Rassegna di Psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica ... · Calderaro Monica, Burla Franco,...
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Rassegna di Psicoterapie.
Ipnosi. Medicina
Psicosomatica.
Psicopatologia Forense.
Periodico quadrimestrale a carattere scientifico
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA "SAPIENZA"
VOLUME 20 – N. 3
Settembre – Dicembre 2015
Volume 20 N° 3 - 2015
Periodico quadrimestrale a carattere scientifico di proprietà della UNIVERSITÀ DEGLI
STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” Comitato Consultivo
Cattedra di Psicopatologia Forense
(Dipartimento di Neurologia e Psichiatria), Universitá di Roma “La Sapienza” .
Direttore responsabile:
Vincenzo Mastronardi
Vice Direttore responsabile
Nino Anselmi
Direzione Scientifica onoraria:
Franco Granone e Antonio Maria Lapenta
Gli elaborati vanno inviati al Prof. Vincenzo
Mastronardi Dipartimento Neurologia e Psichiatria, Universitá “La Sapienza”, P.le Aldo
Moro, 5 – 00185 Roma – Fax: 06/49912282
Comitato Scientifico: Maria Tosello
M. Calderaro, S. Agostini, V. Ferrante,
F.Massone, A.Miglino, E. Foppiani, E.
Marinelli, G. Montanari Vergallo
A.Pacciolla, C. Bairati Papi, D. Pescina, A.
Pomilla, S.Ricci, G. Saladini, S. Agostini, F.
Umani Ronchi, S. Zaami
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G. B. PALERMO (Las Vegas),
A. PETIZIOL (Roma),
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V. RAPISARDA (Catania),
L. RAVIZZA (Torino),
S. RICCI (Roma)
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N. RUDAS (Cagliari),
E. TORRE (Torino),
H. WALLNÖFER (Vienna),
J. C. WATKINS (Missoula),
L. WOLLMAN (New York),
J. K. ZEIG (Phoenix).
S. ZAAMI (ROMA )
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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SOMMARIO
- Nocito Eleonora, Thomas Roberto, Pomilla Antonella
LA NET GENERATION E IL CYBERBULLISMO:
UN’INDAGINE SPERIMENTALE PRELIMINARE
Pag. 7
- Burla Franco, Lastretti Mara, Pedata Loredana Teresa,
Cinti Maria Elena
L'IMPULSIVITÀ NEI PAZIENTI BORDERLINE
Pag. 59
- Cinti Maria Elena, Lastretti Mara, Pomilla Antonella,
Calderaro Monica, Burla Franco,
L’ANALISI GRAFOLOGICA PER LA
VALUTAZIONE DEL TRATTO ANTISOCIALE
DI PERSONALITÀ
Pag. 93
- Casella Cristina, Armando Palmegiani, Danila Pescina
L’OMICIDIO DI MELANIA REA: UNA STORIA
DI STAGING
Pag. 117
- Gallo Raffaella
VANGELO CONTRO-VANGELO. UN’INDAGINE
SUL RAPPORTO MAFIA-CHIESA
Pag.167
- Bovino Antonella, Mastronardi Vincenzo, Pescina
Danila
DALL’AMORE ALLA VIOLENZA. LE
DINAMICHE PSICOLOGICHE ALL’INTERNO
DELLA COPPIA.
Pag.259
Volume 20 N° 3 - 2015
7
Eleonora Nocito1, Roberto Thomas
2, Antonella Pomilla
3
LA NET GENERATION E IL CYBERBULLISMO: UN’INDAGINE
SPERIMENTALE PRELIMINARE
RIASSUNTO
La familiarità con i media e le tecnologie digitali da parte degli adolescenti e
giovani della cosiddetta net-generation dell’attuale società è ampissima: per la
dimestichezza nella ricerca di informazioni utili allo studio ed alla conoscenza,
e nella condivisione di opinioni e contenuti digitali, per la gestione dei profili
personali aperti su almeno uno dei social network più usati e conosciuti
(Facebook, Twitter, Instagram, ecc..).
Indubbi sono i vantaggi da un punto di vista comunicativo e relazionale, ma ad
essi possono in alcuni casi associarsi variabili forme problematiche relative al
cattivo uso delle tecnologie stesse, ingenerando nuovi comportamenti devianti
oppure trasformando altri già esistenti. Questo è il caso del cyberbullismo.
Considerando un campione complessivo di 207 alunni di scuola primaria,
secondaria di primo grado e secondaria di secondo grado di Istituti della
provincia di Pesaro-Urbino, l’indagine sperimentale che qui si presenta ha
voluto indagare la diffusione e l’utilizzo delle nuove tecnologie da parte dei
1 Avvocato, Criminologa, Mediatore Civile Professionista
2 Già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni
di Roma 3 Psicologo Clinico, Criminologo, PhD in Psichiatria - Assegnista di Ricerca
c/o “Sapienza” Università di Roma
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giovani, e specificatamente la conoscenza e la percezione che essi hanno del
fenomeno del cyberbullismo.
Considerando complessivamente le risposte date dai ragazzi intervistati, si è
evidenziato un uso abbastanza responsabile dei mezzi di comunicazione
elettronica, nonché una discreta conoscenza dei rischi connessi al loro utilizzo
relativamente al fenomeno in esame.
Parole chiave: net-generation; cyberbullismo; molestie telematiche
ABSTRACT
Young people and adolescents considered to be the net generation in today’s
society are extremely familiar with digital technologies and media by virtue of
their fluency in searching for information used in education and learning, their
sharing of opinions and digital content, and their management of personal
profiles on at least one of the highly-frequented and well-known social
networks (Facebook, Twitter, Instagram, etc.).
There are undoubted advantages of this familiarity from the perspective of
communication and relationships, but in some cases various problems arise
relating to the misuse of the very same technologies, leading to new deviant
behaviours or transforming existing ones. This is the case with cyberbullying.
Considering a total sample of 207 primary school and first and second grade
secondary school pupils in Pesaro-Urbino province, the empirical research
presented here aimed to investigate the spread and the use of new technologies
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by young people and in particular the knowledge and the perception they have
of the cyberbullying phenomenon.
Considering all of the answers given by interviewed students, it emerged that
electronic means of communication were being used adequately responsibly
and in addition there was some awareness of the risks linked to their utilization
in the context of the phenomenon under examination.
Key words: net-generation; cyberbullying; cyberharassment
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1. Il cyberbullismo: definizione, caratteristiche e diffusione
Il bullismo telematico o cyberbullismo indica le varie forme di sopruso e
prevaricazione perpetrate attraverso i mezzi di comunicazione digitale (e-
mail, blog, social network, sms ed internet in generale).
Se il bullismo cosiddetto tradizionale, quello che si esplica attraverso violenze
e coercizioni fisiche (spesso contestualizzato in ambito scolastico), è un
fenomeno da tempo conosciuto, questa nuova variante è in costante crescita
poiché al passo con il continuo sviluppo delle tecnologie informatiche.
Esso è, tuttavia, non meno grave della forma diretta, poiché riconosciuto è il
rischio che la cd. “disinibizione online” (vedi a tal riguardo Suler J.,
http://www.psychomedia.it/pm/telecomm/telematic/suler.htm) incrementa
sensibilmente l’intensità della violenza e gli esiti persecutori: poiché il bullo,
nascondendosi dietro “uno schermo”, è nell’impossibilità di osservare
l’impatto del proprio comportamento sulla vittima, e quindi la perdita della
consapevolezza degli effetti delle proprie azioni lo inducono in stati di
disinibizione, disimpegno morale e perdita di empatia e rimorso (Nicoletti &
Gallingani, 2009); poiché la divulgazione di materiale offensivo viene
amplificato dalla rete stessa, notoriamente priva di confini di spazio e di
tempo, ed oltretutto fruita simultaneamente da un più vasto pubblico.
Difatti, tanto nelle notizie di cronaca quanto dalla letteratura di specie, è da
tempo segnalata la gravità di tale fenomeno con la conseguenza più estrema:
il suicidio della vittima di bullismo, sia esso esercitato in forma reale che
cyber (a tal riguardo, è di Marr & Field (2001) il neologismo bullycide ad
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indicare il comportamento della vittima spinta al suicidio dopo aver subito
molestie fisiche e psicologiche reali e/o telematiche, ed altresì l’uccisione del
suo aggressore).
Peraltro, si può ricondurre il concetto di disinibizione telematica anche alle
molteplici forme attraverso le quali vengono ad esplicarsi i comportamenti
persecutori e denigratori. Così Tonioni (2014) elenca ad esempio:
Harassment (molestie): invio di ripetuti messaggi denigratori ed offensivi
mirati a ferire la vittima bersaglio;
Flaming (litigi online): invio di messaggi provocatori, violenti o volgari
allo scopo di suscitare litigi tra i fruitori di chat o forum. Il flaming è indice
di intensa aggressività, e può essere episodico e fine a sé stesso o frutto di
un eccesso di rabbia motivato, sostenuto da un pretesto qualsiasi;
Denigration (denigrazione): invio o pubblicazione di pettegolezzi e dicerie
sul conto della vittima bersaglio, per danneggiarne la reputazione o le
amicizie;
Impersonation: assunzione dell’identità di un’altra persona, rubando le sue
credenziali di profilo telematico, al fine di danneggiare l’immagine,
rovinarne la reputazione o le amicizie o compiere atti illeciti o violenti
sotto falso nome;
Exposure: diffusione di notizie private e/o riservate, condivisioneonline di
segreti o informazioni imbarazzanti sul conto della vittima bersaglio. Le
informazioni possono essere del tutto inventate o in qualche modo estorte
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da dichiarazioni della vittima, non in modo diretto (ovvero non come sue
confidenze);
Trickery: acquisizione, tramite mezzi fraudolenti, di informazioni riservate
di qualcuno allo scopo di pubblicarle o utilizzarle per trarne vantaggio.
Questa attività si compie, in concreto, ottenendo con l’inganno la fiducia
della vittima allo scopo di ricevere confidenze e racconti, anche
imbarazzanti, per poi condividerli con gruppi di altre persone (in questo
caso è la stessa vittima a rivelare in buona fede ciò che poi viene
divulgato);
Exclusion: isolamento di una persona dai contesti telematici (es: mailing
list, forum, community);
Cyberstalking: invio ripetuto di messaggi di minaccia con intento
persecutorio, miranti ad incutere paura alla vittima;
Cyberbashing: anch’essa forma di cyberbullismo, che inizia nella vita
reale, dove la vittima viene aggredita o molestata mentre altri riprendono la
scena con la fotocamera del cellulare. Poi le immagini vengono postate su
internet e visualizzate da chiunque le voglia condividere, commentare o
votate;
Sexting: invio di immagini a contenuto sessuale per via elettronica o
tramite cellulare (a qualcuno che la vittima conosce realmente, es. il
proprio partner), che vengono poi diffuse senza il suo consenso (ad es: per
vendetta quando finisce la relazione);
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Sextortion: estorsione di foto o prestazioni sessuali attraverso ricatto, da
parte di un soggetto che è venuto in possesso di materiale compromettente
sulla vittima.
Considerando il nostro Paese, della diffusione dei mezzi telematici tra i
giovani, nonché della diffusione del fenomeno del cyberbullismo, si
ottengono riscontri da due interessanti recenti indagini nazionali.
In primo luogo, in occasione del “Safer Internet Day”4 del 2013 sono stati
pubblicati i significativi riscontri dell’indagine “I ragazzi e il cyberbullismo”
affidata ad Ipsos da Save the Children, che ha coinvolto un campione di 810
preadolescenti ed adolescenti dai 12 ai 17 anni intervistati in tutta Italia.
Questi i riscontri principali:
- al cospetto di una già elevata percentuale relativa alla presenza di un
computer in casa (93%), in modo rilevante i ragazzi dispongono inoltre
di un computer personale (79%) nonché dei più innovativi strumenti
digitali (smartphone 71% e tablet 42%, fotocamera digitale 82%);
- le ore di navigazione giornaliera in Internet sono 2 o più per il 75% del
campione (2-3 ore per il 28% e 3-4 ore per il 28%), prevalentemente da
casa (92%) e durante il pomeriggio (75%) o la sera (63%), pur senza
4 Il Safer Internet Day è la giornata istituita dalla Commissione Europea per la
promozione di un utilizzo sicuro e responsabile dei nuovi media tra i più
giovani - Indagine disponibile al sito:
http://risorse.savethechildren.it/files/comunicazione/Report%20Indagine%20Sa
fer%20Internet%202013%ch.pptx
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trascurare una percentuale del 7% per la quale i collegamenti telematici
avvengono di notte;
- quasi totalitaria è la presenza di un profilo personale su almeno un social
network o app (92%), in particolare Facebook (87%) – seguito poi da
MSN Messenger e Skype (32% in entrambi i casi), e ancora Twitter
(28%) – e WhatsApp (20%);
- ed altresì l’uso di tali canali è frequentemente praticato per chattare con
amici/conoscenti (85%) o con qualcuno conosciuto in internet (50%),
aggiornare il proprio profilo FB (74%) o il profilo di altri (59%), leggere
i blog di altri (58%), postare proprie fotografie (57%) o video (43%);
- per il 72% del campione il bullismo, e specificatamente le molestie
telematiche per il 44%, sono sentiti dai ragazzi come forti pericoli alla
loro incolumità, fenomeni poi seguiti da droga ed alcol (pericoli
rispettivamente indicati dal 55% e dal 39% del campione), dalla
possibilità di subire molestie e/o aggressioni da parte di adulti (44%), e
dall’isolamento o sua percezione per il 36% del campione;
- tra le motivazioni per cui le vittime vengono “prese di mira” da fenomeni
di aggressione e bullismo, prevalgono le caratteristiche fisiche (67%) –
ed in particolare la mancata adesione ai canoni di bellezza femminile
(59%) – o altre caratteristiche personali e comportamentali (es. l’essere
timido o apparentemente poco sveglio, l’essere “secchione” – 67%),
seguite da varie forme di espressione della “diversità”, quali il supposto
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orientamento sessuale (65%), i gusti e le idee personali in fatto di
abbigliamento, musica, etc. (48%), l’essere stranieri (43%);
- al di là delle motivazioni sopra elencate, riferite a caratteristiche della
vittima, viene ampiamente riconosciuto il ruolo del “branco” (“uno
comincia e gli altri gli vanno dietro” – 70%);
- sede elettiva dell’esplicarsi di tali forme denigratorie rimane la scuola
(80%), ed al secondo posto gli altri luoghi aggregativi reali (es. piazzetta,
locali, etc.) (67%), con successiva eventuale estensione, con rilevanza
non trascurabile, al mondo virtuale (“su internet e cellulari”) (53%);
- riconosciute conseguenze delle molestie sono l’isolamento sociale e la
perdita di interesse nelle attività quotidiane (65% e 67%) e problematiche
psicologiche quali la depressione o il rischio di incorrere in
comportamenti autolesivi (57% e 44%);
- per quanto riguarda nello specifico le molestie telematiche, il campione
indica quali forme prevalenti le persecuzioni del profilo sui social
network (61%), la diffusione di immagini intime o denigratorie (59%), la
diffusione di false notizie (58%) ela creazione di pagine o gruppi
“contro” la vittima designata (57%);
- di fatto, il campione riconosce che la diffusione di internet e dei mezzi
telematici (cellulari) peggiori la situazione e renda più gravi e dolorose le
aggressioni subite (83%), in quanto “non ci sono limiti a quel che si può
fare e dire” (73%), “può avvenire continuamente ed in ogni ora del
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giorno e della notte” (57%) e “potrebbe non finire mai:
video/immagini/frasi circolano online per sempre” (55%);
- di fondamentale importanza, al fine di risolvere il problema, è la rete
sociale: il campione indica in primis il fatto di doverne parlare con i
genitori (70%), seguiti poi dagli insegnanti quali altri adulti significativi
(53%), mentre il gruppo dei pari può fornire un supporto minoritario al
cospetto della gravità del quadro ipotizzato (“parlarne con un amico”
40%).
Altresì, anche nell’altra recentissima indagine “Abitudini e stili di vita degli
adolescenti” (2014) condotta dalla Società Italiana di Pediatria
(http://sip.it/pianeta-sip/agli-stati-generali-della-pediatria-e-allarme-
cyberbullismo) su un campione nazionale di 2.107 studenti della terza media,
emerge come centrale il tema della “migrazione” dei collegamenti telematici
effettuati dai giovani dal pc ai più moderni strumenti tecnologici, smartphone
in primis, oggi utilizzati dal 93% dei ragazzi (al cospetto del 65% del 2012).
Tuttavia, per quanto anche per questo campione vengano indicati come
frequenti i comportamenti di cyberbullismo direttamente subiti (31% in
generale, e 35% per il campione femminile) o osservati in amici prossimi
(56%), in questa indagine a differenza della precedente emerge in modo
sostanziale come il fenomeno venga mantenuto nel silenzio, privo della
ricerca di sostegno da parte degli adulti (85%), e semmai affidato a personali
tentativi di difesa (60% dei maschi e 49% delle femmine) o subito senza far
niente (11,7%).
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2. Ricerca sperimentale
Stante quanto sopra, si è voluto offrire un contributo sperimentale indagando
ulteriormente la diffusione dell’uso del/dei mezzi telematici da parte dei
giovani (in termini di tipologia di strumento, frequenza, assunzione di un
“consumo responsabile”), nonché la loro conoscenza e percezione del
fenomeno del cyberbullismo.
La ricerca è stata condotta attraverso la somministrazione di un questionario
con domande a risposta multipla e/o a risposta aperta5, ed ha coinvolto un
campione complessivo di 207 studenti (91 maschi e 113 femmine; età: 10/12
anni, 60%, e 16/17 anni, 40%) di istituti scolastici della provincia di Pesaro-
Urbino:
- 42 studenti (20 maschi e 22 femmine) della V classe scuola primaria (Ist.
“Sant’Orso” di Fano);
- 82 studenti (34 maschi e 48 femmine) della II classe scuola secondaria
inferiore (Ist. “G. Padalino” di Fano);
- 83 studenti (37 maschi e 43 femmine) della III e IV classe scuola secondaria
superiore (liceo scientifico Ist. “Laurana-Baldi” di Urbino).
Il questionario, somministrato come di norma in forma anonima, ha
consentito agli intervistati di esprimersi liberamente sulle tematiche proposte,
5 Sebbene la formulazione delle domande del questionario sia stata resa con
particolare semplicità, considerando la differenza di età dei soggetti presi a
campione, lo strumento è stato somministrato nella forma completa (24
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sulle quali, come è noto, spesso vige una forte ritrosia emotiva. Pur
considerando le molteplici sfaccettature che contraddistinguono il fenomeno
sotto indagine, lo strumento è altresì risultato di facile e veloce compilazione
anche da parte dei giovanissimi.
Per dovere di trasparenza scientifica si deve segnalare che, sebbene l’indagine
abbia coinvolto una numerosità campionaria soddisfacente (207 soggetti in
totale), si è voluta rivolgere ad una sola, contenuta, realtà territoriale, per
meglio specificare il fenomeno indagato in considerazione del contesto socio-
culturale di riferimento.
Ciò implica, di contro, il fatto che si tratti di risultanze parziali, probabilmente
non applicabili ad altri contesti o all’intero territorio nazionale.
Questo è difatti l’auspicio che ci si pone per il futuro: l’ampliamento del
campione anche ad altri contesti socio-culturali, nonché un ampliamento per
tipologia di utenza, ad esempio valutando la percezione del fenomeno del
cyberbullismo anche tra gli insegnanti, che vivono il contesto scolastico con gli
stessi alunni e quindi osservano le stesse dinamiche che qui sono oggetto di
indagine.
Quanto segue riporta i risultati generali relativi al campione complessivamente
considerato, con i relativi grafici e le percentuali di rilevanza per ognuno degli
item tematici.
domande) ai soli studenti delle scuole medie e superiori, e viceversa in forma
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************
Una prima parte del questionario si è rivolta a valutare, da un punto di vista
quantitativo e qualitativo, l’uso da parte dei giovani delle tecnologie
informatiche.
Per quanto riguarda il possesso dei più moderni strumenti tecnologici, ovvero
gli smartphone, si nota come la diffusione sia correlata all’età anagrafica,
seguendo un andamento crescente(Fig. 1 A/B/C/D): poco diffuso tra i
giovanissimi(ne dispongono solo17 studenti su 42 delle elementari), diviene di
uso comune per gli studenti delle medie (77 ragazzi su 82) ed ancor di più per i
ragazzi più grandi (ognuno degli 83 studenti del liceo ne possiede uno).
ridotta (12 domande) agli studenti della scuola elementare.
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20
14%
26%60%
SCUOLA ELEMENTARE
Possiedi un cellulare?
Sì
24%
70%
6%
SCUOLA MEDIA
Possiedi un cellulare?
Sì Sì, con connessione internet No
Figura 1 A/B/C/D – Possesso di smartphone nei tre subcampioni (elementari,
medie, liceo):
valori percentuali e valori assoluti
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Viceversa, il possesso nella propria abitazione di un computer connesso ad
internet è frequente in ognuno dei tre subcampioni considerati (Fig. 2A/B/C/D):
ne dispongono 38 ragazzi su 42 delle elementari, 72 ragazzi su 82delle medie e
81 ragazzi su 83 del liceo.
Per la quasi totalità degli studenti intervistati, quindi, tale strumento fa parte
della quotidianità, ed altresì l’accesso è facilmente fruibile, poiché i ragazzi
indicano come collocazione prevalente la propria camera da letto, oppure la
sala/stanza da pranzo.
91%
7%2%
SCUOLA ELEMENTARE
Hai almeno un computer connesso ad internet in casa
tua?
Sì No No. Se mi serve internet vado in altro luogo
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22
88%
7%
5%
SCUOLA MEDIA
Hai almeno un computer connesso ad internet in
casa tua?
Sì No No. Se mi serve internet vado in altro luogo
98%
1%1%
SCUOLA SUPERIORE
Hai almeno un computer connesso ad internet in casa
tua?
Sì No No. Se mi serve internet vado in altro luogo
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Figura 2 A/B/C/D – Possesso di computer connesso ad internet nei tre
subcampioni (elementari, medie, liceo):
valori percentuali e valori assoluti
La disponibilità del collegamento alla rete internet viene utilizzata, tra le altre,
per l’iscrizione ai social network, sebbene anche in questo caso in modo
direttamente proporzionale all’avanzare dell’età (Fig. 3 A/B/C/D): la
percentuale degli iscritti ai social network si inverte radicalmente con il
passaggio dalla quinta elementare (dove il 76% degli studenti non risulta
iscritto) alla scuola media (dove risulta invece iscritto ad un social network il
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72% degli studenti), fino a coinvolgere la quasi totalità degli studenti più grandi
(99% dei liceali).
Il social network più popolare risulta per tutti essere Facebook, seguito dai
social Instagram, Messanger, Youtube e Whatsapp.
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25
Figura 3 A/B/C/D – Iscrizione a social network nei tre subcampioni
(elementari, medie, liceo):
valori percentuali e valori assoluti
24%
76%
SCUOLA ELEMENTARE
Sei iscritto ad un social
network?
Sì No
72%
28%
SCUOLA MEDIA
Sei iscritto ad un social
network?
Sì No
99%
1%
SCUOLA SUPERIORE
Sei iscritto ad un social
network?
Sì No
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Fortunatamente, l’iscrizione ai social network e l’uso di internet in generale
sembra svolgersi in modo abbastanza responsabile e consapevole, sotto diversi
punti di vista:
- nella preventiva lettura delle “condizioni d’uso” e delle “regole sulle
privacy” (per il 52% degli studenti delle medie e del liceo – Fig. 4);
- nell’uso di password differenziate per i vari servizi utilizzati (per il 53%
degli studenti delle medie e del liceo – Fig. 5);
- nella scelta di non pubblicare proprie informazioni personali, ben
comprendendone i rischi (71% degli alunni delle medie e 51% dei liceali,
sebbene in quest’ultimo caso sia da segnalare la presenza di un 42% di
coloro che sceglie di pubblicarle proprio per una maggiore facilità ad
essere rintracciati) (Fig. 6 A/B)6;
- nell’attenzione mostrata al fatto di non pubblicare foto o commenti che
possano, anche involontariamente, offendere o danneggiare qualcuno(Fig.
7A/B/C/D).
6 Questi tre item non sono stati somministrati agli studenti delle elementari
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Figura 4 – Lettura delle condizioni d’uso e regole sulla privacy (% cumulata
per medie e liceo)
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Figura 5 – Cambio di password (% cumulata per medie e liceo)
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Figura 6 - A
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Figura 6 - B
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DOM -Ti chiedi mai, prima di postare un commento o una foto, se potresti,
anche involontariamente, offendere o danneggiare qualcuno? Cerchi di
metterti “nei panni” dell’altra persona?
88%
2% 0%10%
SCUOLA ELEMENTARE
Sì, infatti non pubblico mai cose che possono
danneggiare/offendere gli altri
Sì ma mi è capitato di farlo in circostanze particolari,
ad esempio “per vendetta”
No, se ho da fare un commento lo faccio, sono una
persona molto diretta
No, se trovo una foto “simpatica” la pubblico, senza
curarmi che possa offendere gli altri
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Figura 7 A/B/C/D – Valori percentuali per i tre subcampioni e valori assoluti
per il campione complessivo
Volume 20 N° 3 - 2015
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Passando adesso a descrivere i risultati ottenuti in merito all’ambito di
conoscenza del fenomeno del cyberbullismo, troviamo un primo dato relativo al
fatto che esso sia pressoché sconosciuto per i ragazzi delle elementari (86%) e
per la metà di quelli delle medie (49%), e viceversa largamente noto ai liceali
(83%) (Fig. 8 A/B/C/D).
Fortunatamente, sempre in esigua percentuale tale conoscenza del fenomeno è
stata in forma diretta, ovvero vissuta in prima persona (5% dei ragazzi delle
medie e 2% dei liceali), o per prossimità, ovvero subita da alcuni amici (5% per
i ragazzi delle elementari, 6% per i ragazzi delle medie, 10% per i liceali).
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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Figura 8 A/B/C/D – Valori percentuali per i tre subcampioni e valori assoluti
per il campione complessivo
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Per il nostro campione, la vittima bersaglio viene indicata di sesso maschile per
i ragazzi delle elementari (52%), mentre è di sesso femminile per i ragazzi delle
medie e per i liceali (76% e 72%).
Con riferimento alle motivazioni per cui il genere influisce sull’essere vittima
di cyberbullismo, il campione ha indicato:
- nel caso di vittima di sesso maschile: il fatto che solitamente i maschi
litigano o si insultano tra loro; prendono in giro i più deboli o i timidi che
non riescono ad inserirsi nel gruppo, oppure i più “secchioni”, gli
“omosessuali” o i grassi; il fatto che i maschi sono più tecnologici in
quanto usano più spesso il computer, il cellulare e le chat;
- nel caso di vittima di sesso femminile: il fatto che la femmina è più debole,
sensibile ed indifesa, oltre che meno brava in informatica; perché le
femmine pubblicano molte più foto di sé sui social network (selfie), e sono
quindi più esposte; o ancora per invidia e rivalità femminile.
A coloro che avevano dichiarato di aver subito episodi di cyberbullismo (80
studenti sui 207 totali), è stato poi chiesto di indicare la modalità di
vittimizzazione subita.
In generale, si è trattato per lo più di scherzi telefonici o “telefonate mute”
(58%), ed in misura minoritaria di veri e propri insulti in servizi di
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messaggistica istantanea (26%), sms/mail dal contenuto persecutorio o
denigrante (9%) o ricezione di foto/video offensivi (7%) (Fig. 9).
Figura 9 – Esperienze di vittimizzazione (% su campione complessivo)
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Al contempo, è stato chiesto al campione di indicare un eventuale proprio
coinvolgimento, e quindi di che natura, ad episodi di cyberbullismo7.
Confortante il dato che il campione complessivamente considerato in modo
nettamente prevalente abbia negato il fatto di aver partecipato o attuato episodi
di cyberbullismo, nella consapevolezza di quanto essi arrechino sofferenza
(46%) o offesa (45%) alla vittima.
Tuttavia, non è da trascurare quella percentuale del 9% del campione che ha
attuato/partecipato ad episodi di cyberbullismo, considerandoli come “un
gioco” (Fig. 10).
Figura 10 – Partecipazione ad episodi di cyberbullismo (% su campione
complessivo)
7 Item non somministrato agli studenti delle elementari
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Interrogato il campione sui comportamenti eventualmente messi in atto8,
troviamo lo stesso tipo di distribuzione che avevamo già riscontrato nel caso
degli esempi di vittimizzazione:
- scherzi o telefonate mute (59%);
- insulti in servizi di messaggi istantanei condivisi (21%);
- minacce via sms o email con commenti negativi (12%);
- invio di foto/video offensivi (8%).
Il campione è stato altresì intervistato sulla figura del cyberbullo.
Per la maggioranza degli intervistati, si tratta di un soggetto di sesso maschile
(Fig. 11), che mette in atto i propri comportamenti vessatori in realtà per
“fingersi forte”, in quanto affetto da una propria sofferenza interiore (41%).
In secondo ordine, i comportamenti persecutori vengono adottati per una
variabilità di motivazioni espresse così come segue:
- per invidia (15%);
- per divertimento (14%);
- per vendetta (12%);
- perché “cattivo” (9%) e per “ferire i sentimenti di qualcuno” (6%);
- per “dimostrare la sua bravura nell’uso di pc/telefono cellulare” (2%) e per
“noia” (1%) – (Fig. 12).
8 Item non somministrato agli studenti delle elementari
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Relativamente a quel 20% del campione complessivo secondo cui il cyberbullo
è di sesso femminile, quali motivazioni si consideravano l’invidia, la
competizione e la rivalità generalmente attribuita alle femmine.
Figura 11 – Genere sessuale del cyberbullo (risultato su campione
complessivo)
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Figura 12 – Motivazioni per il cyberbullo (% sul campione complessivo)
Tuttavia, per il nostro campione il cyberbullismo non andrebbe unicamente
relegato al mondo virtuale, bensì forse essere un’estensione di fenomeni di
aggressività, persecuzione e denigrazione che già si verificano nella vita reale,
dato che, per la maggioranza dei soggetti intervistati (76%), il cyberbullo
potrebbe conoscere le sue vittime anche “dal vivo” (Fig. 13 A/B).
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Pensi che un cyberbullo conosca di persona le sue vittime?
(risultatigenerali)
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Figura 13A/B – Il cyberbullo conosce di persona le sue vittime? (risultati
complessivi, in valori assoluti e percentuali)
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Ancora, similmente alle ricerche su piano nazionale condotte da Ipsos/Save The
Children e Società Italiana di Pediatria citate in testa, anche il nostro campione
è stato invitato ad indicare, in base alla scelta in ordine di preferenza tra alcune
opzioni, a quale figura richiedeva aiuto allorquando subiva vittimizzazioni di
cyberbullismo (Fig. 14A/B/C).
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Figura 14 A/B/C – Ordine di preferenza indicata dai tre sottocampioni per la
figura cui chiedere aiuto
In sostanza, considerando il campione nel suo complesso, fa piacere
sottolineare come al primo posto si collochi la figura genitoriale (48%): al
cospetto di tanto parlare, al giorno d’oggi, di crisi della famiglia, questo dato
dimostra come i ragazzi vedano nei propri genitori un elemento cardine, un
forte punto d’appoggio per il proprio sviluppo e per superare le proprie
difficoltà.
Al secondo posto troviamo il gruppo dei pari: “un amico” (27%) viene indicato
quale ulteriore importante sostegno per sfogarsi e chiedere consigli o aiuto,
oltre che per condividere divertimento e svago.
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Al terzo posto troviamo poi le Forze dell’Ordine (25%): i nostri giovani
mostrano di nutrire fiducia verso gli uomini in divisa, considerandoli figure
autorevoli ed in grado di fornire un aiuto concreto. Le Forze dell’Ordine
costituiscono quindi uno dei pilastri cui affidare la propria sicurezza personale.
Altresì, è stato chiesto di indicare “la strategia” ritenuta più efficace ad
affrontare il fenomeno (Fig. 15).
In percentuale prevalente (36%), i ragazzi indicano come strategia quella di
“bloccare” il bullo impedendo ulteriori accessi telematici. A seguire, viene
indicato come comportamento opportuno quello di dirlo ai parenti/amici (27%)
e/o di denunciare il fatto alla Polizia (19%).
Il sostanza, al cospetto di un primario tentativo di risolvere il problema
adottando un comportamento determinato ed ostativo, come già sopra
evidenziato rimane comunque presente la possibilità di rivolgersi agli adulti per
ricevere aiuto e sostegno.
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Figura 15 –Le strategie più efficaci per risolvere il problema (risultati
complessivi)
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Più specificatamente, è stato chiesto al campione di indicare l’eventuale utilità
di campagne di informazione sul fenomeno da svolgersi in ambito scolastico9
(Fig. 16): a tal riguardo, piace segnalare come i ragazzi intervistati si rendano
conto dell’importanza di una tale campagna informativa, poiché il fenomeno è
detto molto diffuso in ambito scolastico dal (43%), e tuttavia ancora poco
conosciuto (36%).
Figura 16 – Utilità delle campagne informative (risultato generale)
9Item non somministrato agli studenti delle elementari
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Sempre in termini di strategie e risorse utili a contrastare il fenomeno, la
maggior parte degli studenti intervistati ha riconosciuto l’utilità di associazioni
che offrono colloqui, informazioni o sostegno sul cyberbullismo, e soprattutto
laddove le stesse sono state create da ex-vittime di cyberbullismo (60%), così
che la vittima possa sentirsi meno “sola” al cospetto di tali forme di aggressione
(Fig. 17).
Figura 17 – Utilità delle associazioni a sostegno delle vittime di cyberbullismo
(risultati generali)
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Oltre ai centri anti-cyberbullismo, altre risorse importanti vengono indicate nei
siti web e/o blog specializzati (24%), e nell’istituzione di una linea telefonica
dedicata al fenomeno (11%) (Fig. 18).
Figura 18 – Altri strumenti per aiutare le vittime di cyberbullismo (risultati
generali)
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CONCLUSIONI
L’indagine qui presentata ha voluto approfondire in generale l’uso da parte dei
giovani delle moderne tecnologie digitali e, nello specifico, la conoscenza e gli
eventuali vissuti del fenomeno del cyberbullismo.
Dalla ricerca sperimentale è emerso che la diffusione degli strumenti
tecnologici è frequente e quotidiana tra i giovani. Il campione
complessivamente considerato, infatti, può fruire del computer con estrema
facilità, essendo lo stesso collocato in una o più stanze della propria abitazione,
così come la connessione ad internet attraverso l’uso degli smartphone è
frequente tra ragazzi più grandi, mentre i giovanissimi, ancora sotto il controllo
dei genitori, pur possedendo un cellulare, ne sono privi.
L’indagine effettuata evidenzia altresì che la partecipazione dei ragazzi alle
attività del mondo dei social è effettiva, infatti, per la quasi totalità, risulta
l’iscrizione ad uno o più social network; gli stessi smarphone, più che per
telefonare, vengono utilizzati per chattare o collegarsi ad Internet.
Tuttavia, fortunatamente, dalla ricerca emerge un uso abbastanza responsabile
degli strumenti tecnologici da parte dei ragazzi: la maggioranza degli
intervistati, infatti, dichiara di leggere le condizioni d’uso e le regole sulla
privacy, di cambiare spesso la password usata nei vari servizi internet e di non
pubblicare le proprie informazioni personali o quelle di altre persone, così
come di prestare attenzione a non pubblicare foto o commenti negativi che
possono danneggiare o offendere gli altri compagni.
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Per quanto concerne il cyberbullismo, si evidenzia che il fenomeno sia ancora
poco conosciuto nelle classi dei giovanissimi (elementari), ma già più noto a
partire dalle scuole medie.
Per coloro che conoscono il fenomeno, il bullo ha una specifica identità: è di
sesso maschile, e tra i motivi che sono alla base del suo comportamento
persecutorio emerge una particolare vulnerabilità individuale che non ne fanno
“un cattivo” bensì a sua volta un ragazzo bisognoso di aiuto, laddove la
sofferenza interiore diviene camuffata espressione di comportamenti aggressivi
e vessatori verso gli altri, per fingersi forte.
Facendo riferimento alle vittimizzazioni subite, il nostro campione riferisce
dinamiche tutto sommato di lieve entità, quali ad esempio scherzi o telefonate
mute: comportamenti non particolarmente gravi e perlopiù appartenenti alla
sfera ludica.
Viepiù, è stata evidenziata una continuità dei comportamenti vessatori tra la
vita reale e quella virtuale: infatti gli intervistati dichiarano che solitamente
l’aggressore conosce già la sua vittima nella vita reale, e che i comportamenti
persecutori continuano poi anche online.
Per quanto riguarda le figure di aiuto, quale più valido punto di appoggio nei
momenti di difficoltà sono collocati al primo posto i genitori, seguiti poi dal
gruppo amicale dei pari, con i quali, oltre a condividere lo svago, ci si può
sfogare raccontando le proprie difficoltà, ed infine le Forze dell’Ordine,
altrettanto ben in grado di fornire un aiuto concreto.
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Con riferimento alle strategie per combattere il cyberbullismo, i ragazzi
segnalano in prima battuta l’opzione di bloccare il cyberbullo, ovvero di
adottare strategie al fine di interrompere le sue connessioni al mondo virtuale,
cui deve far seguito la denuncia a parenti, amici e Forze dell’Ordine.
Altrettanto importanti vengono considerate le campagne informative promosse
al fine di far conoscere il fenomeno, nonché la presenza sul territorio di
associazioni di tutela alle vittime (soprattutto se create da ex vittime), centri
anti-cyberbullismo, siti web e blog specializzati e di una linea telefonica
dedicata.
Concludendo, la ricerca sottolinea l’importanza di adeguata informazione sul
fenomeno, ancora poco conosciuto soprattutto tra i giovanissimi, sui suoi rischi
al positivo sviluppo psicofisico in età evolutiva, ed in generale sui pericoli del
web.
Come dato particolarmente positivo emerge la consapevolezza in merito
all’importanza di condividere con gli altri le eventuali problematiche connesse
al mondo del web, così da non chiudersi in sé stessi, rendendosi ancor più
vulnerabili alle vittimizzazioni subite.
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Franco Burla10
, Mara Lastretti 11
, Loredana Teresa Pedata12
, Maria Elena Cinti13
L'IMPULSIVITÀ NEI PAZIENTI BORDERLINE
RIASSUNTO
Secondo Bateman & Fonagy (2004) un problema fondamentale ascrivibile ai
pazienti borderline riguarda l’incapacità a mentalizzare, ovvero pensare ai
propri stati mentali come condizioni distinte e potenziali determinanti del
comportamento, unitamente alla difficoltà di riconoscimento delle proprie
reazioni e di quelle degli altri. Ciò potrebbe trovare origine in episodi di
trascuratezza infantile, non necessariamente di natura fisica.
Alla luce dei numerosi comportamenti impulsivi che rientrano nella
sintomatologia di tale disturbo, si è pensato di verificare la presenza di
differenze nell’esibizione dell’impulsività e dei disturbi del comportamento nel
10
Psichiatra, Ricercatore al Dipartimento di Neurologia e Psichiatria,
“Sapienza” Università di Roma –
Psicologo, PhD in Neuroscienze, Docente Master in “Psicodiagnostica per la
valutazione clinica e medico-legale con elementi di base giuridici e forensi”,
“Sapienza” Università di Roma. 12
Psicologo, PhD in Psicologia delle emozioni e della creatività, Docente di
Psicologia Sociale Università degli Studi di Roma Tor Vergata. 13
Psicologo, Assegnista di Ricerca e Docente Master in “Psicodiagnostica per
la valutazione clinica e medico-legale con elementi di base giuridici e forensi”,
“Sapienza” Università di Roma.
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campione clinico rispetto a non pazienti, utilizzando il test di Rorschach
(siglato secondo il Sistema Comprensivo di Exner) e l’MMPI-2.
I risultati rivelano che, al test di Rorschach, i pazienti con DBP sono
effettivamente più impulsivi, meno capaci di controllare la propria reattività ed
esibiscono limitate capacità di progettualizzazione e modulazione della risposta
emotiva rispetto al gruppo di controllo.
Il test di Rorschach appare in grado di evidenziare la disregolazione emotiva
dei pazienti come deficit meta-rappresentativo discriminante l’impulsività e
l’esibizione di comportamenti aggressivi.
Parole chiave:
Borderline, Impulsività, Aggressività, Rorschach, Exner.
ABSTRACT
According to Bateman & Fonagy (2004), a fundamental problem concerns
borderline patients is the inability to mentalizing, that is “the ability to have a
thought about mental states as distinct conditions though potential
determinants of behavior”, and also the difficulty to recognize their own
reactions and those of others. This may be rooted in incident of child neglect,
not necessarily physical.
By the numerous impulsive behaviors of symptoms of such disorder, it is
thought to verify which differences in impulsivity and behavioral problems
may emerge by comparing these subjects with a group of non-patients. The
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experimental design has therefore provided for the administration of the
Rorschach Test and the MMPI-2 to the experimental group (borderline
patients) and the control group (non-patients).
The results reveal that on Rorschach test, patients with BPD effectively results
more impulsive than normal subjects and less capable in terms of personality to
carry out a check on their own reactivity, and also that they have fewer ability
into design skills and into regulation of emotional response compared to the
control group.
Keywords:
Borderline, Impulsiveness, Aggressiveness, Rorschach Test, Exner.
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Introduzione
In passato, con i termini personalità “psicopatiche” o “sociopatiche”
s’intendevano indicare quelle personalità caratterizzate da difficoltà di
adattamento all’ambiente, instabilità relazionali, affettive e comportamentali e
facilità di passaggio all’atto che poteva, anche, concretizzarsi nella
commissione di reati quali truffe, furti, omicidi ed altri crimini efferati.
Diversi sono stati i filoni di studio che, nel tempo, hanno valorizzato aspetti
affettivo-comportamentali (Watson, 1924), aspetti soggettivi (Allport, 1937),
ma anche cognitivi e costituzionali fino al modello bio-psico-sociale del
comportamento proposto da Cloninger (1993).
Il termine “psicopatico” è caduto in disuso nei decenni seguenti fino ad essere
completamente eliminato e sostituito nelle versioni del Manuale Diagnostico e
Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) con quello di “disturbi della personalità”,
facendo rientrare in tale categoria una serie di sintomi quali irrigidimento dello
schema comportamentale, disadattamento e pervasiva sofferenza soggettiva.
I soggetti che presentano un Disturbo Antisociale di Personalità esibiscono un
comportamento caratterizzato da frequenti agiti aggressivi, ribellione verso le
norme sociali e l’autorità, insensibilità ai sentimenti altrui e intolleranza alle
frustrazioni, a cui rispondono con violenza; sono temerari e negligenti per
quanto riguarda la propria sicurezza e quella degli altri e raramente sono in
grado di mantenere delle relazioni stabili nel tempo.
Un tratto assolutamente peculiare della Personalità Antisociale è l’assenza del
senso di colpa.
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Tra i vari disturbi di personalità, quelli che presentano una maggiore
correlazione con i comportamenti aggressivi e violenti sono quello Antisociale,
che con alta frequenza è associato a condotte etero-aggressive, Borderline, per
le caratteristiche di instabilità e di facilità al passaggio all’atto (Bani e coll.,
1997) e la sindrome di “narcisismo maligno” (Kernberg, 1992), contraddistinta
da un senso di onnipotenza e invincibilità, dalla sensazione di impunità, assenza
di empatia e senso morale, prevalenza di un vissuto in cui “tutto è fattibile” pur
di soddisfare le proprie pulsioni.
Kernberg (1987) parla di pazienti borderline con struttura prevalentemente
narcisistica di personalità per riferirsi a coloro che mostrano una generale
incapacità di controllare gli impulsi e di sopportare l’angoscia, assenza di canali
di sublimazione, evidenti difficoltà relazionali, frequenti attacchi di collera e
tendenze aggressive, sintomatologia inserita in un quadro connotato dal “Sé
grandioso patologico”.
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1. Disturbi di personalità e comportamento deviante
Il Disturbo Borderline di Personalità si sviluppa spesso sul versante
psicofisiologico, caratterizzandosi per una disregolazione impulsiva, instabilità
affettiva con tratti marcati di oscillazioni dell’umore (forte reattività), mancato
controllo della rabbia con tendenza all’acting out e una importante difficoltà
nelle relazioni interpersonali (DSM IV, 1994).
I disturbi di personalità e i loro codici presenti nel DSM V sono rimasti gli
stessi di quelli presenti nel DSM-IV.
Risultati recenti (Anderson et al. 1999, Raine et al. 2000) hanno indotto alcuni
studiosi a riconsiderare i caratteri organici come causa o concausa di
comportamenti antisociali e, in casi estremi, violenti. L’attenzione si è
concentrata fortemente sulla corteccia frontale, nota per il ruolo fondamentale
nell’acquisizione delle capacità sociali e nel controllo delle emozioni e delle
azioni, ipotizzandone una sua compromissione.
Dallo studio condotto da Raine (2000), Università della California, utilizzando
la PET su soggetti detenuti vs soggetti normali, è emerso che nei primi la
corteccia frontale lascerebbe passare, senza filtrare, gli impulsi aggressivi
provenienti dal sistema limbico, regione preposta alla regolazione delle pulsioni
e delle emozioni. Successivamente, l’Autore ha esaminato altri soggetti che
presentavano sintomi di irresponsabilità, impulsività e piattezza emotiva,
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evidenziando una riduzione dell’11 % del lobo frontale in questi soggetti
rispetto al controllo.
Un’altra peculiarità è stata osservata a livello genetico (Caspi et.al 2002),
considerando l’implicazione del gene MAO-A nell’aumento dell’aggressività
incontrollata.
È fondamentale però che l’espressione genica, affinché si verifichino
comportamenti abnormi, sia condizionata da una serie di fattori esterni quali
una particolare situazione familiare e sociale caratterizzata da forte emotività,
comportamenti violenti e abusi.
Le personalità antisociali presentano spesso un comportamento che si
caratterizza per frequenti atti di aggressività e intolleranza nei confronti delle
norme sociali prevalenti, mostrano una scarsa capacità a mantenere delle
relazioni stabili e sintoniche, spesso sono insensibili ai sentimenti degli altri,
intolleranti alle frustrazioni, alle quali reagiscono con violenza, mostrano
raramente sentimenti di colpa, mentre tendono ad accusare gli altri anche dei
propri errori.
Il DSM-V ha apportato alcune modifiche importanti nella valutazione dei
disturbi di personalità, favorendo un sistema di classificazione dimensionale e
non categoriale basato sulla valutazione della gravità dei tratti di personalità nei
seguenti domini: emotività negativa, introversione, antagonismo, disinibizione,
compulsività e schizotipia.
Nello specifico, in base alla sintomatologia esibita, i pazienti con personalità
disturbata possono essere collocati su cinque categorie diagnostiche:
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antisociale/psicopatico, evitante, borderline, ossessivo-compulsivo e
schizotipico.
