Rassegna stampa 19 marzo 2018 · 2018. 3. 19. · RASSEGNA STAMPA di lunedì 19 marzo 2018 SOMMARIO...

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 19 marzo 2018 SOMMARIO “Io, genitore ancora una volta, mi sento finalmente figlio” è il pezzo di Gigi De Palo, su Avvenire di domenica, a proposito del “terremoto” che lo ha travolto: la nascita di un figlio (il quinto), Giorgio Maria, un bimbo Down. Ecco cosa scrive: “E mi sembra di vivere in un sogno. Ancora non ho capito bene cosa sia successo, ma sento un vortice di sensazioni nuove nel cuore a cui non so dare spiegazioni. Una confusione primaverile, una cotta che non avevo programmato e che sta condizionando queste giornate così strane. Giorgio Maria ha già cambiato la mia vita. Non è solo un figlio con la sindrome di Down, è un terremoto per le mie, ormai inutili, certezze. Sciolte come neve al sole. È un pensiero dominante. È la sensazione che provavo da bambino andando a dormire il giorno dopo l’arrivo di Babbo Natale e mi svegliavo emozionato e felice perché era arrivato quel regalo inaspettato che non c’era scritto sulla letterina, ma che mi piaceva più degli altri. La fantasia della vita che supera i miei schemi rigidi e ripetitivi. La concretezza che irrompe, sfascia e ridicolizza la teoria delle astrazioni. Amoris Laetitia urlata in faccia senza mediazioni. E mi ritrovo, a quarantuno anni, nuovamente padre, a passeggiare con il motorino per Roma canticchiando canzoni di Claudio Baglioni. Mi sorprendo a commuovermi di felicità per qualcosa che, forse, dovrebbe preoccuparmi. Essere padre di un bimbo down non è e non sarà una passeggiata. E soprattutto non è una medaglia da mostrare per far vedere quanto si è bravi. A me i primi della classe non sono mai piaciuti… E per la prima volta mi accorgo dell’esercito silenzioso di mamme e papà che, ogni santo giorno, si fanno in quattro, senza clamori per un figlio in difficoltà. È proprio vero: la realtà è un pugno allo stomaco che ti sveglia dalle storie che ti racconti. E allora guardo mia moglie, rimbambita di gioia pure lei, inebetita d’amore come l’avevo vista solamente quando è diventata mamma la prima volta. Innamorata persa. Questo nuovo figlio è la ciliegina sulla torta per la nostra famiglia numerosa. Perché è facile raccontare la bellezza della famiglia quando va tutto bene. Un po’ più difficile quando la vita ti scombina tutti i piani. Quando ti immaginavi su due binari rettilinei e invece ti ritrovi a tutta velocità sulle montagne russe. Adesso viene il bello. Adesso scoprirò chi sono veramente. Adesso mi scontrerò con tutti i miei limiti, quelli che tendo a nascondere sotto al tappeto. E misteriosamente mi sento meno stanco perché non devo più vivere solo per me. Mi perdo, mi abbandono, mi rinnego, sono disposto a dare la mia vita per questo figlio un po’ più fragile. E le paure che avevo non potranno più essere. È bello non avere più diritto alla scusa della paura. Giorgio Maria, sei tu questo scossone che mi sveglia da me. Ci sei tu a ricordarmi che la vita è più forte della morte. L’amore più grande della paura. È bastata la tua manina che stringeva il mio dito dalla fessura dell’incubatrice per sentirmi abbracciare da dentro. Come è strano: è bastato diventare tuo padre per sentirmi finalmente figlio” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Francesco, il tassista e le ragazze della movida Anticipazione: il nuovo libro del Papa LA REPUBBLICA Pag 23 Papa Francesco: perché dobbiamo chiedere perdono ai ragazzi Nuovo libro intervista di Bergoglio L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 18 marzo 2018 Elogio di padre Pio

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  • RASSEGNA STAMPA di lunedì 19 marzo 2018

    SOMMARIO

    “Io, genitore ancora una volta, mi sento finalmente figlio” è il pezzo di Gigi De Palo, su Avvenire di domenica, a proposito del “terremoto” che lo ha travolto: la nascita di

    un figlio (il quinto), Giorgio Maria, un bimbo Down. Ecco cosa scrive:

    “E mi sembra di vivere in un sogno. Ancora non ho capito bene cosa sia successo, ma sento un vortice di sensazioni nuove nel cuore a cui non so dare spiegazioni. Una

    confusione primaverile, una cotta che non avevo programmato e che sta condizionando queste giornate così strane. Giorgio Maria ha già cambiato la mia

    vita. Non è solo un figlio con la sindrome di Down, è un terremoto per le mie, ormai inutili, certezze. Sciolte come neve al sole. È un pensiero dominante. È la sensazione che provavo da bambino andando a dormire il giorno dopo l’arrivo di Babbo Natale e mi svegliavo emozionato e felice perché era arrivato quel regalo inaspettato che non c’era scritto sulla letterina, ma che mi piaceva più degli altri. La fantasia della vita

    che supera i miei schemi rigidi e ripetitivi. La concretezza che irrompe, sfascia e ridicolizza la teoria delle astrazioni. Amoris Laetitia urlata in faccia senza

    mediazioni. E mi ritrovo, a quarantuno anni, nuovamente padre, a passeggiare con il motorino per Roma canticchiando canzoni di Claudio Baglioni. Mi sorprendo a

    commuovermi di felicità per qualcosa che, forse, dovrebbe preoccuparmi. Essere padre di un bimbo down non è e non sarà una passeggiata. E soprattutto non è una

    medaglia da mostrare per far vedere quanto si è bravi. A me i primi della classe non sono mai piaciuti… E per la prima volta mi accorgo dell’esercito silenzioso di mamme

    e papà che, ogni santo giorno, si fanno in quattro, senza clamori per un figlio in difficoltà. È proprio vero: la realtà è un pugno allo stomaco che ti sveglia dalle storie che ti racconti. E allora guardo mia moglie, rimbambita di gioia pure lei, inebetita d’amore come l’avevo vista solamente quando è diventata mamma la

    prima volta. Innamorata persa. Questo nuovo figlio è la ciliegina sulla torta per la nostra famiglia numerosa. Perché è facile raccontare la bellezza della famiglia

    quando va tutto bene. Un po’ più difficile quando la vita ti scombina tutti i piani. Quando ti immaginavi su due binari rettilinei e invece ti ritrovi a tutta velocità sulle montagne russe. Adesso viene il bello. Adesso scoprirò chi sono veramente. Adesso

    mi scontrerò con tutti i miei limiti, quelli che tendo a nascondere sotto al tappeto. E misteriosamente mi sento meno stanco perché non devo più vivere solo per me. Mi

    perdo, mi abbandono, mi rinnego, sono disposto a dare la mia vita per questo figlio un po’ più fragile. E le paure che avevo non potranno più essere. È bello non avere

    più diritto alla scusa della paura. Giorgio Maria, sei tu questo scossone che mi sveglia da me. Ci sei tu a ricordarmi che la vita è più forte della morte. L’amore più grande della paura. È bastata la tua manina che stringeva il mio dito dalla fessura

    dell’incubatrice per sentirmi abbracciare da dentro. Come è strano: è bastato diventare tuo padre per sentirmi finalmente figlio” (a.p.)

    3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Francesco, il tassista e le ragazze della movida Anticipazione: il nuovo libro del Papa LA REPUBBLICA Pag 23 Papa Francesco: perché dobbiamo chiedere perdono ai ragazzi Nuovo libro intervista di Bergoglio L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 18 marzo 2018 Elogio di padre Pio

  • AVVENIRE di domenica 18 marzo 2018 Pag 1 Tenerezza di padre di Paolo Martinelli Il Papa e la lezione di San Pio Pag 6 Si scarta chi non serve, peggio che a Sparta Francesco: contro i piccoli e chi non produce, con più crudeltà e scelta di allora Pag 22 Maria, legame tra Chiesa ed ebraismo di Walter Kasper CORRIERE DELLA SERA di domenica 18 marzo 2018 Pag 11 “Un Paese che litiga non cresce”. L’allarme del Papa a Pietrelcina di Gian Guido Vecchi L’accusa nei luoghi di Padre Pio: oggi peggio che a Sparta, si scartano bimbi e anziani LA NUOVA di domenica 18 marzo 2018 Pag 6 Il Papa: “Un Paese che litiga non cresce” di Mariaelena Finessi Il monito del pontefice in visita ai luoghi di San Pio Pag 6 Nella lettera di Ratzinger giudizi contro un teologo Le frasi nascoste Pag 6 L’elogio di quelle figure punite dalle gerarchie di Orazio La Rocca L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 17 marzo 2018 Il tempo dell’ascolto di Enzo Bianchi In una Chiesa fedele al Vangelo AVVENIRE di sabato 17 marzo 2018 Pag 7 Laudato si’, nascono le Comunità di Alessia Guerrieri Parte da Amatrice il progetto per dare forma concreta all’Enciclica CORRIERE DELLA SERA di sabato 17 marzo 2018 Pag 23 Le comunità del cibo ispirate all’enciclica di Francesco di Virginia Piccolillo La sfida del vescovo e di Slow Food IL FOGLIO di sabato 17 marzo 2018 Pag VIII Nel tempo della clausura 2.0 di Costanza Di Quattro A colloquio oltre le grate con la Reverenda Madre del convento di Ibla. Ha in mano lo smartphone 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’adolescenza non è una malattia di Alessandro D’Avenia AVVENIRE di domenica 18 marzo 2018 Pag 7 “I nostri figli nati da un no all’aborto” di Lucia Bellaspiga I medici prefiguravano gravi anomalie, poi inesistenti: “Non abbiamo ceduto” Pag 15 “Io, genitore ancora una volta, mi sento finalmente figlio” di Gigi De Palo Il “terremoto” di un bimbo Down AVVENIRE di sabato 17 marzo 2018 Pag 3 Se la crisi lascia in eredità la “paura” del secondo figlio di Massimo Calvi Così l’incertezza ha penalizzato le madri più giovani 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ

  • IL GAZZETTINO di sabato 17 marzo 2018 Pag 13 Ogni giorno in Veneto 87 nuovi malati di cancro di Massimo Rossignati e Alessandra Betto Il Friuli prima regione per incidenza. Tra le cause fumo e sovrappeso LA NUOVA di sabato 17 marzo 2018 Pag 22 San Camillo e Stella Maris, incontro in Prefettura 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO di domenica 18 marzo 2018 Pag 12 Effetto crisi e turisti su Mestre, “spariscono” le case in affitto di Gloria Bertasi Operai, stagionali, separati: tutti in “pellegrinaggio” tra siti e pagine facebook IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 18 marzo 2018 Pag XV “Non potremo mai dimenticare il tuo sorriso” Marghera: chiesa gremita per i funerali della 18enne morta in tangenziale Pag XVII Gli alunni delle scuole medie hanno ricordato Adele Zara e suor Armanda di Luisa Giantin LA NUOVA di domenica 18 marzo 2018 Pag 22 Mille per l’addio della diciottenne travolta in tangenziale di a.ab. Ieri il funerale a Marghera Pag 25 Tornano i filò con l’enciclica Laudato si’ di g,mon. Ad Altino CORRIERE DEL VENETO di sabato 17 marzo 2018 Pag 5 Referendum ufficiale sul Bur. E dà del “lei” all’elettore di Mo.Zi. LA NUOVA di sabato 17 marzo 2018 Pag 17 Se non c’è spazio per i poveri le società non hanno futuro (intervento di Elena Rizzato – Comunità di Sant’Egidio / Mestre) 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 Estenuanti referendum separatisti di Giuliano Segre LA NUOVA di domenica 18 marzo 2018 Pag 11 Presenza, non infiltrazione. Così la mafia è già in Veneto di Gianfranco Bettin … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il governo dal doppio volto di Sabino Cassese L’intreccio con la Ue LA STAMPA Le condizioni per un patto senza esclusi di Giovanni Sabbatucci IL GAZZETTINO Pag 1 I leader fragili e la deriva bonapartista di Marco Gervasoni Pag 1 I turchi ad Afrin, espugnata l’enclave curda. Segnale agli Usa di Alessandro Orsini

