e seguendo determinati principi, degli elementi co-stitutivi di una mansione. La mansione riguarda uno o più compiticon relativi requisiti, responsabilità e condizioni operative, prescin-

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dendo dal numero degli addetti e dalla loro collocazione nella strut-tura organizzativa. Si interessa, cioè, a quello che un addetto fa (o-perazioni di carattere manuale o mentale), a come lo fa (modalità o-perative seguite, macchine, attrezzi, materiali, strumenti, metodi, nor-me da osservare, decisioni da prendere), al perché lo fa (motivi e o-biettivi delle operazioni svolte, legami fra operazioni e lavoro, com-piti e posizione), ed infine ai requisiti richiesti da una mansione (re-quisiti fisici, attitudinali, conoscenze e capacità, responsabilità, con-dizioni organizzative e ambientali in cui si svolgono i compiti, e altridati complementari).

L’analisi delle mansioni si inserisce con un peso rilevante fra letecniche della direzione del personale, data la sua funzione di valo-rizzazione delle risorse umane come fattore di aumento della pro-duttività. Essa infatti condiziona una buona parte della direzione delpersonale: dal reclutamento alla selezione, dalla promozione alla re-tribuzione, ecc. L’analisi delle mansioni è nata e si è sviluppata nel-l’ambito delle teorie e delle tecniche della organizzazione scientificadel lavoro, prendendo l’avvio dalle teorie di Taylor (1911). Inizial-mente fu vista come una integrazione dello studio dei tempi e deimetodi; successivamente fu considerata a sé, come strumento di mi-glioramento dell’efficienza aziendale, mediante un maggiore rendi-mento del personale, indipendentemente dagli aspetti tecnico-orga-nizzativi.

A conclusione di questi paragrafi, invitiamo il lettore ad osservarecome tra i vari settori della psicologia del lavoro sopra elencati esi-stano notevoli intersezioni. Obiettivi, metodi e concetti utilizzatipermettono generalmente di fissare dei punti di demarcazione trasettore e settore; ciononostante le cose non sono del tutto chiare ele opinioni in proposito sono diverse.

1.4. TENDENZE EMERGENTI DELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO

Nel corso degli ultimi decenni, la realtà lavorativa è andata mutandosia sotto il profilo socioeconomico che culturale, con cadenze quasiannuali, per cui si stenta a seguirne l’evoluzione e ad afferrarne il

1.4. Tendenze emergenti della psicologia del lavoro

1. Denominazione e settori della psicologia del lavoro32

senso. L’innovazione sembra diramarsi soprattutto lungo due filoni:uno di carattere pragmatico e tecnicistico, legato all’introduzione dinuove tecnologie (automazione, informatizzazione, ecc.), l’altro adorientamento socioculturale, riguardante invece i problemi inerentialla gestione delle risorse umane 17.

Le nuove tecnologie rendono l’ambiente lavorativo molto più di-namico rispetto al passato; nello stesso tempo, introducono un tassodi incertezza e di imprevedibilità, un conseguente aumento di ri-chieste di regolazione e controllo impensabili fino a poco tempo fa.Tutto ciò richiede una attenzione particolare alla diagnostica del si-stema lavorativo (cioè: persone, compiti, macchine e artefatti in u-so), cosa che implica sia lo sforzo di capire come anticipare even-tuali situazioni anomale, sia una particolare intuizione per compren-dere i processi di gestione delle varie componenti del sistema cheinteragiscono in modo assai rapido. Per il lavoratore, queste innova-zioni implicano conoscenze più sofisticate, sempre aggiornate e, so-prattutto, abilità cognitive complesse per poter far fronte alla com-plessità della situazione. I nuovi lavori, infatti, si presentano dotatidi alcune dimensioni che, indirettamente, richiedono capacità men-tali che in passato non erano necessarie. Seguendo Nik Chmiel(1998), qui di seguito descriviamo brevemente queste dimensioni.

