Rassegna I quadrimestre 2007 - Campania · Napoli I, sent. 23 maggio 2007 n. 6586 – WWF Italia...

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Direzione: Vincenzo Baroni, Coordinatore dell’AGC Avvocatura Redazione: Almerina Bove, Maria Laura Consolazio, Beatrice Dell’Isola, Alba Di Lascio, Maria Filomena Luongo, Tiziana Monti, Rosaria Palma, Rosanna Panariello, Guido Maria Talarico Coordinamento: Almerina Bove Segreteria di redazione: Vincenza Sbordone Castillett, Giuseppe Piccolo Copertina e grafici a cura di Gaetano Russo I contenuti della presente Rassegna sono destinati ad uso interno all’Amministrazione. Qualunque utilizzo diverso, per estratti, è consentito soltanto dietro espressa autorizzazione.

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INDICE ANALITICO

GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA AMBIENTE INCLUSIONE ZONE DI PROTEZIONE NELLE AREE NATURALI PROTETTE

TAR Campania, Napoli, Sez. I, sent. 23 maggio 2007 n. 6586 (con nota di L. BUONDONNO)…………………………………………………………pag. 7

CONCORSI PUBBLICI BANDO DI CONCORSO – REQUISITO DI AMMISSIONE - CITTADINANZA ITALIANA - ONERE DI IMMEDIATA IMPUGNAZIONE DEL BANDO - ESCLUSIONE- APPLICAZIONE DELLA CLAUSOLA SECUNDUM LEGEM TAR Campania, Napoli, Sez. V, sent. 30 giugno 2007 n. 5847 (con nota di R. POLISANO)………………………………………………………...….pag. 10 ANNULLAMENTO BANDO DI CONCORSO - EFFETTO CADUCANTE SULLA GRADUATORIA ED IMPROCEDIBILITÀ DEI MOTIVI AGGIUNTI AVVERSO GLI ATTI CONSEGUENTI TAR Campania, Napoli, sez.III, sent. 23 maggio 2007 n. 6061 (con nota di A. BOVE)……………………………………………………...………..pag. 13 FARMACIE ASSEGNAZIONE SEDI FARMACEUTICHE - PROCEDIMENTO DI ASSEGNAZIONE IN GESTIONE PROVVISORIA DI SEDE FARMACEUTICA - RIFERIMENTI NORMATIVI – AMMISSIBILITÀ DELL’INTER- PELLO SIMULTANEO ANCHE PER L’ASSEGNAZIONE DI SEDE IN GESTIONE PROVVISORIA E ANCHE IN PRESENZA DI UNA VACANZA DI SEDE DA ASSEGNARE IN VIA DEFINITIVA – INAMMISSIBILITÀ - OSSERVAZIONI SUL PRINCIPIO “TEMPUS REGIT ACTUM”. Consiglio di Stato, sez.V, sent. 10 gennaio 2007 n. 50 (con nota di C. PALUMBO)………………………………………………..…………..pag. 17 REVISIONE PIANTA ORGANICA - NUOVA ISTITUZIONE – RIDISEGNAZIONE DEI CONFINI DELLE DESCRITTIVE SEDI FARMACEUTICHE – NATURA DISCREZIO-NALE DELL’ATTO REGIONALE – INFONDATEZZA – INAMMISSIBI-LITÀ TAR Campania, sez.V, sent. 11 maggio 2007 n. 4984 (con nota di C.PALUMBO)……………………………………………………………..pag. 21

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PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA EFFETTI SOSTANZIALI DELL’APPROVAZIONE DI UN ACCORDO DI PROGRAMMA E DISCIPLINA APPLICABILE. Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 18 gennaio 2007 n. 87/2006 (con nota di M. BILLI)………………………………………………………………….pag. 23

RISARCIMENTO DEL DANNO - PUBBLICO IMPIEGO - GIURISDIZIONE RISARCIMENTO DEL DANNO SUBÌTO IN CONSEGUENZA DI UN PROVVEDIMENTO REGIONALE ILLEGITTIMO ANNULLATO DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO CON SENTENZA PASSATA IN GIUDICATO – ASSOGGETTAMENTO DELLA PRETESA RISARCITORIA AL TERMINE DECADENZIALE DEL 15.9.00 EX ART. 69 D.LVO 165/2001- CAUSA DELLA PRETESA RISARCITORIA NEL RAPPORTO DI PUBBLICO IMPIEGO – ESCLUSIONE. TAR Campania, sez.III, sent. 23 aprile 2007 n. 4208 (con nota di R. SATURNO)…………………………………………………………………………………pag. 26 SANITÀ PUBBLICA RAPPORTO PROVVISORIO ACCREDITAMENTO – PRESTAZIONI EROGABILI - CAPACITÀ OPERATIVA MASSIMA - EROGAZIONE PRESTAZIONI TAC – AMPLIAMENTO QUALITATIVA C.O.M. – DINIEGO. TAR Campania, sez. I, sent. 11 luglio 2007 n. 651 (con nota di B. DELL’ISOLA)…………………………………………………….……pag. 28

GIURISPRUDENZA CIVILE

FERIE NON GODUTE DIRITTO ALLA MONETIZZAZIONE – FERIE NON GODUTE - ESCLUSO PER I DIRIGENTI – PROVA RICORRENZA ECCEZIONALI ED OBIETTIVE NECESSITÀ AZIENDALI . Tribunale di Benevento, Sezione Lavoro, sent. 9 marzo 2007 n. 1124 (con nota di R. DE GIROLAMO)……………………………………………..………….pag. 31

POSIZIONI ORGANIZZATIVE PUBBLICO IMPIEGO – CONTROVERSIE RELATIVE AL RICONOSCIMENTO DI POSIZIONE ORGANIZZATIVA – TEMPORANEITÀ E REVOCABILITÀ DELLA POSIZIONE – PRINCIPIO DELL’EQUIVALENZA DELLE MANSIONI SVOLTE. Corte di Appello di Napoli , Sez. Lavoro, sent. 20 giugno/16 agosto 2006 n. 4639 (con nota di E. MARTIRE)…………………………………………………..…………pag. 32

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PRESCRIZIONE PUBBLICO IMPIEGO – ISTANZA DI PAGAMENTO DI SOMME A TITOLO DI INDENNITÀ DI PIENA DISPONIBILITÀ DA PARTE DEL MEDICO CONVENZIONATO CON IL S.S.N. – PRESCRIZIONE QUINQUENNALE DEI CREDITI – ECCEZIONE DI PRESCRIZIONE PRESUNTIVA ED ESTINTIVA IN APPELLO. Corte di Appello di Napoli, Sez. Lavoro, sent. 13 Giugno/14 Luglio 2006 n. 4389 (con nota di A. DI LASCIO)…………………………………………….………………pag. 35 REINQUADRAMENTO PUBBLICO IMPIEGO – REINQUADRAMENTO NEL RUOLO DIRIGENZIALE A SEGUITO DI IMMISSIONE NEL RUOLO SOPRANNUMERARIO AD ESAURIMENTO DELLA REGIONE CAMPANIA – INFONDATEZZA ED INAMISSIBILITÀ DELLA DOMANDA. Corte di Appello di Napoli, Sez. Lavoro, sent. 1 agosto 2006 n. 4366 (con nota di A. DI LASCIO)……………………………………………………………pag. 36 RISARCIMENTO DANNI SENTENZA PARZIALE DI CONDANNA GENERICA AL RISARCIMENTO DEI DANNI PASSATA IN COSA GIUDICATA – ACCERTAMENTO DI POTENZIALE IDONEITÀ LESIVA DEL FATTO - GIUDIZIO PER LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO – PROVA DELL’ESISTENZA DEL FATTO LESIVO – NECESSITÀ – MANCANZA – INSUSSISTENZA DEL PRESUPPOSTO DELLA PRETESA RISARCITORIA – RIGETTO DELLA DOMANDA RISARCITORIA . Corte di Appello di Roma, Sezione Prima Civile, sent. 29 dicembre 2006 n. 292 (con nota di C. GRANDE)……………………………………………………………….pag. 38 SPESA FARMACEUTICA SPESA FARMACEUTICA – LEGITTIMATA PASSIVA A.S.L. – RAPPORTI A.S.L. REGIONE CAMPANIA – DIFETTO DI GIURISDIZIONE . Tribunale di Ariano Irpino, sent. 28 dicembre 2006 n. 638 (con nota di M. F. LUONGO)…………………………………………………………..pag. 40 MANSIONI E QUALIFICHE

MANCATO RICONOSCIMENTO GIUSTO INQUADRAMENTO LAVORATIVO – NATURA EXTRACONTRATTUALE DELL’AZIONE RISARCITORIA – INSUSSISTENZA DEI REQUISITI DI CUI ALL’ART. 2043 C.C. . Corte di Appello di Napoli, sent. 20 febbraio – 15 maggio 2006 n. 1506 (con nota di R. AMELIO) ……………………………………………………………..…………………… pag .42

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE

AUTONOMIA FINANZIARIA REGIONALE – QUESTIONE LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE INDENNITÀ TITOLARI ORGANI POLITICI REGIONALI – DETERMINAZIONE –COMPETENZA STATALE – ESCLUSIONE – COMPETENZA REGIONALE– SUSSISTENZA Corte Costituzionale, sent. 18 aprile 2007 n. 157………………………..…………pag. 46 FINANZE E TRIBUTI REGIONALI COMPARTECIPAZIONE REGIONALE IVA – DISCIPLINA MODALITÀ CORRESPONSIO-NE – POTESTÀ LEGISLATIVA STATALE – SUSSISTENZA Corte Costituzionale, sent. 14 giugno 2007 n. 194…………………………..……..pag. 46 IMPOSTA REDDITO PERSONE FISICHE –IRPEF DETERMINAZIONE BENEFICIARI DEL CONTRIBUENTE QUOTA CINQUE PER MILLE IRPEF – POTESTÀ LEGISLATIVA STATALE – SUSSISTENZA. Corte Costituzionale, sent. 6 giugno 2007 n. 202…………………….…………….pag. 47 REGIONE CAMPANIA - ORGANIZZAZIONE – ATTIVITÀ RICERCA DISCIPLINA FUNZIONI ORGANI REGIONALI - RISERVA POTESTÀ NORMATIVA STATUTARIA REGIONALE - SUSSISTENZA - ATTIVITÀ RICERCA IRCCS – CONTROLLO REGIONALE – INCOSTITUZIONALITÀ Corte Costituzionale, sent. 14 giugno 2007 n. 188………………………………….pag. 47 TRASPORTI – QUESTIONE INCIDENTALE LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE CONTRIBUTI DI ESERCIZIO – CONGUAGLI –– PROROGA TERMINE – INCOSTITU-ZIONALITÀ Corte Costituzionale, sent. 18 aprile 2007 n. 156…………………………………..pag. 48 PROFESSIONI - QUESTIONE LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE PROFESSIONI - MUSICOTERAPISTA - ISTITUZIONE – POTESTÀ LEGISLATIVA REGIONALE - INSUSSISTENZA Corte Costituzionale, sent. 19 dicembre 2006 n. 4240 (con nota di R. PANARIELLO)……………………………………………………………………..……….pag. 49

PARERI

D. LGS 152/2006 ART. 94 AREE DI SALVAGUARDIA ACQUE SUPERFICIALI – DISCIPLINA EDILIZIA RESIDENZIALE. PP 137/05 - 09/07…………………………………………………………………..pag. 51

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DETERMINAZIONE CANONE DI NATURA ENFITEUTICA E CAPITALE DI AFFRANCO TERRENI DI USO CIVICO PP/119 – 11 – 04/2007……………………………………………………………………..pag. 52 TRASFERIMENTO RAMO D’AZIENDA – SORTE DELLE AGEVOLAZIONI PREVIAMENTE CONCESSE. PP 0041-06-01/2007……………………………………………………………..……pag.55

PROCEDURA APERTA PER L’AFFIDAMENTO DEL SERVIZIO DI VIGILANZA ARMATA, GUARDIANIA, RECEPTION A BENI DI PROPRIETÀ REGIONALE E A STRUTTURE ADIBITE A UFFICI DELLA G.R. UBICATE NELL’AREA METROPOLITANA DI NAPOLI. LOTTI NA1 E NA2. PP 0001-10-00-2007………………………………………………….……………..pag.59

PAGAMENTO DI PRESTAZIONI ESEGUITE IN ASSENZA DI CONTRATTO SCRITTO. PP 15/01- 02/2007……………………………………………….……….…….……pag.61

RICHIESTA RIPERIMETRAZIONE DI AREE A RISCHIO - FRAZIONE POLITICA. PP 18/Z - 00/2007……………………………………………………………...……pag. 63 SCADENZA DEL CONTRATTO – POSSIBILITÀ DI PROROGA. PP 48/ 11-05/2007……………………………………………….…………………..pag. 65

GARA D’APPALTO PER L’AFFIDAMENTO DELLA REALIZZAZIONE DEL PROGETTO DI POTENZIAMENTO DELLA RETE INTEGRATA DI TELERILEVAMENTO DI DATI IDROMETEREOLOGICI DEL CENTRO FUNZIONALE DEL SETTORE PROGRAMMAZIONE INTERVENTI DI PROTEZIONE CIVILE SUL TERRITORIO AUTORIZZATA CON D. G. R. N. 1860/2005 (SECONDO LOTTO FUNZIONALE LEGGE 267/98-STRALCIO PER LA CAMPANIA) PP 215/05-03/2006……………………………………………………………..…….pag. 67

APPROFONDIMENTI

ANCORA IN TEMA DI ATTIVITÀ SOLLECITATORIA, AD ISTANZA DI TERZI, PER L’ATTUAZIONE DEGLI ACCORDI DI PROGRAMMA - UN’ OCCASIONE PERDUTA (di FABIO PIERO FRACASSO)……………………………………………………………pag. 71 LA COMUNICAZIONE DEI MOTIVI OSTATIVI ALL’ACCOGLIMENTO DELL’ISTANZA (di ANNARITA VACCHIANO)……………………………………………………..……..pag. 77 LA RIFORMA DEL NUOVO PROCESSO CIVILE - PARTE SECONDA: I PROCEDIMENTI SPECIALI ( di MONICA LAISO e GAETANO CENNAMO)………………………………………………….pag. 87

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Giurisprudenza Amministrativa AMBIENTE INCLUSIONE ZONE DI PROTEZIONE NELLE AREE NATURALI PROTETTE

TAR Campania, Sez. Napoli I, sent. 23 maggio 2007 n. 6586 – WWF Italia ONLUS (avv.ti M.Balletta e R. Razzano) c/ Regione Campania (avv. M. L. Schiano di Colella Lavina e L.Buondonno) e Comune di Piano di Sorrento (prof. avv. Ferdinando Pinto)

Alle misure di sospensione di atti a contenuto generale deve riconoscersi efficacia

erga omnes in ragione del loro carattere anticipatorio degli effetti della decisione sul merito.

Le ZPS devono ritenersi incluse nel novero delle Aree naturali protette al momento dell’emanazione dei decreti assessorili impugnati ed i relativi progetti sono da assoggettarsi alla procedura di VIA obbligatoria (ex art. 1 comma 4 D.P.R 12.04.1996) e non a Screening.

Con la sentenza che si commenta il Tribunale adito ha ritenuto fondate le censure

del ricorrente, con le quali si è dedotto che i progetti riguardanti la messa in sicurezza del costone roccioso di Marina di Cassano fossero da assoggettare alla procedura di VIA obbligatoria (e non a semplice Screening) ai sensi di quanto disposto dall’art.1, comma 4, DPR 12.4.1996, in quanto riconducibili alle tipologie progettuali di cui all’allegato B del suddetto D.P.R. e localizzati in una Zona di Protezione Speciale e dunque in area da ritenersi inclusa nel novero delle aree classificate quali Aree Naturali Protette alla luce della normativa vigente. Conseguentemente il giudice di prime cure ha pronunciato l’annullamento dei decreti dell’Assessore regionale alla Tutela dell’Ambiente nonché della determinazione conclusiva della Conferenza di Servizi per omessa attivazione e svolgimento della Procedura di VIA. La sentenza in esame invero si fonda sul presupposto che la distinzione degli interventi da sottoporre a VIA obbligatoria o alla procedura preliminare di Screening, è stata operata dal D.P.R. 12.04.1996, anche in funzione della localizzazione degli stessi in area classificata quale area naturale protetta ai sensi della L. n. 394/91. Il citato atto di indirizzo nazionale, infatti, suddivide le opere in due allegati “A” e “B”, disponendo, in particolare, per i progetti riconducibili alle tipologie elencate nell’allegato B – come quelli per cui è causa (lettere q) ed n) di detto allegato) - la procedura di VIA obbligatoria per l’ipotesi in cui gli stessi ricadano, anche parzialmente, in aree naturali protette (art. 1 comma 4) ed invece la procedura preliminare di Screening laddove non localizzati nelle predette aree (art.1 comma 6). In considerazione della localizzazione degli interventi oggetto del giudizio che ha coinvolto l’amministrazione in Zona di Protezione Speciale, la pronuncia del giudice di prime cure si è incentrata sulla questione inerente l’inclusione delle Zone di Protezione Speciale, ai sensi della Dir. 79/409/CEE, nel novero delle Aree Naturali Protette nazionali ex L. n. 394/91.

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Per chiarire i termini della questione che ci occupa è opportuno precisare che sul tema si sono susseguiti nel tempo atti classificatori di segno radicalmente opposto. Solo in un primo momento infatti, le ZPS - concorrenti a formare la rete ecologica europea cd. Natura 2000 - sono state classificate quali aree naturali protette ex L. 394/91 con deliberazione del Comitato per le Aree Naturali Protette del 2 dicembre 1996 (Gazz. Uff. n.139 del 17.6.1997). Tale decisione è stata successivamente annullata con il Decreto del Ministro dell’Ambiente del 25 marzo 2005 recante l’“annullamento della deliberazione 2 dicembre 1996 del comitato per le aree naturali protette; gestione e misure di conservazione delle Zone di protezione speciale (ZPS) e delle Zone speciali di conservazione (ZSC))”, che ha determinato l’esclusione delle Zone in parola dal novero delle aree naturali protette. Nel periodo in cui è stata attivata e si è conclusa la procedura regionale riguardante l’esame del progetto di salvaguardia del costone di Marina di Cassano, le Zone di Protezione Speciale non erano classificabili quali “aree naturali protette”, sicché i progetti in questione sono stati legittimamente sottoposti alla procedura di Screening, prescritta dall’ art. 1 comma 6 D.P.R. 12.4.1996 per gli interventi “elencati nell’allegato B che non ricadono in aree naturali protette”. Il TAR tuttavia è pervenuto ad opposte conclusioni, sulla base della dedotta intervenuta sospensione cautelare del ripetuto decreto ministeriale di annullamento, pronunciata dal TAR Lazio, Sez. II bis (con ordinanza n. 6856 del 24 novembre 2005, confermata dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 783/2006) nell’ambito di un diverso giudizio peraltro non ancora definito nel merito. In particolare, il tribunale ha ritenuto rilevante e produttiva di effetti la suddetta ordinanza cautelare del TAR Lazio, in virtù dell’efficacia erga omnes da riconoscersi alle misure di sospensione di atti a contenuto generale in ragione del loro carattere anticipatorio degli effetti della decisione sul merito. Di conseguenza il Giudice ha sostento l’inclusione delle ZPS nel novero delle Aree naturali protette al momento dell’emanazione dei decreti assessorili impugnati e l’assoggettamento dei progetti in questione alla procedura di VIA obbligatoria (ex art. 1 comma 4 D.P.R 12.04.1996) e non a Screening. La tesi prospettata dal TAR Partenopeo, circa l’efficacia erga omnes delle pronunce cautelari nonché le conclusioni che se ne fanno derivare non sono state condivise dai Giudici di Palazzo Spada. La VI Sez. del Consiglio di Stato infatti, nel pronunciarsi in merito alla domanda cautelare proposta con il ricorso in appello avverso la pronuncia in parola, con l’ordinanza, resa in Camera di Consiglio, n. 4463/2007, nell’ accogliere l'istanza cautelare sospendendo l’efficacia della sentenza in esame ha espressamente affermato che: “l’istanza cautelare è suscettibile di positiva valutazione quanto al fumus, avuto particolare riguardo al profilo dell’efficacia soggettivamente limitata dalle misure cautelari stante la relativa connessione al periculum in mora dedotto dal ricorrente”. La sentenza in commento, in particolare, pur affermando che “Sui limiti soggettivi dei provvedimenti cautelari che sospendono atti ad efficacia generale si registrano opposti orientamenti, ora sostenendosene l’efficacia erga omnes (in merito al quale non è specificato alcun riferimento dottrinario o giurisprudenziale), ora invece ritenendola limitata inter partes siccome circoscritta al solo interesse dedotto in giudizio”, ritiene corretta “la prima soluzione”.

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Tale tesi si pone tuttavia in contrasto con l’essenza stessa della tutela cautelare, di natura provvisoria, strumentale e interinale, la cui funzione è quella di preservare medio tempore le ragioni del ricorrente in attesa della pronuncia sul merito ed i cui effetti sono destinati naturaliter, ed in conformità con le regole generali, a prodursi solo limitatamente alle parti del singolo giudizio. I limiti soggettivi di efficacia delle misure cautelari così ricostruiti, risultano d’altronde perfettamente in linea con gli stessi presupposti ex lege del fumus boni iuris e soprattutto del periculum in mora. Questi ultimi, infatti, impongono una delibazione del tutto sommaria sulla fondatezza della pretesa che è giustificata solo in quanto vi sia la necessità di tutelare il ricorrente rispetto ad un pregiudizio grave ed irreparabile dallo stesso dedotto ed è perciò strettamente connessa alle peculiarità del caso trattato. Per tale ragione non può in alcun modo ammettersi un’estensione ultra partes degli effetti dei provvedimenti in tal sede emessi. Non si può inoltre tralasciare di considerare che al riconoscimento dell’efficacia erga omnes alle pronunce “sommarie” emesse in sede cautelare consegua inevitabilmente la lesione del diritto di difesa dei terzi ai quali, non avendo partecipato al giudizio e non avendo altresì avuto conoscenza del provvedimento, è stata preclusa ogni forma di tutela giurisdizionale. Sicché l’ordinanza di sospensione resta atto interno al processo in cui viene chiesta e l’attribuzione alla stessa – seppur in riferimento ad atti a contenuto generale - di una efficacia erga omnes viene a porsi al di là dello scopo stesso di siffatta tutela. È alla sola sentenza di annullamento passata in giudicato – la quale contiene una statuizione definitiva e non collegata al periculum in mora - che viene eccezionalmente a riconoscersi efficacia erga omnes laddove la stessa abbia ad oggetto un atto a contenuto generale. In tal senso si è espressa autorevole dottrina, che nell’affermare la valenza, per le misure cautelari, delle regole generali sull’efficacia inter partes, viene a rimarcare come “l’ammissione di una efficacia erga omnes della sospensiva è in rotta di collisione con uno dei principi cardine della tutela cautelare, ossia la sua inerenza alla posizione specifica del ricorrente, e segnatamente al periculum da questo denunciato”. Sicchè “l’estensione a terzi dell’efficacia della sospensiva necessita, anche per gli atti indivisibili, di una determinazione amministrativa discrezionale” (Caringella F., Corso di diritto processuale amministrativo, Milano 2005, 1037) Anche la giurisprudenza. si è posta in più occasioni in senso radicalmente opposto a quanto prospettato sul tema dalla sentenza gravata, Segnatamente la Suprema Corte di Cassazione, con una pronuncia del 2003, ha ritenuto di cassare una sentenza del giudice di merito emessa “sull’erroneo presupposto della efficacia erga omnes del provvedimento di sospensione del D.M. 13 luglio 1993, emesso dal giudice amministrativo in un giudizio tra le parti”. Ciò in quanto “il provvedimento di sospensione dell’esecuzione dell’atto amministrativo ha natura strumentale e funzione cautelativa del tutto provvisoria, in quanto volto ad evitare che la futura pronuncia del giudice possa restare pregiudicata nel tempo necessario ad ottenerla; ne consegue che la disposta sospensione – che non fa venire meno l’atto sospeso e nemmeno la sua validità, né esercita una funzione ripristinatoria della situazione precedente, ma soltanto impedisce temporaneamente, con efficacia ex nunc, la possibilità di portare l’atto ad ulteriore esecuzione - è destinata a perdere ogni efficacia e vigore a seguito della

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decisione con cui si conclude il giudizio di fronte al giudice amministrativo, nella quale essa rimane assorbita e caducata con l’esaurimento della funzione cautelare che la caratterizza”. (Cass. Civ. sez. lavoro, 9 agosto 2003 n.12051; in senso conforme Cass. Civ., sez. I, 21 febbraio 2001 n.2499). Nel medesimo senso si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa per la quale non esistono ostacoli logici e giuridici a concepire la sospensione dell’esecuzione di un atto a contenuto generale come naturaliter limitata tra le parti in causa, per cui qualora i ricorrenti non risultino gli stessi che abbiano impugnato la medesima deliberazione, ottenendone la sospensione, è escluso che costoro possano beneficiare di una pronuncia cautelare resa inter alios, dovendosi ritenere che debbano soggiacere alle prescrizioni della P.A., adottate in esito ad una sentenza di merito (TAR Campania Salerno, 31 luglio 1998, n. 453). avv. Lidia Buondonno

CONCORSI PUBBLICI BANDO DI CONCORSO – REQUISITO DI AMMISSIONE - CITTADINANZA ITA-LIANA - ONERE DI IMMEDIATA IMPUGNAZIONE DEL BANDO - ESCLUSIONE- APPLICAZIONE DELLA CLAUSOLA SECUNDUM LEGEM TAR Campania, Napoli, Sez. V, sent. 30 giugno 2007 n. 5847

I bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato; tale principio patisce eccezione nei soli casi di clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione, le quali sono a tal punto chiare e cogenti da rendere subito evidente che dalle stesse consegue inevitabilmente l’impossibilità, per l’interessato, di accedere alla procedura ed il conseguente arresto procedimentale. In sede di applicazione del bando, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2 del D.Lgs. 25 luglio 1998 n. 286 il quale ha definitivamente affermato il principio di parità di trattamento e di eguaglianza per i lavoratori extracomunitari, non è possibile per la P.A. prescindere dalla suddetta norma, sicché è da ritenersi che hanno il requisito di partecipazione non solo i cittadini italiani ma anche quanti sono ad essi ex lege equiparati. La sentenza in commento offre taluni interessanti spunti di riflessione in ordine alla vexata quaestio delle modalità di impugnazione dei bandi di concorso nonché in materia di interpretazione e applicazione delle clausole nei medesimi contenuti.

Nel caso in esame, una cittadina extracomunitaria aveva agito per l’annullamento del provvedimento di esclusione dalla partecipazione agli esami di idoneità allo svolgimento della professione di direttore tecnico di agenzia di viaggi e turismo nonché, ove occorrente, del relativo avviso di indizione della sessione di esami. Tale provvedimento di esclusione aveva quale sua unica giustificazione la circostanza che la ricorrente era priva della cittadinanza italiana o di altri stati membri dell’unione europea così come invece richiesto dall’avviso suddetto.

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L’adito TAR Campania ha ritenuto, in via preliminare, ammissibile il ricorso ancorché non fosse stato immediatamente impugnato l’avviso, nella parte in cui prevedeva l’ammissione alla procedura dei soli soggetti aventi cittadinanza italiana o di altri stati membri dell’Unione Europea. Sul punto il Collegio - richiamato il tradizionale orientamento interpretativo in materia di impugnativa di bandi di gara, e precisato che all’onere di immediata impugnazione sono soggette le “sole clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione che siano a tal punto chiare e cogenti da rendere subito evidente che dalle stesse consegue inevitabilmente l’impossibilità, per l’interessato, di accedere alla procedura” – ha ritenuto, in modo invero non del tutto intelligibile, che la clausola suddetta, pur inerente ad un requisito di ammissione alla selezione, non presentasse i suddetti caratteri di chiarezza e univocità, ragion per cui non poteva intendersi come immediatamente lesiva dell’interesse della ricorrente con conseguente onere di tempestiva impugnazione. A sostegno della suddetta conclusione il TAR ha addotto le seguenti argomentazioni: 1) la prescrizione dell’avviso non risultava accompagnata da una esplicita comminatoria di esclusione; 2) dal punto di vista interpretativo, ben poteva ritenersi che - evidentemente nel silenzio circa l’esclusione dei cittadini extracomunitari o di espressa deroga alla normativa vigente- la stessa dovesse “essere letta ed interpretata quale irrilevante e tralaticia ripetizione di clausole di bandi precedenti emanati prima dell’entrata in vigore dell’art. 2 del D.Lgs. 286/98” recante il principio di parità di trattamento e di eguaglianza per i lavoratori extracomunitari. In ogni caso, poi, sempre secondo le deduzioni del TAR partenopeo, “in sede di applicazione del bando non sarebbe possibile prescindere dalla norma da ultimo citata (art. 2 D.Lgs 286/98) sicché sarebbe comunque inevitabile ritenere che hanno il requisito di partecipazione non solo i cittadini italiani ma anche quanti, come la ricorrente, sono ad essi ex lege equiparati”. Nel merito il ricorso è stato accolto e per l’effetto il Tar, senza procedere alla caducazione della clausola impugnata, ha annullato il provvedimento di esclusione della ricorrente sulla base della ritenuta operatività nel caso di specie della “garanzia legislativa di parità di trattamento e piena eguaglianza dei diritti per i lavoratori extracomunitari rispetto ai lavoratori italiani” ex art. 2 del D.lgs.286/98 in mancanza di una specifica deroga normativa per il settore di attività cui l’avviso si riferiva. La pronuncia in commento pur nella sua brevità, presenta, come è dato subito osservare, profili di rilevante interesse affrontando tematiche alquanto dibattute. In materia di impugnazione dei bandi di concorso, come è noto, si era venuto a delineare a partire dagli anni 90’ un notevole contrasto giurisprudenziale.

A fronte di un indirizzo consolidato, in forza del quale, in applicazione dei principi di attualità della lesione e dell’ interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., l’immediata impugnazione del bando di gara o di concorso era da ritenersi ammissibile e necessaria solo in relazione alle clausole valevoli a precludere la partecipazione dell’interessato alla procedura1, si erano venuti a formare diversi orientamenti del tutto antitetici tra di loro. Un primo orientamento ampliava le ipotesi nelle quali l’interessato alla procedura era onerato dall’immediata impugnazione delle clausole del bando asseritamene lesive, 1 Cons. Stato, Sez V, 18 marzo 1991, n. 276; Id. Sez. V, 31 maggio 1994, n. 905; Id. Sez. V, 19 settembre 1995, n.1319; Id., Sez. V, 29 gennaio 1999 n. 90; Sez IV, 27 marzo 2002 n.1747.

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ritenendo possibile la sussistenza di un autonomo interesse all’impugnativa, distinto da quello a conseguire l’aggiudicazione, come quello inerente la mera condizione di concorrente e la connessa pretesa alla legittimità delle regole ed operazioni di gara o altresì a veder limitato il numero di partecipanti alla gara o alla preventiva definizione dei parametri di valutazione delle offerte e dei criteri di aggiudicazione1.

Per un indirizzo del tutto contrapposto, invece, l’interessato non era mai onerato all’impugnativa immediata delle clausole del bando, potendo sempre impugnare le medesime congiuntamente all’atto applicativo, in quanto solo da esso sorgerebbe una lesione attuale della sfera soggettiva dell’interessato2. Secondo un orientamento ancora diverso, infine, il soggetto leso non sarebbe affatto onerato dall’impugnativa delle clausole del bando asserite come illegittime ben potendo il giudice, nell’esame dell’impugnazione del provvedimento lesivo sulla base di tali clausole emanato, disapplicare le stesse ove non conformi a normativa3.

Con decisione n.1/2003, l’Adunanza Plenaria del C.d.S. ha composto il conflitto facendo leva sull’esigenza di una corretta applicazione del criterio dell’interesse ad agire, quale presupposto di ammissibilità del ricorso, inteso sia come interesse sostanziale che processuale, e caratterizzantesi per i requisiti della personalità e attualità e, correlativamente, dalla configurabilità di una lesione non meramente potenziale, ma concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente; sulla base di tale criterio si è pertanto ritenuto di confermare l’orientamento tradizionale e di circoscrivere l’onere di immediata impugnazione in riferimento alle sole clausole recanti i requisiti di ammissione alla gara, giacché attinenti a situazioni e qualità del soggetto antecedenti il bando e totalmente indipendenti dalle vicende successive della procedura e dunque idonee a generare una lesione immediata ed attuale della situazione soggettiva dell’interessato.

Va inoltre precisato che - come ribadito nella stessa sentenza in commento- l’Adunanza Plenaria, ai fini dell’impugnativa delle stesse clausole impeditive dell’ammissione, ha ritenuto fondamentale la circostanza che le medesime si presentino a tal punto chiare e cogenti da rendere subito evidente che dalle stesse consegua l’impossibilità, per l’interessato, di accedere alla procedura ed il conseguente arresto procedimentale. Il Supremo Consesso ha anche introdotto una ulteriore limitazione facendo proprio l’orientamento che richiede ai fini dell’ammissibilità dell’impugnativa la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, in quanto valevole ad evidenziare l’interesse concreto ed attuale a ricorrere di un soggetto che altrimenti rimarrebbe indifferenziato portatore di un interesse non qualificato ei non giuridicamente rilevante alla legalità/correttezza dell’azione amministrativa.

La decisione in commento non affronta poi, espressamente, l’ulteriore profilo della possibilità da parte del Giudice Amministrativo di disapplicare, in assenza di impugnazione, le clausole dei bandi di gara contrastanti con previsioni normative, in

1 Cfr. Cons. St, sez V, 23 maggio 2000, n. 2990 favorevole all’immediata impugnazione della clausola concernente il calcolo dlla soglia di anomalia delle offerte; Cons. St. sez V 24 dicembre 2001, n. 6386 nella quale si è ritenuto che l’effetto lesivo emergente dai criteri di valutazione delle offerte stabiliti dal Bando di gara ha carattere di immediatezza e deve essere fatto valere nel termine di decadenza con l’impugnazione diretta del bando. 2 Cons. St, Sez. IV, ordinanza 10 aprile 1998, n. 582. 3 TAR Lombardia - Milano, sez. III, 2 aprile 1997, n.354; Id., 5 maggio 1998 n. 922.

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analogia a quanto oramai ammesso in relazione alle previsioni regolamentari contrastanti con norme di grado superiore. Va detto, peraltro, che per consolidato orientamento del Consiglio di Stato, di recente ribadito da Ad. Plen. n. 3/2005, tale possibilità è da ritenersi insussistente, ragion per cui in capo al Giudice, in assenza di valida impugnativa della previsione del bando di gara, non è configurabile un siffatto potere, come del resto anche per l’Amministrazione, la quale ove non ritenga di annullare la clausola in via di autotutela è tenuta, in fase di gara, a darvi pedissequa applicazione. A mitigare la rigidità del principio la giurisprudenza ha sempre però affermato che le clausole di gara, laddove si presentino ambigue, possano e debbano comunque essere interpretate nel senso della loro conformità a legge (per tutte Ad. Plen., ord. n. 1/98). Nel caso di specie il TAR Campania ha ritenuto, in primo luogo, che la clausola dell’avviso di concorso secondo la quale nella domanda il candidato deve indicare di essere in possesso della cittadinanza italiana ovvero di uno qualsiasi degli Stati membri non presentasse i suddetti caratteri di univocità e chiarezza in ordine all’esclusione dei cittadini extracomunitari e che perciò non fosse comunque soggetta all’onere di tempestiva impugnazione.

Il TAR medesimo, d’altra parte, atteso che l’art. 2 del D.L.vo n. 286/1998 garantisce in via generale piena uguaglianza di diritti tra lavoratori italiani e lavoratori extracomunitari, ha ritenuto che pur contemplando la clausola in contestazione solo i “cittadini italiani”, in sede di applicazione del bando non sarebbe comunque possibile prescindere da tale previsione normativa, in quanto non espressamente derogata. Questo attraverso un’operazione, nel caso di specie, di vera e propria integrazione legale delle previsioni del bando più ancora che di interpretazione estensiva secundum legem, in conformità peraltro al principio secondo cui “norme legislative o regolamentari vigenti alla data di emanazione del bando devono essere applicate ancorché non richiamate espressamente”1.

Ciò a dimostrazione che la giurisprudenza amministrativa, pur nella rigidità dei principi in materia di impugnativa di bandi enunciati, dispone comunque di ampi spazi, attraverso il ricorso agli strumenti dell’interpretazione o dell’integrazione secundum legem, per garantire, almeno fin dove possibile, la legittimità sostanziale delle procedure. pr. avv. Rosalia Polisano ANNULLAMENTO BANDO DI CONCORSO - EFFETTO CADUCANTE SULLA GRADUATORIA ED IMPROCEDIBILITÀ DEI MOTIVI AGGIUNTI AVVERSO GLI ATTI CONSEGUENTI TAR Campania, Napoli, sez.III, sent. 23 maggio 2007 n. 6061 – **** (avv. Valerio Barone) c/ Regione Campania (avv. Almerina Bove).

L’annullamento del bando di un concorso comporta, per logica consequenzialità, la caducazione automatica di tutti gli atti che in quello annullato trovano il loro

1 C.d.S., Sez. V, 30.10.1997 n. 1216

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antecedente necessario e cioè della graduatoria medio tempore formata e di tutti gli ulteriori atti successivi (TAR Lazio, Roma, sez.I, 17 ottobre 2006, n.10434 e Consiglio di stato, sez.VI, 27 marzo 2003, n.1591 e sez.V, 10 aprile 2000, n.2062 e 26 settembre 2000, n.5092).

Ne consegue l’improcedibilità per carenza sopravvenuta di interesse sia dei primi che dei secondi motivi aggiunti, con i quali erano stati impugnati tutti gli atti consequenziali (rispettivamente, il provvedimento di esclusione e la graduatoria, n.d.r.), ormai caducati.

