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RASSEGNA STAMPA di venerdì 27 ottobre 2017 SOMMARIO «Il lavoro in nero e il lavoro precario uccidono: sono parole di Papa Francesco nel videomessaggio inviato ai partecipanti alla quarantottesima settimana sociale dei cattolici italiani che si è aperta ieri pomeriggio a Cagliari. “Vi riunite - ha detto -sotto la protezione e con l’esempio del Beato Giuseppe Toniolo, che nel 1907 promosse le Settimane Sociali in Italia. La sua testimonianza di laico è stata vissuta in tutte le dimensioni della vita: spirituale, familiare, professionale, sociale e politica. Per ispirare i vostri lavori, vi propongo un suo insegnamento. «Noi credenti - scriveva - sentiamo, nel fondo dell’anima, [...] che chi definitivamente recherà a salvamento la società presente non sarà un diplomatico, un dotto, un eroe, bensì un santo, anzi una società di santi» (Dal saggio Indirizzi e concetti sociali). Fate vostra questa “memoria fondativa”: ci si santifica lavorando per gli altri, prolungando così nella storia l’atto creatore di Dio. Nelle Scritture troviamo molti personaggi definiti dal loro lavoro: il seminatore, il mietitore, i vignaioli, gli amministratori, i pescatori, i pastori, i carpentieri, come San Giuseppe. Dalla Parola di Dio emerge un mondo in cui si lavora. Il Verbo stesso di Dio, Gesù, non si è incarnato in un imperatore o in un re ma «spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo» per condividere la nostra vicenda umana, inclusi i sacrifici che il lavoro richiede, al punto da essere noto come falegname o figlio del falegname. Ma c’è di più. Il Signore chiama mentre si lavora, come è avvenuto per i pescatori che Egli invita per farli diventare pescatori di uomini. Anche i talenti ricevuti, possiamo leggerli come doni e competenze da spendere nel mondo del lavoro per costruire comunità, comunità solidali e per aiutare chi non ce la fa. Il tema di questa Settimana Sociale è «Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo e solidale». Così nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho voluto definire il lavoro umano. Grazie per avere scelto il tema del lavoro. «Senza lavoro non c’è dignità»: lo ripeto spesso, ricordo proprio a Cagliari nel 2013, e lo scorso maggio a Genova. Ma non tutti i lavori sono «lavori degni». Ci sono lavori che umiliano la dignità delle persone, quelli che nutrono le guerre con la costruzione di armi, che svendono il valore del corpo con il traffico della prostituzione e che sfruttano i minori. Offendono la dignità del lavoratore anche il lavoro in nero, quello gestito dal caporalato, i lavori che discriminano la donna e non includono chi porta una disabilità. Anche il lavoro precario è una ferita aperta per molti lavoratori, che vivono nel timore di perdere la propria occupazione. Io ho sentito tante volte questa angoscia: l’angoscia di poter perdere la propria occupazione; l’angoscia di quella persona che ha un lavoro da settembre a giugno e non sa se lo avrà nel prossimo settembre. Precarietà totale. Questo è immorale. Questo uccide: uccide la dignità, uccide la salute, uccide la famiglia, uccide la società. Il lavoro in nero e il lavoro precario uccidono. Rimane poi la preoccupazione per i lavori pericolosi e malsani, che ogni anno causano in Italia centinaia di morti e di invalidi. La dignità del lavoro è la condizione per creare lavoro buono: bisogna perciò difenderla e promuoverla. Con l’Enciclica Rerum novarum di Papa Leone XIII, la Dottrina sociale della Chiesa nasce per difendere i lavoratori dipendenti dallo sfruttamento, per combattere il lavoro minorile, le giornate lavorative di 12 ore, le insufficienti condizioni igieniche delle fabbriche. Il mio pensiero va anche ai disoccupati che cercano lavoro e non lo trovano, agli scoraggiati che non hanno più la forza di cercarlo, e ai sottoccupati, che lavorano solo qualche ora al mese senza riuscire a superare la soglia di povertà. A loro dico: non perdete la fiducia. Lo dico anche a chi vive nelle aree del Sud d’Italia più in difficoltà. La Chiesa opera per un’economia al servizio della persona, che riduce le disuguaglianze e ha come fine il lavoro per tutti. La crisi economica mondiale è iniziata come crisi della finanza, poi si è trasformata in crisi economica e occupazionale. La crisi del lavoro è una crisi ambientale e sociale insieme. Il sistema economico mira ai consumi, senza preoccuparsi della dignità del lavoro e della tutela dell’ambiente. Ma così è un po’

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 27 ottobre 2017

SOMMARIO

«Il lavoro in nero e il lavoro precario uccidono: sono parole di Papa Francesco nel videomessaggio inviato ai partecipanti alla quarantottesima settimana sociale dei

cattolici italiani che si è aperta ieri pomeriggio a Cagliari. “Vi riunite - ha detto -sotto la protezione e con l’esempio del Beato Giuseppe Toniolo, che nel 1907 promosse le

Settimane Sociali in Italia. La sua testimonianza di laico è stata vissuta in tutte le dimensioni della vita: spirituale, familiare, professionale, sociale e politica. Per

ispirare i vostri lavori, vi propongo un suo insegnamento. «Noi credenti - scriveva - sentiamo, nel fondo dell’anima, [...] che chi definitivamente recherà a salvamento la società presente non sarà un diplomatico, un dotto, un eroe, bensì un santo, anzi una società di santi» (Dal saggio Indirizzi e concetti sociali). Fate vostra questa “memoria fondativa”: ci si santifica lavorando per gli altri, prolungando così nella storia l’atto creatore di Dio. Nelle Scritture troviamo molti personaggi definiti dal loro lavoro: il

seminatore, il mietitore, i vignaioli, gli amministratori, i pescatori, i pastori, i carpentieri, come San Giuseppe. Dalla Parola di Dio emerge un mondo in cui si lavora. Il Verbo stesso di Dio, Gesù, non si è incarnato in un imperatore o in un re ma «spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo» per condividere la nostra vicenda umana,

inclusi i sacrifici che il lavoro richiede, al punto da essere noto come falegname o figlio del falegname. Ma c’è di più. Il Signore chiama mentre si lavora, come è

avvenuto per i pescatori che Egli invita per farli diventare pescatori di uomini. Anche i talenti ricevuti, possiamo leggerli come doni e competenze da spendere nel mondo del lavoro per costruire comunità, comunità solidali e per aiutare chi non ce la fa. Il

tema di questa Settimana Sociale è «Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo e solidale». Così nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho voluto definire il lavoro umano. Grazie per avere scelto il tema del lavoro. «Senza lavoro non c’è dignità»: lo ripeto spesso, ricordo proprio a Cagliari nel 2013, e lo scorso maggio a Genova. Ma non tutti i lavori sono «lavori degni». Ci sono lavori che umiliano la dignità delle persone, quelli che nutrono le guerre con la costruzione di armi, che svendono il valore del corpo con il traffico della prostituzione e che sfruttano i minori. Offendono la dignità del lavoratore anche il lavoro in nero, quello gestito dal caporalato, i lavori che discriminano la donna e non includono chi porta una disabilità. Anche il lavoro

precario è una ferita aperta per molti lavoratori, che vivono nel timore di perdere la propria occupazione. Io ho sentito tante volte questa angoscia: l’angoscia di poter perdere la propria occupazione; l’angoscia di quella persona che ha un lavoro da settembre a giugno e non sa se lo avrà nel prossimo settembre. Precarietà totale. Questo è immorale. Questo uccide: uccide la dignità, uccide la salute, uccide la

famiglia, uccide la società. Il lavoro in nero e il lavoro precario uccidono. Rimane poi la preoccupazione per i lavori pericolosi e malsani, che ogni anno causano in Italia

centinaia di morti e di invalidi. La dignità del lavoro è la condizione per creare lavoro buono: bisogna perciò difenderla e promuoverla. Con l’Enciclica Rerum novarum di

Papa Leone XIII, la Dottrina sociale della Chiesa nasce per difendere i lavoratori dipendenti dallo sfruttamento, per combattere il lavoro minorile, le giornate

lavorative di 12 ore, le insufficienti condizioni igieniche delle fabbriche. Il mio pensiero va anche ai disoccupati che cercano lavoro e non lo trovano, agli scoraggiati che non hanno più la forza di cercarlo, e ai sottoccupati, che lavorano solo qualche

ora al mese senza riuscire a superare la soglia di povertà. A loro dico: non perdete la fiducia. Lo dico anche a chi vive nelle aree del Sud d’Italia più in difficoltà. La Chiesa opera per un’economia al servizio della persona, che riduce le disuguaglianze e ha come fine il lavoro per tutti. La crisi economica mondiale è iniziata come crisi della finanza, poi si è trasformata in crisi economica e occupazionale. La crisi del lavoro è una crisi ambientale e sociale insieme. Il sistema economico mira ai consumi, senza preoccuparsi della dignità del lavoro e della tutela dell’ambiente. Ma così è un po’

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come andare su una bicicletta con la ruota sgonfia: è pericoloso! La dignità e le tutele sono mortificate quando il lavoratore è considerato una riga di costo del bilancio,

quando il grido degli scartati resta ignorato. A questa logica non sfuggono le pubbliche amministrazioni, quando indicono appalti con il criterio del massimo ribasso senza

tenere in conto la dignità del lavoro come pure la responsabilità ambientale e fiscale delle imprese. Credendo di ottenere risparmi ed efficienza, finiscono per tradire la

loro stessa missione sociale al servizio della comunità. Tra tante difficoltà non mancano tuttavia segni di speranza. Le tante buone pratiche che avete raccolto sono

come la foresta che cresce senza fare rumore, e ci insegnano due virtù: servire le persone che hanno bisogno; e formare comunità in cui la comunione prevale sulla

competizione. Competizione: qui c’è la malattia della meritocrazia... È bello vedere che l’innovazione sociale nasce anche dall’incontro e dalle relazioni e che non tutti i

beni sono merci: ad esempio la fiducia, la stima, l’amicizia, l’amore. Nulla si anteponga al bene della persona e alla cura della casa comune, spesso deturpata da

un modello di sviluppo che ha prodotto un grave debito ecologico. L’innovazione tecnologica va guidata dalla coscienza e dai principi di sussidiarietà e di solidarietà. Il robot deve rimanere un mezzo e non diventare l’idolo di una economia nelle mani dei

potenti; dovrà servire la persona e i suoi bisogni umani. Il Vangelo ci insegna che il Signore è giusto anche con i lavoratori dell’ultima ora, senza essere lesivo di ciò che è

«il giusto» per i lavoratori della prima ora. La diversità tra i primi e gli ultimi lavoratori non intacca il compenso a tutti necessario per vivere. È, questo, il

“principio di bontà” in grado anche oggi di non far mancare nulla a nessuno e di fecondare i processi lavorativi, la vita delle aziende, le comunità dei lavoratori. Compito dell’imprenditore è affidare i talenti ai suoi collaboratori, a loro volta

chiamati non a sotterrare quanto ricevuto, ma a farlo fruttare al servizio degli altri. Nel mondo del lavoro, la comunione deve vincere sulla competizione! Voglio

augurarvi di essere un “lievito sociale” per la società italiana e di vivere una forte esperienza sinodale. Vedo con interesse che toccherete problemi molto rilevanti, come il superamento della distanza tra sistema scolastico e mondo del lavoro, la

questione del lavoro femminile, il cosiddetto lavoro di cura, il lavoro dei portatori di disabilità e il lavoro dei migranti, che saranno veramente accolti quando potranno

integrarsi in attività lavorative. Le vostre riflessioni e il confronto possano tradursi in fatti e in un rinnovato impegno al servizio della società italiana” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag I “Lavoro nero e precarietà uccidono” Videomessaggio del Papa: senza occupazione non c’è dignità. Siate lievito sociale Pag II Bassetti: sul lavoro basta chiacchiere. Per l’Italia un piano di ricostruzione CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Le domande del Papa agli astronauti in orbita: “Quale posto ha per voi l’uomo nell’universo?” di Luigi Accattoli Francesco a Nespoli e colleghi: voi siete una piccola Onu VATICAN INSIDER Teofilo III: sullo Status Quo anche il Papa sta con noi di Gianni Valente Il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme spiega le ragioni dell’incontro con il Vescovo di Roma. E risponde anche agli attacchi dei gruppi che lo accusano di svendere le proprietà del Patriarcato 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA

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Pag 22 Fedeli e i figli da prendere a scuola: “Spetta ai genitori, lo dice la legge” di Gianna Fregonara La ministra dell’Istruzione: “Proteste inutili, solo il Parlamento può cambiarla” Pag 27 Economia dell’esistenza, la via per salvare il lavoro di Mauro Magatti

LA REPUBBLICA Pag 39 Lasciate che i ragazzini tornino a casa da soli di Chiara Saraceno AVVENIRE Pag 1 Perché ne vale la pena di Francesco Riccardi Vie per il giusto lavoro di tutti Pag 3 Imprese, il Progetto cattolico che ha conquistato la City di Silvia Guzzetti Una charity rivoluziona l’idea degli affari in Inghilterra IL GAZZETTINO Pag 1 La ripresa e gli strappi vincenti di Draghi di Giulio Sapelli 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Mose, arrivano i soldi. Incognita manutenzioni di M.F. Stanziati 210 milioni per finire l’opera Pag IV Vino dei frati, ai Carmelitani Scalzi una giornata alla scoperta dei vitigni Pag XIV Un esercito di 900 ragazzi pronto ad aiutare chi soffre di Alvise Sperandio Ieri in piazza Ferretto il raduno di studenti e coordinatori che aderiscono al progetto “Prove di un mondo nuovo” Pag XVIII Mira, ladri in canonica. Rubati i soldi per la festa dei bimbi di g.pip. Pag XIX “Angela, bella fuori e stupenda dentro” di Luisa Giantin e al.spe. Oriago sconvolta per il tragico gesto della trentottenne. La notizia ha ammutolito il consiglio comunale. “Depressione post partum, malattia da non sottovalutare” LA NUOVA Pag 20 Stranieri record a Venezia, unica provincia in crescita di Marta Artico Secondo il dossier Idos il numero di immigrati è cresciuto di 1.000 unità dal 2015. Enorme anche il flusso di denaro rispedito in patria, pari a 97 milioni di euro Pag 21 Volontari in spiaggia e ai Murazzi di s.b. Da oggi fino a domenica studenti ripuliranno il litorale del Lido Pag 48 La carica dei mille per inventare un mondo nuovo di Marta Artico 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Toscani e il vento dell’Est di Emilio Randon Noi austroungarici LA NUOVA Pag 6 Rosatellum in Veneto, il Pd rischia il tracollo di Sabrina Tomè Scenari di voto: trionfo del centrodestra con 14 seggi, ridimensionamento per i grillini … ed inoltre oggi segnaliamo…

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CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La scelta giusta per il Paese di Federico Fubini Politica e banche di Federico Fubini Pag 1 Un passo in avanti di Aldo Cazzullo Legge elettorale, luci ed ombre Pag 3 Visco, così ha respinto gli attacchi. Lo scudo di Draghi e di Mattarella di Enrico Marro LA REPUBBLICA Pag 1 Due partite senza vincitori di Massimo Giannini Pag 43 Perché l’Unesco sbaglia su Gerusalemme di Alberto Melloni AVVENIRE Pag 2 Ma non è una grottesca questione di stadio di Anna Foa Il nuovo caso di antisemitismo, ferite aperte e gravi Pag 9 Numeri e dati di fatto contro le “fake news” di Daniela Fassini Il dossier Idos sull’immigrazione IL GAZZETTINO Pag 3 Il centrodestra è in testa, ma non c’è maggioranza di Diodato Pirone Sulla base dei sondaggi. Ma i dati cambieranno non appena saranno noti i candidati uninominali LA NUOVA Pag 1 Una riforma che provoca disaffezione di Roberto Weber

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag I “Lavoro nero e precarietà uccidono” Videomessaggio del Papa: senza occupazione non c’è dignità. Siate lievito sociale «Il lavoro in nero e il lavoro precario uccidono». È la forte denuncia contenuta nel videomessaggio che Papa Francesco ha inviato ai partecipanti alla quarantottesima settimana sociale dei cattolici italiani, in corso dal pomeriggio di giovedì 26 alla mattina di domenica 29 ottobre a Cagliari. Di seguito la trascrizione del videomessaggio trasmesso in apertura dei lavori. Cari fratelli e sorelle, saluto cordialmente tutti voi che partecipate alla 48ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, convocata a Cagliari. Rivolgo il mio saluto fraterno al Cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ai Vescovi presenti, all’Arcivescovo Filippo Santoro, ai membri del Comitato Scientifico e Organizzatore, ai delegati delle diocesi italiane, ai rappresentanti dei movimenti e delle associazioni legate al lavoro e a tutti gli invitati. Vi riunite sotto la protezione e con l’esempio del Beato Giuseppe Toniolo, che nel 1907 promosse le Settimane Sociali in Italia. La sua testimonianza di laico è stata vissuta in tutte le dimensioni della vita: spirituale, familiare, professionale, sociale e politica. Per ispirare i vostri lavori, vi propongo un suo insegnamento. «Noi credenti - scriveva - sentiamo, nel fondo dell’anima, [...] che chi definitivamente recherà a salvamento la società presente non sarà un diplomatico, un dotto, un eroe, bensì un santo, anzi una società di santi» (Dal saggio Indirizzi e concetti

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sociali). Fate vostra questa “memoria fondativa”: ci si santifica lavorando per gli altri, prolungando così nella storia l’atto creatore di Dio. Nelle Scritture troviamo molti personaggi definiti dal loro lavoro: il seminatore, il mietitore, i vignaioli, gli amministratori, i pescatori, i pastori, i carpentieri, come San Giuseppe. Dalla Parola di Dio emerge un mondo in cui si lavora. Il Verbo stesso di Dio, Gesù, non si è incarnato in un imperatore o in un re ma «spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2, 7) per condividere la nostra vicenda umana, inclusi i sacrifici che il lavoro richiede, al punto da essere noto come falegname o figlio del falegname (cfr. Mc 6, 3; Mt 13, 55). Ma c’è di più. Il Signore chiama mentre si lavora, come è avvenuto per i pescatori che Egli invita per farli diventare pescatori di uomini (cfr. Mc 1, 16-18; Mt 4, 18-20). Anche i talenti ricevuti, possiamo leggerli come doni e competenze da spendere nel mondo del lavoro per costruire comunità, comunità solidali e per aiutare chi non ce la fa. Il tema di questa Settimana Sociale è «Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo e solidale». Così nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho voluto definire il lavoro umano (n. 192). Grazie per avere scelto il tema del lavoro. «Senza lavoro non c’è dignità»: lo ripeto spesso, ricordo proprio a Cagliari nel 2013, e lo scorso maggio a Genova. Ma non tutti i lavori sono «lavori degni». Ci sono lavori che umiliano la dignità delle persone, quelli che nutrono le guerre con la costruzione di armi, che svendono il valore del corpo con il traffico della prostituzione e che sfruttano i minori. Offendono la dignità del lavoratore anche il lavoro in nero, quello gestito dal caporalato, i lavori che discriminano la donna e non includono chi porta una disabilità. Anche il lavoro precario è una ferita aperta per molti lavoratori, che vivono nel timore di perdere la propria occupazione. Io ho sentito tante volte questa angoscia: l’angoscia di poter perdere la propria occupazione; l’angoscia di quella persona che ha un lavoro da settembre a giugno e non sa se lo avrà nel prossimo settembre. Precarietà totale. Questo è immorale. Questo uccide: uccide la dignità, uccide la salute, uccide la famiglia, uccide la società. Il lavoro in nero e il lavoro precario uccidono. Rimane poi la preoccupazione per i lavori pericolosi e malsani, che ogni anno causano in Italia centinaia di morti e di invalidi. La dignità del lavoro è la condizione per creare lavoro buono: bisogna perciò difenderla e promuoverla. Con l’Enciclica Rerum novarum (1891) di Papa Leone XIII, la Dottrina sociale della Chiesa nasce per difendere i lavoratori dipendenti dallo sfruttamento, per combattere il lavoro minorile, le giornate lavorative di 12 ore, le insufficienti condizioni igieniche delle fabbriche. Il mio pensiero va anche ai disoccupati che cercano lavoro e non lo trovano, agli scoraggiati che non hanno più la forza di cercarlo, e ai sottoccupati, che lavorano solo qualche ora al mese senza riuscire a superare la soglia di povertà. A loro dico: non perdete la fiducia. Lo dico anche a chi vive nelle aree del Sud d’Italia più in difficoltà. La Chiesa opera per un’economia al servizio della persona, che riduce le disuguaglianze e ha come fine il lavoro per tutti. La crisi economica mondiale è iniziata come crisi della finanza, poi si è trasformata in crisi economica e occupazionale. La crisi del lavoro è una crisi ambientale e sociale insieme (cfr. Enc. Laudato si’, 13). Il sistema economico mira ai consumi, senza preoccuparsi della dignità del lavoro e della tutela dell’ambiente. Ma così è un po’ come andare su una bicicletta con la ruota sgonfia: è pericoloso! La dignità e le tutele sono mortificate quando il lavoratore è considerato una riga di costo del bilancio, quando il grido degli scartati resta ignorato. A questa logica non sfuggono le pubbliche amministrazioni, quando indicono appalti con il criterio del massimo ribasso senza tenere in conto la dignità del lavoro come pure la responsabilità ambientale e fiscale delle imprese. Credendo di ottenere risparmi ed efficienza, finiscono per tradire la loro stessa missione sociale al servizio della comunità. Tra tante difficoltà non mancano tuttavia segni di speranza. Le tante buone pratiche che avete raccolto sono come la foresta che cresce senza fare rumore, e ci insegnano due virtù: servire le persone che hanno bisogno; e formare comunità in cui la comunione prevale sulla competizione. Competizione: qui c’è la malattia della meritocrazia... È bello vedere che l’innovazione sociale nasce anche dall’incontro e dalle relazioni e che non tutti i beni sono merci: ad esempio la fiducia, la stima, l’amicizia, l’amore. Nulla si anteponga al bene della persona e alla cura della casa comune, spesso deturpata da un modello di sviluppo che ha prodotto un grave debito ecologico. L’innovazione tecnologica va guidata dalla coscienza e dai principi di sussidiarietà e di solidarietà. Il robot deve rimanere un mezzo e non diventare l’idolo di una economia nelle mani dei potenti; dovrà servire la persona e i suoi bisogni umani. Il

