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RASSEGNA STAMPA di venerdì 13 gennaio 2017 SOMMARIO “Se in Italia nascono sempre meno bambini e le famiglie sono sempre meno numerose - scrive Massimo Calvi sulla prima pagina di Avvenire di oggi - non è solo colpa della crisi economica. La denatalità è come un virus che ha intaccato il cuore degli italiani e si è installato nelle loro menti. Per rendersene conto è sufficiente osservare che cosa succede ogni volta che qualcuno tenta di imbastire un ragionamento in tema di aiuti alla natalità, sostegni alle famiglie numerose, sconti per chi cresce ed educa dei figli. Si trova sempre una ragione per eccepire, precisare, sollevare una questione capace di evocare le forze oscure dell’ideologia e bloccare i tentativi di allineare l’Italia al resto (poco o tanto rinsavito) d’Europa. Gli esempi non mancano. Il 'quoziente' familiare per alleggerire le tasse a chi ha più bambini? Non si può fare perché qualche madre potrebbe decidere di restare a casa con i figli. Un assegno universale per ogni bambino? No, può andare anche ai ricchi. Sconti nei trasporti alle famiglie numerose? Bisogna presentare la dichiarazione dei redditi. Il Fattore famiglia? Costa, meno degli aiuti alle banche, ma pur sempre costa. L’ultima trovata arriva dalla Lombardia, dove si sta discutendo di un progetto di legge della maggioranza di centrodestra, proposto da Lombardia Popolare, per agevolare chi ha più figli nell’accesso a una serie di servizi sociali che già richiedono la presentazione dell’Isee. Lo hanno chiamato 'Fattore famiglia', ma ha un problema di fondo: premia chi ha più figli. Già, ovvio, verrebbe da dire, e dove sta il problema? Semplice: fatti due conti, si è scoperto che i lombardi in realtà non fanno molti bambini, gli stranieri invece sì. Il tasso di fecondità regionale è di 1,44 figli per donna, più della media nazionale di 1,35, ma mentre le lombarde si fermano a 1,29 figli, le straniere sono a 2,14. Capito questo, Lega e Fratelli d’Italia hanno chiesto subito correttivi per una soluzione che non penalizzi i cittadini italiani e soprattutto i lombardi. Anche il governatore Roberto Maroni si è detto favorevole alle misure pro famiglia, sempre però a patto che vengano premiati i lombardi. Contro il Fattore si è schierata anche Sel, ma contestando tout court il principio di favorire chi ha più figli, nonostante tutte le indagini accostino la povertà alla presenza di una prole numerosa. Ma non è questo, ora, il cuore del problema. L’Italia si trova in una drammatica condizione di emergenza demografica e vi è una regione, la più ricca del Paese, che può mandare un segnale a tutta la nazione, fare da apripista e costituirsi come guida in tema di politiche familiari, dopo i segnali incoraggianti dell’ultima manovra del governo, e invece si incarta in uno sterile dibattito sull’origine dei bambini. È evidente, non lo si può negare, che una soluzione può essere trovata per dare un equilibrio 'territoriale' nella direzione dell’equità a una misura che nasce per favorire l’accesso ai servizi sociali a chi ha veramente bisogno. Ma la politica deve saper evitare il cortocircuito che si rischia quando le misure a favore dei poveri vengono confuse con quelle a beneficio delle famiglie; o quando ci si vuole presentare al proprio elettorato come paladini di un quadro di valori, salvo scoprire che strada facendo qualcosa di grosso e di fondamentale, ahinoi, è andato perso. La realtà è che abbiamo così tanto bastonato la famiglia, da un punto di vista economico e valoriale, abbiamo così a lungo penalizzato e umiliato l’aspirazione a diventare madri o padri in Italia, a tutti i livelli, che ci troviamo oggi nella paradossale situazione di avere in tasca qualche caramella da distribuire, ma non ci sono più i bambini che giocano in cortile. Arrivano gli stranieri a riempire in parte quel vuoto, è vero. E cosa vogliamo fare? Ricominciamo a parlare di famiglia senza pregiudizi e senza steccati, creando le condizioni perché gli italiani possano riscoprire la bellezza e l’utilità di vivere in un contesto sociale e culturale 'family friendly', dove chi ha figli è aiutato e non penalizzato? Oppure lasciamo le cose come stanno, aspettando che anche gli stranieri pian piano smettano di fare figli, così da risolvere alla radice il problema degli aiuti alle famiglie? La scelta non è tra un colore o l’altro, tra Fattore famiglia o Fattore camuno, ma tra una politica che s’inchioda a

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 13 gennaio 2017

SOMMARIO

“Se in Italia nascono sempre meno bambini e le famiglie sono sempre meno numerose - scrive Massimo Calvi sulla prima pagina di Avvenire di oggi - non è solo colpa della

crisi economica. La denatalità è come un virus che ha intaccato il cuore degli italiani e si è installato nelle loro menti. Per rendersene conto è sufficiente osservare che cosa succede ogni volta che qualcuno tenta di imbastire un ragionamento in tema di aiuti alla natalità, sostegni alle famiglie numerose, sconti per chi cresce ed educa dei figli. Si trova sempre una ragione per eccepire, precisare, sollevare una questione capace di evocare le forze oscure dell’ideologia e bloccare i tentativi di allineare l’Italia al

resto (poco o tanto rinsavito) d’Europa. Gli esempi non mancano. Il 'quoziente' familiare per alleggerire le tasse a chi ha più bambini? Non si può fare perché qualche madre potrebbe decidere di restare a casa con i figli. Un assegno universale per ogni bambino? No, può andare anche ai ricchi. Sconti nei trasporti alle famiglie numerose? Bisogna presentare la dichiarazione dei redditi. Il Fattore famiglia? Costa, meno degli aiuti alle banche, ma pur sempre costa. L’ultima trovata arriva dalla Lombardia, dove si sta discutendo di un progetto di legge della maggioranza di centrodestra, proposto

da Lombardia Popolare, per agevolare chi ha più figli nell’accesso a una serie di servizi sociali che già richiedono la presentazione dell’Isee. Lo hanno chiamato

'Fattore famiglia', ma ha un problema di fondo: premia chi ha più figli. Già, ovvio, verrebbe da dire, e dove sta il problema? Semplice: fatti due conti, si è scoperto che i lombardi in realtà non fanno molti bambini, gli stranieri invece sì. Il tasso di fecondità regionale è di 1,44 figli per donna, più della media nazionale di 1,35, ma mentre le

lombarde si fermano a 1,29 figli, le straniere sono a 2,14. Capito questo, Lega e Fratelli d’Italia hanno chiesto subito correttivi per una soluzione che non penalizzi i cittadini italiani e soprattutto i lombardi. Anche il governatore Roberto Maroni si è

detto favorevole alle misure pro famiglia, sempre però a patto che vengano premiati i lombardi. Contro il Fattore si è schierata anche Sel, ma contestando tout court il

principio di favorire chi ha più figli, nonostante tutte le indagini accostino la povertà alla presenza di una prole numerosa. Ma non è questo, ora, il cuore del problema. L’Italia si trova in una drammatica condizione di emergenza demografica e vi è una regione, la più ricca del Paese, che può mandare un segnale a tutta la nazione, fare

da apripista e costituirsi come guida in tema di politiche familiari, dopo i segnali incoraggianti dell’ultima manovra del governo, e invece si incarta in uno sterile

dibattito sull’origine dei bambini. È evidente, non lo si può negare, che una soluzione può essere trovata per dare un equilibrio 'territoriale' nella direzione dell’equità a

una misura che nasce per favorire l’accesso ai servizi sociali a chi ha veramente bisogno. Ma la politica deve saper evitare il cortocircuito che si rischia quando le

misure a favore dei poveri vengono confuse con quelle a beneficio delle famiglie; o quando ci si vuole presentare al proprio elettorato come paladini di un quadro di

valori, salvo scoprire che strada facendo qualcosa di grosso e di fondamentale, ahinoi, è andato perso. La realtà è che abbiamo così tanto bastonato la famiglia, da un punto

di vista economico e valoriale, abbiamo così a lungo penalizzato e umiliato l’aspirazione a diventare madri o padri in Italia, a tutti i livelli, che ci troviamo oggi nella paradossale situazione di avere in tasca qualche caramella da distribuire, ma non ci sono più i bambini che giocano in cortile. Arrivano gli stranieri a riempire in parte quel vuoto, è vero. E cosa vogliamo fare? Ricominciamo a parlare di famiglia senza pregiudizi e senza steccati, creando le condizioni perché gli italiani possano riscoprire la bellezza e l’utilità di vivere in un contesto sociale e culturale 'family

friendly', dove chi ha figli è aiutato e non penalizzato? Oppure lasciamo le cose come stanno, aspettando che anche gli stranieri pian piano smettano di fare figli, così da

risolvere alla radice il problema degli aiuti alle famiglie? La scelta non è tra un colore o l’altro, tra Fattore famiglia o Fattore camuno, ma tra una politica che s’inchioda a

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un triste e interessato presente, guardando al prossimo sondaggio o alla prossima tornata elettorale, e una che riesce a spingersi più lontano, più in alto. Preparando il

futuro” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII “Ora insegno, lasciatemi in pace” di Fulvio Fenzo Don Marco Scarpa ha lasciato la città per tenere corsi universitari all’Italia e all’estero. Nel settembre scorso abbandonò la parrocchia di San Pantalon per “un cammino di affettività”. «Con i parrocchiani dialogo in Facebook» 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Senza replay Messa a Santa Marta 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI LA NUOVA Pag 40 Centro Kolbe: dalla carta all’online a lezione di giornalismo di Lieta Zanatta 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 1 Quei figli senza senso di colpa di Massimo Recalcati Una fredda frivolezza dietro ai ragazzi assassini di Codigoro AVVENIRE Pag 1 Fattore camuno? di Massimo Calvi Famiglia: la Lombardia dia l’esempio Pag 3 A scuola si va anche se fa freddo di Ferdinando Camon Ritrovare memoria e senso delle proporzioni Pag 9 “Basta cronaca nera in tv”, Fiorello raccoglie i primi sì di Massimiliano Castellani Lo showman: limitare i talk su orrore e violenza. Rai1: piena sintonia. Mediaset: ma niente censure IL GAZZETTINO Pag 14 Veneto, la scuola ostaggio degli “insegnanti fantasma” di Melody Fusaro Docenti visti solo pochi giorni: preparazione insufficiente degli alunni 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 20 Il Canal Grande invaso dai gabbiani (a pesca in città) di Elisa Lorenzini LA NUOVA Pag 24 Casa dell’ospitalità al completo: “I centri sociali aprano le porte” di Marta Artico La provocazione dell’assessore Venturini dopo la protesta di Rivolta, Morion e studenti medi 8 – VENETO / NORDEST

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IL GAZZETTINO Pag 16 Vicenza, 2mila accordi. Don Torta: fare di più di m.cr. Oggi vertice con quattro associazioni dei consumatori CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Migranti, l’altra integrazione di Massimiliano Melilli Le etnie di Cona Pag 5 Il papà di don Andrea: “Ha fatto alcuni errori ma del male mai” di Giovanni Viafora Padova, il parroco sotto accusa. Paolo Contin: “Plagiato nei momenti di debolezza” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’ombra di Putin sull’Europa di Angelo Panebianco Noi e la Russia Pag 19 “Nell’album di famiglia dell’Islam vanno messi anche i terroristi” di Goffredo Buccini L’imam di Firenze Izzedin Elzir: noi dobbiamo denunciarli come avete fatto voi con i brigatisti LA REPUBBLICA Pag 31 L’orizzonte di Gentiloni di Stefano Folli AVVENIRE Pag 2 Senza il “salto” rischio di irrilevanza di Giorgio Campanini A proposito dell’impegno politico dei cattolici italiani Pag 3 Trump flirta con la Russia ma Putin si rafforza sui mari di Francesco Palmas Più navi e armi in sei teatri, nel Pacifico partita chiave IL FOGLIO Pag 1 La persecuzione anticristiana nel mondo è sempre più tremenda. In 500 milioni non possono professare la loro fede di mat.mat. IL GAZZETTINO Pag 1 Si deve investire per difendersi da hacker e spie di Carlo Nordio LA NUOVA Pag 1 Referendum e democrazia di Penelope di Vincenzo Milanesi Pag 17 Rimpatri degli stranieri irregolari, tutte le cose da fare di Piero Innocenti

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII “Ora insegno, lasciatemi in pace” di Fulvio Fenzo Don Marco Scarpa ha lasciato la città per tenere corsi universitari all’Italia e all’estero. Nel settembre scorso abbandonò la parrocchia di San Pantalon per “un cammino di affettività”. «Con i parrocchiani dialogo in Facebook» Vuole farsi dimenticare. Fare in modo che il polverone sollevato quattro mesi fa dopo l'annuncio della sua decisione di lasciare la parrocchia di San Pantalon, si dissolva

