Rassegna stampa 31 marzo 2016 · 2016. 3. 31. · RASSEGNA STAMPA di giovedì 31 marzo 2016...

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 31 marzo 2016 SOMMARIO Proseguendo le sue catechesi sulla misericordia, ieri Papa Francesco si è soffermato sul salmo 51, detto “Miserere”. Ecco il suo commento: “Si tratta di una preghiera penitenziale in cui la richiesta di perdono è preceduta dalla confessione della colpa e in cui l’orante, lasciandosi purificare dall’amore del Signore, diventa una nuova creatura, capace di obbedienza, di fermezza di spirito, e di lode sincera. Il “titolo” che l’antica tradizione ebraica ha posto a questo Salmo fa riferimento al re Davide e al suo peccato con Betsabea, la moglie di Uria l’Hittita. Conosciamo bene la vicenda. Il re Davide, chiamato da Dio a pascere il popolo e a guidarlo sui cammini dell’obbedienza alla Legge divina, tradisce la propria missione e, dopo aver commesso adulterio con Betsabea, ne fa uccidere il marito. Brutto peccato! Il profeta Natan gli svela la sua colpa e lo aiuta a riconoscerla. È il momento della riconciliazione con Dio, nella confessione del proprio peccato. E qui Davide è stato umile, è stato grande! Chi prega con questo Salmo è invitato ad avere gli stessi sentimenti di pentimento e di fiducia in Dio che ha avuto Davide quando si è ravveduto e, pur essendo re, si è umiliato senza avere timore di confessare la colpa e mostrare la propria miseria al Signore, convinto però della certezza della sua misericordia. E non era un peccato da poco, una piccola bugia, quello che aveva fatto: aveva fatto un adulterio e un assassinio! Il Salmo inizia con queste parole di supplica: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». L’invocazione è rivolta al Dio di misericordia perché, mosso da un amore grande come quello di un padre o di una madre, abbia pietà, cioè faccia grazia, mostri il suo favore con benevolenza e comprensione. È un appello accorato a Dio, l’unico che può liberare dal peccato. Vengono usate immagini molto plastiche: cancella, lavami, rendimi puro. Si manifesta, in questa preghiera, il vero bisogno dell’uomo: l’unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno nella nostra vita è quella di essere perdonati, liberati dal male e dalle sue conseguenze di morte. Purtroppo, la vita ci fa sperimentare tante volte queste situazioni; e anzitutto in esse dobbiamo confidare nella misericordia. Dio è più grande del nostro peccato. Non dimentichiamo questo: Dio è più grande del nostro peccato! “Padre, io non lo so dire, ne ho fatte tante, grosse!”. Dio è più grande di tutti i peccati che noi possiamo fare. Dio è più grande del nostro peccato. Lo diciamo insieme? Tutti insieme: “Dio è più grande del nostro peccato!”. Un’altra volta: “Dio è più grande del nostro peccato!”. Un’altra volta: “Dio è più grande del nostro peccato!”. E il suo amore è un oceano in cui possiamo immergerci senza paura di essere sopraffatti: perdonare per Dio significa darci la certezza che Lui non ci abbandona mai. Qualunque cosa possiamo rimproverarci, Lui è ancora e sempre più grande di tutto (cfr. 1 Gv 3, 20), perché Dio è più grande del nostro peccato. In questo senso, chi prega con questo Salmo ricerca il perdono, confessa la propria colpa, ma riconoscendola celebra la giustizia e la santità di Dio. E poi ancora chiede grazia e misericordia. Il salmista si affida alla bontà di Dio, sa che il perdono divino è sommamente efficace, perché crea ciò che dice. Non nasconde il peccato, ma lo distrugge e lo cancella; ma lo cancella proprio dalla radice, non come fanno in tintoria quando portiamo un abito e cancellano la macchia. No! Dio cancella il nostro peccato proprio dalla radice, tutto! Perciò il penitente ridiventa puro, ogni macchia è eliminata ed egli ora è più bianco della neve incontaminata. Tutti noi siamo peccatori. È vero questo? Se qualcuno di voi non si sente peccatore che alzi la mano... Nessuno! Tutti lo siamo. Noi peccatori, con il perdono, diventiamo creature nuove, ricolmate dallo spirito e piene di gioia. Ora una nuova realtà comincia per noi: un nuovo cuore, un nuovo spirito, una nuova vita. Noi, peccatori perdonati, che abbiamo accolto la grazia divina, possiamo persino insegnare agli altri a non peccare più. “Ma Padre, io sono debole, io cado, cado”. “Ma se cadi, alzati! Alzati!”. Quando un bambino cade, cosa fa? Solleva la mano alla mamma, al papà perché lo

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  • RASSEGNA STAMPA di giovedì 31 marzo 2016

    SOMMARIO

    Proseguendo le sue catechesi sulla misericordia, ieri Papa Francesco si è soffermato sul salmo 51, detto “Miserere”. Ecco il suo commento: “Si tratta di una preghiera

    penitenziale in cui la richiesta di perdono è preceduta dalla confessione della colpa e in cui l’orante, lasciandosi purificare dall’amore del Signore, diventa una nuova

    creatura, capace di obbedienza, di fermezza di spirito, e di lode sincera. Il “titolo” che l’antica tradizione ebraica ha posto a questo Salmo fa riferimento al re Davide e al suo peccato con Betsabea, la moglie di Uria l’Hittita. Conosciamo bene la vicenda. Il

    re Davide, chiamato da Dio a pascere il popolo e a guidarlo sui cammini dell’obbedienza alla Legge divina, tradisce la propria missione e, dopo aver commesso adulterio con Betsabea, ne fa uccidere il marito. Brutto peccato! Il profeta Natan gli svela la sua colpa e lo aiuta a riconoscerla. È il momento della riconciliazione con Dio, nella confessione del proprio peccato. E qui Davide è stato umile, è stato grande! Chi prega con questo Salmo è invitato ad avere gli stessi sentimenti di pentimento e di fiducia in Dio che ha avuto Davide quando si è ravveduto e, pur essendo re, si è

    umiliato senza avere timore di confessare la colpa e mostrare la propria miseria al Signore, convinto però della certezza della sua misericordia. E non era un peccato da

    poco, una piccola bugia, quello che aveva fatto: aveva fatto un adulterio e un assassinio! Il Salmo inizia con queste parole di supplica: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». L’invocazione è rivolta al Dio di misericordia perché, mosso da un amore grande come quello di un padre o di una madre, abbia pietà, cioè faccia grazia, mostri il suo favore con benevolenza e comprensione. È un appello accorato a Dio, l’unico che può liberare dal peccato. Vengono usate immagini molto plastiche: cancella, lavami, rendimi puro. Si manifesta, in questa preghiera, il vero bisogno dell’uomo: l’unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno nella nostra vita

    è quella di essere perdonati, liberati dal male e dalle sue conseguenze di morte. Purtroppo, la vita ci fa sperimentare tante volte queste situazioni; e anzitutto in esse

    dobbiamo confidare nella misericordia. Dio è più grande del nostro peccato. Non dimentichiamo questo: Dio è più grande del nostro peccato! “Padre, io non lo so dire, ne ho fatte tante, grosse!”. Dio è più grande di tutti i peccati che noi possiamo fare. Dio è più grande del nostro peccato. Lo diciamo insieme? Tutti insieme: “Dio è più grande del nostro peccato!”. Un’altra volta: “Dio è più grande del nostro peccato!”. Un’altra volta: “Dio è più grande del nostro peccato!”. E il suo amore è un oceano in cui possiamo immergerci senza paura di essere sopraffatti: perdonare per Dio significa

    darci la certezza che Lui non ci abbandona mai. Qualunque cosa possiamo rimproverarci, Lui è ancora e sempre più grande di tutto (cfr. 1 Gv 3, 20), perché Dio è più grande del nostro peccato. In questo senso, chi prega con questo Salmo ricerca il perdono, confessa la propria colpa, ma riconoscendola celebra la giustizia e la santità di Dio. E poi ancora chiede grazia e misericordia. Il salmista si affida alla bontà di Dio,

    sa che il perdono divino è sommamente efficace, perché crea ciò che dice. Non nasconde il peccato, ma lo distrugge e lo cancella; ma lo cancella proprio dalla radice, non come fanno in tintoria quando portiamo un abito e cancellano la macchia. No! Dio cancella il nostro peccato proprio dalla radice, tutto! Perciò il penitente ridiventa puro, ogni macchia è eliminata ed egli ora è più bianco della neve incontaminata. Tutti noi siamo peccatori. È vero questo? Se qualcuno di voi non si sente peccatore

    che alzi la mano... Nessuno! Tutti lo siamo. Noi peccatori, con il perdono, diventiamo creature nuove, ricolmate dallo spirito e piene di gioia. Ora una nuova realtà comincia per noi: un nuovo cuore, un nuovo spirito, una nuova vita. Noi, peccatori perdonati, che abbiamo accolto la grazia divina, possiamo persino insegnare agli altri a non

    peccare più. “Ma Padre, io sono debole, io cado, cado”. “Ma se cadi, alzati! Alzati!”. Quando un bambino cade, cosa fa? Solleva la mano alla mamma, al papà perché lo

  • faccia alzare. Facciamo lo stesso! Se tu cadi per debolezza nel peccato, alza la tua mano: il Signore la prende e ti aiuterà ad alzarti. Questa è la dignità del perdono di

    Dio! La dignità che ci dà il perdono di Dio è quella di alzarci, metterci sempre in piedi, perché Lui ha creato l’uomo e la donna perché stiano in piedi. Dice il Salmista: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. [...] Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno». Cari fratelli e sorelle, il perdono di Dio è ciò di cui tutti abbiamo bisogno, ed è il segno più grande della sua misericordia. Un dono che ogni peccatore perdonato è chiamato a condividere con ogni fratello e sorella che incontra. Tutti coloro che il Signore ci ha posto accanto, i familiari, gli

    amici, i colleghi, i parrocchiani... tutti sono, come noi, bisognosi della misericordia di Dio. È bello essere perdonato, ma anche tu, se vuoi essere perdonato, perdona a tua

    volta. Perdona! Ci conceda il Signore, per intercessione di Maria, Madre di misericordia, di essere testimoni del suo perdono, che purifica il cuore e trasforma la

    vita”.

    Intanto si ha ora notizia che uscirà venerdì 8 aprile con il titolo «Amoris laetitia» (la gioia dell’amore), l’esortazione apostolica che il Papa ha scritto «sull’amore nella famiglia» a partire dai due Sinodi, straordinario e ordinario, che si sono svolti in

    Vaticano nell’ottobre del 2014 e nell’ottobre del 2015. A presentarla in Sala stampa vaticana saranno il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario del Sinodo, il cardinale Christoph Schoenborn, arcivescovo di Vienna, e una coppia di coniugi, Francesco e Giuseppina Miano, che hanno preso parte a entrambe le Assemblee. Il testo esce in

    italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo e portoghese (a.p.)