La sentenza in rassegna si segnala in quanto esprime la posizione da ultimo assunta dal TAR Campania in ordine al tema, delicato quanto particolarmente controverso nella giurisprudenza amministrativa, delle vicende processuali inerenti alle procedure di concorso o di gara, sotto il particolare profilo dei rapporti tra l’impugnativa del bando e la necessità o meno di impugnare - a mezzo di motivi aggiunti - anche gli atti ad esso consequenziali.

Nella fattispecie in esame, una dipendente regionale, iscritta nei Ruoli della Giunta, aveva impugnato il bando di un concorso indetto dal Consiglio regionale per la copertura di posti dirigenziali nella parte in cui lo stesso circoscriveva la partecipazione ai soli dipendenti iscritti nei ruoli del Consiglio regionale. All’originario ricorso aveva fatto seguito la notifica di primi motivi aggiunti, avverso il provvedimento di esclusione dal concorso, nonché di successivi motivi aggiunti, avverso la graduatoria finale. I primi motivi aggiunti, peraltro, erano stati correttamente notificati alla Regione Campania, nonché ad un controinteressato, nel proprio domicilio; i successivi, con i quali veniva impugnata la graduatoria del concorso, invece, erano stati notificati, oltre che all’Amministrazione, ai vincitori del concorso non nel proprio domicilio, né a mani proprie, bensì presso la sede del Consiglio regionale quale luogo di lavoro. I secondi motivi aggiunti presentavano, pertanto, un evidente vizio di notifica, in ossequio al principio, pacifico nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui “è inammissibile il ricorso giurisdizionale notificato ad un controinteressato, pubblico dipendente, presso la P.A. di servizio, non a mani proprie, bensì a persona diversa dal destinatario, ancorchè autorizzata a ricevere le notificazioni solo per conto della predetta P.A., non potendosi applicare l’art.139, comma 2, c.p.c., che concerne le notificazioni a mani di persona addetta all’ufficio e che si riferisce esclusivamente agli uffici privati, cioè ai complessi organizzati rientranti nella sfera di disponibilità dei soggetti notificandi”(ex multis, Cons. Stato, sez.IV, 9 novembre 2005, n.6255; 22 settembre 2005, n.4967).

Il Collegio partenopeo ha deciso la controversia ritenendo fondato il ricorso introduttivo sulla scorta della ritenuta illegittimità della determinazione di indizione del concorso e del relativo bando e ravvisando, sulla scorta della massima riportata in epigrafe, di non dover esaminare la ritualità dei motivi aggiunti in quanto divenuti improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse. Tanto, sul presupposto che risultavano automaticamente travolti dall’annullamento del bando tanto il provvedimento di esclusione quanto quello recante l’approvazione della graduatoria.

Si è sopra anticipato, peraltro, che il tema oggetto dell’indicata massima risulta tutt’altro che pacifico nella giurisprudenza.

All’orientamento espresso dalla sentenza in rassegna e dalle pronunce dalla stessa richiamate (il riferimento è, in particolare, a Consiglio di Stato, sez.VI, 27 marzo 2003,

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n.15911, e sez.V, 10 aprile 2000, n.20622 e 26 settembre 2000, n.5092, nonché a TAR Lazio, Roma, sez.I, 17 ottobre 2006, n.104343), invero, si contrappone quello secondo cui la proposizione di ricorso giurisdizionale avverso il bando di gara o di concorso non esonera il ricorrente dal proporre rituali motivi aggiunti avverso i successivi atti della procedura (approvazione della graduatoria, aggiudicazione della gara).

Così, anche recentemente è stato affermato che “l’impugnabilità degli atti preparatori immediatamente lesivi, allo scopo di garantire un’immediata tutela giurisdizionale, anche cautelare, mediante ammissione con riserva a gare, esami e concorsi, non si traduce in un esonero dal dovere di impugnare anche l’atto finale e conclusivo del procedimento”4, all’uopo rilevando che sebbene la giurisprudenza abbia ammesso da tempo la immediata impugnabilità degli atti preparatori immediatamente lesivi, allo scopo di garantire un’immediata tutela giurisdizionale, anche cautelare, mediante ammissione con riserva a gare, esami e concorsi, tuttavia tale possibilità non può tradursi in un esonero dall’impugnativa dell’atto finale del procedimento, e ciò in quanto, da un lato, l’anticipazione della tutela di impugnazione non costituisce una deroga alla regola generale secondo cui va impugnato l’atto finale e conclusivo del procedimento; dall’altro in quanto la circostanza che l’atto finale sia affetto da invalidità derivata non esclude che tale invalidità debba essere fatta valere con i rimedi tipici del processo impugnatori, a pena del consolidarsi dei suoi effetti; dall’altro ancora, in considerazione dell’esigenza di tutela dei controinteressati, di solito non individuabili in relazione all’atto preparatorio.

Secondo il descritto orientamento, si può al limite consentire alla non necessità dell’impugnazione dell’atto finale, laddove sia stato già annullato quello preparatorio, soltanto quando fra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come ineludibile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti: il che non si verifica, 1 “In generale si ritiene che la sentenza di annullamento del provvedimento amministrativo, creando l’obbligo nella p.a. di ripristinare la situazione esistente prima dell’emanazione dell’atto annullato, ha effetto caducante nei confronti di tutti gli atti che in quello annullato trovano il loro antecedente necessario; pertanto, il ricorrente vittorioso non è tenuto a seguire tutti gli sviluppi del procedimento amministrativo e ad impugnare gli atti conseguenziali, né ha l’onere di ricercare tutti i c.d. «controinteressati successivi» - ossia quei soggetti che per effetto di quegli atti medesimi vengano a trovarsi in una situazione giuridica di vantaggio - pur se la mancata impugnazione può determinare l’eventuale opposizione di terzo proprio da parte di questi soggetti che non hanno partecipato al giudizio sul provvedimento antecedente e vengono privati del loro vantaggio in virtù dell’annullamento di quest’ultimo (nella specie, è stato affermato che l’impugnazione del bando di concorso non obbliga il ricorrente a seguire gli sviluppi della procedura e ad impugnare anche le graduatorie e le nomine, atti strettamente conseguenziali a quello gravato e travolgibili per effetto dell’annullamento di quest’ultimo). (C. Stato, sez. V, 26-09-2000, n. 5092; C. Stato, sez. V, 24-05-1996, n. 592)”. 2 “L’annullamento giurisdizionale del provvedimento di esclusione dal concorso comporta la caducazione degli atti successivi, inclusa la graduatoria e la approvazione dei risultati del concorso, dovendosi procedere alla rinnovazione integrale delle prove, poiché non è consentito sottoporre a prove separate il candidato escluso, anche per il rispetto del principio della par condicio dei candidati (Sez. V., 12 luglio 1996, n. 858; 11 dicembre 1992, n. 1447; Sez. II, 10 maggio 1995, n.1126)”. 3 Tale pronuncia, peraltro, pur affermando che “annullamento del bando comporta l’automatica caducazione della graduatoria medio tempore formata”, riguarda, in realtà, fattispecie in cui la ricorrente aveva , con autonomi ricorsi poi riuniti, impugnato sia il bando che la graduatoria, e- invece di dichiarare improcedibile il secondo, in coerenza con il principio della caducazione automatica- dichiara di accogliere entrambi i ricorsi. 4 Così, testualmente, Cons. di Stato, sez.V, 13 luglio 2006, n.4416, in termini, Cons. di stato, sez.V, 23 marzo 2004, n.1519

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peraltro, con riferimento al rapporto intercorrente tra bando di concorso o di gara e provvedimento di approvazione della graduatoria o dell’aggiudicazione, le quali non si pongono, rispetto all’esclusione di un concorrente, in rapporto di consequenzialità diretta ed immediata1.

Un orientamento intermedio, infine, ritiene che non possa ravvisarsi un effetto di “caducazione” automatica degli effetti di un provvedimento amministrativo, in quanto, in ossequio all’esigenza di certezza del diritto ed a vari principi del diritto amministrativo, l’atto autoritativo può perdere effetti solo quando è annullato (in sede giurisdizionale o di autotutela); e ravvisa tuttavia il dovere per l’Amministrazione di rimuovere, in sede di esecuzione del giudicato, il provvedimento finale, emesso sulla concorrente base di quello annullato2.

A favore dell’orientamento che ravvisa l’onere di impugnativa dell’atto conclusivo del procedimento, autorevole dottrina3 ha recentemente rilevato che la tesi contraria “urta con alcuni principi fondamentali (sostanziali e processuali) del diritto amministrativo”, e con l’art.24 della Costituzione- che non consente che una pronuncia arrechi diretto pregiudizio a chi non si sia potuto difendere- in quanto preclude la tutela giurisdizionale di coloro che, all’esito del procedimento, hanno ottenuto uno status o una concreta utilità (la nomina a pubblico dipendente o la stipula del relativo contratto, l’aggiudicazione di un appalto, la proclamazione ad una carica pubblica); ammette che vi siano processi amministrativi in assenza dei veri controinteressati, cui dovrebbe notificarsi il ricorso nel caso di rituale impugnazione del provvedimento conclusivo del procedimento4; nega il rilievo da attribuire ai provvedimenti conclusivi dei procedimenti e di natura autoritativa, i cui effetti possono essere rimossi in sede giurisdizionale solo se ritualmente impugnati.

Secondo la riportata dottrina, dunque, l’atto conclusivo del procedimento deve essere impugnato con autonomo ricorso ovvero con motivi aggiunti, in ogni caso da notificarsi necessariamente al cd. controinteressato successivo, onde porre quest’ultimo nelle condizioni di partecipare al giudizio facendo valere le proprie ragioni, e di appellare la pronuncia eventualmente sfavorevole.

Proprio in ordine all’impugnativa della sentenza, l’A., poi, confuta l’assunto secondo cui la tutela del c.d. “controinteressato sopravvenuto pretermesso” potrebbe eventualmente realizzarsi mediante l’istituto della opposizione di terzo5, rilevando che “la sentenza della Corte Costituzionale ha aggiunto un rimedio di tutela in favore del c.d. controinteressato che sia stato beneficiato dall’atto finale o consequenziale, non impugnato” e “non ha inciso

1 Cons. Stato, sez.V, 23.3.2004, n.1519. 2 SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, 724 s. 3 Cfr. MARUOTTI, Il giudicato amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, Studi e contributi. 4 L’A. osserva, al riguardo, che “non soddisfa, dunque, la nozione di c.d. controinteressato sopravvenuto, cui il ricorso non dovrebbe comunque essere notificato. E’ corretto piuttosto affermare che, in linea di principio, non sono ravvisabili controinteressati quando si impugna un bando di concorso o un atto di esclusione da una gara o da un concorso. Quando però si conclude il procedimento amministrativo nel corso del giudizio, gli effetti del provvedimento finale possono essere posti in contestazione solo se vi è la sua rituale e tempestiva impugnazione con la notifica del ricorso al controinteressato, che non è “sopravvenuto”, ma è il beneficiario attuale del provvedimento autoritativo finale”. 5 É noto che l’istituto dell’opposizione di terzo è stato introdotto nel processo amministrativo con sentenza 17 maggio 1995, n.177 della Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt.28 e 36 L.TAR nella parte in cui non consentono di esperire l’opposizione di terzo di cui all’art.404, comma1 c.p.c. avverso le decisioni del Consiglio di Stato ed avverso le pronunce di primo grado passate in giudicato.

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sul principio garantista per cui gli effetti di un provvedimento autoritativo possono essere rimossi dal giudice amministrativo, quando contro di esso è proposto un rituale e tempestivo ricorso, notificato ai controinteressati.”1

Secondo la riportata dottrina, nel caso di mancata impugnativa del provvedimento finale, un interesse a coltivare il ricorso proposto contro l’atto preparatorio può essere ravvisato soltanto in relazione alla domanda di risarcimento del danno, conseguente all’illegittimo esercizio del potere e che, per l’art. 103 della Costituzione, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.

avv. Almerina Bove

FARMACIE ASSEGNAZIONE SEDI FARMACEUTICHE- PROCEDIMENTO DI ASSEGNAZIONE IN GESTIONE PROVVISORIA DI SEDE FARMACEUTICA - RIFERIMENTI NORMATIVI – AMMISSIBILITÀ DELL’INTERPELLO SIMULTANEO ANCHE PER L’ASSEGNAZIONE DI SEDE IN GESTIONE PROVVISORIA E ANCHE IN PRESENZA DI UNA VACANZA DI SEDE DA ASSEGNARE IN VIA DEFINITIVA – INAMMISSIBILITÀ - OSSERVAZIONI SUL PRINCIPIO “TEMPUS REGIT ACTUM”. Consiglio di Stato, sez.V, sent. 10 gennaio 2007 n. 50 – **** (avv. Antonia De Lisio) c/ Regione Campania (avv. Carla Palumbo).

In presenza di determinate circostanze, assimilabili alle previsioni di cui all’art.129 del T.U. n. 1265/1934, in sede di assegnazione in gestione provvisoria di sedi

1 L’A. prosegue rilevando che “Se il TAR annulla erroneamente l’atto presupposto, in presenza dell’inoppugnabile atto favorevole al terzo, questi, in qualità di controinteressato sopravvenuto: - se è ancora nei termini, può impugnare la sentenza del TAR e denominare il gravame quale appello o anche quale opposizione di terzo; - se la sentenza del TAR è passata in giudicato formale (per decorso del termine annuale previsto dall’art. 327 c.p.c.), può proporre l’opposizione di terzo (così come nel caso in cui la lesione deriva direttamente da una decisione del Consiglio di Stato) In entrambi i casi, egli può contestare l’ammissibilità e la fondatezza dell’originario ricorso, ma può anche limitarsi a dedurre che è erronea la sentenza di annullamento (dell’atto preparatorio o finale del procedimento), perché essa avrebbe dovuto dichiarare l’improcedibilità del ricorso proposto, per la carenza di interesse conseguente alla mancata impugnazione dell’atto finale del procedimento o di quello consequenziale, ormai inoppugnabile e conclusivo di un ulteriore e derivato procedimento1[60]. In tal caso, all’opposizione di terzo va riconosciuta la natura di rimedio essenzialmente processuale, per rimediare all’errore della sentenza che ha leso chi non ha potuto difendersi in giudizio. Tale soluzione è solo apparentemente “rigorosa” per chi abbia già proposto un ricorso giurisdizionale contro l’atto preparatorio o quello finale di un procedimento. Poiché spetta la piena tutela giurisdizionale ai soggetti beneficiati da provvedimenti amministrativi (secondo la regola dell’art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, che sancisce l’onere di notificare il ricorso ai controinteressati), anche sotto il profilo dell’equità è preferibile rilevare, secondo le regole generali, l’onere di proporre un secondo ricorso o motivi aggiunti (ovviamente, nel rispetto dei principi sulla relativa decorrenza del termine), piuttosto che elaborare opinabili e poco chiare eccezioni al lineare principio per cui gli atti autoritativi perdono effetti in sede giurisdizionale solo a seguito di rituale, tempestiva e fondata impugnazione.

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farmaceutiche resesi vacanti, è legittimo, da parte della P.A., il ricorso all’interpello simultaneo disciplinato dalla Legge 389/99 per l’assegnazione di sedi farmaceutiche definitive, di guisa che il procedimento medesimo risulti regolato dal combinato disposto della citata 389 e della Legge 48/90.

La commistione tra le due leggi, la 48/90 che disciplina, tra l’altro, l’assegnazione in gestione provvisoria di sede farmaceutica resasi vacante e la 389/99, che disciplina l’assegnazione di sedi farmaceutiche definitive, dà vita ad un tertium genus di guisa che le asserite lacune procedimentali eccepite ex adverso, non valgono ad inficiare la procedura concorsuale.

È irrilevante, ai fini della legittimità del procedimento in parola, l’elusione di alcune prescrizioni disposte dalla Legge 48/90, quali: la mancata dichiarazione da parte della P.A. della vacanza effettiva di sede o la mancata convocazione della Commissione ex art.110 del T.U. n.1265/1934, atteso che detti adempimenti ben possono trovare spazio in un momento successivo alle assegnazioni.

Per il deducente è privo di rilevanza, in sede giurisdizionale, l’eccepito mancato invio di offerta di sede in gestione provvisoria al primo in graduatoria, non ridondando, tale asserita elusione, direttamente e concretamente in suo danno.

Sono inammissibili, perché contrarie all’interesse dello stesso deducente, che ha regolarmente presenziato alla procedura concorsuale, le censure relative a presunte irregolarità commesse dalla P.A. nella convocazione di altri concorrenti.

Con ricorso notificato alla Regione Campania in data 11/05/04, il ricorrente adiva il TAR Campania per l’annullamento, previa sospensione, dei provvedimenti con i quali il Settore Tecnico Amministrativo di Avellino nel procedere, ai sensi del combinato disposto dell’art.1 comma 2 della Legge 48/90 (Norma transitoria in materia di gestione delle farmacie urbane) e della Legge 389/90 (Norme derogatorie in materia di gestione delle farmacie urbane e rurali), alla selezione per l’assegnazione in gestione provvisoria di nove sedi farmaceutiche della provincia di Avellino ai farmacisti risultati idonei all’ultimo concorso, (bandito con D.P.G.R.C. n.17457 dell’11/7/97), lo ha ritenuto rinunciatario, avendo il medesimo, terzo interpellato, chiesto che gli venisse assegnata la sede di Montemarano, già assegnata ad altra candidata meglio graduata, rinunciando di scegliere fra le sette farmacie ancora disponibili che gli venivano proposte. Nell’udienza camerale del 23/6/04 la domanda cautelare veniva abbinata al merito, definito con la sentenza in commento, con la quale il TAR adito rigettava il ricorso con conseguente reiezione anche dell’istanza risarcitoria. Si premette, in fatto, che con decreto dirigenziale n.717 del 17/9/03, pubblicato sul B.U.R.C. n. 42 del 23/9/03, il Settore Tecnico Amministrativo Provinciale di Napoli assegnava ai vincitori del concorso pubblico, bandito con D.P.G.R.C. n. 17454 del 12/7/97, le sedi farmaceutiche della provincia di Napoli. Tra i vincitori figuravano nove farmacisti titolari di sedi uniche in altrettanti Comuni della provincia di Avellino. Al fine di prevenire ogni possibile interruzione del servizio di assistenza farmaceutica, trattandosi come detto di sedi uniche, il Settore Tecnico Amministrativo di Avellino, a settembre 2003, verificava, a mezzo di raccomandate A.R., la rinuncia dei Comuni in riferimento all’esercizio del diritto di prelazione su dette sedi e, relativamente ai farmacisti vincitori del concorso, l’avvenuta accettazione della sede loro assegnata dallo

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STAP di Napoli, con il decreto innanzi citato n. 717/03, accertando, in tal modo i presupposti per l’assegnazione in parola. Successivamente, a mezzo di raccomandate A.R. del 14/1/04, aventi ad oggetto “Legge 16/3/90, n.48/90: assegnazione farmacie in gestione provvisoria”, rappresentava ai 117 farmacisti risultati idonei allo stesso concorso, le circostanze appena descritte invitandoli, ai sensi della normativa appena richiamata e previa descrizione delle sedi farmaceutiche, “a far conoscere, entro 5 (cinque) giorni dalla data di ricevimento della presente (farà fede a riguardo il timbro dell’ufficio postale ricevente)” l’interesse o meno all’eventuale assegnazione de qua, rappresentando, altresì che “la mancata o la ritardata risposta …(omissis) comporterà l’esclusione della S.V. dalle ulteriori successive fasi del procedimento”. Di seguito, in data 4/3/04, sempre a mezzo di raccomandate A.R., aventi ad oggetto: “Assegnazione farmacie in gestione provvisoria ex art. 1 Legge n.48 del 16/3/90: convocazione” il medesimo Settore di Avellino invitava i farmacisti che avevano manifestato interesse all’assegnazione “a presentarsi, muniti della presente nota e di valido documento di riconoscimento, il giorno 9/4/04, alle ore 11.00, presso gli uffici di questo STAP, siti in Avellino – Collina Liquorini – Palazzo della Regione – piano terra, per partecipare, secondo il combinato disposto della normativa richiamata in oggetto e dell’art.2 della legge n.389 del 28/10/99, all’assegnazione, in gestione provvisoria delle sotto elencate farmacie nella provincia di Avellino: (segue descrittiva delle sedi)”, precisando che “l’assenza della S.V. a presenziare, nel giorno, nell’ora e nella sede sopra indicati alla procedura di che trattasi, sarà considerata, a tutti gli effetti, rinuncia all’eventuale assegnazione”. Le note raccomandate innanzi dette venivano trasmesse anche al ricorrente, che nulla eccepiva rispetto alla ritualità delle stesse, tant’è che, nel luogo, nella data e nell’ora prescritti, si presentava negli uffici regionali dove aveva luogo la procedura di assegnazione contestata, con la quale il medesimo veniva ritenuto rinunciatario, avendo, terzo interpellato, chiesto che gli venisse assegnata la sede di Montemarano (commissariata), già assegnata ad altra candidata meglio graduata, rinunciando di scegliere fra le sette farmacie ancora disponibili che gli venivano proposte. La questione è tutta da ricondurre alle presunte illegittimità di carattere formale-procedimentale in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione in relazione alle modalità di svolgimento della procedura di assegnazione in gestione provvisoria delle sedi farmaceutiche in questione. Il Superiore Consesso, confermando la decisione dei primi Giudici, ha ritenuto legittima la procedura di assegnazione in parola, giustificandone l’adozione dalla presenza di determinate circostanze, assimilabili alle previsioni di cui all’art.129 del T.U. n.1265/1934 di guisa che il procedimento medesimo è risultato regolato dal combinato disposto della L.389/99 e della L. 48/90. Giova osservare che la Legge 389/99, in un’ottica di semplificazione e celerizzazione del procedimento di assegnazione definitiva delle sedi farmaceutiche, ha introdotto il sistema dell’interpello contestuale dei candidati risultati vincitori ai concorsi per le sedi farmaceutiche. In particolare la nuova disposizione, ricompresa nel corpo delle norme derogatorie in materia di gestione delle farmacie urbane e rurali, statuisce che per “le assegnazioni delle farmacie nei concorsi a sedi farmaceutiche, anche se banditi anteriormente all’entrata in vigore della presente legge, i candidati, risultati idonei, entro 60 giorni, sono

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contemporaneamente interpellati secondo l’ordine della graduatoria. L’indicazione espressa da ciascun candidato non può essere modificata. Il candidato che non indica entro il 5° giorno successivo a quello dell’interpello, la farmacia prescelta, è escluso dall’assegnazione. L’assegnazione delle sedi avviene secondo l’ordine previsto dalla graduatoria”. Al contrario, con riferimento alla procedura di assegnazione provvisoria delle sedi farmaceutiche di cui alla Legge 48/90, sopravvive ancora il sistema dell’interpello singolo, atteso che l’art.1 comma 2 di questa legge statuisce che, in sede di assegnazione provvisoria, le farmacie debbano essere attribuite a coloro che sono risultati idonei all’ultimo concorso per l’assegnazione di farmacie vacanti o di nuova istituzione, secondo l’ordine della graduatoria. Ebbene le due fattispecie, pur sostanzialmente diverse, si fondano, in realtà, su due presupposti identici; sia per l’assegnazione definitiva che per l’assegnazione provvisoria delle sedi farmaceutiche è indispensabile, infatti, che sia stato preventivamente espletato il relativo concorso, e che l’interpello, non solo quello contestuale, ma anche quello individuale, avvenga rigorosamente secondo l’ordine della graduatoria. La struttura regionale, in presenza degli evidenziati presupposti fattuali e legislativi ha dunque adottato, per l’assegnazione di sedi farmaceutiche in gestione provvisoria, l’interpello simultaneo concepito, in realtà, dal legislatore del ’99 solo al fine di velocizzare complessivamente il sistema dell’assegnazione. Tale soluzione ermeneutica trova conferma in due ordini di considerazioni. In primo luogo, infatti, la Legge 48/90 non fa divieto espresso dell’interpello contestuale degli idonei, limitandosi, esclusivamente, a ribadire la necessità di rispettare in modo rigoroso l’ordine della graduatoria. In secondo luogo, discende dai principi generali che la Pubblica Amministrazione possa, nel silenzio della legge, adottare le procedure che ritenga più idonee per evitare l’aggravamento complessivo del procedimento amministrativo specie quando, come nella fattispecie in esame, risulti preminente l’interesse pubblico ad evitare che rimangano scoperte nove sedi farmaceutiche uniche. Rileva ancora il Consiglio di Stato che il ricorso all’interpello contestuale, operato dall’Amministrazione anche per l’assegnazione delle gestioni provvisorie, non ha comportato l’inosservanza del principio dello scorrimento della graduatoria di cui alla Legge 48/90. In proposito si osserva, come precisato dalla giurisprudenza, che, in sede di assegnazione provvisoria, la locuzione “scorrimento della graduatoria” va intesa nel senso che l’Amministrazione, ove debba procedere all’assegnazione della gestione provvisoria di una nuova sede, debba interpellare non già i candidati che per loro scelta non hanno ritenuto di accettare una sede, ma quelli ulteriormente graduati, i quali sono per la prima volta interessati al conferimento. Né questo modo di procedere si pone in contrasto col principio proprio di ciascuna procedura concorsuale, in base al quale un posto (o una sede) deve essere assegnato al candidato idoneo meglio graduato, essendo evidente che tale principio non può implicare anche il diritto del candidato meglio graduato, che abbia espressamente o implicitamente rinunziato alla sede a lui proposta, di rinnovare la sua scelta ogni volta che venga decisa l’attivazione di una nuova gestione provvisoria. La giurisprudenza chiarisce ancora che la mancata accettazione della gestione provvisoria della sede farmaceutica da parte di uno degli idonei interpellati non comporta la sua decadenza dalla relativa graduatoria, e quindi la perdita della “qualità di idoneo”, ma più

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semplicemente la preclusione ad essere nuovamente interpellato fino a quando la graduatoria non sarà stata utilizzata integralmente, mediante l’interpello del concorrente collocato all’ultimo posto della medesima. (Consiglio di Stato, sez. IV, 6/10/01, n.5308). Si rivelano infine inammissibili le censure con le quali il dott. **** evidenzia la mancata osservanza, da parte della P.A. delle regole che governano il procedimento di assegnazione in gestione provvisoria delle sedi resesi vacanti quali: la mancata dichiarazione da parte della P.A. della vacanza effettiva di sede o la mancata convocazione della Commissione ex art.110 del T.U. n.1265/1934, atteso che detti adempimenti ben possono trovare spazio in un momento successivo alle assegnazioni. In ordine, infine, al mancato invio di offerta di sede in gestione provvisoria al primo in graduatoria e a presunte irregolarità commesse dalla P.A. nella convocazione di altri concorrenti, la sentenza in commento giudica inammissibile la prima non ridondando, tale asserita elusione, direttamente e concretamente in danno del dott. **** e, in ordine alla seconda, perché contrarie all’interesse dello stesso. avv. Carla Palumbo REVISIONE PIANTA ORGANICA - NUOVA ISTITUZIONE – RIDISEGNAZIONE DEI CONFINI DELLE DESCRITTIVE SEDI FARMACEUTICHE – NATURA DISCREZIONALE DELL’ATTO REGIONALE – INFONDATEZZA – INAMMISSIBI-LITÀ TAR Campania, Sez.V, sent. 11 maggio 2007 n. 4984 - **** (avv.ti Giancarlo Sorrentino, Bruno Riccardo Nicoloso) c/ Regione Campania (avv. Carla Palumbo).

È infondata, ove non si adducano elementi di palese illogicità della scelta operata, la censura di irrazionalità e di erroneità nei presupposti, mossa avverso l’atto regionale di revisione della pianta organica delle farmacie, atteso che, in materia, una volta accertati i presupposti per l’istituzione di una nuova sede, rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione ridisegnare e rinumerare le circoscrizioni territoriali delle sedi preesistenti, in funzione del razionale inserimento della sede neocostituita.

Superata, per infondatezza, la contestazione mossa contro la variazione della pianta organica delle farmacie comunali e il conseguente ridisegno e redistribuzione delle relative circoscrizioni territoriali, si palesano, per conseguenza, inammissibili le censure dirette avverso l’assegnazione e l’autorizzazione all’apertura e all’esercizio di una delle sedi, come ridisegnata dalla attuata revisione.

Con D.P.G.R.C. n. 17454 del 11.07.1997, la Regione Campania bandiva il

concorso pubblico per titoli ed esami per il conferimento di sedi farmaceutiche disponibili per il privato esercizio nella provincia di Napoli, pubblicato sul B.U.R.C. n. 41 del 1.09.1997.

Con decreto dirigenziale n. 1136 del 04.12.2002 pubblicato sul B.U.R.C. n. 62 del 16.12.2002, si approvava la relativa graduatoria definitiva, disponendo, ai sensi dell’art. 9 del D.P.C.M. del 30.03.1994 n. 298 e dell’art. 2 della L. del 28.10.1999 n. 389,

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l’assegnazione delle sedi farmaceutiche messe a concorso agli aventi diritto, sulla base della posizione conseguita.

Con decreto dirigenziale n. 170 del 19.07.2004, sulla base delle indicazioni fornite dall’Amministrazione comunale di Afragola con deliberazione di G.C. n. 36 del 4.3.04, la Regione provvedeva a definire i confini delle sedi farmaceutiche.

Avverso tali atti, con ricorso notificato alla Regione Campania in data 11.11.04, la dott.ssa ****, titolare della sede farmaceutica n.*del Comune di Afragola, adiva il TAR Campania Napoli chiedendone l’annullamento.

Successivamente, con tre ricorsi per motivi aggiunti, notificati, rispettivamente, l’11/4/06, l’8-16/6/06 e il 19/710/06, la ricorrente medesima impugnava, in sostanza, il provvedimento regionale n.117 del 31/3/06 con il quale si autorizzava il dott. **** all’apertura della sede farmaceutica n.* del predetto comune.

Esponeva la ricorrente, quale motivo di doglianza, il fatto che in base alla precedente pianta organica, comprendente 15 sedi, la propria sede (la prima) confinava con quelle contraddistinte dai numeri 11, 10, 14, 6 e 4 ed aveva un potenziale bacino d’utenza pari a 4315 abitanti, mentre, a seguito della revisione operata e con l’istituzione della sedicesima sede, la sede n.1 risulta confinante con la 11, la 14, la 15, la 2, la 6 e la 4 con una riduzione del potenziale bacino di utenza che passa da 4315 a 3967 abitanti. Si costituiva, tra gli altri, in giudizio la Regione Campania ed eccepiva l’inammissibilità e l’infondatezza dell’azione non emergendo dall’attività posta in essere dall’amministrazione conseguenze lesive per le ricorrenti ed alcun vantaggio le stesse avrebbero tratto dall’annullamento degli atti impugnati, atteso che la sede farmaceutica in questione, a seguito della revisione operata, conserva un bacino di potenziale utenza di 3976 abitanti, coincidente con quello ottimale, fissato dalle leggi che regolano il settore, in 4000.

Il TAR adito, pronunciandosi sulle plurime azioni proposte dalle ricorrenti, con il ricorso introduttivo e con gli atti di proposizione di motivi aggiunti, ne statuisce l’infondatezza e, in parte, l’inammissibilità.

Il Collegio rileva la legittimità dell’atto regionale non palesandosi fondata la censura di irrazionalità ed erroneità nei presupposti mossa ex adverso, atteso che, una volta ritenuto necessario aggiungere una nuova sede farmaceutica per far fronte all’aumentato fabbisogno della popolazione, rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione procedente ridisegnare e rinumerare le circoscrizioni territoriali delle sedi preesistenti, in funzione del razionale inserimento della sede neo-costituita.

Osserva a riguardo il Collegio che il parziale ridisegno delle circoscrizioni e la contestata ubicazione della nuova sede n.16 (che avrebbe preso il posto della vecchia sede n.15) (a sua volta, attualmente ricavata dalla sede n.12) avrebbero comportato per la sede della ricorrente (la n.1) una diminuizione di circa 340 utenti (da 4315 a 3967), il dato, non contestato ex adverso, è delucidativo di una situazione del tutto fisiologica e ragionevole allorché, come nel caso di specie, viene istituita, in aggiunta, una nuova sede farmaceutica.

Destituita di fondamento l’anzidetta censura, si palesano, di conseguenza, inammissibili le censure mosse avverso l’assegnazione e l’autorizzazione all’apertura e all’esercizio della sede n.15, assegnata al controinteressato dott. ****, apparendo del tutto nominali le contrassegnazioni delle circoscrizioni, dovendosi logicamente tener conto della nuova ridisegnazione e numerazione delle sedi, come descritte nella revisione, a giudizio del Tribunale adito, legittima. avv. Carla Palumbo

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PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA

EFFETTI SOSTANZIALI DELL’APPROVAZIONE DI UN ACCORDO DI PROGRAMMA E DISCIPLINA APPLICABILE. Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 18 gennaio 2007 n. 87/2006 – *** ***** S.R.L. (avv.ti Giuseppe Minieri e Maria Carla Minieri) c/ Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ministero delle Attività Produttive, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, A.N.A.S., R.F.I., Rete Ferroviaria Italiana S.P.A., Autorità di Bacino Nord occidentale della Campania, Centro Autoporto Marcianise S.R.L. e c/ Autostrade per l’Italia S.P.A. (avv. Felice Laudadio); Consorzio per l’Area di Sviluppo industriale di Caserta; Comune di Marcianise (avv. Antonio Lamberti); Interporto Sud Europa S.P.A. (avv. ti Mario P. Chiti e Pasquale Iannuccilli ); Provincia di Caserta; Regione Campania (avv. Vincenzo Baroni); **** (avv.ti Francesco Vergara e Valerio Barone). I. Il termine per impugnare un provvedimento approvativo di un progetto di opera pubblica che comporti la dichiarazione di pubblica utilità dei lavori, decorre, per i proprietari dell’area interessata, dalla notificazione o comunicazione individuale dello stesso atto approvativo e non anche dall’eseguita pubblicazione dell’atto stesso nell’albo pretorio dell’ente. II. L’eventuale conclusione di una trattativa di “bonario componimento” con la cessione volontaria delle particelle di proprietà dei ricorrenti non sarebbe capace di denotare l’acquiescenza ove la stessa si situasse, temporalmente, in epoca anteriore all’emanazione degli atti impugnati, rispetto ai quali, evidentemente, non può configurarsi una “acquiescenza preventiva” considerando che, in presenza di un’effettiva conclusione dell’accordo in questione, non vi sarebbe affatto bisogno di procedere, successivamente, con atti espropriativi. II. Qualora l’accordo di programma rinvii ad intese successive per la realizzazione di opere pubbliche lo stesso si risolve in una determinazione di ordine programmatico, cioè in una mera raccomandazione. Per il suo valore programmatico non può far altro che rinviare a specifici adempimenti urbanistici e progettuali, ma nulla può stabilire, in termini autoritativi, in ordine alla continuità dell’assetto giuridico prefigurato ed alla disciplina applicabile a tali adempimenti. IV. Il giudice amministrativo esclude la restituzione del bene illegittimamente espropriato e dispone in sua vece il risarcimento integrale del danno, solo dopo che l’Amministrazione abbia adottato un provvedimento espresso di acquisizione al suo patrimonio indisponibile ai sensi dell’art. 43 del TU 8 giugno 2001, n. 327. La controversia in esame ha posto all’attenzione del Consiglio di Stato la travagliata e stratificata evoluzione normativa avente ad oggetto opere pubbliche di notevole rilevanza per l’economia nazionale e di elevato impatto ambientale evidenziando dubbi interpretativi e problematiche di non poco momento.