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permettendogli di riannodare in silenzio i fili della propria vita. Don Marco Scarpa - il sacerdote che l'11 settembre scorso annunciò ai fedeli, alla fine della messa e poi su Facebook, l'intenzione di sospendere il servizio per un cammino di verifica su aspetti importanti delle mie scelte, soprattutto nell'ambito dell'affettività - è oggi uno stimato docente che tiene corsi nelle università di Messina e Sofia, e all'Accademia di Brera. Venezia sembra lontanissima. É sempre su Facebook che i tanti suoi amici hanno in qualche modo tenuto i contatti con l'ex parroco di San Pantalon, 49enne nato al Lido e per undici anni vicario di don Armando Trevisiol nella chiesa dei santi Gervasio e Protasio a Carpenedo. Dopo aver insegnato letteratura russa nel Dipartimento di studi linguistici e culturali comparati all'Università di Ca' Foscari e Beni culturali, ecumenismo e dialogo interreligioso al Marcianum, dall'inizio di quest'anno Scarpa è stato incaricato di tenere un corso presso l'Università degli Studi di Messina, mentre nelle settimane precedenti è stato nominato assegnista di ricerca all'Università di Sofia, in Bulgaria, ed è attualmente responsabile di un seminario su Icone ed estetica ortodossa all'Accademia di Belle Arti, a Milano. «Non ho nulla da aggiungere a quanto è pubblicato su Facebook - si limita a dire l'ex parroco di San Pantalon -. Terrò questi corsi a Messina e a Milano, ma preferisco essere lasciato in pace». Del resto non dev'essere stato facile sopportare i riflettori dei media dopo l'annuncio di voler sospendere il sacerdozio nel settembre scorso. Fu l'ex patriarca Angelo Scola ad affidargli il ruolo d'incaricato per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso, percorso che lo ha visto ottenere ottimi risultati scolastici e viaggiare a lungo nell'Europa dell'est. Don Scarpa si era anche occupato di Pastorale universitaria prima della nomina a parroco dei Tolentini, che poi aveva lasciato, e San Pantalon. La scelta di rendere pubblica la sua decisione era stata apprezzata dai fedeli e da quanti in tanti anni di sacerdozio lo avevano conosciuto. Vivrò un tempo di sospensione dal servizio di prete - aveva scritto su Facebook -, per poter proseguire in un cammino di verifica sulla mia vita e su aspetti importanti delle mie scelte, soprattutto nell'ambito dell'affettività, cammino che ho intrapreso da tempo e che ora mi porta davanti al Signore a questo nuovo passo. I legami d'amore vissuti nel Signore non cessano, ma si trasformano. Oggi, prima di chiudere la telefonata in merito agli attuali rapporti con il Patriarcato, si limita a dire: «I rapporti sono ottimi, ma ora non ho altro da aggiungere». Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Senza replay Messa a Santa Marta «Oggi» e «cuore» sono le due parole che Papa Francesco ha indicato come cardini per un esame di coscienza personale dello stato di salute del proprio rapporto con Dio e con i fratelli. Per questa sua meditazione, nella messa celebrata giovedì mattina, 12 gennaio, nella cappella della Casa Santa Marta, Francesco ha preso le mosse dalla prima lettura, tratta dalla lettera di san Paolo agli Ebrei (3, 7-14). «C’è lo Spirito Santo che ci parla» ha fatto notare il Papa, ripetendo proprio le prime parole del brano liturgico: «Fratelli, come dice lo Spirito Santo». E «in questo passo della lettera agli ebrei - ha spiegato - ci sono due parole che lo Spirito Santo ripete: “oggi” e “cuore”». Scrive infatti Paolo: «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori». Poi «nel salmo del lezionario - ha aggiunto Francesco citando il salmo 94 - abbiamo chiesto questa grazia: che il nostro cuore non venga indurito, non sia duro». «Oggi», dunque, è la prima parola. Ma «l’oggi del quale parla lo Spirito Santo - ha spiegato il Pontefice - è la nostra vita, è un oggi, come dice lo stesso Spirito, “pieno di giorni”, ma è un oggi». È «un oggi dopo il quale non ci sarà un replay, un domani: oggi». E «il tramonto sarà più vicino o più lontano, ma è oggi, un oggi scelto da Dio, un oggi nel quale noi abbiamo ricevuto l’amore di Dio, la promessa di Dio di trovarlo, di essere con lui; un oggi nel quale tutti i giorni di questo oggi possiamo rinnovare la nostra alleanza con la fedeltà a Dio». Ma è comunque un «oggi», perché «c’è soltanto un solo oggi nella nostra vita». Certo, ha riconosciuto Francesco, «la tentazione è sempre quella di dire: “sì, sì, farò domani”». È «la tentazione del domani che non ci sarà, come Gesù stesso ci spiega nella parabola delle

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dieci vergini: le cinque stolte sono andate a comprare l’olio che non avevano» dicendosi a vicenda: «Sì, sì, dopo, domani, dopo, vado, dopo vengo». Però, alla fine, «quando sono arrivate, la porta era chiusa». Dunque, ha insistito il Papa, la vita «è oggi: un oggi che incomincia e un oggi che finisce; un oggi pieno di giorni, ma è oggi». A questo proposito il Pontefice ha riproposto anche la parabola che racconta di quell’uomo «che è andato dal Signore e bussava alla porta: “Signore, aprimi, sono io, non ti ricordi? Ho mangiato con te, sono stato con te”». Ma il Signore gli risponde: «Non ti conosco, sei arrivato tardi». «Questo lo dico non per spaventarvi - ha rassicurato Francesco rivolgendosi ai presenti - ma semplicemente per dire che la vita nostra è un oggi: oggi o mai. Io penso a questo. Il domani sarà il domani eterno, senza tramonto, con il Signore, per sempre, se io sono fedele a questo oggi». E, ha proseguito, «la domanda che vi faccio è questa che fa lo Spirito Santo: come vivo io, questo oggi?». «L’altra parola» che si trova nel passo della lettera agli Ebrei proposto dalla liturgia è «cuore». Noi «con il cuore conosciamo Dio, incontriamo il Signore». Ma «com’è il nostro cuore?». San Paolo dà un consiglio preciso nella lettera: «Non indurite i vostri cuori». Allora è bene chiedere a se stessi se «il mio cuore è duro, è chiuso», magari anche «senza fede, perverso, sedotto». Del resto, «Gesù rimprovera tante volte» gli uomini «tardi di cuore, tardi a capire». Ed è proprio «nel nostro cuore» che «si gioca l’oggi». Ecco perché dobbiamo domandarci se «il nostro cuore è aperto al Signore». «A me sempre colpisce - ha confidato Francesco - quando trovo una persona anziana, tante volte un sacerdote o una suorina, che mi dice: “Padre, preghi per la mia perseveranza finale”». A quella persona viene naturale chiedere se ha «paura», dopo aver vissuto «bene tutta la vita, tutti i giorni» del suo «oggi nel servizio del Signore». Ma non è certo questione di paura, tanto che quelle persone rispondono: «La mia vita non è ancora tramontata, io vorrei viverla pienamente, pregare perché l’oggi arrivi pieno, pieno, con il cuore saldo nella fede e non rovinato dal peccato, dai vizi, dalla corruzione». Sono soprattutto «due parole», quindi, che ci vengono riproposte dalla liturgia e che il Papa ha invitato a fare proprie. Anzitutto «oggi: questo oggi pieno di giorni ma che non si ripeterà; l’oggi, i giorni si ripetono finché il Signore dice “basta”». Ma «l’oggi non si ripete: la vita è questa». La seconda parola è, appunto, «cuore». E noi dobbiamo avere sempre un «cuore aperto al Signore, non chiuso, non duro, non indurito, non senza fede, non perverso, non sedotto dai peccati». E «il Signore ha incontrato tanti che avevano il cuore chiuso: i dottori della legge, tutta questa gente che lo perseguitava, lo metteva alla prova per condannarlo, e alla fine sono riusciti a farlo». «Andiamo a casa - ha concluso Francesco - con queste due parole soltanto», domandandoci: «com’è il mio oggi?». Senza mai dimenticare che «il tramonto può essere oggi stesso, questo giorno o tanti giorni dopo». Ma è bene verificare «come va il mio oggi nella presenza del Signore». E chiederci anche «com’è il mio cuore: è aperto, è saldo nella fede, si lascia condurre dall’amore del Signore?». E «con queste due domande - ha suggerito il Papa - chiediamo al Signore la grazia di cui ognuno di noi ha bisogno». Torna al sommario 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI LA NUOVA Pag 40 Centro Kolbe: dalla carta all’online a lezione di giornalismo di Lieta Zanatta Salgono a cinque le borse di studio disponibili quest’anno per gli studenti - senza limiti di età - che volessero iscriversi al corso di scrittura giornalistica “Dalla carta all’online” organizzato dalla scuola Arturo Chiodi del centrocultruale Kolbe. Il corso, rivolto a giornalisti pubblicisti o aspiranti tali, redattori, insegnanti o curiosi di saperne di più sul giornalismo, partirà sabato 14 gennaio e durerà fino al 20 maggio . E’ composto da 18 lezioni di due ore e mezza ciascuna che si terranno ogni sabato, a partire dalle 15, nell’aula multimediale del Centro culturale Candiani a Mestre. Le lezioni saranno in parte teoriche e in parte dedicate all’esercitazione pratica per la stesura di articoli, reportage, recensioni, comunicati stampa, con correzione immediata. Gli insegnanti saranno Alberto Laggia, inviato di Famiglia Cristiana, Maria Cristina Puricelli, giornalista e web content

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writer, Ivo Prandin, giornalista free lance e Edoardo Pittalis, giornalista e scrittore. Il costo è di 230 euro + 20 di tessera per il Candiani, e può essere corrisposto in due rate. Due borse di studio, da 250 euro ciascuna, sono finanziate da Bottega Spa, azienda produttrice di distillati di Bibano di Godega di Sant’Urbano, mentre tre buoni libro da 100 euro cadauno vengono invece offerti dalla libreria Lovat di Villorba. Per informazioni consultare il sito www.centrokolbemestre.it oppure telefonare dalle 17 alle 19 al 328.1787745 o 349.7135314. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 1 Quei figli senza senso di colpa di Massimo Recalcati Una fredda frivolezza dietro ai ragazzi assassini di Codigoro Quello che più colpisce dell'atroce delitto di Codigoro è l'assenza di senso di colpa nei due giovanissimi assassini. Del figlio innanzitutto, ancora più del suo sanguinario complice. La motivazione del suo gesto appare sconcertante nella sua semplicità: «Non sopportavo più le loro prediche», «volevo liberarmene». La grande tragedia di Edipo re di Sofocle, riletta da Freud, ha elevato la ferocia del figlio Edipo che assassina il padre a paradigma di una scena universale: ogni figlio vuole liberarsi di suo padre e dei suoi genitori per realizzare il proprio desiderio. Il conflitto tra le generazioni, lo sappiamo, è un passaggio fondamentale nel processo di umanizzazione della vita. Necessariamente l'esistenza di una Legge implica anche la tendenza alla sua violazione trasgressiva. Ma Edipo, che realizza la più estrema della trasgressioni, porta anche su di sé le marche dei terribili crimini del parricidio e dell'incesto. Per questo al termine della tragedia si cava gli occhi con i fermagli dei capelli di sua moglie e madre Giocasta. A dimostrazione che la Legge si è iscritta nel suo corpo nella forma del senso di colpa per ciò che ha commesso. Nel delitto di Codigoro, invece, in primo piano non c'è alcun conflitto tra Legge e desiderio e, di conseguenza, nessuna esperienza autentica della colpa. La fredda frivolezza con la quale vengono messi a morte i genitori non sembra avere più alcun rapporto con il senso della tragedia. Il figlio che, con la complicità di un amico reclutato a pagamento, ha macchinato il delitto, non mostra, infatti, al termine degli interrogatori, alcun segno di pentimento. E poco importa se più tardi il suo avvocato dirà il contrario. Appare lontano anni luce dalla tragica lacerazione che affligge il povero Edipo. Anziché essere diviso dal conflitto tra il desiderio e la Legge, egli ha ucciso semplicemente per coltivare l' illusione di una vita facile e spensierata - letteralmente: senza pensiero - . La violenza furiosa che rende impossibile ogni parola si configura così come il suo strumento più immediato: per raggiungere l'obbiettivo di una libertà spensierata bisogna eliminare fisicamente l' insopportabile presenza dei propri genitori e delle loro prediche. "Onora tuo padre e tua madre" è uno tra i comandamenti biblici più belli. Portare "onore" ai propri genitori - non malgrado siano imperfetti e vulnerabili, ma proprio perché essi sono tali - significa riconoscere il debito simbolico grazie al quale la vita sorge e iscrivere la propria vita nel patto tra le generazioni perché nessuna vita può farsi da se stessa. La bellezza di questo comandamento è stata oltraggiata da questo figlio che mostra di non saper sopportare la minima frustrazione. Ma questo figlio è anche un nostro figlio: la liberazione da ogni senso di colpa viene infatti salutata dal neo-libertinismo del nostro tempo come un principio irrinunciabile trascurando il fatto che esso non è di per sé una malattia, ma il fondamento di ogni possibile incorporazione soggettiva della Legge. Se nelle società religiose l'ipertrofia sacrificale del senso di colpa poteva dar luogo ad una vera e propria malattia psicologica - , nella società attuale la sua estinzione prepara ad una dimensione predatoria dei rapporti umani che sembra non trovare più argini. Senza esperienza del senso di colpa non c'è, infatti, esperienza possibile della Legge. Riconoscere la propria colpa è infatti il primo indispensabile passo affinché la Legge possa iscriversi nel cuore dell' uomo. AVVENIRE Pag 1 Fattore camuno? di Massimo Calvi