Spesso descrivendo queste personalità si sottolinea il ruolo dell’impulsività: si
tratta di una predisposizione ad agire rapidamente senza pianificare la propria
condotta e soprattutto senza effettuare un’adeguata valutazione delle sue
conseguenze (Moeller et al., 2001; Manna et al., 2005). Sono state delineate
diverse forme di impulsività : “motoria”, caratterizzata dall’agire nell’impeto
del momento, concetto molto simile a quello illustrato da Eysenk (1977) come
“impulsività in senso stretto”; quella “non pianificata”, definita come la
tendenza a scegliere un vantaggio immediato, anche se esiguo, anziché una
ricompensa maggiore ma procrastinata; “cognitiva” o “attenzionale”,
caratterizzata da una propensione alle decisioni repentine e da un rapido
processamento delle informazioni di contesto (Swann et al., 2002).
L’impulsività si esprime con una serie di comportamenti su cui il soggetto non
riflette sufficientemente, messi in atto in modo troppo rapido, rischioso o non
adeguato alla situazione, causando spesso conseguenze indesiderate
(Winstanley et al., 2006). In questo caso, l’intervento delle istanze emotive e
cognitive è limitato esclusivamente alla modulazione del soddisfacimento di
tale comportamento istintivo.
I soggetti con Disturbo Borderline di Personalità adottano comportamenti
impulsivi (spese eccessive, relazioni sessuali promiscue, abuso di sostanze,
guida spericolata, abbuffate) per alleviare stati emozionali intollerabili oppure
manifestare sentimenti di rabbia e intensa frustrazione. Sebbene tali condotte
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siano messe in atto con l’obiettivo di ottenere una gratificazione immediata e
non di arrecare danno a sé o agli altri, gli esiti a lungo termine risultano
comunque negativi per il soggetto o per coloro che lo circondano (Arntz et al.,
2003).
D’altra parte nel DBP trovano spazio anche sintomi che esprimono
aggressività , intesa come eccessi di rabbia che esitano in comportamenti
violenti e distruttivi.
2. La valutazione in ambito giudiziario alla luce della recente
giurisprudenza
L'esame della personalità in ambito giudiziario rappresenta tuttora motivo di
discussione e di dibattito, in quanto, come è noto, di fatto è ancora vietata la
perizia psicologica (art. 220 c.p.p.), pur riscontrando, in diversi casi, valutazioni
al limite con quella di tipo psicologico, soprattutto negli accertamenti sulla
capacità di intendere e di volere, ovvero sulla imputabilità, in relazione
all'eventuale presenza di infermità mentale (artt. 85, 88, 89 c.p.). Di fatto nel
tempo diverse cose sono cambiate e stanno evolvendo in seguito a diverse
sentenze di cui parleremo più avanti.
Un’eccezione a quanto detto sopra è costituita dall’ambito minorile in cui la
valutazione della personalità è richiesta dall’autorità giudiziaria in ambito
penale per valutare, ad esempio, l'imputabilità e il grado di responsabilità (art.
98 c.p.), oppure nei casi di minori vittime di abusi sessuali o maltrattamenti.
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I concetti di “responsabilità” e “imputabilità” sono in realtà distinti, ma non
devono essere considerati del tutto indipendenti poiché l’imputabilità
presuppone la responsabilità, definita come la “capacità che ha un uomo di
rispondere di un’azione” (De Leo, 1996). Quest’ultima rimanda ad una serie di
processi per cui i soggetti tendono a strutturare nessi di intenzionalità, di
consapevolezza, di casualità e di attribuzione a sé, rispetto all’azione.
La responsabilità può essere considerata come una funzione e una competenza
dell’Io e delle sue capacità e potenzialità di autonomia rispetto alle pressioni, ai
conflitti interni ed esterni all’individuo, non potendo essere valutata solo in
termini intrapsichici, ma con riferimento specifico alle azioni concrete e
contestualizzate messe in atto dall’individuo.
La responsabilità personale coincide con la consapevolezza dell’autore per il
fatto commesso, nel senso che l’agente risponde sempre dell’azione in base alle
caratteristiche peculiari la sua personalità, manifestate nell’atto criminoso.
L’imputabilità è il presupposto della responsabilità penale. Negli attuali
orientamenti psichiatrico-forensi, la malattia mentale viene considerata come
possibile causa di diminuzione della responsabilità.
Il giudizio in tema di capacità di intendere e di volere non è un giudizio
esclusivamente tecnico, basato sulla mera diagnosi psichiatrica, bensì una
valutazione attinente alla responsabilità.
E’ necessario, dunque, considerare complessi aspetti di interazione con il
contesto culturale che comprende non solo il soggetto, ma anche il suo
ambiente.
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Le recenti sentenze hanno evidenziato il ruolo dei disturbi di personalità in
termini di incidenza sulla responsabilità e dunque sull’imputabilità.
La sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, dell’8 marzo 2005, n.
9163, recita: “Anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e
psicopatie, possono costituire causa idonea a escludere o scemare
grandemente, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere
di un soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di
consistenza, rilevanza, gravità e intensità tali da concretamente incidere sulla
stessa; per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre
“anomalie caratteriali” e gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i
suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del
soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di
reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo
causalmente determinato dal primo”.
Dunque il disturbo di personalità avrebbe una rilevanza specifica sulla
valutazione dell’ infermità nel caso in cui esso possa influire in maniera
significativa sulla funzionalità dei processi intellettivi e volitivi del soggetto.
Sempre la stessa sentenza afferma: “Ai disturbi della personalità può essere
attribuita un’attitudine a proporsi come causa idonea ad escludere o a scemare
grandemente la capacità di intendere e di volere del soggetto agente; principio
che si pone in perfetta consonanza col disposto dell’articolo 85 Codice Penale
e con l’orientamento costituzionale”.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
70
Il quadro psichico patologico dovrà in tali casi essere posto a raffronto con la
condotta posta in essere dal soggetto antecedentemente, durante e
successivamente alla commissione del reato.
L’orientamento della Cassazione a Sezioni Unite ha trovato sostegno anche
nell’asserto n. 8282 del 2006 in cui i giudici di legittimità affermano che il
disturbo antisociale della personalità può essere incluso e avere un peso in tema
di infermità, incidendo sulla valutazione della capacità di intendere e di volere.
Nei casi connotati da maggiore gravità, la qualità della malattia o il significato
dell’infermità nel reato devono riferirsi ad una serie di “indicatori”, connessi tra
loro e propri del disturbo psicotico transitorio.
Più recentemente, nell’aprile 2013, la Corte di Cassazione, III sez. penale, con
la sentenza n. 17608, ha ribadito il ruolo dei disturbi di personalità all’interno
della valutazione di infermità.
In entrambi i casi - nell'età adulta e nell'età evolutiva - ormai può ritenersi
acquisita l'integrazione di più metodologie dell'esame psichico, tra le quali
quella classica della psichiatria clinica con colloqui che consentono di giungere
a deduzioni ottenute con elementi intuitivo-comprensivi, e quella cosiddetta
sperimentale della psicologia clinica attraverso l’utilizzo dei test psicologici che
consentono di raggiungere risultati obiettivi ed oggettivi attraverso la
standardizzazione e la taratura dei stessi strumenti, ed i cui dati possono essere
utilizzati, valutati e criticati anche da altri esperti.
La specificità del contesto richiede alcune riflessioni aggiuntive.
Volume 20 N° 3 - 2015
71
Ugo Fornari, nella sua “Presentazione” al testo “Psichiatria Forense Applicata”
(2010: XI), evidenzia la persistenza di molti aspetti problematici proprio legati
alla valutazione e cioè:
l’assente o incompleta o arbitraria fruizione dell’indagine
psicodiagnostica;
l’adesione di molti periti ancora al modello medico-psichiatrico e
l’ignoranza di quello psicopatologico-normativo;
l’applicazione del solo approccio categoriale e descrittivo a tutto
discapito di quello funzionale e dimensionale;
la difficoltà di conferire all’elaborato peritale carattere di prova per
scarsità o assenza nella ricerca di quelle evidenze cliniche e valutative
che sono il frutto dell’applicazione delle conoscenze teoriche;
la tendenza, per contro, a conferire valore di prova scientifica a batterie
di questionari autosomministrati, a interviste strutturate o
semistrutturate, ai test di valutazione neuropsicologica, alle nuove,
sofisticate tecniche di neuroimmagine, isolando ed enfatizzando il dato
singolo rispetto a un processo diagnostico integrato;
l’utilizzazione di criteri molto discutibili e poco scientifici nel
rispondere al quesito relativo alla pericolosità sociale;
l’esiguità di quesiti da parte dei giudici e di proposte da parte dei periti
circa l’eventuale adozione di misure terapeutiche già durante la fase
della cognizione.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
72
A proposito di indagine diagnostica di seguito approfondiremo alcuni elementi
della valutazione effettuata tramite l’ausilio di test.
L’uso dei test in ambito giudiziario è tuttora dibattuto, soprattutto nel caso dei
test proiettivi.
Le caratteristiche più significative delle tecniche proiettive riteniamo possano
essere riassunte nei seguenti punti:
l’obiettivo è quello di analizzare nell'insieme la personalità del
soggetto o anche valutare alcuni aspetti particolari ma sempre inseriti
in un contesto globale. Per questa ragione, non è prevedibile né
possibile una descrizione della personalità considerando i tratti
indipendenti tra loro, bensì adottando una visione olistica della
personalità stessa;
gli stimoli evocati dai test consentono un gran numero di risposte
diverse. Secondo le concezioni della psicologia dinamica ogni individuo
è unico e risponderà perciò in modo diverso da ogni altro soggetto, in
quanto si esprimerà nel suo insieme e modo d'essere nella risposta.
Ciò è la caratteristica essenziale delle prove proiettive;
esplorano soprattutto gli aspetti affettivi e volitivi ma, essendo fondati
concettualmente su una considerazione complessiva della personalità,
forniscono indici e dati relativi anche all'aspetto cognitivo, parte
integrante della personalità.
Volume 20 N° 3 - 2015
73
3. Obiettivi della ricerca
Numerosi modelli teorici si sono occupati delle dinamiche relative al DBP,
ponendo particolare attenzione sulla funzione meta-rappresentativa, cioè la
capacità di riflettere sui propri e altrui stati mentali (Di Maggio & Semerari,
2003) e sulla mentalizzazione, cioè la capacità di formulare un pensiero sugli
stati mentali come condizioni distinte e potenziali determinanti del
comportamento (Bateman & Fonagy, 2004).
Nel caso in cui tali funzioni risultino deficitarie aumenta la probabilità che
possa concretizzarsi un comportamento auto o eteroaggressivo.
Secondo il “modello meta rappresentativo-interpersonale” elaborato dal III
Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma, il DBP mantiene un’identità
nosografica fondata su tre assi: disturbo dell’identità e delle relazioni,
discontrollo degli impulsi e disregolazione affettiva (Carcione & Falcone,
1999; Semerari et al, 2002).
Bateman & Fonagy (2004) sostengono che un problema fondamentale che
caratterizza i pazienti borderline sia l’incapacità a mentalizzare, in quanto essi
esibiscono una limitata capacità di rappresentazione degli stati mentali e di
riconoscimento delle proprie e altrui reazioni.
Alla luce della pervasività dei comportamenti impulsivi che caratterizzano il
paziente con DBP, la ricerca in esame si è posta l’obiettivo di:
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
74
1. verificare se il tratto “impulsività” sia maggiormente rappresentato al test
di Rorschach nei borderline rispetto a soggetti non patologici (gruppo di
controllo);
2. valutare se i pazienti borderline che manifestano maggiori disturbi
comportamentali di tipo psicopatico presentano differenze da quelli che
non presentano tali disturbi rispetto al tratto di impulsività;
3. migliorare la nostra conoscenza riguardante il rapporto tra l’impulsività
come tratto di personalità e lo sviluppo effettivo di comportamenti
psicopatici.
4. Metodologia e Strumenti
A tale scopo sono stati selezionati dei pazienti visitati presso l’ambulatorio
della UOC di Psicologia Clinica del Dipartimento di Neurologia e Psichiatria
dell’Università “Sapienza” di Roma. I soggetti sono stati selezionati sulla base
del colloquio clinico e limitatamente alla diagnosi di DBP. A tutti i pazienti è
stata somministrata la D.I.B. (Intervista Diagnostica per pazienti Borderline),
considerata in letteratura quale valido strumento di screening (Gunderson et al.,
1981).
Sono stati inseriti nello studio 50 soggetti che hanno ottenuto un punteggio alla
DIB maggiore o uguale a 7; questi pazienti inoltre soddisfacevano almeno 5
criteri su 9 per il DBP per il DSM IV-TR (2000) rilevati dall’anamnesi.
Volume 20 N° 3 - 2015
75
Il gruppo di controllo si è costituito con 50 soggetti impiegati negli uffici
dell’amministrazione della Polizia di Stato, ai quali ugualmente è stata
somministrata la DIB dal proprio servizio di Psicologia Applicata.
In definitiva, la descrittiva anagrafica dei due campioni è la seguente:
- gruppo clinico composto da 25 maschi e 25 femmine, con età media di
33,68 aa (DS=10,78) e livello medio di scolarità di 11,16 aa (DS=3,67);
- gruppo di controllo costituito da 25 maschi e 25 femmine con un’età
media di 32,53 aa (DS=9,90) e una scolarità media di 12,13 aa (DS=3,99).
Ad entrambi i campioni è stato somministrato il test di Rorschach, poi siglato
secondo il Sistema Comprensivo di Exner (2003).
Al gruppo clinico è stato altresì somministrato l’MMPI-2 (Hathaway,
McKinley, 1995), al fine di suddividere in due sottogruppi secondo la scala Pd
(Deviate Psychopatic) che, come noto, è specificatamente associata alla
presenza di disturbi comportamentali di tipo antisociale. Difatti, soggetti che
ottengono un punteggio alla subscala Pd ≥ 75 presentano scarse capacità di
valutazione, appaiono instabili, irresponsabili, egocentrici e immaturi; mettono
inoltre in atto condotte antisociali e sono aggressivi e/o violenti.
Dividendo i soggetti con DBP sulla base dei valori ottenuti alla subscala Pd,
sono stati ottenuti 2 sottogruppi composti da 30 soggetti con un punteggio < 75
e 20 soggetti con punteggio ≥75.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
76
Delle diverse variabili Rorschach che, secondo la siglatura Exner, sono dalla
letteratura suggerite come maggiormente correlate all’impulsività, sono state
selezionate quelle più rappresentative.
Da un punto di vista quantitativo, si tratta delle seguenti:
D score che fornisce informazioni sul rapporto fra EA e ES e si riferisce alla
tolleranza allo stress e agli elementi di controllo;
D score Adjusted che permette di individuare se l’indice D è stato
influenzato da elementi situazionali;
X+% che dà informazioni sull’efficienza percettiva e le capacità di
modulare e controllare le esperienze affettive;
Xu% che indica uno stile di risposta poco convenzionale;
EA che indica le risorse di personalità disponibili e i comportamenti
psicologici deliberatamente intrapresi;
M% indice associato a buone capacità di mentalizzazione e permette un
alto livello di integrazione emozionale;
C+T+C’ la cui presenza è associata a scarse capacità di dare indirizzo
all’esperienza affettiva;
Afr indice di interesse verso la risposta alla stimolazione emotiva;
Lambda (L) il cui valore cresce in soggetti impulsivi e/o con
comportamenti antisociali;
Volume 20 N° 3 - 2015
77
FC% che ci dà informazioni relative ad un’affettività socialmente
accettabile e ben adattata;
CF% che indica invece un’emotività scarsamente controllata e non ben
adattata, nonché labilità affettiva, instabilità, incostanza dei sentimenti e
suggestionabilità;
C% correlata a comportamenti emotivi essenzialmente privi di controllo.
Da un punto di vista qualitativo, abbiamo invece:
FC<CF+C (E1) in cui se dominano le Cf+C in un contesto di inadeguato
controllo emozionale, sono espressione di impulsività e inadeguata
responsività;
X+%<.70 e FQu≠0 e P≤4 e L>1 (E2): che ci indica la presenza di elementi di
scarsa modulazione accompagnati da pensiero poco convenzionale;
X+%<.70 e C+T+C’≠0 (E3) che indica l’incapacità o la non disponibilità
ad inserire alcuni aspetti di controllo e di indirizzo all’esperienza affettiva;
X+% <.70 e D<0 (E4) indica uno scarso controllo in un soggetto
sopraffatto dagli affetti;
X+%<.70 e D≥0 e C+T+C’≠0 (E5) che rappresentano l’inclinazione a dar
via libera ai sentimenti piuttosto che esercitare un controllo.
Per verificare le ipotesi sperimentali si è proceduto confrontando i due gruppi
in base alle variabili del Rorschach e successivamente valutando se tali variabili
differenziano i soggetti borderline che hanno ottenuto alti punteggi alla scala Pd
dell’MMPI-2 da quelli con bassi punteggi.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
78
I dati sono stati sottoposti ad analisi statistica mediante l’applicazione dei test U
di Mann-Whitney per le variabili quantitative, il test Chi Quadro per le variabili
qualitative e l’analisi delle corrispondenze multiple per i punteggi della scala
DIB, utilizzando il software SPSS 13.0.
5. Risultati
Confronto fra soggetti borderline e gruppo di controllo
I risultati ottenuti al test U di Mann-Whitney nel confronto fra pazienti
borderline e controlli indicano che vi sono differenze significative (p<.05) per 8
variabili quantitative su 12 (vedi tab. 1).
I risultati del chi quadro indicano la presenza di differenze significative (p<.05)
per 4 variabili qualitative su 5 (vedi Tab. 2).
I soggetti borderline hanno ottenuto punteggi più bassi rispetto ai controlli
all’EA, al D score e punteggi negativi al Adj D score dove invece i controlli
hanno ottenuto un punteggio medio positivo. I pazienti borderline risultano
quindi meno abili nell’organizzazione delle proprie, già scarse, risorse da
contrapporre alle richieste che provengono dall’ambiente esterno.
Mentre per l’altro gruppo il controllo della reattività comportamentale può
essere influenzato dalle eccessive richieste dell’ambiente in un preciso
momento, i soggetti borderline presentano in generale meno risorse e il
controllo allo la gestione dello stress risulta comunque poco adeguato.
I borderline sono meno abili a posticipare le reazioni all’impulso (indici D) e a
mettere in atto comportamenti deliberatamente intrapresi; ottengono punteggi
più alti nella somma delle risposte pure (C+T+C’) e nelle variabili qualitative
Volume 20 N° 3 - 2015
79
E3, E4, E5; sembrano quindi incapaci ad inserire alcuni aspetti di controllo
razionale e di indirizzo all’esperienza affettiva. Inoltre, hanno ottenuto punteggi
significativamente più alti al C% e sembrano pertanto più inclini a liberare gli
affetti piuttosto che esercitare su di essi un controllo.
BORDERLINE CONTROLLI U
Mann-
Whitney MEDIA DS
MEDIA
RANGHI MEDIA DS
MEDIA
RANGHI
EA 5,3 2,7 42,8 8,8 5,9 58,3 862 **
D score -0,8 1,6 44,8 -0,4 1,7 56,2 963 *
Adj D -0,6 1,5 41,9 0,2 1,3 59,2 817 **
X+% 0,5 0,2 41,6 0,6 0,1 59,4 803 **
Afr 0,6 0,3 51,3 0,5 0,2 49,7 1210
L 0,9 1,2 48,1 0,9 0,5 52,9 1128
M% 15,8 13,4 48,0 16,9 9,0 53,0 1125
FC% 4,9 7,7 38,2 10,5 7,1 62,8 636 **
CF% 6,0 7,7 45,2 7,8 6,4 55,8 984
C% 3,0 5,3 57,3 0,2 0,8 43,7 911 **
Xu% 0,3 0,1 60,7 0,2 0,1 40,4 742 **
C+T+C’ 0,5 0,9 57,1 0,1 0,4 43,9 918 **
(*) = p<.05; (**) = p<.01
Tab. 1 - Confronto fra soggetti borderline e gruppo di controllo per le
variabili quantitative del Rorschach
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
80
BORDERLINE CONTROLLI
χ2 Freq. Pct. Freq. Pct.
FC<CF+C 26 52% 17 34% 3,30
X+% <0.70
FQu ≠0
P≤4
L>1
31 62% 15 30% 10,31**
X+% <0.70
C+T+ C’≠ 0 18 36% 1 2% 18,78**
X+% <0.70
D<0 21 42% 10 20% 5,66*
X+% <0.70
D≥0
C+T+ C’≠ 0
11 22% 1 2% 9,5%**
(*) = p<.05; (**) = p<.01ù
Tab. 2 - Confronto tra pazienti Borderline e controlli per le variabili
qualitative al test di Rorschach
Volume 20 N° 3 - 2015
81
Il gruppo dei pazienti ottiene punteggi significativamente più bassi al X+%,
Xu% e all’E2: tali risultati sono indicativi del fatto che i borderline presentino
scarse capacità di modulare le esperienze affettive. Tale comportamento sembra
collegato ad un modo più atipico di concepire la realtà, presentando uno stile
poco convenzionale di risposta agli stimoli ambientali (Xu%, E2).
Il gruppo di controllo presenta punteggi significativamente più alti per l’FC%,
indicando un’affettività socialmente accettabile ed appropriata accompagnata
da un più adeguato e consapevole controllo razionale.
La maggiore impulsività del borderline è caratterizzata al test di Rorschach da
una tendenza ad agire senza pianificare le proprie azioni, in assenza di una
valutazione razionale e consapevole delle conseguenze, con un tale
coinvolgimento nella situazione affettiva da non riuscire a modularla. In altre
parole, reagiscono senza pianificazione e valutazione razionale della risposta ad
una sollecitazione ambientale emotivamente rilevante.
Le variabili oggetto di studio, seguendo lo schema interpretativo di Exner,
fanno riferimento ai seguenti cluster (cft. fig. 1): l’area del “funzionamento
cognitivo” a cui appartengono le sotto aree “mediazione” e “elementi di
controllo e risorse” e l’area della “affettività”.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
82
Fig. 1 - Analisi delle variabili rispetto ai cluster individuati da Exner.
Confronto tra borderline e controlli
Volume 20 N° 3 - 2015
83
Considerando il significato di queste aree si osserva che i soggetti borderline
abbiano minore tolleranza allo stress e basse risorse disponibili per
l’autocontrollo, con difficoltà a sviluppare intenzionalmente comportamenti
preordinati, rispetto al gruppo di controllo: il pensiero presenta uno stile poco
convenzionale ed è presente una scarsa modulazione dell’esperienza affettiva,
spesso esplosiva e difficilmente orientabile in modo ben adattato e socialmente
accettabile.
Confronto fra soggetti borderline con alta e bassa Pd
I risultati ottenuti al test U di Mann-Whitney nel confronto fra pazienti
borderline ad alta e bassa Pd mostrano differenze significative tra i due gruppi
per la variabile C% che risulta maggiormente rappresentata nei soggetti
borderline (cft. Tab. 3).
Anche per le variabili qualitative si evidenzia una sola significatività al test Chi
quadro: la variabile FC<CF+C è maggiormente rappresentata nei soggetti ad
alta Pd (cft. Tab. 4). Possiamo quindi affermare che non ci sono differenze per
quanto riguarda gli elementi di controllo dello stress e la mediazione
dell’affettività, piuttosto inadeguati in entrambi i gruppi.
I soggetti con Pd più elevata mostrano un’affettività più esplosiva, un
adattamento affettivo meno adeguato e comportamenti contraddistinti da
caratteristiche emotive molto intense.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
84
È stato rilevato che la scarsa capacità di modulare l’esperienza affettiva è
presente come componente di base nei pazienti borderline. L’intensità con cui
questa affettività viene agita non è associata alla presenza/assenza di fattori di
controllo (scarsi in entrambi i sottogruppi) facenti parte della personalità
dell’individuo.
Nell’analisi delle corrispondenze multiple effettuata sulle sotto aree del DIB
(affetti, comportamenti impulsivi, relazioni interpersonali, psicosi e
adattamento) sono state individuate due dimensioni che risultano più
strutturalmente associate fra loro rispetto alle altre dimensioni
psicopatologiche: i comportamenti impulsivi e l’affettività.
Relativamente ai cluster di Exner, si evidenziano differenze tra i soggetti con
alta e bassa Pd per quanto riguarda la sfera dell’affettività che si presenta più
esplosiva nei soggetti ad alta Pd, mentre non si evidenziano differenze
significative tra i soggetti per le altre due sfere.
Volume 20 N° 3 - 2015
85
BORDERLINE ALTA Pd BORDERLINE BASSA Pd U
Mann –
Whitney MEDIA DS
MEDIA
RANGHI MEDIA DS
MEDIA
RANGHI
EA 5,5 2,1 27,5 5,2 3,1 24,2 260
D score -0,5 0,9 27,8 -1,1 1,9 24,0 254
Adj D -0,3 0,7 26,8 0,8 1,9 24,7 275
X+% 0,5 0,2 24,8 0,5 0,2 26,0 285
Afr 0,5 0,2 23,8 0,6 0,4 26,7 265
L 0,7 0,6 23,4 1,1 1,5 26,9 257
M% 16,3 13,2 26,3 15,4 13,7 25,0 284
FC% 3,8 5,0 23,0 5,6 5,9 27,2 250
CF% 7,7 8,7 29,2 4,8 6,8 23,0 225
C% 5,5 7,0 30,2 1,3 2,8 22,4 206 *
Xu% 0,4 0,1 29,8 0,3 0,1 22,6 213
C+T+C’ 0,7 0,9 28,3 0,4 0,9 23,6 243
Tab. 3 - Confronto tra pazienti Borderline con alta e bassa Pd per le variabili
quantitative al test di Rorschach
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
86
BORDERLINE
Alta PD
BORDERLINE
Bassa PD χ2
Freq. Pct. Freq. Pct.
FC<CF+C 12 40% 14 70% 4,33*
X+% <0.70
FQu ≠0
P≤4
L>1
20 67% 11 55% 0,69
X+% <0.70
C+T+ C’≠ 0 8 27% 10 50% 2,84
X+% <0.70
D<0 14 47% 7 35% 0,67
X+% <0.70
D≥0
C+T+ C’≠ 0
4 13% 7 35% 3,28
Tab. 4 - Confronto tra pazienti Borderline con alta e bassa Pd per le variabili
qualitative al test di Rorschach
Volume 20 N° 3 - 2015
87
Conclusioni
Lo studio dell’impulsività riveste un’indubbia importanza sia per la
comprensione del funzionamento psicologico dell’individuo, sia per la
previsione e il controllo dei comportamenti critici, ed ancora per la difficoltà
dell’intervento clinico.
I riscontri empirici provenienti dalla che si interessano alla dimensione
dell’impulsività, spesso hanno campioni di pazienti affetti da Disturbo
Borderline di Personalità (Moeller, et al., 2000; Manna, et al., 2005; Eysenck,
Eysenck 1977; Barratt Patton, 1983; Everden, 1999).
I risultati dello studio dimostrano come i pazienti con DBP risultino al
Rorschach effettivamente più impulsivi rispetto ai soggetti normali e meno
capaci sul piano della personalità ad effettuare un controllo sulla propria
reattività, esibendo minori capacità di progettualizzazione e modulazione della
risposta emotiva rispetto al gruppo di controllo.
La valutazione attraverso il Rorschach è stata dunque utile per discriminare un
gruppo di soggetti impulsivi da un gruppo di soggetti di controllo. Tuttavia non
è in grado di rilevare all’interno del gruppo clinico differenze qualitative e
quantitative della dimensione dell’impulsività, e di identificare quindi i soggetti
che alla valutazione con MMPI-2 risultano avere maggiori possibilità di agire la
stessa.
Il test di Rorschach appare in grado di evidenziare la disregolazione emotiva
come deficit meta rappresentativo discriminante che, nel presente studio,
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
88
permette di individuare i pazienti affetti da DBP che hanno maggiore
probabilità di agire l’impulsività con comportamenti aggressivi.
L’affettività esplosiva tradotta in maggiori probabilità di sviluppare condotte
psicopatiche potrebbe dipendere dal fatto che, i soggetti che non sono mai stati
coinvolti in relazioni interpersonali facilitanti l’acquisizione di abilità meta
rappresentative o che sono stati esposti ad un ambiente familiare in cui l’unica
modalità di sperimentare l’attaccamento era l’inibizione di tali processi,
abbiano maggiori possibilità di sviluppare un attaccamento non sicuro e di
manifestare scarse capacità riflessive, rimuovendo tutte le inibizioni nei
confronti di attività violente e criminali: essere in grado di figurarsi lo stato
mentale della potenziale vittima può essere essenziale per evitare situazioni che
possano deliberatamente arrecare danno.
Quindi, è possibile considerare che la storia personale del paziente e l’ambiente
in cui vive rivestano una decisiva importanza nel promuovere l’espressione
dell’impulsività in comportamenti psicopatici. L’inadeguatezza del contesto di
accudimento nell’infanzia predisporrebbe lo sviluppo di deficit meta
rappresentativi che renderebbero il soggetto più vulnerabile e condizionato
dalle ripetute stimolazioni frustranti da parte dell’ambiente in età adulta
(Bandini et al, 1991; Bandura, 1986; Barbaranelli, et al., 1998; De Leo, 1992;
De Leo & Patrizi, 1992; Lemert, 1981).
Volume 20 N° 3 - 2015
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Volume 20 N° 3 - 2015
93
Maria Elena Cinti14
, Mara Lastretti15
, Antonella Pomilla16
, Monica Calderaro17
,
Franco Burla18
L’ANALISI GRAFOLOGICA PER LA VALUTAZIONE DEL TRATTO
ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ
RIASSUNTO
Il lavoro espone i risultati di un progetto di ricerca che ha avuto in oggetto
l’esame della personalità antisociale ed in particolare i tratti di aggressività,
14
Psicologo, Assegnista di Ricerca e Docente Master in “Psicodiagnostica per
la valutazione clinica e medico-legale con elementi di base giuridici e forensi”,
Dipart. di Neurologia e Psichiatria, “Sapienza” Università di Roma. 15
Psicologo, PhD in Neuroscienze, Docente Master in “Psicodiagnostica per la
valutazione clinica e medico-legale con elementi di base giuridici e forensi”,
Dipart. di Neurologia e Psichiatria, “Sapienza” Università di Roma. 16
Psicologo Clinico, Criminologo, Testista, PhD in Psichiatria - Assegnista di
Ricerca, Docente Master “Scienze Criminologico-Forensi”, Dipart. di
Neurologia e Psichiatria, “Sapienza” Università di Roma 17
Psicografologa, Spec. in Psicologia Applicata alla Scrittura e in Perizie
Grafiche. Responsabile del “Laboratorio di Psicografologia” Associazione
Ricerca Scientifica e Studi Universitari privati – ARSSUP (Grono – Canton
Grigioni. CH). Ricercatore Istituto Internazionale di Scienze Criminologiche e
Psicopatologico Forensi. Docente di Grafologia, “Sapienza” Università di
Roma. Perfez. in Criminologia, Scienze Investigative e della Sicurezza 18
Psichiatra, Ricercatore c/o Dipartimento di Neurologia e Psichiatria,
“Sapienza” Università di Roma - [email protected]
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
94
impulsività, autocontrollo, adattamento, disturbo del pensiero ed esame di
realtà che di esso ne costituiscono il nucleo psicopatologico.
L’indagine ha interessato un campione sperimentale di 20 soggetti con Disturbo
Antisociale di Personalità e tratti di Disturbo Borderline di Personalità,
ricoverati presso case di cura per disturbi mentali e riabilitazione da abuso di
sostanze/alcol, con storia di condotte criminose, e un gruppo di controllo di 52
soggetti normali (profilo negativo al test SCID-II) reclutati casualmente tra
studenti universitari, casalinghe, dipendenti di amministrazioni pubbliche e
liberi professionisti.
Strumento impiegato per lo studio è stata l’analisi grafologica, in qualità di test
proiettivo che ben si presta all’esteriorizzazione dei contenuti intrapsichici.
Scopo del lavoro, difatti, voleva essere quello di stimare la capacità dell’analisi
grafologica di valutare la presenza e l’intensità del tratto Antisociale di
Personalità.
Al campione clinico è stato altresì somministrato il questionario Millon-III.
Le scale dell’analisi grafologica (Aggressività, Impulsività, Autocontrollo,
Adattamento, Disturbo del Pensiero ed Esame di Realtà) hanno prodotto
risultati significativamente diversi tra i due gruppi di studio. Per il campione
clinico, la scala Disturbo del Pensiero è risultata correlata con la scala Disturbo
Antisociale del Millon-III.
Parole chiave:
Disturbo Antisociale di Personalità, Analisi grafologica, Aggressività,
Autocontrollo, Disturbo del Pensiero
Volume 20 N° 3 - 2015
95
ABSTRACT
The work presents the results of a research project that examined the antisocial
personality traits, particularly aggressiveness, impulsivity, self-control,
adaptation, thought disorder and lack of reality perspective.
The survey had an experimental sample of 20 subjects with Antisocial
Personality Disorder and traits of borderline personality disorder, admitted to
clinics for mental disorders and rehabilitation for substance or alcohol abuse,
with a history of criminal behavior, and a control group of 52 normal subjects
(negative profile for SCID-II) randomly recruited among college students,
housewives, employees of public authorities and self-employed.
The instrument used for the study was the handwriting analysis, as a projective
test that can underline the externalization of intrapsychic content. Aim of work,
in fact, wanted to be to estimate the capacity of handwriting analysis to
evaluate the presence and intensity of the antisocial personality trait.
The clinical sample was also administered the questionnaire Millon-III.
Handwriting analysis’s scales (Aggressiveness, Impulsivity, Self-control,
Adaptation, Thought Disorder and Lack of Reality Perspective) have produced
significantly differences: for the patient sample, the scale of Mental Disorder
was correlated with the Antisocial scale of the Millon-III.
Keywords
Antisocial Personality Disorder, Handwriting Analysis, Aggressiveness, Self-
control, Thought Disorder
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
96
1. Introduzione
Oggetto di primario interesse per la psichiatria forense e la criminologia è
rappresentato dall’analisi della personalità criminale, considerando tutti gli
aspetti di influenza di natura psicologica, costituzionale e socio-ambientale
possibilmente predisponenti al comportamento antisociale (Rudas et al., 1997).
In tal senso, affidandosi ad un approccio di natura multidisciplinare, l’intento è
quello di fornire la più valida identificazione dei quadri psicopatologici di volta
in volta connessi al comportamento criminale, tanto più se di natura seriale e/o
particolarmente violento, così da agevolare tanto il processo di indagine quanto
quello trattamentale.
La personalità antisociale oggetto di interesse nel presente lavoro si caratterizza
per un modello abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia
marcatamente rispetto alle aspettative dell’ambiente culturale dell’individuo.
Tale modalità di accesso all’esperienza si contraddistingue per modalità
abnormi di percepire e di interpretare se stessi, gli altri o gli avvenimenti; di
gestire l’affettività, in particolare l’intensità e l’adeguatezza emotiva; di gestire
il controllo degli impulsi ed il funzionamento interpersonale, il tutto andando a
confluire in una struttura pervasiva, inflessibile, rigida e non adattativa che con
tali caratteristiche si esprime in una varietà di situazioni e contesti personali e
sociali.
Queste modalità esistenziali comportano tanto per il soggetto (ciò in generale,
considerando la rigidità e la pervasività dei disturbi di personalità) quanto per
chi viene in contatto con lui, un disagio significativo ed una compromissione
Volume 20 N° 3 - 2015
97
del funzionamento sociale, lavorativo e interrelazionale. In tal senso, gli
psicopatici “soffrono e fanno soffrire la società” (Schneider, 1955).
Tuttavia, nella specificità dei criteri diagnostici del Disturbo Antisociale di
Personalità, figura una buona dose di egocentrismo tale che i comportamenti
che appaiono abnormi e disfunzionali per gli altri, vengono viceversa
considerati normali ed adeguati da parte del soggetto antisociale, in pieno
accordo con la propria persona e con il proprio Sé, e quindi esenti da critiche,
con conseguente assenza di senso di colpa e di responsabilità civile e morale
delle azioni da lui condotte.
Considerando gli albori degli studi psicologici su tale quadro personologico, si
citano i primi studi sull’aggressività e sulla presunta identificazione della
personalità criminale di De Greef (1938) e Pinatel (1960), gli studi sulla
relazione tra frustrazione ed aggressività di Dollard & Millar (1939), i
contributi psicologici di Fromm (1973) e poi ancora quelli di tradizione
psicodinamica di Winnicott, Jung ed Adler.
Più di recente, sono invece stati considerati i caratteri organici come causa o
concausa dei comportamenti antisociali (Anderson et al. 1999; Raine et al.,
2000). In particolare, l’attenzione di questi studi si è rivolta allo studio della
corteccia frontale, che come è noto ha un ruolo fondamentale nell’acquisizione
delle capacità sociali e nel controllo delle emozioni e delle azioni, portando gli
studiosi ad ipotizzarne una sua compromissione nel caso di soggetti con
condotte antisociali.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
98
Ancora, altro oggetto di indagine è stata l’importante relazione esistente tra
ambiente e predisposizione (Caspi et.al 2002), ed il riconoscimento di uno
specifico gene che di essa è responsabile, il gene MAOA, che provocherebbe
un aumento dell’aggressività incontrollata. Tuttavia, anche in questi studi, si
attesta che l’espressione genica, affinché si verifichino comportamenti abnormi,
debba essere condizionata da una particolare situazione familiare ed
ambientale, caratterizzate da forte emotività, comportamenti violenti ed abusi.
Rimandando alla più ampia letteratura di specie sull’origine e l’espressione
cognitiva, emotiva e comportamentale della personalità antisociale, si vuole
sottolineare come nel presente lavoro di ricerca ci si è proposti di indagare e
discriminare alcune specifiche dimensioni psicopatologiche (Aggressività,
Impulsività, Autocontrollo, Adattamento, Disturbo del Pensiero e Esame di
Realtà) che sono alla base dei comportamenti antisociali e potenzialmente
criminosi di soggetti con Disturbo Antisociale di Personalità e sottostante
organizzazione borderline, avvalendosi dell’Analisi grafologica, quale test
proiettivo.
Stante quanto indicato da un riconosciuto esperto e fondatore della Grafologia,
Girolamo Moretti, la grafologia è una scienza sperimentale che permette di
risalire alle predisposizioni psichiche di un individuo mediante l’analisi di un
suo scritto. Essa consente di conoscere la personalità innata dell’individuo, fatta
di tendenze ed inclinazioni che egli possiede per natura, ancor prima di tutte
quelle influenze e modificazioni indotte dai fattori socio-culturali che poi
interverranno lungo il corso della sua vita.
Volume 20 N° 3 - 2015
99
Al pari di altri strumenti psicodiagnostici (colloquio e test), anche la grafologia
può risultare di valido ausilio, ed in molti casi diviene insostituibile, nel campo
della criminologia e della psichiatria forense.
Secondo il Moretti (2003), un’analisi grafologica si effettua in cinque fasi:
- la prima consiste nella ricerca dei segni grafici presenti in una scrittura.
Per segni grafici si intende quelle qualità individuali della scrittura umana,
indici di caratteristiche psichiche intellettive, affettive e somatiche.
Riprendendo la tesi di Michon, Moretti sostiene che ogni segno grafico
preso singolarmente ha un unico significato psicologico, fisso e costante,
attenuabile o accentuabile dalla contemporanea presenza di altri segni. I
segni grafici descritti da Moretti sono in tutto 81, e per ognuno vengono
descritti gli aspetti morfologici, fornito l’esatto significato psicologico,
spiegata la dinamica psico-fisiologica, giustificando il rapporto di identità
esistente tra il particolare segno grafico e la caratteristica psichica ad esso
corrispondente. I singoli segni grafici vengono inoltre quantificati
mediante precise valutazioni matematiche di particolari parametri,
attraverso cui è possibile misurare l’intensità delle varie caratteristiche
psichiche;
- il secondo momento di analisi grafologica si attua con la valutazione
della forza dei vari segni grafici;
- la terza fase attiene alla valutazione qualitativa dei segni grafici, che a
tal fine vanno distinti in segni della volontà (relativi al sentimento e alle
disposizioni affettive – attive, descrivendo il temperamento dello scrivente)
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
100
e segni dell’intelletto (relativi alle attitudini intellettive dello scrivente);
- nella quarta fase si tenta l’individuazione del segno principe, cioè di
quel segno che compare con più forza ed intensità tra i segni sostanziali
della volontà. Esso serve a riconoscere il tipo di temperamento che
impronta il carattere dello scrivente, ovvero se si tratta di un temperamento
di cessione, o di resistenza, o di assalto o infine di attesa;
- l’ultimo momento di disamina della personalità del soggetto scrivente,
infine, è rappresentato dalla combinazione semplice e complessa dei segni
grafici. Ogni segno infatti può avere sugli altri azione accentratrice,
indifferente o limitante.
A differenza di altri strumenti psicodiagnostici proiettivi (test proiettivi), il
metodo dell’analisi grafologica gode del vantaggio di una più facile raccolta e
somministrazione, poiché basterà chiedere al soggetto in disamina qualche rigo
della propria scrittura, con annessa firma finale. Ciò risulta particolarmente
vantaggioso in situazioni di assente o ridotta accessibilità e collaborazione da
parte del paziente (nel primo caso, ad esempio, si pensi all’analisi di uno
scritto testamentale, mentre il secondo caso può essere frequente in ambito
penitenziario intramurario).
Orbene, nella presente indagine si è voluto verificare se e come alcune
caratteristiche antisociali andavano ad esprimersi nel modo di scrivere da parte
dei soggetti esaminati. In particolare, è stata intenzione di verificare l’utilità
del test ed il suo impiego nell’ambito psichiatrico-forense per discriminare
soggetti con disturbo antisociale, con organizzazione borderline, rispetto a
Volume 20 N° 3 - 2015
101
soggetti per i quali è stato opportunamente escluso tale quadro diagnostico
(profilo negativo al test SCID-II).
2. Anagrafica campione, materiali e metodi
Ai fini dell’indagine oggetto di interesse si è provveduto a comporre due
subcampioni:
- un campione clinico, composto da 20 soggetti affetti da Disturbo
Antisociale di Personalità e tratti borderline – caratterizzati da instabilità
nelle relazioni affettive ed interpersonali, instabilità lavorativa, abuso di
sostanze stupefacenti e/o alcol, e con accertata reiterazione di condotte
criminose (risse, aggressioni e danneggiamenti, traffico illegale di sostanze
stupefacenti) – ricoverati presso case di cura per disturbi mentali al fine di
seguire un programma di disintossicazione. Criteri di inclusione del
presente subcampione sono stati: la diagnosi di Disturbo Antisociale di
Personalità con organizzazione borderline confermata dalla
somministrazione della SCID-II; età compresa tra 25 e 45 anni; equa
distribuzione di genere;
- un gruppo di controllo costituito da 52 soggetti reclutati casualmente tra
studenti, dipendenti di amministrazioni pubbliche, casalinghe e liberi
professionisti. Criteri di inclusione del presente subcampione sono stati:
l’aver ottenuto un profilo negativo all’intervista SCID-II; l’assenza di
precedenti contatti con servizi territoriali psichiatrici; età compresa tra i 25
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
102
e 45 anni; equa distribuzione di genere.
Ai soggetti afferenti al campione clinico è stato somministrato il Millon
Clinical Multiaxial Inventory-III (MCMI-III)19
, strumento testologico per la
valutazione dei disturbi di personalità, conseguente all’originale modello
psicopatologico multiassiale proposto dall’Autore T. Millon fondato sui
principi della sociobiologia per spiegare le strutture e gli stili di personalità in
qualità di modalità di adattamento all’ambiente e strategie evoluzionistiche. I
disturbi di personalità sono intesi quali costrutti evolutivi derivanti
dall’interazione tra individuo ed ambiente, quest’ultimo con notevole influenza
nel determinare le espressioni comportamentali del soggetto.
La struttura del MCM-III corrisponde alla quarta revisione del Manuale
Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV-TR – APA, 2000),
pertanto le scale cliniche distinguono tra sintomi psichiatrici e disposizioni
stabili della personalità per riflettere la distinzione fatta tra Asse I ed Asse II nel
DSM-IV-TR20
.
19
di T. Millon, R. Davis e C. Millon - Adatt. ITA, Ed. Giunti OS, III ristampa,
2010 20
Complessivamente, lo strumento si compone di 28 scale:
- quattro Indici di Modifica (per il controllo della validità dello strumento);
- undici Pattern di Personalità Clinica (relative agli inquadramenti
diagnostici dell’Asse II del DMS IV-TR);
- tre scale di Grave Patologia della Personalità (per misurare stili di
personalità particolarmente rigidi e disadattavi, quali Schizotipica,
Borderline e Paranoica);
Volume 20 N° 3 - 2015
103
Il profilo di personalità viene descritto secondo il livello di gravità della
psicopatologia dato dai punteggi BR (base-rates, correzione dei punteggi grezzi
in punti standard) considerando quattro range:
- punteggio BR compreso tra 30 e 60 = assenza di patologia;
- punteggio BR compreso tra 60 e 75 = tratto di personalità;
- punteggio BR compreso tra 75 e 85 = stile di personalità;
- punteggio BR superiore a 85 = indice di patologia.
Per il campione clinico del presente lavoro di ricerca, lo scoring del test ha
mostrato punteggi BR > 85 nella Scala Antisociale (inclusa nelle scale dei
“Pattern di Personalità Clinica”), ed inoltre punteggi BR > 75 nella Scala
Borderline (inclusa nelle scale delle “Grave patologia della Personalità”) e
nelle Scale Dipendenza da Alcool e Dipendenza da Droghe (incluse nelle
“Sindromi Cliniche”).
Altresì, al campione clinico è stata richiesta la copiatura di un testo il cui
contenuto era privo di ogni coinvolgimento emotivo, così da non falsificare il
risultato del test.
Per l’analisi grafologia sono state valutate 6 scale (Conficoni, 2000):
- sette scale di Sindromi Cliniche (per misurare alcune sindromi cliniche
dell’Asse I del DSM IV-TR);
- tre scale di Sindromi Cliniche Gravi (a complemento delle tre precedenti,
per la misurazione di sindromi cliniche particolarmente invalidanti o
gravi, quali Disturbo del Pensiero, Depressione Maggiore, Disturbo
Bipolare).
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
104
- Aggressività;
- Impulsività;
- Autocontrollo;
- Adattamento;
- Disturbo del pensiero;
- Esame di realtà.
La valutazione di ciascuna scala è seguito di una combinazione di segni
grafologici, ognuno dei quali ha un valore che va da 0/10 ad un massimo di
10/10. L’insieme dei segni grafologici più significativi, ossia con un valore più
vicino a 10/10, è indicativo della presenza di elemento patologico (vedi Tab.1).
Volume 20 N° 3 - 2015
105
Tabella 1 – Descrizione delle Scale dell’analisi grafologica
Area Psicotica –
Disturbo del
Pensiero
Impulsività Aggressività Adattamento Esame di
Realtà
Autocontrollo
disomogeneità nelle
larghezze;
disomogeneità
pressione (grossa –
grossolana)
disomogeneità del tracciato
(trasandata, rilasciata,
discendente, disordinata,
sciatta, curva
in eccesso, anche
profusa)
angoli A in
alto grado – acuta - recisa
intozzata II alto
nitida
confusa
disomogeneità aste
disomogeneità rigo
disomogeneità
calibro -
minuziosa
tentennante –
stentata – artritica
pendente in alto con grado
intozzata 1° modo
sopra
media
intozzata
2° modo oltre 4/10.
scattante
slanciata e
veloce
gettata via
calibro alto
spavalda
ardita
profusa e
dilatata
angoli A
acuta
irta
disordinata
impaziente
impulsiva
filiforme con angoli
A
ascendente
oscura
(in ritmo
rapido)
acuta e irta
angoli A
intozzata
2° modo
oltre i 4/10
scattante
contorta
impaziente
stentata.