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Esaminando partitamente i singoli principi cui si è ispirato il Supremo Consesso Amministrativo emerge, quale connotato di maggiore pregnanza, l’evidente depo-tenziamento dell’Accordo di Programma come disciplinato dalla normativa in materia di Enti Locali, fino quasi a renderlo uno strumento poco efficace per consentire l’adeguato esercizio del potere amministrativo in relazione a opere pubbliche di notevole dimensione. Il primo principio enunciato dal Consiglio di Stato attiene alla decorrenza del termine per impugnare l’atto dichiarativo di pubblica utilità di un’area. In particolare il Collegio si è attenuto al dettato normativo previsto dall’art. 17 del DPR 8 giugno 2001, n. 327 in materia di espropriazione per pubblica utilità (come modificato dal D.L. 302/02) il quale prevede che: ”Mediante raccomandata con avviso di ricevimento o altra forma di comunicazione equipollente al proprietario è data notizia della data in cui è diventato efficace l'atto che ha approvato il progetto definitivo e della facoltà di prendere visione della relativa documentazione. Al proprietario è contestualmente comunicato che può fornire ogni utile elemento per determinare il valore da attribuire all'area ai fini della liquidazione della indennità di esproprio”. Se da questo punto di vista il Consiglio di Stato sembra aver semplicemente applicato la normativa di riferimento, il punto problematico è costituito dalla circostanza che le aree oggetto della procedura espropriativa erano ricomprese in un territorio oggetto di una serie di interventi previsti in un Accordo di Programma approvato nel 1996 ai sensi dell’art. 27 della legge 142/90, che già prevedeva la dichiarazione di pubblica utilità delle opere ivi previste; inoltre il legislatore, riscrivendo la normativa di riferimento relativa agli Accordi di Programma, ha previsto all’art. 34 del D.Lgs. 267/00 che “L'approvazione dell'accordo di programma comporta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle medesime opere” con ciò volendo enfatizzare il ruolo di sintesi procedimentale costituito dalle figure di programmazione negoziata. Le opzioni ermeneutiche che si ponevano dinanzi al Giudice amministrativo erano quindi due. La prima enfatizzava le potenzialità conformative dell’Accordo di Programma imponendone la centralità nella controversia in esame. La seconda, invece, considerava preminente l’applicazione della disciplina più favorevole possibile al soggetto inciso dal procedimento di esproprio. Nella parte motiva della sentenza, in particolare, i riferimenti all’Accordo di Programma sono sfumati, a riprova che il carattere imperativo di tale atto è considerato del tutto secondario, fino al punto da essere definito, incredibilmente a parere di chi scrive, come una “mera raccomandazione”, insomma una sorta di scatola vuota. In particolare ciò viene in rilievo esaminando il terzo principio enucleato dai giudici di Palazzo Spada, i quali, pur affermando che dall’Accordo di Programma emergeva un legame funzionale fra le opere, per la cui realizzazione era stata avviata la procedura espropriativa e l’area interportuale, ha ritenuto non ascrivibile tale unitarietà anche alla fase procedimentale prodromica alla loro realizzazione. In sintesi si è operata una scissione sul piano fattuale rispetto a quello normativo. Considerando l’opera interportuale nel suo complesso, i giudicanti l’hanno ritenuta comprensiva tanto dei capannoni e delle strutture commerciali e ricettive, quanto degli svincoli viari e ferroviari, a livello fattuale si tratta di un unicum. Invece a livello normativo-prescrittivo ci si troverebbe di fronte a elementi distinti, solo occasionalmente collegati dalla previsione della loro realizzazione nel medesimo Accordo di Programma. Il paradosso è evidente. L’esistenza di forme di esercizio del potere amministrativo in forma concordata ha come scopo precipuo la semplificazione delle procedure. Tale intenzione del legislatore è evidente in tutte le forme della programmazione negoziata e dovrebbe attirare l’attenzione dell’interprete in modo

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preminente al fine di non porre nel nulla le riforme ispirate alla realizzazione dei criteri di buon andamento ed efficienza della Pubblica Amministrazione. La dualità fra l’unitario complesso di interventi che si intende realizzare e la molteplicità di strumenti giuridici e procedure necessarie alla realizzazione dei singoli interventi, dovrebbe ritenersi superata dall’esistenza di un Accordo di Programma. In altre parole l’esistenza di una tale forma di intesa fra Pubbliche Amministrazioni si pone come catalizzatore delle forme di esercizio del potere di guisa che le procedure necessarie alla realizzazione delle singole opere si intendono sintetizzate e superate dalla conclusione dell’accordo, che, peraltro, dovrebbe ritenersi anche strumento idoneo a rendere più snelle le eventuali ulteriori procedure necessarie alla definizione di interventi di dettaglio. Tale è l’interpretazione più aderente alla ratio legis e, soprattutto, più capace di dispiegare effetti realmente semplificatori in tema di realizzazione di importanti opere pubbliche. Ma anche a voler accogliere una interpretazione più vicina a quella abbracciata dal Consiglio di Stato, per cui il rinvio ad intese successive depotenzierebbe la portata normativa dell’Accordo di Programma, non si può – a parere di chi scrive - in nessun caso condividere l’assunto per cui lo stesso si risolverebbe in una mera raccomandazione. Mentre, infatti, la raccomandazione non ha un immediato contenuto precettivo, in quanto enuclea una condotta meramente lecita, senza imporre obblighi o limitazioni di sorta, ma solo “suggerendo” la strada più idonea da seguire, l’Accordo di Programma è lo strumento necessario “Per la definizione e l'attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata e coordinata di comuni, di province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici” e la sua conclusione è la struttura portante e baricentro inamovibile dell’impianto provvedimentale necessario alla realizzazione dell’opera pubblica. La previsione di intese ulteriori non esonera le Amministrazioni paciscienti dal rispetto di quanto previsto dall’Accordo di Programma, anzi si pone come fase ulteriore della sua attuazione, che vede come suo precedente logico-giuridico l’Accordo e che a quest’ultimo è teleologicamente avvinto vista l’unitarietà dello scopo perseguito. La lettura unitaria delle disposizioni normative con quelle dell’AdP, alla luce dei principi costituzionali, avrebbe dovuto avere come sbocco naturale la considerazione che, se unitaria è l’opera, unitario doveva ritenersi anche l’iter procedimentale e la normativa applicabile in quanto deviata e canalizzata dall’esistenza dell’AdP. In ultima analisi si può leggere fra le righe una scarsa apertura verso questo strumento di esercizio del potere. Come se l’ingresso di forme negoziali di estrinsecazione del potere amministrativo, tanto diffuse nel mondo anglosassone, siano considerate ancora quali elementi “spurii” nel nostro ordinamento giuridico, che l’interprete stenta a metabolizzare e accogliere come formidabile strumento di rinnovamento del modo di amministrare. p. avv. Massimo Billi

RISARCIMENTO DEL DANNO - PUBBLICO IMPIEGO - GIURISDIZIONE RISARCIMENTO DEL DANNO SUBÌTO IN CONSEGUENZA DI UN PROVVEDIMENTO REGIONALE ILLEGITTIMO ANNULLATO DAL GIUDICE AMMINISTRATIVO CON SENTENZA PASSATA IN GIUDICATO –

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ASSOGGETTAMENTO DELLA PRETESA RISARCITORIA AL TERMINE DECADENZIALE DEL 15.9.00 EX ART. 69 D.LVO 165/2001- CAUSA DELLA PRETESA RISARCITORIA NEL RAPPORTO DI PUBBLICO IMPIEGO – ESCLUSIONE. TAR Campania, sez.III, sent. 23 aprile 2007 n. 4208 – **** (avv. Francesco Gimigliano e avv. Edoardo Gimigliano) c/ Regione Campania (avv. Rosaria Saturno).

L’assoggettamento al termine decadenziale del 15.9.00 anche alla pretesa risarcitoria consequenziale ad una sentenza di annullamento del provvedimento lesivo appare quanto meno discutibile e comunque estraneo alle finalità che l’art. 69, comma VII, d.lvo 165/01 intendeva perseguire, cioè quella di porre un termine certo all’incremento del contenzioso sul pubblico impiego tuttora spettante, per ragioni di diritto transitorio, al giudice amministrativo.

La sentenza in commento definisce in primo grado un giudizio volto ad ottenere il risarcimento dei danni subiti da un dipendente regionale in conseguenza di un provvedimento illegittimo, già annullato dal Giudice Amministrativo con sentenza passata in giudicato. Il Tribunale ha escluso l’applicabilità del termine decadenziale ex art. 69, VII comma, del D.lvo n.165/01, alla controversia in questione, pur essendo stata proposta innanzi al G.A. successivamente al 15.09.00, in quanto giudizio risarcitorio inerente diritti patrimoniali consequenziali, ritenendo che “l’assoggettamento al termine decadenziale del 15.9.00 anche alla pretesa risarcitoria consequenziale ad una sentenza di annullamento del provvedimento lesivo appare quanto meno discutibile e comunque estraneo alle finalità che l’art. 69, comma VII, d.lvo 165/01 intendeva perseguire, cioè quella di porre un termine certo all’incremento del contenzioso sul pubblico impiego tuttora spettante, per ragioni di diritto transitorio, al giudice amministrativo”.

Tale interpretazione contrasta con l’orientamento oramai unanime della giurisprudenza.

In particolare, essa si contrappone al disposto letterale dell’ art. 69, comma7, innanzi citato, secondo il quale “le controversie in materia di impiego pubblico relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30.06.98 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se proposte, a pena di decadenza, entro il 15.09.00”.

Al riguardo si evidenzia che, in origine l’art. 45, comma 17, del D.Lvo n. 80 del 1998 (riprodotto oggi nell’art. 69, comma 7 del T.U. n. 165/01) - laddove dispone che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000 - è stato in origine interpretato dalla giurisprudenza nel senso che i ricorsi, se non proposti entro il 15.9.00 innanzi al giudice amministrativo, avrebbero potuto essere radicati oltre tale data innanzi al giudice ordinario. Tuttavia, a distanza di poco tempo, si è consolidato un diverso indirizzo, sul quale oramai concordano sia la Corte di Cassazione che la Giurisprudenza Amministrativa, che fa conseguire alla scadenza del termine del 15 settembre 2000 la radicale perdita del diritto a

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far valere, in qualunque sede, ogni tipo di contenzioso, afferente ai rapporti tra il dipendente pubblico e P.A. datrice di lavoro.

Come rilevato dal Consiglio di Stato nella nota Ad. Plen, n. 4 del 2007, anche la Corte Costituzionale “chiamata a valutare la nuova disciplina capace di comportare, con l’introduzione del perentorio termine decadenziale del 15 settembre 2000, anche la riduzione di più lunghi termini in passato accordati dalla legge (come ad es. quello di prescrizione), ha avuto occasione di rilevare che il nuovo assetto risulta ineccepibile sul piano costituzionale risultando ispirato a coerenti esigenze organizzative connesse al trapasso da una giurisdizione all’altra” (in tal senso si è pronunciata la Corte Costituzionale nelle ordinanze nn. 214/04, 213/05, 382/05, 197/06).

Tale soluzione è stata giustificata in riferimento alle finalità che il legislatore ha inteso perseguire con la norma, ovvero di non coinvolgere il giudice ordinario in controversie relative a rapporti nati in un periodo nel quale non sussisteva ancora la sua giurisdizione e, al tempo stesso, di non coinvolgere per troppo tempo il giudice amministrativo in una giurisdizione ormai perduta.

Al riguardo, in riferimento alla tipologia del contenzioso, sia la giurisprudenza ordinaria (Cass. SS.UU. n. 5054/04) che quella amministrativa (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4 del 2007; Id., Sez.. VI n. 3941 del 2001) concordano nel considerare nell’ambito delle controversie in tema di pubblico impiego - rientrante nel dominio della giurisdizione amministrativa - tutte le liti con le quali l’interessato mira, nel giudizio, a far emergere la “sostanza” del rapporto che lo lega all’Amministrazione. Nella fattispecie in esame invece, sebbene la domanda, ancorché prospettata come risarcitoria, trovi la sua causa immediata nel rapporto di pubblico impiego e riguardi un credito di natura sostanzialmente retributiva, come sopra evidenziato, la sentenza del Tribunale Amministrativo Campano si è discostata da tale orientamento.

Inoltre in riferimento al tema della conservazione degli effetti della domanda proposta a giudice privo di giurisdizione sia la dottrina che la giurisprudenza ritengono che gli effetti impeditivi della decadenza non possono farsi derivare da una domanda a qualunque giudice proposta, ma solo da quella rivolta al giudice fornito di potestas iudicandi, atteso che solo quest’ultimo consente di ottenere quella pronuncia di merito cui è collegato l’effetto impeditivo.

La sentenza in commento risolve la questione relativa alla scadenza del termine decadenziale richiamando la recente statuizione della Corte Costituzionale n. 77/2007. Tuttavia tale pronuncia additiva della Corte ha una prospettiva necessariamente limitata, dall’ordinanza di rimessione, allo scrutinio di legittimità costituzionale del solo art. 30 della legge TAR, e pertanto la stessa afferma il principio della translatio iudicii esclusivamente in relazione ai giudizi originariamente instaurati davanti al G.A. e non davanti al G.O., come è invece accaduto nel caso della domanda proposta dal ricorrente.

La stessa Corte Costituzionale, nella riferita pronuncia n. 77/07, ribadisce che la conservazione degli effetti della domanda originariamente proposta a giudice privo di giurisdizione è principio da coordinare con quello della certezza dei rapporti giuridici.La Corte ritiene infatti che la prosecuzione del giudizio non può essere ragionevolmente lasciata a una scelta delle parti da esercitare sine die, ed esclude l’utilizzabilità dell’art. 362, co.2 c.p.c. per risolvere l’eventuale conflitto di giurisdizione tra giudici di merito, osservando al riguardo che “la funzione di rendere operante la translatio, con la conservazione degli effetti della domanda a giudice (che risulta essere) privo di

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giurisdizione, non può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile “in ogni tempo” (e quindi anche anni dopo il manifestarsi del conflitto)”.

Si evidenzia altresì che la decisione in commento, nel disattendere totalmente l’eccezione di decadenza dalla proposizione del giudizio in questione davanti al G.A., sembra porsi in contrasto anche con la disciplina generale in tema di riassunzione della causa prevista dall’art. 125 disp. att. c.p.c., nonché con la disciplina contenuta nell’art. 367, co.2, c.p.c.

In riferimento all’art. 367, co.2, c.p.c., la giurisprudenza ritiene da tempo che il termine perentorio di sei mesi nello stesso previsto per la riassunzione del processo nel caso in cui la Corte di Cassazione in sede di regolamento di giurisdizione abbia dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario, si applica anche nel caso di trasmigrazione del processo dal giudice ordinario a quello amministrativo, a condizione che si controverta in materia di diritti soggettivi. avv. Rosaria Saturno SANITÀ PUBBLICA RAPPORTO PROVVISORIO ACCREDITAMENTO – PRESTAZIONI EROGABILI - CAPACITÀ OPERATIVA MASSIMA - EROGAZIONE PRESTAZIONI TAC – AMPLIAMENTO QUALITATIVA C.O.M. – DINIEGO. TAR Campania, sez. I, sent. 11 luglio 2007 n. 651– **** (avv.ti Meo Arturo Umberto e Velotti Alfredo) contro ASL NAPOLI I (avv.ti Ceceri Giuseppe, Nardone Antonio e Militerni Innocenzo) e Regione Campania (avv.ti Dell’Isola Beatrice e Palma Rosaria). In attesa dell’entrata in vigore del regime di accreditamento definitivo risulta infondata la pretesa di una struttura sanitaria privata provvisoriamente accreditata di ampliare la sfera della propria attività diagnostica, a carico del servizio sanitario, al di là dei termini qualitativi e quantitativi definiti nell’autocertificazione ex delibera regionale 377/1998, solo sulla base del dato di fatto di avere acquistato nuovi mezzi e attrezzature e della astratta riconducibilità delle nuove prestazioni nell’ambito definitorio della branca di appartenenza, al di fuori di qualsiasi preventivo accordo con l’Amministrazione sanitaria e in mancanza di qualsiasi atto di accettazione dell’Amministrazione medesima. Argomentando a contrario, in contrasto con l'interesse pubblico alla preliminare verifica della Regione con le diverse esigenze su segnalate, si consentirebbe l'ampliamento delle prestazioni erogabili in regime di accreditamento, senza alcuna previa verifica, sia tecnica che finanziaria, dell'Amministrazione e di esporre la spesa sanitaria regionale ad una crescita fuori controllo. La mera comunicazione dell’acquisto dell’apparecchiatura TAC e, quindi, la disponibilità del macchinario e del relativo personale, non potrebbe mai consentire ad una struttura accreditata per la branca di radiologia la erogazione delle relative prestazioni in favore di assistiti del S.S.N., trattandosi, comunque, di una vicenda di ampliamento qualitativo della c.o.m. che richiede un preventivo atto di assenso dell’Amministrazione sanitaria, provvedimento che non risulta mai essere stato rilasciato.

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Nella vicenda de qua la struttura sanitaria ricorrente – provvisoriamente accreditata per la branca di radiologia - ha rivendicato l’assunto diritto alla erogazione anche delle prestazioni TAC in favore degli assistiti dal S.S.N., trattandosi di attività rientrante nella branca di radiologia ed a nulla rilevando la determinazione della capacità operativa massima che resta immutata, trattandosi unicamente di una diversificazione tipologica delle prestazioni di branca erogabili. Il Giudice campano, a suggello di un orientamento ormai consolidato della medesi- ma Sezione risalente alla D.G.R.C. n. 377/98, ha innanzitutto ricordato la funzione programmatoria della determinazione della capacità operativa massima (c.o.m.). la quale non deve essere limitata alla sola dotazione di personale e di mezzi disponibili, ma va contemperata con le esigenze di contenimento della spesa e di individuazione delle prestazioni di branca che si intendono acquisire. Ed invero, la individuazione dei carichi massimi di lavoro non si pone come discrimine tra prestazioni che possono o meno essere erogate, ma si risolve, piuttosto, in un’attività istruttoria che risponde alla precisa funzione di previsione della spesa consentendo all’amministrazione di operare un’adeguata programmazione economica sulla base del dato più aggiornato di spesa, ovvero quella del 31.12.1997. Non a caso, in ordine alla natura del suddetto termine, il TAR napoletano ha da tempo affermato che ad esso “si ricollega l’effetto di stabilizzare lo stato della capacità operativa a tale data, investendo in tal modo la parte privata dell’onere di dimostrare l’intervenuta integrazione dei mezzi strumentali e di dimostrarla con congruo anticipo rispetto all’anno finanziario in cui sono erogabili, anno che, comunque, non può coincidere con quello in cui l’integrazione è stata effettuata” (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. I, n. 4090/00).

Di guisa che, una struttura sanitaria la quale si sia vista attribuire una data c.o.m. sulla base degli esposti coefficienti, in tanto potrà chiedere ed ottenere una variazione della stessa in quanto avrà ottenuto un provvedimento dell’Amministrazione competente che, preso atto dell’intervenuta trasformazione, la reputi compatibile con la programmazione sanitaria in atto, con effetti a valere, in ipotesi di provvedimento positivo, sul fondo sanitario regionale a partire dall’anno finanziario successivo. Tanto alla luce della circostanza per la quale la capacità operativa massima di un Centro provvisoriamente accreditato rinviene la propria definizione o nell’accreditamento ex delibera giuntale n. 377/98 - con riferimento allo stato di fatto al 31.12.97 - o in successivi atti dell’Amministrazione sanitaria di accettazione delle variazioni susseguenti alla suddetta data. In conclusione, il concetto di c.o.m., introdotto dalla delibera regionale n. 377/98 - al fine di regolamentare, transitoriamente, la quantità e la qualità delle prestazioni erogabili dalle strutture provvisoriamente accreditate ai sensi dell’art. 6, comma 6, L. 724/94, sulla base dell’autocertificazione al 31.12.1997 - va interpretato non quale limite invalicabile, bensì quale criterio dinamico per definire la potenzialità erogativa di cui è dotata la struttura, pur sempre nei limiti dell’oggetto del rapporto di accreditamento e nell’ambito di un provvedimento autorizzatorio regionale. Né è possibile diversamente argomentare sulla base delle modifiche, in senso ampliativo, delle branche di riferimento compiute dai nomenclatori tariffari succedutisi nel tempo. Sul punto la giurisprudenza amministrativa è ormai unanime nel ritenere che le modifiche de quibus “…non comportano anche un allargamento delle prestazioni erogabili in regime di

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accreditamento giacchè il rinvio al detto tariffario ha carattere solo formale e non mobile…; l’evoluzione tecnico-scientifica di una determinata branca deve avere una sua asseverazione da un punto di vista amministrativo al fine di giustificare il suo rimborso a carico del Servizio Sanitario Nazionale..”. La pronuncia in epigrafe è di interesse anche sotto il profilo della puntualizzazione della natura giuridica della situazione soggettiva della struttura provvisoriamente accreditata a seconda che la stessa pretenda di erogare prestazioni riconducibili all’autocertificazione alla data del 31.12.1997 – ora al 31.12.2202 ex D.G.R.C. n. 1272/03 – ovvero pretenda di modificare in senso ampliativo, per qualità o quantità delle prestazioni, l’oggetto del rapporto di servizio pubblico. Il Giudice campano ha, infatti, precisato che mentre nel primo caso la verifica di compatibilità è stata già compiuta a livello di atto generale regionale (DD.G.R.C. n. 377/98 e n. 1272/03), nel secondo caso non si può prescindere dall’intervento di un provvedimento regionale di accettazione della variazione. Di guisa che, nella prima fattispecie, la pretesa della struttura sanitaria assume la connotazione di diritto soggettivo: alla Azienda sanitaria locale compete una mera attività ricognitiva vincolata, tesa all’accertamento della sussistenza delle condizioni prescritte dalla delibera regionale. Nella seconda ipotesi, per contro, la pretesa di erogare nuove prestazioni ha la consistenza dell’interesse legittimo, non potendo bypassare l’indefettibile filtro del controllo preventivo teso, se del caso, al rilascio del necessario titolo autorizzatorio sanitario. avv. Beatrice Dell’Isola

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Giurisprudenza Civile

FERIE NON GODUTE DIRITTO ALLA MONETIZZAZIONE – FERIE NON GODUTE - ESCLUSO PER I DIRIGENTI – PROVA RICORRENZA ECCEZIONALI ED OBIETTIVE NECESSITÀ AZIENDALI . Tribunale di Benevento, Sezione Lavoro, sent. 9 marzo 2007 n. 1124 – ***** (avv. ti S. Scatola e G. Razzini) c/ Regione Campania (avv. R. De Girolamo). Il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute, pur discendendo direttamente dal mancato godimento, in armonia con il disposto di cui all’art. 36 Cost. ed indipendentemente da una disciplina espressa, sorge unicamente quando la mancata fruizione non sia determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a lui comunque imputabile, ma sia dipendente da esigenze di servizio. Pertanto il diritto a tale indennità non compete nelle ipotesi del dirigente che, pur avendo il potere di attribuirsi il periodo di ferie, senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, non eserciti tale potere e, perciò, non fruisca di ferie, a meno che lo stesso dirigente dimostri la ricorrenza di eccezionali ed obiettive necessità aziendali ostative alla fruizione delle ferie. La sentenza in commento riguarda il giudizio proposto da un ex dirigente regionale che lamentava il mancato godimento delle ferie maturate, per cui chiedeva al Giudice del Lavoro il riconoscimento del diritto alla monetizzazione dei giorni di ferie non goduti con la condanna dell’Amministrazione al risarcimento in forma specifica o, in via subordinata, il diritto al risarcimento per equivalente o attraverso indennità sostitutiva o in via ulteriormente subordinata come domanda di arricchimento senza causa. Il Giudice, accogliendo le difese regionali, ha rigettato la domanda del ricorrente. Ed invero, facendo un esame approfondito della disciplina in materia, ha evidenziato come il diritto alla monetizzazione delle ferie non godute può sorgere unicamente in presenza di circostanze che dimostrino la eccezionalità ed obiettività di necessità aziendali ostative alla fruizione delle ferie. Infatti, aderendo all’indirizzo giurisprudenziale prevalente secondo cui il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute discende direttamente dal mancato godimento, in armonia con il disposto di cui all’art. 36 della Costituzione ed indipendentemente da una disciplina espressa (diversamente dall’altro indirizzo, secondo cui la convertibilità delle ferie non godute in indennità sostitutiva è possibile solo quando espressamente prevista), in ogni caso, presupposto è che la mancata fruizione non sia determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a lui comunque imputabile, ma sia dipendete da cause di servizio. Secondo la prima impostazione, il carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere lo speciale compenso sostitutivo per le prestazioni effettivamente rese dal dipendente malgrado il divieto, non essendo logico far

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derivare da una violazione costituzionalmente imputabile alla P.A. il venir meno del diritto all’equivalente pecuniario di una prestazione effettuata1. È chiaro poi che le ferie costituiscono un credito di lavoro cui si applica il principio di cui all’art. 1218 cc, secondo cui al creditore incombe la prova del mero inadempimento, mentre sul debitore grava l’onere di dimostrare la non imputabilità di quest’ultimo; sicchè spetta al lavoratore l’indennità sostitutiva di ferie non godute, qualora questi provi la mancata fruizione delle stesse e la P.A. datrice di lavoro non fornisca la prova che il mancato godimento sia dipeso unicamente dalla volontà del lavoratore e non da esigenze di servizio2. Ed invero il Giudice ha espressamente evidenziato che il diritto alle ferie costituzionalmente garantito è finalizzato alla reintegrazione delle proprie energie psico-fisiche , mediante l’espletamento di attività ricreative e culturali, per cui trattandosi di un diritto irrinunciabile, nella presente fattispecie ha dichiarato la nullità della clausola di cui all’art. 6 del contratto per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, in virtù della quale il ricorrente aveva rinunciato alla richiesta di monetizzazione di eventuali ferie residue. Ha altresì evidenziato, come nella fattispecie in esame, andava esaminata anche la qualifica del ricorrente: Dirigente di Settore. Infatti la Suprema Corte 3 è consolidata nel ritenere che “il diritto a tale indennità non compete nelle ipotesi di dirigente che, pur avendo il potere di attribuirsi il periodo di ferie, senza ingerenza dal datore di lavoro, non eserciti tale potere e, perciò, non fruisca di ferie, a meno che lo stesso dirigente dimostri, solo in tale ipotesi, la ricorrenza di eccezionali e obiettive necessità aziendali ostative alla fruizione delle ferie. In altri termini, la mancata fruizione delle ferie integra, in ogni caso, la fattispecie costitutiva, che il lavoratore ha l’onere di provare, per far valere in giudizio il diritto all’indennità sostitutiva, mentre l’onere probatorio concorrente, circa la ricorrenza di eccezionali e obiettive necessità aziendali ostative alla fruizione delle ferie, grava soltanto su quel lavoratore che non abbia esercitato il proprio potere di attribuirsi il periodo di ferie, senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, e, solo per ciò, non ne abbia fruito”. Ne consegue che applicando tale principio alla fattispecie, tenuto conto della qualifica del ricorrente (Dirigente di Settore) ed in mancanza di allegazione circa le modalità di richiesta e/o autorizzazione alla fruizione delle ferie da parte dello stesso, la domanda è stata rigettata in applicazione della regola generale di cui all’art. 2697 cc, secondo cui onus probandi incumbit ei qui dicit, non ei qui negat. avv. Rocco De Girolamo POSIZIONI ORGANIZZATIVE PUBBLICO IMPIEGO – CONTROVERSIE RELATIVE AL RICONOSCIMENTO DI POSIZIONE ORGANIZZATIVA – TEMPORANEITÀ E REVOCABILITÀ DELLA POSIZIONE – PRINCIPIO DELL’EQUIVALENZA DELLE MANSIONI SVOLTE. 1 Cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 30.4.1992 n. 392 ; 3.10.2000 n. 5248; Cons. di Stato, sez. V, 30.3.1998 n. 374; 30.6.1998 n. 985; 6.9.2000 n. 4699; 3.3.2001 n. 1230. 2 Cfr. Cons. di Stato, sez. V, 30.3.1998 n. 374 e 10.7.2000 n.3847; Cons. di Stato, sez. VI , 5.1.2001 n. 8. 3 Cfr. Cass. Lav. 8.6.2005 n. 11936; 7.6.2005 n.11786 ed altre.

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Corte di Appello di Napoli, Sez. Lavoro, sent. 20 giungo/16 agosto 2006 n. 4639 - ****** ( avv. ti A.D’Avino e E. Silvestro) c/ Regione Campania ( avv. A. Di Lascio). La temporaneità dell’incarico di posizione organizzativa non implica un mutamento in peius delle mansioni precedentemente svolte. Il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza e viene pertanto restituito alle funzioni del profilo cui appartiene. Gli appellanti, tutti dipendenti della Regione Campania in qualità di funzionari, inquadrati in cat. D, posizione 5, livello A, responsabili di strutture denominate “sezioni” dall’art. 7 L.R. n. 11/1991, e, in applicazione del CCDI del 27.03.2000, di “unità organizzative di particolare complessità”, connotate da un elevato grado di autonomia gestionale ed organizzativa, con assunzione diretta di elevata responsabilità di risultato, adivano il Tribunale di Napoli, Sez. Lavoro, e successivamente la Corte d’Appello, Sez. Lavoro, avverso il rigetto dell’istanza di primo grado, al fine di vedersi riconosciuta in via automatica e a tempo indeterminato la posizione organizzativa, revocata a seguito della scadenza della durata massima prevista dal contratto collettivo e dalla normativa di riferimento. Nella fattispecie, gli appellanti lamentano, come primo motivo di gravame, un’omessa considerazione dell’art. 2103 c.c. nell’ambito del pubblico impiego. La Corte d’Appello motiva l’infondatezza del primo gravame in base all’assunto secondo il quale l’art. 2103 c.c. non può, in virtù di un collegamento con l’art. 56 D. Lgs. n. 29/1993, essere applicato nel lavoro pubblico, in quanto nel pubblico impiego manca un diritto alla promozione c.d. automatica per lo svolgimento di mansioni superiori, ostandovi note ragioni di pianta organica e di bilancio pubblico, nonché l’inderogabile principio dell’accesso ad una qualifica mediante concorso pubblico. Inoltre, motiva la Corte, sul piano della ratio, la tutela della professionalità nel lavoro pubblico viene “mediata” dalla contrattazione collettiva, alla quale è delegata anche la funzione di disciplinare in concreto il carattere di equivalenza fra mansioni oggettivamente diverse, mentre sul piano sistematico, se il legislatore avesse voluto richiamare integralmente l’art. 2103 c.c. nell’ambito del lavoro pubblico, avrebbe operato un mero rinvio alla disciplina del lavoro subordinato nell’impresa, contenuto nell’art. 2, co. 2°, t.u. n. 165/2001. Invece, continua la Corte, l’introduzione di una specifica disciplina1 dimostra che vi sono alcune deviazioni, giustificate dalla natura pubblica del datore di lavoro, che, in quanto tale, è sottoposto pur sempre ai principi contenuti nell’art. 97 Cost. Col secondo motivo di gravame, gli appellanti, a seguito del rigetto di istanza cautelare, lamentano che il Giudice del primo grado abbia errato nel rimettere integralmente il concetto di equivalenza delle mansioni svolte alla contrattazione collettiva. In realtà, la Corte evidenzia in sentenza che il legislatore, per l’accertamento dell’equivalenza, non rimanda tout court ai contratti collettivi, ma si limita a precisare nell’art. 52 t.u. n. 165/2001 che il diritto del dipendente pubblico allo svolgimento di mansioni che siano quelle di assunzione o equivalenti siano determinate in base al sistema di classificazione previsto dal contratto collettivo.

1 Art. 56 citato, ora art. 52 T.U. n. 165/2001.

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Il principio di equivalenza, motiva la Corte, costituisce un principio fondamentale del nostro ordinamento, costituzionalmente riconosciuto e tutelato, per cui se l’interprete fosse contrattualmente vincolato nella qualificazione di due mansioni come equivalenti, sorgerebbero di certo dubbi sulla legittimità costituzionale della contrattazione collettiva, nel caso in cui nel concreto le due mansioni si rivelassero diverse sia sotto il profilo quantitativo, nel senso di sforzi adempitivi richiesti al dipendente, che qualitativo, nel senso di bagaglio professionale richiesto per l’adempimento e delle responsabilità connesse. La Corte ritiene, cioè, che in definitiva si verrebbe a verificare una violazione dell’art. 36 Cost. se fosse ipotizzabile l’esperibilità di un giudizio incidentale basato sulla natura del contratto collettivo, in quanto tale atto giuridico non è qualificabile, sul piano delle fonti normative, né come legge né come atto avente forza di legge. Pertanto la Corte esclude che esso abbia una forza normativa così dirompente da sottrarsi al sindacato giurisdizionale. Col terzo motivo di gravame, gli appellanti ritengono che il giudice di primo grado erroneamente abbia escluso che la “posizione organizzativa” equivalga alla responsabilità della “sezione” di cui alla L.R. n. 11/1991. Anche in tal caso la Corte sottolinea l’infondatezza della censura, in quanto il Tribunale già aveva evidenziato che solo in fase di prima applicazione i destinatari della posizione organizzativa vennero individuati in coloro che erano preposti alle sezioni, tra l’altro da scegliere secondo una specifica graduatoria. A conferma di ciò, terminata la fase transitoria, la scelta è stata dalla legge rimessa ai dirigenti, senza necessità che questi fossero obbligati a prediligere i responsabili di sezioni quanto a tali incarichi. In effetti, del tutto legittima è stata la previsione normativa regionale quanto all’istituzione di posizioni organizzative con incarico temporaneo, perché essa è legata ad una riorganizzazione dell’ente (che rientra nell’autonomia organizzativa dello stesso), che lo lega solo nell’adibire il dipendente, successivamente alla destituzione, a mansioni equivalenti. E tali possono dirsi quelle proprie della categoria di inquadramento (D) rispetto alle quali, nel nuovo sistema di inquadramento e classificazione del personale, le “posizioni organizzative” rappresentano un quid pluris. La temporaneità e la revocabilità di tale funzione, tra l’altro attribuita a tutti gli appellanti, attiene, evidenzia la Corte, alla materia devoluta alla contrattazione collettiva; per cui in alcun modo il sindacato giurisdizionale potrà incidere sul merito. La Corte ritiene, inoltre, di dover precisare a tal proposito che l’attribuzione di “posizioni organizzative” rappresenta un possibile ius variandi in senso verticale, che, non implicando mansioni superiori, nella fattispecie fa permanere il titolare sempre nell’ambito della categoria D, e pertanto comporta che qualsiasi dipendente inquadrato in tale categoria può esservi incaricato, così come chi non ne diviene titolare è destinato ugualmente a permanere nella categoria di riferimento. In argomento, ad opinione della Corte, non può essere condivisa la tesi degli appellanti secondo cui la temporaneità e revocabilità della posizione riguardi solo i nuovi titolari incaricati in base al CCDI del 27.03.2000, appartenenti alla cat. D ma non precedentemente responsabili di sezioni, in quanto ciò comporterebbe un’ingiustificata disparità di trattamento non fondata su alcun elemento oggettivo, atteso che per definizione le posizioni organizzative sono tutte eguali per grado, autonomia e responsabilità di risultato. Tuttavia, ritiene la Corte, non può essere trascurato che al momento dell’incarico, i responsabili di sezione erano già assegnatari di una funzione più complessa rispetto ai

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nuovi titolari, così che essi hanno maturato il diritto ad una funzione equivalente a quella precedentemente svolta, proprio in virtù del titolo di livello professionale superiore risalente, con un conseguente mero mutamento dell’oggetto di contratto, e fermo restando il livello professionale anteriore. Non ha invece alcun effetto sull’inquadramento, in quanto quid pluris, il conferimento della posizione per coloro che non erano responsabili di sezione, per cui per questi ultimi si ha solo una mera reversibilità dell’oggetto del contratto di lavoro senza possibilità di mantenere il livello professionale precedente. Queste considerazioni, però, non valevano, per la Corte, all’accoglimento dell’appello, in quanto la domanda degli appellanti veniva formulata in termini di accertamento del diritto alla stabilità nel tempo della posizione organizzativa, con conseguente sottrazione alla temporaneità e revocabilità dirigenziale, che, per le considerazioni fatte dalla stessa Corte, veniva così rigettato.

pr. avv. Emilia Martire PRESCRIZIONE PUBBLICO IMPIEGO – ISTANZA DI PAGAMENTO DI SOMME A TITOLO DI INDENNITÀ DI PIENA DISPONIBILITÀ DA PARTE DEL MEDICO CONVENZIONATO CON IL S.S.N. – PRESCRIZIONE QUINQUENNALE DEI CREDITI – ECCEZIONE DI PRESCRIZIONE PRESUNTIVA ED ESTINTIVA IN APPELLO. Corte di Appello di Napoli, Sez. Lavoro, sent. 13 Giugno/14 Luglio 2006 n. 4389 – *** (avv. Maria Teresa. Marra ) c/ Regione Campania (avv. Alba Di Lascio). La eterogeneità dei presupposti sottesi agli istituti della prescrizione estintiva e presuntiva non osta alla proponibilità contestuale delle eccezioni medesime, bensì alla possibilità di ritenere che in un successivo grado di giudizio, proposta sola una delle eccezioni, si possa ritenere che l’altra sia in essa compresa. In ordine poi alla interruzione della prescrizione ed alla conseguente ritualità della produzione della documentazione si rileva che , pur nel caso di eccezioni rilevabili d’ufficio, l’allegazione dei fatti non può andare disgiunta dalla prova della loro esistenza e che la tempestività di allegazione della sopravvenienza, impone il necessario impiego a questo fine, sotto pena di decadenza, del primo atto difensivo utile successivo. L’appellante, medico convenzionato con il S.S.N., adiva il Tribunale di Napoli, Sez. Lavoro, e successivamente la Corte d’Appello, a seguito di rigetto dell’istanza di primo grado, per vedersi riconosciuto il diritto ai crediti maturati a titolo di indennità di piena disponibilità per il periodo 1988/1993.

Nel costituirsi, in primo grado, la Regione Campania fondava la sua difesa sulle eccezioni di prescrizione presuntiva ed estintiva dei crediti vantati, considerato che il ricorrente depositava il ricorso in giudizio in data 3.07.2001. Il Tribunale di Napoli, con sentenza 5.11.2002 accertava l’intervenuta prescrizione quinquennale dei crediti, reputandola non interrotta dalla lettera di messa in mora del ricorrente risalente al 1995. Il ricorrente propone così gravame alla Corte d’Appello di Napoli, sez. Lavoro, la quale, però, conferma il contenuto della sentenza di primo grado così motivandola.

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Il primo motivo di gravame, fondato sulla ineccepibilità contestuale delle eccezioni, presuntiva ed estintiva, è, secondo la Corte, infondato in quanto, per giurisprudenza risalente, la eterogeneità dei presupposti sottesi agli istituti invocati non osta alla proponibilità contestuale delle eccezioni medesime, bensì alla possibilità che in un successivo grado di giudizio la esperibilità di una sola delle due assorba anche l’altra. Ed invero la Suprema Corte ha affermato il principio in base al quale “proposte in primo grado entrambe le eccezioni e riproposta in appello solo quella di prescrizione presuntiva, l’eccezione di prescrizione estintiva deve ritenersi rinunciata ex art. 346 cpc e non può essere riproposta in sede di legittimità, ritenendola compresa in quella di prescrizione estintiva” 1. Quanto al motivo di gravame relativo all’interruzione della prescrizione mediante messa in mora, la Corte evidenzia anzitutto la rilevabilità d’ufficio della stessa, purché risulti da prove e fatti ritualmente acquisiti nel processo ed in contraddittorio.