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Famiglia: la Lombardia dia l’esempio Se in Italia nascono sempre meno bambini e le famiglie sono sempre meno numerose non è solo colpa della crisi economica. La denatalità è come un virus che ha intaccato il cuore degli italiani e si è installato nelle loro menti. Per rendersene conto è sufficiente osservare che cosa succede ogni volta che qualcuno tenta di imbastire un ragionamento in tema di aiuti alla natalità, sostegni alle famiglie numerose, sconti per chi cresce ed educa dei figli. Si trova sempre una ragione per eccepire, precisare, sollevare una questione capace di evocare le forze oscure dell’ideologia e bloccare i tentativi di allineare l’Italia al resto (poco o tanto rinsavito) d’Europa. Gli esempi non mancano. Il 'quoziente' familiare per alleggerire le tasse a chi ha più bambini? Non si può fare perché qualche madre potrebbe decidere di restare a casa con i figli. Un assegno universale per ogni bambino? No, può andare anche ai ricchi. Sconti nei trasporti alle famiglie numerose? Bisogna presentare la dichiarazione dei redditi. Il Fattore famiglia? Costa, meno degli aiuti alle banche, ma pur sempre costa. L’ultima trovata arriva dalla Lombardia, dove si sta discutendo di un progetto di legge della maggioranza di centrodestra, proposto da Lombardia Popolare, per agevolare chi ha più figli nell’accesso a una serie di servizi sociali che già richiedono la presentazione dell’Isee. Lo hanno chiamato 'Fattore famiglia', ma ha un problema di fondo: premia chi ha più figli. Già, ovvio, verrebbe da dire, e dove sta il problema? Semplice: fatti due conti, si è scoperto che i lombardi in realtà non fanno molti bambini, gli stranieri invece sì. Il tasso di fecondità regionale è di 1,44 figli per donna, più della media nazionale di 1,35, ma mentre le lombarde si fermano a 1,29 figli, le straniere sono a 2,14. Capito questo, Lega e Fratelli d’Italia hanno chiesto subito correttivi per una soluzione che non penalizzi i cittadini italiani e soprattutto i lombardi. Anche il governatore Roberto Maroni si è detto favorevole alle misure pro famiglia, sempre però a patto che vengano premiati i lombardi. Contro il Fattore si è schierata anche Sel, ma contestando tout court il principio di favorire chi ha più figli, nonostante tutte le indagini accostino la povertà alla presenza di una prole numerosa. Ma non è questo, ora, il cuore del problema. L’Italia si trova in una drammatica condizione di emergenza demografica e vi è una regione, la più ricca del Paese, che può mandare un segnale a tutta la nazione, fare da apripista e costituirsi come guida in tema di politiche familiari, dopo i segnali incoraggianti dell’ultima manovra del governo, e invece si incarta in uno sterile dibattito sull’origine dei bambini. È evidente, non lo si può negare, che una soluzione può essere trovata per dare un equilibrio 'territoriale' nella direzione dell’equità a una misura che nasce per favorire l’accesso ai servizi sociali a chi ha veramente bisogno. Ma la politica deve saper evitare il cortocircuito che si rischia quando le misure a favore dei poveri vengono confuse con quelle a beneficio delle famiglie; o quando ci si vuole presentare al proprio elettorato come paladini di un quadro di valori, salvo scoprire che strada facendo qualcosa di grosso e di fondamentale, ahinoi, è andato perso. La realtà è che abbiamo così tanto bastonato la famiglia, da un punto di vista economico e valoriale, abbiamo così a lungo penalizzato e umiliato l’aspirazione a diventare madri o padri in Italia, a tutti i livelli, che ci troviamo oggi nella paradossale situazione di avere in tasca qualche caramella da distribuire, ma non ci sono più i bambini che giocano in cortile. Arrivano gli stranieri a riempire in parte quel vuoto, è vero. E cosa vogliamo fare? Ricominciamo a parlare di famiglia senza pregiudizi e senza steccati, creando le condizioni perché gli italiani possano riscoprire la bellezza e l’utilità di vivere in un contesto sociale e culturale 'family friendly', dove chi ha figli è aiutato e non penalizzato? Oppure lasciamo le cose come stanno, aspettando che anche gli stranieri pian piano smettano di fare figli, così da risolvere alla radice il problema degli aiuti alle famiglie? La scelta non è tra un colore o l’altro, tra Fattore famiglia o Fattore camuno, ma tra una politica che s’inchioda a un triste e interessato presente, guardando al prossimo sondaggio o alla prossima tornata elettorale, e una che riesce a spingersi più lontano, più in alto. Preparando il futuro. Pag 3 A scuola si va anche se fa freddo di Ferdinando Camon Ritrovare memoria e senso delle proporzioni Fa freddo, e alcune scuole sono chiuse, perché i termosifoni sono rotti o non riscaldano abbastanza. Qualche classe ha tentato di resistere, e i giornalisti sono corsi a fotografare

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i ragazzi sui banchi. Sto guardando una di queste foto, in una scuola di Roma (non di Bolzano). Una ragazza ha un immenso alone intorno alla testa: è il cappuccio della pelliccia, che le lascia fuori solo la faccia. Un ragazzo ha la sciarpa al collo: maglione alto, pesante, e sciarpa girata più volte, e annodata. Il freddo dev’essere pungente. In un’altra scuola della stessa città, la nostra capitale, l’Istituto tecnico Galilei, i mille studenti son rimasti a casa: la scuola è vuota. Il problema si ripete in molte altre città: Pavia, Imperia, Pistoia, ma anche Agropoli, che sta in provincia di Salerno, e perfino Palermo. Possiamo capire i genitori che non mandano, o richiamano a casa, i loro figli, dalle scuole gelide? Sì, possiamo capirli. A scuola hanno freddo, a casa stanno al caldino. Faremmo così anche noi? In generale sì, non possiamo sopportare neanche l’idea che i nostri figli patiscano il freddo. Ma (ecco perché scrivo questo articolo) facevano così i nostri genitori con noi? Qui la memoria mi soccorre, e mi dice: No. Andare a scuola era importante. Pioggia o neve, ci s’andava. E le aule non avevano termosifoni, alcune avevano una stufa, ovviamente a legna, e noi ragazzi portavamo la legna da casa. Va bene, sto rievocando la mia scuola di campagna, alle elementari, ma quando son passato alle medie e poi alle superiori, la situazione non cambiava: scuole fredde, stufa a legna, arrangiarsi e vestirsi pesante. Facciamo il confronto tra le aule romane vuote e questa fotografata con gli studenti con la sciarpa e le studentesse con la pelliccia intorno alla testa: dove vorremmo che fossero i nostri figli? Io, con i secondi, a scuola. In questi giorni ha girato un video tra le news digitali, si vedevano ragazzini cinesi, delle elementari, che scalavano montagne, arrampicandosi per una scala di pioli, per arrivare a un pianoro sul quale sta la scuola. Bambini piccoli, in fila indiana. Pochi anni fa ha girato per i nostri cinema un documentario indimenticabile, intitolato 'Io vado a scuola', e mostrava come vanno a scuola i bambini nelle condizioni più difficoltose del mondo. Ricordo due fratelli, un bambino e una bambina, in Cile, che andavano a scuola a cavallo. Da casa a scuola erano ore e ore di distanza, al piccolo trotto. Arrivati a scuola, legavano il cavallo a una sbarra, alla quale eran già legati i cavalli dei compagni di classe giunti prima. Ogni cavallo aveva una coperta sulla groppa, colorata, ogni ragazzo il suo colore. Ricordo un padre cinese che portava il figlioletto, disabile, in spalla, scalando colline e guadando torrenti. Voleva che suo figlio imparasse, che vivesse una vita culturalmente autonoma. Ricordo due fratelli del Kenya, che tra casa e scuola dovevano correre per ore, cercando di evitare i leoni. Nel documentario si vedeva che spiavano giù dal cocuzzolo di una collina, e vedendo un gruppetto di leoni a sinistra, loro piegavano a destra. Il documentario durava un paio d’ore, e alla fine in sala scoppiavano gli applausi: tutti gli spettatori erano d’accordo, andare a scuola è l’evento più importante nella vita dei ragazzi, non si salta la scuola perché è lontana, o perché bisogna salire un monte, o guadare un fiume, o evitare i leoni. Tantomeno, aggiungiamo oggi, perché bisogna indossare un piumino o una sciarpa o una pelliccia. Tra la giornata di un ragazzo che se ne sta a casa al caldo, marinando la scuola, e quella del ragazzo che a scuola ci va, tenendosi addosso il piumino, la seconda ha un senso, la prima no. Detto questo, se le scuole sono importanti, anzi importantissime, anzi irrinunciabili per i nostri ragazzi, lo Stato ne tenga conto, e provveda a riscaldarle. Pag 9 “Basta cronaca nera in tv”, Fiorello raccoglie i primi sì di Massimiliano Castellani Lo showman: limitare i talk su orrore e violenza. Rai1: piena sintonia. Mediaset: ma niente censure L’ideale, Avvenire lo sostiene da tempo, sarebbe un infotainment fatta essenzialmente di buone notizie o ancora meglio, di storie esemplari di vita. Ora, all’ultimo “spottino” (un video caricato su uno smartphone) di Rosario Fiorelloin cui invoca la «fine della cronaca nera in tv», qualcuno storcerà il naso dinanzi al 56enne showman siciliano e magari penserà che si comporta come quella gente «che dà buoni consigli quando non può dare il cattivo esempio». In realtà Fiorello avverte “umilmente”: «Io sono nessuno e lavoro in tv quando ne ho l’opportunità. Non voglio criticare il lavoro degli altri o le scelte editoriali delle reti, ma vorrei porre uno spunto di riflessione». Intervento legittimo da parte del vincitore dell’ultima edizione del premio “È giornalismo”, nonché titolare dell’Edicola Fiore, fortunato programma di intrattenimento e rassegna stampa mattutina (andato in onda fino al dicembre scorso su Tv8). «Basta cronaca nera in tv a tutte le ore del giorno

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con schizzi di sangue e collegamenti dalle case dell’orrore che non fanno altro che spaventare i bambini e anziani e scatenare fenomeni di emulazione. Di questi casi si occupino i tg e la magistratura e non i rotocalchi», tuona il solito pirotecnico Fiorello, che non fa nomi e non punta il dito su trasmissioni specifiche, però ogni riferimento ai canali generalisti, servizio pubblico compreso, ci pare tutt’altro che casuale. «Massima stima per lo straordinario uomo di spettacolo Rosario Fiorello e legittimo anche lo spunto di riflessione che ci offre, però da giornalista fatico ad immaginare una tv veramente moderna che rinunci a dare notizie di cronaca nera o censuri qualora queste siano le più cruente possibili. Nelle scuole di giornalismo si studia la trama del romanzo di Truman Capote A sangue freddo e il quadruplice omicidio della famiglia Clutter è un testo che insegna a saper leggere le notizie, a darne il giusto risalto, mantenendo un aspetto oggettivo e critico che possa essere d’aiuto a fare comprendere al pubblico la realtà e magari ad arrivare alla verità», interviene il direttore di Videonews Claudio Brachino responsabile delle testate di informazione all’interno dei programmi Mediaset Mattino Cinque Pomeriggio Cinque Quarto Grado Il terzo indizio. Tutti contenitori in cui non mancano certo (specie in Quarto Grado) gli approfondimenti sui crimini e gli omicidi più noti ed efferati. «L’abolizione di questo tipo di informazione oltre che impossibile sarebbe anche sbagliata. Ciò che va fatto semmai è un accurato lavoro deontologico. I servizi Mediaset per esempio non hanno dato nessun tipo di indizio di riconoscibilità dei minori che hanno massacrato i genitori di Ferrara. E un caso del genere, come molti altri analoghi, va trattato anche tenendo conto delle fasce orarie». Sulle fasce pomeridiane, quelle più a rischio di presenza di telespettatori minori, Fiorello ricorda: «Una volta si faceva gossip, si sorrideva di Briatore o della Tatangelo... Parlate di libri, parlate di storia. Non potete ammorbare il pubblico per ore con dettagli di cronaca nera. I bambini si spaventano, la mia mamma è terrorizzata». Scenario di un Paese, mediaticamente inflazionato da “mostri” fuori e dentro l’etere, sul quale Brachino tiene a sottolineare: «Dieci anni fa venivamo criticati per il troppo gossip, spesso ci sentiamo dire che c’è un eccesso di politica... Ma accogliamo favorevolmente l’invito di Fiorello come stimolo a fare sempre meglio il nostro dovere ». È un dovere, anche morale, quello che la Rai ha preso, specie con la presidenza di Antonio Campo Dal-l’Orto, per cercare di sfoltire gli spazi intasati dalla cronaca nera. «Siamo in piena sintonia con il pensiero di Fiorello, fermo restando che non si può pensare di eliminare in toto la cronaca nera – commenta il direttore di Rai 1 Andrea Fabiano – . La Rai da un anno a questa parte ha mantenuto fede alla volontà di ridurre i tempi delle trasmissioni dedicate a un genere come quello dei crimini e dei mi- sfatti, che peraltro personalmente non mi appassiona, anzi. E oltre a un miglior “dosaggio” informativo, abbiamo provveduto ad adottare modalità che garantissero un approccio qualitativo delle notizie e che tenesse conto delle diverse sensibilità del pubblico. I nostri obiettivi in tal senso sono: evitare “scivolate” e ogni forma di voyeurismo, trattare caso per caso approfondendo le fonti e nel massimo rispetto delle persone coinvolte. Cerchiamo anche di condannare quando è necessario stando attenti a non confondere mai i piani del bene e del male. Il tutto anche per non mettere a rischio il lavoro serio sia di informazione che di sensibilizzazione (vedi campagne contro il femminicidio e ogni forma di violenza) che vedono la Rai sempre in prima linea». L’universo televisivo sembra aver accolto al meglio l’invito di Fiorello per tentare, quanto meno, di frenare il fenomeno. «Meglio tardi che mai», chiosa Giorgio Simonelli, critico televisivo e docente di Storia della radio e della televisione all’Università Cattolica di Milano. «Fiorello ha fatto benissimo a dire basta a un eccesso, una deriva che persevera da anni sul piccolo schermo, servizio pubblico compreso. Il dramma è che non ce ne accorgiamo neppure più... È in atto una “normalizzazione” della presenza costante e invadente del crimine in tv. E non è vero che si fa approfondimento, per lo più si tratta di “sfrucugliamento” che genera assuefazione nello spettatore. In Italia – conclude – non si verificano più fatti di sangue rispetto alla media europea, anzi, ma posso assicurare che le nostre reti dedicano a queste storiacce il doppio delle ore di trasmissione rispetto a Francia o Germania. E chi asserisce il contrario, dice il falso e commette un “crimine”». IL GAZZETTINO Pag 14 Veneto, la scuola ostaggio degli “insegnanti fantasma” di Melody Fusaro Docenti visti solo pochi giorni: preparazione insufficiente degli alunni