    3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Devi parlare al mondo di Seraphim Michalenko I messaggi alla segretaria della Divina misericordia Pag 5 La prima rivelazione Pag 7 L’oceano e la neve All’udienza generale il Papa ricorda che il perdono di Dio cancella il peccato dalla radice LA REPUBBLICA Pag 33 La statua del clochard finisce in Vaticano, il Papa apre le porte all’arte degli ultimi di Paolo Rodari 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 Dar futuro al lavoro di Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi La via di nuove relazioni industriali Pag 3 Dal materasso ai criminali. I 500 euro della discordia di Pietro Saccò La banconota sotto accusa in Europa: chi vuole eliminarli e chi no, ecco i perché dello scontro LA NUOVA Pag 1 Cosa chiede la vigilanza europea di Francesco Morosini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Ghedini è il “Paperone” della politica veneziana di Mitia Chiarin Le dichiarazioni di redditi e patrimoni dei parlamentari. Presenze e assenze, le

  • perfomance 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il Veneto che aggancia la ripresa minato da giovani in fuga e crisi delle banche di Federico Nicoletti La Fondazione Nordest avvisa il sistema: “Perdiamo duemila laureati all’anno” Pag 11 Al Papa la lettera di don Torta: “Francesco ci ha benedetti, siamo sicuri che la leggerà” di Paolo Coltro I risparmiatori: “Noi truffati, tutti vittime” LA NUOVA Pag 14 La ripresa non basta più: “Usciamo ridimensionati” di Eleonora Vallin Fondazione Nordest, rapporto 2016. Banche e ricerca: serve governante sul territorio 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 13 di Gente Veneta in uscita venerdì 1 aprile 2016: Pagg 1, 4 - 5 Venezia, capitale dei marcatori di Giorgio Malavasi e Francesca Catalano Un’idea controcorrente, che ha a che fare con la misericordia, è diventata realtà e cambierà il mondo delle cure. Pronto uno studio mondiale sui test “anti-tumorali” Pag 1 Lahore, la logica folle dell’altra guancia di Giorgio Malavasi Pag 3 Due Papi, un segretario: «Così divido la giornata» Mons. Georg Gänswein è al fianco del Papa Emerito e di Papa Francesco. «Sapevo della rinuncia di Benedetto da tempo e provai a fargli cambiare idea. Ma la sua decisione è stata irrevocabile. Oggi è una candela che si spegne lentamente» Pagg 8 – 9 Comprare casa. Web ovunque: ogni acquisto passa per la Rete di Chiara Semenzato Rivoluzione compiuta per le famiglie che cercano un alloggio. Critici gli agenti immobiliari: «Mercato drogato» Pag 13 In 2500, domenica 10, per la Festa dei Ragazzi “Altuoritmo... vivere al ritmo del cuore di Dio” per capire il valore della misericordia nella vita: è il tema del ritrovo diocesano per i ragazzi fra 11 e 14 anni, che si terrà al Pala Arrex di Jesolo. Al mattino sarà presente il Patriarca. E al pomeriggio ci saranno anche Carlo e Giorgio Pag 15 Il Patriarca: Pasqua è gioia, perché l’ultima parola è di Dio Mons. Moraglia nell’omelia pronunciata in San Marco: «Credere nella risurrezione non vuol dire chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie della storia, anche di fronte agli eventi drammatici e assurdi, come le morti ingiuste, gli attentati, il terrorismo di questi giorni. Pasqua dice un’altra cosa» Pag 16 S. Pantalon, via ai restauri del campanile di Francesca Catalano Nel 2012 si era staccato un pezzo di decorazione: ora tutte le pietre di abbellimento saranno fissate. Non ci sono per fortuna danni statici. L’intervento costerà 150mila euro e si concluderà a giugno Pag 18 La città a misura di famiglia con bimbi? Ci pensa una start up di Valentina Pinton Da due anni opera al Vega una realtà, creata da Marianna Vianello: «Volevo capire come

  • passare del tempo libero con mio marito e i miei figli divertendoci ed educandoli». Ne è nata una guida dei luoghi e degli eventi adatti per famiglie con bambini. E un’azienda con numeri in crescita … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il valore segreto di un referendum di Michele Ainis Ideologia, potere e trivelle Pag 3 Accompagnatori, ciechi e falsi invalidi: quei 15 miliardi di welfare clientelare di Sergio Rizzo Gli abusi e la politica Pag 16 Tra digiuni, appelli e preghiere la campagna dei vescovi “No Triv” di Virginia Piccolillo Iniziativa di 80 diocesi a San Pietro. Incrocio riforme – referendum, scontro alla Camera Pag 26 Tolleranza non è ridurre le libertà delle donne di Michela Marzano LA REPUBBLICA Pag 1 Il corpo come prova del male assoluto di Melania Mazzucco Pag 28 La difesa del crocifisso non aiuta l’inclusione di Tomaso Montanari AVVENIRE Pag 3 Se il male è ovunque che ci sia un po’ di bene di Ferdinando Camon Il film sul lager danese per i soldatini tedeschi Pag 11 Congo, un’attesa infinita. Adozioni ancora nel caos di Viviana Daloiso Nulla di fatto nell’incontro tra enti e Cai. Orfanotrofi e sbagli, l’odissea di 133 bimbi. “Da due anni orfano di mio figlio”: i racconti angoscianti dei genitori adottivi lasciati senza notizie. Così è un pasticcio, qualcuno risponda a queste domande LA NUOVA Pag 6 “Così ho evitato il jihad” Il racconto di un detenuto che non si è fatto convincere

    Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Devi parlare al mondo di Seraphim Michalenko I messaggi alla segretaria della Divina misericordia Pubblichiamo la prefazione al libro Vita di santa Faustina Kowalska di Sophia Michalenko (Gribaudi, Milano, 2015, pagine 321, euro 18), scritta dal rettore del Santuario Nazionale della Divina Misericordia a Stockbridge in Massachusetts e uno stralcio dal volume. Santa Faustina Kowalska, apostola, profetessa e mistica, è una delle figure più straordinarie del nostro tempo. La sua vita, la sua missione e i suoi scritti hanno ispirato milioni di persone a confidare nella Divina Misericordia di Gesù. In occasione della sua beatificazione, Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato che questa donna è stata la grande apostola del XX secolo. E forse un giorno si potrà anche affermare che è stata una grande profetessa di tale secolo. Benché santa Faustina sia andata a scuola per meno di

  • due inverni dopo il compimento dei 12 anni, ci ha lasciato un diario spirituale che è entrato a pieno titolo fra le grandi opere della letteratura mistica, come recita il paragrafo biografico contenuto nella Liturgia delle Ore alla data della sua festa, il 5 ottobre. L’eminente teologo che ha lavorato per quasi un decennio all’analisi degli scritti di santa Faustina, al termine dello studio ha dichiarato che è «ormai evidente che la natura di queste rivelazioni è esclusivamente sovrannaturale...». E ha concluso che, «per questo motivo, ogni fedele sarà edificato dalla lettura e dalla meditazione degli scritti di Elena Faustina, e si santificherà seguendone l’esempio». La missione di apostola svolta da santa Faustina nella diffusione della devozione a Gesù per la Sua Divina Misericordia è ben nota ai molti fedeli che hanno letto il suo Diario e gli scritti sulla Divina Misericordia che dal Diario traggono spunto. Eppure, sono molto pochi i fedeli consapevoli anche del ruolo profetico che questa religiosa ha avuto nella vita della Chiesa. A questo riguardo, vale la pena richiamare la dichiarazione resa da Papa Giovanni Paolo II durante il suo pellegrinaggio in Polonia nel giugno del 1997: «Ringrazio la Divina Provvidenza per avermi permesso di contribuire personalmente al compimento della volontà di Cristo attraverso l’istituzione della Festa della Divina Misericordia». Dal momento che una parte integrante del messaggio della Divina Misericordia, di cui il Santo Padre ha parlato in due importanti occasioni, è l’istituzione nella Chiesa della Festa della Divina Misericordia, dobbiamo essere coscienti del significato di una simile affermazione da parte del Santo Padre. Nella fattispecie, la sua azione è stata una risposta papale pubblica alla richiesta divina formulata mediante una rivelazione privata, in questo caso a santa Faustina. Anche i predecessori di Papa Giovanni Paolo II, Leone XIII, Pio XII e Paolo VI, solo per citarne alcuni, hanno compiuto degli atti carichi di significato per la Chiesa universale che sono giunti loro per la via profetica, ossia attraverso delle rivelazioni private. Possiamo dunque dire che l’istituzione della Festa della Divina Misericordia è «giustificata da una teologia della profezia che trova posto nell’economia della Nuova Alleanza, ossia nel governo della Chiesa da parte della gerarchia», come ha così bene dimostrato fra Joseph de Sainte-Marie, OCD, nelle sue Riflessioni sull’atto della consacrazione a Fatima compiuto da Papa Giovanni Paolo II il 13 maggio 1982. Credo che oggigiorno sia importante essere consapevoli del posto che la profezia occupa nella vita della Chiesa. Occorre riconoscere che questa modalità con cui Dio parla al Suo popolo ha valore per la Nuova Alleanza, come ha affermato con grande vigore san Paolo In diversi passi dei suoi scritti. Basterà ricordarne due: «[La Chiesa] è edificata sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti» (Efesini 2, 30), ossia i profeti del Nuovo Testamento, come indicato nel contesto. E: «Non spegnete lo spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (2 Tessalonicesi 5, 19-20). Con l’espressione “tenete”, san Paolo impartisce un ordine. Oggi, il reiterato invito del concilio Vaticano II a rispettare i carismi dovrebbe aprire le menti a questa teologia del carisma profetico e alla sua funzione essenziale nell’economia divina del governo della Chiesa. Dunque, quando il Santo Padre consacra il mondo al Cuore Immacolato di Maria o istituisce una festa come quella della Divina Misericordia in virtù di una richiesta pervenuta attraverso il canale della profezia, e ritiene che la sua azione risponda perfettamente ai requisiti della Nuova Alleanza, tale passo non è soltanto legittimo ma anche la risposta a un dovere di ordine soprannaturale. Alla luce di ciò, possiamo apprezzare maggiormente il contributo profetico dato da santa Faustina alla Chiesa. Pensiamo a quello che il Santo Padre ha detto nel giugno del 1997 dopo avere reso grazie per l’istituzione della Festa della Divina Misericordia (menzionata prima): «Qui, accanto alle reliquie di Faustina Kowalska, io rendo grazie anche per il dono della sua beatificazione». Poi ha aggiunto: «Prego incessantemente Dio di avere “misericordia di noi e del mondo intero”», citando la speciale preghiera che Nostro Signore ha insegnato a santa Faustina, e cercando di soddisfare la sua richiesta di recitarla «incessantemente». Possiamo davvero pensare a santa Faustina come al profeta Geremia, il quale disse: «Mi fu rivolta la parola del Signore: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato, ti ho stabilito profeta delle nazioni”» (Geremia 1, 4-5). Il profeta, tuttavia, si tirò indietro davanti all’imponenza del compito, osservando: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane» (v. 6). Il Signore gli rispose: «Non dire: Sono giovane, ma va’ da coloro da cui ti manderò e annunzia quello che ti ordinerò. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti» (vv. 7-8). Malgrado ciò, se