Ed invero la Cassazione a Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto insorto sulla natura della eccezione di prescrizione, ha accolto l’opzione ermeneutica alla cui stregua “per sua natura di eccezione in senso lato che la contraddistingue dalla non omogenea eccezione di prescrizione, può essere rilevata d’ufficio dal giudice in qualsiasi stato e grado del processo. Detto potere,però, deve essere esercitato come avviene in tutti i casi di analoghi interventi officiosi del giudice, sulla base di prove, comprese quelle documentali, ritualmente acquisite al processo nonché di fatti anch’essi ritualmente acquisiti al contraddittorio e sempre nel rispetto del principio di tempestività di allegazione della sopravvenienza, che impone la regolare e tempestiva acquisizione degli elementi probatori e documentali nei momenti successivi a quelli in cui è stata sollevata l’eccezione di prescrizione”2. In secondo luogo la Corte di Appello di Napoli sottolinea che, nel caso di specie, non essendo stata la lettera di messa in mora allegata nel termine di decadenza necessario all’allegazione di sopravvenienze, e cioè entro il primo atto difensivo utile successivo, anche questa argomentazione difensiva risulta infondata. Inoltre, aggiunge la Corte, la messa in mora risalente al 1995 non sarebbe stata comunque idonea a sortire l’effetto interruttivo in quanto l’atto introduttivo del giudizio fu depositato oltre i termini quinquennali di prescrizione, e cioè in data 30.07.2001. Allo stesso modo la Corte rileva che non può reputarsi significativo in senso interruttivo il tentativo di conciliazione proposto in data 16.9.1998 in relazione a differenze paga contrattuali nonché relative ad assistiti non pagati, genericamente rivendicati, se tale atto non contiene in realtà alcuna inequivocabile manifestazione di volontà di far valere in sede conciliativa la pretesa azionata nel giudizio de quo.

avv. Alba Di Lascio REINQUADRAMENTO PUBBLICO IMPIEGO – REINQUADRAMENTO NEL RUOLO DIRIGENZIALE A SEGUITO DI IMMISSIONE NEL RUOLO SOPRANNUMERARIO AD

1 Cfr. Cass. 29 gennaio 2003 n. 1287; Cass. 18 maggio 2001 n. 6850. 2 Cfr. Cass. S.U. 27 luglio 2005 n. 15661, Cass. 30 gennaio 2006 n. 2035 ed altre.

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ESAURIMENTO DELLA REGIONE CAMPANIA – INFONDATEZZA ED INAMISSIBILITÀ DELLA DOMANDA. Corte di Appello di Napoli – Sez. Lavoro – sent. 1 agosto 2006 n. 4366 – *** (avv.ti M.L. Ludadio e M.G. Ciccarelli) c/o Regione Campania ( avv. A. Di Lascio) La cessazione dell’ARICA e l’inquadramento del personale già dipendente dall’Associazione non ha integrato un fenomeno successorio e/o di mobilità che imponeva la conservazione immutata di tutti i diritti acquisiti dal personale mobilitato e ciò sull’asserita natura pubblicistica del precedente rapporto, in quanto la L.R.n. 7/1985 espressamente prevede che i rapporti di lavoro dei dipendenti di tale associazione erano di natura esclusivamente privatistica. La sentenza in commento tratta delle rivendicazioni di un dipendente assunto con decorrenza 20.12.1989 dall’ARICA-CONFAGRICOLTURA con inquadramento nella VIII qualifica funzionale e contestuale attribuzione delle funzioni di “coordinatore regionale cui affidare la conduzione dell’associazione”, il quale chiedeva l’attribuzione della qualifica dirigenziale nel passaggio nei ruoli della Regione Campania. Ed invero l’ARICA rientrava tra quegli enti previsti dall’art. 8 della L.R. 3 gennaio 1985 n. 7, la quale chiaramente stabilisce che tali associazioni non avevano natura di enti pubblici, trattandosi per l’appunto di Associazioni costituite da “almeno 200 imprenditori agricoli corrispondenti ad altrettante aziende”, che potevano ottenere il riconoscimento regionale, condizione indispensabile per poter fruire dei contributi annuali previsti dall’art. 11 della medesima legge. Pertanto, contrariamente a quanto asserito dall’appellante, il rapporto di lavoro alle dipendenze dell’ARICA non aveva affatto natura di pubblico impiego, ma aveva carattere privatistico, disciplinato in via primaria dalle norme riguardanti il rapporto di lavoro privato. Da tutto ciò consegue che la cessazione dell’ARICA e l’inquadramento del personale già dipendente dell’associazione, non ha integrato un fenomeno successorio e/o mobilità che imponeva la conservazione immutata di tutti i diritti acquisiti dal personale. Ed infatti la Corte ha correttamente ritenuto che i motivi di gravame formulati dall’appellante, relativamente alla pretesa di essere inquadrato nel personale dirigenziale, per aver svolto mansioni di Direttore nell’ambito dell’associazione medesima, siano tutti infondati. Invero la Corte, contrariamente a quanto sostenuto nel gravame, in cui si legge che il passaggio del personale dipendente dall’associazione integrerebbe un fenomeno di mera mobilità implicante la conservazione immutata di tutti i diritti acquisiti dal personale dipendente mobilitato, ha ritenuto che l’appellante non aveva svolto nell’ambito dell’ARICA alcuna funzione equipollente a quelle che caratterizzano il livello dirigenziale; dalle buste paga risultava infatti semplicemente inquadrato nella categoria degli impiegati, e, d’altra parte, lo stesso Regolamento Organico per il personale dipendente dell’ARICA confermava che le mansioni della figura di Direttore attenessero a “…rapporto di lavoro del personale non dirigente”. Inoltre, ha rilevato sempre la Corte che l’appellante svolgeva in qualità di Direttore le stesse funzioni che oggi rientrano in quelle previste dalla legislazione regionale per i funzionari di livello VIII, attuale categoria D, posizione economica D 3.

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La normativa regionale ha previsto poi la possibilità, nell’ambito di strutture organizzative più complesse, che al funzionario di VIII livello possa essere attribuita la piena responsabilità di un’ autonoma unità operativa, con conseguenti funzioni a rilevanza esterna, direzione e coordinamento delle risorse umane e strumentali assegnate, e definizione delle procedure per il funzionamento e l’organizzazione dell’unità, non eccedenti l’ordinaria amministrazione. Ed in effetti trattasi delle stesse funzioni che lo stesso Regolamento Organico per il personale dipendente dell’ARICA aveva previsto per la figura del Direttore. A fortori, dunque, il Collegio ribadisce la correttezza dell’ inquadramento fatta in relazione alla fattispecie in esame ( quello in cat. D, posizione economica D 3), come già confermato dal tribunale in primo grado. Anche per quanto riguarda il trattamento economico, la Corte ha motivato con lo stesso iter logico. Infatti, questo è stato correttamente equiparato a quello di un dirigente regionale senza incarico, a conferma che non venne operata alcuna equiparazione con il trattamento economico previsto per i dirigenti con incarico di direzione delle strutture organizzative regionali di livello dirigenziale. Dunque l’intero appello, così come proposto, è stato rigettato.

avv. Alba Di Lascio

RISARCIMENTO DANNI

SENTENZA PARZIALE DI CONDANNA GENERICA AL RISARCIMENTO DEI DANNI PASSATA IN COSA GIUDICATA – ACCERTAMENTO DI POTENZIALE IDONEITÀ LESIVA DEL FATTO - GIUDIZIO PER LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO – PROVA DELL’ESISTENZA DEL FATTO LESIVO – NECESSITÀ – MANCANZA – INSUSSISTENZA DEL PRESUPPOSTO DELLA PRETESA RISARCITORIA – RIGETTO DELLA DOMANDA RISARCITORIA . Corte di Appello di Roma, Sezione Prima Civile, sent. 29 dicembre 2006 – 22 gennaio 2007 n. 292. - Regione Campania (avv. Corrado Grande) e **** (avv. Prof. Paolo Tesauro e avv. Tiziana Cardarelli) c/ **** (avv.ti Vittorio Zammit e M. Beatrice Zammit). Il giudicato formatosi sulle statuizioni della sentenza parziale di condanna generica al risarcimento dei danni avente ad oggetto una presunta illegittimità da parte dell’A.I.R. – Autoservizi Irpini S.p.A. e della Regione Campania, nell’esercizio dell’autolinea Avellino-Roma svoltosi dall’1.1.1986 fino alla data da accertare nel giudizio relativo al quantum, non è incompatibile con una pronuncia di rigetto della domanda risarcitoria proposta dalla Viaggi e Turismo Marozzi S.r.l. per inesistenza del fatto lesivo.

Invero la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno da fatto illecito, emessa ex art. 278 c.p.c., integra un accertamento di potenziale idoneità lesiva di quel fatto e non anche l’accertamento del fatto effettivo, la cui prova è riservata alla successiva fase di liquidazione, con la conseguenza che il giudicato viene a formarsi su

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di un’affermazione astratta la quale non osta a che nel giudizio per la liquidazione venga negato il fondamento della domanda risarcitoria 1. La sentenza della Corte di Appello di Roma è incentrata sulla problematica sollevata dalle appellanti AIR – Autoservizi Irpini S.p.A. e Regione Campania in ordine ai vincoli del giudicato formatosi sulle statuizioni della sentenza parziale di condanna generica al risarcimento dei danni, in sede di successiva liquidazione del danno. Nel caso di specie si osserva che il Tribunale di Roma con sentenza parziale n. 12780/95, confermata in sede di appello con sentenza n. 2386/01 e passata in giudicato, ha dichiarato l’AIR – Autoservizi Irpini S.p.A. e la Regione Campania responsabili per la illegittima condotta posta in essere in mancanza di un titolo di legittimazione all’esercizio dell’autolinea Avellino – Roma a partire dal 26.11.1990, condannando le stesse – in solido – al risarcimento dei danni in favore dell’attrice Viaggi e Turismo Marozzi S.r.l., da determinarsi e liquidarsi in prosieguo di giudizio. La sentenza di condanna generica è basata sul presupposto che la esecutività della deliberazione della Regione Campania n. 563/88, con la quale era stato affidato in concessione all’A.I.R. – Autoservizi Irpini S.p.A. il detto servizio pubblico di autolinea, era stata sospesa dal TAR del Lazio con Ordinanza n.1398 del 15.11.1990, notificata il 26.11.1990, in attesa del giudizio di merito. A riguardo si precisa che la Corte di Appello di Roma, con la citata sentenza parziale n. 2386/01, non ha accolto la fondata richiesta della Regione Campania di sospensione del giudizio civile, in attesa della definizione del giudizio amministrativo, con la seguente motivazione: “la sentenza di primo grado non definitiva non contiene alcuna pronuncia riguardo al termine da prendere in considerazione per la definizione della durata dell’attività illecita della Gestione Commissariale della Regione, da accertarsi, pertanto, con la sentenza che determinerà l’entità del danno”. Successivamente il Consiglio di Stato con sentenza n. 7307/2004 ha definitivamente dichiarato la improcedibilità del giudizio nel cui ambito il provvedimento interdettale di sospensione era stato pronunciato, con la conseguente riviviscenza ex tunc della citata delibera di G.R.C. n. 563/88 di concessione e la legittimità, quindi, del contestato esercizio, definitivamente cessato in data 20.11.1999. Nessun ostacolo dunque ad una pronuncia di insussistenza dell'illecito e del conseguente danno, già oggetto della condanna generica di cui alla sentenza parziale dei Tribunale di Roma n. 12780/95, passata in giudicato, essendo comunque consentito, per consolidata giurisprudenza, arrivare nel successivo giudizio di liquidazione anche a negare il fondamento della pretesa risarcitoria, contenendo la pronuncia di condanna generica solo un accertamento di potenziale idoneità dei fatti considerati a produrre danno. Con la caducazione del citato provvedimento interinale n. 1398/00, sopravvenuta solo in data 11.11.2004, in conseguenza dell’anzidetta pronuncia di improcedibilità del Consiglio di Stato n. 7307/2004, i termini della questione si sono completamente ribaltati; infatti non vi può essere alcun dubbio sull’efficacia ex tunc del venir meno della sospensione disposta dall’art. 21 Legge 6.12.1971 n. 1034, la quale per la sua natura strumentale e funzione cautelativa del tutto provvisoria non fa venir meno l’atto sospeso e nemmeno la sua validità, ma soltanto impedisce temporaneamente e con efficacia ex nunc,

1 Conforme Cass. n. 9709/2003 e n. 22384/2004.

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la possibilità di portare l’atto ad ulteriore esecuzione1 nella prospettiva poi di perdere ogni efficacia e vigore a seguito della decisione con cui si conclude il giudizio, nella quale essa rimane assorbita con l’esaurimento della funzione cautelare che la caratterizza. Ne deriva, pertanto, che la concessione all’AIR della linea Avellino – Roma di cui alla delibera di G.R.C. n. 563/1988 non ha avuto interruzioni di validità di sorta, fino alla cessazione del servizio nel novembre 1999, eliminando così ogni connotato di abusività dell’attività. In definitiva la Corte di Appello di Roma, con la sentenza emarginata, ha statuito che la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno per fatto illecito, emessa ex art. 278 c.p.c., integra un accertamento di potenziale idoneità lesiva di quel fatto, e non anche l'accertamento del fatto effettivo, la cui prova è riservata alla successiva fase di liquidazione. Tale accertamento di lesività potenziale prescinde dalla misura ed anche dalla stessa concreta esistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi su detta pronuncia non osta a che nel giudizio instaurato per la liquidazione venga negato il fondamento della domanda risarcitoria, previo accertamento del fatto che il danno non si sia in concreto verificato. avv. Corrado Grande SPESA FARMACEUTICA SPESA FARMACEUTICA – LEGITTIMAZIONE PASSIVA DELLA A.S.L. – RAPPORTI A.S.L. REGIONE CAMPANIA – DIFETTO DI GIURISDIZIONE . Tribunale di Ariano Irpino, sent. 28 dicembre 2006 n. 638 – A.S.L. AV 1 (avv.ti O. Barile e G. Cerrato) c/ ***** ( avv. A. Aucelli) e Regione Campania (avv. M. F.Luongo). I rapporti tra l’ASL e la Regione Campania in tema di finanziamento della spesa farmaceutica appartengono alla giurisdizione del Giudice Amministrativo, in quanto sussiste tra gli stessi enti un rapporto di natura strettamente pubblicistico. Ne consegue che nei giudizi proposti dai farmacisti innanzi al Giudice Ordinario per ottenere dall’ASL il pagamento di quanto dovuto, la predetta ASL non può invocare a sostegno delle proprie inadempienze il mancato trasferimento dei fondi ad opera della Regione Campania, in virtù della Delibera G.R. n. 2106/2004 in quanto le controversie tra i due enti, avente ad oggetto la corresponsione della provvista finanziaria per lo svolgimento di un pubblico servizio, rientrano nella giurisdizione del G.A.

La sentenza in commento riguarda un giudizio di opposizione proposto dall’ASL AV 1 avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dal Dr. **** titolare della omonima farmacia per il mancato pagamento della spesa farmaceutica relativa ad alcuni mesi dell’anno 2005. Nel predetto giudizio è stata chiamata in causa dalla medesima ASL anche la Regione Campania, per essere dalla stessa garantita, atteso che il mancato pagamento era addebitabile unicamente al predetto Ente che non aveva trasferito all’ASL i fondi necessari per l’adempimento delle obbligazioni in virtù della Delibera G.R. n. 2106/2004. Il Giudice, accogliendo le difese regionali, ha ritenuto sussistere il difetto di giurisdizione nei rapporti tra ASL e Regione, rapporto di carattere strettamente

1 Cass n. 12051/2003.

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pubblicistico e come tale appartenente alla giurisdizione del Giudice Amministrativo, in quanto non si configura affatto una posizione di diritto soggettivo dell’ASL rispetto alla Regione Campania. Ed invero la Regione Campania era stata chiamata in causa in quanto si voleva accertare la sua responsabilità quale Ente finanziatore del servizio sanitario locale, ma è evidente che le controversie tra due enti avente ad oggetto la corresponsione della provvista finanziaria per lo svolgimento di un pubblico servizio rientrano nella giurisdizione del G.A. Infatti la predisposizione dei mezzi finanziari necessari per lo svolgimento di un servizio pubblico è inscindibilmente connaturale a quest’ultimo, e non già mera “attività strumentale” rispetto ad esso. Invero la provvista finanziaria non integra un’attività strumentale al servizio, cioè un’attività estranea alla diretta finalizzazione al servizio pubblico : la provvista finanziaria è concettualmente inscindibile dal servizio, trovando esso nei mezzi di finanziamento la stessa possibilità di esistenza, pena l’astrattezza della nozione. Non può esistere servizio pubblico se non esiste il correlato finanziamento, donde l’essenzialità (e non la strumentalità) di quest’ultimo in ragione della stretta interdipendenza tra servizio e provvista. La controversia sulla mancata erogazione dei mezzi finanziari per l’espletamento del servizio inerisce, quindi, per sua stessa natura, alla materia dei pubblici servizi. Infatti nelle controversie relative ad attività istituzionalmente e direttamente finalizzate a soddisfare i bisogni della collettività sussiste la giurisdizione del Giudice Amministrativo,trattandosi in buona sostanza di “obbligazioni pubbliche”. Sul piano funzionale, invero, l’obbligazione pubblica – che, inerisce, in particolare, secondo l’elaborazione dottrinale, ad istituti di politica economica aventi fini di incentivazione (finanziamenti pubblici, indennizzi, contributi, e così via ) – si incardina in un rapporto obbligatorio che si pone in subordinata ad un procedimento amministrativo, e quindi attiene a modalità di cura di interessi principalmente pubblici; l’amministrazione è titolare di un potere autoritativo nella preminente fase procedimentale genetica del rapporto e quindi può, con proprie determinazioni unilaterali, definire modi di essere o vicende successive al rapporto stesso. Ciò è quanto accaduto nella presente controversia, trattandosi di finanziamento alle ASL per spesa farmaceutica; in tali ipotesi si è realizzato un vero e proprio rapporto di servizio, interamente retto da norme di carattere pubblicistico, di talchè eventuali controversie afferenti a siffatto rapporto non possono che essere devolute alla cognizione del G.A.1. Da tutto quanto detto, è evidente il difetto di giurisdizione del Giudice Ordinario a favore del Giudice Amministrativo. A riprova del rapporto pubblicistico esistente tra ASL e Regione Campania vanno altresì considerate le modalità di attribuzione dei fondi del servizio sanitario nazione ad opera della Regione Campania. Ed invero ai sensi dell’art. 28 L.R. 32/94 è statuito che al riparto del finanziamento provvede la Giunta Regionale con proprio atto sulla base delle indicazioni contenute nel piano sanitario regionale. Infatti la Deliberazione di G.R.C. n. 2106 del 19.11.2004, invocata proprio da controparte per sostenere il suo presunto credito nei confronti della Regione Campania, è chiara e non lascia adito a dubbi sulla sua interpretazione. Tale delibera, che prevede la ripartizione dei fondi integrativi ottenuti dalla Regione Campania a valere sul FSN 2002, ai sensi dell’accordo Stato-Regioni dell’8 agosto 2001 e delle L. 405/2001 e 112/2002, ed altre disposizioni per il finanziamento corrente del Servizio Sanitario Regionale, espressamente statuisce “Di rinviare alle future 1 Cass. S.U. 11309/95 , Cass. S.U. 2668/93 e Consiglio di Stato n. 6489 del 5.10.2004.

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assegnazioni…., a titolo di modifica e/o integrazione del FSR per l’esercizio 2004, il regolamento delle differenze …. tra le effettive erogazioni per cassa rispetto all’assegnazione di competenza ….. specificando che tali differenze rappresentano, quindi, rispettivamente crediti e debiti verso la Regione Campania, non liquidi, né esigibili : essi saranno liquidati a valere sulla integrazione del FSN attesa dalla Regione Campania per l’esercizio 2004, se e quando sarà ottenuta, e previa delibera della Giunta regionale di riparto dell’integrazione medesima; in caso contrario, saranno iscritti dalle singole aziende, rispettivamente,a sopravvenienze passive o attive…”. Ne consegue che nessun credito può vantare l’ASL AV 1 nei confronti della Regione Campania, né può giustificare le sue inadempienze per tale motivo, in quanto il finanziamento del Servizio Sanitario Locale è subordinato alla integrazione che la stessa Regione deve ricevere dal Fondo Sanitario Nazionale. Ciò, si precisa, sempre se sarà ottenuta e previa ulteriore delibera di riparto dell’ integrazione. Si conferma anche sotto tale aspetto il difetto di giurisdizione del Giudice Ordinario: deve esserci un atto deliberativo della P.A. di riparto, per cui non sussiste a favore delle aziende sanitarie alcun diritto soggettivo al pagamento, essendo la delibera sottoposta alla condizione sospensiva dell’ulteriore riparto di integrazione ed essendo in ogni caso sempre necessario una ulteriore delibera, che spiega e determina anche le modalità di attribuzione delle risorse , procedendo anche ad una comparazione degli interessi pubblici coinvolti. È chiara poi la delibera nel precisare che le eventuali differenze rappresentano nei confronti della Regione Campania crediti né liquidi né esigibili e ciò sempre a dimostrazione della fondatezza del difetto di giurisdizione, non essendo l’ASL titolare di alcun diritto soggettivo da poter azionare innanzi al Giudice Ordinario. Ma vi è di più! Ed invero i fondi che la Regione eroga alle varie AA.SS.LL. sono fondi integrativi e non esclusivi o esaustivi, in quanto non bisogna dimenticare che le stesse sono dotate di personalità giuridica e di autonomia patrimoniale. Infatti con il D.Lgs. 502/92, in materia di riordino del sistema sanitario nazionale, sono state istituite le AA.SS.LL. , enti autonomi rispetto alla Regione, alle quali è rimesso il compito di assicurare il livello di assistenza sanitaria nell’ambito del territorio di competenza, competenza poi meglio definita con la L.R. Campania n. 32/94, che in attuazione del D.Lgs. su richiamato, ha definito le modalità organizzative ed il funzionamento delle stesse nonché la loro decorrenza a far data dall’1.1.1995. Le AA.SS.LL. sono dotate di personalità giuridica e di autonomia organizzativa, amministrativa , patrimoniale, gestionale e contabile. Pertanto alla luce di quanto detto, in materia di rimborsi farmaceutici il rapporto esiste solo tra l’ASL competente per territorio e il titolare della farmacia. avv. Maria Filomena Luongo

MANSIONI E QUALIFICHE

MANCATO RICONOSCIMENTO GIUSTO INQUADRAMENTO LAVORATIVO – NATURA EXTRACONTRATTUALE DELL’AZIONE RISARCITORIA – INSUSSISTENZA DEI REQUISITI DI CUI ALL’ART. 2043 C.C. .

Corte di Appello di Napoli, IV Sez. Civ., sent. 20 febbraio – 15 maggio 2006 n. 1506 – Regione Campania (avv. ti Gaetano Cennamo e Antonio Postiglione) c/ ***.

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Mentre il risarcimento del danno derivante da causa di lavoro legittimamente avviene sulla base del solo rapporto di occasionalità necessaria fra le funzioni svolte, il risarcimento danni, ai sensi dell’art. 2043 c.c., presuppone oltre al nesso di causalità, l’antigiuridicità del fatto ed il comportamento colposo del responsabile. Il possesso del titolo di laurea non conferisce il diritto al riconoscimento di qualifiche né di assegnazione a mansioni diverse da quella conseguite nell’ambito del legittimo espletamento delle procedure di assunzione e di eventuale successiva assegnazione a qualifiche e mansioni superiori; ed ovviamente, il possesso di un diploma di laurea non conferisce il diritto di ottenere l’instaurazione di procedure di concorso adeguate alla valorizzazione del titolo, né tantomeno alla illegittima assegnazione a mansioni superiori. Peraltro, pur a voler estendere il diritto al rispetto della qualificazione professionale al di là dei limiti dell’ inquadramento contrattuale, lo stesso non può coincidere con il rispetto della qualifica accademica. Con la sentenza in commento, la Corte di Appello di Napoli, in accoglimento del gravame, promosso dalla Regione Campania, avverso la pronuncia di prime cure, con la quale la stessa era stata condannata al risarcimento dei danni asseritamene subiti dall’istante, a motivo di un suo presunto demansionamento, ha rigettato la pretesa risarcitoria azionata dall’attrice, compensando al 50% le spese del presente grado. La decisione in epigrafe si segnala per un duplice profilo. Per un verso, si accosta al tema della ‘risarcibilità’ del danno, in un rinnovato scenario dove la categoria del danno risarcibile si sta, oramai, troppo sfilacciando, data la tendenza espansiva del suo ambito di applicazione, ancorandone, piuttosto, la responsabilità alla sussistenza di precisi requisiti, unica garanzia, ancora, affinché la stessa risulti correttamente imputata.

Per altro verso, essa offre significativi spunti di riflessione per l’approfondimento della interessante problematica inerente l’inquadramento professionale dei lavoratori, tema strettamente connesso a quello della definizione del concetto di qualifica lavorativa e di mansione, collocandosi, appunto, all’interno del dibattito giurisprudenziale e dottrinale, che si è a lungo sviluppato intorno a tale tematica.

Onde poter meglio comprendere la portata del dictum, occorre brevemente riepilogare i fatti. Al riguardo è da dire che, con atto di citazione notificato, l’attrice aveva lamentato un presunto illegittimo ed illecito comportamento fattivo/omissivo, tenuto dalla Regione Campania in occasione del suo inquadramento professionale nei ruoli del personale regionale, circostanza questa che le avrebbe procurato una sindrome ansiosa depressiva che andava, quindi, ristorata.

Il Tribunale di Napoli, innanzi al quale il relativo contenzioso era stato incardinato, aveva accolto la domanda attorea, condannando la convenuta al risarcimento dei danni. Il Giudice di prime cure, con un ragionamento suffragato da elementi assolutamente inconferenti e/o infondati, aveva ritenuto, del tutto inopinatamente, di poter collegare la giuridica responsabilità dell’Ente datoriale al riconoscimento, a seguito della visita del Collegio Medico Regionale1, della malattia “sindrome depressiva”, come dipendente dalla causa di servizio. Nella sentenza è, infatti, affermato che: “Con tale riconoscimento,

1 Esso aveva espressamente stabilito che: “Tale quadro patologico è certamente legato alla sua vicenda vitale frustrante concernente le mansioni non attinenti al titolo di studio posseduto”

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implicitamente la Regione Campania ha ammesso di avere arrecato, direttamente o indirettamente, durante il rapporto di lavoro, un danno all’*** e di non averla addetta alle mansioni dovute. In effetti la Regione Campania, riconoscendo la malattia per causa di servizio, ha riconosciuto che la malattia è dipesa dal rapporto di lavoro ed ha riconosciuto la propria responsabilità”.

Avverso tale pronuncia la Regione Campania proponeva appello, deducendone l’ingiustizia e l’erroneità.

In particolare la Regione obiettava, nei propri atti difensivi, non solo che l’accertamento compiuto dal Collegio Medico Regionale fosse finalizzato al mero riconoscimento dell’equo indennizzo, che, come è noto, compete al pubblico dipendente in virtù dell’oggettiva sussistenza di una menomazione della integrità psico-fisica, ascrivibile a causa di servizio, indipendentemente da qualsiasi responsabilità dell’Ente datoriale, ma soprattutto che, nella P.A., il pubblico dipendente ha diritto esclusivamente all’assegnazione delle mansioni proprie della relativa qualifica professionale, ovvero del livello di inquadramento, ma non certo di quelle eventualmente connesse al titolo di studio posseduto.

La Corte di Appello di Napoli, nel riformare la sentenza impugnata, ha pienamente valorizzato le argomentazioni ed eccezioni vanamente formulate dalla difesa regionale in primo grado.

In buona sostanza la Corte territoriale, con l’enunciazione della massima di diritto in commento, muovendo dalla considerazione che l’azione proposta - correttamente incardinata innanzi all’ a.g.o - deve essere interpretata come diretta al ristoro del danno extracontrattuale1, in quanto ciò che viene in rilievo non è l’attribuzione di mansioni lavorative diverse da quelle corrispondenti al suo inquadramento contrattuale, riconosce che l’unica forma di responsabilità astrattamente applicabile alla fattispecie de qua è quella ex art. 2043 c.c., non essendo, d’altra parte, sufficiente un mero rapporto di occasionalità tra le funzioni svolte, necessario, invece, per la risarcibilità del danno derivante da causa di servizio. Cosicché, dopo aver rilevato che il diritto dell’appellata al risarcimento del danno era stato riconosciuto unicamente sulla base del ritenuto nesso di causalità fra la situazione lavorativa, considerata inadeguata rispetto alla propria qualifica professionale, e la sindrome ansioso-depressiva lamentata, osserva che, nel caso di specie, non sussistono due dei requisiti essenziali per la configurazione di un obbligo risarcitorio (ex art. 2043 c.c.), anche in capo alla P.A.: vale a dire l’antigiuridicità del fatto ed il comportamento colposo del responsabile. Nessuna colpa è, quindi, imputabile alla Regione Campania, sul

1 Cfr. T.A.R. Caloria Catanzaro, sez. I, 29 maggio 2003, n°1927: “In tema di azione per il risarcimento del danno subito in relazione ad un rapporto di lavoro subordinato, l’azione di responsabilità extracontrattuale deve ritenersi proposta tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore di quella contrattuale. L’azione di responsabilità contrattuale, inoltre, deve essere espressamente fondata sull’inosservanza, da parte del datore di lavoro, di una precisa obbligazione contrattuale, non essendo sufficiente la semplice prospettazione dell’inosservanza del precetto dell’art. 2087 c.c. o delle altre disposizioni legislative strumentali alla protezione delle condizioni di lavoro del dipendente”. Viceversa, in tema di risarcimento del danno quale conseguenza del demansionamento, pur essendo ampiamente controversa la natura giuridica della responsabilità datoriale, è di recente prevalso l’orientamento secondo cui il danno risarcibile, in ipotesi di dequalificazione del lavoratore, ed in ogni altro caso in cui sia raffigurabile, da parte datoriale, una violazione di obblighi imposti per legge o per contratto, si configurerebbe come danno per inadempimento contrattuale, con tutte le conseguenze che ciò comporta sul piano probatorio. [Cfr. ex multis Cass. 5. 2. 00 n. 1307].

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cui legittimo operato si è, tra l’altro, già definitivamente pronunciata l’Autorità Giudiziaria, con effetto di giudicato.

È noto, per costante giurisprudenza1, infatti, che la risarcibilità dei danni derivanti ai soggetti privati da atti e/o provvedimenti illegittimi della P.A. richiede la positiva verifica della sussistenza di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c.. Il Giudice, deve, dunque: a) accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) stabilire se l’accertato danno sia qualificabile come ingiusto in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento; c) accertare, sotto il profilo causale, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta della P.A.; d) stabilire se lo stesso sia imputabile a dolo o colpa della P.A.; e) accertare l’esistenza di una ragionevole quantificazione del danno. Passando brevemente al secondo profilo di rilevanza della menzionata sentenza, emerge, ictu oculi, come la Corte territoriale, condividendo pienamente l’asserto regionale, abbia inteso nettamente distinguere la nozione di qualifica professionale da quella di qualifica accademica, ricollegando esclusivamente alla prima il valore di parametro di riferimento nell’assegnazione delle mansioni. Nel riconoscere che il pubblico dipendente ha diritto a svolgere mansioni inerenti unicamente alla qualifica professionale di assunzione2 o a quella superiore che abbia successivamente acquisito, esclude, infatti, che la qualifica accademica (titolo di laurea) possa determinare il sorgere di un autonomo diritto del lavoratore al riconoscimento di qualifiche3 e/o svolgimento di mansioni differenti da quelle di assunzione e all’assegnazione di mansioni superiori.

Ponendosi nel solco di una consolidata giurisprudenza, a mente della quale la professionalità, intesa come un bene in fieri, suscettibile di continuo accrescimento, consiste nell’insieme di nozioni, esperienze, cognizioni tecniche ed abilità operativa che si acquisiscono nel corso dell’attività lavorativa e di cui deve essere salvaguardata la possibilità di ulteriore utilizzazione ed affinamento (Cfr. ex multis Cass. 17.3.90 n. 2251), la Corte ha ritenuto non sussistente, nel caso di specie, il ‘danno alla professionalità’, inteso come “svuotamento delle mansioni del lavoratore” e come “riduzione dell’attitudine lavorativa dello stesso” (Cfr. Trib. Roma 4.4.2000; Cass. 4.8.2000 n. 10284; Trib. Milano 25.3.2000), in quanto, per l’appunto, come confermato da altra costante giurisprudenza, non si verserebbe in ipotesi di attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle corrispondenti alla qualifica, ovvero di costrizione all’inattività che si concretizza nell’impoverimento del patrimonio professionale della vittima, oppure nel mancato sviluppo dello stesso.

pr. avv. Roberta Amelio

1 Cfr. Cass. Civ. 29.03.2004 n. 6199; Cass. Civ. 21.09.2001 n. 11955. 2 Cfr. T.A.R. Calabria, 6.4.2000 n. 306: “In materia di pubblico impiego, l’impiegato ha il diritto all’esercizio delle funzioni inerenti alla qualifica ed al profilo professionale che gli sono stati attribuiti in sede di assunzione e, pertanto, la P.A. non può adibirlo a mansioni inferiori o comunque diverse da quella proprie della qualifica rivestita se non per eccezionali esigenze di servizio in situazioni di necessità e per una durata limitata, senza, comunque, modificarne lo stato giuridico ed il trattamento economico”. 3 Sul riconoscimento al diritto alla qualifica in genere come bene autonomamente tutelabile si sono confrontate numerose posizioni dottrinarie (V.Giugni, Liso, Ichino, ecc.) e giurisprudenziali (Cfr. Cass. 19.02.1985 n.1497; Cass. 1.9.87 n. 7151; Cass. 29.10.1998 n. 10832).

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Giurisprudenza Costituzionale

AUTONOMIA FINANZIARIA REGIONALE – QUESTIONE LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE INDENNITÀ TITOLARI ORGANI POLITICI REGIONALI – DETERMINAZIONE –COMPETENZA STATALE – ESCLUSIONE – COMPETENZA REGIONALE – SUSSISTENZA Corte Costituzionale, sent. 18 aprile 2007 n. 157 – Regione Campania (avv.ti V. Baroni e V. Cocozza) c/ Presidenza Consiglio Ministri È costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 54, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006)”, nella parte in cui riduce, “nella misura del 10 per cento rispetto all'ammontare risultante alla data del 30 settembre 2005”, gli emolumenti ai titolari degli organi politici regionali. Ciò in quanto l’indicata disposizione, ponendo un precetto specifico e puntuale, comprime l'autonomia finanziaria regionale, eccede dall'ambito dei poteri statali in materia di coordinamento della finanza pubblica (sentenza n. 417 del 2005), dando luogo ad un'indebita invasione dell'area riservata dall'art. 119 Cost. alle autonomie regionali È inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 55, della predetta legge n. 266 del 2005, promossa in riferimento agli artt. 114, 117, 118 e 119 della Costituzione, atteso che il predetto comma disciplina l'entrata in vigore e il periodo di efficacia della riduzione del trattamento economico dei sottosegretari di Stato disposta dal correlato comma 53 non oggetto di impugnazione. È inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 54, della stessa legge n. 266 del 2005, promossa in riferimento agli artt. 114 e 118 della Costituzione.

FINANZE E TRIBUTI REGIONALI COMPARTECIPAZIONE REGIONALE IVA – DISCIPLINA MODALITÀ CORRESPONSIONE – POTESTÀ LEGISLATIVA STATALE – SUSSISTENZA Corte Costituzionale, sent. 14 giugno 2007 n. 194 – Regione Campania (avv.ti V. Baroni e V. Cocozza) c/ Presidenza Consiglio Ministri Sono non fondate le questioni di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 119 Cost. e del principio della leale collaborazione, dell'art. 1, comma 322, della legge n. 266 del 2005, a norma del quale “le risorse finanziarie dovute alle regioni a statuto ordinario in applicazione delle disposizioni recate dai commi 319 e 320, sono corrisposte secondo un piano graduale definito con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze da adottare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, entro il 31 marzo 2006”.

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Ciò in quanto l’indicata disposizione, che si riferisce alle somme che lo Stato deve erogare alle regioni a titolo di compartecipazione all'IVA, non lede l'autonomia finanziaria delle regioni prevista dall'art. 119 della Costituzione, limitandosi a riconoscere allo Stato la possibilità di procedere con gradualità alla corresponsione di somme che sono maturate nel corso di un periodo di quattro anni, né risulta lesiva del principio della leale collaborazione istituzionale, dovendosi ritenere sufficiente la forma di collaborazione prevista dalla norma de qua (parere della Conferenza Stato-Regioni).

IMPOSTA REDDITO PERSONE FISICHE –IRPEF. DETERMINAZIONE BENEFICIARI DEL CONTRIBUENTE QUOTA CINQUE PER MILLE IRPEF – POTESTÀ LEGISLATIVA STATALE – SUSSISTENZA. Corte Costituzionale, sent. 6 giugno 2007 n. 202 – Regione Campania (avv.ti V. Baroni e V. Cocozza) c/ Presidenza Consiglio Ministri. Sono non fondate le questioni di legittimità costituzionale, per violazione degli artt.114, 117, 118 e 119 Cost. e del principio della leale collaborazione, dei commi 337, 339 e 340 dell'art. 1 della legge n. 266 del 2005, concernente “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006”. Ciò in quanto le indicate disposizioni non incidono nel settore della politica sociale, di esclusiva competenza regionale ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., laddove non prevedono finanziamenti vincolati, ma la devoluzione della quota del 5 per mille dell'IRPEF ai soggetti beneficiari (associazioni di volontariato e attività nel settore sociale e della ricerca), sulla base della volontà del contribuente, sia pure con la necessaria mediazione dello Stato. Quest’ultimo, pertanto, non effettua una spesa, ma si limita, in esecuzione del vincolo di destinazione impresso dal medesimo contribuente, a corrispondere l'indicata quota d'imposta ad un soggetto svolgente un'attività considerata dall'ordinamento socialmente o eticamente meritevole. REGIONE CAMPANIA - ORGANIZZAZIONE – ATTIVITÀ RICERCA DISCIPLINA FUNZIONI ORGANI REGIONALI - RISERVA POTESTÀ NORMATIVA STATUTARIA REGIONALE - SUSSISTENZA ATTIVITÀ RICERCA IRCCS – CONTROLLO REGIONALE – INCOSTITUZIO-NALITÀ Corte Costituzionale, sent. 14 giugno 2007 n. 188 – Presidenza Consiglio Ministri c/ Regione Campania (avv.ti V. Baroni e V. Cocozza)* È costituzionalmente illegittimo l'art. 4, comma 3, della legge della Regione Campania 29 dicembre 2005, n. 24 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – legge finanziaria 2006) laddove, intervenendo a disciplinare il riparto di funzioni tra Giunta, Presidente e singoli Assessori da un lato, e Consiglio dall'altro, in assenza del previo adeguamento dello statuto alle modifiche introdotte dalla legge cost. n. 1 del 1999, altera il sistema delle relazioni tra gli organi

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regionali delineato dagli artt. 20 e 31 dello statuto regionale in tema di forma di governo, con conseguente violazione dell'art. 123 della Costituzione che riserva alla fonte statutaria tale disciplina. È costituzionalmente illegittimo, per violazione del terzo comma dell'art. 117 Cost. e del principio di leale collaborazione, l'art. 7, comma 2, della legge della Regione Campania n. 24 del 2005 laddove,nel sottoporre l'attività di ricerca degli IRCCS al controllo della Regione, viola i principi fondamentali posti dal D.lgs. n. 288 del 2003 e, in particolare, della previsione, contenuta nell'art. 8, comma 3, che sottopone tale attività alla vigilanza del Ministro della salute. È estinto, per intervenuta rinuncia accettata dalla controparte, il giudizio concernente l'art. 23 della legge della Regione Campania n. 24 del 2005, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. È cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, della legge della Regione Campania n. 24 del 2005 promosse, in riferimento all'art. 117, terzo comma, della Costituzione e al principio di leale collaborazione desumibile dal combinato disposto degli artt. 117, 118, primo comma, e 120 Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Sono non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 7, commi 3 e 4, della legge della Regione Campania n. 24 del 2005.