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Le elementari degli insegnanti fantasma. Trasferiti per decreto (leggi Buona scuola) dal sud al nord, compaiono e scompaiono, complici certificati di malattia o altri permessi. Così, al posto dei titolari della cattedra, spesso dopo attese lunghe anche più di un mese, parte la danza dei supplenti, che arrivano a fiumi, chiamati a capire a che punto è il programma e a ripartire senza perdere altro tempo. Supplenti che a loro volta spesso spariscono dopo qualche settimana, quando rientra l'insegnante di ruolo che, poco dopo, puntualmente se ne va di nuovo. Sono soprattutto i bambini più piccoli, ai primi anni delle primarie, a pagare gli effetti del pesante esodo di insegnanti (e alla conseguente tornata di nomine delle supplenze) cominciato in alcuni casi a pochi giorni dall'inizio della scuola e con cui bisogna fare i conti ancora adesso. Un'emorragia annunciata già in estate dai sindacati: era previsto che molti di quei maestri, regolarizzati lo scorso anno con le ultime tornate di assunzioni della Buona scuola, dopo aver scoperto di essere stati trasferiti a centinaia di chilometri di distanza (ben oltre il famoso algoritmo del ministero), in qualche modo se ne sarebbero andati. E a due giorni dalla prima campanella, è partita la danza delle richieste di aspettativa, dei trasferimenti più vicini a casa, magari per una 104, ossia per assistere un familiare. Quando arriva il momento di rientrare in classe, capita che arrivi il certificato di malattia. Altri 20, 30 giorni a casa. E anche l'insegnante che è veramente influenzato finisce nel calderone delle proteste. Uno dei casi limite è quello di una prima elementare della Cesare Battisti di Mestre: presente un'insegnante (in ruolo) su tre, quella di italiano che, sconsolata, si fa in quattro per mediare tra i genitori e supplenti. «La maestra titolare della cattedra di matematica e materie scientifiche l'abbiamo vista in tutto 20 giorni attaccano mamme e papà - Ogni volta torna e poi, a ogni soffio di vento, scompare. Tra una supplente e l'altra la differenza di preparazione rispetto ai loro coetanei è lampante». Prima di Natale è rimasta a casa anche la maestra di inglese. «Pensavamo di ritrovarla al rientro ma non è andata così aggiungono i genitori e anche qui una nuova supplenza». Ma il problema riguarda migliaia di casi in tutto il Veneto. Nell'istituto alberghiero del Musatti a Dolo, per esempio, su 11 docenti arrivati ne sono rimasti solo 2: tutti gli altri hanno chiesto assegnazioni provvisorie altrove o sono rimasti a casa in malattia. A Venezia, all'istituto San Girolamo, nella classe 4. B i bambini sono arrivati a 9 anni vedendo pochissimo l'insegnante di italiano titolare che, per 3 anni ha continuato a presentare certificati di malattia e che quest'anno, con la Buona scuola doveva essere sostituita da una collega del sud. La quale, da settembre, non si è mai fatta vedere. La scuola è diretta da Alberto Solesin, il padre di Valeria, che spiega: «Gli obiettivi della Buona scuola erano lodevoli, ma la gestione è stata rovinosa. Ora speriamo di aver risolto il problema della 4. B, con una nuova supplente stabile». E Al Lido, infine, solo dopo la Befana sono arrivati due dei tre insegnanti in organico destinati al potenziamento didattico. Due figure in organico mancanti da settembre. A inizio anno scolastico dovevano arrivare tre docenti dal sud, riluttanti a trasferirsi in laguna. Non volendo rinunciare al posto, i tre hanno pensato bene di inviare certificati medici e documentazione che, per mesi, attestavano un'impossibilità ad essere presenti sul posto di lavoro. In questo modo, però, la dirigente scolastica, non poteva nemmeno chiedere la loro sostituzione. Ora due dei tre hanno richiesto l'aspettativa e i posto sono stati coperti. Si spera. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 20 Il Canal Grande invaso dai gabbiani (a pesca in città) di Elisa Lorenzini Quando arriva l’ora del tramonto Bacino San Marco sembra diventare per un attimo il set di un remake del film di Hitchcock «Uccelli». Centinaia e centinaia di gabbiani che volano bassi, sfiorando le onde create dai vaporetti, «oscurano» Punta della Dogana come se in cielo ci fosse una enorme nuvola grigia. Danno la caccia ai tantissimi pesci che il gelo di questi giorni ha spinto verso la città quando le temperature polari hanno ghiacciato ampie parti della laguna. I cefali e gli altri pesci che popolano le acque veneziane si sono

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ammassati lungo i rii. Nuotano impacciati e lenti per il freddo, sembrano diventati incapaci persino di opporre resistenza alle correnti. Restano in balia delle scie di vaporetti e barche, che li sollevano fino a pelo d’acqua. «Per i gabbiani è come se avessero aperto una specie di enorme supermercato - spiega il professor Luca Mizzan, direttore del Museo di Storia naturale di Venezia - hanno pesce a volontà e anche molto facile da catturare». Gli studiosi stanno analizzando il fenomeno dei grandi assembramenti di cefali nei canali dove le correnti abbassano la salinità, perché accade soltanto in occasione di inverni molto rigidi come quello di tre anni fa. Intanto i gabbiani banchettano e come loro fanno garzette e aironi nella parte di laguna più lontana dalla città. LA NUOVA Pag 24 Casa dell’ospitalità al completo: “I centri sociali aprano le porte” di Marta Artico La provocazione dell’assessore Venturini dopo la protesta di Rivolta, Morion e studenti medi Ferrovie non fa dietrofront, le stazioni rimarranno chiuse in questi giorni di gelo, la protesta dei centri Rivolta-Morion e del Coordinamento studenti medi non è riuscita a far tornare sui suoi passi la società. I manifestanti mercoledì sono rimasti fino alle 23, poi se ne sono andati. Nessuno dei senzatetto che si raccoglie fuori dalla stazione dove è andata in scena la manifestazione con tanto di striscioni, è stato lasciato all’addiaccio. L’assessore Venturini lancia la proposta: «Se sono così generosi e vogliono risolvere il problema, aprano i centri sociali». Senzatetto. La morsa del freddo non accenna ad allentarsi. «Nessuno dei senzatetto che assistiamo in stazione è rimasto per strada», spiega il direttore della Casa dell’Ospitalità, Francesco Pilli. «In base al nostro progetto», chiarisce, «abbiamo offerto 34 posti letto, che poi sono diventati 40 in caso di necessità. Di fronte a questo freddo siamo passati, in accordo con l’amministrazione, a un approccio elastico e in queste serate di temperature rigide abbiamo ospitato 45 senzatetto». Più di così, è impossibile. «Abbiamo dei limiti, anche rispetto alla capienza della struttura. Questi numeri non sono mai stati raggiunti negli anni passati da nessuno, 45 accoglienze richiedono impegno e noi ce lo mettiamo: avevamo delle stanze nuove a disposizione, ci siamo dotati di brandine da campo che avevamo preso ben sapendo che poteva succedere». Continua: «A chi non vuole venire o per vari motivi propri rimane fuori, abbiamo fornito il necessario, potenziando il servizio sia qualitativamente che quantitativamente. Abbiamo limiti di numeri, la struttura non ne può accogliere ancora. Noi facciamo la nostra parte, impegniamo il personale che dà il massimo, tiriamo la corda di fronte a questa situazione di cui sentiamo la responsabilità. Più di così non possiamo fare». Il Comune. A passare per “senza cuore”, come è stato appellato, Simone Venturini non ci sta. «Al mio insediamento l’emergenza inverno prevedeva 24 posti», chiarisce l’assessore alla Coesione sociale, «il progetto tanto decantato dalla sinistra ne prevedeva 24, sono stato io ad aumentare il numero a 34, ho fatto un bando che confermava questa cifra e oggi l’abbiamo portata a 45 nelle notti di maggiore emergenza. Ripeto, solo grazie alla giunta Brugnaro sono quasi raddoppiati i posti per i senza dimora». Prosegue: «Abbiamo garantito docce e pasto caldo alle persone. Non solo: abbiamo attivato un lavoro per sei ex senza fissa dimora, che oggi hanno un contratto regolare per l’emergenza inverno, senza contare coperte, brandine, kit per chi per scelta o altro non vuole andare a dormire alla Casa dell’Ospitalità. A queste persone aumentiamo l’assistenza. Facciamo più di quanto ha fatto per anni il centrosinistra. Dire che il comune non è attento ed è senza cuore, è ingeneroso». Ribatte Vittoria Scarpa del Rivolta ed ex operatrice: «Per prima cosa rileviamo il comportamento disumano di Grandi Stazioni. In secondo luogo il comune ha fatto solo il suo dovere, due giorni fa alcune persone, lo sappiamo per certo, sono rimaste senza un letto con il gelo e c’è chi rischia la pelle» Centri sociali. Venturini va all’attacco. «Visto che sono così bravi», dice, «dimostrino che il servizio senza dimora non gli interessava solo per i soldi, che aprano il Centro Rivolta che è grande ed è del comune, invece che protestare contro l’amministrazione che non fa abbastanza. Altro che striscioni davanti alla stazione di Mestre, se hanno tante energie da spendere, aprano Morion e Rivolta,

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che sono patrimonio pubblico del comune di Venezia, sono ampi e spaziosi, che facciano i generosi sempre». Chi vive in centro lo sa. Ci sono diverse persone che dormono nei sottopassaggi, negli anfratti, anche a due passi da Piazza Ferretto. Fagotti che si distinguono nell’oscurità solo guardando bene. Alcuni tra di loro non vogliono andare a dormire in una struttura dove possono trovare un pasto caldo, un letto e una doccia o non ne sono a conoscenza. «A chi non vuole essere portato nella Casa dell’Ospitalità o per vari motivi propri rimane fuori», ripetono Pilli e Venturini, «abbiamo portato tappetini termici per isolare dal freddo il corpo, coperte da montagna per far fronte al gelo, ma anche kit scalda corpo, bevande calde, materiale in uso in caso di emergenze». Queste persone, dunque, possono contare su aiuti in più, che servono sicuramente a far passare loro la notte senza il rischio di congelarsi, che con le temperature rigide di questi giorni, non è da escludere. Non solo. Gli operatori sanno dove si trovano, pertanto sono stati intensificati i giri di assistenza, per rendersi conto della situazione e aiutarli come meglio possono. Un lavoro difficile e che richiede moltissime energie. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 16 Vicenza, 2mila accordi. Don Torta: fare di più di m.cr. Oggi vertice con quattro associazioni dei consumatori Popolare Vicenza e Veneto Banca continuano a battere a tappeto web e clienti con l'offerta di transazione con rimborso del 15% del valore dell'azione. Oggi vertice a Vicenza con quattro associazioni mentre fonti della banca assicurano: duemila transazioni sono già state firmate solo per BpVi e richieste di informazioni arrivano anche da Germania e Stati Uniti. Ma l'incontro nella chiesa di don Torta a Dese (Venezia) di mercoledì sera non ha sortito un'intesa. Gli amministratori delegati di Vicenza (Fabrizio Viola) e Veneto Banca (Cristiano Carrus) si erano spinti fino alla parrocchia del prete anti usura per convincerlo della bontà dell'offerta transattiva. Don Torta però non era solo, ad attenderlo i rappresentanti del coordinamento a partire dall'avvocato Andrea Arman e l'avvocato vicentino Renato Bertelle. Alla fine don Torta ha apprezzato lo sforzo ma ha chiesto di più: «Serve un risarcimento almeno del 30-35%». Troppo per le due banche, almeno per ora. L'offerta complessiva di oltre 600 milioni per 169mila soci non è ritoccabile al rialzo. Le banche non sono in grado di sopportare sforzi ulteriori. «Un rimborso al 15% è troppo basso, se si fosse arrivati al 50% della cifra investita avrei dato subito il consiglio ai miei clienti di chiudere - afferma Bertelle - anche se capisco che l'alternativa del fallimento della banca non ha senso. I due istituti devono continuare a lavorare ma devono presentarci anche proposte accettabili». Arman e altri sono più duri: «Ridateci le banche». Oggi si vedrà se questa posizione da duri e puri è in minoranza. L'Assopopolari di Francesco Celotto, che oggi incontrerà i vertici di BpVi per illustrare la proposta migliorativa che da tempo è il cavallo di battaglia dell'associazione: bene il rimborso cash al 15% ma insieme arrivi anche un bond collegato alla vendita delle sofferenze che renda negli anni (5, 10) un altro 15%. Le banche non chiudono la porta a ogni soluzione e si dicono pronte al dialogo. Basta che sia costruttivo. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Migranti, l’altra integrazione di Massimiliano Melilli Le etnie di Cona Lo sosteneva Zygmunt Bauman, il filosofo polacco della «società liquida» appena scomparso: «Nelle comunità di migranti lontani dai Paesi di origine, l’identità è come sospesa». Le ultime proteste dei nigeriani al centro di accoglienza di Cona, pongono nuove questioni (cruciali) finora eluse in nome dell’emergenza. Siamo davanti ad un confine netto fra popoli, etnie, culture. Nello specifico, nigeriani da una parte e ivoariani dall’altra. E’ vero. Stavolta sono nigeriani gli alfieri della protesta contro la presunta