  • dobbiamo credere che le rivelazioni ricevute da santa Faustina sono vere, come la sua beatificazione sembra garantire, dobbiamo considerare quest’umile serva di Dio anche una persona scelta dalla misericordia e dal disegno divino per svolgere un ruolo molto speciale nella storia della Chiesa. Consideriamo, per esempio, le predizioni che le sono state fatte da Nostro Signore e da Nostra Signora in svariate occasioni. Nostro Signore: «Preparerai il mondo per la Mia venuta finale» (Diario della Beata Faustina, 429). E Nostra Signora: «Ho dato il Salvatore al mondo; quanto a te, devi parlare al mondo della Sua grande misericordia e preparare il mondo per la Sua Seconda Venuta, non come Salvatore Misericordioso, ma come Giudice Giusto» (Diario, 635). Che il Signore, nella sua grande misericordia, ci liberi dal giudizio che giungerà! So che questa è la preghiera della Beata Faustina. L’augurio è che sia anche la nostra. Pag 5 La prima rivelazione Il 22 febbraio 1931, Suor Faustina ricevette la prima di numerose rivelazioni riguardanti la sua missione nella vita: essere la confidente, segretaria e messaggera della Divina Misericordia per tutto il genere umano. Suor Faustina descrisse l’evento come segue: «La sera, mentre ero nella mia cella, vidi il Signore Gesù vestito con un abito bianco. Aveva una mano alzata in segno di benedizione, l’altra toccava la veste all’altezza del petto. Da sotto la tunica, leggermente scostata sul petto, uscivano due grandi raggi, uno rosso e l’altro pallido. In silenzio tenevo lo sguardo fisso sul Signore, piena di timore, ma anche con grande gioia. Dopo un po’, Gesù mi disse: “Dipingi un’Immagine secondo questo modello che vedi, con in calce la scritta: Gesù, confido in Te. Desidero che quest’Immagine sia venerata, prima nella vostra cappella e poi in tutto il mondo. Prometto che l’anima che venererà questa Immagine non perirà. Prometto anche la vittoria sui suoi nemici già qui sulla terra, ma specialmente nell’ora della morte. Io Stesso la difenderò come Mia gloria personale”. Quando raccontai questo al mio confessore, egli mi diede la seguente risposta: “Ciò riguarda la tua anima”. Mi disse: “Certamente, dipingi l’Immagine di Dio nella tua anima”. Quando uscii dal confessionale, sentii di nuovo delle parole come queste: “La Mia Immagine è già nella tua anima. Io desidero che ci sia una Festa della Misericordia. Voglio questa Immagine, che dipingerai con il pennello, sia solennemente onorata la prima domenica dopo Pasqua; quella domenica deve essere la Festa della Misericordia. Io desidero che i sacerdoti proclamino la Mia grande misericordia per le anime dei peccatori. I peccatori non abbiano paura di accostarsi a Me. Le fiamme della Misericordia bruciano in Me, supplicando di essere spente; voglio riversarle su queste anime”. Gesù si lamentò con me con queste parole: “La sfiducia delle anime Mi addolora amaramente; malgrado il Mio inesauribile amore per loro, non confidano in Me. Neanche la Mia morte è sufficiente. Guai alle anime che abusano [di questi doni]”. Quando ne parlai con la Madre Superiora, [Rosa, dicendole] che Dio mi aveva chiesto questo, rispose che Gesù avrebbe dovuto darmi un qualche segno perché potessimo riconoscerLo più chiaramente. Quando chiesi al Signore Gesù di darmi un segno come prova “che Tu sei davvero il mio Dio e Signore e che questa richiesta viene da Te”, udii questa voce interiore: “Farò sì che tutto questo sia chiaro alla tua Superiora mediante le grazie che concederò attraverso questa Immagine”. Quando cercai di sottrarmi a queste ispirazioni interiori, Dio mi disse che il Giorno del Giudizio Egli mi avrebbe chiesto di rendere conto di un gran numero di anime» (Diario 47-52). Pag 7 L’oceano e la neve All’udienza generale il Papa ricorda che il perdono di Dio cancella il peccato dalla radice «Il perdono divino non nasconde il peccato, ma lo distrugge, lo cancella proprio dalla radice, non come fanno in tintoria quando portiamo un abito e cancellano la macchia». Con questa efficace immagine Papa Francesco ha parlato della misericordia divina nella catechesi - l’ultima del ciclo dedicato all’approfondimento del tema giubilare alla luce dell’antico testamento - durante l’udienza generale di mercoledì 30 marzo. Con i fedeli presenti in piazza San Pietro il Pontefice ha commentato il salmo 51, detto «Miserere».

  • Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Terminiamo oggi le catechesi sulla misericordia nell’Antico Testamento, e lo facciamo meditando sul Salmo 51, detto Miserere. Si tratta di una preghiera penitenziale in cui la richiesta di perdono è preceduta dalla confessione della colpa e in cui l’orante, lasciandosi purificare dall’amore del Signore, diventa una nuova creatura, capace di obbedienza, di fermezza di spirito, e di lode sincera. Il “titolo” che l’antica tradizione ebraica ha posto a questo Salmo fa riferimento al re Davide e al suo peccato con Betsabea, la moglie di Uria l’Hittita. Conosciamo bene la vicenda. Il re Davide, chiamato da Dio a pascere il popolo e a guidarlo sui cammini dell’obbedienza alla Legge divina, tradisce la propria missione e, dopo aver commesso adulterio con Betsabea, ne fa uccidere il marito. Brutto peccato! Il profeta Natan gli svela la sua colpa e lo aiuta a riconoscerla. È il momento della riconciliazione con Dio, nella confessione del proprio peccato. E qui Davide è stato umile, è stato grande! Chi prega con questo Salmo è invitato ad avere gli stessi sentimenti di pentimento e di fiducia in Dio che ha avuto Davide quando si è ravveduto e, pur essendo re, si è umiliato senza avere timore di confessare la colpa e mostrare la propria miseria al Signore, convinto però della certezza della sua misericordia. E non era un peccato da poco, una piccola bugia, quello che aveva fatto: aveva fatto un adulterio e un assassinio! Il Salmo inizia con queste parole di supplica: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro» (vv. 3-4). L’invocazione è rivolta al Dio di misericordia perché, mosso da un amore grande come quello di un padre o di una madre, abbia pietà, cioè faccia grazia, mostri il suo favore con benevolenza e comprensione. È un appello accorato a Dio, l’unico che può liberare dal peccato. Vengono usate immagini molto plastiche: cancella, lavami, rendimi puro. Si manifesta, in questa preghiera, il vero bisogno dell’uomo: l’unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno nella nostra vita è quella di essere perdonati, liberati dal male e dalle sue conseguenze di morte. Purtroppo, la vita ci fa sperimentare tante volte queste situazioni; e anzitutto in esse dobbiamo confidare nella misericordia. Dio è più grande del nostro peccato. Non dimentichiamo questo: Dio è più grande del nostro peccato! “Padre, io non lo so dire, ne ho fatte tante, grosse!”. Dio è più grande di tutti i peccati che noi possiamo fare. Dio è più grande del nostro peccato. Lo diciamo insieme? Tutti insieme: “Dio è più grande del nostro peccato!”. Un’altra volta: “Dio è più grande del nostro peccato!”. Un’altra volta: “Dio è più grande del nostro peccato!”. E il suo amore è un oceano in cui possiamo immergerci senza paura di essere sopraffatti: perdonare per Dio significa darci la certezza che Lui non ci abbandona mai. Qualunque cosa possiamo rimproverarci, Lui è ancora e sempre più grande di tutto (cfr. 1 Gv 3, 20), perché Dio è più grande del nostro peccato. In questo senso, chi prega con questo Salmo ricerca il perdono, confessa la propria colpa, ma riconoscendola celebra la giustizia e la santità di Dio. E poi ancora chiede grazia e misericordia. Il salmista si affida alla bontà di Dio, sa che il perdono divino è sommamente efficace, perché crea ciò che dice. Non nasconde il peccato, ma lo distrugge e lo cancella; ma lo cancella proprio dalla radice, non come fanno in tintoria quando portiamo un abito e cancellano la macchia. No! Dio cancella il nostro peccato proprio dalla radice, tutto! Perciò il penitente ridiventa puro, ogni macchia è eliminata ed egli ora è più bianco della neve incontaminata. Tutti noi siamo peccatori. È vero questo? Se qualcuno di voi non si sente peccatore che alzi la mano... Nessuno! Tutti lo siamo. Noi peccatori, con il perdono, diventiamo creature nuove, ricolmate dallo spirito e piene di gioia. Ora una nuova realtà comincia per noi: un nuovo cuore, un nuovo spirito, una nuova vita. Noi, peccatori perdonati, che abbiamo accolto la grazia divina, possiamo persino insegnare agli altri a non peccare più. “Ma Padre, io sono debole, io cado, cado”. “Ma se cadi, alzati! Alzati!”. Quando un bambino cade, cosa fa? Solleva la mano alla mamma, al papà perché lo faccia alzare. Facciamo lo stesso! Se tu cadi per debolezza nel peccato, alza la tua mano: il Signore la prende e ti aiuterà ad alzarti. Questa è la dignità del perdono di Dio! La dignità che ci dà il perdono di Dio è quella di alzarci, metterci sempre in piedi, perché Lui ha creato l’uomo e la donna perché stiano in piedi. Dice il Salmista: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. [...] Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno» (vv. 12.15). Cari fratelli e sorelle, il perdono di Dio è ciò di cui tutti abbiamo bisogno, ed è il segno più grande della sua misericordia. Un dono che ogni peccatore perdonato è chiamato a condividere con ogni fratello e sorella che incontra. Tutti coloro che il Signore ci ha posto accanto, i familiari, gli amici, i colleghi, i parrocchiani... tutti sono, come noi,

  • bisognosi della misericordia di Dio. È bello essere perdonato, ma anche tu, se vuoi essere perdonato, perdona a tua volta. Perdona! Ci conceda il Signore, per intercessione di Maria, Madre di misericordia, di essere testimoni del suo perdono, che purifica il cuore e trasforma la vita. Grazie. LA REPUBBLICA Pag 33 La statua del clochard finisce in Vaticano, il Papa apre le porte all’arte degli ultimi di Paolo Rodari Città del Vaticano. Non solo Bramante, Raffaello, Michelangelo e Bernini. Oggi, all'interno delle mura leonine, hanno diritto di esistenza anche altri artisti, molti dei quali rispecchiano la Weltanschauung propria del primo Papa che ha scelto di chiamarsi Francesco, pastore dei poveri, vicario degli scartati. L'ultima opera in ordine di arrivo è un Gesù senzatetto realizzata dallo scultore canadese Timothy P. Schmalz. Il Nazareno è rappresentato come un home-less, disteso su una panchina, il corpo avvolto in una coperta a ripararlo dalle intemperie. L'opera è stata collocata significativamente all'ingresso dell'Elemosineria apostolica. Qui, ogni giorno, i poveri chiedono aiuto. Qui, i senzatetto, sono di casa. Francesco e l'arte, un rapporto particolare. Tutto è segno, per il vescovo di Roma. Così anche la scelta di collocare dentro la Città del Vaticano alcune opere significa parlare, dire, comunicare. O, come ha scritto lo stesso Bergoglio nel libro La mia idea di arte curato da Tiziana Lupi (Mondadori - Musei Vaticani), aiuta a ricordare che esistono gli scartati, gli emarginati. E, insieme a loro, quegli artisti che lavorando con gli scarti mostrano come sia sempre possibile «aprire orizzonti dove sembra che ormai non ce ne siano più». Uno di questi artisti si chiama Alejandro Marmo. Argentino, per volere di Francesco il suo Cristo operaio fa ora bella mostra di sé nel cuore dei giardini vaticani. Pezzi di vecchi cancelli, catene arrugginite, ferraglia sparsa. Messi assieme hanno dato la forma di un Gesù appeso in croce. Il Cristo abbandonato da tutti, anche dal Padre, rivive in questi pezzi dimenticati ma successivamente rimescolati grazie all'estrosità di Marmo. «La mia opera nei giardini è un segnale - spiega lo stesso artista argentino - che ricorda come la Chiesa o è per i poveri, gli ultimi e gli scartati, o non lo è. Così è la mia arte, cresciuta a Buenos Aires anche grazie a una profonda amicizia con l'allora cardinale Bergoglio che per primo mi incitò a creare dalle periferie, dai luoghi dimenticati, per avvicinare gli scartati, gli esclusi, gli sfruttati del nostro tempo e aiutarli a risollevarsi». Oltre a Gesù, una Vergine, La Vergine di Luján. Lei, assieme al Cristo operaio, sono stati ultimati da Marmo a Castelgandolfo, in una piccola fabbrica appositamente creata accanto all'eliporto delle ville pontificie. Dice ancora Marmo: «In una delle ultime visite che ho fatto a Papa Francesco, ho espresso il desiderio di fare qualcosa in Vaticano, che rimanesse come testimonianza, prima di tornare a lavorare nelle periferie». A Francesco l'idea è piaciuta. E soprattutto gli è piaciuto molto il fatto che egli si facesse aiutare nel lavoro «da quella gente - è lo stesso Francesco a parlare - che la società di oggi, potente e tanto devota al dio denaro, butta via». Nell'idea di arte del Papa venuto da un Paese quasi ai confini del mondo ci sono anche altre opere d'arte. Alcune già presenti Oltretevere da molto tempo prima che egli arrivasse. C'è, ad esempio, Il Torso del Belvedere. Papa Giulio II, ammirando la scultura del I secolo a.C. dell'ateniese Apollonio, aveva pensato di farvi aggiungere le parti mancanti da Michelangelo, così da sottrarla a quell'effetto di scarto che la caratterizza. Racconta ancora Francesco: «Michelangelo comprese però che il Torso, pur nella sua mutilazione, conteneva in sé una possibilità di invenzione e ispirazione per molti artisti che lo avrebbero studiato anche in futuro, tanto che decise di non metterci mano». Fra gli undici esempi di opere d'arte degne di nota, Francesco ha inserito a sorpresa nel libro anche una macchina, non a caso esposta nei musei vaticani. È una Renault 4 bianca, immatricolata nel 1984. È appartenuta a don Roberto Zocca, sacerdote per anni nella periferia di Verona. Fondatore della cooperativa L'Ancora che dà lavoro e assistenza a tanta gente (fra loro disabili, poveri, anziani), don Zocca ha percorso con la sua Renault oltre 300mila chilometri: «Volevo incarnare il Concilio in quella parrocchia di periferia, che è stata il cuore della mia vita», dice. Bergoglio ha accettato, nel 2013, il dono di questa Renault perché «simbolo di una storia di misericordia e carità». Francesco, chiosa Tiziana Lupi, «non è un esperto di arte. Fin dai tempi di Buenos Aires apprezzava - lo racconta ne El Jesuita, scritto con Sergio Rubin e Angela Ambrogetti, la Crocifissione

