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1 Rapporto sulla ricerca-azione collegata al Laboratorio multidisciplinare sul diritto d’asilo di Torino 2013-2014 Le trappole della relazione: assistenza, controllo e autonomia nel rapporto tra operatori e i rifugiati INQUADRAMENTO DELLA RICERCA Nell'ambito di questa ricerca-azione si sono volute affrontare alcune dinamiche che possono emergere e caratterizzare il rapporto tra rifugiati e operatori: le problematiche legate alla possibile compromissione del rapporto e, le soluzioni per aiutare a conservare questo rapporto che gli stessi rifugiati e operatori intravedono, propongono e suggeriscono. Questa ricerca-azione nasce all’interno del Laboratorio Multidisciplinare sul Diritto D’asilo di Torino che è alla sua terza edizione. Il Laboratorio viene promosso dal Coordinamento Non solo asilo, una realtà che raccoglie 16 diversi enti del Piemonte e viene realizzato in collaborazione con il Corso di Laurea Magistrale in Antropologia culturale e Etnologia presso il Dipartimento di Culture, Politica, Società dell’Università di Torino. . Ogni anno all’interno del Laboratorio si promuove anche una ricerca-azione, in cui vengono coinvolti alcuni studenti e due antropologhe per provare a recuperare il punto di vista di rifugiati e titolari di protezione presenti in Piemonte, in diverse province e rispetto al tema prescelto. Il primo anno la ricerca azione ha avuto come tema la percezione del sistema sanitario italiano e della figura del medico di base da parte di rifugiati e titolari di protezione. Il secondo anno la ricerca-azione ha provato ad indagare il rapporto che i rifugiati e i titolari di protezione internazionale avevano stabilito con il territorio in cui vivevano, e il significato della casa e dell’abitare; mentre quest’anno l’obbiettivo era appunto indagare la relazione tra operatori e rifugiati provando a recuperare entrambi i punti di vista di questi due attori nella relazione. Il presente lavoro è frutto di due momenti ben distinti: il primo raccoglie le discussioni e le testimonianze degli operatori all'interno del Laboratorio, che si è tenuto da settembre a dicembre 2013. Gli operatori e operatrici che hanno partecipato ai quattro de incontri del Laboratorio in cui era stata prevista la loro testimonianza sono stati 18 in totale. Ognuno di questi quattro incontri ha affrontato un aspetto specifico del rapporto preso in esame. Gli operatori erano stati invitati a scegliere liberamente a quale incontro partecipare, sulla base del loro interesse e sensibilità, in modo da portare liberamente la propria esperienza e le proprie riflessioni. Il secondo momento è invece consistito nelle interviste in profondità con i rifugiati, che sono state 19 e si sono svolte nei territori di Asti, Biella, Ivrea, Torino e Acqui Terme (AL), ossia nelle stesse realtà provinciali dalle quali provengono gli operatori intervenuti nel Laboratorio e in cui è presente il Coordinamento Non solo asilo, e si sono svolte nell’arco di tempo tra gennaio e maggio 2014. Questo progetto di ricerca-azione è il frutto della collaborazione tra due studenti del Corso di

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Rapporto sulla ricerca-azione collegata

al Laboratorio multidisciplinare sul diritto d’asilo di Torino

2013-2014

Le trappole della relazione: assistenza, controllo e autonomia

nel rapporto tra operatori e i rifugiati

INQUADRAMENTO DELLA RICERCA

Nell'ambito di questa ricerca-azione si sono volute affrontare alcune dinamiche che possono

emergere e caratterizzare il rapporto tra rifugiati e operatori: le problematiche legate alla

possibile compromissione del rapporto e, le soluzioni per aiutare a conservare questo

rapporto che gli stessi rifugiati e operatori intravedono, propongono e suggeriscono.

Questa ricerca-azione nasce all’interno del Laboratorio Multidisciplinare sul Diritto D’asilo di

Torino che è alla sua terza edizione. Il Laboratorio viene promosso dal Coordinamento Non

solo asilo, una realtà che raccoglie 16 diversi enti del Piemonte e viene realizzato in

collaborazione con il Corso di Laurea Magistrale in Antropologia culturale e Etnologia presso

il Dipartimento di Culture, Politica, Società dell’Università di Torino. .

Ogni anno all’interno del Laboratorio si promuove anche una ricerca-azione, in cui vengono

coinvolti alcuni studenti e due antropologhe per provare a recuperare il punto di vista di

rifugiati e titolari di protezione presenti in Piemonte, in diverse province e rispetto al tema

prescelto.

Il primo anno la ricerca azione ha avuto come tema la percezione del sistema sanitario italiano

e della figura del medico di base da parte di rifugiati e titolari di protezione.

Il secondo anno la ricerca-azione ha provato ad indagare il rapporto che i rifugiati e i titolari di

protezione internazionale avevano stabilito con il territorio in cui vivevano, e il significato

della casa e dell’abitare; mentre quest’anno l’obbiettivo era appunto indagare la relazione tra

operatori e rifugiati provando a recuperare entrambi i punti di vista di questi due attori nella

relazione.