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diversità di oneri e onori fra i due gruppi. E’ solo un caso: i ribelli potevano essere tunisini, siriani, pakistani. Dissenso che nei giorni scorsi abbiamo conosciuto attraverso cartelloni mostrati alle telecamere e un racconto particolareggiato sul web delle condizioni del centro. Anche la comunicazione è un aspetto rilevante nella gestione del malessere in uno spazio ristretto. Siamo in presenza di una dimensione inedita rispetto al dibattito più meno virulento sulle forme di accoglienza, dal cibo ai letti fino ai servizi e al corollario dell’igiene. Se da un lato Ecofficina, la cooperativa che gestisce la struttura di Cona, si sta sforzando di innalzare quantità e qualità dei servizi offerti a profughi e richiedenti asilo, ora c’è un elemento nuovo che può risultare destabilizzante: la convivenza tra etnie diverse. Dai nigeriani agli ivoariani ai maghrebini, non solo a Cona, i Cpa, Centri per l’accoglienza, paradossalmente riproducono scenari conflittuali e condizioni di rottura che i migranti già vivevano nei loro Paesi. Di più. Far convivere cattolici e musulmani, buddisti, ortodossi, animisti o ipotizzare sempre reciprocità e rispetto fra comunità straniere, è impresa quasi impossibile in un ambito di coesistenza forzata e di futuro incerto. Ma c’è di peggio. Vite, identità, percorsi esistenziali già lacerati da conflitti, guerre, catastrofi naturali, rischiano una mazzata letale se (ri)vissuti lontano da casa, in una realtà che concettualmente dovrebbe essere ospitale e offrire migliori condizioni di vita. E’ l’identità sospesa del profugo: non si è ciò che si era prima e non si sa chi e cosa si diventerà. Il resto è un vissuto che può solo degenerare fra cento variabili e mille derive. La religione ma anche la stessa provenienza geografica, in una non realtà come un centro per l’accoglienza, può diventare un congegno ad orologeria. Il cui tic-tac percepito a Cona con la protesta dei nigeriani, deve almeno allertarci. E farci riflettere. Perchè potrebbe essere anche un’opportunità. L’«integrazione» non più solo fra noi e loro, ma fra loro stessi. Pag 5 Il papà di don Andrea: “Ha fatto alcuni errori ma del male mai” di Giovanni Viafora Padova, il parroco sotto accusa. Paolo Contin: “Plagiato nei momenti di debolezza” Padova. La dignità e la forza non si comprano, ma si possono trovare a Busiago, Alta Padovana, nella casa dove vive con la moglie il signor Paolo Contin: 72 anni, ex operaio Arneg, papà di don Andrea. Signor Paolo, imputano a suo figlio di aver avuto rapporti sessuali con varie donne. Una di queste sostiene pure di essere stata minacciata e fatta prostituire. Lei ci crede? «Sui giornali scrivono di tutto. Io non li leggo più, non guardo più neanche la televisione. Le voglio dire questo: due anni fa c’è stato un altro prete della Diocesi che è stato accusato in modo ancora più infamante di don Andrea. Una grande persona, che era stata anche il maestro di mio figlio: don Gino Temporin. Dicevano che fosse un pedofilo, per cui ci sono stati processi e processi. Poi però è venuto fuori che il bambino che lo aveva accusato non stava bene e si era inventato tutto. Don Gino era innocente. Io non dico che qua le cose siano così, perché le accuse sono assolutamente minori, ma prima di parlare…». Come stanno le cose, allora? Lei che idea si è fatto? «Mio figlio non ha fatto male a nessuno. Io posso capire che possa aver fatto i suoi sbagli, ma non ha mai fatto male a nessuno. Sono convinto che avrà avuto un momento di debolezza. Che gli abbiano lavato il cervello, come facevano i nazisti. Ecco, posso pensare che qualcuna sia riuscita ad imbrogliarlo e che abbia perso un po’ la testa. Ma solo quello… Alla televisione hanno detto che da lui andavano le parrocchiane con problemi e che le faceva prostituire: sono cose che non stanno né in cielo, né in terra. Lei lo capisce, vero?». Hanno detto che la canonica fosse diventata una specie di bordello. «Per me è un’offesa ai parrocchiani di San Lazzaro: attorno alla canonica abita gente, c’è un via vai continuo. E sotto c’è un patronato. Vuoi che in 10 anni non si siano accorti di nulla? In parrocchia gli volevano e gli vogliono tutti bene…» Cosa ha sbagliato don Andrea? «Un momento di debolezza ce l’ha avuto anche nostro Signore. Anche San Pietro: Gesù gli disse, prima che il gallo canti mi avrai tradito tre volte. Quando lo sento, mio figlio, mi ripete sempre: “Non ho fatto male a nessuno, papà, se ho sbagliato pago con la mia persona, ma io il prossimo l’ho solo aiutato”».

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Vi sentite quindi? Come sta? «Di giorno non esce per paura di incontrare qualcuno. E’ in un posto segreto, sono state scritte tante cose su questo, ma non voglio dire niente. Perché poi la gente non lo lascerebbe in pace. Il vescovo comunque credo che sappia. Comunque sì che ci sentiamo, è mio figlio… E le voglio dire una cosa, che forse la sorprenderà (la voce si incrina, ndr): ho 72 anni, una famiglia unita e ho passato tanti Natali, ma questo è stato il Natale più bello della mia vita. Certo, nel profondo della vergogna, ma sicuramente il più bello perché la nostra famiglia era tutta insieme, raccolta in un posticino segreto, in un ristorantino lontano da qui. Noi, cacciati dal mondo ma uniti: Andrea, con suo fratello e sua sorella, mia moglie e il nipotino che è il fiore della nostra famiglia. Colui che ci che dà la forza di andare avanti». Don Andrea continuerà a fare il prete? «Le voglio raccontare questo: quando Andrea è diventato sacerdote io e mia moglie lo abbiamo appreso solo quando lui ci ha portato a casa il vestito lungo. Era già da un anno che faceva il seminarista, ma il vescovo gli aveva dato la possibilità di frequentare da esterno per cui nessuno era a conoscenza del suo percorso. Credevamo che andasse a Padova a fare altre cose. Era sera, ci mostrò quell’abito nero: da quel momento per un mese, giorno e notte, io e mia moglie abbiamo sempre pianto. Può capire… Poi un giorno il mio capo al lavoro, che aveva appena perso il figlio in un incidente, mi disse: “Perché piangi? Tu hai avuto una grazia”. Da allora avevo smesso di piangere. Ora invece mi sono tornate le lacrime. E ogni notte che andiamo a letto con mia moglie…» (lunga pausa, Paolo piange). E adesso? «Andrea non sarà un santo, ma non ha rovinato nessuno. Nessuno. Lui ha solo fatto del bene al prossimo. Soltanto una donna ha parlato male di Andrea… In paese, in parrocchia, tutti lo stimano. Ai giornalisti però questo non interessa. Qui, a Busiago, mi hanno detto che è venuta un’inviata della Rai e siccome non è riuscita a trovare nessuno che le parlasse male di mio figlio ha detto che siamo un piccolo paese di bassa cultura. Io penso invece che qui non ci saranno gli studi alti, ma come esperienza e onestà nessuno si deve vergognare. Siamo mille volte meglio della città». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’ombra di Putin sull’Europa di Angelo Panebianco Noi e la Russia Una volta pronunciate le frasi di rito («I paralleli storici sono sempre rischiosi», «Le vicende sono tutte diverse», eccetera), è il caso di domandarsi se l’Europa, a fronte della Russia di Putin, non sia alla vigilia di una congiuntura che ne ricorda altre: per esempio, quella in cui si trovò Atene nel IV secolo avanti Cristo quando subì la politica espansionistica del re macedone Filippo II (il padre di Alessandro Magno). Se il paragone vi sembra spericolato, considerate i fatti. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un’altra grande potenza ha interferito nella campagna presidenziale per favorire, con i suoi cyber attack, l’amico Donald Trump e danneggiare la nemica Hillary Clinton. Per giunta, forse Trump dice il vero quando sostiene di non essere ricattabile da parte dei russi e forse no. Anche nell’ipotesi migliore, gli Stati Uniti - il «Lord protettore» dell’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale - sono pronti, come Trump ripete, a stabilire una partnership permanente con la Russia. Non è difficile indovinare a spese di chi. Il possibile tramonto delle relazioni atlantiche come le abbiamo conosciute può lasciare l’Europa allo scoperto, in una posizione di grande debolezza, può spingerla a un accordo con i russi alle condizioni di questi ultimi. Più in generale, hanno probabilmente ragione coloro che sostengono che la politica di Trump rischia di terremotare la sicurezza e l’economia. La politica di Trump (anche per il suo atteggiamento pro business anziché pro mercato come ha scritto Luigi Zingales sul Sole 24 Ore , 8 gennaio), potrebbe smantellare quel sistema di relazioni politiche, economiche e di sicurezza - il «mondo libero» dei tempi della Guerra fredda - di cui gli Stati Uniti sono stati l’egemone e il

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garante. Accelerando così il declino, già in atto da tempo, della stessa potenza americana. Siamo forse alla vigilia di un cambiamento geopolitico radicale. Si consideri poi la Russia. È una potenza continentale che, come tutte le potenze continentali della storia, ha sempre privilegiato l’espansione territoriale rispetto a quella commerciale, è abituata da secoli a imporsi sui vicini usando, se occorre, la forza militare. Storia e cultura la spingono in quella direzione. Prendendosi la Crimea con la forza (e violando così la regola, sulla quale si fonda la pace in Europa, secondo cui gli eventuali mutamenti dei confini debbano avvenire in modo consensuale) ha rispettato la tradizione, ha fatto ciò che un tempo fecero sia gli zar che i capi sovietici. Certamente, Putin ha anche reagito a errori di valutazione e ad arroganze occidentali ma questo non basta a nascondere il fatto che la dirigenza russa agisca seguendo, da secoli, lo stesso copione: agita la minaccia dell’«accerchiamento internazionale» per giustificare l’imperialismo territoriale e garantirsi così il consenso interno. La sua politica estera rispecchia la storia di un Paese che non ha mai conosciuto la democrazia liberale. Oggi, si dice, ha forse conquistato, con Putin, il massimo di democrazia che le sia concesso. Ma si tratta di una democrazia autoritaria, non liberale, che spazza via con la forza gli oppositori interni più temibili. Poiché, come dicono gli esperti di Russia, Putin è comunque il meglio che ci sia su piazza, si immagini cosa potrà diventare la Russia dopo di lui. Una potenza continentale illiberale è un pericolo per le libertà dei suoi vicini. Si consideri infine l’Europa. È divisa, confusa, spaventata. La sua integrazione è a rischio di sfaldamento a causa della potente crescita al suo interno di forze antieuropeiste. Subisce l’attacco del terrorismo islamico. Abituata per settant’anni a delegare la propria sicurezza agli Stati Uniti non è in grado di farvi fronte autonomamente. Quando arriverà il momento, Putin sarà pronto a offrire all’Europa non solo convenienti accordi commerciali, ma anche aiuti contro il terrorismo. E l’offerta sembrerà credibile tenuto conto anche del ruolo che la Russia si è conquistata in Medio Oriente. Messi di fronte alla possibilità che una - geograficamente vicina - potenza continentale illiberale scalzi a poco a poco, nel ruolo di «Lord protettore», l’antica potenza liberale, gli europei si divideranno fra pro russi e anti russi. Il partito pro russi è già molto forte in Europa (e Putin lo blandisce e, in parte, lo finanzia). È alimentato da due correnti, il tradizionale antiamericanismo delle sinistre vecchie e nuove, e il cosiddetto «sovranismo» degli antieuropeisti: le forze contrarie all’Unione Europea sono anche, quasi tutte, filorusse. In Francia poi non solo Marie Le Pen ma anche il favorito alle Presidenziali, il repubblicano Fillon, è filorusso. Si aggiunga che il partito pro russi è sostenuto da un’ampia coalizione di interessi economici che ha subito le sanzioni per la Crimea e vuole fare affari con la Russia liberamente. Il partito contrario sarà soprattutto alimentato, plausibilmente, da quei Paesi (Polonia, Baltici, e altri) che hanno subito, fino a pochi decenni fa, l’imperialismo della Russia e temono una nuova crescita della sua influenza politica. Come nel caso degli ateniesi del IV secolo, ci saranno europei che vorranno saltare sul carro del vincitore e altri che cercheranno di resistere ricordando ai propri concittadini, come fece il grande oratore Demostene, che accettare le condizioni poste da una potenza autoritaria significa mettere a rischio, prima o poi, le proprie libertà. Non si tratta di negare che una qualche forma di convivenza con la Russia debba essere cercata. Ma si tratta di capire che Russia e America non sono equivalenti e che stabilire un accordo con la prima senza la protezione e la garanzia della seconda significa rassegnarsi ad avere un’Europa per sempre debole e divisa (l’integrazione europea non conviene ai russi) e soggetta alle pressioni di un mondo illiberale. È vitale che gli europei si rendano pienamente conto del cambiamento geopolitico innescato dal declino americano e accelerato dall’elezione di Trump (e da Brexit). Per non essere impreparati, per cercare di strappare agli americani il massimo possibile di garanzie politiche, quando Trump e Putin cercheranno di accordarsi. Pag 19 “Nell’album di famiglia dell’Islam vanno messi anche i terroristi” di Goffredo Buccini L’imam di Firenze Izzedin Elzir: noi dobbiamo denunciarli come avete fatto voi con i brigatisti L’ Europa trema per gli attentati. Il nostro capo della Polizia, Franco Gabrielli, teme che prima o poi anche noi dovremo pagare tributo all’orrore. Lei pensa che la paura

