Rassegna di Psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica ... · Calderaro Monica, Burla Franco,...

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Rassegna di Psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia Forense. Periodico quadrimestrale a carattere scientifico UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA "SAPIENZA" VOLUME 20 N. 3 Settembre Dicembre 2015

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Rassegna di Psicoterapie.

Ipnosi. Medicina

Psicosomatica.

Psicopatologia Forense.

Periodico quadrimestrale a carattere scientifico

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA "SAPIENZA"

VOLUME 20 – N. 3

Settembre – Dicembre 2015

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Volume 20 N° 3 - 2015

Periodico quadrimestrale a carattere scientifico di proprietà della UNIVERSITÀ DEGLI

STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” Comitato Consultivo

Cattedra di Psicopatologia Forense

(Dipartimento di Neurologia e Psichiatria), Universitá di Roma “La Sapienza” .

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Vice Direttore responsabile

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Direzione Scientifica onoraria:

Franco Granone e Antonio Maria Lapenta

Gli elaborati vanno inviati al Prof. Vincenzo

Mastronardi Dipartimento Neurologia e Psichiatria, Universitá “La Sapienza”, P.le Aldo

Moro, 5 – 00185 Roma – Fax: 06/49912282

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Pomilla, S.Ricci, G. Saladini, S. Agostini, F.

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SOMMARIO

- Nocito Eleonora, Thomas Roberto, Pomilla Antonella

LA NET GENERATION E IL CYBERBULLISMO:

UN’INDAGINE SPERIMENTALE PRELIMINARE

Pag. 7

- Burla Franco, Lastretti Mara, Pedata Loredana Teresa,

Cinti Maria Elena

L'IMPULSIVITÀ NEI PAZIENTI BORDERLINE

Pag. 59

- Cinti Maria Elena, Lastretti Mara, Pomilla Antonella,

Calderaro Monica, Burla Franco,

L’ANALISI GRAFOLOGICA PER LA

VALUTAZIONE DEL TRATTO ANTISOCIALE

DI PERSONALITÀ

Pag. 93

- Casella Cristina, Armando Palmegiani, Danila Pescina

L’OMICIDIO DI MELANIA REA: UNA STORIA

DI STAGING

Pag. 117

- Gallo Raffaella

VANGELO CONTRO-VANGELO. UN’INDAGINE

SUL RAPPORTO MAFIA-CHIESA

Pag.167

- Bovino Antonella, Mastronardi Vincenzo, Pescina

Danila

DALL’AMORE ALLA VIOLENZA. LE

DINAMICHE PSICOLOGICHE ALL’INTERNO

DELLA COPPIA.

Pag.259

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7

Eleonora Nocito1, Roberto Thomas

2, Antonella Pomilla

3

LA NET GENERATION E IL CYBERBULLISMO: UN’INDAGINE

SPERIMENTALE PRELIMINARE

RIASSUNTO

La familiarità con i media e le tecnologie digitali da parte degli adolescenti e

giovani della cosiddetta net-generation dell’attuale società è ampissima: per la

dimestichezza nella ricerca di informazioni utili allo studio ed alla conoscenza,

e nella condivisione di opinioni e contenuti digitali, per la gestione dei profili

personali aperti su almeno uno dei social network più usati e conosciuti

(Facebook, Twitter, Instagram, ecc..).

Indubbi sono i vantaggi da un punto di vista comunicativo e relazionale, ma ad

essi possono in alcuni casi associarsi variabili forme problematiche relative al

cattivo uso delle tecnologie stesse, ingenerando nuovi comportamenti devianti

oppure trasformando altri già esistenti. Questo è il caso del cyberbullismo.

Considerando un campione complessivo di 207 alunni di scuola primaria,

secondaria di primo grado e secondaria di secondo grado di Istituti della

provincia di Pesaro-Urbino, l’indagine sperimentale che qui si presenta ha

voluto indagare la diffusione e l’utilizzo delle nuove tecnologie da parte dei

1 Avvocato, Criminologa, Mediatore Civile Professionista

2 Già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni

di Roma 3 Psicologo Clinico, Criminologo, PhD in Psichiatria - Assegnista di Ricerca

c/o “Sapienza” Università di Roma

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giovani, e specificatamente la conoscenza e la percezione che essi hanno del

fenomeno del cyberbullismo.

Considerando complessivamente le risposte date dai ragazzi intervistati, si è

evidenziato un uso abbastanza responsabile dei mezzi di comunicazione

elettronica, nonché una discreta conoscenza dei rischi connessi al loro utilizzo

relativamente al fenomeno in esame.

Parole chiave: net-generation; cyberbullismo; molestie telematiche

ABSTRACT

Young people and adolescents considered to be the net generation in today’s

society are extremely familiar with digital technologies and media by virtue of

their fluency in searching for information used in education and learning, their

sharing of opinions and digital content, and their management of personal

profiles on at least one of the highly-frequented and well-known social

networks (Facebook, Twitter, Instagram, etc.).

There are undoubted advantages of this familiarity from the perspective of

communication and relationships, but in some cases various problems arise

relating to the misuse of the very same technologies, leading to new deviant

behaviours or transforming existing ones. This is the case with cyberbullying.

Considering a total sample of 207 primary school and first and second grade

secondary school pupils in Pesaro-Urbino province, the empirical research

presented here aimed to investigate the spread and the use of new technologies

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by young people and in particular the knowledge and the perception they have

of the cyberbullying phenomenon.

Considering all of the answers given by interviewed students, it emerged that

electronic means of communication were being used adequately responsibly

and in addition there was some awareness of the risks linked to their utilization

in the context of the phenomenon under examination.

Key words: net-generation; cyberbullying; cyberharassment

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1. Il cyberbullismo: definizione, caratteristiche e diffusione

Il bullismo telematico o cyberbullismo indica le varie forme di sopruso e

prevaricazione perpetrate attraverso i mezzi di comunicazione digitale (e-

mail, blog, social network, sms ed internet in generale).

Se il bullismo cosiddetto tradizionale, quello che si esplica attraverso violenze

e coercizioni fisiche (spesso contestualizzato in ambito scolastico), è un

fenomeno da tempo conosciuto, questa nuova variante è in costante crescita

poiché al passo con il continuo sviluppo delle tecnologie informatiche.

Esso è, tuttavia, non meno grave della forma diretta, poiché riconosciuto è il

rischio che la cd. “disinibizione online” (vedi a tal riguardo Suler J.,

http://www.psychomedia.it/pm/telecomm/telematic/suler.htm) incrementa

sensibilmente l’intensità della violenza e gli esiti persecutori: poiché il bullo,

nascondendosi dietro “uno schermo”, è nell’impossibilità di osservare

l’impatto del proprio comportamento sulla vittima, e quindi la perdita della

consapevolezza degli effetti delle proprie azioni lo inducono in stati di

disinibizione, disimpegno morale e perdita di empatia e rimorso (Nicoletti &

Gallingani, 2009); poiché la divulgazione di materiale offensivo viene

amplificato dalla rete stessa, notoriamente priva di confini di spazio e di

tempo, ed oltretutto fruita simultaneamente da un più vasto pubblico.

Difatti, tanto nelle notizie di cronaca quanto dalla letteratura di specie, è da

tempo segnalata la gravità di tale fenomeno con la conseguenza più estrema:

il suicidio della vittima di bullismo, sia esso esercitato in forma reale che

cyber (a tal riguardo, è di Marr & Field (2001) il neologismo bullycide ad

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indicare il comportamento della vittima spinta al suicidio dopo aver subito

molestie fisiche e psicologiche reali e/o telematiche, ed altresì l’uccisione del

suo aggressore).

Peraltro, si può ricondurre il concetto di disinibizione telematica anche alle

molteplici forme attraverso le quali vengono ad esplicarsi i comportamenti

persecutori e denigratori. Così Tonioni (2014) elenca ad esempio:

Harassment (molestie): invio di ripetuti messaggi denigratori ed offensivi

mirati a ferire la vittima bersaglio;

Flaming (litigi online): invio di messaggi provocatori, violenti o volgari

allo scopo di suscitare litigi tra i fruitori di chat o forum. Il flaming è indice

di intensa aggressività, e può essere episodico e fine a sé stesso o frutto di

un eccesso di rabbia motivato, sostenuto da un pretesto qualsiasi;

Denigration (denigrazione): invio o pubblicazione di pettegolezzi e dicerie

sul conto della vittima bersaglio, per danneggiarne la reputazione o le

amicizie;

Impersonation: assunzione dell’identità di un’altra persona, rubando le sue

credenziali di profilo telematico, al fine di danneggiare l’immagine,

rovinarne la reputazione o le amicizie o compiere atti illeciti o violenti

sotto falso nome;

Exposure: diffusione di notizie private e/o riservate, condivisioneonline di

segreti o informazioni imbarazzanti sul conto della vittima bersaglio. Le

informazioni possono essere del tutto inventate o in qualche modo estorte

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da dichiarazioni della vittima, non in modo diretto (ovvero non come sue

confidenze);

Trickery: acquisizione, tramite mezzi fraudolenti, di informazioni riservate

di qualcuno allo scopo di pubblicarle o utilizzarle per trarne vantaggio.

Questa attività si compie, in concreto, ottenendo con l’inganno la fiducia

della vittima allo scopo di ricevere confidenze e racconti, anche

imbarazzanti, per poi condividerli con gruppi di altre persone (in questo

caso è la stessa vittima a rivelare in buona fede ciò che poi viene

divulgato);

Exclusion: isolamento di una persona dai contesti telematici (es: mailing

list, forum, community);

Cyberstalking: invio ripetuto di messaggi di minaccia con intento

persecutorio, miranti ad incutere paura alla vittima;

Cyberbashing: anch’essa forma di cyberbullismo, che inizia nella vita

reale, dove la vittima viene aggredita o molestata mentre altri riprendono la

scena con la fotocamera del cellulare. Poi le immagini vengono postate su

internet e visualizzate da chiunque le voglia condividere, commentare o

votate;

Sexting: invio di immagini a contenuto sessuale per via elettronica o

tramite cellulare (a qualcuno che la vittima conosce realmente, es. il

proprio partner), che vengono poi diffuse senza il suo consenso (ad es: per

vendetta quando finisce la relazione);

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Sextortion: estorsione di foto o prestazioni sessuali attraverso ricatto, da

parte di un soggetto che è venuto in possesso di materiale compromettente

sulla vittima.

Considerando il nostro Paese, della diffusione dei mezzi telematici tra i

giovani, nonché della diffusione del fenomeno del cyberbullismo, si

ottengono riscontri da due interessanti recenti indagini nazionali.

In primo luogo, in occasione del “Safer Internet Day”4 del 2013 sono stati

pubblicati i significativi riscontri dell’indagine “I ragazzi e il cyberbullismo”

affidata ad Ipsos da Save the Children, che ha coinvolto un campione di 810

preadolescenti ed adolescenti dai 12 ai 17 anni intervistati in tutta Italia.

Questi i riscontri principali:

- al cospetto di una già elevata percentuale relativa alla presenza di un

computer in casa (93%), in modo rilevante i ragazzi dispongono inoltre

di un computer personale (79%) nonché dei più innovativi strumenti

digitali (smartphone 71% e tablet 42%, fotocamera digitale 82%);

- le ore di navigazione giornaliera in Internet sono 2 o più per il 75% del

campione (2-3 ore per il 28% e 3-4 ore per il 28%), prevalentemente da

casa (92%) e durante il pomeriggio (75%) o la sera (63%), pur senza

4 Il Safer Internet Day è la giornata istituita dalla Commissione Europea per la

promozione di un utilizzo sicuro e responsabile dei nuovi media tra i più

giovani - Indagine disponibile al sito:

http://risorse.savethechildren.it/files/comunicazione/Report%20Indagine%20Sa

fer%20Internet%202013%ch.pptx

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trascurare una percentuale del 7% per la quale i collegamenti telematici

avvengono di notte;

- quasi totalitaria è la presenza di un profilo personale su almeno un social

network o app (92%), in particolare Facebook (87%) – seguito poi da

MSN Messenger e Skype (32% in entrambi i casi), e ancora Twitter

(28%) – e WhatsApp (20%);

- ed altresì l’uso di tali canali è frequentemente praticato per chattare con

amici/conoscenti (85%) o con qualcuno conosciuto in internet (50%),

aggiornare il proprio profilo FB (74%) o il profilo di altri (59%), leggere

i blog di altri (58%), postare proprie fotografie (57%) o video (43%);

- per il 72% del campione il bullismo, e specificatamente le molestie

telematiche per il 44%, sono sentiti dai ragazzi come forti pericoli alla

loro incolumità, fenomeni poi seguiti da droga ed alcol (pericoli

rispettivamente indicati dal 55% e dal 39% del campione), dalla

possibilità di subire molestie e/o aggressioni da parte di adulti (44%), e

dall’isolamento o sua percezione per il 36% del campione;

- tra le motivazioni per cui le vittime vengono “prese di mira” da fenomeni

di aggressione e bullismo, prevalgono le caratteristiche fisiche (67%) –

ed in particolare la mancata adesione ai canoni di bellezza femminile

(59%) – o altre caratteristiche personali e comportamentali (es. l’essere

timido o apparentemente poco sveglio, l’essere “secchione” – 67%),

seguite da varie forme di espressione della “diversità”, quali il supposto

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orientamento sessuale (65%), i gusti e le idee personali in fatto di

abbigliamento, musica, etc. (48%), l’essere stranieri (43%);

- al di là delle motivazioni sopra elencate, riferite a caratteristiche della

vittima, viene ampiamente riconosciuto il ruolo del “branco” (“uno

comincia e gli altri gli vanno dietro” – 70%);

- sede elettiva dell’esplicarsi di tali forme denigratorie rimane la scuola

(80%), ed al secondo posto gli altri luoghi aggregativi reali (es. piazzetta,

locali, etc.) (67%), con successiva eventuale estensione, con rilevanza

non trascurabile, al mondo virtuale (“su internet e cellulari”) (53%);

- riconosciute conseguenze delle molestie sono l’isolamento sociale e la

perdita di interesse nelle attività quotidiane (65% e 67%) e problematiche

psicologiche quali la depressione o il rischio di incorrere in

comportamenti autolesivi (57% e 44%);

- per quanto riguarda nello specifico le molestie telematiche, il campione

indica quali forme prevalenti le persecuzioni del profilo sui social

network (61%), la diffusione di immagini intime o denigratorie (59%), la

diffusione di false notizie (58%) ela creazione di pagine o gruppi

“contro” la vittima designata (57%);

- di fatto, il campione riconosce che la diffusione di internet e dei mezzi

telematici (cellulari) peggiori la situazione e renda più gravi e dolorose le

aggressioni subite (83%), in quanto “non ci sono limiti a quel che si può

fare e dire” (73%), “può avvenire continuamente ed in ogni ora del

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giorno e della notte” (57%) e “potrebbe non finire mai:

video/immagini/frasi circolano online per sempre” (55%);

- di fondamentale importanza, al fine di risolvere il problema, è la rete

sociale: il campione indica in primis il fatto di doverne parlare con i

genitori (70%), seguiti poi dagli insegnanti quali altri adulti significativi

(53%), mentre il gruppo dei pari può fornire un supporto minoritario al

cospetto della gravità del quadro ipotizzato (“parlarne con un amico”

40%).

Altresì, anche nell’altra recentissima indagine “Abitudini e stili di vita degli

adolescenti” (2014) condotta dalla Società Italiana di Pediatria

(http://sip.it/pianeta-sip/agli-stati-generali-della-pediatria-e-allarme-

cyberbullismo) su un campione nazionale di 2.107 studenti della terza media,

emerge come centrale il tema della “migrazione” dei collegamenti telematici

effettuati dai giovani dal pc ai più moderni strumenti tecnologici, smartphone

in primis, oggi utilizzati dal 93% dei ragazzi (al cospetto del 65% del 2012).

Tuttavia, per quanto anche per questo campione vengano indicati come

frequenti i comportamenti di cyberbullismo direttamente subiti (31% in

generale, e 35% per il campione femminile) o osservati in amici prossimi

(56%), in questa indagine a differenza della precedente emerge in modo

sostanziale come il fenomeno venga mantenuto nel silenzio, privo della

ricerca di sostegno da parte degli adulti (85%), e semmai affidato a personali

tentativi di difesa (60% dei maschi e 49% delle femmine) o subito senza far

niente (11,7%).

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2. Ricerca sperimentale

Stante quanto sopra, si è voluto offrire un contributo sperimentale indagando

ulteriormente la diffusione dell’uso del/dei mezzi telematici da parte dei

giovani (in termini di tipologia di strumento, frequenza, assunzione di un

“consumo responsabile”), nonché la loro conoscenza e percezione del

fenomeno del cyberbullismo.

La ricerca è stata condotta attraverso la somministrazione di un questionario

con domande a risposta multipla e/o a risposta aperta5, ed ha coinvolto un

campione complessivo di 207 studenti (91 maschi e 113 femmine; età: 10/12

anni, 60%, e 16/17 anni, 40%) di istituti scolastici della provincia di Pesaro-

Urbino:

- 42 studenti (20 maschi e 22 femmine) della V classe scuola primaria (Ist.

“Sant’Orso” di Fano);

- 82 studenti (34 maschi e 48 femmine) della II classe scuola secondaria

inferiore (Ist. “G. Padalino” di Fano);

- 83 studenti (37 maschi e 43 femmine) della III e IV classe scuola secondaria

superiore (liceo scientifico Ist. “Laurana-Baldi” di Urbino).

Il questionario, somministrato come di norma in forma anonima, ha

consentito agli intervistati di esprimersi liberamente sulle tematiche proposte,

5 Sebbene la formulazione delle domande del questionario sia stata resa con

particolare semplicità, considerando la differenza di età dei soggetti presi a

campione, lo strumento è stato somministrato nella forma completa (24

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sulle quali, come è noto, spesso vige una forte ritrosia emotiva. Pur

considerando le molteplici sfaccettature che contraddistinguono il fenomeno

sotto indagine, lo strumento è altresì risultato di facile e veloce compilazione

anche da parte dei giovanissimi.

Per dovere di trasparenza scientifica si deve segnalare che, sebbene l’indagine

abbia coinvolto una numerosità campionaria soddisfacente (207 soggetti in

totale), si è voluta rivolgere ad una sola, contenuta, realtà territoriale, per

meglio specificare il fenomeno indagato in considerazione del contesto socio-

culturale di riferimento.

Ciò implica, di contro, il fatto che si tratti di risultanze parziali, probabilmente

non applicabili ad altri contesti o all’intero territorio nazionale.

Questo è difatti l’auspicio che ci si pone per il futuro: l’ampliamento del

campione anche ad altri contesti socio-culturali, nonché un ampliamento per

tipologia di utenza, ad esempio valutando la percezione del fenomeno del

cyberbullismo anche tra gli insegnanti, che vivono il contesto scolastico con gli

stessi alunni e quindi osservano le stesse dinamiche che qui sono oggetto di

indagine.

Quanto segue riporta i risultati generali relativi al campione complessivamente

considerato, con i relativi grafici e le percentuali di rilevanza per ognuno degli

item tematici.

domande) ai soli studenti delle scuole medie e superiori, e viceversa in forma

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Una prima parte del questionario si è rivolta a valutare, da un punto di vista

quantitativo e qualitativo, l’uso da parte dei giovani delle tecnologie

informatiche.

Per quanto riguarda il possesso dei più moderni strumenti tecnologici, ovvero

gli smartphone, si nota come la diffusione sia correlata all’età anagrafica,

seguendo un andamento crescente(Fig. 1 A/B/C/D): poco diffuso tra i

giovanissimi(ne dispongono solo17 studenti su 42 delle elementari), diviene di

uso comune per gli studenti delle medie (77 ragazzi su 82) ed ancor di più per i

ragazzi più grandi (ognuno degli 83 studenti del liceo ne possiede uno).

ridotta (12 domande) agli studenti della scuola elementare.

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20

14%

26%60%

SCUOLA ELEMENTARE

Possiedi un cellulare?

24%

70%

6%

SCUOLA MEDIA

Possiedi un cellulare?

Sì Sì, con connessione internet No

Figura 1 A/B/C/D – Possesso di smartphone nei tre subcampioni (elementari,

medie, liceo):

valori percentuali e valori assoluti

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Viceversa, il possesso nella propria abitazione di un computer connesso ad

internet è frequente in ognuno dei tre subcampioni considerati (Fig. 2A/B/C/D):

ne dispongono 38 ragazzi su 42 delle elementari, 72 ragazzi su 82delle medie e

81 ragazzi su 83 del liceo.

Per la quasi totalità degli studenti intervistati, quindi, tale strumento fa parte

della quotidianità, ed altresì l’accesso è facilmente fruibile, poiché i ragazzi

indicano come collocazione prevalente la propria camera da letto, oppure la

sala/stanza da pranzo.

91%

7%2%

SCUOLA ELEMENTARE

Hai almeno un computer connesso ad internet in casa

tua?

Sì No No. Se mi serve internet vado in altro luogo

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88%

7%

5%

SCUOLA MEDIA

Hai almeno un computer connesso ad internet in

casa tua?

Sì No No. Se mi serve internet vado in altro luogo

98%

1%1%

SCUOLA SUPERIORE

Hai almeno un computer connesso ad internet in casa

tua?

Sì No No. Se mi serve internet vado in altro luogo

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Figura 2 A/B/C/D – Possesso di computer connesso ad internet nei tre

subcampioni (elementari, medie, liceo):

valori percentuali e valori assoluti

La disponibilità del collegamento alla rete internet viene utilizzata, tra le altre,

per l’iscrizione ai social network, sebbene anche in questo caso in modo

direttamente proporzionale all’avanzare dell’età (Fig. 3 A/B/C/D): la

percentuale degli iscritti ai social network si inverte radicalmente con il

passaggio dalla quinta elementare (dove il 76% degli studenti non risulta

iscritto) alla scuola media (dove risulta invece iscritto ad un social network il

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72% degli studenti), fino a coinvolgere la quasi totalità degli studenti più grandi

(99% dei liceali).

Il social network più popolare risulta per tutti essere Facebook, seguito dai

social Instagram, Messanger, Youtube e Whatsapp.

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Figura 3 A/B/C/D – Iscrizione a social network nei tre subcampioni

(elementari, medie, liceo):

valori percentuali e valori assoluti

24%

76%

SCUOLA ELEMENTARE

Sei iscritto ad un social

network?

Sì No

72%

28%

SCUOLA MEDIA

Sei iscritto ad un social

network?

Sì No

99%

1%

SCUOLA SUPERIORE

Sei iscritto ad un social

network?

Sì No

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Fortunatamente, l’iscrizione ai social network e l’uso di internet in generale

sembra svolgersi in modo abbastanza responsabile e consapevole, sotto diversi

punti di vista:

- nella preventiva lettura delle “condizioni d’uso” e delle “regole sulle

privacy” (per il 52% degli studenti delle medie e del liceo – Fig. 4);

- nell’uso di password differenziate per i vari servizi utilizzati (per il 53%

degli studenti delle medie e del liceo – Fig. 5);

- nella scelta di non pubblicare proprie informazioni personali, ben

comprendendone i rischi (71% degli alunni delle medie e 51% dei liceali,

sebbene in quest’ultimo caso sia da segnalare la presenza di un 42% di

coloro che sceglie di pubblicarle proprio per una maggiore facilità ad

essere rintracciati) (Fig. 6 A/B)6;

- nell’attenzione mostrata al fatto di non pubblicare foto o commenti che

possano, anche involontariamente, offendere o danneggiare qualcuno(Fig.

7A/B/C/D).

6 Questi tre item non sono stati somministrati agli studenti delle elementari

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Figura 4 – Lettura delle condizioni d’uso e regole sulla privacy (% cumulata

per medie e liceo)

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Figura 5 – Cambio di password (% cumulata per medie e liceo)

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Figura 6 - A

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Figura 6 - B

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DOM -Ti chiedi mai, prima di postare un commento o una foto, se potresti,

anche involontariamente, offendere o danneggiare qualcuno? Cerchi di

metterti “nei panni” dell’altra persona?

88%

2% 0%10%

SCUOLA ELEMENTARE

Sì, infatti non pubblico mai cose che possono

danneggiare/offendere gli altri

Sì ma mi è capitato di farlo in circostanze particolari,

ad esempio “per vendetta”

No, se ho da fare un commento lo faccio, sono una

persona molto diretta

No, se trovo una foto “simpatica” la pubblico, senza

curarmi che possa offendere gli altri

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Figura 7 A/B/C/D – Valori percentuali per i tre subcampioni e valori assoluti

per il campione complessivo

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Passando adesso a descrivere i risultati ottenuti in merito all’ambito di

conoscenza del fenomeno del cyberbullismo, troviamo un primo dato relativo al

fatto che esso sia pressoché sconosciuto per i ragazzi delle elementari (86%) e

per la metà di quelli delle medie (49%), e viceversa largamente noto ai liceali

(83%) (Fig. 8 A/B/C/D).

Fortunatamente, sempre in esigua percentuale tale conoscenza del fenomeno è

stata in forma diretta, ovvero vissuta in prima persona (5% dei ragazzi delle

medie e 2% dei liceali), o per prossimità, ovvero subita da alcuni amici (5% per

i ragazzi delle elementari, 6% per i ragazzi delle medie, 10% per i liceali).

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Figura 8 A/B/C/D – Valori percentuali per i tre subcampioni e valori assoluti

per il campione complessivo

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Per il nostro campione, la vittima bersaglio viene indicata di sesso maschile per

i ragazzi delle elementari (52%), mentre è di sesso femminile per i ragazzi delle

medie e per i liceali (76% e 72%).

Con riferimento alle motivazioni per cui il genere influisce sull’essere vittima

di cyberbullismo, il campione ha indicato:

- nel caso di vittima di sesso maschile: il fatto che solitamente i maschi

litigano o si insultano tra loro; prendono in giro i più deboli o i timidi che

non riescono ad inserirsi nel gruppo, oppure i più “secchioni”, gli

“omosessuali” o i grassi; il fatto che i maschi sono più tecnologici in

quanto usano più spesso il computer, il cellulare e le chat;

- nel caso di vittima di sesso femminile: il fatto che la femmina è più debole,

sensibile ed indifesa, oltre che meno brava in informatica; perché le

femmine pubblicano molte più foto di sé sui social network (selfie), e sono

quindi più esposte; o ancora per invidia e rivalità femminile.

A coloro che avevano dichiarato di aver subito episodi di cyberbullismo (80

studenti sui 207 totali), è stato poi chiesto di indicare la modalità di

vittimizzazione subita.

In generale, si è trattato per lo più di scherzi telefonici o “telefonate mute”

(58%), ed in misura minoritaria di veri e propri insulti in servizi di

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40

messaggistica istantanea (26%), sms/mail dal contenuto persecutorio o

denigrante (9%) o ricezione di foto/video offensivi (7%) (Fig. 9).

Figura 9 – Esperienze di vittimizzazione (% su campione complessivo)

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41

Al contempo, è stato chiesto al campione di indicare un eventuale proprio

coinvolgimento, e quindi di che natura, ad episodi di cyberbullismo7.

Confortante il dato che il campione complessivamente considerato in modo

nettamente prevalente abbia negato il fatto di aver partecipato o attuato episodi

di cyberbullismo, nella consapevolezza di quanto essi arrechino sofferenza

(46%) o offesa (45%) alla vittima.

Tuttavia, non è da trascurare quella percentuale del 9% del campione che ha

attuato/partecipato ad episodi di cyberbullismo, considerandoli come “un

gioco” (Fig. 10).

Figura 10 – Partecipazione ad episodi di cyberbullismo (% su campione

complessivo)

7 Item non somministrato agli studenti delle elementari

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Interrogato il campione sui comportamenti eventualmente messi in atto8,

troviamo lo stesso tipo di distribuzione che avevamo già riscontrato nel caso

degli esempi di vittimizzazione:

- scherzi o telefonate mute (59%);

- insulti in servizi di messaggi istantanei condivisi (21%);

- minacce via sms o email con commenti negativi (12%);

- invio di foto/video offensivi (8%).

Il campione è stato altresì intervistato sulla figura del cyberbullo.

Per la maggioranza degli intervistati, si tratta di un soggetto di sesso maschile

(Fig. 11), che mette in atto i propri comportamenti vessatori in realtà per

“fingersi forte”, in quanto affetto da una propria sofferenza interiore (41%).

In secondo ordine, i comportamenti persecutori vengono adottati per una

variabilità di motivazioni espresse così come segue:

- per invidia (15%);

- per divertimento (14%);

- per vendetta (12%);

- perché “cattivo” (9%) e per “ferire i sentimenti di qualcuno” (6%);

- per “dimostrare la sua bravura nell’uso di pc/telefono cellulare” (2%) e per

“noia” (1%) – (Fig. 12).

8 Item non somministrato agli studenti delle elementari

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43

Relativamente a quel 20% del campione complessivo secondo cui il cyberbullo

è di sesso femminile, quali motivazioni si consideravano l’invidia, la

competizione e la rivalità generalmente attribuita alle femmine.

Figura 11 – Genere sessuale del cyberbullo (risultato su campione

complessivo)

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44

Figura 12 – Motivazioni per il cyberbullo (% sul campione complessivo)

Tuttavia, per il nostro campione il cyberbullismo non andrebbe unicamente

relegato al mondo virtuale, bensì forse essere un’estensione di fenomeni di

aggressività, persecuzione e denigrazione che già si verificano nella vita reale,

dato che, per la maggioranza dei soggetti intervistati (76%), il cyberbullo

potrebbe conoscere le sue vittime anche “dal vivo” (Fig. 13 A/B).

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Pensi che un cyberbullo conosca di persona le sue vittime?

(risultatigenerali)

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Figura 13A/B – Il cyberbullo conosce di persona le sue vittime? (risultati

complessivi, in valori assoluti e percentuali)

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Ancora, similmente alle ricerche su piano nazionale condotte da Ipsos/Save The

Children e Società Italiana di Pediatria citate in testa, anche il nostro campione

è stato invitato ad indicare, in base alla scelta in ordine di preferenza tra alcune

opzioni, a quale figura richiedeva aiuto allorquando subiva vittimizzazioni di

cyberbullismo (Fig. 14A/B/C).

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Figura 14 A/B/C – Ordine di preferenza indicata dai tre sottocampioni per la

figura cui chiedere aiuto

In sostanza, considerando il campione nel suo complesso, fa piacere

sottolineare come al primo posto si collochi la figura genitoriale (48%): al

cospetto di tanto parlare, al giorno d’oggi, di crisi della famiglia, questo dato

dimostra come i ragazzi vedano nei propri genitori un elemento cardine, un

forte punto d’appoggio per il proprio sviluppo e per superare le proprie

difficoltà.

Al secondo posto troviamo il gruppo dei pari: “un amico” (27%) viene indicato

quale ulteriore importante sostegno per sfogarsi e chiedere consigli o aiuto,

oltre che per condividere divertimento e svago.

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49

Al terzo posto troviamo poi le Forze dell’Ordine (25%): i nostri giovani

mostrano di nutrire fiducia verso gli uomini in divisa, considerandoli figure

autorevoli ed in grado di fornire un aiuto concreto. Le Forze dell’Ordine

costituiscono quindi uno dei pilastri cui affidare la propria sicurezza personale.

Altresì, è stato chiesto di indicare “la strategia” ritenuta più efficace ad

affrontare il fenomeno (Fig. 15).

In percentuale prevalente (36%), i ragazzi indicano come strategia quella di

“bloccare” il bullo impedendo ulteriori accessi telematici. A seguire, viene

indicato come comportamento opportuno quello di dirlo ai parenti/amici (27%)

e/o di denunciare il fatto alla Polizia (19%).

Il sostanza, al cospetto di un primario tentativo di risolvere il problema

adottando un comportamento determinato ed ostativo, come già sopra

evidenziato rimane comunque presente la possibilità di rivolgersi agli adulti per

ricevere aiuto e sostegno.

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Figura 15 –Le strategie più efficaci per risolvere il problema (risultati

complessivi)

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51

Più specificatamente, è stato chiesto al campione di indicare l’eventuale utilità

di campagne di informazione sul fenomeno da svolgersi in ambito scolastico9

(Fig. 16): a tal riguardo, piace segnalare come i ragazzi intervistati si rendano

conto dell’importanza di una tale campagna informativa, poiché il fenomeno è

detto molto diffuso in ambito scolastico dal (43%), e tuttavia ancora poco

conosciuto (36%).

Figura 16 – Utilità delle campagne informative (risultato generale)

9Item non somministrato agli studenti delle elementari

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Sempre in termini di strategie e risorse utili a contrastare il fenomeno, la

maggior parte degli studenti intervistati ha riconosciuto l’utilità di associazioni

che offrono colloqui, informazioni o sostegno sul cyberbullismo, e soprattutto

laddove le stesse sono state create da ex-vittime di cyberbullismo (60%), così

che la vittima possa sentirsi meno “sola” al cospetto di tali forme di aggressione

(Fig. 17).

Figura 17 – Utilità delle associazioni a sostegno delle vittime di cyberbullismo

(risultati generali)

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Oltre ai centri anti-cyberbullismo, altre risorse importanti vengono indicate nei

siti web e/o blog specializzati (24%), e nell’istituzione di una linea telefonica

dedicata al fenomeno (11%) (Fig. 18).

Figura 18 – Altri strumenti per aiutare le vittime di cyberbullismo (risultati

generali)

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CONCLUSIONI

L’indagine qui presentata ha voluto approfondire in generale l’uso da parte dei

giovani delle moderne tecnologie digitali e, nello specifico, la conoscenza e gli

eventuali vissuti del fenomeno del cyberbullismo.

Dalla ricerca sperimentale è emerso che la diffusione degli strumenti

tecnologici è frequente e quotidiana tra i giovani. Il campione

complessivamente considerato, infatti, può fruire del computer con estrema

facilità, essendo lo stesso collocato in una o più stanze della propria abitazione,

così come la connessione ad internet attraverso l’uso degli smartphone è

frequente tra ragazzi più grandi, mentre i giovanissimi, ancora sotto il controllo

dei genitori, pur possedendo un cellulare, ne sono privi.

L’indagine effettuata evidenzia altresì che la partecipazione dei ragazzi alle

attività del mondo dei social è effettiva, infatti, per la quasi totalità, risulta

l’iscrizione ad uno o più social network; gli stessi smarphone, più che per

telefonare, vengono utilizzati per chattare o collegarsi ad Internet.

Tuttavia, fortunatamente, dalla ricerca emerge un uso abbastanza responsabile

degli strumenti tecnologici da parte dei ragazzi: la maggioranza degli

intervistati, infatti, dichiara di leggere le condizioni d’uso e le regole sulla

privacy, di cambiare spesso la password usata nei vari servizi internet e di non

pubblicare le proprie informazioni personali o quelle di altre persone, così

come di prestare attenzione a non pubblicare foto o commenti negativi che

possono danneggiare o offendere gli altri compagni.

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Per quanto concerne il cyberbullismo, si evidenzia che il fenomeno sia ancora

poco conosciuto nelle classi dei giovanissimi (elementari), ma già più noto a

partire dalle scuole medie.

Per coloro che conoscono il fenomeno, il bullo ha una specifica identità: è di

sesso maschile, e tra i motivi che sono alla base del suo comportamento

persecutorio emerge una particolare vulnerabilità individuale che non ne fanno

“un cattivo” bensì a sua volta un ragazzo bisognoso di aiuto, laddove la

sofferenza interiore diviene camuffata espressione di comportamenti aggressivi

e vessatori verso gli altri, per fingersi forte.

Facendo riferimento alle vittimizzazioni subite, il nostro campione riferisce

dinamiche tutto sommato di lieve entità, quali ad esempio scherzi o telefonate

mute: comportamenti non particolarmente gravi e perlopiù appartenenti alla

sfera ludica.

Viepiù, è stata evidenziata una continuità dei comportamenti vessatori tra la

vita reale e quella virtuale: infatti gli intervistati dichiarano che solitamente

l’aggressore conosce già la sua vittima nella vita reale, e che i comportamenti

persecutori continuano poi anche online.

Per quanto riguarda le figure di aiuto, quale più valido punto di appoggio nei

momenti di difficoltà sono collocati al primo posto i genitori, seguiti poi dal

gruppo amicale dei pari, con i quali, oltre a condividere lo svago, ci si può

sfogare raccontando le proprie difficoltà, ed infine le Forze dell’Ordine,

altrettanto ben in grado di fornire un aiuto concreto.

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Con riferimento alle strategie per combattere il cyberbullismo, i ragazzi

segnalano in prima battuta l’opzione di bloccare il cyberbullo, ovvero di

adottare strategie al fine di interrompere le sue connessioni al mondo virtuale,

cui deve far seguito la denuncia a parenti, amici e Forze dell’Ordine.

Altrettanto importanti vengono considerate le campagne informative promosse

al fine di far conoscere il fenomeno, nonché la presenza sul territorio di

associazioni di tutela alle vittime (soprattutto se create da ex vittime), centri

anti-cyberbullismo, siti web e blog specializzati e di una linea telefonica

dedicata.

Concludendo, la ricerca sottolinea l’importanza di adeguata informazione sul

fenomeno, ancora poco conosciuto soprattutto tra i giovanissimi, sui suoi rischi

al positivo sviluppo psicofisico in età evolutiva, ed in generale sui pericoli del

web.

Come dato particolarmente positivo emerge la consapevolezza in merito

all’importanza di condividere con gli altri le eventuali problematiche connesse

al mondo del web, così da non chiudersi in sé stessi, rendendosi ancor più

vulnerabili alle vittimizzazioni subite.

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Volume 20 N° 3 - 2015

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Volume 20 N° 3 - 2015

59

Franco Burla10

, Mara Lastretti 11

, Loredana Teresa Pedata12

, Maria Elena Cinti13

L'IMPULSIVITÀ NEI PAZIENTI BORDERLINE

RIASSUNTO

Secondo Bateman & Fonagy (2004) un problema fondamentale ascrivibile ai

pazienti borderline riguarda l’incapacità a mentalizzare, ovvero pensare ai

propri stati mentali come condizioni distinte e potenziali determinanti del

comportamento, unitamente alla difficoltà di riconoscimento delle proprie

reazioni e di quelle degli altri. Ciò potrebbe trovare origine in episodi di

trascuratezza infantile, non necessariamente di natura fisica.

Alla luce dei numerosi comportamenti impulsivi che rientrano nella

sintomatologia di tale disturbo, si è pensato di verificare la presenza di

differenze nell’esibizione dell’impulsività e dei disturbi del comportamento nel

10

Psichiatra, Ricercatore al Dipartimento di Neurologia e Psichiatria,

“Sapienza” Università di Roma –

[email protected] 11

Psicologo, PhD in Neuroscienze, Docente Master in “Psicodiagnostica per la

valutazione clinica e medico-legale con elementi di base giuridici e forensi”,

“Sapienza” Università di Roma. 12

Psicologo, PhD in Psicologia delle emozioni e della creatività, Docente di

Psicologia Sociale Università degli Studi di Roma Tor Vergata. 13

Psicologo, Assegnista di Ricerca e Docente Master in “Psicodiagnostica per

la valutazione clinica e medico-legale con elementi di base giuridici e forensi”,

“Sapienza” Università di Roma.

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campione clinico rispetto a non pazienti, utilizzando il test di Rorschach

(siglato secondo il Sistema Comprensivo di Exner) e l’MMPI-2.

I risultati rivelano che, al test di Rorschach, i pazienti con DBP sono

effettivamente più impulsivi, meno capaci di controllare la propria reattività ed

esibiscono limitate capacità di progettualizzazione e modulazione della risposta

emotiva rispetto al gruppo di controllo.

Il test di Rorschach appare in grado di evidenziare la disregolazione emotiva

dei pazienti come deficit meta-rappresentativo discriminante l’impulsività e

l’esibizione di comportamenti aggressivi.

Parole chiave:

Borderline, Impulsività, Aggressività, Rorschach, Exner.

ABSTRACT

According to Bateman & Fonagy (2004), a fundamental problem concerns

borderline patients is the inability to mentalizing, that is “the ability to have a

thought about mental states as distinct conditions though potential

determinants of behavior”, and also the difficulty to recognize their own

reactions and those of others. This may be rooted in incident of child neglect,

not necessarily physical.

By the numerous impulsive behaviors of symptoms of such disorder, it is

thought to verify which differences in impulsivity and behavioral problems

may emerge by comparing these subjects with a group of non-patients. The

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experimental design has therefore provided for the administration of the

Rorschach Test and the MMPI-2 to the experimental group (borderline

patients) and the control group (non-patients).

The results reveal that on Rorschach test, patients with BPD effectively results

more impulsive than normal subjects and less capable in terms of personality to

carry out a check on their own reactivity, and also that they have fewer ability

into design skills and into regulation of emotional response compared to the

control group.

Keywords:

Borderline, Impulsiveness, Aggressiveness, Rorschach Test, Exner.

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Introduzione

In passato, con i termini personalità “psicopatiche” o “sociopatiche”

s’intendevano indicare quelle personalità caratterizzate da difficoltà di

adattamento all’ambiente, instabilità relazionali, affettive e comportamentali e

facilità di passaggio all’atto che poteva, anche, concretizzarsi nella

commissione di reati quali truffe, furti, omicidi ed altri crimini efferati.

Diversi sono stati i filoni di studio che, nel tempo, hanno valorizzato aspetti

affettivo-comportamentali (Watson, 1924), aspetti soggettivi (Allport, 1937),

ma anche cognitivi e costituzionali fino al modello bio-psico-sociale del

comportamento proposto da Cloninger (1993).

Il termine “psicopatico” è caduto in disuso nei decenni seguenti fino ad essere

completamente eliminato e sostituito nelle versioni del Manuale Diagnostico e

Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) con quello di “disturbi della personalità”,

facendo rientrare in tale categoria una serie di sintomi quali irrigidimento dello

schema comportamentale, disadattamento e pervasiva sofferenza soggettiva.

I soggetti che presentano un Disturbo Antisociale di Personalità esibiscono un

comportamento caratterizzato da frequenti agiti aggressivi, ribellione verso le

norme sociali e l’autorità, insensibilità ai sentimenti altrui e intolleranza alle

frustrazioni, a cui rispondono con violenza; sono temerari e negligenti per

quanto riguarda la propria sicurezza e quella degli altri e raramente sono in

grado di mantenere delle relazioni stabili nel tempo.

Un tratto assolutamente peculiare della Personalità Antisociale è l’assenza del

senso di colpa.

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Tra i vari disturbi di personalità, quelli che presentano una maggiore

correlazione con i comportamenti aggressivi e violenti sono quello Antisociale,

che con alta frequenza è associato a condotte etero-aggressive, Borderline, per

le caratteristiche di instabilità e di facilità al passaggio all’atto (Bani e coll.,

1997) e la sindrome di “narcisismo maligno” (Kernberg, 1992), contraddistinta

da un senso di onnipotenza e invincibilità, dalla sensazione di impunità, assenza

di empatia e senso morale, prevalenza di un vissuto in cui “tutto è fattibile” pur

di soddisfare le proprie pulsioni.

Kernberg (1987) parla di pazienti borderline con struttura prevalentemente

narcisistica di personalità per riferirsi a coloro che mostrano una generale

incapacità di controllare gli impulsi e di sopportare l’angoscia, assenza di canali

di sublimazione, evidenti difficoltà relazionali, frequenti attacchi di collera e

tendenze aggressive, sintomatologia inserita in un quadro connotato dal “Sé

grandioso patologico”.

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1. Disturbi di personalità e comportamento deviante

Il Disturbo Borderline di Personalità si sviluppa spesso sul versante

psicofisiologico, caratterizzandosi per una disregolazione impulsiva, instabilità

affettiva con tratti marcati di oscillazioni dell’umore (forte reattività), mancato

controllo della rabbia con tendenza all’acting out e una importante difficoltà

nelle relazioni interpersonali (DSM IV, 1994).

I disturbi di personalità e i loro codici presenti nel DSM V sono rimasti gli

stessi di quelli presenti nel DSM-IV.

Risultati recenti (Anderson et al. 1999, Raine et al. 2000) hanno indotto alcuni

studiosi a riconsiderare i caratteri organici come causa o concausa di

comportamenti antisociali e, in casi estremi, violenti. L’attenzione si è

concentrata fortemente sulla corteccia frontale, nota per il ruolo fondamentale

nell’acquisizione delle capacità sociali e nel controllo delle emozioni e delle

azioni, ipotizzandone una sua compromissione.

Dallo studio condotto da Raine (2000), Università della California, utilizzando

la PET su soggetti detenuti vs soggetti normali, è emerso che nei primi la

corteccia frontale lascerebbe passare, senza filtrare, gli impulsi aggressivi

provenienti dal sistema limbico, regione preposta alla regolazione delle pulsioni

e delle emozioni. Successivamente, l’Autore ha esaminato altri soggetti che

presentavano sintomi di irresponsabilità, impulsività e piattezza emotiva,

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evidenziando una riduzione dell’11 % del lobo frontale in questi soggetti

rispetto al controllo.

Un’altra peculiarità è stata osservata a livello genetico (Caspi et.al 2002),

considerando l’implicazione del gene MAO-A nell’aumento dell’aggressività

incontrollata.

È fondamentale però che l’espressione genica, affinché si verifichino

comportamenti abnormi, sia condizionata da una serie di fattori esterni quali

una particolare situazione familiare e sociale caratterizzata da forte emotività,

comportamenti violenti e abusi.

Le personalità antisociali presentano spesso un comportamento che si

caratterizza per frequenti atti di aggressività e intolleranza nei confronti delle

norme sociali prevalenti, mostrano una scarsa capacità a mantenere delle

relazioni stabili e sintoniche, spesso sono insensibili ai sentimenti degli altri,

intolleranti alle frustrazioni, alle quali reagiscono con violenza, mostrano

raramente sentimenti di colpa, mentre tendono ad accusare gli altri anche dei

propri errori.

Il DSM-V ha apportato alcune modifiche importanti nella valutazione dei

disturbi di personalità, favorendo un sistema di classificazione dimensionale e

non categoriale basato sulla valutazione della gravità dei tratti di personalità nei

seguenti domini: emotività negativa, introversione, antagonismo, disinibizione,

compulsività e schizotipia.

Nello specifico, in base alla sintomatologia esibita, i pazienti con personalità

disturbata possono essere collocati su cinque categorie diagnostiche:

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antisociale/psicopatico, evitante, borderline, ossessivo-compulsivo e

schizotipico.

Spesso descrivendo queste personalità si sottolinea il ruolo dell’impulsività: si

tratta di una predisposizione ad agire rapidamente senza pianificare la propria

condotta e soprattutto senza effettuare un’adeguata valutazione delle sue

conseguenze (Moeller et al., 2001; Manna et al., 2005). Sono state delineate

diverse forme di impulsività : “motoria”, caratterizzata dall’agire nell’impeto

del momento, concetto molto simile a quello illustrato da Eysenk (1977) come

“impulsività in senso stretto”; quella “non pianificata”, definita come la

tendenza a scegliere un vantaggio immediato, anche se esiguo, anziché una

ricompensa maggiore ma procrastinata; “cognitiva” o “attenzionale”,

caratterizzata da una propensione alle decisioni repentine e da un rapido

processamento delle informazioni di contesto (Swann et al., 2002).