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Vangelo ci insegna che il Signore è giusto anche con i lavoratori dell’ultima ora, senza essere lesivo di ciò che è «il giusto» per i lavoratori della prima ora (cfr. Mt 20, 1-16). La diversità tra i primi e gli ultimi lavoratori non intacca il compenso a tutti necessario per vivere. È, questo, il “principio di bontà” in grado anche oggi di non far mancare nulla a nessuno e di fecondare i processi lavorativi, la vita delle aziende, le comunità dei lavoratori. Compito dell’imprenditore è affidare i talenti ai suoi collaboratori, a loro volta chiamati non a sotterrare quanto ricevuto, ma a farlo fruttare al servizio degli altri. Nel mondo del lavoro, la comunione deve vincere sulla competizione! Voglio augurarvi di essere un “lievito sociale” per la società italiana e di vivere una forte esperienza sinodale. Vedo con interesse che toccherete problemi molto rilevanti, come il superamento della distanza tra sistema scolastico e mondo del lavoro, la questione del lavoro femminile, il cosiddetto lavoro di cura, il lavoro dei portatori di disabilità e il lavoro dei migranti, che saranno veramente accolti quando potranno integrarsi in attività lavorative. Le vostre riflessioni e il confronto possano tradursi in fatti e in un rinnovato impegno al servizio della società italiana. Alla grande assemblea della Settimana Sociale di Cagliari assicuro il mio ricordo nella preghiera e, mentre chiedo di pregare anche per me e per il mio servizio alla Chiesa, invio di cuore a tutti voi la Benedizione Apostolica. Pag II Bassetti: sul lavoro basta chiacchiere. Per l’Italia un piano di ricostruzione Pubblichiamo l’intervento che l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei ha tenuto ieri a Cagliari alla 48ª Settimana Sociale dei cattolici italiani. Cari amici, cari amiche, «nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita»1. Queste stupende parole di papa Francesco tratte dall’Evangelii gaudium tracciano alla perfezione il quadro d’insieme in cui si svolge la 48ª Settimana Sociale. Queste giornate di Cagliari rappresentano, senza dubbio, un grande dono per noi perché ci consentono di ritrovarci insieme, con la disponibilità all’ascolto e al confronto, alla ricerca di soluzioni concrete e di piste da seguire. E sono anche un dono per tutta la nostra Chiesa, chiamata a trovare nuove motivazioni e un maggiore slancio nel suo impegno sociale. Una Chiesa rinchiusa in sagrestia o nei luoghi consueti di ritrovo, mancherebbe al suo compito specifico: quella, cioè, di «prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi», guidata da un «desiderio inesauribile di offrire misericordia»2. Questo è quanto ci chiede il Papa nell’Evangelii gaudium, la nostra carta fondamentale in questi anni che dobbiamo meditare a fondo e attuare con maggior coraggio e determinazione. L’attuazione dell’Evangelii gaudium è uno dei compiti che sento più pressante nel mandato affidatomi dal Santo Padre, su indicazione dei confratelli vescovi. Insieme a Francesco, tutti noi auspichiamo una Chiesa propositiva, partecipe e responsabile, che esce per incontrare e servire, condividendo il cammino della società e diventandone fermento. Sono questi i giorni in cui cerchiamo di concretizzare questo auspicio studiando insieme i mezzi più appropriati per renderlo realtà. Abbiamo ascoltato ora l’augurio che ci ha rivolto Papa Francesco di diventare un «lievito sociale» e vivere in questi giorni una forte esperienza di sinodalità. È questo il fine delle Settimane Sociali che non si propongono di «celebrare un bel convegno», ma di entrare nel vissuto concreto delle persone e della società, nelle loro angosce e nelle loro speranze, mettendo insieme la fase critica della denuncia con quella responsabile della proposta3. A questo proposito, ringrazio di cuore il Comitato scientifico e organizzatore, in particolare monsignor Filippo Santoro, per il lavoro svolto con tanta passione e competenza, e per il metodo che è stato scelto per preparare la Settimana Sociale. Un metodo basato sull’ascolto, la concretezza, il confronto e la proposta. Anche il mio intervento vuole essere un contributo al dibattito di questi giorni. Senza la pretesa di essere esaustivo, vorrei sviluppare la mia riflessione in tre punti. A partire, innanzitutto, dall’identificazione del lavoro come luogo dove la persona umana può esprimere le sue capacità in un’opera concreatrice con l’azione divina e che, perciò, necessita lo sviluppo di una rinnovata teologia del lavoro; in secondo luogo, sulle criticità non solo del lavoro ma dell’intero sistema sociale, politico ed economico della nostra

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cara Italia; e infine con l’auspicio dello sviluppo di una politica coraggiosa che faccia dell’imperativo del bene comunela sua norma d’indirizzo. Mi permetto di sintetizzare questi piccoli spunti con tre parole: lavoro, Paese e politica. UNA RINNOVATA TEOLOGIA DEL LAVORO - Inizio dalla prima parola: il lavoro. Papa Francesco ha detto che «il lavoro è sacro», dà «dignità» ad ogni «persona umana» e alla «famiglia»4. Nella Laudato si’ ha poi dedicato alcuni paragrafi importanti sull’impellente «necessità di difendere il lavoro»5. Queste parole rappresentano, oggi, il doveroso punto di partenza della nostra riflessione. Il primo elemento da sottolineare è che la Chiesa non è un’agenzia sociale che si occupa di lavoro come un qualsiasi ufficio di collocamento pubblico o privato, ma ha profondamente a cuore il lavoro perché lo vede come un luogo in cui si manifesta la collaborazione tra Dio e l’uomo. Il lavoro non è, dunque, solo un «dovere» affinché si possa mangiare, ma è anche un luogo in cui esaltare le capacità di chi lavora con le proprie mani, come Gesù e san Paolo; un momento, inoltre, che si separa dal riposo, altrettanto doveroso e importante; e soprattutto, un momento in cui, valorizzando il binomio uomo-natura, la persona umana si fa collaboratrice di Dio nello «sviluppo della creazione». Il Concilio Vaticano II ha evidenziato che gli uomini e le donne con il loro lavoro «prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia»6. Paolo VI, inoltre, ha affermato che «sia egli artista o artigiano, imprenditore, operaio o contadino, ogni lavoratore è un creatore»7. Giovanni Paolo II, infine, ha sottolineato che per riconoscere la soggettività creatrice dell’uomo in questo «Vangelo del lavoro» occorre abbandonare ogni forma di assolutismo8. Oggi questo corposo insegnamento va assolutamente valorizzato con una rinnovata teologia del lavoro che tenga conto della nuova riflessione maturata grazie alla Laudato si’ e che ci porta in almeno due direzioni. In primo luogo, denunciando «la radice umana della crisi ecologica», Francesco ha delineato una nuova sfida: mettere un freno a quella sorta di «potere ingovernabile» che il Papa ha chiamato come il «paradigma tecno-economico». Un sistema di potere – privo della tensione verso Dio – che riduce l’uomo e l’ambiente a semplici oggetti da sfruttare in modo illimitato e senza cura. In questo modo, il lavoro si disumanizza e diventa uno strumento di manipolazione della nostra casa comune. In secondo luogo, occorre ribadire un semplice quanto fondamentale principio evangelico che troppo spesso viene marginalizzato nella vita quotidiana: il lavoro è a servizio della persona umana e non il contrario. Questo secondo punto ha molte implicazioni pratiche. Significa pronunciare dei No e dei Sì. Il No si riferisce al rifiuto deciso dell’idolatria del lavoro che produce solamente carrierismo, affermazione individualista di se stessi e desiderio avido di avere sempre maggiori ricchezze. Il Sì, invece, va indirizzato al rapporto fondamentale con il tempo di riposo. Il lavoro è solo una parte della giornata di un uomo. Il resto deve essere dedicato all’otium, al tempo libero, alla famiglia, ai figli, al volontariato, alla preghiera. In definitiva, la difesa e la valorizzazione della dignità umana deve essere il concetto chiave di ogni teologia del lavoro. UN SISTEMA-PAESE DA VALORIZZARE - Veniamo alla seconda parola, il nostro Paese. Tutto il mondo occidentale è attraversato da una nuova questione sociale – che ha profondamente mutato il rapporto tra l’uomo e il lavoro, oltre che la relazione tra l’uomo e la macchina – e anche da nuove disuguaglianze sociali. Nel discorso rivolto recentemente alla Pontificia Accademia delle scienze sociali, papa Francesco ha messo in evidenza «l’aumento endemico e sistemico delle diseguaglianze», che è errato considerare come una fatalità o come una costante storica. Esso non è affatto un dato ineluttabile, ma è determinato da dinamiche che dipendono dall’uomo e si radicano nella drammatica separazione tra etica ed economia, a partire dal presupposto che «gli affari sono affari» e in essi l’etica non deve entrare. È così che il mondo del lavoro troppo spesso mette al centro il profitto, dimenticando la persona e rendendola di fatto schiava di logiche e strutture che la opprimono, invece che liberarla e assicurarle sicurezza e autonomia. In Italia queste disuguaglianze hanno il principale comune denominatore nei giovani. Reddito e occupazione non solo stanno favorendo le generazioni più “vecchie”, ma stanno incentivando una drammatica emigrazione di massa dei nostri giovani. Lo voglio dire senza tentennamenti: questa situazione è inaccettabile! Si tratta di un fenomeno ingiusto che è il risultato di un quadro sociale ed economico dell’Italia estremamente preoccupante. Una recente pubblicazione dell’Istat, infatti, descrive un

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Paese vecchio, anzi, «rapidamente invecchiato »; con livelli di povertà «costantemente superiori» rispetto alla media europea; con tassi di disoccupazione estremamente alti; e con uno sviluppo economico che stenta a ripartire con decisione. Questo quadro generale non può lasciare indifferenti tutte quelle donne e quegli uomini «liberi e forti» che hanno veramente a cuore il bene comune. C’è un sistema-Paese da promuovere e da valorizzare con tutte le nostre energie migliori. La Chiesa, ovviamente, non intende certo sostituirsi alle istituzioni oppure occupare spazi impropri, ma vuole dare il suo contributo che nasce dal Vangelo e dalla Dottrina sociale. Dal canto suo, si impegna ad approntare tutte le iniziative che sono in suo potere per promuovere il lavoro e favorire l’inserimento nel mercato del lavoro di chi ne sia ancora ai margini. Tra le varie iniziative concrete che sono emerse nel cammino preparatorio a questa Settimana Sociale, sottolineo tre possibili impegni della Chiesa italiana per la promozione del lavoro: anzitutto l’attività degli “oratori come LabOratori”; in secondo luogo, la possibilità di rendere le parrocchie e le diocesi dei luoghi di indirizzo, che forniscano ai giovani le informazioni essenziali per cercare lavoro, attraverso una sezione del sito Cei, costantemente aggiornata; terzo, le borse lavoro, da creare a livello diocesano per avviare all’attività lavorativa in particolare i giovani “Neet”, quelli che non studiano né cercano lavoro, perché ormai privi di speranza e iniziativa. A questo fine si potrebbe sottoscrivere un protocollo-quadro a livello nazionale tra la Cei e le principali organizzazioni imprenditoriali per favorire e agevolare iniziative locali sulla base di un format nazionale, flessibile e adattabile alle singole realtà locali. UNA POLITICA CORAGGIOSA: L’IMPERATIVO DEL BENE COMUNE - Vengo, infine, alla terza e ultima parola: la politica. Bisogna essere franchi: il tempo delle chiacchiere è finito. Così come è ormai definitivamente concluso il tempo dei finanziamenti pubblici senza un progetto. Questo tempo ci ha lasciato un debito pubblico, che non è solo un preoccupante costo economico per lo Stato, ma è soprattutto un drammatico costo sociale per la vita delle persone. In Italia esiste ormai da tempo una grande questione antropologica, che è soprattutto una grande questione generazionale: mi riferisco ai tanti giovani precari e disoccupati, sulle cui spalle è caduto, non solo il costo della crisi economica scoppiata nel 2008, ma anche il costo iniquo di una politica miope che, nei decenni passati, ha sprecato risorse importanti del Paese perché non ha avuto la lungimiranza di guardare al futuro. Mai come oggi serve una politica coraggiosa che scelga come norma di indirizzo l’imperativo del bene comune: quell’imperativo che si prende cura della popolazione – a partire dai poveri e dai giovani – in modo autentico con provvedimenti concreti e non solo a parole. Le parole se le porta via il vento, i provvedimenti concreti sono invece un tentativo realistico per il futuro dell’Italia e dell’Europa. Il Papa, parlando ai delegati della Cisl lo scorso 28 giugno, ha detto che serve «un nuovo patto sociale per il lavoro ». Un patto sociale, aggiungo io, che oltre a salvaguardare la dignità umana sappia, al tempo stesso, creare occupazione e sviluppare veramente l’Italia con degli investimenti mirati per un grande progetto per il Paese e non solo con delle misure emergenziali. È forse giunto il momento per proporre un grande Piano di sviluppo per l’Italia, che si basi su due elementi di cruciale importanza: la famiglia e la messa in sicurezza del territorio. Bisogna avere il coraggio di investire su questi due fattori che possono essere concretamente due traini per il mondo del lavoro e per un migliore equilibrio della società: perché la famiglia e il territorio sono due elementi che hanno, al tempo stesso, una grande caratura morale e un immediato ritorno economico. Investire sulla famiglia con provvedimenti di natura fiscale e di Stato sociale – applicando il “fattore famiglia” sulle tasse, incrementando il numero degli asilo nido e sviluppando nuove tutele della maternità e della paternità – significa favorire un diverso rapporto tra la famiglia e il lavoro, tra il tempo dedicato all’attività lavorativa e il tempo libero dedicato alla famiglia, al volontariato e al riposo. Oggi, avere a disposizione il tempo rappresenta un bene prezioso: significa non solo aumentare la qualità della vita, ma vuol dire, soprattutto, umanizzare e civilizzare i rapporti interpersonali all’interno della società. Progettare un Piano di sviluppo per l’Italia, inoltre, significa elaborare e attivare un grande progetto per la tutela e la messa in sicurezza del territorio, del suo paesaggio e delle sue inestimabili opere d’arte. Conosco personalmente quello che vuole dire subire il dissesto idrogeologico del nostro Paese. Non è più possibile, però, ridurre la nostra azione alla pur lodevole e pietosa compassione per i nostri fratelli che perdono la vita in questi tragici eventi naturali. È assolutamente doveroso prevenire queste

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calamità naturali con un progetto serio e concreto come avviene in molti altri Paesi del mondo. Occorre mettere a sistema aziende private e pubbliche, snellire procedure e regolamenti e fare degli investimenti mirati nel tempo che possano portare ad assumere i nostri giovani laureati sia in materie scientifiche che umanistiche, operai specializzati e semplice manovalanza. Occorre, più di tutti, però, dare a questo Piano di sviluppo per l’Italia un’idea alta e nobile, per il bene comune del Paese senza ridurlo all’ennesima occasione di ricerca di denaro pubblico. È fondamentale, infatti, investire sulle energie morali del Paese, sui giovani talenti e su tutti quegli uomini e le donne di buona volontà che hanno veramente a cuore l’Italia e che credono che questo Paese possa crescere tutto insieme, senza strappi e senza rincorrere gli egoismi sociali, ma nel nome dei grandi uomini e delle grande donne che hanno fatto l’Italia. Il mio sogno è quello di un grande progetto per l’Italia ispirato da quel clima di ricostruzione del Paese che aveva animato i Padri costituenti e tutta quella gente semplice che, dopo la seconda guerra mondiale, o dopo i grandi disastri come l’alluvione del Polesine o il terremoto del Friuli, si è rimboccata le maniche e in silenzio ha ricostruito il Paese casa per casa, strada per strada, scuola per scuola. Nel 1961, a Firenze, mentre stava aspettando la visita di un politico britannico a Palazzo Vecchio, Giorgio La Pira scrive: «Ho un solo alleato: la giustizia fraterna quale il Vangelo la presenta. Ciò significa: 1) lavoro per chi ne manca. 2) casa per chi ne è privo. 3) assistenza per chi ne necessita. 4) libertà spirituale e politica per tutti. 5) vocazione artistica e spirituale di Firenze nel quadro universale della città cristiana ed umana». Queste semplici parole – che costarono a La Pira l’accusa di essere un ingenuo sognatore – sono ancora oggi valide. Perché non sono soltanto delle parole, ma rappresentano la traduzione dei più importanti principi cristiani in ambito politico. La nostra “vocazione sociale” consiste in questo: il diritto al lavoro con la libertà religiosa in un mondo plurale. Come ha sottolineato lo stesso Papa Francesco nell’intervento che abbiamo ascoltato poco fa, non mancano segni di speranza per il mondo del lavoro, tra i quali la parziale ripresa economica. La crescita dell’economia però non è sufficiente, qualora le sostanze non siano allocate con equità e permangano divisioni, alienazione sul lavoro e assenza di lavoro per tanti. Nella gioia di questi giorni di impegno e condivisione, ci diciamo quindi pronti, come Chiesa, a dare il nostro contributo a promuovere percorsi di formazione, inclusione e sviluppo, con l’ispirazione di quell’umanesimo cristiano del quale vogliamo farci instancabili annunciatori in ogni luogo e in ogni occasione, in modo che lo splendore che rifulge sul volto di Cristo possa illuminare ogni persona e rinnovare ogni ambito della convivenza umana. Gualtiero cardinale Bassetti Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve Presidente della Cei 1. Francesco, Evangelii gaudium, 192 2. Francesco, Evangelii gaudium, 24 3. Francesco, Instrumentum laboris, Ragioni e obiettivi del convenire, 11 4. Francesco, Udienza generale, 19 agosto 2015 5. Francesco, Laudato si’, 124-129. 6. Gaudium et spes 34. 7. Paolo VI, Populorum progressio, 27. 8. Giovanni Paolo II, Laborem exercens 7 e 13; Centesimus annus 35. CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Le domande del Papa agli astronauti in orbita: “Quale posto ha per voi l’uomo nell’universo?” di Luigi Accattoli Francesco a Nespoli e colleghi: voi siete una piccola Onu Città del Vaticano. Come già Benedetto XVI nel 2011 anche Francesco ha fatto ieri un colloquio in diretta audio e video con un gruppo di astronauti in orbita a 400 chilometri dalla Terra. Ha chiesto com’era il pianeta visto dall’alto e gli hanno detto che appariva «senza confini, fine e labile, fragile». Colpito dal sentirsi dire da lassù quello che pensa e predica da quaggiù, ha chiesto ancora se qualcosa li aveva sorpresi, nell’esperienza straordinaria che stanno facendo, e quelli, emozionati di parlare con il Papa, hanno risposto che dalla loro orbita «la prospettiva è incredibile, è un po’ come vedere la Terra con gli occhi di Dio e vedere la bellezza incredibile del nostro pianeta». Hanno parlato