  • LA NUOVA Pag 1 Il Pd rischia di stare a guardare di Roberto Weber CORRIERE DELLA SERA di domenica 18 marzo 2018 Pag 1 La fatica di farsi ascoltare di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Imprese e partiti Pag 11 Non solo i dimenticati. Anche i vincenti della globalizzazione hanno scelto la Lega di Dario Di Vico Pag 28 Le coalizioni “atipiche” esistono anche in Europa di Stefano Passigli AVVENIRE di domenica 18 marzo 2018 Pag 3 L’Arabia e Trump: azzardo nucleare di Eleonora Ardemagni CORRIERE DEL VENETO di domenica 18 marzo 2018 Pag 1 Il consenso a chi non risolve di Stefano Allievi Voto e immigrati IL GAZZETTINO di domenica 18 marzo 2018 Pag 1 Ue, se l’Italia resta ai margini è destinata all’irrilevanza di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 18 marzo 2018 Pag 1 Centrodestra, è questione di formule di Renzo Guolo Pag 1 L’attualità del pensiero di Moro di Fabio Pinelli CORRIERE DELLA SERA di sabato 17 marzo 2018 Pag 1 La Russia con i piedi d’argilla di Franco Venturini Putin e le elezioni Pag 1 Le consultazioni e le responsabilità verso Bruxelles di Francesco Verderami Pag 6 Governo M5s-Lega, sì dal 37%. Per l’incarico “vince” Di Maio di Nando Pagnoncelli Pag 26 La necessità di fissare confini che non sigillano di Mauro Magatti LA REPUBBLICA di sabato 17 marzo 2018 Pag 2 Governo M5s-Lega o meglio rivotare. Gli elettori dem: no a Di Maio e Salvini di Ilvo Diamanti AVVENIRE di sabato 17 marzo 2018 Pag 1 Per la vera sicurezza di Danilo Paolini Carceri, giustizia e umanità Pag 3 Tocca a noi leggere e riunire la società di Davide Rondoni Il dopo-voto visto da un cristiano (e poeta) IL GAZZETTINO di sabato 17 marzo 2018 Pag 1 Berlusconi, i suoi “Bruti” e le mosche impazzite di Bruno Vespa LA NUOVA di sabato 17 marzo 2018 Pag 1 Sul governo la variabile Berlusconi di Bruno Manfellotto Pag 1 La cura della democrazia, il grande lascito di Moro di Luciano Violante

  • Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Francesco, il tassista e le ragazze della movida Anticipazione: il nuovo libro del Papa Sembra che crescere, invecchiare, stagionarsi, sia un male. È sinonimo di vita esaurita, insoddisfatta. Oggi pare che tutto vada truccato e mascherato. Come se il fatto stesso di vivere non avesse senso. Recentemente ho parlato di quanto sia triste che qualcuno voglia fare il lifting anche al cuore! Com’è doloroso che qualcuno voglia cancellare le rughe di tanti incontri, di tante gioie e tristezze! Troppo spesso ci sono adulti che giocano a fare i ragazzini, che sentono la necessità di mettersi al livello dell’adolescente, ma non capiscono che è un inganno. È un gioco del diavolo. Non riesco a comprendere come sia possibile per un adulto sentirsi in competizione con un ragazzino, ma purtroppo accade sempre più spesso. È come se gli adulti dicessero: «Tu sei giovane, hai questa grossa possibilità e questa enorme promessa, ma io voglio essere più giovane di te, io posso esserlo, posso fingere di esserlo ed essere migliore di te anche in questo». Ci sono troppi genitori adolescenti nella testa, che giocano alla vita effimera eterna e, consapevolmente o meno, rendono vittime i loro figli di questo perverso gioco dell’effimero. Perché da un lato allevano figli instradati alla cultura dell’effimero e dall’altro li fanno crescere sempre più sradicati, in una società che chiamo appunto «sradicata». Qualche anno fa, a Buenos Aires, ho preso un taxi: l’autista era molto preoccupato, quasi affranto, mi sembrò da subito un uomo inquieto. Mi guardò dallo specchietto retrovisore e mi disse: «Lei è il cardinale?». Io risposi di sì e lui replicò: «Che cosa dobbiamo fare con questi giovani? Non so più come gestire i miei figli. Sabato scorso sono salite quattro ragazze appena maggiorenni, dell’età di mia figlia, e avevano quattro sacchetti pieni di bottiglie. Ho domandato che cosa ci avrebbero fatto con tutte quelle bottiglie di vodka, whisky e altre cose; la loro risposta è stata: “Andiamo a casa a prepararci per la movida di stasera”». Questo racconto mi ha fatto molto riflettere: quelle ragazze erano come orfane, sembravano senza radici, volevano diventare orfane del proprio corpo e della loro ragione. Per garantirsi una serata divertente dovevano arrivarci già ubriache. Ma che cosa significa arrivare alla movida già ubriache? Significa arrivarci piene di illusioni e portando con sé un corpo che non si comanda, un corpo che non risponde alla testa e al cuore, un corpo che risponde solo agli istinti, un corpo senza memoria, un corpo composto solo di carne effimera. Non siamo nulla senza la testa e senza il cuore, non siamo nulla se ci muoviamo in preda agli istinti e senza la ragione. La ragione e il cuore ci avvicinano tra noi in modo reale; e ci avvicinano a Dio perché possiamo pensare Dio e possiamo decidere di andare a cercarlo. Con la ragione e il cuore possiamo anche capire chi sta male, immedesimarci in lui, farci portatori di bene e di altruismo. Non dimentichiamoci mai le parole di Gesù: «Chi vuole diventare grande tra voi sarà servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire ma per servire» (Mc 10, 43). LA REPUBBLICA Pag 23 Papa Francesco: perché dobbiamo chiedere perdono ai ragazzi Nuovo libro intervista di Bergoglio Dobbiamo chiedere perdono ai ragazzi perché non sempre li prendiamo sul serio. Non sempre li aiutiamo a vedere la strada e a costruirsi quei mezzi che potrebbero permettere loro di non finire scartati. Spesso non sappiamo farli sognare e non siamo in grado di entusiasmarli. È normale ricercare il denaro per costruire una famiglia, un futuro e per uscire da quel ruolo di subordinazione agli adulti che oggi i giovani hanno troppo a lungo. Ciò che conta è evitare di provare la bramosia dell' accumulo. Ci sono persone che vivono per accumulare denaro e pensano di doverlo accumulare per vivere, come se poi il denaro si trasformasse in cibo anche per l' anima. Questo significa vivere al servizio del denaro, e abbiamo imparato che i soldi sono concreti, ma dentro hanno qualcosa di astratto, di volatile, qualcosa che da un giorno all' altro può sparire senza

  • preavviso, pensa alla crisi delle banche e ai recenti default. (...) È il lavoro il cibo per l' anima, il lavoro sì che può trasformarsi in gioia di vivere, in cooperazione, in unione di intenti e gioco di squadra. Non il denaro. E il lavoro dovrebbe essere per tutti. Ogni essere umano deve avere la possibilità concreta di lavorare, di dimostrare a se stesso e ai suoi cari che può guadagnarsi da vivere. Non si può accettare lo sfruttamento, non si può accettare che moltissimi giovani siano sfruttati dai datori di lavoro con false promesse, con pagamenti che non arrivano mai, con la scusa che sono giovani e devono farsi esperienza. Non si può accettare che datori di lavoro pretendano dai giovani un lavoro precario e addirittura perfino gratuito, come accade. (...) I giovani ci chiedono di essere ascoltati e noi abbiamo il dovere di ascoltarli e di accoglierli, non di sfruttarli. Non ci sono scuse che tengano. (...) Governare è servire ciascuno di noi, ciascuno dei fratelli che compongono il popolo, senza dimenticare nessuno. Chi governa deve imparare a guardare verso l' alto solo per parlare con Dio e non per giocare a fare dio. E deve guardare in basso solo per sollevare qualcuno che è caduto. (...) La peggior conseguenza del peccato che chi ha il potere può commettere è sicuramente la distruzione di se stesso. Ma ce n' è un' altra, che non so se è proprio la peggiore, ma è molto ricorrente: finire per essere ridicolo. E dal ridicolo non si torna indietro. Quale fu una delle figure più ridicole della storia? Secondo me, Ponzio Pilato: se lui avesse saputo di avere davanti a sé il Figlio di Dio, e che il Figlio di Dio aveva usato il Suo potere per lavare i piedi ai Suoi discepoli, se ne sarebbe forse lavato le mani? Penso proprio di no! L' evangelista Giovanni ci racconta che il Signore era cosciente di avere tutto il potere del mondo nelle sue mani. E che cosa decise di fare con tutto quel potere? Un unico gesto, che fu un gesto di servizio, in particolare il servizio del perdono. Gesù decise che il potere si dovesse trasformare, da quel momento e per sempre, in servizio. Qual è stato il vero messaggio profetico di tutto questo? Ha rovesciato i potenti dai loro troni e innalzato gli umili. Il potere è servizio e deve permettere al prossimo di sentirsi ben curato, secondo la sua dignità. Colui che serve è uguale a colui che è servito. L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 18 marzo 2018 Elogio di padre Pio All’inizio del sesto anno di pontificato il Papa ha scelto di visitare i luoghi di padre Pio, e l’incontro con questa figura così amata è stata l’occasione per due meditazioni che vanno ben al di là della circostanza. Del frate cappuccino, che «ha stupito il mondo» semplicemente con la preghiera e con l’ascolto degli altri in confessionale, Francesco ha tessuto un elogio che gli è venuto dal cuore e si è incrociato con il motivo antichissimo della santità della Chiesa nonostante i peccati dei cristiani. «Amava la Chiesa, amava la Chiesa con tutti i suoi problemi, con tutti i suoi guai, con tutti i nostri peccati. Perché tutti noi siamo peccatori, ci vergogniamo, ma lo Spirito di Dio ci ha convocato in questa Chiesa che è santa. E lui amava la Chiesa santa e i figli peccatori, tutti. Questo era san Pio» ha detto il Pontefice improvvisando a Pietrelcina. Qui, dove nacque un uomo che ha attraversato singolarmente la modernità, Francesco lo ha ricordato ai suoi concittadini «come un uomo qualsiasi, come un contadino». Aggiungendo ancora a braccio: «Questa era la sua nobiltà. Mai rinnegò il suo paese, mai rinnegò le sue origini, mai rinnegò la sua famiglia». Nel paese natale il cappuccino ventiquattrenne era tornato temporaneamente per motivi di salute, «tormentato nell’intimo» e «sentendosi assalito dal demonio». E del misterioso nemico il Papa ha parlato ancora una volta con sobrio realismo, affermando che «non dà pace», si agita, «va da ogni parte, si mette dentro di noi» e «ci inganna». Ma i fantasmi - scriveva il frate - si dissolvono quando «mi abbandono nelle braccia di Gesù»; e «qui c’è tutta la teologia» ha commentato il Pontefice. Da alcune parole di padre Pio sulla preghiera Francesco ha preso poi lo spunto per richiamarne la centralità. «Quanto abbiamo dimenticato noi la preghiera di adorazione, la preghiera di lode! Dobbiamo riprenderla. Ognuno può domandarsi: come adoro io? Quando adoro io? Quando lodo Dio?» ha detto a San Giovanni Rotondo, raccomandando di «riprendere la preghiera di adorazione e di lode». Quella preghiera che da sempre è cara a Bergoglio, come capirono i cardinali ascoltando le parole con cui l’arcivescovo di Buenos Aires delineava, nei giorni immediatamente precedenti il conclave, il profilo del nuovo Papa, «un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l’adorazione di Gesù Cristo, aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso le