L’impulsività si esprime con una serie di comportamenti su cui il soggetto non

riflette sufficientemente, messi in atto in modo troppo rapido, rischioso o non

adeguato alla situazione, causando spesso conseguenze indesiderate

(Winstanley et al., 2006). In questo caso, l’intervento delle istanze emotive e

cognitive è limitato esclusivamente alla modulazione del soddisfacimento di

tale comportamento istintivo.

I soggetti con Disturbo Borderline di Personalità adottano comportamenti

impulsivi (spese eccessive, relazioni sessuali promiscue, abuso di sostanze,

guida spericolata, abbuffate) per alleviare stati emozionali intollerabili oppure

manifestare sentimenti di rabbia e intensa frustrazione. Sebbene tali condotte

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siano messe in atto con l’obiettivo di ottenere una gratificazione immediata e

non di arrecare danno a sé o agli altri, gli esiti a lungo termine risultano

comunque negativi per il soggetto o per coloro che lo circondano (Arntz et al.,

2003).

D’altra parte nel DBP trovano spazio anche sintomi che esprimono

aggressività , intesa come eccessi di rabbia che esitano in comportamenti

violenti e distruttivi.

2. La valutazione in ambito giudiziario alla luce della recente

giurisprudenza

L'esame della personalità in ambito giudiziario rappresenta tuttora motivo di

discussione e di dibattito, in quanto, come è noto, di fatto è ancora vietata la

perizia psicologica (art. 220 c.p.p.), pur riscontrando, in diversi casi, valutazioni

al limite con quella di tipo psicologico, soprattutto negli accertamenti sulla

capacità di intendere e di volere, ovvero sulla imputabilità, in relazione

all'eventuale presenza di infermità mentale (artt. 85, 88, 89 c.p.). Di fatto nel

tempo diverse cose sono cambiate e stanno evolvendo in seguito a diverse

sentenze di cui parleremo più avanti.

Un’eccezione a quanto detto sopra è costituita dall’ambito minorile in cui la

valutazione della personalità è richiesta dall’autorità giudiziaria in ambito

penale per valutare, ad esempio, l'imputabilità e il grado di responsabilità (art.

98 c.p.), oppure nei casi di minori vittime di abusi sessuali o maltrattamenti.

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I concetti di “responsabilità” e “imputabilità” sono in realtà distinti, ma non

devono essere considerati del tutto indipendenti poiché l’imputabilità

presuppone la responsabilità, definita come la “capacità che ha un uomo di

rispondere di un’azione” (De Leo, 1996). Quest’ultima rimanda ad una serie di

processi per cui i soggetti tendono a strutturare nessi di intenzionalità, di

consapevolezza, di casualità e di attribuzione a sé, rispetto all’azione.

La responsabilità può essere considerata come una funzione e una competenza

dell’Io e delle sue capacità e potenzialità di autonomia rispetto alle pressioni, ai

conflitti interni ed esterni all’individuo, non potendo essere valutata solo in

termini intrapsichici, ma con riferimento specifico alle azioni concrete e

contestualizzate messe in atto dall’individuo.

La responsabilità personale coincide con la consapevolezza dell’autore per il

fatto commesso, nel senso che l’agente risponde sempre dell’azione in base alle

caratteristiche peculiari la sua personalità, manifestate nell’atto criminoso.

L’imputabilità è il presupposto della responsabilità penale. Negli attuali

orientamenti psichiatrico-forensi, la malattia mentale viene considerata come

possibile causa di diminuzione della responsabilità.

Il giudizio in tema di capacità di intendere e di volere non è un giudizio

esclusivamente tecnico, basato sulla mera diagnosi psichiatrica, bensì una

valutazione attinente alla responsabilità.

E’ necessario, dunque, considerare complessi aspetti di interazione con il

contesto culturale che comprende non solo il soggetto, ma anche il suo

ambiente.

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Le recenti sentenze hanno evidenziato il ruolo dei disturbi di personalità in

termini di incidenza sulla responsabilità e dunque sull’imputabilità.

La sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, dell’8 marzo 2005, n.

9163, recita: “Anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e

psicopatie, possono costituire causa idonea a escludere o scemare

grandemente, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere

di un soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di

consistenza, rilevanza, gravità e intensità tali da concretamente incidere sulla

stessa; per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre

“anomalie caratteriali” e gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i

suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del

soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di

reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo

causalmente determinato dal primo”.

Dunque il disturbo di personalità avrebbe una rilevanza specifica sulla

valutazione dell’ infermità nel caso in cui esso possa influire in maniera

significativa sulla funzionalità dei processi intellettivi e volitivi del soggetto.

Sempre la stessa sentenza afferma: “Ai disturbi della personalità può essere

attribuita un’attitudine a proporsi come causa idonea ad escludere o a scemare

grandemente la capacità di intendere e di volere del soggetto agente; principio

che si pone in perfetta consonanza col disposto dell’articolo 85 Codice Penale

e con l’orientamento costituzionale”.

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Il quadro psichico patologico dovrà in tali casi essere posto a raffronto con la

condotta posta in essere dal soggetto antecedentemente, durante e

successivamente alla commissione del reato.

L’orientamento della Cassazione a Sezioni Unite ha trovato sostegno anche

nell’asserto n. 8282 del 2006 in cui i giudici di legittimità affermano che il

disturbo antisociale della personalità può essere incluso e avere un peso in tema

di infermità, incidendo sulla valutazione della capacità di intendere e di volere.

Nei casi connotati da maggiore gravità, la qualità della malattia o il significato

dell’infermità nel reato devono riferirsi ad una serie di “indicatori”, connessi tra

loro e propri del disturbo psicotico transitorio.

Più recentemente, nell’aprile 2013, la Corte di Cassazione, III sez. penale, con

la sentenza n. 17608, ha ribadito il ruolo dei disturbi di personalità all’interno

della valutazione di infermità.

In entrambi i casi - nell'età adulta e nell'età evolutiva - ormai può ritenersi

acquisita l'integrazione di più metodologie dell'esame psichico, tra le quali

quella classica della psichiatria clinica con colloqui che consentono di giungere

a deduzioni ottenute con elementi intuitivo-comprensivi, e quella cosiddetta

sperimentale della psicologia clinica attraverso l’utilizzo dei test psicologici che

consentono di raggiungere risultati obiettivi ed oggettivi attraverso la

standardizzazione e la taratura dei stessi strumenti, ed i cui dati possono essere

utilizzati, valutati e criticati anche da altri esperti.

La specificità del contesto richiede alcune riflessioni aggiuntive.

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Ugo Fornari, nella sua “Presentazione” al testo “Psichiatria Forense Applicata”

(2010: XI), evidenzia la persistenza di molti aspetti problematici proprio legati

alla valutazione e cioè:

l’assente o incompleta o arbitraria fruizione dell’indagine

psicodiagnostica;

l’adesione di molti periti ancora al modello medico-psichiatrico e

l’ignoranza di quello psicopatologico-normativo;

l’applicazione del solo approccio categoriale e descrittivo a tutto

discapito di quello funzionale e dimensionale;

la difficoltà di conferire all’elaborato peritale carattere di prova per

scarsità o assenza nella ricerca di quelle evidenze cliniche e valutative

che sono il frutto dell’applicazione delle conoscenze teoriche;

la tendenza, per contro, a conferire valore di prova scientifica a batterie

di questionari autosomministrati, a interviste strutturate o

semistrutturate, ai test di valutazione neuropsicologica, alle nuove,

sofisticate tecniche di neuroimmagine, isolando ed enfatizzando il dato

singolo rispetto a un processo diagnostico integrato;

l’utilizzazione di criteri molto discutibili e poco scientifici nel

rispondere al quesito relativo alla pericolosità sociale;

l’esiguità di quesiti da parte dei giudici e di proposte da parte dei periti

circa l’eventuale adozione di misure terapeutiche già durante la fase

della cognizione.

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A proposito di indagine diagnostica di seguito approfondiremo alcuni elementi

della valutazione effettuata tramite l’ausilio di test.

L’uso dei test in ambito giudiziario è tuttora dibattuto, soprattutto nel caso dei

test proiettivi.

Le caratteristiche più significative delle tecniche proiettive riteniamo possano

essere riassunte nei seguenti punti:

l’obiettivo è quello di analizzare nell'insieme la personalità del

soggetto o anche valutare alcuni aspetti particolari ma sempre inseriti

in un contesto globale. Per questa ragione, non è prevedibile né

possibile una descrizione della personalità considerando i tratti

indipendenti tra loro, bensì adottando una visione olistica della

personalità stessa;

gli stimoli evocati dai test consentono un gran numero di risposte

diverse. Secondo le concezioni della psicologia dinamica ogni individuo

è unico e risponderà perciò in modo diverso da ogni altro soggetto, in

quanto si esprimerà nel suo insieme e modo d'essere nella risposta.

Ciò è la caratteristica essenziale delle prove proiettive;

esplorano soprattutto gli aspetti affettivi e volitivi ma, essendo fondati

concettualmente su una considerazione complessiva della personalità,

forniscono indici e dati relativi anche all'aspetto cognitivo, parte

integrante della personalità.

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3. Obiettivi della ricerca

Numerosi modelli teorici si sono occupati delle dinamiche relative al DBP,

ponendo particolare attenzione sulla funzione meta-rappresentativa, cioè la

capacità di riflettere sui propri e altrui stati mentali (Di Maggio & Semerari,

2003) e sulla mentalizzazione, cioè la capacità di formulare un pensiero sugli

stati mentali come condizioni distinte e potenziali determinanti del

comportamento (Bateman & Fonagy, 2004).

Nel caso in cui tali funzioni risultino deficitarie aumenta la probabilità che

possa concretizzarsi un comportamento auto o eteroaggressivo.

Secondo il “modello meta rappresentativo-interpersonale” elaborato dal III

Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma, il DBP mantiene un’identità

nosografica fondata su tre assi: disturbo dell’identità e delle relazioni,

discontrollo degli impulsi e disregolazione affettiva (Carcione & Falcone,

1999; Semerari et al, 2002).

Bateman & Fonagy (2004) sostengono che un problema fondamentale che

caratterizza i pazienti borderline sia l’incapacità a mentalizzare, in quanto essi

esibiscono una limitata capacità di rappresentazione degli stati mentali e di

riconoscimento delle proprie e altrui reazioni.

Alla luce della pervasività dei comportamenti impulsivi che caratterizzano il

paziente con DBP, la ricerca in esame si è posta l’obiettivo di:

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1. verificare se il tratto “impulsività” sia maggiormente rappresentato al test

di Rorschach nei borderline rispetto a soggetti non patologici (gruppo di

controllo);

2. valutare se i pazienti borderline che manifestano maggiori disturbi

comportamentali di tipo psicopatico presentano differenze da quelli che

non presentano tali disturbi rispetto al tratto di impulsività;

3. migliorare la nostra conoscenza riguardante il rapporto tra l’impulsività

come tratto di personalità e lo sviluppo effettivo di comportamenti

psicopatici.

4. Metodologia e Strumenti

A tale scopo sono stati selezionati dei pazienti visitati presso l’ambulatorio

della UOC di Psicologia Clinica del Dipartimento di Neurologia e Psichiatria

dell’Università “Sapienza” di Roma. I soggetti sono stati selezionati sulla base

del colloquio clinico e limitatamente alla diagnosi di DBP. A tutti i pazienti è

stata somministrata la D.I.B. (Intervista Diagnostica per pazienti Borderline),

considerata in letteratura quale valido strumento di screening (Gunderson et al.,

1981).

Sono stati inseriti nello studio 50 soggetti che hanno ottenuto un punteggio alla

DIB maggiore o uguale a 7; questi pazienti inoltre soddisfacevano almeno 5

criteri su 9 per il DBP per il DSM IV-TR (2000) rilevati dall’anamnesi.

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Il gruppo di controllo si è costituito con 50 soggetti impiegati negli uffici

dell’amministrazione della Polizia di Stato, ai quali ugualmente è stata

somministrata la DIB dal proprio servizio di Psicologia Applicata.

In definitiva, la descrittiva anagrafica dei due campioni è la seguente:

- gruppo clinico composto da 25 maschi e 25 femmine, con età media di

33,68 aa (DS=10,78) e livello medio di scolarità di 11,16 aa (DS=3,67);

- gruppo di controllo costituito da 25 maschi e 25 femmine con un’età

media di 32,53 aa (DS=9,90) e una scolarità media di 12,13 aa (DS=3,99).

Ad entrambi i campioni è stato somministrato il test di Rorschach, poi siglato

secondo il Sistema Comprensivo di Exner (2003).

Al gruppo clinico è stato altresì somministrato l’MMPI-2 (Hathaway,

McKinley, 1995), al fine di suddividere in due sottogruppi secondo la scala Pd

(Deviate Psychopatic) che, come noto, è specificatamente associata alla

presenza di disturbi comportamentali di tipo antisociale. Difatti, soggetti che

ottengono un punteggio alla subscala Pd ≥ 75 presentano scarse capacità di

valutazione, appaiono instabili, irresponsabili, egocentrici e immaturi; mettono

inoltre in atto condotte antisociali e sono aggressivi e/o violenti.

Dividendo i soggetti con DBP sulla base dei valori ottenuti alla subscala Pd,

sono stati ottenuti 2 sottogruppi composti da 30 soggetti con un punteggio < 75

e 20 soggetti con punteggio ≥75.

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Delle diverse variabili Rorschach che, secondo la siglatura Exner, sono dalla

letteratura suggerite come maggiormente correlate all’impulsività, sono state

selezionate quelle più rappresentative.

Da un punto di vista quantitativo, si tratta delle seguenti:

D score che fornisce informazioni sul rapporto fra EA e ES e si riferisce alla

tolleranza allo stress e agli elementi di controllo;

D score Adjusted che permette di individuare se l’indice D è stato

influenzato da elementi situazionali;

X+% che dà informazioni sull’efficienza percettiva e le capacità di

modulare e controllare le esperienze affettive;

Xu% che indica uno stile di risposta poco convenzionale;

EA che indica le risorse di personalità disponibili e i comportamenti

psicologici deliberatamente intrapresi;

M% indice associato a buone capacità di mentalizzazione e permette un

alto livello di integrazione emozionale;

C+T+C’ la cui presenza è associata a scarse capacità di dare indirizzo

all’esperienza affettiva;

Afr indice di interesse verso la risposta alla stimolazione emotiva;

Lambda (L) il cui valore cresce in soggetti impulsivi e/o con

comportamenti antisociali;

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FC% che ci dà informazioni relative ad un’affettività socialmente

accettabile e ben adattata;

CF% che indica invece un’emotività scarsamente controllata e non ben

adattata, nonché labilità affettiva, instabilità, incostanza dei sentimenti e

suggestionabilità;

C% correlata a comportamenti emotivi essenzialmente privi di controllo.

Da un punto di vista qualitativo, abbiamo invece:

FC<CF+C (E1) in cui se dominano le Cf+C in un contesto di inadeguato

controllo emozionale, sono espressione di impulsività e inadeguata

responsività;

X+%<.70 e FQu≠0 e P≤4 e L>1 (E2): che ci indica la presenza di elementi di

scarsa modulazione accompagnati da pensiero poco convenzionale;

X+%<.70 e C+T+C’≠0 (E3) che indica l’incapacità o la non disponibilità

ad inserire alcuni aspetti di controllo e di indirizzo all’esperienza affettiva;

X+% <.70 e D<0 (E4) indica uno scarso controllo in un soggetto

sopraffatto dagli affetti;

X+%<.70 e D≥0 e C+T+C’≠0 (E5) che rappresentano l’inclinazione a dar

via libera ai sentimenti piuttosto che esercitare un controllo.

Per verificare le ipotesi sperimentali si è proceduto confrontando i due gruppi

in base alle variabili del Rorschach e successivamente valutando se tali variabili

differenziano i soggetti borderline che hanno ottenuto alti punteggi alla scala Pd

dell’MMPI-2 da quelli con bassi punteggi.

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I dati sono stati sottoposti ad analisi statistica mediante l’applicazione dei test U

di Mann-Whitney per le variabili quantitative, il test Chi Quadro per le variabili

qualitative e l’analisi delle corrispondenze multiple per i punteggi della scala

DIB, utilizzando il software SPSS 13.0.

5. Risultati

Confronto fra soggetti borderline e gruppo di controllo

I risultati ottenuti al test U di Mann-Whitney nel confronto fra pazienti

borderline e controlli indicano che vi sono differenze significative (p<.05) per 8

variabili quantitative su 12 (vedi tab. 1).

I risultati del chi quadro indicano la presenza di differenze significative (p<.05)

per 4 variabili qualitative su 5 (vedi Tab. 2).

I soggetti borderline hanno ottenuto punteggi più bassi rispetto ai controlli

all’EA, al D score e punteggi negativi al Adj D score dove invece i controlli

hanno ottenuto un punteggio medio positivo. I pazienti borderline risultano

quindi meno abili nell’organizzazione delle proprie, già scarse, risorse da

contrapporre alle richieste che provengono dall’ambiente esterno.

Mentre per l’altro gruppo il controllo della reattività comportamentale può

essere influenzato dalle eccessive richieste dell’ambiente in un preciso

momento, i soggetti borderline presentano in generale meno risorse e il

controllo allo la gestione dello stress risulta comunque poco adeguato.

I borderline sono meno abili a posticipare le reazioni all’impulso (indici D) e a

mettere in atto comportamenti deliberatamente intrapresi; ottengono punteggi

più alti nella somma delle risposte pure (C+T+C’) e nelle variabili qualitative

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Volume 20 N° 3 - 2015

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E3, E4, E5; sembrano quindi incapaci ad inserire alcuni aspetti di controllo

razionale e di indirizzo all’esperienza affettiva. Inoltre, hanno ottenuto punteggi

significativamente più alti al C% e sembrano pertanto più inclini a liberare gli

affetti piuttosto che esercitare su di essi un controllo.

BORDERLINE CONTROLLI U

Mann-

Whitney MEDIA DS

MEDIA

RANGHI MEDIA DS

MEDIA

RANGHI

EA 5,3 2,7 42,8 8,8 5,9 58,3 862 **

D score -0,8 1,6 44,8 -0,4 1,7 56,2 963 *

Adj D -0,6 1,5 41,9 0,2 1,3 59,2 817 **

X+% 0,5 0,2 41,6 0,6 0,1 59,4 803 **

Afr 0,6 0,3 51,3 0,5 0,2 49,7 1210

L 0,9 1,2 48,1 0,9 0,5 52,9 1128

M% 15,8 13,4 48,0 16,9 9,0 53,0 1125

FC% 4,9 7,7 38,2 10,5 7,1 62,8 636 **

CF% 6,0 7,7 45,2 7,8 6,4 55,8 984

C% 3,0 5,3 57,3 0,2 0,8 43,7 911 **

Xu% 0,3 0,1 60,7 0,2 0,1 40,4 742 **

C+T+C’ 0,5 0,9 57,1 0,1 0,4 43,9 918 **

(*) = p<.05; (**) = p<.01

Tab. 1 - Confronto fra soggetti borderline e gruppo di controllo per le

variabili quantitative del Rorschach

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BORDERLINE CONTROLLI

χ2 Freq. Pct. Freq. Pct.

FC<CF+C 26 52% 17 34% 3,30

X+% <0.70

FQu ≠0

P≤4

L>1

31 62% 15 30% 10,31**

X+% <0.70

C+T+ C’≠ 0 18 36% 1 2% 18,78**

X+% <0.70

D<0 21 42% 10 20% 5,66*

X+% <0.70

D≥0

C+T+ C’≠ 0

11 22% 1 2% 9,5%**

(*) = p<.05; (**) = p<.01ù

Tab. 2 - Confronto tra pazienti Borderline e controlli per le variabili

qualitative al test di Rorschach

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Volume 20 N° 3 - 2015

81

Il gruppo dei pazienti ottiene punteggi significativamente più bassi al X+%,

Xu% e all’E2: tali risultati sono indicativi del fatto che i borderline presentino

scarse capacità di modulare le esperienze affettive. Tale comportamento sembra

collegato ad un modo più atipico di concepire la realtà, presentando uno stile

poco convenzionale di risposta agli stimoli ambientali (Xu%, E2).

Il gruppo di controllo presenta punteggi significativamente più alti per l’FC%,

indicando un’affettività socialmente accettabile ed appropriata accompagnata

da un più adeguato e consapevole controllo razionale.

La maggiore impulsività del borderline è caratterizzata al test di Rorschach da

una tendenza ad agire senza pianificare le proprie azioni, in assenza di una

valutazione razionale e consapevole delle conseguenze, con un tale

coinvolgimento nella situazione affettiva da non riuscire a modularla. In altre

parole, reagiscono senza pianificazione e valutazione razionale della risposta ad

una sollecitazione ambientale emotivamente rilevante.

Le variabili oggetto di studio, seguendo lo schema interpretativo di Exner,

fanno riferimento ai seguenti cluster (cft. fig. 1): l’area del “funzionamento

cognitivo” a cui appartengono le sotto aree “mediazione” e “elementi di

controllo e risorse” e l’area della “affettività”.

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Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.

82

Fig. 1 - Analisi delle variabili rispetto ai cluster individuati da Exner.

Confronto tra borderline e controlli

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Volume 20 N° 3 - 2015

83

Considerando il significato di queste aree si osserva che i soggetti borderline

abbiano minore tolleranza allo stress e basse risorse disponibili per

l’autocontrollo, con difficoltà a sviluppare intenzionalmente comportamenti

preordinati, rispetto al gruppo di controllo: il pensiero presenta uno stile poco

convenzionale ed è presente una scarsa modulazione dell’esperienza affettiva,

spesso esplosiva e difficilmente orientabile in modo ben adattato e socialmente

accettabile.

Confronto fra soggetti borderline con alta e bassa Pd

I risultati ottenuti al test U di Mann-Whitney nel confronto fra pazienti

borderline ad alta e bassa Pd mostrano differenze significative tra i due gruppi

per la variabile C% che risulta maggiormente rappresentata nei soggetti

borderline (cft. Tab. 3).

Anche per le variabili qualitative si evidenzia una sola significatività al test Chi

quadro: la variabile FC<CF+C è maggiormente rappresentata nei soggetti ad

alta Pd (cft. Tab. 4). Possiamo quindi affermare che non ci sono differenze per

quanto riguarda gli elementi di controllo dello stress e la mediazione

dell’affettività, piuttosto inadeguati in entrambi i gruppi.

I soggetti con Pd più elevata mostrano un’affettività più esplosiva, un

adattamento affettivo meno adeguato e comportamenti contraddistinti da

caratteristiche emotive molto intense.

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Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.

84

È stato rilevato che la scarsa capacità di modulare l’esperienza affettiva è

presente come componente di base nei pazienti borderline. L’intensità con cui

questa affettività viene agita non è associata alla presenza/assenza di fattori di

controllo (scarsi in entrambi i sottogruppi) facenti parte della personalità

dell’individuo.

Nell’analisi delle corrispondenze multiple effettuata sulle sotto aree del DIB

(affetti, comportamenti impulsivi, relazioni interpersonali, psicosi e

adattamento) sono state individuate due dimensioni che risultano più

strutturalmente associate fra loro rispetto alle altre dimensioni

psicopatologiche: i comportamenti impulsivi e l’affettività.

Relativamente ai cluster di Exner, si evidenziano differenze tra i soggetti con

alta e bassa Pd per quanto riguarda la sfera dell’affettività che si presenta più

esplosiva nei soggetti ad alta Pd, mentre non si evidenziano differenze

significative tra i soggetti per le altre due sfere.

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Volume 20 N° 3 - 2015

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BORDERLINE ALTA Pd BORDERLINE BASSA Pd U

Mann –

Whitney MEDIA DS

MEDIA

RANGHI MEDIA DS

MEDIA

RANGHI

EA 5,5 2,1 27,5 5,2 3,1 24,2 260

D score -0,5 0,9 27,8 -1,1 1,9 24,0 254

Adj D -0,3 0,7 26,8 0,8 1,9 24,7 275

X+% 0,5 0,2 24,8 0,5 0,2 26,0 285

Afr 0,5 0,2 23,8 0,6 0,4 26,7 265

L 0,7 0,6 23,4 1,1 1,5 26,9 257

M% 16,3 13,2 26,3 15,4 13,7 25,0 284

FC% 3,8 5,0 23,0 5,6 5,9 27,2 250

CF% 7,7 8,7 29,2 4,8 6,8 23,0 225

C% 5,5 7,0 30,2 1,3 2,8 22,4 206 *

Xu% 0,4 0,1 29,8 0,3 0,1 22,6 213

C+T+C’ 0,7 0,9 28,3 0,4 0,9 23,6 243

Tab. 3 - Confronto tra pazienti Borderline con alta e bassa Pd per le variabili

quantitative al test di Rorschach

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BORDERLINE

Alta PD

BORDERLINE

Bassa PD χ2

Freq. Pct. Freq. Pct.

FC<CF+C 12 40% 14 70% 4,33*

X+% <0.70

FQu ≠0

P≤4

L>1

20 67% 11 55% 0,69

X+% <0.70

C+T+ C’≠ 0 8 27% 10 50% 2,84

X+% <0.70

D<0 14 47% 7 35% 0,67

X+% <0.70

D≥0

C+T+ C’≠ 0

4 13% 7 35% 3,28

Tab. 4 - Confronto tra pazienti Borderline con alta e bassa Pd per le variabili

qualitative al test di Rorschach

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Volume 20 N° 3 - 2015

87

Conclusioni

Lo studio dell’impulsività riveste un’indubbia importanza sia per la

comprensione del funzionamento psicologico dell’individuo, sia per la

previsione e il controllo dei comportamenti critici, ed ancora per la difficoltà

dell’intervento clinico.

I riscontri empirici provenienti dalla che si interessano alla dimensione

dell’impulsività, spesso hanno campioni di pazienti affetti da Disturbo

Borderline di Personalità (Moeller, et al., 2000; Manna, et al., 2005; Eysenck,

Eysenck 1977; Barratt Patton, 1983; Everden, 1999).

I risultati dello studio dimostrano come i pazienti con DBP risultino al

Rorschach effettivamente più impulsivi rispetto ai soggetti normali e meno

capaci sul piano della personalità ad effettuare un controllo sulla propria

reattività, esibendo minori capacità di progettualizzazione e modulazione della

risposta emotiva rispetto al gruppo di controllo.

La valutazione attraverso il Rorschach è stata dunque utile per discriminare un

gruppo di soggetti impulsivi da un gruppo di soggetti di controllo. Tuttavia non

è in grado di rilevare all’interno del gruppo clinico differenze qualitative e

quantitative della dimensione dell’impulsività, e di identificare quindi i soggetti

che alla valutazione con MMPI-2 risultano avere maggiori possibilità di agire la

stessa.

Il test di Rorschach appare in grado di evidenziare la disregolazione emotiva

come deficit meta rappresentativo discriminante che, nel presente studio,

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Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.

88

permette di individuare i pazienti affetti da DBP che hanno maggiore

probabilità di agire l’impulsività con comportamenti aggressivi.

L’affettività esplosiva tradotta in maggiori probabilità di sviluppare condotte

psicopatiche potrebbe dipendere dal fatto che, i soggetti che non sono mai stati

coinvolti in relazioni interpersonali facilitanti l’acquisizione di abilità meta

rappresentative o che sono stati esposti ad un ambiente familiare in cui l’unica

modalità di sperimentare l’attaccamento era l’inibizione di tali processi,

abbiano maggiori possibilità di sviluppare un attaccamento non sicuro e di

manifestare scarse capacità riflessive, rimuovendo tutte le inibizioni nei

confronti di attività violente e criminali: essere in grado di figurarsi lo stato

mentale della potenziale vittima può essere essenziale per evitare situazioni che

possano deliberatamente arrecare danno.

Quindi, è possibile considerare che la storia personale del paziente e l’ambiente

in cui vive rivestano una decisiva importanza nel promuovere l’espressione

dell’impulsività in comportamenti psicopatici. L’inadeguatezza del contesto di

accudimento nell’infanzia predisporrebbe lo sviluppo di deficit meta

rappresentativi che renderebbero il soggetto più vulnerabile e condizionato

dalle ripetute stimolazioni frustranti da parte dell’ambiente in età adulta

(Bandini et al, 1991; Bandura, 1986; Barbaranelli, et al., 1998; De Leo, 1992;

De Leo & Patrizi, 1992; Lemert, 1981).

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Volume 20 N° 3 - 2015

93

Maria Elena Cinti14

, Mara Lastretti15

, Antonella Pomilla16

, Monica Calderaro17

,

Franco Burla18

L’ANALISI GRAFOLOGICA PER LA VALUTAZIONE DEL TRATTO

ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ

RIASSUNTO

Il lavoro espone i risultati di un progetto di ricerca che ha avuto in oggetto

l’esame della personalità antisociale ed in particolare i tratti di aggressività,

14

Psicologo, Assegnista di Ricerca e Docente Master in “Psicodiagnostica per

la valutazione clinica e medico-legale con elementi di base giuridici e forensi”,

Dipart. di Neurologia e Psichiatria, “Sapienza” Università di Roma. 15

Psicologo, PhD in Neuroscienze, Docente Master in “Psicodiagnostica per la

valutazione clinica e medico-legale con elementi di base giuridici e forensi”,

Dipart. di Neurologia e Psichiatria, “Sapienza” Università di Roma. 16

Psicologo Clinico, Criminologo, Testista, PhD in Psichiatria - Assegnista di

Ricerca, Docente Master “Scienze Criminologico-Forensi”, Dipart. di

Neurologia e Psichiatria, “Sapienza” Università di Roma 17

Psicografologa, Spec. in Psicologia Applicata alla Scrittura e in Perizie

Grafiche. Responsabile del “Laboratorio di Psicografologia” Associazione

Ricerca Scientifica e Studi Universitari privati – ARSSUP (Grono – Canton

Grigioni. CH). Ricercatore Istituto Internazionale di Scienze Criminologiche e

Psicopatologico Forensi. Docente di Grafologia, “Sapienza” Università di

Roma. Perfez. in Criminologia, Scienze Investigative e della Sicurezza 18

Psichiatra, Ricercatore c/o Dipartimento di Neurologia e Psichiatria,

“Sapienza” Università di Roma - [email protected]

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Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.

94

impulsività, autocontrollo, adattamento, disturbo del pensiero ed esame di

realtà che di esso ne costituiscono il nucleo psicopatologico.

L’indagine ha interessato un campione sperimentale di 20 soggetti con Disturbo

Antisociale di Personalità e tratti di Disturbo Borderline di Personalità,

ricoverati presso case di cura per disturbi mentali e riabilitazione da abuso di

sostanze/alcol, con storia di condotte criminose, e un gruppo di controllo di 52

soggetti normali (profilo negativo al test SCID-II) reclutati casualmente tra

studenti universitari, casalinghe, dipendenti di amministrazioni pubbliche e

liberi professionisti.

Strumento impiegato per lo studio è stata l’analisi grafologica, in qualità di test

proiettivo che ben si presta all’esteriorizzazione dei contenuti intrapsichici.

Scopo del lavoro, difatti, voleva essere quello di stimare la capacità dell’analisi

grafologica di valutare la presenza e l’intensità del tratto Antisociale di

Personalità.

Al campione clinico è stato altresì somministrato il questionario Millon-III.

Le scale dell’analisi grafologica (Aggressività, Impulsività, Autocontrollo,

Adattamento, Disturbo del Pensiero ed Esame di Realtà) hanno prodotto

risultati significativamente diversi tra i due gruppi di studio. Per il campione

clinico, la scala Disturbo del Pensiero è risultata correlata con la scala Disturbo

Antisociale del Millon-III.

Parole chiave:

Disturbo Antisociale di Personalità, Analisi grafologica, Aggressività,

Autocontrollo, Disturbo del Pensiero

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Volume 20 N° 3 - 2015

95

ABSTRACT

The work presents the results of a research project that examined the antisocial

personality traits, particularly aggressiveness, impulsivity, self-control,

adaptation, thought disorder and lack of reality perspective.

The survey had an experimental sample of 20 subjects with Antisocial

Personality Disorder and traits of borderline personality disorder, admitted to

clinics for mental disorders and rehabilitation for substance or alcohol abuse,

with a history of criminal behavior, and a control group of 52 normal subjects

(negative profile for SCID-II) randomly recruited among college students,

housewives, employees of public authorities and self-employed.

The instrument used for the study was the handwriting analysis, as a projective

test that can underline the externalization of intrapsychic content. Aim of work,

in fact, wanted to be to estimate the capacity of handwriting analysis to

evaluate the presence and intensity of the antisocial personality trait.

The clinical sample was also administered the questionnaire Millon-III.

Handwriting analysis’s scales (Aggressiveness, Impulsivity, Self-control,

Adaptation, Thought Disorder and Lack of Reality Perspective) have produced

significantly differences: for the patient sample, the scale of Mental Disorder

was correlated with the Antisocial scale of the Millon-III.

Keywords

Antisocial Personality Disorder, Handwriting Analysis, Aggressiveness, Self-

control, Thought Disorder

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Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.

96

1. Introduzione

Oggetto di primario interesse per la psichiatria forense e la criminologia è

rappresentato dall’analisi della personalità criminale, considerando tutti gli

aspetti di influenza di natura psicologica, costituzionale e socio-ambientale

possibilmente predisponenti al comportamento antisociale (Rudas et al., 1997).

In tal senso, affidandosi ad un approccio di natura multidisciplinare, l’intento è

quello di fornire la più valida identificazione dei quadri psicopatologici di volta

in volta connessi al comportamento criminale, tanto più se di natura seriale e/o

particolarmente violento, così da agevolare tanto il processo di indagine quanto

quello trattamentale.

La personalità antisociale oggetto di interesse nel presente lavoro si caratterizza

per un modello abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia

marcatamente rispetto alle aspettative dell’ambiente culturale dell’individuo.

Tale modalità di accesso all’esperienza si contraddistingue per modalità

abnormi di percepire e di interpretare se stessi, gli altri o gli avvenimenti; di

gestire l’affettività, in particolare l’intensità e l’adeguatezza emotiva; di gestire

il controllo degli impulsi ed il funzionamento interpersonale, il tutto andando a

confluire in una struttura pervasiva, inflessibile, rigida e non adattativa che con

tali caratteristiche si esprime in una varietà di situazioni e contesti personali e

sociali.

Queste modalità esistenziali comportano tanto per il soggetto (ciò in generale,

considerando la rigidità e la pervasività dei disturbi di personalità) quanto per

chi viene in contatto con lui, un disagio significativo ed una compromissione

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Volume 20 N° 3 - 2015

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del funzionamento sociale, lavorativo e interrelazionale. In tal senso, gli

psicopatici “soffrono e fanno soffrire la società” (Schneider, 1955).

Tuttavia, nella specificità dei criteri diagnostici del Disturbo Antisociale di

Personalità, figura una buona dose di egocentrismo tale che i comportamenti

che appaiono abnormi e disfunzionali per gli altri, vengono viceversa

considerati normali ed adeguati da parte del soggetto antisociale, in pieno

accordo con la propria persona e con il proprio Sé, e quindi esenti da critiche,

con conseguente assenza di senso di colpa e di responsabilità civile e morale

delle azioni da lui condotte.

Considerando gli albori degli studi psicologici su tale quadro personologico, si

citano i primi studi sull’aggressività e sulla presunta identificazione della

personalità criminale di De Greef (1938) e Pinatel (1960), gli studi sulla

relazione tra frustrazione ed aggressività di Dollard & Millar (1939), i

contributi psicologici di Fromm (1973) e poi ancora quelli di tradizione

psicodinamica di Winnicott, Jung ed Adler.

Più di recente, sono invece stati considerati i caratteri organici come causa o

concausa dei comportamenti antisociali (Anderson et al. 1999; Raine et al.,

2000). In particolare, l’attenzione di questi studi si è rivolta allo studio della

corteccia frontale, che come è noto ha un ruolo fondamentale nell’acquisizione

delle capacità sociali e nel controllo delle emozioni e delle azioni, portando gli

studiosi ad ipotizzarne una sua compromissione nel caso di soggetti con

condotte antisociali.

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98

Ancora, altro oggetto di indagine è stata l’importante relazione esistente tra

ambiente e predisposizione (Caspi et.al 2002), ed il riconoscimento di uno

specifico gene che di essa è responsabile, il gene MAOA, che provocherebbe

un aumento dell’aggressività incontrollata. Tuttavia, anche in questi studi, si

attesta che l’espressione genica, affinché si verifichino comportamenti abnormi,

debba essere condizionata da una particolare situazione familiare ed

ambientale, caratterizzate da forte emotività, comportamenti violenti ed abusi.

Rimandando alla più ampia letteratura di specie sull’origine e l’espressione

cognitiva, emotiva e comportamentale della personalità antisociale, si vuole

sottolineare come nel presente lavoro di ricerca ci si è proposti di indagare e

discriminare alcune specifiche dimensioni psicopatologiche (Aggressività,

Impulsività, Autocontrollo, Adattamento, Disturbo del Pensiero e Esame di

Realtà) che sono alla base dei comportamenti antisociali e potenzialmente

criminosi di soggetti con Disturbo Antisociale di Personalità e sottostante

organizzazione borderline, avvalendosi dell’Analisi grafologica, quale test

proiettivo.

Stante quanto indicato da un riconosciuto esperto e fondatore della Grafologia,

Girolamo Moretti, la grafologia è una scienza sperimentale che permette di

risalire alle predisposizioni psichiche di un individuo mediante l’analisi di un

suo scritto. Essa consente di conoscere la personalità innata dell’individuo, fatta

di tendenze ed inclinazioni che egli possiede per natura, ancor prima di tutte

quelle influenze e modificazioni indotte dai fattori socio-culturali che poi

interverranno lungo il corso della sua vita.

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99

Al pari di altri strumenti psicodiagnostici (colloquio e test), anche la grafologia

può risultare di valido ausilio, ed in molti casi diviene insostituibile, nel campo

della criminologia e della psichiatria forense.

Secondo il Moretti (2003), un’analisi grafologica si effettua in cinque fasi:

- la prima consiste nella ricerca dei segni grafici presenti in una scrittura.

Per segni grafici si intende quelle qualità individuali della scrittura umana,

indici di caratteristiche psichiche intellettive, affettive e somatiche.

Riprendendo la tesi di Michon, Moretti sostiene che ogni segno grafico

preso singolarmente ha un unico significato psicologico, fisso e costante,

attenuabile o accentuabile dalla contemporanea presenza di altri segni. I

segni grafici descritti da Moretti sono in tutto 81, e per ognuno vengono

descritti gli aspetti morfologici, fornito l’esatto significato psicologico,

spiegata la dinamica psico-fisiologica, giustificando il rapporto di identità

esistente tra il particolare segno grafico e la caratteristica psichica ad esso

corrispondente. I singoli segni grafici vengono inoltre quantificati

mediante precise valutazioni matematiche di particolari parametri,

attraverso cui è possibile misurare l’intensità delle varie caratteristiche

psichiche;

- il secondo momento di analisi grafologica si attua con la valutazione

della forza dei vari segni grafici;

- la terza fase attiene alla valutazione qualitativa dei segni grafici, che a

tal fine vanno distinti in segni della volontà (relativi al sentimento e alle

disposizioni affettive – attive, descrivendo il temperamento dello scrivente)

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100

e segni dell’intelletto (relativi alle attitudini intellettive dello scrivente);

- nella quarta fase si tenta l’individuazione del segno principe, cioè di

quel segno che compare con più forza ed intensità tra i segni sostanziali

della volontà. Esso serve a riconoscere il tipo di temperamento che

impronta il carattere dello scrivente, ovvero se si tratta di un temperamento

di cessione, o di resistenza, o di assalto o infine di attesa;

- l’ultimo momento di disamina della personalità del soggetto scrivente,

infine, è rappresentato dalla combinazione semplice e complessa dei segni

grafici. Ogni segno infatti può avere sugli altri azione accentratrice,

indifferente o limitante.

A differenza di altri strumenti psicodiagnostici proiettivi (test proiettivi), il

metodo dell’analisi grafologica gode del vantaggio di una più facile raccolta e

somministrazione, poiché basterà chiedere al soggetto in disamina qualche rigo

della propria scrittura, con annessa firma finale. Ciò risulta particolarmente

vantaggioso in situazioni di assente o ridotta accessibilità e collaborazione da

parte del paziente (nel primo caso, ad esempio, si pensi all’analisi di uno

scritto testamentale, mentre il secondo caso può essere frequente in ambito

penitenziario intramurario).

Orbene, nella presente indagine si è voluto verificare se e come alcune

caratteristiche antisociali andavano ad esprimersi nel modo di scrivere da parte

dei soggetti esaminati. In particolare, è stata intenzione di verificare l’utilità

del test ed il suo impiego nell’ambito psichiatrico-forense per discriminare

soggetti con disturbo antisociale, con organizzazione borderline, rispetto a

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Volume 20 N° 3 - 2015

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soggetti per i quali è stato opportunamente escluso tale quadro diagnostico

(profilo negativo al test SCID-II).

2. Anagrafica campione, materiali e metodi

Ai fini dell’indagine oggetto di interesse si è provveduto a comporre due

subcampioni:

- un campione clinico, composto da 20 soggetti affetti da Disturbo

Antisociale di Personalità e tratti borderline – caratterizzati da instabilità

nelle relazioni affettive ed interpersonali, instabilità lavorativa, abuso di

sostanze stupefacenti e/o alcol, e con accertata reiterazione di condotte

criminose (risse, aggressioni e danneggiamenti, traffico illegale di sostanze

stupefacenti) – ricoverati presso case di cura per disturbi mentali al fine di

seguire un programma di disintossicazione. Criteri di inclusione del

presente subcampione sono stati: la diagnosi di Disturbo Antisociale di

Personalità con organizzazione borderline confermata dalla

somministrazione della SCID-II; età compresa tra 25 e 45 anni; equa

distribuzione di genere;

- un gruppo di controllo costituito da 52 soggetti reclutati casualmente tra

studenti, dipendenti di amministrazioni pubbliche, casalinghe e liberi

professionisti. Criteri di inclusione del presente subcampione sono stati:

l’aver ottenuto un profilo negativo all’intervista SCID-II; l’assenza di

precedenti contatti con servizi territoriali psichiatrici; età compresa tra i 25

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e 45 anni; equa distribuzione di genere.

Ai soggetti afferenti al campione clinico è stato somministrato il Millon

Clinical Multiaxial Inventory-III (MCMI-III)19

, strumento testologico per la

valutazione dei disturbi di personalità, conseguente all’originale modello

psicopatologico multiassiale proposto dall’Autore T. Millon fondato sui

principi della sociobiologia per spiegare le strutture e gli stili di personalità in

qualità di modalità di adattamento all’ambiente e strategie evoluzionistiche. I

disturbi di personalità sono intesi quali costrutti evolutivi derivanti

dall’interazione tra individuo ed ambiente, quest’ultimo con notevole influenza

nel determinare le espressioni comportamentali del soggetto.

La struttura del MCM-III corrisponde alla quarta revisione del Manuale

Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV-TR – APA, 2000),

pertanto le scale cliniche distinguono tra sintomi psichiatrici e disposizioni

stabili della personalità per riflettere la distinzione fatta tra Asse I ed Asse II nel

DSM-IV-TR20

.

19

di T. Millon, R. Davis e C. Millon - Adatt. ITA, Ed. Giunti OS, III ristampa,

2010 20

Complessivamente, lo strumento si compone di 28 scale:

- quattro Indici di Modifica (per il controllo della validità dello strumento);

- undici Pattern di Personalità Clinica (relative agli inquadramenti

diagnostici dell’Asse II del DMS IV-TR);

- tre scale di Grave Patologia della Personalità (per misurare stili di

personalità particolarmente rigidi e disadattavi, quali Schizotipica,

Borderline e Paranoica);

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Il profilo di personalità viene descritto secondo il livello di gravità della

psicopatologia dato dai punteggi BR (base-rates, correzione dei punteggi grezzi

in punti standard) considerando quattro range:

- punteggio BR compreso tra 30 e 60 = assenza di patologia;

- punteggio BR compreso tra 60 e 75 = tratto di personalità;

- punteggio BR compreso tra 75 e 85 = stile di personalità;

- punteggio BR superiore a 85 = indice di patologia.

Per il campione clinico del presente lavoro di ricerca, lo scoring del test ha

mostrato punteggi BR > 85 nella Scala Antisociale (inclusa nelle scale dei

“Pattern di Personalità Clinica”), ed inoltre punteggi BR > 75 nella Scala

Borderline (inclusa nelle scale delle “Grave patologia della Personalità”) e

nelle Scale Dipendenza da Alcool e Dipendenza da Droghe (incluse nelle

“Sindromi Cliniche”).

Altresì, al campione clinico è stata richiesta la copiatura di un testo il cui

contenuto era privo di ogni coinvolgimento emotivo, così da non falsificare il

risultato del test.

Per l’analisi grafologia sono state valutate 6 scale (Conficoni, 2000):

- sette scale di Sindromi Cliniche (per misurare alcune sindromi cliniche

dell’Asse I del DSM IV-TR);

- tre scale di Sindromi Cliniche Gravi (a complemento delle tre precedenti,

per la misurazione di sindromi cliniche particolarmente invalidanti o

gravi, quali Disturbo del Pensiero, Depressione Maggiore, Disturbo

Bipolare).

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104

- Aggressività;

- Impulsività;

- Autocontrollo;

- Adattamento;

- Disturbo del pensiero;

- Esame di realtà.

La valutazione di ciascuna scala è seguito di una combinazione di segni

grafologici, ognuno dei quali ha un valore che va da 0/10 ad un massimo di

10/10. L’insieme dei segni grafologici più significativi, ossia con un valore più

vicino a 10/10, è indicativo della presenza di elemento patologico (vedi Tab.1).

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Volume 20 N° 3 - 2015

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Tabella 1 – Descrizione delle Scale dell’analisi grafologica

Area Psicotica –

Disturbo del

Pensiero

Impulsività Aggressività Adattamento Esame di

Realtà

Autocontrollo

disomogeneità nelle

larghezze;

disomogeneità

pressione (grossa –

grossolana)

disomogeneità del tracciato

(trasandata, rilasciata,

discendente, disordinata,

sciatta, curva

in eccesso, anche

profusa)

angoli A in

alto grado – acuta - recisa

intozzata II alto

nitida

confusa

disomogeneità aste

disomogeneità rigo

disomogeneità

calibro -

minuziosa

tentennante –

stentata – artritica

pendente in alto con grado

intozzata 1° modo

sopra

media

intozzata

2° modo oltre 4/10.

scattante

slanciata e

veloce

gettata via

calibro alto

spavalda

ardita

profusa e

dilatata

angoli A

acuta

irta

disordinata

impaziente

impulsiva

filiforme con angoli

A

ascendente

oscura

(in ritmo

rapido)

acuta e irta

angoli A

intozzata

2° modo

oltre i 4/10

scattante

contorta

impaziente

stentata.