Il presente lavoro è frutto di due momenti ben distinti: il primo raccoglie le discussioni e le

testimonianze degli operatori all'interno del Laboratorio, che si è tenuto da settembre a

dicembre 2013.

Gli operatori e operatrici che hanno partecipato ai quattro de incontri del Laboratorio in cui

era stata prevista la loro testimonianza sono stati 18 in totale. Ognuno di questi quattro

incontri ha affrontato un aspetto specifico del rapporto preso in esame.

Gli operatori erano stati invitati a scegliere liberamente a quale incontro partecipare, sulla

base del loro interesse e sensibilità, in modo da portare liberamente la propria esperienza e le

proprie riflessioni.

Il secondo momento è invece consistito nelle interviste in profondità con i rifugiati, che sono

state 19 e si sono svolte nei territori di Asti, Biella, Ivrea, Torino e Acqui Terme (AL), ossia

nelle stesse realtà provinciali dalle quali provengono gli operatori intervenuti nel Laboratorio

e in cui è presente il Coordinamento Non solo asilo, e si sono svolte nell’arco di tempo tra

gennaio e maggio 2014.

Questo progetto di ricerca-azione è il frutto della collaborazione tra due studenti del Corso di

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Laurea in Antropologia Culturale e Etnologia, una studentessa del Cors o di Laurea in Culture

Moderne Comparate e due antropologhe culturali, una con un’esperienza più accademica e

l’altra con un’esperienza nel campo internazionale e sociale.

DALLA PARTE DEGLI OPERATORI

I dati degli operatori partecipanti al laboratorio

In questa prima parte affrontiamo le dinamiche che intervengono nel rapporto tra i rifugiati e

gli operatori, dal punto di vista di questi ultimi. Dalle varie testimonianze che gli

operatori/trici hanno condiviso con noi ci sembra emergano dei punti/delle situazioni

fondamentali che possono influenzare la relazione, alterandone gli equilibri.

La struttura di questa prima parte della ricerca-azione ricalca l'ordine dei temi affrontati nei

diversi incontri del Laboratorio sul diritto d'asilo. Ogni paragrafo è diviso in due parti: la

prima riporta le testimonianze dirette degli operatori/trici che hanno partecipato agli

incontri, mentre nella seconda tentiamo di elaborare una nostra riflessione interpretativa.

Nel primo paragrafo si parlerà quindi dell’affiancamento dell’operatore al richiedente durante

la procedura della domanda d’asilo: un momento delicato, carico di aspettative e frustrazione.

In seguito, affronteremo l’impatto delle diverse progettualità migratorie e della loro

esplicazione o meno da parte dei rifugiati e richiedenti asilo.

Quindi, confronteremo le conseguenze possibili dei vari progetti in cui i richiedenti vengono

inseriti e le problematiche ad essi legati.

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Infine, l’ultimo argomento riguarda l’influenza del genere e dell’età all’interno del rapporto

operatori/trici e rifugiati/e.

1. L’AFFIANCAMENTO DURANTE LA PROCEDURA D’ASILO

Questa è la traccia che è stata usata per presentare agli operatori/trici l'incontro del

3/10/2013:

“Provando a pensare alla tua personale esperienza, al tuo percorso lavorativo degli ultimi anni,

ci piacerebbe che ti fermassi per un momento a riflettere sul modo in cui la procedura della

domanda d’asilo, con le sue modalità di riconoscimento e tempi e con i suoi diversi possibili esiti

(rifugiato, titolare di protezione sussidiaria, titolare di protezione umanitaria, diniego e quindi

possibile successivo ricorso), ha strutturato il rapporto che si andava a instaurare con le persone

che hai seguito. O, ancora, come la lunghezza del percorso di riconoscimento e la sua mancanza

di linearità e chiarezza hanno influenzato la relazione tra te e le persone che seguivi e come

l’hanno eventualmente cambiata nel tempo? Quali problemi, punti critici, fatiche, riflessioni

emergono o sono emerse per te da queste esperienze? Puoi provare a raccontarci una o due

esperienze che ti paiono particolarmente significative in questo senso?”

1.1 Empatia e frustrazione condivisa: impotenza e aspettative

In questo incontro, per quanto riguarda la prima fase della procedura d’asilo, quella cioè della

preparazione della storia in vista del colloquio con la commissione, due operatrici del servizio

“Il Punto di domande” di Torino di UPM (nato nel 2009 proprio per seguire i richiedenti asilo

che non erano inseriti in nessuna progettualità) hanno sottolineato l’importanza di creare una

relazione empatica con i richiedenti. Questo avvicinamento può portare ad una frustrazione

condivisa: per le operatrici a causa dell’impotenza riguardo l’esito della domanda; per i

richiedenti riguardo alle forti aspettative riposte nei confronti delle operatrici.