  • periferie esistenziali». La memoria di uno dei santi più popolari ha indotto infine il Pontefice a denunciare, nei luoghi di padre Pio, l’emarginazione dei vecchi e la predicazione della morte che segnano le società contemporanee. «Mi piacerebbe che una volta si desse il premio Nobel agli anziani che danno memoria all’umanità» ha esclamato a Pietrelcina il Papa. Mentre a San Giovanni Rotondo ha descritto la mentalità che esclude chi è considerato inutile richiamando la spietatezza degli antichi spartani: «Noi facciamo lo stesso, con più crudeltà, con più scienza. Quello che non serve, quello che non produce va scartato. Questa è la cultura dello scarto, i piccoli non sono voluti oggi. E per questo Gesù è lasciato da parte». AVVENIRE di domenica 18 marzo 2018 Pag 1 Tenerezza di padre di Paolo Martinelli Il Papa e la lezione di San Pio «Questo umile frate cappuccino ha stupito il mondo con la sua vita tutta dedita alla preghiera e all’ascolto paziente dei fratelli, sulle cui sofferenze riversava come balsamo la carità di Cristo». Con le parole pronunciate a Pietrelcina, Francesco ha dipinto una stupenda icona di san Pio. Il Papa ha voluto rendere omaggio a questo semplice frate cappuccino, in occasione dei 50 anni dalla morte e a un secolo dalla stimmatizzazione, recandosi nella sua terra natale e a San Giovanni Rotondo. Non è la prima volta che papa Francesco rivolge la sua attenzione al Santo del Gargano. Anche durante l’Anno della misericordia aveva voluto che il suo corpo arrivasse a Roma per poterlo celebrare, insieme a san Leopoldo Mandic, come santo dell’amore misericordioso. Tuttavia, è inevitabile rilevare anche un certo contrasto tra il nostro tempo, che abbiamo imparato a chiamare, a torto o a ragione, “postmoderno”, e la figura di padre Pio da Pietrelcina. Come possono stare insieme le scoperte tecno-scientifiche, i social media, la globalizzazione con un frate cappuccino, cagionevole di salute, dolce e burbero insieme, che trascorre la sua esistenza in un paese sperduto dell’Italia meridionale, ascoltando confessioni e celebrando quotidianamente la santa Messa con straordinario raccoglimento? Che cosa lo rende così significativo da attrarre ancora oggi persone tanto diverse? Giovani e anziani, poveri e ricchi, famosi e sconosciuti. Certamente, si raccontano di tanti miracoli di guarigione realizzati per la sua intercessione. Egli appartiene a quelli che la sociologia della religione chiama “santi di protezione”, ai quali ci si rivolge spinti dal bisogno o da una necessità bruciante. Tuttavia, tutto ciò non basta a spiegare il “fenomeno Padre Pio”. Le parole che papa Francesco ha pronunciato nella sua visita a Pietrelcina e a san Giovanni Rotondo ci mettono sulla strada giusta. In particolare, nell’omelia ha ricordato tre parole fondamentali: la preghiera, la piccolezza e la sapienza della vita. E ha voluto accostare a queste parole tre realtà istituite o vissute dal santo cappuccino: i gruppi di preghiera, diffusi in tutto il mondo; la Casa sollievo della Sofferenza, un ospedale da lui realizzato, nel quale papa Francesco, nel momento più commovente della visita, ha visitato i piccoli malati del reparto di oncoematologia Pediatrica; infine, il confessionale come luogo della vera sapienza. Da questo intreccio, a mio avviso, emerge un aspetto fondamentale del nostro santo: la sua paternità. È significativo che, nonostante sia canonizzato ormai da diversi anni, continuiamo a chiamarlo semplicemente “Padre” Pio, perché per tutti coloro che lo hanno incontrato egli è stato semplicemente un padre; in lui hanno visto qualcuno che si è preso cura di loro, sia materialmente sia spiritualmente, sempre accompagnando e incoraggiando. Allora comprendiamo perché in una “società senza padri”, come è tristemente la nostra, una tale figura possa attrarre le donne e gli uomini del XXI secolo. Anche perché in lui non c’è traccia di un padre-padrone, di cui non si sente peraltro nostalgia, ma troviamo un “grande” che non ha smesso di essere “piccolo”, un padre che non ha smesso di essere figlio obbediente, come ricordato da papa Francesco: figlio della Chiesa, figlio di san Francesco d’Assisi, figlio della sua gente e della sua terra. In sintesi: ciò che lo ha reso punto sicuro di riferimento paterno è stato il suo essere profondamente figlio, figlio nel Figlio Gesù, fino a portare sul suo corpo i segni della passione gloriosa. Qui sta anche la radice di un altro aspetto potente della sua personalità: la capacità affettiva per i suoi figli e le sue figlie spirituali, documentato molto bene nel suo epistolario. Un affetto tenero e forte, tanto profondo quanto libero e casto, un affetto che non chiude, ma spalanca e lancia nella vita, nella certezza di essere amati sempre. Di che cosa ha

  • bisogno, infatti, la persona oggi se non di scoprirsi voluta? Ecco il “segreto” di padre Pio: essere con la vita testimone della tenerezza del Padre. Pag 6 Si scarta chi non serve, peggio che a Sparta Francesco: contro i piccoli e chi non produce, con più crudeltà e scelta di allora Pubblichiamo l’omelia pronunciata dal Papa durante la concelebrazione eucaristica sul sagrato della chiesa di San Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo. Dalle Letture bibliche che abbiamo ascoltato vorrei cogliere tre parole: preghiera, piccolezza, sapienza. Preghiera. Il Vangelo odierno ci presenta Gesù che prega. Dal suo cuore sgorgano queste parole: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra…» (Mt 11,25). A Gesù la preghiera sorgeva spontanea, ma non era un optional: era solito ritirarsi in luoghi deserti a pregare (cfr Mc1,35); il dialogo col Padre era al primo posto. E i discepoli scoprirono così con naturalezza quanto la preghiera fosse importante, finché un giorno gli domandarono: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Se vogliamo imitare Gesù, iniziamo anche noi da dove cominciava Lui, cioè dalla preghiera. Possiamo chiederci: noi cristiani preghiamo abbastanza? Spesso, al momento di pregare, vengono in mente tante scuse, tante cose urgenti da fare... A volte, poi, si mette da parte la preghiera perché presi da un attivismo che diventa inconcludente quando si dimentica «la parte migliore» (Lc 10,42), quando si scorda che senza di Lui non possiamo fare nulla (cfr Gv 15,5) – e così lasciamo la preghiera. San Pio, a cinquant’anni dalla sua andata in Cielo, ci aiuta, perché in eredità ha voluto lasciarci la preghiera. Raccomandava: «Pregate molto, figli miei, pregate sempre, senza mai stancarvi» ( Parole al 2° Convegno internazionale dei gruppi di preghiera, 5 maggio 1966). Gesù nel Vangelo ci mostra anche come si prega. Prima di tutto dice: «Ti rendo lode, Padre»; non incomincia dicendo «ho bisogno di questo e di quello», ma dicendo «ti rendo lode». Non si conosce il Padre senza aprirsi alla lode, senza dedicare tempo a Lui solo, senza adorare. Quanto abbiamo dimenticato noi la preghiera di adorazione, la preghiera di lode! Dobbiamo riprenderla. Ognuno può domandarsi: come adoro io? Quando adoro io? Quando lodo Dio? Riprendere la preghiera di adorazione e di lode. È il contatto personale, a tu per tu, lo stare in silenzio davanti al Signore il segreto per entrare sempre più in comunione con Lui. La preghiera può nascere come richiesta, anche di pronto intervento, ma matura nella lode e nell’adorazione. Preghiera matura. Allora diventa veramente personale, come per Gesù, che poi dialoga liberamente col Padre: «Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Mt 11,26). E allora, nel dialogo libero e fiducioso, la preghiera si carica di tutta la vita e la porta davanti a Dio. E allora ci domandiamo: le nostre preghiere assomigliano a quella di Gesù o si riducono a saltuarie chiamate di emergenza? «Ho bisogno di questo», e allora vado subito a pregare. E quando non hai bisogno, cosa fai? Oppure le intendiamo come dei tranquillanti da assumere a dosi regolari, per avere un po’ di sollievo dallo stress? No, la preghiera è un gesto di amore, è stare con Dio e portargli la vita del mondo: è un’indispensabile opera di misericordia spirituale. E se noi non affidiamo i fratelli, le situazioni al Signore, chi lo farà? Chi intercederà, chi si preoccuperà di bussare al cuore di Dio per aprire la porta della misericordia all’umanità bisognosa? Per questo Padre Pio ci ha lasciato i gruppi di preghiera. A loro disse: «E’ la preghiera, questa forza unita di tutte le anime buone, che muove il mondo, che rinnova le coscienze, […] che guarisce gli ammalati, che santifica il lavoro, che eleva l’assistenza sanitaria, che dona la forza morale […], che spande il sorriso e la benedizione di Dio su ogni languore e debolezza» (ibid.). Custodiamo queste parole e chiediamoci ancora: io prego? E quando prego, so lodare, so adorare, so portare la vita mia e di tutta la gente a Dio? Seconda parola: piccolezza. Nel Vangelo, Gesù loda il Padre perché ha rivelato i misteri del suo Regno ai piccoli. Chi sono questi piccoli, che sanno accogliere i segreti di Dio? I piccoli sono quelli che hanno bisogno dei grandi, che non sono autosufficienti, che non pensano di bastare a sé stessi. Piccoli sono quelli che hanno il cuore umile e aperto, povero e bisognoso, che avvertono la necessità di pregare, di affidarsi e di lasciarsi accompagnare. Il cuore di questi piccoli è come un’antenna: capta il segnale di Dio, subito, se ne accorge subito. Perché Dio cerca il contatto con tutti, ma chi si fa grande crea un’enorme interferenza, non arriva il desiderio di Dio: quando si è pieni di sé, non c’è posto per Dio. Perciò Egli