  • bianca di Chagall, ma non ha mai detto perché. Tuttavia dell'arte ha sempre avuto una grande considerazione. La considera, infatti, uno strumento di evangelizzazione e un sistema efficace per combattere la cultura dello scarto». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 Dar futuro al lavoro di Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi La via di nuove relazioni industriali Non solo Jobs Act. Al cuore della grande trasformazione del lavoro c’è il sistema di relazioni industriali perché il vero adattamento alle sfide economiche e sociali si misura necessariamente nei settori produttivi, nei territori e nelle singole aziende dove la legge dello Stato, per definizione generale e astratta, può ben poco. È per questa ragione che preoccupa non poco lo stallo nel rinnovo di uno dei contratti collettivi più importanti, quello del settore metalmeccanico, che coinvolge quasi 2 milioni di lavoratori. Lo sciopero unitario proclamato per il prossimo 20 aprile da Fiom, Fim, Uilm è sintomo di un muro contro muro che non aiuta i lavoratori, ma neppure le imprese a superare la lunga crisi che ha devastato il settore come capita in genere solo dopo una guerra di rilevanza mondiale. Tra il 2007 e il 2014 sono infatti andati perduti oltre 250mila posti di lavoro e la produzione del settore è calata di un terzo. Sul fronte della produttività questa è aumentata dello 0,9%, poca cosa se paragonata a un aumento del costo del lavoro del 23,1% e del Clup (costo del lavoro per unità prodotta) del 22%. Tecnicismi a parte, significa che una ora di lavoro costa oggi a una impresa meccanica oltre un quinto e poco meno di un quarto in più rispetto al 2007, e se la produzione non aumenta è chiaro che si tratta di un incremento economicamente non sostenibile sia sul breve che sul lungo periodo. Basta questo scenario, che ha conseguenze quotidiane sulla vita di lavoratori e imprese e che decide ogni giorno della chiusura o meno di stabilimenti, per capire che la logica del muro contro muro non giova a nessuno. Che le vecchie regole non vadano più bene e che serva un vero cambio di rotta, ben oltre il semplice rinnovo di un testo contrattuale, sono i dati di realtà a dircelo. E che regole nuove non possano non venire dalle stesse parti sociali chiamate ad applicarle è un dato di esperienza. A questo servono, del resto, le relazioni industriali: a fornire in via sussidiaria e condivisa risposte sostenibili ai problemi del lavoro. Quel che forse è meno chiaro a molti è che, in questa fase dello sviluppo economico, ci troviamo in una situazione realmente straordinaria. Non si tratta infatti di fronteggiare una crisi e un ciclo economico negativo passeggero. Siamo piuttosto di fronte a profonde trasformazioni geopolitiche e demografiche che si sommano a innovazioni tecnologiche che stanno rapidamente espandendo il ruolo della automazione e della digitalizzazione all’interno delle fabbriche. Con un rischio sempre può probabile di tornare lentamente ai livelli produttivi pre-crisi senza un parallelo recupero dei posti di lavoro, sostituiti da macchinari più moderni che oggi svolgono le mansioni esecutive e routinarie che prima spettavano agli operai. In questo contesto, per molti versi drammatico, sono necessarie posizioni davvero nuove e coraggiose, capaci di invertire le logiche del passato e cambiare mentalità di gestione delle relazioni industriali. Non senza sacrifici, non senza generare antipatie e impopolarità, sia sul fronte imprenditoriale sia su quello sindacale. Ma si tratta di una caratteristica costante in tutti i seri tentativi di uscita da fasi critiche, che mai possono giocarsi sul breve termine e che richiedono piuttosto il contributo di persone di buona volontà che si facciano carico di scelte di lungo periodo in sintonia col cambiamento di una epoca, che è poi niente altro che il radicale mutamento del modo di fare impresa e anche di lavorare. In tale prospettiva, crediamo che il fronte dei sacrifici e degli scambi reciproci possa essere quello del trinomio produttività-formazione-partecipazione. Spesso si considera la produttività come l’unico oggetto di contesa tra le parti, non come un elemento di scambio e partecipazione. Al contrario oggi, in uno scenario professionalmente mutevole, si tratta di tre aspetti inscindibili. La disponibilità ad aumenti salariali legati alla produttività da parte dei lavoratori è realistica solo se si inizia un vero cammino verso modelli partecipativi di gestione della impresa da un lato, e

  • dall’altro la promessa che l’impresa fornisca la formazione necessaria per far sì che l’aumento di produttività non sia dato unicamente dall’aumento delle attività e del carico di lavoro, ma da una vera innovazione dei processi produttivi e dei mestieri necessari a governare il cambiamento in atto. Formazione che è anche una tutela rispetto al rischio di disoccupazione tecnologica che il settore corre e che può essere combattuto con investimenti per il welfare della persona e la riqualificazione dei lavoratori. Una strada possibile, come dimostra l’innovativo accordo tra la Fim-Cisl e l’Associazione Quadri Fiat che apre la strada a una rappresentanza della fabbrica moderna e integrata, certamente più interessante di un commento all’ennesimo sciopero. Questa può essere la chiave di un sistema moderno di relazioni industriali nella manifattura, che possa diventare esempio e stella polare per altri settori produttivi che vivono la stessa crisi in un contesto di serrata competizione globale dove, anche nei contesti più avanzati, non sempre esiste il contratto nazionale di lavoro (Usa, Giappone, Regno Unito, Polonia...) o, comunque, un duplice livello di contrattazione prima nazionale e poi aziendale. Per far questo occorre rimboccarsi le maniche, restare al tavolo e non spostare il luogo della contesa nella piazza, dove il dialogo non è mai possibile. C’è in gioco molto di più di uno scontro di posizioni, c’è in gioco il lavoro e il suo futuro nel nostro Paese. Pag 3 Dal materasso ai criminali. I 500 euro della discordia di Pietro Saccò La banconota sotto accusa in Europa: chi vuole eliminarli e chi no, ecco i perché dello scontro Se non avete mai avuto per le mani una banconota da 500 euro molto probabilmente non avrete più la possibilità di fare questa esperienza, perché ormai, dopo anni di resistenze e indugi, la Banca centrale europea sembra intenzionata a ritirare dalla circolazione questo grosso e prezioso pezzo di carta viola. Se invece i 500 euro li avete in tasca in questo momento, ecco, chiedetevi come vi sono capitati nel portafoglio, perché quella è la taglia preferita dai banditi di mezzo mondo. Non è un mistero: queste banconote che permettono di raccogliere un milione di euro in un pacchetto da poco più di due chilogrammi di peso sono comodissime per criminali di tutti i tipi; tangentisti, narcotrafficanti, terroristi, gente che ha bisogno di trasportare in poco spazio enormi quantità di denaro da trasferire altrove in forma anonima. Chi non ha nulla da nascondere non ha motivo di spostare fisicamente grosse somme. Le banche, d’altra parte, esistono apposta. È proprio per rendere più difficile la vita ai criminali – soprattutto ai terroristi – che a Bruxelles sta crescendo la pressione per togliere di mezzo questa superbanconota. Qualcuno, all’interno dell’Unione europea, lo ha già fatto. Sei anni fa, a conclusione delle indagini che hanno portato al divieto della distribuzione del taglio da 500 euro da parte delle banche nel Regno Unito (dove la banconota nazionale più preziosa è quella da 50 sterline), il capo dell’anticrimine britannico aveva spiegato che nel 90% dei casi le banconote da 500 euro che circolavano nel paese erano in mano a membri del crimine organizzato. L’Europol, che è l’anticrimine dell’Unione, ha confermato questi sospetti. Lo ha scritto in un rapporto citato dalla Commissione europea nel suo piano d’azione per la lotta al finanziamento del terrorismo, un piano che ha trovato il sostegno dei ministri finanziari dell’Unione. La Commissione chiede dunque di ragionare sull’eliminazione delle banconote da 500 euro perché, spiega, sono 'molto richieste dai criminali' e possono agevolare i terroristi che raccolgono fondi nel Vecchio Continente. L’Italia è d’accordo, e anche le sue banche. «Le banconote da 500 euro sono uno strumento facile per il riciclaggio e non si trovano più in Italia, evidentemente sono state tesaurizzate, soprattutto dai riciclatori» ha detto di recente Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria. Anche sui 500 euro, però, l’Europa è divisa. La Germania, per esempio, è contraria all’abolizione. Abituati per cultura a un legame forte con il denaro fisico, concreto e tangibile, i tedeschi già dall’inizio dei negoziati per l’euro erano stati forti sostenitori della necessità di avere questa banconota da grossissimo taglio, destinata a sostituire quella da mille marchi (l’equivalente di 500 euro, appunto) nelle loro casseforti. Sì, perché non è per favorire qualche scopo criminale che Berlino difende la banconota viola: vuole che resti per consentire a chi lo desidera di tenere comodamente i suoi risparmi a casa invece che in banca. Jens Weidmann, governatore della Bundesbank, ne fa una questione di fiducia («se diciamo ai cittadini che le banconote che posseggono non valgono più intaccheremo la loro fiducia») e comunque è