Da tener presente che
anche una
scrittura calma e tranquilla
potrebbe
rivelare aggressività
nascosta, con virgole slanciate
e più o meno
marcate rispetto al resto dello
scritto.
curva;
largo di
lettere
largo tra
lettere
largo tra
parole
medio, ed in
particolare
equilibrato o un poco
inferiore
rispetto a largo di
lettere
ponderata
fluida
attaccata
calibro medio
calma
sinuosa
chiara
mantiene
il rigo
dritta
angoli C
accurata
spontanea
alterazione della
grandezza
delle
lettere
esistenza di:
snervatezza,
scoordinamento
grafico e
dissolvenza delle
lettere con perdita
della
propria identità
grafica
omissione
di lettere dovuta a
confusion
e
presenza
di eventuali
segni di
agitazione
psiconerv
osa e di conseguen
te euforia
intozzata 2° modo,
purchè in
grado ridotto
calma
contorta,
espressivo di
controllo
esteriore;
ponderata
parca
angoli C
accurata
fluida
chiara
calibro
medio
disuguale
metodico
mantiene
il rigo
minuta
omogenea
sinuosa
attaccata/ staccata
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
106
che va quasi
ad appiattirsi sul rigo di
base
ricci
mitomania
ricci
spavalderia
ricci
mirabolante
ricci e
ammanieramento
ed altri segni
patognomi
ci.
Tutti i risultati sono stati sottoposti ad analisi statistica mediante Test di
significatività delle differenze tra campioni indipendenti, U di Mann-Whitney e
coefficiente di correlazione di Spearman mediante software S.P.S.S. versione
17.0.
3. Risultati
Tutte le scale grafologiche, su entrambi i campioni, esprimono una correlazione
tra loro.
I risultati del Test U di Mann - Whitney indicano la presenza di differenze
significative (p.< .05 e p.< .01) tra il gruppo clinico di soggetti antisociali ed il
gruppo di controllo per tutte le variabili, sottolineando la loro capacità di
discriminare soggetti normali da soggetti patologici per quanto riguarda le
dimensioni indicative di impulsività, struttura psicotica e disadattamento
interpersonale (vedi Tab.2 e Fig.1).
Volume 20 N° 3 - 2015
107
Tabella 2 – Grouping Variable: normalità/patologia
GRAFOLOGIA NORMALI
MEAN RANK
PATOLOGICI
MEAN RANK
TEST U
MANN-
WHITNEY
Aggressività 29.09 55.78 134.5**
Impulsività 30.24 52.78 194.5**
Autocontrollo 40.67 25.65 303**
Adattamento 39.70 28.18 353.5*
Disturbi del
pensiero
27.54 59.80 54**
Esame di realtà 42.65 20.50 200**
* p < .05 ** p < .01
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
108
Figura 8 – Grouping variable: normalità/patologia
* p < .05 ** p < .01
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109
L’analisi grafologica dei soggetti antisociali ha messo in evidenza alcuni segni
caratteristici, rispettivamente afferenti al Disturbo del Pensiero, all’Impulsività,
all’Aggressività, all’Adattamento, all’Esame di Realtà ed all’Autocontrollo
(vedi Tab. 1).
È stato dunque rilevato come i soggetti antisociali, rispetto al gruppo di
controllo, risultino avere una minore capacità di gestione dell’emotività e degli
impulsi, nonché un alterato esame di realtà con tendenza alla perdita del senso
comune.
Inoltre, nel campione clinico l’analisi grafologica riesce a discriminare la
variabile del Disturbo del Pensiero (vedi Tab. 3). Applicando una correlazione
tra i risultati derivanti dal MCMI-III e le scale dell’analisi grafologica, per il
campione clinico risulta confermata la capacità dell’analisi grafologica di
discriminare il tratto antisociale mediante la sola scala del Disturbo del
Pensiero.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
110
Tabella 3 – Correlazione tra le scale dell’analisi grafologica
e la Scala Antisociale di personalità (nei soggetti patologici)
GRAFOLOGIA
DISTURBO ANTISOCIALE DI
PERSONALITÀ
(Spearmann corr)
Aggressività .284
Impulsività -.089
Autocontrollo -.031
Adattamento .030
Disturbo del pensiero .479*
Esame di realtà -.052
Volume 20 N° 3 - 2015
111
4. Conclusioni
È stato rilevato come i soggetti antisociali, rispetto al gruppo di controllo,
abbiano una maggiore propensione a manifestare condotte abnormi
contraddistinte da aggressività e discontrollo degli impulsi, nonché alterato
esame di realtà e disturbi dell’area psicotica con tendenza a perdere il contatto
con il mondo reale.
Inoltre essi presentano importanti problematiche di adattamento nel contesto
sociale e lavorativo (Tab. 2 e Fig. 1).
Per il gruppo composto da soggetti antisociali, è altresì emersa significativa
correlazione per la scala Disturbi del Pensiero (Tab. 3).
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
112
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Cristina Casella21
, Armando Palmegiani22
, Danila Pescina23
L’OMICIDIO DI MELANIA REA: UNA STORIA DI
STAGING
RIASSUNTO
Parlare di delitti efferati non è mai facile, in particolare quando questi
sconvolgono l’assetto di un’apparente routine quotidiana.
Mossi dal desiderio di comprensione e dalla necessità di assegnare spunti
risolutivi ad ogni espressione criminosa, si víola - spesso - una dimensione che
non ci appartiene. Si scandaglia la vita privata dei protagonisti, talvolta col solo
intento di trovare conferme alle proprie convinzioni. Perché è lo scorrere
ordinario del vivere, interrotto bruscamente nella sua ritualità, ad innescare
quell’interesse e quell’attaccamento emotivo che spiegano l’attenzione nei
confronti delle morti violente.
Questo lavoro non nasce dalla curiosità morbosa che sazia i suoi istinti
osservando la fatticità del male, ma dall’esigenza di interpretare il fenomeno
delittuoso, valutandone equamente colpe e radiografandone i dettagli.
21
Dottore in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Master in
Criminologia e Scienze Strategiche, Università di Roma “Sapienza” 22
Dottore in Psicologia Clinica. Docente di Scena del Crimine, Master in
Scienze Criminologico-forensi, Università di Roma “Sapienza” 23
Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa. Specialista in Psicoterapia Breve ad
Approccio Strategico. Esperta in Psicologia delle Dipendenze. Coll
Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, Università di Roma “Sapienza”
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
118
È il caso dell’omicidio di Melania Rea, giovane sposa e madre ritrovata
cadavere in un bosco dopo essersi allontana alla ricerca di un bagno. Quel
giorno, Melania, aveva deciso di trascorrere qualche ora di relax tra il verde di
Colle San Marco, in compagnia del marito e della figlioletta di 18 mesi. Due
parole, pochi frangenti e la donna viene inghiottita dalla folta pineta ascolana.
Da subito si ipotizza una scomparsa volontaria, forse un malore improvviso. Le
ricerche sul campo partono in breve tempo, susseguite da un continuo
aggiornamento da parte delle reti televisive nazionali. Di Melania nessuna
traccia. Le speranze di ritrovare in vita la giovane verranno definitivamente
infrante da una telefonata anonima che segnalerà la presenza di un corpo nel
bosco di Ripe di Civitella.
Il cadavere della povera donna - difatti - giaceva a circa 15 chilometri dal luogo
della sparizione, adagiato sulla terra umida del Boschetto delle Casermette,
località appartenente alla provincia di Teramo. Possibile che Melania abbia
camminato così a lungo? Aveva perso l’orientamento, forse? Fin da subito gli
inquirenti non hanno dubbi, l’omicidio è la pista più plausibile. Trentacinque le
coltellate inferte alla vittima, probabilmente deceduta dopo una lenta agonia. E
non è tutto: la scena del crimine non si limita a fotografare la furia omicida
abbattutasi su Melania, ma narra - altresì - del tentativo fuorviante dell’offender
di depistare le indagini.
Parole chiave: omicidio, messa in scena, accanimento, Melania Rea
Volume 20 N° 3 - 2015
119
ABSTRACT
It is never an easy thing to speak about brutal crimes, particularly when they
upset the good order of a seeming daily routine.
Moved by desire to understand and also by the necessity to assign resolutive
starting points to any criminal expression, we often violate a dimension that
doesn’t belong to us. Sometimes the private life of the protagonists is
investigated for the only aim of finding a confirmation to our convictions.
Infact it is the ordinary running of life, suddenly interrupted in its ritualism, to
prime that interest as well as that emotional attachment which explains the
interest for violent deaths.
This work does not come from the morbid curiosity to satisfy its instincts
observing the type of evil, but from the necessity to explain the criminal
phenomenon judging impartially the faults and radiographing the details.
It is the case of the homicide of Melania Rea, a young wife and a mother found
dead in a wood after she walked away looking for a toilet. That day, Melania,
had decided to spend some time to relax together with her husband and her
eighteen months old daughter in the green area of Colle San Marco. Only few
words, few difficulties and the woman seemed to have been swallowed in the
Ascolan thick pine-wood. Initially it had been thought to be a voluntary
disappearance or a sudden illness. Field investigations were soon started and
followed by continuous adjournments from the national television networks.
But there were no traces of Melania. The hopes to find the young woman still
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
120
alive were definitively shattered when an anonymous telephone call reported
the presence of a corpse in the wood of Ripe di Civitella.
Infact the corpse of the poor woman had been found at a distance of about 15
kilometres from the place she had disappeared, lying on the humid ground of
Boschetto delle Casermette, a locality belonging to the Province of Teramo. It
is possible to imagine that Melania had walked so far? Had she lost her
orientation? Since the beginning the investigators had no doubts, the homicide
was the most plausible track to follow. Thirty-five were the stubs inflicted to
the victim who probably died after a long agony. But this is not all: the crime
scene isn’t limited just in taking photographs of the homicidal rage that
Melania met, but it also tells about the misleading attempt of the offender to
throw the investigators into confusion.
Key Words: homicide, staging, overkilling, Melania Rea
Volume 20 N° 3 - 2015
121
La manipolazione della scena del crimine: definizione e classificazione
Uno dei problemi principali nella concettualizzazione di scena del crimine
alterata consiste nell’identificare con accuratezza ciò che ne costituisce parte
integrante. Partiamo innanzitutto da un breve excursus etimologico: il termine
“staging”, participio sostantivato del verbo inglese “to stage”, significa
letteralmente “messa in scena” e, nella letteratura criminologica, si riferisce ad
una manipolazione volontaria della scena del crimine. Il fine di ogni
camuffamento, nella maggior parte dei casi, è quello di depistare
l’investigazione, allontanando le indagini dal possibile sospettato24
. Diversi gli
apporti definitori in materia, da quello più generico di Geberth - il quale
definisce la messa in scena come «un atto criminale consapevole volto a
contrastare le indagini» - a quello più specifico del Crime Classification
Manual, che inquadra lo staging come «volontarietà di un soggetto
nell’alterare la scena del crimine prima dell’arrivo della polizia. Due le
ragioni che portano alla manipolazione: il tentativo di sviare gli investigatori
dall’individuo sul quale si riversano i sospetti oppure l’intento di proteggere la
vittima o la sua famiglia» (2006). Nonostante la correttezza di entrambe le
definizioni, gli autori ritengono che non siano sufficientemente esaustive per
poter classificare tutte le potenziali tipologie di messa in scena. Difatti, i
comportamenti dell’offender - combinati a diverse basi motivazionali -
consentono di collocare l’autore del reato in due differenti categorie,
24
Questa convinzione è molto comune anche tra i non addetti ai lavori.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
122
denominate rispettivamente “Staging primario” e “Staging secondario”. Ne
esiste anche una terza supplementare, il cosiddetto “Staging terziario,” che
definisce una modificazione della scena del crimine operata da un soggetto
diverso dal reo, priva di scopi depistanti. Analizziamo singolarmente queste tre
classificazioni.
Viene definita “messa in scena primaria” quel comportamento intenzionale e
risoluto dell’offender volto ad alterare e/o modificare prove fisiche o altri
aspetti della scena del crimine. In tale contesto l’intento criminale viene
aggravato dal rilascio di false informazioni sull’accaduto, con lo specifico
obiettivo di sviare un’indagine dai fatti e dalle reali circostanze del reato. La
differenza fondamentale tra questa definizione e quelle precedenti consiste
nell’apporto nozionistico dato dai due aggettivi “intenzionale” e “risoluto”, i
quali sottolineano la precisa volontà comportamentale di vanificare gli sforzi
investigativi. Questa nuova concettualizzazione, infatti, pone il focus
sull’autore del reato e sulle motivazioni che si nascondono dietro la messa in
scena, pertanto risulta essenziale comprendere la gestione e la dinamica di ogni
singola attività di alterazione. Partendo dal presupposto che in tutte le scene del
crimine organizzate è proprio il colpevole a denunciare l’episodio e, quindi, a
fornire spiegazioni in merito a quanto è avvenuto, è opportuno valutarne le
dichiarazioni rese con estrema attenzione. Il reo, infatti, tenderà ad avvalorare
la versione degli inquirenti, fornendo dettagli ed informazioni che vadano a
supportare le ipotesi investigative.
Volume 20 N° 3 - 2015
123
All’interno di questa prima classificazione possiamo individuare due sub-
categorie particolarmente specifiche, la “scena allestita ad hoc” e la “scena
premeditata”.
Una scena camuffata ad hoc rappresenta ciò che il termine stesso suggerisce. In
questi casi, l’obiettivo dell’offender è quello di reindirizzare le ricerche della
polizia, di conseguenza la scena del crimine verrà, sì, manipolata, ma
seguitamente al compimento dell’atto omicidiario. L’aspetto più importante
che caratterizza tale tipologia di staging è l’assoluta mancanza di
premeditazione o pianificazione, difatti è l’impulsività a guidare la messa in
scena, mostrando delle evidenze che non corrispondono a quanto realmente
accaduto. È il caso dei delitti legati all’abuso di droga, ad esempio, ove il reo -
generalmente - ripulisce la scena provvedendo alla rimozione delle sostanze
stupefacenti e posizionando il corpo della vittima in modo da renderne credibile
una morte accidentale (ad esempio simulandone l’annegamento nella vasca da
bagno).
La categoria di “scena premeditata”, invece, rimanda ad un meticoloso piano di
mistificazione, precedentemente studiato dall’autore del reato. In tale scenario,
l’intento è quello di fornire prove ed evidenza di quanto accaduto, lasciando
poche possibilità all’interpretazione erronea dei fatti. Non è raro che in
situazioni simili sia proprio il reo a sottolineare determinati elementi, affinché
vengano notati da chi investiga.
Esistono altre specificità comportamentali riscontrate sulla scena del crimine
che, pur non avendo fine di depistaggio o volontà di distogliere i sospetti
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
124
dall’autore del reato, rientrano nella classificazione di “messa in scena”. Molto
spesso vengono effettuati atti di camuffamento senza alcuna inclinazione a
fuorviare le indagini, in quanto l’impulso che detta l’alterazione è strettamente
correlato ad aspetti psicologici intrinseci alla personalità del reo. Tale
mutamento nell’organizzazione di una scena del crimine richiede un approccio
di lettura differente, analizzando gli eventi da un’ altra prospettiva. È ciò che
viene definito “Staging secondario”, ovvero “l’alterazione intenzionale o la
manipolazione deliberata della scena del crimine o della stessa vittima, non
mirata al dirottamento investigativo”.
La “messa in scena secondaria” raccoglie una vasta gamma di comportamenti
agiti dall’offender, da semplici atti - come apporre qualcosa sul volto della
vittima - al posizionamento del cadavere in maniera sessualmente provocante o
imbarazzante. Nel primo caso si parla di “Undoing”25
, identificando tutte quelle
condotte di modificazione dettate dal senso di rimorso del reo. Commettere un
delitto cruento non esclude l’influenza di fattori emozionali, infatti l’offender
può provare una sensazione di pentimento che si riversa su una serie di agiti
post omicidiari: dal lavare il corpo insanguinato della vittima, rivestirla con
abiti puliti, sino poi adagiarla - in alcune circostanze - accuratamente su di un
letto e/o una sedia. In genere, chi compie un’azione di undoing, si limita
semplicemente a coprire il viso della persona assassinata. Nell’esternazione di
25
Il termine - tradotto in italiano - significa letteralmente “rovina”, ma viene
adattato con “annullamento” o “disfacimento” in relazione ai
comportamenti acquisiti dall’offender sulla scena del crimine.
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125
sentimenti violenti, lontani da ogni senso di colpa, accade - invece - l’esatto
contrario: il reo depersonalizza la vittima rendendone irriconoscibile l’aspetto,
in particolare il volto, la parte del corpo che più ci identifica. Tale dinamica
comportamentale ha l’obiettivo di oscurare la relazione che intercorreva tra i
due soggetti, trasformando la vittima - attraverso un esasperato accanimento
fisico - da persona conosciuta a resti anonimi.
Non è raro, in situazioni di staging, l’inserimento di oggetti estranei all’interno
del corpo della vittima o - addirittura - la successiva mutilazione. Queste azioni,
in genere, hanno lo scopo di soddisfare le fantasie del reo, talvolta col preciso
desiderio di urtare il senso morale, scandalizzando la società o semplicemente
umiliando e disonorando la vittima. È possibile che alcuni gesti siano
direttamente collegati a rituali simbolici di cui solo l’autore può comprenderne
il significato.
Infine, vi è un’ultima classificazione di scena alterata, rinominata “Staging
terziario”. Tale categoria racchiude tutte quelle azioni agite dai familiari della
vittima che, casualmente, si imbattono nel ritrovamento del corpo. La maggior
parte dei casi riguarda morti avvenute in situazioni imbarazzanti o degradanti26
,
di conseguenza chi si ritrova nel contesto post omicidiario tenta di porre
rimedio acquisendo condotte di manipolazione volte a dare dignità alla persona
defunta. Geberth, in merito, è molto chiaro, affermando che “non bisognerebbe
26
Questi scenari sono ricorrenti nei casi di autoerotic fatality, particolari
pratiche di autoerotismo volte ad aumentare il piacere sessuale legato
alla masturbazione.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
126
utilizzare il termine messa in scena per definire quelle azioni modificatorie
compiute da un membro della famiglia, in quanto queste si limitano alla sola
copertura del cadavere e, talvolta, alla correzione del contesto equivoco in cui è
avvenuto il decesso del proprio caro”. Anche se prive di intento criminale, le
azioni involontarie modificano potenzialmente la natura della scena. È per tale
motivo che si struttura una nuova categoria, quella del “protective staging”,
definendo un cambiamento della scena del crimine - privo di dolo e senza
scopo di depistaggio - operato da persone diverse dal reo.
Per concludere, risulta essenziale riconoscere questo tipo di messa in scena,
scoprendo la vera natura del crimine e guidando l’inchiesta nella giusta
direzione.
Gli indicatori del camuffamento
Anche se il paragone può apparire limitato, l’identificazione e la lettura di una
scena del crimine manomessa rappresenta, a tutti gli effetti, una variazione
della tecnica di rilevamento dell’inganno. Quando si analizza una scena alterata
non vi è certezza che essa riproduca la realtà dell’accaduto, poiché ciò che si sta
osservando oscura le effettive dinamiche omicidiarie e l’idea stessa di crimine
allestita nella mente del reo (Gross, 1936). Esplorare con attenzione una messa
in scena non è poi così diverso dall’esaminare o conversare con un sospettato.
In entrambi i casi bisogna determinare quali siano gli elementi fuorvianti sulla
base delle prove a disposizione e sulla loro successiva interpretazione. L’unica
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127
differenza in merito è che gran parte della ricerca criminologica si focalizza
sulle tecniche di interrogatorio e sull’analisi della comunicazione verbale e non
verbale, supportata - in alcuni casi - da strumenti di rilevazione degli stati
fisiologici del soggetto (come il poligrafo, ad esempio). L’individuazione di
una messa in scena può contare soltanto sull’esperienza e la capacità di analisi
dell’investigatore? Come si individua un’attività di staging? Innanzitutto
partiamo dal presupposto che non esistono delitti perfetti. Organizzare una
scena del crimine coerente in tutti i suoi aspetti non è semplice, fortunatamente.
L’assenza di una lunga premeditazione, infatti, aumenta le probabilità di
commettere errori da parte dell’offender, contrariamente a quanto accade nei
reati pianificati. Compiere atti di manipolazione, tra l’altro, sottopone il
soggetto ad uno stress tale da non consentirgli di sistemare in maniera logica la
sequenzialità degli eventi. Senza dimenticare che è possibile lasciare tracce di
sé sul luogo del delitto. Il risultato di una scena camuffata, pertanto, non può
esimersi da un quadro complessivo ricco di incongruenze. Queste ultime
vengono paragonate a delle “bandierine rosse” (in gergo note come “red
flags”), dei moniti - in sostanza - che intimano a chi osserva di prestare
attenzione. Risulterà essenziale, dunque, scandagliare singolarmente tutti gli
indicatori indice di discrepanza. Infine, una volta contestualizzati, si potrà
procedere alla ricostruzione effettiva dell’evento criminoso, accertando o
escludendo la messa in scena.
Chisum e Turvey (2007), in proposito, suggeriscono un quadro esaustivo degli
elementi da vagliare con scrupolo, ovvero:
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
128
Punti di entrata/Punti di uscita
Gli elementi della scena del crimine manomessi con più frequenza sono le
finestre, generalmente aperte e/o rotte. La mente dell’offender, infatti, cerca di
creare l’illusione di un atto irruento, portando l’attenzione di chi osserva
proprio su una precisa via d’accesso. Analizzare tutti i punti di entrata e di fuga
(porte, finestre, strade, percorsi etc.), verificandone l’accessibilità al momento
del reato, è un’azione imprescindibile.
Presenza di armi sulla scena/Rimozione di armi dalla scena
Ogni arma ritrovata sulla scena del crimine deve alimentare una serie di
interrogativi: l’arma trovata assieme alla vittima è quella che ne ha causato le
lesioni? Contrariamente, perché era presente sulla scena? Vi erano altre armi
sul luogo? Se sì, avevano uno scopo specifico?
A volte vi è la prova dell’uso di armi sulla scena del delitto, ma in numerosi
contesti non vengono ritrovate. Bisogna domandarsi, dunque, se sia possibile
dimostrarne la rimozione e, in caso affermativo, capire perché siano state fatte
sparire.
Armi da fuoco
L’arma da fuoco rappresenta la scelta più probabile per portare a termine un
delitto. In una scena del crimine è importante analizzare la coerenza che
intercorre tra le ferite riportate dalla vittima e il tipo di arma utilizzata. In caso
di suicidio si deve stabilire l’esatta dinamica balistica, valutando le reali
possibilità da parte della vittima di auto-direzionare il colpo. Un altro elemento
da non trascurare riguarda le condizioni dell’arma ritrovata (difettosa o meno,
Volume 20 N° 3 - 2015
129
in grado di sparare colpi etc.) e la concentrazione di polveri da sparo, sia
nell’ambiente che sul cadavere (es. la maggior parte dei morti suicidi è a diretto
contatto con le polveri prodotte dallo sparo, pertanto l’assenza di residui sulle
mani indica che il colpo è stato esploso ad una distanza non propriamente
ravvicinata).
Movimento e localizzazione del corpo
Tipicamente, il luogo dove viene allestita la messa in scena, coincide con
quello dove si trova il corpo. Questo può legarsi all’impossibilità di spostare il
corpo o all’incapacità di ripulire la scena prima che esso venga scoperto. Per
confermare queste ipotesi è necessario esaminare le circostanze e le condizioni
che meglio affrontano la questione, o meglio:
- Evidenza di segni e macchie, molto spesso riscontrabili seguitamente
all’utilizzo del Luminol
- Abbigliamento concentrato e/o arrotolato attorno al corpo della vittima
- Livor e rigor mortis in contrasto con la posizione di riposo finale del corpo
- Tracce di sangue in posti dove non dovrebbe esserne rilevata la presenza
- Evidenti tracce sul corpo riconducibili a luoghi in completo contrasto con la
scena del crimine
Abbigliamento
I vestiti della vittima sono piegati o sollevati verso una precisa direzione? Una
persona che viene tirata per i piedi - generalmente - avrà la maglia sollevata,
con maggiore deviazione sul lato a diretto contatto con la superficie. Chi viene
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
130
trascinato per le mani, invece, mostrerà i pantaloni abbassati e la maglia ben
tesa. Altre domande da porsi sono:
- La vittima è stata privata degli indumenti? Se sì, con quale scopo?
- Le tasche sono state perquisite? Cosa contenevano?
- Il corpo è rotolato tanto da mostrare un abbigliamento poco uniforme?
- Vi sono macchie sui vestiti che possano provare un eventuale
trascinamento (fango, vegetazione etc.)?
- C’è qualcosa di strano nell’abbigliamento?
- La vittima potrebbe essere stata rivestita dopo l’aggressione? Se sì,
perché il reo ha dato importanza a questo aspetto?
È bene che ogni circostanza venga esplorata a fondo: ad esempio, perché
inscenare un tentativo di rapina finito male senza portar via dal luogo del delitto
alcun oggetto di valore? Questo scenario è molto ricorrente negli omicidi
intrafamilari, ove in genere l’assassino è il partner. Allestire una rapina con
esito fatale all’interno di un abitazione è il tipo di soluzione che l’offender
sembra prediligere per confondere gli investigatori27
. In caso di furto simulato,
però, è opportuno vagliare con cura altri elementi:
- Assenza di segni di effrazione
- Evidenti forzature poste in corrispondenza dell’ingresso principale
27
I furti con effrazione rappresentano il 43,3% dei casi di staging, la
percentuale più alta seguita dai suicidi (12,8%), incidenti d’auto (12,1%) e
morti accidentali (11,3%).
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131
- Cassetti rimossi e gettati in maniera confusa al fine di inscenare un
rovistamento
- Cassetti rimossi e adagiati con cura per preservarne il contenuto
- Nessuna evidente ricerca di oggetti di valore
- Nessun prelevamento di oggetti
- Presenza di un’assicurazione sulla vita stipulata precedentemente dalla
vittima
- Deleghe e/o benefici concessi ad un membro della famiglia in caso di
morte della vittima (es. libero accesso ad un conto bancario di consistenti
dimensioni)
Ciascuna delle sopracitate condizioni è in grado di allarmare l’investigatore,
enfatizzandone i dubbi. E non c’è nulla di errato nel nutrire perplessità.
Tuttavia, tali condizioni possono verificarsi anche in assenza di staging.
Lo staging e l’interpretazione giuridica del reato
Se commettere un omicidio rappresenta di per sé un reato gravoso, ostacolare e
impedire il giusto prosieguo delle indagini (modificando il corpo del reato o la
scena del crimine, occultando e alterando prove) costituisce un comportamento
ulteriormente aggravante.
Il nostro ordinamento non prevede - in via specifica - delle disposizioni volte a
punire la condotta di chi intralcia un’indagine o un processo. Tutte le
circostanze mirate a contrastare l’acquisizione della prova o l’accertamento dei
fatti sono sussumibili ad altre norme incriminatrici, basti pensare alla falsa
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
132
testimonianza, al favoreggiamento, alla calunnia e all’autocalunnia, alle false
informazioni rilasciate al pubblico ministero. Risulta chiara, dunque, l’esigenza
di riempire tale lacuna normativa. Attraverso la proposta di legge n.559-A,
viene riscritto l’articolo 375 del codice penale, introducendo la nuova
fattispecie delittuosa di “inquinamento processuale e depistaggio”. Il 24
settembre 2014 la Camera dei deputati ha approvato il provvedimento,
attualmente in commissione al Senato.
Cosa prevede l’inserimento di questa nuova tipologia di reato? Analizziamolo
nel dettaglio. Innanzitutto, al primo comma dell’articolo 1 viene stabilito che «è
punito con la reclusione fino da due ad otto anni chiunque, al fine di impedire,
ostacolare e sviare un’indagine o un processo penale
modifica artificiosamente il corpo del reato ovvero lo stato dei luoghi, delle
cose o delle persone connessi al reato
distrugge, sopprime, occulta o rende comunque inservibili, anche in parte,
un documento o un oggetto da utilizzare come elemento di prova o
comunque utile alla scoperta di un reato o al suo accertamento
forma o altera artificiosamente, in tutto o in parte, elementi di prova o
comunque utili alla scoperta di un reato o al suo accertamento».
Accanto a quella che è la fattispecie-base comune, sono previste ulteriori
ipotesi aggravate in cui l’inquinamento processuale diventa depistaggio,
pertanto comportano un aumento della pena. Le ipotesi di condotta sono le
seguenti, ovvero:
Volume 20 N° 3 - 2015
133
quelle commesse da pubblici ufficiali, in cui la pena è aumentata da un
terzo alla metà
quelle concernenti reati di estrema gravità (strage, terrorismo, eversione,
associazione mafiosa, banda armata, associazioni segrete, traffico illegale
di armi e materiale nucleare, chimico o biologico o altri gravi delitti come
la tratta di persone e il sequestro a scopo estorsivo), in cui la pena oscilla
dai 6 ai 12 anni
quando le circostanze di cui ai numeri 1 e 2 concorrono, la pena di cui al
numero 2 è aumentata sino alla metà.
La condanna superiore agli anni tre di reclusione - nelle ipotesi aggravate -
comporta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
È prevista una riduzione della pena per chi aiuta i magistrati ad individuare i
colpevoli del reato, per chi ripristina le prove o lo stato di scena del reato
stesso.
Per concludere, con l’introduzione del reato di “depistaggio e inquinamento
processuale”, si va a riempire un drammatico vuoto che - per anni - ha
alimentato numerose zone d’ombra all’interno di determinate inchieste . Pur
non essendo stato principalmente concepito per punire le condotte di
alterazione compiute su una scena del crimine, tale provvedimento apre una
nuova pagina della democrazia italiana, dotando la magistratura degli strumenti
idonei a perseguire in maniera efficace tutti quei comportamenti torbidi, falsari
e depistatori, prevedendo - altresì - significative aggravanti laddove i fatti
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
134
vengano compiuti da pubblici ufficiali. L’obiettivo è quello di garantire ai
cittadini verità e giustizia. A tutti i livelli.
Chi era Melania Rea? Autopsia psicologica e inquadramento della
personalità
Una donna bellissima. Questa la prima risposta che viene in mente a chiunque
si imbatta in una sua fotografia. Carmela Rea nasce a Napoli il 24 maggio del
1982. Il nome era una delle poche cose di sé stessa che non riusciva ad
accettare, ecco perché preferiva che gli altri utilizzassero l’appellativo di
“Melania”.
Al contrario, conscia e fiera della sua bellezza, Melania non mancava di curare
il suo aspetto: voleva essere apprezzata dal suo uomo, il caporalmaggiore
Salvatore Parolisi. Di lui si era perdutamente innamorata a prima vista,
osservandolo in un vecchio scatto esposto a casa di alcuni amici. L’uomo, da
quel momento in poi, entrerà nella vita della donna rappresentandone la
relazione affettiva più significativa.
I due convoleranno a nozze qualche anno dopo. E sarà proprio in nome di
questo amore che Melania si allontanerà da Somma Vesuviana, piccolo centro
in cui aveva vissuto sino a prima del matrimonio. È la strada che conduce a un
nuovo inizio, lontano dagli affetti familiari e dalle amicizie più care. Le attese, i
desideri e le aspettative a cui è ancorata questa giovane ragazza del Sud, sono
Volume 20 N° 3 - 2015
135
più forti di qualsiasi timore incusso da un cambiamento. Il cordone ombelicale,
però, non si è ancora spezzato del tutto.
La coppia si trasferisce a Folignano, cittadina della provincia di Ascoli Piceno,
principalmente per assecondare le esigenze lavorative di Salvatore Parolisi.
Difatti è qui che si trova la caserma ove svolge il suo doppio ruolo di istruttore
e caporalmaggiore dell’esercito. Le giornate di Melania sono scandite dai ritmi
lenti della vita casalinga, accelerati - circa un anno più tardi - dall’arrivo della
primogenita Vittoria. L’intero periodo della gravidanza è trascorso a casa dei
genitori, a Somma Vesuviana, ove la donna si sente più tranquilla
nell’affrontare il mistero della maternità. Qui torna a dormire nel suo letto,
nella sua stanza, come per rinsaldarsi a un lungo filo, forse quello dell’infanzia
e dell’adolescenza, rivivendo gli odori ed i rumori della sua terra.
Dopo la nascita della bambina, la neo mamma si dedica per intero alla sua
nuova famiglia e alla gestione della casa: non svolge un’attività lavorativa, non
instaura rapporti di amicizia che non siano vincolati all’ambiente del marito. Le
uniche frequentazioni si limitano ai vicini di pianerottolo. Melania, a
Folignano, non ha nessun altro all’infuori della sua stessa famiglia. Non pratica
sport, non coltiva hobbies, non possiede neppure un profilo facebook, spesso
collante con il mondo esterno e pretesto di evasione. Inoltre non dispone di
finanze autonome che le consentano di attuare scelte in piena libertà.
Queste informazioni suggeriscono un quadro di forte dipendenza affettiva della
donna nei confronti del marito. Si può essere caratterialmente determinati, ma
nel contempo incapaci di razionalizzare un rapporto di coppia, riversandovi
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
136
ogni singola aspettativa. In un contesto di dipendenza la persona amata diviene
il detentore della verità, per cui si guarda con i suoi occhi e si pensa con la sua
mente. La paura dell’abbandono, della solitudine e della separazione, annienta i
propri desideri, pertanto ci si nega a sé stessi replicando copioni già noti.
Appare indubbio, a questo punto, come la scoperta di una relazione
extraconiugale possa far crollare quel mondo di certezze che il dipendente
affettivo ha edificato attorno a sé. Salvatore Parolisi ha un’amante, Ludovica,
sua ex allieva lì in caserma. Melania scopre di essere tradita, più volte e in un
arco temporale pressoché lungo, ma la sua condizione emotiva non le concede
di analizzare oggettivamente la realtà dell’accaduto. Perdona il marito, infatti,
con l’obiettivo di riscrivere un nuovo rapporto, investendovi - altresì - grosse
energie. Si sente umiliata, avvilita, ma non può lasciarsi fagocitare dal
fallimento, ammettendo di aver sbagliato qualcosa, forse. Tutti possiamo
commettere errori in preda ad un momento di debolezza. Ed è meglio
rammendare i solchi tracciati da una relazione fedifraga piuttosto che assistere
allo sgretolamento del sogno di una vita.
Accettare condotte sempre più inique comporta una violazione della propria
libertà, poiché non concede alcuna possibilità di autodeterminazione. Tale
tollerabilità comportamentale, dunque, non fa altro che vanificare gli ulteriori
sforzi destinati alla missione salvifica del partner28
.
28
L’atteggiamento di sottomissione è estremamente malsano per il dipendente,
in quanto fortifica aspettative irrealistiche sia di controllo che di
“risanamento” della relazione.
Volume 20 N° 3 - 2015
137
Col passare del tempo, Melania, stenta a riconoscere le proprie doti e le proprie
qualità: la sua capacità di critica e di giudizio si affievoliscono, comportando
un’effettiva perdita del piano di realtà. Fa di tutto affinché le attenzioni del
marito tornino a catapultarsi esclusivamente su di lei, arrivando a mettere in
discussione anche il suo aspetto fisico. Perde venti chili, quasi a voler emulare
la longilineità destabilizzante della sua rivale. Questo ed altro per salvare
quell’agognato amore. È evidente, dunque, la condizione di sudditanza
psicologica in cui la donna versa.
Cosa accade, invece, quando Melania rinsavisce, constatando che ogni sforzo di
recuperare il rapporto amoroso sia vano, data l’indole reiterante del partner?
Reagisce, affermando la propria personalità. A questa esplicita volontà di
riappropriarsi dello status quo, tuttavia, corrisponde spesso un ostracismo più
subdolo: si ammala anche l’altra parte, frenando in tutti i modi un possibile
futuro distacco.
La descrizione dei fatti: timeline, personaggi e luoghi
È il 18 aprile del 2011. Sono circa le ore 14:00-14:15. Dopo aver consumato un
pasto frugale e sistemato qualche faccenda domestica, Melania propone al
marito di trascorrere un pomeriggio all’aria aperta. È una bella giornata. A
Pianoro San Marco, zona collinare ove i due si recano di consuetudine, c’è
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
138
anche un ampio spazio dedicato ai giochi. Un’ottima location, dunque, per
concedersi un po’ di relax e far divertire la loro bimba.
Il luogo si trova a circa venti minuti d’auto dall’abitazione della coppia. Alle
14:35, seguitamente alla decisione di recarvisi, i tre sono già sul posto.
Salvatore non perde tempo ed inizia ad assecondare la giocosità della
figlioletta, portandola alle altalene. Melania, invece, ha urgenza di andare in
bagno. Nelle vicinanze si trovano alcune toilettes pubbliche, di certo non
raccomandabili in quanto a pulizia. E la donna è intransigente su tale aspetto.
Pertanto preferisce camminare qualche metro in più raggiungendo un
bar/ristorante dotato di servizi igienici, senza dubbio sufficientemente decorosi.
Salvatore si offre di accompagnarla, ma la bimba recalcitra, mostrando la chiara
intenzione di non volersi staccare dai giochi. Melania, quindi, decide di
allontanarsi da sola. Il marito acconsente, chiedendole di portagli un caffè al
ritorno29
.
La donna non dovrebbe impiegare molto tempo, pur scegliendo il percorso più
lungo. Invece i minuti scorrono, senza ch’ella ricompaia. Sembra che quei
boschi popolati da fitti abeti l’abbiano letteralmente inghiottita. Salvatore si
allarma, non vedendola rientrare. Prova più volte a contattare telefonicamente
la donna, senza ricevere alcuna risposta. Alle 16:34, di conseguenza, segnala al
112 la scomparsa della moglie. Quando l’operatore del 112 risponde, però,
29
Verrà successivamente appurato che la donna non aveva con sé la borsa. In
tasca le verranno trovati soltanto pochi centesimi, di certo non
sufficienti a sostenere il costo di un caffè.
Volume 20 N° 3 - 2015
139
dall’altro capo del telefono non c’è Parolisi, bensì la proprietaria del
bar/ristorante “Il cacciatore”. È qui, nei bagni di questo locale sito a poche
centinaia di metri alle altalene, che Melania sarebbe dovuta arrivare. Salvatore
Parolisi, subito dopo aver composto il numero, viene colto da improvvisi conati
che lo costringono ad allontanarsi. Sembra particolarmente e prematuramente
scosso, considerando che la moglie è sparita solo da mezz’ora. Una volta
rientrato, impugna nuovamente il telefono e cerca di spiegare all’operatore
quanto accaduto.
Da quel momento partono immediatamente le ricerche, concentrandosi nella
zona di Pianoro San Marco. In quei frangenti il cellulare di Melania risulta
ancora acceso, squilla, agganciando la cella di Civitella del Tronto. I cani da
mantrailing, giunti sul posto assieme alle forze dell’ordine, fiutano le tracce
della donna seguendo un percorso del tutto anomalo.
Per raggiungere i bagni del bar/ristorante “Il cacciatore” Melania sceglie la
strada più lunga. Perché allungare il cammino, soprattutto in condizioni di
necessità immediata? Bisogna considerare che, la donna, non era estranea a
quei luoghi, dunque appare strano che abbia perso l’orientamento. L’ipotesi di
una eventuale aggressione, tra l’altro, non è suffragata da alcun dato, in quanto
nessuno ha udito urla e/o assistito a scene sospette. Così come risulta
inverosimile la scelta di cercare un posto isolato nei boschi, preferendolo ai
bagni pubblici.
Il racconto e gli orari enunciati sin’ora si basano su quanto dichiarato dal marito
Salvatore Parolisi, il quale, successivamente, applicherà una serie di
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
140
“aggiustamenti circostanziali” alle sue successive ricostruzioni. Le principali
red flags, difatti, vengono riscontrate nella timeline, in quanto all’interno
dell’arco temporale indicato dall’uomo non emergono riscontri testimoniali che
supportino la presenza della coppia in località Pianoro San Marco, dove si trova
il parco giochi30. Gli unici elementi attendibili forniscono l’orario in cui
Melania e Salvatore lasciano l’abitazione di Folignano.
Una delle poche certezze viene fornita dall’analisi delle celle telefoniche: il
cellulare di Melania si trova in zona Ripe di Civitella già dalle 14:53, momento
in cui una sua amica prova a contattarla senza ricevere risposta. Sussegue un
secondo tentativo qualche minuto più tardi, alle 14:56, anche questo con esito
negativo. Appare dubbio che Melania non abbia sentito le chiamate, in quanto è
sua consuetudine impostare la suoneria del telefono ad un volume notevole.
Pertanto sembra chiaro che in quel lasso temporale la donna non fosse più nella
condizione di rispondere. O perché già morta, o perché in balìa del suo
assassino..
Le ricerche, partite subito dopo la segnalazione al 112 da parte di Parolisi,
proseguono fino a sera inoltrata senza dare risultati. Il giorno appresso, il 19
aprile, si consumano ulteriori perlustrazioni. La zona viene scandagliata
scrupolosamente, utilizzando ancora una volta i cani molecolari. La situazione
non cambia.
30
Gli investigatori hanno vagliato le dichiarazioni di ben 52 testimoni oculari
che - tra le 14:15 e le 15:30 - si trovavano nel medesimo luogo.
Volume 20 N° 3 - 2015
141
Tutto precipita attorno alle 16:00 del 20 aprile, quando una telefonata anonima,
proveniente da una cabina pubblica, giunge ai centralini del 113. Un uomo, con
tipica inflessione locale, segnala la presenza di un corpo nel bosco di Ripe di
Civitella. Non fornisce ulteriori dettagli, riaggancia prima ancora che
l’operatore possa effettuare approfondimenti.
Il personale del Comando provinciale dei carabinieri di Teramo effettua un
primo sopralluogo sul posto segnalato, dando atto che il cadavere rinvenuto
corrisponde a quello della giovane Melania Rea. Il corpo è supino, adagiato in
terra, presentando pantaloni, collant e slip abbassati poco sotto il ginocchio. Gli
abiti sono macchiati di sangue, mentre schizzi e gore ematiche indicano la
posizione della donna al momento dell’aggressione. La pelle livida non
nasconde gli evidenti segni di sfregio effettuati all’altezza di ventre e cosce.
Una siringa trafigge il seno sinistro, mentre un laccio emostatico è abbandonato
a poca distanza. Non sono presenti segni di lotta e trascinamento riconducibili
alle fasi antecedenti l’omicidio.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
142
L’uccisione di Melania : analisi e ricostruzione della dinamica omicidiaria
La scena che si presenta agli inquirenti negli instanti successivi al ritrovamento
del cadavere di Melania Rea è agghiacciante. Ci si trova dinanzi ad una donna
straziata, divenuta oggetto di estrema e reiterata aggressività. Il suo corpo è
stato massacrato con 35 coltellate, di cui una alla gola ed un’altra al cuore,
probabilmente mortale. Un vero e proprio assedio. Risultano evidenti altre
ferite da taglio, dei colpi superflui inferti al termine della fase omicidiaria. Si
tratta di un accanimento, in criminologia meglio noto come overkilling. In
questi casi l’offender infierisce ripetutamente sulla vittima col solo scopo di
sfregiare il corpo o terminare l’impeto delittuoso, in quanto ne è già
sopraggiunto il decesso.
La violenza agita ai danni di Melania è riconducibile ad un’aggressività
espressiva, ovvero quell’impulso fattuale caratterizzato da forti componenti
emotive (frustrazione, rabbia, irritazione etc.). Tali comportamenti, in genere,
prendono forma all’interno di un contesto relazionale, ove il movente
passionale ne costituisce la causa scatenante. Di primo acchito, dunque, sembra
chiaro che l’uccisione di Melania Rea rappresenti un delitto d’impeto,
definizione che non esclude un’eventuale premeditazione, ma che ne esplicita
le motivazioni. Gli omicidi collocabili in questo scenario, infatti, derivano
spesso da separazioni non volute e/o da liti e dissapori all’interno della coppia.
Gran parte dei reati violenti, inoltre, suggerisce una relazione tra vittima ed
aggressore tanto che - l’efferatezza utilizzata ai fini dell’evento delittuoso - è
Volume 20 N° 3 - 2015
143
direttamente proporzionale all’affettività investita precedentemente nella
coppia vittima-offender.
L’accoltellamento della Rea è avvenuto nello stesso luogo ove è stato rinvenuto
il cadavere, a distanza di un paio d’ore dall’assunzione dell’ultimo pasto. Il
corpo giaceva disteso in terra sulla schiena, parzialmente svestito, con slip e
pantaloni abbassati poco più in basso delle ginocchia.
Probabilmente l’acting criminale è stato immediato ed inaspettato, cogliendo la
donna durante l’atto della minzione. Ulteriori dettagli emergono dagli abiti:
l’assenza di lacerazioni fa presumere che Melania si sia svestita
volontariamente. Per giunta, gli imbrattamenti ematici rinvenuti sui suoi
pantaloni sono concentrati nella parte interna e retrostante, mentre le ferite sul
dorso sono poco profonde e direzionate dall’alto verso il basso. Tutto ciò
convalida un’azione aggressiva avvenuta alle spalle della donna.
Melania, dopo essere stata colpita, ha cercato di divincolarsi percorrendo
qualche metro, ma gli abiti abbassati al di sotto delle ginocchia le hanno
impedito un’adeguata deambulazione. Questo suo spostamento, comunque, ha
fatto sì che l’aggressore le somministrasse ferite non mortali. In seguito,
purtroppo, viene abbattuta di forza e collocata in posizione supina: in tale fase
si concentra l’iper accoltellamento diretto alla regione toraco-addominale. La
donna ha tentato di difendersi con braccia e mani, circostanza supportata dai
tagli riscontrati in prossimità degli arti superiori. In un secondo tempo svanisce
ogni tipo di resistenza: è qui che l’offender colpisce ripetutamente la regione
pettorale sinistra della vittima, producendo lesioni vicine ed allineate, frutto di
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
144
una medesima impugnatura dell’arma. Melania presentava alcune ferite
superficiali da punta e taglio anche sul mento ed il collo. L’aggressore ha
tentato di reciderne le strutture vitali, condizione impedita dalla reattività della
donna che - in qualche modo - è riuscita ad attutire l’impatto della violenza
lesiva. L’infiltrato ematico in sede frontale, l’ecchimosi sulla coscia sinistra, le
scarpe e le ginocchia imbrattate di terriccio, infine, rappresentano elementi
prodottisi in seguito ad un atterramento della vittima, scaraventata al suolo con
un pugno.
Melania, dunque, è stata uccisa a sua “insaputa”, investita improvvisamente da
una serie di colpi lesivi provenienti dalle spalle. L’offender ha cercato di
sgozzarla, invano, per poi aggredirla con una successiva raffica di coltellate
frontali, tra cui una profonda al fegato. La donna non ha avuto modo di
difendersi attivamente, forse non conscia di quanto stesse accadendo in realtà.
Ciò lo dimostra l’integrità del trucco, così come l’assenza di smagliature e
strappi su pantaloni, collant e mutandine, quasi sicuramente abbassati di propria
volontà. La morte è sopraggiunta dopo circa una decina di minuti dall’inizio
dell’azione omicidiaria. Si ritiene che l’assassino abbia abbandonato il posto
mentre Melania era ancora agonizzante.