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cambierà per sempre la nostra convivenza? «È ciò che vogliono i terroristi. Ma noi non dobbiamo rassegnarci al loro obiettivo. C’è una bellissima frase del poeta palestinese Darwish: “La paura non impedisce la morte, ma impedisce la vita”... Vede, le parole sono importanti». Sì, le parole sono importanti: più che mai quando interpellano fede e identità. Izzedin Elzir le sceglie con cura, strizzando a volte le palpebre dietro gli occhialini sottili. Palestinese di Hebron, 44 anni, da quattordici è imam di Firenze; ma soprattutto da quasi sette è presidente dell’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche italiane, la più forte e ramificata organizzazione musulmana sul nostro territorio, con un circuito di 164 moschee, da Nord a Sud. Negli anni Settanta la sinistra esorcizzò a lungo i terroristi rossi etichettandoli come «fascisti pagati dalla Cia, agenti deviati, provocatori...». Poi Rossana Rossanda parlò coraggiosamente di «album di famiglia» e fu una svolta decisiva. Lei se la sente di dire che il terrorismo jihadista sta nell’album di famiglia di voi islamici? «Certamente sì. Purtroppo ci sono persone che danno un’interpretazione errata della nostra fede. Per motivi puramente religiosi. O per interesse. O per potere. Ma, sì, sono fedeli...». Islamici. «Sono musulmani a tutti gli effetti, diciamolo chiaramente. Ma i loro atti criminali no, non lo sono». Restando nel parallelo: gli operai affrontarono i terroristi, li denunciarono, li fecero arrestare. Dovreste fare lo stesso? «È un obbligo religioso farlo. Già molti anni fa scrivemmo un documento: i musulmani d’Italia contro il terrorismo. Si vietava di fornire a questa gente supporto materiale o anche logistico, verbale o morale. Come vede, è quasi copiato dai documenti della sinistra contro Brigate Rosse e affini. Noi abbiamo studiato queste cose: come gli italiani hanno combattuto nel passato il terrorismo, rosso nel caso specifico... Legga questi fogli». La data è luglio 2005. Ma voi dell’Ucoii per molti anni siete stati ritenuti... «...estremisti, lo so». Sì, almeno oltranzisti. Lo nega? Non lo eravate? La sua presidenza ha impresso una svolta all’Ucoii e in qualche modo il ruolo ha cambiato anche lei, le sue dichiarazioni sono mutate a poco a poco in sette anni... «Può darsi che nella mia presidenza io abbia potuto lavorare sulla separazione tra religione e politica. Potremmo dire che questa è la svolta: noi siamo una comunità religiosa, e la politica certamente mi interessa, non sarò ipocrita. Ma c’è chi fa politica». Mi viene in mente Sadiq Khan, il sindaco di Londra. È un buon esempio? «Sì, in questo senso, lo è: penso a uomini di fede musulmana che fanno politica da laici. A ognuno la sua specificità, insomma». La vostra immagine è stata sovrapposta a quella dei Fratelli Musulmani. La rifiuta? «Beh, era costruita per una parte dai nostri sbagli, per un’altra da una realtà incapace di comprendere». Cosa pensa dei Fratelli Musulmani? «Sono un movimento che ha rinnovato il pensiero islamico ma in senso politico ha fatto grandi errori». Web, carceri, moschee negli scantinati: quale realtà è a maggior tasso di radicalizzazione? Quale la preoccupa di più? «Il web, ma lì non riusciamo a incidere molto, purtroppo. Poi le carceri: in questo momento ci sono almeno cento cattivi maestri nelle prigioni italiane. Sta partendo un progetto pilota col Dap, l’amministrazione penitenziaria: tredici imam, nominati da noi e approvati dal ministero dell’Interno, andranno in sei carceri italiane, a Firenze, Milano, Torino, Cremona, Verona e Modena. Bisogna fare progetti di de-radicalizzazione, questi terroristi sono il cancro del mondo». Un ricercatore, Michele Groppi, ha intervistato 440 islamici in tre anni e sostiene che uno su quattro appoggia la guerra santa, uno su tre pensa che chi offende l’Islam vada punito. «Noi l’abbiamo aiutato nella sua ricerca. È nostro interesse conoscere questi dati, prevenire è meglio che curare». Dunque su oltre un milione e mezzo di musulmani in Italia, alcune centinaia di migliaia la pensano così?

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«Certamente no. Non è possibile fare questa proiezione, questi dati sono utili ma vanno letti con buonsenso. La guerra santa c’era al tempo delle crociate. E se una religione viene offesa ci sono i giudici e i tribunali, siamo chiari». Lei ha firmato col sindaco di Firenze, Dario Nardella, un patto di cittadinanza. «Su tre punti: l’uso dell’italiano nei sermoni, le moschee aperte anche ai non musulmani, i nostri giovani come ponte tra la comunità e l’amministrazione locale». Può funzionare a livello nazionale? «È un patto replicato a Torino. Si può fare altrove. Noi siamo leali col nostro Paese: l’Italia». Lei parla spesso di contestualizzare il Corano: sa che molti suoi correligionari la ammazzerebbero per questo? «Senza offesa, se bado agli altri, non cammino di un centimetro». Il Corano presenta un messaggio duplice, pace e guerra. «Il Corano risente di due periodi nella vita di Maometto, ci sono i capitoli della Mecca e quelli di Medina. Ma è tutto insieme, non puoi prenderne solo un pezzo. Questo lo fanno appunto gli estremisti: estrapolano un versetto, magari su Medina, e ne fanno il titolo del Libro, dicendo che quella è l’anima del Corano. Beh, non si può fare». Pensa possa venire prima o poi un momento di riforma nella lettura del Libro? «Abbiamo bisogno di spazi di libertà dove possiamo discutere liberamente. Non ho dubbi: con questi spazi possiamo fare una riforma reale. E il compito della comunità islamica italiana ed europea è proprio questo: aprire questa strada. Non posso chiederlo a chi vive sotto la repressione o la dittatura. Ma noi, sì, possiamo farlo. Perché qui, grazie a Dio, viviamo in una condizione di libertà e di democrazia». LA REPUBBLICA Pag 31 L’orizzonte di Gentiloni di Stefano Folli Il tono vigoroso, anzi perentorio con cui il ministro Calenda è intervenuto sul caso Alitalia dice qualcosa sullo spirito del governo Gentiloni, al di là del malessere che ha imposto una breve pausa al presidente del Consiglio. Allo stesso modo l'attività di Minniti al Viminale è significativa di un modo nuovo di interpretare i temi della sicurezza e i problemi legati all'immigrazione. Non è un caso che il ministro dell'Interno risulti essere il più apprezzato dagli italiani nei sondaggi di questi giorni. Né Minniti né Calenda sembrano voler essere mere ombre cinesi in una compagine destinata a durare al massimo due o tre mesi. Come sappiamo, l'attuale ministero, secondo la "vulgata", altro non sarebbe che un mero non-governo di fine legislatura. Dovrebbe limitarsi a sistemare alcuni pasticci ereditati (in primo luogo il Monte dei Paschi), nonché ad assecondare un rapido accordo sulla legge elettorale. E poi di corsa alle elezioni anticipate, secondo i desideri del leader del Pd, Renzi. Tuttavia non pare che le cose stiano andando in tale direzione. È opinione generale che il mancato referendum sull'articolo 18 abbia allontanato e non certo avvicinato lo scioglimento delle Camere. Per quanto fosse bizzarra e probabilmente autolesionista l'idea di dissolvere il Parlamento pur di evitare un referendum sul lavoro, tali erano in effetti i termini della questione. Ma la Corte Costituzionale ha risolto il dilemma, sia pure con disappunto della Cgil che aveva raccolto, come è noto, oltre tre milioni di firme. E dei due quesiti che sono stati ammessi, almeno uno - quello relativo ai "vouchers" - si presta a un ritocco legislativo tale da rendere inutile il referendum di primavera. In sostanza, l'ostacolo ora è rimosso e il governo Gentiloni ne guadagna in stabilità. Appare chiaro a questo punto che l'esecutivo non rinuncia ad avere un orizzonte strategico. S'intende, è un orizzonte limitato; se non altro perché alla fine dell' anno la legislatura si esaurisce naturalmente. Ma già oggi siamo al di là dell'ordinaria amministrazione. A parte la crisi bancaria e l'Alitalia, che sono emergenze imposte dalle circostanze e dai ritardi accumulati, è evidente che il ministro dell'Interno si pone degli obiettivi politici. Si coglie lo sforzo di recuperare una parte dell'opinione pubblica che ha voltato le spalle alle forze di governo perché irritata e delusa a causa del lassismo verso gli immigrati. Minniti, con sobrietà ma anche con determinazione, sta cambiando una certa filosofia di fondo. Resta la solidarietà, ma finisce l'eccesso di tolleranza verso chi abusa dell'ospitalità italiana. Si tenta insomma di togliere argomenti alla Lega e un po' agli stessi seguaci di Grillo. È appunto un obiettivo politico, peraltro ambizioso, e per dare risultati apprezzabili

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avrebbe bisogno di tempo. Se Gentiloni fosse indotto alle dimissioni all'inizio della primavera, quel lavoro resterebbe incompiuto. Lo stesso accadrebbe in altri campi, dalla giustizia alla pubblica amministrazione. Vero è che al momento il problema dello scioglimento non si pone perché la Consulta non si è ancora pronunciata sulla legge elettorale. Quando lo farà, verso la fine del mese, il Parlamento dovrà armonizzare il modello della Camera con quello del Senato. E i tempi non sono prevedibili. Tuttavia è bene non sottovalutare il dato di fondo: di fronte a una precisa volontà di andare alle elezioni da parte della forza di maggioranza, le obiezioni vengono meno. Tutte tranne una, come ha giustamente osservato Ferruccio de Bortoli. Arriverà il momento in cui Renzi dovrà chiedere o imporre a Gentiloni di dimettersi. E non sarà facile per lui ripetere lo schema con cui tre anni fa defenestrò Enrico Letta. Un governo del Pd allora, un governo del Pd oggi: entrambi dismessi dal leader di quel partito. Sarebbe stato diverso se il gruppo di Verdini fosse entrato nel governo. Renzi avrebbe avuto a disposizione un' eccellente "clausola di dissolvenza". Il giorno che avesse deciso, le dimissioni dei verdiniani avrebbero determinato la crisi dell' esecutivo. Ma le cose non sono andate così. Qualcuno ha bagnato le polveri di Verdini e Renzi dovrà "metterci la faccia". AVVENIRE Pag 2 Senza il “salto” rischio di irrilevanza di Giorgio Campanini A proposito dell’impegno politico dei cattolici italiani Con un lucido, e un poco provocatorio articolo di Luca Diotallevi 'Avvenire' il 6 gennaio 2017 è tornato ad affrontare il problema della «rilevanza» dei cattolici in ambito politico. Diotallevi ha svolto alcune riflessioni che meritano una doverosa attenzione. La questione in gioco non è, evidentemente, il computo complessivo di quanti, da cattolici, occupano determinanti posti nel governo nazionale, nelle amministrazioni locali, nelle più importanti istituzioni politiche, economiche e culturali. Una simile operazione, d’altronde, echeggerebbe la pirandelliana figura dell’Uno, nessuno, centomila… Come definire, infatti quali sono i 'cattolici': i battezzati, gli osservanti, i frequentatori delle parrocchie o magari coloro che, pur proclamandosi atei, prendono il Vangelo più seriamente di cosiddetti 'fedeli'? Più che cercare di 'contare' quanti e quali siano i posti di rilievo occupati da cattolici, pensiamo che la vera domanda alla quale rispondere sia un’altra: quale ruolo, complessivamente, ha il cattolicesimo nell’attuale società italiana? E quale metro, conseguentemente, è bene adottare per valutare quale sia il posto che il fattore religioso (nella sua specifica declinazione cattolica) occupa nella nostra società? È sostanzialmente la domanda che Diotallevi, nel citato articolo, si pone quando afferma che «ciò che oggi manca non è certo la visibilità politica dei cattolici ma la rilevanza del cattolicesimo per la politica: concetto che potrebbe essere espresso con altre parole o, se si vuole, attraverso un interrogativo, quale potrebbe essere il seguente: al di là delle cariche occupate e dei ruoli rivestiti da cattolici, il cattolicesimo esercita ancora un’influenza sulla società italiana?». Rispondere a questo interrogativo implica necessariamente abbandonare il terreno, infido, della 'visibilità' e arrendersi nel più complesso e difficile tema della profondità: del resto, non sempre ciò che è 'visibile' è anche 'profondo', e cioè radicato nel terreno e non soltanto presente in superficie. Se si pensa alla 'visibilità' alla'profondità' – e soprattutto se si aprono gli orizzonti a confronto con le altre terre e con altre culture – ritengo sia difficile negare che l’Italia è segnata in profondità, ancora oggi, dal cattolicesimo, avendone recepito nella sostanza – anche se non sempre nella continuità e con coerenza – un insieme di valori generalmente non percepiti per le loro origini evangeliche, ma presenti e operanti proprio grazie al cristianesimo; forse un 'cristianesimo anonimo' ma non per questo meno reale e ben visibile allorché si parla dei diritti umani, del rispetto della persona, del dovere della 'prossimità' e così via. Non sempre questi valori sono presenti nella sfera della politica, ma lo sono ancora e sempre nel tessuto della società italiana. Il problema che sta di fronte ai cattolici italiani di oggi è indubbiamente, da una parte, consolidare radici esposte al logoramento indotto dal consumismo e dall’individualismo, ma dall’altra impegnarsi a tradurre questi valori attraverso il privilegiato strumento della politica. Seguire questa seconda strada, tuttavia, esige allo stesso tempo passione civile e competenza, amore per il prossimo e senso di responsabilità, ancoramento agli ideali e