  • scettico in generale sul successo dell’eliminazione dei 500 euro nella lotta al terrorismo, ritenendo difficile «che i terroristi e i criminali possano essere fermati perché non ci sono più grandi banconote». Meno sorprendente, e meno difendibile, appare l’opposizione del Lussemburgo: piccolo paese ma gigante della finanza europea, il Granducato ogni anno stampa euro per un ammontare totale che supera il doppio del suo Prodotto interno lordo, quando in media agli altri Stati della zona euro mettere in circolazione moneta fisica per circa il 10% del loro Pil è più che sufficiente a soddisfare le esigenze di banche, imprese e cittadini. Non si sa cosa ne facciano, in Lussemburgo, di tutto quel contante. Comunque interrogato sull’ipotesi di eliminare la banconota da 500 euro per togliere un vantaggio ai criminali, il membro lussemburghese del direttivo della Bce, Yves Mersch, ha risposto irritato che «ci sono poliziotti che hanno opinioni su questa questione, e anche persone del G20. Sarei molto contento se dessero alla Bce qualche significativa evidenza in questo senso». Sarà l’aria di Francoforte, ma negli uffici della Banca centrale europea la posizione di Mersch e di Weidmann sembra quella più condivisa. È così dall’inizio della giovane vita dell’euro. Nel 2012, in una lettera in risposta a un’interrogazione dell’europarlamentare greco Nikolaos Salavrakos, il presidente Mario Draghi spiegava che non c’erano piani per togliere di mezzo le banconote da 200 e 500 euro perché questi tagli 'hanno un ruolo importante come riserva di valore di ultima istanza dentro e fuori dalla zona euro'. Insomma: secondo le rilevazioni della Bce i 500 euro più che ai criminali servono ai risparmiatori molto prudenti, così prudenti da non fidarsi a lasciare il denaro in banca. La pressione politica che dopo gli attentati di Parigi sta crescendo enormemente probabilmente costringerà comunque la Bce, un po’ controvoglia, a rinunciare alla sua superbanconota viola. Intervenendo al Parlamento europeo a febbraio Draghi ha comunque lasciato capire di non essere affatto convinto della bontà di questa scelta: 'La banconota da 500 euro è vista sempre più come uno strumento per le attività illegali – ha detto rispondendo alle domande dei deputati –. È in questo contesto che stiamo considerando un’azione su questo fronte. Naturalmente, dobbiamo muoverci molto attentamente e nel migliore modo possibile'. Come sempre, il presidente della Bce non ha scelto parole a caso. La preoccupazione di Francoforte è che passi forte il messaggio che se si sceglierà di eliminare i 500 euro sarà solo per scopi di sicurezza contro la criminalità in generale e il terrorismo in particolare. La 'guerra al contante', quindi, non c’entra nulla. Questa cautela è doverosa per almeno due motivi. Il primo è una ragione monetaria. Se queste banconote fossero messe al bando, chi le usa e volesse continuare a usarle sarebbe spinto a convertire il tutto in altre monete di grosso taglio. La scelta sarebbe abbastanza ridotta. I dollari non si prestano molto a questi scopi, dal momento che il taglio più grande è la banconota da 100 dollari che raffigura Benjamin Franklin, e tra l’altro è considerata 'a rischio', dato che prima Peter Sands, economista di Harvard ed ex manager del colosso bancario Standard Chartered, e poi Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro, hanno avviato la campagna per abolirli con l’obiettivo di «complicare la vita ai ragazzi cattivi» e «rendere il mondo un posto migliore». La banconota più adatta sarebbe quella, pazzesca, da 10mila dollari locali condivisa da Singapore e Brunei, taglio che oggi vale più o meno 6.500 euro ma il cui cambio con valute più robuste è più variabili che mai. I 500 euro sarebbero molto probabilmente convertiti in banconote da mille franchi svizzeri, altro pezzo di carta violetto particolarmente prezioso (vale un po’ più di 900 euro) e non a rischio di estinzione. Un portavoce della Banca centrale svizzera ha chiarito che di eliminarli non se ne parla nemmeno, perché «sono utilizzati come deposito di valore». Questo massiccio cambio di valute coinvolgerebbe cifre enormi, dal momento che in Europa circolano 612 milioni di banconote da 500 euro per un valore totale di 306 miliardi di euro, vale a dire quasi il 29% del valore totale degli euro in circolazione. L’uscita dal sistema della moneta unica di una cifra del genere provocherebbe una svalutazione choc dell’euro, hanno avvertito gli analisti di Merrill Lynch, una destabilizzazione che può essere molto rischiosa da gestire. La seconda ragione delle cautele di Draghi riguarda in parte la questione a cui ha accennato Weidmann, quella della fiducia dei cittadini nella moneta unica, ma è più in generale – ancora una volta – un problema che riguarda la solidità del sistema bancario. Dallo scorso giugno la Bce ha iniziato ad applicare tassi negativi sui soldi che le banche depositano su suoi conti. È partita da un -0,1% ed è progressivamente scesa fino al -0,4% annunciato il 16 marzo. I tassi sui depositi iniziano a essere così penalizzanti che alcuni istituti di credito potrebbero scegliere di

  • applicare tassi negativi anche sui conti correnti dei clienti. Non è fantascienza: in Svizzera, dove i tassi sui depositi della Banca centrale sono al -0,75%, la piccola Alternative Bank Schweiz (Abs) da gennaio fa pagare ai clienti un tasso dello 0,125% su depositi fino a 100mila euro e dello 0,75% su cifre più elevate. La corsa al ritiro dei depositi – assicurano – non c’è stata, ma Abs è una banca piccola che offre investimenti sostenibili ed etici, quindi ha una clientela con una sensibilità particolare. È chiaro, però, che se la Bce fosse costretta ad andare avanti con nuovi tagli dei tassi e qualche banca della zona euro iniziasse a tentare di scaricare sui clienti il costo di possedere del denaro, allora la disponibilità di grandi banconote darebbe ai clienti un’alternativa a tenere il denaro in banca. Se la Bce eliminasse i 500 euro proprio mentre insiste sulla linea dei tassi deposito sotto zero rischierebbe di dare l’idea che a Francoforte stanno preparando una stretta per intrappolare il denaro dei cittadini nei conti delle banche e prelevarlo a piccole dosi. Una minaccia che, per quanto ipotetica e remota, in questo momento darebbe il colpo di grazia alla fiducia degli europei nel loro sistema bancario e, più in definitiva, nella moneta unica. LA NUOVA Pag 1 Cosa chiede la vigilanza europea di Francesco Morosini La Vigilanza bancaria europea è il nuovo volto dell’Eurotower - anzi, essendo indipendente dal Direttorio dell’Eurotower appare quasi una “Bce senza Draghi” - che fin d’ora gioca come attore di rilievo nella ristrutturazione del credito italiano. La qualcosa, inevitabilmente, coinvolge anche il Veneto, in specie per due banche che hanno patito un lungo travaglio e ora sono alla ricerca di un nuovo ruolo: Veneto Banca e Popolare di Vicenza (BpVi). Ma chi è questo nuovo protagonista della finanza europea? La Vigilanza europea - Single Supervisory Mechanism (Ssn) o, in italiano, Meccanismo Unico di Sorveglianza (Muv) - nasce nel novembre del 2014; e prevede la messa in opera, per dire con il professor Clarich, di «un modello di integrazione operativa e organizzativa tra apparati nazionali ed europei», dove i primi, tuttavia, operano a supporto e integrazione dei secondi. Un’asimmetria a favore di Francoforte sancita dal fatto che la responsabilità per il funzionamento del Muv è, salva l’indipendenza, della Bce. In particolare, è europea la sorveglianza sulle aziende di credito di rilevanza sistemica. Pertanto, tornando a Veneto Banca e BpVi, quale sarà l’approccio verso di esse di Danièle Nouy, numero uno della Vigilanza europea? In altri termini, generalizzando, qual è la “filosofia bancaria” di quest’ultima? Probabilmente, due sono le idee base. La prima è che il sistema bancario italiano necessita di denaro fresco; ed è una filosofia già emersa con chiarezza quando la Nouy, per consentire la fusione tra Banco Popolare e Bpm, ha chiesto alla prima una forte iniezioni di capitale. E che, conseguentemente, tutto ciò, rivoluzionando i rapporti proprietari nei consigli di amministrazione, ne sconvolgerà, ampliandone gli orizzonti, gli assetti di potere. La seconda, ma correlata alla prima, è l’opportunità di favorire un processo di aggregazione/snellimento del settore creditizio italiano. Ciò posto, se la “filosofia bancaria” adottata dalla Vigilanza europea è di costruire banche solide, ossia capaci di confrontarsi per governance, patrimonio e coperture sui crediti, con competitor di pari forza, va pure aggiunto, come riconosce la stessa Danièle Nouy, che vi è della necessaria discrezionalità nell’applicare i medesimi principi a banche, pure in attesa di aggregazioni, di peso diverso. Il che vuol dire che per la Vigilanza europea, relativamente a Veneto Banca e BpVi, molto dipenderà dalle modalità delle eventuali fusioni che potranno riguardare entrambe le aziende di credito. Ma fin d’ora dev’essere chiaro che la Vigilanza europea vuole, come già accennato, che nel sistema bancario italiano circoli capitale fresco, anche se con esso se ne sconvolgeranno i rapporti di potere interni. Ben lo si vede a Genova, dove la Vigilanza europea in nulla ostacola, anzi, il fondo statunitense Apollo nella sua scalata della banca ligure Carige. Certo, la finanza extraeuropea può essere politicamente condizionante; ma l’alternativa è trovare, ed è difficile, i fondi localmente. Tornando al Veneto, le due ex popolari sono nel pieno della transizione: trasformate da banche cooperative in Spa, votato l’aumento di capitale per continuare a svolgere l’attività bancaria, ora dovranno andare alla quotazione in Borsa, certo, per rastrellare nuovi fondi; ma soprattutto per valutare come il mercato prezzi il valore di entrambe. E, per questa via, cosa che interessa particolarmente la Vigilanza europea, l’arrivo di nuovi soci; e, con essi, di nuovi approcci manageriali. Cosa, come

  • insiste la Nouy, particolarmente necessaria rispetto a un ambiente bancario che, tra politiche monetarie ultra-espansive (crollo dei tassi d’interesse e, quindi, dei margini d’intermediazione) e rivoluzioni tecnologico/organizzative, ha poco a che vedere con quello del recente passato. La sfida, però, riguarda pure la Vigilanza europea. Infatti, essa deve giocare il suo ruolo con la massima credibilità (ad esempio, assenza di discriminazioni tra banche di nazionalità diversa) perché questo è il suo asset più prezioso. E la cui assenza, oltre che a danneggiare il perseguimento dei compiti assegnateli, ricadrebbe prima o poi su Draghi. Sarebbe un bel guaio. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 2 – 3 Ghedini è il “Paperone” della politica veneziana di Mitia Chiarin Le dichiarazioni di redditi e patrimoni dei parlamentari. Presenze e assenze, le perfomance Mestre. Il “Paperone” della politica veneziana è sempre lui, Niccolò Ghedini, legale di Silvio Berlusconi e veneziano d’adozione, con villa a Santa Maria di Sala. È lui il più ricco dei parlamentari veneziani. Lo si evince dal sito web di Camera e Senato dove sono state pubblicate le dichiarazioni dei redditi 2015 (relative al 2014) dei parlamentari con i redditi e i loro patrimoni immobiliari. Le indennità. Quanto guadagnano i nostri politici? L’indennità mensile è di 10.385,31 euro per i senatori (poco più di 10 mila per chi lavora). Il netto, tolte ritenute fiscali e contributi previdenziali, è di 5.304 euro. Per la Camera, l’importo medio netto mensile è di 5.246,54 euro. Poi ci sono le diarie e i rimborsi. Classifica dei senatori. Tra i senatori è Ghedini il “Paperone”con un imponibile di 2 milioni e 323 mila euro. Al secondo posto, decisamente distaccato, il Pd Felice Casson con un imponibile di 138.278 euro. Al terzo posto Mario Dalla Tor (Ap) che ha dichiarato un imponibile di 90.892 euro. Classifica dei deputati. Tra i deputati al primo posto troviamo anche quest’anno l’economista veneziana Renato Brunetta di Forza Italia (imponibile dichiarato di 226.248 euro); secondo è il sottosegretario del Pd Pier Paolo Baretta (163.102 euro di imponibile). Sopra i centomila euro ci sono la giovane deputata Sara Moretto (106.933 euro ) e il commercialista lidense e viceministro all’Economia Enrico Zanetti, segretario nazionale di Scelta civica. Ha dichiarato 146.886 euro di imponibile e si piazza al terzo posto. Tutti gli altri deputati hanno dichiarato meno di 100 mila euro. Le proprietà. Spulciando le dichiarazioni dei redditi, si scoprono altre curiosità sui patrimoni dei nostri politici. L’avvocato Ghedini attesta modifiche nella proprietà al 50% di 4 fabbricati a Santa Maria di Sala, la vendita della sua Audi A8 (sostituita con una nuova, stesso modello) e variazioni in partecipazioni societarie. Il Pd Andrea Martella ha dichiarato la vendita di un ciclomotore Piaggio 125 e della sua Mercedes classe C, sostituita da una Mercedes Gla. Emanuele Prataviera, ex leghista passato al gruppo Misto, ha dichiarato l’acquisto di un immobile a Concordia Sagittaria. Marco Brugnerotto del Movimento Cinque stelle, nato in provincia di Venezia, ha messo nero su bianco l’acquisto di una Toyoya Auris usata. Mario Dalla Tor ha acquistato 224 azioni di Veneto Banca e 200 della Banca Popolare di Vicenza. I più poveri. Se tra i più ricchi troviamo Ghedini, Brunetta e Baretta, Casson e Zanetti, la pattuglia dei più poveri comprende al Senato Mario Dalla Tor (imponibile di poco sopra i 90 mila euro) e per i deputati, con un imponibile di 75.054 euro, il mestrino Michele Mognato, l’unico deputato ad essere sotto gli 80 mila euro dichiarati al fisco. Negli ultimi anni ha pagato 26 mila euro in contributi previdenziali. Guadagna un poco di più. 93.863 euro, l’altra mestrina Delia Murer . Le donazioni liberali. Nelle dichiarazioni figurano anche le donazioni liberali ai partiti di appartenenza, praticata in particolare dai parlamentari Pd. Casson, per esempio, dichiara 21 mila euro di contributi. Martella per questa voce ne detrae 5.529. Mognato circa 4.700. I cinquestelle, invece, destinano metà dell’indennità e gran parte dei loro rimborsi mensili ad un fondo per il microcredito, rendicontando le spese sul web a disposizione del Movimento.