Una prima caratteristica di molte attività lavorative odierne è da-ta dalla distanza tra operatore ed esiti della sua azione. In passatoquesto fenomeno era quasi del tutto assente, perché il lavoratoregestiva un settore o uno spazio fisico entro cui la sua azione si con-cludeva e di cui aveva un controllo pressoché totale. Oggi, invece,tra operatore ed oggetto, o tra operatore e processo da controllarevia computer, c’è spesso una netta separazione; l’operatore si trovaa gestire una attività lavorativa sempre più dilatata e simbolizzata,priva spesso di punti di riferimento fisici e sensomotori. Per far fron-te alla opacità del sistema dovuta a questi elementi, egli deve ricor-rere sempre più all’utilizzo di rappresentazioni mentali complesse ead un numero sempre maggiore di processi di inferenza.

Un secondo elemento caratterizzante il lavoro attuale è dato dal-la accelerazione dei processi, dovuta all’informatizzazione del lavo-ro, con la conseguente riduzione della latenza delle risposte dell’o-

17 De Andrea, 1991, pp. 44-45.

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peratore. Quanto più è limitato il tempo entro cui dare una rispostacorretta, tanto minori saranno le possibilità da parte del lavoratoredi ricercare le informazioni, di valutarle, di prevedere gli esiti dellaloro applicazione. Tutto ciò riduce l’efficienza della rappresentazio-ne dei compiti e delle dinamiche di interazione sociale.

Un terzo fattore riguarda l’instabilità dei processi lavorativi. I la-vori ad alta tecnologia sono spesso soggetti a fattori di variazione, avolte anche molto repentini. Questo fatto determina un sovraccaricodi lavoro mentale, perché sono necessarie più capacità attentive,maggiori abilità di previsione e di presa di decisione. Il lavoratore o-dierno necessita di nuove competenze professionali, competenze incui il lavoro mentale è sempre in prima linea.

Un quarto fattore è dato dalla presenza contemporanea di fattoridinamici e cicli differenti. I sistemi informatizzati devono la lorocomplessità alla numerosità dei loro sottosistemi, ossia alle diversecomponenti sociotecniche. Queste sono caratterizzate da numerosedimensioni che, per raggiungere i loro obiettivi, operano con duratedifferenti: da poche ore, a giorni o intere settimane. In tale situazio-ne, l’operatore deve mettere in atto supplementi di attenzione e dicapacità diagnostica per il fatto che i sistemi informatizzati richiedo-no controlli che vanno in parallelo, con tempi diversificati di inizio edi fine, imprevedibili per il fatto che possono bloccarsi o fluttuareper molte e svariate ragioni. La compresenza di fattori dinamici e ci-cli differenti richiede agli operatori abilità relazionali e comunicativerilevanti dal momento che simili attività, oltre a coinvolgere diffe-renti operatori, comportano anche un susseguirsi di gruppi di lavorodifferenti.

Un’altra caratteristica del lavoro odierno è la cooperazione. Taledimensione è richiesta dalle tecnologie informatiche più recenti.Queste, infatti, aumentando le connessioni tra le parti del sistemasociotecnico, danno vita a complesse reti comunicative a livello a-ziendale, interaziendale, nazionale e persino internazionale. Tuttociò avvalora il lavoro inter-individuale e quello a distanza, arric-chendo allo stesso tempo i confronti sociali e la numerosità dellepersone coinvolte. La cooperazione nell’attività lavorativa, promos-sa dai programmi informatici, presenta agli studiosi un campo distudio in cui i processi cognitivi e sociali assumono nuove caratteri-stiche. A questo proposito, Chmiel scrive:

1.4. Tendenze emergenti della psicologia del lavoro

1. Denominazione e settori della psicologia del lavoro34

Infatti, in tale situazione vengono esaltate le caratteristiche di impreve-dibilità dei contesti non solo perché vi operano molti attori contemporanea-mente, ma soprattutto perché nessuno di fatto possiede la visione comple-ta della realtà delle cose da fare e aumentano le esigenze di interpretare lasituazione, di scambiare le informazioni, di negoziare con gli altri le lineedi possibile azione. Aumentano, dunque, anche da questo punto di vista,le richieste del lavoratore di possedere una competenza professionale sofi-sticata: quella di rappresentarsi consensualmente il compito, di condivide-re gli schemi di riferimento e i principi da seguire, di interagire in modo co-struttivo e di comunicare con efficacia. (Chmiel 1998, p. 20)