Da tener presente che

anche una

scrittura calma e tranquilla

potrebbe

rivelare aggressività

nascosta, con virgole slanciate

e più o meno

marcate rispetto al resto dello

scritto.

curva;

largo di

lettere

largo tra

lettere

largo tra

parole

medio, ed in

particolare

equilibrato o un poco

inferiore

rispetto a largo di

lettere

ponderata

fluida

attaccata

calibro medio

calma

sinuosa

chiara

mantiene

il rigo

dritta

angoli C

accurata

spontanea

alterazione della

grandezza

delle

lettere

esistenza di:

snervatezza,

scoordinamento

grafico e

dissolvenza delle

lettere con perdita

della

propria identità

grafica

omissione

di lettere dovuta a

confusion

e

presenza

di eventuali

segni di

agitazione

psiconerv

osa e di conseguen

te euforia

intozzata 2° modo,

purchè in

grado ridotto

calma

contorta,

espressivo di

controllo

esteriore;

ponderata

parca

angoli C

accurata

fluida

chiara

calibro

medio

disuguale

metodico

mantiene

il rigo

minuta

omogenea

sinuosa

attaccata/ staccata

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106

che va quasi

ad appiattirsi sul rigo di

base

ricci

mitomania

ricci

spavalderia

ricci

mirabolante

ricci e

ammanieramento

ed altri segni

patognomi

ci.

Tutti i risultati sono stati sottoposti ad analisi statistica mediante Test di

significatività delle differenze tra campioni indipendenti, U di Mann-Whitney e

coefficiente di correlazione di Spearman mediante software S.P.S.S. versione

17.0.

3. Risultati

Tutte le scale grafologiche, su entrambi i campioni, esprimono una correlazione

tra loro.

I risultati del Test U di Mann - Whitney indicano la presenza di differenze

significative (p.< .05 e p.< .01) tra il gruppo clinico di soggetti antisociali ed il

gruppo di controllo per tutte le variabili, sottolineando la loro capacità di

discriminare soggetti normali da soggetti patologici per quanto riguarda le

dimensioni indicative di impulsività, struttura psicotica e disadattamento

interpersonale (vedi Tab.2 e Fig.1).

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Tabella 2 – Grouping Variable: normalità/patologia

GRAFOLOGIA NORMALI

MEAN RANK

PATOLOGICI

MEAN RANK

TEST U

MANN-

WHITNEY

Aggressività 29.09 55.78 134.5**

Impulsività 30.24 52.78 194.5**

Autocontrollo 40.67 25.65 303**

Adattamento 39.70 28.18 353.5*

Disturbi del

pensiero

27.54 59.80 54**

Esame di realtà 42.65 20.50 200**

* p < .05 ** p < .01

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108

Figura 8 – Grouping variable: normalità/patologia

* p < .05 ** p < .01

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L’analisi grafologica dei soggetti antisociali ha messo in evidenza alcuni segni

caratteristici, rispettivamente afferenti al Disturbo del Pensiero, all’Impulsività,

all’Aggressività, all’Adattamento, all’Esame di Realtà ed all’Autocontrollo

(vedi Tab. 1).

È stato dunque rilevato come i soggetti antisociali, rispetto al gruppo di

controllo, risultino avere una minore capacità di gestione dell’emotività e degli

impulsi, nonché un alterato esame di realtà con tendenza alla perdita del senso

comune.

Inoltre, nel campione clinico l’analisi grafologica riesce a discriminare la

variabile del Disturbo del Pensiero (vedi Tab. 3). Applicando una correlazione

tra i risultati derivanti dal MCMI-III e le scale dell’analisi grafologica, per il

campione clinico risulta confermata la capacità dell’analisi grafologica di

discriminare il tratto antisociale mediante la sola scala del Disturbo del

Pensiero.

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Tabella 3 – Correlazione tra le scale dell’analisi grafologica

e la Scala Antisociale di personalità (nei soggetti patologici)

GRAFOLOGIA

DISTURBO ANTISOCIALE DI

PERSONALITÀ

(Spearmann corr)

Aggressività .284

Impulsività -.089

Autocontrollo -.031

Adattamento .030

Disturbo del pensiero .479*

Esame di realtà -.052

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111

4. Conclusioni

È stato rilevato come i soggetti antisociali, rispetto al gruppo di controllo,

abbiano una maggiore propensione a manifestare condotte abnormi

contraddistinte da aggressività e discontrollo degli impulsi, nonché alterato

esame di realtà e disturbi dell’area psicotica con tendenza a perdere il contatto

con il mondo reale.

Inoltre essi presentano importanti problematiche di adattamento nel contesto

sociale e lavorativo (Tab. 2 e Fig. 1).

Per il gruppo composto da soggetti antisociali, è altresì emersa significativa

correlazione per la scala Disturbi del Pensiero (Tab. 3).

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Cristina Casella21

, Armando Palmegiani22

, Danila Pescina23

L’OMICIDIO DI MELANIA REA: UNA STORIA DI

STAGING

RIASSUNTO

Parlare di delitti efferati non è mai facile, in particolare quando questi

sconvolgono l’assetto di un’apparente routine quotidiana.

Mossi dal desiderio di comprensione e dalla necessità di assegnare spunti

risolutivi ad ogni espressione criminosa, si víola - spesso - una dimensione che

non ci appartiene. Si scandaglia la vita privata dei protagonisti, talvolta col solo

intento di trovare conferme alle proprie convinzioni. Perché è lo scorrere

ordinario del vivere, interrotto bruscamente nella sua ritualità, ad innescare

quell’interesse e quell’attaccamento emotivo che spiegano l’attenzione nei

confronti delle morti violente.

Questo lavoro non nasce dalla curiosità morbosa che sazia i suoi istinti

osservando la fatticità del male, ma dall’esigenza di interpretare il fenomeno

delittuoso, valutandone equamente colpe e radiografandone i dettagli.

21

Dottore in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Master in

Criminologia e Scienze Strategiche, Università di Roma “Sapienza” 22

Dottore in Psicologia Clinica. Docente di Scena del Crimine, Master in

Scienze Criminologico-forensi, Università di Roma “Sapienza” 23

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa. Specialista in Psicoterapia Breve ad

Approccio Strategico. Esperta in Psicologia delle Dipendenze. Coll

Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, Università di Roma “Sapienza”

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È il caso dell’omicidio di Melania Rea, giovane sposa e madre ritrovata

cadavere in un bosco dopo essersi allontana alla ricerca di un bagno. Quel

giorno, Melania, aveva deciso di trascorrere qualche ora di relax tra il verde di

Colle San Marco, in compagnia del marito e della figlioletta di 18 mesi. Due

parole, pochi frangenti e la donna viene inghiottita dalla folta pineta ascolana.

Da subito si ipotizza una scomparsa volontaria, forse un malore improvviso. Le

ricerche sul campo partono in breve tempo, susseguite da un continuo

aggiornamento da parte delle reti televisive nazionali. Di Melania nessuna

traccia. Le speranze di ritrovare in vita la giovane verranno definitivamente

infrante da una telefonata anonima che segnalerà la presenza di un corpo nel

bosco di Ripe di Civitella.

Il cadavere della povera donna - difatti - giaceva a circa 15 chilometri dal luogo

della sparizione, adagiato sulla terra umida del Boschetto delle Casermette,

località appartenente alla provincia di Teramo. Possibile che Melania abbia

camminato così a lungo? Aveva perso l’orientamento, forse? Fin da subito gli

inquirenti non hanno dubbi, l’omicidio è la pista più plausibile. Trentacinque le

coltellate inferte alla vittima, probabilmente deceduta dopo una lenta agonia. E

non è tutto: la scena del crimine non si limita a fotografare la furia omicida

abbattutasi su Melania, ma narra - altresì - del tentativo fuorviante dell’offender

di depistare le indagini.

Parole chiave: omicidio, messa in scena, accanimento, Melania Rea

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ABSTRACT

It is never an easy thing to speak about brutal crimes, particularly when they

upset the good order of a seeming daily routine.

Moved by desire to understand and also by the necessity to assign resolutive

starting points to any criminal expression, we often violate a dimension that

doesn’t belong to us. Sometimes the private life of the protagonists is

investigated for the only aim of finding a confirmation to our convictions.

Infact it is the ordinary running of life, suddenly interrupted in its ritualism, to

prime that interest as well as that emotional attachment which explains the

interest for violent deaths.

This work does not come from the morbid curiosity to satisfy its instincts

observing the type of evil, but from the necessity to explain the criminal

phenomenon judging impartially the faults and radiographing the details.

It is the case of the homicide of Melania Rea, a young wife and a mother found

dead in a wood after she walked away looking for a toilet. That day, Melania,

had decided to spend some time to relax together with her husband and her

eighteen months old daughter in the green area of Colle San Marco. Only few

words, few difficulties and the woman seemed to have been swallowed in the

Ascolan thick pine-wood. Initially it had been thought to be a voluntary

disappearance or a sudden illness. Field investigations were soon started and

followed by continuous adjournments from the national television networks.

But there were no traces of Melania. The hopes to find the young woman still

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alive were definitively shattered when an anonymous telephone call reported

the presence of a corpse in the wood of Ripe di Civitella.

Infact the corpse of the poor woman had been found at a distance of about 15

kilometres from the place she had disappeared, lying on the humid ground of

Boschetto delle Casermette, a locality belonging to the Province of Teramo. It

is possible to imagine that Melania had walked so far? Had she lost her

orientation? Since the beginning the investigators had no doubts, the homicide

was the most plausible track to follow. Thirty-five were the stubs inflicted to

the victim who probably died after a long agony. But this is not all: the crime

scene isn’t limited just in taking photographs of the homicidal rage that

Melania met, but it also tells about the misleading attempt of the offender to

throw the investigators into confusion.

Key Words: homicide, staging, overkilling, Melania Rea

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La manipolazione della scena del crimine: definizione e classificazione

Uno dei problemi principali nella concettualizzazione di scena del crimine

alterata consiste nell’identificare con accuratezza ciò che ne costituisce parte

integrante. Partiamo innanzitutto da un breve excursus etimologico: il termine

“staging”, participio sostantivato del verbo inglese “to stage”, significa

letteralmente “messa in scena” e, nella letteratura criminologica, si riferisce ad

una manipolazione volontaria della scena del crimine. Il fine di ogni

camuffamento, nella maggior parte dei casi, è quello di depistare

l’investigazione, allontanando le indagini dal possibile sospettato24

. Diversi gli

apporti definitori in materia, da quello più generico di Geberth - il quale

definisce la messa in scena come «un atto criminale consapevole volto a

contrastare le indagini» - a quello più specifico del Crime Classification

Manual, che inquadra lo staging come «volontarietà di un soggetto

nell’alterare la scena del crimine prima dell’arrivo della polizia. Due le

ragioni che portano alla manipolazione: il tentativo di sviare gli investigatori

dall’individuo sul quale si riversano i sospetti oppure l’intento di proteggere la

vittima o la sua famiglia» (2006). Nonostante la correttezza di entrambe le

definizioni, gli autori ritengono che non siano sufficientemente esaustive per

poter classificare tutte le potenziali tipologie di messa in scena. Difatti, i

comportamenti dell’offender - combinati a diverse basi motivazionali -

consentono di collocare l’autore del reato in due differenti categorie,

24

Questa convinzione è molto comune anche tra i non addetti ai lavori.

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denominate rispettivamente “Staging primario” e “Staging secondario”. Ne

esiste anche una terza supplementare, il cosiddetto “Staging terziario,” che

definisce una modificazione della scena del crimine operata da un soggetto

diverso dal reo, priva di scopi depistanti. Analizziamo singolarmente queste tre

classificazioni.

Viene definita “messa in scena primaria” quel comportamento intenzionale e

risoluto dell’offender volto ad alterare e/o modificare prove fisiche o altri

aspetti della scena del crimine. In tale contesto l’intento criminale viene

aggravato dal rilascio di false informazioni sull’accaduto, con lo specifico

obiettivo di sviare un’indagine dai fatti e dalle reali circostanze del reato. La

differenza fondamentale tra questa definizione e quelle precedenti consiste

nell’apporto nozionistico dato dai due aggettivi “intenzionale” e “risoluto”, i

quali sottolineano la precisa volontà comportamentale di vanificare gli sforzi

investigativi. Questa nuova concettualizzazione, infatti, pone il focus

sull’autore del reato e sulle motivazioni che si nascondono dietro la messa in

scena, pertanto risulta essenziale comprendere la gestione e la dinamica di ogni

singola attività di alterazione. Partendo dal presupposto che in tutte le scene del

crimine organizzate è proprio il colpevole a denunciare l’episodio e, quindi, a

fornire spiegazioni in merito a quanto è avvenuto, è opportuno valutarne le

dichiarazioni rese con estrema attenzione. Il reo, infatti, tenderà ad avvalorare

la versione degli inquirenti, fornendo dettagli ed informazioni che vadano a

supportare le ipotesi investigative.

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All’interno di questa prima classificazione possiamo individuare due sub-

categorie particolarmente specifiche, la “scena allestita ad hoc” e la “scena

premeditata”.

Una scena camuffata ad hoc rappresenta ciò che il termine stesso suggerisce. In

questi casi, l’obiettivo dell’offender è quello di reindirizzare le ricerche della

polizia, di conseguenza la scena del crimine verrà, sì, manipolata, ma

seguitamente al compimento dell’atto omicidiario. L’aspetto più importante

che caratterizza tale tipologia di staging è l’assoluta mancanza di

premeditazione o pianificazione, difatti è l’impulsività a guidare la messa in

scena, mostrando delle evidenze che non corrispondono a quanto realmente

accaduto. È il caso dei delitti legati all’abuso di droga, ad esempio, ove il reo -

generalmente - ripulisce la scena provvedendo alla rimozione delle sostanze

stupefacenti e posizionando il corpo della vittima in modo da renderne credibile

una morte accidentale (ad esempio simulandone l’annegamento nella vasca da

bagno).

La categoria di “scena premeditata”, invece, rimanda ad un meticoloso piano di

mistificazione, precedentemente studiato dall’autore del reato. In tale scenario,

l’intento è quello di fornire prove ed evidenza di quanto accaduto, lasciando

poche possibilità all’interpretazione erronea dei fatti. Non è raro che in

situazioni simili sia proprio il reo a sottolineare determinati elementi, affinché

vengano notati da chi investiga.

Esistono altre specificità comportamentali riscontrate sulla scena del crimine

che, pur non avendo fine di depistaggio o volontà di distogliere i sospetti

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dall’autore del reato, rientrano nella classificazione di “messa in scena”. Molto

spesso vengono effettuati atti di camuffamento senza alcuna inclinazione a

fuorviare le indagini, in quanto l’impulso che detta l’alterazione è strettamente

correlato ad aspetti psicologici intrinseci alla personalità del reo. Tale

mutamento nell’organizzazione di una scena del crimine richiede un approccio

di lettura differente, analizzando gli eventi da un’ altra prospettiva. È ciò che

viene definito “Staging secondario”, ovvero “l’alterazione intenzionale o la

manipolazione deliberata della scena del crimine o della stessa vittima, non

mirata al dirottamento investigativo”.

La “messa in scena secondaria” raccoglie una vasta gamma di comportamenti

agiti dall’offender, da semplici atti - come apporre qualcosa sul volto della

vittima - al posizionamento del cadavere in maniera sessualmente provocante o

imbarazzante. Nel primo caso si parla di “Undoing”25

, identificando tutte quelle

condotte di modificazione dettate dal senso di rimorso del reo. Commettere un

delitto cruento non esclude l’influenza di fattori emozionali, infatti l’offender

può provare una sensazione di pentimento che si riversa su una serie di agiti

post omicidiari: dal lavare il corpo insanguinato della vittima, rivestirla con

abiti puliti, sino poi adagiarla - in alcune circostanze - accuratamente su di un

letto e/o una sedia. In genere, chi compie un’azione di undoing, si limita

semplicemente a coprire il viso della persona assassinata. Nell’esternazione di

25

Il termine - tradotto in italiano - significa letteralmente “rovina”, ma viene

adattato con “annullamento” o “disfacimento” in relazione ai

comportamenti acquisiti dall’offender sulla scena del crimine.

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sentimenti violenti, lontani da ogni senso di colpa, accade - invece - l’esatto

contrario: il reo depersonalizza la vittima rendendone irriconoscibile l’aspetto,

in particolare il volto, la parte del corpo che più ci identifica. Tale dinamica

comportamentale ha l’obiettivo di oscurare la relazione che intercorreva tra i

due soggetti, trasformando la vittima - attraverso un esasperato accanimento

fisico - da persona conosciuta a resti anonimi.

Non è raro, in situazioni di staging, l’inserimento di oggetti estranei all’interno

del corpo della vittima o - addirittura - la successiva mutilazione. Queste azioni,

in genere, hanno lo scopo di soddisfare le fantasie del reo, talvolta col preciso

desiderio di urtare il senso morale, scandalizzando la società o semplicemente

umiliando e disonorando la vittima. È possibile che alcuni gesti siano

direttamente collegati a rituali simbolici di cui solo l’autore può comprenderne

il significato.

Infine, vi è un’ultima classificazione di scena alterata, rinominata “Staging

terziario”. Tale categoria racchiude tutte quelle azioni agite dai familiari della

vittima che, casualmente, si imbattono nel ritrovamento del corpo. La maggior

parte dei casi riguarda morti avvenute in situazioni imbarazzanti o degradanti26

,

di conseguenza chi si ritrova nel contesto post omicidiario tenta di porre

rimedio acquisendo condotte di manipolazione volte a dare dignità alla persona

defunta. Geberth, in merito, è molto chiaro, affermando che “non bisognerebbe

26

Questi scenari sono ricorrenti nei casi di autoerotic fatality, particolari

pratiche di autoerotismo volte ad aumentare il piacere sessuale legato

alla masturbazione.

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utilizzare il termine messa in scena per definire quelle azioni modificatorie

compiute da un membro della famiglia, in quanto queste si limitano alla sola

copertura del cadavere e, talvolta, alla correzione del contesto equivoco in cui è

avvenuto il decesso del proprio caro”. Anche se prive di intento criminale, le

azioni involontarie modificano potenzialmente la natura della scena. È per tale

motivo che si struttura una nuova categoria, quella del “protective staging”,

definendo un cambiamento della scena del crimine - privo di dolo e senza

scopo di depistaggio - operato da persone diverse dal reo.

Per concludere, risulta essenziale riconoscere questo tipo di messa in scena,

scoprendo la vera natura del crimine e guidando l’inchiesta nella giusta

direzione.

Gli indicatori del camuffamento

Anche se il paragone può apparire limitato, l’identificazione e la lettura di una

scena del crimine manomessa rappresenta, a tutti gli effetti, una variazione

della tecnica di rilevamento dell’inganno. Quando si analizza una scena alterata

non vi è certezza che essa riproduca la realtà dell’accaduto, poiché ciò che si sta

osservando oscura le effettive dinamiche omicidiarie e l’idea stessa di crimine

allestita nella mente del reo (Gross, 1936). Esplorare con attenzione una messa

in scena non è poi così diverso dall’esaminare o conversare con un sospettato.

In entrambi i casi bisogna determinare quali siano gli elementi fuorvianti sulla

base delle prove a disposizione e sulla loro successiva interpretazione. L’unica

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differenza in merito è che gran parte della ricerca criminologica si focalizza

sulle tecniche di interrogatorio e sull’analisi della comunicazione verbale e non

verbale, supportata - in alcuni casi - da strumenti di rilevazione degli stati

fisiologici del soggetto (come il poligrafo, ad esempio). L’individuazione di

una messa in scena può contare soltanto sull’esperienza e la capacità di analisi

dell’investigatore? Come si individua un’attività di staging? Innanzitutto

partiamo dal presupposto che non esistono delitti perfetti. Organizzare una

scena del crimine coerente in tutti i suoi aspetti non è semplice, fortunatamente.

L’assenza di una lunga premeditazione, infatti, aumenta le probabilità di

commettere errori da parte dell’offender, contrariamente a quanto accade nei

reati pianificati. Compiere atti di manipolazione, tra l’altro, sottopone il

soggetto ad uno stress tale da non consentirgli di sistemare in maniera logica la

sequenzialità degli eventi. Senza dimenticare che è possibile lasciare tracce di

sé sul luogo del delitto. Il risultato di una scena camuffata, pertanto, non può

esimersi da un quadro complessivo ricco di incongruenze. Queste ultime

vengono paragonate a delle “bandierine rosse” (in gergo note come “red

flags”), dei moniti - in sostanza - che intimano a chi osserva di prestare

attenzione. Risulterà essenziale, dunque, scandagliare singolarmente tutti gli

indicatori indice di discrepanza. Infine, una volta contestualizzati, si potrà

procedere alla ricostruzione effettiva dell’evento criminoso, accertando o

escludendo la messa in scena.

Chisum e Turvey (2007), in proposito, suggeriscono un quadro esaustivo degli

elementi da vagliare con scrupolo, ovvero:

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Punti di entrata/Punti di uscita

Gli elementi della scena del crimine manomessi con più frequenza sono le

finestre, generalmente aperte e/o rotte. La mente dell’offender, infatti, cerca di

creare l’illusione di un atto irruento, portando l’attenzione di chi osserva

proprio su una precisa via d’accesso. Analizzare tutti i punti di entrata e di fuga

(porte, finestre, strade, percorsi etc.), verificandone l’accessibilità al momento

del reato, è un’azione imprescindibile.

Presenza di armi sulla scena/Rimozione di armi dalla scena

Ogni arma ritrovata sulla scena del crimine deve alimentare una serie di

interrogativi: l’arma trovata assieme alla vittima è quella che ne ha causato le

lesioni? Contrariamente, perché era presente sulla scena? Vi erano altre armi

sul luogo? Se sì, avevano uno scopo specifico?

A volte vi è la prova dell’uso di armi sulla scena del delitto, ma in numerosi

contesti non vengono ritrovate. Bisogna domandarsi, dunque, se sia possibile

dimostrarne la rimozione e, in caso affermativo, capire perché siano state fatte

sparire.

Armi da fuoco

L’arma da fuoco rappresenta la scelta più probabile per portare a termine un

delitto. In una scena del crimine è importante analizzare la coerenza che

intercorre tra le ferite riportate dalla vittima e il tipo di arma utilizzata. In caso

di suicidio si deve stabilire l’esatta dinamica balistica, valutando le reali

possibilità da parte della vittima di auto-direzionare il colpo. Un altro elemento

da non trascurare riguarda le condizioni dell’arma ritrovata (difettosa o meno,

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in grado di sparare colpi etc.) e la concentrazione di polveri da sparo, sia

nell’ambiente che sul cadavere (es. la maggior parte dei morti suicidi è a diretto

contatto con le polveri prodotte dallo sparo, pertanto l’assenza di residui sulle

mani indica che il colpo è stato esploso ad una distanza non propriamente

ravvicinata).

Movimento e localizzazione del corpo

Tipicamente, il luogo dove viene allestita la messa in scena, coincide con

quello dove si trova il corpo. Questo può legarsi all’impossibilità di spostare il

corpo o all’incapacità di ripulire la scena prima che esso venga scoperto. Per

confermare queste ipotesi è necessario esaminare le circostanze e le condizioni

che meglio affrontano la questione, o meglio:

- Evidenza di segni e macchie, molto spesso riscontrabili seguitamente

all’utilizzo del Luminol

- Abbigliamento concentrato e/o arrotolato attorno al corpo della vittima

- Livor e rigor mortis in contrasto con la posizione di riposo finale del corpo

- Tracce di sangue in posti dove non dovrebbe esserne rilevata la presenza

- Evidenti tracce sul corpo riconducibili a luoghi in completo contrasto con la

scena del crimine

Abbigliamento

I vestiti della vittima sono piegati o sollevati verso una precisa direzione? Una

persona che viene tirata per i piedi - generalmente - avrà la maglia sollevata,

con maggiore deviazione sul lato a diretto contatto con la superficie. Chi viene

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trascinato per le mani, invece, mostrerà i pantaloni abbassati e la maglia ben

tesa. Altre domande da porsi sono:

- La vittima è stata privata degli indumenti? Se sì, con quale scopo?

- Le tasche sono state perquisite? Cosa contenevano?

- Il corpo è rotolato tanto da mostrare un abbigliamento poco uniforme?

- Vi sono macchie sui vestiti che possano provare un eventuale

trascinamento (fango, vegetazione etc.)?

- C’è qualcosa di strano nell’abbigliamento?

- La vittima potrebbe essere stata rivestita dopo l’aggressione? Se sì,

perché il reo ha dato importanza a questo aspetto?

È bene che ogni circostanza venga esplorata a fondo: ad esempio, perché

inscenare un tentativo di rapina finito male senza portar via dal luogo del delitto

alcun oggetto di valore? Questo scenario è molto ricorrente negli omicidi

intrafamilari, ove in genere l’assassino è il partner. Allestire una rapina con

esito fatale all’interno di un abitazione è il tipo di soluzione che l’offender

sembra prediligere per confondere gli investigatori27

. In caso di furto simulato,

però, è opportuno vagliare con cura altri elementi:

- Assenza di segni di effrazione

- Evidenti forzature poste in corrispondenza dell’ingresso principale

27

I furti con effrazione rappresentano il 43,3% dei casi di staging, la

percentuale più alta seguita dai suicidi (12,8%), incidenti d’auto (12,1%) e

morti accidentali (11,3%).

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- Cassetti rimossi e gettati in maniera confusa al fine di inscenare un

rovistamento

- Cassetti rimossi e adagiati con cura per preservarne il contenuto

- Nessuna evidente ricerca di oggetti di valore

- Nessun prelevamento di oggetti

- Presenza di un’assicurazione sulla vita stipulata precedentemente dalla

vittima

- Deleghe e/o benefici concessi ad un membro della famiglia in caso di

morte della vittima (es. libero accesso ad un conto bancario di consistenti

dimensioni)

Ciascuna delle sopracitate condizioni è in grado di allarmare l’investigatore,

enfatizzandone i dubbi. E non c’è nulla di errato nel nutrire perplessità.

Tuttavia, tali condizioni possono verificarsi anche in assenza di staging.

Lo staging e l’interpretazione giuridica del reato

Se commettere un omicidio rappresenta di per sé un reato gravoso, ostacolare e

impedire il giusto prosieguo delle indagini (modificando il corpo del reato o la

scena del crimine, occultando e alterando prove) costituisce un comportamento

ulteriormente aggravante.

Il nostro ordinamento non prevede - in via specifica - delle disposizioni volte a

punire la condotta di chi intralcia un’indagine o un processo. Tutte le

circostanze mirate a contrastare l’acquisizione della prova o l’accertamento dei

fatti sono sussumibili ad altre norme incriminatrici, basti pensare alla falsa

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testimonianza, al favoreggiamento, alla calunnia e all’autocalunnia, alle false

informazioni rilasciate al pubblico ministero. Risulta chiara, dunque, l’esigenza

di riempire tale lacuna normativa. Attraverso la proposta di legge n.559-A,

viene riscritto l’articolo 375 del codice penale, introducendo la nuova

fattispecie delittuosa di “inquinamento processuale e depistaggio”. Il 24

settembre 2014 la Camera dei deputati ha approvato il provvedimento,

attualmente in commissione al Senato.

Cosa prevede l’inserimento di questa nuova tipologia di reato? Analizziamolo

nel dettaglio. Innanzitutto, al primo comma dell’articolo 1 viene stabilito che «è

punito con la reclusione fino da due ad otto anni chiunque, al fine di impedire,

ostacolare e sviare un’indagine o un processo penale

modifica artificiosamente il corpo del reato ovvero lo stato dei luoghi, delle

cose o delle persone connessi al reato

distrugge, sopprime, occulta o rende comunque inservibili, anche in parte,

un documento o un oggetto da utilizzare come elemento di prova o

comunque utile alla scoperta di un reato o al suo accertamento

forma o altera artificiosamente, in tutto o in parte, elementi di prova o

comunque utili alla scoperta di un reato o al suo accertamento».

Accanto a quella che è la fattispecie-base comune, sono previste ulteriori

ipotesi aggravate in cui l’inquinamento processuale diventa depistaggio,

pertanto comportano un aumento della pena. Le ipotesi di condotta sono le

seguenti, ovvero:

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quelle commesse da pubblici ufficiali, in cui la pena è aumentata da un

terzo alla metà

quelle concernenti reati di estrema gravità (strage, terrorismo, eversione,

associazione mafiosa, banda armata, associazioni segrete, traffico illegale

di armi e materiale nucleare, chimico o biologico o altri gravi delitti come

la tratta di persone e il sequestro a scopo estorsivo), in cui la pena oscilla

dai 6 ai 12 anni

quando le circostanze di cui ai numeri 1 e 2 concorrono, la pena di cui al

numero 2 è aumentata sino alla metà.

La condanna superiore agli anni tre di reclusione - nelle ipotesi aggravate -

comporta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

È prevista una riduzione della pena per chi aiuta i magistrati ad individuare i

colpevoli del reato, per chi ripristina le prove o lo stato di scena del reato

stesso.

Per concludere, con l’introduzione del reato di “depistaggio e inquinamento

processuale”, si va a riempire un drammatico vuoto che - per anni - ha

alimentato numerose zone d’ombra all’interno di determinate inchieste . Pur

non essendo stato principalmente concepito per punire le condotte di

alterazione compiute su una scena del crimine, tale provvedimento apre una

nuova pagina della democrazia italiana, dotando la magistratura degli strumenti

idonei a perseguire in maniera efficace tutti quei comportamenti torbidi, falsari

e depistatori, prevedendo - altresì - significative aggravanti laddove i fatti

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vengano compiuti da pubblici ufficiali. L’obiettivo è quello di garantire ai

cittadini verità e giustizia. A tutti i livelli.

Chi era Melania Rea? Autopsia psicologica e inquadramento della

personalità

Una donna bellissima. Questa la prima risposta che viene in mente a chiunque

si imbatta in una sua fotografia. Carmela Rea nasce a Napoli il 24 maggio del

1982. Il nome era una delle poche cose di sé stessa che non riusciva ad

accettare, ecco perché preferiva che gli altri utilizzassero l’appellativo di

“Melania”.

Al contrario, conscia e fiera della sua bellezza, Melania non mancava di curare

il suo aspetto: voleva essere apprezzata dal suo uomo, il caporalmaggiore

Salvatore Parolisi. Di lui si era perdutamente innamorata a prima vista,

osservandolo in un vecchio scatto esposto a casa di alcuni amici. L’uomo, da

quel momento in poi, entrerà nella vita della donna rappresentandone la

relazione affettiva più significativa.

I due convoleranno a nozze qualche anno dopo. E sarà proprio in nome di

questo amore che Melania si allontanerà da Somma Vesuviana, piccolo centro

in cui aveva vissuto sino a prima del matrimonio. È la strada che conduce a un

nuovo inizio, lontano dagli affetti familiari e dalle amicizie più care. Le attese, i

desideri e le aspettative a cui è ancorata questa giovane ragazza del Sud, sono

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Volume 20 N° 3 - 2015

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più forti di qualsiasi timore incusso da un cambiamento. Il cordone ombelicale,

però, non si è ancora spezzato del tutto.

La coppia si trasferisce a Folignano, cittadina della provincia di Ascoli Piceno,

principalmente per assecondare le esigenze lavorative di Salvatore Parolisi.

Difatti è qui che si trova la caserma ove svolge il suo doppio ruolo di istruttore

e caporalmaggiore dell’esercito. Le giornate di Melania sono scandite dai ritmi

lenti della vita casalinga, accelerati - circa un anno più tardi - dall’arrivo della

primogenita Vittoria. L’intero periodo della gravidanza è trascorso a casa dei

genitori, a Somma Vesuviana, ove la donna si sente più tranquilla

nell’affrontare il mistero della maternità. Qui torna a dormire nel suo letto,

nella sua stanza, come per rinsaldarsi a un lungo filo, forse quello dell’infanzia

e dell’adolescenza, rivivendo gli odori ed i rumori della sua terra.

Dopo la nascita della bambina, la neo mamma si dedica per intero alla sua

nuova famiglia e alla gestione della casa: non svolge un’attività lavorativa, non

instaura rapporti di amicizia che non siano vincolati all’ambiente del marito. Le

uniche frequentazioni si limitano ai vicini di pianerottolo. Melania, a

Folignano, non ha nessun altro all’infuori della sua stessa famiglia. Non pratica

sport, non coltiva hobbies, non possiede neppure un profilo facebook, spesso

collante con il mondo esterno e pretesto di evasione. Inoltre non dispone di

finanze autonome che le consentano di attuare scelte in piena libertà.

Queste informazioni suggeriscono un quadro di forte dipendenza affettiva della

donna nei confronti del marito. Si può essere caratterialmente determinati, ma

nel contempo incapaci di razionalizzare un rapporto di coppia, riversandovi

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ogni singola aspettativa. In un contesto di dipendenza la persona amata diviene

il detentore della verità, per cui si guarda con i suoi occhi e si pensa con la sua

mente. La paura dell’abbandono, della solitudine e della separazione, annienta i

propri desideri, pertanto ci si nega a sé stessi replicando copioni già noti.

Appare indubbio, a questo punto, come la scoperta di una relazione

extraconiugale possa far crollare quel mondo di certezze che il dipendente

affettivo ha edificato attorno a sé. Salvatore Parolisi ha un’amante, Ludovica,

sua ex allieva lì in caserma. Melania scopre di essere tradita, più volte e in un

arco temporale pressoché lungo, ma la sua condizione emotiva non le concede

di analizzare oggettivamente la realtà dell’accaduto. Perdona il marito, infatti,

con l’obiettivo di riscrivere un nuovo rapporto, investendovi - altresì - grosse

energie. Si sente umiliata, avvilita, ma non può lasciarsi fagocitare dal

fallimento, ammettendo di aver sbagliato qualcosa, forse. Tutti possiamo

commettere errori in preda ad un momento di debolezza. Ed è meglio

rammendare i solchi tracciati da una relazione fedifraga piuttosto che assistere

allo sgretolamento del sogno di una vita.

Accettare condotte sempre più inique comporta una violazione della propria

libertà, poiché non concede alcuna possibilità di autodeterminazione. Tale

tollerabilità comportamentale, dunque, non fa altro che vanificare gli ulteriori

sforzi destinati alla missione salvifica del partner28

.

28

L’atteggiamento di sottomissione è estremamente malsano per il dipendente,

in quanto fortifica aspettative irrealistiche sia di controllo che di

“risanamento” della relazione.

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Col passare del tempo, Melania, stenta a riconoscere le proprie doti e le proprie

qualità: la sua capacità di critica e di giudizio si affievoliscono, comportando

un’effettiva perdita del piano di realtà. Fa di tutto affinché le attenzioni del

marito tornino a catapultarsi esclusivamente su di lei, arrivando a mettere in

discussione anche il suo aspetto fisico. Perde venti chili, quasi a voler emulare

la longilineità destabilizzante della sua rivale. Questo ed altro per salvare

quell’agognato amore. È evidente, dunque, la condizione di sudditanza

psicologica in cui la donna versa.

Cosa accade, invece, quando Melania rinsavisce, constatando che ogni sforzo di

recuperare il rapporto amoroso sia vano, data l’indole reiterante del partner?

Reagisce, affermando la propria personalità. A questa esplicita volontà di

riappropriarsi dello status quo, tuttavia, corrisponde spesso un ostracismo più

subdolo: si ammala anche l’altra parte, frenando in tutti i modi un possibile

futuro distacco.

La descrizione dei fatti: timeline, personaggi e luoghi

È il 18 aprile del 2011. Sono circa le ore 14:00-14:15. Dopo aver consumato un

pasto frugale e sistemato qualche faccenda domestica, Melania propone al

marito di trascorrere un pomeriggio all’aria aperta. È una bella giornata. A

Pianoro San Marco, zona collinare ove i due si recano di consuetudine, c’è

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anche un ampio spazio dedicato ai giochi. Un’ottima location, dunque, per

concedersi un po’ di relax e far divertire la loro bimba.

Il luogo si trova a circa venti minuti d’auto dall’abitazione della coppia. Alle

14:35, seguitamente alla decisione di recarvisi, i tre sono già sul posto.

Salvatore non perde tempo ed inizia ad assecondare la giocosità della

figlioletta, portandola alle altalene. Melania, invece, ha urgenza di andare in

bagno. Nelle vicinanze si trovano alcune toilettes pubbliche, di certo non

raccomandabili in quanto a pulizia. E la donna è intransigente su tale aspetto.

Pertanto preferisce camminare qualche metro in più raggiungendo un

bar/ristorante dotato di servizi igienici, senza dubbio sufficientemente decorosi.

Salvatore si offre di accompagnarla, ma la bimba recalcitra, mostrando la chiara

intenzione di non volersi staccare dai giochi. Melania, quindi, decide di

allontanarsi da sola. Il marito acconsente, chiedendole di portagli un caffè al

ritorno29

.

La donna non dovrebbe impiegare molto tempo, pur scegliendo il percorso più

lungo. Invece i minuti scorrono, senza ch’ella ricompaia. Sembra che quei

boschi popolati da fitti abeti l’abbiano letteralmente inghiottita. Salvatore si

allarma, non vedendola rientrare. Prova più volte a contattare telefonicamente

la donna, senza ricevere alcuna risposta. Alle 16:34, di conseguenza, segnala al

112 la scomparsa della moglie. Quando l’operatore del 112 risponde, però,

29

Verrà successivamente appurato che la donna non aveva con sé la borsa. In

tasca le verranno trovati soltanto pochi centesimi, di certo non

sufficienti a sostenere il costo di un caffè.

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dall’altro capo del telefono non c’è Parolisi, bensì la proprietaria del

bar/ristorante “Il cacciatore”. È qui, nei bagni di questo locale sito a poche

centinaia di metri alle altalene, che Melania sarebbe dovuta arrivare. Salvatore

Parolisi, subito dopo aver composto il numero, viene colto da improvvisi conati

che lo costringono ad allontanarsi. Sembra particolarmente e prematuramente

scosso, considerando che la moglie è sparita solo da mezz’ora. Una volta

rientrato, impugna nuovamente il telefono e cerca di spiegare all’operatore

quanto accaduto.

Da quel momento partono immediatamente le ricerche, concentrandosi nella

zona di Pianoro San Marco. In quei frangenti il cellulare di Melania risulta

ancora acceso, squilla, agganciando la cella di Civitella del Tronto. I cani da

mantrailing, giunti sul posto assieme alle forze dell’ordine, fiutano le tracce

della donna seguendo un percorso del tutto anomalo.

Per raggiungere i bagni del bar/ristorante “Il cacciatore” Melania sceglie la

strada più lunga. Perché allungare il cammino, soprattutto in condizioni di

necessità immediata? Bisogna considerare che, la donna, non era estranea a

quei luoghi, dunque appare strano che abbia perso l’orientamento. L’ipotesi di

una eventuale aggressione, tra l’altro, non è suffragata da alcun dato, in quanto

nessuno ha udito urla e/o assistito a scene sospette. Così come risulta

inverosimile la scelta di cercare un posto isolato nei boschi, preferendolo ai

bagni pubblici.

Il racconto e gli orari enunciati sin’ora si basano su quanto dichiarato dal marito

Salvatore Parolisi, il quale, successivamente, applicherà una serie di

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“aggiustamenti circostanziali” alle sue successive ricostruzioni. Le principali

red flags, difatti, vengono riscontrate nella timeline, in quanto all’interno

dell’arco temporale indicato dall’uomo non emergono riscontri testimoniali che

supportino la presenza della coppia in località Pianoro San Marco, dove si trova

il parco giochi30. Gli unici elementi attendibili forniscono l’orario in cui

Melania e Salvatore lasciano l’abitazione di Folignano.

Una delle poche certezze viene fornita dall’analisi delle celle telefoniche: il

cellulare di Melania si trova in zona Ripe di Civitella già dalle 14:53, momento

in cui una sua amica prova a contattarla senza ricevere risposta. Sussegue un

secondo tentativo qualche minuto più tardi, alle 14:56, anche questo con esito

negativo. Appare dubbio che Melania non abbia sentito le chiamate, in quanto è

sua consuetudine impostare la suoneria del telefono ad un volume notevole.

Pertanto sembra chiaro che in quel lasso temporale la donna non fosse più nella

condizione di rispondere. O perché già morta, o perché in balìa del suo

assassino..

Le ricerche, partite subito dopo la segnalazione al 112 da parte di Parolisi,

proseguono fino a sera inoltrata senza dare risultati. Il giorno appresso, il 19

aprile, si consumano ulteriori perlustrazioni. La zona viene scandagliata

scrupolosamente, utilizzando ancora una volta i cani molecolari. La situazione

non cambia.

30

Gli investigatori hanno vagliato le dichiarazioni di ben 52 testimoni oculari

che - tra le 14:15 e le 15:30 - si trovavano nel medesimo luogo.

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Tutto precipita attorno alle 16:00 del 20 aprile, quando una telefonata anonima,

proveniente da una cabina pubblica, giunge ai centralini del 113. Un uomo, con

tipica inflessione locale, segnala la presenza di un corpo nel bosco di Ripe di

Civitella. Non fornisce ulteriori dettagli, riaggancia prima ancora che

l’operatore possa effettuare approfondimenti.

Il personale del Comando provinciale dei carabinieri di Teramo effettua un

primo sopralluogo sul posto segnalato, dando atto che il cadavere rinvenuto

corrisponde a quello della giovane Melania Rea. Il corpo è supino, adagiato in

terra, presentando pantaloni, collant e slip abbassati poco sotto il ginocchio. Gli

abiti sono macchiati di sangue, mentre schizzi e gore ematiche indicano la

posizione della donna al momento dell’aggressione. La pelle livida non

nasconde gli evidenti segni di sfregio effettuati all’altezza di ventre e cosce.

Una siringa trafigge il seno sinistro, mentre un laccio emostatico è abbandonato

a poca distanza. Non sono presenti segni di lotta e trascinamento riconducibili

alle fasi antecedenti l’omicidio.

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L’uccisione di Melania : analisi e ricostruzione della dinamica omicidiaria

La scena che si presenta agli inquirenti negli instanti successivi al ritrovamento

del cadavere di Melania Rea è agghiacciante. Ci si trova dinanzi ad una donna

straziata, divenuta oggetto di estrema e reiterata aggressività. Il suo corpo è

stato massacrato con 35 coltellate, di cui una alla gola ed un’altra al cuore,

probabilmente mortale. Un vero e proprio assedio. Risultano evidenti altre

ferite da taglio, dei colpi superflui inferti al termine della fase omicidiaria. Si

tratta di un accanimento, in criminologia meglio noto come overkilling. In

questi casi l’offender infierisce ripetutamente sulla vittima col solo scopo di

sfregiare il corpo o terminare l’impeto delittuoso, in quanto ne è già

sopraggiunto il decesso.

La violenza agita ai danni di Melania è riconducibile ad un’aggressività

espressiva, ovvero quell’impulso fattuale caratterizzato da forti componenti

emotive (frustrazione, rabbia, irritazione etc.). Tali comportamenti, in genere,

prendono forma all’interno di un contesto relazionale, ove il movente

passionale ne costituisce la causa scatenante. Di primo acchito, dunque, sembra

chiaro che l’uccisione di Melania Rea rappresenti un delitto d’impeto,

definizione che non esclude un’eventuale premeditazione, ma che ne esplicita

le motivazioni. Gli omicidi collocabili in questo scenario, infatti, derivano

spesso da separazioni non volute e/o da liti e dissapori all’interno della coppia.

Gran parte dei reati violenti, inoltre, suggerisce una relazione tra vittima ed

aggressore tanto che - l’efferatezza utilizzata ai fini dell’evento delittuoso - è

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direttamente proporzionale all’affettività investita precedentemente nella

coppia vittima-offender.

L’accoltellamento della Rea è avvenuto nello stesso luogo ove è stato rinvenuto

il cadavere, a distanza di un paio d’ore dall’assunzione dell’ultimo pasto. Il

corpo giaceva disteso in terra sulla schiena, parzialmente svestito, con slip e

pantaloni abbassati poco più in basso delle ginocchia.

Probabilmente l’acting criminale è stato immediato ed inaspettato, cogliendo la

donna durante l’atto della minzione. Ulteriori dettagli emergono dagli abiti:

l’assenza di lacerazioni fa presumere che Melania si sia svestita

volontariamente. Per giunta, gli imbrattamenti ematici rinvenuti sui suoi

pantaloni sono concentrati nella parte interna e retrostante, mentre le ferite sul

dorso sono poco profonde e direzionate dall’alto verso il basso. Tutto ciò

convalida un’azione aggressiva avvenuta alle spalle della donna.

Melania, dopo essere stata colpita, ha cercato di divincolarsi percorrendo

qualche metro, ma gli abiti abbassati al di sotto delle ginocchia le hanno

impedito un’adeguata deambulazione. Questo suo spostamento, comunque, ha

fatto sì che l’aggressore le somministrasse ferite non mortali. In seguito,

purtroppo, viene abbattuta di forza e collocata in posizione supina: in tale fase

si concentra l’iper accoltellamento diretto alla regione toraco-addominale. La

donna ha tentato di difendersi con braccia e mani, circostanza supportata dai

tagli riscontrati in prossimità degli arti superiori. In un secondo tempo svanisce

ogni tipo di resistenza: è qui che l’offender colpisce ripetutamente la regione

pettorale sinistra della vittima, producendo lesioni vicine ed allineate, frutto di

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una medesima impugnatura dell’arma. Melania presentava alcune ferite

superficiali da punta e taglio anche sul mento ed il collo. L’aggressore ha

tentato di reciderne le strutture vitali, condizione impedita dalla reattività della

donna che - in qualche modo - è riuscita ad attutire l’impatto della violenza

lesiva. L’infiltrato ematico in sede frontale, l’ecchimosi sulla coscia sinistra, le

scarpe e le ginocchia imbrattate di terriccio, infine, rappresentano elementi

prodottisi in seguito ad un atterramento della vittima, scaraventata al suolo con

un pugno.

Melania, dunque, è stata uccisa a sua “insaputa”, investita improvvisamente da

una serie di colpi lesivi provenienti dalle spalle. L’offender ha cercato di

sgozzarla, invano, per poi aggredirla con una successiva raffica di coltellate

frontali, tra cui una profonda al fegato. La donna non ha avuto modo di

difendersi attivamente, forse non conscia di quanto stesse accadendo in realtà.

Ciò lo dimostra l’integrità del trucco, così come l’assenza di smagliature e

strappi su pantaloni, collant e mutandine, quasi sicuramente abbassati di propria

volontà. La morte è sopraggiunta dopo circa una decina di minuti dall’inizio

dell’azione omicidiaria. Si ritiene che l’assassino abbia abbandonato il posto

mentre Melania era ancora agonizzante.

La scena del crimine diviene più complessa alla luce della manomissione

operata sul corpo della Rea, il quale si presenta altresì contornato da una serie

di elementi di indiscusso interesse investigativo.

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Accertamenti medico-legali, tempo della morte e lettura delle tracce

ematiche

Le conclusioni medico-legali relative all’autopsia effettuata sul corpo di

Melania Rea ne identificano la morte in un arco temporale compreso tra le

13:30 e le 15:30 del 18 aprile 2011, giorno in cui la donna scompare. Il decesso

è avvenuto ad una distanza di circa due ore dall’ingestione dell’ultimo pasto e,

presumibilmente, entro un’ora dall’assunzione di una bevanda a base di

caffeina.