TRASPORTI –QUESTIONE INCIDENTALE LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE CONTRIBUTI DI ESERCIZIO – CONGUAGLI –– PROROGA TERMINE – INCOSTITUZIONALITÀ Corte Costituzionale, sent. 18 aprile 2007 n. 156 – Presidenza Consiglio Ministri c/ Regione Campania (avv.ti V. Baroni e V. Cocozza)

Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 1, comma 3, della legge della Regione Campania 12 novembre 2004, n. 8 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria regionale 2004), e 17, comma 1, della legge della Regione Campania 5 agosto 1999, n. 5 (Disposizioni di finanza regionale) nella parte in cui prevedono la proroga del termine entro il quale la Giunta regionale determina l'ammontare dei conguagli da operare sui contributi di esercizio versati in acconto a favore delle aziende di trasporto pubblico locale, il contrasto con gli artt. 3, 97, 117, 123 e 127 della Costituzione.

Ciò in quanto le indicate disposizioni determinano, in successione, la duplice riapertura di un termine procedimentale perentorio, senza che tale effetto trovi una sua giustificazione sia sotto il profilo della ragionevolezza sia sotto quello del rispetto del principio di buona amministrazione, essendo esclusivamente finalizzate a rimediare alla prolungata inerzia della struttura amministrativa regionale, in violazione altresì del giustificato affidamento creato nei soggetti coinvolti dalle dette disposizioni in ordine all'avvenuto consolidamento della situazione sostanziale che nel frattempo si era creata.

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PROFESSIONI - QUESTIONE LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE PROFESSIONI - MUSICOTERAPISTA - ISTITUZIONE – POTESTÀ LEGISLATIVA REGIONALE - INSUSSISTENZA

Corte Costituzionale, sent. 19 dicembre 2006 n. 4240 – Presidenza Consiglio Ministri Regione c/ Regione Campania (avv.ti V. Baroni e V. Cocozza).

L’art. 117, terzo comma, Cost., include la materia delle professioni tra quelle oggetto di competenza legislativa concorrente e, rispetto ad essa, debbono ritenersi riservate allo Stato sia l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, nonché l’istituzione di nuovi albi, sia la disciplina dei titoli necessari per l’esercizio delle professioni. Con la sentenza in epigrafe la Corte Costituzionale affronta una questione giuridica interessante, pur non presentando quest’ultima aspetti di particolare complessità giuridica o di difficile soluzione. Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha sollevato questione di legittimità Costituzionale in relazione agli artt. 2, comma 1, lettera b), 4, 5 e 6 della L.R.C. n. 18/05, concernente “Norme sulla musicoterapia e riconoscimento della figura professionale di musicoterapista”, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, nonché per contrasto coi principi fondamentali delle leggi statali in materia di professioni, materia per la quale sussiste potestà legislativa concorrente. Il ricorso è stato accolto con una pronuncia che appare corretta e basata su un iter logico-giuridico esaustivo ed esente da profili di censurabilità.. La legge regionale impugnata definisce la musicoterapia come “attività psico-pedagogica e socio-sanitaria di pubblico interesse”, avente quale scopo “lo sviluppo e la riabilitazione di potenziali funzioni dell’individuo per il raggiungimento di una migliore integrazione sul piano intrapersonale e interpersonale e, conseguentemente, di una migliore qualità della vita” (art. 1). Essa, inoltre, qualifica il musicoterapista come “un soggetto in possesso di diploma superiore di secondo grado e con una buona conoscenza della musica, che ha svolto un corso triennale di impostazione multidisciplinare socio-psicopedagogico-medico-musicale e un tirocinio di un anno presso strutture pubbliche o convenzionate o del privato sociale, della formazione primaria e della riabilitazione, con supervisione clinica e di musicoterapica” (art. 2); dispone che il musicoterapista svolge funzioni di prevenzione, di riabilitazione e socio-sanitarie (art. 3); istituisce, presso l’Assessorato alla Sanità della Regione Campania, “il registro professionale regionale dei musicoterapisti al quale possono iscriversi coloro che hanno superato il corso per la formazione di musicoterapisti e che hanno effettuato il tirocinio professionale di almeno trecento ore o un anno presso centri specializzati pubblici o privati, con supervisione clinica e di musicoterapica” (art. 5).

L’art. 117, terzo comma, Cost., include la materia delle professioni tra quelle oggetto di competenza legislativa concorrente, rispetto alla quale la Corte Costituzionale ha più volte affermato che debbono ritenersi riservate allo Stato sia l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, nonché l’istituzione di nuovi Albi1, sia la disciplina dei titoli necessari per l’esercizio delle professioni1. 1 Corte Cost. sent. n. 40 del 2006; nn. 424; 355 e 319 del 2005.

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Dall’esame della normativa regionale e dai richiamati principi costituzionali, enunciati dalla Corte in giudizi analoghi, aventi ad oggetto leggi regionali disciplinanti pratiche terapeutiche non convenzionali2, discende l’illegittimità delle disposizioni della Legge Regione Campania n. 18/05, laddove con le stesse viene definito un nuovo profilo professionale in materia sanitaria, essendo il musicoterapista un soggetto che esegue un particolare tipo di terapia al fine di prevenire o curare le conseguenze di determinati disturbi psichici o fisici. Le indicate disposizioni, pertanto, ricadono tutte nel campo riservato allo Stato in forza dell’art. 117, terzo comma, Cost. Né poteva la Corte pervenire a conclusioni diverse facendo leva sulla disciplina, richiamata dalla difesa regionale, introdotta dalla recente Legge 1° febbraio 2006, n. 43, concernente “Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professionali”, ai sensi della quale, secondo l’assunto regionale, il musicoterapista non rientrerebbe nella tipologia professionale sanitaria prevista dall’art. 1, comma 1) L. cit., bensì in quella diversa tipologia degli “operatori di interesse sanitario non riconducibili alle professioni sanitarie come definite dal comma 1” (art. 1, comma 2), per la quale le Regioni sarebbero abilitate ad interventi legislativi anche più incisivi rispetto a quello effettuato con la legge impugnata. Il musicoterapista svolge funzioni che la L.R.C. n. 18/05 qualifica di natura preventiva, riabilitativa e socio-sanitaria, ossia funzioni che presentano quei caratteri che, a norma dell’art. 1, comma 1, della L. 43/06, sono propri delle attività espletate da coloro che esercitano professioni sanitarie. L’indicata sopravvenuta normativa, infatti, nel definire le professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione, stabilisce che tali sono “quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2000, n. 251, e del decreto del Ministro della sanità 29 marzo 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 23 maggio 2001, i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione” (art. 1, comma 1). Poiché l’intera Legge regionale in esame è inscindibilmente connessa con le disposizioni specificamente censurate, ai sensi dell’art. 27 della Legge 11 marzo 1953, n. 87, la Corte Costituzionale ha esteso la declaratoria di illegittimità costituzionale, in via consequenziale, anche agli artt. 1, 2 comma 1, lettera a), e 3, non oggetto di specifica impugnazione.

avv. Rosanna Panariello

1 Corte Cost. sent. n. 153 del 2006. 2 Corte Cost. sent. 353 del 2003

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Pareri

PARERE PP 137/05 - 09/07 – D. LGS 152/2006 ART. 94 AREE DI SALVAGUARDIA ACQUE SUPERFICIALI – DISCIPLINA EDILIZIA RESIDENZIALE.

QUESITO: Possibilità di rilasciare da parte delle Amministrazioni comunali permessi di costruire nelle zone di rispetto ristretto dei pozzi destinati all’uso potabile in mancanza della disciplina regionale prevista dall’art. 94, comma 5, del D. Lgs n. 152/1996. PARERE: La questione prospettata nella richiesta di parere concerne, principalmente, l’applicazione del decreto legislativo n. 152/2006 che detta le norme in materia ambientale ed in particolare, all’art. 94 disciplina la tutela delle aree di salvaguardia delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano. All’interno di tali aree la norma in parola individua due zone di tutela: 1) zona di tutela assoluta, che è costituita dall’area immediatamente circostante alle zone di captazione o alle derivazioni e che deve avere un’estensione di almeno mt. 10 di raggio dal punto di captazione; 2) zona di rispetto, costituita dalla porzione di territorio circostante la zona di tutela assoluta che può essere a sua volta suddivisa in zona di rispetto ristretta ovvero di rispetto allargata. Tali zone sono sottoposte a vincoli di destinazioni e d’uso allo scopo di tutelare le risorse idriche. Relativamente alla zona di rispetto l’art. 94 al comma 4 elenca espressamente tutte le attività vietate, fra le quali non sono comprese le opere di edilizia residenziale e di urbanizzazione che, invece, vengono indicate nel successivo comma 5 alla lett. b). La norma rubricata stabilisce che entro centottanta giorni dall’entrata in vigore del decreto le Regioni disciplinano, all’interno delle zone di rispetto, l’esecuzione delle opere e delle attività che possono essere realizzate, nel rispetto di particolari prescrizioni. Fra dette opere sono comprese le opere di edilizia residenziale e quelle di urbanizzazione (lett. b) comma 5). Il successivo sesto comma prevede che in assenza dell’individuazione da parte delle regioni della zona di rispetto la medesima ha un’estensione di mt. 200 dal punto di captazione o di derivazione. Dal tenore della norma in commento appare evidente che il legislatore nazionale non intendeva vietare l’attività edilizia ed urbanistica nelle zone di rispetto ma di disciplinarne l’esecuzione attraverso una normativa di dettaglio, demandata alle regioni, alle quali spetta il compito di limitare le attività e le destinazioni di tali aree nel rispetto delle prescrizioni e dei divieti vigenti, allo scopo di tutelare e proteggere le falde che costituiscono un bene primario.

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In effetti le Regioni sono chiamate ad individuare concretamente sul territorio le sorgenti, i pozzi ed i punti di presa d’acqua potabile attorno ai quali individuare le attività e le destinazioni delle aree stesse, nei limiti delle prescrizioni e dei divieti di cui ai commi 4,5 e 7 dell’articolo in esame. La Regione Campania, allo stato, ha adottato il piano di tutela delle acque a norma dell’art. 121 del D.Lgs. 152/2006, con deliberazione di Giunta Regionale n. 1220/2007, ma non ha ancora disposto le misure di salvaguardia e le priorità degli interventi da realizzarsi. Tuttavia il piano adottato nell’allegato “TOMO II” – Vol. 3/5 – concernente la prevenzione dall’inquinamento delle acque sotterranee individua i “vincoli territoriali nella zona di rispetto ristretta”, richiamando espressamente l’art. 21, comma 4, del D.Lgs n. 152/99. Nell’ambito degli interventi di edilizia residenziale il piano in parola stabilisce le prescrizioni e gli accorgimenti che devono essere adottati per la realizzazione di opere edili da eseguirsi nelle zone di rispetto ristrette (cfr. pag. 28). In linea di principio, dunque, potrebbe ritenersi che nelle zone di rispetto ristrette non sussista un divieto assoluto concernente la realizzazione di opere di edilizia residenziale, ma che certamente sussistano dei limiti e dei vincoli per la realizzazione delle opere suddette. Ciò posto, atteso, pertanto, che nella normativa di riferimento non si rinviene un divieto assoluto a costruire nelle zone di rispetto ristrette e considerato che l’Amministrazione regionale sta provvedendo a disciplinare la materia in base alle prescrizioni del legislatore, per quanto concerne la fattispecie esaminata può ritenersi che l’amministrazione comunale, a seguito di un accurato iter istruttorio possa eventualmente rilasciare permessi di costruire nella zona di rispetto individuata dal comma 6 dell’art. 94 del ripetuto D.L.gs. n. 152/2006, imponendo tutte le prescrizioni del caso così come previsto dalla normativa statale vigente, dal piano di tutela delle acque della Regione Campania nonché dagli strumenti urbanistici adottati dalle Amministrazioni sia a livello locale quanto sovraordinato.

ESTENSORE: avv. Lidia Buondonno

PP/119-11-04/2007 – DETERMINAZIONE CANONE DI NATURA ENFITEUTICA E CAPITALE DI AFFRANCO TERRENI DI USO CIVICO

QUESITO:Individuazione dei criteri di determinazione di un coefficiente moltiplicatore dell’attuale reddito dominicale di terreni gravati da uso civico ed abusivamente occupati, propedeutico per la futura determinazione del valore di affrancazione.

Come è noto, per i beni di uso civico la disciplina dell’affrancazione, sia pure

alquanto lacunosa, è prevista dall’art. 33 del R.D. n. 332 del 1928 secondo cui i canoni imposti in applicazione degli artt. 7 e 10 della l. n. 1766 del 1927 possono

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essere affrancati (trattandosi di un diritto soggettivo del legittimato di natura potestativa) anche all’atto stesso della conciliazione o della legittimazione ed il capitale di affrancazione resterà vincolato ai termini dell’art. 24 della legge del 1927. Esiste spesso un parallelismo, non escludibile a priori, tra il procedimento di affrancazione degli usi civici e quello previsto per le enfiteusi, tant’è che al di là della correttezza o meno dell’impostazione prescelta, alcuni enti ritengono in autonomia di poter procedere ad una unica affrancazione, di solito, per enfiteusi nei casi in cui nel territorio siano presenti, in una sorta di confusione e sovrapposizione, entrambi i beni suindicati.

La funzione della normativa sottesa ai due istituti è indubbiamente la stessa perché si dirige, sebbene con modalità diverse anche verso l’obbiettivo dell’affrancazione del bene, con determinate condizioni, con la retrocessione dell’interesse pubblico rispetto a quello di matrice privata. È da dire, infatti, che il sistema dell’affranco nasce con la vetusta legge del 1927 e si trasfonde, per altro verso, solo successivamente nel codice civile del 1942 per cui esiste indubbiamente un rapporto di mutua implicazione. Non a caso per entrambi si parla di un calcolo matematico per 10 (annualità di interessi) e/o per 15. Resta fermo, dunque, che solo l’enfiteusi - istituto alquanto desueto - e l’uso civico (molto presente nei nostri territori) possono essere affrancati. Ma vi è di più. L’elemento di confusione-sovrapposizione tra i due istituti è rappresentato nella maggior parte dei casi dal rinvenimento del termine “livello” negli atti catastali. Se per “livello” si intende un indicatore di un rapporto enfiteutico le procedure sono completamente diverse, in quanto mentre per i terreni di uso civico si applicano le leggi del 1927 e del 1928, per l’enfiteusi vige la normativa del codice civile (artt. 957-975 c.c.) e delle leggi nn. 607/1966, 1138/1970 e 270/1974.

Qualche similitudine, tuttavia, tra enfiteusi (istituto largamente desueto e soggetto ad usucapione) ed usi civici si può rilevare sul piano dell’affrancazione dei terreni.

Se con l’affrancazione ordinaria l’enfiteuta consegue ex novo l’acquisto del diritto di proprietà del terreno, con l’affrancazione degli usi civici, poiché il legittimario è già titolare del diritto di proprietà per effetto della stessa legittimazione, si verifica soltanto una sorta di effetto espansivo del diritto preesistente, in quanto il diritto di proprietà già esistente viene soltanto liberato dall’obbligo di corresponsione del canone annuo imposto con il provvedimento di legittimazione (e la cui mancata corresponsione potrebbe portare alla reintegra).

Vale sottolineare, poi, che con riferimento alle Ordinanze di legittimazione anteriori al 1941 nulla è dovuto dai cittadini livellari a seguito della legge 29 gennaio 1974 n. 16 riguardante appunto l’estinzione dei rapporti reali e personali costituiti anteriormente alla data del 28 ottobre 1941 con canoni enfiteutici, censi e livelli e altre prestazioni in denaro o in derrate inferiori a lire mille annue (c.d. Rinuncia ai diritti di credito inferiori a lire mille). Secondo tale legge sono estinti i rapporti perpetui reali e personali, costituiti anteriormente, alla data del 28 ottobre 1941, in forza dei quali le Amministrazioni e le aziende autonome dello Stato, comprese l'Amministrazione del fondo per il culto, l'Amministrazione del fondo di beneficenza

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e di religione nella città di Roma e l'Amministrazione dei patrimoni riuniti ex economali hanno il diritto di riscuotere canoni enfiteutici, censi, livelli e altre prestazioni in denaro o in derrate, in misura inferiore a lire 1.000 annue. L'equivalente in denaro delle prestazioni in derrate corrisposte annualmente in qualità fissa o variabile sarà determinato con gli stessi criteri stabiliti dall'articolo 1 della legge 22 luglio 1966, n. 607. Ai sensi, poi, dell’articolo 2 gli uffici che provvedono alla riscossione delle prestazioni di cui all'articolo 1 procederanno, senza alcun onere per i debitori, alla chiusura delle relative partite di credito, dandone comunicazione agli obbligati iscritti nei libri debitori nonché agli altri uffici interessati.

In tali casi, quindi, i cittadini possono attivarsi nel richiedere agli uffici competenti il nulla osta alla cancellazione del livello dagli atti catastali qualora ciò non sia ancora avvenuto ex officio.

La nuova determinazione del canone “enfiteutico” per i terreni in regime di enfiteusi, laddove non già consacrato in precedenti contratti (il che incide anche sul prezzo dell’affrancazione ex art. 971 c.c. ed ex art. 9 della legge n. 1138 del 1970), segue la recente evoluzione della giurisprudenza costituzionale ed amministrativa.

Infatti, per quanto riguarda i terreni già concessi in enfiteusi, salve alcune plausibili eccezioni di usucapione e mancato esercizio del potere di ricognizione ex art. 969 c.c. nonchè prescrizione (sul piano della riscossione del canone), sarebbe opportuno procedere, come più volte sottolineato, nell’ambito di un intervento generale, alla loro ri-assegnazione con un contratto di affitto di fondo rustico novennale rinnovabile.

Nel caso in cui il rapporto enfiteutico è ancora in essere e viene corrisposto regolarmente il relativo canone esso è affrancabile versando una somma ex art. 9 della l. n. 1138 del 1970 pari a 15 volte il canone, in quel momento corrisposto, pari a sua volta al reddito dominicale maggiorato dell’80 per cento.

Per i terreni in uso civico, invece, laddove manchino i presupposti previsti ex lege per l’affrancazione è possibile sanare, salvo reintegra, l’occupazione abusiva con il contratto di affitto richiamato. Tale contratto rappresenta sicuramente un elemento comune ai due istituti richiamati.

Nel caso specifico dell’affrancazione del terreno in enfiteusi (mediante il pagamento di una somma pari a 15 volte l’ammontare del canone a suo tempo determinato) si applica indubbiamente la disciplina codicistica di cui all’art. 971 c.c. e la sorte di cui alle leggi nn. 607/1966, 1138/1970 e 270/1974.

Particolare rilievo assume, poi, quella giurisprudenza nomofilattica secondo cui in tema di affrancazione la dichiarazione di illegittimità dell’art. 1 della l. n. 270 del 1974 nella parte in cui non prevede che i valori di riferimento da essi prescelti per la determinazione dei canoni enfiteutici siano periodicamente aggiornati mediante “l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata con una ragionevole approssimazione la corrispondenza all’effettiva realtà economica”, non ha comportato il venir meno dell’efficacia della relativa disposizione e la reviviscenza dell’art. 971 ultimo comma c.c., in quanto la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una omissione legislativa fornisce essa stessa un principio a cui il giudice è abilitato a fare riferimento per porre nel frattempo rimedio all’omissione in via di individuazione della regola del caso concreto.

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In conclusione, secondo la richiamata giurisprudenza, in assenza di una normativa chiara e certa, sia sul piano statale sia sul piano regionale, per il calcolo delle somme di affranco, nulla esclude che possa applicarsi in via analogica ed alternativa-sussidiaria, data l’esiguità delle somme, la presenza dei livelli e la confusione dei terreni nello stesso Comune, anche la previsione codicistica in tema di enfiteusi, che nella sua desuetudine e solitudine istituzionale verrebbe rivitalizzata sotto questo importante profilo.

ESTESORE: avv. Beatrice Dell’Isola

PP 0041-06-01/2007 – TRASFERIMENTO RAMO D’AZIENDA – SORTE DELLE AGEVOLAZIONI PREVIAMENTE CONCESSE.

QUESITO: Se legittimi la revoca del contributo, previamente concesso per la realizzazione di un progetto di Ricerca e Sviluppo ai sensi della L. 598/94, la circostanza che la ditta concessionaria abbia trasferito il ramo d’azienda al quale il progetto stesso afferisce. PARERE. Si riscontra la nota prot. n. 180071 del 26 febbraio 2007, con la quale - nel premettere che le società “x” ed “y”, concessionarie di contributi per la realizzazione di progetti di Ricerca e Sviluppo ai sensi della L. 598/94, avrebbero rispettivamente trasferito la titolarità dei progetti stessi unitamente alle relative agevolazioni alle società “w” e “z”- “si chiede formale parere circa i trasferimenti delle succitate agevolazioni, tenuto conto che l’articolo 18 dell’avviso ad evidenza pubblica (di cui al D.D. n. 434 del 17 luglio 2003 che regola le procedure di concessione e gestione dei contributi in parola) al secondo capoverso recita: “È fatto espresso divieto della cessione della titolarità dell’agevolazione, che il beneficiario conserva fino al completamento del progetto”. Alla richiesta in esame risultano allegati: a) per quanto riguarda la società “x”: il verbale di assemblea straordinaria della società “w” (con sede in Firenze) di aumento del capitale sociale, in parte sottoscritto appunto dal socio “x” e da questi liberato (anche) attraverso conferimento in natura, avente ad oggetto il ramo di azienda deputato all’esercizio dell’attività di installazione di reti per energia, telecomunicazioni e reti idriche, settore al quale (secondo la perizia di stima allegata al verbale) afferisce, per contenuti e finalità, il progetto finanziato dalla Regione Campania; b) per quanto riguarda la società “y”: l’atto di scissione della società medesima in due società, e precisamente la “y” e la “z” di nuova costituzione; il verbale di assemblea straordinaria della “y” di modifica dell’oggetto sociale e riduzione del capitale sociale; gli statuti delle due società ed alcune pagine del progetto di scissione. In proposito, va preliminarmente sottolineato che dall’esame della citata documentazione non emerge con certezza - contrariamente a quanto invece si sostiene nella nota di richiesta del parere - se la titolarità e la responsabilità delle attività

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progettuali oggetto di finanziamento pubblico siano state o meno trasferite, nel primo caso, per effetto del conferimento del ramo di azienda dalla società “x” alla società “w” e, nel secondo caso, a seguito dell’atto di scissione della “y” e del connesso trasferimento di una parte del suo patrimonio alla “z”. Neppure risultano disposizioni aventi specificamente delle agevolazioni pubbliche rispettivamente concesse alle società “x” ed “y” ad oggetto la sorte delle agevolazioni pubbliche rispettivamente concesse alle società “x” ed “y”. Più precisamente, per quanto riguarda la società “x”, si osserva che nel citato verbale di assemblea del 17 maggio 2006 non risultano menzionati né il progetto di ricerca, né la relativa agevolazione e che in esso si legge, piuttosto, che “Sono esclusi i crediti aziendali che saranno fino alla data di oggi … a favore … della società x …”.. Inoltre, non si rinvengono fra i documenti allegati né lo statuto sociale aggiornato della società “w” (per cui non è dato neppure di sapere quale sia l’attività sociale della “w” e, quindi, se effettivamente essa comprenda o meno l’attività di ricerca e sviluppo afferente il progetto originariamente nella titolarità della “x”), né lo statuto aggiornato della “x” (in relazione alla quale non risulta, pertanto, se dopo il conferimento abbia conservato una qualche attività e di che tipo, o se addirittura abbia cessato ogni attività, il che assumerebbe altresì rilevanza ai fini delle consequenziali determinazioni da assumere ai sensi del precitato avviso regionale) Neanche la perizia di stima (di cui sono state trasmesse soltanto alcune pagine) offre a tale riguardo maggiori elementi di certezza, in quanto, dopo aver premesso che la società “x” ha costituito sia un centro di ricerca dotato di un proprio laboratorio con le attrezzature necessarie per la ricerca, sia un laboratorio di meccanica che è il luogo fisico in cui verranno sfruttati i risultati della ricerca e, quindi, il luogo dello sfruttamento industriale del progetto, non specifica nulla circa il valore e la sorte di tali laboratori. Il perito, inoltre, pur inserendo i progetti di ricerca in corso di realizzazione da parte della “x” (fra cui quello finanziato dalla Regione Campania) fra i “Costi Ricerca & Sviluppo (Immobilizzazioni immateriali)”, afferma che gli stessi “non sono valutabili in termini di maggior valore dell’aggregato costi di ricerca e sviluppo, poiché non supportati da documentazione dimostrante spese sostenute dal ramo di azienda oggetto di perizia…”. Per quanto concerne la “y”, si osserva che dalla relativa documentazione emerge che tale società, nel costituire (per effetto della scissione) la “z”, non le ha trasferito un proprio ramo d’azienda (afferente il progetto finanziato), ma soltanto alcuni elementi patrimoniali (attivi e passivi), quindi atomisticamente considerati, i quali, peraltro, sono indicati in un allegato del progetto di scissione di cui la Scrivente non è a conoscenza, in quanto non trasmesso. Emerge, inoltre, che l’oggetto sociale della “y”, così come risultante dopo la scissione, risulta conseguentemente ridimensionato soltanto da un punto di vista quantitativo ma non qualitativo, anche in relazione al più modesto, in quanto ridotto, capitale sociale (cfr. verbale di assemblea del 30 settembre 2005). Una volta chiarito, pertanto, che sulla scorta della documentazione trasmessa non è sostenibile con certezza quanto prospettato dal Settore richiedente circa il trasferimento della titolarità dei contributi in questione, si formulano, in ogni caso, le

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seguenti osservazioni, di carattere generale, in ordine all’interpretazione e alla portata dell’ art. 18 dell’avviso regionale nella parte (richiamata dalla richiesta di parere) in cui sancisce il divieto di cessione della titolarità dell’agevolazione prima del completamento del progetto. Orbene, dal tenore letterale della disposizione in parola si evince che oggetto del divieto è il trasferimento del contributo concesso dalla P.A., che deve rimanere nella titolarità e disponibilità del concessionario fino alla completa realizzazione del progetto. La ratio del divieto in esame risiede evidentemente nell’esigenza di garantire l’effettiva destinazione del contributo al perseguimento delle finalità d’interesse pubblico connesse all’espletamento ed al completamento del progetto di ricerca e sviluppo finanziato. Ciò posto, in mancanza di ulteriori specificazioni da parte della norma in questione, ci si deve domandare se l’ambito di operatività della stessa risulti circoscritto alle sole ipotesi di cessione del contributo tout court, ovvero possa essere esteso anche ai casi in cui la cessione del contributo non esaurisca il contenuto dell’atto di disposizione, venendosi, piuttosto, a collocare nel più ampio contesto di una cessione di azienda ovvero di un ramo di azienda, implicante l’effettiva continuazione da parte di un nuovo soggetto imprenditoriale della medesima attività d’impresa (previamente facente capo al beneficiario) alla quale è connesso il progetto di ricerca e sviluppo, la cui titolarità e responsabilità risulti, altresì, oggetto di cessione. In questo secondo caso, in effetti, non si porrebbe un problema di distrazione del contributo pubblico rispetto alle finalità per le quali è stato concesso, ma soltanto un problema di accertamento dei requisiti soggettivi ed oggettivi dell’impresa subentrante all’ottenimento (rectius mantenimento) del medesimo contributo1 finalizzato alla realizzazione del progetto. A parere consultivo e non vincolante della Scrivente, né la lettera, né la ratio dell’art. 18 sembrano consentire un’interpretazione estensiva del divieto. Siffatta conclusione, del resto, appare confortata da una lettura sistematica dell’articolo in parola, e cioè da un’interpretazione che tenga conto anche della disciplina espressa in disposizioni connesse, contenute nel medesimo avviso regionale. Al riguardo, si evidenzia, infatti, che l’art. 14 dell’avviso, rubricato “Variazioni”, dispone che “14.1 Le imprese sono tenute a comunicare tempestivamente a MCC … ogni … fatto ritenuto rilevante ai fini dell’andamento dell’operazione. MCC …

1 Al riguardo, si evidenzia, che ai sensi dell’art. 10 dell’avviso (rubricato “Criteri per la concessione del contributo”), MCC svolge, avvalendosi di esperti esterni del settore, anche un’attività istruttoria di valutazione delle iniziative in fase di monitoraggio successivo al decreto di concessione, che, nella specie, dovrebbe essere in particolare rivolta all’accertamento della sussistenza delle condizioni riguardanti l’“idoneità/qualità del soggetto proponente da misurarsi in termini di capacità finanziaria dell’impresa a realizzare il progetto” (art. 10.1, lett. a) e della “fattibilità economico-finanziaria dell’intervento” (art. 10.1, lett. e), tenuto conto peraltro che l’affidabilità economico-finanziaria delle imprese viene accertata sulla base di parametri che implicano la considerazione del capitale netto e più in generale di dati risultanti dall’ultimo bilancio approvato (art. 10, co. II).

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predisporrà una proposta all’AGC Ricerca Scientifica ai fini delle determinazioni in ordine al permanere dell’agevolazione. 14.2 Le imprese sono tenute, altresì, a comunicare tempestivamente a MCC cessazioni o modificazioni di attività nonché l’assunzione di ogni delibera comportante modifiche dell’assetto aziendale/societario (ad es. fusione, incorporazione, liquidazione volontaria) nonché ogni variazione degli organi amministrativi … ed a produrre tempestivamente la documentazione necessaria anche ai fini della eventuale richiesta di riscontri antimafia aggiornati, ai sensi della normativa vigente in materia. 14.3 Resta, altresì, inteso che la mancanza di dette comunicazioni da parte delle imprese, potrà comportare la revoca dell’intervento agevolativo con le conseguenze di cui al successivo punto 17”. Orbene, tale disposizione non collega automaticamente a qualsiasi modificazione di attività sociale, ovvero a qualsiasi modifica dell’assetto aziendale/societario ovvero ancora degli organi amministrativi del concessionario, la revoca dei contributi previamente concessi, ma stabilisce soltanto un dovere del concessionario di tempestiva informazione, considerando, piuttosto, l’omessa comunicazione dei suddetti avvenimenti e l’omessa produzione della relativa documentazione quali possibili cause di revoca dell’intervento agevolativo. Tale norma, letta altresì in combinato disposto con l’art. 17 (rubricato “Cessazione e revoca del contributo”), peraltro espressamente richiamato, e con l’art. 10 (Criteri per la concessione del contributo), lascia intendere, infatti, che le suddette modificazioni possono determinare la cessazione ovvero la revoca del contributo soltanto se integrino gli estremi delle fattispecie espressamente contemplate quali cause di cessazione o di revoca del contributo dall’art. 17 (si pensi, in particolare, alla cessazione dell’attività dell’impresa beneficiaria, all’interruzione dell’iniziativa per cause imputabili all’impresa beneficiaria ovvero all’alienazione, cessione o distrazione dei beni acquistati con l’intervento agevolativo prima che abbia termine quanto previsto dal progetto ammesso) ovvero abbiano comportato il venir meno dei requisiti di ammissibilità del contributo di cui all’art. 10.

a) se le società beneficiarie dei contributi hanno tempestivamente proceduto alle dovute comunicazioni, ai sensi dell’art. 14 dell’avviso;

b) se al momento della stipulazione degli atti di cessione posti in essere dalle società beneficiarie i progetti finanziati con contributo pubblico erano in corso di svolgimento ovvero conclusi;

c) se nell’ambito della cessione del ramo d’azienda effettuata dalla “x” a favore della “w” rientri anche la titolarità e la responsabilità della realizzazione del progetto finanziato e la relativa agevolazione;

d) nel caso in cui l’agevolazione unitamente alla responsabilità della realizzazione del progetto in corso siano state escluse dalla cessione: se comunque, alla luce delle modifiche statutarie della “x”, persistano o meno in capo a quest’ultima i requisiti per il mantenimento dell’agevolazione; e inoltre se siano o meno configurabili ipotesi di cessazione o di revoca del contributo, a seguito della cessazione dell’attività d’impresa connessa alla realizzazione del progetto di ricerca e sviluppo, nonché dell’eventuale dismissione dei beni strumentali alla realizzazione del progetto stesso;

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e) nel caso contrario in cui venga accertato il trasferimento del progetto in corso e dell’agevolazione alla “w”: se quest’ultima possegga o meno i requisiti soggettivi e oggettivi per il mantenimento del medesimo contributo;

f) se la cessione di singoli elementi del proprio patrimonio effettuata dalla “y” in favore della “z” includa o meno anche la titolarità e la responsabilità della realizzazione del progetto finanziato e la relativa agevolazione;

g) nel caso in cui detto trasferimento non sia avvenuto: se, alla luce delle modifiche statutarie della “y”, persistano o meno i requisiti per il mantenimento della concessione e se siano o meno configurabili ipotesi di cessazione o di revoca del contributo;

h) nel caso contrario di trasferimento dell’agevolazione alla “z”: se, trattandosi di trasferimento avulso da un’effettiva cessione di ramo d’azienda ed effettuato anteriormente alla completa realizzazione e conclusione del progetto di ricerca, risulti violato il divieto di cui all’art. 18 nell’accezione innanzi prospettata.

. ESTENSORE: avv. Tiziana Monti

PARERE PP 0001-10-00-2007 - PROCEDURA APERTA PER L’AFFIDA-MENTO DEL SERVIZIO DI VIGILANZA ARMATA, GUARDIANIA, RECEPTION A BENI DI PROPRIETÀ REGIONALE E A STRUTTURE ADIBITE A UFFICI DELLA G.R. UBICATE NELL’AREA METROPOLITANA DI NAPOLI. LOTTI NA1 E NA2. QUESITO: Se, in presenza di un’ istanza di rinuncia alla partecipazione alla gara presentata da un’ATI concorrente, si debba comunque procedere agli adempimenti consequenziali all’esclusione, nelle more, disposta dalla Commissione di gara. PARERE: Si riscontra la nota prot n. 0008532del 04/01/2007, con la quale l’A.G.C Demanio e Patrimonio informa che la Commissione di gara, prima di procedere all’apertura dei plichi contenenti la documentazione e le offerte, ha chiesto a tutti i concorrenti di comprovare, entro 10 giorni dalla data di ricezione della relativa richiesta, le dichiarazioni concernenti il possesso dei requisiti previsti dal punto d) e dal punto ae) dell’art 3 del Capitolato Speciale d’Appalto. In particolare, circa il requisito di cui al punto d) i partecipanti dovevano far pervenire, nel termine prefissato, il certificato di iscrizione nel registro delle imprese della C.C.I.A.A. in corso di validità; per quello che concerne il requisito di cui al punto ae), poi, i concorrenti dovevano inoltrare, sempre nel termine stabilito, le copie conformi delle fatture e/o di altro documento giustificativo della spesa emessi dalle imprese per appalti analoghi a quello aggetto di gara, svolti negli ultimi tre anni e riportati nell’elenco allegato alla dichiarazione di cui al già citato punto ae).