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per 25 minuti. Francesco ha fatto sei domande e gli astronauti, che erano sei (due russi, tre statunitensi, un italiano), si sono ingegnati a rispondere nella confusione delle lingue e dei cuori. Il colloquio è stato dato in diretta dal Centro televisivo vaticano e la Sala stampa ne ha pubblicato la trascrizione. Come immagine televisiva la scena era quasi buffa: il Papa era seduto a una scrivania spoglia in una saletta dell’Aula Paolo VI e vedeva gli interlocutori su uno schermo posto pochi metri davanti a lui. «Buongiorno, o buonasera» ha detto scherzosamente Francesco al primo saluto, alludendo al fatto che lassù «mai si sa» come stiano le ore. Ha poi fatto domande alte («Dalle sue esperienze nello spazio, qual è il suo pensiero sul posto dell’uomo nell’universo?» ha chiesto a Nespoli), ma anche domande di comune curiosità e si è pure scusato di questo: «Dicono che le donne sono curiose ma anche noi uomini lo siamo». Che cosa vi ha motivato a diventare astronauti? Che cosa vi dà gioia nel tempo che passate sulla stazione spaziale? Parlava con l’equipaggio della Stazione spaziale internazionale (Iss) denominata Missione 53: «Voi siete un piccolo Palazzo di Vetro, questo è l’esempio che ci date. Grazie perché siete rappresentanti di tutta la famiglia umana nel grande progetto di ricerca di questa stazione spaziale». Questa era una delle ultime battute. Le risposte sono state in italiano, in russo, in inglese. L’italiano del gruppo, Paolo Nespoli, traduceva per il Papa. Per Nespoli, 60 anni, questa era la seconda volta che parlava con un Papa da una Stazione spaziale: era infatti a bordo di quella stessa Stazione anche quando fu Benedetto XVI a collegarsi, il 21 maggio 2011. A Nespoli era morta la mamma nel corso di quella sua presenza in orbita e il Papa gli aveva detto d’aver pregato per lui. Di preghiera si è parlato anche ieri. Prima dell’ultimo saluto Francesco ha parlato così: «Grazie tante, cari amici, vorrei dire: cari fratelli, perché vi sentiamo come rappresentanti di tutta la famiglia umana nel progetto di ricerca che è la Stazione Spaziale. Vi ringrazio per questo colloquio, che mi ha molto arricchito. Il Signore benedica voi, il vostro lavoro e le vostre famiglie». VATICAN INSIDER Teofilo III: sullo Status Quo anche il Papa sta con noi di Gianni Valente Il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme spiega le ragioni dell’incontro con il Vescovo di Roma. E risponde anche agli attacchi dei gruppi che lo accusano di svendere le proprietà del Patriarcato L’incontro appena avvenuto tra il Patriarca Teofilo e Papa Francesco è stato una tappa speciale del «tour» speciale, che il Capo della Chiesa ortodossa di Gerusalemme sta compiendo tra leader politici e religiosi di tutto il mondo, non a titolo personale ma a nome di tutti i capi delle Chiese presenti in Terra Santa. Con l’intento dichiarato di sensibilizzare tutti su quello che viene descritto come un tentativo di scardinare le regole codificate che da secoli disciplinano la vita delle comunità cristiane nella terra dove è nato e ha vissuto Gesù. Una «campagna» che, in futuro, potrebbe arrivare anche fino a Putin e a Trump. Lei ha da poco chiesto e ottenuto un incontro con Papa Francesco. Cosa le premeva dire al Vescovo di Roma? «Ho incontrato Papa Francesco a nome di tutti i capi delle Chiese e delle comunità cristiane di Terra Santa. Volevo dirgli che in Terra Santa i diritti storici delle comunità cristiane sono minacciati, perchè viene posto sotto attacco lo Status Quo, la serie di regole codificate che da secoli disciplinano la vita delle comunità cristiane e tutelano la loro modalità di accesso ai Luoghi Santi e la gestione delle loro proprietà. Ci sono gruppi che vogliono modificare questo assetto, aprendo brecce nello Status Quo, e questo sta creando una situazione a rischio». A cosa si riferisce, in concreto? «Gruppi di coloni stanno usando metodi subdoli e contorti per impossessarsi dei beni delle Chiese. Ad agosto la Corte israeliana ha respinto le iniziative legali con cui il Patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme aveva tentato di far riconoscere l’appropriazione illegale di una sua proprietà della Città Vecchia da parte di uno di questi gruppi di destra. Il Patriarcato ora ha fatto ricorso alla Corte suprema. Crediamo che ascolteranno i nostri argomenti legali. Ma i pericoli non riguardano una sola Chiesa. Colpiscono tutte le Chiese. Lo dimostra un disegno di legge, firmato da quaranta

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deputati in Israele, che se venisse approvato metterebbe a rischio i diritti delle Chiese su molte delle proprietà ecclesiastiche». Come pensate di affrontare questa situazione? «I capi delle Chiese della Terra Santa affrontano questa situazione in piena unità, e hanno sottoscritto un documento per denunciare tutti insieme che i recenti attacchi allo Status Quo esprimono un “tentativo sistematico per minare l’integrità della Città Santa” e per “indebolire la presenza cristiana in Terra Santa”. Adesso si tratta di far crescere la consapevolezza su tutto questo, anche fuori dalla Terra Santa». Papa Francesco, nel discorso che le ha rivolto, ha affermato che lo Status Quo deve essere difeso e preservato. È sufficiente, per voi questa dichiarazione? «Il Papa comprende la situazione. La conosce attraverso gli occhi dei cristiani di Terra Santa. Il suo sostegno è necessario. E se lui dice che lo Status Quo deve essere preservato, questo è sufficiente. Vuol dire che bisogna proteggerlo da ulteriori tentativi messi in atto per modificare forzatamente il profilo multi-etnico, multi-culturale e multi-religioso della Città Santa. Lo Status Quo garantisce anche che le Chiese siano libere di gestire le loro proprietà. È la formula sintetica a cui si ricorre per dire che la presenza cristiana deve rimanere così come è oggi, nei luoghi e nelle zone dove è radicata oggi». Quali sono i contenuti della proposta di legge che vi preoccupa? «La proposta di legge riguarda le proprietà di tutte le Chiese, e prevede che lo Stato possa espropriare le proprietà ecclesiastiche, se si verificano certe condizioni. Anche se il progetto di legge non verrà approvato o verrà modificato, il fatto stesso che un terzo dei parlamentari l’abbia sottoscritta dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per tutti». Prima del Papa, lei ha avuto altri incontri con autorità politiche ecclesiali per sensibilizzarli su tutto questo. «Negli ultimi tempi ho visitato il Patriarca ecumenico Bartolomeo. Re Abdallah di Giordania, il Primo Ministro palestinese Rami Hamdallah e il Presidente israeliano Reuven Rivlin. Prossimamente ci sarà l’incontro con il Primate anglicano Justin Welby. Poi decideremo insieme ai capi delle altre Chiese come proseguire. Abbiamo in programma di incontrare le autorità greche e quelle britanniche, oltre ai rappresentanti dell’Unione europea a Bruxelles. Poi dovremo valutare le reazioni, e eventualmente proseguire ancora, incontrando anche le autorità della Russia e degli Usa». In Terra Santa ci sono gruppi che accusano il Patriarcato ortodosso di Gerusalemme di gestire male e di svendere le proprietà della Chiesa. «È un argomento incandescente, e soggetto a facili manipolazioni. Per questo rappresenta una piattaforma ideale per persone che vogliono sfruttare tale questione per perseguire una propria agenda, magari per acquisire visibilità mediatica o per i propri interessi di affermazione politica. Le sigle di gruppi organizzati che alimentano queste campagne di accuse rappresentano solo se stesse. Nessuno li ha scelti, nessuno li ha designati». Come risponde a tali accuse? «Noi abbiamo ereditato dei problemi dalle epoche precedenti, problemi che non possono essere ignorati e che stiamo risolvendo. Stiamo facendo del nostro meglio. Abbiamo contatti con le istituzioni governative israeliane, giordane e palestinesi. Le comunicazioni che riceviamo dalle istanze ufficiali ci confermano che esse sostengono il Patriarcato e comprendono quello che stiamo facendo. Purtroppo ci sono alcuni singoli politici che stanno sostenendo le sigle che ci attaccano. Ma quando chiediamo spiegazioni, ci viene risposto che quei politici, nei loro interventi su questa vicenda, agiscono a titolo personale e non rappresentano le posizioni delle autorità ufficiali». L’unità dei cristiani non è solo un fare «fronte comune» nei rapporti con le autorità civili. Cosa impedisce a cattolici e ortodossi di camminare spediti verso la piena unità visibile? «Non c’è qualcosa che lo impedisce. Direi che si tratta di un processo. A Roma, incontrando anche il cardinale Kurt Koch e i suoi collaboratori del Pontifico Consiglio per l’Unità dei cristiani, abbiamo riconosciuto che l’unità piena non può arrivare dalla sera al mattino, ma ciò che conta è il processo, andare avanti nel cammino. Noi dobbiamo fare la nostra parte, e il resto è nelle mani del Signore. Già ora molte cose sono cambiate rispetto al passato. Ora c’è mutua comprensione e reciproco rispetto. Non ci sono litigi, pregiudizi, sospetti, bigotterie tra di noi».

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Quale è il contributo specifico che il Patriarcato di Gerusalemme può offrire al dialogo teologico tra cattolici e ortodossi? «Tutte le denominazioni e le comunità cristiane riconoscono che Gerusalemme è il luogo sorgivo della Chiesa primitiva, della Chiesa nascente. Da lì la Chiesa si è diffusa in tutto il mondo. Anche i gruppi cristiani che pongono al centro del loro interesse la Bibbia riconoscono subito ciò che unisce Gerusalemme alla Bibbia. La Chiesa di Gerusalemme può offrire questo. Alla Chiesa di Gerusalemme possono applicarsi le parole degli evangelisti San Matteo e San Luca, quando parlano della chioccia che riunisce i pulcini sotto le proprie ali». Papa Francesco ripete che il proselitismo tra le diverse Chiese è «peccaminoso». Il modo in cui lui esercita il suo ministero di Vescovo di Roma può favorire qualche passo avanti nel cammino verso la piena unità tra i cristiani? «Lui gode di grande rispetto in tutto il mondo. Forse anche perché sta provando a “rompere il cerchio”. E sappiamo che i Profeti, anche nell’Antico Testamento, sono stati osteggiati e anche perseguitati.... Proprio perchè rompevano i “circoli chiusi”, per far arrivare i doni al popolo. Per me, quando lo incontri, ti accorgi che con lui puoi davvero comunicare, perché Papa Francesco è una persona che crede in quello che dice e in quello che predica». In passato i cristiani hanno spesso litigato per la gestione dei Luoghi Santi a Gerusalemme. Ora, invece, il restauro dell’edicola del Santo Sepolcro è avvenuto con il contributo comune del Patriarcato greco ortodosso, del Patriarcato armeno e della Custodia di Terra Santa. Quale importanza attribuisce a questo fatto? «Il restauro condiviso dell’Edicola del Santo Sepolcro rappresenta un punto di svolta nel nostro contesto. Io spero e prego che questo ci aiuti ad andare avanti. È una vicenda che ha rallegrato noi e tanta gente in tutto il mondo. Ma San Giovanni Damasceno diceva che “l’uomo è una ferita”, e io lo tengo sempre a mente. Nel profondo del nostro essere, tutti noi portiamo una ferita, e questo vuol dire che siamo soggetti alla corruzione. Siamo uomini, e non bisogna aspettarsi che diventiamo angeli. Il Patriarca Benedetto, quando eravamo giovani, ci diceva: non pretendo che voi siate angeli, desidero che siate umani. E certe volte essere angeli sarebbe molto più facile che essere uomini». Il Patriarcato di Gerusalemme come si colloca rispetto alle relazioni tra le Chiese ortodosse? Considera il Concilio di Creta un vero Concilio? E come vede il ruolo della Russia e della Chiesa russa in Medio Oriente? «Il Patriarcato di Mosca ha storicamente un ruolo importante, anche in Terra Santa. Rispetto all’evento che ha avuto luogo a Creta, credo che si sia trattato di un evento storico importante, perchè ha mostrato l’unità delle Chiese ortodosse, e adesso tutti ne stanno cogliendo l’importanza. Oggi le Chiese ortodosse devono misurarsi con un problema “esistenziale”: esse non godono più di garanzie e di sostegni costituzionali da parte delle loro rispettive nazioni. La Grecia è la sola nazione in cui la Chiesa è costituzionalmente garantita, ma dovunque si afferma il principio di separazione tra Chiesa e Stato. Certo, ci sono tanti politici che difendono la Chiesa ortodossa, ma i politici vanno e vengono, e questo non durerà per sempre. Le Chiese ortodosse hanno bisogno di sostenersi a vicenda, e per questo l’unità che si è manifestata al Grande Sinodo di Creta è stata di importanza paradigmatica. Quel Sinodo ha mostrato in maniera tangibile che le Chiese sono unite, e camminano insieme». Però alcune Chiese importanti erano assenti.... «Dei patriarcati che non hanno partecipato, ognuno aveva le sue ragioni. Per essere onesto, credo che ognuno di loro avesse dei problemi interni. Poi nessuno ha rifiutato i risultati di quel Sinodo. Perchè anche chi non ha preso parte a quel Sinodo rimane in piena comunione con tutte le altre Chiese. C’è chi sostiene che quel Concilio deve essere portato avanti. E in effetti, il Sinodo di Creta può preparare la strada a collaborazioni sempre più intense tra le Chiese. È solo questione di tempo». Quindi, il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli ha fatto bene a convocare il grande Sinodo ortodosso… «Il problema, nelle Chiese ortodosse, è spesso l’impasse su chi deve prendere l’iniziativa. Anche a questo riguardo quella del Sinodo è stata un’esperienza positiva, perchè adesso stiamo godendo i frutti di quella iniziativa. Per il patriarca Bartolomeo non è stato facile prendersi tutta la responsabilità e far fronte a tanti distinguo di carattere

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culturale e politico che avevano preso piede nelle diverse Chiese. Ma alla fine, dopo tanti anni, quest’obiettivo è stato raggiunto». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 22 Fedeli e i figli da prendere a scuola: “Spetta ai genitori, lo dice la legge” di Gianna Fregonara La ministra dell’Istruzione: “Proteste inutili, solo il Parlamento può cambiarla” Dei tredicenni e della loro uscita da scuola forse si occuperà il Parlamento, difficile dire se questo o il prossimo. Ma intanto i genitori dovranno farsi carico di riportarli a casa alle due del pomeriggio ogni giorno. «Lo dice la legge», ha spiegato la ministra Fedeli intervistata durante la trasmissione «Tagadà». Anzi, avverte: «Attenzione a non fare diventare questo caso un elemento di non assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti della legge». Parole un po’ dure per i genitori alle prese generalmente con la responsabilità di far crescere i propri figli. Ma tant’è: il ministero non può essere d’aiuto, non può sciogliere il nodo creato dalle circolari di alcune scuole dopo la sentenza della Cassazione che ha respinto il ricorso del ministero condannato a pagare parte dei danni morali alla famiglia di un ragazzino undicenne morto alla fermata dello scuolabus davanti a scuola quattordici anni fa. Sull’onda della paura, dopo che da sempre le scuole medie sono la palestra dell’indipendenza e dell’autonomia degli adolescenti, i presidi hanno cominciato a non accettare più le liberatorie dei genitori che autorizzano da sempre gli insegnanti a lasciare i loro figli sulla porta della scuola. E alla fine è arrivata anche la riposta ufficiale del ministero per bocca di Valeria Fedeli che evoca «l’abbandono di minore», fattispecie del codice penale: la legge può essere cambiata solo dal Parlamento ed è in ballo la «tutela dell’incolumità dei minori». Tutto vero dal punto di vista giuridico, tanto che la ministra auspica un intervento delle Camere sulle liberatorie. Ma come la si mette con il fatto che da generazioni sono i genitori che decidono se i propri figli possono essere sufficientemente maturi da poter fare pochi o tanti metri per tornare da scuola? Anche perché tutti gli altri spostamenti dei ragazzi, che proprio la scuola lascia «liberi» inesorabilmente alle due del pomeriggio, sono per così dire concessi, non rientrando nella responsabilità del Miur. Anche all’entrata i ragazzi potrebbero arrivare da soli, l’abbandono in questo caso sarebbe da parte della famiglia. È la ministra anche a dare qualche consiglio ai genitori un po’ spaesati in questi giorni su come comportarsi con i figli: «Se volete far sperimentare ai ragazzi un’autonomia lo si può fare non nel rapporto casa-scuola-casa». Oppure usate i nonni, «per loro è un gran piacere andare a prendere i nipotini», che a tredici anni spesso sono più alti dei nonni stessi. Dunque la palla - o il figlio - passa ai genitori, si presume soprattutto alle mamme, alle nonne e alle tate, con buona pace di chi si scandalizza perché poi le donne non lavorano, se ora dovranno anche organizzarsi per essere alle 14 davanti a scuola. I genitori qua e là nelle scuole si stanno organizzando, perché di fronte a questa nuova norma si è già trovato l’escamotage: in alcune classi i genitori si sono delegati a vicenda a far uscire i compagni di scuola dei figli, così basta un adulto, un genitore appunto che sollevi la scuola e il preside da ogni responsabilità. Resta da capire che cosa ne pensano i protagonisti, cioè i ragazzi, considerati «incapaci» dalla legge e dalla scuola, e «capaci» dalle 14 in poi. Che idea si faranno della scuola, non doveva essere una palestra di vita? Pag 27 Economia dell’esistenza, la via per salvare il lavoro di Mauro Magatti La storia recente del nostro Paese è tutta racchiusa nella diversità dei destini delle ultime tre generazioni. Quella del dopoguerra ha lavorato con passione e speranza creando una grande ricchezza diffusa per sé e i propri figli. Poi è arrivata la generazione del baby boom - cresciuta col benessere e investita dal vento forte della globalizzazione neoliberista - che, partita piena di speranze, lascia di fatto in eredità molti debiti e pochi figli. Ora è arrivata la generazione dei Millennials, cresciuti in un mondo di aspettative