I punti saldi dell’indagine autoptica partono dall’orario in cui la donna ha

pranzato, ovvero le 13:36: è Ella stessa a renderlo noto durante una

conversazione telefonica intrattenuta con la madre. Dalla relazione

dell’anatomopatologo Adriano Tagliabracci si evince nel dettaglio che:

- Melania è deceduta a seguito di un’anemia emorragica acuta insorta a

causa delle numerose ferite somministratele con un’arma da punta e taglio.

Il capo, il tronco, il collo e gli arti superiori sono state le regioni più

colpite.

- L’assassino ha tentato uno scannamento, rivelatosi poi infruttuoso. La

vittima ha cercato di darsi alla fuga, ma una volta atterrata al suolo è stata

ripetutamente colpita all’altezza del collo, della regione mentoniera,

addominale e sternale. L’impugnatura dell’arma è risultata essere la

medesima per tutto il corso della fase aggressiva, segnalando l’azione di un

soggetto destrimane.

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- L’esame dei luoghi ha fatto sì che venissero scartate le ipotesi di

trascinamento o spostamento del corpo, in quanto il fogliame boschivo è

risultato uniforme.

- La vittima è stata uccisa nello stesso luogo in cui ne è stato ritrovato il

corpo.

- Le condizioni del cadavere hanno mostrato piena compatibilità con il lasso

temporale in cui il corpo ha soggiornato nel luogo del delitto dal momento

in cui è avvenuto l’evento omicidiario.

- Le ferite collocate in prossimità della regione ipogastrica e delle cosce

sono state inferte dopo la morte.

- È stata riscontrata la presenza di batteri soltanto sulla superficie dei tessuti

lesi, di conseguenza si presume che le ferite post-mortem siano state

applicate da un rimaneggiamento cadaverico avvenuto nelle ore

antecedenti al ritrovamento.

- Le lesioni post-mortali sono state inferte con uno strumento diverso

rispetto a quello da punta e taglio che ha prodotto le lesioni vitali. Fra

l’omicidio e la produzione delle suddette lesioni (figurate su cosce ed

addome) deve essere trascorso un lasso temporale sufficiente a consentire

l’essiccamento delle tracce ematiche.

- La morfologia delle ferite rinvenute sul corpo mostra piena compatibilità

con l’utilizzo di una sola arma.

- Le lesioni da taglio site attorno a collo e mento sono state somministrate da

un offender destrimane posizionato alle spalle della vittima.

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- La quantità di sostanza ematica rilasciata sul terreno è stata ingente,

dunque il luogo dell’uccisione è conciliabile con quello del rinvenimento

del cadavere.

- La morte di Melania Rea è intervenuta dopo un tempo agonico di circa

dieci minuti.

- La lesione contusiva constatata in prossimità del capo è frutto di un corpo

contundente privo di rilievi grossolani (come ad esempio un pugno o un

oggetto con la medesima superficie fisica).

Sul luogo del delitto, così come sullo stesso corpo, sono state altresì effettuate

delle ricerche di tracce biologiche che potessero portare all’identificazione

dell’aggressore. Dagli accertamenti è emerso che le uniche tracce biologiche

rinvenute sulla vittima si collocavano attorno alla regione labiale e all’interno

dell’arcata dentaria. Il materiale analizzato ha ricondotto ad un medesimo

soggetto, ovvero Salvatore Parolisi, marito di Melania. Non è stato possibile

definire il tipo di contatto che ha permesso ad elementi cellulari estranei di

depositarsi tra le mucose della Rea. La contaminazione potrebbe essere stata

conseguenza di un bacio o di un contatto cutaneo.

A completare il quadro, infine, concorre la relazione BPA31

(Bloodstain Pattern

Analysis), la quale fotografa i dettagli salienti della fase omicidiaria. Nello

specifico, si giunge alle seguenti conclusioni:

31

Con il termine BPA - Bloodstain Pattern Analisys - si definisce l’innovativa

tecnica di studio, interpretazione e valutazione delle tracce di

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148

- Nei primi momenti dell’aggressione Melania aveva senza dubbio gli indumenti

(pantaloni, collant e mutandine) abbassati al di sotto delle ginocchia. Ciò è

spiegato dalle visibili tracce ematiche rinvenute sulle gambe del cadavere.

- La direzione delle colature di sangue depositate sulla coscia destra, le

cosiddette flow patterns, lasciano pensare che l’arto della vittima abbia assunto

una posizione verticale poggiandosi sul suolo. A suffragio di tale ipotesi

concorre un’escoriazione ben visibile sul ginocchio destro.

- A seguito dell’atterramento la vittima si è accasciata in terra

poggiandosi sul fianco destro. Dopo un certo intervallo agonico, probabilmente,

si è girata da sola assumendo la posizione supina. La rotazione del corpo è

supportata anche dalla disposizione dei capelli sul terreno, naturalmente protesi

verso destra.

- Nelle fasi successive all’aggressione la maglietta di Melania (che

doveva mostrarsi calata sino in prossimità del pube) è stata sollevata. L’azione

veniva agita a seguito della parziale essiccazione del sangue. In tale circostanza

l’offender ha praticato atti di vilipendio (come le incisioni sulla cute site nella

zona del ventre).

- La distribuzione delle tracce ematiche adiacenti al luogo in cui è stato

rinvenuto il cadavere della donna è indice di un meccanismo di proiezione.

sangue. Attraverso tale strumento è possibile raccogliere una serie di

informazioni che permettono - in un secondo momento - la ricostruzione

degli eventi, la loro successione e l’origine dei fatti.

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Quest’ultimo viene provocato per effetto della forza centrifuga quando il

sangue si distacca da una superficie

- Il contesto delittuoso suggerisce una distribuzione delle tracce

ematiche come conseguenza del brandeggio di un fendente insanguinato.

Attraverso la misurazione dell’angolo d’impatto delle macchie di sangue è stato

possibile individuare la porzione di terreno interessata dall’aggressione mortale.

Il movimento dell’azione lesiva ha determinato un’immediata e cospicua

fuoriuscita di sostanza ematica che, depositatosi sulla lama del coltello, è stata

seguitamente e coerentemente proiettata verso destra (tracce da cast-off), in

prossimità del marciapiede circostante la casetta di legno presente sulla scena

del crimine.

Il tentativo fuorviante di inscenare una violenza sessuale?

L’omicidio di Melania Rea rappresenta uno dei casi più emblematici di cronaca

nera ove la scena del crimine assume le connotazioni dell’adulterazione, a tratti

quasi enfatizzata. Gli elementi utilizzati per artefare tale delitto, così come gli

agiti di rimaneggiamento e vilipendio adottati, non presentano -

apparentemente - alcuna connessione logica tra loro. Lo scenario è quello di

una donna denudata, una siringa che ne trafigge il petto, strane simbologie che

solcano la cute: gestualità divergenti che narrano il chiaro tentativo di depistare

la realtà dell’accaduto. È questo il fine ultimo di ogni atto di staging, sviare i

sospetti allestendo sfondi che ostentino discrepanze. Sì, perché è quasi

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impossibile non commettere errori ed esimersi dalla responsabilità omicidiaria.

Se le circostanzialità, spesso, favoriscono il reo esonerandolo dal rilascio di

impronte o tracce, la personalità ed il legame intrattenuto con la vittima ne

tradiscono le azioni. La manipolazione di una scena del crimine, infatti, è

sempre riconducibile ad uno specifico contesto relazionale: è raro che un

estraneo organizzi uno staging, in quanto soggetto avulso guidato da fattori

transitori esterni.

Sappiamo che la donna aveva urgenza di espletare un bisogno fisiologico, ma

non si comprende perché abbia percorso circa 15 chilometri alla ricerca di un

bagno. In fondo, a poche centinaia di metri dal luogo in cui si trovava, era

possibile trovarne più di uno. Dalle descrizioni caratteriali e dai racconti della

sua famiglia, inoltre, è emerso il ritratto di una ragazza che difficilmente

avrebbe approfittato dei campi per dar sfogo ad un’impellenza, piuttosto si

sarebbe trattenuta.

Dunque, l’ipotesi da prendere in considerazione probabilmente è un’altra,

ovvero quella che Melania potrebbe essersi spogliata per consumare un

rapporto sessuale. Poiché la donna si è svestita di propria volontà, com’è

mostrato dall’integrità degli abiti, un’eventuale aggressione da parte di un sex

offender sembra non reggere a priori. La vita privata di questa giovane ragazza,

tra l’altro, è stata passata al settaccio senza che siano emerse relazioni

extraconiugali: nessuna piega, nessun lato oscuro. Che cosa ha spinto, quindi,

Melania a spogliarsi?

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È nell’intimità di tale contesto, così poco agevole per offrire una fuga o un

appiglio di difesa, che la donna viene ritrovata. La scena che si presenta agli

occhi di chi osserva appare inequivocabile: Melania non solo è stata oggetto di

un’efferata violenza, ma con molta probabilità ha subìto un abuso sessuale.

Questa supposizione verrà poi smentita dalle indagini medico-legali, le quali

scarteranno l’iniziale convincimento di un’aggressione sessuale perpetrata.

Quel contatto sessuale non sopraggiunto, forse a seguito di un ripensamento, ha

rappresentato il fattore scatenante la collera cieca dell’assassino. Ed è proprio

qui, nell’umiliazione postuma alla negazione, che si erige una squallida messa

in scena. L’approccio fallito, o l’illusoria promessa di un momento intimo,

divengono il mezzo attraverso il quale allestire una realtà dismorfica,

infangando la dignità della vittima: è un’altra Melania quella che si vuole

mostrare, una donna che - in balìa delle sue voglie - improvvisamente non si

cura di eventuali occhi indiscreti. Non dimentichiamo che, quel giorno, la

vittima non è sola in quei luoghi: lo scopo della scampagnata a Colle San

Marco, infatti, consisteva principalmente nel regalare qualche momento

d’ilarità alla sua bimba. Possibile, quindi, che un inaspettato egoismo libidico

abbia preso il sopravvento - anche solo per pochi istanti - reprimendo

l’apprensione materna? Può, una giovane madre, decidere di consumare un

rapporto sessuale dinanzi alla figlia neonata, benché dormiente? In caso

contrario, ovvero scartando la presenza della piccola, con chi si trovava

Melania in quei momenti? Qualcuno doveva pur occuparsi della bambina.

Appare ovvio, a questo punto, che l’aggressore indossasse una maschera già

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conosciuta. L’atto del denudarsi è strettamente connesso alla variabile della

fiducia ed il volto della donna contribuirà a spezzare ogni mutismo

circostanziale. Melania, infatti, mostra un trucco intatto non dilavato da

lacrime, condizione che escluderebbe il tentativo di approccio da parte di un

estraneo. Tra l’altro, la somma di tutti gli elementi conduce alla simulazione

intenzionale di un omicidio dal movente sessuale: il posing32

del corpo, la

parziale nudità, la manomissione del cellulare in uso alla donna. Come

sostenuto da Geberth, l’offender in tali contesti esterna sentimenti di rabbia e di

rappresaglia, di conseguenza il sesso si trasforma nell’arma con cui punire e

degradare la vittima. Il posizionamento del cadavere rappresenta quasi sempre

il primo fattore d’incongruenza. In questa tipologia di messa in scena

l’obiettivo primario (nonché esplicito) è quello di crearsi un alibi (2010).

L’attuazione di determinati comportamenti, prima e dopo il crimine, riflettono

la natura spontanea e a tratti simbolica di questo omicidio. A partire dal luogo

stesso, conosciuto dalla donna e sporadicamente frequentato in passato. Le

modalità di commissione del delitto sottolineano una mancanza di preparazione

da parte dell’assassino, il quale ha agito senza dubbio in preda all’impeto.

32

Il “posing” identifica l’atto dell’offender nel riposizionare il corpo della

vittima. Attraverso tale condotta il reo vuole

comunicare un messaggio specifico a chi osserva. Le possibilità sono varie:

dall’intento di inscenare un crimine diverso rispetto a quello

commesso, alla vergogna provata per l’atto stesso. I corpi, spesso, possono

essere ritrovati in pose sessuali o per assecondare la fantasia del killer

o come semplice gesto di disprezzo nei confronti della vittima.

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L’aggressione a sorpresa, mossa alle spalle della vittima, ne provoca il decesso

in tempi brevi eliminando - dunque - tutta quella serie di elementi di costrizione

e legature a cui in genere un offender si appiglia. Il posing del corpo e il suo

parziale svestimento, oltretutto, non rappresentano una specifica espressione

mentale del reo, ma costituiscono semplici elementi di ancoraggio situazionale.

Lo scenario più credibile da allestire trova quindi risposta nel tentato stupro,

fortificato altresì dalle contingenze ambientali (il posto ove viene rinvenuto il

corpo della povera Melania è abbastanza isolato e difficilmente raggiungibile

senza l’ausilio di un’automobile).

Dall’overkilling all’incisione della svastica: codifica dei significati

In un delitto così intricato, dove la prova scientifica rappresenta la pedina

mancante della scacchiera, è necessario attingere ai numerosi e contrastanti

indizi disseminati sulla scena del crimine per cercare di trarre soluzioni

investigative. Questa triste e amara vicenda di cronaca nera insegna, ancora una

volta, che è il corpo della vittima che fornisce le informazioni più esaustive in

merito alle dinamiche omicidiarie ed ai comportamenti adottati dall’assassino.

Melania ha costituito il bersaglio verso cui è sfociata una reiterata violenza, sia

nel corso della fase aggressiva, sia nei momenti successivi la morte (a breve e a

lungo termine). Il viscerale accanimento agito sul suo cadavere è racchiuso in

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un centinaio di fotografie che, seppur agghiaccianti, offrono dettagli inediti e di

fondamentale importanza ai fini dell’inchiesta e dei relativi accertamenti.

“L’ultraomicidio”33

, nel caso specifico, non si è limitato ai trentacinque colpi

inferti alla vittima, ma ha dato forma ad un intricato groviglio di simbologie, a

tratti quasi indecifrabile. Le sevizie di cui il corpo è stato oggetto hanno

permesso, approssimativamente, di catalogare la personalità dell’uccisore.

Per comprendere il significato dei disegni incisi sulla cute occorre partire da

una premessa indispensabile. Nel compimento di un’azione delittuosa,

l’offender mette in atto una serie di comportamenti, dalla scelta del luogo allo

stile dell’aggressione, per poi giungere alla selezione del tipo di arma da

utilizzare nel corso dell’evento omicidiario. Tutto ciò rientra nel concetto di

modus operandi, il quale definisce l’insieme delle condotte acquisite dal reo

mirate a sottolinearne lo stile comportamentale (Canter, Alison 2004). Risulta

difficile, tuttavia, identificare un assassino soltanto dal suo modus operandi,

soprattutto se il crimine non rientra in una serialità. Ad ogni modo, non bisogna

sottovalutare l’insieme delle informazioni che l’agito comportamentale può

esibire in merito ad abilità e conoscenze criminali, sia per quanto concerne la

relazione intrattenuta con la vittima, sia per il livello di familiarità mostrato con

la scena del crimine. Questi aspetti devono essere tenuti in considerazione da

33

La criminologia indica con l’accezione inglese “overkilling” quegli omicidi

particolarmente violenti agiti da psicopatici che non controllano

gli eccessi di rabbia e violenza, includendo quelli portati a termine da persone

connesse alla vittima, in cerca di vendetta e perciò disposte a

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chi si appresta a stilare un profilo, in quanto possono condurre al presunto

colpevole.

C’è un secondo elemento, decisamente interessante, che prende il nome di

signature, meglio noto come firma criminale. Si tratta di un aspetto peculiare -

caratterizzato e caratterizzante - praticato al fine di appagare una necessità

emotiva. Tale gesto non è strumentale alla commissione di un delitto, ma

esprime le dimensioni intrapsichiche e di personificazione del reo. In buona

sostanza, la signature rappresenta una sorta di biglietto da visita capace di

raccontarne i pensieri, le fantasie e lo stesso movente. Una delle firme più

tipiche consiste proprio nel tagliare e nell’incidere.

Nell’omicidio Rea, i segni scalfiti sulla pelle appaiono inquietanti proprio in

relazione alla simbologia espressa: una croce di Sant’Andrea sul basso ventre,

una specie di grata a grosse maglie sulla coscia destra e una svastica su quella

sinistra. Quale significato si cela dietro tali ferite? La dichiarazione di un folle

ispirato a ideologie estremistiche? O forse la firma di un adepto appartenente a

qualche setta esoterica? Nulla di tutto ciò, probabilmente. Mancano, infatti, le

tipiche simbologie utilizzate dai satanisti e dalla magia nera (ad esempio il

disegno di una stella a cinque punte, residui di ceri accesi, cerchi formati da

sassi e via dicendo). È verosimile, d’altra parte, che gli attacchi sadici praticati

sui cadaveri siano una delle perversioni più comuni nelle organizzazioni

settarie. Tagliare, sfregiare, squartare e asportare organi vitali - infatti -

sfogare tutta la loro frustrazione nell’atto criminale.

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rappresentano le ritualità preferite da questi culti. L’analisi delle ferite post

mortem riscontrate sul corpo di Melania esclude l’ipotesi di signature: secondo

l’anatomopatologo Tagliabracci, esse sarebbero state inflitte in un arco

temporale compreso tra i 30-60 minuti successivi al decesso, mentre alcune

precederebbero addirittura di qualche ora il ritrovamento del cadavere. Appare

strano, quindi, che l’assassino intento a comunicare un messaggio mediante la

sua firma si dimentichi di farlo subito dopo il compimento dell’evento

omicidiario, decidendo di ritornare sulla scena del crimine per ultimare il

proprio disegno. Suddividere l’atto in più stadi è sicuramente molto rischioso,

ma un efferato camuffamento può voler esprimere un gesto di sfida

dell’offender indirizzato agli inquirenti34

. Nel caso in esame risulta chiaro che

gli oltraggi effettuati sul corpo della povera donna rientrino in un contesto di

alterazione funzionale, lungi dal riprodurre la firma del carnefice.

Lo staging, nel suo complesso, delinea in maniera esplicita la predisposizione

dell’assassino verso una volontà rappresentativa, in quanto persona legata alla

vittima da qualche tipo di relazione. La croce uncinata, il simbolo più

inquietante intagliato sul cadavere della Rea, si rivela di difficile

interpretazione. Il significato assunto dall’emblema, infatti, varia a seconda

delle circostanze e dei gruppi che lo impiegano. La sua lettura viene spesso

associata al rifiuto di Cristo, incorporando la figura del diavolo. Pochi sanno

che essa riproduce anche il trono pontificio, incarnando il martirio di San Pietro

34

Questo comportamento acquisito dal reo viene definito game playing.

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condannato alla crocifissione (il capovolgimento della croce rappresenta la

cessione del primato della fede). Nell’analisi esoterica della svastica, tuttavia, il

riferimento all’ideologia nazista è inevitabile. Ed è forse quello più immediato

da cui attingere senso. Il verso antiorario del simbolo, storicamente rovesciato

da Hitler, sancisce un carattere distruttivo ed oppressivo.

Mettersi seduti a terra ed incidere addome e cosce di un cadavere ricoperto di

sangue non è affatto facile, soprattutto se si tratta di una bella donna in

posizione supina con ancora gli occhi aperti. Forse è meglio aspettare che ne

sopraggiunga la morte, così da acquisire la giusta dose di audacia. La mano del

reo, difatti, non produce solchi amorfi come in balìa di un oscuramento

crepuscolare della coscienza, ma traccia segni precisi, mostrando una certa

dimestichezza con la cute umana. Le linee orizzontali, verticali e parallele

raffiguranti il complicato groviglio di intagli non presentano sbavature, se non

quelle derivate dai colamenti ematici. I tratti sono chiari, quindi agiti senza

alcuna esitazione, in uno stato abnorme di ordine mentale. Nel contempo

risultano delicati e poco profondi, come se l’offender avesse esaurito la carica

emotiva investita nelle fasi iniziali di overkilling35

. Ad ogni modo lo scopo di

una parziale depersonalizzazione è rimasto intatto. La svastica è il disegno che

colpisce maggiormente, a differenza degli altri di difficile comprensione grafica

35

L’arma utilizzata per scalfire le lesioni post-mortali si è rivelata diversa

rispetto a quella che ha provocato il decesso della vittima. Gli strani

disegni non sono stati realizzati con un coltello, ma con un oggetto a punta

leggermente tagliente. Forse un cacciavite, o persino un ramo

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(dove comunque pare intravedere la medesima simbologia). La semplicità di

realizzazione, come forse qualche reminiscenza collegata al proprio retaggio

culturale, ha spinto l’offender ad operare questa specifica selezione. Non

dimentichiamo che, seppur depistando, solo chi vuole esternare un determinato

concetto decide di ispirarsi a segni così particolari. E lo fa comunicando

qualcosa di sé e della sua stessa preda. La semiotica racchiude sempre un’idea.

Melania ha subìto l’accettazione obbligata della sofferenza, come se la morte

fosse conseguenza diretta delle sue azioni passate. L’oltraggio aggressivo non

ne ha sfigurato semplicemente il fisico, ma ne ha punito i vissuti per mezzo di

una fine ingloriosa. Il significato della croce uncinata esplicita un sentimento di

ripugnanza nei confronti della donna, ove la nudità ed il posing ne rafforzano

l’offesa. Una forma di discriminazione etero-diretta, forse, indirizzata al suo

forte attaccamento emotivo, al suo essere salda ai princìpi di un tempo, alle sue

origini. I fregi postumi all’azione omicidiaria diventano monito di rancore, una

forma di repressione attuata come risposta ad un precedente impedimento.

Questi gesti impietosi narrano di una personalità schizofrenica, borderline,

perversa ma lucida, il cui odio e disprezzo diventano marchi incisi sulla carne.

spezzato.

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La siringa e il laccio emostatico: elementi circostanziali o frutto di

premeditazione?

Giovani donne sgozzate e lasciate seminude in un bosco. Gli occhi spalancati a

guardare il cielo, le mani giunte in preghiera. Il classico copione di una

macabra rappresentazione teatrale, come nel caso del delitto Rea.

I luoghi tra l’ascolano e il teramano - in apparenza tinti di solo verde - si erano

già macchiati di sangue in passato, poiché testimoni e custodi di un altro

efferato crimine. Nel 2010 sparisce improvvisamente una donna, Rossella

Goffo, funzionaria presso la prefettura di Ancona. Il suo cadavere verrà

rinvenuto nel gennaio dell’anno successivo, appena una manciata di mesi prima

dell’uccisione di Melania. I resti erano stati occultati proprio a Colle San

Marco, quasi sicuramente a seguito di una morte per strangolamento operata

con l’ausilio di un laccio. Le analogie tra i due omicidi avevano fatto

presupporre l’esistenza di un serial killer, ipotesi scartata dopo numerose e

comprovate indagini. Lo scenario di Ripe di Civitella, tanto è vero, si è

mostrato unico proprio in relazione al goffo tentativo di allestire un

depistaggio. Un giallo quasi da manuale se non fosse per quella serie di

contraddittorie simbologie che hanno seviziato e marchiato il corpo della

povera Melania Rea, instradando (con scarso successo) l’investigazione verso

direzioni improbabili. Se l’obiettivo dei disegni intagliati sulla carne era quello

di collegare l’omicidio a ritualità tipiche del satanismo, quale significato poteva

assumere una siringa conficcata sotto il seno sinistro della donna? Quel gesto è

apparso sin da subito come il chiaro, ma flebile sforzo, di legare l’omicidio al

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vasto e ombroso mondo della tossicodipendenza. La somma dei dettagli, però,

fatica a sostenerne gli intenti. La vita della vittima, difatti, è stata scandagliata

accuratamente senza che siano emersi trascorsi riconducibili all’ambiente della

droga, constatazione rafforzata dall’esito negativo degli esami tossicologici

eseguiti in sede autoptica. L’elemento che a primo impatto ha destato maggiori

sospetti è il posizionamento della siringa, stranamente infissa nel petto e non su

una delle braccia di Melania. Così come il laccio emostatico, lasciato

appositamente in bella vista assieme ad altri reperti, ovvero:

- due cappucci di siringa monouso nei pressi della mano destra, posizionati

all’interno di una porzione di terra “pulita” (priva di fogliame), forse creata di

proposito.

- uno stantuffo, o meglio un pistoncino di siringa da insulina, sito al centro

della fessura tra le cosce.

Questi “errori” non potevano indurre a far credere che la giovane fosse

tossicodipendente. Le analisi effettuate su ciascun oggetto, tra l’altro, ne hanno

evidenziato lo stato di usura. Il laccio è sembrato sin dal primo momento

particolarmente ingiallito ed anelastico, quindi estraneo al contesto omicidiario.

La siringa, invece, ha necessitato di accertamenti più approfonditi. Dall’ago

sono stati estratti due profili genetici, entrambi non compatibili con quello di

Melania. Probabilmente appartenevano a chi aveva utilizzato in precedenza lo

strumento. Sulla parte esterna non sono state rilevate impronte o tracce

riconducibili all’unico sospettato, Salvatore Parolisi, marito della donna.

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Risulta scontato, a questo punto, che l’insieme degli elementi rappresenti un

appiglio circostanziale adottato dall’offender. D’altronde il bosco di Ripe si

presterebbe bene ad indossare le vesti di luogo d’incontro per giovani sbandati.

Ma se fosse realmente così, perché non è stato trovato materiale della

medesima tipologia in tutta la zona adiacente la scena del crimine? La

convinzione è che gli oggetti siano stati raccolti altrove, ma è difficile

determinare con esattezza quando ciò sia avvenuto. L’assassino, dopo aver

commesso il delitto, potrebbe aver vagato tra la Pineta alla ricerca di qualcosa

che lo aiutasse ad erigere la messa in scena. In un secondo momento sarebbe

poi tornato sul posto completando quanto si era figurato in quei brevi frangenti.

Questa ipotesi escluderebbe del tutto la premeditazione, convalidando il lasso

temporale in cui sono state inflitte le ferite post mortali. Tuttavia esiste un’altra

possibilità, un po’ più remota, ovvero quella di un preventivo

approvvigionamento degli strumenti. In tal caso, premunirsi di un laccio

emostatico ed una siringa già usati sembra una scelta poco sensata. Nulla, forse,

è insensato. Come la volontà di conficcare la siringa proprio su uno dei due seni

di Melania. Può darsi che l’offender abbia scelto il punto in cui l’oggetto

garantisse maggior aderenza, data la prosperosità delle carni. Sulle braccia

l’ago non avrebbe attecchito, in quanto rivestite dal giubbotto in pelle.

L’addome, d’altra parte, era già stato martoriato abbastanza. Solo supposizioni

suggestive.

E se anche dietro quell’insano gesto si celasse un messaggio? Il preciso intento

di infierire profonde ferite narcisistiche, deturpando l’immagine di una bella

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donna. E lo si fa colpendo la parte più identificativa del corpo femminile, il

seno, simbolo di maternità. Quella stessa coniugalità che l’interezza dell’ago è

riuscita comunque a spezzare. Per sempre.

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Raffaella Gallo36

VANGELO CONTRO-VANGELO. UN’INDAGINE SUL RAPPORTO

MAFIA-CHIESA

RIASSUNTO

Da lunghi decenni l’Italia combatte contro un problema sociale di particolare

invasività, quello della mafia, cheattraverso una molteplicità di volti si insinua

nelle diverse sfere di gestione del potere, controllo del territorio,

amministrazione e dinamiche sociali, acquisendo forza e vigore tali da,

soprattutto in particolari zone, plasmare la società a sua immagine e

somiglianza.

Andando oltre a quell’importante ma tuttavia circoscritta ottica giornalistica

che tratta dei “soliti ed efferati fatti di cronaca che catturano – solo – per

qualche giorno la nostra attenzione” (don Ennio Stamile, in AA.VV. 2013, p.

9), in questo lavoro si vorrà adottare un più ampio sguardo sociologico al fine

di delineare quelle caratteristiche peculiari che fanno del fenomeno mafioso –

in particolare per ciò che concerne la ‘Ndrangheta – una vera e propria “società

nella società”: la sua struttura familiare, la sua organizzazione politica (di tipo

prevalentemente gerarchico) e legislativa (basata tanto sulla coercizione quanto

sulla manipolazione), ed infine, elemento meno studiato ma in realtà non meno

influente, la sua originale religiosità.

36

Sociologa, Criminologa, PhDstudent in Comunicazione Ricerca Innovazione

– “Sapienza” Università di Roma.

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Posta tale analisi, scopo del lavoro è quello di proporre una riflessione teorica

ed una possibile linea d’azione che riesca ad indebolire il fenomeno mafioso

attraverso l’abbattimento di tutti gli elementi che simultaneamente concorrono

al suo mantenimento.

Parole chiave:‘Ndrangheta, Mafia, Chiesa cattolica, Religiosità.

ABSTRACT

It’s been decades since in Italy we are facing a social problem which has a huge

invasiveness in our politics – that is, the problem of mafia. Through a

multiplicity of mask, mafia infiltrates itself in various domain of the public life

of our state, such as power management, territorial control, administration and

social dynamics, to the point that it acquired so much strength that it is able to

shape society in its image, expecially is some particular zones.

Besides the important – but, still, finite – journalistic perspective, which pays

attention only to the “soliti ed efferati fatti di cronaca che catturano – solo –

per qualche giorno la nostra attenzione” (don Ennio Stamile, in AA.VV. 2013,

p. 9), in this article I wish to enlarge the analysis by the use of a sociological

point of view, in order to delineate the peculiar elements which makes mafia a

“society inside society”, expecially in the case of ‘Ndrangheta. The elements

that give it this character of “society inside society” are its familiar structure of

‘Ndrangheta, its political organization (which follows a hierarchic structure) as

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much as its legislative one (base both on coercion and manipulation) and, last

but not least, its originality in the fields of religiosity and devoutness.

Thus, the aim of my article is propose a theoric reflection on the base of which

could be possible to elaborate an active strategy that can weaken the

phenomenon of mafia by knocking down all the elements that cooperate

simoultaneosly to its growth.

Keywords: ‘Ndrangheta, Mafia, Catholic Church, Religiosity.

1. Genesi e aspetti peculiari del sistema mafioso L’intenso processo di modernizzazione subito dall’Europa a partire dalla

seconda metà dell’Ottocento creò in Italia una situazione di particolare

instabilità e precarietà sociale, incrementando esponenzialmente le richiesta di

tutela e protezione da parte del popolo. In presenza di strutture sociali incapaci

di rispondere alle esigenze del popolo e di uno Stato assenteista, la richiesta di

protezione venne così colta dalla mafia che, in origine, si configura quindi

come un gruppo di persone capace di fornire assistenza e servizi

paraistituzionali alle comunità locali in cambio di riconoscimento e rispetto.

Agli esordi del fenomeno mafioso italiano, quindi, gli uomini d’onore erano

visti come dei salvatori che aiutavano la comunità e svolgevano il ruolo di

mediatori e “sistematori” delle ingiustizie in un contesto di presenza oltremodo

altalenante delle istituzioni, che difatti in alcuni casi erano del tutto assenti. È in

tale particolare contesto storico-sociale che la figura del mafioso assume una

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connotazione positiva di garante dell’ordine pubblico, e si induce la

conseguente legittimazione del suo potere, con sostegno tanto da parte della

comunità quanto dalle istituzioni ecclesiastiche. Il mafioso, in sostanza, era

colui che risolveva le controversie tra gli abitanti della comunità, organizzava

le processioni, aiutava economicamente la chiesa locale e garantiva giustizia

laddove le istituzioni non agivano, e quindi per tutte queste caratteristiche

veniva considerato un uomo di rispetto che conosceva i giusti mezzi per

garantire l’ordine sociale (Dino 2008).

Poste tali dinamiche a legittimare fin da subito la presenza della mafia nel

territorio italiano, essa poi, secondo un principio di adattamento necessario per

la sua sopravvivenza, a seconda della zona d’origine ha assunto caratteristiche

peculiari definendo così le diverse organizzazioni ormai a tutti note: la siciliana

Cosa Nostra, la ‘Ndrangheta calabrese, la Camorra campana e la Sacra Corona

Unita pugliese37

.

Nonostante ognuna di queste organizzazioni mafiose si distinguano

incisivamente tra loro, esse presentano alcuni aspetti comuni, che potremmo

definire sistemici, che sinteticamente possono essere descritti al fine di

comprendere al meglio il modo in cui il sistema mafioso si è inserito

edamalgamato nel tessuto sociale della nazione.

37

Una più approfondita analisi delle differenze e comunanze tra le varie mafie

andrebbe oltre l’intento di questo lavoro, e pertanto si rimanda per i dovuti

approfondimenti sull’argomento a Bianchini &Sicurella2007.

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Primo fra tutti, certamente, è la capacità di svolgere la propria attività

rimanendo nell’ombra e nella segretezza.

Una segretezza che, oltre ad essere un elemento di funzionalità, ha anche

concorso alla definizione identitaria del gruppo: In queste questioni riguardanti

la tecnica della segretezza non si deve dimenticare che il segreto non è affatto

soltanto un mezzo sotto la cui protezione devono essere incentivati gli scopi

materiali della comunità, ma che spesso, al contrario, la formazione di una

comunità deve servire a garantire che certi contenuti rimangano segreti. Ciò

accade nel tipo particolare di società segrete la cui sostanza è una dottrina

segreta, un sapere teorico, mistico, religioso. Qui il segreto è uno scopo

sociologico di per sé, in quanto si tratta di conoscenze che non devono

penetrare nella massa; coloro che sanno costituiscono una comunità per

garantirsi reciprocamente la segretezza. […] L’associazione offre a ognuno di

questi individui un appoggio psicologico per difenderlo dalle tentazioni della

divulgazione. […]L’iniziazione graduale del membro, a cui si è prima

accennato, rientra in un ambito sociologico formale molto vasto, entro il quale

si distinguono in modo particolare le società segrete: è il principio della

gerarchia, dell’articolazione graduale degli elementi di una società. La finezza

e la sistematicità con cui proprio le società segrete attuano la loro divisione del

lavoro e la gradazione dei loro membri sono connesse con un loro tratto

caratteristico, che si dovrà illustrare in seguito: con la forte consapevolezza

della loro vita, la quale sostituisce le forze organicamente istintive con una

volontà continuamente regolatrice, la crescita dall’interno con la conformità

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costruttiva allo scopo. Questo elemento razionalistico della loro costruzione

non può esprimersi in modo più visibile che nella sua architettura chiara e

soppesata. […]Alle medesime condizioni di sviluppo della gerarchia

corrisponde, all’interno delle società segrete, la formazione del rituale […]

Ciò che colpisce nel trattamento del rituale nelle società segrete è non soltanto

il rigore con cui viene osservato, ma soprattutto la timorosità con cui viene

custodito in quanto segreto – come se il suo svelamento fosse altrettanto

dannoso quanto gli scopi e le azioni, o addirittura l’esistenza, della società.

L’opportunità di tutto ciò consiste probabilmente nel fatto che mediante questa

inclusione di un complesso di forme esteriori nel segreto l’intero ambito di

azione e di interesse della società segreta comincia a diventare un’unità

armonica. […] A causa di tale formalismo [indotto dai rituali e dalla

simbologia interni], come già a causa della gerarchia, la società segreta si

trasforma in una specie di controfigura del mondo ufficiale con il quale si pone

in antitesi” (Simmel, 1908; trad. it. di A. Cavalli, 1998, p. 328-332).

Si può convenire con Simmel nel considerare che la segretezza è in pratica il

principio motore dell’aggregazione: gli associati costituiscono una comunità

alternativa proprio in virtù del mantenimento del segreto, il quale si configura

non tanto come caratteristica della società segreta ma come causa della

costituzione di questa; la società segreta serve per fornire sostegno ed aiuto ai

membri nel perseguire l’obiettivo del mantenimento del segreto.

Viepiù, come emerge dalle ultime parole di Simmel, il senso identitario della

società segreta (mafiosa) è anche nel suo porsi come “controfigura del mondo

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ufficiale”: la comunità che si viene a creare stabilisce al suo interno un preciso

codice comportamentale che definisce specifiche regole, diritti, doveri e

punizioni, configurandosi in questo modo a tutti gli effetti come una società

parallela che rinnega qualsiasi principio della società in cui s’insinua.

Ancora, procedendo nella disamina delle peculiarità della mafia italiana,

sembra utile analizzare le dinamiche psicologiche interne al rapporto tra

l’organizzazione mafiosa ed i suoi affiliati.

In tal senso l’argomentazione elaborata da Pomilla&Glyka(2010) propone di

leggere le dinamiche “mentali” proprie dell’organizzazione mafiosa applicando

la Teoria delle Rappresentazioni Sociali38

.

Il punto di partenza è considerare l’organizzazione mafiosa come “gruppo

sociale”, il quale viene definito dalla psicologia sociale secondo una serie di

criteri: l’interdipendenza e l’interazione tra i membri; la presenza di uno scopo

comune da perseguire; la consapevolezza di appartenere ad un ingroup; la

condivisione dei membri di sentimenti di appartenenza; il riconoscimento

dall’esterno (i soggetti dell’outgroup); una strutturazione interna del gruppo.

Tutti questi elementi sono perfettamente riscontrabili nei gruppi mafiosi, così

come qui di seguito verrà brevemente posto in rassegna.

38

Sebbene gli Autori facciano espresso riferimento alla mafia siciliana, è

comunque plausibile estendere le loro argomentazioni alle dinamiche

psicologiche proprie della mafia in generale, in quanto, come abbiamo visto e

continueremo a vedere, diversi sono i punti in comune tra le quattro

organizzazioni criminali italiane.

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I primi due criteri, l’interdipendenza e l’interazione tra membri del gruppo e la

presenza di un obiettivo comune, sono strettamente legati tra di loro: il

raggiungimento pieno di un obiettivo necessita di una collaborazione totale dei

membri del gruppo, quindi, ogni membro dipende dai suoi compagni se vuole

ottenere i risultati sperati; la collaborazione, a sua volta, richiede l’interazione e

il legame che si istaura tra i membri stessi. Detto ciò, ad esempio, risulta

evidente come il gruppo mafioso si crei grazie alla condivisione dei suoi

affiliati di un obiettivo comune, ovvero l’arricchimento economico e simbolico

per mezzo di azioni criminali e violente. Per quanto riguarda, invece, l’aspetto

dell’interazione, questa si concretizza attraverso due tipi di legami: i rapporti

personali che si instaurano tra i singoli membri del gruppo e il rapporto che

ogni singolo membro instaura con il gruppo in generale. Quest’ultimo tipo di

rapporto è quello sancito dai rituali di iniziazione che vincolano

indissolubilmente (se non per mezzo della morte) l’individuo al gruppo

stabilendo un legame “familiare” che diventa superiore a qualsiasi altro, inclusi

i legami di consanguineità.

Proseguendo con la disamina dei criteri che definiscono il gruppo sociale e che

sono riscontrabili nel gruppo mafioso, risulta evidente che l’affiliato è

consapevole di far parte di un gruppo criminale ed in esso trova la sicurezza e

la familiarità di cui ha bisogno, sviluppando un preciso senso di appartenenza;

inoltre, ogni membro sa di condividere il medesimo sentimento di appartenenza

con gli altri affiliati che percepisce come simili a sé. Nello specifico, tre sono

gli elementi motivazionali che permettono al singolo membro di percepirsi

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come parte di un gruppo: la vicinanza fisica, che è il primo input che spinge gli

individui ad entrare in contatto tra di loro e a scegliere il medesimo gruppo; la

somiglianza, ovvero la percezione di avere interessi, valori e stili di vita comuni

con gli altri membri del gruppo; infine, l’identificazione, cioè quel

“meccanismo psicologico di identificazione con l’altro, che innesca anche un

processo di strutturazione della propria personalità ed identità sociale, in un

complesso sistema di interazione tra fattori soggettivi ed intersoggettivi”

(Pomilla&Glyka2010, p. 52).

Similmente, un gruppo (e un gruppo mafioso) è consapevole della propria

esistenza grazie al riconoscimento dello stesso da parte degli individui esterni:

le rappresentazioni sociali che i membri di altri gruppi sociali si costruiscono

riguardo il gruppo mafioso permette agli affiliati di rafforzare la propria

appartenenza definendo meglio chi è parte dell’ingroup e chi è parte

dell’outgroup e quali sono le caratteristiche di uno e dell’altro.

Da quanto detto finora risulta determinante il vantaggio emotivo, identitario ed

economico che ogni affiliato ottiene entrando a far parte della famiglia:

“nell’appartenere al gruppo mafioso, il singolo vede pienamente soddisfatti i

propri bisogni individuali di acquisizione di identità, esercizio del potere e

profitti economici” (Pomilla&Glyka2010, p. 52).

In ultimo, non resta che parlare dell’elemento della strutturazione interna del

gruppo che nel caso della formazione del gruppo mafioso acquisisce

un’importanza particolare. La mafia, infatti, instaura una gerarchia di potere al

proprio interno, più o meno articolata e rigida a seconda dell’organizzazione

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mafiosa, e definisce un assetto di regole e leggi specifiche racchiuse nel

cosiddetto codice d’onore.

I coniugi Sherif nel 1969 definirono la struttura del gruppo come una rete di

ruoli e status ordinati gerarchicamente, intendendo questi come “modelli di

comportamento prevedibili associati non tanto ad individui particolari nel

gruppo, ma alle posizioni occupate da tali individui. […] La differenza

principale tra ruolo e status è di valore. I diversi ruoli in un gruppo possono

avere un valore simile, ma posizioni di status differenti sono, per definizione,

valutate in modo diverso” (Brown 2000, p. 73). La differenziazione di status è

necessariamente legata al confronto sociale che avviene entro una gerarchia ed

alla distribuzione di potere interna ad essa. La differenziazione di ruolo, invece,

è dovuta all’associazione di aspettative di comportamento diverse a seconda,

appunto, del ruolo attribuito ai singoli membri nel gruppo. All’interno della vita

di un gruppo la differenziazione dei ruoli assume un’importanza particolare, in

quanto i ruoli svolgono alcune fondamentali funzioni: prima di tutto servono

per effettuare una divisione del lavoro che facilita il raggiungimento degli

obiettivi che il gruppo si prefigge; in secondo luogo, le norme e i ruoli aiutano a

creare delle aspettative sul comportamento dei membri rendendo il gruppo più

disciplinato e prevedibile, quindi, più ordinato; terzo, contribuiscono

all’autodefinizione da parte dei membri delle loro stessa identità permettendo

loro di trovare la propria collocazione all’interno del gruppo. Da ciò, risulta

chiara la necessità da parte del gruppo mafioso di mantenere una qualche forma

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di gerarchia e regolamentazione al suo interno, al fine di massimizzare il più

possibile la propria funzionalità e, quindi, il proprio losco profitto.

Quanto detto ci aiuta a comprendere meglio le dinamiche manipolatorie che si

instaurano tra il gruppo mafioso ed i suoi affiliati: “i processi che indirizzano

l’obbedienza criminale fanno si che il singolo membro possa pensare, sentire

ed agire secondo gli schemi del suo gruppo mafioso. Questi schemi, rigidi,

autoritari e soffocanti lo spirito critico del singolo componente portano alla

costruzione di una “mentalità chiusa e dogmatica”, che vede il cambiamento

come negativo e pericoloso e che si fonda su un pensiero monistico incapace di

dialogare con la differenza e con la pluralità” (Pomilla&Glyka2010, p. 54).

Ulteriore fondamentale elemento caratteristico che nel corso del tempo ha

accresciuto il radicamento del sistema mafioso nella società è quello del potere,

inteso sia nella sua ricerca che nella sua manifestazione attraverso forme di

violenza.

Relativamente ad una definizione del concetto di potere, nell’Enciclopedia

delle scienze sociali (1996, pp. 723-724) Lukes scrive: “nell'accezione ristretta

della nozione di potere, un agente sociale ha potere su un altro o su altri

quando è in grado di assicurarsi la loro obbedienza limitandone la libertà. Ciò

può essere ottenuto in vari modi. Un primo modo consiste nell'escludere

possibilità alternative, riducendole nel caso limite ad una sola. […] Un

secondo modo è quello di modificare [mediante la minaccia di sanzioni

negative] la relativa desiderabilità delle alternative che si prospettano agli

agenti, assicurandosi il loro conformarsi al nostro volere col porli di fronte a

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una scelta che preferirebbero non fare. In questo caso si parlerà di coercizione.

Un terzo modo, infine, consiste nel manipolare un altro o altri agenti, sia

condizionandone le opzioni, sia strutturando le circostanze in cui si trovano ad

agire in modo che aderiscano a determinate alleanze o coalizioni, sia ancora

inducendoli o persuadendoli a nutrire determinate credenze e desideri. In

quest'ultimo caso si ha una forma di influenza, che consiste nel predisporre o

condizionare la volontà di un altro o di altri. L'influenza può essere esercitata

anche impartendo disposizioni che gli altri accettano come vincolanti, ossia

attraverso l'autorità, oppure fornendo ragioni o motivi per agire o non agire in

un certo modo, ossia attraverso la persuasione razionale”.

Ebbene, in tali parole possiamo facilmente ritrovare le modalità mafiose di

attuazione del potere sia nei confronti di soggetti esterni all’organizzazione, nel

caso dell’esercizio del potere tramite la forza e la coercizione che si palesano

nella violenza e nel controllo del territorio (in tal senso la gestione di attività

imprenditoriali di vario genere nonché il riscatto del pizzo), sia nei confronti

degli stessi affiliati attraverso le dinamiche di manipolazione e/o influenza

esercitata attraverso la formazione di una subcultura mafiosa che revisiona e

strumentalizza per i propri fini i codici culturali tradizionali, modificando le

mappe cognitive dei suoi membri che, fin dall’infanzia, divengono custodi di

dogmi, regole e valori alternativi.

Tuttavia, il potere mafioso può indubbiamente affermarsi grazie alla maestria

dell’organizzazione nelcreare intorno a sé una fitta rete di relazioni sociali,

infatti, come afferma RoccoSciarrone parlando del rapporto tra mafia e classi

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dirigenti: “i mafiosi, oltre a essere specialisti della violenza, sono anche e

soprattutto specialisti di relazioni sociali. In questo senso, contribuiscono a

mantenere l’ordine sociale non solo ricorrendo all’uso della forza, ma anche

influenzando la costruzione sociale della fiducia: in altri termini, fondando un

sistema di regole basato sulla coercizione e strutturando un sistema di

relazioni che poggia su forme variabili di consenso sociale” (Sciarrone in

Stamile&Schinella 2007, pp. 52-53).

L’intrinseca capacità attrattiva della mafia, che le permette di coltivare con

successo la sua rete relazionale, consiste nell’elaborare efficaci strategie

incentivanti proponendo e dirigendo «giochi a somma positiva» in cui tutti i

partecipanti hanno qualcosa da guadagnare: l’organizzazione mafiosa nella

trattativa dei suoi affari utilizza strategie come “la negoziazione (che implica la

possibilità di voice), l’offerta di incentivi (non solo materiali ma anche

simbolici) o la capacità di indennizzare chi risulta temporaneamente perdente.