La scena del crimine diviene più complessa alla luce della manomissione
operata sul corpo della Rea, il quale si presenta altresì contornato da una serie
di elementi di indiscusso interesse investigativo.
Volume 20 N° 3 - 2015
145
Accertamenti medico-legali, tempo della morte e lettura delle tracce
ematiche
Le conclusioni medico-legali relative all’autopsia effettuata sul corpo di
Melania Rea ne identificano la morte in un arco temporale compreso tra le
13:30 e le 15:30 del 18 aprile 2011, giorno in cui la donna scompare. Il decesso
è avvenuto ad una distanza di circa due ore dall’ingestione dell’ultimo pasto e,
presumibilmente, entro un’ora dall’assunzione di una bevanda a base di
caffeina.
I punti saldi dell’indagine autoptica partono dall’orario in cui la donna ha
pranzato, ovvero le 13:36: è Ella stessa a renderlo noto durante una
conversazione telefonica intrattenuta con la madre. Dalla relazione
dell’anatomopatologo Adriano Tagliabracci si evince nel dettaglio che:
- Melania è deceduta a seguito di un’anemia emorragica acuta insorta a
causa delle numerose ferite somministratele con un’arma da punta e taglio.
Il capo, il tronco, il collo e gli arti superiori sono state le regioni più
colpite.
- L’assassino ha tentato uno scannamento, rivelatosi poi infruttuoso. La
vittima ha cercato di darsi alla fuga, ma una volta atterrata al suolo è stata
ripetutamente colpita all’altezza del collo, della regione mentoniera,
addominale e sternale. L’impugnatura dell’arma è risultata essere la
medesima per tutto il corso della fase aggressiva, segnalando l’azione di un
soggetto destrimane.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
146
- L’esame dei luoghi ha fatto sì che venissero scartate le ipotesi di
trascinamento o spostamento del corpo, in quanto il fogliame boschivo è
risultato uniforme.
- La vittima è stata uccisa nello stesso luogo in cui ne è stato ritrovato il
corpo.
- Le condizioni del cadavere hanno mostrato piena compatibilità con il lasso
temporale in cui il corpo ha soggiornato nel luogo del delitto dal momento
in cui è avvenuto l’evento omicidiario.
- Le ferite collocate in prossimità della regione ipogastrica e delle cosce
sono state inferte dopo la morte.
- È stata riscontrata la presenza di batteri soltanto sulla superficie dei tessuti
lesi, di conseguenza si presume che le ferite post-mortem siano state
applicate da un rimaneggiamento cadaverico avvenuto nelle ore
antecedenti al ritrovamento.
- Le lesioni post-mortali sono state inferte con uno strumento diverso
rispetto a quello da punta e taglio che ha prodotto le lesioni vitali. Fra
l’omicidio e la produzione delle suddette lesioni (figurate su cosce ed
addome) deve essere trascorso un lasso temporale sufficiente a consentire
l’essiccamento delle tracce ematiche.
- La morfologia delle ferite rinvenute sul corpo mostra piena compatibilità
con l’utilizzo di una sola arma.
- Le lesioni da taglio site attorno a collo e mento sono state somministrate da
un offender destrimane posizionato alle spalle della vittima.
Volume 20 N° 3 - 2015
147
- La quantità di sostanza ematica rilasciata sul terreno è stata ingente,
dunque il luogo dell’uccisione è conciliabile con quello del rinvenimento
del cadavere.
- La morte di Melania Rea è intervenuta dopo un tempo agonico di circa
dieci minuti.
- La lesione contusiva constatata in prossimità del capo è frutto di un corpo
contundente privo di rilievi grossolani (come ad esempio un pugno o un
oggetto con la medesima superficie fisica).
Sul luogo del delitto, così come sullo stesso corpo, sono state altresì effettuate
delle ricerche di tracce biologiche che potessero portare all’identificazione
dell’aggressore. Dagli accertamenti è emerso che le uniche tracce biologiche
rinvenute sulla vittima si collocavano attorno alla regione labiale e all’interno
dell’arcata dentaria. Il materiale analizzato ha ricondotto ad un medesimo
soggetto, ovvero Salvatore Parolisi, marito di Melania. Non è stato possibile
definire il tipo di contatto che ha permesso ad elementi cellulari estranei di
depositarsi tra le mucose della Rea. La contaminazione potrebbe essere stata
conseguenza di un bacio o di un contatto cutaneo.
A completare il quadro, infine, concorre la relazione BPA31
(Bloodstain Pattern
Analysis), la quale fotografa i dettagli salienti della fase omicidiaria. Nello
specifico, si giunge alle seguenti conclusioni:
31
Con il termine BPA - Bloodstain Pattern Analisys - si definisce l’innovativa
tecnica di studio, interpretazione e valutazione delle tracce di
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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- Nei primi momenti dell’aggressione Melania aveva senza dubbio gli indumenti
(pantaloni, collant e mutandine) abbassati al di sotto delle ginocchia. Ciò è
spiegato dalle visibili tracce ematiche rinvenute sulle gambe del cadavere.
- La direzione delle colature di sangue depositate sulla coscia destra, le
cosiddette flow patterns, lasciano pensare che l’arto della vittima abbia assunto
una posizione verticale poggiandosi sul suolo. A suffragio di tale ipotesi
concorre un’escoriazione ben visibile sul ginocchio destro.
- A seguito dell’atterramento la vittima si è accasciata in terra
poggiandosi sul fianco destro. Dopo un certo intervallo agonico, probabilmente,
si è girata da sola assumendo la posizione supina. La rotazione del corpo è
supportata anche dalla disposizione dei capelli sul terreno, naturalmente protesi
verso destra.
- Nelle fasi successive all’aggressione la maglietta di Melania (che
doveva mostrarsi calata sino in prossimità del pube) è stata sollevata. L’azione
veniva agita a seguito della parziale essiccazione del sangue. In tale circostanza
l’offender ha praticato atti di vilipendio (come le incisioni sulla cute site nella
zona del ventre).
- La distribuzione delle tracce ematiche adiacenti al luogo in cui è stato
rinvenuto il cadavere della donna è indice di un meccanismo di proiezione.
sangue. Attraverso tale strumento è possibile raccogliere una serie di
informazioni che permettono - in un secondo momento - la ricostruzione
degli eventi, la loro successione e l’origine dei fatti.
Volume 20 N° 3 - 2015
149
Quest’ultimo viene provocato per effetto della forza centrifuga quando il
sangue si distacca da una superficie
- Il contesto delittuoso suggerisce una distribuzione delle tracce
ematiche come conseguenza del brandeggio di un fendente insanguinato.
Attraverso la misurazione dell’angolo d’impatto delle macchie di sangue è stato
possibile individuare la porzione di terreno interessata dall’aggressione mortale.
Il movimento dell’azione lesiva ha determinato un’immediata e cospicua
fuoriuscita di sostanza ematica che, depositatosi sulla lama del coltello, è stata
seguitamente e coerentemente proiettata verso destra (tracce da cast-off), in
prossimità del marciapiede circostante la casetta di legno presente sulla scena
del crimine.
Il tentativo fuorviante di inscenare una violenza sessuale?
L’omicidio di Melania Rea rappresenta uno dei casi più emblematici di cronaca
nera ove la scena del crimine assume le connotazioni dell’adulterazione, a tratti
quasi enfatizzata. Gli elementi utilizzati per artefare tale delitto, così come gli
agiti di rimaneggiamento e vilipendio adottati, non presentano -
apparentemente - alcuna connessione logica tra loro. Lo scenario è quello di
una donna denudata, una siringa che ne trafigge il petto, strane simbologie che
solcano la cute: gestualità divergenti che narrano il chiaro tentativo di depistare
la realtà dell’accaduto. È questo il fine ultimo di ogni atto di staging, sviare i
sospetti allestendo sfondi che ostentino discrepanze. Sì, perché è quasi
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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impossibile non commettere errori ed esimersi dalla responsabilità omicidiaria.
Se le circostanzialità, spesso, favoriscono il reo esonerandolo dal rilascio di
impronte o tracce, la personalità ed il legame intrattenuto con la vittima ne
tradiscono le azioni. La manipolazione di una scena del crimine, infatti, è
sempre riconducibile ad uno specifico contesto relazionale: è raro che un
estraneo organizzi uno staging, in quanto soggetto avulso guidato da fattori
transitori esterni.
Sappiamo che la donna aveva urgenza di espletare un bisogno fisiologico, ma
non si comprende perché abbia percorso circa 15 chilometri alla ricerca di un
bagno. In fondo, a poche centinaia di metri dal luogo in cui si trovava, era
possibile trovarne più di uno. Dalle descrizioni caratteriali e dai racconti della
sua famiglia, inoltre, è emerso il ritratto di una ragazza che difficilmente
avrebbe approfittato dei campi per dar sfogo ad un’impellenza, piuttosto si
sarebbe trattenuta.
Dunque, l’ipotesi da prendere in considerazione probabilmente è un’altra,
ovvero quella che Melania potrebbe essersi spogliata per consumare un
rapporto sessuale. Poiché la donna si è svestita di propria volontà, com’è
mostrato dall’integrità degli abiti, un’eventuale aggressione da parte di un sex
offender sembra non reggere a priori. La vita privata di questa giovane ragazza,
tra l’altro, è stata passata al settaccio senza che siano emerse relazioni
extraconiugali: nessuna piega, nessun lato oscuro. Che cosa ha spinto, quindi,
Melania a spogliarsi?
Volume 20 N° 3 - 2015
151
È nell’intimità di tale contesto, così poco agevole per offrire una fuga o un
appiglio di difesa, che la donna viene ritrovata. La scena che si presenta agli
occhi di chi osserva appare inequivocabile: Melania non solo è stata oggetto di
un’efferata violenza, ma con molta probabilità ha subìto un abuso sessuale.
Questa supposizione verrà poi smentita dalle indagini medico-legali, le quali
scarteranno l’iniziale convincimento di un’aggressione sessuale perpetrata.
Quel contatto sessuale non sopraggiunto, forse a seguito di un ripensamento, ha
rappresentato il fattore scatenante la collera cieca dell’assassino. Ed è proprio
qui, nell’umiliazione postuma alla negazione, che si erige una squallida messa
in scena. L’approccio fallito, o l’illusoria promessa di un momento intimo,
divengono il mezzo attraverso il quale allestire una realtà dismorfica,
infangando la dignità della vittima: è un’altra Melania quella che si vuole
mostrare, una donna che - in balìa delle sue voglie - improvvisamente non si
cura di eventuali occhi indiscreti. Non dimentichiamo che, quel giorno, la
vittima non è sola in quei luoghi: lo scopo della scampagnata a Colle San
Marco, infatti, consisteva principalmente nel regalare qualche momento
d’ilarità alla sua bimba. Possibile, quindi, che un inaspettato egoismo libidico
abbia preso il sopravvento - anche solo per pochi istanti - reprimendo
l’apprensione materna? Può, una giovane madre, decidere di consumare un
rapporto sessuale dinanzi alla figlia neonata, benché dormiente? In caso
contrario, ovvero scartando la presenza della piccola, con chi si trovava
Melania in quei momenti? Qualcuno doveva pur occuparsi della bambina.
Appare ovvio, a questo punto, che l’aggressore indossasse una maschera già
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
152
conosciuta. L’atto del denudarsi è strettamente connesso alla variabile della
fiducia ed il volto della donna contribuirà a spezzare ogni mutismo
circostanziale. Melania, infatti, mostra un trucco intatto non dilavato da
lacrime, condizione che escluderebbe il tentativo di approccio da parte di un
estraneo. Tra l’altro, la somma di tutti gli elementi conduce alla simulazione
intenzionale di un omicidio dal movente sessuale: il posing32
del corpo, la
parziale nudità, la manomissione del cellulare in uso alla donna. Come
sostenuto da Geberth, l’offender in tali contesti esterna sentimenti di rabbia e di
rappresaglia, di conseguenza il sesso si trasforma nell’arma con cui punire e
degradare la vittima. Il posizionamento del cadavere rappresenta quasi sempre
il primo fattore d’incongruenza. In questa tipologia di messa in scena
l’obiettivo primario (nonché esplicito) è quello di crearsi un alibi (2010).
L’attuazione di determinati comportamenti, prima e dopo il crimine, riflettono
la natura spontanea e a tratti simbolica di questo omicidio. A partire dal luogo
stesso, conosciuto dalla donna e sporadicamente frequentato in passato. Le
modalità di commissione del delitto sottolineano una mancanza di preparazione
da parte dell’assassino, il quale ha agito senza dubbio in preda all’impeto.
32
Il “posing” identifica l’atto dell’offender nel riposizionare il corpo della
vittima. Attraverso tale condotta il reo vuole
comunicare un messaggio specifico a chi osserva. Le possibilità sono varie:
dall’intento di inscenare un crimine diverso rispetto a quello
commesso, alla vergogna provata per l’atto stesso. I corpi, spesso, possono
essere ritrovati in pose sessuali o per assecondare la fantasia del killer
o come semplice gesto di disprezzo nei confronti della vittima.
Volume 20 N° 3 - 2015
153
L’aggressione a sorpresa, mossa alle spalle della vittima, ne provoca il decesso
in tempi brevi eliminando - dunque - tutta quella serie di elementi di costrizione
e legature a cui in genere un offender si appiglia. Il posing del corpo e il suo
parziale svestimento, oltretutto, non rappresentano una specifica espressione
mentale del reo, ma costituiscono semplici elementi di ancoraggio situazionale.
Lo scenario più credibile da allestire trova quindi risposta nel tentato stupro,
fortificato altresì dalle contingenze ambientali (il posto ove viene rinvenuto il
corpo della povera Melania è abbastanza isolato e difficilmente raggiungibile
senza l’ausilio di un’automobile).
Dall’overkilling all’incisione della svastica: codifica dei significati
In un delitto così intricato, dove la prova scientifica rappresenta la pedina
mancante della scacchiera, è necessario attingere ai numerosi e contrastanti
indizi disseminati sulla scena del crimine per cercare di trarre soluzioni
investigative. Questa triste e amara vicenda di cronaca nera insegna, ancora una
volta, che è il corpo della vittima che fornisce le informazioni più esaustive in
merito alle dinamiche omicidiarie ed ai comportamenti adottati dall’assassino.
Melania ha costituito il bersaglio verso cui è sfociata una reiterata violenza, sia
nel corso della fase aggressiva, sia nei momenti successivi la morte (a breve e a
lungo termine). Il viscerale accanimento agito sul suo cadavere è racchiuso in
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
154
un centinaio di fotografie che, seppur agghiaccianti, offrono dettagli inediti e di
fondamentale importanza ai fini dell’inchiesta e dei relativi accertamenti.
“L’ultraomicidio”33
, nel caso specifico, non si è limitato ai trentacinque colpi
inferti alla vittima, ma ha dato forma ad un intricato groviglio di simbologie, a
tratti quasi indecifrabile. Le sevizie di cui il corpo è stato oggetto hanno
permesso, approssimativamente, di catalogare la personalità dell’uccisore.
Per comprendere il significato dei disegni incisi sulla cute occorre partire da
una premessa indispensabile. Nel compimento di un’azione delittuosa,
l’offender mette in atto una serie di comportamenti, dalla scelta del luogo allo
stile dell’aggressione, per poi giungere alla selezione del tipo di arma da
utilizzare nel corso dell’evento omicidiario. Tutto ciò rientra nel concetto di
modus operandi, il quale definisce l’insieme delle condotte acquisite dal reo
mirate a sottolinearne lo stile comportamentale (Canter, Alison 2004). Risulta
difficile, tuttavia, identificare un assassino soltanto dal suo modus operandi,
soprattutto se il crimine non rientra in una serialità. Ad ogni modo, non bisogna
sottovalutare l’insieme delle informazioni che l’agito comportamentale può
esibire in merito ad abilità e conoscenze criminali, sia per quanto concerne la
relazione intrattenuta con la vittima, sia per il livello di familiarità mostrato con
la scena del crimine. Questi aspetti devono essere tenuti in considerazione da
33
La criminologia indica con l’accezione inglese “overkilling” quegli omicidi
particolarmente violenti agiti da psicopatici che non controllano
gli eccessi di rabbia e violenza, includendo quelli portati a termine da persone
connesse alla vittima, in cerca di vendetta e perciò disposte a
Volume 20 N° 3 - 2015
155
chi si appresta a stilare un profilo, in quanto possono condurre al presunto
colpevole.
C’è un secondo elemento, decisamente interessante, che prende il nome di
signature, meglio noto come firma criminale. Si tratta di un aspetto peculiare -
caratterizzato e caratterizzante - praticato al fine di appagare una necessità
emotiva. Tale gesto non è strumentale alla commissione di un delitto, ma
esprime le dimensioni intrapsichiche e di personificazione del reo. In buona
sostanza, la signature rappresenta una sorta di biglietto da visita capace di
raccontarne i pensieri, le fantasie e lo stesso movente. Una delle firme più
tipiche consiste proprio nel tagliare e nell’incidere.
Nell’omicidio Rea, i segni scalfiti sulla pelle appaiono inquietanti proprio in
relazione alla simbologia espressa: una croce di Sant’Andrea sul basso ventre,
una specie di grata a grosse maglie sulla coscia destra e una svastica su quella
sinistra. Quale significato si cela dietro tali ferite? La dichiarazione di un folle
ispirato a ideologie estremistiche? O forse la firma di un adepto appartenente a
qualche setta esoterica? Nulla di tutto ciò, probabilmente. Mancano, infatti, le
tipiche simbologie utilizzate dai satanisti e dalla magia nera (ad esempio il
disegno di una stella a cinque punte, residui di ceri accesi, cerchi formati da
sassi e via dicendo). È verosimile, d’altra parte, che gli attacchi sadici praticati
sui cadaveri siano una delle perversioni più comuni nelle organizzazioni
settarie. Tagliare, sfregiare, squartare e asportare organi vitali - infatti -
sfogare tutta la loro frustrazione nell’atto criminale.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
156
rappresentano le ritualità preferite da questi culti. L’analisi delle ferite post
mortem riscontrate sul corpo di Melania esclude l’ipotesi di signature: secondo
l’anatomopatologo Tagliabracci, esse sarebbero state inflitte in un arco
temporale compreso tra i 30-60 minuti successivi al decesso, mentre alcune
precederebbero addirittura di qualche ora il ritrovamento del cadavere. Appare
strano, quindi, che l’assassino intento a comunicare un messaggio mediante la
sua firma si dimentichi di farlo subito dopo il compimento dell’evento
omicidiario, decidendo di ritornare sulla scena del crimine per ultimare il
proprio disegno. Suddividere l’atto in più stadi è sicuramente molto rischioso,
ma un efferato camuffamento può voler esprimere un gesto di sfida
dell’offender indirizzato agli inquirenti34
. Nel caso in esame risulta chiaro che
gli oltraggi effettuati sul corpo della povera donna rientrino in un contesto di
alterazione funzionale, lungi dal riprodurre la firma del carnefice.
Lo staging, nel suo complesso, delinea in maniera esplicita la predisposizione
dell’assassino verso una volontà rappresentativa, in quanto persona legata alla
vittima da qualche tipo di relazione. La croce uncinata, il simbolo più
inquietante intagliato sul cadavere della Rea, si rivela di difficile
interpretazione. Il significato assunto dall’emblema, infatti, varia a seconda
delle circostanze e dei gruppi che lo impiegano. La sua lettura viene spesso
associata al rifiuto di Cristo, incorporando la figura del diavolo. Pochi sanno
che essa riproduce anche il trono pontificio, incarnando il martirio di San Pietro
34
Questo comportamento acquisito dal reo viene definito game playing.
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157
condannato alla crocifissione (il capovolgimento della croce rappresenta la
cessione del primato della fede). Nell’analisi esoterica della svastica, tuttavia, il
riferimento all’ideologia nazista è inevitabile. Ed è forse quello più immediato
da cui attingere senso. Il verso antiorario del simbolo, storicamente rovesciato
da Hitler, sancisce un carattere distruttivo ed oppressivo.
Mettersi seduti a terra ed incidere addome e cosce di un cadavere ricoperto di
sangue non è affatto facile, soprattutto se si tratta di una bella donna in
posizione supina con ancora gli occhi aperti. Forse è meglio aspettare che ne
sopraggiunga la morte, così da acquisire la giusta dose di audacia. La mano del
reo, difatti, non produce solchi amorfi come in balìa di un oscuramento
crepuscolare della coscienza, ma traccia segni precisi, mostrando una certa
dimestichezza con la cute umana. Le linee orizzontali, verticali e parallele
raffiguranti il complicato groviglio di intagli non presentano sbavature, se non
quelle derivate dai colamenti ematici. I tratti sono chiari, quindi agiti senza
alcuna esitazione, in uno stato abnorme di ordine mentale. Nel contempo
risultano delicati e poco profondi, come se l’offender avesse esaurito la carica
emotiva investita nelle fasi iniziali di overkilling35
. Ad ogni modo lo scopo di
una parziale depersonalizzazione è rimasto intatto. La svastica è il disegno che
colpisce maggiormente, a differenza degli altri di difficile comprensione grafica
35
L’arma utilizzata per scalfire le lesioni post-mortali si è rivelata diversa
rispetto a quella che ha provocato il decesso della vittima. Gli strani
disegni non sono stati realizzati con un coltello, ma con un oggetto a punta
leggermente tagliente. Forse un cacciavite, o persino un ramo
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
158
(dove comunque pare intravedere la medesima simbologia). La semplicità di
realizzazione, come forse qualche reminiscenza collegata al proprio retaggio
culturale, ha spinto l’offender ad operare questa specifica selezione. Non
dimentichiamo che, seppur depistando, solo chi vuole esternare un determinato
concetto decide di ispirarsi a segni così particolari. E lo fa comunicando
qualcosa di sé e della sua stessa preda. La semiotica racchiude sempre un’idea.
Melania ha subìto l’accettazione obbligata della sofferenza, come se la morte
fosse conseguenza diretta delle sue azioni passate. L’oltraggio aggressivo non
ne ha sfigurato semplicemente il fisico, ma ne ha punito i vissuti per mezzo di
una fine ingloriosa. Il significato della croce uncinata esplicita un sentimento di
ripugnanza nei confronti della donna, ove la nudità ed il posing ne rafforzano
l’offesa. Una forma di discriminazione etero-diretta, forse, indirizzata al suo
forte attaccamento emotivo, al suo essere salda ai princìpi di un tempo, alle sue
origini. I fregi postumi all’azione omicidiaria diventano monito di rancore, una
forma di repressione attuata come risposta ad un precedente impedimento.
Questi gesti impietosi narrano di una personalità schizofrenica, borderline,
perversa ma lucida, il cui odio e disprezzo diventano marchi incisi sulla carne.
spezzato.
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159
La siringa e il laccio emostatico: elementi circostanziali o frutto di
premeditazione?
Giovani donne sgozzate e lasciate seminude in un bosco. Gli occhi spalancati a
guardare il cielo, le mani giunte in preghiera. Il classico copione di una
macabra rappresentazione teatrale, come nel caso del delitto Rea.
I luoghi tra l’ascolano e il teramano - in apparenza tinti di solo verde - si erano
già macchiati di sangue in passato, poiché testimoni e custodi di un altro
efferato crimine. Nel 2010 sparisce improvvisamente una donna, Rossella
Goffo, funzionaria presso la prefettura di Ancona. Il suo cadavere verrà
rinvenuto nel gennaio dell’anno successivo, appena una manciata di mesi prima
dell’uccisione di Melania. I resti erano stati occultati proprio a Colle San
Marco, quasi sicuramente a seguito di una morte per strangolamento operata
con l’ausilio di un laccio. Le analogie tra i due omicidi avevano fatto
presupporre l’esistenza di un serial killer, ipotesi scartata dopo numerose e
comprovate indagini. Lo scenario di Ripe di Civitella, tanto è vero, si è
mostrato unico proprio in relazione al goffo tentativo di allestire un
depistaggio. Un giallo quasi da manuale se non fosse per quella serie di
contraddittorie simbologie che hanno seviziato e marchiato il corpo della
povera Melania Rea, instradando (con scarso successo) l’investigazione verso
direzioni improbabili. Se l’obiettivo dei disegni intagliati sulla carne era quello
di collegare l’omicidio a ritualità tipiche del satanismo, quale significato poteva
assumere una siringa conficcata sotto il seno sinistro della donna? Quel gesto è
apparso sin da subito come il chiaro, ma flebile sforzo, di legare l’omicidio al
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
160
vasto e ombroso mondo della tossicodipendenza. La somma dei dettagli, però,
fatica a sostenerne gli intenti. La vita della vittima, difatti, è stata scandagliata
accuratamente senza che siano emersi trascorsi riconducibili all’ambiente della
droga, constatazione rafforzata dall’esito negativo degli esami tossicologici
eseguiti in sede autoptica. L’elemento che a primo impatto ha destato maggiori
sospetti è il posizionamento della siringa, stranamente infissa nel petto e non su
una delle braccia di Melania. Così come il laccio emostatico, lasciato
appositamente in bella vista assieme ad altri reperti, ovvero:
- due cappucci di siringa monouso nei pressi della mano destra, posizionati
all’interno di una porzione di terra “pulita” (priva di fogliame), forse creata di
proposito.
- uno stantuffo, o meglio un pistoncino di siringa da insulina, sito al centro
della fessura tra le cosce.
Questi “errori” non potevano indurre a far credere che la giovane fosse
tossicodipendente. Le analisi effettuate su ciascun oggetto, tra l’altro, ne hanno
evidenziato lo stato di usura. Il laccio è sembrato sin dal primo momento
particolarmente ingiallito ed anelastico, quindi estraneo al contesto omicidiario.
La siringa, invece, ha necessitato di accertamenti più approfonditi. Dall’ago
sono stati estratti due profili genetici, entrambi non compatibili con quello di
Melania. Probabilmente appartenevano a chi aveva utilizzato in precedenza lo
strumento. Sulla parte esterna non sono state rilevate impronte o tracce
riconducibili all’unico sospettato, Salvatore Parolisi, marito della donna.
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161
Risulta scontato, a questo punto, che l’insieme degli elementi rappresenti un
appiglio circostanziale adottato dall’offender. D’altronde il bosco di Ripe si
presterebbe bene ad indossare le vesti di luogo d’incontro per giovani sbandati.
Ma se fosse realmente così, perché non è stato trovato materiale della
medesima tipologia in tutta la zona adiacente la scena del crimine? La
convinzione è che gli oggetti siano stati raccolti altrove, ma è difficile
determinare con esattezza quando ciò sia avvenuto. L’assassino, dopo aver
commesso il delitto, potrebbe aver vagato tra la Pineta alla ricerca di qualcosa
che lo aiutasse ad erigere la messa in scena. In un secondo momento sarebbe
poi tornato sul posto completando quanto si era figurato in quei brevi frangenti.
Questa ipotesi escluderebbe del tutto la premeditazione, convalidando il lasso
temporale in cui sono state inflitte le ferite post mortali. Tuttavia esiste un’altra
possibilità, un po’ più remota, ovvero quella di un preventivo
approvvigionamento degli strumenti. In tal caso, premunirsi di un laccio
emostatico ed una siringa già usati sembra una scelta poco sensata. Nulla, forse,
è insensato. Come la volontà di conficcare la siringa proprio su uno dei due seni
di Melania. Può darsi che l’offender abbia scelto il punto in cui l’oggetto
garantisse maggior aderenza, data la prosperosità delle carni. Sulle braccia
l’ago non avrebbe attecchito, in quanto rivestite dal giubbotto in pelle.
L’addome, d’altra parte, era già stato martoriato abbastanza. Solo supposizioni
suggestive.
E se anche dietro quell’insano gesto si celasse un messaggio? Il preciso intento
di infierire profonde ferite narcisistiche, deturpando l’immagine di una bella
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
162
donna. E lo si fa colpendo la parte più identificativa del corpo femminile, il
seno, simbolo di maternità. Quella stessa coniugalità che l’interezza dell’ago è
riuscita comunque a spezzare. Per sempre.
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167
Raffaella Gallo36
VANGELO CONTRO-VANGELO. UN’INDAGINE SUL RAPPORTO
MAFIA-CHIESA
RIASSUNTO
Da lunghi decenni l’Italia combatte contro un problema sociale di particolare
invasività, quello della mafia, cheattraverso una molteplicità di volti si insinua
nelle diverse sfere di gestione del potere, controllo del territorio,
amministrazione e dinamiche sociali, acquisendo forza e vigore tali da,
soprattutto in particolari zone, plasmare la società a sua immagine e
somiglianza.
Andando oltre a quell’importante ma tuttavia circoscritta ottica giornalistica
che tratta dei “soliti ed efferati fatti di cronaca che catturano – solo – per
qualche giorno la nostra attenzione” (don Ennio Stamile, in AA.VV. 2013, p.
9), in questo lavoro si vorrà adottare un più ampio sguardo sociologico al fine
di delineare quelle caratteristiche peculiari che fanno del fenomeno mafioso –
in particolare per ciò che concerne la ‘Ndrangheta – una vera e propria “società
nella società”: la sua struttura familiare, la sua organizzazione politica (di tipo
prevalentemente gerarchico) e legislativa (basata tanto sulla coercizione quanto
sulla manipolazione), ed infine, elemento meno studiato ma in realtà non meno
influente, la sua originale religiosità.
36
Sociologa, Criminologa, PhDstudent in Comunicazione Ricerca Innovazione
– “Sapienza” Università di Roma.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
168
Posta tale analisi, scopo del lavoro è quello di proporre una riflessione teorica
ed una possibile linea d’azione che riesca ad indebolire il fenomeno mafioso
attraverso l’abbattimento di tutti gli elementi che simultaneamente concorrono
al suo mantenimento.
Parole chiave:‘Ndrangheta, Mafia, Chiesa cattolica, Religiosità.
ABSTRACT
It’s been decades since in Italy we are facing a social problem which has a huge
invasiveness in our politics – that is, the problem of mafia. Through a
multiplicity of mask, mafia infiltrates itself in various domain of the public life
of our state, such as power management, territorial control, administration and
social dynamics, to the point that it acquired so much strength that it is able to
shape society in its image, expecially is some particular zones.
Besides the important – but, still, finite – journalistic perspective, which pays
attention only to the “soliti ed efferati fatti di cronaca che catturano – solo –
per qualche giorno la nostra attenzione” (don Ennio Stamile, in AA.VV. 2013,
p. 9), in this article I wish to enlarge the analysis by the use of a sociological
point of view, in order to delineate the peculiar elements which makes mafia a
“society inside society”, expecially in the case of ‘Ndrangheta. The elements
that give it this character of “society inside society” are its familiar structure of
‘Ndrangheta, its political organization (which follows a hierarchic structure) as
Volume 20 N° 3 - 2015
169
much as its legislative one (base both on coercion and manipulation) and, last
but not least, its originality in the fields of religiosity and devoutness.
Thus, the aim of my article is propose a theoric reflection on the base of which
could be possible to elaborate an active strategy that can weaken the
phenomenon of mafia by knocking down all the elements that cooperate
simoultaneosly to its growth.
Keywords: ‘Ndrangheta, Mafia, Catholic Church, Religiosity.
1. Genesi e aspetti peculiari del sistema mafioso L’intenso processo di modernizzazione subito dall’Europa a partire dalla
seconda metà dell’Ottocento creò in Italia una situazione di particolare
instabilità e precarietà sociale, incrementando esponenzialmente le richiesta di
tutela e protezione da parte del popolo. In presenza di strutture sociali incapaci
di rispondere alle esigenze del popolo e di uno Stato assenteista, la richiesta di
protezione venne così colta dalla mafia che, in origine, si configura quindi
come un gruppo di persone capace di fornire assistenza e servizi
paraistituzionali alle comunità locali in cambio di riconoscimento e rispetto.
Agli esordi del fenomeno mafioso italiano, quindi, gli uomini d’onore erano
visti come dei salvatori che aiutavano la comunità e svolgevano il ruolo di
mediatori e “sistematori” delle ingiustizie in un contesto di presenza oltremodo
altalenante delle istituzioni, che difatti in alcuni casi erano del tutto assenti. È in
tale particolare contesto storico-sociale che la figura del mafioso assume una
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
170
connotazione positiva di garante dell’ordine pubblico, e si induce la
conseguente legittimazione del suo potere, con sostegno tanto da parte della
comunità quanto dalle istituzioni ecclesiastiche. Il mafioso, in sostanza, era
colui che risolveva le controversie tra gli abitanti della comunità, organizzava
le processioni, aiutava economicamente la chiesa locale e garantiva giustizia
laddove le istituzioni non agivano, e quindi per tutte queste caratteristiche
veniva considerato un uomo di rispetto che conosceva i giusti mezzi per
garantire l’ordine sociale (Dino 2008).
Poste tali dinamiche a legittimare fin da subito la presenza della mafia nel
territorio italiano, essa poi, secondo un principio di adattamento necessario per
la sua sopravvivenza, a seconda della zona d’origine ha assunto caratteristiche
peculiari definendo così le diverse organizzazioni ormai a tutti note: la siciliana
Cosa Nostra, la ‘Ndrangheta calabrese, la Camorra campana e la Sacra Corona
Unita pugliese37
.
Nonostante ognuna di queste organizzazioni mafiose si distinguano
incisivamente tra loro, esse presentano alcuni aspetti comuni, che potremmo
definire sistemici, che sinteticamente possono essere descritti al fine di
comprendere al meglio il modo in cui il sistema mafioso si è inserito
edamalgamato nel tessuto sociale della nazione.
37
Una più approfondita analisi delle differenze e comunanze tra le varie mafie
andrebbe oltre l’intento di questo lavoro, e pertanto si rimanda per i dovuti
approfondimenti sull’argomento a Bianchini &Sicurella2007.
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171
Primo fra tutti, certamente, è la capacità di svolgere la propria attività
rimanendo nell’ombra e nella segretezza.
Una segretezza che, oltre ad essere un elemento di funzionalità, ha anche
concorso alla definizione identitaria del gruppo: In queste questioni riguardanti
la tecnica della segretezza non si deve dimenticare che il segreto non è affatto
soltanto un mezzo sotto la cui protezione devono essere incentivati gli scopi
materiali della comunità, ma che spesso, al contrario, la formazione di una
comunità deve servire a garantire che certi contenuti rimangano segreti. Ciò
accade nel tipo particolare di società segrete la cui sostanza è una dottrina
segreta, un sapere teorico, mistico, religioso. Qui il segreto è uno scopo
sociologico di per sé, in quanto si tratta di conoscenze che non devono
penetrare nella massa; coloro che sanno costituiscono una comunità per
garantirsi reciprocamente la segretezza. […] L’associazione offre a ognuno di
questi individui un appoggio psicologico per difenderlo dalle tentazioni della
divulgazione. […]L’iniziazione graduale del membro, a cui si è prima
accennato, rientra in un ambito sociologico formale molto vasto, entro il quale
si distinguono in modo particolare le società segrete: è il principio della
gerarchia, dell’articolazione graduale degli elementi di una società. La finezza
e la sistematicità con cui proprio le società segrete attuano la loro divisione del
lavoro e la gradazione dei loro membri sono connesse con un loro tratto
caratteristico, che si dovrà illustrare in seguito: con la forte consapevolezza
della loro vita, la quale sostituisce le forze organicamente istintive con una
volontà continuamente regolatrice, la crescita dall’interno con la conformità
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
172
costruttiva allo scopo. Questo elemento razionalistico della loro costruzione
non può esprimersi in modo più visibile che nella sua architettura chiara e
soppesata. […]Alle medesime condizioni di sviluppo della gerarchia
corrisponde, all’interno delle società segrete, la formazione del rituale […]
Ciò che colpisce nel trattamento del rituale nelle società segrete è non soltanto
il rigore con cui viene osservato, ma soprattutto la timorosità con cui viene
custodito in quanto segreto – come se il suo svelamento fosse altrettanto
dannoso quanto gli scopi e le azioni, o addirittura l’esistenza, della società.
L’opportunità di tutto ciò consiste probabilmente nel fatto che mediante questa
inclusione di un complesso di forme esteriori nel segreto l’intero ambito di
azione e di interesse della società segreta comincia a diventare un’unità
armonica. […] A causa di tale formalismo [indotto dai rituali e dalla
simbologia interni], come già a causa della gerarchia, la società segreta si
trasforma in una specie di controfigura del mondo ufficiale con il quale si pone
in antitesi” (Simmel, 1908; trad. it. di A. Cavalli, 1998, p. 328-332).
Si può convenire con Simmel nel considerare che la segretezza è in pratica il
principio motore dell’aggregazione: gli associati costituiscono una comunità
alternativa proprio in virtù del mantenimento del segreto, il quale si configura
non tanto come caratteristica della società segreta ma come causa della
costituzione di questa; la società segreta serve per fornire sostegno ed aiuto ai
membri nel perseguire l’obiettivo del mantenimento del segreto.
Viepiù, come emerge dalle ultime parole di Simmel, il senso identitario della
società segreta (mafiosa) è anche nel suo porsi come “controfigura del mondo
Volume 20 N° 3 - 2015
173
ufficiale”: la comunità che si viene a creare stabilisce al suo interno un preciso
codice comportamentale che definisce specifiche regole, diritti, doveri e
punizioni, configurandosi in questo modo a tutti gli effetti come una società
parallela che rinnega qualsiasi principio della società in cui s’insinua.
Ancora, procedendo nella disamina delle peculiarità della mafia italiana,
sembra utile analizzare le dinamiche psicologiche interne al rapporto tra
l’organizzazione mafiosa ed i suoi affiliati.
In tal senso l’argomentazione elaborata da Pomilla&Glyka(2010) propone di
leggere le dinamiche “mentali” proprie dell’organizzazione mafiosa applicando
la Teoria delle Rappresentazioni Sociali38
.
Il punto di partenza è considerare l’organizzazione mafiosa come “gruppo
sociale”, il quale viene definito dalla psicologia sociale secondo una serie di
criteri: l’interdipendenza e l’interazione tra i membri; la presenza di uno scopo
comune da perseguire; la consapevolezza di appartenere ad un ingroup; la
condivisione dei membri di sentimenti di appartenenza; il riconoscimento
dall’esterno (i soggetti dell’outgroup); una strutturazione interna del gruppo.
Tutti questi elementi sono perfettamente riscontrabili nei gruppi mafiosi, così
come qui di seguito verrà brevemente posto in rassegna.
38
Sebbene gli Autori facciano espresso riferimento alla mafia siciliana, è
comunque plausibile estendere le loro argomentazioni alle dinamiche
psicologiche proprie della mafia in generale, in quanto, come abbiamo visto e
continueremo a vedere, diversi sono i punti in comune tra le quattro
organizzazioni criminali italiane.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
174
I primi due criteri, l’interdipendenza e l’interazione tra membri del gruppo e la
presenza di un obiettivo comune, sono strettamente legati tra di loro: il
raggiungimento pieno di un obiettivo necessita di una collaborazione totale dei
membri del gruppo, quindi, ogni membro dipende dai suoi compagni se vuole
ottenere i risultati sperati; la collaborazione, a sua volta, richiede l’interazione e
il legame che si istaura tra i membri stessi. Detto ciò, ad esempio, risulta
evidente come il gruppo mafioso si crei grazie alla condivisione dei suoi
affiliati di un obiettivo comune, ovvero l’arricchimento economico e simbolico
per mezzo di azioni criminali e violente. Per quanto riguarda, invece, l’aspetto
dell’interazione, questa si concretizza attraverso due tipi di legami: i rapporti
personali che si instaurano tra i singoli membri del gruppo e il rapporto che
ogni singolo membro instaura con il gruppo in generale. Quest’ultimo tipo di
rapporto è quello sancito dai rituali di iniziazione che vincolano
indissolubilmente (se non per mezzo della morte) l’individuo al gruppo
stabilendo un legame “familiare” che diventa superiore a qualsiasi altro, inclusi
i legami di consanguineità.
Proseguendo con la disamina dei criteri che definiscono il gruppo sociale e che
sono riscontrabili nel gruppo mafioso, risulta evidente che l’affiliato è
consapevole di far parte di un gruppo criminale ed in esso trova la sicurezza e
la familiarità di cui ha bisogno, sviluppando un preciso senso di appartenenza;
inoltre, ogni membro sa di condividere il medesimo sentimento di appartenenza
con gli altri affiliati che percepisce come simili a sé. Nello specifico, tre sono
gli elementi motivazionali che permettono al singolo membro di percepirsi
Volume 20 N° 3 - 2015
175
come parte di un gruppo: la vicinanza fisica, che è il primo input che spinge gli
individui ad entrare in contatto tra di loro e a scegliere il medesimo gruppo; la
somiglianza, ovvero la percezione di avere interessi, valori e stili di vita comuni
con gli altri membri del gruppo; infine, l’identificazione, cioè quel
“meccanismo psicologico di identificazione con l’altro, che innesca anche un
processo di strutturazione della propria personalità ed identità sociale, in un
complesso sistema di interazione tra fattori soggettivi ed intersoggettivi”
(Pomilla&Glyka2010, p. 52).
Similmente, un gruppo (e un gruppo mafioso) è consapevole della propria
esistenza grazie al riconoscimento dello stesso da parte degli individui esterni:
le rappresentazioni sociali che i membri di altri gruppi sociali si costruiscono
riguardo il gruppo mafioso permette agli affiliati di rafforzare la propria
appartenenza definendo meglio chi è parte dell’ingroup e chi è parte
dell’outgroup e quali sono le caratteristiche di uno e dell’altro.
Da quanto detto finora risulta determinante il vantaggio emotivo, identitario ed
economico che ogni affiliato ottiene entrando a far parte della famiglia:
“nell’appartenere al gruppo mafioso, il singolo vede pienamente soddisfatti i
propri bisogni individuali di acquisizione di identità, esercizio del potere e
profitti economici” (Pomilla&Glyka2010, p. 52).
In ultimo, non resta che parlare dell’elemento della strutturazione interna del
gruppo che nel caso della formazione del gruppo mafioso acquisisce
un’importanza particolare. La mafia, infatti, instaura una gerarchia di potere al
proprio interno, più o meno articolata e rigida a seconda dell’organizzazione
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
176
mafiosa, e definisce un assetto di regole e leggi specifiche racchiuse nel
cosiddetto codice d’onore.
I coniugi Sherif nel 1969 definirono la struttura del gruppo come una rete di
ruoli e status ordinati gerarchicamente, intendendo questi come “modelli di
comportamento prevedibili associati non tanto ad individui particolari nel
gruppo, ma alle posizioni occupate da tali individui. […] La differenza
principale tra ruolo e status è di valore. I diversi ruoli in un gruppo possono
avere un valore simile, ma posizioni di status differenti sono, per definizione,
valutate in modo diverso” (Brown 2000, p. 73). La differenziazione di status è
necessariamente legata al confronto sociale che avviene entro una gerarchia ed
alla distribuzione di potere interna ad essa. La differenziazione di ruolo, invece,
è dovuta all’associazione di aspettative di comportamento diverse a seconda,
appunto, del ruolo attribuito ai singoli membri nel gruppo. All’interno della vita
di un gruppo la differenziazione dei ruoli assume un’importanza particolare, in
quanto i ruoli svolgono alcune fondamentali funzioni: prima di tutto servono
per effettuare una divisione del lavoro che facilita il raggiungimento degli
obiettivi che il gruppo si prefigge; in secondo luogo, le norme e i ruoli aiutano a
creare delle aspettative sul comportamento dei membri rendendo il gruppo più
disciplinato e prevedibile, quindi, più ordinato; terzo, contribuiscono
all’autodefinizione da parte dei membri delle loro stessa identità permettendo
loro di trovare la propria collocazione all’interno del gruppo. Da ciò, risulta
chiara la necessità da parte del gruppo mafioso di mantenere una qualche forma
Volume 20 N° 3 - 2015
177
di gerarchia e regolamentazione al suo interno, al fine di massimizzare il più
possibile la propria funzionalità e, quindi, il proprio losco profitto.
Quanto detto ci aiuta a comprendere meglio le dinamiche manipolatorie che si
instaurano tra il gruppo mafioso ed i suoi affiliati: “i processi che indirizzano
l’obbedienza criminale fanno si che il singolo membro possa pensare, sentire
ed agire secondo gli schemi del suo gruppo mafioso. Questi schemi, rigidi,
autoritari e soffocanti lo spirito critico del singolo componente portano alla
costruzione di una “mentalità chiusa e dogmatica”, che vede il cambiamento
come negativo e pericoloso e che si fonda su un pensiero monistico incapace di
dialogare con la differenza e con la pluralità” (Pomilla&Glyka2010, p. 54).
Ulteriore fondamentale elemento caratteristico che nel corso del tempo ha
accresciuto il radicamento del sistema mafioso nella società è quello del potere,
inteso sia nella sua ricerca che nella sua manifestazione attraverso forme di
violenza.
Relativamente ad una definizione del concetto di potere, nell’Enciclopedia
delle scienze sociali (1996, pp. 723-724) Lukes scrive: “nell'accezione ristretta
della nozione di potere, un agente sociale ha potere su un altro o su altri
quando è in grado di assicurarsi la loro obbedienza limitandone la libertà. Ciò
può essere ottenuto in vari modi. Un primo modo consiste nell'escludere
possibilità alternative, riducendole nel caso limite ad una sola. […] Un
secondo modo è quello di modificare [mediante la minaccia di sanzioni
negative] la relativa desiderabilità delle alternative che si prospettano agli
agenti, assicurandosi il loro conformarsi al nostro volere col porli di fronte a
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
178
una scelta che preferirebbero non fare. In questo caso si parlerà di coercizione.
Un terzo modo, infine, consiste nel manipolare un altro o altri agenti, sia
condizionandone le opzioni, sia strutturando le circostanze in cui si trovano ad
agire in modo che aderiscano a determinate alleanze o coalizioni, sia ancora
inducendoli o persuadendoli a nutrire determinate credenze e desideri. In
quest'ultimo caso si ha una forma di influenza, che consiste nel predisporre o
condizionare la volontà di un altro o di altri. L'influenza può essere esercitata
anche impartendo disposizioni che gli altri accettano come vincolanti, ossia
attraverso l'autorità, oppure fornendo ragioni o motivi per agire o non agire in
un certo modo, ossia attraverso la persuasione razionale”.
Ebbene, in tali parole possiamo facilmente ritrovare le modalità mafiose di
attuazione del potere sia nei confronti di soggetti esterni all’organizzazione, nel
caso dell’esercizio del potere tramite la forza e la coercizione che si palesano
nella violenza e nel controllo del territorio (in tal senso la gestione di attività
imprenditoriali di vario genere nonché il riscatto del pizzo), sia nei confronti
degli stessi affiliati attraverso le dinamiche di manipolazione e/o influenza
esercitata attraverso la formazione di una subcultura mafiosa che revisiona e
strumentalizza per i propri fini i codici culturali tradizionali, modificando le
mappe cognitive dei suoi membri che, fin dall’infanzia, divengono custodi di
dogmi, regole e valori alternativi.
Tuttavia, il potere mafioso può indubbiamente affermarsi grazie alla maestria
dell’organizzazione nelcreare intorno a sé una fitta rete di relazioni sociali,
infatti, come afferma RoccoSciarrone parlando del rapporto tra mafia e classi
Volume 20 N° 3 - 2015
179
dirigenti: “i mafiosi, oltre a essere specialisti della violenza, sono anche e
soprattutto specialisti di relazioni sociali. In questo senso, contribuiscono a
mantenere l’ordine sociale non solo ricorrendo all’uso della forza, ma anche
influenzando la costruzione sociale della fiducia: in altri termini, fondando un
sistema di regole basato sulla coercizione e strutturando un sistema di
relazioni che poggia su forme variabili di consenso sociale” (Sciarrone in
Stamile&Schinella 2007, pp. 52-53).