  • predilige i piccoli, si rivela a loro, e la via per incontrarlo è quella di abbassarsi, di rimpicciolirsi dentro, di riconoscersi bisognosi. Il mistero di Gesù Cristo è mistero di piccolezza: Lui si è abbassato, si è annientato. Il mistero di Gesù, come vediamo nell’Ostia ad ogni Messa, è mistero di piccolezza, di amore umile, e si coglie solo facendosi piccoli e frequentando i piccoli. E ora possiamo chiederci: sappiamo cercare Dio là dove si trova? Qui c’è uno speciale santuario dove è presente, perché vi si trovano tanti piccoli da Lui prediletti. San Pio lo chiamò «tempio di preghiera e di scienza», dove tutti sono chiamati a essere «riserve di amore» per gli altri (Discorso per il 1° anniversario dell’inaugurazione, 5 maggio 1957): è la Casa Sollievo della Sofferenza. Nell’ammalato si trova Gesù, e nella cura amorevole di chi si china sulle ferite del prossimo c’è la via per incontrare Gesù. Chi si prende cura dei piccoli sta dalla parte di Dio e vince la cultura dello scarto, che, al contrario, predilige i potenti e reputa inutili i poveri. Chi preferisce i piccoli proclama una profezia di vita contro i profeti di morte di ogni tempo, anche di oggi, che scartano la gente, scartano i bambini, gli anziani, perché non servono. Da bambino, alla scuola, ci insegnavano la storia degli spartani. A me sempre ha colpito quello che ci diceva la maestra, che quando nasceva un bambino o una bambina con malformazioni, lo portavano sulla cima del monte e lo buttavano giù, perché non ci fossero questi piccoli. Noi bambini dicevamo: «Ma quanta crudeltà!». Fratelli e sorelle, noi facciamo lo stesso, con più crudeltà, con più scienza. Quello che non serve, quello che non produce va scartato. Questa è la cultura dello scarto, i piccoli non sono voluti oggi. E per questo Gesù è lasciato da parte. Infine la terza parola. Nella prima Lettura Dio dice: «Non si vanti il sapiente della sua sapienza, non si vanti il forte della sua forza» (Ger 9,22). La vera sapienza non risiede nell’avere grandi doti e la vera forza non sta nella potenza. Non è sapiente chi si mostra forte e non è forte chi risponde al male col male. L’unica arma sapiente e invincibile è la carità animata dalla fede, perché ha il potere di disarmare le forze del male. San Pio ha combattuto il male per tutta la vita e l’ha combattuto sapientemente, come il Signore: con l’umiltà, con l’obbedienza, con la croce, offrendo il dolore per amore. E tutti ne sono ammirati; ma pochi fanno lo stesso. Tanti parlano bene, ma quanti imitano? Molti sono disposti a mettere un “mi piace” sulla pagina dei grandi santi, ma chi fa come loro? Perché la vita cristiana non è un “mi piace”, è un “mi dono”. La vita profuma quando è offerta in dono; diventa insipida quando è tenuta per sé. E nella prima Lettura Dio spiega anche dove attingere la sapienza di vita: «Chi vuol vantarsi, si vanti […] di conoscere me» (v. 23). Conoscere Lui, cioè incontrarlo, come Dio che salva e perdona: questa è la via della sapienza. Nel Vangelo Gesù ribadisce: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi» (Mt 11,28). Chi di noi può sentirsi escluso dall’invito? Chi può dire: “Non ne ho bisogno”?. San Pio ha offerto la vita e innumerevoli sofferenze per far incontrare il Signore ai fratelli. E il mezzo decisivo per incontrarlo era la Confessione, il sacramento della Riconciliazione. Lì comincia e ricomincia una vita sapiente, amata e perdonata, lì inizia la guarigione del cuore. Padre Pio è stato un apostolo del confessionale. Anche oggi ci invita lì; e ci dice: «Dove vai? Da Gesù o dalle tue tristezze? Dove torni? Da colui che ti salva o nei tuoi abbattimenti, nei tuoi rimpianti, nei tuoi peccati? Vieni, vieni, il Signore ti aspetta. Coraggio, non c’è nessun motivo così grave che ti escluda dalla sua misericordia». I gruppi di preghiera, gli ammalati della Casa Sollievo, il confessionale; tre segni visibili, che ci ricordano tre eredità preziose: la preghiera, la piccolezza e la sapienza di vita. Chiediamo la grazia di coltivarle ogni giorno. Francesco Pag 22 Maria, legame tra Chiesa ed ebraismo di Walter Kasper La testimonianza della Bibbia è per noi l’inizio, il principio, la norma e la sorgente di tutta la nostra fede e di tutta la nostra fede e di tutta la nostra spiritualità, anche della spiritualità mariana. Qual è dunque il punto di partenza del Nuovo Testamento? Per rispondere, cominciamo con il testo più importante: l’annuncio del l’angelo a Maria. L’angelo le si rivolge: «Ti saluto, o piena di grazia. Il Signore è con te». Questo testo è significativo. È interessante che l’angelo si rivolga a Maria con le stesse parole con le quali il profeta Sofonia si rivolge alla figlia di Sion: «Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele» (Sof 3, 14; cf. Zc 2, 14; 9, 9; Sal 9, 15; Is 62, Il). La 'figlia di Sion' è, nel

  • Vecchio Testamento, il popolo eletto di Israele. Se dunque Maria è chiamata come la figlia di Sion, ella è chiamata come la rappresentante di Israele. Ma c’è una differenza precisa. Nel Vecchio Testamento questo termine, 'figlia di Sion', spesso è usato per indicare Israele come deriso, come umiliato, come depresso, come abbandonato (1Re 19,21; Is 1,8; Lam 1,6). Soltanto dai profeti più tardi questo Israele umiliato riceve la promessa di una restituzione escatologica. Perciò Sofonia dice: «Gioisci, figlia di Sion». Questa promessa escatologica adesso si compie in Maria. Maria rappresenta dunque Israele nella sua speranza e nel suo compimento escatologico. Ella è la personificazione del nuovo Israele, la figlia di Sion escatologica. Ma è un compimento strano e paradossale. Maria stessa rimase turbata e si domandò che senso avesse un tale saluto: «Come è possibile? Non conosco uomo». La risposta dell’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra». Anche questo aspetto deve essere inteso nel contesto del Vecchio Testamento. Troviamo molte storie di donne nel Vecchio Testamento e tutte queste storie hanno la stessa struttura. Basti pensare alla storia di Sarah e Hagar, Rachele, Lia, Anna o Debora, o alla storia di Ester e Giuditta. Sempre la stessa struttura e lo stesso messaggio. Non è eletta la forte, ma la debole, è eletta la infertile perché diventi fertile, la donna senza potere perché salvi il suo popolo. È il messaggio che formula già Anna: «Solleva dalla polvere il misero, innalza il povero dalle immondizie, per farli sedere con i capi del popolo» (1 Sam 2, 8). Nel suo canto, il Magnificat, Maria ripete questo e dice lo stesso: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51 ss). Così Maria rappresenta tutta la storia della salvezza del suo popolo, ed è segno del modo in cui Dio agisce in questa storia. Maria la figlia di Sion, che rappresenta il suo popolo, rappresenta ancora di più la fedeltà di Dio verso il suo popolo. Nel profeta Osea, Dio dice: «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?» (Os 11,8 ss). Malgrado l’infedeltà d’Israele, Dio rimane fedele al suo popolo. Maria è dunque il segno della perseveranza della vecchia alleanza, e questo è il legame fra il Vecchio e il Nuovo Testamento, non soltanto fisicamente ma anche spiritualmente. Così nella sua persona dice ciò che l’apostolo Paolo dice nei famosi capitoli 9 11 dell’Epistola ai Romani. L’alleanza perdura, «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11, 29), perché Dio è fedele. Quest’affermazione dell’alleanza non scissa è oggi di primaria importanza per il dialogo con gli ebrei. Spesso è stato detto che la nuova alleanza sostituisce la vecchia; e che Israele a causa della sua infedeltà è il popolo infedele e abietto. Soltanto oggi, dopo le tristi vicende che hanno caratterizzato la lunga storia dei rapporti fra la Chiesa e gli ebrei e particolarmente dopo la tragedia dell’Olocausto, ci ricordiamo del messaggio di Paolo. Maria rappresenta questo messaggio. Maria, la figlia di Sion, è, per così dire, la patrona di un nuovo rapporto e di un nuovo dialogo fra Chiesa e ebraismo. Perché Maria è il nodo e il legame fra il Vecchio e il Nuovo Testamento e perché rappresenta l’unità della storia della salvezza, il filo conduttore di tutta la Sacra Scrittura. Per questo la mariologia non può essere provata dai singoli testi biblici, ma è contenuta nell’insieme della Bibbia ed è il risultato di un’interpretazione tipologica, cioè un’interpretazione che comprende il Vecchio Testamento alla luce del Nuovo Testamento e interpreta il Nuovo in base alle promesse del Vecchio, un’interpretazione che purtroppo è stata dimenticata nei tempi moderni. Ma dove Maria è dimenticata e dove la fede mariana è rifiutata, il messaggio biblico nel suo insieme è messo in discussione e a repentaglio. Ciò diventa ancora più chiaro se torniamo al messaggio del Nuovo Testamento. Maria riassume la memoria del messaggio di salvezza del Vecchio Testamento. Allo stesso tempo, Maria è l’anticipazione del Vangelo del Nuovo Testamento. Il Magnificat è l’anticipazione delle beatitudini del sermone sul monte, dove Gesù benedice i poveri, gli afflitti, i miti, coloro che hanno fame e sete, i misericordiosi, i perseguitati (Mt 5, 3 ss). Nel Magnificat Maria dice, come abbiamo visto, la stessa cosa. Così Maria rappresenta il Vangelo di Gesù e soprattutto l’amore preferenziale di Dio verso i poveri ed il fondamentale principio evangelico: «I primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi» (Mt 19,30). Cioè il capovolgersi evangelico dei valori . Così Maria nel Magnificat rappresenta non soltanto il popolo della vecchia alleanza, ma anche il popolo della nuova alleanza.

  • Sopra pubblichiamo stralci tratti dal libro del cardinale e fine teologo tedesco Walter Kasper, “Meditazione su Maria” (Edizioni Dehoniane. Pagine 56. Euro 7 ,00), appena arrivato in libreria. Un saggio che pone in luce la figura di Maria che rappresenta l’insieme della testimonianza biblica: l’alleanza con il popolo di Israele, con la Chiesa, ovvero con il popolo della nuova alleanza, e con tutta l’umanità. Maria non sta al margine della Bibbia, ma al centro. Questa testimonianza fondamentale, però, è in un certo senso nascosta. Non si scopre con una lettura superficiale e distanziata. Spesso il cuore capisce le cose meglio della testa. Così è necessaria la meditazione spirituale per capire profondamente Maria.

    Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 18 marzo 2018 Pag 11 “Un Paese che litiga non cresce”. L’allarme del Papa a Pietrelcina di Gian Guido Vecchi L’accusa nei luoghi di Padre Pio: oggi peggio che a Sparta, si scartano bimbi e anziani San Giovanni Rotondo (Foggia). A Pietrelcina come a San Giovanni Rotondo c’è un’Italia profonda, famiglie di tre o quattro generazioni, battute in dialetto, malati e disabili protetti e accuditi e destinati ai posti d’onore, in prima fila. Ed è come se Francesco si rivolgesse a questo paese antico, quando chiede ai fedeli di «dare testimonianza di comunione» e ricorda ciò che si sta perdendo: «Un Paese che litiga tutti i giorni non cresce, non si costruisce, spaventa la gente. È un Paese malato e triste. Invece dove si cerca la pace e tutti si vogliono bene - più o meno, ma si vogliono bene -, non ci si augura del male, questo Paese, benché piccolo, cresce, si allarga e diventa forte. Per favore, non spendete tempo e forze a litigare fra voi». Il Papa arriva nelle terre di Padre Pio a cinquant’anni dalla morte del santo che «riversava come balsamo la carità di Cristo sulle sofferenze dei fratelli». Ecco: «Tutti ne parlano bene, ma quanti lo imitano?». Alberghi, ristoranti, negozi, bancomat, gru. A San Giovanni Rotondo, per prima cosa va a visitare i bambini del reparto oncologico nella casa Sollievo della Sofferenza; incontra 21 piccoli malati, 3 in terapia intensiva, e i genitori. Carezze, abbracci, preghiere. Nella messa davanti a 30 mila fedeli, dopo aver sostato in preghiera accanto alla teca con il corpo del santo, torna a denunciare la «cultura dello scarto» e «i profeti di morte» che «scartano la gente, i bambini e gli anziani, perché non servono». È come nel racconto di Plutarco sul monte Taigeto, a Sparta. Anzi, peggio: «Da bambino, a scuola, ci insegnavano la storia degli spartani. Mi ha sempre colpito una cosa che diceva la maestra: quando nasceva un bambino o una bambina con malformazioni, lo portavano in cima a un monte e lo buttavano giù. Noi bambini dicevamo: che crudeltà. Fratelli e sorelle, noi facciamo lo stesso: con più crudeltà, con più scienza. Quello che non serve, che non produce, va scartato. I piccoli non sono voluti, oggi. E per questo Gesù è lasciato da parte». A Pietrelcina aveva parlato dell’esodo dei giovani, «pregate la Madonna perché vi dia la grazia che trovino lavoro qui», e invitato a non emarginare gli anziani: «I vecchi sono la saggezza, un patrimonio delle nostre comunità. Mi piacerebbe che una volta si desse il premio Nobel agli anziani che danno memoria all’umanità». LA NUOVA di domenica 18 marzo 2018 Pag 6 Il Papa: “Un Paese che litiga non cresce” di Mariaelena Finessi Il monito del pontefice in visita ai luoghi di San Pio Pietrelcina. «Un paese che litiga tutti i giorni non cresce, non si costruisce». Ieri, per il primo discorso della sua visita pastorale a Pietrelcina, paesino natale di padre Pio, papa Francesco ha lanciato un monito - dal retrogusto politico - a quel popolo che nel cercare lo scontro manifesta di essere «malato e triste». «Invece un paese che cerca la pace - ha spiegato - e dove le persone si vogliono bene, più o meno, ma si vogliono bene, non ci si augura del male. E questo paese, benché piccolo, cresce e diventa forte». Sempre a braccio ha aggiunto: «Non spendete tempo a litigare tra voi. E se a qualcuno viene voglia di chiacchierare, mordetevi la lingua».L'esempio di vita a cui ispirarsi, secondo Francesco, è padre Pio, al quale il pontefice - primo nella storia della Chiesa - ha voluto rendere omaggio con un pellegrinaggio personale a Pietrelcina per il centenario