  • Mestre. Guadagnano meno tra i deputati veneziani ma sono ai primi posti per la presenza in aula. Michele Mognato e Delia Murer figurano al primo e secondo posto della classifica dei deputati della circoscrizione Veneto 2 tra i più assidui alla Camera. Questi e altri risultati interessanti emergono “navigando” sulla piattaforma civica di OpenPolis, strumento indipendente di monitoraggio dell’attività dei politici. Con il 97,16 per cento di presenze e solo il 2,84 di assenze il primato della presenza in aula alla Camera, tra i veneziani, spetta al mestrino Michele Mognato (Pd). Seconda la collega Delia Murer che si ferma al 95,3 per cento (15.604 presenze su 16.364). Quarto posto per il deputato cinque stelle Marco Da Villa con una presenza in aula del 87,91%. Tra i più assenti in aula alla Camera con quasi il 30 per cento di assenze si segnala Andrea Causin di Ap; Emanuele Prataviera è al 21 per cento; al 20,20 per cento il Pd Andrea Martella. OpenPolis calcola anche, con un complicato conteggio, l’indice di produttività e ai primi posti per la circoscrizione Veneto 2 della Camera ci sono dopo il Sel Giulio Marcon con 423.8 punti, l’economista veneziano Renato Brunetta (287.2) e Emanuele Prataviera (285.6). Brunetta è al 57esimo posto, Prataviera al 58esimo su 630 deputati indagati dalla piattaforma civica. Tra i senatori veneziani il primo per presenze risulta essere Mario Dalla Tor (97,6 per cento di presenze calcolate). Felice Casson è in posizione più bassa, 65,6 per cento, ma conta un alto numero di missioni per le commissioni parlamentari a cui partecipa, tra cui il Copasir. Missioni conteggiate al 32,7 per cento. La performance peggiore tra i senatori, sul fronte delle presenze, è dell’avvocato di Forza Italia Niccolò Ghedini con una percentuale di presenze davvero risibile, 0,7 per cento e il 99,02 per cento di assenze, calcolate da OpenPolis. Per la cronaca, occorre precisare che le assenze conteggiate comprendono sia le assenze fisiche dei parlamentari (escluse le missioni) sia i casi in cui i parlamentari sono presenti ma non votano. Distinguere i casi è difficile, avverte la piattaforma. L’indice di produttività più alto tra i senatori veneziani se lo aggiudica l’ex magistrato Casson, quattordicesimo su 324 senatori presi in esame. Ghedini ha l’indice di produttività più basso, 0.7. Ci si può divertire anche a mettere a confronto i due senatori di opposti schieramenti. Ghedini, senatore da 14 anni e 305 giorni per Forza Italia, è risultato assente 12.696 volte contro il collega Casson, parlamentare del Pd da 9 anni e 337 giorni, e assente nell’ultima legislatura solo 207 volte. I due hanno espresso lo stesso tipo di voto solo 8 volte nelle 74 votazioni in cui hanno entrambi partecipato a Palazzo Madama. E poi, tra le curiosità, c’è il dato sui “voti ribelli”, ovvero le volte in cui un parlamentare ha votato in maniera differente alle indicazioni del suo partito di appartenenza. 280 i voti ribelli di Casson, zero quelli di Ghedini. Tra i deputati, il veneziano più ribelle è Andrea Causin di Ap, con 333 voti ribelli. 113 i voti in libertà di Emanuele Prataviera del gruppo misto; 71 quelli di Enrico Zanetti; 62 per Michele Mognato; 49 per il cinquestelle Marco Da Villa. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il Veneto che aggancia la ripresa minato da giovani in fuga e crisi delle banche di Federico Nicoletti La Fondazione Nordest avvisa il sistema: “Perdiamo duemila laureati all’anno” Padova. Il Nordest a caccia di ripresa, senza giovani e senza banche. Un 2015 di «svolta», con gli indici dell’economia che tornano positivi. Un fatto atteso per i sei lunghi anni della recessione post Lehman Brothers. Eppure, ora che l’inversione c’è e pare sostenersi anche nel 2016, la svolta di una ripresa «leggera» non appare cosa per cui appassionarsi. Anche perché i problemi di prospettiva - dalla fuga dei giovani, agli effetti dello sboom delle ex banche popolari che hanno bruciato 10 miliardi, fino al fallimento delle iniziative di sistema, da Veneto Nanotech, alle città metropolitane, al fronte veneto dell’Expo - paiono lanciare ombre ben più lunghe sul Triveneto. Insomma, più avvisi ai naviganti che facili entusiasmi, nel rapporto 2016 che Fondazione Nordest ha presentato ieri a Padova, al Museo della medicina. Quasi che al giro di boa della ripresa il think-tank degli industriali diretto da Stefano Micelli volesse sollecitare un radicale e indispensabile cambio di passo. Lo stesso presidente della Fondazione, Francesco Peghin, lo afferma in

  • premessa, quando dice che la crisi è stato «un bagno di umiltà», che ha imposto «un cambio di prospettiva, che deve partire da eccellenze ed esempi nell’impresa, nella scienza e nel sociale. Non servono più politiche isolazioniste, ma una partita da giocare in modo coeso col Paese». Poi Micelli. Tocca a lui delineare il 2015 di «svolta» con il Pil dopo anni negativi che cresce dello 0,8%, tornando ai 191 miliardi di euro su scala triveneta visti nel 2000. I consumi sono in leggera ripresa dell’1,3%, come gli investimenti. E perfino a Nordest si aggiungono alla certezza dell’export, con quel +5,8% in più nel 2015, che proietta il valore a Nordest verso gli 80 miliardi di euro, ben oltre il valore pre-crisi di 70 nel 2007, grazie al ritorno dei mercati più familiari, dall’Europa agli Usa. E poi sul lavoro la disoccupazione è «oggettivamente in calo» e il Jobs Act, con i 60 mila posti di lavoro dipendente in più netti nel 2015, che, dice Micelli, «è stato un successo, con le sue 190 mila assunzioni incentivate per il 60%, pur se sull’esonero contributivo pone problemi di tenuta per i conti dello Stato». Ma è proprio sul lavoro, in particolare dei giovani, che prendono il via gli avvisi ai naviganti. Perché il tasso di disoccupazione tra 25 e 34 anni tra i laureati è l’11,5%, maggiore di quello dei diplomati, l’8,1%. E non succede per le classi di età superiori. Prologo a una questione demografica, secondo Micelli, con «numeri drammatici». Il tasso di fertilità è di 1,38 figli per donna in Veneto; e la dinamica degli stranieri residenti, fondamentale fino al 2009, s’è fermata: nel 2015 i residenti calano da 719 mila a 715 mila. Risultato: per ogni persona che lavora a Nordest ce ne sono due inattive. «E sugli over 65 - aggiunge Micelli - si arriva a punte di due nonni per ogni under 15. In più il Nordest fatica ad attrarre giovani». Con il fenomeno nuovo di chi se ne va: 12.300 quelli nel 2014, con un saldo negativo tra chi arriva e chi va di novemila persone e quasi duemila laureati. «La rapidità con cui ciò avviene ci deve mettere in allarme - dice il direttore -. Sono giovani su cui abbiamo investito e che non credono più in quest’area. E dai giovani, dal capitale umano dobbiamo ripartire». Non è ancora finita. Perché vanno aggiunti gli effetti della crisi delle due ex banche popolari. Da indagare nei numeri - e Fondazione Nordest sta lanciando una ricerca -. Ma gli effetti su reddito disponibile e su consumi e investimenti, come sulla fiducia che Bpvi e Veneto Banca avevano costruito intorno a loro, sono per Micelli già facilmente intuibili. Non è che l’ultimo degli «inciampi» sistemici del Veneto, dopo il fallimento di Veneto Nanotech, e quindi del trasferimento tecnologico, e lo scandalo Mose, punta avanzata del fallimento sulle infrastrutture. Le popolari come un nuovo Mose? Micelli non arriva a tanto. Ma il suggerimento è chiaro: «Dobbiamo riflettere in maniera critica per capire cosa non ha funzionato». Con un ultimo corollario, sui fallimenti delle iniziative strutturali regionali: il successo, nel 2015, dell’Expo e di Milano, contrapposto al fallimento delle iniziative a Nordest e «del processo di un’area metropolitana che abbiamo sostenuto e che non è decollata». E che anzi si frantuma tra Venezia, la smart city di Treviso e la Grande Padova. Insomma, siamo all’atavico «fare sistema», invocato e disatteso. Con una complicazione rispetto al passato: «La somma di tante buone iniziative - conclude Micelli -. non fa più il successo di un’area nel suo complesso». Pag 11 Al Papa la lettera di don Torta: “Francesco ci ha benedetti, siamo sicuri che la leggerà” di Paolo Coltro I risparmiatori: “Noi truffati, tutti vittime” Vicenza. «Ah, don Enrico Torta...». Affiora il nome del parroco di Dese sulle labbra di Papa Francesco: che conosce bene quel prete combattivo, difensore dei piccoli risparmiatori veneti rovinati dalle banche. Don Enrico aveva già scritto una lettera al Papa nel febbraio dell’anno scorso, su un imprenditore suicida, e Francesco aveva risposto di suo pugno. Poi il parroco era andato in Vaticano con due commesse di supermercato per protestare contro il lavoro domenicale, e aveva avuto un colloquio con il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin. Il parroco di provincia della Chiesa militante dev’essere simpatico al pontefice, anche come guida del Coordinamento delle Associazioni Soci Banche Popolari Venete, ieri avrebbero potuto salutarsi: ma don Enrico, aveva lasciato a casa le pillole per il cuore, non s’è fidato ad affrontare l’emozione senza medicine. E così la sua lettera di denuncia – l’ennesima – contro le banche che dissanguano le sue pecorelle venete, da consegnare a Francesco, è stata affidata a tre ambasciatori: Patrizio Miatello, Gianfranco Muzio e Alfredo Belluco, di