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discendenti e purtroppo spesso costretti alla scelta tra emigrare o stare in panchina. Le ragioni di questo declino sono tante. Ma se l’Italia sta da tempo scivolando su un piano inclinato è perché, a partire dagli anni 80 (quando il debito pubblico è passato dal 60 al 120% del Pil), il nostro Paese ha smesso di essere una repubblica fondata sul lavoro per diventare il Paese della rendita, del debito pubblico, dello sfruttamento. Ora però la lunga transizione cominciata nel 2008 spinge per riportare il lavoro al centro della scena. Lo confermano molti segnali: le imprese che creano occupazione sono quelle che, scommettendo sulla qualità integrale, considerano i dipendenti non risorsa da sfruttare ma un bene da valorizzare. D’altro canto, sappiamo che a venire sostitute dalle nuove tecnologie digitali sono e saranno le attività più standardizzate e codificate. Già oggi, a difendersi meglio dall’arrivo dei robot e della intelligenza artificiale sono le occupazioni che meglio incarnano le specificità insostituibili del lavoro umano: creatività, capacità di gestione della complessità, problem solving e lavoro di gruppo. Per il nostro Paese, cogliere le opportunità di questa nuova fase storica è una meta impegnativa ma ineludibile. Una via stretta che comincia con il mettere in agenda tre questioni da tempo rimandate. Si discute tanto di formazione e competenze. Ma su una cosa almeno possiamo essere d’accordo: occorre superare le false dicotomie che separano invece di tener insieme. Non va bene un’idea di cultura astratta, distaccata, elitaria; ma nemmeno un tecnicismo asfittico, schiacciato sul fare per il fare. La persona intera è fatta di più dimensioni (cognitiva, emotiva, manuale, sociale) che vanno stimolate e curate, avendo cura di attivare sia il sapere teorico che quello pratico. Il che comporta superare gli steccati tra apprendimento teorico e pratico, tra scuola e lavoro. Anche perché abbiamo bisogno di non perdere nessuno per strada. Alla lunga, non c’è nemmeno crescita se non ci si cura dei giovani, soprattutto di quelli più fragili. In una prospettiva di sviluppo sostenibile, l’inclusione è un principio economico. Secondariamente, rimettere al centro il lavoro significa creare un ambiente favorevole a chi lo crea e a chi lo esercita. Un obiettivo che in Italia appare ancora molto lontano. Ciò concretamente significa: detassare quanto più possibile il lavoro e più in generale le attività che lo creano; fare arrivare a chi crea lavoro le risorse disponibili (smettendo di alimentare la rendita); allineare il ruolo della pubblica amministrazione all’idea che il lavoro si crea solo là dove si riconosce e si investa su quello che M. Porter chiama «valore condiviso» - condizione per essere competitivi, creare valore e far emergere nuovi beni e nuovi consumatori (ad esempio modificando la disciplina degli appalti pubblici dal criterio del «minimo costo» a quello della «massima dignità»). Il punto è che solo il lavoro che riconosce la dignità del lavoratore e lo ingaggia nella produzione di un valore non solo economico rende sostenibile la competitività e permette di fronteggiare la sfida della digitalizzazione. Per questo oggi, per fare la quantità di lavoro occorre puntare sulla sua qualità: passare da un’economia della sussistenza - come fabbricazione e sfruttamento - ad un’economia dell’esistenza - produttrice, cioè, di saper-vivere e di saper-fare - è la via per salvare e insieme umanizzare il lavoro. Realizzare una tale conversione non è facile. Tanto più per un Paese come l’Italia che viene da un lungo periodo di disorientamento. La proposta della 48esima edizione delle Settimane Sociali dei Cattolici italiani (che si svolge in questi giorni a Cagliari) è che proprio la nuova centralità del lavoro segni la via che dobbiamo percorrere, diventando il cardine di una inedita alleanza intergenerazionale capace di salvare i nostri figli dalla stagnazione e gli anziani da una progressiva perdita di protezione. Per vincere la sfida del tempo che viviamo occorre dotarsi di strumenti (fiscali e finanziari) per accelerare il più possibile la messa in circolo del consistente patrimonio (etimologicamente il dono-del-padre) mobiliare e immobiliare ancora nella disponibilità delle famiglie italiane (e concentrato nelle mani degli ultra sessantenni) a sostegno di quelle attività economiche che investono nel lavoro di qualità. Specie dei giovani. In un Paese demograficamente bloccato nessuno può pensare di salvarsi da solo senza dare il proprio contributo a riprendere il sentiero della crescita perduto ormai molto tempo fa. LA REPUBBLICA Pag 39 Lasciate che i ragazzini tornino a casa da soli di Chiara Saraceno La pretesa che i ragazzini delle medie debbano essere consegnati ai genitori o comunque a un adulto da questi delegato e non possano tornare a casa da soli è un insulto al buon

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senso, prima che un ulteriore vincolo posto all'organizzazione quotidiana delle famiglie, in primis delle madri. Potrebbe sembrare una pretesa da buon tempo antico, se non fosse che una volta i bambini erano lasciati molto più autonomi e più precocemente, nell'andare e tornare da scuola, ma anche nell'andare ai giardini o a trovare i nonni nelle vicinanze, o a comperare il pane o il latte. Ed i più grandicelli potevano, e dovevano, accompagnare i fratelli più piccoli, senza aspettare di essere maggiorenni, come invece succede oggi. Di antico, in questa pretesa, c'è l'ovvia aspettativa che nelle famiglie ci sia sempre un adulto - per lo più la mamma - che non ha impegni di lavoro, ma anche di cura di altri familiari, che gli impediscano di trovarsi fuori scuola a metà giornata e di accompagnare i figli non ancora quattordicenni dovunque. Il tutto in un contesto in cui le scuole a tempo pieno sono in via di riduzione anche alle elementari e pressoché inesistenti alle medie. Se si dovesse dunque seguire l'interpretazione che dà la Corte di Cassazione alla norma sull'incapacità degli studenti fino ai quattordici anni, non solo i ragazzini con lo zaino in spalla e lo smartphone in mano ma anche i bambini che cominciano i primi anni di studio non potrebbero più andare a prendere il latte da soli. Perché, se malauguratamente succedesse un incidente, scatterebbe una denuncia per abbandono di minore. A differenza di quanto ha dichiarato la ministra Valeria Fedeli, i ragazzi non potrebbero imparare a diventare autonomi neppure nel pomeriggio. L'eccesso di protezione, la difficoltà ad accettare i rischi dell' autonomia (ovviamente avendo educato alla stessa), unita alla tendenza allo scarico di responsabilità quando qualche cosa va storta, sono fenomeni ahimè tutti contemporanei e molto accentuati nel nostro Paese. Le città europee sono piene di ragazzini che vanno a scuola da soli, prendono il tram, vanno in palestra senza essere accompagnati. I loro genitori, i loro insegnanti, le loro collettività non sono più irresponsabili della nostra, solo più fiduciosi nella propria capacità di insegnare a diventare responsabili. Forse sono anche meno disponibili allo scaricabarile. Perché, se un genitore pretende che la scuola riconosca l'autonomia dei ragazzi e l'impossibilità dei genitori stessi di essere continuamente presenti quando i figli si muovono, ma poi è pronto a denunciare l'istituto se qualche cosa succede nel tragitto verso casa, è inevitabile che la scuola si protegga. E imponga, appunto, la presenza della madre o del padre, o comunque di un adulto. La norma che definisce i ragazzi sotto i quattordici anni legalmente incapaci è stata probabilmente pensata dal punto di vista della loro - cioè dei ragazzini - responsabilità penale, non per tenerli costantemente sotto una campana di vetro. Se invece l'interpretazione giusta è quest'ultima, come sembra di capire dalla sentenza della Corte di Cassazione, la norma va cambiata, come da tempo è chiesto dai presidi, ma non solo. E gli adulti dovranno prendersi la responsabilità, ciascuno nel proprio campo e ruolo, di insegnare ai ragazzi ad essere responsabili, a gestire appropriatamente l'autonomia conquistata. AVVENIRE Pag 1 Perché ne vale la pena di Francesco Riccardi Vie per il giusto lavoro di tutti Sì, di «precarietà si muore» come ha detto il Papa aprendo con un intenso videomessaggio i lavori della 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani. Di precarietà si muore perché si è trattati poco più delle bestie e nei campi, senza riposo, a schiena piegata per qualche euro dall’alba al tramonto, basta il caldo a ucciderti. Si muore sulle impalcature, perché quando sali su un furgone che è ancora notte ed entri in un cantiere da “clandestino”, a chi vuoi che importi se hai l’imbragatura: basta un colpo di sonno, una distrazione e cadi giù, tanto domani ce ne saranno altri cento, altri mille che possono prendere il tuo posto. Ma di precarietà si muore anche a poco a poco: quando lavori qualche giorno e stai settimane a casa, quando sei giovane e il tuo futuro è un rubinetto che perde: una goccia, il niente, un’altra goccia. Senza che mai la tua vita possa finalmente aprirsi e fluire libera, impetuosa come vorresti, come dovrebbe. Perché sei giovane e pieno di energie, perché sei una persona con la tua dignità intangibile, perché sei un uomo o una donna e il lavoro è il modo con cui ti guadagni lo stare al mondo, realizzi te stesso ed entri in relazione con gli altri. E se tutto questo ti è precluso, impedito, se non riesci a formare una famiglia e mettere al mondo dei figli come pure desideri, se non puoi mettere in atto ciò per cui hai studiato, ti sei impegnato, questa precarietà ti uccide non il corpo ma l’anima sì. «È immorale», dice

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ancora il Papa, proprio perché scava dentro, svuota come un tarlo che consuma. E non è solo una questione di contratti più o meno a termine: si può essere precari perché da impiegato diventi esubero, perché ci si sente esclusi per età o perfino per il troppo lavoro, schiacciati da orari e obblighi e pretese che non lasciano spazio e tempo alle altre dimensioni della persona: la famiglia, le relazioni sociali, la spiritualità. La «precarietà uccide» tutte le volte che il lavoro non è libero, creativo, partecipativo e solidale, come recita il titolo di questa Settimana sociale. Tutte le volte che non è degno e che non dona nuova dignità alla persona che lavora e dunque alle persone con cui e per cui si lavora. Perché nessuno è una monade, solitaria e dispersa, e il lavoro è il mezzo con cui siamo più in collegamento con gli altri, cooperiamo, anche senza accorgercene, con una moltitudine di altre persone. Ed è proprio questo rapporto intenso che papa Francesco ci chiede di cambiare sul piano culturale, di più di convertire dalla «competizione alla comunione», dall’interesse del singolo alla ricerca del bene comune. Un cambio di paradigma radicale, ma che riporta di fatto il lavoro alla sua ontologia originaria, quella di una cooperazione, di una comunione appunto, in cui il vantaggio che si persegue è quello comune, la creazione di valore che si ricerca è lo sviluppo delle persone, la crescita del benessere per cui ci si impegna è anzitutto quello delle comunità nel loro complesso. Il piano ideale verso cui il Papa invita a incamminarci e che ci riporta a riscoprire il vero volto del lavoro, non è vuota utopia, il riconvertire la competizione in collaborazione non è ideologia, ma alzare l’obiettivo dal singolo alla pluralità, dal merito che seleziona ed esclude allo sviluppo dei talenti di tutti e per tutti. E non sono neppure semplici parole, come dimostrano il dibattito e più ancora le buone pratiche che vengono presentate in questi giorni alla Settimana sociale di Cagliari. La Chiesa italiana ci crede fortemente, su questo è impegnata in tutti i territori. Tanto che ieri il presidente dei vescovi, Gualtiero Bassetti, ha lanciato l’idea di un «grande piano per lo sviluppo dell’Italia», basato su due pilastri: la valorizzazione della famiglia, vero motore della società, e la tutela del territorio, la sua messa in sicurezza assieme alla promozione del nostro patrimonio artistico, due filoni di sviluppo sostenibile capaci di far crescere le opportunità di lavoro in particolare per i giovani. Dopo la lunga crisi, economica e morale del Paese, questo fra tante fragilità è un tempo di ricominciamento. Rafforzare la famiglia, mettere in sicurezza il territorio significa ripartire dalle basi, come «nel Dopoguerra, come dopo l’alluvione del Polesine o il terremoto in Friuli», ha spiegato il presidente della Cei. Per ricostruire qualcosa di più solido, che resista. E famiglia e territorio sono anche le due dimensioni in cui la persona può sperimentare più facilmente la comunione con i propri affetti e con gli altri, sono gli ambiti in cui i vantaggi di una ricerca del bene comune appaiono più evidenti. Di precarietà si muore. E a salvarci non sarà la competizione, neppure quella meglio regolata, ma un impegno comune, cooperativo, volto al bene di tutti. La comunione ci fa forti, anziché precari; ci tiene insieme e non ci disperde; ci fa fiorire e rende a ognuno la propria dignità. Senza esclusi, senza perdenti, senza che qualcuno soccomba. Pag 3 Imprese, il Progetto cattolico che ha conquistato la City di Silvia Guzzetti Una charity rivoluziona l’idea degli affari in Inghilterra Correva l’anno 2009 e la City in crisi d’identità, che faticava a riprendersi dalla crisi del 2007, si rivolgeva alla Chiesa cattolica per trovare una via d’uscita dalla recessione. A segnalare le cause del tracollo era proprio il governatore della Banca d’Inghilterra, il cattolico Mark Carney, che parlava della «necessità di una società più giusta dove gli individui si sostengano a vicenda, non guidata soltanto dal desiderio di arricchirsi a tutti i costi», e dove «il lavoro del banchiere deve essere una vocazione costruita attorno a valori come l’onestà e il servizio degli altri». Il tema, ovvero la necessità di rimettere al centro dell’economia la persona umana e i suoi bisogni e la costruzione del bene comune, divenne l’argomento di una serie di seminari organizzati dal Primate cattolico cardinale Vincent Nichols per illustrare ai leaders delle aziende il contenuto dell’enciclica Caritas in veritate. Quello che gli uomini d’affari chiedevano all’arcivescovo di Westminster non era di guidarli fuori dalla crisi ma di poter usare il corpo di pensiero della Chiesa per recuperare credibilità e riproporsi ai propri clienti in veste nuova e convincente. È nata, proprio a questo scopo, la charity 'A blueprint for better business', progetto di ispirazione cattolica per un mondo degli affari migliore, con la missione di

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aiutare le aziende a chiedersi perché esistono e perché la società dovrebbe dare loro la licenza di operare. Indipendente sia dalla Chiesa che dal mondo degli affari, 'Blueprint' (www.blueprintforbusiness.org) si presenta come un catalizzatore di cambiamento, radicato nella saggezza collettiva di tante tradizioni, e vuole sfidare il modello, prevalente dagli anni Ottanta, secondo il quale le imprese possono fare quello che vogliono purché producano profitto. Un’impostazione che ha fallito perché ha prodotto una società ingiusta dove la ricchezza è nelle mani di pochi e dove la produttività diminuisce perché i dipendenti si sentono sfruttati e demotivati. «Sono entusiasmato dal modo in cui il desiderio di cambiamento di mentalità nelle aziende si è diffuso e rafforzato», spiega Charles Wookey, direttore generale del 'Blueprint', ripensando al lavoro avviato all’indomani della crisi del 2008. «Gli incontri che offrivamo all’industria sullo scopo ultimo del mercato e delle persone che lo abitano si trovavano, qualche anno fa, ai margini della nostra economia e adesso sono al centro. Abbiamo fatto la nostra parte nel generare un clima nel quale queste domande di fondo sul significato ultimo del lavoro sono diventate un argomento». U n buon esempio è il caso di Vodafone che ha usato lo stimolo generato dagli incontri con 'Blueprint' per ripensare la propria strategia e mettere tre risultati sociali globali al centro della propria azienda. Il rafforzamento del ruolo delle donne, più spazio ai giovani e l’energia pulita sono diventati i tre obbiettivi che hanno trasformato l’azienda dei telefoni dandole un nuovo scopo. «Mentre spesso la responsabilità sociale d’impresa rimane completamente separata dall’attività economica in questo caso vi è stata un’integrazione completa dei due aspetti così che migliaia di dipendenti della Vodafone, in tutto il mondo, hanno potuto avere un unico scopo di natura sociale e il profitto è stato considerato soltanto un risultato secondario», continua Charles Wookey. E che i valori della dottrina sociale cattolica siano vivi e vegeti e desiderati dalle aziende più importanti del mercato britannico è dimostrato dal successo del Blueprint. Questa charity, che non riceve donazioni e non fa pagare alle aziende che la usano quote di iscrizione, raccoglieva, già al momento del suo avvio, nel 2014, un milione di sterline di sponsorizzazioni e oggi può contare su un altro milione e duecentomila. I dipendenti sono sette, da tre che erano, e il consiglio di amministrazione vanta sei personalità famose come Loughlin Hickey, già manager in aziende come la KPMG, Andrea Ponti, ex partner di Goldman Sachs e J.P.Morgan e fondatore di GHO Capital Partners, Sue Garrard, vicepresidente per le comunicazioni a Unilever, Barbara Stocking, ex amministratore delegato di Oxfam Brendan McCafferty, direttore di AXA Insurance e Andrew Hill, uno dei direttori del 'Financial Times'. «I n questo momento stiamo lavorando con diciotto importanti aziende tra le quali l’aeroporto di Heathrow, la società di assicurazioni Hermes, AngloAmerican, Unilever, Vodafone, Easyjet, Legal and General, Ernie Investment e PricewaterhouseCoopers», spiega ancora Charles Wookey. «Quando un’azienda ci avvicina avviamo incontri, di solito di una mezza giornata, con i dirigenti nei quali offriamo loro il concetto di che cos’è una buona azienda», spiega ancora Wookey. «Siamo una piccola 'charity' e possiamo offrire soltanto uno stimolo a queste imprese, che poi lo usano per un processo di trasformazione, durante il quale assorbono un nuovo modo di pensare, servendosi di società di consulenza. Si tratta di un compito molto impegnativo per queste grandi compagnie e noi possiamo facilitare il cambiamento ma non abbiamo le risorse per implementarlo. Rimaniamo presenti, come un amico che osserva criticamente, senza essere pagati, durante questo processo». Del comitato di consulenza del Progetto cattolico per le imprese fa parte il Primate d’Inghilterra e Galles cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, che ha deciso di usare questo approccio anche nelle 600 scuole della sua arcidiocesi. Il responsabile del settore educazione ha frequentato i corsi di 'A blueprint for better business' per applicare i concetti promossi dentro l’arcidiocesi. Dalle elementari e le superiori cattoliche del centro di Londra a un negozio di tappeti fatti a mano di Petworth, pittoresca cittadina del West Sussex. «Quando ho incontrato Alex Rees, fondatore e proprietario di 'Rugs of Petworth', non avrei mai pensato che l’acquisto di un tappeto avrebbe avviato un viaggio aziendale», racconta Loughlin Hickley, che fa parte del consiglio di amministrazione di 'A blueprint for better business'. «Quattro anni dopo aver aperto il mio negozio vendevo sì tappeti fatti a mano ma avevo rincorso altre opportunità come la vendita di moquette che avevano aumentato il mio giro di affari ma mi avevano allontanato dalla mia vera passione», spiega Alex. Ed ecco il 'Progetto' con il suo concetto di «scopo entusiasmante, autentico e pratico al servizio del bene comune».