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L’A.G.C. riferisce che la predetta richiesta è stata inoltrata a mezzo fax, in data 22/11/2006 anche all’ATI composta dalla mandataria x, e dalle mandanti y, w, z e k; solo per quest’ultima la trasmissione della richiesta della Commissione di gara è stata effettuata a mezzo telegramma in data 23/11/2006. L’A.G.C., sul punto, rappresenta che la mandataria dell’ATI sopra citata con nota, assunta al protocollo in data 6/12/2006, ha comunicato di rinunciare alla partecipazione alla gara precisata in oggetto e ha chiesto la restituzione del plico contenente l’offerta, ancora integro e agli atti della Commissione di gara. Viene, altresì, precisato che la Commissione di gara con Verbale n. 3 del 6/12/2006 in riferimento all’ATI in esame ha disposto l’esclusione dalla gara dell’ATI stessa ai sensi dell’art 48 del D.Lgs. 163/2006 “per non aver trasmesso la documentazione richiesta nel termine di 10 giorni dalla data della richiesta medesima” e che tale esclusione era stata comunicata ai componenti dell’ATI in data 11/12/2006 con nota prot. 1027776. Ciò posto, l’A.G.C. è interessata a conoscere l’avviso della Scrivente sulla questione prospettata e, quindi, sapere se, nel caso in esame, l’istanza di rinuncia alla partecipazione presentata dell’ATI possa avere seguito ovvero si debba procedere agli adempimenti consequenziali all’esclusione disposta dalla Commissione di gara. In argomento, preliminarmente, è necessario formulare un’osservazione di carattere generale attinente alla natura della Commissione di gara che, com’è noto, è un collegio perfetto che al suo interno possiede tutte le competenze professionali e tecniche necessarie ad espletare al meglio la procedura di gara indetta dall’Amministrazione. Anche per la Commissione giudicatrice, infatti, vale il principio relativo “a tutti gli Organi tecnici, chiamati ad esprimere una valutazione che funge da atto propedeutico al provvedimento conclusivo del procedimento, una volta che sia stato espresso il giudizio”(cfr. TAR Liguria Sez. I, 13/1/2006). La Commissione di gara, infatti, è l’organo tenuto ad esaminare e a valutare la documentazione esibita e le offerte presentate dai partecipanti e, quindi, a disporre l’ammissione ovvero l’esclusione degli stessi dalla gara, in base a disposizioni normative generali, a quelle contenute nella lex specialis della procedura ed ai criteri interpretativi e di valutazione che la Commissione stessa si è data, a tutela delle imprescindibili esigenze di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. Tanto premesso,in merito al quesito formulato si osserva quanto segue: - l’art 48 del D.Lgs. 163/2006 (ex art 10 L. 19/94) prevede che “le stazioni appaltanti prima di procedere all’apertura delle buste delle offerte presentate richiedono ad un numero di offerenti non inferiore al 10 per cento delle offerte presentate, arrotondato all’unità superiore, scelti con sorteggio pubblico di comprovare il possesso dei requisiti di capacità economico- finanziaria e tecnico- organizzativa……………. Quando tale prova non sia fornita, ovvero non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta, le stazioni appaltanti procedono all’escussione della relativa cauzione provvisoria e

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alla segnalazione del fatto all’Autorità di Vigilanza per i provvedimenti di cui all’art. 6. comma 11…” ; - l’ATI in esame ha dato riscontro comunque tardivamente alla richiesta, formulata dalla Commissione di gara ai sensi del art 48 D.Lgs. citato, in quanto la nota di risposta è pervenuta solo in data 6/12/2006, con la conseguenza che la Commissione stessa, a termine scaduto, in osservanza alle disposizioni recate dall’art. 48 citato, ha disposto immediatamente l’esclusione del raggruppamento dalla gara in attesa di procedere all’escussione della cauzione provvisoria e alla segnalazione alla competente Autorità ; - in sede di verifica ai sensi dell’art. 48 richiamato, infatti, alla mancata dimostrazione, entro il termine assegnato, del possesso dei requisiti dichiarati consegue l’esclusione dalla gara del concorrente, l’escussione della cauzione e la segnalazione all’Osservatorio sui LL. PP. per l’applicazione delle sanzioni previste (cfr. TAR Lombardia, sez. III, 7/6/2006 n. 1325 ); - la disposizione recata dall’art. 48 più volte citato, che, come già detto, prevede la possibilità per le Amministrazioni aggiudicatici di verificare l’effettivo possesso dei requisiti solo dichiarati in sede di partecipazione alle gare, inoltre, non deve necessariamente essere ristretta alle solo ipotesi ivi contemplate, vale a dire, alle imprese sorteggiate nel 10% dei concorrenti da sottoporre a verifica, nonché all’aggiudicataria ed alla seconda graduata, poiché tale facoltà costituisce espressione di un potere generale di contrarre secondo regole predefinite di tutela della concorrenza che impongono determinati requisiti di natura tecnico- organizzativa e di capacità economico- finanziaria, alle imprese che partecipano alle gare pubbliche (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 7/4/2006 n 1897); - la nota di riscontro dell’ATI in esame, oltre ad essere pervenuta comunque tardivamente rispetto al termine prefissato, a fronte della dell’attivazione generalizzata della facoltà di verifica attribuita alle stazioni appaltanti dal più volte citato art 48 contiene una comunicazione di rinuncia alla partecipazione alla procedura in essere e una richiesta di restituzione del plico dell’offerta non ancora esaminato; - la richiesta dell’ATI, di rinuncia alla partecipazione di cui alla nota del 6/12/2006, oltre ad essere comunque tardiva parrebbe connotarsi come un tentativo di sfuggire comunque alle ulteriori conseguenze previste, in sede di verifica ex art 48 nuovo codice degli appalti per i concorrenti che non comprovino i requisiti dichiarati ovvero non confermino le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta. . ESTENSORE: avv. Adriana Ciniglio.

PARERE PP 15/01- 02/2007 – PAGAMENTO DI PRESTAZIONI ESEGUITE IN ASSENZA DI CONTRATTO SCRITTO QUESITO: Se sussiste in capo all’Ente Regione l’obbligo di effettuare il pagamento richiesto dalla *** S.p.a. in assenza di contratto scritto.

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PARERE: Si riscontra la nota prot. 2007.0081902 del 29/1/07 con la quale è stato chiesto di conoscere l’avviso di questa Avvocatura in ordine alla sussistenza, in capo all’Ente Regione, dell’obbligo di effettuare il pagamento richiesto dalla *** S.p.a. con nota del 17.10.2006. In particolare il Settore richiedente, con la nota che si riscontra, ha rappresentato: - che la società istante ha trasmesso la fattura n. 270/2004 e la fattura n. 245/2005 per un importo complessivo pari a € 9.360,00 relative rispettivamente a pubblicazioni fotografiche e alla fornitura di n. 1000 cartelline; - che a seguito di ricerche esperite non è stato possibile reperire alcun provvedimento formale con il quale si conferiva incarico alla x, delle modalità di esecuzione e del prezzo pattuito; - che la x a sua volta ha reso noto di aver ricevuto l’incarico direttamente dal precedente dirigente ed ha esibito copia di alcune documentazioni fotografiche e copia della bolla di accompagnamento della fornitura di cartelline. Ciò posto in merito si formulano le seguenti osservazioni. Come è noto per gli accordi di natura negoziale conclusi tra la P.A. ed i privati è richiesta la forma scritta ad substantiam così come espressamente previsto dalle norme di contabilità dello Stato (cfr. sul punto artt. 18 e segg. R.D. 2440/1923) ed in generale la ragione per cui la legge impone l’obbligo di utilizzare la forma scritta è collegata all’esigenza di rendere individuabile la volontà negoziale della P.A. anche al fine di consentire i controlli della magistratura contabile. In altre parole, sulla base del consolidato indirizzo giurisprudenziale e dottrinario, può affermarsi che l’esigenze di certezza e pubblicità vincolano l’attività della P.A. al rispetto delle norme procedimentali, per cui nei rapporti negoziali che si instaurano tra privati e pubblica amministrazione è necessaria la forma scritta pena la nullità del contratto stesso e quindi del fondamento dell’eventuale diritto di credito che potrebbe vantare il privato. Non poche sono, infatti, le pronunce giurisprudenziali che hanno dichiarato nulli ai sensi dell’art. 1418, II comma, e 1325, n. 4), i contratti stipulati tra privati e pubbliche amministrazioni per mancanza di uno dei requisiti essenziali. Tuttavia la nullità del fondamento del diritto di credito non preclude la possibilità per il creditore di esperire l’azione di ingiustificato arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c., che è prevista nei casi in cui si verifichi un arricchimento senza giusta causa con altrui danno, per cui il soggetto che si è arricchito a danno di altro soggetto è tenuto ad indennizzarlo della correlativa diminuzione patrimoniale e nei limiti dell’arricchimento ricevuto. Qualora il soggetto passivo dell’azione di ingiustificato arricchimento sia la P.A., non basta la prova oggettiva dell’esistenza della prestazione ma la giurisprudenza si è orientata concordemente nel ritenere che l’azione di arricchimento sia subordinata “non già all’accertamento dell’esistenza di un vantaggio bensì nel riconoscimento, anche implicito, da parte dell’Ente pubblico dell’utilità dell’opera o della prestazione”.

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Ne consegue che l’utilizzazione della prestazione da parte della P.A. non debba essere un mero fatto ma “l’espressione della volontà di far propria la prestazione che deve promanare da soggetto idoneo a formare la volontà dell’amministrazione”. In sintesi può dirsi che, alla stregua degli artt. 2041 e 2042 del c.c., per esperire l’azione di arricchimento nei confronti di una amministrazione pubblica si deve verificare, di volta in volta, la sussistenza dei requisiti previsti dalle anzidette norme e che possono indicarsi: nell’arricchimento, inteso come accrescimento patrimoniale del soggetto contro cui viene proposta l’azione; nel difetto di causa consistente nella mancanza di una giustificazione giuridica all’arricchimento; nell’impoverimento del soggetto che propone l’azione che deve essere direttamente correlato all’ arricchimento; nella sussidiarietà dell’azione in mancanza di altra tesa a conseguire l’utilità richiesta e nei casi di azioni rivolte e nell’utilità pubblica conseguita dall’amministrazione. Orbene per quanto concerne la fattispecie sottoposta all’esame della scrivente sulla base delle considerazioni sin qui svolte, può dirsi che, in assenza di un titolo idoneo a provare la sussistenza dell’obbligazione dell’amministrazione regionale nei confronti della x l’Ente regionale non sarebbe tenuto al pagamento delle somme richieste. Si consiglia, tuttavia, di valutare in concreto se ricorrono i presupposti succitati, necessari per esperire l’azione di arricchimento, ed in particolare se l’ente abbia conseguito, anche implicitamente, dalla prestazione eseguita una utilità pubblica e che tale vantaggio sia stato riconosciuto dall’Ente stesso, tenendo presente che l’amministrazione ha accettato la prestazione della x trattenendo le 1000 cartelline fornite (come scrive codesto Settore) e per quanto riguarda le fotografie pubblicate sulle riviste “Ulisse” e “Famiglia Cristiana”, le stesse potrebbero costituire una prova di come la P.A. abbia conseguito una utilità attraverso l’opera eseguita dalla società. In un eventuale giudizio, pertanto, ove venissero accolte le doglianze della x la Regione potrebbe essere condannata a reintegrare il mero impoverimento subito dalla stessa società, secondo gli orientamenti giurisprudenziali costanti. Nei sensi sopra precisati si rende il richiesto parere. ESTENSORE: avv. Lidia Buondonno. PARERE: PP 18/Z - 00/2007 - RICHIESTA RIPERIMETRAZIONE DI AREE A RISCHIO - FRAZIONE POLITICA.

QUESITO: Se possa procedersi alla riperimetrazione di aree a rischio a seguito di interventi di edilizia economica e popolare realizzati sulle stesse.

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PARERE: Con nota prot. n. 0120590 del 7.2.2007, l’Autorità di Bacino ha chiesto di conoscere l’avviso della scrivente circa “le valutazioni sul piano giuridico e procedimentale in ordine alla eventuale espressione del definitivo parere da parte del comitato istituzionale, ai sensi dell’art. 7, comma 3 – 2° capitolo, della disciplina normativa allegata al vigente Piano stralcio per l’assetto idrogeologico, tenuto conto delle difformità nel merito nonché in relazione al procedimento penale in corso e correlato al sequestro”. La richiesta dell’Autorità di Bacino scaturisce dalla richiesta del Comune di Tramonti di riperimetrazione delle aree a rischio interessate da interventi di edilizia economica e popolare. Da quanto si legge nella nota in esame sembrerebbe che il comitato tecnico di codesta Autorità di Bacino “avrebbe espresso parere favorevole sulle opere di mitigazione del rischio previste nella zona a monte del sito di interesse rinviando al collaudo delle stesse opere di mitigazione il parere sulla proposta di riperimetrazione”. Diversamente da quanto stabilito dal comitato tecnico – come riferisce l’autorità di bacino - sembrerebbe che il comune di Tramonti abbia intrapreso la realizzazione degli edifici mentre erano in corso le opere di mitigazione ed abbia successivamente trasmesso il certificato di regolare esecuzione delle opere anzidette. Ciò premesso in merito alla domanda di consulenza è necessario evidenziare preliminarmente che il certificato di regolare esecuzione dei lavori ha natura sostanzialmente diversa dal collaudo, il primo infatti è “il certificato del direttore dei lavori attestante la regolare esecuzione dei lavori di importo modesto e viene espressamente escluso per le opere, anche di modesta entità, da sottoporre a collaudo statico ex lege n. 1086/71”. Il collaudo, invece, mira “all’accertamento della rispondenza dell’opera al contratto ed alle regole dell’arte nonché all’idoneità dell’opera al servizio ed alla funzione pubblica cui è destinata”. Ne consegue, dunque, che la procedura adottata dall’amministrazione comunale di Tramonti, oltre ad essere difforme da quanto espresso nel parere del comitato tecnico, non sembra nemmeno perseguirne le finalità, in quanto, visto che l’organo tecnico ha inteso richiamare espressamente il collaudo delle opere, parrebbe che lo stesso fosse orientato ad ottenere una certificazione destinata proprio ad accertare l’idoneità delle opere di mitigazione alle finalità pubbliche cui sono destinate. Per quanto riguarda poi le richieste valutazioni sul piano giuridico e procedimentale in ordine alla espressione del parere del comitato istituzionale tenuto conto delle difformità nel merito ed in relazione al procedimento penale in corso, si fa presente che questo ufficio può esprimersi soltanto in ordine alle valutazioni giuridiche, esulando dalle competenze della scrivente avvocatura ogni considerazione attinente il merito e la valutazione di provvedimenti da adottarsi nonché il procedimento penale in corso. Come è noto l’attività di pianificazione e programmazione demandata dalla normativa di riferimento alle autorità di bacino mira a realizzare le finalità indicate

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nell’art. 3 della L. n. 183/89 fra le quali si annovera precipuamente la salvaguardia della vita umana e la difesa del territorio, ivi compresi gli abitati e i beni. I contenuti del piano hanno valore di piano territoriale di settore e costituisce lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico – operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d’uso finalizzate alla conservazione ed alla difesa del suolo. La legge, peraltro, prevede espressamente (cfr.art. 17 L. n. 183/89) che le disposizioni del piano approvato hanno carattere immediatamente vincolante per le amministrazioni ed enti pubblici che sono tenuti a rispettarne le prescrizioni nel settore urbanistico. Tale attività di pianificazione, dunque, ha “rilevanza autonoma…e necessita un’interpretazione rigorosa anche alla luce degli interessi perseguiti e dei rischi connessi per la sicurezza pubblica, resi evidenti dai pregressi eventi” (così TAR Liguria, sez. I, 17.3.2006 n. 252) . Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, inoltre, il piano di assetto idrogeologico, in quanto deputato alla tutela di specifici interessi, prevale sugli strumenti urbanistici comunali. Si è dell’avviso, pertanto, che possa procedersi all’eventuale riperimetrazione delle aree a rischio soltanto se tale fattispecie sia contemplata dalla disciplina contenuta nel piano e secondo le modalità ivi previste, avuto riguardo alla prevalenza delle norme di pianificazione sugli strumenti urbanistici e sulle trasformazioni del territorio. ESTENSORE: avv. Lidia Buondonno. PARERE PP 48/ 11-05/2007 – SCADENZA DEL CONTRATTO – POSSI-BILITÀ DI PROROGA. QUESITO: Se è possibile procedere alla proroga di un contratto, in precedenza già rinnovato, per il tempo necessario all’espletamento della gara per la scelta del nuovo affidatario del servizio. PARERE: Si riscontra la nota prot. 230577 del 12.3.2007 con la quale si chiede di conoscere l’avviso della scrivente in ordine alla possibilità di garantire l’attuale servizio di spegnimento incendi boschivi attraverso l’ATI x, attualmente esecutrice del servizio in questione, per il tempo strettamente necessario all’espletamento della gara già indetta. In particolare il settore in indirizzo chiede di conoscere “se ed in quale forma sia possibile affidare il servizio in parola all’attuale fornitore senza modificare alcuna delle condizioni originarie del contratto precedente”. In proposito il Settore fa presente che: - che a seguito di affidamento mediante procedura aperta di gara il servizio di spegnimento incendi era stato affidato all’ATI anzidetta per il periodo 2002 – 2004;

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- che il contratto in questione, così come previsto nel bando di gara e nel contratto originario, era stato rinnovato per il periodo 2004 ad oggi; - nel mese di marzo 2007 giungerà a scadenza il contratto, già rinnovato nel 2004, stipulato con l’ATI x; - che il 25.1.2007 è stato approvato il capitolato speciale di appalto per l’affidamento del servizio de quo; - che il 15. 2.2007 si è provveduto al necessario impegno finanziario; - che il 22.2.2007 è stata indetta la gara per l’affidamento del servizio il cui bando è stato pubblicato come per legge; - che il termine di presentazione delle offerte scade il 16 aprile 2007 e che per gli adempimenti richiesti dal protocollo di legalità non sia possibile prevedere l’aggiudicazione in tempi rapidi; - che l’impiego degli elicotteri per lo spegnimento degli incendi boschivi è necessario al fine di salvaguardare il patrimonio boschivo e di assicurare l’intervento degli stessi nei prossimi mesi, stante l’attuale andamento climatico. Sulla scorta delle considerazioni svolte in punto di fatto dal Settore richiedente nel caso prospettato, l’esigenza dell’Amministrazione, tesa ad evitare l’interruzione del servizio, potrebbe essere soddisfatta attraverso l’utilizzazione dell’istituto della proroga del contratto ancora efficace (prima della scadenza contrattuale), rendendosi all’uopo opportuno determinare esplicitamente la durata della proroga stessa e limitandola al tempo strettamente necessario all’aggiudicazione del servizio dando, contestualmente, conto nella parte motiva del provvedimento, della sussistenza del pubblico interesse alla proroga stessa. Come è noto, infatti, la proroga si limita ad estendere la durata del rapporto contrattuale che, tuttavia, rimane regolato dall’accordo originario, modificato solamente con riguardo al differimento del termine, mentre i prezzi e le condizioni contrattuali restano invariati, in quanto una eventuale modifica degli stessi implicherebbe un nuovo esercizio dell’autonomia negoziale che condurrebbe al rinnovo del contratto. L’istituto in esame, inoltre, “è normalmente preordinato al soddisfacimento del pubblico interesse insito nella garanzia della prosecuzione dello svolgimento del servizio (in capo al precedente affidatario) nelle more dello svolgimento delle procedure necessarie per l’individuazione del contraente al quale affidare – previa stipula di nuovo rapporto negoziale – l’attività stessa” (così TAR Lazio sez. Roma I Bis, 13.2.2006, n. 1062). Allo stato attuale, pertanto, tale soluzione sembra essere l’unica praticabile da parte del Settore, atteso che il rinnovo del contratto, in via generale, è stato vietato dall’art. 23 della legge comunitaria n. 62/2005, che ha soppresso la disposizione dell’art. 6 della L. 537/93 che conferiva alla P.A. detta facoltà. Attualmente “le ipotesi analoghe al rinnovo contrattuale” sono limitate ai casi tassativamente previsti dall’art. 57, punto 5 lett. b, del nuovo codice degli appalti che consente il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, per i nuovi lavori o servizi, consistenti nella ripetizione di lavori o servizi analoghi a quelli già affidati all’originario contraente, a condizione che tali

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lavori o servizi siano conformi ad un progetto di base e che tale progetto sia stato oggetto di un primo contratto aggiudicato secondo una procedura aperta o ristretta. In tal caso il ricorso alla menzionata procedura è consentito a condizione che l’ipotesi di rinnovo sia prevista nel bando del contratto originario; che non siano trascorsi tre anni dalla stipulazione del contratto iniziale e che l’importo complessivo dei servizi o lavori successivi sia computato per la determinazione del valore globale del contratto ai fini della individuazione delle soglie di cui all’art. 28 stesso codice. Nella fattispecie esaminata – sulla base di quanto riferito dal Settore - non sembrano ricorrere i requisiti postulati dalla norma richiamata per procedere all’affidamento tramite procedura negoziata senza pubblicazione del bando, considerato che sono ampiamente trascorsi i tre anni dalla stipula del contratto iniziale (2002) e che comunque la P.A., sulla base della previgente normativa, ha già provveduto al rinnovo dell’originario contratto. In conclusione si ritiene che il Settore possa utilizzare l’istituto della proroga, atteso che l’esercizio della stessa è connotato da una valenza temporalmente astretta e corrisponde ad una facoltà legittimamente esercitatile dalla P.A., così come riconosciuto anche dalla richiamata giurisprudenza, previo svolgimento di un apprezzamento discrezionale. Si rammenta, infine, che il Settore potrà prorogare il contratto attualmente in essere, agli stessi prezzi e condizioni, senza modificare le disposizioni del rapporto in corso e solo per il periodo strettamente necessario all’espletamento della gara già indetta, previo apprezzamento discrezionale in ordine all’utilità della proroga medesima, in quanto detto istituto è preordinato proprio al soddisfacimento dell’interesse pubblico alla prosecuzione del servizio. ESTENSORE: avv. Lidia Buondonno. PARERE: PP 215/05-03/2006 - GARA D’APPALTO PER L’AFFIDAMENTO DELLA REALIZZAZIONE DEL PROGETTO DI POTENZIAMENTO DELLA RETE INTEGRATA DI TELERILEVAMENTO DI DATI IDROMETEREOLOGICI DEL CENTRO FUNZIONALE DEL SETTORE PROGRAMMAZIONE INTERVENTI DI PROTEZIONE CIVILE SUL TERRITORIO AUTORIZZATA CON D. G. R. N. 1860/2005 (SECONDO LOTTO FUNZIONALE LEGGE 267/98-STRALCIO PER LA CAMPANIA) QUESITO: Se è possibile ammettere alla gara d’appalto ex D.Lgs 358/92 un concorrente, che ha veste giuridica di consorzio stabile ai sensi dell’art. 10 comma 1 lettera c) della L.109/94, come impresa singola e, in caso affermativo, se tale soggetto può avvalersi dei requisiti sia etico-giuridici che economico-finanziari delle proprie consorziate o delle imprese controllate dalle proprie consorziate, anziché possederli direttamente.

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PARERE: Si riscontra la nota prot n. 0991317 del 29/11/2006, con la quale il Settore Programmazione Interventi di Protezione Civile chiede il parere dell’Avvocatura in merito alla gara d’appalto precisata in oggetto. Il Settore, più in dettaglio, è interessato a conoscere l’avviso della Scrivente in merito agli aspetti che hanno indotto in perplessità la Commissione giudicatrice all’uopo nominata e che di seguito si riportano: 1) se è possibile ammettere alla gara d’appalto ex. D.Lgs 358/92 un concorrente, come impresa singola, che ha veste giuridica di consorzio stabile ai sensi dell’art 10 comma 1 lettera c) della L.109/94; 2) qualora fosse ammissibile alla gara, se tale soggetto può avvalersi dei requisiti sia etico- giuridici che economico- finanziari delle proprie consorziate o delle imprese controllate dalle proprie consorziate, anziché possederli direttamente. Ciò posto, preliminarmente, è necessario formulare un’osservazione di carattere generale attinente alla natura della Commissione di gara che, com’è noto, è un collegio perfetto che al suo interno possiede tutte le competenze professionali e tecniche necessarie ad espletare al meglio la procedura di gara indetta dall’Amministrazione. Anche per la Commissione giudicatrice, infatti, vale il principio relativo “a tutti gli Organi tecnici, chiamati ad esprimere una valutazione che funge da atto propedeutico al provvedimento conclusivo del procedimento, una volta che sia stato espresso il giudizio”(cfr.TAR Liguria Sez I, 13/1/2006). La Commissione di gara, infatti, è l’organo tenuto ad esaminare e a valutare la documentazione esibita e le offerte presentate dai partecipanti e, quindi, a disporre l’ammissione ovvero l’esclusione degli stessi dalla gara, in base a disposizioni normative generali, a quelle contenute nella lex specialis della procedura ed ai criteri interpretativi e di valutazione che la Commissione stessa si è data, a tutela delle imprescindibili esigenze di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa. Ciò premesso, in merito ai quesiti formulati si osserva quanto segue: - la gara precisata in oggetto risulta bandita ai sensi dell’art 9, comma 1 lettera a) del D. Lgs.358/92 con aggiudicazione a favore dell’offerta economicamente più vantaggiosa ai sensi dell’art 19, comma 1, lettera d) del D.Lgs. citato; - il bando di gara, poi, in riferimento ai soggetti che possono essere ammessi alla procedura dispone che possano partecipare imprese singole e/o raggruppamenti nei termini e modi di cui all’art 10 del più volte citato D. Lgs. 358/92 e agli artt, 4, 5.1 e 5.2 del disciplinare di gara; - il citato art 10 del D.Lgs 358/92 in dettaglio dispone che: “alle gare per l’aggiudicazione delle forniture di cui al presente testo unico sono ammesse a presentare offerte anche imprese appositamente e temporaneamente raggruppate”; - il disciplinare della gara de qua, poi, all’art 4 <<Soggetti ammessi alla gara>> - dopo aver disposto che possono essere ammessi a partecipare alla gara i soggetti singoli o raggruppati a norma dell’art 10 del D.Lgs 358/92, ovvero, per le imprese stabilite in altri paesi membri dell’UE nelle forme previste nei paesi di stabilimento- individua, a pena d’esclusione dalla gara per tutti i soggetti coinvolti, ipotesi di

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inammissibilità che si verificano nel caso in cui un’impresa partecipi sia singolarmente che quale componente di un raggruppamento o di un consorzio ovvero partecipi a più R. T. I. o consorzi; - il disciplinare di gara, inoltre, all’ art 5 individua i “Requisiti di partecipazione” e, in dettaglio, all’ art 5.1 quelli richiesti per ”le imprese singole” e all’art 5.2 quelli necessari per “i raggruppamenti temporanei o già costituiti di imprese”; manca, quindi, nell’ambito dell’art 5 in esame una previsione ad hoc per i requisiti necessari per la partecipazione alla procedura dei consorzi stabili; Ricostruito così il quadro normativo di riferimento, si osserva quanto segue: - le previsioni di cui all’ art 4, relative ai soggetti che possono ammessi alla gara, presentano aspetti di poca chiarezza in quanto mentre da un lato rinviano al disposto di cui all’art 10 D.Lgs 352/98 (imprese individuali e imprese appositamente e temporaneamente raggruppate) dall’altro, all’atto di meglio specificare il novero dei soggetti titolati alla partecipazione, inopinatamente cita i consorzi ma dimentica di individuare al punto 5 del più volte citato disciplinare i “Requisiti di partecipazione” necessari per “ i consorzi stabili”; - si tratta di una dimenticanza di non poco conto in quanto, com’è noto, dalla definizione che dei consorzi stabili fornisce l’art 12 della L 109 del 1994 (ora art 36 del D lgs. n. 163 del 2006) si evince che, sebbene tanto il consorzio stabile quanto le imprese consorziate conservino la loro autonoma soggettività giuridica, sussiste tra le stesse un legame ben più stretto di ogni altra forma di collegamento già raffigurato dalla legge (cfr. Consiglio di Stato 24/3/2006 n 1529); - il consorzio stabile, in altre parole, costituisce un nuovo e peculiare soggetto di diritto, promanante da un contratto a dimensione associativa, caratterizzato oggettivamente come struttura imprenditoriale, al fine di operare nel settore dei LL.PP, con la conseguenza che per i detti consorzi la causa e il profilo associativo giustificano una forma di aggregazione di imprese, caratterizzata dalla responsabilità solidale e dalla sua qualificabilità alla stregua delle qualificazioni conseguite da ciascuna impresa consorziata ; proprio in tema di qualificabilità dei consorzi stabili occorre sottolineare che i requisiti speciali di idoneità tecnica e finanziaria devono essere posseduti e comprovati dal consorzio, con il cumulo dei requisiti posseduti dalle singole consorziate (cfr Tar Lazio, sez. III Roma, n 7115 del 9/8/2006); - occorre, infine, rappresentare che, nell’ipotesi di clausole ambigue del bando di gara, come nel caso in esame, s’è andata affermando una giurisprudenza costante di derivazione comunitaria che invita le amministrazioni ad accogliere l’interpretazione che tutela gli interessati in buona fede, salvaguardando così l’ammissibilità delle offerte e consentendo la maggiore partecipazione di offerenti, si da tutelare l’interesse pubblico al più ampio confronto tra le offerte stesse (Consiglio di Stato n 684 del 2004, n 7134 del 2003); sul punto il Consiglio di Stato con la decisione n 1224 dell’8/3/2006 ha statuito che <<, in caso di clausole equivoche o di dubbio significato, in vista del favore della partecipazione del maggior numero possibile di concorrenti alle pubbliche gare, al fine di ottenere le prestazioni richieste ad un prezzo quanto più vantaggioso, in termini qualitativi e

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quantitativi, per l’amministrazione deve preferirsi l’interpretazione ( da parte della Commissione di gara, organo competente) che favorisca la massima partecipazione alla gara (piuttosto che quella che la ostacoli) e quella che sia meno favorevole alle formalità inutili>>. Ciò posto, in merito al quesito sub 1),- relativo alla possibilità di ammettere come impresa singola alla gara, precisata in oggetto, un concorrente, che ha veste giuridica di consorzio stabile ai sensi dell’art 10 comma 1 lettera c) della L.109/94-, si ritiene che la Commissione di gara, in conseguenza della poca chiarezza delle clausole del disciplinare di gara e sulla scorta del consolidato principio del favor partecipationis, possa orientarsi nel senso di privilegiare il rispetto del più volte citato principio comunitario e quindi di ammettere il consorzio stabile alla gara in esame come impresa singola . In merito al quesito sub 2)- relativo alla possibilità per tale soggetto, ove ammesso, di avvalersi dei requisiti sia etico-giuridici che economico–finanziari delle proprie consorziate o delle imprese controllate dalle proprie consorziate, anziché possederli direttamente- si ritiene che l’ammissione come impresa singola comporti il possesso dei requisiti di partecipazione di cui al punto 5.1, relativi proprio alle imprese singole.

ESTENSORE: avv. Adriana Ciniglio.

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Approfondimenti

ANCORA IN TEMA DI ATTIVITÀ SOLLECITATORIA, AD ISTANZA DI TERZI,

PER L’ATTUAZIONE DEGLI ACCORDI DI PROGRAMMA UN’ OCCASIONE PERDUTA

(nota a margine dell’ordinanza n. 1594/2007 del Consiglio di Stato sezione IV )

Sul numero 2/2006 (maggio-agosto) di questa Rassegna chi scrive aveva espresso alcune considerazioni in margine alla sentenza n. 847/2006, emessa dal TAR Campania sezione Salerno sulla materia in epigrafe. La decisione annotata perveniva a conclusioni che, più o meno condivisibili che fossero, rivisitavano la stessa con argomentazioni di indubbio pregio e tali, comunque, da indurre a riflessioni aventi portata più ampia del caso di specie trattato.

Si trattava dell’attribuzione, al titolare di un fondo, del potere di reazione giurisdizionale ai ritardi emersi nell’applicazione dell’accordo di programma quadro stipulato tra Ministero delle Finanze, Ministero dell’Ambiente e Regione Campania, finalizzato alla messa in sicurezza di alcuni versanti della penisola amalfitano-sorrentina, su uno dei quali insiste l’area intestata al ricorrente.

La vicenda si arricchiva di ulteriori e complessi risvolti, dal momento che parte dell’accordo in questione era anche il Commissario di Governo per l’Emergenza Idrogeologica nella Regione Campania in qualità di soggetto attuatore (avente in carico la progettazione degli interventi di consolidamento dei citati versanti, l’affidamento dei lavori, la successiva direzione lavori, il collaudo); e l’Autorità di Bacino Destra Sele, ente preposto alla Difesa del Suolo ai sensi della legge regionale 8/1994, onerata della verifica del rischio idrogeologico anche nelle zone oggetto degli interventi. Di qui il ricorso avverso il presunto silenzio e la connessa inerzia nel quale sarebbe incorso il Commissario.

Il TAR adìto aveva sostanzialmente ravvisato la fondatezza delle doglianze di parte ricorrente che, titolare di un interesse legittimo, sarebbe stata, per ciò stesso, legittimata a tutelarlo in via giurisdizionale ancorché non stipulante l’Accordo Programma Quadro, istituto contemplato dalla lettera c) dell’art. 2 comma 203 legge 23 dicembre 1996 n. 662, che ne regola minutamente i profili operativi e sanzionatori (soggetti istituzionali responsabili, verifica di eventuali condotte inerti).

Il Collegio perviene, in tal modo, alla creazione di un diritto pretorio informato alla tutela giurisdizionale attivabile dal terzo, la cui “...posizione eccentrica dell’interesse...rispetto alla dinamica formativa dell’accordo non costituisce ragione sufficiente per negare la rilevanza giuridica dei riverberi – favorevoli o pregiudizievoli- che esso produce in relazione ai primi , né per escludere l’attivazione dei rimedi giurisdizionali consentiti dall’ordinamento a fronte dell’azione amministrativa illegittima...”.

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Le riserve maturate al riguardo dall’estensore di questa nota potevano, e possono, essere così formulate: 1) la griglia normativa entro la quale troverebbe collocazione l’ istituto pretorio in epigrafe appare quanto meno anomala, poiché la lettera c) dell’art. 2 comma 203 della legge 23 dicembre 1996 n. 662 disegna un meccanismo di interazione e/o di conflitto tra amministrazioni, non evocando l’ipotesi di tutela sub specie privatorum; 2) se, inoltre, detta disposizione fa riferimento alla partecipazione di privati, nel caso di specie ciò non si è verificato;3) la legge menzionata ha riguardo alle “misure di razionalizzazione della finanza”, id est al monitoraggio della funzione amministrativa in termini di gestione del pubblico erario. La figura dell’accordo di programma quadro, difatti, è più ascrivibile alle dinamiche di macroeconomia che alla pedissequa applicazione di figure desunte dalla pratica giudiziaria e dal rapporto singolo/amministrazione (laddove la testé menzionata legge 662/1996 suggerisce un complesso bilanciamento di sfere istituzionali); 4) la natura degli interventi del genere di quelli di cui è causa comporta l’eventualità di una loro rimodulazione in itinere, determinata da esigenze finanziarie o tecniche imponderabili, il che può collidere con le esigenze del singolo che, benché titolare di diritti dominicali, sia, come nel caso di specie, terzo alla stregua della vicenda pattizia; 5) lo spoglio della giurisprudenza rivela che, se favorevoli ai ricorrenti, le pronunce attengono alla fase “genetica” dello strumento pattizio, allorché essi abbiano di che dolersi per l’erronea contemperazione tra interessi collettivi e sfere private ad opera della parte pubblica (varianti urbanistiche irragionevoli, istanze di soggetti ancorché non proprietari, se provvisti di uno status qualificato)1. Nella fase genetica, difatti, risulta ancora congruo “interloquire” con l’autorità procedente, quand’anche con l’extrema ratio del gravame2. Altro è la fase “funzionale” (per insistere nella metafora sinallagmatica), in cui il perimetro della vicenda è già delimitato, e, pertanto, poco o punto si giustificherebbe un differito intervento del singolo.

Sin qui la pronunzia in esame, avverso la quale l’amministrazione convenuta (Commissario) ha interposto appello innanzi al Consiglio di Stato IV sezione, che ha riesaminato i termini, specifici e generali, della subjecta materia, pervenendo alla determinazione di accogliere il gravame. Va, tuttavia, precisato che il consesso ha lasciato inalterate le linee esegetiche entro le quali si è mosso il giudice di prime cure, con il che, ad avviso di chi scrive, ha opportunamente operato nella vicenda de qua ma a prezzo di un equilibrismo gravoso e tale da offuscare, sul piano generale, una compiuta ricognizione degli argomenti a sostegno dell’una o dell’altra tesi.

“ Riguardo al motivo d’appello- sostiene dunque la IV sezione- secondo cui non sussisterebbe la legittimazione attiva del ricorrente in primo grado ”, si “...è dell’avviso che non siano ravvisabili ragioni di principio per escludere in radice la possibilità di una simile impugnativa, anche da parte di un privato che non abbia in qualche modo partecipato direttamente all’accordo di programma, ove si consideri che mediante tale

1 Ci si riferisce alla decisione n. 8234 del 16. 12. 2003 (richiamata anche nella pregressa annotazione apparsa sulla Rassegna quadrimestrale a firma dello scrivente). Si rammenta che, con la menzionata decisione, si dettavano i requisiti conferenti ad una categoria - gli imprenditori- la legittimazione attiva e l’interesse processuale ad agire avverso i pregiudizi insorgenti a seguito del riassetto socio-economico di un’area geograficamente determinata (nella specie: assetto urbanistico-commerciale) . 2 È palese che trattasi di una prospettiva mutuata dal Mario Nigro, La Giustizia Amministrativa.

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strumento possono venire effettivamente coinvolte e pregiudicate situazioni giuridiche differenziate di taluni altri soggetti, meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento”.

Invero la premessa, che si è riportata integralmente, appare opinabile, in quanto non dà conto delle ragioni che fonderebbero la tutela giurisdizionale del terzo privato. In particolare, la non esclusione di un’ipotesi per trarne un asserto di ordine generale (non siano ravvisabili ragioni di principio per escludere in radice la possibilità di una simile impugnativa), costituisce un vero e proprio ribaltamento della logica dimostrativa, in quanto proprio detto asserto dovrebbe, per contro, fornire la base deduttiva per inferirne l’eventuale applicazione alla singola fattispecie in esame.

Appare, inoltre, evidente la tautologia che inficia un altro passaggio (“possono venire effettivamente coinvolte e pregiudicate situazioni giuridiche differenziate di taluni altri soggetti, meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento”). Infine, la sola tesi adombrata, che gravita attorno alla figura di un privato che “…abbia in qualche modo partecipato direttamente all’accordo di programma”, si scontra con un dato di diritto sostanziale: l’istituto dell’APQ conosce il coinvolgimento espresso del privato (inteso quale soggetto stipulante), ovvero non lo conosce. Tertium non datur.