L’intrinseca capacità attrattiva della mafia, che le permette di coltivare con
successo la sua rete relazionale, consiste nell’elaborare efficaci strategie
incentivanti proponendo e dirigendo «giochi a somma positiva» in cui tutti i
partecipanti hanno qualcosa da guadagnare: l’organizzazione mafiosa nella
trattativa dei suoi affari utilizza strategie come “la negoziazione (che implica la
possibilità di voice), l’offerta di incentivi (non solo materiali ma anche
simbolici) o la capacità di indennizzare chi risulta temporaneamente perdente.
Del resto, promettere o offrire vantaggi a chi è disposto a cooperare può
indicare poi prendere una contropartita, ovvero la reciprocità dello scambio”
(ivi, p. 60)39
. È proprio questa capacità di incentivare la cooperazione attiva
degli altri attori sociali che caratterizza la forza attrattiva della mafia. Inoltre,
39
Ovviamente questo, come precisa l’autore, «non implica né la scomparsa né
il ridimensionamento dell’uso della violenza […] La cooperazione non è affatto
incompatibile con la minaccia dell’uso della forza, anzi presuppone spesso una
dipendenza e uno squilibrio tra gli attori. Essa inoltre non richiede necessaria
fiducia, e può anche essere conflittuale, senza tuttavia cessare di essere
cooperazione» (pp. 60-61).
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
180
dobbiamo tener presente che i nodi della rete non sono solo uomini d’onore,
politici e imprenditori collusi: nella trama di questa rete, oltre al mafioso ed al
politico che hanno stretto il cosiddetto «patto occulto», troveremo anche “il
candore delle fedine penali pulite, delle persone che non hanno neanche
ottenuto un favore dal mafioso o dal politico colluso, ma che amano il quieto
vivere” (Giap Parini in Stamile&Schinella2007, p. 80) o ancora persone che
vogliono lasciarsi aperta la possibilità di una collaborazione futura pronta
all’occorrenza.
Detto ciò è chiaro che la rete relazionale costruita dalla mafia è fondamentale
per il raggiungimento dei suoi scopi illeciti e illegali, ma è importante
comprendere il fatto che tali rapporti risultano sicuramente preziosi anche per
gli altri attori sociali collusi che ricoprono una posizione di potere nel sistema
sociale e che necessitano dell’istaurazione di rapporti di reciprocità con
l’organizzazione mafiosa per raggiungere i propri obiettivi. Così facendo gli
appartenenti alle classi dirigenti collusi40
altro non fanno che legittimare
l’operato mafioso all’interno della società, il quale già gode di un consenso
troppo ampio sul territorio.
Tre sono, quindi, le caratteristiche necessarie perché la relazione che intercorre
tra l’onorata società e i membri delle istituzioni (nel senso di classe dirigente
40
Parlando di classi dirigenti intendiamo in generale quelle categorie sociali e
professionali che al loro interno ospitano figure sociali e che ricoprono
posizioni di responsabilità politica, sociale, economica e culturale (Sciarrone
2007).
Volume 20 N° 3 - 2015
181
prima inteso) si istauri e perduri nel tempo41
: riconoscimento del potere e
dell’identità dell’altro, reciprocità del rapporto di convenienza e solidarietà che
si configura come reciproca protezione e reciproco sostegno. Infine, per
completare l’elenco degli elementi che compongono l’area grigia tra il lecito e
l’illecito “fatta di intrecci inconfessabili e contiguità compiacenti” (Grasso in
Sciarrone 2007, p.55) bisogna aggiungere un altro fattore, l’interdipendenza tra
i due attori. Tra mafia e classe dirigente non si può identificare un rapporto
gerarchico e di subordinazione, bensì una totale interdipendenza: la mafia
necessita dell’appoggio di chi detiene l’autorità legittima per raggiungere una
qualche forma di istituzionalizzazione; dal canto suo, la classe dirigente
necessita del potere della mafia e dei servizi che questa gli offre per perseguire
interessi illeciti che, in quanto potere legale, non può soddisfare senza
rinunciare al suo legittimo posto nella società.
Macosa caratterizza i legami propri delle reti mafiose? Per rispondere a questa
domanda si può richiamare la nota teoria dei legami deboli di Granovetter
(1973, trad. it 1991), che distingue i legami forti che istauriamo con i familiari,
gli amici ed in generale le persone che frequentiamo quotidianamente, dai
legami deboli che istauriamo con i semplici conoscenti. Nello specifico, i
legami deboli si configurano come “ponti” che forniscono l’accesso a
41
È bene precisare che si sta parlando del rapporto che intercorre tra due
categorie di attori sociali (i mafiosi e la classe dirigente) e non tra singoli
individui, per cui anche se lo specifico rapporto tra due soggetti si conclude, la
relazione tra le categorie prosegue senza problemi.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
182
informazioni e risorse al di là del gruppo sociale di appartenenza (composto di
legami forti) e sono fondamentali per il miglioramento dello status sociale
dell’individuo.
Anche le reti mafiose si compongono di legami forti, per ciò che riguarda il
rapporto tra gli affiliati di un medesimo clan (in molti casi consanguinei), e di
legami deboli, che viceversa si istaurano con il resto della società (istituzioni e
classi dirigenti, mafie estere, etc.), e che sono fondamentali poiché senza di
essil’organizzazione non potrebbe espandersi ed operare così fittamente sul
territorio nazionale ed internazionale e non otterrebbe il potere di cui gode, in
quanto questo deriva proprio dalla difficoltà di individuare e isolare legami
sfuggevoli. Inoltre, come ci insegna ancora Granovetter, nell’ambito
dell’organizzazione socialei legami deboli assumono maggiore importanza dei
legami forti: difatti, quando si spezza un legame forte l’individuo sicuramente
prova una sofferenza emotiva ma la sua rete sociale non subisce grandi
variazioni, mentre al contrario, se viene meno un legame debole, l’individuo è
costretto a riformulare tutto l’assetto delle sue relazioni al fine di progredire dal
punto di vista dello status sociale. Concordando con l’autore e rapportando la
teoria dei legami deboli al sistema mafioso, si può così spiegare perché la
cattura di un boss generalmente non crea troppi problemi all’organizzazione
che è in grado di riassestarsi in tempi abbastanza brevi, mentre distruggere un
legame funzionale con figure istituzionali creerebbe con buona probabilità un
rallentamento delle attività losche dettato da un eccesso di prudenza. Ciò
significa che per ipotizzare un’azione che possa realmente colpire il sistema
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183
mafioso è necessario mirare le connessioni che questa crea all’esterno, quindi,
puntare allo smascheramento delle collusioni nelle sfere istituzionali, politiche
ed imprenditoriali. Per dirla con le parole utilizzate da Giuseppe Fava scrivendo
della mafia nel 1983: «un solo nemico può batterla: lo Stato vero, lo Stato di
diritto, con i magistrati che fanno veramente giustizia, funzionari incorruttibili,
politici disposti a interpretare con assoluta moralità il loro mandato».
Avendo illustrato i meccanismi che danno vita alla rete di interessi che connette
l’organizzazione mafiosa con altre sfere della società, tocca ancora analizzare
lo specifico piano sociale e culturale sul quale questa stessa rete deve poggiarsi
per poter tessere i suoi fili. Molti studiosi ritengono che la formazione di un
sistema mafioso non sarebbe possibile se non ci fosse alla base del contesto
sociale in cui pone le sue radici un “pensare o sentire mafioso”, con questo
intendendo tutta quella serie di valori, atteggiamenti, usi e credenze
caratteristiche della mentalità italiana che vengono adottate dalla società
mafiosa e riformulate in una forma estrema funzionale al raggiungimento dei
suoi obiettivi. Senza entrare troppo nel dettaglio, il discorso è abbastanza
semplice: le organizzazioni mafiose non vivono e non agiscono nel vuoto
sociale, si generano e mutano all’interno di una società che possiede una sua
mentalità (intesa in senso sociologico come l’insieme delle idee, dei valori,
delle credenze, degli atteggiamenti e delle rappresentazioni mentali di una
collettività) ed è da questa stessa mentalità, già presente nel pensiero degli
affiliati, che muove i suoi passi fino ad estremizzare determinate credenze,
valori, tradizioni ed atteggiamenti creando una sua peculiare mentalità. Anche
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
184
Angelo Provenzano, figlio del noto boss mafioso, dà conferma dell’esistenza di
tale mentalità in un’intervista rilasciata a Il Giornale nel dicembre del 2008:
“Cos’è la mafia? Bella domanda… sono ancora oggi alla ricerca di una
risposta definitiva. Di primo acchito mi verrebbe da dire che è un
atteggiamento mentale. La mafia viene dopo la “mafiosità”, che non è
comportamento solo ed esclusivamente siciliano. La mafiosità si manifesta a
cominciare dalla raccomandazione per arrivare prima a fare una lastra o ad
avere un certificato in Comune. Ancora mi chiedo dov’è il limite, tra mafia e
mafiosità. Tra l’organizzazione criminale, per come la intende il codice penale,
e l’atteggiamento mentale, per come la intendono i siciliani. È il vecchio
discorso dell’uovo e della gallina. Secondo me la mafia è un magma fluido che
non ha contorni definiti. Per il codice la mafia è un’associazione per
delinquere, e su questo non discuto e non entro nel merito. Ma non si può
ridurre tutto a persone che sparano…” (in Pomilla&Glyka 2010, p. 56).
Quali sonoquindi quegli elementi culturali e sociali caratteristici della
popolazione italiana che favoriscono la permanenza e lo sviluppo del fenomeno
mafioso nella sua tipicità?
Il primo fra tutti è il clientelismo, che se da un lato, per determinate
caratteristiche politico-sociali, nel Sud Italiaè più evidente ed incisivo,
dall’altro non si può negare come esso sia una caratteristica
nazionale.Riprendendo Fantozzi (in Stamile&Schinella2007), il problema
principale risiede nella carenza di un appropriato sistema di regolazione sociale,
facendo riferimento ai criteri che guidano l’allocazione delle risorse, ai
Volume 20 N° 3 - 2015
185
meccanismi di funzionamento e integrazione, ed alla prevenzione e soluzione di
problemi e conflitti. In merito, Polanyiindividua tre produttori di regolazione
sociale: la politica, la comunità ed il mercato. La politica dovrebbe provvedere
alla redistribuzione delle risorse, cosa che in Italia non avviene correttamente in
quanto si presentano enormi disuguaglianze interne; la comunitàdovrebbe
organizzare il suo sistema normativo secondo il principio della reciprocità, la
quale si è trasformata in dipendenza o ricerca di privilegi (ibidem), soprattutto
in seguito alla trasformazione della famiglia italiana che oramai si configura
come principale ammortizzatore sociale; ed infine il mercato dovrebbe
configurarsi come un insieme di norme che regolano lo scambio con pari
beneficio tra coloro che ne sono coinvolti. Dal punto di vista sociologico,
nell’ambito dei principi che regolano lo scambio economico e sociale, “una
forma di scambio sociale è detta clientelare quando si riscontra una certa
conflittualità tra i criteri potenzialmente ampi - in alcuni casi addirittura
universalistici o semiuniversalistici - che regolano il libero flusso delle risorse
e gli sbocchi di mercato, da un lato, e i continui tentativi di limitare tale libero
flusso dall'altro” (Eisenstadt e Roniger 1992). In altre parole, ciò accade
quando“il diritto si trasforma in favore, ciò che dovrebbe essere garantito su
basi universalistiche viene gestito e centellinato su basi particolaristiche”
(Gian Parini in Stamile&Schinella2007, p. 81). Tenendo presente ciò,
potremmo affermare che là dove la reciprocità si trasforma in ricerca di
privilegi e favoritismo si gettano le basi per una perfetta armonia tra
l’organizzazione mafiosa e la sfera delle istituzioni politiche e sociali.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
186
Parlare di clientelismo ci porta inevitabilmente ad affrontare il discorso sul
familismo, secondo aspetto sociologico di fondamentale importanza che ci
permette di delineare in modo ancor più nitido le caratteristiche proprie
dell’Italia, e soprattutto del Mezzogiorno.
Il concetto di familismo amoraleè stato elegantemente e dettagliatamente
definito da Edward C. Banfield nell’opera“The Moral Basis of a
BackwardSociety” del 1957. L’autore formulò tale concetto nell’ambito di una
ricerca sociologica improntata sull’osservazione partecipata e sulla
somministrazione di questionari condotta in un paese della Basilicata che
denominò fittiziamente “Montegrano”(il nome reale del paese è Chiaromonte).
Obbiettivo delle ricerche di Banfieldera quello di dimostrare che l’arretratezza
socio-economica del Sud Italia dipendeva da un habitus culturale che porta gli
individui ad agire in favore della famiglia nucleare senza operare in alcun modo
per il bene collettivo: “massimizzare i vantaggi materiali e immediati della
famiglia nucleare; supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”,
così descriveva l’Autore la regola principale riscontrata nei “montegranesi”42
.
Nonostante le diverse critiche43
, il lavoro di Banfield assume un’importanza
rilevante per l’analisi sviluppata in questo lavoro, poiché evidenzia il passaggio
42
Per brevità non ci soffermeremo oltre sulle argomentazioni di Banfield
rimandando direttamente al riferimento bibliografico per ulteriori
approfondimenti. 43
Per approfondimenti, si vedano gli articoli di Ferragina (2011) e Ferrarotti
(2007).
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da una società organizzata collettivamente per perseguire il bene comune, che
presuppone dei diritti universali di cui tutti devono godere e dei doveri comuni
cui tutti devono assolvere, in favore di una società familistica che presuppone
diritti e doveri ad personam o, piuttosto, ad familiam.
La mafia calabrese, in particolare, più delle altre sembra essere diretta dai
principi del familismo amorale: la particolare forza della ‘Ndrangheta, infatti,
risiede proprio nell’aver strutturato la sua organizzazione prevalentemente sui
rapporti di consanguineità dei suoi affiliati, mettendo in risalto l’importanza
della famiglia e la principalità del benessere e del vantaggio di questa su tutti
gli altri rapporti sociali (elemento che si manifesta nella maggiore presenza di
faide e nella minore presenza di pentiti tra le file ‘ndranghetiste rispetto alle
altre mafie connazionali).
2. Tra sacro e profano: dalla devozione allo sfruttamento dei riti religiosi
Delineate le caratteristiche e le dinamiche che radicano il fenomeno mafioso
nel tessuto sociale italiano, entriamo ora nel cuore di questo lavoro ed
illustriamoil particolare ed ambiguo rapporto che la mafia, nello specifico la
‘ndrangheta, intrattiene con il mondo religioso, passando in rassegna i modi in
cui riti, simboli ed eventi religiosi vengono utilizzati per motivi materialistici o
devozionali.
A tal proposito, si è voluto individuare il confine tra devozione e utilitarismo
nella religiosità mafiosa con l’obiettivo, non tanto di una semplice descrizione
dei rituali e della simbologia che è possibile trovare in molta letteratura, ma di
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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comprendere a pieno il significato e soprattutto l’importanza che l’immersione
nella religiosità e nel mondo ecclesiastico assume per l’organizzazione mafiosa,
al fine di ipotizzare una reale azione della Chiesa (in quanto istituzione) che
possa effettivamente indebolire il pensiero e la “sacralità” tanto ricercata dagli
uomini d’onore.
L’onorata societàsi sviluppa in una trama fitta ed articolata di tradizioni e rituali
che assumono un valore identitario indispensabile per l’immagine misteriosa e
quasi mistica che essa vuole dare di sé. Ancora oggi, infatti, nell’era della
globalizzazione in cui la vita è invasa dal progresso e dalle nuove tecnologie, la
mafia sente il bisogno di immergersi nella tradizione e nel misticismo
inseguendo e difendendo con orgoglio le avventure dei cavalieri spagnoli Osso,
Matrosso e Carcagnosso che la leggenda vuolequali suoi fondatori. Il richiamo
alla simbologia religiosa, in particolare, assume per i mafiosi una fondamentale
importanza ai fini della costituzione di un’identità che in qualche modo
legittimi uno stile di vita violento e contrario alla moralità della società civile,
sorretto da una qualche forma di giustificazione divina.
Nell’analisi di tale questione, non è tuttavia possibile escludere alcuni
interrogativi: com’è possibile che una vita condotta all’insegna della violenza,
della vendetta, dello spargimento di sangue dettato dal puro interesse materiale
possa conciliarsi con i dettami evangelici che professano perdono e amore?
com’è possibile che i mafiosi non sentano il distacco e l’incompatibilità del
sentire religioso con le azioni criminali con cui macchiano le proprie mani?
Volume 20 N° 3 - 2015
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Utilizzando un approccio sociologico al fenomeno, si può tentare di dare una
prima risposta a questi interrogativi rintracciando una motivazione puramente
strumentale che considera la frequenza dei luoghi di culto, i generosi
finanziamenti elargiti alla chiesa locale e la protezione offerta dalla famiglia
mafiosa quali mezzi per acquisire legittimazione e consenso sociale. Inoltre,
ricordando che l’onorata società si configura in tutto e per tutto come un gruppo
sociale, come già visto in precedenza, si comprende che in quantotale necessiti
di rituali e abitudini che fungano da collante tra i membri: “per gli
‘ndranghetisti questi riti sono come la malta che tiene uniti i mattoni, segnano
un legame indissolubile, inscindibile. Nel rito si salda il senso di
un’appartenenza comune, si crea una separazione netta tra chi è ritenuto uomo
e chi no” (Gratteri &Nicaso2012, p.18).
In secondo luogo, da un punto di vista psicologico, potremmo considerare l’uso
di rituali pseudoreligiosi e la fede propria degli uomini d’onore come un
elemento funzionale al soddisfacimento di “bisogni primari di rassicurazione e
giustificazione del proprio operato in un’ottica fondata sulla de-
responsabilizzazione del singolo dentro un contesto associativo stringente e
totalizzante” (Dino 2008, p. 10).
La de-responsabilizzazione delle proprie condotte violente bene si esprime, ad
esempio, nel ruolo che gli ‘ndranghetisti assegnano alla figura della Madonna,
la quale si configura come “mandante” degli omicidi che devono compiere
(ecco che si manifesta a pieno la de-responsabilizzazione di cui sopra): come
spiegano ancora Gratteri e Nicaso (2012), infatti, molte condanne a morte
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
190
vengono pronunciate in occasione della festa in onore della Madonna di Polsi
proprio perché «La Madonna lo vuole».Viepiù, gli affiliati rivolgono preghiere
alla Madonna di Polsi anche prima di compiere un omicidio affinché ellali
protegga e protegga la loro missione o, attraverso una particolare preghiera, le
chiedono aiuto per uscire dal carcere quando ritengono ingiusta la condanna del
tribunale promettendo di “fare suora” la loro primogenita.
Un’altra figura preminente nella religione ‘ndranghetista è poi quella di San
Michele Arcangelo, il quale secondo la rappresentazione cattolica dotato di
spada e bilancia si fa guida delle armate celesti nella lotta contro Lucifero,
diviene fonte d’ispirazione per gli uomini d’onore che mirano a eguagliare la
sua forza e il suo valore: “San Michele Arcangelo che porta la spada e la
bilancia, con la spada difende e con la bilancia pesa l’onore della società” si
legge nel codice ‘ndranghetista di San Giorgio Morgeto (in Gratteri, Maddalon,
Nicaso&Trumper 2014, p. 118). Così nell’immaginario mafioso il Santo
diviene testimone dell’ingresso dei nuovi affiliati nella famiglia, parte
integrante del rito d’iniziazione,
Date queste brevi premessi generali, per meglio comprendere la religiosità degli
‘ndranghetisti, troviamo utile affrontare il discorso seguendo due
complementari ottiche osservative: da un lato, indagando la religiosità
collettiva strumentale, se così vogliamo chiamarla, ovverol’approccio
utilitaristico della famiglia mafiosa nei confronti dei luoghi religiosi e degli
uomini di chiesa; dall’altra, descrivendola personale ereale devozione degli
affiliati.
Volume 20 N° 3 - 2015
191
2.1. La reale devozione mafiosa
La devozione ‘ndranghetista si riscontra non solo in particolari riti propri
dell’organizzazione o nella partecipazione alle processionied altri eventi
religiosi, ma in particolare nella vita individuale degli affiliati in qualità di
personale forma di supporto spirituale.
Come spiegano Gratteri &Nicaso (2013, p. 19), nei bunker adoperati per
ospitare boss latitanti si trovano sempre immaginette sacre, crocifissi, rosari ed
altri oggetti simbolici della religione cattolica. Tutto ciò rappresenta la presenza
di una concreta, seppur distorta, fede cristiana.
Passaggio importante per comprendere appieno la religiosità mafiosa è quello
dell’analisi del rapporto che nell’immaginario mafioso s’instaura tra l’essere
umano e Dio.
Come spiega il filosofo Augusto Cavadi, i mafiosi non percepiscono
incompatibilità tra le loro azioni e le narrazioni bibliche dal momento che la
stessa Bibbia descrive Dio come un “Giano bifronte”, con un volto
misericordioso e l’altro vendicativo. Ebbene, la mafia prende a modello il Dio
vendicativo e violento descritto nell’Antico Testamento, senza considerare
l’evoluzione che Esso compie nel passaggio al Nuovo Testamento.
Ovviamente, in questa scelta risiede un importante e pericoloso processo di
antropomorfizzazione della figura di Dio che diviene sempre più simile
all’uomo (d’onore), in quanto in preda ad istinti violenti e vendicativi ed
incapace di provare misericordia e compassione: la rappresentazione mafiosa di
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
192
Dio delinea “un Dio antropomorfizzato, a misura propria e del proprio circolo
di sodali, privo di trascendenza, impegnato a gestire le gerarchie dei rapporti
umani, il cui agire risponderebbe a una logica contrattualistica e clientelare;
un Dio privo di tenerezza e amore, che non conosce gratuità. Un Dio – quello
dei mafiosi – piegato e costretto entro un recinto concettuale di potere e
violenza; capace anche di compiere vendette, sia pure attraverso la mediazione
degli uomini, e dei mafiosi in particolare. In nome di questo Dio, l’illecito
diventa lecito, la sopraffazione diventa giustizia, l’intimidazione diventa
rispetto; in poche parole, la sudditanza diventa costume diffuso e, quindi,
normale condizione di vita della comunità” (Dino2008, p. 35).
Un Dio compiacente e complice, in sostanza, creato a loro immagine e
somiglianza che giustifica, o addiritturaautorizza, i più efferati crimini per
amore ed onore della famiglia.
Altro aspetto del processo di antropomorfizzazione della divinità compiuto
dagli uomini di mafia, sempre stante il contributo di Cavadi, spiega il rapporto
tra il Dio in cielo e il Dio in terra (il boss) attraverso questo passaggio: “È un
Dio più padrino che padre, che incarna un’immagine di potere umano simile al
potere che il boss esercita e che vuole esercitare sempre di più. Non a caso
alcuni grandi capi mafia sono definiti padreterni”.
Qui vale la pena di riportare alcuni tra i più eloquenti esempi utili a dimostrare
la necessità da parte dei più autorevoli uomini d’onore a sentirsi e mostrarsi al
pari di un “dio in terra” potente e risolutore dei problemi. Ad esempio, il boss
di Archi Paolo De Stefano professava di agire i suoi delitti contro i
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“tragediatori” per conto della Madonna di Polsi, definendosi il suo “braccio
armato”. Dopo il suo assassinio, esattamente così come si fa nelle processioni
con i martiri, i suoi affiliati distribuirono a parenti ed amici cinquemila copie di
“santini” che ritraevano la sua immagine accompagnata da alcune frasi
bibliche.
Altro esempio deriva da un’intercettazione telefonica del 2009 della
conversazione tra Giulio Lampada (arrestato nel 2011 e condannato nel 2013
per associazione mafiosa) ed il suo avvocato, in cui lo ‘ndranghetista si
compiaceva d’essere stato investito della nomina a Cavaliere dell’Ordine di San
Silvestro Papa: “dopo aver ricevuto targhetta e distintivo”si sarebbe fatto
preparare“un’alta uniforme su misura”, afferma il Lampada, così che “ora in
tutte le diocesi mi dovranno chiamare Eccellenza” (in Gratteri &Nicaso2013,
p. 20; Russo in AAVV 2013, p. 58). In tale caso, se dal Vaticano giunge
l’ammissione che nel caso di Lampada siano mancati gli approfondimenti e la
verifica dei requisiti, tanto da porre inconsapevolezza del suo status di mafioso,
si sottolinea tuttavia la necessità da parte dei mafiosi di acquisire queste cariche
percepite come un’ufficiale investitura da parte di Dio per mano della Chiesa.
Questo aspetto non rinvia soltanto ad una necessità di “sacralizzazione” della
propria figura e del proprio operato, bensì anche al bisogno di riconoscimento
sacro ed ecclesiastico del proprio potere: i mafiosi con alte cariche all’interno
dell’organizzazione confermano e legittimano il proprio potere proprio tramite
l’assegnazione di tali titoli che, nell’ottica mafiosa, equivalgono ad
un’assegnazione di potere divino da esercitare tra gli uomini.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
194
2.2. La religiosità collettiva strumentale
I principali sacramenti religiosi (battesimo, cresima e matrimonio) sono
strumenti fondamentali per la vita dell’organizzazione mafiosa, poiché è
proprio attraverso di essi che l’onorata società instaura alleanze e rafforza
legami: padrini/madrine di battesimo e cresima e compari d’anello44
ricoprono,
come vedremo, un ruolo indispensabile per i bambini/ragazzi e per gli sposi cui
riversare tutta la fiducia possibile in un’ottica di sostegno e protezione.
Analizziamo più attentamente questi importantissimi aspetti della tradizione
mafiosa.
Battesimo e cresima sono prima di tutto strumenti simbolici attraverso i quali
gli affiliati creano legami intimi e spirituali: molto spesso il ruolo del
padrino/madrina durante il battesimo e la cresima viene affidato ad un affiliato
di rango superiore (se non addirittura al boss o alla moglie del boss), così che
il/la prescelto/a possa fare da guida non solo spirituale, come vorrebbe l’uso
ecclesiastico del ruolo, ma anche pratica nella crescita all’interno della ‘ndrina.
I sacramenti del battesimo e della cresima si configurano quindi come una sorta
di pre-adesione dei giovani alla “famigliamafiosa”, adesione che verrà poi
44 Quella del compare d’anello è una, ormai, arcaica figura della tradizione
dell’Italia meridionale: il compare d’anello era scelto dalla coppia come
custode e testimone del vincolo matrimoniale (diverso però dal testimone come
lo si intende solitamente) al quale veniva affidato il compito di consegnare gli
anelli agli sposi durante la cerimonia. Come accennato, quella del compare
d’anelli è una figura che va pian piano scomparendo nella tradizione
meridionale, probabilmente proprio perché riconducibile alle usanze mafiose.
Volume 20 N° 3 - 2015
195
concretizzata con il rito d’iniziazione. In questi casi il ragazzino fino ai
quattordici anni (età minima per l’effettivo ingresso nell’onorata società) verrà
denominato “giovane d’onore”e sarà considerato “mezzo dento e mezzo fuori”
dell’organizzazione (Russo in AAVV2013, p. 51).
Il rito d’iniziazione, che in termini dialettali nel linguaggio ‘ndranghetistaviene
chiamato u battizzu o u vattiju, ha chiara e non casuale assonanza con il termine
italiano “battesimo”: attraverso il rito iniziatico, infatti, i neo-affilati accettano
di rinunciare alla loro vita come fino ad allora vissuta per “rinascere” come
uomini d’onore pronti a votare la propria esistenza alla famiglia ed al codice da
essa proposto.
Dalle diverse testimonianze fornite dai collaboratori di giustizia, così comein
alcuni esempi che si riporteranno in seguito, sappiamo che il rituale iniziatico
richiama, nei gesti e nelle parole, elementi presi in prestito dalla simbologia
religiosa.
“Nel corso del rito di iniziazione mi praticarono un taglio a forma di croce
sulla parte superiore del pollice destro vicino all’unghia (ove ho ancora una
piccola cicatrice del taglio verticale; l’asse trasversale non viene incisa così
profondamente per evitare che la cicatrice sia troppo evidente a forma di
croce). Inoltre preciso: dal mio dito destro dovevano cadere tre gocce di
sangue dentro un piatto, quindi… omissis… prese un santino di S. Michele
Arcangelo, lo bruciò parzialmente e mise la cenere sulla ferita in modo tale che
essa guarisse. Quindi bruciò completamente il santino e mi disse: quando noi
non ci saremo più, saremo come questa polvere(testimonianza di Luciano
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
196
Piccolo raccolta nell’ordinanza dell’operazione “Crimine”: Russoin AAVV
2013, p. 54).
“Commisso [braccio destro del boss] si alzò dalla sedia, si avvicinò a me
prendendo il mio dito indice che sanguinava e tenendolo sul fuoco del santino
che bruciava disse: «come il fuoco brucia questa sacra immagine, così
brucerete voi qualora vi macchiate di infamità». Continuò dicendo: «se prima
vi conoscevo come un contrasto onorato da oggi in poi vi conosco come un
picciotto d’onore, se commettete infamia sarete punito con la morte, come voi
sarete fedele alla società così essa sarà fedele con voi e vi aiuterà e vi
assisterà, questo giuramento potrà essere sciolto solo con la
morte(testimonianza di Francesco Fonti tratta da alcuni Verbali di
interrogatorio, in Gratteri &Nicaso 2013 pp. 41-42).
Come è possibile notare dalle testimonianze citate, i rituali di iniziazione
presentano alcuni elementi di notevole interesse: l’invocazione della
testimonianza di una figura sacra (solitamente San Michele Arcangelo, più
raramente la Madonna o Gesù Cristo) così da conferire sacralità al momento; il
fatto che il patto venga sugellato con il sangue, così da creare un marchio di
riconoscimento sulla pelle del nuovo giunto (la croce che diventerà poi
cicatrice); la necessità di porre il soggetto al cospetto di una prova fisica,
l’esposizione al fuoco, per testare la sua virilità e la sua forza (Di Bella a
proposito afferma “bisogna stare fermo anche se ti bruci, altrimenti non vali
niente”).
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197
Al di là questi elementi puramente simbolici, i giuramenti da recitare a
memoria sono fondamentali: al neo picciotto si chiede di rinnegare la vita
precedente e finanche la sua stessa famiglia qualora dovesse andare contro la
“nuova famiglia”, con relative minacce di morte qualora dovesse “sgarrare”o
macchiarsi di tradimento o infamia.
C’è anche una parte per così dire “normativa” del rito45
: il neofita deve
dimostrare, sempre tramite frasi recitate a memoria, di essere a conoscenza
degli “elementi” che l’organizzazione mette a sua disposizione nonché del loro
corretto uso. Il rituale di iniziazione, in sostanza, si configura come una sorta di
libretto delle istruzioni messo a disposizione dei neo affiliati all’interno del
quale sono elencati diritti e doveri, agevolazioni e punizioni e tutto ciò che
comporta entrare a far parte della ‘ndrangheta.
Infine, le funzioni del rituale iniziatico sono anche, e soprattutto, sociali.
Avviene infattiun vero e proprio cambio di “status”, i neo affiliati si sentono e
vengono percepiti come uomini nuovi, guadagnando rispetto ed onore al
cospetto degli altri affiliati, e con essi instaurando un indissolubile legame
sociale: “i richiami reiterati e manifesti a forme di religiosità (…) che
accompagnano il prescelto nell’attraversamento della soglia, nel superamento
della linea di confine che separa due mondi solo apparentemente lontani,
portano al rafforzamento del nuovo legame sociale, alla idealizzazione della
45
Per alcuni esempi rimandiamo ai diversi testi di Gratteri e Nicaso già citati, e
nello specifico alle trascrizioni del Codice di Seminara del 1896 (Gratteri
&Nicaso 2012, p. 25).
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
198
nuova condizione conseguita; strappano all’anomia, contribuiscono a
garantire il conferimento di una identità forte, di uno status circondato da
considerazione sociale, da rispetto” (Dino2008, p. 54).
Ancora una volta esplicative sono le testimonianze del collaboratore di giustizia
Di Bella: “Uno battezzato rispetto agli altri si crede e si sente come un dio. Lui
è un dio. […]Insomma, il battezzato non considera più gli altri come esseri
umani con una vita, un cuore, desideri e affetti. Gli altri non esistono più e, se
rompono, basta spaventarli, ammazzarli. Noi della ‘ndrangheta non vediamo
gli altri come persone. Li ignoriamo, pensiamo che sono tutti degli sfigati, dei
fessi, gente senza palle che tiara avanti con mille euro al mese, senza una
dignità, una gioia” (Di Bella in Nuzzi e Antonelli 2010, p. 27).
Ruolo simile ma più articolato ricopre invece il sacramento del matrimonio, in
quantoattraverso di esso si accrescono numericamente le ‘ndrine formando
nuove famiglie sulla base di un legame-vincolo con famiglie già esistenti.
Essendo uno strumento cardine dell’organizzazione mafiosa, al fine di non
incontrare opposizioni da parte della società civile e delle istituzioni, non è
infrequente che i matrimoni di convenienza vengano celebrati in luoghi diversi
dalla chiesa (ad es. cappelle private di hotel), soprattutto se lo sposo è un
latitante e il matrimonio è necessario per il benessere della famiglia, oppure che
vengano registratitardivamente nei registri dello stato civile (art. 13 del vecchio
Concordato) (Gratteri &Nicaso 2013, p. 77).
In ultimo,anche la cerimonia funebre detiene una grande valenza
nell’organizzazione mafiosa: i defunti devono essere ricordati come benefattori
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199
che hanno dedicato la vita al bene comune ed alla giustizia, uomini apprezzati e
stimati per le loro azioni compiute all’insegna dell’onore. È per questo che i
funerali devono essere sfarzosi ed eclatanti e tutti i personaggi di spicco della
‘ndrangheta, soprattutto se alleati della ‘ndrina cui apparteneva il defunto,
devono accorrere e rendere omaggio. Per rendere idea della grandiosità dei
funerali riportiamo un esempio tra tutti, ripreso da Gratteri e Nicaso (2013),
inerente ladescrizione fatta dai Carabinieri nella relazione di servizio in
occasione dei funerali del boss Girolamo Piromalli (detto «Mommo») celebrati
nella chiesa parrocchiale di Sant’Ippolito a Gioia Tauro il 13 febbraio 1979:
“Alle 16 in punto, il feretro, portato a spalla da sei persone, seguito da
familiari e parenti e da circa 5.000 persone, partiva dalla casa dell’estinto […]
Tutta la cerimonia svoltasi in forma solenne con la partecipazioni di quasi tutta
la popolazione di Gioia Tauro ha toccato momenti di pura coreografia, tenuto
anche conto che la cassa funebre […] di legno pregiato, aveva delle rifiniture
bronzee cromate applicate ai quattro bordi, raffiguranti disegni e ricami su
ogni lato e sulle quali erano ricavate quattro piedi a forma di zampa d’aquila o
di leone come per significare che la stessa contenesse un personaggio di alto
prestigio e di comando nella malavita organizzata. (…) Tra quelle 5.000
persone erano presenti “assolutamente non curanti della presenza dei fotografi
e delle forze dell’ordine, sotto una pioggia battente, centinaia di capibastone e
affiliati di tutte le consorterie calabresi [che] accompagnano il feretro di don
Mommo” (in Gratteri &Nicasto2013, p. 66).
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
200
Perché tanta importanza dei sacramenti nella vita della criminalità organizzata
di stampo mafioso? Perché per assumere un valore strumentale e simbolico i
sacramenti mafiosi devono necessariamente coincidere con i riti cristiani?
Perché, come spiega Dino (2008), i riti mafiosi devono combaciare con quelli
cattolici “per coltivare, all’esterno, quell’apparenza di normalità, di
rispettabilità che esce sicuramente rafforzata dalla legittimazione –diretta o
indiretta che sia – del rapporto instaurato con la Chiesa”(Dino 2008, p. 79): lo
svolgersi di tali riti in un luogo religioso, o comunque tramite un ministro di
Dio, permette di acquisire legittimazione dinnanzi al Padreterno, oltre che
legittimazione sociale – in una comunità in cui la religiosità assume un ampio
valore e la frequente pratica religiosa è spesso sinonimo di giustezza morale,
ricevere con devozione i sacramenti assume un’importanza cruciale ai fini
dell’acquisizione del consenso sociale.
Un altro aspetto di quella che abbiamo definito “religiosità collettiva
strumentale” è sicuramente quella che potremmo definire “appropriazione
indebita” degli eventi religiosi da parte dell’onorata società: il terzo
comandamento “ricordati di santificare le feste” sembrerebbe essere uno dei più
cari agli ‘ndranghetisti, i quali per astuzia sociale, se così vogliamo definirla,
non mancano mai di partecipare individualmente e come famiglia alle feste
religiose. È ormai noto a molti, infatti, il particolare interesse dei mafiosi per le
processioni ed i festeggiamenti in occasione di ricorrenze religiose, interesse
che si manifesta non solo con la presenza fisica ma anche attraverso il desiderio
di far parte dell’organizzazione delle stesse con donazioni di ingenti somme di
Volume 20 N° 3 - 2015
201
denaro, o stabilendo i percorsi delle processioni o ancoradecidendo i rituali dei
festeggiamenti. Il tutto, in pratica, per rivestire un ruolo di spicco nella
direzione di tali eventi.
Nuovamente, con la partecipazione attiva agli eventi più importanti della vita
religiosa della comunità gli uomini d’onore legittimano la propria potenza
dimostrandosi portatori e difensori di valori tradizionali (invero dal significato
distorto) (Stabile1996). Offrire sostegno economico e materiale per la gestione
delle processioni è indispensabile per manifestare la propria devozione ed
anche per acquisire visibilità: dato che le processionirappresentano eventi a cui
tutta la comunità partecipa, esse diventano occasioni per ostentare il proprio
potere e la propria presenza sul territorio.
Prendiamo a titolo di esempio la processione dell’Affruntata che si svolge
perlopiù nel periodo pasquale nei paesi della parte meridionale della Calabria
(province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e nel sud della provincia di
Catanzaro)46
. In tale occasione vengono portante a spalla le tre statue di Maria
Addolorata, Cristo e San Giovanni, e messo in scena l’evento della
Resurrezione. Nello specifico della pratica la statua di San Giovanni,
messaggero della resurrezione, “corre” più volte avanti e dietro tra le altre due
finché all’ultimo passaggio le statue di San Giovanni e dell’Addolorata
s’incontrano correndo l’una verso l’altra davanti a quella di Cristo. Nell’ultimo
incontro il velo nero del lutto viene tolto dalla statua di Maria mostrando il
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
202
vestito di festa. In alcuni casi, la statua di San Giovanni viene alzata e abbassata
tre volte davanti quella della Madonna, a rappresentare tre inchini offerti
all’Addolorata.
Il diritto di portare le statue in spalla vienegeneralmente dato in base a privilegi
ereditati dalla singole famiglie, ma in altri casi viene letteralmente comprato nei
giorni precedenti attraverso un sistema d’asta, denominato incanto, che
presenta diverse modalità a seconda dei paesi47
.
Si è voluto illustrare lo svolgimento della processione dell’Affruntata perché si
ritiene che questa, tra le tante, sia quella che possiede il maggiore significato
simbolico per la ‘ndrangheta: la mafia locale si serve di tale processione per
mostrare in modo inequivocabile la sua imponenza sul territorio, mostrando
finanche la sua gerarchia interna e affermando il suo potere davanti agli occhi
dell’intera comunità48
. Nello specifico, così come spiega il collaboratore di
giustizia Rosario Michenzi, “i picciotti battezzati durante l’anno fanno la loro
prima apparizione pubblica in occasione dell’Affruntata: devono portare la
46
Più precisamente, a Pazzano (RC) la processione dell’Affruntatasi svolge nel
periodo di agosto nei giorni della Festa del Santissimo Salvatore. 47
Nel Comune di Sant’Onorio, che è tra i maggiori centri di infiltrazione
mafiosa, l’incanto prevede ad esempio la consegna di una busta sigillata
contenente l’offerta che gli interessati intendono elargire alla chiesa, e
chiaramente il diritto di portare le statue in spalla verrà concesso ai donatori più
generosi. 48
L’importanza della processione dell’Affruntata è stata accertata a livello
giudiziario per la prima volta nel 2010 nel corso dell’indagine “Sfruntati”
coordinata dalla DDA e condotta dalla Squadra Mobile di Catanzaro.
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statua di San Giovanni e come San Giovanni inchinarsi davanti alla statua
della Madonna portata dai capobastone” (Arena in AAVV 2013, p. 65), e
ancora “nell’occasione dell’Affruntata i santi venivano sorteggiati, ma il
sorteggio era una pura formalità atteso che la statua di San Giovanni veniva
affidata sempre a persone appartenenti alla cosca. In pratica, chiunque
intendeva partecipare all’incanto, al di fuori della famiglia, veniva minacciato
e invitato ad astenersi; all’interno della congrega vi era quasi sempre un
rappresentante o più della costa che sapevano a priori a chi dovesse andare
assegnata la statua di San Givanni” (Gratteri &Nicaso 2013, p. 60). In pratica,
la processione dell’Affruntata si configura come una sorta di “debutto in
società” dei neo-affiliati, con tanto di inchino al cospetto dei capobastone, il
tutto apertamente svolto davanti all’intera comunità così testimone della
gerarchia e del potere mafioso.
A questo punto vale la pena di chiedersi: quali sono le possibili cause che
hanno permesso agli ‘ndranghetisti di fare da padroni alle feste religiose? Una
risposta sociologica viene data nuovamente da Alessandra Dino, allorquando
afferma che nel Sud Italia la Chiesa è stata per troppo tempo dedita agli aspetti
formali ed esteriori: fino a tempi relativamente recenti il Mezzogiorno ha
vissuto una Chiesa d’apparenza in cui il finanziamento dei riti religiosi e la
puntuale frequenza alla messa domenicale erano gli unici aspetti importanti
della religiosità dei fedeli; una Chiesa che non ha investito sul rapporto intimo e
sincero con i fedeli favorendo “lo sviluppo del processo di evangelizzazione”.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
204
È dunque in questa particolare concezione della religiosità che ha trovato
spazio lo sfruttamento dei riti religiosi da parte dell’organizzazione mafiosa,
che con la disponibilità di ingenti offerte ed aiuti materiali nell’organizzazione
degli eventi ha strutturato parte del consenso sociale.
3. La Chiesa davanti alla mafia
“Zu Luigi è bene ammanicato. Si racconta che per evitare il soggiorno
obbligato fece ricorso ad una petizione estorta col terrore e a strani
certificati di buona condotta rilasciati dal vescovo dell’epoca. «Con la
Chiesa aveva un rapporto speciale» ricorda il nipote, Luigi Bonaventura,
un omicidio alle spalle, oggi collaboratore di giustizia. «Come tutti i
crotonesi, era particolarmente devoto alla Madonna di Capocolonna e a
san Dionigi, patrono della città. Ripeteva spesso che i preti è meglio
averli come amici, potevano sempre servire e costituivano un buon
biglietto da visita»49
(Gratteri &Nicaso2013, p. 64).
Questa citazione ci sembra esplicativa e riassuntiva dei punti cardine del
rapporto che i mafiosi (gli ‘ndranghetisti nello specifico) intrattengono con
l’istituzione ecclesiastica, con gli uomini di chiesa e con la religiosità in
generale: è comodo avere la Chiesa dalla propria parte; è meglio riverirla,
rispettarla e proteggerla, almeno finché asseconda gli interessi della famiglia.
49
“Zu Luigi” (zio Luigi) era un temuto boss crotonese degli anni ’60,
conosciuto all’anagrafe come Luigi Vrenna.
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Trattato l’atteggiamento ed il rapporto che la mafia tiene nei confronti della
Chiesa e della religiosità, l’altra faccia della stessa medaglia è rappresentata
dall’atteggiamento che la Chiesa ha avuto ed ha nei confronti della mafia,
ovvero le dinamiche che nel corso dei decenni hanno consentito l’istaurarsi di
ciò che a nostro avviso, così come verrà spiegato nelle prossime pagine, ha
costituito un rapporto ambivalente ed ambiguo50
che solo di recente ha
finalmente condotto ad una piena presa di consapevolezza (da parte della
Chiesa) sull’effettiva incompatibilità tra i precetti cristiano-cattolici ed i
principi valoriali viceversa proposti dall’onorata società.
Per diversi decenni, difatti, l’atteggiamento della Chiesa e dei singoli uomini
che ne fanno parte (salvo, ovviamente, alcuni illustri esempi) è sembrato essere
un misto di inconsapevolezza e negazione: da un lato effettiva miscredenza ed
ingenuità rispetto alle condotte mafiose, dall’altro una forma di silenzio che,
forse anche per comodità, ha creato ulteriori collusioni e complicità.“Per dirla
50 La scelta dei due aggettivi, spesso confusi come sinonimi, non è un caso.
L’intento è quello di specificare un atteggiamento della Chiesa nei confronti dei
mafiosi che: per un verso, è delineato da diverse percezioni e diversi sentimenti
derivanti da polarità e contrapposizioniinsitinella Chiesa stessa (relativi ad es.
alla duplice figura biblica di Dio tra Antico e Nuovo Testamento, oppure alla
convivenza dei principi di umiltà e povertà con lo “sfarzo di ricchezza” della
Chiesa), che hanno probabilmente portato alla tolleranza di alcuni
comportamenti (ambivalenza); per altro verso, alla non chiarezza delle
posizioni della Chiesa rispetto al fenomeno mafioso (ambiguità).
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
206
banalmente, la storia della Chiesa italiana è tanto la storia oscura di Don
Frittitta quanto la storia eroica di Don Puglisi” (Fiorita2012, p. 4)51
.
Come in precedenza già detto, certamente ciò è stato in parte determinato da
quell’atteggiamento “da buon cristiano” mantenuto dai mafiosi che si delineava
nell’assidua frequenza alle celebrazioni e manifestazioni religiose, con tanto di
partecipazione fattiva ed economica, tale da non favorire la piena comprensione
della reale natura di tale devozione da parte degli ecclesiastici.
Nella disamina di tale fenomeno, imprescindibile appare la descrizione tanto
delle azioni dei singoli sacerdoti operanti nei territori della mafia, quando delle
posizioni dell’istituzione ecclesiastica, così come a seguire verrà evidenziato.
Cominciando dal primo aspetto, relativo all’operato dei singoli uomini di
chiesa, ad ulteriore esemplificazione dell’ambivalenza sopra citata si vogliono
intanto riportare le vicende di due esponenti di spicco del mondo ecclesiastico
contrapposti tra loro: don Giovanni Stilo e don Natale Bianchi.