Del resto, promettere o offrire vantaggi a chi è disposto a cooperare può

indicare poi prendere una contropartita, ovvero la reciprocità dello scambio”

(ivi, p. 60)39

. È proprio questa capacità di incentivare la cooperazione attiva

degli altri attori sociali che caratterizza la forza attrattiva della mafia. Inoltre,

39

Ovviamente questo, come precisa l’autore, «non implica né la scomparsa né

il ridimensionamento dell’uso della violenza […] La cooperazione non è affatto

incompatibile con la minaccia dell’uso della forza, anzi presuppone spesso una

dipendenza e uno squilibrio tra gli attori. Essa inoltre non richiede necessaria

fiducia, e può anche essere conflittuale, senza tuttavia cessare di essere

cooperazione» (pp. 60-61).

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dobbiamo tener presente che i nodi della rete non sono solo uomini d’onore,

politici e imprenditori collusi: nella trama di questa rete, oltre al mafioso ed al

politico che hanno stretto il cosiddetto «patto occulto», troveremo anche “il

candore delle fedine penali pulite, delle persone che non hanno neanche

ottenuto un favore dal mafioso o dal politico colluso, ma che amano il quieto

vivere” (Giap Parini in Stamile&Schinella2007, p. 80) o ancora persone che

vogliono lasciarsi aperta la possibilità di una collaborazione futura pronta

all’occorrenza.

Detto ciò è chiaro che la rete relazionale costruita dalla mafia è fondamentale

per il raggiungimento dei suoi scopi illeciti e illegali, ma è importante

comprendere il fatto che tali rapporti risultano sicuramente preziosi anche per

gli altri attori sociali collusi che ricoprono una posizione di potere nel sistema

sociale e che necessitano dell’istaurazione di rapporti di reciprocità con

l’organizzazione mafiosa per raggiungere i propri obiettivi. Così facendo gli

appartenenti alle classi dirigenti collusi40

altro non fanno che legittimare

l’operato mafioso all’interno della società, il quale già gode di un consenso

troppo ampio sul territorio.

Tre sono, quindi, le caratteristiche necessarie perché la relazione che intercorre

tra l’onorata società e i membri delle istituzioni (nel senso di classe dirigente

40

Parlando di classi dirigenti intendiamo in generale quelle categorie sociali e

professionali che al loro interno ospitano figure sociali e che ricoprono

posizioni di responsabilità politica, sociale, economica e culturale (Sciarrone

2007).

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prima inteso) si istauri e perduri nel tempo41

: riconoscimento del potere e

dell’identità dell’altro, reciprocità del rapporto di convenienza e solidarietà che

si configura come reciproca protezione e reciproco sostegno. Infine, per

completare l’elenco degli elementi che compongono l’area grigia tra il lecito e

l’illecito “fatta di intrecci inconfessabili e contiguità compiacenti” (Grasso in

Sciarrone 2007, p.55) bisogna aggiungere un altro fattore, l’interdipendenza tra

i due attori. Tra mafia e classe dirigente non si può identificare un rapporto

gerarchico e di subordinazione, bensì una totale interdipendenza: la mafia

necessita dell’appoggio di chi detiene l’autorità legittima per raggiungere una

qualche forma di istituzionalizzazione; dal canto suo, la classe dirigente

necessita del potere della mafia e dei servizi che questa gli offre per perseguire

interessi illeciti che, in quanto potere legale, non può soddisfare senza

rinunciare al suo legittimo posto nella società.

Macosa caratterizza i legami propri delle reti mafiose? Per rispondere a questa

domanda si può richiamare la nota teoria dei legami deboli di Granovetter

(1973, trad. it 1991), che distingue i legami forti che istauriamo con i familiari,

gli amici ed in generale le persone che frequentiamo quotidianamente, dai

legami deboli che istauriamo con i semplici conoscenti. Nello specifico, i

legami deboli si configurano come “ponti” che forniscono l’accesso a

41

È bene precisare che si sta parlando del rapporto che intercorre tra due

categorie di attori sociali (i mafiosi e la classe dirigente) e non tra singoli

individui, per cui anche se lo specifico rapporto tra due soggetti si conclude, la

relazione tra le categorie prosegue senza problemi.

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informazioni e risorse al di là del gruppo sociale di appartenenza (composto di

legami forti) e sono fondamentali per il miglioramento dello status sociale

dell’individuo.

Anche le reti mafiose si compongono di legami forti, per ciò che riguarda il

rapporto tra gli affiliati di un medesimo clan (in molti casi consanguinei), e di

legami deboli, che viceversa si istaurano con il resto della società (istituzioni e

classi dirigenti, mafie estere, etc.), e che sono fondamentali poiché senza di

essil’organizzazione non potrebbe espandersi ed operare così fittamente sul

territorio nazionale ed internazionale e non otterrebbe il potere di cui gode, in

quanto questo deriva proprio dalla difficoltà di individuare e isolare legami

sfuggevoli. Inoltre, come ci insegna ancora Granovetter, nell’ambito

dell’organizzazione socialei legami deboli assumono maggiore importanza dei

legami forti: difatti, quando si spezza un legame forte l’individuo sicuramente

prova una sofferenza emotiva ma la sua rete sociale non subisce grandi

variazioni, mentre al contrario, se viene meno un legame debole, l’individuo è

costretto a riformulare tutto l’assetto delle sue relazioni al fine di progredire dal

punto di vista dello status sociale. Concordando con l’autore e rapportando la

teoria dei legami deboli al sistema mafioso, si può così spiegare perché la

cattura di un boss generalmente non crea troppi problemi all’organizzazione

che è in grado di riassestarsi in tempi abbastanza brevi, mentre distruggere un

legame funzionale con figure istituzionali creerebbe con buona probabilità un

rallentamento delle attività losche dettato da un eccesso di prudenza. Ciò

significa che per ipotizzare un’azione che possa realmente colpire il sistema

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mafioso è necessario mirare le connessioni che questa crea all’esterno, quindi,

puntare allo smascheramento delle collusioni nelle sfere istituzionali, politiche

ed imprenditoriali. Per dirla con le parole utilizzate da Giuseppe Fava scrivendo

della mafia nel 1983: «un solo nemico può batterla: lo Stato vero, lo Stato di

diritto, con i magistrati che fanno veramente giustizia, funzionari incorruttibili,

politici disposti a interpretare con assoluta moralità il loro mandato».

Avendo illustrato i meccanismi che danno vita alla rete di interessi che connette

l’organizzazione mafiosa con altre sfere della società, tocca ancora analizzare

lo specifico piano sociale e culturale sul quale questa stessa rete deve poggiarsi

per poter tessere i suoi fili. Molti studiosi ritengono che la formazione di un

sistema mafioso non sarebbe possibile se non ci fosse alla base del contesto

sociale in cui pone le sue radici un “pensare o sentire mafioso”, con questo

intendendo tutta quella serie di valori, atteggiamenti, usi e credenze

caratteristiche della mentalità italiana che vengono adottate dalla società

mafiosa e riformulate in una forma estrema funzionale al raggiungimento dei

suoi obiettivi. Senza entrare troppo nel dettaglio, il discorso è abbastanza

semplice: le organizzazioni mafiose non vivono e non agiscono nel vuoto

sociale, si generano e mutano all’interno di una società che possiede una sua

mentalità (intesa in senso sociologico come l’insieme delle idee, dei valori,

delle credenze, degli atteggiamenti e delle rappresentazioni mentali di una

collettività) ed è da questa stessa mentalità, già presente nel pensiero degli

affiliati, che muove i suoi passi fino ad estremizzare determinate credenze,

valori, tradizioni ed atteggiamenti creando una sua peculiare mentalità. Anche

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Angelo Provenzano, figlio del noto boss mafioso, dà conferma dell’esistenza di

tale mentalità in un’intervista rilasciata a Il Giornale nel dicembre del 2008:

“Cos’è la mafia? Bella domanda… sono ancora oggi alla ricerca di una

risposta definitiva. Di primo acchito mi verrebbe da dire che è un

atteggiamento mentale. La mafia viene dopo la “mafiosità”, che non è

comportamento solo ed esclusivamente siciliano. La mafiosità si manifesta a

cominciare dalla raccomandazione per arrivare prima a fare una lastra o ad

avere un certificato in Comune. Ancora mi chiedo dov’è il limite, tra mafia e

mafiosità. Tra l’organizzazione criminale, per come la intende il codice penale,

e l’atteggiamento mentale, per come la intendono i siciliani. È il vecchio

discorso dell’uovo e della gallina. Secondo me la mafia è un magma fluido che

non ha contorni definiti. Per il codice la mafia è un’associazione per

delinquere, e su questo non discuto e non entro nel merito. Ma non si può

ridurre tutto a persone che sparano…” (in Pomilla&Glyka 2010, p. 56).

Quali sonoquindi quegli elementi culturali e sociali caratteristici della

popolazione italiana che favoriscono la permanenza e lo sviluppo del fenomeno

mafioso nella sua tipicità?

Il primo fra tutti è il clientelismo, che se da un lato, per determinate

caratteristiche politico-sociali, nel Sud Italiaè più evidente ed incisivo,

dall’altro non si può negare come esso sia una caratteristica

nazionale.Riprendendo Fantozzi (in Stamile&Schinella2007), il problema

principale risiede nella carenza di un appropriato sistema di regolazione sociale,

facendo riferimento ai criteri che guidano l’allocazione delle risorse, ai

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meccanismi di funzionamento e integrazione, ed alla prevenzione e soluzione di

problemi e conflitti. In merito, Polanyiindividua tre produttori di regolazione

sociale: la politica, la comunità ed il mercato. La politica dovrebbe provvedere

alla redistribuzione delle risorse, cosa che in Italia non avviene correttamente in

quanto si presentano enormi disuguaglianze interne; la comunitàdovrebbe

organizzare il suo sistema normativo secondo il principio della reciprocità, la

quale si è trasformata in dipendenza o ricerca di privilegi (ibidem), soprattutto

in seguito alla trasformazione della famiglia italiana che oramai si configura

come principale ammortizzatore sociale; ed infine il mercato dovrebbe

configurarsi come un insieme di norme che regolano lo scambio con pari

beneficio tra coloro che ne sono coinvolti. Dal punto di vista sociologico,

nell’ambito dei principi che regolano lo scambio economico e sociale, “una

forma di scambio sociale è detta clientelare quando si riscontra una certa

conflittualità tra i criteri potenzialmente ampi - in alcuni casi addirittura

universalistici o semiuniversalistici - che regolano il libero flusso delle risorse

e gli sbocchi di mercato, da un lato, e i continui tentativi di limitare tale libero

flusso dall'altro” (Eisenstadt e Roniger 1992). In altre parole, ciò accade

quando“il diritto si trasforma in favore, ciò che dovrebbe essere garantito su

basi universalistiche viene gestito e centellinato su basi particolaristiche”

(Gian Parini in Stamile&Schinella2007, p. 81). Tenendo presente ciò,

potremmo affermare che là dove la reciprocità si trasforma in ricerca di

privilegi e favoritismo si gettano le basi per una perfetta armonia tra

l’organizzazione mafiosa e la sfera delle istituzioni politiche e sociali.

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Parlare di clientelismo ci porta inevitabilmente ad affrontare il discorso sul

familismo, secondo aspetto sociologico di fondamentale importanza che ci

permette di delineare in modo ancor più nitido le caratteristiche proprie

dell’Italia, e soprattutto del Mezzogiorno.

Il concetto di familismo amoraleè stato elegantemente e dettagliatamente

definito da Edward C. Banfield nell’opera“The Moral Basis of a

BackwardSociety” del 1957. L’autore formulò tale concetto nell’ambito di una

ricerca sociologica improntata sull’osservazione partecipata e sulla

somministrazione di questionari condotta in un paese della Basilicata che

denominò fittiziamente “Montegrano”(il nome reale del paese è Chiaromonte).

Obbiettivo delle ricerche di Banfieldera quello di dimostrare che l’arretratezza

socio-economica del Sud Italia dipendeva da un habitus culturale che porta gli

individui ad agire in favore della famiglia nucleare senza operare in alcun modo

per il bene collettivo: “massimizzare i vantaggi materiali e immediati della

famiglia nucleare; supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”,

così descriveva l’Autore la regola principale riscontrata nei “montegranesi”42

.

Nonostante le diverse critiche43

, il lavoro di Banfield assume un’importanza

rilevante per l’analisi sviluppata in questo lavoro, poiché evidenzia il passaggio

42

Per brevità non ci soffermeremo oltre sulle argomentazioni di Banfield

rimandando direttamente al riferimento bibliografico per ulteriori

approfondimenti. 43

Per approfondimenti, si vedano gli articoli di Ferragina (2011) e Ferrarotti

(2007).

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da una società organizzata collettivamente per perseguire il bene comune, che

presuppone dei diritti universali di cui tutti devono godere e dei doveri comuni

cui tutti devono assolvere, in favore di una società familistica che presuppone

diritti e doveri ad personam o, piuttosto, ad familiam.

La mafia calabrese, in particolare, più delle altre sembra essere diretta dai

principi del familismo amorale: la particolare forza della ‘Ndrangheta, infatti,

risiede proprio nell’aver strutturato la sua organizzazione prevalentemente sui

rapporti di consanguineità dei suoi affiliati, mettendo in risalto l’importanza

della famiglia e la principalità del benessere e del vantaggio di questa su tutti

gli altri rapporti sociali (elemento che si manifesta nella maggiore presenza di

faide e nella minore presenza di pentiti tra le file ‘ndranghetiste rispetto alle

altre mafie connazionali).

2. Tra sacro e profano: dalla devozione allo sfruttamento dei riti religiosi

Delineate le caratteristiche e le dinamiche che radicano il fenomeno mafioso

nel tessuto sociale italiano, entriamo ora nel cuore di questo lavoro ed

illustriamoil particolare ed ambiguo rapporto che la mafia, nello specifico la

‘ndrangheta, intrattiene con il mondo religioso, passando in rassegna i modi in

cui riti, simboli ed eventi religiosi vengono utilizzati per motivi materialistici o

devozionali.

A tal proposito, si è voluto individuare il confine tra devozione e utilitarismo

nella religiosità mafiosa con l’obiettivo, non tanto di una semplice descrizione

dei rituali e della simbologia che è possibile trovare in molta letteratura, ma di

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comprendere a pieno il significato e soprattutto l’importanza che l’immersione

nella religiosità e nel mondo ecclesiastico assume per l’organizzazione mafiosa,

al fine di ipotizzare una reale azione della Chiesa (in quanto istituzione) che

possa effettivamente indebolire il pensiero e la “sacralità” tanto ricercata dagli

uomini d’onore.

L’onorata societàsi sviluppa in una trama fitta ed articolata di tradizioni e rituali

che assumono un valore identitario indispensabile per l’immagine misteriosa e

quasi mistica che essa vuole dare di sé. Ancora oggi, infatti, nell’era della

globalizzazione in cui la vita è invasa dal progresso e dalle nuove tecnologie, la

mafia sente il bisogno di immergersi nella tradizione e nel misticismo

inseguendo e difendendo con orgoglio le avventure dei cavalieri spagnoli Osso,

Matrosso e Carcagnosso che la leggenda vuolequali suoi fondatori. Il richiamo

alla simbologia religiosa, in particolare, assume per i mafiosi una fondamentale

importanza ai fini della costituzione di un’identità che in qualche modo

legittimi uno stile di vita violento e contrario alla moralità della società civile,

sorretto da una qualche forma di giustificazione divina.

Nell’analisi di tale questione, non è tuttavia possibile escludere alcuni

interrogativi: com’è possibile che una vita condotta all’insegna della violenza,

della vendetta, dello spargimento di sangue dettato dal puro interesse materiale

possa conciliarsi con i dettami evangelici che professano perdono e amore?

com’è possibile che i mafiosi non sentano il distacco e l’incompatibilità del

sentire religioso con le azioni criminali con cui macchiano le proprie mani?

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Utilizzando un approccio sociologico al fenomeno, si può tentare di dare una

prima risposta a questi interrogativi rintracciando una motivazione puramente

strumentale che considera la frequenza dei luoghi di culto, i generosi

finanziamenti elargiti alla chiesa locale e la protezione offerta dalla famiglia

mafiosa quali mezzi per acquisire legittimazione e consenso sociale. Inoltre,

ricordando che l’onorata società si configura in tutto e per tutto come un gruppo

sociale, come già visto in precedenza, si comprende che in quantotale necessiti

di rituali e abitudini che fungano da collante tra i membri: “per gli

‘ndranghetisti questi riti sono come la malta che tiene uniti i mattoni, segnano

un legame indissolubile, inscindibile. Nel rito si salda il senso di

un’appartenenza comune, si crea una separazione netta tra chi è ritenuto uomo

e chi no” (Gratteri &Nicaso2012, p.18).

In secondo luogo, da un punto di vista psicologico, potremmo considerare l’uso

di rituali pseudoreligiosi e la fede propria degli uomini d’onore come un

elemento funzionale al soddisfacimento di “bisogni primari di rassicurazione e

giustificazione del proprio operato in un’ottica fondata sulla de-

responsabilizzazione del singolo dentro un contesto associativo stringente e

totalizzante” (Dino 2008, p. 10).

La de-responsabilizzazione delle proprie condotte violente bene si esprime, ad

esempio, nel ruolo che gli ‘ndranghetisti assegnano alla figura della Madonna,

la quale si configura come “mandante” degli omicidi che devono compiere

(ecco che si manifesta a pieno la de-responsabilizzazione di cui sopra): come

spiegano ancora Gratteri e Nicaso (2012), infatti, molte condanne a morte

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vengono pronunciate in occasione della festa in onore della Madonna di Polsi

proprio perché «La Madonna lo vuole».Viepiù, gli affiliati rivolgono preghiere

alla Madonna di Polsi anche prima di compiere un omicidio affinché ellali

protegga e protegga la loro missione o, attraverso una particolare preghiera, le

chiedono aiuto per uscire dal carcere quando ritengono ingiusta la condanna del

tribunale promettendo di “fare suora” la loro primogenita.

Un’altra figura preminente nella religione ‘ndranghetista è poi quella di San

Michele Arcangelo, il quale secondo la rappresentazione cattolica dotato di

spada e bilancia si fa guida delle armate celesti nella lotta contro Lucifero,

diviene fonte d’ispirazione per gli uomini d’onore che mirano a eguagliare la

sua forza e il suo valore: “San Michele Arcangelo che porta la spada e la

bilancia, con la spada difende e con la bilancia pesa l’onore della società” si

legge nel codice ‘ndranghetista di San Giorgio Morgeto (in Gratteri, Maddalon,

Nicaso&Trumper 2014, p. 118). Così nell’immaginario mafioso il Santo

diviene testimone dell’ingresso dei nuovi affiliati nella famiglia, parte

integrante del rito d’iniziazione,

Date queste brevi premessi generali, per meglio comprendere la religiosità degli

‘ndranghetisti, troviamo utile affrontare il discorso seguendo due

complementari ottiche osservative: da un lato, indagando la religiosità

collettiva strumentale, se così vogliamo chiamarla, ovverol’approccio

utilitaristico della famiglia mafiosa nei confronti dei luoghi religiosi e degli

uomini di chiesa; dall’altra, descrivendola personale ereale devozione degli

affiliati.

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2.1. La reale devozione mafiosa

La devozione ‘ndranghetista si riscontra non solo in particolari riti propri

dell’organizzazione o nella partecipazione alle processionied altri eventi

religiosi, ma in particolare nella vita individuale degli affiliati in qualità di

personale forma di supporto spirituale.

Come spiegano Gratteri &Nicaso (2013, p. 19), nei bunker adoperati per

ospitare boss latitanti si trovano sempre immaginette sacre, crocifissi, rosari ed

altri oggetti simbolici della religione cattolica. Tutto ciò rappresenta la presenza

di una concreta, seppur distorta, fede cristiana.

Passaggio importante per comprendere appieno la religiosità mafiosa è quello

dell’analisi del rapporto che nell’immaginario mafioso s’instaura tra l’essere

umano e Dio.

Come spiega il filosofo Augusto Cavadi, i mafiosi non percepiscono

incompatibilità tra le loro azioni e le narrazioni bibliche dal momento che la

stessa Bibbia descrive Dio come un “Giano bifronte”, con un volto

misericordioso e l’altro vendicativo. Ebbene, la mafia prende a modello il Dio

vendicativo e violento descritto nell’Antico Testamento, senza considerare

l’evoluzione che Esso compie nel passaggio al Nuovo Testamento.

Ovviamente, in questa scelta risiede un importante e pericoloso processo di

antropomorfizzazione della figura di Dio che diviene sempre più simile

all’uomo (d’onore), in quanto in preda ad istinti violenti e vendicativi ed

incapace di provare misericordia e compassione: la rappresentazione mafiosa di

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Dio delinea “un Dio antropomorfizzato, a misura propria e del proprio circolo

di sodali, privo di trascendenza, impegnato a gestire le gerarchie dei rapporti

umani, il cui agire risponderebbe a una logica contrattualistica e clientelare;

un Dio privo di tenerezza e amore, che non conosce gratuità. Un Dio – quello

dei mafiosi – piegato e costretto entro un recinto concettuale di potere e

violenza; capace anche di compiere vendette, sia pure attraverso la mediazione

degli uomini, e dei mafiosi in particolare. In nome di questo Dio, l’illecito

diventa lecito, la sopraffazione diventa giustizia, l’intimidazione diventa

rispetto; in poche parole, la sudditanza diventa costume diffuso e, quindi,

normale condizione di vita della comunità” (Dino2008, p. 35).

Un Dio compiacente e complice, in sostanza, creato a loro immagine e

somiglianza che giustifica, o addiritturaautorizza, i più efferati crimini per

amore ed onore della famiglia.

Altro aspetto del processo di antropomorfizzazione della divinità compiuto

dagli uomini di mafia, sempre stante il contributo di Cavadi, spiega il rapporto

tra il Dio in cielo e il Dio in terra (il boss) attraverso questo passaggio: “È un

Dio più padrino che padre, che incarna un’immagine di potere umano simile al

potere che il boss esercita e che vuole esercitare sempre di più. Non a caso

alcuni grandi capi mafia sono definiti padreterni”.

Qui vale la pena di riportare alcuni tra i più eloquenti esempi utili a dimostrare

la necessità da parte dei più autorevoli uomini d’onore a sentirsi e mostrarsi al

pari di un “dio in terra” potente e risolutore dei problemi. Ad esempio, il boss

di Archi Paolo De Stefano professava di agire i suoi delitti contro i

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“tragediatori” per conto della Madonna di Polsi, definendosi il suo “braccio

armato”. Dopo il suo assassinio, esattamente così come si fa nelle processioni

con i martiri, i suoi affiliati distribuirono a parenti ed amici cinquemila copie di

“santini” che ritraevano la sua immagine accompagnata da alcune frasi

bibliche.

Altro esempio deriva da un’intercettazione telefonica del 2009 della

conversazione tra Giulio Lampada (arrestato nel 2011 e condannato nel 2013

per associazione mafiosa) ed il suo avvocato, in cui lo ‘ndranghetista si

compiaceva d’essere stato investito della nomina a Cavaliere dell’Ordine di San

Silvestro Papa: “dopo aver ricevuto targhetta e distintivo”si sarebbe fatto

preparare“un’alta uniforme su misura”, afferma il Lampada, così che “ora in

tutte le diocesi mi dovranno chiamare Eccellenza” (in Gratteri &Nicaso2013,

p. 20; Russo in AAVV 2013, p. 58). In tale caso, se dal Vaticano giunge

l’ammissione che nel caso di Lampada siano mancati gli approfondimenti e la

verifica dei requisiti, tanto da porre inconsapevolezza del suo status di mafioso,

si sottolinea tuttavia la necessità da parte dei mafiosi di acquisire queste cariche

percepite come un’ufficiale investitura da parte di Dio per mano della Chiesa.

Questo aspetto non rinvia soltanto ad una necessità di “sacralizzazione” della

propria figura e del proprio operato, bensì anche al bisogno di riconoscimento

sacro ed ecclesiastico del proprio potere: i mafiosi con alte cariche all’interno

dell’organizzazione confermano e legittimano il proprio potere proprio tramite

l’assegnazione di tali titoli che, nell’ottica mafiosa, equivalgono ad

un’assegnazione di potere divino da esercitare tra gli uomini.

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2.2. La religiosità collettiva strumentale

I principali sacramenti religiosi (battesimo, cresima e matrimonio) sono

strumenti fondamentali per la vita dell’organizzazione mafiosa, poiché è

proprio attraverso di essi che l’onorata società instaura alleanze e rafforza

legami: padrini/madrine di battesimo e cresima e compari d’anello44

ricoprono,

come vedremo, un ruolo indispensabile per i bambini/ragazzi e per gli sposi cui

riversare tutta la fiducia possibile in un’ottica di sostegno e protezione.

Analizziamo più attentamente questi importantissimi aspetti della tradizione

mafiosa.

Battesimo e cresima sono prima di tutto strumenti simbolici attraverso i quali

gli affiliati creano legami intimi e spirituali: molto spesso il ruolo del

padrino/madrina durante il battesimo e la cresima viene affidato ad un affiliato

di rango superiore (se non addirittura al boss o alla moglie del boss), così che

il/la prescelto/a possa fare da guida non solo spirituale, come vorrebbe l’uso

ecclesiastico del ruolo, ma anche pratica nella crescita all’interno della ‘ndrina.

I sacramenti del battesimo e della cresima si configurano quindi come una sorta

di pre-adesione dei giovani alla “famigliamafiosa”, adesione che verrà poi

44 Quella del compare d’anello è una, ormai, arcaica figura della tradizione

dell’Italia meridionale: il compare d’anello era scelto dalla coppia come

custode e testimone del vincolo matrimoniale (diverso però dal testimone come

lo si intende solitamente) al quale veniva affidato il compito di consegnare gli

anelli agli sposi durante la cerimonia. Come accennato, quella del compare

d’anelli è una figura che va pian piano scomparendo nella tradizione

meridionale, probabilmente proprio perché riconducibile alle usanze mafiose.

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concretizzata con il rito d’iniziazione. In questi casi il ragazzino fino ai

quattordici anni (età minima per l’effettivo ingresso nell’onorata società) verrà

denominato “giovane d’onore”e sarà considerato “mezzo dento e mezzo fuori”

dell’organizzazione (Russo in AAVV2013, p. 51).

Il rito d’iniziazione, che in termini dialettali nel linguaggio ‘ndranghetistaviene

chiamato u battizzu o u vattiju, ha chiara e non casuale assonanza con il termine

italiano “battesimo”: attraverso il rito iniziatico, infatti, i neo-affilati accettano

di rinunciare alla loro vita come fino ad allora vissuta per “rinascere” come

uomini d’onore pronti a votare la propria esistenza alla famiglia ed al codice da

essa proposto.

Dalle diverse testimonianze fornite dai collaboratori di giustizia, così comein

alcuni esempi che si riporteranno in seguito, sappiamo che il rituale iniziatico

richiama, nei gesti e nelle parole, elementi presi in prestito dalla simbologia

religiosa.

“Nel corso del rito di iniziazione mi praticarono un taglio a forma di croce

sulla parte superiore del pollice destro vicino all’unghia (ove ho ancora una

piccola cicatrice del taglio verticale; l’asse trasversale non viene incisa così

profondamente per evitare che la cicatrice sia troppo evidente a forma di

croce). Inoltre preciso: dal mio dito destro dovevano cadere tre gocce di

sangue dentro un piatto, quindi… omissis… prese un santino di S. Michele

Arcangelo, lo bruciò parzialmente e mise la cenere sulla ferita in modo tale che

essa guarisse. Quindi bruciò completamente il santino e mi disse: quando noi

non ci saremo più, saremo come questa polvere(testimonianza di Luciano

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Piccolo raccolta nell’ordinanza dell’operazione “Crimine”: Russoin AAVV

2013, p. 54).

“Commisso [braccio destro del boss] si alzò dalla sedia, si avvicinò a me

prendendo il mio dito indice che sanguinava e tenendolo sul fuoco del santino

che bruciava disse: «come il fuoco brucia questa sacra immagine, così

brucerete voi qualora vi macchiate di infamità». Continuò dicendo: «se prima

vi conoscevo come un contrasto onorato da oggi in poi vi conosco come un

picciotto d’onore, se commettete infamia sarete punito con la morte, come voi

sarete fedele alla società così essa sarà fedele con voi e vi aiuterà e vi

assisterà, questo giuramento potrà essere sciolto solo con la

morte(testimonianza di Francesco Fonti tratta da alcuni Verbali di

interrogatorio, in Gratteri &Nicaso 2013 pp. 41-42).

Come è possibile notare dalle testimonianze citate, i rituali di iniziazione

presentano alcuni elementi di notevole interesse: l’invocazione della

testimonianza di una figura sacra (solitamente San Michele Arcangelo, più

raramente la Madonna o Gesù Cristo) così da conferire sacralità al momento; il

fatto che il patto venga sugellato con il sangue, così da creare un marchio di

riconoscimento sulla pelle del nuovo giunto (la croce che diventerà poi

cicatrice); la necessità di porre il soggetto al cospetto di una prova fisica,

l’esposizione al fuoco, per testare la sua virilità e la sua forza (Di Bella a

proposito afferma “bisogna stare fermo anche se ti bruci, altrimenti non vali

niente”).

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Al di là questi elementi puramente simbolici, i giuramenti da recitare a

memoria sono fondamentali: al neo picciotto si chiede di rinnegare la vita

precedente e finanche la sua stessa famiglia qualora dovesse andare contro la

“nuova famiglia”, con relative minacce di morte qualora dovesse “sgarrare”o

macchiarsi di tradimento o infamia.

C’è anche una parte per così dire “normativa” del rito45

: il neofita deve

dimostrare, sempre tramite frasi recitate a memoria, di essere a conoscenza

degli “elementi” che l’organizzazione mette a sua disposizione nonché del loro

corretto uso. Il rituale di iniziazione, in sostanza, si configura come una sorta di

libretto delle istruzioni messo a disposizione dei neo affiliati all’interno del

quale sono elencati diritti e doveri, agevolazioni e punizioni e tutto ciò che

comporta entrare a far parte della ‘ndrangheta.

Infine, le funzioni del rituale iniziatico sono anche, e soprattutto, sociali.

Avviene infattiun vero e proprio cambio di “status”, i neo affiliati si sentono e

vengono percepiti come uomini nuovi, guadagnando rispetto ed onore al

cospetto degli altri affiliati, e con essi instaurando un indissolubile legame

sociale: “i richiami reiterati e manifesti a forme di religiosità (…) che

accompagnano il prescelto nell’attraversamento della soglia, nel superamento

della linea di confine che separa due mondi solo apparentemente lontani,

portano al rafforzamento del nuovo legame sociale, alla idealizzazione della

45

Per alcuni esempi rimandiamo ai diversi testi di Gratteri e Nicaso già citati, e

nello specifico alle trascrizioni del Codice di Seminara del 1896 (Gratteri

&Nicaso 2012, p. 25).

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nuova condizione conseguita; strappano all’anomia, contribuiscono a

garantire il conferimento di una identità forte, di uno status circondato da

considerazione sociale, da rispetto” (Dino2008, p. 54).

Ancora una volta esplicative sono le testimonianze del collaboratore di giustizia

Di Bella: “Uno battezzato rispetto agli altri si crede e si sente come un dio. Lui

è un dio. […]Insomma, il battezzato non considera più gli altri come esseri

umani con una vita, un cuore, desideri e affetti. Gli altri non esistono più e, se

rompono, basta spaventarli, ammazzarli. Noi della ‘ndrangheta non vediamo

gli altri come persone. Li ignoriamo, pensiamo che sono tutti degli sfigati, dei

fessi, gente senza palle che tiara avanti con mille euro al mese, senza una

dignità, una gioia” (Di Bella in Nuzzi e Antonelli 2010, p. 27).

Ruolo simile ma più articolato ricopre invece il sacramento del matrimonio, in

quantoattraverso di esso si accrescono numericamente le ‘ndrine formando

nuove famiglie sulla base di un legame-vincolo con famiglie già esistenti.

Essendo uno strumento cardine dell’organizzazione mafiosa, al fine di non

incontrare opposizioni da parte della società civile e delle istituzioni, non è

infrequente che i matrimoni di convenienza vengano celebrati in luoghi diversi

dalla chiesa (ad es. cappelle private di hotel), soprattutto se lo sposo è un

latitante e il matrimonio è necessario per il benessere della famiglia, oppure che

vengano registratitardivamente nei registri dello stato civile (art. 13 del vecchio

Concordato) (Gratteri &Nicaso 2013, p. 77).

In ultimo,anche la cerimonia funebre detiene una grande valenza

nell’organizzazione mafiosa: i defunti devono essere ricordati come benefattori

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che hanno dedicato la vita al bene comune ed alla giustizia, uomini apprezzati e

stimati per le loro azioni compiute all’insegna dell’onore. È per questo che i

funerali devono essere sfarzosi ed eclatanti e tutti i personaggi di spicco della

‘ndrangheta, soprattutto se alleati della ‘ndrina cui apparteneva il defunto,

devono accorrere e rendere omaggio. Per rendere idea della grandiosità dei

funerali riportiamo un esempio tra tutti, ripreso da Gratteri e Nicaso (2013),

inerente ladescrizione fatta dai Carabinieri nella relazione di servizio in

occasione dei funerali del boss Girolamo Piromalli (detto «Mommo») celebrati

nella chiesa parrocchiale di Sant’Ippolito a Gioia Tauro il 13 febbraio 1979:

“Alle 16 in punto, il feretro, portato a spalla da sei persone, seguito da

familiari e parenti e da circa 5.000 persone, partiva dalla casa dell’estinto […]

Tutta la cerimonia svoltasi in forma solenne con la partecipazioni di quasi tutta

la popolazione di Gioia Tauro ha toccato momenti di pura coreografia, tenuto

anche conto che la cassa funebre […] di legno pregiato, aveva delle rifiniture

bronzee cromate applicate ai quattro bordi, raffiguranti disegni e ricami su

ogni lato e sulle quali erano ricavate quattro piedi a forma di zampa d’aquila o

di leone come per significare che la stessa contenesse un personaggio di alto

prestigio e di comando nella malavita organizzata. (…) Tra quelle 5.000

persone erano presenti “assolutamente non curanti della presenza dei fotografi

e delle forze dell’ordine, sotto una pioggia battente, centinaia di capibastone e

affiliati di tutte le consorterie calabresi [che] accompagnano il feretro di don

Mommo” (in Gratteri &Nicasto2013, p. 66).

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Perché tanta importanza dei sacramenti nella vita della criminalità organizzata

di stampo mafioso? Perché per assumere un valore strumentale e simbolico i

sacramenti mafiosi devono necessariamente coincidere con i riti cristiani?

Perché, come spiega Dino (2008), i riti mafiosi devono combaciare con quelli

cattolici “per coltivare, all’esterno, quell’apparenza di normalità, di

rispettabilità che esce sicuramente rafforzata dalla legittimazione –diretta o

indiretta che sia – del rapporto instaurato con la Chiesa”(Dino 2008, p. 79): lo

svolgersi di tali riti in un luogo religioso, o comunque tramite un ministro di

Dio, permette di acquisire legittimazione dinnanzi al Padreterno, oltre che

legittimazione sociale – in una comunità in cui la religiosità assume un ampio

valore e la frequente pratica religiosa è spesso sinonimo di giustezza morale,

ricevere con devozione i sacramenti assume un’importanza cruciale ai fini

dell’acquisizione del consenso sociale.

Un altro aspetto di quella che abbiamo definito “religiosità collettiva

strumentale” è sicuramente quella che potremmo definire “appropriazione

indebita” degli eventi religiosi da parte dell’onorata società: il terzo

comandamento “ricordati di santificare le feste” sembrerebbe essere uno dei più

cari agli ‘ndranghetisti, i quali per astuzia sociale, se così vogliamo definirla,

non mancano mai di partecipare individualmente e come famiglia alle feste

religiose. È ormai noto a molti, infatti, il particolare interesse dei mafiosi per le

processioni ed i festeggiamenti in occasione di ricorrenze religiose, interesse

che si manifesta non solo con la presenza fisica ma anche attraverso il desiderio

di far parte dell’organizzazione delle stesse con donazioni di ingenti somme di

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denaro, o stabilendo i percorsi delle processioni o ancoradecidendo i rituali dei

festeggiamenti. Il tutto, in pratica, per rivestire un ruolo di spicco nella

direzione di tali eventi.

Nuovamente, con la partecipazione attiva agli eventi più importanti della vita

religiosa della comunità gli uomini d’onore legittimano la propria potenza

dimostrandosi portatori e difensori di valori tradizionali (invero dal significato

distorto) (Stabile1996). Offrire sostegno economico e materiale per la gestione

delle processioni è indispensabile per manifestare la propria devozione ed

anche per acquisire visibilità: dato che le processionirappresentano eventi a cui

tutta la comunità partecipa, esse diventano occasioni per ostentare il proprio

potere e la propria presenza sul territorio.

Prendiamo a titolo di esempio la processione dell’Affruntata che si svolge

perlopiù nel periodo pasquale nei paesi della parte meridionale della Calabria

(province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e nel sud della provincia di

Catanzaro)46

. In tale occasione vengono portante a spalla le tre statue di Maria

Addolorata, Cristo e San Giovanni, e messo in scena l’evento della

Resurrezione. Nello specifico della pratica la statua di San Giovanni,

messaggero della resurrezione, “corre” più volte avanti e dietro tra le altre due

finché all’ultimo passaggio le statue di San Giovanni e dell’Addolorata

s’incontrano correndo l’una verso l’altra davanti a quella di Cristo. Nell’ultimo

incontro il velo nero del lutto viene tolto dalla statua di Maria mostrando il

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vestito di festa. In alcuni casi, la statua di San Giovanni viene alzata e abbassata

tre volte davanti quella della Madonna, a rappresentare tre inchini offerti

all’Addolorata.

Il diritto di portare le statue in spalla vienegeneralmente dato in base a privilegi

ereditati dalla singole famiglie, ma in altri casi viene letteralmente comprato nei

giorni precedenti attraverso un sistema d’asta, denominato incanto, che

presenta diverse modalità a seconda dei paesi47

.

Si è voluto illustrare lo svolgimento della processione dell’Affruntata perché si

ritiene che questa, tra le tante, sia quella che possiede il maggiore significato

simbolico per la ‘ndrangheta: la mafia locale si serve di tale processione per

mostrare in modo inequivocabile la sua imponenza sul territorio, mostrando

finanche la sua gerarchia interna e affermando il suo potere davanti agli occhi

dell’intera comunità48

. Nello specifico, così come spiega il collaboratore di

giustizia Rosario Michenzi, “i picciotti battezzati durante l’anno fanno la loro

prima apparizione pubblica in occasione dell’Affruntata: devono portare la

46

Più precisamente, a Pazzano (RC) la processione dell’Affruntatasi svolge nel

periodo di agosto nei giorni della Festa del Santissimo Salvatore. 47

Nel Comune di Sant’Onorio, che è tra i maggiori centri di infiltrazione

mafiosa, l’incanto prevede ad esempio la consegna di una busta sigillata

contenente l’offerta che gli interessati intendono elargire alla chiesa, e

chiaramente il diritto di portare le statue in spalla verrà concesso ai donatori più

generosi. 48

L’importanza della processione dell’Affruntata è stata accertata a livello

giudiziario per la prima volta nel 2010 nel corso dell’indagine “Sfruntati”

coordinata dalla DDA e condotta dalla Squadra Mobile di Catanzaro.

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statua di San Giovanni e come San Giovanni inchinarsi davanti alla statua

della Madonna portata dai capobastone” (Arena in AAVV 2013, p. 65), e

ancora “nell’occasione dell’Affruntata i santi venivano sorteggiati, ma il

sorteggio era una pura formalità atteso che la statua di San Giovanni veniva

affidata sempre a persone appartenenti alla cosca. In pratica, chiunque

intendeva partecipare all’incanto, al di fuori della famiglia, veniva minacciato

e invitato ad astenersi; all’interno della congrega vi era quasi sempre un

rappresentante o più della costa che sapevano a priori a chi dovesse andare

assegnata la statua di San Givanni” (Gratteri &Nicaso 2013, p. 60). In pratica,

la processione dell’Affruntata si configura come una sorta di “debutto in

società” dei neo-affiliati, con tanto di inchino al cospetto dei capobastone, il

tutto apertamente svolto davanti all’intera comunità così testimone della

gerarchia e del potere mafioso.

A questo punto vale la pena di chiedersi: quali sono le possibili cause che

hanno permesso agli ‘ndranghetisti di fare da padroni alle feste religiose? Una

risposta sociologica viene data nuovamente da Alessandra Dino, allorquando

afferma che nel Sud Italia la Chiesa è stata per troppo tempo dedita agli aspetti

formali ed esteriori: fino a tempi relativamente recenti il Mezzogiorno ha

vissuto una Chiesa d’apparenza in cui il finanziamento dei riti religiosi e la

puntuale frequenza alla messa domenicale erano gli unici aspetti importanti

della religiosità dei fedeli; una Chiesa che non ha investito sul rapporto intimo e

sincero con i fedeli favorendo “lo sviluppo del processo di evangelizzazione”.

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È dunque in questa particolare concezione della religiosità che ha trovato

spazio lo sfruttamento dei riti religiosi da parte dell’organizzazione mafiosa,

che con la disponibilità di ingenti offerte ed aiuti materiali nell’organizzazione

degli eventi ha strutturato parte del consenso sociale.

3. La Chiesa davanti alla mafia

“Zu Luigi è bene ammanicato. Si racconta che per evitare il soggiorno

obbligato fece ricorso ad una petizione estorta col terrore e a strani

certificati di buona condotta rilasciati dal vescovo dell’epoca. «Con la

Chiesa aveva un rapporto speciale» ricorda il nipote, Luigi Bonaventura,

un omicidio alle spalle, oggi collaboratore di giustizia. «Come tutti i

crotonesi, era particolarmente devoto alla Madonna di Capocolonna e a

san Dionigi, patrono della città. Ripeteva spesso che i preti è meglio

averli come amici, potevano sempre servire e costituivano un buon

biglietto da visita»49

(Gratteri &Nicaso2013, p. 64).

Questa citazione ci sembra esplicativa e riassuntiva dei punti cardine del

rapporto che i mafiosi (gli ‘ndranghetisti nello specifico) intrattengono con

l’istituzione ecclesiastica, con gli uomini di chiesa e con la religiosità in

generale: è comodo avere la Chiesa dalla propria parte; è meglio riverirla,

rispettarla e proteggerla, almeno finché asseconda gli interessi della famiglia.

49

“Zu Luigi” (zio Luigi) era un temuto boss crotonese degli anni ’60,

conosciuto all’anagrafe come Luigi Vrenna.

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Trattato l’atteggiamento ed il rapporto che la mafia tiene nei confronti della

Chiesa e della religiosità, l’altra faccia della stessa medaglia è rappresentata

dall’atteggiamento che la Chiesa ha avuto ed ha nei confronti della mafia,

ovvero le dinamiche che nel corso dei decenni hanno consentito l’istaurarsi di

ciò che a nostro avviso, così come verrà spiegato nelle prossime pagine, ha

costituito un rapporto ambivalente ed ambiguo50

che solo di recente ha

finalmente condotto ad una piena presa di consapevolezza (da parte della

Chiesa) sull’effettiva incompatibilità tra i precetti cristiano-cattolici ed i

principi valoriali viceversa proposti dall’onorata società.

Per diversi decenni, difatti, l’atteggiamento della Chiesa e dei singoli uomini

che ne fanno parte (salvo, ovviamente, alcuni illustri esempi) è sembrato essere

un misto di inconsapevolezza e negazione: da un lato effettiva miscredenza ed

ingenuità rispetto alle condotte mafiose, dall’altro una forma di silenzio che,

forse anche per comodità, ha creato ulteriori collusioni e complicità.“Per dirla

50 La scelta dei due aggettivi, spesso confusi come sinonimi, non è un caso.

L’intento è quello di specificare un atteggiamento della Chiesa nei confronti dei

mafiosi che: per un verso, è delineato da diverse percezioni e diversi sentimenti

derivanti da polarità e contrapposizioniinsitinella Chiesa stessa (relativi ad es.

alla duplice figura biblica di Dio tra Antico e Nuovo Testamento, oppure alla

convivenza dei principi di umiltà e povertà con lo “sfarzo di ricchezza” della

Chiesa), che hanno probabilmente portato alla tolleranza di alcuni

comportamenti (ambivalenza); per altro verso, alla non chiarezza delle

posizioni della Chiesa rispetto al fenomeno mafioso (ambiguità).

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banalmente, la storia della Chiesa italiana è tanto la storia oscura di Don

Frittitta quanto la storia eroica di Don Puglisi” (Fiorita2012, p. 4)51

.

Come in precedenza già detto, certamente ciò è stato in parte determinato da

quell’atteggiamento “da buon cristiano” mantenuto dai mafiosi che si delineava

nell’assidua frequenza alle celebrazioni e manifestazioni religiose, con tanto di

partecipazione fattiva ed economica, tale da non favorire la piena comprensione

della reale natura di tale devozione da parte degli ecclesiastici.

Nella disamina di tale fenomeno, imprescindibile appare la descrizione tanto

delle azioni dei singoli sacerdoti operanti nei territori della mafia, quando delle

posizioni dell’istituzione ecclesiastica, così come a seguire verrà evidenziato.

Cominciando dal primo aspetto, relativo all’operato dei singoli uomini di

chiesa, ad ulteriore esemplificazione dell’ambivalenza sopra citata si vogliono

intanto riportare le vicende di due esponenti di spicco del mondo ecclesiastico

contrapposti tra loro: don Giovanni Stilo e don Natale Bianchi.

In un articolo del 2011 dal titolo “Su alcuni episodi ricorrenti di infiltrazione

criminale a margine di espressioni collettive della pietà popolare del

mezzogiorno”52

, Francesco Zanchini di Castiglionchio racconta di quando negli

anni ’70 fu chiamato a difendere una comunità della Locride molto vicina al

parroco locale, don Bianchi, divenuto bersaglio della ‘ndrangheta in seguito ai

tentativi di impedire le infiltrazioni mafiose nell’organizzazione della festa di

51

http://www.statoechiese.it/index.php?option=com_content&task=view&id=5

45&Itemid=40 52

http://www.oalib.com/paper/2125441#.VIxWSt7Gc6U

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San Rocco a Gioiosa Ionica. Per questo motivo don Bianchi era stato definito

“una testa calda” ed un comunista, e quindi rimosso dal suo incarico per mano

di Monsignor Francesco Tortora. Le vicende di don Bianchi, tuttavia, non si

limitano a tale revoca: ciò che si vuole qui raccontare è difatti lo scontro che

egli ebbe con don Stilo in seguito ad alcune schiette dichiarazioni rivolte a

quest’ultimo, contenute nel libro “Africo”(1979) dello scrittore Corrado

Stajano, e che lo condussero a giudizio con l’accusa di diffamazione. Durante il

processo il Giudice chiese a don Bianchi di ripetere le dichiarazioni fatte allo

scrittore, il quale racconta: “dopo aver raccolto tante voci nella zona

sull’importanza di don Stilo come elemento mafioso, espressi a monsignor

[Michele Alberto] Arduino [vescovo di Locri] i miei dubbi. Gli dissi del mio

smarrimento per quella figura che gettava discredito sulla Chiesa. Il vescovo

mi disse che anche se in passato don Stilo aveva coltivato certi legami, ora

stava cercando di liberarsene. Mi disse anche di non parlare troppo di queste

cose, perché avrei potuto rischiare la vita” (Gratteri &Nicaso 2013, p. 135).