  • Confedercontribuenti. I tre si sono conquistati un posto in prima fila, ieri all’udienza in piazza San Pietro, erano a cinque metri da Francesco. E quando il Papa si è avvicinato, Miatello ha pronunciato quella frase ripetuta mille volte per prova: «Sua Santità, ho qui la lettera di don Enrico Torta sulle banche…». Poi il tempo di ascoltare le quattro parole di Francesco e di baciargli l’anello. «Adesso la nostra denuncia è nelle sue mani, siamo sicuri che la leggerà, è sensibile a questi problemi». La lettera è cruda, parla di uomini che si tolgono la vita per «l’umiliazione di non poter restituire il prestito della banca», «persone che perdono la casa o le loro attività per debiti accumulati». E si citano a chiare lettere Veneto Banca e Popolare di Vicenza, «che con vari meccanismi hanno azzerato i risparmi di generazioni dei circa 220 mila soci risparmiatori per circa 16/20 miliardi di euro, e sono compromessi beni immobili vincolati da circa 300 mila ipoteche». A Francesco, per tutte queste vittime, si chiede una preghiera e una benedizione: e quest’ultima, arrivata in diretta all’udienza, «gliela portiamo a casa ai nostri», dice Miatello. La Chiesa ascolta, e non solo. Nell’omelia del lunedì dell’Angelo, l’arcivescovo di Udine, il trevigiano Andrea Bruno Mazzoccato, ha detto che lo «spirito del male» degli attentatori di Bruxelles è lo stesso di quei «finanzieri indemoniati dall’animo cinico». E il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, a dicembre, era stato schietto: «Don Torta ha ragione. Noi abbiamo il compito di dare un conforto spirituale ma anche operativo alle persone». LA NUOVA Pag 14 La ripresa non basta più: “Usciamo ridimensionati” di Eleonora Vallin Fondazione Nordest, rapporto 2016. Banche e ricerca: serve governante sul territorio Padova. Il 2015 fa tutta un’altra impressione narrato tra le pagine del rapporto Nordest. Un anno «anomalo» dal punto di vista del lavoro, dopato da sgravi e Jobs Act ma anche «un anno di svolta» evidenzia il direttore scientifico Stefano Micelli: «Dopo sette anni di crisi, ci aspettavamo una ripresa ed effettivamente c’è stata». Ma a che prezzo? E su che livelli? Di certo non quelli del 2008. «È tempo di fare i conti con un ridimensionamento» esordisce il presidente della Fondazione Francesco Peghin. E, per la prima volta, emerge un sommerso esploso proprio in questo 2015. Come i 10 miliardi di euro bruciati nei portafogli di famiglie e imprese che hanno investito nelle azioni delle due banche Popolari venete. Il debito lasciato dal fallimento di Veneto Nanotech e i 10 milioni che ora le Università dovranno pagare alla Regione. E non è tutto. La pulce all’orecchio la mette Gianni Mion, ospite della tavola rotonda ieri a Padova al museo della Medicina. «Vorrei leggere un altro numero in questo rapporto – chiarisce il vice presidente di Edizione – per capire a quanto ammontano i Npl (crediti non performing, ndr) in carico alle banche ma che sono delle aziende: un problema che non trova soluzione». «Vorrei capire – chiarisce – quante sono le aziende non performing quindi potenzialmente in crisi, perché ho l’impressione che ci sia un serbatoio di crisi inespressa che prima o poi dovrà emergere. Se non risolviamo il tema del debito, sarà difficile andare avanti». Bisogna però guardare avanti e Stefano Micelli lancia la sfida: quella del capitale umano. «Ripartiamo dai giovani e da una nuova scuola capace di attrarli in diversi percorsi formativi». Da qui la presenza dell’americano Robert Schwarz che ha portato al tavolo dei relatori l'esperienza di Harvard e degli Usa, che stanno rilanciando manifattura e nuovi percorsi tecnici. Rimbalza così, a resoconto, il successo dei Fab lab nelle scuole del Nordest: «Oggi siamo un punto di riferimento nazionale» dice Micelli. Alle spalle c’è la scommessa del nuovo manifatturiero: «Noi esportiamo manifattura in una pluralità di eccellenze – spiega l'economista – ma dobbiamo mettere a fuoco una dimensione più vasta dell’internazionalizzazione che veda anche attrarre multinazionali straniere e addetti». Resta l’export, dunque, il traino, +5,8% la crescita a Nordest rispetto il +4,2% d’Italia. Ma il Pil a Nordest, +0,8%, si è omologato a quello nazionale, incapace di recuperare gli 8 punti persi dal 2007. «Quello che conforta è che Prometeia parla di una crescita dell’1,3% per il 2016 – dice Micelli – abbiamo intrapreso un percorso». Nel 2015 la Fondazione registra una leggera ripresa degli investimenti, +1%, e dei consumi, +1,3%, ma il Pil procapite resta inferiore alla media Ue: «Lo scarto di ricchezza tra Nordest e il Baden-Wurttemberg è pesante: nel 2000 il Pil procapite a Nordest era del 41% superiore alla media Ue, in linea con le aree tedesche +36%. Oggi siamo a +13, quello del Baden +44» dice Micelli. Buoni i dati sul fronte lavoro: cala la disoccupazione

  • (tasso al 7,7%), ma la base resta stabile, 3 milioni di occupati. Purtroppo alla ricerca di lavoro ci sono i giovani e qui soffrono di più i laureati dei diplomati. Positivi gli effetti del Jobs Act (+15% le assunzioni nel 2015) ma a incidere sono gli sgravi (almeno il 58% delle 190 mila assunzioni del 2015 ne ha beneficiato). Il cui conto ora, però, è a debito del governo. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il valore segreto di un referendum di Michele Ainis Ideologia, potere e trivelle Avanza a fari spenti un referendum. Pochi s’accorgono della sua marcia silenziosa, e forse saranno anche di meno gli italiani che monteranno a bordo, quando il veicolo avrà raggiunto le urne elettorali. D’altronde si tratta d’un quesito minimo, minuscolo: sì o no alle trivellazioni sull’Adriatico, però entro le 12 miglia dalla costa, però senza toccare l’estrazione di gas e di petrolio in terraferma o in mare aperto, però senza interrompere le trivellazioni in corso, però senza nemmeno incidere sulle future concessioni, già vietate dalla legge. È in gioco unicamente l’eventualità che le compagnie petrolifere ottengano una proroga finché non s’esaurisca il giacimento, tutto qui. Pinzillacchere, direbbe Totò. Tuttavia non è affatto sicuro che questo referendum ci interroghi su questioni trascurabili. Nessuna consultazione popolare è mai insignificante, quale che sia il suo oggetto. Perché ogni referendum espone sempre un doppio tema: l’uno diretto, che si legge nella domanda trascritta sulla scheda elettorale; l’altro indiretto, dove s’affaccia viceversa una rete d’allusioni e di rimandi, un’evocazione, una carica simbolica. Così, nel 1985 il referendum sulla scala mobile segnò l’isolamento del Pci. Così, nel 1991 il referendum sulla preferenza unica modificò un dettaglio della legge elettorale, ma avviò al contempo i funerali della Prima Repubblica. Probabilmente in questo caso non scriveremo un’altra pagina di storia. Sennonché pure stavolta c’è un significato ulteriore rispetto a quello più immediato. Anzi: i doppi sensi sono almeno il doppio, sono quattro. Primo: il risvolto istituzionale. Il 67º referendum abrogativo dell’Italia repubblicana è anche il primo promosso dalle Regioni. Dalla Liguria alla Calabria, dal Veneto alla Puglia, sono addirittura 9 i Consigli regionali che hanno puntato l’arma referendaria contro una legge benedetta dal governo nazionale. Regioni settentrionali e meridionali, amministrate dalla destra oppure dalla sinistra. Dunque si profila uno scontro fra poteri, ancor prima che fra partiti e movimenti. La posta in gioco: chi decide sull’energia? Secondo la Costituzione vigente, decidono insieme lo Stato e le Regioni; secondo la Costituzione prossima ventura, deciderà solo lo Stato. E allora ecco, puntuale, la reazione. Che non ha mai troppo riguardo alle bandiere di partito, quando c’è da presidiare l’orticello delle proprie competenze. E che oltretutto associa 9 governatori eletti, contro un presidente del Consiglio non eletto. Sicché il referendum potrà delegittimare i primi, rilegittimare il secondo: un torneo a eliminazione diretta. Secondo: il risvolto politico. Come succede fatalmente da un paio d’anni, ogni occasione diventa altresì un pretesto per regolare i conti all’interno del Pd; e infatti maggioranza e minoranza militano in due fronti contrapposti. Ma quest’ultima si trova in compagnia, più o meno rumorosa, della Lega, i Cinque Stelle, pezzi di Forza Italia, Sel. Guardacaso, lo stesso schieramento che si prepara ad affrontare la madre di tutte le battaglie, il referendum costituzionale d’ottobre. Il 17 aprile ne vedremo perciò le prove generali, e sarà un gran bel vedere. Terzo: il risvolto giuridico. Doppio anche questo, perché il nostro ordinamento contempla, da una parte, il dovere civico del voto; sicché nei referendum organizzare l’astensione è «un trucco», un espediente per far saltare il quorum, come denunziò Norberto Bobbio nel giugno 1990. Dall’altra parte, concepisce il voto come diritto, e i diritti non sono obbligatori, ciascuno può scegliere se e quando esercitarli. Perciò è legittimo ogni appello all’astensione, tanto più che i costituenti dettarono un quorum per la validità dei referendum. È questa la posizione del Pd sulle trivelle, ma i precedenti sono più lunghi d’un lenzuolo. Tuttavia due norme in vigore (l’articolo 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera; l’articolo 51 della legge