In un articolo del 2011 dal titolo “Su alcuni episodi ricorrenti di infiltrazione
criminale a margine di espressioni collettive della pietà popolare del
mezzogiorno”52
, Francesco Zanchini di Castiglionchio racconta di quando negli
anni ’70 fu chiamato a difendere una comunità della Locride molto vicina al
parroco locale, don Bianchi, divenuto bersaglio della ‘ndrangheta in seguito ai
tentativi di impedire le infiltrazioni mafiose nell’organizzazione della festa di
51
http://www.statoechiese.it/index.php?option=com_content&task=view&id=5
45&Itemid=40 52
http://www.oalib.com/paper/2125441#.VIxWSt7Gc6U
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San Rocco a Gioiosa Ionica. Per questo motivo don Bianchi era stato definito
“una testa calda” ed un comunista, e quindi rimosso dal suo incarico per mano
di Monsignor Francesco Tortora. Le vicende di don Bianchi, tuttavia, non si
limitano a tale revoca: ciò che si vuole qui raccontare è difatti lo scontro che
egli ebbe con don Stilo in seguito ad alcune schiette dichiarazioni rivolte a
quest’ultimo, contenute nel libro “Africo”(1979) dello scrittore Corrado
Stajano, e che lo condussero a giudizio con l’accusa di diffamazione. Durante il
processo il Giudice chiese a don Bianchi di ripetere le dichiarazioni fatte allo
scrittore, il quale racconta: “dopo aver raccolto tante voci nella zona
sull’importanza di don Stilo come elemento mafioso, espressi a monsignor
[Michele Alberto] Arduino [vescovo di Locri] i miei dubbi. Gli dissi del mio
smarrimento per quella figura che gettava discredito sulla Chiesa. Il vescovo
mi disse che anche se in passato don Stilo aveva coltivato certi legami, ora
stava cercando di liberarsene. Mi disse anche di non parlare troppo di queste
cose, perché avrei potuto rischiare la vita” (Gratteri &Nicaso 2013, p. 135).
A tali dichiarazioni Don Stilo replicò: “l’ho conosciuto dopo che era stato
estromesso dai salesiani per un «vizio mentale» [il riferimento è alle sue
posizioni favorevoli al divorzio e, in generale, al suo non allineamento alle
posizioni delle gerarchie ecclesiastiche]. Se fosse vero quanto afferma, perché
non sono mai stato neppure ammonito dall’autorità ecclesiastica? Anch’io
parlai con monsignor Arduino per chiedermi di autorizzarmi ad andare in
giudizio contro don Bianchi. Il vescovo mi fece presente la situazione di don
Bianchi, «gravemente esaurito», e mi consigliò di lasciar perdere. Se sono
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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colpevole, voglio che lo si provi con i fatti e non con dicerie di spostati”
(Gratteri &Nicaso 2013, p. 136).
A quel punto il Giudice chiese a don Stilo se fosse vero che aveva minacciato
don Bianchi dicendo “fai attenzione, posso schiacciarti come una formica”, e
Don Stilo rispese: “non lo nego, ma intendevo dire che le sue accuse non
reggevano logicamente, che non avrebbe potuto nulla contro di me” (ibidem).
La minaccia cui fa riferimento il Giudice risale ad uno scontro avuto tra i due
ad una riunione al palazzo del vescovo, in quella occasione don Stilo entrò nella
stanza dicendo: “Non so chi sia un certo don Bianchi, ma se è qui, se non è un
vigliacco, abbia il coraggio di alzarsi”. Don Bianchi, a cui di certo non
mancava il coraggio, si fa avanti suscitando la reazione dei presuli che gli
siedono accanto, i quali in quel momento mostrano il loro schieramento
alzandosi e allontanandosi da lui. Al termine della riunione don Stilo si
avvicina al suo nemico pronunciando la minaccia riportata dal giudice in
udienza (questo particolare aspetto della vicenda è raccontato nel testo di
Stajano citato in AAVV2013, p. 140).
Altri preti in un precedente incontro avevano già messo in guardia don Bianchi
sul potere di don Stilo: “Vedi, tu che non sei del posto devi imparare alcune
regole. Certe cose noi le sappiamo meglio di te, ma non si possono dire. Vedi
che don Stilo è capace di farti la pelle” (ibidem).
L’epilogo della vicenda vede prosciolti Stajano e don Bianchi dalle accuse di
diffamazione, ma il secondo viene sospeso a divinis dai suoi superiori mentre
don Stilo viene riabilitato immediatamente. Quanto raccontato dimostra
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chiaramente la non volontà da parte della Chiesa di porre un freno alla
mafiosità ed alla collusione interna alla Chiesa stessa, la quale, per timore o per
salvaguardia delle apparenze (non era ammissibile una simile accusa rivolta ad
un uomo di Chiesa), in tale occasione giunge addirittura a rinnegare colui che
intraprese l’azione di denuncia difendendo il più potente. Don Stilo, in seguito a
numerosi processi, è stato assolto dalle accuse di associazione mafiosa53
e per
tale motivo potrebbero essere sollevate obiezioni nel momento in cui la sua
persona venga utilizzata come esempio di fenomeni di collusione con
l’organizzazione mafiosa all’interno della Chiesa. Onde evitare facili
contestazioni, riteniamo utile precisare che in questa sede l’intento non è quello
di pronunciare sentenze improprie, ma semplicemente di mettere in luce le
contraddizioni interne alle file ecclesiastiche. A questo si aggiunga, solo per
inciso, che nel 2013 è la Chiesa stessa a risanare il nome di don Bianchi
quando, in una biografia di padre Pino Puglisi, monsignor Bertolone lo
annovera tra i valorosi missionari che hanno operato in terre abbandonate,
“forse il primo a subire violenze mafiose” (p. 61).
A questo punto vale la pena di precisare cheaccanto alla figura di don Stilo
troviamo ancora una gran quantità di preti e suore che ignorano la mafia come
53
La sua figura è stata costantemente contornata di chiaro-scuri, considerato un
benefattore da un lato e un «prete-padrone» dall’altro, aveva un grosso giro di
conoscenze influenti (lecite e non lecite) ed era invischiato in diversi giri
d’affari; molte volte fu ascoltato, quando non indagato, dalla procura
nell’ambito di svariate indagini (per i dettagli rimandiamo a Gratteri e Nicaso
2013 e AA.VV. 2013).
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
210
fenomeno sociale, minimizzando così il problema, e decidono di “rapportarsi
ai singoli mafiosi come fedeli che hanno sbagliato, concedendo assoluzioni
facili” (Creazzo in AAVV2013, p. 31). Il già citato collaboratore di giustizia
Luigi Bonaventura, parlando del rapporto che il boss crotonese Luigi
Vrennaintratteneva con gli uomini di chiesa, dichiara: “Mio nonno, poi, aveva
un buon rapporto con la Chiesa. Un suo cugino era prete a Crotone. C’era poi
un altro prete che andava in giro con la pistola. Ci forniva le munizioni,
quando ne avevamo bisogno” (Gratteri &Nicaso2013 p. 52).
È proprio da questa categoria di persone appartenenti alle forze religiose
(perlopiù parroci) che collaborano attivamente con la mafia che vuole partire la
nostra analisi, la qualesi sposterà successivamente su quelle figure che
favoriscono il potere mafioso anche senza commettere reati. Chiaramente nella
nostra rassegna riporteremo solo alcuni esempi, a nostro avviso, maggiormente
significativi di quella fascia di uomini di chiesa che il rapporto con la mafia lo
vivono “comodamente” e ci soffermeremo con maggiore attenzione su quanto
avvenuto nei decenni nella regione calabrese.
Il primo documento ufficiale che attesta la convivenza e la collaborazione
criminale tra ‘ndranghetisti (definiti genericamente camorristi) e un prete locale
è stato rintracciato da Gratteri e Nicaso (2013 p. 91) e risale al 1863 quando
decine di cittadini del quartiere reggino di Gallico chiedono al prefetto che
vengano smascherati i “camorristi, i quali sono quelli che tirano e fanno tirare
fucilate di notte ed uccidono cittadini che si lagnano contro loro per furti, e
soprusi che commettono”. Tra i denunciati compare anche il nome del parroco
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211
locale che, con buona probabilità, com’era uso fare all’epoca, non aveva preso i
voti per vocazione ma per raggiungere facilmente un certo status socio-
culturale.
Un’altra singolare figura ecclesiastica avvolta nel mistero è quella di don
Giovinazzo, parroco in una chiesa di Locri ed economo del santuario di Polsi,
ucciso l’1 giugno del 1989 con una scarica di proiettili in volto, una tipica
esecuzione destinata ai capobastone traditori. In seguito all’omicidio le
indagini portarono ad un conto corrente legato alle finanze del santuario di
Polsi che due anni prima aveva chiuso il bilancio in attivo di 860 milioni di lire,
dei quali 660 trasformati in titoli presso il Monte dei Paschi di Siena di Locri.
Al momento dell’uccisione il prete aveva in tasca due milioni di lire in
banconote. Don Giovinazzo conosceva numerosi boss ‘ndranghetisti e “forse
perché custode di segreti scottanti, qualcuno ha deciso di tappargli la bocca”
scrive il giornalista Aldo Varano sull’Unità (ivi, p. 5). Altro elemento che
delinea la figura di don Giovinazzo, più volte riportato nei libri che affrontano
l’argomento, è quanto egli dichiarò ai giornalisti nel 1985 in merito all’accusa
di aver celebrato le nozze di un noto boss di Locri ricercato per associazione
mafiosa e contrabbando di sigarette: “Non leggo i giornali e non sono tenuto a
chiede il cartellino panale e i carichi pendenti di chi si sposa”. “Vittima
inconsapevole o protagonista temerario?”, si chiedono Gratteri e Nicaso dopo
aver raccontato la sua vicenda (ivi, p. 9).
Non mancano ovviamente sacerdoti molto legati al denaro, che pur professando
l’umiltà sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa per un buon guadagno. Uno
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
212
degli esempi più eclatanti è quello dell’ex parroco di Brancaleone (RC), Franco
Mondellini, che negli anni ’90 partecipa al narcotraffico tra Calabria e
Colombia. Assoldato dallo ‘ndranghetista Giacomo Lauro per il recupero nella
città colombiana Santa Marta una partita di smeraldi, che risultò essere in realtà
cocaina, che gli avrebbe fruttato un compenso corrispettivo di 10 milioni lire
per ogni valigetta trasportata. Lauro, divenuto in seguito collaboratore di
giustizia, spiega: “ora avvenne che, a Santa Marta, quando il Jimenez
consegnò le valige al Mondellini, costui, persona molto curiosa ed avida, aprì
le valigie e si rese conto che si trattava di droga, per come comunicò per
telefono, contestandomi che bisognava alzare il prezzo del compenso, cosa che
io gli promisi”. Ma la vicenda e l’avarizia del sacerdote non finisce qua, una
volta accordatosi nuovamente con Lauro, Mondellini contattò un suo
confratello, padre Angelo da Bogotà, per proporgli un compenso di 5 milioni di
lire a valigetta per trasportarle al posto suo. Padre Angelo denunciò Mondellini
a due uomini delle autorità locali, i quali, secondo Lauro, si accordarono con lui
per estorcere altro denaro a Lauro necessario per far tornare Mondellini in
Italia.
La collusione degli uomini di chiesa non è cosa che appartiene solo al passato,
infatti, anche in tempi recenti, nonostante le posizioni della Chiesa in merito al
fenomeno mafioso siano diventate più aspre e consapevoli, possiamo
riscontrare casi in cui sacerdoti abbiano istaurato rapporti quantomeno ambigui
con i conterranei mafiosi.
Volume 20 N° 3 - 2015
213
Tra le tante, a titolo esemplificativo riportiamo solo una vicenda tra le più
recenti, risalente ad appena tre anni fa, che vede protagonista don Salvatore
Santaguida, parroco di Stefanaconi (VV), accusato di associazione mafiosa in
seguito alle dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia. “Secondo quanto
emerge dalle dichiarazioni di Patania Loredana e Bono Daniele – si legge nel
decreto di fermo – proprio quest’ultimo, su mandato dei Patania, aveva
avvicinato il prete di Stefanaconi, don Salvatore Santaguida, chiedendogli se
poteva in qualche modo bloccare o far girare la telecamera istallata in piazza,
al fine di non riprendere l’eventuale agguato al Calafati, e, comunque,
consentire poi la fuga dei killer all’interno della chiesa. Tuttavia, a causa della
difficoltà e del rischio che simile azione presentava, il prete non aveva fornito
la propria disponibilità ad utilizzare la chiesa quale via di fuga dei killer,
rimanendo tutta via pienamente al corrente della chiara intenzione da parte dei
Patania di eliminare Calafati” (Chirico in AAVV2013, p. 91). Non aveva
concesso ospitalità ai killer, ma, in compenso aveva dato delle “dritte” riguardo
la telecamera: “mi ha detto che la telecamera a 360 gradi non prende tutto –
dichiara Boni – cha è ad attimi, prende, ad esempio, pochi secondi una via,
pochi secondi un’altra, pochi secondi un’altra” (Gratteri &Nicaso2013, p.
120). Detto ciò, è chiaro che per don Salvatore il comandamento “non
uccidere” va preso solo alla lettera, in quanto, parrebbe che “far uccidere” sia
lecito.
Di gran lunga più numerosi sarebbero gli esempi da riportare ripercorrendo lo
storico degli atti giudiziari italiani (non solo calabresi) riferiti alla
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
214
collaborazione mafia-chiesa, ma quanto raccontato finora ci sembra sufficiente
per delineare alcuni elementi importanti riguardo le reazioni dell’istituzione
ecclesiastica in particolari circostanze: 1) spesso non ha preso provvedimenti
contro coloro chehanno collaborato con la mafia; 2) in alcuni casi ha addirittura
intrapreso un’azione difensiva verso di loro negando fatti spesso evidenti; 3)
pur di difendere il suo buon nome ha permesso la continuazione di
comportamenti sconvenienti, facendo il possibile perché non venissero allo
scoperto, finché non ci fosse la certezza di una condanna a livello giuridico del
prete coinvolto.
Si è dell’avviso chead incentivare simili circostanze siano proprio le mancate
precauzioni e i mancati provvedimenti presi dall’istituzione ecclesiastica, che
con il suo operato non ha scoraggiato gli uomini di chiesa che, in quanto
uomini appunto, possono anche essi cadere vittime dell’avidità e della
corruzione. A proposito di quest’ultimo punto, però, una domanda sorge
spontanea, la medesima domanda che tutti si pongono parlando della devozione
dei mafiosi ma che nessuno si pone parlando della mafiosità dei preti: come
può il loro comportamento convivere con i dettami del vangelo che loro per
primi diffondono? I mafiosi spesso nascono e crescono in una famiglia che fin
da piccoli insegna loro a vivere da uomini d’onore, spesso per loro commettere
atti particolari o seguire certi valori è del tutto naturale perché qualcuno gli ha
sempre detto che “si fa così”. Questo ovviamente non giustifica e non legittima
assolutamente il loro operato, però, in qualche modo, lo rende sociologicamente
comprensibile, un’operazione che non risulta altrettanto possibile per coloro
Volume 20 N° 3 - 2015
215
che hanno scelto di cedere la loro vita a Dio, di vivere secondo i dettami del
vangelo intraprendendo la via dell’amore e del bene.
Tra le file dei preti che con le loro azioni ed i loro comportamenti hanno
favorito gli uomini d’onore, per completezza, senza entrare troppo nello
specifico, vorremmo fare un breve accenno a quanti si sono preoccupati di
spendere buone parole a favore dei mafiosi locali, spesso rendendo
testimonianza durante i processi. Puntualizziamo subito che parliamo di
persone che non rendono falsa testimonianza, anche perché spesso non vengono
chiamati a testimoniare fui fatti avvenuti ma semplicemente a esporre elogi nei
confronti degli imputati al fine di attestare la loro buon condotta morale e
civile: è un “onesto lavoratore [che] nel tempo libero trascorre la giornata in
famiglia attendendo scrupolosamente all’educazione dei proprio figli”, dice nel
1972 il parroco di San Luca don Giosafatte Trimbolia proposito del boss
Sebastiano Mesiti (Gratteri &Nicaso2013, p. 113).
Durante le loro testimonianze i sacerdoti non dicono il falso, davvero i mafiosi
vanno a messa ogni domenica, si prodigano per la comunità e partecipano a
tutte le celebrazioni religiose, semplicemente lo fanno con modi e per
motivazioni del tutto particolari. La cosa che dovrebbe stupire di più, però, non
è che dicano il vero – è ormai chiaro che il consenso sociale della ‘ndrangheta
si basa proprio sulla facciata “da buon cristiano” che mostrano alla comunità –
ma che spesso vengano chiamati a testimoniare, non riguardo fatti di cui sono
stati testimoni, ma con dichiarazioni, processualmente inammissibili, che hanno
l’intento di colorare le figure dei mafiosi di stima e approvazione.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
216
4. I difensori del Vangelo
Il rapporto mafia-uomini di chiesa non si risolve solo nelle immorali azioni di
quanti hanno ceduto al peccato e implicitamente rinunciato ai principi del
vangelo, ma l’altro risvolto della medaglia è disegnato dai volti di tutti i
sacerdoti che, in molti casi pagando con la propria vita, hanno deciso di
rinnegare e combattere l’onorata società sottraendosi al giogo mafioso.
Tra questi eroici volti del sud i primi che arrivano alla mente come personaggi-
simbolo della cristiana lotta antimafia sono indubbiamente padre Pino Puglisi
contro Cosa Nostra, don Peppino Diana contro la Camorra e don Italo Calabrò
contro la ‘Ndrangheta, tre uomini che in comune avevano la voglia di lottare
contro un medesimo male dai molteplici volti.
Come già detto in precedenza, la nostra attenzione si soffermerà anche qui sul
territorio calabrese: don Italo Calabrò, istituendo il Centro comunitario Agape,
ha condotto una resistenza nonviolenta alla mafia inneggiando alla
collaborazione tra cittadini e istituzioni e denunciando con fervore le azioni
criminali mafiose. Nel 1984, in seguito al novantesimo sequestro di persona in
Calabria che aveva visto vittima il piccolo Vincenzo Diano (11 anni), decide di
sospendere la festa della Madonna di Lazzaro per rendere omaggio al bambino
e mostrare il suo sdegno nei confronti dei responsabili del rapimento. In quella
occasione, da dietro un altare improvvisato al centro della piazza di Lazzaro
urla la sua più celebre invettiva contro la ‘ndrangheta: “I mafiosi si ritengono
uomini e, addirittura, «uomini d’onore». Ma se c’è qualcuno che invece non è
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uomo è il mafioso, e se c’è qualcuno che non ha onore è il mafioso; i mafiosi
non sono uomini e i mafiosi non hanno onore; questo dobbiamo dirlo
tranquillamente con tutta la comprensione e la pietà. […] Siamo qui per
condannare questa era ogni male, ma in modo speciale la mafia, la nostra
mafia, o ‘ndrangheta che dir si voglia, della nostra Calabria e vogliamo,
dinnanzi alla comunità nazionale e alla comunità ecclesiale, dire che noi
intendiamo isolare tutti coloro che hanno scelto la via dell’odio, la via della
violenza, la via della rapina e non vogliamo e non possiamo confonderci con
loro: siamo tutti peccatori davanti a Dio, io per primo che rivolgo a voi queste
parole, ma prendiamo nella luce del Signore consapevolezza che quella è la
strada della morte e su quella strada non vogliamo volgere i nostri passi, che
quella gente è gente che oggi in mezzo a noi esprime il potere di Satana, il
regno del male. […] I mafiosi non possono essere paragonati alle belve, le
belve obbediscono a degli istinti e sono condizionate da istinti, ma si fermano
dinnanzi a quel blocco che la natura stessa ha costituito, non lo violentano.
Questi esseri [gli ‘ndranghetisti], invece, fanno violenza alla loro natura umana
in se stessi, prima ancora di fare violenza agli altri” (Gratteri &Nicaso2013, da
p. 132).
Ha rischiato molto don Italo urlando al centro di una piazza quelle dure parole
contro una categoria di persone orgogliosa e fiera, li ha rinnegati come
appartenenti ad una specie diversa da quella umana neanche degna di far parte
di quella animale. Quello, chiaramente, non è stato l’unico intervento di
denuncia del sacerdote contro queste persone, ma di certo è stato il più aspro in
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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cui associa la mafia alla morte, così come aveva fatto già in passato durante uno
dei suoi primi attacchi: “la mafia può forse darvi soldi, donne, macchine
blindate, se riuscite a far carriera nelle cosche. Ma una cosa ve la procura
certamente e rapidamente: la morte. Fatela finita, e se per voi non è più
possibile tirarvi fuori dalla mafia, evitate almeno che vi entrino i vostri figli”
(ivi, p. 132).
Don Italo Calabrònon è stato il primo prete oppositore della mafia in Calabria,
giànel 1862 don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallarafanno una brutta fine a
Ortì (RC) per mano della mafia locale. Il primo fu minacciato, malmenato e
infine ucciso perché rifiutò di pagare il “surplus monetario” del pagamento per
la contribuzione fondiaria e il secondo difese il suo confratello nella vicenda
facendo la stessa fine di don Antonio. Don Giorgio prima d’essere brutalmente
ucciso scrisse una lettera all’arcivescovo di Raggio Calabria: “noi non siamo
più sicuri né in casa, né in Chiesa, e molto meno ci fidiamo di uscir di notte,
ove mai il caso lo imponesse per l’amministrazione degli ultimi Sagramenti
agl’infermi” furono le parole preoccupate del prete. Il vescovo contattò
l’intendente di pubblica sicurezza per invitarlo a prendere provvedimenti, ma fu
tutto inutile vista la cruenta fine dei due sacerdoti (ivi, p. 126).
Nel corso dei decenni successivi ci furono altri casi, seppur abbastanza rari, di
uomini di chiesa che si opposero in vari modi al potere mafioso ma, per brevità,
facciamo un salto fino agli anni ’90 del secolo scorso, un periodo in cui le
minacce e le intimidazioni da parte della malavita si fanno più frequenti. È il
caso dell’incendio doloso appiccato al teatro dei salesiani di Locri, ritorsione
Volume 20 N° 3 - 2015
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che puniva due sacerdoti per aver dato valore all’invito del sacerdote siciliano,
politologo esponente del cattolicesimo democratico, Bartolomeo Sorge, il quale
invita calorosamente i suoi confratelli a denunciare la mafia costituendo un
fronte unito: “facciamo in modo che nessuno resti solo, chi è solo può essere
colpito. Che ci ammazzino tutti: preti, suore, associazioni cattoliche. Ma
credete davvero che la Mafia abbia tanto piombo?” (ivi, p. 137). Per tutta
risposta l’allora vescovo di Locri, monsignor Ciliberti, ribadisce la denuncia e
la condanna degli uomini d’onore i quali rispondono prendendo a fucilate il
portone del vescovado e costringendo il comitato di sicurezza di Reggio
Calabria a mettere sotto scorta armata Ciliberti. In seguito alla vicenda, Italo
Calabrò, allora vicario della curia, sferra una delle sue invettive contro la
‘ndrangheta: “ce la troviamo tra i piedi perché siamo costretti a parlarne,
perché essa è componente ed espressione del potere. Noi dobbiamo fare di più
per far capire a tutti l’incompatibilità della cultura mafiosa con la
testimonianza cristiana” (ivi, 138). Gli attentati contro la Chiesa, però, non
cessarono.
Con il trascorrere degli anni il fenomeno mafioso comincia ad essere noto a
tutti, la conoscenza dell’onorata società è più consapevole e salda e più chiari
sono i risvolti sociali del suo operato: gli studi scientifici sull’argomento
aumentano e le analisi diventano più lucide, la magistratura fa passi da gigante,
cresce esponenzialmente il numero delle associazioni antimafia, le comunità
cominciano a stare strette e ad alzare la testa spesso guidate proprio da ministri
di Dio che intendono riappropriarsi della loro religiosità rubata e maltrattata
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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dalla mafia. Con l’arrivo del nuovo millennio vediamo operare i preti attivisti
antimafia di ultima generazione, i quali hanno la medesima determinazione di
quelli del passato ma certamente hanno più mezzi a disposizione e, cosa ancora
più importante, il sostegno palese dell’istituzione ecclesiastica, quindi, una
maggiore tutela e protezione.
Facciamo cenno solo ad alcune delle iniziative di “liberazione dalla mafia”
intraprese e portate avanti con passione e determinazione da questi impavidi
sacerdoti: a Lamezia Terme don Giacomo Panizza nella comunità Progetto Sud
ha dato ospitalità ai disabili e ad altre categorie sociali “a rischio” in una
struttura confiscata al clan Torcasio; don Pino Demasi ha messo su la
cooperativa Valle del Marro che lavora sui terreni confiscati alla ‘ndrangheta;
infine, Libera l’associazione italiana antimafia per eccellenza, guidata da don
Ciotti, che porta in tutta Italia la coscienza antimafia e promuove molteplici
iniziative coinvolgendo diversi referenti con l’abito talare in tutta la penisola.
Tutti grandi e quanto mai utili progetti che comunque non impediscono a questi
uomini di condurre la lor azione pastorale quotidiana che si impegna a ferire la
mafia in ogni suo aspetto, anche il meno rilevante, come ha fatto ad esempio
don Pino Demasi nel 2010 negando di portare in chiesa la salma di Domenico
Alvaro, noto boss di Sinopoli, o don Ennio Stamile negando la confessione ad
uno ‘ndranghetista.
La risposta della ‘ndrangheta alle loro azioni è sempre la stessa, minacce,
intimazioni e attentati sono all’ordine del giorno: nel 2010, ad esempio, il
vescovo di Lamezia Terme, monsignor Luigi Cantafora, in seguito alla
Volume 20 N° 3 - 2015
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sospensione della processione dei Misteri che si svolge ogni anno a Sambiase,
riceve una busta contenente un foglio con una sua foto ritagliata da un giornale
e una bara disegnata con su scritto “amen”; nel 2003 e nel 2012, don Giuseppe
Campisano per i suoi tentativi di “depurare” la festa di San Rocco nella
Locride, viene sparato mentre è alla guida della sua auto, gli recapitano
pallottole nella canonica, la sua auto parcheggiata nei pressi della chiesa viene
trivellata di colpi di pistola; nel 2012 don Ennio Stamile, per le sue assidue
iniziative antimafia, trova davanti alla sua abitazione una testa di maiale
mozzata con un pezzo di stoffa in bocca, simbolo mafioso di intimato silenzio.
5. Al di là dei singoli uomini: le posizioni dell’istituzione ecclesiastica
Rievocando quel particolare tratto ambivalente ed ambiguo di cui abbiamo
parlato in precedenza, il quale bene emerge dagli esempi specifici di sacerdoti
che hanno approcciato il fenomeno mafioso in modi diversi e disegnato due
scenari opposti del rapporto tra la mafia e gli uomini di Chiesa, ci sembra
quanto mai utile ricostruire il percorso che negli anni, non senza opacità, ha
profilato il passaggio da posizioni di tolleranza e sostegno a posizioni di
contrasto al fenomeno mafioso da parte dell’istituzione ecclesiastica. Quello
che analizzeremo ora è l’insieme dei documenti ufficiali (o degli interventi)
redatti dalle più alte cariche ecclesiastiche, al fine di identificare l’andamento
negli anni della posizione ufficiale della Chiesa in merito al fenomeno mafioso.
L’istituzione ecclesiastica muove i suoi primi passi nella denuncia e nel
contrasto alla mafia solo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, per
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
222
lunghi decenni il fenomeno mafioso non è stato percepito o non è stato ritenuto
degno d’attenzione. Esemplificativo ed esplicativo di quello che era in passato
l’approccio della Chiesa al fenomeno è quanto scrive il cardinale Ruffini nel
1963 in risposta ad una sollecitazione vaticana in seguito ad un attentato
mafioso verificatosi a Palermo – uno dei primi attentati attribuiti senza alcun
indugio alla mafia e che aveva creato preoccupazione e sdegno in tutta la
penisola – per il quale la comunità valdese aveva affisso un manifesto nella
città: riprendendo tale manifesto, la segreteria di Stato inviò una lettera al
cardinale Ruffini in cui lo invitava a valutare la possibilità da parte ecclesiastica
“di promuovere un’azione positiva e sistematica con i mezzi che le sono propri
– d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per
dissociare la mentalità della cosiddetta “mafia” da quella religiosa e per
confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col
triplice scopo di elevare il sentimento civile della popolazione siciliana, di
pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati alla vita umana”
(Deliziosi2006, p. 2). Nella sua rispostaRuffini bollò l’iniziativa dei cittadini
come “un ridicolo tentativo di speculazione protestante” e si dichiarò “sorpreso
alquanto che si possa supporre che la mentalità della cosiddetta mafia sia
associata a quella religiosa. E’ una supposizione calunniosa messa in giro dai
socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata
dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza
proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali” (ibidem). Nella medesima
lettera Ruffini, lanciandosi in una quanto mai ardita spiegazione del fenomeno
Volume 20 N° 3 - 2015
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mafioso, aggiungeva: “Un alto funzionario di polizia, ben addentro alle segrete
cose e abilissimo, proponeva il dubbio: che cosa si dovesse intendere per
mafia, e rispondeva egli stesso che trattasi di delinquenza comune e non di
associazione a largo raggio. Spesso sono vendette per torti ricevuti, altre volte
contrasti per interessi privati, che creano gelosie e invidie; tal’altra sono
giovinastri disoccupati che tentano di far fortuna con furti e ricatti; ma in
nessun caso è gente che frequenta la Chiesa” (ivi, p. 3). Come si può notare
dalle parole del cardinale, la mafia non era percepita come un problema sociale,
anzi, forse non esisteva affatto ed era solo invenzione dei veri nemici che
cercavano di infangare il buon nome della Chiesa.
Il cardinale Ruffini viene sempre ricordato, spesso screditato, per questo unico
intervento in cui emerge il suo atteggiamento nei confronti del fenomeno
mafioso che si configurava come un male d'altronde sopportabile, quando, in
realtà, a nostro avviso tutto dipendeva in buona parte dalla generale cecità (o
ingenuità), non solo della Chiesa, rispetto ad un fenomeno ancora per certi versi
sconosciuto. A conferma di ciò vorremmo riportare qualche stralcio (ripreso
sempre in Deliziosi 2006, p. 3) di una lettera pastorale, Il vero volto della
Sicilia, scritta sempre dal cardinale Ruffini l’anno successivo. In questo scritto
il cardinale fa un’analisi molto più lucida e consapevole della mafia
analizzandone le origini e la portata del suo potere: “così il titolo di mafioso
assunse il valore attuale di associazione per delinquere. Qui è necessario
richiamare le condizioni dell’agricoltura nella Sicilia centrale e occidentale.
Venuta meno la difesa che veniva dall’organizzazione feudale e infiacchitosi il
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
224
potere politico, i latifondisti ebbero bisogno di assoldare squadre di picciotti e
di poveri agricoltori per assicurare il possesso delle loro estese proprietà. Si
venne così a costituire uno Stato nello Stato e il passo alla criminalità, per
istinto di sopraffazione e di prevalenza, fu molto breve […] Tale può ritenersi –
concludeva il cardinale – in sostanza l’origine della mafia contemporanea. Né
può destare meraviglia che il vecchio, deplorevole sistema sia sopravvissuto,
pur essendo cambiato il campo dell’azione. Le radici sono rimaste: alcuni capi,
profittando della miseria e dell’ignoranza, sono riusciti a mobilitare gruppi di
ardimentosi, pronti a tutto osare. Questi abusi sono divenuti a poco a poco
tristi consuetudini perché tutelati dall’omertà degli onesti, costretti al silenzio
per paura, e dalla debolezza dei poteri ai quali spettavano il diritto e l’obbligo
di prevenire e di reprimere la delinquenza in qualsiasi momento e a qualunque
costo”.
Chiaro è il dietro front fatto da Ruffini una volta approfondito e studiato questo
ancora sconosciuto fenomeno, ma ciò che importa più di tutto non sono le
singole opinioni del cardinale in merito, bensì, il fatto che per la prima volta la
mafia viene riconosciuta e trattata esplicitamente in un documento ufficiale
della Chiesa Cattolica.
Da qui in poi la strada è aperta ma non del tutto spianata, la progressione
dell’azione antimafia della Chiesa andrà molto a rilento e sarà tracciata da
un’alternanza di posizioni forti e deboli, a volte anche contrarie. Per avere
nuovi risvolti incisivi nella posizione dei vertici ecclesiastici dobbiamo fare un
balzo in avanti di circa una decina d’anni: gli anni ’70 hanno segnato una svolta
Volume 20 N° 3 - 2015
225
rilevante, anche se non particolarmente incisiva sull’atto pratico, nell’approccio
della Chiesa al fenomeno mafioso, la quale aveva da affrontare due problemi di
rilievo uno puramente interno e l’altro legato ad una nuova emergenza sociale
da fronteggiare.
È il periodo post-conciliare in cui la Chiesa deve riorganizzarsi per cercare di
interpretare e attuare al meglio le direttive del concilio Vaticano II e allo stesso
tempo, oltre agli assestamenti interni, prendeva coscienza del fatto che non
dovessero essere solo le forze dell’ordine e la magistratura ad occuparsi del
prorompente dilagare del fenomeno mafioso: quegli anni sono stati segnati da
un contesto criminale molto forte che vedeva, da un lato, il periodo dei
sequestri e di numerosi omicidi da parte di Cosa Nostra e, dall’altro lato, lo
scoppiare della prima guerra di ‘Ndrangheta. La Chiesa non poteva più
rimanere impassibile e deresponsabilizzarsi davanti ad un simile scenario che
richiedeva un’azione congiunta o comunque contemporanea di diverse sfere
sociali nell’affrontare una simile emergenza. Fu così che, rispettivamente nel
1974 e nel 1975, la Chiesa siciliana e quella calabrese redassero due documenti
di grande importanza nell’analisi delle posizioni ecclesiastiche rispetto al
fenomeno mafioso: il 10 ottobre del ’74 il monsignor Petralia (segretario della
cesi) scrisse a nome dei vescovi siciliani un documento in cui annoverava tra «i
mali sociali» dell’Isola la mafia, “che presume da una parte di risolvere i
problemi della giustizia e dell’onore con le forme più grossolane e delittuose
mentre, dall’altra, si accampa nei settori dell’industria edilizia e dei mercati
con sistemi aggiornati di gangsterismo” (ivi, p. 6); il 30 novembre dell’anno
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
226
successivo monsignor Ferro scrive un documento firmato dalla Conferenza
episcopale calabra in cui i vescovi calabresi “levavano nuovamente la loro voce
[nel ’55 il monsignor Ferro aveva già espresso invano la sua denuncia contro la
‘Ndrangheta] contro [il] fenomeno della mafia, disonorante piaga della società,
segno di arretratezza socioeconomica e culturale, che ormai si estende sempre
più audace con collegamenti e collaborazione multiforme tra gruppi di perfidi
avventurieri del Meridione ed esponenti della più spregiudicata delinquenza
del Nord” (Gratteri &Nicaso 2013 p. 130). Nel proseguo del medesimo
documento i vescovi calabresi vanno oltre la presa di coscienza del fenomeno
mettendo in evidenza “l’avidità sfrenata di questa intollerabile piovra, il
taglieggiamento e lo sfruttamento di ogni attività produttiva, il contrabbando,
le rapine, il sequestro di persone, la corruzione dei pubblici funzionari, e
quindi l’impunito, la sopraffazione dei comuni cittadini, il clima di paura tesa a
favorire l’omertà” ed impegnandosi a “combattere la malavita organizzata,
andando alle radici del male, rinnovando mentalità e costumi, rendendo
testimonianza di giustizia evangelica e di amore fraterno” (ivi, p. 131). Pochi
anni dopo, il 25 novembre del 1979, in occasione della festa di Cristo Re, i
vescovi calabresi ribadisconola loro condanna contro questo “cancro esiziale e
soprastruttura parassitaria che erode la nostra compagine sociale; succhia con
i taglieggiamenti il frutto di onesto lavoro; dissolve i gangli della vita civile;
con sequestri, che non risparmiano neppure le donne e i bambini e con
uccisioni cinicamente consumate, irride e calpesta i valori più alti degli affetti
più sacri della vita». In questo medesimo documento invocano e sostengono
Volume 20 N° 3 - 2015
227
«una maggiore e più efficiente presenza delle forze dell’ordine, almeno nelle
zone più duramente minacciate da tanta piaga” (ivi, p. 149).
A partire dalla prima presa di coscienza, come possiamo notare da quanto detto
finora, la Chiesa si mantiene teoricamente lontana alla mafia e in una ferma
opposizione che però non conduce a grossi esiti sul campo: la condanna della
Chiesa non sembra influire minimamente sui rapporti con la mafia che
continua a sentirsi parte e ad essere parte integrante del gregge cristiano senza
porre alcun dubbio in merito. Dopo questi primi e radi interventi
sull’argomento, per ritrovare un documento di una certa rilevanza che non sia
iniziativa del singolo sacerdote, vescovo o cardinale dobbiamo fare un balzo in
avanti fino una vicenda precisa scuote la posizione della Chiesa, la quale
sembra in qualche modo frenare bruscamente la sua corsa verso l’azione
antimafia nel momento in cui si pone l’ipotesi di prendere concreti
provvedimenti. Nel maggio del 1989 alla vigilia dell’assemblea della CEI,
durante una conferenza stampa, il cardinale di Napoli, Michele Giordano,
parlando dell’azione della Chiesa nei confronti della lotta alla mafia dice:
“Basta con gli interventi isolati di presuli coraggiosi […[ è tempo che la
Chiesa intera, con tutto il peso della sua autorità morale, si schieri al fianco di
chi combatte la malavita organizzata con una condanna chiara e
inequivocabile” (ivi, p.153) e annuncia che i vescovi avrebbero discusso della
possibilità della scomunica di tutti coloro i quali fossero stati condannati in
tribunale per crimini mafiosi. Nello specifico, il cardinale Giordano aveva
parlato in quell’occasione di «sanzioni canoniche» da adottare nei confronti dei
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
228
mafiosi che comprendevano il divieto di ricevere i sacramenti e di figurare
come padrini nei battesimi e nelle cresime (Sales54
).Il giorno successivo, nel
discorso di chiusura dell’assemblea della CEI, il cardinale Ugo Poletti
smentisce le dichiarazioni del cardinale napoletano affermando: “La scomunica
della mafia non era all’ordine del giorno e non è stata trattata dall’assemblea
della Cei. La questione è stata posta solo da alcuni vescovi del gruppo di studio
sul Meridione. Ma tutto è finito lì. Non è prevista e non è prevedibile nessuna
sanzione di questo tipo. Escludo che anche il documento sul Meridione, atteso
per settembre55
, possa contenere qualche accenno alla condanna della mafia:
La Chiesa nella sua legislazione generale, che è contenuta nel codice di diritto
canonico, già prevede sanzioni che valgono per tutti gli stati di violenza.
Quindi basta attenersi a queste. La condanna della violenza da parte della
Chiesa è sempre chiara e inequivocabile. Ma non è compito della Chiesa
varare provvedimenti particolari, anche perché le stesse autorità civili e
giudiziarie sono perplesse quando devono individuare i responsabili di atti
criminosi” (Gratteri2013, p. 154; Sales, p. 19).
L’accaduto crea una certa ondata di disagio e delusione rispetto ad una Chiesa
che ritorna a deresponsabilizzarsi rispetto all’emergenza mafiosa e che decide,
54
http://www.kainos-portale.com/index.php/malavita-editoriale-e-indice/86-
ricerche12/271-chiesa-e-mafie 55
Il riferimento è ad un documento che uscirà poi nell’autunno di quell’anno
che presenterà una delle più importanti e significative analisi sui problemi che
affliggono il Sud Italia, che di fatti non conterrà alcun riferimento alla
scomunica dei mafiosi.
Volume 20 N° 3 - 2015
229
ancora una volta, di non prendere una posizione netta nascondendosi dietro i
cavilli legislativi del diritto canonico (sul discorso specifico della scomunica
come strumento di estromissione dalle file cattoliche e come possibile
strumento antimafia ci soffermeremo a breve). Isaia Sales, noto studioso del
fenomeno mafioso, interrogandosi sui motivi che possono aver indotto la
Chiesa a scartare la scomunica come strumento contro le mafie, scrive:
“Torniamo alle parole di Poletti: «Non è compito della Chiesa varare
provvedimenti particolari». Cioè: per contrastare le mafie non c’è necessità di
misure eccezionali. Qui il riferimento non è tanto alla giurisprudenza o alle
azioni di contrasto ‘militare’ dello Stato, quanto allo stretto campo di
competenza della Chiesa: contro le mafie la Chiesa non deve mettere in atto
azioni ‘particolari’ come ad esempio la scomunica. Quindi Poletti considera la
scomunica un’arma particolare, pensa che non sia ancora necessaria e con
queste affermazioni riconosce nei fatti che la scomunica non c’è ancora verso i
mafiosi, smentendo le sue stesse parole («già esiste»).Sicuramente ha influito
sulle gerarchie vaticane e sulle prelature meridionali anche la paura, il timore
di una reazione violenta dei mafiosi. Erano bastate alcune omelie, alcune prese
di posizione più coraggiose della Chiesa per esporla a una prima ritorsione,
con i delitti di due preti nel giro di pochi mesi […]In un ambiente abituato alla
cautela e alla convivenza con forme criminali, la paura di azioni più clamorose
avrà pure pesato. Un secondo elemento di cui tenere conto sta proprio nelle
affermazioni di Poletti: «le stesse autorità civili e giudiziarie sono perplesse
quando debbono valutare i responsabili di atti criminosi». Cosa voleva dire
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
230
l’allora segretario della Cei? Certo è difficile individuare un mafioso quando
non è condannato per questo reato, dunque una scomunica generale verso di
essi potrebbe imbarazzare un prete nell’applicarla: la comunione si deve dare
o no ad uno che tutti sanno essere mafioso ma non ha avuto condanne? Si deve
consentire che facciano da padrini di battesimo? […] Il cardinale Giordano,
per la verità, aveva proposto la scomunica per quelli già condannati,
superando intelligentemente il problema. Dunque non era questa la difficoltà.
Essendo la mafia e le consorelle organizzazioni di massa, attorno a cui oltre
agli aderenti orbita tutto un mondo di professionisti, di politici, di settori estesi
delle classi popolari e dei colletti bianchi, la scomunica avrebbe potuto avere
effetti non calcolabili nel rapporto della Chiesa con questi stessi strati sociali.
[…]La Chiesa ha avuto enormi difficoltà a riconoscere il reato di associazione
di tipo mafioso, perché esso non individua la colpa in un atto specifico ma
nell’atteggiamento e nella forza derivante dal vincolo associativo, cioè rompe
il rapporto individuale tra colpa e castigo, e rende potenziali mafiosi un
numero esteso di persone non strettamente criminali. Insomma, se per le altre
scomuniche comminate si trattava di persone o di mondi sociali e culturali già
in qualche modo distaccatisi dalla Chiesa per ragioni politiche, scientifiche o
altro, nel caso dell’eventuale scomunica alle mafie si andava a colpire un vasto
mondo di credenti. Troppo per la Chiesa” (ivi, pp. 20-21).
Una svolta decisiva è quella messa in pratica da Papa Giovanni Paolo II in
Sicilia dove, durante diversi discorsi alla folla di credenti, condanna
apertamente la mafia come male sociale. Tra tutti due sono gli interventi più
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231
incisivi ed espliciti. Il primo del 9 maggio 1993 ad Agrigento durante il quale,
mosso dal dispiacere e il disprezzo per le note stragi siciliane che strapparono la
vita a grandi uomini come i giudici Falcone, Borsellino e Livatino, mosso dallo
spirito di giustizia pronunciò delle parole che gli nacquero spontanee (non
erano, infatti, parte del discorso ufficiale) “Dio ha detto una volta: non
uccidere. Non può uomo, nessuna umana agglomerazione, mafia, togliere il
diritto divino alla vita...Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è
Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili. Convertitevi, un giorno arriverà
il giudizio di Dio!”. La mafia rispose con degli attentati che danneggiarono le
chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro (almeno la
Chiesa ritenne tali attentati una risposta all’anatema del Papa). Memore di tali
avvenimenti e della morte di padre Pino Puglisi, nel 1995 Papa Wojtyla a
Palermo ribadì la posizione di assoluta condanna della Chiesa verso la mafia e a
chiusura del suo discorso esortò: “Spetta alle genti del Sud essere le
protagoniste del proprio riscatto...E le ragioni di una cultura della moralità,
della legalità, della solidarietà stanno progressivamente scalzando alla radice
la mala pianta della criminalità organizzata” indicando alla comunità
ecclesiale la strada giusta da seguire.
Ciò che vogliamo far presente riportando gli interventi di Papa Wojtyla in
merito al fenomeno mafioso non sono tanto le sue parole, ma il fatto che sia
proprio lui, in qualità di massimo esponente dell’istituzione ecclesiastica, a
pronunciarle. L’interesse diretto ed esplicito del pontefice apre un nuovo
capitolo delle posizioni ufficiali: da quel momento in poi la mafia è un
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
232
problema di cui la Chiesa si fa ufficialmente carico, un problema che si
impegna attivamente a risolvere in quanto emergenza sociale che colpisce le
comunità dei fedeli. È facile rendersi conto della portata di questo evento che,
da quel momento in poi, seppur con qualche difficoltà e una buona dose di
lentezza, spingerà la Chiesa a curare la sua cecità e la sua passività difronte alle
azioni mafiose intensificando gli interventi ufficiali ed esprimendo posizioni
più decise. E non solo, una volta incrinato il comodo rapporto mafia-chiesa da
sempre segnato da un tacito sostegno, anche la mafia comincerà ad avere gli
occhi aperti e a guardarsi le spalle da una volta che quella storica convivenza
così espressamente interrotta e condannata dal Papa in persona. Testimonianza
di ciò sono le parole di Salvatore Griglioli, autore dell’assassinio di don Pino
Puglisi divenuto collaboratore di giustizia dopo il suo arresto, che dichiara:
“Ero un mafioso agli ordini dei boss di Brancaccio quando il Papa lanciò dalla
Valle dei Templi l’anatema contro di noi. Non ricordo bene le parole, ma da
allora in Cosa nostra si cominciò a vociferare che la Chiesa cominciava ad
essere diversa”, forse scomoda, verrebbe da aggiungere (Chirico in AAVV
2013, p. 93).
Poco dopo il primo intervento papale, nel novembre del 1993, infatti, si tenne
ad Acireale il terzo convegno delle Chiese di Sicilia in occasione del quale il
vescovo di Agrigento, monsignor Ferraro, propose prima di tutto un’urgente
riflessione autocritica all’interno della Chiesa stessa: “Una montagna di
domande attende risposte. Come mai tale fenomeno tra i battezzati? Che cosa è
mancato? Che cosa si è taciuto? Quale significato bisogna dare al silenzio e
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233
all'indifferenza? La prassi pastorale delle parrocchie tiene conto di questi
interrogativi? La predicazione ha individuato i temi fondamentali ai quali dar
risposta nell'annunzio del Vangelo?”. E aggiunse: “La mafia come oppressione
richiede un progetto evangelico di liberazione. Bisogna provvedere. Urge una
riflessione seria, una risposta puntuale” (Deliziosi2006, p. 12). A conclusione
dei lavori le parole del cardinale Pappalardo, pronunciate durante un’omelia al
Duomo di Catania, sono inequivocabili: “Ci siamo interrogati, come singoli e
come Chiesa, - disse il cardinale Pappalardo, riferendosi al convegno -
rendendoci conto che non sempre, forse, nel passato sono state chiaramente
percepite l'intrinseca gravità e le nefaste conseguenze tanto sociali che
ecclesiali del fenomeno mafioso, fino a ingenerare l'impressione che certi
diffusi silenzi o non troppo esplicite ed articolate condanne potessero essere
segno di insensibilità o di tacita convivenza” (ivi, p. 13).