  • dell'apparizione delle stimmate del frate, proclamato santo nel 2002. «Voi annoverate san Pio tra le figure più belle e luminose del vostro popolo» ma «questo umile frate cappuccino ha stupito il mondo con la sua vita tutta dedita alla preghiera e all'ascolto dei fratelli», ha proseguito Francesco che del santo è particolarmente devoto tanto da averlo annoverato come esempio di carità concreta nel Giubileo straordinario della Misericordia. Dunque no agli screzi e proprio come il frate, «considerando la sua incondizionata fedeltà alla Chiesa, darete testimonianza di comunione - suggerisce - perché solo la comunione edifica». Dopo essere stato accolto dall'arcivescovo di Benevento, Felica Accrocca, da padre Fortunato, guardiano del convento dei Cappuccini di Pietrelcina, dal governatore della Campania Vincenzo De Luca, Francesco ha sostato alla cappella dell'Olmo. Qui padre Pio, giovane sacerdote, ricevette le stimmate. Rivolgendosi ai fedeli che in migliaia lo hanno atteso con una veglia di preghiera già dalla sera prima, dal palco il Papa ha proposto un Nobel per gli anziani, da «proteggere perché custodi della memoria», e ha chiesto «di aiutare giovani costretti a lasciare la loro terra per cercare lavoro». Dopo il paesino campano, il pontefice ha raggiunto in elicottero San Giovanni Rotondo per la concomitante ricorrenza del 50° anniversario della morte del frate. Prima tappa, l'ospedale Casa Sollievo della Sofferenza, fondato da padre Pio nel 1956. Dopo la benedizione dei malati, il commosso incontro con i bambini ricoverati nel reparto di Oncoematologia pediatrica. Con loro ha scattato foto, firmato dediche e a un bimbo che ha manifestato il desiderio di andare a Roma, Francesco ha subito replicato: «Organizza con i dottori. Io ti aspetto». Recatosi al vecchio santuario Santa Maria delle Grazie, Francesco si è fermato a venerare il corpo di padre Pio deponendo sulla teca di vetro una stola sacerdotale. Quindi la preghiera davanti al crocifisso ligneo, presso il quale il frate ricevette le stimmate il 20 settembre 1918. Nella messa, davanti a 30mila pellegrini, il Papa ha pronunciato un ultimo atto d'accusa. Ricordando quando a scuola la maestra gli parlava della cattiveria degli antichi spartani che gettavano dalla cima del monte i bambini nati con malformazioni, ha puntato il dito contro la «cultura dello scarto», che elimina «ciò che non serve, che non produce»: «Noi facciamo lo stesso, con più crudeltà, con più scienza». Padre Pio, al secolo Francesco Forgione, nasce a Pietrelcina, provincia di Benevento, il 25 maggio 1887. Novizio a 16 anni, nel 1910 viene ordinato prete a S. Giovanni Rotondo, provincia di Foggia, dove poi creò un grande ospedale e diverse opere caritative. Padre Pio, dei minori cappuccini, era noto anche per le stimmate. Raccontava di averle ricevute durante la prima guerra mondiale, quando era cappellano militare. Il suo corpo sanguina e Padre Pio comincia a essere circondato da fama di santità e da grande devozione popolare. Ma le stimmate gli procurano anche nemici e l'accusa di essere un impostore. Padre Agostino Gemelli, tra i padri dell'Università Cattolica, lo definisce «psicopatico, autolesionista, imbroglione». Altre accuse di rapporti disonesti in confessionale, un'inchiesta del Sant'Uffizio culminata col divieto di ogni contatto con i fedeli che però gli restano devoti nonostante tutte le critiche. Muore in fama di santità il 23 settembre 1968. Pag 6 Nella lettera di Ratzinger giudizi contro un teologo Le frasi nascoste Città del Vaticano. Dopo le polemiche sul presunto ritocco della foto, che ne impediva di leggere alcune righe, ora della lettera del Papa emerito Benedetto XVI sulla teologia del suo successore spunta addirittura un intero paragrafo finora non divulgato durante la presentazione alla stampa. Un "occultamento", riguardante giudizi di papa Ratzinger su un teologo tedesco a lui avverso e inserito tra gli autori della collana "La teologia di Papa Francesco" edita dalla Lev, che ieri è stato svelato da alcuni blog: così nel pomeriggio la Segreteria per la Comunicazione ha deciso di divulgare la lettera nella sua interezza. La Spc ricorda che in occasione della presentazione della collana, il 12 marzo, «è stata resa nota una lettera del Papa Emerito Benedetto XVI», e che «sono seguite molte polemiche circa una presunta manipolazione censoria della fotografia distribuita a corredo. «Della lettera, riservata, è stato letto quanto ritenuto opportuno e relativo alla sola iniziativa, e in particolare quanto il Papa Emerito afferma circa la formazione filosofica e teologica dell'attuale Pontefice e l'interiore unione tra i due pontificati, tralasciando annotazioni

  • relative a contributori della collana», si afferma quindi, aggiungendo che «la scelta è stata motivata dalla riservatezza e non da alcun intento di censura. Per dissipare ogni dubbio si è deciso di rendere nota la lettera per intero». In allegato alla nota è stata diffusa la lettera integrale inviata da Benedetto XVI al prefetto per la Comunicazione, mons. Dario Edoardo Viganò, il 7 febbraio scorso per ringraziarlo del dono «degli undici piccoli volumi curati da Roberto Repole. Plaudo a questa iniziativa che vuole opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi. I piccoli volumi mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento». «Tuttavia non mi sento di scrivere su di essi "una breve e densa pagina teologica". In tutta la mia vita è sempre stato chiaro che avrei scritto e mi sarei espresso soltanto su libri che avevo anche veramente letto. Purtroppo anche solo per ragioni fisiche non sono in grado di leggere gli 11 volumetti nel prossimo futuro, tanto più che mi attendono altri impegni che ho già assunti». Il testo prosegue quindi con l'ulteriore paragrafo finora non solo non distribuito stampato, ma neanche letto da Viganò nella presentazione: «Solo a margine vorrei annotare la mia sorpresa per il fatto che tra gli autori figuri anche il professor Hunermann, che durante il mio pontificato si è messo in luce per avere capeggiato iniziative anti-papali. Egli partecipò in misura rilevante al rilascio della "Kolner Erklarung", che, in relazione all'enciclica "Veritatis splendor", attaccò in modo virulento l'autorità magisteriale del Papa specialmente su questioni di teologia morale. Anche la "Europaische Theologengesellschaft", che egli fondò, inizialmente da lui fu pensata come un'organizzazione in opposizione al magistero papale. In seguito, il sentire ecclesiale di molti teologi ha impedito quest'orientamento, rendendo quell'organizzazione un normale strumento d'incontro fra teologi. Sono certo che avrà comprensione per il mio diniego e La saluto cordialmente. Suo Benedetto XVI». Pag 6 L’elogio di quelle figure punite dalle gerarchie di Orazio La Rocca Continua senza soste la preghiera di papa Francesco sulle tombe dei testimoni scomodi del nostro tempo, figure che, pur avendo servito e glorificato la Chiesa, in vita sono stati oggetto di provvedimenti disciplinari, di "castighi" giudiziari, persino di allontanamenti dai sacramenti e dalla pubblica predicazione, per poi essere riabilitati post mortem e additati ad esempio di santità cristiana. Da San Padre Pio - ieri venerato dal pontefice a Pietrelcina e a San Giovanni Rotondo - a don Tonino Bello e a don Zeno Saltini (a cui Bergoglio farà visita il mese prossimo), dopo che lo scorso anno fece, a sorpresa, un analogo pellegrinaggio per due popolari sacerdoti come don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari, puniti dalle gerarchie ecclesiali del loro tempo, ma che Francesco definì «profeti che con le loro testimonianze e la loro lungimiranza anticiparono linee pastorali che solo in seguito sarebbero stato apprezzate e promosse». Continua il pellegrinaggio bergogliano lungo la simbolica Via Crucis costellata da figure emblematiche che nel secolo passato hanno reso la Chiesa più vicina alla gente, quella Chiesa «ospedale da campo dopo una battaglia» auspicata da Francesco appena eletto 5 anni fa. Ieri Francesco ha "incontrato" per la seconda volta San Padre Pio. La prima volta, il 6 febbraio 2016, in piazza San Pietro in pieno Giubileo della Misericordia, quando le spoglie del santo furono esposte ai pellegrini. E sempre con parole e apprezzamenti lontani anni luce dai provvedimenti disciplinari a cui le autorità ecclesiastiche sottoposero Padre Pio, proibendogli per anni di celebrare messa in pubblico, di confessare e dispensare i sacramenti. Vera e propria "reclusione" che il frate accettò in piena obbedienza fino alla completa liberalizzazione, che culminò con l'ascesa agli altari con la canonizzazione proclamata da Giovanni Paolo II. Francesco non è stato da meno, indicando San Padre Pio come «modello di santità del nostro tempo». Analoghi apprezzamenti papa Bergoglio esternò lo scorso anno, a gennaio, quando andò a pregare sulle tombe di don Mazzolari e don Milani. Don Milani "esiliato" nella sperduta chiesetta di Barbiana, dove ebbe la profetica lungimiranza di fondare una scuola per i figli delle famiglie povere del posto. Don Mazzolari, costretto anche lui al silenzio e all'isolamento per aver "osato" difendere ad alta voce i diritti di lavoratori e disoccupati.