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Loughlin Hickley aiuta Alex a capire che è importante concentrarsi sui tappeti fatti a mano come mezzo per migliorare la qualità della vita dei suoi clienti. I l proprietario di 'Rugs of Petworth' ripensa il sito e gli ambienti del suo negozio così che i clienti vengano accompagnati personalmente nell’acquisto dei tappeti e le famiglie che li producono possano guadagnare dalle vendite. L’ispirazione più autentica del lavoro viene recuperata e, di conseguenza, anche il volume di affari aumenta. «Un rapporto pubblicato all’inizio di quest’anno dalla Commissione per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite ha identificato 12.000 miliardi di dollari in opportunità per le aziende e 380 milioni di posti di lavoro da oggi fino al 2030 ma per sfruttare queste opportunità occorre un cambiamento di mentalità da parte delle aziende che devono imparare a mettere in cima alle loro priorità il servizio del bene comune e non più il profitto», conclude Charles Wookey. IL GAZZETTINO Pag 1 La ripresa e gli strappi vincenti di Draghi di Giulio Sapelli C'era molta attesa per la decisione che ieri avrebbe dovuto assumere il vertice della Banca centrale europea sulla progressiva riduzione dei sostegni monetari che Francoforte ha messo in atto in questi anni per aiutare l'economia europea ad uscire dalle secche. E di fronte al soft landing annunciato dal presidente Mario Draghi in molti, soprattutto in Italia ma non solo, hanno tratto un sospiro di sollievo. L'origine di questa politica è in quello strappo regolamentare perseguito dalla Banca centrale che, sotto la guida di Draghi, ha messo quasi in discussione il suo fondamento, agendo contro la dura opposizione della Germania e dei suoi satelliti in forma sempre più esplicita, fino a superare i limiti d'espansione della base monetaria dettati dallo statuto della banca stessa. Sin da subito Draghi, assai apprezzato in questa azione anche dalle alte sfere di Washington, si è mosso per arginare la crisi da sottoconsumo e da deflazione abbattutasi come un macigno sulle nazioni europee e su tutta l'economia mondiale. L'eccesso di rischio finanziario che negli anni ha distrutto quote sempre più massicce di profitto aziendale ha inflitto alle banche un doppio gravame: l'inesigibilità dei crediti che erano stati concessi alle imprese e il crollo dell'impalcatura sottostante ai derivati, originato da politiche spregiudicate attuate da banchieri privi di scrupoli sui debiti collateralizzati e dalla vendita di strumenti inadeguati capaci soprattutto di distruggere valore. Di fronte a questa sorta di collasso, la scelta del capitalismo anglosassone fu neo-keynesiana. In altre parole, la mossa del cavallo: da un lato nazionalizzare o sostenere le banche insolventi o a rischio d'insolvenza; dall'altro rilanciare l'economia tutta con tassi d'interesse anche sotto lo zero così da non bloccare per sempre la propensione all'investimento. Combattere la deflazione era dunque l'obbiettivo che si concretò con l'ipotesi di poter raggiungere il 2% di crescita dei prezzi su scala europea. Questa la sostanza di una politica che ha diviso l'Europa con la frattura tra Stati Uniti (favorevoli a tale politica) e Germania (del tutto contraria) con le note conseguenze a livello internazionale che con la presidenza Trump si sono vieppiù esacerbate. Ora la Banca centrale europea annuncia il lento rientro da questa politica che ha senza dubbio salvato le banche consentendo di non interrompere il credito alle imprese, ma che ha anche aiutato queste ultime a non cadere vittima di un blocco che sarebbe stato ferale. Sicché una massa enorme di liquidità è stata rovesciata sui mercati con il rischio di creare pericolose bolle di liquidità, cosa che per fortuna non è accaduto. Ma ha raggiunto lo scopo agognato di un'inflazione al 2%? Non ancora. Anzi, francamente sembra proprio che la meta sia tutt'altro che vicina. Sarebbe però ingeneroso parlare di fallimento, perché senza quegli interventi sul mercato probabilmente oggi non avremmo un'economia reale in piena ripresa anche sul fronte occupazionale con sole poche sacche che si muovono ancora al rallentatore. Dunque, l'attuazione del programma Quantative easing può a buon diritto essere classificata tra le mosse vincenti sebbene il successo non sia ancora completo. Evidentemente ha prodotto frutti l'insegnamento di Hyman Minsky, l'economista americano tra i principali esponenti del filone post-keynesiano che ha fortemente sostenuto la necessità di separare il bilancio degli Stati dal credito diretto all'economia reale. Un'eresia, secondo la scuola dominante in Germania; ma mettere in pratica quell'insegnamento - che Draghi ha dimostrato di conoscere molto bene - è

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sicuramente servito a non far deragliare l'economia europea. I mercati lo sanno e ieri, accogliendo senza scosse l'annuncio di Draghi, lo hanno dimostrato. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Mose, arrivano i soldi. Incognita manutenzioni di M.F. Stanziati 210 milioni per finire l’opera Venezia. Il Mose verrà completato, ma ci sono ancora molte criticità sulla manutenzione e sulla gestione. Con il ministro delle Infrastrutture a Venezia era inevitabile un passaggio sulla grande opera che ha fatto discutere la città per quasi 40 anni. «È una delle questioni cui ci siamo trovati di fronte nel 2014, con il governo Renzi - spiega Graziano Delrio - e aver garantito la continuità nonostante gli scandali e la corruzione è già stato un grande risultato». Lo stanziamento dei 210 milioni è già stato fatto dal Governo e ora si attendono gli inevitabili passaggi tecnici e burocratici per arrivare alla liquidazione vera e propria al Consorzio Venezia Nuova. La somma non sarà ovviamente liquidata tutta in una volta, ma la quota del 2017 sarà consistente, aggirandosi su una sessantina di milioni. LA GESTIONE - «Adesso bisogna completare il Mose e fare in modo che funzioni - continua il ministro - e fare in modo che da esso si tragga un know-how, un'esperienza internazionale, si rafforzino le competenze ingegneristiche già presenti, come quella di Thetis». Di Mose tuttavia non si parlerà, se non marginalmente, al Comitatone convocato a Roma per il 7 novembre e che sarà presieduto dallo stesso Delrio (su delega del premier Gentiloni), poiché il Governo ritiene di non avere ancora tutta la situazione sotto controllo per quanto riguarda gli aspetti post-ultimazione, come gestione e manutenzione dell'immensa struttura, in gran parte situata sul fondo delle bocche di porto, a oltre 10 metri di profondità. TORNERÒ PRESTO - «Noi stiamo lavorando adesso con il presidente dell'Autorità anticorruzione Raffaele Cantone e i commissari del Consorzio per trovare la via giusta. Ma non sono pronto ancora. Tornerò prima della fine del mio mandato per dare la prospettiva». Il problema è soprattutto legato alla gestione, che secondo il Provveditore alle opere pubbliche del Nordest, Roberto Linetti, dovrebbe assestarsi sugli 80 milioni l'anno più 15 per la salvaguardia della laguna. «Si parla di spese impegnative - ha concluso Delrio - ed è un lavoro molto serio che richiederà un dossier preparato bene. Siamo avanti, ma non siamo pronti». L'idea è che il ministro torni a Venezia verso Natale a presentare almeno le linee guida sulla gestione del sistema. Anche perché poi si andrà alle elezioni e non ci sarà più tempo. LE CRITICITÀ - Come è noto, le maggiori criticità legate al completamento dell'opera riguardano lo sfasamento di liquidità tra il momento in cui il Governo ha deliberato lo stanziamento delle risorse e l'effettiva liquidazione della somma. Bisogna pagare le imprese e c'è da pagare una rata da 73 milioni del prestito Bei entro la fine dell'anno. E vediamo come stanno avanzando i lavori. Mercoledì è stata posizionata la sesta paratoia nella bocca di Chioggia e la posa dovrebbe terminare prima di Natale. Con Malamocco chiuso in luglio, rimangono solo da posare le paratoie tra l'isola artificiale e il Lido, operazione che secondo il Consorzio Venezia Nuova, va fatta necessariamente in inverno, per evitare interferenze con l'attività delle crociere, che passano proprio di lì. LA DIATRIBA - C'è infine il problema delle competenze sulla gestione del Mose e della cabina di regia. Da una parte c'è la Città metropolitana alla quale il Parlamento ha attribuito alla Città metropolitana le funzioni di salvaguardia della Laguna. Proprio questa settimana, però, sulla scorta del referendum per l'autonomia, il presidente della Regione Luca Zaia ha però annoverato tra le richieste di competenze che lo Stato dovrebbe devolvere anche la salvaguardia. Brugnaro è tranquillo, ma mostra fermezza. «Va bene che lo Stato faccia il lavoro e lo concluda - ha commentato il sindaco - ma partiamo subito con la gestione del Mose e sulle relative competenze sulla cabina di regia. Dobbiamo però sentirci, perché i cittadini non si fanno più mettere i piedi in testa. Ci facciamo sentire e ci faremo sentire. Da

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questo o quell'altro governo. In cabina di regia non è che vogliamo esserci noi come istituzione, ma come rappresentanti degli interessi di questa città. Perché siamo a favore dell'autonomia della regione, ma i cittadini devono poter dire la loro». Pag IV Vino dei frati, ai Carmelitani Scalzi una giornata alla scoperta dei vitigni Venezia. La vite, il vino e la bellezza dei luoghi Venezia. Domani, dalle 10.30, al Convento dei Carmelitani Scalzi una giornata alla scoperta del doppio filo che lega Venezia alla vite e al vino, dalla produzione nelle isole della laguna e dell'entroterra veneto. Il Consorzio Vini Venezia sta valorizzando questo legame dal punto di vista storico attraverso il recupero e l'identificazione delle varietà di vite presenti in broli, giardini pubblici e privati e nei Conventi della città e delle isole. Frutto del progetto, avviato nel 2010 in collaborazione con le Università di Milano, Padova e con il Crea-Viticoltura Enologia di Conegliano, sono due vigneti collezione che il Consorzio Vini Venezia ha piantato a Torcello e nel Convento dei Carmelitani Scalzi. Nel corso della giornata è prevista una visita al Convento e al Giardino Mistico - in cui, tra l'altro, viene coltivata la Melissa moldavica da cui i Padri producono un infuso alcolico noto fin dal 1700 - prima di degustare alcuni vini delle cinque denominazioni riunite sotto il Consorzio Vini Venezia. A seguire la visita guidata della chiesa di Santa Maria di Nazareth o degli Scalzi - costruita nei primi anni del XVIII secolo su progetto di Baldassarre Longhena - tra le più interessanti e meno conosciute di Venezia in cui si possono ammirare affreschi di Giambattista Tiepolo. Infine tra calli e campielli ci sarà l'itinerario che ripercorre le vie dei mercanti e fa rivivere il commercio delle merci preziose della Serenissima, uno dei tre percorsi enoturistici, messi a punto dal Consorzio. In mattinata sarà illustrato il progetto da parte di Carlo Favero al quale seguirà la degustazione dei prodotti Ai Galli, La Frassina, La Frassinella, Ornella Molon. Pag XIV Un esercito di 900 ragazzi pronto ad aiutare chi soffre di Alvise Sperandio Ieri in piazza Ferretto il raduno di studenti e coordinatori che aderiscono al progetto “Prove di un mondo nuovo” Mestre. Un esercito vociante e colorato di ragazzi si è presentato ieri alle 15 in punto, in piazza Ferretto, borse e trolley al seguito, pronto a partire per la nuova avventura di Prove di un mondo nuovo. 72 ore con le maniche in su. L'organizzazione ne ha contati 900, tra referenti e partecipanti, questi ultimi soprattutto dell'età delle scuole superiori, in maggioranza femmine, tutti animati dal proposito di fare qualcosa di buono per gli altri. Anche la settima edizione della maratona di volontariato al buio ha fatto centro, confermandosi un'iniziativa capace di coinvolgere un numero largo di coloro che si stanno affacciando al mondo adulto. La formula è sempre la stessa. Chi si iscrive, nel modulo dà solo un'indicazione di massima di ciò che vorrebbe fare, ma solo al momento di andare, scopre quale sarà la sua destinazione e con che incarico. L'INIZIATIVA - L'esperienza nasce dalla Caritas di Trento, ripresa in città da un gruppo di giovani coordinati da Gianni Pigato, che l'ha trasformata in un appuntamento fisso di questo periodo dell'anno, molto atteso dai ragazzi. In programma ci sono ben 77 progetti che toccano diversi ambiti di servizio: assistenza ad anziani, minori e persone in stato di disagio, mense e dormitori, interventi di tipo ambientale, di pulizia e recupero del territorio. Tre giornate di full immersion che rafforzano le amicizie e permettono a chi vuole darsi da fare di conoscere tante persone e realtà impegnate per gli altri. Anche quest'anno l'iniziativa si avvale della collaborazione e del patrocinio di molte istituzioni, associazioni e scuole della provincia. Alla fine delle 72 ore, organizzatori e partecipanti si ritroveranno domenica pomeriggio al Pala Expo di Marghera per condividere le esperienze e fare festa. Pag XVIII Mira, ladri in canonica. Rubati i soldi per la festa dei bimbi di g.pip. Un altro furto in parrocchia: bottino pochi spiccioli. E' successo nei giorni scorsi alla chiesa San Nicolò di Mira, dove uno o più malviventi sono entrati probabilmente all'ora di cena. I ladri hanno forzato la porta e poi hanno rovistato in armadi e cassetti. Alla fine hanno trovato solo 50 euro in monete e banconote di piccolo taglio: erano stati portati

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dai bambini per l'iscrizione a una festa parrocchiale. La parrocchia ha presentato denuncia, i carabinieri hanno svolto un sopralluogo. Non è la prima volta che i ladri, probabilmente sbandati, s'infilano nella canonica di Mira. L'ultimo furto era stato commesso lo scorso 25 aprile: in quel caso venne alleggerito il portafoglio di un sacerdote, ma anche allora il bottino fu assai esiguo. Pag XIX “Angela, bella fuori e stupenda dentro” di Luisa Giantin e al.spe. Oriago sconvolta per il tragico gesto della trentottenne. La notizia ha ammutolito il consiglio comunale. “Depressione post partum, malattia da non sottovalutare” Una comunità intera si è stretta stordita e commossa alla famiglia di Angela Cavinato, dopo la tragica notizia della sua morte. Tanti gli amici di lei e del marito Matteo che in queste ore hanno espresso vicinanza e cordoglio con un messaggio, una telefonata, una visita alla famiglia di lei, a Oriago. COMUNITÀ ATTONITA - Ieri mattina erano molte le persone che si fermavano a leggere l'annuncio della scomparsa e le indicazioni sulle esequie, che si terranno domani, sabato. Tutti dolorosamente colpiti dalla foto di Angela, splendida nel suo abito da sposa il giorno del matrimonio con Matteo, tre anni fa. La bellezza della giovane mamma che martedì scorso ha deciso di interrompere la sua vita in un momento di sconforto, forse legato alla depressione, era il primo elemento nei ricordi di quanti la conoscevano. «Angela era meravigliosa fuori ma soprattutto dentro continuano a ripetere gli amici Era dolce e gentile, nulla a che fare le esuberanze che magari ci si aspetterebbe da un ex modella, una persona dall'animo gentile che sapeva comunicare con gli altri in modo pacato. Una ragazza intelligente e molto sensibile». Una sensibilità che probabilmente in un momento bello ma anche complesso come l'arrivo di un figlio può averla resa più fragile. Ipotesi, supposizioni, che non spiegano fino in fondo il buio che Angela ha visto attorno a se nel momento in cui ha deciso di intraprendere un gesto definitivo. «Per tutti martedì era stato un giorno come un altro racconta chi in questi giorni è stato vicino alla famiglia Al mattino era andata al lavoro presso lo studio di consulenza del padre, poi era rientrata all'ora di pranzo. Nel pomeriggio era stata con il suo bambino, tanto desiderato e amato. Poi, forse, un momento di sconforto e la tragica follia». Angela era seguita da alcuni mesi perché stata vivendo un momento di difficoltà, comune a molte mamme, talvolta espresso, in altre occasioni taciuto; ma certamente nessuno - tanto meno il marito, i genitori ed il fratello - immaginavano un epilogo così drammatico. Domani l'ultimo saluto ad Angela sarà celebrato da don Cristiano Bobbo, parroco della comunità di S. Maria Maddalena e di S. Pietro di Oriago che in questi giorni è stato particolarmente vicino alla famiglia. Gli amici si stanno organizzando per essere vicino al marito Matteo, al figlioletto di appena 11 mesi e ai genitori. CALCIO MIRA IN LUTTO - Il Calcio Mira, dove Matteo, fino a qualche anno fa, era stato direttore sportivo, ottenendo ottimi risultati, sarà presente alla cerimonia con una propria rappresentanza. «Siamo rimasti tutti scioccati ha commentato il dirigente Davide Bacchin - non possiamo che essere vicini a Matteo e alla famiglia in questo momento così difficile». Anche i compagni di Angela, attoniti per la tragica scelta dell'amica di sempre, faranno sentire la loro vicinanza alla famiglia al funerale. Il pensiero di tutta la comunità di Oriago, e non solo, va al figlioletto di Angela che ha gli occhi ed il sorriso dolce della mamma e che ora ha un angelo speciale che lo protegge e che lo veglia. Si svolgeranno domani, sabato 28 ottobre, alle 12 nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Maddalena a Oriago i funerali di Angela Cavinato, 38 anni. La chiesa sarà gremita di amici, conoscenti e colleghi di lavoro che in questi giorni si sono stretti attorno alla famiglia distrutta dal dolore e che non mancheranno di esprimere la vicinanza anche durante le esequie. Dopo la cerimonia la salma verrà tumulata nel cimitero di Oriago. Angela lascia oltre al figlio di quasi un anno, il marito Matteo Barchi, mamma Gianna e papà Danilo e il fratello Mattia. Sarà don Cristiano Bobbo, parroco di S. Pietro, S. Maria Maddalena e Sacro Cuore di Gesù nella Collaborazione di Oriago e Malcontenta ad officiare le esequie di Angela Cavinato, domani, sabato. «Il silenzio in alcuni casi parla più di qualsiasi parola – commenta don Cristiano – specie in questi momenti così difficili. Penso che tutta

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comunità parrocchiale e gli amici e coetanei si uniranno alla famiglia nella preghiera durante la cerimonia funebre; e credo daranno aiuto anche dopo». L’ANNUNCIO IN CONSIGLIO - La famiglia di Angela Cavinato è molto conosciuta a Mira e l’annuncio della tragica morte della giovane mamma è stato dato martedì sera, ufficiosamente, anche nel corso del consiglio comunale. Durante una pausa dell’assemblea municipale, riunita per discutere l’ordine del giorno ed in particolare la mozione su una targa in memoria di Loris Bertocco, qualcuno ha dato la notizia del dramma che aveva colpito la famiglia oriaghese, notizia che si è diffusa velocemente anche fuori del municipio. Il sindaco Marco Dori e le assessore più giovani sono quasi coetanee della 38enne, ex modella, considerata una delle più belle ragazze dell’intera Riviera, che l’altra sera ha deciso di compiere una scelta estrema e drammatica. IL DOLORE DELL’ASSESSORE - «Siamo rimasti profondamente scossi da questa tragedia – ha commentato l’assessore alle Politiche educative e delle Famiglie, Elena Tessari - Una tragedia che colpisce la famiglia ma che si ripercuote inevitabilmente in tutta la nostra comunità per questo tragico e disperato gesto. Siamo vicini ai genitori, al marito, rimasto solo, e in particolare al bambino della coppia, che ora è senza mamma». Mestre. Gloria Scarpa, psicologa clinica: che cos'è la depressione post-partum? «Una malattia che non va sottovalutata, ma curata». Ci sono neo mamme che si sentono un po' giù. «Bisogna distinguere. Esiste anche il cosiddetto Baby blues. È un malessere fisiologico contraddistinto da sbalzi d'umore che hanno una motivazione ormonale. Sparisce nell'arco di un paio di settimane dal parto. Se perdura o peggiora, è necessario accendere un campanello d'allarme». Quali sono i sintomi della depressione post-partum? «Quelli tipici di un episodio depressivo: tono basso dell'umore perdurante; poca voglia di fare, tristezza; perdita di appetito; disturbi del sonno; irritabilità; rabbia». Perché nasce? «I motivi possono essere molteplici e talvolta si intrecciano trasformandosi in concause. La persona può essere predisposta avendo già sofferto di depressione in passato. La gravidanza può essere stata brutta. Nel frattempo possono essere subentrati problemi con il partner. Possono esserci guai economici». Cosa passa per la testa della neo mamma? «Spesso non si sente all'altezza del suo nuovo ruolo. E non riesce a governare i suoi sentimenti, tanto che non è più in grado di percepire quello che è normale anche nei confronti del neonato. Soprattutto non capisce che la conflittualità è tipica di ogni rapporto. Si sente combattuta, perché le capita di provare verso il piccolo amore, dedizione, tenerezza, gratitudine da una parte; risentimento, rancore, noia, esasperazione e scoramento dall'altra. Un contrasto che le provoca un senso di inadeguatezza e di colpa». Quando è necessario preoccuparsi? «Quando i sintomi depressivi continuano per almeno un mese o peggiorano». Cosa bisogna fare? «È necessario chiedere aiuto: al medico di base, allo psicologo, allo psichiatra. È fondamentale chiederlo anche ai medici che ti hanno seguita durante la gravidanza». I familiari cosa possono fare? «La loro vicinanza è indispensabile. A partire dal partner. La depressione crea isolamento sociale, vergogna e per pudore ci si chiude in se stessi in un circolo vizioso di pensieri e sentimenti. È importante non farsi sopraffare e farsi dare una mano. La rete parentale e amicale è essenziale». Ci sono tante donne che soffrono di depressione post-partum? «Le statistiche parlano del 10-20% delle partorienti». Si può guarire? «Assolutamente sì e bene. Ci sono tre pilastri per trattare il problema: la psicoterapia, il supporto farmacologico sotto controllo medico e il lavoro personale, interiore». Quale ruolo deve avere la società rispetto a questo problema? «La nostra società è molto concentrata sulla preparazione al parto, poco sul dopo. Servirebbero sostegni anche quando torni a casa dall'ospedale, a partire dai gruppi di mutuo aiuto con le altre donne con cui hai condiviso il periodo della gravidanza. Inoltre, questa società non aspetta chi soffre. E quando torni in pista, sei costretto a correre per recuperare e non stare indietro. Ricordiamoci sempre che una donna che allatta è vulnerabile». Dottoressa Scarpa: un consiglio alle donne che stanno male dopo essere diventate mamme. «Non temete e fatevi aiutare. E non pensate di poter fare tutto e di dover essere necessariamente delle mamme perfette. Ce la farete a ripartire». LA NUOVA Pag 20 Stranieri record a Venezia, unica provincia in crescita di Marta Artico