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consapevolezza del limiti della politica. Tutto ciò implica il transito della sfera della società all’ambito della politica: portando in essa quell’insieme di valori che nel delicato passaggio dall’«ideale» al «reale» rischiano di dissolversi. È, questo, il non facile salto dall’ambito della società civile a quello dell’impegno politico: un passaggio che soprattutto le giovani generazioni tendono, invece, a rifiutare. E su questo bisogna concentrarsi. Pag 3 Trump flirta con la Russia ma Putin si rafforza sui mari di Francesco Palmas Più navi e armi in sei teatri, nel Pacifico partita chiave Sembra sempre più isolato Donald Trump nei suoi aneliti di 'accomodamento' con la Russia. Anche Rex Tillerson, segretario agli Esteri in pectore, fa un passo indietro. Sentito dalla commissione esteri del Senato, ha spiazzato tutti l’altro giorno: «La Russia è un pericolo […] e i nostri alleati della Nato hanno ragione da vendere a temerla». Un monito ribadito ieri da James Mattis, futuro numero uno del Pentagono. Che Mosca abbini tattiche convenzionali nuovamente dirompenti a un savoir faire raffinato nella strategia indiretta è ormai un dato di fatto. Lo testimoniano le campagne d’ingerenza cibernetica al di là dell’Atlantico, frutto di una dottrina operativa ibrida che si alimenta di colpi di mano imprevedibili e repentini. Obama l’ha capito e ha subito reagito, con le sanzioni antirusse e la 'guerriglia diplomatica' di fine dicembre. Non pago, il senatore repubblicano McCain sta promuovendo un disegno di legge per inasprire l’embargo. Ha con lui molti repubblicani e quasi tutti i democratici. Un fuoco di fila che renderà irto di ostacoli il cammino speranzoso di Trump verso un modus vivendi con Mosca. Il presidente ha contro anche buona parte dell’establishment militare, a partire da Joseph Dunford che, salvo imprevisti, sarà capo dello Stato maggiore interforze ancora per un po’. La Crimea e l’Ucraina hanno avuto un impatto talmente dirompente sul generale che un mese fa, al Reagan National Defense Forum, ha stigmatizzato senza remore Mosca, imputandole «di voler intaccare la credibilità della Nato e di tramare per ostacolare la proiezione americana nel mondo». Dunford pensa alle nuove capacità d’interdizione russe lungo l’arco d’acciaio che si protende minaccioso dal Baltico al Mediterraneo orientale. Una cosa che turba i sonni dell’ammiraglio John Richardson, capo delle operazioni navali: «La US Navy sta constatando una crescita esponenziale delle attività della marina russa, soprattutto nell’Atlantico settentrionale e nel Pacifico», foriera di ripetuti incidenti fra aerei e navi 'nemici'. F ino al 28 ottobre scorso, l’ammiraglio Foggo sedeva a Napoli, al comando della VI flotta. Nel suo lungo mandato si è speso per l’unità dell’alleanza atlantica e per misure di contro-assicurazione agli alleati del mar Nero e del Baltico. Ha lasciato uno scritto a tinte scure, in una delle ultime uscite della rivista Proceedings. Parla «di quarta battaglia dell’Atlantico», pur ricordando la necessità di riprendere i contatti con gli ufficiali russi, prima che sia troppo tardi. Non avviene da tempo e non bisogna perderne altro. Perché la Russia sta risorgendo, anche sui mari. Ecco perché un modus vivendi con Mosca sarebbe profittevole a tutti. Soldi permettendo (il bilancio della Difesa è stimato al 3,52% del Pil, sopra i 40 miliardi di dollari, in calo rispetto agli anni scorsi), la Russia ha piani molto ambiziosi, dettati da un disegno di lungo periodo. Con 38.000 km di frontiere marittime e abbondanza di fiumi navigabili, il compito è immane. Per ora, i russi hanno una sorta di flotta-fortezza, in grado di blindare gli accessi marittimi del Paese e di effettuare missioni limitate in certe aree dell’oceano globale, con i sottomarini, e con la portaerei (deludente) in Siria. Ma i documenti strategici del 2015 e del 2016 allargano gli orizzonti temporali e gli obiettivi, descrivendo le tappe di un programma navale articolato in tre fasi: la prima nel 2020, la seconda nel 2030 e la terza nel 2050, quando la Marina dovrebbe disporre di due portaerei e di diverse piattaforme d’altura, per mostrare bandiera e potenza lontano dalle frontiere di casa. In almeno sei teatri prioritari, dallo scacchiere artico e atlantico, al Pacifico, all’Oceano Indiano, al trio mar Caspio-Nero-Mediterraneo e all’Antartico. La geopolitica settentrionale è in subbuglio. A fine dicembre 2014, la flotta russa del Nord ha creato un comando strategico anche per l’Artico. Il quartier generale è nel mare di Laptev, puntellato da basi aeree poco distanti. Che fervano manovre militari emerge dall’intensità dei voli aerei e delle spedizioni di materiali. Il 1° comando aereo manda continuamente in pattuglia i bombardieri strategici, scortati dai caccia militari. A pochi chilometri dal confine norvegese e finlandese, la città di Sputnik è un poligono tout court

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di fucilieri di marina, truppe avioportate e sabotatori. In Norvegia stanno correndo ai ripari. Anche perché intorno al 2020, il governo russo vorrebbe aver ultimato i preparativi per una nuova brigata di berretti verdi, specializzati nel combattimento ai poli. La base sorgerà a dieci km appena dalla frontiera norvegese. Un mix di assetti e basi cruciali per rafforzare il dispositivo di sicurezza nell’Artico russo e garantire le rotte delle navi cargo. Perché Mosca rivendica la quasi totalità dei fondali artici e delle loro immense ricchezze. Siamo in aree di contatto fra interessi divergenti. Ogni mossa azzardata può accendere le polveri. Qui come nel Baltico, altro scacchiere ad altissima tensione. A Baltijsk, nell’oblast di Kaliningrad, si respira un clima di neo-militarismo. C’è un contingente di 30.000 uomini, protetto da un potentissimo scudo missilistico, talmente esteso da coprire la Lituania, buona parte della Lettonia e della Polonia, spingendosi fino all’isola svedese di Gotland, cuore pulsante del Baltico. Il ministero della Difesa, fra maggio e dicembre 2016, ha effettuato almeno due ispezioni alla flotta e silurato il capo, vice-ammiraglio Viktor Kravtchuk, insieme a una cinquantina di ufficiali e comandanti. Monito per tutti i 'gerarchi' della Marina, chiamati a maggiore disciplina e fermezza. La flotta del Baltico è in prima linea, anche se le sue unità non hanno molto da dire nei due teatri caldi del momento, il Levante mediterraneo e gli Oceani indiano e pacifico, che catalizzano diverse operazioni 'fuori area' della Russia. R ispetto all’era sovietica, Mosca ha conservato la microbase siriana di Tartus. Vorrebbe 'riprendersi' la Libia, perché ha fortissimi interessi mediterranei, galvanizzati dagli affari dei suoi colossi energetici, Gazprom e Rosneft su tutti, in campo nell’offshore israeliano ed egiziano, e fortemente attratti dal dossier cipriota. Il generale Haftar è stato ospite frequente in Russia e ieri è salito sulla portaerei «Kuznetsov». Oggi però la Marina russa è molto più debole di un tempo nel Mediterraneo. Non ha i porti jugoslavi e l’Egitto è un’incognita. Nemmeno l’Algeria si presta facilmente. Ha sempre offerto le sue basi solo per esercitazioni congiunte e rifornimenti. A suo tempo, l’Urss aveva creato la quinta squadra del mar Nero appositamente per il Mediterraneo e la 17a squadra della flotta del Pacifico per l’Oceano Indiano. Cam Rahn, in Vietnam, era la principale base oltremare dei soviet. Il vento di rinnovamento che soffia intorno alla flotta del Pacifico dovrebbe permettere alla Russia una presenza navale sia nel mar Cinese meridionale sia nell’Oceano Indiano. Un’ambizione difficile da realizzare nel breve periodo. Quando ci saranno i mezzi, occorrerà una base logistica nell’area e i russi sembrano sulla buona strada per riaffacciarsi a Cam Rhan, porto che si trova a meno di 600 chilometri dagli arcipelaghi turbolenti delle Paracel e delle Spratly, e a 700 chilometri dalla base cinese di Sanya. Una posizione strategica, che conferma l’attrazione globale per le basi oltreconfine. I russi ne vogliono una in permanenza anche nel Pacifico, a Matua, una delle isole Kurili a sud della penisola di Kamchatka. Annesse da Stalin nel 1945, le Kurili sono tuttora rivendicate dal Giappone, che reclama la restituzione di almeno un terzo della superficie totale. Non è mai stato firmato un trattato di pace. Anche perché i russi a tutto pensano tranne che a restituire le isole. Una missione di 200 tecnici ha fatto tappa a Matua, fra la primavera e l’estate scorsa, per saggiare la fattibilità dei progetti militari. Stanno arrivando artiglierie costiere e missili, perché Mosca spera di fare della flotta del Pacifico e delle Kurili un cuneo d’interposizione nella regione, con l’obiettivo di complicare l’equazione difficilmente risolvibile fra cinesi e americani nel Pacifico, un’area a fortissima militarizzazione ed espansione commerciale. È qui che si giocherà la partita principale nei prossimi decenni. IL FOGLIO Pag 1 La persecuzione anticristiana nel mondo è sempre più tremenda. In 500 milioni non possono professare la loro fede di mat.mat. Roma. "Nell'epoca delle immagini fa più eco un assassinio ripreso con un cellulare che un milione di persone trattate come animali. Un cristiano ogni tre subisce una grave forma di persecuzione nei cinquanta stati della nostra ricerca", scrive Cristian Nani, direttore di Open Doors/Porte Aperte, presentando la World Watch List 2017, il rapporto che mette in fila, uno dopo l'altro, i primi cinquanta paesi dove si perseguitano più cristiani al mondo. "C'è molto di più delle morti e degli attentati alle chiese", aggiunge Nani: "In fondo stiamo parlando di milioni di vite vessate e oppresse a causa di una scelta di fede". Sono oltre 215 milioni i cristiani perseguitati, stando a quanto rilevato nel periodo