  • Ferite che i due sacerdoti accettarono in piena obbedienza, e sempre al servizio della Chiesa. Papa Francesco con quella visita chiese loro pubblicamente "scusa", elevandoli a esempio per tutto l'universo cattolico e l'intera società civile.Tra aprile e maggio prossimi farà altrettanto con altre tre figure-simbolo che hanno lasciato tracce indelebili nella Chiesa e nella società: monsignor Bello, a 25 anni dalla morte, una vita spesa al servizio del dialogo e dell'incontro delle genti sia da sacerdote che da vescovo e, in particolare, da presidente di Pax Cristi, istituzione ecclesiale dedita alla promozione della pace universale senza compromessi, in particolare per la condanna degli armamenti e di tutte le guerre; don Zeno Saltini, padre fondatore della Comunità di Nomadelfia presso Grosseto, che a 37 anni dalla scomparsa (morì nel 1981 a 81 anni) continua ad essere una sicura guida morale e spirituale per quanti (uomini, donne, bambini) hanno trovato nella sua istituzione ragione di vivere, aiuto concreto, forza di andare avanti. All'apparenza meno travagliata la vita di Chiara Lubich (scomparsa nel 2008 all'età di 88 anni), fondatrice del Movimento dei Focolarini, ferma sostenitrice della promozione della famiglia e del dialogo ecumenico, incurante, anch'essa, di diffidenze e incomprensioni - anche tra le istituzioni ecclesiali - che tentarono di ostacolare il suo cammino, ma senza fermarla. Chiara Lubich, don Milani, don Mazzolari, don Tonino Bello, don Zeno Saltini, San Padre Pio: figure popolarissime benché assai diverse per carismi, caratteri e scelte pastorali che Bergoglio ha sempre tenuto in grandissima considerazione perché modelli di quella Chiesa "in uscita" a lui tanto cara. L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 17 marzo 2018 Il tempo dell’ascolto di Enzo Bianchi In una Chiesa fedele al Vangelo Cinquant’anni fa nel mondo occidentale è avvenuta una rivoluzione che gli osservatori più intelligenti significativamente sintetizzano in una sola espressione: la prise de la parole, il diritto a prendere la parola. Giovani, soprattutto universitari, in Francia e in Italia, donne di ogni condizione, minoranze fino ad allora occultate e negate, si sentirono spinti come da un forte vento a prendere la parola, a lungo loro negata. Ovunque emergeva la convinzione, anche grazie all’accesso al mondo universitario da parte delle classi meno abbienti e al proliferare di strumenti espressivi, che tutti, uomini e donne, dovessero avere la possibilità di prendere la parola. Tutti possedevano la stessa dignità umana di cittadini e avevano il diritto di esprimersi liberamente, a voce alta, nella società. Dibattiti, confronti, manifestazioni a volte selvagge e anche sguaiate, apparivano come una protesta che chiedeva di essere accolta. Anche nella Chiesa, qua e là, i cosiddetti gruppi spontanei, alcune comunità riunite attorno a preti carismatici e più tardi le comunità di base, nascevano e si diffondevano in nome di questo bisogno: far sentire la propria voce, prendere la parola, in particolare in quella che è l’epifania della Chiesa tra la gente, cioè la liturgia eucaristica domenicale. Fu una stagione con tratti ambigui, talvolta non conformi all’ecclesialità, che tuttavia non ha segnato solo quella generazione, ma ha trasmesso anche alle nuove generazioni in tutta la Chiesa il desiderio della presa della parola. Oggi il linguaggio è mutato, le espressioni stesse non sono più protestatarie e rivendicative, ma si continuano a cercare vie e modi di “dare la parola” da parte dei pastori e di prendere la parola da parte del popolo di Dio. L’avvento di Papa Francesco è riconosciuto come decisivo in questo senso: egli esercita il ministero del successore di Pietro come uno che sa ascoltare, dare la parola e tracciare così un cammino per tutta la Chiesa, un cammino sinodale contrassegnato dal fare strada insieme da parte di tutti i battezzati, «popolo di Dio, presbiteri, vescovi e Papa». Personalmente resto convinto che si faranno delle riforme più o meno adeguate, che ci saranno discipline maggiormente segnate dalla libertà dei figli di Dio e dalla misericordia, ma ciò che è decisivo è l’istanza della conversione pastorale di una Chiesa che diventa il luogo della parola: della parola di Dio che risuona limpida nel Vangelo, della parola umana che esprime la fede e sa rendere conto della speranza che è Cristo. Cosa chiede - potremmo dire - lo Spirito alle Chiese? Innanzitutto, come sempre, chiede che la Chiesa sia generata dall’ascolto, nasca attraverso l’ascolto e viva dell’ascolto. D’altronde, questa è la via tracciata dal concilio Vaticano II, di cui Francesco è solo interprete creativo: «Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio», ha detto con forza il Papa, ben consapevole che la sinodalità

  • è lo stile proprio di una Chiesa dell’ascolto, «ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa… Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare è più che sentire» (discorso del 17 ottobre 2015). Sì, c’è un primo passo da fare per la sinodalità, ed è l’ascolto, in primo luogo delle sante Scritture proclamate in ecclesia. Questo il grande impegno ecclesiale: esercitarsi nell’ascolto della Parola nella quale si manifesta la possibilità della conoscenza di Dio e della sua volontà. Primato, egemonia, centralità del Vangelo significa proprio questo: ciò che la Parola dice è normativo. Può certamente avvenire il conflitto dell’interpretazione, come è accaduto all’inizio della Chiesa e nel corso dei secoli, ma proprio grazie a un ascolto non individuale ma ecclesiale, sinfonico, il Vangelo può risuonare in verità, forza e chiarezza. È il grande esercizio dell’ascoltare insieme, in una chiesa che si riconosce innanzitutto “fraternità” (adelphótes, questo il nome della Chiesa in 1 Pietro, 2, 17 e 5, 9), convocata dall’unico Padre e Signore. Ma l’ascolto della Parola è sempre, nel contempo, ascolto dei segni dei tempi e dei luoghi. Ascolto della parola di Dio e ascolto di ciò che gli uomini e le donne vivono oggi, vanno insieme, perché l’interpretazione orienta l’azione, ma l’azione verifica e traduce l’interpretazione. Già la costituzione conciliare Gaudium et spes chiedeva «il discernimento dei segni dei tempi alla luce del Vangelo» (cfr. § 4) come esercizio essenziale della Chiesa per stare nella storia, nella compagnia degli uomini, con un significato proprio, ma anche per saper rispondere alle speranze e alle attese dell’umanità concreta e contemporanea. Il popolo di Dio deve riconoscere se stesso sotto la guida dello Spirito santo che abita l’universo e la storia e che chiede di essere riconosciuto (operazione del discernimento) in eventi ed esigenze che si manifestano anche con ambiguità e contraddizioni, ma nei quali c’è il segno della mano di Dio, pastore della storia. L’ascolto dei segni dei luoghi va praticato anche nella convinzione che, quando la Chiesa giunge in una terra, in un popolo, trova già presente lo Spirito all’opera anche in quella cultura e in quella lingua, trova presente una fiducia che chiede solo di essere fatta emergere come fede. Infine, nella Chiesa si impone l’ascolto del popolo di Dio. Il popolo della Chiesa è profetico, portatore di una parola da parte del Signore, dotato «dell’unzione che lo rende infallibile in credendo… di un istinto della fede - il sensus fidei - che lo aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio» (Evangelii gaudium, 119). È il popolo che deve interpretare «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (cfr. Apocalisse, 2, 7.11.17.29; 3, 6.13.22) e non comunica soltanto all’angelo che presiede ciascuna di esse; perciò va interrogato e ascoltato, sempre affermando la diversità dei carismi, la differenza di autorità (exousía) tra i vari ministeri. Nella tradizione cristiana del primo millennio risuonava l’adagio del codice giustinianeo: Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet, «ciò che riguarda tutti, da tutti deve essere discusso e approvato». È un principio forgiato dalla grande tradizione cristiana, non a caso ripreso dal concilio Vaticano II (cfr. Lumen gentium, 12) e ribadito da Papa Francesco (cfr. discorso del 17 ottobre 2015). Come nell’assemblea di Gerusalemme descritta dagli Atti degli apostoli al capitolo 15, l’ascolto nella Chiesa deve essere reciproco: ognuno ascolta l’altro e tutti insieme si impegnano nell’interpretazione delle posizioni, anche nel conflitto, ma sempre nella ricerca comune della verità. Si tratta di «valutare e discernere insieme» attraverso un’argomentazione seria e sinfonica. Nessuna paura dei conflitti, già presenti nella Chiesa apostolica, ma l’importante è la volontà di attraversare il conflitto nella carità, cercando sempre di salvaguardare la comunione, nell’umiltà di riconoscere se stessi «mancanti» rispetto alla verità che mai si possiede ma sempre si cerca, perché ci precede tutti. Dal confronto, dibattito e ascolto reciproco si deve giungere non a decisioni premature, che creano vincitori e vinti; si deve pervenire anche a decisioni provvisorie da riconsiderare poi più tardi, mediante un nuovo confronto, accettando che con il tempo le realtà maturino, si precisino e siano più partecipate. Nel secondo concilio di Costantinopoli (553) è stato espresso un canone importante: «Quando dei problemi che devono essere trattati da due parti sono posti alla discussione comunitaria, allora la luce della verità scaccia le tenebre. Perché nella discussione comunitaria nella fede, la verità non può manifestarsi in altro modo, siccome ciascuno ha bisogno dell’aiuto del suo prossimo». Sì, la verità, la buona decisione si manifesta quando c’è confronto, ascolto reciproco, discussione comune, volontà di comunione e soprattutto di obbedienza alla parola di Dio. Ecco allora come si può giungere alla deliberazione, cioè a una decisione che viene così espressa a partire da tutte le condizioni preliminari necessarie. Certo, solo l’occhio profetico della Chiesa può

  • dire: «È parso bene allo Spirito santo e a noi» (Atti degli apostoli, 15, 28), ma può arrivare a dirlo. C’è una preghiera antica (detta Adsumus, dal suo incipit) prevista per l’inizio e la fine di un’assemblea sinodale, che è molto ricca e ispirante: rileggerla e pregarla è un aiuto a percorrere la strada della sinodalità, del discernimento comunitario, dell’autentico ascolto ecclesiale. Ma perché al convegno della Chiesa italiana tenutosi a Palermo nel 1995, e subito dopo, la nostra Chiesa ha saputo esprimere come programma «il discernimento comunitario», e poi non solo non ha proseguito in questa provvidenziale intuizione ma l’ha contraddetta e spenta per oltre vent’anni? AVVENIRE di sabato 17 marzo 2018 Pag 7 Laudato si’, nascono le Comunità di Alessia Guerrieri Parte da Amatrice il progetto per dare forma concreta all’Enciclica Una terra ferita immersa nella natura. Un luogo che prima di essere ricostruito «va rigenerato». Parte da Amatrice, ma il progetto innovativo che vede insieme la diocesi di Rieti e Slow Food dovrà diventare contagioso, e non solo in Italia. Ad oggi sono già una decina le Comunità Laudato si’ nel nostro Paese e all’estero e altre trenta sono in fase di realizzazione; sono tutte realtà che hanno accolto l’appello di tradurre in pratica il messaggio ecologista di papa Francesco, facendole il principio ispiratore del vivere insieme. L’iniziativa avrà il suo cuore pulsante proprio nella cittadina del reatino simbolo del dramma dal terremoto del 2016; qui nel complesso del Don Minozzi infatti nascerà il centro studi internazionale Casa Futuro–Centro Studi Laudato si’ dalla ristrutturazione di un edificio danneggiato dal sisma. Un centro che ospiterà giovani accomunati dalla volontà di praticare e insegnare l’ecologia integrale, arrivando persino all’autosufficienza alimentare con la produzione interna di cibo. Se infatti «tutto è connesso come ricorda papa Francesco», è la premessa da cui parte il vescovo di Rieti, monsignor Domenico Pompili, durante la presentazione del progetto ieri nella sede di Radio Vaticana, questo vuol dire che ciascuno è implicato in questo processo e che «non si può prescindere dalla necessità di uscire dai compartimenti stagni». Ecco perché l’ambiente è «l’interlocutore di un dialogo che ci muove, ci fa pensare e ci aiuta a capire chi siamo», in un costante interscambio tra interiore esteriore. Ciò che l’enciclica insegna – continua il pastore – è appunto «vivere la pienezza dentro il limite», che ci porta anche a «non temere allora che i piccoli gesti siano insignificanti» visto che i frutti eccedono sempre la logica del calcolo. E ancor più dirompente, è la novità della Laudato si’ che «mette in relazione il tema della giustizia sociale con l’ecologia finora trattati in modo separato». Tutte riflessioni, queste, alla base della Comunità Laudato si’ di Amatrice e di tutte quelle che nasceranno sul territorio, che per i prossimi tre anni si impegneranno ad aiutare anche materialmente la rinascita del piccolo borgo terremotato. «Partiamo da una terra ferita dal sisma – spiega monsignor Pompili – una terra che attende impazientemente di essere rigenerata». Usa non a caso il termine rigenerazione e non ricostruzione, il vescovo, perché «in questi mesi abbiamo già maturato qualche sospetto sul tempismo e sulla capacità di ricostruzione». Tuttavia questo processo non sarà possibile, secondo il responsabile della Chiesa di Rieti, «se non riuscendo a mettere in relazione tra di loro le persone, le persone con l’ambiente che potrà essere vissuto e non desertificato, a condizione che si facciano delle proposte eco-sostenibili». Le Comunità Laudato si’ sono «un modo pratico, concreto, possibile» per fare ciò, «che proponiamo a chi vorrà essere della partita». Scopo di ogni Comunità sarà diffondere in piena autonomia l’educazione ai temi dell’ecologia integrale, della giustizia sociale e della solidarietà attraverso eventi, conferenze, laboratori, corsi, pubblicazioni, scambi e iniziative sul territorio. Le Comunità potranno formarsi a partire da esperienze già presenti (associazioni, parrocchie, condotte di Slow Food) oppure organizzate ad hoc, come realtà associative “leggere” senza statuti a cui si chiede la semplice adozione di alcune linee guida ispirate dall’ultima enciclica di Bergoglio. «La provocazione di Laudato si’, non è ancora del tutto recepita», sostiene difatti il vescovo Pompili, ed è nell’idea che «la visione ecologica dell’ambiente implichi una relazione a più vettori con il Creato, con le persone e con Dio, cioè una visione olistica». Un percorso che obbliga quindi a «cambiare gli indicatori per misurare diversamente i valori che nascono dalla comunità», che hanno comunque un valore economico. L’economista Luigino Bruni, perciò, parla di «avvio di un processo», di