A tali dichiarazioni Don Stilo replicò: “l’ho conosciuto dopo che era stato

estromesso dai salesiani per un «vizio mentale» [il riferimento è alle sue

posizioni favorevoli al divorzio e, in generale, al suo non allineamento alle

posizioni delle gerarchie ecclesiastiche]. Se fosse vero quanto afferma, perché

non sono mai stato neppure ammonito dall’autorità ecclesiastica? Anch’io

parlai con monsignor Arduino per chiedermi di autorizzarmi ad andare in

giudizio contro don Bianchi. Il vescovo mi fece presente la situazione di don

Bianchi, «gravemente esaurito», e mi consigliò di lasciar perdere. Se sono

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colpevole, voglio che lo si provi con i fatti e non con dicerie di spostati”

(Gratteri &Nicaso 2013, p. 136).

A quel punto il Giudice chiese a don Stilo se fosse vero che aveva minacciato

don Bianchi dicendo “fai attenzione, posso schiacciarti come una formica”, e

Don Stilo rispese: “non lo nego, ma intendevo dire che le sue accuse non

reggevano logicamente, che non avrebbe potuto nulla contro di me” (ibidem).

La minaccia cui fa riferimento il Giudice risale ad uno scontro avuto tra i due

ad una riunione al palazzo del vescovo, in quella occasione don Stilo entrò nella

stanza dicendo: “Non so chi sia un certo don Bianchi, ma se è qui, se non è un

vigliacco, abbia il coraggio di alzarsi”. Don Bianchi, a cui di certo non

mancava il coraggio, si fa avanti suscitando la reazione dei presuli che gli

siedono accanto, i quali in quel momento mostrano il loro schieramento

alzandosi e allontanandosi da lui. Al termine della riunione don Stilo si

avvicina al suo nemico pronunciando la minaccia riportata dal giudice in

udienza (questo particolare aspetto della vicenda è raccontato nel testo di

Stajano citato in AAVV2013, p. 140).

Altri preti in un precedente incontro avevano già messo in guardia don Bianchi

sul potere di don Stilo: “Vedi, tu che non sei del posto devi imparare alcune

regole. Certe cose noi le sappiamo meglio di te, ma non si possono dire. Vedi

che don Stilo è capace di farti la pelle” (ibidem).

L’epilogo della vicenda vede prosciolti Stajano e don Bianchi dalle accuse di

diffamazione, ma il secondo viene sospeso a divinis dai suoi superiori mentre

don Stilo viene riabilitato immediatamente. Quanto raccontato dimostra

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chiaramente la non volontà da parte della Chiesa di porre un freno alla

mafiosità ed alla collusione interna alla Chiesa stessa, la quale, per timore o per

salvaguardia delle apparenze (non era ammissibile una simile accusa rivolta ad

un uomo di Chiesa), in tale occasione giunge addirittura a rinnegare colui che

intraprese l’azione di denuncia difendendo il più potente. Don Stilo, in seguito a

numerosi processi, è stato assolto dalle accuse di associazione mafiosa53

e per

tale motivo potrebbero essere sollevate obiezioni nel momento in cui la sua

persona venga utilizzata come esempio di fenomeni di collusione con

l’organizzazione mafiosa all’interno della Chiesa. Onde evitare facili

contestazioni, riteniamo utile precisare che in questa sede l’intento non è quello

di pronunciare sentenze improprie, ma semplicemente di mettere in luce le

contraddizioni interne alle file ecclesiastiche. A questo si aggiunga, solo per

inciso, che nel 2013 è la Chiesa stessa a risanare il nome di don Bianchi

quando, in una biografia di padre Pino Puglisi, monsignor Bertolone lo

annovera tra i valorosi missionari che hanno operato in terre abbandonate,

“forse il primo a subire violenze mafiose” (p. 61).

A questo punto vale la pena di precisare cheaccanto alla figura di don Stilo

troviamo ancora una gran quantità di preti e suore che ignorano la mafia come

53

La sua figura è stata costantemente contornata di chiaro-scuri, considerato un

benefattore da un lato e un «prete-padrone» dall’altro, aveva un grosso giro di

conoscenze influenti (lecite e non lecite) ed era invischiato in diversi giri

d’affari; molte volte fu ascoltato, quando non indagato, dalla procura

nell’ambito di svariate indagini (per i dettagli rimandiamo a Gratteri e Nicaso

2013 e AA.VV. 2013).

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Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.

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fenomeno sociale, minimizzando così il problema, e decidono di “rapportarsi

ai singoli mafiosi come fedeli che hanno sbagliato, concedendo assoluzioni

facili” (Creazzo in AAVV2013, p. 31). Il già citato collaboratore di giustizia

Luigi Bonaventura, parlando del rapporto che il boss crotonese Luigi

Vrennaintratteneva con gli uomini di chiesa, dichiara: “Mio nonno, poi, aveva

un buon rapporto con la Chiesa. Un suo cugino era prete a Crotone. C’era poi

un altro prete che andava in giro con la pistola. Ci forniva le munizioni,

quando ne avevamo bisogno” (Gratteri &Nicaso2013 p. 52).

È proprio da questa categoria di persone appartenenti alle forze religiose

(perlopiù parroci) che collaborano attivamente con la mafia che vuole partire la

nostra analisi, la qualesi sposterà successivamente su quelle figure che

favoriscono il potere mafioso anche senza commettere reati. Chiaramente nella

nostra rassegna riporteremo solo alcuni esempi, a nostro avviso, maggiormente

significativi di quella fascia di uomini di chiesa che il rapporto con la mafia lo

vivono “comodamente” e ci soffermeremo con maggiore attenzione su quanto

avvenuto nei decenni nella regione calabrese.

Il primo documento ufficiale che attesta la convivenza e la collaborazione

criminale tra ‘ndranghetisti (definiti genericamente camorristi) e un prete locale

è stato rintracciato da Gratteri e Nicaso (2013 p. 91) e risale al 1863 quando

decine di cittadini del quartiere reggino di Gallico chiedono al prefetto che

vengano smascherati i “camorristi, i quali sono quelli che tirano e fanno tirare

fucilate di notte ed uccidono cittadini che si lagnano contro loro per furti, e

soprusi che commettono”. Tra i denunciati compare anche il nome del parroco

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locale che, con buona probabilità, com’era uso fare all’epoca, non aveva preso i

voti per vocazione ma per raggiungere facilmente un certo status socio-

culturale.

Un’altra singolare figura ecclesiastica avvolta nel mistero è quella di don

Giovinazzo, parroco in una chiesa di Locri ed economo del santuario di Polsi,

ucciso l’1 giugno del 1989 con una scarica di proiettili in volto, una tipica

esecuzione destinata ai capobastone traditori. In seguito all’omicidio le

indagini portarono ad un conto corrente legato alle finanze del santuario di

Polsi che due anni prima aveva chiuso il bilancio in attivo di 860 milioni di lire,

dei quali 660 trasformati in titoli presso il Monte dei Paschi di Siena di Locri.

Al momento dell’uccisione il prete aveva in tasca due milioni di lire in

banconote. Don Giovinazzo conosceva numerosi boss ‘ndranghetisti e “forse

perché custode di segreti scottanti, qualcuno ha deciso di tappargli la bocca”

scrive il giornalista Aldo Varano sull’Unità (ivi, p. 5). Altro elemento che

delinea la figura di don Giovinazzo, più volte riportato nei libri che affrontano

l’argomento, è quanto egli dichiarò ai giornalisti nel 1985 in merito all’accusa

di aver celebrato le nozze di un noto boss di Locri ricercato per associazione

mafiosa e contrabbando di sigarette: “Non leggo i giornali e non sono tenuto a

chiede il cartellino panale e i carichi pendenti di chi si sposa”. “Vittima

inconsapevole o protagonista temerario?”, si chiedono Gratteri e Nicaso dopo

aver raccontato la sua vicenda (ivi, p. 9).

Non mancano ovviamente sacerdoti molto legati al denaro, che pur professando

l’umiltà sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa per un buon guadagno. Uno

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degli esempi più eclatanti è quello dell’ex parroco di Brancaleone (RC), Franco

Mondellini, che negli anni ’90 partecipa al narcotraffico tra Calabria e

Colombia. Assoldato dallo ‘ndranghetista Giacomo Lauro per il recupero nella

città colombiana Santa Marta una partita di smeraldi, che risultò essere in realtà

cocaina, che gli avrebbe fruttato un compenso corrispettivo di 10 milioni lire

per ogni valigetta trasportata. Lauro, divenuto in seguito collaboratore di

giustizia, spiega: “ora avvenne che, a Santa Marta, quando il Jimenez

consegnò le valige al Mondellini, costui, persona molto curiosa ed avida, aprì

le valigie e si rese conto che si trattava di droga, per come comunicò per

telefono, contestandomi che bisognava alzare il prezzo del compenso, cosa che

io gli promisi”. Ma la vicenda e l’avarizia del sacerdote non finisce qua, una

volta accordatosi nuovamente con Lauro, Mondellini contattò un suo

confratello, padre Angelo da Bogotà, per proporgli un compenso di 5 milioni di

lire a valigetta per trasportarle al posto suo. Padre Angelo denunciò Mondellini

a due uomini delle autorità locali, i quali, secondo Lauro, si accordarono con lui

per estorcere altro denaro a Lauro necessario per far tornare Mondellini in

Italia.

La collusione degli uomini di chiesa non è cosa che appartiene solo al passato,

infatti, anche in tempi recenti, nonostante le posizioni della Chiesa in merito al

fenomeno mafioso siano diventate più aspre e consapevoli, possiamo

riscontrare casi in cui sacerdoti abbiano istaurato rapporti quantomeno ambigui

con i conterranei mafiosi.

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Tra le tante, a titolo esemplificativo riportiamo solo una vicenda tra le più

recenti, risalente ad appena tre anni fa, che vede protagonista don Salvatore

Santaguida, parroco di Stefanaconi (VV), accusato di associazione mafiosa in

seguito alle dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia. “Secondo quanto

emerge dalle dichiarazioni di Patania Loredana e Bono Daniele – si legge nel

decreto di fermo – proprio quest’ultimo, su mandato dei Patania, aveva

avvicinato il prete di Stefanaconi, don Salvatore Santaguida, chiedendogli se

poteva in qualche modo bloccare o far girare la telecamera istallata in piazza,

al fine di non riprendere l’eventuale agguato al Calafati, e, comunque,

consentire poi la fuga dei killer all’interno della chiesa. Tuttavia, a causa della

difficoltà e del rischio che simile azione presentava, il prete non aveva fornito

la propria disponibilità ad utilizzare la chiesa quale via di fuga dei killer,

rimanendo tutta via pienamente al corrente della chiara intenzione da parte dei

Patania di eliminare Calafati” (Chirico in AAVV2013, p. 91). Non aveva

concesso ospitalità ai killer, ma, in compenso aveva dato delle “dritte” riguardo

la telecamera: “mi ha detto che la telecamera a 360 gradi non prende tutto –

dichiara Boni – cha è ad attimi, prende, ad esempio, pochi secondi una via,

pochi secondi un’altra, pochi secondi un’altra” (Gratteri &Nicaso2013, p.

120). Detto ciò, è chiaro che per don Salvatore il comandamento “non

uccidere” va preso solo alla lettera, in quanto, parrebbe che “far uccidere” sia

lecito.

Di gran lunga più numerosi sarebbero gli esempi da riportare ripercorrendo lo

storico degli atti giudiziari italiani (non solo calabresi) riferiti alla

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collaborazione mafia-chiesa, ma quanto raccontato finora ci sembra sufficiente

per delineare alcuni elementi importanti riguardo le reazioni dell’istituzione

ecclesiastica in particolari circostanze: 1) spesso non ha preso provvedimenti

contro coloro chehanno collaborato con la mafia; 2) in alcuni casi ha addirittura

intrapreso un’azione difensiva verso di loro negando fatti spesso evidenti; 3)

pur di difendere il suo buon nome ha permesso la continuazione di

comportamenti sconvenienti, facendo il possibile perché non venissero allo

scoperto, finché non ci fosse la certezza di una condanna a livello giuridico del

prete coinvolto.

Si è dell’avviso chead incentivare simili circostanze siano proprio le mancate

precauzioni e i mancati provvedimenti presi dall’istituzione ecclesiastica, che

con il suo operato non ha scoraggiato gli uomini di chiesa che, in quanto

uomini appunto, possono anche essi cadere vittime dell’avidità e della

corruzione. A proposito di quest’ultimo punto, però, una domanda sorge

spontanea, la medesima domanda che tutti si pongono parlando della devozione

dei mafiosi ma che nessuno si pone parlando della mafiosità dei preti: come

può il loro comportamento convivere con i dettami del vangelo che loro per

primi diffondono? I mafiosi spesso nascono e crescono in una famiglia che fin

da piccoli insegna loro a vivere da uomini d’onore, spesso per loro commettere

atti particolari o seguire certi valori è del tutto naturale perché qualcuno gli ha

sempre detto che “si fa così”. Questo ovviamente non giustifica e non legittima

assolutamente il loro operato, però, in qualche modo, lo rende sociologicamente

comprensibile, un’operazione che non risulta altrettanto possibile per coloro

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che hanno scelto di cedere la loro vita a Dio, di vivere secondo i dettami del

vangelo intraprendendo la via dell’amore e del bene.

Tra le file dei preti che con le loro azioni ed i loro comportamenti hanno

favorito gli uomini d’onore, per completezza, senza entrare troppo nello

specifico, vorremmo fare un breve accenno a quanti si sono preoccupati di

spendere buone parole a favore dei mafiosi locali, spesso rendendo

testimonianza durante i processi. Puntualizziamo subito che parliamo di

persone che non rendono falsa testimonianza, anche perché spesso non vengono

chiamati a testimoniare fui fatti avvenuti ma semplicemente a esporre elogi nei

confronti degli imputati al fine di attestare la loro buon condotta morale e

civile: è un “onesto lavoratore [che] nel tempo libero trascorre la giornata in

famiglia attendendo scrupolosamente all’educazione dei proprio figli”, dice nel

1972 il parroco di San Luca don Giosafatte Trimbolia proposito del boss

Sebastiano Mesiti (Gratteri &Nicaso2013, p. 113).

Durante le loro testimonianze i sacerdoti non dicono il falso, davvero i mafiosi

vanno a messa ogni domenica, si prodigano per la comunità e partecipano a

tutte le celebrazioni religiose, semplicemente lo fanno con modi e per

motivazioni del tutto particolari. La cosa che dovrebbe stupire di più, però, non

è che dicano il vero – è ormai chiaro che il consenso sociale della ‘ndrangheta

si basa proprio sulla facciata “da buon cristiano” che mostrano alla comunità –

ma che spesso vengano chiamati a testimoniare, non riguardo fatti di cui sono

stati testimoni, ma con dichiarazioni, processualmente inammissibili, che hanno

l’intento di colorare le figure dei mafiosi di stima e approvazione.

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4. I difensori del Vangelo

Il rapporto mafia-uomini di chiesa non si risolve solo nelle immorali azioni di

quanti hanno ceduto al peccato e implicitamente rinunciato ai principi del

vangelo, ma l’altro risvolto della medaglia è disegnato dai volti di tutti i

sacerdoti che, in molti casi pagando con la propria vita, hanno deciso di

rinnegare e combattere l’onorata società sottraendosi al giogo mafioso.

Tra questi eroici volti del sud i primi che arrivano alla mente come personaggi-

simbolo della cristiana lotta antimafia sono indubbiamente padre Pino Puglisi

contro Cosa Nostra, don Peppino Diana contro la Camorra e don Italo Calabrò

contro la ‘Ndrangheta, tre uomini che in comune avevano la voglia di lottare

contro un medesimo male dai molteplici volti.

Come già detto in precedenza, la nostra attenzione si soffermerà anche qui sul

territorio calabrese: don Italo Calabrò, istituendo il Centro comunitario Agape,

ha condotto una resistenza nonviolenta alla mafia inneggiando alla

collaborazione tra cittadini e istituzioni e denunciando con fervore le azioni

criminali mafiose. Nel 1984, in seguito al novantesimo sequestro di persona in

Calabria che aveva visto vittima il piccolo Vincenzo Diano (11 anni), decide di

sospendere la festa della Madonna di Lazzaro per rendere omaggio al bambino

e mostrare il suo sdegno nei confronti dei responsabili del rapimento. In quella

occasione, da dietro un altare improvvisato al centro della piazza di Lazzaro

urla la sua più celebre invettiva contro la ‘ndrangheta: “I mafiosi si ritengono

uomini e, addirittura, «uomini d’onore». Ma se c’è qualcuno che invece non è

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uomo è il mafioso, e se c’è qualcuno che non ha onore è il mafioso; i mafiosi

non sono uomini e i mafiosi non hanno onore; questo dobbiamo dirlo

tranquillamente con tutta la comprensione e la pietà. […] Siamo qui per

condannare questa era ogni male, ma in modo speciale la mafia, la nostra

mafia, o ‘ndrangheta che dir si voglia, della nostra Calabria e vogliamo,

dinnanzi alla comunità nazionale e alla comunità ecclesiale, dire che noi

intendiamo isolare tutti coloro che hanno scelto la via dell’odio, la via della

violenza, la via della rapina e non vogliamo e non possiamo confonderci con

loro: siamo tutti peccatori davanti a Dio, io per primo che rivolgo a voi queste

parole, ma prendiamo nella luce del Signore consapevolezza che quella è la

strada della morte e su quella strada non vogliamo volgere i nostri passi, che

quella gente è gente che oggi in mezzo a noi esprime il potere di Satana, il

regno del male. […] I mafiosi non possono essere paragonati alle belve, le

belve obbediscono a degli istinti e sono condizionate da istinti, ma si fermano

dinnanzi a quel blocco che la natura stessa ha costituito, non lo violentano.

Questi esseri [gli ‘ndranghetisti], invece, fanno violenza alla loro natura umana

in se stessi, prima ancora di fare violenza agli altri” (Gratteri &Nicaso2013, da

p. 132).

Ha rischiato molto don Italo urlando al centro di una piazza quelle dure parole

contro una categoria di persone orgogliosa e fiera, li ha rinnegati come

appartenenti ad una specie diversa da quella umana neanche degna di far parte

di quella animale. Quello, chiaramente, non è stato l’unico intervento di

denuncia del sacerdote contro queste persone, ma di certo è stato il più aspro in

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cui associa la mafia alla morte, così come aveva fatto già in passato durante uno

dei suoi primi attacchi: “la mafia può forse darvi soldi, donne, macchine

blindate, se riuscite a far carriera nelle cosche. Ma una cosa ve la procura

certamente e rapidamente: la morte. Fatela finita, e se per voi non è più

possibile tirarvi fuori dalla mafia, evitate almeno che vi entrino i vostri figli”

(ivi, p. 132).

Don Italo Calabrònon è stato il primo prete oppositore della mafia in Calabria,

giànel 1862 don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallarafanno una brutta fine a

Ortì (RC) per mano della mafia locale. Il primo fu minacciato, malmenato e

infine ucciso perché rifiutò di pagare il “surplus monetario” del pagamento per

la contribuzione fondiaria e il secondo difese il suo confratello nella vicenda

facendo la stessa fine di don Antonio. Don Giorgio prima d’essere brutalmente

ucciso scrisse una lettera all’arcivescovo di Raggio Calabria: “noi non siamo

più sicuri né in casa, né in Chiesa, e molto meno ci fidiamo di uscir di notte,

ove mai il caso lo imponesse per l’amministrazione degli ultimi Sagramenti

agl’infermi” furono le parole preoccupate del prete. Il vescovo contattò

l’intendente di pubblica sicurezza per invitarlo a prendere provvedimenti, ma fu

tutto inutile vista la cruenta fine dei due sacerdoti (ivi, p. 126).

Nel corso dei decenni successivi ci furono altri casi, seppur abbastanza rari, di

uomini di chiesa che si opposero in vari modi al potere mafioso ma, per brevità,

facciamo un salto fino agli anni ’90 del secolo scorso, un periodo in cui le

minacce e le intimidazioni da parte della malavita si fanno più frequenti. È il

caso dell’incendio doloso appiccato al teatro dei salesiani di Locri, ritorsione

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che puniva due sacerdoti per aver dato valore all’invito del sacerdote siciliano,

politologo esponente del cattolicesimo democratico, Bartolomeo Sorge, il quale

invita calorosamente i suoi confratelli a denunciare la mafia costituendo un

fronte unito: “facciamo in modo che nessuno resti solo, chi è solo può essere

colpito. Che ci ammazzino tutti: preti, suore, associazioni cattoliche. Ma

credete davvero che la Mafia abbia tanto piombo?” (ivi, p. 137). Per tutta

risposta l’allora vescovo di Locri, monsignor Ciliberti, ribadisce la denuncia e

la condanna degli uomini d’onore i quali rispondono prendendo a fucilate il

portone del vescovado e costringendo il comitato di sicurezza di Reggio

Calabria a mettere sotto scorta armata Ciliberti. In seguito alla vicenda, Italo

Calabrò, allora vicario della curia, sferra una delle sue invettive contro la

‘ndrangheta: “ce la troviamo tra i piedi perché siamo costretti a parlarne,

perché essa è componente ed espressione del potere. Noi dobbiamo fare di più

per far capire a tutti l’incompatibilità della cultura mafiosa con la

testimonianza cristiana” (ivi, 138). Gli attentati contro la Chiesa, però, non

cessarono.

Con il trascorrere degli anni il fenomeno mafioso comincia ad essere noto a

tutti, la conoscenza dell’onorata società è più consapevole e salda e più chiari

sono i risvolti sociali del suo operato: gli studi scientifici sull’argomento

aumentano e le analisi diventano più lucide, la magistratura fa passi da gigante,

cresce esponenzialmente il numero delle associazioni antimafia, le comunità

cominciano a stare strette e ad alzare la testa spesso guidate proprio da ministri

di Dio che intendono riappropriarsi della loro religiosità rubata e maltrattata

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dalla mafia. Con l’arrivo del nuovo millennio vediamo operare i preti attivisti

antimafia di ultima generazione, i quali hanno la medesima determinazione di

quelli del passato ma certamente hanno più mezzi a disposizione e, cosa ancora

più importante, il sostegno palese dell’istituzione ecclesiastica, quindi, una

maggiore tutela e protezione.

Facciamo cenno solo ad alcune delle iniziative di “liberazione dalla mafia”

intraprese e portate avanti con passione e determinazione da questi impavidi

sacerdoti: a Lamezia Terme don Giacomo Panizza nella comunità Progetto Sud

ha dato ospitalità ai disabili e ad altre categorie sociali “a rischio” in una

struttura confiscata al clan Torcasio; don Pino Demasi ha messo su la

cooperativa Valle del Marro che lavora sui terreni confiscati alla ‘ndrangheta;

infine, Libera l’associazione italiana antimafia per eccellenza, guidata da don

Ciotti, che porta in tutta Italia la coscienza antimafia e promuove molteplici

iniziative coinvolgendo diversi referenti con l’abito talare in tutta la penisola.

Tutti grandi e quanto mai utili progetti che comunque non impediscono a questi

uomini di condurre la lor azione pastorale quotidiana che si impegna a ferire la

mafia in ogni suo aspetto, anche il meno rilevante, come ha fatto ad esempio

don Pino Demasi nel 2010 negando di portare in chiesa la salma di Domenico

Alvaro, noto boss di Sinopoli, o don Ennio Stamile negando la confessione ad

uno ‘ndranghetista.

La risposta della ‘ndrangheta alle loro azioni è sempre la stessa, minacce,

intimazioni e attentati sono all’ordine del giorno: nel 2010, ad esempio, il

vescovo di Lamezia Terme, monsignor Luigi Cantafora, in seguito alla

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sospensione della processione dei Misteri che si svolge ogni anno a Sambiase,

riceve una busta contenente un foglio con una sua foto ritagliata da un giornale

e una bara disegnata con su scritto “amen”; nel 2003 e nel 2012, don Giuseppe

Campisano per i suoi tentativi di “depurare” la festa di San Rocco nella

Locride, viene sparato mentre è alla guida della sua auto, gli recapitano

pallottole nella canonica, la sua auto parcheggiata nei pressi della chiesa viene

trivellata di colpi di pistola; nel 2012 don Ennio Stamile, per le sue assidue

iniziative antimafia, trova davanti alla sua abitazione una testa di maiale

mozzata con un pezzo di stoffa in bocca, simbolo mafioso di intimato silenzio.

5. Al di là dei singoli uomini: le posizioni dell’istituzione ecclesiastica

Rievocando quel particolare tratto ambivalente ed ambiguo di cui abbiamo

parlato in precedenza, il quale bene emerge dagli esempi specifici di sacerdoti

che hanno approcciato il fenomeno mafioso in modi diversi e disegnato due

scenari opposti del rapporto tra la mafia e gli uomini di Chiesa, ci sembra

quanto mai utile ricostruire il percorso che negli anni, non senza opacità, ha

profilato il passaggio da posizioni di tolleranza e sostegno a posizioni di

contrasto al fenomeno mafioso da parte dell’istituzione ecclesiastica. Quello

che analizzeremo ora è l’insieme dei documenti ufficiali (o degli interventi)

redatti dalle più alte cariche ecclesiastiche, al fine di identificare l’andamento

negli anni della posizione ufficiale della Chiesa in merito al fenomeno mafioso.

L’istituzione ecclesiastica muove i suoi primi passi nella denuncia e nel

contrasto alla mafia solo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, per

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lunghi decenni il fenomeno mafioso non è stato percepito o non è stato ritenuto

degno d’attenzione. Esemplificativo ed esplicativo di quello che era in passato

l’approccio della Chiesa al fenomeno è quanto scrive il cardinale Ruffini nel

1963 in risposta ad una sollecitazione vaticana in seguito ad un attentato

mafioso verificatosi a Palermo – uno dei primi attentati attribuiti senza alcun

indugio alla mafia e che aveva creato preoccupazione e sdegno in tutta la

penisola – per il quale la comunità valdese aveva affisso un manifesto nella

città: riprendendo tale manifesto, la segreteria di Stato inviò una lettera al

cardinale Ruffini in cui lo invitava a valutare la possibilità da parte ecclesiastica

“di promuovere un’azione positiva e sistematica con i mezzi che le sono propri

– d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per

dissociare la mentalità della cosiddetta “mafia” da quella religiosa e per

confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col

triplice scopo di elevare il sentimento civile della popolazione siciliana, di

pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati alla vita umana”

(Deliziosi2006, p. 2). Nella sua rispostaRuffini bollò l’iniziativa dei cittadini

come “un ridicolo tentativo di speculazione protestante” e si dichiarò “sorpreso

alquanto che si possa supporre che la mentalità della cosiddetta mafia sia

associata a quella religiosa. E’ una supposizione calunniosa messa in giro dai

socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata

dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza

proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali” (ibidem). Nella medesima

lettera Ruffini, lanciandosi in una quanto mai ardita spiegazione del fenomeno

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mafioso, aggiungeva: “Un alto funzionario di polizia, ben addentro alle segrete

cose e abilissimo, proponeva il dubbio: che cosa si dovesse intendere per

mafia, e rispondeva egli stesso che trattasi di delinquenza comune e non di

associazione a largo raggio. Spesso sono vendette per torti ricevuti, altre volte

contrasti per interessi privati, che creano gelosie e invidie; tal’altra sono

giovinastri disoccupati che tentano di far fortuna con furti e ricatti; ma in

nessun caso è gente che frequenta la Chiesa” (ivi, p. 3). Come si può notare

dalle parole del cardinale, la mafia non era percepita come un problema sociale,

anzi, forse non esisteva affatto ed era solo invenzione dei veri nemici che

cercavano di infangare il buon nome della Chiesa.

Il cardinale Ruffini viene sempre ricordato, spesso screditato, per questo unico

intervento in cui emerge il suo atteggiamento nei confronti del fenomeno

mafioso che si configurava come un male d'altronde sopportabile, quando, in

realtà, a nostro avviso tutto dipendeva in buona parte dalla generale cecità (o

ingenuità), non solo della Chiesa, rispetto ad un fenomeno ancora per certi versi

sconosciuto. A conferma di ciò vorremmo riportare qualche stralcio (ripreso

sempre in Deliziosi 2006, p. 3) di una lettera pastorale, Il vero volto della

Sicilia, scritta sempre dal cardinale Ruffini l’anno successivo. In questo scritto

il cardinale fa un’analisi molto più lucida e consapevole della mafia

analizzandone le origini e la portata del suo potere: “così il titolo di mafioso

assunse il valore attuale di associazione per delinquere. Qui è necessario

richiamare le condizioni dell’agricoltura nella Sicilia centrale e occidentale.

Venuta meno la difesa che veniva dall’organizzazione feudale e infiacchitosi il

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potere politico, i latifondisti ebbero bisogno di assoldare squadre di picciotti e

di poveri agricoltori per assicurare il possesso delle loro estese proprietà. Si

venne così a costituire uno Stato nello Stato e il passo alla criminalità, per

istinto di sopraffazione e di prevalenza, fu molto breve […] Tale può ritenersi –

concludeva il cardinale – in sostanza l’origine della mafia contemporanea. Né

può destare meraviglia che il vecchio, deplorevole sistema sia sopravvissuto,

pur essendo cambiato il campo dell’azione. Le radici sono rimaste: alcuni capi,

profittando della miseria e dell’ignoranza, sono riusciti a mobilitare gruppi di

ardimentosi, pronti a tutto osare. Questi abusi sono divenuti a poco a poco

tristi consuetudini perché tutelati dall’omertà degli onesti, costretti al silenzio

per paura, e dalla debolezza dei poteri ai quali spettavano il diritto e l’obbligo

di prevenire e di reprimere la delinquenza in qualsiasi momento e a qualunque

costo”.

Chiaro è il dietro front fatto da Ruffini una volta approfondito e studiato questo

ancora sconosciuto fenomeno, ma ciò che importa più di tutto non sono le

singole opinioni del cardinale in merito, bensì, il fatto che per la prima volta la

mafia viene riconosciuta e trattata esplicitamente in un documento ufficiale

della Chiesa Cattolica.

Da qui in poi la strada è aperta ma non del tutto spianata, la progressione

dell’azione antimafia della Chiesa andrà molto a rilento e sarà tracciata da

un’alternanza di posizioni forti e deboli, a volte anche contrarie. Per avere

nuovi risvolti incisivi nella posizione dei vertici ecclesiastici dobbiamo fare un

balzo in avanti di circa una decina d’anni: gli anni ’70 hanno segnato una svolta

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rilevante, anche se non particolarmente incisiva sull’atto pratico, nell’approccio

della Chiesa al fenomeno mafioso, la quale aveva da affrontare due problemi di

rilievo uno puramente interno e l’altro legato ad una nuova emergenza sociale

da fronteggiare.

È il periodo post-conciliare in cui la Chiesa deve riorganizzarsi per cercare di

interpretare e attuare al meglio le direttive del concilio Vaticano II e allo stesso

tempo, oltre agli assestamenti interni, prendeva coscienza del fatto che non

dovessero essere solo le forze dell’ordine e la magistratura ad occuparsi del

prorompente dilagare del fenomeno mafioso: quegli anni sono stati segnati da

un contesto criminale molto forte che vedeva, da un lato, il periodo dei

sequestri e di numerosi omicidi da parte di Cosa Nostra e, dall’altro lato, lo

scoppiare della prima guerra di ‘Ndrangheta. La Chiesa non poteva più

rimanere impassibile e deresponsabilizzarsi davanti ad un simile scenario che

richiedeva un’azione congiunta o comunque contemporanea di diverse sfere

sociali nell’affrontare una simile emergenza. Fu così che, rispettivamente nel

1974 e nel 1975, la Chiesa siciliana e quella calabrese redassero due documenti

di grande importanza nell’analisi delle posizioni ecclesiastiche rispetto al

fenomeno mafioso: il 10 ottobre del ’74 il monsignor Petralia (segretario della

cesi) scrisse a nome dei vescovi siciliani un documento in cui annoverava tra «i

mali sociali» dell’Isola la mafia, “che presume da una parte di risolvere i

problemi della giustizia e dell’onore con le forme più grossolane e delittuose

mentre, dall’altra, si accampa nei settori dell’industria edilizia e dei mercati

con sistemi aggiornati di gangsterismo” (ivi, p. 6); il 30 novembre dell’anno

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successivo monsignor Ferro scrive un documento firmato dalla Conferenza

episcopale calabra in cui i vescovi calabresi “levavano nuovamente la loro voce

[nel ’55 il monsignor Ferro aveva già espresso invano la sua denuncia contro la

‘Ndrangheta] contro [il] fenomeno della mafia, disonorante piaga della società,

segno di arretratezza socioeconomica e culturale, che ormai si estende sempre

più audace con collegamenti e collaborazione multiforme tra gruppi di perfidi

avventurieri del Meridione ed esponenti della più spregiudicata delinquenza

del Nord” (Gratteri &Nicaso 2013 p. 130). Nel proseguo del medesimo

documento i vescovi calabresi vanno oltre la presa di coscienza del fenomeno

mettendo in evidenza “l’avidità sfrenata di questa intollerabile piovra, il

taglieggiamento e lo sfruttamento di ogni attività produttiva, il contrabbando,

le rapine, il sequestro di persone, la corruzione dei pubblici funzionari, e

quindi l’impunito, la sopraffazione dei comuni cittadini, il clima di paura tesa a

favorire l’omertà” ed impegnandosi a “combattere la malavita organizzata,

andando alle radici del male, rinnovando mentalità e costumi, rendendo

testimonianza di giustizia evangelica e di amore fraterno” (ivi, p. 131). Pochi

anni dopo, il 25 novembre del 1979, in occasione della festa di Cristo Re, i

vescovi calabresi ribadisconola loro condanna contro questo “cancro esiziale e

soprastruttura parassitaria che erode la nostra compagine sociale; succhia con

i taglieggiamenti il frutto di onesto lavoro; dissolve i gangli della vita civile;

con sequestri, che non risparmiano neppure le donne e i bambini e con

uccisioni cinicamente consumate, irride e calpesta i valori più alti degli affetti

più sacri della vita». In questo medesimo documento invocano e sostengono

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«una maggiore e più efficiente presenza delle forze dell’ordine, almeno nelle

zone più duramente minacciate da tanta piaga” (ivi, p. 149).

A partire dalla prima presa di coscienza, come possiamo notare da quanto detto

finora, la Chiesa si mantiene teoricamente lontana alla mafia e in una ferma

opposizione che però non conduce a grossi esiti sul campo: la condanna della

Chiesa non sembra influire minimamente sui rapporti con la mafia che

continua a sentirsi parte e ad essere parte integrante del gregge cristiano senza

porre alcun dubbio in merito. Dopo questi primi e radi interventi

sull’argomento, per ritrovare un documento di una certa rilevanza che non sia

iniziativa del singolo sacerdote, vescovo o cardinale dobbiamo fare un balzo in

avanti fino una vicenda precisa scuote la posizione della Chiesa, la quale

sembra in qualche modo frenare bruscamente la sua corsa verso l’azione

antimafia nel momento in cui si pone l’ipotesi di prendere concreti

provvedimenti. Nel maggio del 1989 alla vigilia dell’assemblea della CEI,

durante una conferenza stampa, il cardinale di Napoli, Michele Giordano,

parlando dell’azione della Chiesa nei confronti della lotta alla mafia dice:

“Basta con gli interventi isolati di presuli coraggiosi […[ è tempo che la

Chiesa intera, con tutto il peso della sua autorità morale, si schieri al fianco di

chi combatte la malavita organizzata con una condanna chiara e

inequivocabile” (ivi, p.153) e annuncia che i vescovi avrebbero discusso della

possibilità della scomunica di tutti coloro i quali fossero stati condannati in

tribunale per crimini mafiosi. Nello specifico, il cardinale Giordano aveva

parlato in quell’occasione di «sanzioni canoniche» da adottare nei confronti dei

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mafiosi che comprendevano il divieto di ricevere i sacramenti e di figurare

come padrini nei battesimi e nelle cresime (Sales54

).Il giorno successivo, nel

discorso di chiusura dell’assemblea della CEI, il cardinale Ugo Poletti

smentisce le dichiarazioni del cardinale napoletano affermando: “La scomunica

della mafia non era all’ordine del giorno e non è stata trattata dall’assemblea

della Cei. La questione è stata posta solo da alcuni vescovi del gruppo di studio

sul Meridione. Ma tutto è finito lì. Non è prevista e non è prevedibile nessuna

sanzione di questo tipo. Escludo che anche il documento sul Meridione, atteso

per settembre55

, possa contenere qualche accenno alla condanna della mafia:

La Chiesa nella sua legislazione generale, che è contenuta nel codice di diritto

canonico, già prevede sanzioni che valgono per tutti gli stati di violenza.

Quindi basta attenersi a queste. La condanna della violenza da parte della

Chiesa è sempre chiara e inequivocabile. Ma non è compito della Chiesa

varare provvedimenti particolari, anche perché le stesse autorità civili e

giudiziarie sono perplesse quando devono individuare i responsabili di atti

criminosi” (Gratteri2013, p. 154; Sales, p. 19).

L’accaduto crea una certa ondata di disagio e delusione rispetto ad una Chiesa

che ritorna a deresponsabilizzarsi rispetto all’emergenza mafiosa e che decide,

54

http://www.kainos-portale.com/index.php/malavita-editoriale-e-indice/86-

ricerche12/271-chiesa-e-mafie 55

Il riferimento è ad un documento che uscirà poi nell’autunno di quell’anno

che presenterà una delle più importanti e significative analisi sui problemi che

affliggono il Sud Italia, che di fatti non conterrà alcun riferimento alla

scomunica dei mafiosi.

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ancora una volta, di non prendere una posizione netta nascondendosi dietro i

cavilli legislativi del diritto canonico (sul discorso specifico della scomunica

come strumento di estromissione dalle file cattoliche e come possibile

strumento antimafia ci soffermeremo a breve). Isaia Sales, noto studioso del

fenomeno mafioso, interrogandosi sui motivi che possono aver indotto la

Chiesa a scartare la scomunica come strumento contro le mafie, scrive:

“Torniamo alle parole di Poletti: «Non è compito della Chiesa varare

provvedimenti particolari». Cioè: per contrastare le mafie non c’è necessità di

misure eccezionali. Qui il riferimento non è tanto alla giurisprudenza o alle

azioni di contrasto ‘militare’ dello Stato, quanto allo stretto campo di

competenza della Chiesa: contro le mafie la Chiesa non deve mettere in atto

azioni ‘particolari’ come ad esempio la scomunica. Quindi Poletti considera la

scomunica un’arma particolare, pensa che non sia ancora necessaria e con

queste affermazioni riconosce nei fatti che la scomunica non c’è ancora verso i

mafiosi, smentendo le sue stesse parole («già esiste»).Sicuramente ha influito

sulle gerarchie vaticane e sulle prelature meridionali anche la paura, il timore

di una reazione violenta dei mafiosi. Erano bastate alcune omelie, alcune prese

di posizione più coraggiose della Chiesa per esporla a una prima ritorsione,

con i delitti di due preti nel giro di pochi mesi […]In un ambiente abituato alla

cautela e alla convivenza con forme criminali, la paura di azioni più clamorose

avrà pure pesato. Un secondo elemento di cui tenere conto sta proprio nelle

affermazioni di Poletti: «le stesse autorità civili e giudiziarie sono perplesse

quando debbono valutare i responsabili di atti criminosi». Cosa voleva dire

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l’allora segretario della Cei? Certo è difficile individuare un mafioso quando

non è condannato per questo reato, dunque una scomunica generale verso di

essi potrebbe imbarazzare un prete nell’applicarla: la comunione si deve dare

o no ad uno che tutti sanno essere mafioso ma non ha avuto condanne? Si deve

consentire che facciano da padrini di battesimo? […] Il cardinale Giordano,

per la verità, aveva proposto la scomunica per quelli già condannati,

superando intelligentemente il problema. Dunque non era questa la difficoltà.

Essendo la mafia e le consorelle organizzazioni di massa, attorno a cui oltre

agli aderenti orbita tutto un mondo di professionisti, di politici, di settori estesi

delle classi popolari e dei colletti bianchi, la scomunica avrebbe potuto avere

effetti non calcolabili nel rapporto della Chiesa con questi stessi strati sociali.

[…]La Chiesa ha avuto enormi difficoltà a riconoscere il reato di associazione

di tipo mafioso, perché esso non individua la colpa in un atto specifico ma

nell’atteggiamento e nella forza derivante dal vincolo associativo, cioè rompe

il rapporto individuale tra colpa e castigo, e rende potenziali mafiosi un

numero esteso di persone non strettamente criminali. Insomma, se per le altre

scomuniche comminate si trattava di persone o di mondi sociali e culturali già

in qualche modo distaccatisi dalla Chiesa per ragioni politiche, scientifiche o

altro, nel caso dell’eventuale scomunica alle mafie si andava a colpire un vasto

mondo di credenti. Troppo per la Chiesa” (ivi, pp. 20-21).

Una svolta decisiva è quella messa in pratica da Papa Giovanni Paolo II in

Sicilia dove, durante diversi discorsi alla folla di credenti, condanna

apertamente la mafia come male sociale. Tra tutti due sono gli interventi più

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incisivi ed espliciti. Il primo del 9 maggio 1993 ad Agrigento durante il quale,

mosso dal dispiacere e il disprezzo per le note stragi siciliane che strapparono la

vita a grandi uomini come i giudici Falcone, Borsellino e Livatino, mosso dallo

spirito di giustizia pronunciò delle parole che gli nacquero spontanee (non

erano, infatti, parte del discorso ufficiale) “Dio ha detto una volta: non

uccidere. Non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il

diritto divino alla vita...Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è

Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili. Convertitevi, un giorno arriverà

il giudizio di Dio!”. La mafia rispose con degli attentati che danneggiarono le

chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro (almeno la

Chiesa ritenne tali attentati una risposta all’anatema del Papa). Memore di tali

avvenimenti e della morte di padre Pino Puglisi, nel 1995 Papa Wojtyla a

Palermo ribadì la posizione di assoluta condanna della Chiesa verso la mafia e a

chiusura del suo discorso esortò: “Spetta alle genti del Sud essere le

protagoniste del proprio riscatto...E le ragioni di una cultura della moralità,

della legalità, della solidarietà stanno progressivamente scalzando alla radice

la mala pianta della criminalità organizzata” indicando alla comunità

ecclesiale la strada giusta da seguire.

Ciò che vogliamo far presente riportando gli interventi di Papa Wojtyla in

merito al fenomeno mafioso non sono tanto le sue parole, ma il fatto che sia

proprio lui, in qualità di massimo esponente dell’istituzione ecclesiastica, a

pronunciarle. L’interesse diretto ed esplicito del pontefice apre un nuovo

capitolo delle posizioni ufficiali: da quel momento in poi la mafia è un

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problema di cui la Chiesa si fa ufficialmente carico, un problema che si

impegna attivamente a risolvere in quanto emergenza sociale che colpisce le

comunità dei fedeli. È facile rendersi conto della portata di questo evento che,

da quel momento in poi, seppur con qualche difficoltà e una buona dose di

lentezza, spingerà la Chiesa a curare la sua cecità e la sua passività difronte alle

azioni mafiose intensificando gli interventi ufficiali ed esprimendo posizioni

più decise. E non solo, una volta incrinato il comodo rapporto mafia-chiesa da

sempre segnato da un tacito sostegno, anche la mafia comincerà ad avere gli

occhi aperti e a guardarsi le spalle da una volta che quella storica convivenza

così espressamente interrotta e condannata dal Papa in persona. Testimonianza

di ciò sono le parole di Salvatore Griglioli, autore dell’assassinio di don Pino

Puglisi divenuto collaboratore di giustizia dopo il suo arresto, che dichiara:

“Ero un mafioso agli ordini dei boss di Brancaccio quando il Papa lanciò dalla

Valle dei Templi l’anatema contro di noi. Non ricordo bene le parole, ma da

allora in Cosa nostra si cominciò a vociferare che la Chiesa cominciava ad

essere diversa”, forse scomoda, verrebbe da aggiungere (Chirico in AAVV

2013, p. 93).

Poco dopo il primo intervento papale, nel novembre del 1993, infatti, si tenne

ad Acireale il terzo convegno delle Chiese di Sicilia in occasione del quale il

vescovo di Agrigento, monsignor Ferraro, propose prima di tutto un’urgente

riflessione autocritica all’interno della Chiesa stessa: “Una montagna di

domande attende risposte. Come mai tale fenomeno tra i battezzati? Che cosa è

mancato? Che cosa si è taciuto? Quale significato bisogna dare al silenzio e

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all'indifferenza? La prassi pastorale delle parrocchie tiene conto di questi

interrogativi? La predicazione ha individuato i temi fondamentali ai quali dar

risposta nell'annunzio del Vangelo?”. E aggiunse: “La mafia come oppressione

richiede un progetto evangelico di liberazione. Bisogna provvedere. Urge una

riflessione seria, una risposta puntuale” (Deliziosi2006, p. 12). A conclusione

dei lavori le parole del cardinale Pappalardo, pronunciate durante un’omelia al

Duomo di Catania, sono inequivocabili: “Ci siamo interrogati, come singoli e

come Chiesa, - disse il cardinale Pappalardo, riferendosi al convegno -

rendendoci conto che non sempre, forse, nel passato sono state chiaramente

percepite l'intrinseca gravità e le nefaste conseguenze tanto sociali che

ecclesiali del fenomeno mafioso, fino a ingenerare l'impressione che certi

diffusi silenzi o non troppo esplicite ed articolate condanne potessero essere

segno di insensibilità o di tacita convivenza” (ivi, p. 13).

Con questi interventi si diede inizio alla fase del “mea culpa” che continuò in

modo esplicito anche l’anno successivo, sempre tra i prelati siciliani. Nel

gennaio del ’94 a Cefalù, durante un incontro organizzato dal vescovo in carica,

Rosario Mazzola, monsignor Cirrincione afferma: “La mafia all'inizio

sembrava criminalità ordinaria. Soltanto in ritardo ci siamo accorti che non

era così... Negli anni Settanta alcuni vescovi affermavano che nella loro

diocesi non c'era la mafia, che si trattava di un fenomeno di alcune parti della

Sicilia. Invece ci si è accorti dopo qualche anno che anche in quelle terre c'era

la mafia e anzi proprio in quelle diocesi c'erano i centri organizzativi […] Non

si sono considerati nel pieno della loro valenza negativa il favoritismo, la

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raccomandazione, il clientelismo, gli appalti. Non abbiamo capito che così si

favoriva la mafia. Queste sono colpe nostre. [Bisogna cominciare] dalla

catechesi dei bambini, il nostro futuro. Insegniamo a non uccidere, don Puglisi

è stato assassinato proprio perché diceva che la vendetta era contro il

Vangelo”. E nella stessa occasione monsignor Miccichè rincara la dose di

autocritica: “La cultura della mafiosità è prepotenza, è il non rispetto delle

leggi. Anche noi, pur di costruire chiese, ci siamo prestati a qualcosa di poco

lecito. Se la mafia è denaro, è potere, la Chiesa di Sicilia deve riconoscere di

non aver preso coscienza per tempo del peccato” (ibidem). Queste riflessioni

furono lo spunto per un documento redatto nello stesso anno dalla Conferenza

episcopale siciliana nel quale i vescovi oltre a ribadire i concetti già emersi

aggiungono: “Tutti coloro che aderiscono alla mafia o pongono atti di

connivenza con essa debbono sapere di essere e di vivere in insanabile

opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori della

comunione della sua Chiesa” e propongono di opporre alla mafia “la forza

disarmata ma irriducibile del Vangelo... rivolta alla promozione e alla

conversione delle persone, ma nello stesso tempo intransigente nel non

autorizzare sconti o ingenue transazioni per ciò che concerne il male, chiunque

sia a commetterlo o a trarne profitto” (ivi, p. 14).