Non si tratta, naturalmente, di sclerotizzare il testo normativo – la citata lettera c) dell’art. 2 comma 203 legge 662/’96 - votandosi ad una preconcetta cecità rispetto a ogni spunto ermeneutico che elevi i consociati a figure coinvolte a pieno titolo nella dialettica giuridica con uno Stato altrimenti Leviatano; né di negare l’esistenza di un principio dell’ordinamento cui ancorare saldamente la tutela dei terzi rispetto all’APQ (ma i principî non sono sinonimi di vaghezza qualificatoria). Resta, tuttavia, il fatto che, già in sede di premessa, l’iter seguito dalla IV sezione non risulta persuasivo, come poco sopra rilevato, né il suo prosieguo esplicativo apporta maggiori lumi. Essa, difatti, argomenta più oltre che il ricorrente ben avrebbe dovuto osservare correttamente le modalità per l’attivazione della “speciale procedura prevista dall’art. 21 bis della legge 1034/1971, finalizzata esclusivamente ad accertare l’obbligo dell’amministrazione pubblica di provvedere nei termini assegnati”. Tale onere, tuttavia, non risulterebbe assolto, se è vero che “…l’originario ricorrente non ha dedotto…di avere preventivamente avanzato una specifica istanza volta a sollecitare l’attivazione dell’Autorità competente all’espletamento degli adempimenti richiesti nei termini previsti”.

Nella specie, il detto ricorrente, destinatario di un’ordinanza contingibile ed urgente del Comune di Minori (che gli intimava la messa in sicurezza dell’area interessata), la impugnava senza esito alcuno innanzi alla magistratura amministrativa, sicché si risolveva ad inoltrare un atto di invito e diffida agli enti competenti affinché gli stessi provvedessero ad horas.

Qual è, allora, l’errore nel quale sarebbe incappato l’istante? L’opinione espressa al riguardo dal Consiglio di Stato disvela proprio qui la sua difficoltosa attitudine ad essere calata in un contesto concreto, costruita com’è sull’asserzione secondo la quale egli avrebbe omesso di presentare una “…formale, specifica richiesta per porre le necessarie premesse al fine della successiva constatazione dell’illegittimità del silenzio rifiuto asseritamente formatosi per l’inerzia dell’amministrazione intimata in ordine alla conclusione dell’accordo di programma in questione. Ma c’è di più, in quanto “…non potrebbe evidentemente considerarsi idoneo allo scopo…il sopra ricordato atto del 20

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settembre 2005, in quanto diretto ad una pluralità di destinatari …e privo di qualsiasi precisa indicazione del termine per la necessaria adozione dei provvedimenti pretesi dall’interessato”.

A suggello delle surriferite notazioni il Collegio richiama, infine, il comma 4 bis (una svista, trattasi in realtà del comma 5) dell’art. 2 della legge 241/1990, aggiunto dall’art. 2 della legge 11 febbraio 2005 n. 15. Nello specifico detto comma, pur introducendo un più restrittivo regime in materia di riscontro alle richieste dei cittadini, di talché un ingiustificato silenzio comporta la possibilità di un ricorso senza previa e ulteriore diffida, lascia tuttavia ferma la necessità di inoltrare una formale istanza, in guisa da “…circoscrivere, anche temporalmente, il lamentato comportamento inerte o inadeguato dell’Amministrazione…”

Così argomentando, tuttavia, all’atto stesso di individuare i criterî identificativi per un corretto utilizzo dell’istituto, si abbandona la linea maestra che conduce a una lettura piana e, soprattutto, realistica della norma per esporsi al rischio di renderne sostanzialmente aleatoria l’applicazione, e ciò in ragione del fatto che non costituisce certo un caso “l’infortunio” nel quale è incorso l’istante: egli, difatti, non poteva allora, e non potrebbe ora individuare un’autorità destinataria della sua richiesta per la ovvia considerazione che gli accordi di programma postulano una dinamica giuridica esattamente opposta, cioè a dire la partecipazione incrociata di più amministrazioni nel perseguimento di un fine pubblico. Oltre tutto, è verisimile che il ritardo dell’una si riverberi sull’azione dell’altra, senza contare che non a caso il legislatore si è limitato, con la disposizione di legge sopra più volte citata, a prevedere sanzioni finanziarie a carico degli enti meno zelanti, e nulla più.

Nel caso in esame, a riprova di quanto testé rilevato, la gestione commissariale, esperite le operazioni propedeutiche all’appalto dell’opera, ha dovuto attendere l’erogazione dei necessari finanziamenti da parte di un altro soggetto stipulante (la Regione Campania), divenuti problematici a seguito di difficoltà medio tempore insorte per il loro reperimento: il che introduce un andamento da stop and go, fenomeno certo eterodosso rispetto all’approccio meccanicistico del Consiglio di Stato.

Una conferma alle risultanze anzidette, del resto, si ricava anche ad una scorsa della recente giurisprudenza invalsa nella materia del silenzio rifiuto serbato dall’ente intimato, soprattutto in relazione alla novellata disciplina dettata dalla legge 241/1990, sopra evocata, cui lo stesso Consiglio di Stato ha attribuito, come si è visto, un ruolo determinante ai fini della legittimazione a fruire dell’ordinaria tutela giurisdizionale avverso un comportamento silente o/e inerte.

In proposito, vanno segnalate numerose decisioni che, pur vertendo nelle materie più disparate, recano tutte un identico tratto distintivo, rappresentato dall’univoca individuazione dell’ente da intimare. Così è stato: in tema di variante dello strumento urbanistico quando, una volta decaduto il pregresso vincolo espropriativo, la parte pubblica resti inattiva anziché predisporre un nuovo assetto urbanistico della zona interessata (il Collegio giudicante ha ritenuto di condannare l’Amministrazione procedente, non certo imponendole un modus operandi ma imponendole di agire)1; in

1 TAR Veneto, sentenza 723/2005: si tratta della notoria problematica relativa alle cosiddette “zone bianche”.

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tema di esercizio dei poteri di controllo in materia di abusivismo edilizio (eventuale, mancata adozione di provvedimenti repressivi da parte del competente comune), che ha indotto il collegio a sollecitare un puntuale riscontro ai quesiti formulati dai detti proprietari1; in tema di natura pubblica o meno di una strada, da tempo immemorabile destinata ad uso pubblico secondo quanto allegato dai ricorrenti e che, pertanto, li vedrebbe legittimati a richiedere il ripristino del pubblico transito al competente comune2 (situazione di incertezza che ha indotto i giudici ad assumere una determinazione analoga a quella testé richiamata); in relazione all’ omesso rilascio dell’autorizzazione a un passo carrabile, poiché il competente comune, senza addurre motivazioni ostative o favorevoli, aveva serbato il silenzio a fronte della relativa richiesta3, laddove esso avrebbe dovuto emanare un provvedimento in un senso o nell’altro; in relazione ai maggiori emolumenti da corrispondersi per mansioni superiori prestate, che il Consiglio di Stato, in parziale riforma della decisione resa dal giudice di prime cure ed all’atto di censurare il silenzio serbato sulle ragioni sottese al diniego, ha contestualmente riconosciuto agli istanti4; nonché in relazione alla mancata ammissione a un corso regionale di formazione, relativamente al quale lo stesso Consiglio di Stato, tuttavia, ha ritenuto che l’ente intimato non avesse, come ex adverso sostenuto, eluso la richiesta di informazioni del ricorrente circa i motivi inerenti a tale esclusione5.

Tutt’al più, ove la si volesse cogliere in chiave “evolutiva”, la lettura operata dalla V sezione potrebbe allora risultare funzionale soltanto a un diritto oppositivo (e non pretensivo, dunque), come del resto suggerisce il caso di specie, dal momento che il ricorrente ben ha potuto, adducendo gli inadempimenti delle amministrazioni stipulanti l’APQ, neutralizzare la forza altrimenti cogente del provvedimento emanato dall’ente locale (ordine di messa in sicurezza dell’area a rischio di sua proprietà), e ciò a seguito dell’attivazione di una tutela giurisdizionale tesa a far valere il mutamento del regime di responsabilità (oggi in capo alle amministrazioni pubbliche).

Infine, e nonostante la pregevolezza delle argomentazioni svolte su queste pagine da altro autore che si è occupato della materia6, chi scrive, anche alla luce delle suesposte e rinnovate considerazioni, ritiene di non potere accedere alla tesi secondo cui la decisione del TAR Campania, dalla quale è scaturita l’ordinanza qui annotata, si collocherebbe in un idoneo contesto nel quale “…la forma dell’accordo di programma quadro altro non è che una forma di esercizio del potere amministrativo mediante il quale la PA autolimita a monte il suo potere discrezionale obbligandosi, fra le altre cose, a rispettare una tabella di marcia concordata fra le varie amministrazioni…”; il che condurrebbe alla logica conclusione che in capo al terzo sia ravvisabile una “ tutela

1 TAR Campania, sezione II, sentenza 112/2006: nel caso trattato, a differenza che per le fattispecie oggetto degli altri arresti qui richiamati, il collegio non ha disposto che all’eventuale, ulteriore inadempienza del comune intimato succedesse la nomina di un commissario ad acta. 2 TAR Lazio sezione II, sentenza n. 429/2006. 3 Consiglio di Stato sezione V, sentenza n. 6056/2006. 4 Sezione V n. 42/2007 (si segnala, titolo di curiosità, che resistente in giudizio figurava la Regione Campania, rappresentata dall’ A.G.C. Avvocatura. 5 Sezione V, n. 4968/2006. 6 MASSIMO BILLI, Programmazione negoziata in “Rassegna quadrimestrale di Giurisprudenza, Pareri e Approfondimenti” (Regione Campania –Avvocatura), n. 2 maggio- agosto 2006, pagg. 26-30.

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dichiarativa prevista in materia di silenzio della PA dall’art. 21 bis legge 1034/1971”. Osta, difatti, all’accoglimento di una simile prospettiva il rilievo che un vincolo siffatto spiega i proprî effetti sui soggetti firmatari dell’accordo, e le sanzioni, in caso di inosservanza del medesimo, sono dettagliatamente ed analiticamente contemplate nel solo ambito della vicenda pattizia. Tutto ciò non per enfatizzare oltremodo il profilo contrattualistico dell’accordo stesso ma perché o il vincolo giuridico è tale o non è, laddove un’autolimitazione potrebbe eventualmente comportare conseguenze esclusivamente “endogene” tra le parti. Se così non fosse, si avrebbe una tutela indistintamente riconosciuta ai privati stipulanti e non l’accordo.

dr. Fabio Piero Fracasso – funzionario del Ministero Infrastrutture - sede centrale di Roma- in comando a Napoli presso la Struttura commissariale ex ordinanza Ministero Interni 2787/1998

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LA COMUNICAZIONE DEI MOTIVI OSTATIVI ALL’ACCOGLIMENTO

DELL’ISTANZA I. Il nuovo obbligo procedimentale introdotto dall’art. 10 bis della Legge 241/90

A far data dall’entrata in vigore della Legge 11 febbraio 2005, n. 15, che ha

riformato la Legge n. 241/90 sul procedimento amministrativo, le Pubbliche Amministrazioni, in virtù del nuovo art. 10 bis, sono tenute a comunicare i motivi ostativi all’accoglimento delle istanze avanzate dai cittadini prima dell’adozione formale del provvedimento di diniego1.

Le disposizioni di cui all’art. 10 bis sono state inserite nel CAPO III della L. 241/90 che disciplina la partecipazione al procedimento amministrativo, attesa la evidente finalità delle disposizioni in esame di garantire una maggiore partecipazione dei privati attraverso l’instaurazione di un contraddittorio pieno in una fase avanzata del procedimento amministrativo.

La comunicazione del preavviso di diniego oltre a consentire all’interessato di presentare, nei tempi previsti dalla medesima norma, osservazioni o integrazioni documentali, al fine di far mutare avviso all’Amministrazione medesima, è funzionale anche alla deflazione del contenzioso amministrativo, configurandosi quale “mezzo preventivo di risoluzione di potenziali conflitti” 2.

Il contraddittorio fra Amministrazione e amministrato, in ordine alle ragioni che si frappongono all’accoglimento della domanda, consentirebbe, infatti, di addivenire ad un diverso esito del procedimento, o quantomeno di adottare un provvedimento finale che, seppur negativo, tenga conto anche degli ulteriori elementi apportati dalla partecipazione attiva dell’istante al procedimento stesso.

La partecipazione al procedimento, inoltre, sarebbe funzionale all’arricchimento dell’azione amministrativa, che inevitabilmente deriverebbe, sul piano del merito e della legittimità, dalla partecipazione al procedimento del destinatario del provvedimento3. II. I soggetti competenti, la forma ed il contenuto della comunicazione

1 La nuova norma è stata ritenuta applicabile ai procedimenti che, seppur iniziati prima dell’entrata in vigore della L. 15/2005, ancora non si erano conclusi con l’adozione del provvedimento definitivo. ex pluris, TAR Lazio Roma, III, 8 agosto 2005, 6618 e TAR Sicilia Palermo, III, 13 settembre 2005, 1528. 2 Così in TAR Campania Napoli, II, 10 aprile 2006, 3494. La finalità deflattiva dell’istituto è stata, inoltre, prevista espressamente nella Relazione della I Commissione permanente affari costituzionali del 6 novembre 2003, pag. 5, nella quale testualmente si legge che la norma in commento è “tesa ad introdurre un istituto procedimentale attraverso il quale ci si propone di limitare il contenzioso tra cittadino e pubblica amministrazione mediante la previsione di un ulteriore canale di comunicazione tra le parti precedente alla decisione finale”. 3 Consiglio di Stato, IV Sez., 19 giugno 2006, 3608.

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Dalla formulazione della norma di cui all’art. 10 bis sembrerebbe che la

competenza ad adottare il c.d. “preavviso di diniego” sia attribuita al responsabile del procedimento o, in via alternativa, all’autorità competente all’adozione del provvedimento finale.

La competenza in materia potrebbe facilmente ricondursi all’uno o all’altro organo sulla scorta di quanto disposto dall’art. 6 lett. e) della Legge n. 241 del 1990, e, precisamente, al REP ove lo stesso sia competente anche ad adottare il provvedimento finale, ovvero al diverso organo competente, che provvederà a tanto dopo la comunicazione delle risultanze istruttorie da parte del REP, dalle quali, peraltro, potrà discostarsi solo indicandone la motivazione nel provvedimento finale.

Ad avviso di alcuni Autori si tratterebbe di un regime di competenza aperto, non essendo precluso alle singole P.A. di attribuire mediante proprie disposizioni regolamentari al REP, ovvero alla competente Autorità, la competenza in materia di comunicazione del preavviso1.

Nessuna indicazione è stata invece fornita sulla forma della comunicazione. In merito, sebbene il termine “ricevimento della comunicazione” lascerebbe intendere che la stessa debba avvenire per iscritto, sia in dottrina che in giurisprudenza è stato escluso che l’adempimento dell’obbligo debba rigorosamente avvenire attraverso una comunicazione specifica, ritenendo di converso che la comunicazione possa rendersi anche in occasione di un qualsiasi utile contatto tra privato e Amministrazione procedente 2.

1 S. TARULLO,“L’art. 10 bis della legge 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria”, in www.farecampania.net. In merito, anche, C. CERRATO, “Prime osservazioni sulla L. n. 15/2005 di modifica della legge 241/1990: Il nuovo ruolo delle pubbliche amministrazioni”, in www.giustizia-amministrativa.it, il quale sostiene che la competenza spetti in via di principio al REP, quale responsabile della fase istruttoria e che tale competenza sia, invece, riconducibile all’Autorità competente all’emanazione del provvedimento finale nell’eventualità in cui non condivida l’eventuale orientamento positivo del REP, al fine di acquisire ulteriori elementi istruttori. 2 Così, in dottrina, S.TARULLO, cit. In giurisprudenza, v. TAR Napoli VI, 10 gennaio 2007, 776, che, richiamando la pronuncia del TAR Veneto, II, 13 settembre 2005, 3430, ha ritenuto non annullabile un provvedimento di diniego per omessa comunicazione dei motivi ostativi, considerato che la parte ricorrente aveva avuto modo di conoscere aliunde (nel caso di specie in sede di sopralluogo) le ragioni ostative al rilascio del provvedimento richiesto e, dunque, di confutare le ragioni ostative addotte dalla P.A. Merita menzione al riguardo una recente sentenza del TAR Piemonte, I, 21 febbraio 2007, 763, pronunciatosi sulla legittimità di un provvedimento comunale con duplice contenuto: di preavviso di rigetto e contestuale ordine di sospensione dei lavori abusivi denunciati con DIA “in corso di esecuzione”. Nella fattispecie, il Collegio ha esaminato la legittimità del provvedimento impugnato considerandolo inizialmente quale preavviso ex art. 10 bis (al riguardo ne ha affermato la natura endoprocedimentale e l’insuscettibilità ad arrecare concreto pregiudizio alla ricorrente, i cui interessi possono essere direttamente lesi solo dall’eventuale provvedimento definitivo) e, successivamente, quale misura cautelare, con la quale è stata disposta la sospensione dei lavori (da ritenersi concretamente lesiva e suscettibile di autonoma impugnazione).

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Non è mancato, inoltre, chi ha auspicato che si diffonda all’uopo l’utilizzo dei mezzi telematici, così come previsto all’art. 3 bis L. 241/90, al fine di assicurare una maggiore efficienza all’attività della P.A.1.

Per quanto riguarda il contenuto del preavviso, pur non essendo puntualmente indicato dal dato normativo, si evince chiaramente che le Amministrazioni sono tenute a “dare spiegazione” delle motivazioni dell’adottando diniego, attraverso l’indicazione esatta, completa e specifica dei presupposti di fatto e normativi che impediscono l’accoglimento dell’istanza. Diversamente si vanificherebbe la stessa voluntas legis, in quanto solo una congrua motivazione può consentire all’istante di presentare osservazioni e documenti pertinenti e di partecipare attivamente e proficuamente al procedimento. III. La fase procedimentale in cui interviene la comunicazione

L’esaminato articolo, al primo periodo, indica espressamente il momento nel

quale occorre procedere alla comunicazione, ossia prima della formale adozione di un provvedimento negativo.

I motivi ostativi, pertanto, dovrebbero essere comunicati quando gli elementi acquisiti al termine della fase istruttoria risultino sufficienti ad indurre l’Amministrazione a concludere il procedimento con il rigetto dell’istanza.

In dottrina, tuttavia, non è mancato chi ha sostenuto che la comunicazione sia finalizzata a completare l’istruttoria, dato che, con la comunicazione in commento, si inviterebbe l’istante a presentare osservazioni e documentazioni utili ai fini di un’eventuale decisione positiva2.

Invero, con la comunicazione in argomento sembrerebbe inserirsi nella sequenza procedimentale, tra la fase istruttoria e la fase decisoria, una nuova fase “predecisoria”.

La comunicazione in questione non appare, infatti, qualificabile quale attività istruttoria in senso proprio, poiché in tale fase al REP sono riconosciuti, dall’art. 6 della legge sul procedimento, ulteriori e specifici poteri di valutazione ed accertamento, finalizzati ad assicurare un adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria. Il REP, in particolare, può richiedere all’istante, ai sensi dell’art. 6 lett. b), “il rilascio di dichiarazioni, la rettifica delle dichiarazioni o delle istanze erronee o incomplete, esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare l’esibizione di documenti” ritenuti necessari alla celere e “completa” istruttoria.

La comunicazione di cui all’art. 10 bis, più che a completare l’istruttoria, tende ad garantire una partecipazione in limine, attraverso la presentazione di osservazioni che possono chiarire elementi di fatto o giuridici erroneamente valutati, o non considerati dall’Amministrazione, prima che la decisone della P.A

1 M. PETRULLI e F. RUBINO, “La comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza”, in Nuova Rassegna, 1 luglio 2005, 13, n.1423 ss. 2 In tal senso anche S. TARULLO, cit., secondo il quale il preavviso deve qualificarsi ancora attività istruttoria.

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procedente venga racchiusa formalmente nel provvedimento conclusivo di contenuto negativo.

Nella fase “predecisoria” sarà l’istante a determinare l’iter procedurale, dato che ove decida di non esercitare il diritto di presentare osservazioni e documenti il procedimento giungerà a conclusione con l’adozione formale del diniego, ove invece l’istante presenti osservazioni e documentazioni si instaurerà il contraddittorio e al procedimento saranno acquisiti ulteriori elementi che la P.A. sarà tenuta a valutare, riaprendo, nell’eventualità, nuovamente la fase istruttoria già conclusasi. IV. La corrispondenza tra il “preavviso di diniego” ed il “diniego definitivo”

Dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni presentate

all’istante deve darsi ragione nella motivazione del provvedimento finale. In giurisprudenza si è affermato, tuttavia, che non debba esserci

necessariamente una corrispondenza puntuale in ogni dettaglio tra il contenuto del preavviso di diniego ed il diniego medesimo, ben potendo l’Amministrazione, sulla base delle osservazioni del privato ma anche autonomamente, precisare meglio le proprie posizioni giuridiche nell’atto di diniego, l’unico veramente lesivo della sfera del cittadino1. V. La natura giuridica del preavviso e l’incidenza sulla legittimità del provvedimento finale

Il preavviso è atto privo di contenuto provvedimentale, con il quale

l’Amministrazione rende noto all’interessato il suo intendimento, del tutto provvisorio, di procedere ad un diniego della sua domanda. Tale natura endo-procedimentale rende, pertanto, l’atto di preavviso non impugnabile autonomamente2.

Ne consegue che l’omessa comunicazione della “predecisione” renderà illegittimo esclusivamente il provvedimento finale, l’unico veramente lesivo della sfera giuridica dell’interessato.

Il provvedimento amministrativo di rigetto di una istanza del privato, infatti, è annullabile, per violazione di legge, se non proceduto dalla comunicazione delle

1 TAR Lazio Roma, I, 10 aprile 2006, 2553. 2 Ex multis, TAR Napoli, 24 maggio 2006 n.6891, che testualmente afferma che “il preavviso di cui all’art. 10 bis riveste natura di atto endoprocedimentale, poiché tale norma impone all’Amministrazione, prima di adottare un provvedimento sfavorevole nei confronti del richiedente, di comunicargli le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza, sì da rendere possibile l’instaurazione di un vero e proprio contraddittorio a carattere necessario, ed aumentare le chances del cittadino di ottenere dalla stessa P.A. ciò che gli interessa, con la conseguenza che lo stesso non è immediatamente lesivo della sfera giuridica dei destinatari e quindi non è autonomamente ed immediatamente impugnabile”.

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ragioni che ostano all’accoglimento della istanza stessa, così come sancito dal I comma dell’art. 21 octies L. 241/901.

In sede di interpretazione e applicazione della norma in questione, tuttavia, i Giudici hanno coordinato la norma in esame con la disposizione di cui all’art. 21 octies, comma II, della L. 241/90, così come riformata dalla L.15/2005, e, sostenendo un’interpretazione meno formalistica, hanno ricondotto alla violazione dell’art. 10 bis diversi effetti, a seconda della natura “discrezionale” ovvero “vincolata” del provvedimento2.

In particolare, è stato più volte affermato che nei procedimenti caratterizzati da ampia discrezionalità, alla violazione dell’art. 10 bis consegua l’illegittimità del provvedimento conclusivo, non trovando applicazione l’art. 21 octies, e che, invece, tale illegittimità non consegua alla violazione dell’art. 10 bis se il provvedimento è un atto a contenuto vincolato, in quanto l’art. 21 octies, al comma II, dispone espressamente che un provvedimento vincolato non può essere annullato per violazione delle norme del procedimento o sulla forma degli atti qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, ed ancora, che non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Le disposizioni di cui al II comma dell’art. 21octies sono state ritenute applicabili, in via generale, tanto nell’ipotesi di omessa comunicazione dell’avvio del procedimento disciplinata dall’art. 7 e ss. quanto in quella di omessa comunicazione del preavviso3.

1 TAR Campania Napoli, VII, 4 luglio 2005 n. 9369, con nota di Roberto Proietti, “ Preavviso di rigetto: conquista di civiltà”, in D&G, 2005, 34, 105. 2 Di diverso avviso il TAR Veneto, Venezia, II, 6 novembre 2006, n.3674 (con nota a sentenza di Alessandro Del Dotto, “Preavviso ex art. 10-bis deve essere dato in ogni procedimento amministrativo”, in www.altalex.it) che ha prospettato la necessità del preavviso solo nei procedimenti ad attività discrezionale e non anche vincolata della P.A., sottolineando “come non vada, in ogni caso, attribuito carattere dirimente, rispetto all’obbligo di comunicazione ex art. 10 bis L. 241/90, all’eventuale natura di atto vincolato del diniego”. I Giudici del TAR lagunare hanno così ampliato i confini dell’istituto, ritenendoli non delimitabili in funzione dalla natura dell’attività della P.A., ma unicamente della distinzione tra procedimenti avviati su istanza di parte e procedimenti avviati d’ufficio. 3 Così TAR Veneto Venezia, II, 13 settembre 2005, n. 3421, che afferma che, nell’evenienza della mancata costituzione del particolare contraddittorio di cui all’art. 10 bis, vada “ammessa la prova - liberamente valutabile dal giudice, che la trae dall’insieme degli atti di causa posti a sua disposizione per impulso della stessa amministrazione convenuta - dell’irrilevanza del contributo dell’interessato rispetto ad un esito del procedimento medesimo che, comunque, non avrebbe potuto essere diverso”. Conformemente, TAR Campania Napoli VI 2 gennaio 2006, 19 e TAR Valle d’Aosta, 18 gennaio 2006, 1, che ha ritenuto applicabile l’art. 21 octies quando dagli atti di causa emerge con certezza ed è palese che nonostante la mancata comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda e la conseguente negazione del diritto dell’istante di presentare per iscritto osservazioni, eventualmente corredate da documenti, non sussistevano alternative o soluzioni diverse rispetto a quelle adottate nel provvedimento negativo adottato. Di diverso avviso, invece, TAR Piemonte Torino, I, 26 ottobre 2005, 3296, che ritiene che possa trovare applicazione solo la prima parte dell’art. 21 octies, II comma, ove si tratti di un atto vincolato, mentre la sanatoria

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Tanto si è affermato, sulla premessa che le disposizioni di cui all’art. 10 bis vadano interpretate alla stessa stregua con cui la giurisprudenza costante ha sempre applicato l’art. 7 della citata L. n. 241, considerato che la comunicazione in esame non sarebbe altro che una nuova comunicazione di avvio (della fase terminale) del procedimento e, di conseguenza, risulterebbe irragionevole l’applicazione di un diverso regime di invalidità del provvedimento a seconda della fase del procedimento in cui si verifichi la violazione delle norme procedurali1.

Anche i Giudici di Palazzo Spada hanno aderito al criterio interpretativo non formalistico delle norme sulla comunicazione, ritenendo che la partecipazione al procedimento del destinatario del provvedimento debba tendere ad un’utilità, con la conseguenza che, in mancanza di tale utilità, l’obbligo stesso venga meno (Cons. Stato, IV, 19 giugno 2006, n.3608). VI. L’ambito di applicazione della norma

Anche se inserita nel richiamato Capo III della Legge 241/90 che regola il

diritto di partecipazione ai procedimenti amministrativi, sia avviati d’ufficio che ad istanza di parte, l’applicazione dell’articolo in esame è stata limitata dal Legislatore ai soli procedimenti avviati su istanza di parte.

In questi primi anni di applicazione, i Giudici amministrativi hanno ritenuto illegittimi i provvedimenti amministrativi adottati senza previa comunicazione dei motivi ostativi in alcune particolari ipotesi, tra queste:

• provvedimento adottato in un procedimento riaperto a seguito di un ordine dell’Autorità Giudiziaria (TAR Puglia Bari, II, 29 maggio 2006, n.2125);

• provvedimento di esclusione di un’associazione da un piano regionale dell’offerta formativa avente ad oggetto l’erogazione di finanziamenti pubblici all’occupazione ed alla formazione professionale, per mancato accoglimento dei progetti presentati (TAR Sicilia, Palermo, III, 13 settembre 2005, n.1528);

• procedimento di accesso ai documenti, ove l’Amministrazione intenda denegare il relativo diritto (TAR Sardegna, Cagliari, II, 16 febbraio 2006, n.232);

• diniego condono edilizio, in quanto atto reiettivo di un’istanza di parte (ex pluris, TAR Piemonte Torino, I, 18 gennaio 2006, 106; TAR Campania Napoli, II, 15 febbraio 2006, n.2216);

di cui alla seconda parte, pur riguardante gli atti discrezionali, è riferibile alle sole violazioni procedimentali concernenti la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, ma non anche la mancata comunicazione di cui al citato art. 10-bis. 1 Così in TAR Puglia Lecce, II, 5 dicembre 2005, n.5633. E, ancora, in TAR Puglia Lecce, II, 6 marzo 2006, n.1385, si legge che “ove il ricorrente sollevi determinati vizi di natura formale, impone al Giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, quindi, di non annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato”.

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• procedimento di concessione della cittadinanza italiana (TAR Liguria, II, 6 febbraio 2006, n.93);

• diniego di permesso di soggiorno: la nullità del diniego per l’omessa comunicazione del preavviso è stata ritenuta non sanabile dalla circostanza che il difensore abbia potuto interloquire presentando nuovi documenti, atteso che il ricorrente non è stato posto in condizione di interloquire sulle ragioni per le quali l’amministrazione non ha ritenuto sufficienti tali nuovi documenti (TAR Liguria, II, 21 dicembre 2005, n.1836)1;

• diniego di autorizzazione all’installazione di infrastrutture di impianti radioelettrici di comunicazione elettronica (nella specie impianto di telefonia) a seguito di DIA (per impianti con potenza inferiore) presentata ai sensi dell’art. 87 D. Lgs. 259/2003, in quanto, benché il procedimento de quo sia caratterizzato dalla celerità e speditezza, non si ravvedono ragioni per escludere l’operatività di una norma che è rivolta ad assicurare la più ampia partecipazione nei confronti dell’Amministrazione (TAR Veneto, II, 10 gennaio 2007, n. 72; TAR Napoli, VII, 17 gennaio 2007, n. 748);

• parere negativo della Commissione di Salvaguardia di Venezia, che, benché sia di per sé immediatamente impugnabile in sede giurisdizionale, si configura comunque quale atto endoprocedimentale rispetto al provvedimento che conclude il procedimento finalizzato all’eventuale rilascio del titolo edilizio per l’installazione di stazioni radio per telefonia cellulare (TAR Veneto Venezia, II, 21 ottobre 2005, n. 3731)2.

VII. (segue) L’ambito di esclusione

L’ultimo periodo dell’art. 10 bis prevede che “le disposizioni di cui al

presente articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte gestiti dagli enti previdenziali”.

1 Cfr. TAR Emilia Romagna Parma, 23 novembre 2005, 540, che invece non ha ritenuto applicabile l’art. 10 bis al rigetto della istanza diretta ad ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, attesa la natura vincolante del parere della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato politico, trovando applicazione l’art. 21 octies L. 241 del 1990. 2 Ad avviso dei Giudici Veneti, tenuta a rendere la comunicazione ex 10 bis del parere negativo della commissione è l’Amministrazione competente all’adozione del provvedimento finale (Comune), la quale, ove il destinatario medesimo presenti proprie osservazioni e documentazioni - esercitando il proprio diritto di partecipazione - deve trasmettere tali atti di parte alla Commissione, al fine di un’eventuale revisione del parere da essa precedentemente emesso. Anche in tema di autorizzazione all’apertura e alla coltivazione di cava, i Giudici del TAR Veneto Venezia, II, 21 novembre 2005, n.4051, hanno ritenuto che la Giunta prima di adottare il provvedimento di diniego conforme al parere negativo reso al riguardo dalla commissione tecnica provinciale per le attività di cava (Ctpac), stante quanto disposto dalla L.R.. n. 1/2004, deve notiziare l’interessato, ai sensi dell’art. 10 bis L.241/90, del contenuto negativo del parere stesso, consentendo l’inoltro alla medesima Ctpac, sempre per il tramite della stessa Regione, di contributi procedimentali eventualmente idonei a mutare l’avviso.

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In merito all’individuazione dell’ambito di esclusione della norma di cui all’art. 10 bis, in un primo momento si era sostenuto che la predetta norma dovesse ritenersi non applicabile soltanto alle procedure espressamente previste dal Legislatore.

Successivamente, invece, l’elencazione è stata ritenuta non tassativa e, in particolare, si è affermato che la norma in esame vada coordinata con le norme speciali operanti nei vari settori, sulla considerazione che le norme del capo III, sulla partecipazione al procedimento, stabiliscono garanzie minime ed inderogabili, che cedono però il passo alle norme regolanti specifici settori, ove queste ultime prevedano una tutela partecipativa specifica e maggiore1.

L’orientamento in questione si è consolidato, soprattutto, in materia di DIA. ex DPR 380/20012. In questi primi due anni, sì è ritenuto che l’obbligo di comunicare la “predecisione” non sussista nelle seguenti procedure e/o provvedimenti:

• procedure per l’assegnazione di un pubblico appalto, attesa la natura di procedura concorsuale (TAR Calabria Catanzaro, II, 7 febbraio 2006, n.127). Si è escluso, in particolare, che la P.A. sia tenuta a comunicare previamente l’esclusione di un concorrente dalla gara per irregolarità della domanda di partecipazione, in quanto le posizioni dei singoli aspiranti sono oggetto di valutazione comparativa e, dunque, concorsuale (TAR Lazio Roma, II, 1 aprile 2006, n.2258;TAR Campania Napoli, II, 10 aprile 2006, n.3494);

• provvedimento di diniego della concessione di agevolazioni finanziarie POR Campania 2000/2006, per la natura “sostanzialmente” concorsuale della relativa procedura (ord. TAR Campania NA, III, 26 aprile 2007, n. 1277);

• procedura selettiva per l’abilitazione alla professione d’avvocato, sia perché il termine “procedure concorsuali” di cui all’art. 10 bis non è riferibile esclusivamente ai concorsi per l’accesso ad un pubblico impiego, ma deve essere inteso in senso lato, in modo da comprendere tutti i procedimenti

1 Ex multis, TAR Veneto, Venezia, II, 13 settembre 2005, n. 3418 e TAR Campania Napoli, VI, 10 gennaio 2007, n.776. 2 Il provvedimento con il quale l’Amministrazione rigetta la denuncia di inizio attività di cui agli artt. 22 e 23 T.U. 380/2001, non deve essere preceduto dalla comunicazione dei motivi ostativi, per le seguenti ragioni: in primo luogo, per il carattere non tassativo dell’elenco delle eccezioni contenuto nell’ultimo periodo del medesimo art. 10 bis; in secondo luogo, in quanto le norme contenute nel capo III L. 241/90 fissano garanzie minime ed inderogabili, che tuttavia cedono il passo alle norme, contenute in altre leggi regolanti specifici settori, che prevedono per i destinatari del provvedimento finale una tutela specifica maggiore in chiave partecipativa (TAR Napoli, VI, 23 maggio 2006, n.5487). In tal senso, tra le altre, TAR Lombardia Milano, II, 6 marzo 2006, n. 587: l’onere di palesare i motivi ostativi all’accoglimento della domanda per un verso presuppone una istanza (e tale non è la denuncia di inizio attività), per altro verso è incompatibile con il termine ristretto entro il quale l’Amministrazione deve provvedere – se del caso – sulla medesima specie ove si consideri che la disciplina della DIA non prevede parentesi procedimentali produttive di sospensione o interruzione del termine stesso. Sulla questione, anche G. MOMMO, L’articolo 10 bis della Legge 241/1990: novità normativa e problemi applicativi al diniego dei titoli abilitativi in materia edilizia”, in www.altalex.com.

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aperti alla partecipazione di una pluralità di soggetti e caratterizzati da una selezione effettuata da parte di un organo collegiale all’uopo costituito, ossia tutti quei procedimenti nei quali l’instaurazione del contraddittorio con l’amministrazione risulta incompatibile con le esigenze di celerità della procedura, e sia perchè la previsione del termine di sei mesi per la correzione delle prove redatte dai candidati (art. 23, comma 4, R.D. n. 34 del 1937) risulta evidentemente incompatibile con le modalità di esercizio del contraddittorio delineate dall’art. 10 bis (TAR Campana Napoli, IV, 6 marzo 2006, n.2641);

• procedimento mirato alla revoca della parità scolastica, non annoverabile tra i procedimenti ad istanza di parte (TAR Lazio Roma, III, 19 settembre 2005, n.7202);

• procedimento attivato su un’istanza di riesame presentata da privato, a fronte della quale la P.A. scelga di emettere un atto meramente confermativo del precedente provvedimento, non essendo intervenuto alcun mutamento della situazione di fatto o di diritto, ovvero nuova istruttoria (TAR Veneto, Venezia, III, 14 dicembre 2005, n.4231);

• provvedimento di diniego del rinnovo di un contratto di appalto richiesto dalla società appaltatrice, in quanto nel caso di specie la domanda si inserisce nella gestione di un rapporto contrattuale che, per la natura stessa della relazione giuridica cui accede, non può in alcun modo qualificarsi come procedimento amministrativo ( Cons. Stato, IV, 23 maggio 2006, n. 6458);

• procedimento statale di verifica della legittimità dell’autorizzazione paesaggistica comunale, dal momento che la relativa comunicazione ha ad oggetto “i motivi che ostano all’accoglimento della domanda”, laddove la funzione del potere di cui costituisce espressione il decreto di annullamento di un’autorizzazione paesaggistica, siccome riconducibile alla tipologia dei procedimenti di secondo grado, non è quella di verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti il rilascio del provvedimento favorevole, ma quella di scrutinare la legittimità dell’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione comunale (TAR Campania Salerno, II, 30 marzo 2006, n.346; TAR Campania Napoli, II, 11 gennaio 2007, n.1196). Di recente si è, invece, pronunciato in senso contrario il TAR Campania Napoli, III, 7 febbraio 2007, n.928, che ha ravvisato il vizio di illegittimità del provvedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica della Sopraintendenza per i Beni architettonici denunciato dalla Regione Campania, parte ricorrente, per l’omessa comunicazione del preavviso.