  • «un seme di cui non conosci la pianta», nato proprio dall’intuizione di papa Francesco che mette insieme il concetto della giustizia sociale e dell’ambiente, «fino al secolo scorso due mondi che non parlavano molto e spesso in contrasto». Povertà e ambiente, insomma, come due facce della stessa medaglia. E non è un caso, per il docente della Lumsa, che si parta «da una terra ferita per rilanciare questo messaggio », unendo due «realtà diverse come Slow Food e la Chiesa di Rieti» per «avviare un processo generativo del territorio nella sua dimensione identitaria anche attraverso l’idea di un centro che formi giovani diventando parte del bene comune». Perché ciò va nel solco di «fare alleanze a partire dalle vittime e non dalle ideologie – aggiunge – un processo capace di generare futuro ». Anche più in generale per l’Italia intera, in cui occorre ritrovare «una base di visioni comuni prima della competizione economica e politica». Altrimenti «ci si disfa come Paese». Il punto di partenza è già di per sé un cambio di prospettiva. «Le comunità Laudato si’ sono un percorso aconfessionale, trasversale e aperto a tutti perché tutti siamo fratelli su questa terra, che è nostra madre». Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, è profondamente convinto che bisogna «farla finita con la separazione tra credenti e non, perché siamo in un momento storico in cui tutti dobbiamo lavorare insieme per costruire un nuovo umanesimo. Una nuova casa comune che rispetti l’ambiente e l’uomo». Come è nata l’idea di un centro ambientale ad Amatrice? Con il vescovo di Rieti abbiamo condiviso la volontà di realizzare un progetto di rinascita di questa terra colpita dal terremoto per portare un po’ di speranza. Non si tratta solo di ricostruire un edificio, ma di avere in quell’edificio una cooperativa di giovani che accolgono altri giovani, parlano dell’ambiente e nello stesso tempo producono alimenti nel loro orto e fanno il pane, rispettando il Creato. Non esiste infatti coltivazione senza custodia e custodia senza coltivazione. E non c’era cosa migliore che basare questa idea sul documento più importante di questo secolo a livello di educazione ambientale: l’ultima enciclica di papa Francesco. Nel 2015, infatti, con l’uscita della Laudato si’ il movimento ambientalista mondiale ha fatto un grande passo in avanti, scoprendo il concetto di ecologia integrale. La riflessione del Papa che fare male all’ambiente fa male anche all’uomo, e in particolare ai poveri, ha rivoluzionato il pensiero ambientalista ed ecologista. Dunque le politiche ambientali vanno legate alla giustizia sociale? Innanzitutto bisogna partire dalla presa di coscienza che noi siamo parte della Terra, la dobbiamo amare anche per questo. Si continua invece con pratiche che sono invasive, che distruggono l’ambiente e la biodiversità, che favoriscono il cambiamento climatico. E tutto ciò incide sulla vita della gente, con il dazio più grande pagato dai poveri. Dobbiamo perciò passare dalla democrazia 'animale' a quella 'vegetale'; nella prima c’è un cervello che dà gli input agli organi, nella seconda ci sono una serie di apparati che contribuiscono alla salute della pianta in modo autonomo. Questo significa che va cambiato il modello di sviluppo? Questa economia non funziona, ammettiamolo. Non fa solo danno all’ambiente ma alla comunità umana. Abbiamo bisogno di nuovi paradigmi, di pratiche economiche e comportamentali individuali che lavorino per il bene comune e che lo mettano dinanzi a tutto. È un processo chiaro, ma molto difficile da praticare. Penso cioè che al momento la politica non lo intercetti del tutto, ecco perché sono convinto che la dimensione positiva sia la comunità. Saranno le comunità a cambiare la politica, perché potranno accettare le sfide più grandi e apparentemente impossibili – come modificare il sistema economico –, e vincerle, perché in comunità c’è la sicurezza affettiva. Non è romanticismo, ma realismo che genera buona economia. Una rivoluzione culturale, insomma. Da chi partire? Sono certo che le giovani generazioni praticheranno con convinzione questo processo virtuoso; sono cresciuti in scuole dove si parla di ambiente, dove si insegna loro a non sprecare, hanno un’educazione molto più forte rispetto alle precedenti generazioni. Non c’è dubbio poi che anche la Laudato si’, con la sua facilità di lettura, è un’attrattiva molto forte per i ragazzi. E ne ho conferma quando incontro gli studenti. Nella società civile, invece, non c’è questa sensibilità e anche in parte della Chiesa credo non ci sia sufficiente mobilitazione su queste tematiche.

  • CORRIERE DELLA SERA di sabato 17 marzo 2018 Pag 23 Le comunità del cibo ispirate all’enciclica di Francesco di Virginia Piccolillo La sfida del vescovo e di Slow Food Roma. «Partiamo da una terra ferita che può essere rigenerata: quella di Amatrice. Mettiamo tutto in connessione: ciò che è interiore con l’ambiente, la pienezza della natura e i limiti che lei ci pone. E proponiamo un modo pratico, concreto, ecosostenibile di vivere. In un luogo che sarà centro studi, ma anche posto dove fare cose buone». È un progetto senza precedenti quello lanciato ieri da monsignor Domenico Pompili, vescovo di Rieti, assieme a Carlo Petrini, gaudente fondatore di Slow Food. «Il diavolo e l’acqua santa», si autodefiniscono, sorridendo. Ma l’idea è già più che seria. Far nascere una rete di comunità che sperimentino, spiega monsignor Pompili, «il piacere di prendersi cura della casa comune, fondando la propria vita su principi etici ed estetici di rispetto dell’ambiente. Che poi è il ramo su cui siamo tutti appollaiati». Papa Francesco, nell’enciclica Laudato si’, aveva esortato il mondo a farlo dicendo che «non c’è ecologia senza giustizia e non ci può essere equità in un ambiente degradato». Di fronte all’allarme degli esperti mondiali che non danno più di 30 anni di vita al nostro pianeta se non faremo una rapida inversione a «U». Ma finora non è stato molto ascoltato, dice il vescovo di Rieti. «La nostra idea invece - assicura - è quella di lasciarsi ispirare da quel testo che ha un forte impatto sui temi dell’ambiente». «È ora di farla finita con questa separazione tra credenti e non credenti. Siamo in un momento storico in cui dobbiamo essere uniti per costruire un nuovo umanesimo, una nuova casa comune che rispetti l’ambiente e le persone» spiega Petrini, che ha trasfuso il suo attivismo di sinistra in un impegno per un agroalimentare sostenibile. «Laudato si’ è un documento politico straordinario: pone in relazione i disastri ambientali con la distruzione della vita per i più poveri. Prima gli ambientalisti pensavano ai panda, ma non ai poveri», dice. Il vescovo annuisce. E racconta dell’incontro con il fondatore del Gambero Rosso, della «convergenza di obiettivi» e della prima sfida. Far rinascere, dalle macerie dell’Opera don Minozzi, un centro di educazione ambientale teorico-pratica, con fattoria annessa che dia autosufficienza: si chiamerà «Casa Futuro». E Petrini aggiunge: «I luoghi hanno un’anima. Quando Domenico mi ha detto che le 200 chiese della sua piccola diocesi erano tutte a terra abbiamo cominciato a ragionare su come rimetterla in vita». «I partiti politici sono ormai superati. Una volta erano loro a sollecitare comportamenti virtuosi, ora lo fa il Papa», ecco perché pensare alle comunità che dal basso, e con «sicurezza affettiva», possano affrontare le grandi questioni del nostro tempo. Unendosi in una rete virtuosa che si prenda cura dei borghi, prima che la socialità muoia nei centri commerciali. E magari lanci una campagna contro le microplastiche «che ormai troviamo nei pesci e nell’acqua», dice Petrini. «Prima chi si occupava di Africa guardava chi si occupava di ambiente con uno sguardo snob. Ora, grazie al testo profetico del Papa, si è capito che povertà e ambiente sono la stessa cosa», spiega Luigino Bruni, economista che farà parte del comitato scientifico di Casa Futuro. Chi vuole fondare una comunità deve condividere il principio dell’ecologia integrale e sostenere il progetto di Amatrice per tre anni (con un minimo di 500 euro). Sperando che nel frattempo la ricostruzione riesca a partire. IL FOGLIO di sabato 17 marzo 2018 Pag VIII Nel tempo della clausura 2.0 di Costanza Di Quattro A colloquio oltre le grate con la Reverenda Madre del convento di Ibla. Ha in mano lo smartphone E' sordo il rumore di una porta che si chiude alle spalle. Ha il tonfo plumbeo di una condanna. Suona di eternità. Di giudizio. Di pena. Provate a entrare in questo convento di clausura, incastonato tra le mura barocche di Ibla. Mistica ingannatrice a parte, se pur consci del ritorno subitaneo alla libertà, quel portone che si chiude facendo tremare tutti i cardini spaura il cuore. Viene difficile pensare che dentro le mura antiche ci sia un angolo di mondo condannato a non vedere il resto del mondo. Complice indubbiamente quella letteratura che ha visto nella clausura non una scelta di libertà bensì una costrizione, una morte terrena spesso conclusa con la follia. Da Alessandro Manzoni che affibbiò alla monaca di Monza l'appellativo di "sventurata" fino a Giovanni Verga che in