6. Contro la mafia nel nuovo millennio

Gli anni ’90 sono stati sicuramente fondamentali per la lotta alla mafia italiana

in tutte la società non solo tra le file cristiane: nascono, vengono pubblicizzate

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ed incrementano le loro attività una molteplicità di associazioni antimafia

operanti in tutta Italia, viene istituita la Direzione Nazionale Antimafia,

crescono esponenzialmente gli studi scientifici sul fenomeno e le riviste

giornalistiche d’inchiesta che si occupano di fatti di cronaca mafiosa, insomma,

la conoscenza sulla mafia cresce insieme al biasimo della società e alla voglia

di contrastarla. Come dicevamo poc’anzi, gli anni ’90 hanno sicuramente dato

una scossa anche all’inerzia e all’inconsapevolezza della Chiesa, ma per

assistere ad un intensificarsi effettivo della condanna al fenomeno bisogna

aspettare la svolta del nuovo millennio: a partire dal 2002, infatti, molteplici

saranno gli interventi ecclesiastici significativi contro la mafia e, come

vedremo, non dovremo più aspettare il passare di anni tra uno e l’altro.

Nel 2002, per voce della Conferenza episcopale calabra, viene redatta una

lettera pastorale in cui, dopo aver biasimato le “forme solo esteriori di

religiosità che non generano il conforto diretto con il Vangelo” ed aver

riutilizzato le tre parole guida (insegnate dal vescovo Tonino Bello)

annunciare, denunciare, rinunciare per descrivere l’impegno della Chiesa, i

vescovi calabresi dichiarano: “La mafia sta prepotentemente rialzando la testa.

E di fronte a questo pericolo, si sta purtroppo abbassando l’attenzione. Il male

viene ingoiato. Non si reagisce. La società civile fa fatica a scuotersi. E’ chiaro

per tutti il giogo che ci opprime. Le analisi sono lucide ma non efficaci. Si è

consapevoli, ma non protagonisti! La mafiosità, poi, è ancora più pericolosa

della mafia stessa. Perché si insinua tra le pieghe delle istituzioni, diventa

facile accomodamento, addirittura in certi casi si trasforma in comoda

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autogiustificazione (poiché c’è la mafia, è inutile operare, inutile investire,

inutile cambiare e vano è restare per cambiare la nostra terra!)” (allegato in

CEC 2005, p. 36)56

. È un chiaro ammonimento rivolto alla comunità passiva,

alle istituzioni colluse e all’inerzia generale di opposizione e freno del

fenomeno mafioso.

Qualche anno dopo, dal 3 al 5 marzo del 2006, si tenne a Vibo Valentia la

Settimana Sociale Calabrese in cui riemerge, seppur in un unico accenno,

l’esigenza di combattere e resistere alla tentazione mafiosa ponendo

l’adorazione e la fede come generatore di forza: “L’adorazione è il vertice della

speranza. E’ la grande risorsa che ci fa tenere alta la testa per non piegarla

davanti ai capricci ed egoismi dei tanti prepotenti dei nostri paesi, insidiati

dalla mafia e dall’illegalità. Dove è difficile dire certi NO, perché ti

comprometti” (CEC 2005, p. 15).

L’anno successivo, il 26 e il 27 gennaio, ebbe luogo a Falerna un convegno

organizzato dalla Caritas che diede vita ad un nuovo importante documento

della CEC dal titolo Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo57

in

cui viene fatta un’attenta analisi del fenomeno mafioso e delle implicazioni che

il suo agire ha sul territorio calabrese e stilato un piano d’azione che, seppur

56

http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=

0CCEQFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.chiesacattolica.it%2Fcci_new%2Fp

agine%2F355%2FSettSocCalabria.doc&ei=i1yMVLqOAcGqywPjs4DIBw&us

g=AFQjCNEnvWHH5e0d0cU81JN-FcpKntXBoQ&bvm=bv.81828268,d.bGQ 57

http://www.stopndrangheta.it/stopndr/art.aspx?id=1630,%22Se+non+vi+conv

ertirete+perirete+tutti+allo+stesso+modo%22

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molto astratto e teorico, comunque significativo: “Dobbiamo interrogarci con

lucidità sul tipo di cultura della vita e della legalità oggi percepita dai

cristiani, dalle famiglie, dai gruppi e dalle comunità parrocchiali. Con

altrettanta lucidità, dobbiamo individuare i passi da compiere per costruire

una società più giusta e solidale, tale proprio perché finalmente sciolta dalle

catene del peccato e del male imposte dalle organizzazioni criminali. […] Un

impegno consapevole è richiesto innanzitutto ai Vescovi, ai Presbiteri, ai

consacrati ed a tutti gli operatori pastorali. È indispensabile, infatti, maturare

una profonda coscienza della responsabilità che ci è stata affidata nel

ministero dell’annuncio e dei sacramenti, ma anche nel compito di guide ed

educatori, coltivando una vita di preghiera e carità e coniugando per primi, nel

nostro quotidiano, autenticità, coerenza, amore per il prossimo, giustizia e

legalità”(p. 11).

Con gli atti del convegno di Falerna è stato redatto e pubblicato un libro dal

titolo È Cosa Nostra. Una pastorale ecclesiale per l’educazione delle coscienze

in contesti di ‘ndrangheta, un testo – dal titolo sicuramente provocatorio che

indica il bisogno e la voglia della comunità calabrese, religiosa o meno, di

riappropriarsi delle terre in cui domina la ‘ndrangheta – in cui attraverso il

contributo di diversi autori, impegnati e non nell’azione cattolica (collaborano

al testo uomini di chiesa molto noti per la loro azione antimafia e vari studiosi

attenti al fenomeno esterni alla Chiesa), viene presentata un’attenta analisi dello

status del fenomeno mafioso in Italia (con particolare attenzione alla Calabria) e

riportate le conclusioni rispetto all’analisi e prassi antimafia da seguire emerse

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in occasione del convegno. A proposito di quest’ultimo, nell’introduzione al

libro don Ennio Stamile (delegato regionale Caritas Calabria) scrive: “ci siamo

accorti che non si può intervenire in modo radicale su questi problemi della

società calabrese e non solo, se non si capisce e non si aggredisce il fenomeno

mafioso. La ‘ndrangheta è una piaga che sta sotto tutte le altre emergenze e le

contiene. Le due giornate veramente intense, sono state caratterizzate da tanta

voglia di partecipare e di comprendere; si percepiva, insomma, l’interesse di

ciascuno, soprattutto dei tanti giovani presenti, non è stato il solito convenire,

né la solita passerella” (Stamile&Schinella 2007, p. 5).

Scorrendo sulla cronologia dei documenti e degli interventi ecclesiastici in

materia, tre anni dopo troviamo, in un documento dell’episcopato italiano,

titolato Per un paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno58

e redatto a Roma

il 21 febbraio 2010, troviamo un intero paragrafo riguardo «la piaga profonda»

della criminalità organizzata nel quale le mafie vengono definite «strutture di

peccato» che «deformano il volto autentico del Sud»: “La criminalità

organizzata non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della

politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di

intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese, perché il

controllo malavitoso del territorio porta di fatto a una forte limitazione, se non

addirittura all’esautoramento, dell’autorità dello Stato e degli enti pubblici,

58http://www.stopndrangheta.it/stopndr/art.aspx?id=1652,Per+un+Paese+solida

le.+Chiesa+italiana+e+Mezzogiorno

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favorendo l’incremento della corruzione, della collusione e della concussione,

alterando il mercato del lavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle

scelte urbanistiche e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni,

contaminando così l’intero territorio nazionale. […]Non va ignorato,

purtroppo, che è ancora presente una cultura che consente loro di rigenerarsi

anche dopo le sconfitte inflitte dallo Stato attraverso l’azione delle forze

dell’ordine e della magistratura. C’è bisogno di un preciso intervento

educativo, sin dai primi anni di età, per evitare che il mafioso sia visto come un

modello da imitare. […]in un contesto come quello meridionale, le mafie sono

la configurazione più drammatica del “male” e del “peccato”. In questa

prospettiva, non possono essere semplicisticamente interpretate come

espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante

di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono

strutture di peccato. Solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità

mafiosa permette di uscirne veramente e, se necessario, subire violenza e

immolarsi” (pp. 7-8).

Nell’ottobre dello stesso anno, a Palermo, anche Papa Benedetto XVI si

esprime contro la mafia invocando il coraggio e la forza dei giovani siciliani:

“Cari giovani di Sicilia, siate alberi che affondano le loro radici nel “fiume”

del bene! Non abbiate paura di contrastare il male! Insieme, sarete come una

foresta che cresce, forse silenziosa, ma capace di dare frutto, di portare vita e

di rinnovare in modo profondo la vostra terra! Non cedete alle suggestioni

della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo, come

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tante volte i vostri Vescovi hanno detto e dicono!”59

.

E giungiamo al termine della nostra rassegna sugli interventi ecclesiastici con il

più recente e significativo intervento di Papa Francesco nella Piana di Sibari nel

giugno del 2014 durante il quale Bergoglio annuncia a gran voce: “I mafiosi

non sono in comunione con Dio. Sono scomunicati”. Testimoni circa 250000

fedeli che ammutoliscono difronte il discorso del pontefice, che inveisce contro

gli adoratori del male: “Quando all’adorazione del Signore – dice il Papa

scandendo bene le parole – si sostituisce l’adorazione del danaro, si apre la

strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione. Quando non si

adora il Signore si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali

vivono di malaffare e violenza. […] La vostra terra tanto bella conosce i segni

e le conseguenze di questo peccato. La ‘ndrangheta è questo: adorazione del

male e disprezzo del bene comune. E questo male va combattuto, allontanato.

Bisogna dirgli di no”. E continua il suo discorso invocando impegno da parte di

tutta la Chiesa: “La Chiesa – riconosce il Santo Padre - che so tanto impegnata

nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa

prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi. Ce lo domandano i nostri giovani

bisognosi di speranze…”60

. Parole molto simili a quelle già espresse negli anni

59http://benedettoxvielencospeciali.blogspot.it/2013/01/gli-interventi-di-

benedetto-xvi-contro.html

60http://www.malitalia.it/2014/06/papa-francesco-e-la-scomunica-alla-

ndrangheta/

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passati dai vescovi e i Papi che lo hanno preceduto, eccetto una, questa volta

gridata a gran voce dalla massima autorità ecclesiastica: i mafiosi sono

«scomunicati». Non è cosa di poco conto una simile presa di posizione da parte

del pontefice: a prescindere dalle effettive conseguenze, che eventualmente,

potranno essere visibili nell’agito ecclesiastico solo in un futuro prossimo,

pronunciare una simile parola che rappresenta la condanna più importante

inflitta dalla Chiesa ad un fedele e sulla quale, come abbiamo visto, già in

passato si era aperto uno spiraglio subito bruscamente richiuso, ha un

significato deciso e categorico nel giudizio verso i mafiosi. Lo scomunicato non

può accedere ai sacramenti ed è estromesso da tutte le attività religiose eseguite

dalla Chiesa, perciò, in virtù di quanto detto sulla devozione mafiosa e sulla

strumentalizzazione dei sacramenti, si può capire il disagio e le difficoltà cui

andrebbe in contro la mafia italiana che su questi riti ha costruito parte della sua

identità e la sua legittimazione interiore e sociale. Molti nutrono speranza in tal

senso proprio in Papa Francesco, promotore di tanti cambiamenti rivoluzionari

e innovativi nella Chiesa, di cui, ancor prima del suo intervento nella Piana di

Sibari, don Luigi Ciotti aveva detto: «Credo che ci sia dentro di lui la voglia di

portare avanti un processo di purificazione, anche all’interno della Chiesa, da

un punto di vista del potere». Un intento importante nella lotta alla mafia, in

quanto, la Chiesa può opporsi allo sfruttamento mafioso solo se è disposta

prima di tutto a purificare se stessa.

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Conclusioni: prospettiva di un’unitaria azione antimafia

Abbiamo visto finora come si articola dai diversi punti di vista il rapporto tra la

mafia e l’istituzione ecclesiastica preoccupandoci di individuare alcuni aspetti

fallaci che hanno permesso per anni alla mafia di servirsi del mondo religioso

per perseguire i suoi scopi di riconoscimento, legittimazione e acquisizione di

potere sociale. Accingendoci a concludere, traendo le somme di quanto detto

fino a questo momento, ci proponiamo di individuare una possibile linea

d’azione utile a ledere l’incisività del fenomeno. In questo percorso riflessivo,

riassumendo brevemente i punti cardine che hanno permesso il consolidamento

della situazione attuale, cercheremo di capire: in primo luogo, cosa la Chiesa

potrebbe fare al suo interno, in quanto istituzione sociale inquinata

(volontariamente o meno) dalla mafia, per risanare la sua ambiguità e

ambivalenza nei confronti del fenomeno mafioso; in secondo luogo, cosa

potrebbe fare in collaborazione con le altre istituzioni sociali.

In Calabria la ‘ndrangheta è difficile da sradicare perché non c’è un’entità da

colpire, ma una rete di rapporti, un sistema di relazioni anche politiche che

avviluppano la Regione; in Calabria non c’è solo il boss da catturare, non è la

sola azione di polizia o giudiziaria che può smantellare il fenomeno, che ha

radici più profonde. Bisogna, quindi, chiedersi: come fanno le istituzioni

politiche a spezzare questa rete di rapporti se questa stessa rete si ramifica fino

agli uffici statali? È qui che, a parere di chi scrive, potrebbe intervenire la

Chiesa. Le istituzioni politiche sono immerse nella logica del potere, il quale si

configura come il loro principale strumento d’azione (in teoria adoperato per

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ottenere il bene collettivo), e in quanto tali le persone che lavorano al loro

interno sono perennemente soggette alla tentazione di perseguire i propri

interessi personali prima di quelli della collettività. L’istituzione ecclesiastica,

al contrario, per sua stessa natura dovrebbe essere immune alle logiche del

potere e perseguire la sua missione umanitaria seguendo quelle “istruzioni

evangeliche” talmente note che risulta inutile approfondire in questa sede.

Detto questo, è chiaro che anche la Chiesa è un’istituzione fondata e gestita da

esseri umani anch’essi soggetti alle tentazioni terrene, per usare un linguaggio

religioso, ma, per le ragioni ontologiche pocanzi esposte, è sicuramente meno

frequente che cadano vittime del fascino del potere e della ricchezza. Di contro,

l’errore più spesso compiuto, per ignavia o ignoranza, dagli uomini di chiesa

nel rapporto con la criminalità organizzata è l’inattività che in particolari zone

calabresi permette il protrarsi dello status quo a favore dei mafiosi.

La Chiesa, dopo circa un secolo di mutismo e/o connivenza con il fenomeno

mafioso, nei due decenni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio lo ha

riconosciuto e contrastato apertamente, anche se non sempre in modo

abbastanza incisivo, attraverso denunce ufficiali ma, soprattutto, attraverso

l’azione dei singoli uomini che si sono impegnati nella lotta antimafia. Un

passo sicuramente importante ma con buona probabilità non sufficiente allo

scopo ultimo di sconfiggere l’onorata società: infatti, il riutilizzo dei beni

confiscati, i vari progetti portati avanti con dedizione da coraggiosi uomini di

chiesa, etc. sono tutte ottime attività per indebolire il sistema mafioso ma non

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sono sufficienti per smantellarlo, in quanto, sono solo ottimi rimedi ai danni da

esso già causati che non gli impediscono di causarne altri.

Per supporre di poter realmente indebolire e poi sconfiggere la mafia è

necessario prima di tutto distruggere il consenso generato intorno ad essa, che

la legittima nelle sue azioni. L’arma più potente al fine di ottenere un simile

risultato è, a nostro avviso, proprio in mano all’istituzione ecclesiastica.

Abbiamo parlato dell’importanza dei sacramenti religiosi per i mafiosi, che si

servono di questi per confermare il loro rapporto con Dio (che così “legittima”

il loro operato) e per saldare vincoli parentali “sacri” nello stesso clan e tra clan

diversi (la funzione del comparatico e del matrimonio). Esiste una soluzione

netta già avanzata dalla Chiesa in passato, ma bruscamente bocciata, e poi

riemersa nel recente intervento di Papa Francesco nella Piana di Sibari: la

scomunica. La scomunica è la pena più grave inflitta dalla Chiesa ad un

battezzato e può essere di due tipi: lataesententiae, che non è esplicitamente

espressa da un’autorità ecclesiastica ma colpisce automaticamente qualunque

fedele che tenga in essere un comportamento delittuoso o faccia uso della

violenza (nel codice del diritto canonico, inoltre, si fa espressamente

riferimento a coloro che praticano l’aborto con il can. 1398, ai responsabili di

apostasia, eresia e scisma con il can. 1364 e agli appartenenti alla massoneria

con il can. 1364); ferendaesententiae, che deve essere espressamente inflitta da

un organo ecclesiastico. Secondo quanto scritto nel codice del diritto

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ecclesiastico61: “can. 1331 - §1. Allo scomunicato è fatto divieto: 1) di prendere

parte in alcun modo come ministro alla celebrazione del Sacrificio

dell'Eucaristia o di qualunque altra cerimonia di culto pubblico; 2) di

celebrare sacramenti o sacramentali e di ricevere i sacramenti; 3) di esercitare

funzioni in uffici o ministeri o incarichi ecclesiastici qualsiasi, o di porre atti di

governo”. Come si può leggere i fedeli colpiti da scomunica non possono più

ricevere i sacramenti. Se la Chiesa scomunicasse espressamente, con un

documento ufficiale e non solo con l’importantissimo anatema di Papa

Francesco, coloro che fanno parte delle organizzazioni mafiose si toglierebbe

all’onorata società uno strumento fondamentale di affiliazione e di

riconoscimento e legittimazione sociale, oltreché identitario: i mafiosi

vedrebbero cadere ufficialmente la maschera di “buoni cristiani” che portano

sul volto e che li rende “persone per bene” agli occhi della comunità

(soprattutto nei piccoli paesi del sud dove il “perbenismo religioso” è un

elemento sociale di prioritaria importanza), della Chiesa e ai loro stessi occhi

(destabilizzando l’idea e la rappresentazione che la mafia ha di sé), così, non

sarebbero più in grado di disporre facilmente riti, rituali ed eventi religiosi a

proprio vantaggio. In questo modo, al di là dell’etichetta di “cristiano doc”,

dovrebbero rinunciare anche alla celebrazione di matrimoni di convenienza,

all’organizzazione delle feste in onore dei santi (quindi anche a portare in spalla

61 Per prendere visione degli articoli del codice del diritto canonico si rimanda

al link http://www.vatican.va/archive/ITA0276/_INDEX:HTM

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le statue tanto desiderate o deciderne il percorso e le riverenze), al comparatico,

al titolo di cavaliere dell’ordine di San Silvestro (tanto vantato da Lampada) e a

tutti quei riconoscimenti che favoriscono prestigio sociale ottenuti per mezzo

dell’aiuto indiretto della Chiesa.

In merito alla condanna da parte della Chiesa alla mafia, lo storico Marino

afferma che, “per essere veramente efficace anche sul piano simbolico la

condanna espressa dalla Chiesa deve colpire tutti gli aderenti, simpatizzanti,

fiancheggiatori e sostenitori delle mafie, indipendentemente dalla commissione

di qualche fatto specifico, traendo così le doverose conclusioni dalla

definizione di mafie come strutture di peccato” contenute nel documento sul

Mezzogiorno approvato dalla Conferenza episcopale nel 2010 (Gratteri

&Nicaso2013, p. 155). L’opinione di Marino è sicuramente valida per quanto

riguarda la condanna generica dei mafiosi, ma non sarebbe di facile

applicazione (probabilmente neanche giusta) nel caso della scomunica. Ci

rendiamo conto, infatti, che proponendo il mezzo della scomunica come arma

antimafia è necessario fare delle dovute precisazioni: innanzi tutto, la

scomunica dovrebbe colpire coloro che sono già stati condannati dalla

magistratura per associazione mafiosa, così come aveva già proposto il

cardinale Girolamo nell’89; su questo punto si annoda un’altra questione di

prioritaria importanza nell’azione antimafia, ovvero, la stretta collaborazione

con la magistratura rinnegando la posizione di alcuni preti che dichiarano di

non essere tenuti a controllare la fedina penale di chi va a chiedere un

sacramento. Utile sarebbe, al contrario, che la Chiesa e la magistratura

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collaborassero tra di loro al fine di rendere più semplice l’individuazione e la

condanna (intesta in senso lato) di quanti fanno parte dell’organizzazione

mafiosa. Sarebbe bene che i preti con simili atteggiamenti seguissero l’esempio

di don Ennio Stamile (in AA.VV. 2013, pp. 20-21) nella situazione in cui un

giovane mafioso andò a chiedergli di confessarlo:

«Mi perdoni?». «Si». «Mi confessi?». «No». «Sono buono, non

sono fesso. Vorresti dirmi delle cose, in confessionale, che non

potrei ripetere all’autorità giudiziaria. Ma io sono sottoposto

alle leggi dello Stato italiano, oltre che alle leggi di Dio. Vatti a

confessare da un altro sacerdote»

Da episodi come questo dovrebbero trarre insegnamento quei preti che non

credono giusta collaborazione con la magistratura, che ritengono ogni

istituzione debba affrontare i problemi sociali separatamente ognuno con i

propri metodi.

Sulla questione della collaborazione tra le diverse istituzioni sociali torneremo

più in là, ci preme adesso rimanere su ciò che la Chiesa potrebbe fare, prima di

tutto, al proprio interno.

L’istituzione ecclesiastica, prima di compiere qualsiasi passo nell’azione

antimafia, a parere di chi scrive, potrebbe innanzitutto avviare una consapevole

autocritica al fine di costruire un’unità e una coerenza ecclesiastica. Il concetto

di autocritica, in realtà, non è del tutto estraneo ad alcuni uomini di chiesa che,

riconoscendo e biasimando gli errori commessi dalla Chiesa in passato,

riconoscono l’esigenza di un mea culpa che bisognerebbe fare prima ancora di

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agire verso qualcuno: «Si è consapevoli ma non si è protagonisti» afferma don

Giacomo Panizza mentre racconta i suoi tentativi di mettere in luce

l’emergenza del fenomeno mafioso nelle varie riunioni con i suoi confratelli

che di affrontare l’argomento non avevano affatto voglia (Panizza &Fofi 2011,

p. 222); “ci vorrebbero chiari orientamenti pastorali, da applicare in ogni

parrocchia, escludendo così ogni discrezionalità. […] Non ci possono essere

preti coraggiosi e preti codardi. Ci devono essere preti che applicano la

norma” (Gratteri & Nicaso,2013, p. 166) queste le parole di don Tommaso

Scicchitano, parroco trentacinquenne di Donnici Inferiore (CS).

Chiaramente, una volta compiuta l’azione autocritica e stabilita una linea

d’azione unica che parte dalle alte sfere ecclesiastiche, non bisogna dimenticare

un fattore estremamente importate a volte ignorato dalla Chiesa: la sanzione

degli uomini di chiesa che non rispettano le direttive vaticane. È ovvio che non

serve, ad esempio, ufficializzare la scomunica dei mafiosi se poi il prete del

piccolo paesino calabrese celebra le nozze di un latitante o permette al mafioso

di gestire la festa padronale o consente al boss di fare da padrino al figlio del

suo braccio destro. Per ovviare simili problemi la giusta soluzione è sanzionare

i trasgressori delle regole stabilite (a quel punto divenute parte della legge

vaticana), ovviamente con i modi che ritiene più opportuni, purché non si

insabbino particolari vicende o addirittura non si prendano le difese dei preti

collusi (vedi il caso don Stilo) come in passato.

Per sintetizzare, la Chiesa non è una somma di preti e suore ma un’istituzione

sociale e come tale dovrebbe operare, compatta e unita su un unico fronte. Le

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eccezioni non dovrebbero essere i sacerdoti che si oppongono al potere

mafioso, ma quelli collusi o troppo impauriti per assolvere al loro ruolo di

guide spirituali e la Chiesa potrebbe escludere e punire queste eccezioni, non

proteggerle per salvare le apparenze: solo facendo ciò la Chiesa sarà capace di

ripulire se stessa dalla corruzione e dalla paura sottraendo ai mafiosi la loro

arma più potente, ovvero, la “collaborazione di Dio”. È necessario minare la

mafia nelle sue fondamenta simboliche, ideologiche e sociali prima che

economiche: prima di tutto negando la forza identitaria alla mafia si può

impedire la sua rigenerazione e per far ciò è necessario che l’attivismo

antimafia ecclesiastico parta dall’alto, così da unificare le linee d’azione, e si

applichi a livello locale con l’operato dei preti che vivono in terra di mafiosa.

Si è parlato poc’anzi della necessità di una collaborazione tra le varie istituzioni

sociali al fine di minare la robustezza della mafia. Prima di andare oltre sembra

necessario fare alcune precisazioni circa il fenomeno mafioso affinché si possa

meglio individuare una linea d’azione utile.

L’onorata società si configura a tutti gli effetti come una “istituzione sociale

ufficiosa” che convive con le altre istituzioni sociali elavora in interazione con

queste delineando il volto della società italiana. È un punto nodale da non

sottovalutare: come abbiamo avuto modo di illustrare all’inizio del nostro

lavoro, la mafia come fenomeno sociale non è costituito solo dalle azioni

dell’onorata società, bensì, dalle azioni combinate degli uomini d’onore con gli

uomini collusi appartenenti alle altre sfere sociali (politiche, religiose,

economiche, educative, etc.). La mafia non sarebbe in grado si sopravvivere

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senza la connivenza di quella parte della società che se ne serve per non

sporcarsi le mani nel raggiungimento di obiettivi illeciti: i mafiosi sono

sfruttatori palesi delle terre e delle comunità, dei beni pubblici e della vita dei

cittadini; ma quella sezione ombrata delle istituzioni è lo sfruttatore latente

della società mafiosa alla quale attribuiamo tutte, o quasi tutte, le responsabilità

criminali.

Detto ciò, proviamo a fare un esercizio riflessivo che capovolga il punto di

vista: si parla sempre di una mafia che vive compiendo azioni illegali

(antisociali) che cozzano con la legislazione del resto della società.

Giustissimo, ma dicendo questo si dimentica sempre di analizzare l’altra faccia

della medaglia, ovvero, quella parte della “società civile” non appartenete

all’onorata società che favorisce la situazione proprio perché può farla fruttare a

suo vantaggio. Adesso una precisazione: gli uomini d’onore non vivono senza

giustizia, nell’anarchia legislativa, ma hanno le loro leggi e le loro regole più o

meno rigide così come hanno le loro punizioni, semplicemente seguono una

legislazione impropria rispetto a quella della società che li circonda; credono di

stare nel giusto, di non commettere peccato e se sbagliano vengono puniti.Ma

possiamo dire lo stesso degli uomini appartenenti alle istituzioni sociali (che

spesso collaborano alle operazioni compiute dai malavitosi)? Possiamo dire lo

stesso dei politici, degli imprenditori o degli uomini di chiesa che si associano

alla mafia, consapevoli di infrangere la legge, semplicemente per nutrire i

propri interessi e non “per principio” come invece possono fare gli uomini

d’onore che credono realmente nel proprio modo di fare? Cosa possiamo dire di

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questi uomini “istituzionali” che volontariamente mostrano due volti (uno

legale e uno non) dapprima difendendo e professando la legge ed i principi

morali della società, e seguendo (quando non istituendo) le regole dell’onorata

società poi?

Scevri da qualsiasi giudizio di valore o di merito è necessario fare una

puntualizzazione per meglio delineare i profili di tutti gli attori sociali coinvolti

nel fenomeno mafioso.

Gli uomini d’onore nascono, crescono e il più delle volte muoiono in un

contesto di vita peculiare che fin dalla culla li educa a determinati principi e

regole, e uno studioso attento dell’essere umano nel suo vivere sociale così

come uno studioso attento dell’essere umano nella sua individualità e nella sua

psicologia sanno quale importanza assume il contesto sociale e soprattutto

familiare nella formazione dell’individuo. Per dirla con parole chiare, senza

scendere troppo nel dettaglio delle teorie sociologiche e psicologiche, la

famiglia insegna all’individuo a vivere nel mondo e su questo punta le sue carte

la mafia (in particolar modo la ‘ndrangheta), nell’azione di trasmissione dei

valori. Al contrario, gli uomini “istituzionali” (sindaci, preti, assessori, suore,

magistrati, etc.) nascono e crescono in famiglie che probabilmente li educano

alla legalità, o che comunque convivono con la società, e che scelgono

autonomamente di assumere un atteggiamento bifronte tra il legale e l’illegale e

che, anzi, spesso sono essi stessi volti della società istituzionale (legale) (si pesi

ai magistrati o appartenenti delle forze dell’ordine collusi) questa è la principale

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differenza dal punto di vista sociologico tra “mafiosi malavitosi” e “mafiosi per

bene”.

Precisato ciò, come si può di fatto combattere un fenomeno sociale, quale

quello mafioso, che si delinea in una perfetta collaborazione ed integrazione tra

gli appartenenti collusi delle diverse istituzioni sociali (“ufficiali” ed

“ufficiose”)? La risposta è tanto semplice da apparire addirittura banale: per

sconfiggere il fenomeno mafioso sarebbe utile una stretta, stabile e puntuale

collaborazione tra le istituzioni sociali. Come è possibile mettere in pratica un

simile progetto? Attraverso due passaggi fondamentali.

Innanzitutto agendo sulla forma mentis e gli schemi culturali della comunità in

cui opera la mafia e non ci riferiamo solo a quella calabrese, siciliana o

campana, ma a quella italiana che ancora si riproduce per mezzo di

quell’atteggiamento clientelare che nutre il lato opportunistico delle istituzioni

e la mafiosità che ruota intorno allo scambio reciproco di “favori”. In questa

fase la Chiesa e la scuola assolvono un ruolo fondamentale in quanto agenzie

educative e lavorando in collaborazione (ovviamente non intaccando la libertà

religiosa dei ragazzi atei o appartenenti ad una religione diversa da quella

cattolica) possono senza dubbio rimarginare quelle ferite educative, dovute

spesso alla non curanza di insegnati o sacerdoti, che portano poi al mancato

sviluppo di un senso civico appropriato che impedisca il passaggio del

clientelismo attraverso le generazioni.

In secondo luogo, minare l’intero contesto di supporto al fenomeno mafioso

comporta una necessaria e costante azione di denuncia nei confronti delle

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persone che compongono la «zona grigia» delle istituzioni religiose e politiche.

Servirebbe, perciò, raggiungere un’assoluta consapevolezza e cooperazione

delle forze dell’ordine, dei cittadini onesti e degli onesti rappresentanti delle

istituzioni (anche i sacerdoti) puntando davvero al bene collettivo e non

all’interesse personale.

Chi scrive queste parole si rende conto che la questione non è così semplice

come potrebbe apparire e che certe misure quasi mai sono di facile attuazione

(si pesi al caso Fortugno), è per questo che si riconosce anche la necessità da

parte della società nel suo complesso (e delle forze dell’ordine nello specifico)

di tutelare e salvaguardare coloro che intendono realmente denunciare gli abusi

(fisici o meno) di potere.

Ci preme concludere questo lavoro con una precisazione sull’atteggiamento che

chi scrive intende tenere nei confronti del fenomeno mafioso, soprattutto nel

momento in cui si profila una possibile azione antimafia globale dell’intera

società che, con buona probabilità, suonerà vagamente utopistica e troppo

teorica. Il sociologo non è un profeta e non è un giudice morale, non deve dire

ciò che accadrà o ciò che è giusto o meno che accada. Con queste parole si

vuole solo evidenziare una possibile, per quanto complessa, linea di azione

teorica che possa guidare le forze sociali che devono poi trovarne le possibili

attuazioni pratiche, al fine di eliminare un indiscutibile fenomeno “contro-

sociale” (intendendo con questo termine un fenomeno non utile al buon

funzionamento della società nel suo complesso). Questa linea d’azione, è bene

ricordarlo, viene definita semplicemente attraverso un’analisi sistematica di un

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http://www.liberainformazione.org/2013/10/04/contro-le-mafie-un-vangelo-di-

liberazione/

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Volume 20 N° 3 - 2015

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Antonella Bovino62

, Vincenzo Mastronardi63

, Danila Pescina64

DALL’AMORE ALLA VIOLENZA.

LE DINAMICHE PSICOLOGICHE ALL’INTERNO DELLA COPPIA.

RIASSUNTO

In questi ultimi anni, il tema della violenza ha trovato nei media una notevole

risonanza, ma spesso vengono raccontati solo i fenomeni più gravi e cruenti

dando poco spazio a ciò che accade prima: la violenza all’interno della coppia.

62

Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa. Master in Scienze Criminologico-

Forensi, Università di Roma “Sapienza” 63

Psichiatra, Criminologo clinico. Titolare della Cattedra di Psicopatologia

Forense, Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, Facoltà di Medicina e

Odontoiatria- Università di Roma “Sapienza”. 64

Psicologa, Criminologa, Psicoterapeuta. Specialista in Psicoterapia Breve ad

Approccio Strategico, Esperta in Psicologia delle Dipendenze. Coll. Prof.

Dipartimento di Neurologia e Psichiatria- Università di Roma Sapienza

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Capire cosa succede nella coppia quando si arriva a situazioni violente, e quindi

anche ad uccidere, è un passo importante per la prevenzione e per fare ciò è

importante analizzare le dinamiche psicologiche che sottendono il rapporto tra i

partner. É stato dimostrato che alla base della violenza spesso vi sono

aspettative e bisogni individuali associati alla relazione con le proprie figure

genitoriali.

Comprendere gli elementi che incidono negativamente nella coppia, analizzarli,

accettarli e intervenire serve per superare quel senso di turbata estraneità che ci

prende davanti ai fatti di cronaca e aiuta magari le vittime, almeno alcune tra

loro, a scuotersi e salvarsi in tempo.

In questo articolo si prende una chiara posizione rispetto al tema della violenza,

alla sua prevenzione e alla possibilità di dare un diverso significato a quello che

chiamiamo femminicidio: bisogna iniziare a pensare diversamente e a non dare

per scontato che un uomo uccide una donna solo perchè donna.

L’obiettivo di questo lavoro è fornire una riflessione più ampia su questi

rapporti violenti partendo dalle relazioni vissute durante l’infanzia e dalle

dinamiche psicologiche che si sono instaurate.

Farà da corollario all’articolo un'intervista effettuata ad una donna vittima di

violenza da parte del proprio partner.

Parole chiave: violenza coppia, teoria dell’attaccamento, dipendenza affettiva,

femminicidio, violenza sulle donne

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Abstract

In the last years the media have often talked about violence, but only the most

serious and relevant cases have been treated, with little space dedicated to the

Intimate Partner Violence.

An important step to prevent violence is to understand what happens to the

couples when such violent events (including killing) occur, and to achieve this

it is very important to analyse the psychological dynamics which underlie the

relationship between partners. It has been shown that the reasons behind the

violence are often related to the individual expectations and the needs

connected to the parental figures. Understanding the elements which negatively

affect the couple, trying to analyse and accept them, and eventually intervene to

prevent them, is necessary to overcome the feeling of non-involvement which

we have when we hear about tragic events. This might help the victims, or at

least some of them, to react and escape in time.

In this paper we take a clear position in respect of the violence topic and the

prevention, and discuss the possibility of giving a different meaning to what we

call “femicide”: we should start to think differently and do not take for granted

that a man kills a woman just because she is a woman.

The goal of this work is to provide a broader thought on the violent

relationships, starting from the relationships and from the psychological

dynamics which have been lived and established during the childhood. We

include to this work an interview to a woman victim of Intimate Partner

Violence.

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Key words: violence, attachment, femicide, psychological violence

La relazione di coppia

La scelta del partner non è mai casuale, avviene inconsapevolmente ed è legata

alle proprie esperienze individuali e familiari: avviene in base al tipo di

rapporto che si è avuto con la figura parentale di riferimento o come

identificazione o come ribellione ed è quindi dettata da motivazioni

psicologiche che sono importanti non solo per capire su che basi si è formata

una coppia, ma anche i motivi di un eventuale crisi.

L’innamoramento è il processo che consente la formazione della coppia e la

relativa unione tra i due partner, in questa fase vi è un alto grado di fusione;

dopo questo iniziale periodo, dove tutto sembra perfetto si arriva alla

consapevolezza che ogni componente della coppia ha una personalità diversa e

da qui i partner devono cercare di accettarsi, crescere insieme, e saper gestire i

conflitti: deve avvenire il passaggio dall’ innamoramento (in cui si pensa che

l'altro è perfetto) , all’amore (in cui si accetta l'altro per quello che è realmente

e non per come si vorrebbe che fosse). Ciò che dovrebbe succedere, quindi, a

livello psicologico, è il passaggio da una fase di illusione in cui il partner

pensa che l’altro corrisponda idealmente a ciò che stava cercando, in grado di

appagare tutte le aspettative, ad una di disillusione65

in cui ci si rende conto

65

La disillusione è una perdita di illusioni o di ideali provocata da un esame di

realtà: il partner si rende conto che quella persona non è più “perfetta” come

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Volume 20 N° 3 - 2015

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della realtà e che quindi l'altro non può soddisfare tutti i bisogni; in questo

modo le aspettative decadono portando inevitabilmente ad una crisi: se questa

crisi non viene superata e quindi non si accetta la realtà si resta bloccati nella

fase dell' illusione, in cui l'altro viene caricato di aspettative relative a bisogni

individuali che non appartengono a lui ma ad altre figure significative

dell'infanzia, ciò comporta il non riuscire ad affrontare cambiamenti e

difficoltà. Ciò che succede è che uno dei partner subisce il cambiamento

dell’altro e non riesce ad accogliere ed elaborare il dolore che deriva dalla

discrepanza tra la rappresentazione di Sé precedente e quella attuale, ed è in

questo modo che si può ricorrere a ritorsioni ed espressioni aggressive.

Alla base di una crisi, quindi, c’è spesso il bisogno di cambiare aspetti che non

soddisfano più i bisogni individuali o di coppia; per poter andare avanti bisogna

accettare i cambiamenti e ridefinire il rapporto ma soprattutto l’altro deve

essere accettato nella sua individualità e non come mezzo per soddisfare i

propri bisogni inconsci.

La possibilità per una coppia di raggiungere la fase della “disillusione” si basa

sulla qualità dei vissuti infantili di ciascun partner: se i partner hanno avuto una

“base sicura”66

che ha consentito loro di accedere a tutte le tappe dello sviluppo

pensava lui; le aspettative decadono. La condizione di disillusione pone la

persona non più amata, o quanto meno non amata in modo idealizzato come

prima, di fronte a vissuti abbandonici e di fine della relazione (M. Bowen

,1978) 66

Il concetto di “base sicura” è stato elaborato da Bowlby nel 1969. La persona

fidata, ossia la figura di attaccamento, è quella che “fornisce la sua compagnia

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emotivo e affettivo, saranno poi in grado di accettare che l’altro è un individuo

a sè e non una proiezione di bisogni e aspettative deluse, in questo modo il

rapporto sarà positivo, al contrario si andrà incontro ad un rapporto negativo

basato su elementi di dipendenza-codipendenza. È stato dimostrato che gli

elementi maggiormente presenti in una coppia in crisi sono, dipendenza,

simbiosi e narcisismo, a volte questi aspetti rappresentano gli estremi

patologici che impediscono lo strutturarsi di una coppia e che portano ad

atteggiamenti violenti. Ciò che succede è che si viene a formare una relazione

schiavo-padrone dove l’altro è un oggetto che serve per riconoscere aspetti

positivi del sé (il padrone ha sempre bisogno di uno schiavo per essere

riconosciuto come padrone). La base del dominio e del rapporto schiavo -

padrone è il pensiero “io posso controllare tutto” ecco perché la violenza scatta

quando l’altro si ribella o fugge dal controllo (Relazioni Perverse. La violenza

psicologica nella coppia. S. Filippini 2005). Molti sono gli uomini che

uccidono le donne improvvisamente nel momento in cui l’altro non è più sotto

il controllo: è il desiderio di essere ancora onnipotente che porta a distruggere

l’altro. Tutti questi elementi rappresentano le dinamiche psicologiche non sane

presenti in tante coppie perverse.

assieme a una base sicura da cui operare”. Lo sviluppo della personalità risente

della possibilità o meno di aver sperimentato una solida “base sicura”, oltre che

della capacità soggettiva di riconoscere se una persona è fidata e vuole offrire

una base sicura. La personalità sana consente di far affidamento sulla persona

giusta e, allo stesso tempo, di avere fiducia in sé e dare a propria volta sostegno

(J.Bowlby 1969)

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Le dinamiche del rapporto violento: dipendenza dal partner e

coodipendenza

Quali sono le cause della violenza nei rapporti di coppia? Quali sono i fattori di

rischio che contribuiscono all’insorgere di questa violenza? E come mai le

donne, spesso, non riescono a sottrarsi al partner maltrattante e si trattengono in

un rapporto malato, andando incontro a gravi conseguenze sulla propria salute

psichica e fisica?

La ricerca e i relativi studi sull'argomento hanno dimostrato che di frequente

alla base di una relazione violenta c’è fragilità e debolezza, difficoltà a gestire

emozioni e soprattutto una dipendenza affettiva tra i partner. La dipendenza, di

per sé, non è un concetto negativo in quanto non esiste una persona che possa

dichiararsi totalmente autonoma e indipendente dal contesto e dalle circostanza

relazionali (La dipendenza affettiva. Ma si può morire anche d’amore? C.

Guerreschi 2011). Ognuno di noi è dipendente in qualche misura dagli altri,

tutti abbiamo bisogno di approvazione, empatia, di conferme e ammirazione da

parte degli altri per regolare la nostra autostima, ma spesso questo bisogno

supera la capacità d’amare e diventa un bisogno essenziale e una ricerca

continua di aspetti non più collegati al rapporto presente ma relativi a mancanze

relazionali passate.

La dipendenza affettiva si costruisce sulla base di altri legami relazionali, in

particolare nel rapporto instaurato durante l'infanzia con i genitori, se

quest'ultimi hanno lasciato insoddisfatti i bisogni infantili, i bambini potrebbero

sviluppare pensieri del tipo: “I miei bisogni non hanno importanza” o “ Non

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sono degno di essere amato”. Da adulti, questi "bambini non amati” dipendono

dagli altri per quanto concerne il proprio benessere psico-fisico e la soluzione

dei loro problemi,vivono nella paura di essere rifiutati, scappano dal dolore,

non hanno fiducia nelle loro capacità e si sentono sbagliati e inadeguati nel

rapporto con l'altro .

Per “dipendenza affettiva” si intende una forma patologica di amore

caratterizzata da un assenza di reciprocità all’interno del rapporto di coppia e

dal non riuscire a vivere senza l’altro, ecco perché molte donne subiscono e

tollerano violenze, preferiscono essere maltrattate che perdere l’altro. In queste

situazioni l’altro è un oggetto che serve per non sentirsi sole e inadeguate in

quanto al di sotto della dipendenza vi è una scarsissima autostima. La

percezione di sé stessa come impotente, incapace, colpevole fa in modo che la

donna si indebolisca sempre di più e resti invischiata nella relazione perversa,

scivolando cosi in una spirale senza fine, arrivando a perdere ogni capacità e

speranza di risolvere il problema e uscire dalla relazione che diventa una fonte

di sicurezza. Dobbiamo anche considerare che spesso queste donne, dipendenti

affettive, hanno vissuto abusi sessuali, maltrattamenti fisici ed emotivi durante

l’infanzia che non sono riuscite ad elaborare (Donne spezzate. La violenza tra

le mura domestiche M. Milone 2009).

Ma come si crea la dipendenza affettiva? La dipendenza affettiva si crea prima

dell’inizio del rapporto di coppia. Ricollegandoci alla scelta del partner, è come

se la persona dipendente cercasse proprio quel tipo di rapporto in cui il partner

deve avere quelle caratteristiche che poi vanno a formare un rapporto

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dipendente, infatti si instaura un rapporto di dipendenza-codipendenza dove

anche l’altro è dipendente in quanto accetta questo ruolo ed è per questo che va

avanti la relazione. Si tratta, quindi, di una dinamica a due, di un rapporto

simbiotico e quindi di un rapporto disfunzionale. Se il partner scelto non avesse

quelle determinate caratteristiche allora il rapporto finirebbe prima, invece in

questi casi si tratta di due persone fragili e dipendenti che si trovano e si

uniscono. Entrambi hanno una scarsa autostima e vivono nell'ansia di poter

perdere la persona amata. La donna dipendente fa di tutto per rispondere ai

bisogni dell’uomo mettendo da parte i propri, mostra sentimenti di paura e

ansia che la tengono legata alla relazione violenta, subisce così i maltrattamenti

e non chiede aiuto. L’uomo dipendente invece è più facile che mascheri il

proprio bisogno d’affetto proiettandolo sulla donna, esternandolo con rabbia e

aggressività, comportandosi in maniera protettiva talvolta fino all’eccesso della

gelosia patologica, perchè ossessionato dal timore dell’abbandono, e nel

momento in cui lei lo lascia scattano sentimenti di paura e rabbia. Tutto ciò

spiega perché spesso le donne subiscono e non parlano e perché gli uomini, non

accettando la fine di un rapporto, uccidono.

Teoria dell'attaccamento e rapporti futuri

La teoria dell'attaccamento di J.Bowlby ci fornisce una cornice evolutiva

all'interno della quale è possibile comprendere meglio alcune dinamiche di

coppia.

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Secondo la teoria dell’attaccamento esistono quattro diversi modelli di

attaccamento alla figura genitoriale che influenzano le relazioni sentimentali

future: l’attaccamento sicuro, l’attaccamento insicuro ambivalente,

l’attaccamento insicuro evitante e l’attaccamento disorganizzato.

Il bambino che ha sviluppato un attaccamento sicuro, nelle relazioni

sentimentali, sarà in grado di dare e ricevere amore poiché ha interiorizzato

entrambi i ruoli: come la madre ha dato tutto per lui ed è stata presente nei suoi

bisogni affettivi, ora lui nella coppia è pronto a dare, accudire e proteggere il

partner; ciò parte dall’esperienza di un rapporto di totale fiducia con la propria

madre. La relazione di coppia sarà “un amore sicuro” basata sulla fiducia

reciproca, utilizzando il proprio partner come base sicura da cui dipendere, ma

allo stesso modo, da cui partire autonomamente.