Lo scenario socio-economico nel quale oggi tutte le imprese e le or-ganizzazioni si muovono è molto diverso da quello del recente pas-sato. I mutamenti intervenuti nel corso degli anni ’80 e proseguitinel ventennio successivo lasciano prevedere che nei primi decennidel 2000 le variazioni nell’economia sociale saranno profonde. Al-meno per le imprese, si può pronosticare una loro delocalizzazione,una necessità di diversificazione per le domande che devono soddi-sfare, un inserimento adeguato nella globalizzazione dei mercati, unveloce adeguamento all’evoluzione delle tecnologie e alla comples-sità sempre crescente dei sistemi economici e sociali.

Per quanto riguarda la delocalizzazione delle imprese, si puòprevedere che la produzione non sarà più legata ad assetti territoria-li ben precisi, ma vedrà prospettarsi la possibilità di disporre di ma-nodopera che si trova in paesi lontani. Ad esempio, una compagniaaerea potrà ricorrere a personale che vive e lavora nei paesi asiaticiper far elaborare la propria contabilità.

La globalizzazione dei mercati costringerà le imprese a reperirerisorse (materie prime, semilavorati, risorse umane) ovunque saràpossibile trovarle a prezzi più convenienti. Nello stesso tempo ipubblici di riferimento cambieranno notevolmente: i prodotti po-tranno essere destinati al mercato del sudest asiatico e nello stessotempo a quello australiano o nord americano; questo fatto compor-terà una diversificazione della domanda in funzione dei pubblici daiquali essa proverrà.

La dinamica evolutiva delle tecnologie è diventata una sfida perle imprese e le organizzazioni; tale sfida ha coinvolto la funzionedella gestione delle risorse umane: nata tra le grandi funzioni del-l’impresa, dopo il 1960 ha conosciuto una evoluzione molto rapida,

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con una accelerazione negli anni ’80. La rapidità dell’evoluzione delletecnologie ha recato impegni gravosi sia dal punto di vista economi-co sia da quello dell’addestramento del personale: in primo luogo,l’adeguamento delle linee di produzione per allinearle alle nuovetecnologie; poi l’individuazione di nuovi prodotti tecnologicamentepiù evoluti, ecc.; in terzo luogo, il continuo adeguamento della for-mazione del personale per renderlo capace di sfruttare appieno lepotenzialità delle nuove tecnologie.

Tuttavia l’attuale modificazione degli assetti organizzativi azien-dali, finalizzata all’ottenimento di performance e di capacità competi-tive sempre più elevate, non deve essere considerata di natura straor-dinaria. Si tratta invece di un processo continuo che caratterizza ilnormale andamento della vita delle organizzazioni. Gli individui e igruppi, nel corso della loro vita lavorativa, si trovano così a speri-mentare fasi di cambiamento accelerato in corrispondenza di fusio-ni, processi di reeingeneering e di downsizing. Gli attuali modi dipensare le organizzazioni sono permeati dall’ideologia del «conti-nuo miglioramento». Progettare ed agire per questo obiettivo costi-tuisce una sfida, in quanto chiede di ripensare strumenti concettualie modelli gestionali consolidati 18.

La complessità crescente dei sistemi economici e sociali dei quali leimprese fanno parte comporta nuovi problemi. Si pensi a quelli le-gati alla realizzazione dell’Unione Europea o alle battaglie combat-tute per i dazi doganali fra Stati Uniti e Giappone. Tutto ciò avràconseguenze non indifferenti anche nelle organizzazioni e nella vitaprivata e pubblica di ogni lavoratore.

18 Cfr. C. Kaneklin - R. Zuffo - S. Ripamonti, Cambiamenti organizzativi dinatura straordinaria e conseguenze sulla gestione delle risorse umane, in IncontroNazionale degli Psicologi del Lavoro e delle Organizzazioni. Raccolta degli Ab-stract (Gorizia, 23-24 marzo 2001), «Risorsa uomo. Rivista di Psicologia del Lavoroe dell’Organizzazione» 8, 1/2 (2001), p. 123.

1.4. Tendenze emergenti della psicologia del lavoro

1. Denominazione e settori della psicologia del lavoro36

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