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Secondo il dossier Idos il numero di immigrati è cresciuto di 1.000 unità dal 2015. Enorme anche il flusso di denaro rispedito in patria, pari a 97 milioni di euro In controtendenza rispetto alle altre sette province della regione dove lo stallo demografico degli immigrati è, oramai, un dato di fatto, a Venezia i residenti stranieri sono ancora in aumento (82.679), vale a dire 1.029 in più rispetto al 2015. A mettere nero su bianco gli ultimi dati a disposizione, è il Dossier statistico immigrazione 2017 del Centro studi e ricerche Idos.Meno stranieri, ma non a Venezia. Il Veneto, con 4.907.529 residenti di cui 485.477 immigrati, rimane la quinta regione per popolazione complessiva (Istat, 31 dicembre 2016) e la quarta per numero di immigrati. L'incidenza di persone non italiane sui residenti rimane significativa: il 9,9% dell'intera popolazione regionale. Per il secondo anno consecutivo la flessione di residenti immigrati rispetto al 2015 (-12.444, secondo anno consecutivo di decremento) è un dato di fatto e ha cause diverse: dagli spostamenti in altre regioni italiane e nei Paesi europei, al ritorno al Paese di origine, all'acquisizione della cittadinanza italiana con cancellazione dalle anagrafi come stranieri. Un decremento che non è stato compensato dal numero di nuovi nati ingressi. Il Veneto ha avuto un numero di acquisizioni di cittadinanza tra i più alti (29.313 nuove acquisizioni nel 2016), quasi del 15% di acquisizioni nell'intero Paese. A differenza del resto del Veneto, l'unica area che ha ancora un incremento di residenti stranieri è la provincia di Venezia, con 82.679, ossia più 1.029 rispetto al 2015. Boom di cittadinanze. Nell'esaminare in dettaglio i dati si può verificare come il 39,2% dei cancellati dalle anagrafi in realtà lo sia stato per l'acquisizione della cittadinanza italiana che ha riguardato circa 60 persone ogni mille immigrati residenti (50 nel 2015), con percentuali più alte nelle province dove il radicamento della popolazione immigrata è consolidato da tempo. Ca' Foscari e Iuav. Stando ai dati del Miur sottolineati dal rapporto sull'immigrazione, nell'anno 2016-17 gli iscritti alle università venete di cittadinanza non italiana sono stati 5.020 (il 4,7 % del totale): di questi 1080 si sono iscritti a Ca' Foscari e 231 allo Iuav di Venezia. Occupazione. In provincia di Venezia gli occupati sono 54.544, il Paese più rappresentato è la Romania, seguono Marocco, Cina, Albania e Moldavia. Importante il contributo dell'imprenditoria straniera. Rimesse. Da ultimo un dato da rilevare, vale a dire i flussi di denaro che gli stranieri residenti inviano nel Paese di origine e che non contribuiscono a rimettere in moto l'economia locale creando un circolo virtuoso di cui il nostro territorio avrebbe bisogno. Ancora una volta Venezia detiene il primato. Nel 2016 il volume di rimesse in Veneto è tornato a salire (più 3,9%). Una partita da 427,6 milioni di euro. Venezia è seconda provincia dopo Verona con ben 97 milioni di euro. Se la popolazione straniera residente in media manda a casa 881 euro, a Venezia troviamo il picco massimo, 1.172 euro. Se le nazionalità più radicate nel territorio sono quelle che mandano meno soldi a casa ma li mantengono in circolo, vedi alla voce Cina e Moldavia (meno 30,4% la prima e addirittura meno 83,4% la seconda), la comunità che più di tutte rimanda in patria quanto guadagnato in provincia di Venezia, è quella del Bangladesh, seguita dalla Romania. Questi due Paesi di destinazione, assorbono quasi il 30 per cento delle rimesse complessive. Oltre ai bengalesi, in forte crescita Paesi dell'Asia meridionale come Sri Lanka, India e Filippine. Pag 21 Volontari in spiaggia e ai Murazzi di s.b. Da oggi fino a domenica studenti ripuliranno il litorale del Lido Lido. Inizieranno oggi, tra Malamocco e Pellestrina, gli interventi di numerosi volontari che aderiscono all'iniziativa "72 ore con le maniche in su". È organizzata dal gruppo "Prove di un mondo nuovo" che, come ogni anno, porta a Pellestrina e Lido una sessantina di studenti che si impegnano nella pulizia dei Murazzi e della spiaggia libera. Il tutto fino a domenica. Saranno ospitati al Centro Soggiorni Morosini, quelli che lavoreranno a Malamocco, e a Santa Maria del Mare quelli che invece presteranno la loro opera sulla vicina isola. A seguire le attività sarà il consigliere comunale delegato alle isole, Alessandro Scarpa Marta. Per i giovani sono stati previsti anche alcuni momenti culturali e di aggregazione, come la visita al Piccolo Museo della Laguna Sud per far conoscere le origini di Pellestrina. «Si tratta di una iniziativa di pregio che ormai si ripete

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da anni», sottolinea lo stesso consigliere comunale, «e in questo vanno lodati gli organizzatori per la loro costante presenza sul nostro territorio. Anche stavolta verranno raccolti quintali di rifiuti, recuperati in sacchi e consegnati a Veritas che supporta questo intervento». L'iniziativa ha trovato anche negli anni scorso ampio consenso gli organizzatori sperano di bissare il successo anche quest'anno. Pag 48 La carica dei mille per inventare un mondo nuovo di Marta Artico La carica dei mille invade piazza Ferretto. Giovani, colorati, allegri e pieni di vita si sono presentati nel "salotto cittadino" puntuali alle 15 del pomeriggio per intraprendere la loro avventura speciale. Sono i ragazzi di "72 ore con le maniche in su", l'iniziativa promossa dal gruppo denominato "Prove di un mondo nuovo" giunta alla sua settima edizione, che di anno in anno moltiplica numeri ed esperienze. Accompagnati dai genitori, qualcuno più e qualcuno meno apprensivo, hanno preso posto nell'angolo della piazza a loro assegnato, cercando i compagni di classe e di scuola e i referenti del gruppo che li accompagneranno in questo viaggio alla scoperta della solidarietà e del volontariato. Per qualcuno sarà un'esperienza bella o faticosa che rimarrà un ricordo importante, altri capiranno quello che vogliono fare da grandi e, perché no, c'è chi grazie a questo progetto scoprirà un mondo "nuovo" a cui dedicare tutta la propria esistenza. Con le loro grosse valigie e gli zaini capienti, neanche dovessero stare via un mese o partire per una missione di pace, si sono incamminati verso parrocchie, istituti, case di riposo. In quei grossi borsoni c'era tutto il necessario per dormire fuori e per ogni evenienza, dalla pila al sacco a pelo. Ben 13 i pullman che li hanno portati nelle rispettive destinazioni, mentre qualcuno diretto nelle isole lagunari ha preso addirittura la barca. Ieri pomeriggio l'emozione si tagliava con il coltello tra i giovani, maschi e femmine, provenienti un po' da tutta la provincia di Venezia. Fino a domenica - con festa finale per tutti al Pala Expo Venice - i ragazzi saranno in prima linea, impegnati in ben 77 progetti che toccheranno vari e diversificati ambiti di servizio: assistenza ad anziani, minori e persone in stato di disagio, mense e dormitori, interventi di carattere ambientale e di pulizia, recupero del territorio e molto altro. Anche quest'anno l'iniziativa si avvale della collaborazione e del patrocinio di numerose istituzioni e realtà locali, associative ed ecclesiali nonché di parecchi istituti scolastici dell'area metropolitana. Solo al momento del meeting in piazza Ferretto, i ragazzi hanno scoperto cosa li attende e quale esperienza dovranno fare. C'è chi è partito per l'oasi Lipu di Gaggio a Marcon, un posto speciale dove immergersi nella natura dietro casa, chi spalerà le foglie dalla pista ciclabile di viale Garibaldi, chi si occuperà di una palestra in via Costa. I progetti sono variegati e spaziano in diversi settori: 7 dedicati all'immigrazione, altrettanti ai senza fissa dimora, 2 alle dipendenze, 6 ai minori, 12 alle disabilità, 16 agli anziani e 30 sono invece i progetti ambientali. Sono state avviate anche collaborazioni universitarie, come quella con lo Iusve. L'obiettivo a lungo termine è aprire ai ragazzi un mondo fatto di solidarietà e generosità verso chi ha più bisogno, così come nei confronti della società nella quale vivono e far loro capire che insieme possono fare la differenza. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Toscani e il vento dell’Est di Emilio Randon Noi austroungarici Il fotografo Oliviero Toscani trova sgradevole il dialetto veneto, lo sente musicalmente impastato dall’alcool, instabile sui fonemi e perennemente sul punto di perdere l’equilibrio del discorso. A un lombardo come lui fa l’effetto del gallico o del germanico alle orecchie di un civis romanus, un ba-ba-ba sgangherato, barbaro per l’appunto, il cui suono rivela l’essenza primitiva di una popolazione non ancora completamente civilizzata. Un popolo di «mona» insomma. Con questa gente bisogna avere pazienza, prima o poi, attraverso l’insegnamento e un più stretto contatto con le forze dell’impero, verranno assimilate. Il fatto è che in Veneto non succede, non c’è riuscito Nicolò

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Tommaseo e non ce l’ha fatta Mike Bongiorno, due grandi divulgatori in forma diversa. Toscani non conta una mazza si dirà, ma è sbagliato pensarlo. Anche lui è un grande divulgatore, uno che più di altri e con i soldi dei Benetton è riuscito a trasformare in moneta sonante il cliché della sinistra caviar per la quale dall’incrocio di due culture si ottiene sempre un cultura superiore: il meticcio è meglio dei genitori, la risultante meglio delle componenti, mescola due colori, fallo con due culture e per risultato avrai un bellissimo criollo. Lo ha fatto con una campagna pubblicitaria, la «Unite Colors of Benetton», di grande impatto visivo che trasformava in soldi la convinzione sinistrorsa secondo cui dalla fusione dei diversi viene fuori sempre un esemplare migliore. È una fede radicata questa – i progressisti di sinistra la chiamano assimilazione sperando di prevalere – ma non diversa dall’altra e opposta, di destra, secondo cui la purezza dei tratti va mantenuta ad ogni costo perché solo nella conservazione delle rispettive identità discende un proficuo dell’incontro da due culture. Altrimenti è guerra. Nei fatti la sindrome identitaria se ne frega della destra e della sinistra, Madrid ad esempio teme che a Barcellona si installi un Lula catalano e Barcellona paventa il franchismo di ritorno. Cosa voglio dire? Che la suscettibilità dell’educatore Toscani (lombardo al 38,3 per cento) nei confronti di noi veneti (veneti al 57,2 per cento) è utile e ci serve per correggere il tiro sul discorso identitario: non siamo trumpiani come si è detto, l’America è lontana e la nostra non è la «rust belt» - la cintura rugginosa degli Usa in crisi - siamo europei invece e fino in fondo, europei dell’est esattamente. Quel che accade in Veneto – e il referendum autonomista lo rivela – ha molto più a che fare con quanto accade nella fascia europea ex comunista, la vecchia Mitteleuropa, che con la fusciacca a stelle e strisce di Trump. Il dialetto veneto è un pretesto, il nostro problema è il loro, identitario, percettivo e di prossimità. Come noi i paesi dell’est detestano il sud europeo piagnone e mantenuto, diffidano di Bruxelles e temono il contagio islamico, come noi ospitano meno immigrati della Campania e della Germania eppure si sentono più minacciati. E’ l’Ungheria, la Cechia e l’Austria, tutti paesi che hanno riscoperto i valori cristiani in chiave anti islamica e che stanno producendo maggioranze di destra. Noi siamo paesani, abbiamo nostalgia delle porte di casa lasciate aperte, dei conti lasciati al «casolin». Le donne velate ci fanno ancora impressione e se anche i mori non li abbiamo avuti in casa, nel 1529 eravamo a Vienna a combatterli con Eugenio di Savoia. La Bulgaria, parte della Moldavia e della Boemia che hanno assaggiato il tacco ottomano se li ricordano bene. Da noi l’idea che l’assimilazione islamica possa funzionare non è mai passata. Siamo austro-ungarici non trumpiani e il sommovimento che viene da quella parte dell’Europa ci appartiene. Quelli come Toscani sono un’altra cosa, amano il vasto mondo come noi amiamo l’acquario di Genova, ma con il vetro di mezzo. Per la sociologa inglese Ruth Glass sono «gentry» (così si chiamava la piccola nobiltà inglese) e per loro ha coniato il termine «gentrificazione» per descrivere il fenomeno con cui i vecchi ceti operai e artigiani vengono progressivamente scacciati dal centro delle città da una classe colta, ricca e cosmopolita che il mondo lo vede da una vetrata. Il Veneto non ha vetrate o le ha meno spesse - le citta capoluogo (un po’ gentry) hanno votato di meno, ma il resto della regione è paese – e la trama economica di cui è fatto è diffusa, ha un ordito culturale stretto intrecciato da riconoscimenti e segni culturali di cui il dialetto è solo la grafia. La stoffa che ne risulta è speciale, molto nazionale, molto straniera e barbara ai Toscani. «Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco e mi gabella per antitedesco», no non lo siamo proprio. A San Pietro Mussolino (vallata di Chiampo, paese autonomista al 74%), dopo lo spoglio di domenica, l’impiegata dell’anagrafe alzava gli occhi al cielo: «Siamo diventati una fabbrica di cittadinanze italiane». E il sindaco, Gabriele Tasso: «Lavoriamo per loro, contributi, assistenza, sussidi alle famiglie. All’anagrafe ci sono 240 aspiranti italiani che l’italiano non lo parlano, che non hanno votato e non voteranno mai. Ottenuta la cittadinanza, scappano in Inghilterra e in Germania. Erano 300 tre anni fa, 60 sono già partiti». Zanè ha pochi immigrati, è ricca e fa industria, qui Alessandra Moretti (Pd) al dibattito pre-elettorale organizzato dal sindaco Roberto Berti è stata costretta a differenziarsi con un rammaricato e vago, «ah, potevate farla già dieci anni fa l’autonomia». Idem sentire, nei bar non riconosci più l’avventore di sinistra da quello di destra, e parlano tutti la stessa lingua, dalla Pedemontana alla Bassa Padovana, dal Veneziano ai Lessini, tutti, che par di sentire l’ugrofinnico. LA NUOVA

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Pag 6 Rosatellum in Veneto, il Pd rischia il tracollo di Sabrina Tomè Scenari di voto: trionfo del centrodestra con 14 seggi, ridimensionamento per i grillini Venezia. Qualcuno tra i dem del Nord ha rievocato l'immagine dei "villaggi di Asterix", quando negli anni ruggenti del berlusconismo rimasero alla sinistra poco più che dei quartieri. Potrebbe essere questo l'effetto del Rosatellum, la nuova legge elettorale che è un misto tra proporzionale e maggioritario. E nel Veneto post-referendum, il risultato rischia di essere ancora più dirompente, con la perdita da parte del Pd di oltre la metà dei seggi attuali e con l'affermazione netta della coalizione del Centrodestra. Un dato per tutti: con riferimento alla sola parte maggioritaria, il partito di Renzi porterebbe a casa appena 2 seggi, il centrodestra 14. Un gap che la parte proporzionale non potrà mai colmare. A prospettare tale esito è uno studio dell'Istituto Ixè di Trieste che ha simulato gli effetti della nuova legge elettorale; si tratta per l'esattezza di una simulazione dei collegi uninominali e della parte proporzionale del voto alla Camera. L'analisi condotta sul territorio nazionale evidenza un Nord in mano al Centrodestra - Veneto e Lombardia soprattutto - forte comunque anche in Puglia, Lazio e Campania; un Centro controllato dal Pd che mantiene le roccaforti di Emilia e Toscana e un Movimento 5 Stelle che si afferma in Sicilia e Sardegna, oltre che in Liguria.La simulazione di Ixè è stata fatta usando la media dei risultati attribuiti ai singoli partiti nei sondaggi pubblicati negli ultimi 15 giorni. Secondo lo studio, i vincitori sono i grillini con il 26,9% dei voti, seguiti dal Pd con il 26,7, dalla Lega col 15% e da Forza Italia col 14,1%. Il passaggio successivo di Ixè è stato ipotizzare le alleanze: Ap di Alfano con il Pd, mentre la Sinistra (Mdp, Sinistra Italiana, Possibile) presenterebbe una sua lista. Il Centrodestra riunirebbe Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d'Italia, mentre il Movimento 5 Stelle correrebbe da solo. Per simulare il risultato nei collegi uninominali alla Camera (non essendo ancora disegnati i definitivi), sono stati utilizzati quelli del Mattarellum al Senato. Ebbene, in Italia il Centrodestra totalizza 269 seggi, il Centrosinistra 180 e il Movimento 5 Stelle 153; tutti ben lontani dalla maggioranza assoluta dei 315 seggi. Va sottolineato che le differenze fra gli schieramenti sono tutto sommato contenute se si considerano i seggi attribuiti con il proporzionale, mentre la forbice s'allarga con il maggioritario (128 al centrodestra, 57 a Pd con Ap e 40 ai grillini) che garantirebbe al centrodestra la vittoria in più del 55% dei collegi. Una tendenza che diventa marcata in Veneto. Qui il Centrodestra conterebbe, per la parte maggioritaria, su 14 collegi, il Pd su 2 e il Movimento Cinque Stelle dovrebbe accontentarsi di appena 1. Un arretramento per il partito di Renzi che oggi schiera 23 parlamentari, 19 deputati e 4 senatori. Certo, a quei 2 seggi vanno aggiunti quelli conquistati con il proporzionale, ma non si tratterebbe di grandi numeri, non certo tali da allontanare lo spettro del tracollo. E secondo Roberto Weber, responsabile di Ixè, i risultati per il Pd potrebbero essere anche meno ottimistici rispetto a quanto emerge dallo studio. «Dal punto di visto politico, se ci fosse questa situazione non ci sarebbe governabilità», spiega Weber commentando i dati nazionali, «C'è forte maggioranza del Centrodestra che può ancora aumentare; e se raccogliesse il 39-40% dei consensi avrebbe la maggioranza assoluta. Di questo va tenuto conto perché Berlusconi è un grande aggregatore. E poiché in questi anni il Pd non ha sviluppato politica di coalizione, è difficile pensare che possa recuperare. In queste condizioni chi è più pesantemente gravato dalla nuova legge è il Movimento Cinque Stelle. Guardando il proporzionale, la partita è tutta da giocare: è il maggioritario a fare la differenza, come d'altra parte l'ha sempre fatta». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La scelta giusta per il Paese di Federico Fubini Politica e banche di Federico Fubini Ignazio Visco si avvia verso il suo secondo mandato alla guida della Banca d’Italia mentre entra nel vivo la commissione parlamentare sui dissesti degli istituti. E con tutti i nostri evidenti problemi, l’errore che ora non dovremmo commettere noi italiani è quello