Durante l’infanzia i soggetti con un attaccamento insicuro-ambivalente hanno

sperimentato una figura di attaccamento imprevedibile e non sempre pronta a

rispondere ai bisogni, per questo tentano di mantenere un contatto strettissimo e

nutrono costantemente la paura di essere lasciati o di non essere amati, hanno

scarsa fiducia in se stessi e nell’altro. Nelle relazioni affettive sono dipendenti e

non riescono a manifestare esplicitamente i propri bisogni perché il fulcro delle

loro dinamiche relazionali è il timore della perdita o del rifiuto. La relazione

sarà possessiva e autoritaria: non mancano, talvolta, reazioni di aggressività

fisica piuttosto violente, o addirittura episodi che sfociano in delitti passionali.

Il problema principale del soggetto insicuro-ambivalente è che “rimane sempre

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nella fase dell'innamoramento". La sua ansia da separazione è sempre

all'estremo.

I bambini con uno stile di attaccamento insicuro-evitante hanno sperimentato,

più volte, la difficoltà ad accedere alla figura di attaccamento vissuta da loro

come distaccata e poco presente, per questo non si fidano, esprimono poco i

loro bisogni per evitare risposte negative o inefficaci da parte della stessa.

I soggetti con questo stile di attaccamento svilupperanno un modello mentale

del sé come di persona non degna di essere amata, che deve contare solo su di

se: si sentono sempre inadeguati a causa delle critiche e separazioni a cui sono

stati sottoposti.

Nelle relazioni sentimentali, non avendo sperimentato la fiducia nell’altro fin

dall’infanzia, preferiscono instaurare rapporti superficiali, in cui non si

lasciano coinvolgere eccessivamente per paura della delusione.

L’attaccamento disorganizzato è il prototipo relazionale più patologico e

pericoloso. Durante l’infanzia, i soggetti con attaccamento disorganizzato

hanno vissuto un legame con la figura di attaccamento caratterizzato da

trascuratezza, psicopatologia genitoriale, maltrattamento e abuso sia di tipo

fisico che sessuale. Chi ha sviluppato un legame di attaccamento di questo tipo

darà luogo a relazioni altamente disfunzionali del tipo vittima-carnefice; le

modalità comunicative saranno violente e fredde, presentandosi come partner e

genitori maltrattanti e abusanti.

In conclusione, quindi, chi ha avuto un legame di attaccamento positivo durante

l'infanzia sarà predisposto alla formazione di solidi e soddisfacenti legami

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d’amore nella vita adulta, al contrario il soggetto che nell’infanzia ha instaurato

legami disfunzionali tenderà a riproporre, poi, nella relazione, gli stessi schemi

relazionali.

STILI DI ATTACCAMENTO RAPPORTO DI COPPIA

Rapporto di coppia positivo

Rapporto di coppia possessivo

con angoscia di separazione

Rapporto di coppia superficiale

per paura della delusione

Rapporto di coppia

disfunzionale del tipo vittima-

carnefice

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Forme di violenza sulle donne

Le forme più frequenti della violenza, all’interno della coppia,contro le donne

sono:

violenza fisica

violenza psicologica

violenza economica

violenza sessuale

stalking

La violenza fisica racchiude una vasta gamma di comportamenti lesivi per

l’integrità fisica della donna (spinte, pugni, calci, lancio di oggetti, schiaffi,

ustioni ecc); non riguarda solo l’aggressione fisica grave che causa ferite ma

anche ogni contatto fisico mirante a spaventare o a rendere la vittima soggetta

al controllo dell’aggressore.

La violenza psicologica mira a combattere l’identità dell’altro e a privarlo di

ogni individualità; in questo tipo di violenza le donne è come se avessero subito

una specie di “lavaggio di cervello” e si autoaccusano: si sentono inadeguate,

fragili, dipendenti, insicure e convinte di aver bisogno di una guida per

affrontare le piccole difficoltà quotidiane, convinzione che inevitabilmente le

porterà ad accettare passivamente ogni forma di violenza. L’obiettivo

dell’uomo è privare la donna di qualsiasi possibilità di espressione, beffandosi

dei suoi punti deboli e mettendo in dubbio le sue capacità di giudizio e

decisione, la offende e la mortifica, ne mina la fiducia personale, ne limita le

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potenzialità, la isola e la esclude dal contesto. La donna non è più padrona dei

pensieri, è letteralmente invasa dalla psiche del partner e non ha più alcuno

spazio mentale proprio.

Per violenza economica si intendono tutte quelle strategie volte a limitare e

controllare l’indipendenza economica del partner, come, per esempio, impedire

la ricerca di un lavoro, la privazione o il controllo dello stipendio, il controllo

della gestione della vita quotidiana, ecc. La violenza economica riguarda,

dunque, tutto ciò che direttamente o indirettamente, concorre a far si che il

partner sia costretto in una situazione di dipendenza e /o non abbia i mezzi

economici sufficienti per soddisfare i bisogni di sussistenza propri e dei figli; in

questo modo la donna viene privata di decidere e di agire autonomamente e

liberamente rispetto ai propri desideri e scelta di vita.

Per violenza sessuale si intende qualsiasi atto sessuale non desiderato cui la

donna deve sottostare contro la propria volontà. Il riconoscimento della

violenza sessuale, all’interno della coppia, risulta anch’ esso difficile, a causa di

radicate rappresentazioni di doveri coniugali, delle difficoltà a parlarne e delle

reazioni del contesto socioculturale che minimizzano o giustificano la violenza

legata al comportamento sessuale aggressivo del maschio, come prova della sua

virilità o come un suo diritto, infatti molte vittime non denunciano per timore di

non essere credute o per tenere unita la famiglia.

Infine lo stalking riguarda una serie di comportamenti persecutori che incutono

timore alle donne, perpetrati da un partner al momento o dopo la separazione

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(La violenza contro le donne . Indagine multiscopo sulle famiglie”Sicurezza

delle donne” Barletta R., Federici A., Muratore M. G., 2006).

Lo stalking è un tipo di violenza da poco riconosciuta a livello normativo in

Italia67

, spesso è un segnale che precede un tentativo di omicidio della donna;

consiste nel ledere la libertà e la sicurezza della stessa. Gli stalker, nella

maggioranza dei casi, sono "ex" che non riescono a rassegnarsi alla fine di un

rapporto sviluppando una vera e propria ossessione nei confronti della

vittima che, molti casi di cronaca lo testimoniano, può arrivare perfino

all'omicidio68

. Il comportamento per stalking viene agito per diversi motivi: per

67

La L. n. 38 del 23 aprile del 2009 ha introdotto nel codice penale vigente nel

nostro ordinamento giuridico il reato di stalking (GU n. 95 del 24-4-2009) 68

Gli stalkers spesso hanno fantasie ossessive di amore, rabbia o vendetta nei

confronti delle loro vittime. Molti stalker ossessivi pensano e/o fantasticano

costantemente sulle loro vittime fino a passare all’atto.. Nei casi prolungati di

"molestie assillanti", va tenuta d'occhio soprattutto la presenza di una serie di

comportamenti associati che spesso rappresentano un segno di sviluppo e di

intensificazione nel percorso di stalking, come il passaggio dalle minacce

esplicite agli atti di violenza su cose (danni alla proprietà) e persone (la vittima

o chi si frappone al rapporto patologico vittima/molestatore). Se si riscontra

questo elemento, aumentano le probabilità che si possa arrivare alla forma di

violenza più estrema, cioè l'omicidio (V. Mastronardi 2005) 7

Le ricerche hanno indicato che lo stalking è una patologia dell'affettività,

evidenziata da alterazioni affettive durante l'infanzia. Lo stalker generalmente

narra una storia di dolore spesso associata ad una negazione dell’amore,

cresciuta silenziosamente nel paradosso di un bisogno disperato di affetto.

Durante l’infanzia si è sentito vittima del rifiuto delle figure di riferimento, in

particolare, il rifiuto materno.La ferita inferta durante l’infanzia ha scaturito

una forma d’insicurezza cronica associata a terrore dell’abbandono ossessivo e

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recuperare una relazione finita, per vendicarsi dei torti subiti, per dipendenza

affettiva, per desiderio di continuare a esercitare un controllo sulla vittima. Il

profilo psicologico dello stalker ha diversi punti in comune con quello del

soggetto affetto da dipendenza affettiva: si tratta di un soggetto debole che per

la paura di essere abbandonato, al pari di un copione già vissuto di esperienze

affettive simili, si lega ossessivamente a qualcuno, manifestando un bisogno

d’affetto in presenza di disturbi relazionali legati ad eventi traumatici69

.

Facendo riferimento alla teorie dell’attaccamento, nello stalker, si è sviluppato

un modello di attaccamento insicuro (ansioso-ambivalente, evitante o

disorganizzato) per cui non può far meno dell’altra persona che diventa

necessaria per la propria esistenza.

Forme di violenza sugli uomini

Spesso quando si affronta il tema della violenza tra i partner, si ha l'immagine

dell’ uomo nel ruolo di “carnefice”, e della donna nel ruolo di “vittima”. Ma

costante che troppo spesso finisce per evocare l’allontanamento delle persone

amate, in quanto l’attaccamento dell’individuo che non ha esperito una forma

sana di amore, è l’attaccamento di un “analfabeta delle emozioni”, che per tutta

la vita tenterà di instaurare rapporti duraturi senza esserne realmente capace. Il

comportamento ansioso e incapace di elaborare l’abbandono del bambino

“rifiutato” tornerà prepotentemente ad insediarsi nella vita dell’individuo adulto

nel momento in cui quest’ultimo sentirà di essere allontanato dalla persona

oggetto del desiderio, portandolo a una regressione che lo costringerà a

rimanere legato a doppio nodo all’ossessione della figura che gli negherà

l’accudimento di cui sente di avere, da sempre, un disperato bisogno (J. Reid

Meloy 1998)

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c'è un'altra realtà: quella degli uomini che subiscono violenze70

. La violenza

subita dagli uomini è meno conosciuta rispetto quella delle donne perché gli

uomini si vergognano a raccontare la propria debolezza in quanto l’essere

vittima di violenza non si concilia con l’immagine di “vero uomo”.

Il numero di uomini maltrattati all'interno della coppia è più alto di quanto si

possa pensare, ma essendo una violenza esercitata soprattutto sul piano

psicologico, resta per lo più sconosciuta.

Le forme più frequenti di violenza, all’interno della coppia, verso gli uomini

sono:

violenza psicologica

violenza sessuale

violenza fisica

stalking

Tendenzialmente, la violenza più frequente che le donne esercitano sugli

uomini è quella psicologica.

8 Un sondaggio svolto in collaborazione con l’Università di Siena ha raccolto dopo un lungo lavoro e un’ attenta analisi durata tre anni, dati inerenti la violenza subita dagli uomini da parte delle donne .In Italia è il primo evento significativo che si manifesta sotto forma di ricerca in cui è stata dimostrata una realtà soffocata da pregiudizi legati a tempi remoti. (Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza – Vol. VI – N. 3 – Settembre-Dicembre 2012)

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Nella violenza psicologica, la donna punta a denigrare l'uomo nel suo ruolo di

marito e di padre, diffamandolo nel privato ma anche nel pubblico o sul posto

di lavoro, allo scopo di attaccarne la mascolinità e di favorirne l'isolamento Nel

rapporto di coppia la violenza, quindi, può essere legata ad un tentativo di

svalutare o di umiliare il proprio compagno per tenerlo in qualche modo sotto

controllo o in una posizione di scacco.

Nel contesto familiare le forme della violenza sugli uomini possono passare,

anche, attraverso dinamiche triangolari, per esempio quando si cerca di

instaurare nei figli un’immagine molto negativa dei padri, quando si cerca di

utilizzarli contro i padri, quando in caso di conflitti o separazioni si cerca di

minare il legame affettivo tra padre e figli, rendendo difficile o addirittura

impossibile ai padri vedere o frequentare i bambini.

Quando si parla di violenza sessuale ed in particolare di stupro, generalmente

ci si riferisce alla violenza di un uomo su una donna: è piuttosto raro, invece,

pensare agli uomini come vittime di violenza sessuale da parte di donne o di

altri uomini, anche perché accade molto meno di frequente. Il fatto che

comunemente la violenza sessuale si intenda come compiuta da un uomo verso

una donna (perché è così nella maggior parte dei casi) costituisce uno dei

principali problemi culturali nell’affrontare la violenza sessuale contro gli

uomini. Aver subito una violenza di questo tipo viene comunemente

interpretato come un de-potenziamento della propria virilità.

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Altra forma di violenza sugli uomini è la violenza fisica che viene messa in

atto con modalità tipicamente femminili come graffi, morsi, capelli strappati e

lancio di oggetti.

Gli uomini possono anche essere vittime di stalking da parte delle donne: sms,

telefonate, mail continue e pressanti con contenuti che vanno dalla seduzione,

suppliche, ricatti, offese, espressioni rabbiose, ecc.; ma si presentano anche

pedinamenti, atti che screditano la professionalità, la moralità, lo status sociale,

ma anche danneggiamento di oggetti, sottrazione di beni, ecc.

Il ciclo della violenza

Il meccanismo della violenza è una spirale: se il carnefice diventa sempre più

aggressivo, la vittima diventa sempre più “docile”.

Schematizzando il ciclo della violenza vediamo che è un processo circolare

composto da tre distinte fasi:

1. La fase della crescita della tensione . In questa fase la donna inizia ad

avvertire la crescente tensione e cerca di prevenire l’escalation di violenza

concentrando tutta la sua attenzione e le sue energie sull’uomo. La donna

si sente l’unica in grado di aiutare il partner e cerca di contenere la sua

rabbia assecondandolo nelle sue richieste; spera in tal modo di calmare le

acque, diminuire la tensione e controllare l’agire violento del partner.

Molte donne affermano di sentirsi come se “camminassero sulle uova”.

2. Fase del maltrattamento. In questa fase l’uomo perde il controllo di sé e si

verifica l’episodio violento; prima di aggredire fisicamente la compagna ,

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il maltrattante può insultarla, minacciarla e rompere oggetti. Generalmente

la violenza fisica è graduale: i primi episodi sono caratterizzati da spintoni

per poi arrivare a schiaffi, pugni e calci o e all’uso di oggetti contundenti

ed armi. In questo stadio, per sottolineare il proprio potere, l’uomo può

agire violenza sessuale .La donna non reagisce e l’aggressione da parte del

partner le provoca un senso di tristezza e di impotenza. Alcune donne,

meno fragili, possono rivolgersi ai vari servizi (Pronto Soccorso, le forze

dell’ordine, Centri antiviolenza)

3. Fase di luna di miele. Questa fase si suddivide in due diversi momenti.

Nella prima sottofase (A), denominata “delle scuse e delle attenzioni

amorevoli”, l’uomo chiede scusa e si dimostra “dolce, attento e

premuroso” per farsi perdonare. E’ frequente che l’uomo faccia regali,

promesse di andare in terapia e di “fare tutto il possibile per cambiare”

affinché la donna non lo lasci e si separi da lui. Sono usuali, anche, le

minacce di suicidio. La donna si trova di fronte l’uomo affascinante e

amorevole dei primi periodi della relazione e accoglie le false promesse del

partner. Nella seconda sottofase (B) detta di “scarico della responsabilità”

l’uomo attribuisce la colpa del suo comportamento a cause esterne, come il

lavoro stressante, la situazione economica etc.., e soprattutto alla donna che

lo ha provocato o ha fatto qualcosa che giustifica la sua aggressione. Nella

donna prevale il senso di colpa per non essere stata come l’uomo voleva o

si aspettava.

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Quando la violenza è radicata, i cicli si ripetono come una spirale diventando

sempre più intensi. Con il passare del tempo, la fase di luna di miele si riduce e

le prime due fasi diventano più frequenti e con conseguenze più gravi per la

donna. Se il processo ciclico non viene interrotto la vita della donna può essere

in pericolo.

E’ fondamentale ricordare che, all’inizio della relazione violenta, la donna è

convinta di poter tenere sotto controllo la situazione e chiede aiuto per problemi

sanitari legati all’episodio violento, per sostegno alla coppia, per contenere o

cambiare il partner. Solo dopo il ripetersi delle fasi, la donna prende

consapevolezza che non può né controllare e né cambiare il partner e sviluppa

una forte difficoltà ad uscire dalla relazione violenta restando per anni nella

spirale della violenza.

Le dinamiche psicologiche all’interno della coppia: analisi dei

comportamenti della vittima e del carnefice

Quando la relazione coniugale si nutre di dinamiche perverse il rischio di

violenza è molto alto.

Molti studi hanno dimostrato che, in caso di violenza nella coppia, la relazione

ha come elementi principali la simbiosi, la perversione e il narcisismo (Il

narcisismo. A. Lowen 1992).

La “simbiosi” è una collusione, cioè un legame molto stretto di cui i partner ne

dipendono non riuscendo a farne a meno; si tratta di un rapporto non sano,

entrambi preferiscono stare insieme provando dolore piuttosto che lasciarsi e

vivere l’esperienza dell’abbandono e della solitudine.

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La “perversione”, intesa come modalità perversa di relazione, incide nella

coppia come una lama sottile e trasforma la relazione basandola sul controllo e

sul dominio; non si tratta più di una relazione d’amore ma di una relazione di

potere che disconosce i diritti dell’altro che viene usato solo per il piacere di far

valere se stessi.

Nella maggior parte dei casi la perversione si associa al narcisismo. Per

“narcisismo” si intende una condizione di disagio in cui non è integrata la

capacità d’amare, si tratta di una preoccupazione costante per sé stesso: i

partner sono semplici oggetti, strumenti di rassicurazione momentanea. Il

soggetto narcisista ha un bisogno ansioso di conferme e l’altro non viene né

visto né riconosciuto come persona ma come un riflesso di sé.

Tutti questi elementi portano alla formazione di legami perversi che spesso

portano gli uomini ad essere violenti e le donne a continuare la relazione

disfunzionale. L’obiettivo di entrambi i partner è quello di trattenere l’altro

per paura di essere abbandonato e sentirsi inadeguato, la relazione va avanti e i

partner pensano che si tratti di “vero amore”.

La violenza all’interno della coppia si nutre di caratteristiche specifiche di

entrambi i partner ed è attraverso l’analisi di queste caratteristiche che si può

comprendere perché gli uomini sono violenti e le donne subiscono.

Gli uomini violenti hanno le seguenti caratteristiche:

Impulsività o meglio aggressività impulsiva che porta l’uomo ad

agire senza pensare.

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Tendenza all’irritabilità con facile discontrollo: attacchi d’ira e

bassa tolleranza a minime frustrazioni.

Fragilità, considerata inaccettabile, alla quale l’uomo cerca di

farvi fronte con la violenza

Tendenza all’abuso alcolico, che aumenta la loro aggressività

Ossessività: pensano in modo continuo e fisso ai loro timori (per

esempio essere abbandonati, lasciati, ingannati, presi in giro

ecc..)

Paura dell’abbandono. Molti uomini hanno paura dell’

abbandono in quanto anche loro, durante l’infanzia, hanno

vissuto esperienze negative proprio associate al vissuto

dell’abbandono o hanno costruito un modello di attaccamento

insicuro71.

Narcisismo caratterizzato da un bisogno di potere e grandiosità.

Gelosia: vi è un alto grado di gelosia verso il partner che viene

definita “ gelosia ossessiva”

71

La reazione all’abbandono può divenire patologica quando il primo legame di

attaccamento non è stato sicuro. Secondo Bowlby il tema del distacco tocca le

corde più sensibili dell’animo umano perchè spezza uno degli istinti più forti ,

non solo nell’uomo ma anche in alcune specie animali: l’attaccamento,

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Ciò non significa che tutte le persone con queste caratteristiche sono violente,

ma se alla base vi sono queste caratteristiche, che invadono la vita quotidiana

del partner e vengono proiettate continuamente nel rapporto, allora c’è il rischio

che possa scattare la violenza.

Le più frequenti caratteristiche che incidono sulla donna e che la portano ad

essere debole e incapace a chiudere una relazione “ malata”sono:

L ‘isolamento sociale. La paura di restare sole spesso tiene la

donna legata al partner violento.

La scarsa autostima. Molte donne, vittime di violenza, spesso

sono cosi insicure e convinte di aver bisogno del partner per

poter andare avanti perché si sentono inadeguate e incapaci

La fragilità. Esperienze passate hanno potuto rendere le donne

più “indifese” o “esposte” (ad esempio donne che in passato

hanno vissuto esperienze negative che le hanno rese più fragili o

donne che nell’infanzia non si sono sentite protette dalle figure

di riferimento)

La presenza di figli. Quando ci sono i figli è più difficile

separarsi dal partner violento: subentrano sensi di colpa,

preoccupazioni e timori.

inizialmente alla madre, poi si sposta sulla persona amata. (Attaccamento e

perdita. Vol. 1: L'Attaccamento alla madre.J Bowlby ,1999)

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Altre importanti variabili come la mancanza di lavoro e di

autonomia economica fanno si che la donna resti legata

all’uomo che la mantiene economicamente

Meccanismi psicopatologici correlati ai disturbi di personalità

È importante non dimenticare che all’interno della coppia violenta potrebbero

essere presenti anche gravi disturbi di personalità, tra questi quelli più

frequentemente riscontrati sono: il disturbo narcisistico, il disturbo dipendente,

il disturbo evitante, il disturbo bordeline e il disturbo antisociale.

Il disturbo narcisistico è il più frequente che può assumere due aspetti: potrebbe

essere solo un tratto di personalità oppure assumere la forma di un vero

disturbo. All’interno della coppia, i soggetti con disturbo narcisistico sono

molto bravi a cogliere il punto debole dell’altro e le sue fragilità, attuano

comportamenti e condizionamenti tali da paralizzare l’altro, mettendolo in una

situazione di incertezza; questi comportamenti sono caratterizzati dalla

denigrazione e dalla presenza di atteggiamenti aggressivi e violenti. Il partner

viene utilizzato non per ricevere amore ma per ricevere ammirazione e per

essere rassicurati nell’immagine idealizzata di sé, tanto da diventare dipendente

da un partner che lo valorizza. Sono manipolatori e fanno di tutto per ottenere

controllo e potere. L’alternarsi di comportamenti dolci e gentili, di completa

disponibilità verso l’altro, con comportamenti aggressivi e violenti è un aspetto

tipico di questi soggetti e porta le vittime a sentirsi confuse (spesso la vittima

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non chiede aiuto perché convinta di essere “amata” e che la colpa della violenza

sia loro).

Un partner narcisista ha difficoltà ad impegnarsi in un rapporto di coppia, ha

paura di essere dominato e per compensare le sue paure fa subire alla donna ciò

che non vuole subire lui. La violenza diventa estrema soprattutto quando le

donne più forti si ribellano: in questo caso l’uomo notando il potere della donna

si spaventa ancora di più, non accetta che lei lo contrasti, si fanno reali le sue

fantasie di essere annientato o dominato e reagisce arrivando anche

all’omicidio.

Altro quadro psicopatologico presente nelle coppie violente è il disturbo

dipendente di personalità. Queste persone instaurano relazioni estremamente

improntate sul “noi”, dove il coinvolgimento è tale da annullarsi per l’altro. Il

partner scelto deve essere forte, in grado di proteggerli dal “resto del mondo” ,

si tratta di una relazione simbiotica72

.Alla base vi è una scarsissima fiducia e il

timore dell’abbandono che invade i loro pensieri . La relazione diventa l’unica

fonte di sicurezza, tutto gira intorno al rapporto, non hanno spazi personali e si

sacrificano per l’altro. Fino a quando la persona dipendente riesce a mantenere

la relazione di dipendenza dalla quale trae forza può condurre una vita in

10

L’amore viene costantemente associato all’idea di fusione, di “diventare una

cosa sola”.. Nel rapporto simbiotico, difatti, non può essere tollerata la

separazione e in questo stato di timore di separazione non è tanto la relazione

con l'altro ad acquisire importanza, ma il proprio senso d'identità che viene

confermato o disconfermato dalla presenza del partner (Avere o essere? E.

Fromm 1976)

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apparenza equilibrata, ma dal momento in cui il rapporto si rompe, la persona

può sviluppare manifestazioni patologiche e attuare violenze.

All’interno della coppia a volte può essere presente anche un disturbo di

personalità evitante; queste persone non hanno fiducia negli altri, sono solitarie,

non hanno una vita sociale e si chiudono nel rapporto di coppia.

Nelle relazioni intime i soggetti evitanti, hanno un continuo timore di essere

umiliati e rifiutati e assumono un atteggiamento sottomesso per il timore di

perdere il partner, possono arrivare a mettere in atto degli atteggiamenti di

ipercontrollo che soffocano l'altro. Se il partner, a causa di questi atteggiamenti

di controllo decide di interrompere la relazione, provoca in loro una reazione

violenta.

Un disturbo molto grave che può essere presente nel partner maltrattante è il

disturbo borderline. Il disturbo borderline di personalità è definito nel Manuale

Diagnostico dei Disturbi Mentali come una “modalità pervasiva di instabilità

delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’affettività con

impulsività notevole, comparsa entro la prima età adulta e presente in vari

contesti”. La persona affetta da disturbo borderline ha difficoltà a stabilire

relazioni interpersonali stabili. All’interno della coppia alternano atteggiamenti

rabbiosi ad atteggiamenti del tutto remissivi e accomodanti (passano dalla più

completa idealizzazione alla svalutazione assoluta). I soggetti bordeline

manifestano, anche, degli importanti disturbi dell’identità: avvertono un

profondo senso di vuoto interiore e per sentire di esistere hanno costantemente

bisogno di avere al proprio fianco qualcuno che li sorregga, per cui tendono ad

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instaurare delle relazioni caratterizzate dalla più completa dipendenza. La

persona di riferimento affettivo diventa, per l’individuo che soffre di questo

disturbo, assolutamente vitale, di conseguenza di fronte alla possibilità di un

abbandono, anche loro, avvertono un vero e proprio sentimento di

annientamento, di catastrofe emotiva: questo li può portare a scoppi di rabbia

violenta e a mettere in atto comportamenti distruttivi per se stesso e per l’altro.

Analizziamo infine un altro disturbo che può far insorgere atteggiamenti

violenti: il disturbo antisociale.

Il soggetto con disturbo antisociale presenta verso gli altri individui tratti di

ostilità e aggressività. La relazione di coppia è caratterizzata principalmente da

manipolazione, disonestà e di inganno. I diritti e le emozioni del partner

vengono, allora, costantemente violati, e come nel narcisista, anche nel

soggetto antisociale vi è una mancanza di empatia. Altre caratteristiche

personologiche sono quelle di eccessiva autostima, presunzione, testardaggine

e di disfunzionale impulsività e irresponsabilità, con gesti, certe volte, di grave

violenza e crimine, senza sensi di colpa e senza la previsione delle eventuali

conseguenze negative, per questo vengono portati avanti e mantenuti senza

ansia, ne rimorso. Spesso il disturbo antisociale si associa all'alcolismo e/o

all'abuso o dipendenza da altre sostanze, che sono considerati fattori di rischio

della violenza. Nella coppia, il soggetto antisociale, tende all'infedeltà e

all'instabilità che poi lo porta a perdere il controllo. Gli individui con disturbo

antisociale di personalità hanno la tendenza, come accennato, ad essere irritabili

ed aggressivi, fino a commettere ripetutamente aggressioni fisiche, incluse

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quelle verso il partner o coniuge e/o gli eventuali figli. La scarsa tolleranza e la

facile irritabilità portano continui diverbi, litigi e scontri (anche fisici) e per

questo spesso insorge la violenza nella coppia.

L’intervista: storia di amore e di dolore

Per capire i meccanismi psicologici all’interno della coppia, collegati alla

propria storia personale e familiare, si è pensato di intervistare una donna

vittima di violenza coniugale.

La donna intervistata ha 38 anni, madre di tre figli, proviene da un ambiente

familiare privo di sicurezza e amore da cui ha sviluppato un’ attaccamento

insicuro. La madre viene descritta come una madre “severa e assente

emotivamente” mentre il padre viene descritto come un uomo “debole e assente

fisicamente”. Da ciò ne scaturisce un infanzia di solitudine. Racconta che,

essendo cresciuta in un ambiente familiare privo di sicurezza, ha ricercato un

partner forte e presente, diverso dal padre.

Lui ha 39 anni e proviene da ambiente familiare violento e privo di legami

affettivi da cui ha sviluppato un attaccamento di tipo disorganizzato. La madre

era una donna assente, debole e schizofrenica mentre il padre era molto

violento con un modello educativo rigido basato su regole ferree che dovevano

essere rispettate per non incorrere in violenze fisiche. Si è sentito non amato e

rifiutato da un padre che lo picchiava e una madre che non lo difendeva.

Pertanto ha cercato una partner debole da cui avere conferme, ascolto, e il

forte bisogno di sentirsi, finalmente, accettato. Da due questi vissuti di dolore e

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solitudine si è creata questa coppia caratterizzata da dipendenza e da un

rapporto “schiavo-padrone” in cui lei era debole e sottomessa e lui forte e

aggressivo.

Nello specifico le dinamiche psicologiche instaurate nella coppia e che hanno

poi portato alla violenza sono:

Nella vittima:

• Fragilità. Essendo cresciuta in una famiglia assente e debole

psicologicamente in lei si sono sviluppate paure e preoccupazioni relative

ad un senso di solitudine. Si è sempre sentita insicura in quanto le figure di

riferimento non sono mai riuscite ad accudirla, a sostenerla ed a darle quel

senso di sicurezza che serve ad affrontare le situazioni della vita.

• Dipendenza. La vittima è sempre stata dipendente dal partner e dalla

relazione. La dipendenza psicologica è dettata da un forte bisogno che deve

essere appagato tramite il partner. Dal racconto emerge chiaramente la

forte dipendenza, in quanto la vittima più di una volta, ha riportato quanto

il partner inizialmente riuscisse ad appagare quel senso di solitudine che si

portava dietro dall’infanzia e ciò l’ha resa dipendente. La vittima ha subito

10 anni di maltrattamenti perché non riusciva a lasciare il suo carnefice:

era più forte il bisogno di non sentirsi sola che la paura di essere uccisa.

• Ricerca di sicurezza. Alcuni passaggi del racconto della donna

dimostrano chiaramente il suo forte bisogno di sicurezza al punto da

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preferire i maltrattamenti pur di non rinunciare alla presenza del partner.

Alla base c’è una scarsissima autostima e una paura di abbandono.

Nel carnefice:

• Senso di inadeguatezza associato all’essersi sempre sentito rifiutato e

non accettato dal padre e non sentirsi difeso dalla madre.

• Narcisismo: in famiglia lui era padre –padrone, è sempre stato un

uomo centrato su di sé e, mentre la moglie doveva restare a casa ad

accudire i figli, lui frequentava altre donne. Era molto geloso della moglie

e non le ha permesso di lavorare pretendendo che stesse il più possibile a

casa: non voleva che lei fosse una donna assente come lo era stata per lui la

madre. Il suo atteggiamento alternava fasi aggressive a fasi dolci e gentili

(tipico dei narcisisti) e ciò portava la moglie a provare sensi di colpa

(violenza psicologica).

• Ricerca di potere e superiorità dettata dal bisogno di sentirsi ascoltato

e riconosciuto: ha sempre vissuto con la paura di essere rifiutato e

maltrattato e ha sperimentato un senso di inutilità. Il padre lo picchiava e la

madre lavorava tutto il giorno tornando solo la sera, lasciando che il

bambino venisse maltrattato, pertanto non ha sperimentato un legame

affettivo, intimo e costante, con la figura materna.

• I bambini non amati non si amano, non hanno fiducia nel prossimo

perché sono stati traditi da chi avrebbe dovuto amarli e coccolarli. La

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violenza genera violenza, e chi non ha conosciuto amore di rimando non

può darlo. Lui , infatti, riporta gli stessi atteggiamenti del padre nel

rapporto di coppia.

I ricordi dell’infanzia riemergono lentamente nella coppia: come lui è cresciuto

in un ambiente rigido caratterizzato da regole e maltrattamento cosi ha attuato

lo stesso modello con la moglie e coi figli, mentre lei, essendo cresciuta in un

ambiente privo di sicurezza, è diventata dipendente dal suo carnefice subendo

maltrattamenti per anni.

La relazione pian piano, dopo anni di violenza fisica psicologica ed economica

si affievolisce ma la coppia continua a restare insieme: in lei era presente una

forte paura della solitudine e di abbandono ed inoltre si sentiva in colpa per

non aver dato ai figli un’immagine di coppia positiva.

Dopo 10 anni riesce a trovare il coraggio di dire “basta”. In seguito

all’ennesima aggressione, descritta dalla vittima “più violenta del solito”,

racconta: “ Quel giorno è stato violentissimo, ho avuto paura di morire e

mentre mi picchiava l’ho guardato negli occhi, non lo facevo mai, e mi sono

resa conto di aver di fronte un mostro”. In quel momento arriva per lei il

contatto con la realtà: abbandona l’illusione di aver trovato l’uomo perfetto

pronto a soddisfare tutti i suoi bisogni e si rende conto dell’uomo che ha

sempre avuto accanto. Qui di seguito indichiamo qualche frase riferita dalla

vittima durante l'intervista da cui si può capire il vissuto interiore e le forti

emozioni associate a sofferenza e timore.

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“Mi picchiava quando mancavano i soldi e quando non venivano rispettate le regole,

qualsiasi cosa dicevo non gli andava bene”

“Dovevo essere brava e buona, avrei dovuto fare ciò che lui mi chiedeva, senza farlo

arrabbiare”.

“La vita con lui è stata un inferno mi massacrava di botte”.

“Mi tirava i capelli , mi sbatteva al muro, mi faceva uscire il sangue dal naso e dalla

bocca, io andavo in bagno a curarmi le ferite, agli altri dicevo che ero caduta o che

avevo sbattuto. Tenevo sempre i capelli sciolti per nascondere i segni”.

“Quando mi alzava le mani stavo malissimo, mi sentivo impotente perché non sapevo

cosa fare: se reagivo, lui mi faceva ancora più male”.

“Mi ha riempito di calci, poi mi ha fatto mettere in ginocchio per chiedergli scusa per

averlo fatto arrabbiare cosi tanto”.

Cause e fattori di rischio della violenza nei rapporti di coppia

La violenza nei rapporti di coppia non è determinata da un’unica causa, ma da

una serie di elementi che interagiscono tra loro a vari livelli.

Egger e Schär Moser nel 2009 hanno eseguito uno studio, a livello

internazionale, sulle possibili cause della violenza all’interno delle coppie e

hanno rilevato i principali fattori di rischio73

11

Diversi studi rappresentativi sulla violenza domestica ai danni di donne e

uomini sono stati condotti in Svizzera e in altri Paesi da Egger, Theres & Schär

Moser, Marianne. La violence dans les relations de couple. Ses causes et les

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292

Qui di seguito il grafico e la relativa spiegazione.

mesures prises en Suisse. Rapporto elaborato su mandato del Servizio per la

lotta alla violenza SLV (nel frattempo trasformato in «ambito Violenza

domestica») dell'Ufficio federale per l’uguaglianza tra donna euomo UFU,

Berna (Egger, Theres & Schär Moser, Marianne 2008)

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294

Individuo

La tesi secondo cui i soggetti che durante l’infanzia sono stati vittime o

testimoni di violenza in famiglia, da adulti tendono più frequentemente a

diventare vittime o autori di violenza, è ampiamente accettata e confermata da

dati empirici. La maggior parte degli uomini che da bambini hanno vissuto

situazioni simili non riproduce questi comportamenti, ma è anche vero che le

donne maltrattate durante l’infanzia rischiano più violenze perché non hanno

fiducia in sé stesse e negli altri, hanno paura di restare sole, hanno difficoltà a

prendersi cura di loro e hanno una visione negativa del mondo. Altro fattore di

rischio è il comportamento antisociale e la delinquenza. Le donne il cui partner

ha avuto manifestazioni di violenza al di fuori della coppia sono esposte a un

rischio nettamente superiore di subire violenza nel corso della vita. Un altro

aspetto connesso alla violenza nella coppia è il consumo di alcol e droga: le

compagne di uomini alcolisti sono più esposte alla violenza rispetto ad altre

donne, perché nel partner si abbassa la soglia di controllo e si ha uno stato di

alterazione che porta una scarsa capacità a gestire le emozioni e quindi ad

esercitare violenza.

Le ricerche evidenziano una correlazione anche tra la violenza e i fattori di

stress come la disoccupazione, il sovraccarico di eventi negativi e situazioni

nuove e improvvise. Ogni individuo ha una propria soglia di tolleranza di

fronte ad un cambiamento, ad una frustrazione, ad un evento di stress e quando

questa soglia viene superata scatta l’aggressività

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Rapporto / Coppia

La ricerca empirica dimostra una stretta correlazione tra la ripartizione del

potere tra i partner e la violenza nella coppia. La disparità di potere nella

relazione viene descritta a diversi livelli ma il nesso maggiormente dimostrato è

quello che c'è tra il comportamento di dominio e controllo e la violenza. Nelle

coppie in cui il potere decisionale è equilibrato, la violenza è nettamente più

rara rispetto alle coppie in cui l’uomo rivendica per sé questo potere. Altre

cause sono: frequenti liti, strategie di gestione dei conflitti, situazioni di vita

difficili. Maggiori sono i litigi nelle coppie più è possibile la violenza, ciò non

significa che i conflitti sono la causa della violenza, ma è il modo in cui

vengono gestiti che può portare alla violenza. Il rischio aumenta in assenza di

strategie costruttive di gestione dei conflitti nelle situazioni di vita difficili, in

questo caso la violenza è il risultato di un accumulo di tensioni.

Comunità

La rete sociale può evitare che insorga la violenza nella coppia, ma in

determinati casi può anche favorirla: l'isolamento e assenza di sostegno sociale

sono considerati i principali fattori di rischio. Più la coppia è integrata

socialmente e meno è caratterizzata dalla violenza. La rete sociale può

evidentemente costituire una protezione, in quanto assume una funzione di

controllo e di sostegno, ma può, anche, favorire l’insorgere della violenza:

questo avviene quando la rete sociale, e in particolare l'ambiente familiare

responsabile della socializzazione primaria, tollerano la violenza o la

considerano normale.

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La società

Il quarto livello si focalizza sulla società e sui fattori sociali che possono

contribuire a creare un clima violento; si tratta di norme socioculturali,

riguardanti in particolare i ruoli di genere e il rapporto con la violenza. Le

caratteristiche sociodemografiche, socioeconomiche e socioculturali descrivono

innanzitutto le categorie sociali nelle quali sussiste un elevato rischio di

violenza. Sono particolarmente rilevanti fattori come la notevole differenza di

età tra l’uomo e la donna, la giovane età della donna, la presenza di figli, la

disoccupazione del partner74

.

Prevenire e curare

La violenza è considerata un problema di sanità pubblica che compromette

gravemente la salute della donna, per questo risulta essenziale prevenire e

curare.

74

Il non avere un lavoro, il trovarsi in un grave stato economico , il non avere

un posto dove andare, costringe molte donne a restare legate alla relazione

violenta aspettando un momento migliore (Egger, Theres & Schär Moser,

Marianne 2008)

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Prevenzione

- Sensibilizzazione: creare una campagna di informazione rivolta alle donne e

agli operatori può migliorare la conoscenza del fenomeno

- Programmi educativi all’interno delle scuole, in particolare la scuola può:

organizzare corsi per far conoscere i diversi tipi di violenza e aiutare i giovani a

sviluppare la capacità a risolvere conflitti in modo non violento

- Spazi di ascolto. È necessario mettere a disposizione servizi territoriali in cui

la donna possa venire ascoltata e aiutata ad uscire dal rapporto violento

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- La prevenzione può provenire anche dalla coppia stessa: entrambi i partner,

nel momento in cui si rendono conto che c’è qualcosa che non va nel rapporto e

che la rabbia predomina sull’amore, potrebbero valutare la possibilità di

chiedere aiuto Pertanto la coppia potrebbe farsi aiutare grazie a un percorso di

mediazione familiare o di psicoterapia di coppia, o anche attraverso percorsi

individuali per modulare la rabbia dell’uomo e per migliorare l’autostima della

donna.

Cura

Sul territorio sono presenti vari centri di accoglienza per le donne vittime di

violenza dove le donne e i loro figli possono trovare risposte al loro bisogno di

protezione e sicurezza.

La violenza comporta, a chi la subisce, gravi conseguenze psicologiche: nel

momento in cui le vittime prendono atto della situazione in cui in cui si

trovano, oltre alla rabbia provano vergogna per non essere state amate, per aver

accettato umiliazioni e per essere state deboli, per questo risulta essenziale una

psicoterapia. Il percorso di psicoterapia aiuta la donna a migliorare l’autostima

e la sicurezza, elaborando emozioni negative come la vergogna e l’impotenza.

I percorsi di cura sono necessari anche per gli uomini affinché possano fermarsi

a riflettere sulle responsabilità connesse alla violenza agita; attraverso percorsi

individuali gli uomini possono comprendere le proprie emozioni, confrontarsi e

accettare le proprie fragilità e debolezze e soprattutto modificare le proprie

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modalità relazionali. Una rete di servizi dedicata agli uomini è utile per dare

risposte adeguate a ciò che è scaturito in loro che ha causato violenza.

La violenza contro le donne spesso assume il carattere dell’invisibilità:

invisibile perché si consuma all’interno dei rapporti familiari e affettivi, perché

non sempre se ne riconoscono i contorni e i contenuti, infine perché la

comunicazione e l’informazione mediatica generano spesso ambiguità,

pregiudizi, stereotipi che danno luogo a percezioni distorte e a sovrapposizioni

di significato ed è per questo che bisogna migliorare la prevenzione e la cura in

modo da far trovare a loro la forza di uscire da questa spirale.

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Conclusioni

L’intento di questo articolo era di focalizzare l’attenzione sugli aspetti specifici

che possono indurre gli uomini ad agire violenza sulle donne: aspetti

psicologici relativi a difficoltà individuali dell’uomo e della donna causate,

come abbiamo visto, da diversi fattori. Riuscire ad “entrare nella coppia”,

comprenderla, studiarla, per approfondire gli aspetti psicologici e

psicopatologici che la caratterizzano e che possono portare ad eventi tragici di

cui troppo spesso abbiamo notizia tramite i media.

L’origine della violenza non va ricercata quindi solo nella “cultura del

possesso”, in cui l’uomo uccide la donna perché non si adatta più ad un modus

vivendi che egli riteneva essere quello giusto. La violenza di oggi non è solo

questo.

Riassumendo, in questa breve trattazione abbiamo potuto osservare che:

- La maggioranza delle violenze avviene nel contesto domestico ed è

prevalentemente commessa da familiari, compagni, ex partner.

- All’interno delle coppie si instaurano relazioni perverse che portano alla

violenza. Entrambi i partner hanno dei vissuti familiari sofferenti e

disfunzionali.

- Di frequente vi sono problemi psichici e storie di dipendenze e abuso da

sostanze

- I motivi che spingono una donna a non denunciare le violenze subite sono

molti: la paura per la propria vita e quella dei propri figli, la vergogna, la

mancanza di mezzi economici, la difficoltà ad accettare il fallimento della

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propria relazione o del proprio sogno d’amore, la riprovazione della famiglia o

della comunità, il senso di confusione e di smarrimento.

- L’importanza della prevenzione, della sensibilizzazione al problema e degli

spazi di ascolto.

- Risulta importante conoscere i Centri di accoglienza del proprio territorio, non

solo per “le vittime” ma anche come riferimento per i diversi operatori.

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Norme di Pubblicazione per gli Autori

Chi vuole pubblicare lavori originali sulla “Rassegna di Psicoterapie. Ipnosi. Medicina

Psicosomatica. Psicopatologia Forense”, di cui l’accettazione avverrà previo esame di

un Comitato Redazionale che può accettarli, rifiutarli o accettarli con riserva, deve

inviarli all’indirizzo di posta elettronica [email protected], rispettando le

seguenti indicazioni:

1. - il titolo completo del lavoro

2. - suo riassunto in italiano e “abstract” in inglese, contenenti le ragioni dello studio compiuto, le principali osservazioni, e le conclusioni dell’Autore;

3. - parole chiave in italiano e “key words” in inglese

4. - nome e cognome dell’Autore (o Autori) in prima pagina in alto con richiamo a piè di pagina con i suoi titoli e le qualifiche più rilevanti: qualora si tratti di un lavoro

di ricerca effettuato presso un istituto universitario o un reparto ospedaliero o altro

ente, indicarne la denominazione esatta, con la firma di autorizzazione alla stampa

del direttore, completo di numero di telefono e CAP;

5. - la bibliografia: le opere elencate vanno numerate progressivamente secondo

l’ordine alfabetico. Di ognuna va indicato il cognome dell’autore e le iniziali del

nome, il titolo del libro dell’edizione originale con in parentesi: città e casa

editrice. Nel testo la bibliografia va richiamata con il numero corrispondente posto

fra parentesi; il nome dell’autore citato va scritto in neretto, seguito dall’anno di

pubblicazione (es.: Granone, 1989); se le pubblicazioni citate per uno stesso autore

sono più di una, aggiungere la lettera alfabetica che la contraddistingue.

Si accettano anche volentieri, notiziari, notizie utili, interviste originali, recensioni,

condensazioni o traduzioni di articoli o riviste straniere di ipnosi, informazioni su

convegni e congressi.

Con l’atto dell’invio dei lavori originali, gli Autori si impegnano a non pubblicare lo

stesso lavoro in altra rivista, libro o in internet e cedono tutti i diritti alla Direzione della

Rivista. Per informazioni in proposito rivolgersi alla Direzione responsabile

[email protected] .

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Finito di stampare il

30 ottobre 2015

presso

Lineart Studio

Via Ottavilla, 10 – 00152 Roma

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SOMMARIO - Nocito Eleonora, Thomas Roberto, Pomilla Antonella

LA NET GENERATION E IL CYBERBULLISMO:

UN’INDAGINE SPERIMENTALE PRELIMINARE

Pag. 7

- Burla Franco, Lastretti Mara, Pedata Loredana Teresa,

Cinti Maria Elena

L'IMPULSIVITÀ NEI PAZIENTI BORDERLINE

Pag. 59

- Cinti Maria Elena, Lastretti Mara, Pomilla Antonella,

Calderaro Monica, Burla Franco,

L’ANALISI GRAFOLOGICA PER LA

VALUTAZIONE DEL TRATTO ANTISOCIALE

DI PERSONALITÀ

Pag. 93

- Casella Cristina, Armando Palmegiani, Danila Pescina

L’OMICIDIO DI MELANIA REA: UNA STORIA

DI STAGING

Pag. 117

- Gallo Raffaella

VANGELO CONTRO-VANGELO. UN’INDAGINE

SUL RAPPORTO MAFIA-CHIESA

Pag.167

- Bovino Antonella, Mastronardi Vincenzo, Pescina

Danila

DALL’AMORE ALLA VIOLENZA. LE

DINAMICHE PSICOLOGICHE ALL’INTERNO

DELLA COPPIA.

Pag.259

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