  • che disciplina i referendum) castigano l’astensione organizzata da chiunque sia «investito di un pubblico potere» con pene detentive (da 6 mesi a 3 anni). Sono norme figlie d’una stagione ormai trascorsa, quando votava il 90% della popolazione, quando l’astensionista doveva addirittura giustificarsi presso il sindaco. Ma sta di fatto che a nessun governo è venuto in mente d’abrogarle. Quarto: il risvolto ambientale. Dovrebbe essere al centro della consultazione, ed è così, quantomeno a parole. Sennonché in questo caso non si tratta di proteggere l’udito dei cetacei minacciato dall’air-gun, come sostengono le associazioni ecologiste; tutto sommato non si tratta nemmeno d’opporre ambiente e occupazione, come prospettano i sindacati. No, la posta in palio investe la credibilità delle classi politiche regionali, che rifiutano la trivellazione, però allevano i colibatteri nelle acque dell’Adriatico, disinteressandosi dei depuratori così come di controllare i fiumi. E investe perciò il progetto stesso d’una politica ambientale, lungimirante, coerente, complessiva, dove ci sia anche spazio per le energie rinnovabili. In Italia coprono il 17% dei consumi; in Norvegia, Islanda, Svezia, oltre la metà. Non a caso Avvenire, per sposare il referendum, ha richiamato le parole di Bergoglio, il monito papale contro le tecnologie basate sui combustibili. Il 17 aprile voteremo anche sul papa. Pag 3 Accompagnatori, ciechi e falsi invalidi: quei 15 miliardi di welfare clientelare di Sergio Rizzo Gli abusi e la politica L’inascoltato ex commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli l’aveva scritto nel suo rapporto. Una «distribuzione territoriale» delle pensioni di invalidità squilibrata al punto che gli assegni pagati in Calabria sono in proporzione agli abitanti almeno il doppio di quelli erogati in Emilia-Romagna «suggerisce abusi». Ma forse non ci voleva nemmeno un giudizio così autorevole per rendersene conto. Sarebbe stato sufficiente dare un’occhiata men che superficiale ai numeri noti da anni. L’Inps ci ha detto ieri che in Italia si pagano 2 milioni 980.799 «prestazioni» agli invalidi civili. Dove per «prestazioni» si intendono pensioni e indennità di accompagnamento oltre agli assegni per ciechi e sordomuti. Ebbene, un milione 335.093 di questi trattamenti di invalidità, pari al 44,8 per cento del totale, riguardano il Sud, dove risiede il 34,4 per cento della popolazione. Nelle Regioni meridionali il rapporto è dunque di un assegno ogni 15,6 abitanti, contro uno ogni 23,5 nel resto del Paese. Mentre se le pensioni di invalidità fossero in proporzione identica rispetto al Centro Nord, il loro numero non dovrebbe superare 890 mila. Quindi ce ne sarebbero 445 mila di troppo: un terzo. Tutti abusi? Sicuramente no. Sappiamo che nel Mezzogiorno le condizioni di vita e di lavoro sono in molti casi ben diverse che nelle altre Regioni. E questo potrebbe forse spiegare alcune differenze. Ma non certi abissi che alimentano il sospetto. In Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ci sono 45 pensioni definite «assistenziali» per ogni mille abitanti. In Campania, invece, sono 84. In Puglia 85, in Sicilia 91, in Sardegna 92 e in Calabria addirittura 97. Il fatto è che al Sud le pensioni di invalidità non hanno mai smesso di rappresentare una forma di sussidio. In una intervista rilasciata alla Stampa nel 2003 lo ammise candidamente uno dei leader meridionali più attrezzati nella raccolte del consenso. «Per un lungo periodo, indubbiamente, alla Cassa integrazione degli operai al Nord corrispondeva al Sud come ammortizzatore sociale la pensione di invalidità che serviva a moderare e mitigare la scarsa presenza dello Stato al Sud. Una forma di equilibrio», arrivò a dire Clemente Mastella. Che per anni, imperterrito, aveva continuato a difendere contro tutto e tutti quel curioso equilibrismo. Anche dal cospetto dei rigurgiti rigoristi dell’Inps: «Il Sud è una polveriera, può esplodere da un momento all’altro. Il clima è preinsurrezionale. Stanno togliendo le pensioni di invalidità in modo indiscriminato». Lamenti del tutto inutili, se è vero che a dispetto dei giri di vite più volte annunciati la spesa per le pensioni di invalidità ha continuato a galoppare. Il rapporto annuale 2014 dell’istituto di previdenza ora guidato da Tito Boeri informa che fra il 2004 e il 2016 l’esborso per quei trattamenti è letteralmente esploso, passando da 8,5 a 15,4 miliardi, con un aumento dell’81,1 per cento. Mentre il loro numero è cresciuto di almeno il 50 per cento, da un milione 980 mila ai quasi tre milioni che abbiamo citato. Questo grazie soprattutto alla progressione delle indennità di accompagnamento, le quali contrariamente alle pensioni non vengono erogate in rapporto al reddito. E se il tasso di crescita ha rallentato negli ultimi anni è una ben magra consolazione al confronto della

  • situazione ereditata dagli anni d’oro. Quelli, per capirci, in cui quella forma di «equilibrio» veniva usata dai politici come leva clientelare. Talvolta anche con risvolti di carattere personalistico. Tre anni fa Amalia De Simone ha raccontato sul Corriere.it che fra i parenti stretti di 30 consiglieri di uno dei dieci municipi di Napoli si potevano contare 60 pensioni di invalidità. Per non parlare dell’epidemia di cecità che tradizionalmente colpisce la Sicilia: Regione che pur contando un dodicesimo circa della popolazione italiana ha un settimo di tutti i non vedenti italiani. Ma che non sia stato fatto nulla, soprattutto in questi ultimi anni, non si può certamente dire. Le indagini giudiziarie hanno portato alla luce tanti di quegli abusi ai quali faceva riferimento Cottarelli. Basta dire che nel 2014 e nella sola Campania, 18.846 controlli hanno fatto scoprire 5.543 irregolarità, con la revoca di altrettante pensioni: quasi il 30 per cento. Sarebbe però poco onesto negare che sopravvivano difficoltà pratiche per combattere e stroncare questo fenomeno. E in cima, inutile negarlo, ci sono anche alcune resistenze della politica. Due anni fa il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, appena insediato, aveva promesso un taglio «drastico» alle false pensioni di invalidità. Secondo i dati dell’Inps, fra il gennaio 2015 e il gennaio 2016 il numero dei trattamenti di quel genere è aumentato di 94.997 unità. Pag 16 Tra digiuni, appelli e preghiere la campagna dei vescovi “No Triv” di Virginia Piccolillo Iniziativa di 80 diocesi a San Pietro. Incrocio riforme – referendum, scontro alla Camera Roma. Digiuno e preghiera in piazza San Pietro contro le trivelle (e per l’acqua pubblica). Ottanta diocesi si ritroveranno sabato prossimo alle 12 sotto la finestra del Papa, per attirare l’attenzione sul referendum del 17 aprile: per l’abolizione della norma che ha reso senza scadenza le autorizzazioni alle ricerche e alle estrazioni degli idrocarburi da parte delle concessionarie private. Una mobilitazione che cresce dal basso, all’interno della Chiesa. E dopo il vescovo di Catanzaro, Vincenzo Bertolone («la Chiesa non si impiccia ma non rimane sorda e muta»), la pastorale del Piemonte («le coste sono un patrimonio di tutti»), le diocesi dell’Abruzzo e del Molise, anche l’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, e quelli di Ugento e Trani invitano a votare «sì». Lorenzo Ghisleri, vescovo di Ravenna, città dove è importante l’indotto petrolifero, invece dice: «Non intendo esprimermi». Monsignor Galantino, portavoce della Cei, torna a lanciare dalle colonne del Corriere un appello al governo «a creare luoghi seri di confronto evitando semplificazioni e scomuniche contrapposte». Intanto però viene respinta dalla capigruppo della Camera la richiesta delle opposizioni di uno stop ai lavori sul ddl Boschi, per dare spazio alla campagna referendaria: si andrà avanti, fino al voto finale del 12 Aprile. Sul merito monsignor Galantino si tiene un passo indietro. Spiega che «c’è l’invito del Papa, nella Laudato si’, ad andare oltre le posizioni attualmente acquisite per la produzione dell’energia. Poi ci sono i pronunciamenti dei singoli vescovi rivolti alle comunità locali che sono direttamente interessate dal problema». «Da parte della Cei - chiarisce - chiediamo da tempo che ci si confronti di più per arrivare a soluzioni condivise, perché sta venendo meno il coraggio di andare oltre la cultura del “sì o no”». C’è ancora tempo? «Non so - dice - però l’enciclica del Papa c’è da molto tempo. Se non lo facciamo mai ci troveremo un’altra volta a questo stesso punto». Il governo ha già deciso. Dunque? «Il governo deve dare la soluzione, ma è sua responsabilità creare luoghi di confronto». Sul territorio le posizioni sono molto meno diplomatiche. «L’età del petrolio è finita se vogliamo salvarci su questo pianeta», sintetizza padre Alex Zanotelli, comboniani, che ha aderito all’invito della Rete interdiocesana per i nuovi stili di vita. E sabato digiunerà «per aiutare la gente a capire che bisogna dire basta. L’ultimo quesito rimasto è sufficiente - spiega - per inviare un messaggio: non si può più continuare a trivellare per mare e per terra. Cercheremo anche di far capire che, dopo tanto faticare per 5 anni, il ministro Madia ha vanificato il referendum favorevole all’acqua pubblica e non commercializzabile, cancellando l’art.6 della legge». Posizioni condivise che cominciano a farsi sentire a voce alta. «La nostra azione pastorale comporta il bene della persona, e quindi anche la difesa della vita e del territorio. Soprattutto dopo la Laudato si’ , questo impegno non può essere un optional», dice il vescovo di Taranto. «Sono contro le trivelle. Perché sono vescovo di Mazara del Vallo e di Pantelleria e mi rendo conto che se dovesse accadere qualche incidente (cosa non improbabile) il Mediterraneo

  • che è un mare chiuso sarebbe morto per sempre», dice monsignor Mogavero. Pessimista? «No. Con i siti di trivellazione o con il trasporto, di incidenti ne sono successi dappertutto e garanzie che da noi non accadano non ce ne sono. E il nostro non è il mare del Nord. Da risorsa naturale si trasformerebbe in una tomba a fronte di un vantaggio che non risolve la nostra situazione energetica. E poi più si mantiene in vita questo sistema e meno ricerchi in fonti di energia diverse ci saranno». Un coro di «sì»: è questa la posizione della Chiesa? «La Chiesa è un corpo grande - risponde il direttore dell’Avvenire, Marco Tarquinio - però soprattutto da parte della Chiesa del Sud, Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria, è venuto un segnale molto forte e preciso di resistere a pratiche che non contemplino il rispetto profondo della natura e delle vocazioni economiche e culturali dei territori. Tutti gli elementi chiedono di riflettere bene sull’utilizzo delle energie fossili, anche alla luce della conferenza sul clima di Parigi. E del resto non si può applaudire all’Enciclica Laudato si’ dicendo “che bello, che giusto”. E poi fare finta di nulla». Pag 26 Tolleranza non è ridurre le libertà delle donne di Michela Marzano Pare che George Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe richiesto loro di adempiere il servizio militare, avesse detto che gli «scrupoli di coscienza di tutti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande cura e gentilezza». E che quindi, in nome della tolleranza, si sarebbe dovuta «accomodare» persino la legge. Ma fino a che punto si possono «accomodare» alcuni diritti? È giusto arretrare anche solo sulle proprie abitudini? È ammissibile, per le donne, rinunciare a quelle libertà conquistate da poco e con tanta fatica, come è accaduto recentemente ad Amsterdam dove sono stati vietati minigonne e stivali sexy negli uffici comunali per non urtare la sensibilità di una clientela multietnica? Si può, per dirla in altri termini, tollerare l’intolleranza altrui senza rischiare di cancellare la possibilità stessa della tolleranza? La tolleranza, come ci insegnano Locke o Voltaire, non è solo quella virtù che porta a rispettare l’altro e le sue differenze. È anche e soprattutto ciò che permette di organizzare il vivere-insieme quando si hanno opinioni morali, politiche e religiose diverse, spingendoci a sopportare anche ciò che si disapprova. In che senso? Nel senso che quegli «scrupoli di coscienza» di cui parlava Washington non dovrebbero impedire alle donne di vestirsi come vogliono o agli umoristi di ironizzare o far ridere su qualunque cosa. Esattamente come non dovrebbero impedire, a chi lo desidera, di augurare ad amici e a parenti «Buon Natale» o «Buona Pasqua», solo perché il Natale o la Pasqua sono festività cristiane. Ecco perché in ogni democrazia liberale e pluralista, pur non sopportando il fatto che una donna si veli, si dovrebbe essere capaci di accettarlo; esattamente come si dovrebbe accettare il fatto che alcune donne mettano la minigonna o vadano in giro con abiti sexy, anche quando la cosa infastidisce. A meno di non voler distruggere proprio la tolleranza, visto che «tolleranza» e «intolleranza» non fanno altro che elidersi reciprocamente. Se in nome della tolleranza si tollerasse l’intolleranza si finirebbe d’altronde con lo svuotare di senso il concetto stesso di tolleranza. È questo che vogliamo? Siamo sicuri che è il modo migliore per promuovere l’integrazione nei nostri Paesi? Non rischiamo così di aumentare la conflittualità e, nel nome della convivenza, di rinunciare a valori e ideali per i quali si sono battute generazioni intere di uomini e di donne? L’integrazione non è mai facile. Non lo è per nessuno. Non lo è stato per gli Italiani, i Polacchi, gli Spagnoli e i Portoghesi che sono e