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che va dal novembre del 2015 all'ottobre del 2016. Tra i cinquanta paesi inclusi nella lista, sedici sono africani (la Somalia, con le sue divisioni tribali, è al secondo posto. La chiesa, qui, è di fatto clandestina. Le conversioni dall' islam sono punite con la morte, se scoperte). Determinante, in tale contesto, è la radicalizzazione islamica della regione subsahariana. Ed è proprio questa la prima fonte di persecuzione, anche nell'Asia dove la principale minaccia ai cristiani è rappresentata dalla "paranoia dittatoriale" (cit.) del regime nordcoreano di Kim Jong-un, che per il quindicesimo anno consecutivo si conferma come "il peggior paese al mondo dove essere cristiani" (possedere una Bibbia comporta una pena che può andare dalla tortura alla pena di morte). A leggere il freddo bilancio dei morti ("martiri" nel documento), si potrebbe pensare a un'inversione di tendenza positiva rispetto al passato. Nel 2016, infatti, i cristiani uccisi per motivi legati alla fede sono stati 1.207; 1.329 le chiese attaccate. I dati precedenti stimavano 7.100 vittime. In realtà, la diminuzione è dovuta in primo luogo al fatto che è sempre più difficile ottenere dati completi in situazioni di conflitto civile. Stime ufficiali in Iraq e Siria, in Myanmar, Sudan e Nigeria, quando ci sono non sono attendibili. In quest' ultimo caso, poi, va rilevato come la reazione delle Forze armate nigeriane siano riuscite a limitare le operazioni di Boko Haram. Decisivo, poi, il fatto che nel vicino oriente dove migliaia di cristiani minacciati già se n'erano andati, l'avanzata dello Stato islamico sia stata fermata. Ma proprio qui "è imponente il numero di cristiani perseguitati. Di fatto - scrive Porte Aperte - pur diminuendo il numero di morti, crescono l'oppressione, gli abusi, le discriminazioni e l'emarginazione di cristiani, la gran parte dei quali sfollati e privati di tutto in stati come Nigeria, Siria e Iraq". Allargando la prospettiva dai cinquanta paesi esaminati dalla World Watch List al resto del globo, e contemplando non solo coloro che sono messi dinanzi alla scelta tra la conversione e la morte, i numeri sono ancora più drammatici. "Novantamila uccisi per la loro fede, un morto ogni sei minuti", ha spiegato di recente Massimo Introvigne, di rettore del Centro studi nuove religioni (Cesnur), che premette come il 70 per cento di questi sia vittima di conflitti tribali; vittime solitamente ignorata dalle grandi statistiche. "Le stime variano fra 500 e 600 milioni di cristiani che non possono professare la propria fede in modo totalmente libero", spiegava Introvigne alla Radio Vaticana. "Senza voler dimenticare o sminuire le sofferenze dei membri delle altre religioni, i cristiani sono il gruppo religioso più perseguitato del mondo". Un po' ovunque, dunque, cresce l'intolleranza "e l'intolleranza è l'anticamera della discriminazione che poi a sua volta è l'anticamera della persecuzione", chiosava il direttore del Cesnur. La minaccia più pericolosa per l'immediato futuro è rappresentata, segnala Porte Aperte, dal nazionalismo religioso che sta infiammando in particolare il subcontinente indiano. Ed è qui che tra pochi mesi metterà piede il Papa in uno dei viaggi più attesi del pontificato. IL GAZZETTINO Pag 1 Si deve investire per difendersi da hacker e spie di Carlo Nordio Un illustre storico insegnava che la conoscenza è potere, ma solo la saggezza è liberta. Tuttavia, aggiungiamo noi, la strada della saggezza è impervia e dolorosa, mentre quella della conoscenza è tanto più accessibile quanto maggiori sono i mezzi disponibili per percorrerla. Oggi, per esempio, è più difficile essere saggi, e quindi liberi; ma è facile essere informati, è quindi potenti: basta munirsi degli strumenti adeguati. Il caso del cosiddetto spionaggio cibernetico dimostra che con uan tecnologia relativamente modesta si può entrare nell’archivio di persone, aziende e istituzioni con una certa facilità. E poiché oggi tutto è comunicato e conservato per via telematica, ogni intraprendente curioso può, per i motivi più disparati, accedere alle informazioni più diverse: dalla banale cartella clinica del vicino ai più vitali segreti dello Stato. E se fino a ieri le nostre preoccupazioni riguardavano le invasioni illecite nella nostra sfera privata, oggi apprendiamo che anche la sicurezza pubblica è a forte rischio. Qualcuno ha manifestato amarezza e sorpresa. Noi ci stupiamo di tanto stupore. Per capire l'importanza del problema, sarebbe stato sufficiente riflettere sul seguente principio elementare: che tutto ciò che naviga può esser affondato, tutto ciò che vola può essere abbattuto, e tutto ciò che si comunica può essere intercettato. E' solo questione di proporzione tra mezzi e fini: i soliti ignoti spesero cinquantamila lire per una miserabile cassaforte; i professionisti investono milioni per svaligiare una banca. Lo stesso accade

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per chi si cautela: una porta blindata per un appartamento normale; un costosissimo sistema di allarme per una gioielleria o un museo. Come dunque è stato possibile che due fratelli, peraltro presunti innocenti, si siano inseriti nei sistemi di mezza Italia? E' stato possibile perché siamo arrivati completamente impreparati. E' vero che la tecnologia galoppa molto più velocemente delle nostre leggi, che inseguono con fatica le sue applicazioni perverse: basti pensare alle problematiche connesse alla genetica e alla sua manipolazione. Ma è altrettanto vero che la nostra fantasia dovrebbe aiutarci a prevederle, anticipandone le soluzioni, prima che il danno diventi irreparabile. In altre parole, poichè sappiamo che siamo tutti intercettabili, e che l'acquisizione (legittima o illegittima ) dei dati sensibili è solo questione dei mezzi a disposizione dell'intruso, ogni persona, azienda o istituzione deve decidersi: o limita al massimo le comunicazioni telematiche, oppure si munisce di strumenti idonei a proteggerle. Nessuno sarà mai al sicuro, perché ad ogni missile si risponde con un antimissile, poi con l'antiantimissile e via così. Ma almeno si rende difficile la vita all'avversario, fino rendere antieconomici i suoi disegni. Investire risorse è dunque l'unica via per cautelarsi contro questa nuova minaccia che non riguarda più soltanto le vite private dei divi, ma arriva a lambire, e a compromettere, la stessa sicurezza del Paese. Un'ultima considerazione: sarebbe ingenuo pensare di attuare queste tutele con strumenti repressivi, i processi e gli aumenti di pena. La tecnologia, come la virtù, ha in sé la sua ragion d'essere, e una volta applicata non consente marce indietro. Come non si è mai arrivati, né mai si arriverà, all'eliminazione della bomba atomica, così dobbiamo rassegnarci all'esistenza di questi mortali strumenti invasivi. Se però non possiamo distruggerli, possiamo tuttavia controllarli, e talvolta neutralizzarli con i loro stessi metodi. E' solo questione, come sempre, di intelligenza,di buona volontà e soprattutto di investimenti. Quelli, appunto, che in Italia sono mancati. LA NUOVA Pag 1 Referendum e democrazia di Penelope di Vincenzo Milanesi Andranno avanti per parecchio i commenti al pronunciamento della Corte costituzionale sui referendum proposti dalla Cgil in materia di legislazione sul lavoro. Sia per gli aspetti più propriamente giuridici, che lasciamo ai costituzionalisti, sia per gli aspetti che riguardano più da vicino la “politica politicante”. Ma è da un punto di vista meno legato alle contingenze ed agli interessi delle forze politico-partitiche in campo che conviene invece riflettere. Il tema vero sembra essere quello del crescente ricorso all’istituto del referendum all’interno delle democrazie europee, e non solo in Italia. Perché tocca assai da vicino il tema della crisi della democrazia rappresentativa come l’abbiamo sinora praticata in Europa. Il referendum pare diventare sempre più uno strumento da molte parti invocato come una panacea per fare di nuovo e per davvero del “popolo” il baricentro della sovranità politica. Rischiando di diventare una sorta di grimaldello per scardinare la logica della democrazia rappresentativa, i cui principi sono quelli su cui si regge il costituzionalismo moderno da quando è nato nella cultura europea, da Locke in poi. Il discorso è tremendamente delicato, e rischioso, oggi certamente impopolare, controcorrente. Ma c’è davvero da domandarsi, magari anche solo provocatoriamente, se la “democrazia referendaria”, che si vuole paladina dell’ideale della cosiddetta “democrazia diretta” vagheggiata da un altro grande personaggio della filosofia moderna, Rousseau, non possa finire con l’introdurre nella storia ormai vecchia di più di tre secoli della democrazia europea una sorta di “democrazia di Penelope”. I governi fanno leggi, rispettando i sacri principi della democrazia parlamentare, che vengono poi sempre più frequentemente disfatte e/o rifatte sulla base di “appelli al popolo” per via referendaria. Qualsiasi sia l’oggetto di quelle leggi. È questo un punto centrale nel ragionamento che forse sarebbe il caso le forze politiche avessero il coraggio di iniziare. Il tema non è solo quello delle maggioranze, talora tutt’altro che plebiscitarie, con cui vengono approvate decisioni attraverso referendum. Brexit docet. Ma ancora di più la natura della legge sottoposta a referendum. Che dire se si tratta di leggi che normano questioni di rilevante complessità, per giudicare delle quali con cognizione di causa nei dettagli, là dove “il diavolo si nasconde”, ci vogliono competenze e studi non alla portata di tutti? Referendum spesso dalle conseguenze enormi, che tuttavia possono per loro natura non essere passibili di comunicazione efficace e quindi di comprensione chiara,

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che si prestano invece a facili strumentalizzazioni: siamo sicuri che quegli “appelli al popolo” sono il modo davvero migliore per fare l’interesse ed il bene del popolo stesso? Che siamo poi tutti noi cittadini di una comunità politica, più o meno grande e numerosa, ognuno con il proprio grado di conoscenze dei diversi problemi da affrontarsi nel costruire condizioni accettabili per la vita associata. Di tutt’altra natura, e destinato ad esiti ben diversi, pare invece essere il ricorso all’istituto referendario quando si affrontino temi che sono di natura più propriamente etica che non strettamente politica o amministrativa. Come nel caso, per restare in Italia, del divorzio e dell’aborto. O delle questioni del fine vita, che il Parlamento non riesce a normare. Su temi di questo genere è giusto interpellare direttamente la coscienza di ciascuno, senza che questo delegittimi in alcun modo, né esplicitamente né implicitamente, la logica e le istituzioni della democrazia rappresentativa. Sulla crisi della quale nella società “liquida” contemporanea occorrerà peraltro riflettere con coraggio politico e radicalità di pensiero. E con urgenza. Prima di tutto da parte di élite politiche che sono andate sempre più velocemente perdendo legittimazione all’esercizio del potere rappresentativo. Per proprio esclusivo demerito. Senza illudersi che le scorciatoie referendarie siano la soluzione. Pag 17 Rimpatri degli stranieri irregolari, tutte le cose da fare di Piero Innocenti In un periodo in cui si è tornati a parlare, con particolare insistenza, di immigrazione, fenomeno ritenuto “...problema non solo di ordine pubblico ma di tenuta democratica del Paese...” (ministro dell’Interno Minniti, gennaio 2017), di riapertura dei Cie e di una loro collocazione regionale, di piani straordinari di controllo delle forze di polizia per “bonificare” il territorio dagli “irregolari”, spesso organizzatisi in gruppi autonomi delinquenziali o arruolati dalla criminalità locale, pare opportuno fare alcune precisazioni sui “rimpatri” degli stranieri, punto sul quale sono state dette, anche recentemente, nella polemica politica che ne è scaturita, alcune sciocchezze e molte approssimazioni, frutto di ignoranza. Il rimpatrio dei cittadini stranieri irregolari ha, quindi, un ruolo chiave in tale contesto attesa la necessità di assicurare effettività alle misure di allontanamento dal territorio nazionale, per conferire credibilità all’azione dei governi. E tuttavia, va sottolineato che le procedure per organizzare i servizi di rimpatrio non sono così semplici come si potrebbe immaginare e vanno osservate, rigorosamente, le (molteplici) disposizioni contenute in regolamenti, direttive comunitarie e le “linee guida” di un minuzioso manuale elaborato dal dipartimento della Pubblica sicurezza, nel 2012 (dopo le polemiche per i due cittadini algerini fotografati a bordo di un aereo e rimpatriati con vistosi cerotti sulla bocca e i polsi legati con una fascetta di plastica). Se, a livello Ue, è l’agenzia di Frontex che fornisce assistenza ai paesi membri per organizzare le operazioni di “rimpatrio congiunto” (un Fondo europeo assicura il cofinanziamento di tali attività), in Italia, il “rimpatrio forzato” ( si distingue da quello “volontario assistito” che riguarda gli immigrati che chiedono di tornare nel loro Paese, ma non hanno la possibilità di farlo), invece, viene organizzato dalla questura della provincia dove è stato rintracciato il destinatario della misura. È questo Ufficio che deve individuare il tipo di vettore e il relativo itinerario del rimpatrio, effettuando una “valutazione del rischio” dell’operazione per determinare l’eventuale necessità di una scorta di polizia. Non va trascurato, peraltro, lo stato di salute del “rimpatriando”. Se si deve procedere al rimpatrio di un consistente numero di stranieri della stessa nazionalità, la direzione centrale dell’Immigrazione della Polizia delle frontiere, può noleggiare un aeromobile (cosiddetto volo charter), laddove accordi di riammissione o semplici intese operative esistenti tra l’Italia e i Paesi interessati prevedano la possibilità di tale modalità di esecuzione del rimpatrio. Si è accennato alla “valutazione del rischio” che, nella sostanza, fa riferimento al profilo di “pericolosità” dello straniero da rimpatriare e che può essere desunta da molteplici fonti informative (documentazione amministrativa e giudiziaria, comportamento tenuto durante il trattenimento in un Cie o nel carcere, al momento del rintraccio, dell’identificazione, precedenti tentativi di rimpatrio falliti ecc.). Analoga, attenta valutazione va fatta in relazione all’itinerario di rimpatrio e al vettore prescelto (aereo, marittimo, terrestre). Peraltro, va tenuto presente che, quando si opta per il vettore aereo, occorre informare preventivamente la compagnia aerea sull’imbarco di tale passeggeri, utilizzando un apposito modello di “notifica” previsto dal Regolamento CE 622/2003 della Commissione europea del 4 aprile

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2003 in cui deve essere indicato anche il tipo di rischio valutato. La presenza di patologie, infine, può comportare la necessità di assicurare allo straniero adeguata assistenza sanitaria durante tutto il viaggio, prevedendo l’impiego di personale medico e/o infermieristico. In relazione, poi, al tipo di rischio valutato viene predisposta la scorta che è sempre assicurata nel caso di rischio alto e medio (se specificatamente motivato) mentre, nella ipotesi di rischio basso, di norma, non è necessaria. Nei rimpatri con vettore aereo, la composizione e la consistenza numerica della scorta di polizia “devono essere idonee ad assicurare un adeguato livello di sicurezza a bordo...” (in genere due agenti di polizia per ciascuna persona da rimpatriare) tenendo presente che “...il personale dev’essere abilitato a svolgere tale particolare tipologia di servizio...” (appositi corsi di formazione vengono riservati al personale della Polizia di Stato). Da tutto ciò si può facilmente dedurre quanto onerosi siano, dunque, tali servizi, sia sul piano delle risorse umane da impiegare (già ridotte da tempo) che su quello finanziario. Torna al sommario