VII. La comunicazione ex art. 10 bis ed il giudizio sul silenzio della P.A.

Sulla rilevanza della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza nel giudizio promosso avverso il silenzio della P.A., si è pronunciato il TAR Sardegna che ha dichiarato improcedibile per sopravvenuta cessazione della

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materia del contendere il giudizio sul silenzio a seguito dell’adozione del provvedimento adottato ai sensi dell’art. 10 bis, contenente la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, che ha fatto venir meno il silenzio della amministrazione e, dunque, la lamentata situazione di inerzia in capo alla P.A. competente ad adottare il provvedimento finale (TAR Sardegna Cagliari, II, 28 marzo 2006, 402). VIII. La tutela della partecipazione e la semplificazione del procedimento

Se è pur vero che l’obbligo procedurale previsto dall’art.10 bis L. 241/90

assicura una maggiore partecipazione dei soggetti interessati, è anche vero, tuttavia, che il nuovo obbligo comporta un aggravamento operativo del procedimento, sopratutto se si considera che il Legislatore ha ricondotto alla comunicazione della “predecisione” l’effetto di determinare l’interruzione e non la sospensione, dei termini del procedimento, con conseguente decorso ex novo dei termini iniziali1.

Proprio al fine di evitare che la virtuosa finalità della norma di garantire ai soggetti interessati una maggiore ed effettiva tutela sia vanificata da una eccessiva durata del procedimento, alcuni Autori hanno auspicato che all’“interruzione” sia da preferire la mera sospensione dei termini, soprattutto nell’ipotesi in cui il privato non presenti proprie osservazioni e all’Amministrazione non resti che formalizzare il diniego2. p. avv. Annarita Vacchiano

1 V.CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della legge n. 241/90 - II Parte, in www.giustamm.it. 2 C. BIONDI, M. MASCARA, A. RICCIARDI, La riforma del procedimento amministrativo. Come cambia la legge 241/90 dopo la legge di modifica 11 febbraio 2005, n. 15, Maggioli Editore, 2005, 41 ss.

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LA RIFORMA DEL NUOVO PROCESSO CIVILE - PARTE SECONDA: I PROCEDIMENTI SPECIALI

Premessa La legge n. 80/2005 prevede alcune incisive innovazioni concernenti sia la tutela cautelare, con particolare riguardo al regime di efficacia e di stabilità dei provvedimenti “anticipatori”, sia la disciplina dei procedimenti possessori. Relativamente alla materia cautelare si tratta, per lo più, di soluzioni che erano già state introdotte dal D.Lgs. n.5/2003 nell’ambito del c.d. rito societario e che, d’altronde, erano già da tempo negli auspici di buona parte della dottrina. Altre modifiche non trascurabili investono, poi, la disciplina ed i limiti dell’accertamento tecnico preventivo e dell’ispezione giudiziale preventiva (art.696 cpc), introducendo così una consulenza tecnica preventiva specificamente preordinata alla “composizione della lite” (art.696-bis cpc). Quanto alla materia possessoria, invece, l’intervento del legislatore mira a razionalizzare la complessiva struttura del procedimento, tenendo conto sia della soluzione ricostrittiva che era prevalsa dopo la riforma del ’90, sia del nuovo regime contestualmente introdotto per i procedimenti cautelari anticipatori, cui l’ordinanza interdittale può essere certamente assimilata. La principale modifica introdotta nel procedimento cautelare è rappresentata dal cosiddetto merito eventuale, cioè l’attenuazione (e non recisione, come vedremo in seguito) del tradizionale nesso di strumentalità tra il provvedimento cautelare e la sentenza di merito cui consegue la tendenziale, almeno, permanenza degli effetti del provvedimento cautelare anche se non viene iniziato il giudizio di merito o anche se, pur iniziato, il giudizio di merito si estingue. Per strumentalità si intende, com’è noto, quella idoneità del provvedimento cautelare, in particolare del provvedimento ex art. 700, ad assicurare la fruttuosità, l’utilità pratica della sentenza di merito, cioè a scongiurare ogni circostanza che potrebbe intervenire nelle more del giudizio di merito, e che potrebbe frustrare l’esigenza di tutela dell’attore nell’ipotesi in cui venisse accolta la sua domanda all’esito del giudizio ordinario. Il legislatore, a ben vedere, pare essersi ispirato alle soluzioni adottate da quegli ordinamenti giuridici che, da tempo, hanno maturato la consapevolezza che l'adozione ed attuazione della misura cautelare - soddisfacendo compiutamente l'interesse dell'istante e determinando anche il venir meno dell'interesse a resistere del convenuto - può rendere superflua una pronuncia di merito. Un sicuro punto di riferimento è il référé francese, istituto di carattere atipico, connotato dall'assenza di un rapporto di strumentalità con il giudizio di merito, dall'offrire una tutela provvisoria (non potendo pregiudicare il merito della lite, in ragione della sua inidoneità ad assumere l'autorità di cosa giudicata), ma soprattutto dalla rapidità, assicurata da una disciplina che vede un'istruttoria assente o estremamente ridotta (fondata sulla condizione di "evidenza" o "non seria

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contestabilità" delle situazioni sostanziali tutelande) e dall'efficacia, connessa alla provvisoria esecutorietà ex lege che assiste il provvedimento. I presupposti per la concessione dei provvedimenti di référé, indicati dall'articolo 808 del Nouveau code de procédure civile, sono l'urgenza, la non seria contestabilità delle situazioni che si intendono tutelare ed infine la esistenza di una controversia tra le parti. Il successivo articolo 809 delinea tre diverse ipotesi di référé: nel comma 1, il référé de remise en état, in cui - pur in presenza di contestazione seria - è possibile prescrivere misure conservative o di ripristino dello status quo ante per prevenire un danno imminente o far cessare una turbativa manifestamente illecita; nel comma 2, il référé provision e il référé injoction, in cui è prevista la possibilità di ordinare una provvisionale o l'esecuzione di un'obbligazione di fare sul solo presupposto che l'obbligazione non sia seriamente contestabile. Da un sommario esame della tutela accordata dall'ordinamento francese emergono subito le differenze con la disciplina recata dal nuovo procedimento cautelare italiano; mentre in quest'ultimo occorre comunque il pericolo di un pregiudizio che presenti gli estremi della imminenza e della irreparabilità, nel référé è sufficiente la sussistenza di una generica urgenza o di un danno imminente; il référé, inoltre, è suscettibile di essere utilizzato anche per finalità diverse da quelle cautelari, potendo assumere un connotato sia conservativo che anticipatorio; quello provision e injoction, infine, ha una funzione più marcatamente anticipatoria della decisione definitiva, non essendo necessariamente vincolato al presupposto dell'urgenza. L'attenuazione della strumentalità necessaria tra fase cautelare e fase di merito, che consegue all'introduzione del sesto comma dell'articolo 669-octies cpc da parte della legge 80/2005, che ha reso la fase di merito non più automatica, riguarda tutti i provvedimenti ex articolo 700 cpc e tutti i provvedimenti di denunzia di nuova opera e di danno tenuto. Solo invece in relazione ai rimanenti provvedimenti cautelari, id est sequestri e procedimenti previsti da leggi speciali, occorre procedere alla distinzione tra natura anticipatoria o conservativa della decisione, e conseguentemente alla distinzione tra prosecuzione solo eventuale o prosecuzione necessaria nel merito. A seguito della riforma del procedimento cautelare, ferma restando la non necessaria prosecuzione nel merito per i provvedimenti di cui all'articolo 700 cpc, di nuova opera e di danno temuto, dallo stesso tenore letterale dell'articolo 669 octies cpc, in parte differente dalla speculare previsione contenuta nell'articolo 23 D.Lgs. n. 5 del 2003 per il rito societario (che riferisce l'attenuazione della strumentalità "ai provvedimenti d'urgenza e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della decisione di merito", senza richiamare specificamente gli artt. 688 e 700 Cpc), si desume che, solo negli altri casi, cioè nei sequestri e nei procedimenti cautelari previsti da leggi speciali, il giudice della cautela deve procedere alla qualificazione del provvedimento come anticipatorio o conservativo. La locuzione "provvedimenti di urgenza e gli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della decisione di merito" - utilizzata dal legislatore

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per indicare i provvedimenti per i quali la strumentalità è attenuata - ha posto innanzitutto il problema di qualificare il provvedimento richiesto dalla parte come anticipatorio o meno, attesa la diversa disciplina accordata ai provvedimenti cc.dd. ultrattivi. La distinzione tra provvedimenti anticipatori e non anticipatori si fonda sul rilievo che i provvedimenti cautelari possono avere sia lo stesso contenuto, pur se con una diversa efficacia, di quello che, accogliendo la domanda nel giudizio di merito, assicura piena tutela al diritto azionato, sia un contenuto differente, nel senso che offrono una tutela che non si può ottenere in un giudizio a cognizione piena finalizzato alla protezione e realizzazione del diritto: è il caso delle misure conservative, quali il sequestro, che hanno sempre contenuto diverso dalla decisione di merito che realizza il diritto. A ben vedere, però, tutte le misure cautelari, tendendo ad assicurare una qualche forma di tutela preventiva, presentano, in senso lato, una funzione anticipatoria. Una distinzione certa tra le due tipologie di provvedimenti può essere assicurata solo allorché venga ancorata ad un criterio formale, non presentando, quello funzionale (o misto), le stesse garanzie di certezza per l'operatore del diritto. I primi commentatori hanno ritenuto che il legislatore si fosse ispirato proprio a tale criterio, quantomeno con riferimento ai provvedimenti emessi ai sensi dell'articolo 700 cpc, giustificandosi, l'espressa indicazione, nell'articolo 669 octies, comma 6, cpc, dei "provvedimenti d'urgenza emessi ai sensi dell'articolo 700", prima degli "altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi speciali", solo nell'ottica di un recepimento, da parte del legislatore, delle indicazioni provenienti da quella corrente di pensiero secondo cui tutte le misure cautelari concesse ai sensi dell'articolo 700 Cpc hanno un effetto anticipatorio, stante la funzione, riconosciuta per legge, di "assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito". Tale soluzione, confortata, tra l'altro, dall'inequivoco tenore letterale della disposizione, doveva tuttavia fare i conti con una realtà giurisprudenziale che, in tema di tutela innominata d'urgenza, ha dilatato enormemente i margini di operatività, giungendo all'emissione di misure cautelari atipiche anche interdittive o inibitorie aventi carattere conservativo. Una lettura del nuovo articolo 669-octies cpc più aderente alla prassi applicativa, pertanto, non potendo escludere a priori che potessero essere emessi provvedimenti cautelari ex articolo 700 cpc aventi carattere conservativo, ha da subito reso evidente il problema di una valutazione in concreto della natura (anticipatoria o conservativa) del provvedimento cautelare innominato; si correva, infatti, il rischio che il giudizio di merito venisse promosso anche da parte del ricorrente vittorioso che, nutrendo dei dubbi sul carattere anticipatorio del provvedimento, non si voleva esporre al pericolo di perdere il vantaggio conseguito a seguito di ricorso della controparte ex articolo 669 novies, comma 2, cpc. Tutto ciò in aperto contrasto con gli obiettivi del legislatore della riforma che, generalizzando la "strumentalità attenuata", al di là del ristretto campo del rito societario, ha inteso conseguire un effetto deflativo con l'introduzione di un vero e

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proprio procedimento sommario cautelare alternativo al processo di merito. La dottrina, in assenza di qualunque base positiva, ha tentato di chiarire la differenza tra le misure cautelari conservative e quelle anticipatorie. Le prime – il cui paradigma è senz’altro rappresentato dal sequestro giudiziario e conservativo – sono quelle dirette semplicemente a cristallizzare la situazione di fatto e/o giuridica, per evitare che, nel tempo occorrente per portare a compimento il processo a cognizione piena (nonché, se del caso, quello esecutivo), tale situazione venga alterata o modificata in modo irreversibile, sì da rendere concretamente impossibile la successiva attuazione coattiva del diritto riconosciuto esistente; ciò potrebbe avvenire, ad esempio, allorchè il debitore si spogliasse di tutti i suoi beni, vanificando ogni possibilità, per il creditore, di soddisfarsi attraverso l’espropriazione forzata. I provvedimenti cautelari anticipatori, invece, sono quelli miranti ad evitare che il diritto oggetto di tutela debba rimanere inappagato fino al termine dell’ordinario processo di cognizione e/o di esecuzione; e ciò sul presupposto che, anche in ragione della particolare natura e/o funzione del diritto stesso, dal protrarsi di questo stato d’insoddisfazione potrebbe derivare, al suo titolare, un danno non compiutamente o adeguatamente riparabile ex post (gli esempi classici sono rappresentati, a tal proposito, dal diritto ad un assegno alimentare oppure dal diritto del lavoratore dipendente alla propria retribuzione) In ultimo luogo resta da sottolinerare che, in assenza di una specifica previsione di legge in ordine alle spese del procedimento cautelare conclusosi con provvedimento di accoglimento "ultrattivo", l'astratta idoneità di quest'ultimo a definire il giudizio, ove una delle parti non inizi l'oramai solo eventuale fase di merito, impone comunque al giudice della cautela di statuire sulle spese di lite, alla stregua del principi generali. Per cogliere appieno la portata del provvedimento è necessario richiamare nel dettaglio le novità introdotte dalla legge di riforma del processo civile nel procedimento cautelare e le principali problematiche che ne hanno fatto seguito. Competenza in caso di compromesso arbitrale (art. 669-quinquies) Se la controversia è compromessa in arbitri non rituali (art. 808-ter) la domanda si propone al giudice che sarebbe stato competente a conoscere del merito. Provvedimento di accoglimento (art. 669-octies) Il previgente art. 669-octies prevedeva che l’ordinanza di accoglimento fissasse un termine al ricorrente, non superiore a 30 giorni, per l’inizio del giudizio di merito, e qualora il giudice omettesse di fissare il termine per l’inizio del giudizio di merito, quest’ultimo avrebbe dovuto comunque essere iniziato entro 30 giorni. A sua volta, l’articolo 669-novies, ricollegava la perdita di efficacia del provvedimento cautelare al mancato inizio del giudizio di merito entro 30 giorni, oppure all’eventuale estinzione dello stesso, una volta attivato. Il testo della novella dispone che i provvedimenti di urgenza (art. 700), gli altri provvedimenti cautelari che anticipano gli effetti della sentenza di merito (previsti dal codice civile o da leggi speciali) ed i provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di

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danno temuto (art. 688), non rispondono più ad una funzione esclusivamente e necessariamente strumentale rispetto al processo di cognizione piena. Con la riforma del 2005, infatti, le suddette misure cautelari non perdono più efficacia nel caso della mancata attivazione e della estinzione del procedimento di merito. Esse, pertanto, sono in grado di offrire una tutela giurisdizionale del tutto autonoma e svincolata da quella a cognizione piena, ma che a differenza di quest’ultima non hanno attitudine al giudicato perché, per espressa previsione del Legislatore, l’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo (così il provvedimento cautelare non contiene alcun accertamento vincolante giudici successivamente aditi o contestualmente aditi nell’ambito di giudizi aventi anche lo stesso oggetto tra le stesse parti sebbene, quando esso venga depositato nell’ambito di un giudizio tra le stesse parti e magari con una coincidenza di oggetto, il giudice subisce indubbiamente un impatto emozionale, psicologico, ed attribuisce una posizione di vantaggio a colui che ha già ottenuto il provvedimento cautelare). La novella del 2005, tuttavia, non ha integralmente soppresso il nesso di funzionalità tra le misure suddette ed il procedimento di cognizione piena in quanto, pronunciato il provvedimento cautelare, ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito. Pertanto, non dovrà far altro che promuovere il giudizio di cognizione piena tanto colui che, dopo aver ottenuto il provvedimento cautelare, voglia tutelare giurisdizionalmente i propri diritti con la stabilità tipica del giudicato sostanziale, quanto il soggetto passivo della misura cautelare, che ritenesse sussistenti fondati motivi per accertare, con autorità di giudicato, l’inesistenza del diritto azionato in via cautelare. La conseguenza più importante di tale prospettazione è che al provvedimento cautelare, tradizionalmente privo di attitudine al giudicato, viene attribuita una autonoma idoneità a regolare il rapporto giuridico controverso, fino a quando lo stesso provvedimento non sia revocato o modificato con provvedimento ex art. 669-decies, o all’esito di un procedimento di reclamo, oppure all’esito di un eventuale giudizio di merito. In definitiva, la novella del 2005 valorizza appieno il ruolo del ricorrente al quale spetta la scelta sulla sufficienza o meno del provvedimento cautelare e la decisione di ottenere un provvedimento che faccia stato tra le parti, i loro eredi e aventi causa ex art. 2909 del codice civile. La recente riforma produce un’inversione del ruolo delle parti in quanto può essere proprio il resistente o comunque il soggetto contro cui è stato emesso il provvedimento cautelare che, nell’inerzia del ricorrente, può attivare il giudizio di merito, riscontrando in tale giudizio l’ultimo strumento per ottenere l’eliminazione di un provvedimento cautelare sfavorevole. Il ogni caso il termine per la proposizione del giudizio di merito è di 60 giorni e non più di 30 giorni. Ciò premesso, si può comprendere il motivo per cui è corretto parlare di merito eventuale, di attenuazione piuttosto che, di eliminazione del nesso di strumentalità tra provvedimento cautelare e giudizio di merito. Innanzitutto perché rimane in vigore il disposto dell’art, 669-novies secondo cui il provvedimento cautelare perde efficacia qualora venga iniziato il giudizio di merito e all’esito del giudizio di merito con sentenza anche non passata in giudicato sia accertata l’inesistenza del diritto a cautela del quale il provvedimento era stato concesso.

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Così come parimenti rimane in vigore l’art. 669-undecies secondo cui nei casi in cui il giudice impone il versamento di una cauzione, e questa non viene rilasciata il provvedimento cautelare perde efficacia. Nelle ipotesi in cui dopo la concessione di un provvedimento cautelare, il giudizio di merito effettivamente iniziato, venga definito con una sentenza di rito, che accerti il difetto di un presupposto processuale o di una condizione dell’azione, occorre distinguere due diversi orientamenti. I sostenitori della tesi prevalente ritengono che qualora la pronuncia accerti un vizio procedurale che tocca soltanto il giudizio di merito (ad esempio se la sentenza accerta una nullità della notificazione dell’atto di citazione o l’inesistenza o nullità insanabile della procura, od ancora, un vizio del contenuto dell’atto di citazione ex art. 664), la stessa costituisce una sentenza di rito che non comporta l’inefficacia del provvedimento cautelare. Nel caso in cui, invece, la sentenza accerti il difetto di un requisito processuale che riguarda tanto il merito quanto la fase cautelare, (ad esempio il difetto di giurisdizione, il difetto di competenza, o il un difetto di legittimazione attiva o passiva), la stessa travolge anche il provvedimento cautelare facendone perdere l’ efficacia. Revoca e modifica (art. 669-decies) Quando il giudizio di merito non è iniziato, o è stato dichiarato estinto, la revoca e la modifica dell’ordinanza di accoglimento, possono essere richieste: - se è esaurita l’eventuale fase del reclamo (art. 669-terdecies); - se vi è istanza di parte rivolta al Giudice che ha provveduto sulla domanda di tutela cautelare; - se si sono verificati mutamenti nelle circostanze o si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso l’istante deve fornire la prova del momento dell’avvenuta conoscenza. Nel corso del giudizio di merito il Giudice Istruttore può modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare, anche se emesso anteriormente alla causa, se: - non è stato proposto reclamo (art. 669-terdecies); - vi è istanza di parte; - si sono verificati mutamenti nelle circostanze o si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso, l’istante deve fornire la prova del momento dell’avvenuta conoscenza. Le innovazioni, immediatamente percepibili, dell’art. 669-decies sono due: 1) la revoca o modifica possono chiedersi, oltre che per “mutamenti nelle circostanze” che hanno condotto alla pronuncia del provvedimento, ossia per fatti sopravvenuti (da intendersi come fatti extraprocessuali che incidano sui presupposti della misura cautelare), anche in base “a fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare” purché la parte interessata dia prova dell’ elemento psicologico, cioè del momento in cui è venuta a

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conoscenza del fatto preesistente (con tutte le difficoltà di provare, nell’ambito di un giudizio a cognizione sommaria, il momento della conoscenza dell’esistenza di un fatto preesistente che giustifichi la revoca o la modifica); 2) la revoca e la modifica sono consentite, alle medesime condizioni, anche quando il giudizio di merito non sia stato iniziato o sia stato dichiarato estinto. Per quel che concerne la competenza, occorre distinguere:

a) quando il giudizio di merito è stato iniziato, ed è pendente, l’istanza di revoca o di modifica si propone al giudice istruttore, “salvo che sia stato proposto reclamo (art. 669-terdecies)”;

b) quando il giudizio di merito non è ancora iniziato, oppure non è più pendente, l’istanza di revoca o di modifica si propone allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento cautelare purché “sia è esaurita l’eventuale fase del reclamo proposto ai sensi dell’art. 669-terdecie” .

Viene così chiarito il rapporto, con un inciso contenuto nel 669-decies e con un altro inciso contenuto nel 669-quaterdecies, tra procedimento ex art. 669-decies e reclamo, nel senso della chiara priorità del reclamo. Fino a quando è possibile proporre il reclamo, anche i mutamenti nelle circostanze intervenute successivamente, dovranno essere fatti valere nell’ambito del procedimento di reclamo. Reclamo conto i provvedimenti cautelari (art. 669-terdecies ) Contro l’ordinanza con la quale è stato concesso o negato il provvedimento cautelare è ammesso reclamo nel termine perentorio di quindici giorni (e non più dieci come previsto dall’originario rinvio all’art. 739 secondo comma) dalla pronuncia in udienza o, altrimenti, dalla comunicazione o dalla notificazione. Le circostanze e i motivi sopravvenuti rispetto al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento. Il Tribunale può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi documenti. Non è consentita la rimessione al primo Giudice. Il procedimento di reclamo è stato oggetto di numerosi mini-interventi del legislatore che hanno codificato le soluzioni già proposte dalla giurisprudenza. La norma innanzitutto chiarisce che contro l’ordinanza che ha concesso o ha negato il provvedimento cautelare (come già statuito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 253/1994) è ammesso reclamo entro un termine non più di 10 giorni, ma di 15 giorni, che decorrono o dal momento della pronuncia del provvedimento cautelare in udienza, oppure dalla comunicazione a cura del cancelliere. Nell’ipotesi di provvedimento autorizzativo della cautela contro il resistente contumace, nel silenzio del legislatore, è ragionevole ritenere che, in mancanza della comunicazione, l’ordinanza possa essere reclamata nel termine decadenziale annuale, ovvero nei 15 gg. dalla notificazione del provvedimento a cura della parte vittoriosa, anche se avvenuta ai sensi dell’art.479 cpc. Il giudizio di reclamo, a differenza di quello d’appello, è ad effetto devolutivo pieno, cioè nell’ambito dello stesso possono essere fatti valere non solo

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gli argomenti proposti nella prima fase ma anche i mutamenti nelle circostanze. Inoltre, a conferma del carattere di pieno riesame della fase di reclamo è previsto che, ex officio, il Tribunale possa assumere informazioni ed acquisire nuovi documenti. Il carattere rescissorio pieno del reclamo, inoltre, si evince anche dalla previsione secondo cui nel giudizio cautelare non opera quella possibilità contemplata dagli artt. 353-354 per il giudizio di primo grado, di remissione della causa al primo giudice. Così il giudice del reclamo, anche qualora accerti un vizio che nel giudizio di appello ordinario determina la remissione dalla causa la primo giudice (l’erronea estromissione di una parte, la mancata integrazione del contraddittorio con un litisconsorzio necessario, un difetto di giurisdizione), dovrà comunque pronunciarsi sulla domanda della parte dichiarando il difetto del requisito procedurale, ma non rimettere il procedimento al primo giudice che ha pronunciato o negato il provvedimento cautelare. Ciò che è cambiato nei procedimenti possessori. Domanda di reintegrazione e di manutenzione nel possesso (art. 703) Nel pronunciare sulle domande di reintegrazione e di manutenzione nel possesso il Giudice deve osservare gli articoli 669-bis e seguenti. Il richiamo a tali disposizioni è oggi compiuto, esplicitamente, nei limiti della compatibilità con le finalità proprie delle azioni possessorie e delle norme che specificamente disciplinano i procedimenti relativi. L’ordinanza che accoglie o respinge la domanda è soggetta alla stessa forma di reclamo prevista in materia cautelare (art. 669-terdecies). Il giudizio di merito non segue più in maniera pedissequa la misura provvisionale, ma è subordinato alla istanza di una delle parti, da proporsi entro il termine perentorio di sessanta giorni, decorrente dalla comunicazione del provvedimento che accoglie o respinge la domanda di tutela possessoria, ovvero, del provvedimento che ha deciso sul reclamo. Sull’istanza il Giudice provvede fissando l’udienza dinanzi a sé. L’ordinanza che accoglie o respinge la domanda perde efficacia qualora, all’esito del successivo giudizio di merito, con sentenza anche non passata in giudicato, venga dichiarata infondata la domanda proposta a tutela del possesso. Domande di provvedimento possessorio nel corso del giudizio petitorio (art.704) In pendenza del giudizio petitorio, la domanda di reintegrazione nel possesso può essere proposta al giudice competente a norma dell’art. 703. In questo caso, mentre i provvedimenti temporanei indispensabili sono dati da quest’ultimo giudice, il giudizio di merito si svolge dinanzi al giudice del petitorio, alle stesse condizioni di cui al novellato art. 703 (e cioè previa istanza di parte da proporsi nel termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimento che accoglie o respinge la domanda di tutela possessoria, ovvero, del provvedimento che ha deciso sul reclamo).

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Ciò che è cambiato nella disciplina dei procedimenti di istruzione preventiva. Accertamento tecnico e ispezione giudiziale (art. 969 cpc) È ampliato l’oggetto dell’accertamento tecnico e della ispezione giudiziale poiché, laddove ricorresse un’urgenza, tali misure potranno essere disposte anche sulla persona dell’istante e sulla persona nei cui confronti l’istanza è proposta, qualora questa vi acconsenta. L’accertamento tecnico, inoltre, può comprendere anche valutazioni in ordine alle cause e ai danni relativi all’oggetto della verifica e non più, soltanto, la verifica dello stato dei luoghi o la qualità o la condizione di cose. Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 969-bis) Al fine di procedere al corretto inquadramento dell’art. 696-bis nell’ambito del sistema, occorre in primo luogo tratteggiarne i rapporti con l’accertamento tecnico preventivo “tradizionale” di cui all’art. 696 c.p.c., e con gli altri strumenti di conciliazione processuale già previsti dall’ordinamento. L’A.T.P. è stato tradizionalmente considerato un mezzo di istruzione preventiva di natura cautelare, presupponendo i requisiti di ammissibilità necessari e non alternativi del fumus boni iuris e del periculum in mora. L’intervento della novella ha lasciato senza dubbio inalterata siffatta natura, limitandosi ad un intervento che ha recepito le pronunce emesse, sul tema, dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione. Innanzitutto è stata estesa l’operatività dell’accertamento alla persona dell’istante e, previo consenso dell’interessato, alla persona nei cui confronti l’istanza è proposta. In secondo luogo, e questa è probabilmente una novità di maggiore portata, con il nuovo secondo comma dell’art. 696 cpc si è disposto che l’accertamento “può comprendere anche valutazioni in ordine alle cause ed ai danni relativi all’oggetto della verifica”. L’espletamento della nuova consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis, per contro, prescinde del tutto dai presupposti del fumus e del periculum in mora, potendo senz’altro essere richiesta anche laddove non vi sia affatto urgenza di verifica, e si inscrive nel novero dei procedimenti sommari di istruzione preventiva di natura non cautelare. L’indicato accertamento tecnico non potrà, invece, difettare dei necessari presupposti processuali (integrità del contraddittorio, legittimazione attiva e passiva, etc.), dell’interesse ad agire, ex art. 100 cpc, nonché dei requisiti minimi di ritualità previsti dai principi generali. La nuova figura, pertanto, conserva un remoto nesso di strumentalità con il processo dichiarativo ordinario. A prescindere dal fine conciliativo, che pur rappresenta una ratio rilevante dell’istituto, questo tipo di accertamento costituisce attuazione del diritto di difendersi provando, ai sensi dell’art. 24 Cost.

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La consulenza tecnica “a fini conciliativi” prosegue nel solco tracciato dagli altri mezzi di conciliazione legati al processo civile, già previsti dal Codice di rito, che nel loro complesso non sembrano aver dato buona prova di sé. Gli artt. 198,199 e 200 del c.p.c. già prevedevano il compito del consulente tecnico nominato di tentare la conciliazione delle parti. L’art. 322 c.p.c., come sostituito dall’art. 31 della Legge n. 374 del 21 novembre 1991, prevede la conciliazione in sede non contenziosa dinanzi al Giudice di Pace: il processo verbale della conciliazione intervenuta tra le parti, laddove la controversia rientri nella competenza del Giudice di Pace, costituisce titolo esecutivo, negli altri casi possiede comunque efficacia di scrittura privata riconosciuta in giudizio. Tale norma ha sostanzialmente fallito l’obiettivo, sia per la limitata estensione della competenza del Giudice di Pace, sia per l’assoggettamento del verbale a tassa di registro. L’art. 185 c.p.c., disciplina invece il tentativo di conciliazione nel processo ordinario quale naturale sbocco dell’interrogatorio libero delle parti da parte del giudice della causa: il tentativo può essere rinnovato in ogni momento dell’istruzione, ed il relativo processo verbale costituisce, anche qui, titolo esecutivo. All’apice degli strumenti di conciliazione, è posto il tentativo obbligatorio dinanzi alla Commissione di Conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c., che, come noto, costituisce condizione di procedibilità delle cause relative ai rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato di cui all’art. 409 c.p.c.. All’interno di questo quadro normativo, la consulenza preventiva rappresenta un interessante mezzo di tutela dei diritti soggettivi, nonchè di possibile deflazione del carico degli Uffici Giudiziari. L’indicata norma prevede l’espletamento di una consulenza tecnica in via preventiva “anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’art.696”. L’incipit pertanto offre un chiaro argomento testuale per sciogliere, come già detto in precedenza, questo strumento processuale da esigenze di natura cautelare. La consulenza è finalizzata all’accertamento ed alla relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito. Ad una prima lettura, il tenore della novella, in parte qua, rischia di suonare come “eversivo” dei principi generali, rappresentando, come già accennato, una possibile via di fuga verso forme di giurisdizione diminuita. La formulazione della norma, infatti, rischia di lasciare in mano ai consulenti nominati non solo i momenti della descrizione e valutazione del fatto, ma anche la cognizione dei profili di diritto della controversia. L’accertamento e la determinazione dei crediti potrebbe involgere la valutazione giuridica e non tecnico-scientifica delle condotte delle parti, e quindi l’ingresso del consulente, ad esempio, nel giudizio di imputabilità o meno del danno, nella

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valutazione dell’adempimento/inadempimento contrattuale, o della validità dell’obbligazione posta a sostrato della pretesa fatta valere. Il carattere fortemente ambiguo del dettato normativo deve essere d’altronde chiarificato alla luce dei principi generali secondo cui il consulente ha funzioni ausiliarie del giudice limitate alle proprie cognizioni di stampo eminentemente tecnico, ed in particolare del richiamo, ad opera dell’ultimo comma della disposizione esaminata, all’applicazione delle norme di cui agli artt. 191 – 197 c.p.c.. Da questa impostazione discende, nell’ottica di una compiuta lettura del disposto di legge, che l’opera del consulente debba limitarsi all’accertamento anticipato del quantum debeatur, senza sconfinare nell’an debeatur sit. La determinazione del quantum pare, d’altro canto, attività pienamente sufficiente per non frustrare l’esigenza conciliatoria sottesa alla norma, garantendo essa il sostrato fattuale preordinato alla dialettica tra le parti ed alla conseguente ed auspicata formazione dell’accordo. Il legislatore, determinando l’ambito di applicazione dell’istituto, ha utilizzato una formula molto ampia: “crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito”. È palese il richiamo alle fonti delle obbligazioni di cui all’art. 1173 c.c.: restano escluse solo le obbligazioni derivanti da negotiorum gestio, soluti retentio, arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. In questo ambito, la consulenza preventiva potrà trovare le più svariate applicazioni: dall’ipotesi della esatta determinazione della rata di mutuo (responsabilità contrattuale da mancato pagamento) alla verifica della sussistenza di vizi occulti con relativa determinazione dei costi di ripristino (responsabilità contrattuale derivante da appalto, contratto d’opera, compravendita), alla determinazione dei corrispettivi nei contratti d’appalto a misura, fino alla determinazione dei danni patrimoniali o biologici derivanti da sinistro stradale. Su quest’ultimo punto è opportuno soffermarsi poiché lo strumento di cui trattasi potrebbe fornire una valida alternativa al contenzioso derivante da infortunistica stradale, in tutte quelle ipotesi in cui non vi sia contestazione in tema di responsabilità, ma si discuta soltanto sulla corretta quantificazione del danno. Da un lato, con il ricorso all’art. 696-bis, infatti, potrebbero evitarsi i costi e le lungaggini del giudizio ordinario e della CTU eventualmente disposta in sede istruttoria, e dall’altro, le compagnie assicurative, con l’attivazione del procedimento, avrebbero sicura tutela verso successive pretese infondate od esplorative delle controparti. Prima di provvedere al deposito della relazione, il consulente “tenta, ove possibile, la conciliazione”. È evidente che l’attività tesa alla ricerca di una soluzione bonaria della controversia sarà posta in essere dal consulente dopo avere compiuto o portato a buon punto le operazioni peritali; ciò consentirà di sottoporre alle parti soluzioni alternative di risoluzione della lite, prima che, con il deposito della relazione, il procedimento abbia termine. Il consulente è incaricato della redazione del verbale di conciliazione, in collaborazione con le parti, i loro procuratori, i loro consulenti di parte. Al verbale di conciliazione è attribuita con

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decreto del Giudice, efficacia esecutiva ai fini dell’espropriazione, dell’esecuzione in forma specifica e dell’iscrizione ipotecaria. Il titolo sarà esente da imposta di registro, ai sensi del comma quarto. Qualora la conciliazione non riesca, la relazione peritale tornerà ad avere il valore di un mero atto di istruzione preventiva, e ciascuna parte potrà chiederne l’acquisizione agli atti del successivo giudizio di merito, attraverso il meccanismo della produzione documentale, ma nel rispetto della disciplina di cui all’art. 698 c.p.c. Il procedimento ha caratteri del tutto similari a quello di A.T.P. tradizionale: la norma opera sul punto un richiamo all’art. 696 terzo comma, e quindi agli artt. 694 e 695 c.p.c.. L’atto introduttivo è un ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente, il quale fisserà con decreto l’udienza di conferimento dell’incarico dinanzi a sé con contestuale nomina del consulente, assegnando termine alla parte ricorrente ai fini della notifica. All’udienza il giudice dovrà verificare la regolarità del contraddittorio e specificare i quesiti tecnici sui quali il consulente dovrà rispondere. In questa sede dovranno essere risolte le eventuali questioni di rito, non ultime quelle vertenti sulla opportunità di disporre eventuali chiamate in causa ai sensi dell’art. 107 c.p.c. Sembra evidente che l’eventuale dichiarazione di chiamata in causa di terzi, ai sensi dell’art. 106 c.p.c., possa determinare lo slittamento dell’udienza, a beneficio comunque della regolarità e completezza del contraddittorio. La conciliazione, infatti, avrà maggiori possibilità di essere raggiunta ove partecipino al procedimento tutti i potenziali interessati, ai quali, in caso di fallimento delle ipotesi transattive, potrà essere comunque opposta l’efficacia della C.T.U. nel giudizio di cognizione. L’udienza si concluderà con l’indicazione del giorno e del luogo di inizio delle operazioni peritali, del termine assegnato ai fini del deposito dell’elaborato, e dell’acconto sul compenso del perito, che sarà posto di norma a carico del ricorrente, salva comunque una (auspicabile) diversa valutazione caso per caso. Come già accennato, l’ingresso della C.T.U. preventiva nel processo di cognizione, non può essere considerato automatico, dovendo invece avvenire nel rispetto delle cautele dettate dall’art. 698 c.p.c. con riferimento a tutti gli atti di istruzione preventiva. Statuisce l’art. 696 terzo comma: “l’assunzione preventiva dei mezzi di prova non pregiudica le questioni relative alla loro ammissibilità e rilevanza né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito”. Pertanto, salvo il fatto che il giudice della cognizione ordinaria non potrà tornare a pronunciarsi sui requisiti di ammissibilità del procedimento, già valutati in sede sommaria, resterà impregiudicato il contenuto del giudizio di ammissibilità-rilevanza, proprio dell’ordinanza istruttoria del Giudice della causa. A conclusione di questo excursus, pare opportuno occuparsi del regime di impugnabilità dei provvedimenti resi in applicazione dell’art. 696-bis c.p.c.. La costruzione dell’istituto ed in particolare la sua natura di procedimento sommario palesemente non cautelare, impongono un ripensamento in ordine all’ammissibilità del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c..L’applicabilità del reclamo all’A.T.P. era stata fondatamente sostenuta ragionando, da un lato, sulla natura cautelare dell’accertamento di tipo tradizionale, e, dall’altro, sul carattere di mezzo di

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gravame generale del rimedio di cui all’art. 669-terdecies c.p.c..In considerazione della loro non definitività, i provvedimenti relativi all’istruzione preventiva erano invece stati esclusi dall’ambito di applicazione del ricorso straordinario ex art. 111 Cost. Alla luce della novella, il quadro normativo assume tinte ben diverse, e l’estraneità della consulenza preventiva dal novero dei procedimenti cautelari determina l’inammissibilità del reclamo. Assume nuova rilevanza, peraltro, il disposto di cui all’art. 695 c.p.c., secondo cui “Il Presidente del Tribunale provvede con ordinanza non impugnabile”. Stando alla formulazione dell’art. 696-bis c.p.c., comunque, il rilievo pratico delle impugnazioni nella materia dovrebbe essere ben scarso. In linea astratta, pare meritevole di accoglimento l’indirizzo che ammette l’esperibilità del regolamento di competenza, limitatamente al caso di conflitto negativo, che si realizza quando, dichiaratosi incompetente il primo Giudice adito, anche il secondo Giudice successivamente investito della questione, abbia pronunciato un analogo provvedimento negativo della propria competenza. avv.ti Gaetano Cennamo e Monica Laiso