Con questi interventi si diede inizio alla fase del “mea culpa” che continuò in
modo esplicito anche l’anno successivo, sempre tra i prelati siciliani. Nel
gennaio del ’94 a Cefalù, durante un incontro organizzato dal vescovo in carica,
Rosario Mazzola, monsignor Cirrincione afferma: “La mafia all'inizio
sembrava criminalità ordinaria. Soltanto in ritardo ci siamo accorti che non
era così... Negli anni Settanta alcuni vescovi affermavano che nella loro
diocesi non c'era la mafia, che si trattava di un fenomeno di alcune parti della
Sicilia. Invece ci si è accorti dopo qualche anno che anche in quelle terre c'era
la mafia e anzi proprio in quelle diocesi c'erano i centri organizzativi […] Non
si sono considerati nel pieno della loro valenza negativa il favoritismo, la
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
234
raccomandazione, il clientelismo, gli appalti. Non abbiamo capito che così si
favoriva la mafia. Queste sono colpe nostre. [Bisogna cominciare] dalla
catechesi dei bambini, il nostro futuro. Insegniamo a non uccidere, don Puglisi
è stato assassinato proprio perché diceva che la vendetta era contro il
Vangelo”. E nella stessa occasione monsignor Miccichè rincara la dose di
autocritica: “La cultura della mafiosità è prepotenza, è il non rispetto delle
leggi. Anche noi, pur di costruire chiese, ci siamo prestati a qualcosa di poco
lecito. Se la mafia è denaro, è potere, la Chiesa di Sicilia deve riconoscere di
non aver preso coscienza per tempo del peccato” (ibidem). Queste riflessioni
furono lo spunto per un documento redatto nello stesso anno dalla Conferenza
episcopale siciliana nel quale i vescovi oltre a ribadire i concetti già emersi
aggiungono: “Tutti coloro che aderiscono alla mafia o pongono atti di
connivenza con essa debbono sapere di essere e di vivere in insanabile
opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori della
comunione della sua Chiesa” e propongono di opporre alla mafia “la forza
disarmata ma irriducibile del Vangelo... rivolta alla promozione e alla
conversione delle persone, ma nello stesso tempo intransigente nel non
autorizzare sconti o ingenue transazioni per ciò che concerne il male, chiunque
sia a commetterlo o a trarne profitto” (ivi, p. 14).
6. Contro la mafia nel nuovo millennio
Gli anni ’90 sono stati sicuramente fondamentali per la lotta alla mafia italiana
in tutte la società non solo tra le file cristiane: nascono, vengono pubblicizzate
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ed incrementano le loro attività una molteplicità di associazioni antimafia
operanti in tutta Italia, viene istituita la Direzione Nazionale Antimafia,
crescono esponenzialmente gli studi scientifici sul fenomeno e le riviste
giornalistiche d’inchiesta che si occupano di fatti di cronaca mafiosa, insomma,
la conoscenza sulla mafia cresce insieme al biasimo della società e alla voglia
di contrastarla. Come dicevamo poc’anzi, gli anni ’90 hanno sicuramente dato
una scossa anche all’inerzia e all’inconsapevolezza della Chiesa, ma per
assistere ad un intensificarsi effettivo della condanna al fenomeno bisogna
aspettare la svolta del nuovo millennio: a partire dal 2002, infatti, molteplici
saranno gli interventi ecclesiastici significativi contro la mafia e, come
vedremo, non dovremo più aspettare il passare di anni tra uno e l’altro.
Nel 2002, per voce della Conferenza episcopale calabra, viene redatta una
lettera pastorale in cui, dopo aver biasimato le “forme solo esteriori di
religiosità che non generano il conforto diretto con il Vangelo” ed aver
riutilizzato le tre parole guida (insegnate dal vescovo Tonino Bello)
annunciare, denunciare, rinunciare per descrivere l’impegno della Chiesa, i
vescovi calabresi dichiarano: “La mafia sta prepotentemente rialzando la testa.
E di fronte a questo pericolo, si sta purtroppo abbassando l’attenzione. Il male
viene ingoiato. Non si reagisce. La società civile fa fatica a scuotersi. E’ chiaro
per tutti il giogo che ci opprime. Le analisi sono lucide ma non efficaci. Si è
consapevoli, ma non protagonisti! La mafiosità, poi, è ancora più pericolosa
della mafia stessa. Perché si insinua tra le pieghe delle istituzioni, diventa
facile accomodamento, addirittura in certi casi si trasforma in comoda
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
236
autogiustificazione (poiché c’è la mafia, è inutile operare, inutile investire,
inutile cambiare e vano è restare per cambiare la nostra terra!)” (allegato in
CEC 2005, p. 36)56
. È un chiaro ammonimento rivolto alla comunità passiva,
alle istituzioni colluse e all’inerzia generale di opposizione e freno del
fenomeno mafioso.
Qualche anno dopo, dal 3 al 5 marzo del 2006, si tenne a Vibo Valentia la
Settimana Sociale Calabrese in cui riemerge, seppur in un unico accenno,
l’esigenza di combattere e resistere alla tentazione mafiosa ponendo
l’adorazione e la fede come generatore di forza: “L’adorazione è il vertice della
speranza. E’ la grande risorsa che ci fa tenere alta la testa per non piegarla
davanti ai capricci ed egoismi dei tanti prepotenti dei nostri paesi, insidiati
dalla mafia e dall’illegalità. Dove è difficile dire certi NO, perché ti
comprometti” (CEC 2005, p. 15).
L’anno successivo, il 26 e il 27 gennaio, ebbe luogo a Falerna un convegno
organizzato dalla Caritas che diede vita ad un nuovo importante documento
della CEC dal titolo Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo57
in
cui viene fatta un’attenta analisi del fenomeno mafioso e delle implicazioni che
il suo agire ha sul territorio calabrese e stilato un piano d’azione che, seppur
56
http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=
0CCEQFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.chiesacattolica.it%2Fcci_new%2Fp
agine%2F355%2FSettSocCalabria.doc&ei=i1yMVLqOAcGqywPjs4DIBw&us
g=AFQjCNEnvWHH5e0d0cU81JN-FcpKntXBoQ&bvm=bv.81828268,d.bGQ 57
http://www.stopndrangheta.it/stopndr/art.aspx?id=1630,%22Se+non+vi+conv
ertirete+perirete+tutti+allo+stesso+modo%22
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237
molto astratto e teorico, comunque significativo: “Dobbiamo interrogarci con
lucidità sul tipo di cultura della vita e della legalità oggi percepita dai
cristiani, dalle famiglie, dai gruppi e dalle comunità parrocchiali. Con
altrettanta lucidità, dobbiamo individuare i passi da compiere per costruire
una società più giusta e solidale, tale proprio perché finalmente sciolta dalle
catene del peccato e del male imposte dalle organizzazioni criminali. […] Un
impegno consapevole è richiesto innanzitutto ai Vescovi, ai Presbiteri, ai
consacrati ed a tutti gli operatori pastorali. È indispensabile, infatti, maturare
una profonda coscienza della responsabilità che ci è stata affidata nel
ministero dell’annuncio e dei sacramenti, ma anche nel compito di guide ed
educatori, coltivando una vita di preghiera e carità e coniugando per primi, nel
nostro quotidiano, autenticità, coerenza, amore per il prossimo, giustizia e
legalità”(p. 11).
Con gli atti del convegno di Falerna è stato redatto e pubblicato un libro dal
titolo È Cosa Nostra. Una pastorale ecclesiale per l’educazione delle coscienze
in contesti di ‘ndrangheta, un testo – dal titolo sicuramente provocatorio che
indica il bisogno e la voglia della comunità calabrese, religiosa o meno, di
riappropriarsi delle terre in cui domina la ‘ndrangheta – in cui attraverso il
contributo di diversi autori, impegnati e non nell’azione cattolica (collaborano
al testo uomini di chiesa molto noti per la loro azione antimafia e vari studiosi
attenti al fenomeno esterni alla Chiesa), viene presentata un’attenta analisi dello
status del fenomeno mafioso in Italia (con particolare attenzione alla Calabria) e
riportate le conclusioni rispetto all’analisi e prassi antimafia da seguire emerse
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
238
in occasione del convegno. A proposito di quest’ultimo, nell’introduzione al
libro don Ennio Stamile (delegato regionale Caritas Calabria) scrive: “ci siamo
accorti che non si può intervenire in modo radicale su questi problemi della
società calabrese e non solo, se non si capisce e non si aggredisce il fenomeno
mafioso. La ‘ndrangheta è una piaga che sta sotto tutte le altre emergenze e le
contiene. Le due giornate veramente intense, sono state caratterizzate da tanta
voglia di partecipare e di comprendere; si percepiva, insomma, l’interesse di
ciascuno, soprattutto dei tanti giovani presenti, non è stato il solito convenire,
né la solita passerella” (Stamile&Schinella 2007, p. 5).
Scorrendo sulla cronologia dei documenti e degli interventi ecclesiastici in
materia, tre anni dopo troviamo, in un documento dell’episcopato italiano,
titolato Per un paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno58
e redatto a Roma
il 21 febbraio 2010, troviamo un intero paragrafo riguardo «la piaga profonda»
della criminalità organizzata nel quale le mafie vengono definite «strutture di
peccato» che «deformano il volto autentico del Sud»: “La criminalità
organizzata non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della
politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di
intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese, perché il
controllo malavitoso del territorio porta di fatto a una forte limitazione, se non
addirittura all’esautoramento, dell’autorità dello Stato e degli enti pubblici,
58http://www.stopndrangheta.it/stopndr/art.aspx?id=1652,Per+un+Paese+solida
le.+Chiesa+italiana+e+Mezzogiorno
Volume 20 N° 3 - 2015
239
favorendo l’incremento della corruzione, della collusione e della concussione,
alterando il mercato del lavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle
scelte urbanistiche e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni,
contaminando così l’intero territorio nazionale. […]Non va ignorato,
purtroppo, che è ancora presente una cultura che consente loro di rigenerarsi
anche dopo le sconfitte inflitte dallo Stato attraverso l’azione delle forze
dell’ordine e della magistratura. C’è bisogno di un preciso intervento
educativo, sin dai primi anni di età, per evitare che il mafioso sia visto come un
modello da imitare. […]in un contesto come quello meridionale, le mafie sono
la configurazione più drammatica del “male” e del “peccato”. In questa
prospettiva, non possono essere semplicisticamente interpretate come
espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante
di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono
strutture di peccato. Solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità
mafiosa permette di uscirne veramente e, se necessario, subire violenza e
immolarsi” (pp. 7-8).
Nell’ottobre dello stesso anno, a Palermo, anche Papa Benedetto XVI si
esprime contro la mafia invocando il coraggio e la forza dei giovani siciliani:
“Cari giovani di Sicilia, siate alberi che affondano le loro radici nel “fiume”
del bene! Non abbiate paura di contrastare il male! Insieme, sarete come una
foresta che cresce, forse silenziosa, ma capace di dare frutto, di portare vita e
di rinnovare in modo profondo la vostra terra! Non cedete alle suggestioni
della mafia, che è una strada di morte, incompatibile con il Vangelo, come
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
240
tante volte i vostri Vescovi hanno detto e dicono!”59
.
E giungiamo al termine della nostra rassegna sugli interventi ecclesiastici con il
più recente e significativo intervento di Papa Francesco nella Piana di Sibari nel
giugno del 2014 durante il quale Bergoglio annuncia a gran voce: “I mafiosi
non sono in comunione con Dio. Sono scomunicati”. Testimoni circa 250000
fedeli che ammutoliscono difronte il discorso del pontefice, che inveisce contro
gli adoratori del male: “Quando all’adorazione del Signore – dice il Papa
scandendo bene le parole – si sostituisce l’adorazione del danaro, si apre la
strada al peccato, all’interesse personale e alla sopraffazione. Quando non si
adora il Signore si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali
vivono di malaffare e violenza. […] La vostra terra tanto bella conosce i segni
e le conseguenze di questo peccato. La ‘ndrangheta è questo: adorazione del
male e disprezzo del bene comune. E questo male va combattuto, allontanato.
Bisogna dirgli di no”. E continua il suo discorso invocando impegno da parte di
tutta la Chiesa: “La Chiesa – riconosce il Santo Padre - che so tanto impegnata
nell’educare le coscienze, deve sempre di più spendersi perché il bene possa
prevalere. Ce lo chiedono i nostri ragazzi. Ce lo domandano i nostri giovani
bisognosi di speranze…”60
. Parole molto simili a quelle già espresse negli anni
59http://benedettoxvielencospeciali.blogspot.it/2013/01/gli-interventi-di-
benedetto-xvi-contro.html
60http://www.malitalia.it/2014/06/papa-francesco-e-la-scomunica-alla-
ndrangheta/
Volume 20 N° 3 - 2015
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passati dai vescovi e i Papi che lo hanno preceduto, eccetto una, questa volta
gridata a gran voce dalla massima autorità ecclesiastica: i mafiosi sono
«scomunicati». Non è cosa di poco conto una simile presa di posizione da parte
del pontefice: a prescindere dalle effettive conseguenze, che eventualmente,
potranno essere visibili nell’agito ecclesiastico solo in un futuro prossimo,
pronunciare una simile parola che rappresenta la condanna più importante
inflitta dalla Chiesa ad un fedele e sulla quale, come abbiamo visto, già in
passato si era aperto uno spiraglio subito bruscamente richiuso, ha un
significato deciso e categorico nel giudizio verso i mafiosi. Lo scomunicato non
può accedere ai sacramenti ed è estromesso da tutte le attività religiose eseguite
dalla Chiesa, perciò, in virtù di quanto detto sulla devozione mafiosa e sulla
strumentalizzazione dei sacramenti, si può capire il disagio e le difficoltà cui
andrebbe in contro la mafia italiana che su questi riti ha costruito parte della sua
identità e la sua legittimazione interiore e sociale. Molti nutrono speranza in tal
senso proprio in Papa Francesco, promotore di tanti cambiamenti rivoluzionari
e innovativi nella Chiesa, di cui, ancor prima del suo intervento nella Piana di
Sibari, don Luigi Ciotti aveva detto: «Credo che ci sia dentro di lui la voglia di
portare avanti un processo di purificazione, anche all’interno della Chiesa, da
un punto di vista del potere». Un intento importante nella lotta alla mafia, in
quanto, la Chiesa può opporsi allo sfruttamento mafioso solo se è disposta
prima di tutto a purificare se stessa.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
242
Conclusioni: prospettiva di un’unitaria azione antimafia
Abbiamo visto finora come si articola dai diversi punti di vista il rapporto tra la
mafia e l’istituzione ecclesiastica preoccupandoci di individuare alcuni aspetti
fallaci che hanno permesso per anni alla mafia di servirsi del mondo religioso
per perseguire i suoi scopi di riconoscimento, legittimazione e acquisizione di
potere sociale. Accingendoci a concludere, traendo le somme di quanto detto
fino a questo momento, ci proponiamo di individuare una possibile linea
d’azione utile a ledere l’incisività del fenomeno. In questo percorso riflessivo,
riassumendo brevemente i punti cardine che hanno permesso il consolidamento
della situazione attuale, cercheremo di capire: in primo luogo, cosa la Chiesa
potrebbe fare al suo interno, in quanto istituzione sociale inquinata
(volontariamente o meno) dalla mafia, per risanare la sua ambiguità e
ambivalenza nei confronti del fenomeno mafioso; in secondo luogo, cosa
potrebbe fare in collaborazione con le altre istituzioni sociali.
In Calabria la ‘ndrangheta è difficile da sradicare perché non c’è un’entità da
colpire, ma una rete di rapporti, un sistema di relazioni anche politiche che
avviluppano la Regione; in Calabria non c’è solo il boss da catturare, non è la
sola azione di polizia o giudiziaria che può smantellare il fenomeno, che ha
radici più profonde. Bisogna, quindi, chiedersi: come fanno le istituzioni
politiche a spezzare questa rete di rapporti se questa stessa rete si ramifica fino
agli uffici statali? È qui che, a parere di chi scrive, potrebbe intervenire la
Chiesa. Le istituzioni politiche sono immerse nella logica del potere, il quale si
configura come il loro principale strumento d’azione (in teoria adoperato per
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ottenere il bene collettivo), e in quanto tali le persone che lavorano al loro
interno sono perennemente soggette alla tentazione di perseguire i propri
interessi personali prima di quelli della collettività. L’istituzione ecclesiastica,
al contrario, per sua stessa natura dovrebbe essere immune alle logiche del
potere e perseguire la sua missione umanitaria seguendo quelle “istruzioni
evangeliche” talmente note che risulta inutile approfondire in questa sede.
Detto questo, è chiaro che anche la Chiesa è un’istituzione fondata e gestita da
esseri umani anch’essi soggetti alle tentazioni terrene, per usare un linguaggio
religioso, ma, per le ragioni ontologiche pocanzi esposte, è sicuramente meno
frequente che cadano vittime del fascino del potere e della ricchezza. Di contro,
l’errore più spesso compiuto, per ignavia o ignoranza, dagli uomini di chiesa
nel rapporto con la criminalità organizzata è l’inattività che in particolari zone
calabresi permette il protrarsi dello status quo a favore dei mafiosi.
La Chiesa, dopo circa un secolo di mutismo e/o connivenza con il fenomeno
mafioso, nei due decenni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio lo ha
riconosciuto e contrastato apertamente, anche se non sempre in modo
abbastanza incisivo, attraverso denunce ufficiali ma, soprattutto, attraverso
l’azione dei singoli uomini che si sono impegnati nella lotta antimafia. Un
passo sicuramente importante ma con buona probabilità non sufficiente allo
scopo ultimo di sconfiggere l’onorata società: infatti, il riutilizzo dei beni
confiscati, i vari progetti portati avanti con dedizione da coraggiosi uomini di
chiesa, etc. sono tutte ottime attività per indebolire il sistema mafioso ma non
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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sono sufficienti per smantellarlo, in quanto, sono solo ottimi rimedi ai danni da
esso già causati che non gli impediscono di causarne altri.
Per supporre di poter realmente indebolire e poi sconfiggere la mafia è
necessario prima di tutto distruggere il consenso generato intorno ad essa, che
la legittima nelle sue azioni. L’arma più potente al fine di ottenere un simile
risultato è, a nostro avviso, proprio in mano all’istituzione ecclesiastica.
Abbiamo parlato dell’importanza dei sacramenti religiosi per i mafiosi, che si
servono di questi per confermare il loro rapporto con Dio (che così “legittima”
il loro operato) e per saldare vincoli parentali “sacri” nello stesso clan e tra clan
diversi (la funzione del comparatico e del matrimonio). Esiste una soluzione
netta già avanzata dalla Chiesa in passato, ma bruscamente bocciata, e poi
riemersa nel recente intervento di Papa Francesco nella Piana di Sibari: la
scomunica. La scomunica è la pena più grave inflitta dalla Chiesa ad un
battezzato e può essere di due tipi: lataesententiae, che non è esplicitamente
espressa da un’autorità ecclesiastica ma colpisce automaticamente qualunque
fedele che tenga in essere un comportamento delittuoso o faccia uso della
violenza (nel codice del diritto canonico, inoltre, si fa espressamente
riferimento a coloro che praticano l’aborto con il can. 1398, ai responsabili di
apostasia, eresia e scisma con il can. 1364 e agli appartenenti alla massoneria
con il can. 1364); ferendaesententiae, che deve essere espressamente inflitta da
un organo ecclesiastico. Secondo quanto scritto nel codice del diritto
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ecclesiastico61: “can. 1331 - §1. Allo scomunicato è fatto divieto: 1) di prendere
parte in alcun modo come ministro alla celebrazione del Sacrificio
dell'Eucaristia o di qualunque altra cerimonia di culto pubblico; 2) di
celebrare sacramenti o sacramentali e di ricevere i sacramenti; 3) di esercitare
funzioni in uffici o ministeri o incarichi ecclesiastici qualsiasi, o di porre atti di
governo”. Come si può leggere i fedeli colpiti da scomunica non possono più
ricevere i sacramenti. Se la Chiesa scomunicasse espressamente, con un
documento ufficiale e non solo con l’importantissimo anatema di Papa
Francesco, coloro che fanno parte delle organizzazioni mafiose si toglierebbe
all’onorata società uno strumento fondamentale di affiliazione e di
riconoscimento e legittimazione sociale, oltreché identitario: i mafiosi
vedrebbero cadere ufficialmente la maschera di “buoni cristiani” che portano
sul volto e che li rende “persone per bene” agli occhi della comunità
(soprattutto nei piccoli paesi del sud dove il “perbenismo religioso” è un
elemento sociale di prioritaria importanza), della Chiesa e ai loro stessi occhi
(destabilizzando l’idea e la rappresentazione che la mafia ha di sé), così, non
sarebbero più in grado di disporre facilmente riti, rituali ed eventi religiosi a
proprio vantaggio. In questo modo, al di là dell’etichetta di “cristiano doc”,
dovrebbero rinunciare anche alla celebrazione di matrimoni di convenienza,
all’organizzazione delle feste in onore dei santi (quindi anche a portare in spalla
61 Per prendere visione degli articoli del codice del diritto canonico si rimanda
al link http://www.vatican.va/archive/ITA0276/_INDEX:HTM
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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le statue tanto desiderate o deciderne il percorso e le riverenze), al comparatico,
al titolo di cavaliere dell’ordine di San Silvestro (tanto vantato da Lampada) e a
tutti quei riconoscimenti che favoriscono prestigio sociale ottenuti per mezzo
dell’aiuto indiretto della Chiesa.
In merito alla condanna da parte della Chiesa alla mafia, lo storico Marino
afferma che, “per essere veramente efficace anche sul piano simbolico la
condanna espressa dalla Chiesa deve colpire tutti gli aderenti, simpatizzanti,
fiancheggiatori e sostenitori delle mafie, indipendentemente dalla commissione
di qualche fatto specifico, traendo così le doverose conclusioni dalla
definizione di mafie come strutture di peccato” contenute nel documento sul
Mezzogiorno approvato dalla Conferenza episcopale nel 2010 (Gratteri
&Nicaso2013, p. 155). L’opinione di Marino è sicuramente valida per quanto
riguarda la condanna generica dei mafiosi, ma non sarebbe di facile
applicazione (probabilmente neanche giusta) nel caso della scomunica. Ci
rendiamo conto, infatti, che proponendo il mezzo della scomunica come arma
antimafia è necessario fare delle dovute precisazioni: innanzi tutto, la
scomunica dovrebbe colpire coloro che sono già stati condannati dalla
magistratura per associazione mafiosa, così come aveva già proposto il
cardinale Girolamo nell’89; su questo punto si annoda un’altra questione di
prioritaria importanza nell’azione antimafia, ovvero, la stretta collaborazione
con la magistratura rinnegando la posizione di alcuni preti che dichiarano di
non essere tenuti a controllare la fedina penale di chi va a chiedere un
sacramento. Utile sarebbe, al contrario, che la Chiesa e la magistratura
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collaborassero tra di loro al fine di rendere più semplice l’individuazione e la
condanna (intesta in senso lato) di quanti fanno parte dell’organizzazione
mafiosa. Sarebbe bene che i preti con simili atteggiamenti seguissero l’esempio
di don Ennio Stamile (in AA.VV. 2013, pp. 20-21) nella situazione in cui un
giovane mafioso andò a chiedergli di confessarlo:
«Mi perdoni?». «Si». «Mi confessi?». «No». «Sono buono, non
sono fesso. Vorresti dirmi delle cose, in confessionale, che non
potrei ripetere all’autorità giudiziaria. Ma io sono sottoposto
alle leggi dello Stato italiano, oltre che alle leggi di Dio. Vatti a
confessare da un altro sacerdote»
Da episodi come questo dovrebbero trarre insegnamento quei preti che non
credono giusta collaborazione con la magistratura, che ritengono ogni
istituzione debba affrontare i problemi sociali separatamente ognuno con i
propri metodi.
Sulla questione della collaborazione tra le diverse istituzioni sociali torneremo
più in là, ci preme adesso rimanere su ciò che la Chiesa potrebbe fare, prima di
tutto, al proprio interno.
L’istituzione ecclesiastica, prima di compiere qualsiasi passo nell’azione
antimafia, a parere di chi scrive, potrebbe innanzitutto avviare una consapevole
autocritica al fine di costruire un’unità e una coerenza ecclesiastica. Il concetto
di autocritica, in realtà, non è del tutto estraneo ad alcuni uomini di chiesa che,
riconoscendo e biasimando gli errori commessi dalla Chiesa in passato,
riconoscono l’esigenza di un mea culpa che bisognerebbe fare prima ancora di
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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agire verso qualcuno: «Si è consapevoli ma non si è protagonisti» afferma don
Giacomo Panizza mentre racconta i suoi tentativi di mettere in luce
l’emergenza del fenomeno mafioso nelle varie riunioni con i suoi confratelli
che di affrontare l’argomento non avevano affatto voglia (Panizza &Fofi 2011,
p. 222); “ci vorrebbero chiari orientamenti pastorali, da applicare in ogni
parrocchia, escludendo così ogni discrezionalità. […] Non ci possono essere
preti coraggiosi e preti codardi. Ci devono essere preti che applicano la
norma” (Gratteri & Nicaso,2013, p. 166) queste le parole di don Tommaso
Scicchitano, parroco trentacinquenne di Donnici Inferiore (CS).
Chiaramente, una volta compiuta l’azione autocritica e stabilita una linea
d’azione unica che parte dalle alte sfere ecclesiastiche, non bisogna dimenticare
un fattore estremamente importate a volte ignorato dalla Chiesa: la sanzione
degli uomini di chiesa che non rispettano le direttive vaticane. È ovvio che non
serve, ad esempio, ufficializzare la scomunica dei mafiosi se poi il prete del
piccolo paesino calabrese celebra le nozze di un latitante o permette al mafioso
di gestire la festa padronale o consente al boss di fare da padrino al figlio del
suo braccio destro. Per ovviare simili problemi la giusta soluzione è sanzionare
i trasgressori delle regole stabilite (a quel punto divenute parte della legge
vaticana), ovviamente con i modi che ritiene più opportuni, purché non si
insabbino particolari vicende o addirittura non si prendano le difese dei preti
collusi (vedi il caso don Stilo) come in passato.
Per sintetizzare, la Chiesa non è una somma di preti e suore ma un’istituzione
sociale e come tale dovrebbe operare, compatta e unita su un unico fronte. Le
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eccezioni non dovrebbero essere i sacerdoti che si oppongono al potere
mafioso, ma quelli collusi o troppo impauriti per assolvere al loro ruolo di
guide spirituali e la Chiesa potrebbe escludere e punire queste eccezioni, non
proteggerle per salvare le apparenze: solo facendo ciò la Chiesa sarà capace di
ripulire se stessa dalla corruzione e dalla paura sottraendo ai mafiosi la loro
arma più potente, ovvero, la “collaborazione di Dio”. È necessario minare la
mafia nelle sue fondamenta simboliche, ideologiche e sociali prima che
economiche: prima di tutto negando la forza identitaria alla mafia si può
impedire la sua rigenerazione e per far ciò è necessario che l’attivismo
antimafia ecclesiastico parta dall’alto, così da unificare le linee d’azione, e si
applichi a livello locale con l’operato dei preti che vivono in terra di mafiosa.
Si è parlato poc’anzi della necessità di una collaborazione tra le varie istituzioni
sociali al fine di minare la robustezza della mafia. Prima di andare oltre sembra
necessario fare alcune precisazioni circa il fenomeno mafioso affinché si possa
meglio individuare una linea d’azione utile.
L’onorata società si configura a tutti gli effetti come una “istituzione sociale
ufficiosa” che convive con le altre istituzioni sociali elavora in interazione con
queste delineando il volto della società italiana. È un punto nodale da non
sottovalutare: come abbiamo avuto modo di illustrare all’inizio del nostro
lavoro, la mafia come fenomeno sociale non è costituito solo dalle azioni
dell’onorata società, bensì, dalle azioni combinate degli uomini d’onore con gli
uomini collusi appartenenti alle altre sfere sociali (politiche, religiose,
economiche, educative, etc.). La mafia non sarebbe in grado si sopravvivere
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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senza la connivenza di quella parte della società che se ne serve per non
sporcarsi le mani nel raggiungimento di obiettivi illeciti: i mafiosi sono
sfruttatori palesi delle terre e delle comunità, dei beni pubblici e della vita dei
cittadini; ma quella sezione ombrata delle istituzioni è lo sfruttatore latente
della società mafiosa alla quale attribuiamo tutte, o quasi tutte, le responsabilità
criminali.
Detto ciò, proviamo a fare un esercizio riflessivo che capovolga il punto di
vista: si parla sempre di una mafia che vive compiendo azioni illegali
(antisociali) che cozzano con la legislazione del resto della società.
Giustissimo, ma dicendo questo si dimentica sempre di analizzare l’altra faccia
della medaglia, ovvero, quella parte della “società civile” non appartenete
all’onorata società che favorisce la situazione proprio perché può farla fruttare a
suo vantaggio. Adesso una precisazione: gli uomini d’onore non vivono senza
giustizia, nell’anarchia legislativa, ma hanno le loro leggi e le loro regole più o
meno rigide così come hanno le loro punizioni, semplicemente seguono una
legislazione impropria rispetto a quella della società che li circonda; credono di
stare nel giusto, di non commettere peccato e se sbagliano vengono puniti.Ma
possiamo dire lo stesso degli uomini appartenenti alle istituzioni sociali (che
spesso collaborano alle operazioni compiute dai malavitosi)? Possiamo dire lo
stesso dei politici, degli imprenditori o degli uomini di chiesa che si associano
alla mafia, consapevoli di infrangere la legge, semplicemente per nutrire i
propri interessi e non “per principio” come invece possono fare gli uomini
d’onore che credono realmente nel proprio modo di fare? Cosa possiamo dire di
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questi uomini “istituzionali” che volontariamente mostrano due volti (uno
legale e uno non) dapprima difendendo e professando la legge ed i principi
morali della società, e seguendo (quando non istituendo) le regole dell’onorata
società poi?
Scevri da qualsiasi giudizio di valore o di merito è necessario fare una
puntualizzazione per meglio delineare i profili di tutti gli attori sociali coinvolti
nel fenomeno mafioso.
Gli uomini d’onore nascono, crescono e il più delle volte muoiono in un
contesto di vita peculiare che fin dalla culla li educa a determinati principi e
regole, e uno studioso attento dell’essere umano nel suo vivere sociale così
come uno studioso attento dell’essere umano nella sua individualità e nella sua
psicologia sanno quale importanza assume il contesto sociale e soprattutto
familiare nella formazione dell’individuo. Per dirla con parole chiare, senza
scendere troppo nel dettaglio delle teorie sociologiche e psicologiche, la
famiglia insegna all’individuo a vivere nel mondo e su questo punta le sue carte
la mafia (in particolar modo la ‘ndrangheta), nell’azione di trasmissione dei
valori. Al contrario, gli uomini “istituzionali” (sindaci, preti, assessori, suore,
magistrati, etc.) nascono e crescono in famiglie che probabilmente li educano
alla legalità, o che comunque convivono con la società, e che scelgono
autonomamente di assumere un atteggiamento bifronte tra il legale e l’illegale e
che, anzi, spesso sono essi stessi volti della società istituzionale (legale) (si pesi
ai magistrati o appartenenti delle forze dell’ordine collusi) questa è la principale
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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differenza dal punto di vista sociologico tra “mafiosi malavitosi” e “mafiosi per
bene”.
Precisato ciò, come si può di fatto combattere un fenomeno sociale, quale
quello mafioso, che si delinea in una perfetta collaborazione ed integrazione tra
gli appartenenti collusi delle diverse istituzioni sociali (“ufficiali” ed
“ufficiose”)? La risposta è tanto semplice da apparire addirittura banale: per
sconfiggere il fenomeno mafioso sarebbe utile una stretta, stabile e puntuale
collaborazione tra le istituzioni sociali. Come è possibile mettere in pratica un
simile progetto? Attraverso due passaggi fondamentali.
Innanzitutto agendo sulla forma mentis e gli schemi culturali della comunità in
cui opera la mafia e non ci riferiamo solo a quella calabrese, siciliana o
campana, ma a quella italiana che ancora si riproduce per mezzo di
quell’atteggiamento clientelare che nutre il lato opportunistico delle istituzioni
e la mafiosità che ruota intorno allo scambio reciproco di “favori”. In questa
fase la Chiesa e la scuola assolvono un ruolo fondamentale in quanto agenzie
educative e lavorando in collaborazione (ovviamente non intaccando la libertà
religiosa dei ragazzi atei o appartenenti ad una religione diversa da quella
cattolica) possono senza dubbio rimarginare quelle ferite educative, dovute
spesso alla non curanza di insegnati o sacerdoti, che portano poi al mancato
sviluppo di un senso civico appropriato che impedisca il passaggio del
clientelismo attraverso le generazioni.
In secondo luogo, minare l’intero contesto di supporto al fenomeno mafioso
comporta una necessaria e costante azione di denuncia nei confronti delle
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persone che compongono la «zona grigia» delle istituzioni religiose e politiche.
Servirebbe, perciò, raggiungere un’assoluta consapevolezza e cooperazione
delle forze dell’ordine, dei cittadini onesti e degli onesti rappresentanti delle
istituzioni (anche i sacerdoti) puntando davvero al bene collettivo e non
all’interesse personale.
Chi scrive queste parole si rende conto che la questione non è così semplice
come potrebbe apparire e che certe misure quasi mai sono di facile attuazione
(si pesi al caso Fortugno), è per questo che si riconosce anche la necessità da
parte della società nel suo complesso (e delle forze dell’ordine nello specifico)
di tutelare e salvaguardare coloro che intendono realmente denunciare gli abusi
(fisici o meno) di potere.
Ci preme concludere questo lavoro con una precisazione sull’atteggiamento che
chi scrive intende tenere nei confronti del fenomeno mafioso, soprattutto nel
momento in cui si profila una possibile azione antimafia globale dell’intera
società che, con buona probabilità, suonerà vagamente utopistica e troppo
teorica. Il sociologo non è un profeta e non è un giudice morale, non deve dire
ciò che accadrà o ciò che è giusto o meno che accada. Con queste parole si
vuole solo evidenziare una possibile, per quanto complessa, linea di azione
teorica che possa guidare le forze sociali che devono poi trovarne le possibili
attuazioni pratiche, al fine di eliminare un indiscutibile fenomeno “contro-
sociale” (intendendo con questo termine un fenomeno non utile al buon
funzionamento della società nel suo complesso). Questa linea d’azione, è bene
ricordarlo, viene definita semplicemente attraverso un’analisi sistematica di un
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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fenomeno sociale complesso come quello mafioso, un’analisi come quella che
si ha avuto l’intento di compiere con il presente lavoro.
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Volume 20 N° 3 - 2015
259
Antonella Bovino62
, Vincenzo Mastronardi63
, Danila Pescina64
DALL’AMORE ALLA VIOLENZA.
LE DINAMICHE PSICOLOGICHE ALL’INTERNO DELLA COPPIA.
RIASSUNTO
In questi ultimi anni, il tema della violenza ha trovato nei media una notevole
risonanza, ma spesso vengono raccontati solo i fenomeni più gravi e cruenti
dando poco spazio a ciò che accade prima: la violenza all’interno della coppia.
62
Psicologa, Psicoterapeuta, Criminologa. Master in Scienze Criminologico-
Forensi, Università di Roma “Sapienza” 63
Psichiatra, Criminologo clinico. Titolare della Cattedra di Psicopatologia
Forense, Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, Facoltà di Medicina e
Odontoiatria- Università di Roma “Sapienza”. 64
Psicologa, Criminologa, Psicoterapeuta. Specialista in Psicoterapia Breve ad
Approccio Strategico, Esperta in Psicologia delle Dipendenze. Coll. Prof.
Dipartimento di Neurologia e Psichiatria- Università di Roma Sapienza
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
260
Capire cosa succede nella coppia quando si arriva a situazioni violente, e quindi
anche ad uccidere, è un passo importante per la prevenzione e per fare ciò è
importante analizzare le dinamiche psicologiche che sottendono il rapporto tra i
partner. É stato dimostrato che alla base della violenza spesso vi sono
aspettative e bisogni individuali associati alla relazione con le proprie figure
genitoriali.
Comprendere gli elementi che incidono negativamente nella coppia, analizzarli,
accettarli e intervenire serve per superare quel senso di turbata estraneità che ci
prende davanti ai fatti di cronaca e aiuta magari le vittime, almeno alcune tra
loro, a scuotersi e salvarsi in tempo.
In questo articolo si prende una chiara posizione rispetto al tema della violenza,
alla sua prevenzione e alla possibilità di dare un diverso significato a quello che
chiamiamo femminicidio: bisogna iniziare a pensare diversamente e a non dare
per scontato che un uomo uccide una donna solo perchè donna.
L’obiettivo di questo lavoro è fornire una riflessione più ampia su questi
rapporti violenti partendo dalle relazioni vissute durante l’infanzia e dalle
dinamiche psicologiche che si sono instaurate.
Farà da corollario all’articolo un'intervista effettuata ad una donna vittima di
violenza da parte del proprio partner.
Parole chiave: violenza coppia, teoria dell’attaccamento, dipendenza affettiva,
femminicidio, violenza sulle donne
Volume 20 N° 3 - 2015
261
Abstract
In the last years the media have often talked about violence, but only the most
serious and relevant cases have been treated, with little space dedicated to the
Intimate Partner Violence.
An important step to prevent violence is to understand what happens to the
couples when such violent events (including killing) occur, and to achieve this
it is very important to analyse the psychological dynamics which underlie the
relationship between partners. It has been shown that the reasons behind the
violence are often related to the individual expectations and the needs
connected to the parental figures. Understanding the elements which negatively
affect the couple, trying to analyse and accept them, and eventually intervene to
prevent them, is necessary to overcome the feeling of non-involvement which
we have when we hear about tragic events. This might help the victims, or at
least some of them, to react and escape in time.
In this paper we take a clear position in respect of the violence topic and the
prevention, and discuss the possibility of giving a different meaning to what we
call “femicide”: we should start to think differently and do not take for granted
that a man kills a woman just because she is a woman.
The goal of this work is to provide a broader thought on the violent
relationships, starting from the relationships and from the psychological
dynamics which have been lived and established during the childhood. We
include to this work an interview to a woman victim of Intimate Partner
Violence.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
262
Key words: violence, attachment, femicide, psychological violence
La relazione di coppia
La scelta del partner non è mai casuale, avviene inconsapevolmente ed è legata
alle proprie esperienze individuali e familiari: avviene in base al tipo di
rapporto che si è avuto con la figura parentale di riferimento o come
identificazione o come ribellione ed è quindi dettata da motivazioni
psicologiche che sono importanti non solo per capire su che basi si è formata
una coppia, ma anche i motivi di un eventuale crisi.
L’innamoramento è il processo che consente la formazione della coppia e la
relativa unione tra i due partner, in questa fase vi è un alto grado di fusione;
dopo questo iniziale periodo, dove tutto sembra perfetto si arriva alla
consapevolezza che ogni componente della coppia ha una personalità diversa e
da qui i partner devono cercare di accettarsi, crescere insieme, e saper gestire i
conflitti: deve avvenire il passaggio dall’ innamoramento (in cui si pensa che
l'altro è perfetto) , all’amore (in cui si accetta l'altro per quello che è realmente
e non per come si vorrebbe che fosse). Ciò che dovrebbe succedere, quindi, a
livello psicologico, è il passaggio da una fase di illusione in cui il partner
pensa che l’altro corrisponda idealmente a ciò che stava cercando, in grado di
appagare tutte le aspettative, ad una di disillusione65
in cui ci si rende conto
65
La disillusione è una perdita di illusioni o di ideali provocata da un esame di
realtà: il partner si rende conto che quella persona non è più “perfetta” come
Volume 20 N° 3 - 2015
263
della realtà e che quindi l'altro non può soddisfare tutti i bisogni; in questo
modo le aspettative decadono portando inevitabilmente ad una crisi: se questa
crisi non viene superata e quindi non si accetta la realtà si resta bloccati nella
fase dell' illusione, in cui l'altro viene caricato di aspettative relative a bisogni
individuali che non appartengono a lui ma ad altre figure significative
dell'infanzia, ciò comporta il non riuscire ad affrontare cambiamenti e
difficoltà. Ciò che succede è che uno dei partner subisce il cambiamento
dell’altro e non riesce ad accogliere ed elaborare il dolore che deriva dalla
discrepanza tra la rappresentazione di Sé precedente e quella attuale, ed è in
questo modo che si può ricorrere a ritorsioni ed espressioni aggressive.
Alla base di una crisi, quindi, c’è spesso il bisogno di cambiare aspetti che non
soddisfano più i bisogni individuali o di coppia; per poter andare avanti bisogna
accettare i cambiamenti e ridefinire il rapporto ma soprattutto l’altro deve
essere accettato nella sua individualità e non come mezzo per soddisfare i
propri bisogni inconsci.
La possibilità per una coppia di raggiungere la fase della “disillusione” si basa
sulla qualità dei vissuti infantili di ciascun partner: se i partner hanno avuto una
“base sicura”66
che ha consentito loro di accedere a tutte le tappe dello sviluppo
pensava lui; le aspettative decadono. La condizione di disillusione pone la
persona non più amata, o quanto meno non amata in modo idealizzato come
prima, di fronte a vissuti abbandonici e di fine della relazione (M. Bowen
,1978) 66
Il concetto di “base sicura” è stato elaborato da Bowlby nel 1969. La persona
fidata, ossia la figura di attaccamento, è quella che “fornisce la sua compagnia
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
264
emotivo e affettivo, saranno poi in grado di accettare che l’altro è un individuo
a sè e non una proiezione di bisogni e aspettative deluse, in questo modo il
rapporto sarà positivo, al contrario si andrà incontro ad un rapporto negativo
basato su elementi di dipendenza-codipendenza. È stato dimostrato che gli
elementi maggiormente presenti in una coppia in crisi sono, dipendenza,
simbiosi e narcisismo, a volte questi aspetti rappresentano gli estremi
patologici che impediscono lo strutturarsi di una coppia e che portano ad
atteggiamenti violenti. Ciò che succede è che si viene a formare una relazione
schiavo-padrone dove l’altro è un oggetto che serve per riconoscere aspetti
positivi del sé (il padrone ha sempre bisogno di uno schiavo per essere
riconosciuto come padrone). La base del dominio e del rapporto schiavo -
padrone è il pensiero “io posso controllare tutto” ecco perché la violenza scatta
quando l’altro si ribella o fugge dal controllo (Relazioni Perverse. La violenza
psicologica nella coppia. S. Filippini 2005). Molti sono gli uomini che
uccidono le donne improvvisamente nel momento in cui l’altro non è più sotto
il controllo: è il desiderio di essere ancora onnipotente che porta a distruggere
l’altro. Tutti questi elementi rappresentano le dinamiche psicologiche non sane
presenti in tante coppie perverse.
assieme a una base sicura da cui operare”. Lo sviluppo della personalità risente
della possibilità o meno di aver sperimentato una solida “base sicura”, oltre che
della capacità soggettiva di riconoscere se una persona è fidata e vuole offrire
una base sicura. La personalità sana consente di far affidamento sulla persona
giusta e, allo stesso tempo, di avere fiducia in sé e dare a propria volta sostegno
(J.Bowlby 1969)
Volume 20 N° 3 - 2015
265
Le dinamiche del rapporto violento: dipendenza dal partner e
coodipendenza
Quali sono le cause della violenza nei rapporti di coppia? Quali sono i fattori di
rischio che contribuiscono all’insorgere di questa violenza? E come mai le
donne, spesso, non riescono a sottrarsi al partner maltrattante e si trattengono in
un rapporto malato, andando incontro a gravi conseguenze sulla propria salute
psichica e fisica?
La ricerca e i relativi studi sull'argomento hanno dimostrato che di frequente
alla base di una relazione violenta c’è fragilità e debolezza, difficoltà a gestire
emozioni e soprattutto una dipendenza affettiva tra i partner. La dipendenza, di
per sé, non è un concetto negativo in quanto non esiste una persona che possa
dichiararsi totalmente autonoma e indipendente dal contesto e dalle circostanza
relazionali (La dipendenza affettiva. Ma si può morire anche d’amore? C.
Guerreschi 2011). Ognuno di noi è dipendente in qualche misura dagli altri,
tutti abbiamo bisogno di approvazione, empatia, di conferme e ammirazione da
parte degli altri per regolare la nostra autostima, ma spesso questo bisogno
supera la capacità d’amare e diventa un bisogno essenziale e una ricerca
continua di aspetti non più collegati al rapporto presente ma relativi a mancanze
relazionali passate.
La dipendenza affettiva si costruisce sulla base di altri legami relazionali, in
particolare nel rapporto instaurato durante l'infanzia con i genitori, se
quest'ultimi hanno lasciato insoddisfatti i bisogni infantili, i bambini potrebbero
sviluppare pensieri del tipo: “I miei bisogni non hanno importanza” o “ Non
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
266
sono degno di essere amato”. Da adulti, questi "bambini non amati” dipendono
dagli altri per quanto concerne il proprio benessere psico-fisico e la soluzione
dei loro problemi,vivono nella paura di essere rifiutati, scappano dal dolore,
non hanno fiducia nelle loro capacità e si sentono sbagliati e inadeguati nel
rapporto con l'altro .
Per “dipendenza affettiva” si intende una forma patologica di amore
caratterizzata da un assenza di reciprocità all’interno del rapporto di coppia e
dal non riuscire a vivere senza l’altro, ecco perché molte donne subiscono e
tollerano violenze, preferiscono essere maltrattate che perdere l’altro. In queste
situazioni l’altro è un oggetto che serve per non sentirsi sole e inadeguate in
quanto al di sotto della dipendenza vi è una scarsissima autostima. La
percezione di sé stessa come impotente, incapace, colpevole fa in modo che la
donna si indebolisca sempre di più e resti invischiata nella relazione perversa,
scivolando cosi in una spirale senza fine, arrivando a perdere ogni capacità e
speranza di risolvere il problema e uscire dalla relazione che diventa una fonte
di sicurezza. Dobbiamo anche considerare che spesso queste donne, dipendenti
affettive, hanno vissuto abusi sessuali, maltrattamenti fisici ed emotivi durante
l’infanzia che non sono riuscite ad elaborare (Donne spezzate. La violenza tra
le mura domestiche M. Milone 2009).
Ma come si crea la dipendenza affettiva? La dipendenza affettiva si crea prima
dell’inizio del rapporto di coppia. Ricollegandoci alla scelta del partner, è come
se la persona dipendente cercasse proprio quel tipo di rapporto in cui il partner
deve avere quelle caratteristiche che poi vanno a formare un rapporto
Volume 20 N° 3 - 2015
267
dipendente, infatti si instaura un rapporto di dipendenza-codipendenza dove
anche l’altro è dipendente in quanto accetta questo ruolo ed è per questo che va
avanti la relazione. Si tratta, quindi, di una dinamica a due, di un rapporto
simbiotico e quindi di un rapporto disfunzionale. Se il partner scelto non avesse
quelle determinate caratteristiche allora il rapporto finirebbe prima, invece in
questi casi si tratta di due persone fragili e dipendenti che si trovano e si
uniscono. Entrambi hanno una scarsa autostima e vivono nell'ansia di poter
perdere la persona amata. La donna dipendente fa di tutto per rispondere ai
bisogni dell’uomo mettendo da parte i propri, mostra sentimenti di paura e
ansia che la tengono legata alla relazione violenta, subisce così i maltrattamenti
e non chiede aiuto. L’uomo dipendente invece è più facile che mascheri il
proprio bisogno d’affetto proiettandolo sulla donna, esternandolo con rabbia e
aggressività, comportandosi in maniera protettiva talvolta fino all’eccesso della
gelosia patologica, perchè ossessionato dal timore dell’abbandono, e nel
momento in cui lei lo lascia scattano sentimenti di paura e rabbia. Tutto ciò
spiega perché spesso le donne subiscono e non parlano e perché gli uomini, non
accettando la fine di un rapporto, uccidono.