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di sentirci eccezionali. Non lo siamo. Né nel bene, né nel male. Siamo, banalmente, solo gli ultimi in ordine di tempo. Dal 1990, hanno affrontato crisi bancarie di dimensioni sistemiche - nell’ordine - la Svezia, la Finlandia, la Norvegia, la Corea del Sud, Taiwan, il Giappone, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Danimarca, il Belgio, l’Olanda, la Germania, l’Austria, la Grecia, la Spagna, la Francia, il Portogallo e Cipro. Per non parlare delle economie meno avanzate, fra le quali tutti i principali Paesi asiatici, tutti quelli dell’America Latina e la Turchia. E magari sfuggirà nella caccia all’uomo che in certi giorni sembra diventata la politica italiana, ma in nessuno di quei casi è mai stata gestita una crisi bancaria come lo si fa oggi: con poco denaro pubblico e con il bail-in , cioè l’imposizione di perdite anche su obbligazionisti e depositanti fino all’8% dei debiti di una banca sostenuta dallo Stato. Perché questo è ciò che accade in Italia, ed è senza precedenti. Per salvare le banche la Finlandia ha investito risorse dei contribuenti per il 12% del Pil, il Giappone il 14%, l’Irlanda il 30%, la Germania il 12,8%, l’Olanda il 14,6%, la Gran Bretagna il 6,7%, la Spagna il 7,3%, gli Stati Uniti il 4,8%. Spese enormi, comprensibilmente impopolari, ma si spiegano proprio perché lasciare cadere il sistema finanziario avrebbe prodotto conseguenze anche peggiori. Quanto al governo italiano, finora ha speso circa l’1,2% del Pil. Meno di tutti. A volte vale la pena mettere questi fatti in prospettiva, perché è innegabile che la Banca d’Italia in questi anni abbia commesso anche degli errori. Forse avrebbe dovuto fare di più nella finestra di tempo - stretta - fra il superamento della fase acuta della crisi del debito nel 2012 e l’avvio dei nuovi vincoli europei sui salvataggi un anno dopo. Di certo non è stata rapida nel reagire ad alcuni risvolti pericolosi nel dissesto della Popolare di Vicenza. In molti altri casi, invece, Visco e i suoi hanno vigilato, segnalato (non sempre ascoltati) ed evitato guai peggiori. La lezione resta la stessa in tutto il mondo: la capacità dei regolatori di impedire gli eccessi e tenere a freno l’avidità nel sistema finanziario è profondamente imperfetta ovunque. I banchieri saranno sempre più veloci dei loro guardiani, perché sono loro ad avere in prima battuta il controllo delle risorse e delle relative informazioni. Sono loro a poter distribuire il denaro in tanti piccoli rivoli, dunque il potere che esercitano sui politici è prodigioso. Spetta semmai ai governi il compito di cambiare le regole del gioco quando diventa evidente che queste non funzionano. E in Italia resta ancora molto da fare per eliminare gli incentivi, fiscali e normativi, che producono troppi piccoli potentati bancari locali immutabili nei decenni. Niente di tutto questo significa che la commissione parlamentare debba sospendere il giudizio sulla Banca d’Italia. Visco può aver preso tante decisioni corrette e qualche altra meno ma, anche lui, non è un caso eccezionale. Alla Federal Reserve Ben Bernanke non vide l’arrivo della crisi dei subprime, non ne capì le conseguenze quando esplose, lasciò disastrosamente fallire Lehman Brothers, ma venne riconfermato da Barack Obama e salvò l’economia globale dimostrandosi uno dei migliori banchieri centrali di sempre. Il suo caso è simile a quello italiano almeno per un punto: l’integrità e la professionalità di Visco non sono in discussione. È importante che non lo siano, perché un governatore deve avere pieni poteri e piena legittimità negli anni difficili che aspettano il Paese. Non può essere sub iudice . Non è interesse di chi si candida a governare - a partire da Matteo Renzi proseguire in una guerra di logoramento sperando di riuscire ad avere una Banca d’Italia dimezzata. E lo è ancora meno perché in questi giorni abbiamo notato volteggiare attorno alle nomine di via Nazionale anche interessi opachi, ormai spelacchiati e indeboliti nell’Italia del 2017, ma ben visibili sotto le nubi. Con Visco, la Banca d’Italia è in mani integre. E non è poco. Pag 1 Un passo in avanti di Aldo Cazzullo Legge elettorale, luci ed ombre Sembra passata un’era geologica da quando 37 milioni di italiani parteciparono al referendum sulla riforma elettorale: oltre l’82 per cento votò per abolire il vecchio sistema e passare al maggioritario. Un verdetto che la legge approvata ieri non rispetta, visto che i due terzi dei seggi sono assegnati con il proporzionale. Stavolta non si vede né passione né indignazione nell’opinione pubblica, a parte qualche migliaio di grillini in piazza. Eppure la riforma elettorale rappresenta un punto di svolta nella vita di una democrazia. Ci sono Paesi, come gli Usa e il Regno Unito, che votano con lo stesso sistema da secoli. La Francia ha individuato da cinquant’anni un meccanismo che

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funziona, e infatti tranne un esperimento proporzionale (1986) l’ha sempre mantenuto. L’Italia ha varato quattro leggi elettorali in meno di 25 anni, e due - il Porcellum e l’Italicum - sono state giudicate in parte incostituzionali. Le norme uscite dalla sentenza della Consulta avrebbero provocato un’impasse, con due Camere elette con regole del tutto diverse. Per questo l’accordo vasto, sancito ieri dal voto del Senato, rappresenta un passo in avanti. Evocare il fascismo sarebbe ridicolo se non fosse irrispettoso delle vittime del fascismo, quello vero. Restano valide obiezioni, sia nel metodo sia nel merito. Il ricorso alla fiducia, che restringe la discussione e rende la legge inemendabile, è oggettivamente una forzatura; né rasserena la consapevolezza che senza la fiducia il provvedimento non sarebbe passato. Le nuove regole consentono agli elettori di conoscere il nome degli eletti, ma non di sceglierli: questo vale sia per la quota proporzionale, sia per i collegi; che al Senato comprenderanno oltre mezzo milione di abitanti, vanificando la possibilità di un rapporto diretto tra i cittadini e i loro rappresentanti. Comunque, un risultato politico lo si è ottenuto. Sia Napolitano sia Mattarella, ognuno a proprio modo, hanno espresso perplessità; ma il presidente emerito ha votato la legge, e il presidente in carica la firmerà. Verdini ha voluto apporre il proprio sigillo con un intervento che pareva pensato per creare imbarazzi e polemiche. I senatori leghisti sulla legge non hanno detto in Aula neppure una parola. Renzi non ne è entusiasta ma evita l’umiliazione di ritrovarsi in un Parlamento con i grillini in maggioranza relativa. Bersani, entrato nella legislatura come leader del Pd, ne esce come capo di un partito di opposizione; mentre Berlusconi rientra in gioco. Grillo strepita ma sotto sotto non gli dispiace tornare a giocare con lo schema preferito: denunciare l’accordo di destra e sinistra unite contro di lui, e fare campagna nelle piazze. Resta una grande incognita. La coalizione di centrodestra, in testa nei sondaggi, resterà unita nei prossimi anni? O è destinata a dividersi tra alleati della Merkel e amici di Marine Le Pen? I blocchi in competizione sono definiti dalle tradizionali categorie di destra e sinistra, o saranno ridisegnati sulla base dell’alternativa tra sistema e antisistema? È possibile che le elezioni diano un verdetto definitivo e consegnino un mandato chiaro a governare. Ma questa legge sembra scritta apposta perché ogni capo porti in Parlamento i propri uomini, per poi giocarsi in proprio la partita. Pag 3 Visco, così ha respinto gli attacchi. Lo scudo di Draghi e di Mattarella di Enrico Marro Roma. L’outsider è cresciuto, in questi sei anni. E la determinazione con la quale Ignazio Visco ha respinto gli attacchi di mezzo Parlamento, Pd compreso, si è rivelata il presupposto indispensabile per restare al timone di Palazzo Koch nonostante la tempesta. Presupposto senza il quale i suoi due grandi sponsor, Sergio Mattarella e Mario Draghi, non avrebbero potuto blindare la nomina nel segno della stabilità dell’istituzione e della salvaguardia della sua indipendenza. Visco, napoletano di nascita, 68 anni il prossimo 21 novembre, diventò governatore della Banca d’Italia sei anni fa a sorpresa. All’inizio della partita per sostituire Draghi (nominato presidente della Bce), Visco non era nemmeno tra i candidati. Ma beneficiò della guerra tra Fabrizio Saccomanni, allora direttore generale della Banca d’Italia, Lorenzo Bini Smaghi, fino a quel momento membro del board della Bce, e Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro, spinto dal ministro Tremonti. Anche allora fu risolutivo il presidente della Repubblica. Sette crisi bancarie - Giorgio Napolitano chiuse lo scontro, che anche sei anni fa rischiava di minare la credibilità e l’autorevolezza della banca centrale, scegliendo Visco, allora vicedirettore di Bankitalia. Il premier dell’epoca, Silvio Berlusconi, proprio come quello di oggi, Paolo Gentiloni, accettò la decisione del Quirinale. Del resto, era la giustificazione che il centrodestra dava dietro le quinte, la Banca d’Italia non era più così importante. L’autorità monetaria, dopo l’euro, è infatti passata in capo alla Bce. E dunque passi Visco, nonostante il suo sbiadito colore politico, certamente non riconducibile all’area di centrodestra. L’imprevedibile - Solo che in questi sei anni è accaduto l’imprevedibile. La più grave crisi della storia d’Italia ha finito per investire - e non poteva essere altrimenti - anche il sistema bancario. Che, alla fine, tutti hanno dovuto ammettere non fosse poi così solido, compresa la Banca d’Italia che pubblicamente aveva sempre sostenuto il contrario. Visco

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si è trovato così ad affrontare in rapida successione 7 crisi: le 4 banche locali (Etruria, Marche, Chieti e Ferrara), il Monte dei Paschi di Siena, le due venete (Veneto Banca e Popolare di Vicenza). E siccome le banche, da noi, sono intrecciate con la politica, la questione si è maledettamente incattivita. Non è bastato metterci una pezza - le inchieste (della magistratura e del Parlamento) diranno se adeguata e tempestiva o meno - cercando di salvare le banche e insieme i piccoli risparmiatori (anche se con rimborsi parziali). La questione, appunto, è diventata politica. Nelle 4 banche locali fallite c’era per giunta Etruria, dove il vicepresidente era il papà di Maria Elena Boschi, braccio destro di Matteo Renzi. Che oggi dice: noi Etruria l’abbiamo commissariata. Slogan che non è mai piaciuto dalle parti di Visco, dove facevano osservare che, secondo la legge, il commissariamento fu deciso da Bankitalia e ratificato dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Mps poi è la banca da sempre più vicina al Pd e le venete sono strettamente legate al ceto politico locale. Visco si è mosso in questa tempesta e, vincendo una certa timidezza, si è esposto in prima persona sui media in difesa della banca centrale e del suo operato: una mezza rivoluzione. Difesa e contrattacco - Sul fronte politico il suo alleato principale è stato un ministro che politico non è, Padoan appunto, mentre i rapporti con Renzi e il «giglio magico» si sono via via deteriorati. Sul fronte tecnico ha avuto a disposizione un ufficio di vigilanza che, come ha riconosciuto il capo dello stesso, Carmelo Barbagallo, presenta a livello di sistema, cioè europeo, numerose «criticità» che, «con l’impegno di tutti», devono essere risolte. E si è mosso in un sistema giuridico dove, come ha ricordato il procuratore di Milano Francesco Greco davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta, l’inadeguatezza normativa e la confusa ripartizione delle competenze tra Banca d’Italia, Consob, collegi dei sindaci, revisori dei conti sembrano fatte apposta per favorire lo scaricabarile. Sul piano internazionale, invece, è dove Visco si è trovato meglio, grazie al consolidato rapporto con Draghi. Che però tra due anni non sarà più presidente della Bce. Ancora prima, la prossima primavera, le elezioni politiche potrebbero terremotare lo scenario di riferimento. I grillini sono contro Visco. Renzi pure. Berlusconi, per motivi tattici, gli ha accordato solo una tregua. Insomma, i prossimi mesi saranno difficili per Visco. Il Pd gli farà la guerra, a partire dalla commissione d’inchiesta. Visco lo sa. Ma ha imparato che la determinazione - qualità insospettata nel mite governatore che fu scelto sei anni fa - paga. LA REPUBBLICA Pag 1 Due partite senza vincitori di Massimo Giannini A metà strada tra il Vietnam e i Balcani, la politica lancia nel peggiore dei modi i suoi saldi di fine stagione. La nuova legge elettorale e il caso Banca d'Italia sono due mesti paradigmi di un caos repubblicano che non conosce vincitori ma solo vinti. Due amare allegorie di un processo di "rottamazione istituzionale" destinato a durare, purtroppo, fino alle elezioni del marzo 2018 e oltre. Il rinnovo del governatore alla Banca d'Italia è frutto di una battaglia dissennata, che lascia sul campo morti e feriti. Mattarella e Gentiloni, titolari per legge del diritto di nomina, resistono all'assedio di Renzi, che ha chiesto in Parlamento la testa di Ignazio Visco. Ma a quale prezzo? I due presidenti tengono fermo il presidio delle istituzioni, evitando a Via Nazionale un ribaltone che avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti. Ma si assumono una grande responsabilità: si fanno "garanti", di fronte all'opinione pubblica, di un governatore che nei prossimi tre mesi dovrà comunque rispondere dei suoi atti in una commissione parlamentare d'inchiesta già in parte deformata a nido di serpenti. C'è da sperare che i veleni non spurghino, e non finiscano per intossicare anche gli organi di garanzia. Renzi deve fare un passo indietro: ribadisce che "non condivide", anche se la rispetta, la scelta del suo "amico Paolo". Anche qui: a quale prezzo? Per rifarsi la verginità perduta di fronte al Paese, su Banca Etruria e sul "bail in", il segretario non esita a compiere un "atto sedizioso" alla Camera, avallando una mozione di sfiducia nei confronti di Visco. Per lucrare un pugno di voti ai Cinque Stelle, trasforma la natura del Pd: da "unico argine ai populismi" a "partito che tra il popolo e i Poteri Forti sta dalla parte del popolo". Troppo comodo, per una "forza di sistema", andare all'attacco del sistema. Troppo tardi, per un ex premier che ha governato tre anni, si è caricato sulle spalle il peso del conflitto di interessi di Maria Elena Boschi e di papà Pierluigi, ha cambiato i vertici di Mps e ne ha

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addirittura rinviato il salvataggio per non impattare con il referendum costituzionale. Cos' è ormai questo partito democratico, di piazza e di palazzo, nessuno più sa dirlo. Visco respinge l'offensiva renziana, difende l'autonomia di Palazzo Koch e ottiene un secondo mandato. Ma di nuovo: a quale prezzo? Non è lesa maestà affermare che qualcosa non ha funzionato, nei controlli sulle crisi bancarie di questi ultimi dieci anni costate quasi 60 miliardi di denaro pubblico. Per quanti chiarimenti Visco potrà ancora dare, il rischio è che un'ombra di sospetto continui a gravare anche in futuro su Via Nazionale, e che al suo vertice si ritrovi per altri sei anni un "governatore mascariato". O comunque sotto accusa dal partito di maggioranza relativa. È l'esito più perverso della scomposta campagna renziana, che propone un tema sensato nel modo più sbagliato. Se si passa alla legge elettorale la conta delle "vittime" è ancora più pesante. Il famigerato "Rosatellum" passa con una raffica di otto fiducie. Già questo, prima ancora di ogni valutazione sul merito della sedicente "riforma", basterebbe a svilire ulteriormente un Parlamento ridotto a quel che sembra ormai da troppo tempo. Lasciamo perdere la metafora delle "aule sorde e grigie" che approvano a forza il "Fascistellum", perché con tutta evidenza (e per nostra fortuna) il Ventennio è stato tutt' altra storia. Ma è vero che le Camere sono state ancora una volta trasformate in un banale votificio, e piegate dall' ultimo atto di forza di una partitocrazia debole, a novanta giorni dalla fine della legislatura. Ancora una volta (com'era già successo per il Titolo V e per il "Porcellum") prevale l'uso congiunturale delle regole. E ancora una volta perdono tutti, in questo blitzkrieg ordito in due settimane da quattro partiti in cerca d'autore. Pd, Forza Italia, Lega e Ap si blindano tra loro, con un patto scellerato. Per tagliare fuori i Cinque Stelle, senza rendersi conto dell'eterogenesi dei fini, cioè di avergli regalato un formidabile argomento di propaganda per la campagna elettorale. Per tenersi mani libere, fabbricando coalizioni finte prima del voto e nascondendo "grandi coalizioni" subito dopo. Per assicurarsi un manipolo di fedelissimi, da piazzare nel Parlamento che verrà, all'insegna del motto di Arbore: meno siamo, meglio stiamo. Dentro al Palazzo perde Gentiloni, costretto suo malgrado a subire una fiducia di cui avrebbe fatto volentieri a meno, come ha denunciato in aula l'emerito Napolitano. Perde Renzi, che per sconfiggere i demoni di Grillo e D'Alema rinnega tutti gli "idoli" che ha venerato (il popolo che sceglie, il vincitore "la sera delle elezioni", la vocazione maggioritaria del centrosinistra). Perdono Berlusconi e Salvini, ingabbiati in una camicia di forza e accomunati forse da un elettorato, ma non certo da una politica. Perde Alfano, sospeso tra due forni in un limbo in cui finirà per cuocere comunque. Fuori dal Palazzo perdono i grillini, che inscenano i soliti vaffa e i loro macabri rituali di piazza. Ma soprattutto perdono gli italiani, che si ritroveranno un Parlamento fatto per due terzi da "nominati" e le pluri-candidature che consentiranno ai "trombati" nei collegi uninominali di riciclarsi nel proporzionale. Ma alla fine, dopo cotanta ricerca, i quattro partiti lo trovano, finalmente, il loro vero "autore". È Denis Verdini, il padre-padrino di Ala. Con i suoi voti rende possibile questa "guerra lampo" fuori tempo massimo. Con una realpolitik terribile ma incontestabile il senatore condannato e pluri-inquisito celebra in aula il suo "Verdini Pride", ricordando a tutti quello che non si può più nascondere: "Questa legge non è mia figlia, semmai è mia nipote Noi nella maggioranza c'eravamo, ci siamo e ci saremo". Appunto: se la legislatura non fosse agli sgoccioli, Gentiloni dovrebbe salire al Colle, e Mattarella dovrebbe prenderne atto. Valeva la pena di sacrificare appartenenze e coerenze, per farsi salvare da Verdini? Una domanda che ancora una volta vale soprattutto per il Pd, che mentre beve l'amaro calice del Rosatellum patisce anche l'addio doloroso di Pietro Grasso. Il presidente del Senato che dopo il "colpo di mano" lascia il partito democratico è il segnale inequivoco di una "rottura sentimentale", prima ancora che politico-istituzionale. Il segretario sacrifica un pezzo di storia e di cultura politica, sull'altare di una brutta legge elettorale che oltre tutto non dà alcuna garanzia di governabilità. Come ha scritto Roberto D'Alimonte, a un partito o a una coalizione, per governare, non basterebbe neanche il 40% nel proporzionale: dovrebbe vincere anche il 70% nel maggioritario, per avere una maggioranza risicata di almeno 317 seggi alla Camera. Con questi numeri, la prossima legislatura sarà una penosa e pericolosa lotteria. La affrontiamo senza rete, tra opposti populismi e nefasti velleitarismi. Dopo lo strappo sul Rosatellum, non c'è in Parlamento una maggioranza "ufficiale" per approvare la legge di stabilità. Ieri Mario Draghi ha annunciato che da gennaio 2018 la quota di acquisti di titoli del debito sovrano da parte della Bce si ridurrà da 60 a 30 miliardi al