  • "Storia di una capinera" raccontò il dolore di Maria, giovane novizia costretta alla monacazione. E non sempre di sola fantasia si è parlato purtroppo. Quello della monacazione forzata fu un dato, una verità storica considerevole, una delle tante pagine buie del nostro passato. Interessi economici, tutela dei patrimoni familiari stavano alla base di una scelta così crudele. Spesso, nel caso di condizioni socio-economiche meno agiate, si intravedeva nella monacazione una via di fuga dalla miseria, dalla disperazione di una vita di stenti. In ogni caso, quale che fosse il motivo, i conventi pullulavano di fanciulle, ragazzine offerte a Dio e non chiamate da Lui. Imposte allo sposalizio della castità, della contemplazione, della preghiera. Ma oggi, nel 2018, in questo tempo senza tempo, dove per vivere il mondo basta avere uno smartphone e per entrare nella vita della gente un social network, cosa sarà mai diventata la clausura? Serve? Esiste ancora? Perdura? "La vita interiore non sta nelle illuminazioni ma nel puro abbandonarsi alla guida dello Spirito Santo". E' solo una voce ma anticipa una presenza fisica vera e propria come se quelle mura così spesse fossero piene di occhi e di orecchie. Il primo ostacolo è dato dalle grate. Un reticolato fittissimo di ferro intrecciato al ferro impedisce allo sguardo una visione d'insieme. L'occhio deve abituarsi a guardare oltre la grata; un esercizio fisico e mentale all'un tempo, per imparare a vedere oltre l'apparenza o meglio, come scriveva Edgar Allan Poe, per non lasciarsi ingannare "dall'invisibilità dell'evidenza". E l'evidenza è lei, la Reverendissima Madre che, ieratica e svolazzante, ha accettato di raccontarsi con tutta la libertà che i suoi voti le consentono. All'inizio è un'immagine confusa che pian piano, come quando si attesta il piccolo binocolo da teatro alla propria vista, diventa nitida e chiarissima. "Sia lodato Gesù Cristo". "Oggi e sempre sia lodato". La conversazione inizia nel migliore dei modi, attraverso la convenzione di un saluto che ha, miracolosa mente, il vantaggio di mettere a proprio agio. Già dalle prime battute si palesa una donna colta, ironica, diretta. Si fa fatica a immaginare nel 2018 che qualcuno possa decidere di consegnare liberamente la propria vita alla privazione del mondo, ai silenzi della contemplazione, alla solitudine della preghiera. Verrebbe da chiedere subito cosa offre il sacrificio della clausura a questo mondo, quali vantaggi ricadono sulla terra dalla reclusione dentro le mura protette di un convento. Ma la Reverenda Madre non si lascia cogliere di sorpresa. "Che senso ha la vita claustrale oggi? Immagino sia questo l'oggetto di questa piacevole visita. Ebbene ritengo che oggi sarebbe corretto definirci contemplative più che claustrali: noi contempliamo Dio, offriamo la nostra vita a Lui attraverso la preghiera, il sacrificio, la fedeltà". E così dicendo si sfila la fede dal dito, la guarda attentamente, varca il confine della grata, la porta oltre quel mondo silenzioso e spiega: "Tra me e una sposa non corre alcuna differenza. Io ho affidato la mia vita a Dio, non vi è sacrificio nella mia scelta. Una sposa affida la propria vita all'uomo che ama, neanche in lei dovrebbe essere presente il sacrificio eppure oggi la parola 'per sempre' spaventa. L'idea della ineluttabilità di una scelta definitiva terrorizza. Credo che i pochi rimasti a prendere in considerazione il matrimonio lo facciano nella consapevolezza dell'esistenza dell'istituto del divorzio". Ironizza sulla cinica realtà dei fatti, indossa nuovamente la fede e riprende: "Non siamo fuori dal mondo, il mondo lo viviamo, siamo informate sui fatti che lo riguardano, sulle sofferenze che lo affliggono, i dolori che lo dilaniano e cerchiamo di contribuire attraverso la preghiera, questa continua comunicazione con Dio che ci porta inevitabilmente a comunicare con gli uomini". Ci vuole una grande fede per attribuire alla sola preghiera la capacità di interagire con il mondo e in taluni casi persino cambiare, sovvertire e migliorare le cose del mondo. Rassicurante come la sua voce, la Madre Reverendissima continua fluida a conversare senza mai assecondare il filo delle domande ma seguendo, magicamente, quello invisibile dei pensieri. "La preghiera nasce dalla libertà e dall'amore, non dall'obbligo ma dal bisogno interiore. C'è chi intravede in queste grate un ostacolo, chi, come me, un passaggio obbligato verso la libertà. E' nella preghiera che facciamo esperienza della paternità di Dio e della autentica fraternità con il prossimo fino, come annota San Benedetto 'alla compunzione delle lagrime'. Ed è dalla preghiera che impariamo a prenderci cura del prossimo. Il senso estremo del nostro pregare è altruistico: avviciniamo a Dio chi, per qualsiasi motivo, non può o non riesce a farlo da sé". Ma, all'improvviso, ecco il colpo di scena. Il silenzio irreale che intercorre tra una pausa e l'altra è interrotto da uno strano suono di campane, non musicale e caldo bensì metallico ed elettronico. E' la suoneria di uno smartphone di ultimissima generazione che la nostra carissima Madre sfodera, da chissà quale recondita tasca della

  • tonaca. In un istante infiniti ponti squarciano le grate come la luce fa con le tenebre. L'irreale e mistico luogo senza spazio e senza tempo assume, improvvisamente, una dimensione precisa, chiara, definita. Dove è finita la clausura se le custodi di questo sacrificio hanno in mano l'oggetto che per antonomasia è antitetico alla clausura stessa? Sono solo pochi secondi ma di disarmante naturalezza: chiede scusa, risponde velocemente, riattacca, toglie la suoneria e ripone lo smartphone tra le pieghe misteriose e nere di quell'abito sacro. Prima ancora che i pensieri si accavallassero sui pensieri e le parole ne coprissero altre, con placida e preveggente eloquenza la suora riprende: "Noi siamo nel mondo ma non del mondo. La tecnologia ci aiuta a vivere, ci mette in contatto, in relazione con l'universo che ci circonda, ci semplifica la vita e ci agevola in tante cose. Sembrerà strano immaginarlo ma spesso la consultazione delle Sacre Scritture avviene attraverso internet e non tra scale e sgabelli di polverose librerie. Va dunque riconosciuto il grande valore aggiunto di questi 'benedetti' strumenti ma anche la grande distrazione che si portano dietro. Riuscire a non farsi fagocitare da questa tecnologica finestra sul mondo significa avere la misura delle cose: la misura di se stessi". La galoppante evoluzione del mondo ha vinto la resistenza monacale. Una clamorosa Caporetto o una esaltante vittoria? Chi può dirlo. Eppure in quell' istante di verità si è palesata una giustizia. La giustizia della libertà, dell'apertura, della scelta di interpretare una regola con l'intelligenza del pensiero attraverso quel processo evolutivo al quale non si riesce a sfuggire neanche se si è chiusi dentro la cella di un convento. La paura delle grate comincia a lasciare spazio alla consapevolezza di una scelta d'amore. Sul viso della suora 2.0 si allarga un sorriso sereno e complice. "Clausura non significa chiusura rispetto al mondo ma solo un modo diverso di accostarsi a esso: quello di uno sguardo costantemente rivolto a Dio. E' il richiamo al primato di Dio sull'uomo, all'interiorità rispetto alla dispersione e frantumazione dell' animo umano. La scelta di non possedere nulla e di vivere secondo l'economia del dono non è fuga dal mondo ma un segno di speranza. Non è mero spiritualismo poiché noi consideriamo la corporeità come tempio di Dio. E' l'amore che pervade la monaca, un amore che sfocia e sfora la storia approdando in Dio Amore: traguardo perseguibile da ciascuno attraverso la cura di sé, fisica e interiore". C'è una placida e rassicurante serenità in quelle parole tanto semplici da ricordare quanto complicate da recepire. Il tempo ha smesso di battere il tempo, la sabbia di scorrere dentro la clessidra. Persino la grata ha perso la sua funzione divisoria. E' diventata un sostegno, una scala alla quale aggrapparsi. Chi è davvero recluso? Chi sta fuori o chi sta dentro? Sarebbe bello conversare ancora a lungo e scardinare quelle sciocche certezze che spesso ci imprigionano e smontare una a una le convinzioni di una libertà che spesso non abbiamo avuto, ma la luce violacea che filtra dai vetri cattedrali segna un tramonto imminente, un ineluttabile finire del giorno. Il tempo è scaduto e garbatamente lo sottolinea la Madre alzandosi e facendo ondeggiare il ve lo nero sulla spalle dritte. Sarebbe impossibile andarsene senza aver domandato quale fine faranno i conventi, che previsione logica si può ipotizzare per il futuro e la risposta arriva puntuale, lapidaria: "La storia è fatta dagli uomini ma è guidata da Dio. Ciò che oggi può sembrare irrimediabilmente perduto domani magari non lo sarà più. La circuitazione delle nostre preghiere ha anche questo compito; seguire un filo invisibile, fare un giro incomprensibile che alla fine sovverte l'apparente ordine delle cose". L'immagine di un Dio disordinato che rimette a posto le cose sovvertendo l'apparente ordine nel quale ci illudiamo di vivere è un faro. Una luce, un sorriso. "Sia lodato Gesù Cristo". "Oggi e sempre sia lodato". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’adolescenza non è una malattia di Alessandro D’Avenia Dov’è finito il mio bambino? Chi non ha pronunciato questa frase di fronte a un figlio che improvvisamente non riconosce più? Che cosa accade a un bambino che entra nell’adolescenza, oggi più che mai precocemente? Diventa una sorta di alieno, il che porta a scorgere in lui un adulto «difettoso» o persino «malato». Invece l’alieno è

  • sanissimo e non sta facendo altro che prendere sul serio, cioè nelle sue mani, la vita. Perché? Lo sviluppo del cervello - che avviene nell’arco dei primi vent’anni di vita - conosce, semplificando, tre momenti. Il bambino in età prescolare (fino a 6 anni circa) ha un cervello da «big bang», alla cui rapidissima espansione fisica corrisponde la massima esplorazione e viceversa. I bambini di quell’età si lanciano su tutto per tutto conoscere: sono vere e proprie spugne. È la tappa della curiosità a tutto campo, degli inesauribili cos’è e perché. Subentra poi la fase del bambino in età scolare, nella quale l’espansione del cervello rallenta per selezionare le connessioni che si sono aperte nella tappa precedente, rendendo stabili e rapide quelle essenziali ed eliminando quelle inutili. Il bambino impara a concentrarsi e diventa più abile, colleziona oggetti per mettere in ordine il mondo a modo suo. Impara a leggere, scrivere e contare, fondamenta da rendere il più profonde possibile per poter poi costruire il resto. Sa tutto di dinosauri e pianeti, ieri sfogliava enciclopedie come Conoscere oggi clicca su app e video. I bambini di questa età diventano, se ben seguiti, diligenti e competenti. Fin qui tutto bene, poi arriva l’esplosione della pubertà in cui, al terremoto ormonale corrisponde un ritorno del cervello alla plasticità ed espansione che avevano caratterizzato l’età prescolare. L’adolescente torna bambino, ma adesso per smettere di esserlo. Stabilizzate le strutture neurali per sopravvivere ora si prepara, con l’apertura pirotecnica di corpo e mente, a vivere. Non è né malato, né pazzo. Semplicemente affronta una nuova esplorazione, ma non più in un contesto protetto: ora è lui al timone, e ogni azione che compie si riversa su di lui e non più sulla barriera genitoriale. La forte spinta di crescita gli dà il coraggio di lanciarsi come da bambino, ma adesso chi copriva gli spigoli o allontanava i flaconi dei detersivi viene messo da parte. Il paradosso educativo in questa fase è dover incoraggiare un dilettante allo sbaraglio ad andare in scena, provocando il difficile e doloroso, ma fondamentale, abbandono del nido. Quando andai via di casa a 18 anni la «colpa» era in gran parte de