Teoria dell'attaccamento e rapporti futuri
La teoria dell'attaccamento di J.Bowlby ci fornisce una cornice evolutiva
all'interno della quale è possibile comprendere meglio alcune dinamiche di
coppia.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
268
Secondo la teoria dell’attaccamento esistono quattro diversi modelli di
attaccamento alla figura genitoriale che influenzano le relazioni sentimentali
future: l’attaccamento sicuro, l’attaccamento insicuro ambivalente,
l’attaccamento insicuro evitante e l’attaccamento disorganizzato.
Il bambino che ha sviluppato un attaccamento sicuro, nelle relazioni
sentimentali, sarà in grado di dare e ricevere amore poiché ha interiorizzato
entrambi i ruoli: come la madre ha dato tutto per lui ed è stata presente nei suoi
bisogni affettivi, ora lui nella coppia è pronto a dare, accudire e proteggere il
partner; ciò parte dall’esperienza di un rapporto di totale fiducia con la propria
madre. La relazione di coppia sarà “un amore sicuro” basata sulla fiducia
reciproca, utilizzando il proprio partner come base sicura da cui dipendere, ma
allo stesso modo, da cui partire autonomamente.
Durante l’infanzia i soggetti con un attaccamento insicuro-ambivalente hanno
sperimentato una figura di attaccamento imprevedibile e non sempre pronta a
rispondere ai bisogni, per questo tentano di mantenere un contatto strettissimo e
nutrono costantemente la paura di essere lasciati o di non essere amati, hanno
scarsa fiducia in se stessi e nell’altro. Nelle relazioni affettive sono dipendenti e
non riescono a manifestare esplicitamente i propri bisogni perché il fulcro delle
loro dinamiche relazionali è il timore della perdita o del rifiuto. La relazione
sarà possessiva e autoritaria: non mancano, talvolta, reazioni di aggressività
fisica piuttosto violente, o addirittura episodi che sfociano in delitti passionali.
Il problema principale del soggetto insicuro-ambivalente è che “rimane sempre
Volume 20 N° 3 - 2015
269
nella fase dell'innamoramento". La sua ansia da separazione è sempre
all'estremo.
I bambini con uno stile di attaccamento insicuro-evitante hanno sperimentato,
più volte, la difficoltà ad accedere alla figura di attaccamento vissuta da loro
come distaccata e poco presente, per questo non si fidano, esprimono poco i
loro bisogni per evitare risposte negative o inefficaci da parte della stessa.
I soggetti con questo stile di attaccamento svilupperanno un modello mentale
del sé come di persona non degna di essere amata, che deve contare solo su di
se: si sentono sempre inadeguati a causa delle critiche e separazioni a cui sono
stati sottoposti.
Nelle relazioni sentimentali, non avendo sperimentato la fiducia nell’altro fin
dall’infanzia, preferiscono instaurare rapporti superficiali, in cui non si
lasciano coinvolgere eccessivamente per paura della delusione.
L’attaccamento disorganizzato è il prototipo relazionale più patologico e
pericoloso. Durante l’infanzia, i soggetti con attaccamento disorganizzato
hanno vissuto un legame con la figura di attaccamento caratterizzato da
trascuratezza, psicopatologia genitoriale, maltrattamento e abuso sia di tipo
fisico che sessuale. Chi ha sviluppato un legame di attaccamento di questo tipo
darà luogo a relazioni altamente disfunzionali del tipo vittima-carnefice; le
modalità comunicative saranno violente e fredde, presentandosi come partner e
genitori maltrattanti e abusanti.
In conclusione, quindi, chi ha avuto un legame di attaccamento positivo durante
l'infanzia sarà predisposto alla formazione di solidi e soddisfacenti legami
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
270
d’amore nella vita adulta, al contrario il soggetto che nell’infanzia ha instaurato
legami disfunzionali tenderà a riproporre, poi, nella relazione, gli stessi schemi
relazionali.
STILI DI ATTACCAMENTO RAPPORTO DI COPPIA
Rapporto di coppia positivo
Rapporto di coppia possessivo
con angoscia di separazione
Rapporto di coppia superficiale
per paura della delusione
Rapporto di coppia
disfunzionale del tipo vittima-
carnefice
Volume 20 N° 3 - 2015
271
Forme di violenza sulle donne
Le forme più frequenti della violenza, all’interno della coppia,contro le donne
sono:
violenza fisica
violenza psicologica
violenza economica
violenza sessuale
stalking
La violenza fisica racchiude una vasta gamma di comportamenti lesivi per
l’integrità fisica della donna (spinte, pugni, calci, lancio di oggetti, schiaffi,
ustioni ecc); non riguarda solo l’aggressione fisica grave che causa ferite ma
anche ogni contatto fisico mirante a spaventare o a rendere la vittima soggetta
al controllo dell’aggressore.
La violenza psicologica mira a combattere l’identità dell’altro e a privarlo di
ogni individualità; in questo tipo di violenza le donne è come se avessero subito
una specie di “lavaggio di cervello” e si autoaccusano: si sentono inadeguate,
fragili, dipendenti, insicure e convinte di aver bisogno di una guida per
affrontare le piccole difficoltà quotidiane, convinzione che inevitabilmente le
porterà ad accettare passivamente ogni forma di violenza. L’obiettivo
dell’uomo è privare la donna di qualsiasi possibilità di espressione, beffandosi
dei suoi punti deboli e mettendo in dubbio le sue capacità di giudizio e
decisione, la offende e la mortifica, ne mina la fiducia personale, ne limita le
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
272
potenzialità, la isola e la esclude dal contesto. La donna non è più padrona dei
pensieri, è letteralmente invasa dalla psiche del partner e non ha più alcuno
spazio mentale proprio.
Per violenza economica si intendono tutte quelle strategie volte a limitare e
controllare l’indipendenza economica del partner, come, per esempio, impedire
la ricerca di un lavoro, la privazione o il controllo dello stipendio, il controllo
della gestione della vita quotidiana, ecc. La violenza economica riguarda,
dunque, tutto ciò che direttamente o indirettamente, concorre a far si che il
partner sia costretto in una situazione di dipendenza e /o non abbia i mezzi
economici sufficienti per soddisfare i bisogni di sussistenza propri e dei figli; in
questo modo la donna viene privata di decidere e di agire autonomamente e
liberamente rispetto ai propri desideri e scelta di vita.
Per violenza sessuale si intende qualsiasi atto sessuale non desiderato cui la
donna deve sottostare contro la propria volontà. Il riconoscimento della
violenza sessuale, all’interno della coppia, risulta anch’ esso difficile, a causa di
radicate rappresentazioni di doveri coniugali, delle difficoltà a parlarne e delle
reazioni del contesto socioculturale che minimizzano o giustificano la violenza
legata al comportamento sessuale aggressivo del maschio, come prova della sua
virilità o come un suo diritto, infatti molte vittime non denunciano per timore di
non essere credute o per tenere unita la famiglia.
Infine lo stalking riguarda una serie di comportamenti persecutori che incutono
timore alle donne, perpetrati da un partner al momento o dopo la separazione
Volume 20 N° 3 - 2015
273
(La violenza contro le donne . Indagine multiscopo sulle famiglie”Sicurezza
delle donne” Barletta R., Federici A., Muratore M. G., 2006).
Lo stalking è un tipo di violenza da poco riconosciuta a livello normativo in
Italia67
, spesso è un segnale che precede un tentativo di omicidio della donna;
consiste nel ledere la libertà e la sicurezza della stessa. Gli stalker, nella
maggioranza dei casi, sono "ex" che non riescono a rassegnarsi alla fine di un
rapporto sviluppando una vera e propria ossessione nei confronti della
vittima che, molti casi di cronaca lo testimoniano, può arrivare perfino
all'omicidio68
. Il comportamento per stalking viene agito per diversi motivi: per
67
La L. n. 38 del 23 aprile del 2009 ha introdotto nel codice penale vigente nel
nostro ordinamento giuridico il reato di stalking (GU n. 95 del 24-4-2009) 68
Gli stalkers spesso hanno fantasie ossessive di amore, rabbia o vendetta nei
confronti delle loro vittime. Molti stalker ossessivi pensano e/o fantasticano
costantemente sulle loro vittime fino a passare all’atto.. Nei casi prolungati di
"molestie assillanti", va tenuta d'occhio soprattutto la presenza di una serie di
comportamenti associati che spesso rappresentano un segno di sviluppo e di
intensificazione nel percorso di stalking, come il passaggio dalle minacce
esplicite agli atti di violenza su cose (danni alla proprietà) e persone (la vittima
o chi si frappone al rapporto patologico vittima/molestatore). Se si riscontra
questo elemento, aumentano le probabilità che si possa arrivare alla forma di
violenza più estrema, cioè l'omicidio (V. Mastronardi 2005) 7
Le ricerche hanno indicato che lo stalking è una patologia dell'affettività,
evidenziata da alterazioni affettive durante l'infanzia. Lo stalker generalmente
narra una storia di dolore spesso associata ad una negazione dell’amore,
cresciuta silenziosamente nel paradosso di un bisogno disperato di affetto.
Durante l’infanzia si è sentito vittima del rifiuto delle figure di riferimento, in
particolare, il rifiuto materno.La ferita inferta durante l’infanzia ha scaturito
una forma d’insicurezza cronica associata a terrore dell’abbandono ossessivo e
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
274
recuperare una relazione finita, per vendicarsi dei torti subiti, per dipendenza
affettiva, per desiderio di continuare a esercitare un controllo sulla vittima. Il
profilo psicologico dello stalker ha diversi punti in comune con quello del
soggetto affetto da dipendenza affettiva: si tratta di un soggetto debole che per
la paura di essere abbandonato, al pari di un copione già vissuto di esperienze
affettive simili, si lega ossessivamente a qualcuno, manifestando un bisogno
d’affetto in presenza di disturbi relazionali legati ad eventi traumatici69
.
Facendo riferimento alla teorie dell’attaccamento, nello stalker, si è sviluppato
un modello di attaccamento insicuro (ansioso-ambivalente, evitante o
disorganizzato) per cui non può far meno dell’altra persona che diventa
necessaria per la propria esistenza.
Forme di violenza sugli uomini
Spesso quando si affronta il tema della violenza tra i partner, si ha l'immagine
dell’ uomo nel ruolo di “carnefice”, e della donna nel ruolo di “vittima”. Ma
costante che troppo spesso finisce per evocare l’allontanamento delle persone
amate, in quanto l’attaccamento dell’individuo che non ha esperito una forma
sana di amore, è l’attaccamento di un “analfabeta delle emozioni”, che per tutta
la vita tenterà di instaurare rapporti duraturi senza esserne realmente capace. Il
comportamento ansioso e incapace di elaborare l’abbandono del bambino
“rifiutato” tornerà prepotentemente ad insediarsi nella vita dell’individuo adulto
nel momento in cui quest’ultimo sentirà di essere allontanato dalla persona
oggetto del desiderio, portandolo a una regressione che lo costringerà a
rimanere legato a doppio nodo all’ossessione della figura che gli negherà
l’accudimento di cui sente di avere, da sempre, un disperato bisogno (J. Reid
Meloy 1998)
Volume 20 N° 3 - 2015
275
c'è un'altra realtà: quella degli uomini che subiscono violenze70
. La violenza
subita dagli uomini è meno conosciuta rispetto quella delle donne perché gli
uomini si vergognano a raccontare la propria debolezza in quanto l’essere
vittima di violenza non si concilia con l’immagine di “vero uomo”.
Il numero di uomini maltrattati all'interno della coppia è più alto di quanto si
possa pensare, ma essendo una violenza esercitata soprattutto sul piano
psicologico, resta per lo più sconosciuta.
Le forme più frequenti di violenza, all’interno della coppia, verso gli uomini
sono:
violenza psicologica
violenza sessuale
violenza fisica
stalking
Tendenzialmente, la violenza più frequente che le donne esercitano sugli
uomini è quella psicologica.
8 Un sondaggio svolto in collaborazione con l’Università di Siena ha raccolto dopo un lungo lavoro e un’ attenta analisi durata tre anni, dati inerenti la violenza subita dagli uomini da parte delle donne .In Italia è il primo evento significativo che si manifesta sotto forma di ricerca in cui è stata dimostrata una realtà soffocata da pregiudizi legati a tempi remoti. (Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza – Vol. VI – N. 3 – Settembre-Dicembre 2012)
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
276
Nella violenza psicologica, la donna punta a denigrare l'uomo nel suo ruolo di
marito e di padre, diffamandolo nel privato ma anche nel pubblico o sul posto
di lavoro, allo scopo di attaccarne la mascolinità e di favorirne l'isolamento Nel
rapporto di coppia la violenza, quindi, può essere legata ad un tentativo di
svalutare o di umiliare il proprio compagno per tenerlo in qualche modo sotto
controllo o in una posizione di scacco.
Nel contesto familiare le forme della violenza sugli uomini possono passare,
anche, attraverso dinamiche triangolari, per esempio quando si cerca di
instaurare nei figli un’immagine molto negativa dei padri, quando si cerca di
utilizzarli contro i padri, quando in caso di conflitti o separazioni si cerca di
minare il legame affettivo tra padre e figli, rendendo difficile o addirittura
impossibile ai padri vedere o frequentare i bambini.
Quando si parla di violenza sessuale ed in particolare di stupro, generalmente
ci si riferisce alla violenza di un uomo su una donna: è piuttosto raro, invece,
pensare agli uomini come vittime di violenza sessuale da parte di donne o di
altri uomini, anche perché accade molto meno di frequente. Il fatto che
comunemente la violenza sessuale si intenda come compiuta da un uomo verso
una donna (perché è così nella maggior parte dei casi) costituisce uno dei
principali problemi culturali nell’affrontare la violenza sessuale contro gli
uomini. Aver subito una violenza di questo tipo viene comunemente
interpretato come un de-potenziamento della propria virilità.
Volume 20 N° 3 - 2015
277
Altra forma di violenza sugli uomini è la violenza fisica che viene messa in
atto con modalità tipicamente femminili come graffi, morsi, capelli strappati e
lancio di oggetti.
Gli uomini possono anche essere vittime di stalking da parte delle donne: sms,
telefonate, mail continue e pressanti con contenuti che vanno dalla seduzione,
suppliche, ricatti, offese, espressioni rabbiose, ecc.; ma si presentano anche
pedinamenti, atti che screditano la professionalità, la moralità, lo status sociale,
ma anche danneggiamento di oggetti, sottrazione di beni, ecc.
Il ciclo della violenza
Il meccanismo della violenza è una spirale: se il carnefice diventa sempre più
aggressivo, la vittima diventa sempre più “docile”.
Schematizzando il ciclo della violenza vediamo che è un processo circolare
composto da tre distinte fasi:
1. La fase della crescita della tensione . In questa fase la donna inizia ad
avvertire la crescente tensione e cerca di prevenire l’escalation di violenza
concentrando tutta la sua attenzione e le sue energie sull’uomo. La donna
si sente l’unica in grado di aiutare il partner e cerca di contenere la sua
rabbia assecondandolo nelle sue richieste; spera in tal modo di calmare le
acque, diminuire la tensione e controllare l’agire violento del partner.
Molte donne affermano di sentirsi come se “camminassero sulle uova”.
2. Fase del maltrattamento. In questa fase l’uomo perde il controllo di sé e si
verifica l’episodio violento; prima di aggredire fisicamente la compagna ,
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
278
il maltrattante può insultarla, minacciarla e rompere oggetti. Generalmente
la violenza fisica è graduale: i primi episodi sono caratterizzati da spintoni
per poi arrivare a schiaffi, pugni e calci o e all’uso di oggetti contundenti
ed armi. In questo stadio, per sottolineare il proprio potere, l’uomo può
agire violenza sessuale .La donna non reagisce e l’aggressione da parte del
partner le provoca un senso di tristezza e di impotenza. Alcune donne,
meno fragili, possono rivolgersi ai vari servizi (Pronto Soccorso, le forze
dell’ordine, Centri antiviolenza)
3. Fase di luna di miele. Questa fase si suddivide in due diversi momenti.
Nella prima sottofase (A), denominata “delle scuse e delle attenzioni
amorevoli”, l’uomo chiede scusa e si dimostra “dolce, attento e
premuroso” per farsi perdonare. E’ frequente che l’uomo faccia regali,
promesse di andare in terapia e di “fare tutto il possibile per cambiare”
affinché la donna non lo lasci e si separi da lui. Sono usuali, anche, le
minacce di suicidio. La donna si trova di fronte l’uomo affascinante e
amorevole dei primi periodi della relazione e accoglie le false promesse del
partner. Nella seconda sottofase (B) detta di “scarico della responsabilità”
l’uomo attribuisce la colpa del suo comportamento a cause esterne, come il
lavoro stressante, la situazione economica etc.., e soprattutto alla donna che
lo ha provocato o ha fatto qualcosa che giustifica la sua aggressione. Nella
donna prevale il senso di colpa per non essere stata come l’uomo voleva o
si aspettava.
Volume 20 N° 3 - 2015
279
Quando la violenza è radicata, i cicli si ripetono come una spirale diventando
sempre più intensi. Con il passare del tempo, la fase di luna di miele si riduce e
le prime due fasi diventano più frequenti e con conseguenze più gravi per la
donna. Se il processo ciclico non viene interrotto la vita della donna può essere
in pericolo.
E’ fondamentale ricordare che, all’inizio della relazione violenta, la donna è
convinta di poter tenere sotto controllo la situazione e chiede aiuto per problemi
sanitari legati all’episodio violento, per sostegno alla coppia, per contenere o
cambiare il partner. Solo dopo il ripetersi delle fasi, la donna prende
consapevolezza che non può né controllare e né cambiare il partner e sviluppa
una forte difficoltà ad uscire dalla relazione violenta restando per anni nella
spirale della violenza.
Le dinamiche psicologiche all’interno della coppia: analisi dei
comportamenti della vittima e del carnefice
Quando la relazione coniugale si nutre di dinamiche perverse il rischio di
violenza è molto alto.
Molti studi hanno dimostrato che, in caso di violenza nella coppia, la relazione
ha come elementi principali la simbiosi, la perversione e il narcisismo (Il
narcisismo. A. Lowen 1992).
La “simbiosi” è una collusione, cioè un legame molto stretto di cui i partner ne
dipendono non riuscendo a farne a meno; si tratta di un rapporto non sano,
entrambi preferiscono stare insieme provando dolore piuttosto che lasciarsi e
vivere l’esperienza dell’abbandono e della solitudine.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
280
La “perversione”, intesa come modalità perversa di relazione, incide nella
coppia come una lama sottile e trasforma la relazione basandola sul controllo e
sul dominio; non si tratta più di una relazione d’amore ma di una relazione di
potere che disconosce i diritti dell’altro che viene usato solo per il piacere di far
valere se stessi.
Nella maggior parte dei casi la perversione si associa al narcisismo. Per
“narcisismo” si intende una condizione di disagio in cui non è integrata la
capacità d’amare, si tratta di una preoccupazione costante per sé stesso: i
partner sono semplici oggetti, strumenti di rassicurazione momentanea. Il
soggetto narcisista ha un bisogno ansioso di conferme e l’altro non viene né
visto né riconosciuto come persona ma come un riflesso di sé.
Tutti questi elementi portano alla formazione di legami perversi che spesso
portano gli uomini ad essere violenti e le donne a continuare la relazione
disfunzionale. L’obiettivo di entrambi i partner è quello di trattenere l’altro
per paura di essere abbandonato e sentirsi inadeguato, la relazione va avanti e i
partner pensano che si tratti di “vero amore”.
La violenza all’interno della coppia si nutre di caratteristiche specifiche di
entrambi i partner ed è attraverso l’analisi di queste caratteristiche che si può
comprendere perché gli uomini sono violenti e le donne subiscono.
Gli uomini violenti hanno le seguenti caratteristiche:
Impulsività o meglio aggressività impulsiva che porta l’uomo ad
agire senza pensare.
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281
Tendenza all’irritabilità con facile discontrollo: attacchi d’ira e
bassa tolleranza a minime frustrazioni.
Fragilità, considerata inaccettabile, alla quale l’uomo cerca di
farvi fronte con la violenza
Tendenza all’abuso alcolico, che aumenta la loro aggressività
Ossessività: pensano in modo continuo e fisso ai loro timori (per
esempio essere abbandonati, lasciati, ingannati, presi in giro
ecc..)
Paura dell’abbandono. Molti uomini hanno paura dell’
abbandono in quanto anche loro, durante l’infanzia, hanno
vissuto esperienze negative proprio associate al vissuto
dell’abbandono o hanno costruito un modello di attaccamento
insicuro71.
Narcisismo caratterizzato da un bisogno di potere e grandiosità.
Gelosia: vi è un alto grado di gelosia verso il partner che viene
definita “ gelosia ossessiva”
71
La reazione all’abbandono può divenire patologica quando il primo legame di
attaccamento non è stato sicuro. Secondo Bowlby il tema del distacco tocca le
corde più sensibili dell’animo umano perchè spezza uno degli istinti più forti ,
non solo nell’uomo ma anche in alcune specie animali: l’attaccamento,
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
282
Ciò non significa che tutte le persone con queste caratteristiche sono violente,
ma se alla base vi sono queste caratteristiche, che invadono la vita quotidiana
del partner e vengono proiettate continuamente nel rapporto, allora c’è il rischio
che possa scattare la violenza.
Le più frequenti caratteristiche che incidono sulla donna e che la portano ad
essere debole e incapace a chiudere una relazione “ malata”sono:
L ‘isolamento sociale. La paura di restare sole spesso tiene la
donna legata al partner violento.
La scarsa autostima. Molte donne, vittime di violenza, spesso
sono cosi insicure e convinte di aver bisogno del partner per
poter andare avanti perché si sentono inadeguate e incapaci
La fragilità. Esperienze passate hanno potuto rendere le donne
più “indifese” o “esposte” (ad esempio donne che in passato
hanno vissuto esperienze negative che le hanno rese più fragili o
donne che nell’infanzia non si sono sentite protette dalle figure
di riferimento)
La presenza di figli. Quando ci sono i figli è più difficile
separarsi dal partner violento: subentrano sensi di colpa,
preoccupazioni e timori.
inizialmente alla madre, poi si sposta sulla persona amata. (Attaccamento e
perdita. Vol. 1: L'Attaccamento alla madre.J Bowlby ,1999)
Volume 20 N° 3 - 2015
283
Altre importanti variabili come la mancanza di lavoro e di
autonomia economica fanno si che la donna resti legata
all’uomo che la mantiene economicamente
Meccanismi psicopatologici correlati ai disturbi di personalità
È importante non dimenticare che all’interno della coppia violenta potrebbero
essere presenti anche gravi disturbi di personalità, tra questi quelli più
frequentemente riscontrati sono: il disturbo narcisistico, il disturbo dipendente,
il disturbo evitante, il disturbo bordeline e il disturbo antisociale.
Il disturbo narcisistico è il più frequente che può assumere due aspetti: potrebbe
essere solo un tratto di personalità oppure assumere la forma di un vero
disturbo. All’interno della coppia, i soggetti con disturbo narcisistico sono
molto bravi a cogliere il punto debole dell’altro e le sue fragilità, attuano
comportamenti e condizionamenti tali da paralizzare l’altro, mettendolo in una
situazione di incertezza; questi comportamenti sono caratterizzati dalla
denigrazione e dalla presenza di atteggiamenti aggressivi e violenti. Il partner
viene utilizzato non per ricevere amore ma per ricevere ammirazione e per
essere rassicurati nell’immagine idealizzata di sé, tanto da diventare dipendente
da un partner che lo valorizza. Sono manipolatori e fanno di tutto per ottenere
controllo e potere. L’alternarsi di comportamenti dolci e gentili, di completa
disponibilità verso l’altro, con comportamenti aggressivi e violenti è un aspetto
tipico di questi soggetti e porta le vittime a sentirsi confuse (spesso la vittima
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
284
non chiede aiuto perché convinta di essere “amata” e che la colpa della violenza
sia loro).
Un partner narcisista ha difficoltà ad impegnarsi in un rapporto di coppia, ha
paura di essere dominato e per compensare le sue paure fa subire alla donna ciò
che non vuole subire lui. La violenza diventa estrema soprattutto quando le
donne più forti si ribellano: in questo caso l’uomo notando il potere della donna
si spaventa ancora di più, non accetta che lei lo contrasti, si fanno reali le sue
fantasie di essere annientato o dominato e reagisce arrivando anche
all’omicidio.
Altro quadro psicopatologico presente nelle coppie violente è il disturbo
dipendente di personalità. Queste persone instaurano relazioni estremamente
improntate sul “noi”, dove il coinvolgimento è tale da annullarsi per l’altro. Il
partner scelto deve essere forte, in grado di proteggerli dal “resto del mondo” ,
si tratta di una relazione simbiotica72
.Alla base vi è una scarsissima fiducia e il
timore dell’abbandono che invade i loro pensieri . La relazione diventa l’unica
fonte di sicurezza, tutto gira intorno al rapporto, non hanno spazi personali e si
sacrificano per l’altro. Fino a quando la persona dipendente riesce a mantenere
la relazione di dipendenza dalla quale trae forza può condurre una vita in
10
L’amore viene costantemente associato all’idea di fusione, di “diventare una
cosa sola”.. Nel rapporto simbiotico, difatti, non può essere tollerata la
separazione e in questo stato di timore di separazione non è tanto la relazione
con l'altro ad acquisire importanza, ma il proprio senso d'identità che viene
confermato o disconfermato dalla presenza del partner (Avere o essere? E.
Fromm 1976)
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apparenza equilibrata, ma dal momento in cui il rapporto si rompe, la persona
può sviluppare manifestazioni patologiche e attuare violenze.
All’interno della coppia a volte può essere presente anche un disturbo di
personalità evitante; queste persone non hanno fiducia negli altri, sono solitarie,
non hanno una vita sociale e si chiudono nel rapporto di coppia.
Nelle relazioni intime i soggetti evitanti, hanno un continuo timore di essere
umiliati e rifiutati e assumono un atteggiamento sottomesso per il timore di
perdere il partner, possono arrivare a mettere in atto degli atteggiamenti di
ipercontrollo che soffocano l'altro. Se il partner, a causa di questi atteggiamenti
di controllo decide di interrompere la relazione, provoca in loro una reazione
violenta.
Un disturbo molto grave che può essere presente nel partner maltrattante è il
disturbo borderline. Il disturbo borderline di personalità è definito nel Manuale
Diagnostico dei Disturbi Mentali come una “modalità pervasiva di instabilità
delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’affettività con
impulsività notevole, comparsa entro la prima età adulta e presente in vari
contesti”. La persona affetta da disturbo borderline ha difficoltà a stabilire
relazioni interpersonali stabili. All’interno della coppia alternano atteggiamenti
rabbiosi ad atteggiamenti del tutto remissivi e accomodanti (passano dalla più
completa idealizzazione alla svalutazione assoluta). I soggetti bordeline
manifestano, anche, degli importanti disturbi dell’identità: avvertono un
profondo senso di vuoto interiore e per sentire di esistere hanno costantemente
bisogno di avere al proprio fianco qualcuno che li sorregga, per cui tendono ad
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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instaurare delle relazioni caratterizzate dalla più completa dipendenza. La
persona di riferimento affettivo diventa, per l’individuo che soffre di questo
disturbo, assolutamente vitale, di conseguenza di fronte alla possibilità di un
abbandono, anche loro, avvertono un vero e proprio sentimento di
annientamento, di catastrofe emotiva: questo li può portare a scoppi di rabbia
violenta e a mettere in atto comportamenti distruttivi per se stesso e per l’altro.
Analizziamo infine un altro disturbo che può far insorgere atteggiamenti
violenti: il disturbo antisociale.
Il soggetto con disturbo antisociale presenta verso gli altri individui tratti di
ostilità e aggressività. La relazione di coppia è caratterizzata principalmente da
manipolazione, disonestà e di inganno. I diritti e le emozioni del partner
vengono, allora, costantemente violati, e come nel narcisista, anche nel
soggetto antisociale vi è una mancanza di empatia. Altre caratteristiche
personologiche sono quelle di eccessiva autostima, presunzione, testardaggine
e di disfunzionale impulsività e irresponsabilità, con gesti, certe volte, di grave
violenza e crimine, senza sensi di colpa e senza la previsione delle eventuali
conseguenze negative, per questo vengono portati avanti e mantenuti senza
ansia, ne rimorso. Spesso il disturbo antisociale si associa all'alcolismo e/o
all'abuso o dipendenza da altre sostanze, che sono considerati fattori di rischio
della violenza. Nella coppia, il soggetto antisociale, tende all'infedeltà e
all'instabilità che poi lo porta a perdere il controllo. Gli individui con disturbo
antisociale di personalità hanno la tendenza, come accennato, ad essere irritabili
ed aggressivi, fino a commettere ripetutamente aggressioni fisiche, incluse
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quelle verso il partner o coniuge e/o gli eventuali figli. La scarsa tolleranza e la
facile irritabilità portano continui diverbi, litigi e scontri (anche fisici) e per
questo spesso insorge la violenza nella coppia.
L’intervista: storia di amore e di dolore
Per capire i meccanismi psicologici all’interno della coppia, collegati alla
propria storia personale e familiare, si è pensato di intervistare una donna
vittima di violenza coniugale.
La donna intervistata ha 38 anni, madre di tre figli, proviene da un ambiente
familiare privo di sicurezza e amore da cui ha sviluppato un’ attaccamento
insicuro. La madre viene descritta come una madre “severa e assente
emotivamente” mentre il padre viene descritto come un uomo “debole e assente
fisicamente”. Da ciò ne scaturisce un infanzia di solitudine. Racconta che,
essendo cresciuta in un ambiente familiare privo di sicurezza, ha ricercato un
partner forte e presente, diverso dal padre.
Lui ha 39 anni e proviene da ambiente familiare violento e privo di legami
affettivi da cui ha sviluppato un attaccamento di tipo disorganizzato. La madre
era una donna assente, debole e schizofrenica mentre il padre era molto
violento con un modello educativo rigido basato su regole ferree che dovevano
essere rispettate per non incorrere in violenze fisiche. Si è sentito non amato e
rifiutato da un padre che lo picchiava e una madre che non lo difendeva.
Pertanto ha cercato una partner debole da cui avere conferme, ascolto, e il
forte bisogno di sentirsi, finalmente, accettato. Da due questi vissuti di dolore e
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288
solitudine si è creata questa coppia caratterizzata da dipendenza e da un
rapporto “schiavo-padrone” in cui lei era debole e sottomessa e lui forte e
aggressivo.
Nello specifico le dinamiche psicologiche instaurate nella coppia e che hanno
poi portato alla violenza sono:
Nella vittima:
• Fragilità. Essendo cresciuta in una famiglia assente e debole
psicologicamente in lei si sono sviluppate paure e preoccupazioni relative
ad un senso di solitudine. Si è sempre sentita insicura in quanto le figure di
riferimento non sono mai riuscite ad accudirla, a sostenerla ed a darle quel
senso di sicurezza che serve ad affrontare le situazioni della vita.
• Dipendenza. La vittima è sempre stata dipendente dal partner e dalla
relazione. La dipendenza psicologica è dettata da un forte bisogno che deve
essere appagato tramite il partner. Dal racconto emerge chiaramente la
forte dipendenza, in quanto la vittima più di una volta, ha riportato quanto
il partner inizialmente riuscisse ad appagare quel senso di solitudine che si
portava dietro dall’infanzia e ciò l’ha resa dipendente. La vittima ha subito
10 anni di maltrattamenti perché non riusciva a lasciare il suo carnefice:
era più forte il bisogno di non sentirsi sola che la paura di essere uccisa.
• Ricerca di sicurezza. Alcuni passaggi del racconto della donna
dimostrano chiaramente il suo forte bisogno di sicurezza al punto da
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preferire i maltrattamenti pur di non rinunciare alla presenza del partner.
Alla base c’è una scarsissima autostima e una paura di abbandono.
Nel carnefice:
• Senso di inadeguatezza associato all’essersi sempre sentito rifiutato e
non accettato dal padre e non sentirsi difeso dalla madre.
• Narcisismo: in famiglia lui era padre –padrone, è sempre stato un
uomo centrato su di sé e, mentre la moglie doveva restare a casa ad
accudire i figli, lui frequentava altre donne. Era molto geloso della moglie
e non le ha permesso di lavorare pretendendo che stesse il più possibile a
casa: non voleva che lei fosse una donna assente come lo era stata per lui la
madre. Il suo atteggiamento alternava fasi aggressive a fasi dolci e gentili
(tipico dei narcisisti) e ciò portava la moglie a provare sensi di colpa
(violenza psicologica).
• Ricerca di potere e superiorità dettata dal bisogno di sentirsi ascoltato
e riconosciuto: ha sempre vissuto con la paura di essere rifiutato e
maltrattato e ha sperimentato un senso di inutilità. Il padre lo picchiava e la
madre lavorava tutto il giorno tornando solo la sera, lasciando che il
bambino venisse maltrattato, pertanto non ha sperimentato un legame
affettivo, intimo e costante, con la figura materna.
• I bambini non amati non si amano, non hanno fiducia nel prossimo
perché sono stati traditi da chi avrebbe dovuto amarli e coccolarli. La
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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violenza genera violenza, e chi non ha conosciuto amore di rimando non
può darlo. Lui , infatti, riporta gli stessi atteggiamenti del padre nel
rapporto di coppia.
I ricordi dell’infanzia riemergono lentamente nella coppia: come lui è cresciuto
in un ambiente rigido caratterizzato da regole e maltrattamento cosi ha attuato
lo stesso modello con la moglie e coi figli, mentre lei, essendo cresciuta in un
ambiente privo di sicurezza, è diventata dipendente dal suo carnefice subendo
maltrattamenti per anni.
La relazione pian piano, dopo anni di violenza fisica psicologica ed economica
si affievolisce ma la coppia continua a restare insieme: in lei era presente una
forte paura della solitudine e di abbandono ed inoltre si sentiva in colpa per
non aver dato ai figli un’immagine di coppia positiva.
Dopo 10 anni riesce a trovare il coraggio di dire “basta”. In seguito
all’ennesima aggressione, descritta dalla vittima “più violenta del solito”,
racconta: “ Quel giorno è stato violentissimo, ho avuto paura di morire e
mentre mi picchiava l’ho guardato negli occhi, non lo facevo mai, e mi sono
resa conto di aver di fronte un mostro”. In quel momento arriva per lei il
contatto con la realtà: abbandona l’illusione di aver trovato l’uomo perfetto
pronto a soddisfare tutti i suoi bisogni e si rende conto dell’uomo che ha
sempre avuto accanto. Qui di seguito indichiamo qualche frase riferita dalla
vittima durante l'intervista da cui si può capire il vissuto interiore e le forti
emozioni associate a sofferenza e timore.
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“Mi picchiava quando mancavano i soldi e quando non venivano rispettate le regole,
qualsiasi cosa dicevo non gli andava bene”
“Dovevo essere brava e buona, avrei dovuto fare ciò che lui mi chiedeva, senza farlo
arrabbiare”.
“La vita con lui è stata un inferno mi massacrava di botte”.
“Mi tirava i capelli , mi sbatteva al muro, mi faceva uscire il sangue dal naso e dalla
bocca, io andavo in bagno a curarmi le ferite, agli altri dicevo che ero caduta o che
avevo sbattuto. Tenevo sempre i capelli sciolti per nascondere i segni”.
“Quando mi alzava le mani stavo malissimo, mi sentivo impotente perché non sapevo
cosa fare: se reagivo, lui mi faceva ancora più male”.
“Mi ha riempito di calci, poi mi ha fatto mettere in ginocchio per chiedergli scusa per
averlo fatto arrabbiare cosi tanto”.
Cause e fattori di rischio della violenza nei rapporti di coppia
La violenza nei rapporti di coppia non è determinata da un’unica causa, ma da
una serie di elementi che interagiscono tra loro a vari livelli.
Egger e Schär Moser nel 2009 hanno eseguito uno studio, a livello
internazionale, sulle possibili cause della violenza all’interno delle coppie e
hanno rilevato i principali fattori di rischio73
11
Diversi studi rappresentativi sulla violenza domestica ai danni di donne e
uomini sono stati condotti in Svizzera e in altri Paesi da Egger, Theres & Schär
Moser, Marianne. La violence dans les relations de couple. Ses causes et les
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
292
Qui di seguito il grafico e la relativa spiegazione.
mesures prises en Suisse. Rapporto elaborato su mandato del Servizio per la
lotta alla violenza SLV (nel frattempo trasformato in «ambito Violenza
domestica») dell'Ufficio federale per l’uguaglianza tra donna euomo UFU,
Berna (Egger, Theres & Schär Moser, Marianne 2008)
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Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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Individuo
La tesi secondo cui i soggetti che durante l’infanzia sono stati vittime o
testimoni di violenza in famiglia, da adulti tendono più frequentemente a
diventare vittime o autori di violenza, è ampiamente accettata e confermata da
dati empirici. La maggior parte degli uomini che da bambini hanno vissuto
situazioni simili non riproduce questi comportamenti, ma è anche vero che le
donne maltrattate durante l’infanzia rischiano più violenze perché non hanno
fiducia in sé stesse e negli altri, hanno paura di restare sole, hanno difficoltà a
prendersi cura di loro e hanno una visione negativa del mondo. Altro fattore di
rischio è il comportamento antisociale e la delinquenza. Le donne il cui partner
ha avuto manifestazioni di violenza al di fuori della coppia sono esposte a un
rischio nettamente superiore di subire violenza nel corso della vita. Un altro
aspetto connesso alla violenza nella coppia è il consumo di alcol e droga: le
compagne di uomini alcolisti sono più esposte alla violenza rispetto ad altre
donne, perché nel partner si abbassa la soglia di controllo e si ha uno stato di
alterazione che porta una scarsa capacità a gestire le emozioni e quindi ad
esercitare violenza.
Le ricerche evidenziano una correlazione anche tra la violenza e i fattori di
stress come la disoccupazione, il sovraccarico di eventi negativi e situazioni
nuove e improvvise. Ogni individuo ha una propria soglia di tolleranza di
fronte ad un cambiamento, ad una frustrazione, ad un evento di stress e quando
questa soglia viene superata scatta l’aggressività
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Rapporto / Coppia
La ricerca empirica dimostra una stretta correlazione tra la ripartizione del
potere tra i partner e la violenza nella coppia. La disparità di potere nella
relazione viene descritta a diversi livelli ma il nesso maggiormente dimostrato è
quello che c'è tra il comportamento di dominio e controllo e la violenza. Nelle
coppie in cui il potere decisionale è equilibrato, la violenza è nettamente più
rara rispetto alle coppie in cui l’uomo rivendica per sé questo potere. Altre
cause sono: frequenti liti, strategie di gestione dei conflitti, situazioni di vita
difficili. Maggiori sono i litigi nelle coppie più è possibile la violenza, ciò non
significa che i conflitti sono la causa della violenza, ma è il modo in cui
vengono gestiti che può portare alla violenza. Il rischio aumenta in assenza di
strategie costruttive di gestione dei conflitti nelle situazioni di vita difficili, in
questo caso la violenza è il risultato di un accumulo di tensioni.
Comunità
La rete sociale può evitare che insorga la violenza nella coppia, ma in
determinati casi può anche favorirla: l'isolamento e assenza di sostegno sociale
sono considerati i principali fattori di rischio. Più la coppia è integrata
socialmente e meno è caratterizzata dalla violenza. La rete sociale può
evidentemente costituire una protezione, in quanto assume una funzione di
controllo e di sostegno, ma può, anche, favorire l’insorgere della violenza:
questo avviene quando la rete sociale, e in particolare l'ambiente familiare
responsabile della socializzazione primaria, tollerano la violenza o la
considerano normale.
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
296
La società
Il quarto livello si focalizza sulla società e sui fattori sociali che possono
contribuire a creare un clima violento; si tratta di norme socioculturali,
riguardanti in particolare i ruoli di genere e il rapporto con la violenza. Le
caratteristiche sociodemografiche, socioeconomiche e socioculturali descrivono
innanzitutto le categorie sociali nelle quali sussiste un elevato rischio di
violenza. Sono particolarmente rilevanti fattori come la notevole differenza di
età tra l’uomo e la donna, la giovane età della donna, la presenza di figli, la
disoccupazione del partner74
.
Prevenire e curare
La violenza è considerata un problema di sanità pubblica che compromette
gravemente la salute della donna, per questo risulta essenziale prevenire e
curare.
74
Il non avere un lavoro, il trovarsi in un grave stato economico , il non avere
un posto dove andare, costringe molte donne a restare legate alla relazione
violenta aspettando un momento migliore (Egger, Theres & Schär Moser,
Marianne 2008)
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Prevenzione
- Sensibilizzazione: creare una campagna di informazione rivolta alle donne e
agli operatori può migliorare la conoscenza del fenomeno
- Programmi educativi all’interno delle scuole, in particolare la scuola può:
organizzare corsi per far conoscere i diversi tipi di violenza e aiutare i giovani a
sviluppare la capacità a risolvere conflitti in modo non violento
- Spazi di ascolto. È necessario mettere a disposizione servizi territoriali in cui
la donna possa venire ascoltata e aiutata ad uscire dal rapporto violento
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- La prevenzione può provenire anche dalla coppia stessa: entrambi i partner,
nel momento in cui si rendono conto che c’è qualcosa che non va nel rapporto e
che la rabbia predomina sull’amore, potrebbero valutare la possibilità di
chiedere aiuto Pertanto la coppia potrebbe farsi aiutare grazie a un percorso di
mediazione familiare o di psicoterapia di coppia, o anche attraverso percorsi
individuali per modulare la rabbia dell’uomo e per migliorare l’autostima della
donna.
Cura
Sul territorio sono presenti vari centri di accoglienza per le donne vittime di
violenza dove le donne e i loro figli possono trovare risposte al loro bisogno di
protezione e sicurezza.
La violenza comporta, a chi la subisce, gravi conseguenze psicologiche: nel
momento in cui le vittime prendono atto della situazione in cui in cui si
trovano, oltre alla rabbia provano vergogna per non essere state amate, per aver
accettato umiliazioni e per essere state deboli, per questo risulta essenziale una
psicoterapia. Il percorso di psicoterapia aiuta la donna a migliorare l’autostima
e la sicurezza, elaborando emozioni negative come la vergogna e l’impotenza.
I percorsi di cura sono necessari anche per gli uomini affinché possano fermarsi
a riflettere sulle responsabilità connesse alla violenza agita; attraverso percorsi
individuali gli uomini possono comprendere le proprie emozioni, confrontarsi e
accettare le proprie fragilità e debolezze e soprattutto modificare le proprie
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modalità relazionali. Una rete di servizi dedicata agli uomini è utile per dare
risposte adeguate a ciò che è scaturito in loro che ha causato violenza.
La violenza contro le donne spesso assume il carattere dell’invisibilità:
invisibile perché si consuma all’interno dei rapporti familiari e affettivi, perché
non sempre se ne riconoscono i contorni e i contenuti, infine perché la
comunicazione e l’informazione mediatica generano spesso ambiguità,
pregiudizi, stereotipi che danno luogo a percezioni distorte e a sovrapposizioni
di significato ed è per questo che bisogna migliorare la prevenzione e la cura in
modo da far trovare a loro la forza di uscire da questa spirale.
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Conclusioni
L’intento di questo articolo era di focalizzare l’attenzione sugli aspetti specifici
che possono indurre gli uomini ad agire violenza sulle donne: aspetti
psicologici relativi a difficoltà individuali dell’uomo e della donna causate,
come abbiamo visto, da diversi fattori. Riuscire ad “entrare nella coppia”,
comprenderla, studiarla, per approfondire gli aspetti psicologici e
psicopatologici che la caratterizzano e che possono portare ad eventi tragici di
cui troppo spesso abbiamo notizia tramite i media.
L’origine della violenza non va ricercata quindi solo nella “cultura del
possesso”, in cui l’uomo uccide la donna perché non si adatta più ad un modus
vivendi che egli riteneva essere quello giusto. La violenza di oggi non è solo
questo.
Riassumendo, in questa breve trattazione abbiamo potuto osservare che:
- La maggioranza delle violenze avviene nel contesto domestico ed è
prevalentemente commessa da familiari, compagni, ex partner.
- All’interno delle coppie si instaurano relazioni perverse che portano alla
violenza. Entrambi i partner hanno dei vissuti familiari sofferenti e
disfunzionali.
- Di frequente vi sono problemi psichici e storie di dipendenze e abuso da
sostanze
- I motivi che spingono una donna a non denunciare le violenze subite sono
molti: la paura per la propria vita e quella dei propri figli, la vergogna, la
mancanza di mezzi economici, la difficoltà ad accettare il fallimento della
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propria relazione o del proprio sogno d’amore, la riprovazione della famiglia o
della comunità, il senso di confusione e di smarrimento.
- L’importanza della prevenzione, della sensibilizzazione al problema e degli
spazi di ascolto.
- Risulta importante conoscere i Centri di accoglienza del proprio territorio, non
solo per “le vittime” ma anche come riferimento per i diversi operatori.
BIBLIOGRAFIA
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fra parentesi; il nome dell’autore citato va scritto in neretto, seguito dall’anno di
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Finito di stampare il
30 ottobre 2015
presso
Lineart Studio
Via Ottavilla, 10 – 00152 Roma
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SOMMARIO - Nocito Eleonora, Thomas Roberto, Pomilla Antonella
LA NET GENERATION E IL CYBERBULLISMO:
UN’INDAGINE SPERIMENTALE PRELIMINARE
Pag. 7
- Burla Franco, Lastretti Mara, Pedata Loredana Teresa,
Cinti Maria Elena
L'IMPULSIVITÀ NEI PAZIENTI BORDERLINE
Pag. 59
- Cinti Maria Elena, Lastretti Mara, Pomilla Antonella,
Calderaro Monica, Burla Franco,
L’ANALISI GRAFOLOGICA PER LA
VALUTAZIONE DEL TRATTO ANTISOCIALE
DI PERSONALITÀ
Pag. 93
- Casella Cristina, Armando Palmegiani, Danila Pescina
L’OMICIDIO DI MELANIA REA: UNA STORIA
DI STAGING
Pag. 117
- Gallo Raffaella
VANGELO CONTRO-VANGELO. UN’INDAGINE
SUL RAPPORTO MAFIA-CHIESA
Pag.167
- Bovino Antonella, Mastronardi Vincenzo, Pescina
Danila
DALL’AMORE ALLA VIOLENZA. LE
DINAMICHE PSICOLOGICHE ALL’INTERNO
DELLA COPPIA.
Pag.259
Rassegna di psicoterapie. Ipnosi. Medicina Psicosomatica. Psicopatologia forense.
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