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mese. Tre giorni fa, mentre Renzi spacciava altri bonus milionari ai 18enni e Berlusconi prometteva pensioni a mille euro per tutti e dentiere gratis per gli anziani, nella serena Germania ancora senza governo un mese dopo le elezioni i dipendenti del ministero delle Finanze salutavano il falco Schaeuble che trasloca al Bundestag con una foto ricordo che dice tutto: Schwarze Null, un gigantesco "zero deficit". Per i tedeschi, oggi, è una medaglia. Per noi italiani, tra pochi mesi, diventerà una minaccia. Pag 43 Perché l’Unesco sbaglia su Gerusalemme di Alberto Melloni Con una iniziativa senza precedenti la scorsa settimana quindici cattedre Unesco hanno promosso un incontro sul tema del nome dei luoghi santi di Gerusalemme nella città santa. E hanno garbatamente rimproverato all'agenzia dell'educazione scienza e cultura di aver agito senza ascoltare educazione, scienza e cultura quando, fra il 2006 e il 2016 ha preso decisioni di una sbalorditiva superficialità sulla città santa delle fedi abramitiche. In quel lasso di tempo, con una escalation non casuale, quei siti sono stati definiti in termini unicamente arabo-islamici, evocandone la denominazione, "l'autenticità", "la santità" e la funzione di sede di "adorazione". Così da far passare la presenza dei cristiani come decorativa e quella israeliana come sacrilega. La querelle è stata lunga e ha suscitato reazioni molteplici. L'America di Trump ha prima protestato, poi annunciato il suo ritiro dall'Unesco, ripetendo un errore di Reagan che si fonda, al di là dei pretesti e delle implicazioni economiche, nella logica conflittuale e anti-multilaterale che gli rimproverano sia Bush che Obama. Israele ha improvvisamente cambiato linea: mentre a maggio Netanyahu intestava al suo Paese il merito di aver assottigliato il numero dei paesi favorevoli a quei gesti incendiari, adesso ha anch'esso disposto l'uscita di Israele; in ragione di sentimento antiebraico e antisraeliano, che all'Unesco c'è ed è corposo - ma che non ha impedito l'elezione a direttore generale di Audrey Azoulay, statista francese e figlia di André Azoulay, consigliere ebreo del re del Marocco - che dovrebbe essere confermata da un voto della Conferenza generale del 10 novembre. Nel contempo, in una ritirata palesemente tattica, i paesi che avevano accumulato espressioni sempre più violente e odiose su Gerusalemme hanno ripiegato - solo per questo 2017 - su formulazioni più ordinarie e depoliticizzate: così senza nulla dire dei bulldozer arabi che hanno scavato la pregiatissima zona del monte dove sorgeva il tempio di Salomone e dove sorgono ora le sante moschee, si muovono rimproveri e richieste ad Israele tornate nel registro a bassa conflittualità usato per anni dalla Giordania. La provocazione in sede Unesco, prima esasperata e poi messa in pausa, ha avuto ragioni politiche evidenti: Unesco è una delle due agenzie in cui la Palestina siede come Stato ed è comprensibile che sia stato scelto questo come teatro per una manovra di terrorismo verbale, che voleva suscitare allarme e confusione. Ma è stupefacente che proprio l'agenzia dell' educazione, della scienza e della cultura si sia mossa non da oggi su un terreno così delicato senza alcuna coscienza degli spessori storici e teologici che ogni parola spesa su Gerusalemme (così come su Hebron, dove riposa Abramo da mille e mille anni in attesa che i suoi figli smettano di odiarsi) sono immensi e non possono essere trattati con superficialità. Superficialità risalente, in vero, al 1980: quando si decretò, nella indifferenza generale, che Gerusalemme e le sue mura portavano i segni della presenza ebraica "da David all'assedio di Tito del 70 d.C.", come se dopo l'ebraismo fosse svanito; e poi si diceva, della "coesistenza (sic!) fra arabi e cristiani dal 699 al 1099" e poi del dominio ottomano. Rimasta inerte per decenni, questa ferita al senso storico e al buon senso ha cominciato a infettarsi, con processi che hanno portato già nel 2006 a parlare di "accesso all'Haram al Sharif", il monte del tempio in cui predicò Gesù, senza evocarne la sacralità per tutti i credenti delle fedi che hanno Abramo per padre, e poi dal 2013 a qualificare l'area con un crescendo di manipolazioni. Che non sono scaramucce diplomatiche o propagandistiche. Siamo infatti davanti a una questione di enormi proporzioni: nel riscaldamento religioso globale - non meno pericoloso di quello climatico - la complessità, la stratificazione, la polisemia, il groviglio di significati di Gerusalemme è il codice della complessità del mondo: o si vede la complessità come la soluzione e allora ci sarà la scassatissima pace del negoziato, o la si vede come il problema e come problema da risolvere a qualunque prezzo, allora la manomissione degli equilibri - anche solo degli equilibri verbali - richiederà sangue. E lo avrà.

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AVVENIRE Pag 2 Ma non è una grottesca questione di stadio di Anna Foa Il nuovo caso di antisemitismo, ferite aperte e gravi Il dibattito pubblico sull’oltraggio compiuto dalla tifoseria laziale all’immagine di Anna Frank anziché placarsi si esaspera, toccando toni grotteschi in cui il rimedio è ormai di gran lunga peggiore del male. E bene hanno fatto le istituzioni ebraiche a prenderne le distanze (non tocca agli ebrei, ma ai non ebrei parlare), non solo tenendo smorzati i toni sul fatto in sé, ma anche non presenziando all’omaggio del signor Lotito alla lapide dei deportati, la “sceneggiata” appunto di cui ha improvvidamente parlato, e tacendo su altre iniziative del tutto inutili, anche se permeate di buona volontà queste, come il dono del “Diario” ai giocatori. Nessuno leggerà mai, immaginiamo, un libro donatogli in queste circostanze, nessuna lettura può essere obbligata. Il posto dove si deve leggere, dove i giovani si formano, è la scuola. Ci sarebbe, in realtà, anche la famiglia, ma una parte sempre più grande del mondo delle famiglie appare troppo distratta per occuparsi dell’educazione morale e civile dei figli. Certo non è lo stadio. Perché lo stadio è divenuto, e non da ora, la punta di un iceberg di un fenomeno molto più vasto rappresentato dall’incultura generalizzata, dall’analfabetismo di ritorno, dalla protesta indiscriminata, dalla violenza. Nello stadio vengono consentiti e di fatto tollerati comportamenti che altrove ricadrebbero sotto i rigori della legge. Fuori dagli stadi i poliziotti incaricati di mantenere l’ordine finiscono, nelle partite più a rischio, per avere la peggio contro i tifosi scatenati. Le città diventano ostaggio delle tifoserie italiane e straniere in trasferta, e a chi non partecipa di questa violenza ormai rituale non resta che chiudersi in casa. Nello spazio senza regole – o munito di regole sue proprie – dello stadio tutto diventa lecito, e nel caso viene punito non dalle leggi dello Stato ma da quelle dello stadio. Sono anni che i giocatori africani vengono sbeffeggiati e insultati, che le scritte antisemite troneggiano sugli spalti, che le tifoserie rivali si aggrediscono come se fossero in guerra. Ma nello stadio troviamo soltanto, estremizzati, i comportamenti che sempre più prendono piede nella nostra società: il razzismo, ormai dilagante, l’antisemitismo riemergente, l’indifferenza ostile e persino l’odio che si legge nelle facce di certi passanti, pronti a travolgere neonati e invalidi pur di passare per primi nella strada. È a questo clima che dobbiamo soprattutto guardare. Lo stadio non fa che rifletterlo alla decima potenza. Negli stadi, nei confronti dei comportamenti violenti come di quelli razzisti e antisemiti, serve che le leggi siano osservate. Nella società, invece, serve ben altro. Serve che la droga – penso alla cocaina che ormai si trova dappertutto e di cui nessuno osa nemmeno più parlare – non sia più tollerata; che la cultura dell’odio sia piano piano debellata; che le persone smettano di guardarsi soltanto nel cellulare e si parlino l’un l’altro; che si ricominci a leggere libri, che la cultura ridiventi, da disvalore, valore. Che le scuole ritornino a essere pienamente un luogo di studio e di confronto, non anche e insopportabilmente di bullismo e di violenza. E gli stadi, chiudiamoli almeno per un po’. Se questa è, sul lungo periodo, l’unica strategia possibile, come dobbiamo considerare il fatto che il volto di una bambina ebrea morta in un campo sia dileggiato e insultato? Ignoranza o antisemitismo? Non è la prima volta che Anna Frank diventa un bersaglio dell’antisemitismo. Il “Diario” di Anna è stato già da tempo accusato dai negazionisti di essere un falso, colpendo in lei ciò che soprattutto li disturbava: che con lei era iniziata la memoria della Shoah, che il suo “Diario” aveva aperto la strada al ricordo di ciò che era stato, alla scrittura che ne avevano dato i sopravvissuti, ai monumenti che i posteri avevano eretto per loro. Per questo Anna è diventata un bersaglio degli antisemiti. I tifosi autori di questo gesto si collocano non nel campo delle ragazzate ma in quello dell’antisemitismo. E così anche chi definisce “una sceneggiata” il gesto di collocare una corona di fronte alla lapide dei deportati, sulla facciata della Sinagoga. Pag 9 Numeri e dati di fatto contro le “fake news” di Daniela Fassini Il dossier Idos sull’immigrazione La retorica sul’invasione di stranieri? È il frutto di tante fake news veicolate dalla Rete e da una certa politica sempre più avventata. È quanto conferma ancora una volta l’ultimo dossier Dossier Statistico Immigrazione 2017, a cura del Centro studi e ricerche Idos.

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Sono oltre 5 milioni gli stranieri regolari presenti in Italia a fronte di altrettanti connazionali che hanno lasciato il Belpaese e ora vivono stabilmente all’estero. Nell’ultimo anno, il 2016, sono stati 262.929 i non italiani che si sono registrati nelle nostre anagrafi, a fronte di almeno – si stima – 285mila italiani espatriati. I conti, per il momento, tornano. Tanti ne escono, e altrettanti ne entrano. Nuovi cittadini che portano più nascite, nuove imprese e nuovi gettiti fiscali. Accettano professioni umili e non rubano il lavoro agli italiani. Nel 2015 hanno versato tasse per 3,2 miliardi di euro. Senza immigrati, l’Italia avrebbe 73 miliardi di entrate contributive in meno, ricorda il Dossier. E anche la 'bufala' delle pensioni è certificata. Secondo i dati Inps, i pensionati non comunitari nel 2016 hanno inciso per lo 0,3%. Quindi, gli stranieri non solo non ci sottraggono nulla ma, al contrario, producono ricchezza: 127 miliardi di euro (dati 2015). Per l’esattezza, l’8,8% della ricchezza italiana. «La vera urgenza in Italia non è l’immigrazione, ma la narrazione che se ne fa, in qualche modo falsa. Alcuni gruppi politici la utilizzano per sfruttare la paura» osserva il presidente di Idos, Ugo Melchionda, presentando il dossier a Roma. Secondo le previsioni demografiche dell’Istat, fra circa 50 anni in Italia ci potrebbero essere 14,1 milioni di residenti stranieri e 7,6 milioni di cittadini italiani di origine straniera, nell’insieme un terzo della popolazione. Nel 2016 i residenti non italiani sono 5.047.028, l’8,3% del totale (+20.875 in un anno); un aumento 'esiguo' per il gran numero di acquisizioni di cittadinanza (201.591); tenuto conto dei divari tra arrivi regolari e registrazioni, la stima dei ricercatori è invece di 5.359.000 presenze. Ma ci saranno sempre più italiani pronti a partire. Dal 2011, conferma il dossier, l’aumento degli espatri può essere «equiparabile a quello dell’immediato Dopoguerra». Il 32% dei nostri connazionali vorrebbe infatti lasciare il Paese, il 10% in più rispetto a quattro anni fa, l’11% in più rispetto alla media Ue. Sul fronte criminalità, altro tema caldo di chi punta il dito contro i migranti, secondo l’Eurostat il tasso è più basso tra gli stranieri: 500,26 ogni 100mila abitanti contro 1.076,50 nel caso degli italiani. Anche la paura di un’invasione 'musulmana' è assolutamente priva di verità. Il 53% degli stranieri residenti in Italia è infatti cristiano. I musulmani sono solo il 32,6%. «Questo è un clima da anni ’30», commenta l’evidenza dei dati contenuti nel Dossier il viceministro degli Esteri, Mario Giro secondo cui c’è un 'fascismo rinascente'. «I discorsi che vengono fatti da una certa destra xenofoba sono gli stessi che si facevano negli anni ’30». Il tutto «mentre la sinistra si divide». Occorre «approvare lo ius soli». Sul fronte dell’integrazione, denuncia il Dossier, l’ Italia è un 'cantiere con i lavori in ritardo', mentre i migranti producono l’8,8% della nostra ricchezza, versano 3,2 miliardi di tasse e incidono sulle pensione per lo 0,3%. IL GAZZETTINO Pag 3 Il centrodestra è in testa, ma non c’è maggioranza di Diodato Pirone Sulla base dei sondaggi. Ma i dati cambieranno non appena saranno noti i candidati uninominali Approvata la legge elettorale, è logico che tutti si chiedano chi vincerà le prossime elezioni. Ma non ci può essere risposta. Vale la pena ricordare che prima delle politiche 2013 tutti erano convinti della vittoria del centrosinistra. Così come nessuno prevedeva il 41% renziano alle europee 2014. Senza parlare delle centinaia di sorprese emerse nelle comunali dal 2011 (vittoria centrosinistra a Milano) in qua. Anche nel marzo 2018 - questa è l'unica certezza - le previsioni della vigilia saranno smentite. La certezza deriva da due constatazioni neutrali. La prima: l'elettorato italiano è mobile e cambia idea politica molto più frequentemente di quello delle altre nazioni europee (ad eccezione dei Paesi dell'Est Europa). La seconda: il nuovo sistema elettorale è complesso. Gli italiani avranno a disposizione solo un voto per ogni scheda. Ma come si comporteranno di fronte alla novità dei candidati dei 232 seggi alla Camera (e 116 al Senato) che saranno assegnati alla persona che prenderà più voti? Li ignoreranno continuando a votare per i partiti? MODELLI MATEMATICI - E' ovvio che è ancora presto per quantificare la reazione degli elettori alla legge Rosato. In questa fase gli addetti ai lavori studiano i risultati dei modelli matematici, ovvero di simulazioni che partono dalle medie degli ultimi sondaggi, per capire da quali basi partono i partiti. Ieri il sito specializzato youtrend.it ha reso noto le proprie simulazioni sulla base della media dei sondaggi attuali che - come detto - sono

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già sorpassati. Ebbene questa simulazione assegna la maggioranza dei seggi (221) al centrodestra dandone poi 189 al M5S, 186 al centrosinistra (compresi 4 deputati altoatesini) e 22 alla sinistra. La simulazione si basa su questi risultati: centrodestra al 32,9; centrosinistra al 29,5; M5S al 27,6 e sinistra al 5,2. E conferma che non ci sarebbe maggioranza. La novità sta nel fatto che i seggi sono stati distribuiti da youtrend.it considerando quale partito è in testa (sempre nei sondaggi della scorsa settimana) in tutti e 232 i collegi della Camera. La simulazione teorica assegna parecchi collegi al M5S anche se tutti gli osservatori sostengono che i grillini ne dovrebbero prendere pochi (al massimo 35 sui 50 nei quali sono in corsa) perché finora hanno vinto sul territorio, nelle comunali, solo con il doppio turno. La legge Rosato, invece, prevede solo un turno. Anche la simulazione youtrend sui collegi, peraltro la più dettagliata finora disponibile, cambierà presto, lo stesso sito lo sottolinea. Molti collegi infatti sono contendibili. Anche nel Nord, dove il dominio del centrodestra pare incontrastato, in realtà molti collegi delle città restano incerti e il Pd punta a conquistarne almeno 35 su 91. «Mi dicono che in alcuni schieramenti si pensa di poter raggiungere una maggioranza. Dico loro good luck perché sarà molto difficile - chiosa il professor Roberto D'Alimonte, fra i massimi esperti di sistemi elettorali - Resto convinto però che la legge Rosato è meglio di quelle figlie delle sentenze della Consulta con le quali rischiavamo di andare a votare». LA NUOVA Pag 1 Una riforma che provoca disaffezione di Roberto Weber Dal punto di vista politico, nel nostro bellissimo Paese, tutto è in "divenire", ma questa volta la legge di riforma elettorale, passata una decina di giorni fa alla Camera a suon di voti di fiducia, ha trovato il consenso sufficiente - ricorrendo allo stesso metodo, per evitare "incidenti" e meline - anche al Senato. Dunque, il Rosatellum è ora legge dello Stato dopo il via libera definitivo a Palazzo Madama; e vale la pena fare qualche riflessione sul merito. Diversamente da quella affondata con il referendum del dicembre 2016, l'attuale legge di riforma non punta a soddisfare il principio di "governabilità": non vi sono premi di maggioranza per coalizioni oppure partiti, quindi dato l'attuale tripolarismo, è molto probabile che ci si svegli il giorno dopo le elezioni senza avere certezze su chi sarà in grado di sedere a Palazzo Chigi. Per altri versi recupera in parte il principio di "rappresentanza" abbassando la soglia di entrata al 3 per cento, ma di fatto ne riduce la portata lasciando completamente in mano ai partiti la scelta dei candidati da votare e soprattutto introducendo oltre un terzo di collegi uninominali e la logica delle coalizioni. Almeno in superficie tutto ciò ha tre ricadute: danneggia chi fa corsa da solo (è il caso del Movimento 5 Stelle), esclude di fatto dalla competizione ai seggi uninominali i partiti minori che non entrano in coalizione (tutto l'arcipelago della sinistra, ad esempio), rafforza gli assetti di potere e quindi la coesione, dentro le varie forze politiche a tutto beneficio dei gruppi dirigenti dominanti.A ben vedere non c'è nulla di male in tutto ciò: se il M5S lavora su un percorso di totale autonomia e autosufficienza, dopotutto sono affari suoi; se i partiti di sinistra a loro volta, hanno individuato in Matteo Renzi il nemico principale, giustamente restano fuori dai giochi; quanto agli assetti interni determinati dai vertici, con gruppi parlamentari più inclini alla "fedeltà", non vi è dubbio che alla fine godremo in futuro di una maggior stabilità politica. In realtà il Rosatellum (bis) contiene un vizio più profondo, legato alla fase storica che stiamo vivendo: esso infatti "congela" lo stato comatoso dei partiti, il loro deficit di efficienza e di legittimazione, aumenta la disaffezione per la politica esistente nel Paese e, di fatto, indebolisce proprio quel principio di "rappresentanza" che sostiene di perseguire. Senza considerare - ed è l'aspetto più misterioso di tutta la vicenda - la componente autolesionistica: questa è una legge infatti che conferisce alla coalizione di centrodestra un nettissimo vantaggio competitivo. Il Partito democratico infatti non possiede né un impianto, né una filosofia, né un leader capace di inseguire o percorrere l'idea di coalizione. Renzi, aldilà delle mosse tattiche odierne, è uomo da "vocazione maggioritaria", lo ha detto e ha agito di conseguenza e con coerenza in tutti questi anni. Gli uomini di Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni hanno dimostrato e dimostrano di saper invece lavorare in direzione coalizionale, sono un insieme di sangue, valori, idee e interessi. Di questo passo è agevole immaginare che una coalizione di destra, sullo slancio - e i risultati del referendum autonomista in Veneto e anche in

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Lombardia parlano di uno "slancio" possente - possa arrivare al 35 per cento dei voti o forse più, e che una coalizione azzoppata a guida Pd si fermi assai più sotto, con la probabilità - nel riparto dei seggi uninominali - di essere spazzata via nelle regioni del Nord, di "soffrire" in quelle che furono le regioni "rosse" e di essere terza forza (quindi fuori da tutto) in molte regioni del Meridione. A quel punto vedremo chi darà le carte. E vedremo che ne sarà del Partito democratico. Nulla di grave, direte voi, morto il Pd se ne fa un altro: in effetti questa è una prospettiva da considerare... non fosse per il fatto che, salvo rarissime individualità, chi perde da noi non fa passi indietro oppure di lato, ma resta infallibilmente al suo posto. Torna al sommario