Così una delle due operatrici ci descrive una sua esperienza:

«Aveva molta fiducia in noi, per cui tutte le volte che si presentava avevamo una certa ansia di

prestazione nei suoi confronti, nel senso che arrivava, si era pagato il biglietto del treno, aveva fatto

un’ora e mezza di treno e noi purtroppo non avevamo risposte. Il più delle volte non sapevamo

veramente che cosa dirgli perché noi stesse stavamo aspettando una risposta, dato che le varie

istituzioni ci dicevano di aspettare. Vivevamo la sua frustrazione.»

La forte fiducia riposta nella relazione mette i rifugiati nella condizione di credere che le

operatrici possano realmente aiutarli nel concludere la procedura positivamente, quando

invece loro possono soltanto accompagnarli.

Un'opinione opposta ci viene offerta dagli operatori di Biella del “Filo da Tessere” e della

Caritas. Essi, infatti, ci raccontano di come, attraverso la stretta convivenza nel centro di

accoglienza con un gruppo di giovani africani, abbiano a volte accostato la relazione

operatore-rifugiato a quella tra coetanei o amici. Uno dei due ci descrive come l'incapacità di

spiegare l'iter giuridico e le sue schizofrenie abbia influenzato pesantemente la relazione di

fiducia che si cercava di costruire con i ragazzi nel centro. Poco a poco, la rabbia e lo sconforto

prendevano piede da entrambe le parti, soprattutto riguardo i diversi e incomprensibili

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parametri di valutazione delle commissioni territoriali. Di fronte ai progetti di inserimento

lavorativo o di insegnamento dell'italiano, i richiedenti erano scettici: «tanto io avrò il diniego,

che me ne frega di imparare la lingua?». Ovviamente gli individui si rendevano conto della

precarietà della loro situazione, in un momento di completa incertezza per il loro futuro, visto

che nulla garantisce che la richiesta non venga respinta. L'aspetto più doloroso secondo

questi operatori è stato quello di essere identificati con le istituzioni italiane («l'essere la

faccia delle istituzioni che decide per gli altri è una mazzata non da poco»); così erano stati

considerati come una sorta di “complici” di chi rendeva il loro percorso di vita ingestibile (?) e

doloroso.

Abbiamo l'impressione che una dinamica come quella descritta dalle operatrici del punto di

domanda possa minare irrimediabilmente la relazione, ma ciò non emerge dalle esperienze

(?).

1.1.2 Soluzioni: chiarezza, trasparenza e spiegazione

Mediatori ed operatori presenti all’incontro suggeriscono un antidoto che consiste

nell’esplicitare fin dall'inizio i ruoli di tutti i soggetti coinvolti nella procedura: innanzitutto

perché la conoscenza delle istituzioni non può essere data per scontata; inoltre, il punto

centrale è spiegare fase per fase l'iter burocratico che si sta affrontando. Questo, sempre

secondo un’operatrice de “Il Punto di domande”, permette di «renderli un po' protagonisti

della loro procedura d'asilo», evitando così di farli sentire «delle palline da ping-pong in balia

di Questura, Prefettura, noi e gli altri uffici».

Le operatrici sostengono quindi come la trasparenza e la spiegazione possano in qualche

modo tutelare il rapporto instauratosi ed aiutare a districarsi in questa nube di fumo, in cui si

fatica a conferire senso a questo tipo di esperienza.

Una mediatrice culturale insiste soprattutto sulla pazienza che serve per investire del tempo

a spiegare, in maniera dettagliata, le normative e le procedure italiane riguardo la loro

situazione. Emerge da varie testimonianze quanto sia importante in questi momenti cercare

di spiegare una temporalità, quella burocratica, che spesso non viene nemmeno concepita dai

migranti.

Una strategia di questo tipo permetterebbe lo spostamento da un’esperienza passiva, in cui il

richiedente è, paradossalmente, solo “l'oggetto” della procedura, ad una entrata in scena della

persona interessata, finalmente più centrale nella dinamica che lo interessa: un passaggio

importante che sposta dal piano dell'Oggetto (la pallina da ping pong è una metafora molto

efficace) al “riconoscimento” di un Soggetto, e della sua soggettività. Quest'aspetto risulta

particolarmente importante laddove spesso i rifugiati non sono gli agenti della loro

procedura; anzi, sono “imprigionati” nella dinamica di riconoscimento che non può non essere

una relazione asimmetrica di potere.

1.2 Ingerenza negativa nella relazione: la procedura d’asilo come sistema di non-senso

La procedura che, almeno potenzialmente, permette di accedere allo status di rifugiato ha un

peso enorme nella vita reale delle persone. I richiedenti asilo, a differenza dei “migranti in

generale”, devono confrontarsi prima con un momento di attesa e poi con un colloquio

davanti alla Commissione Territoriale competente che prenderà una decisione rispetto al

riconoscere loro o meno uno status di rifugiato o di titolare di protezione internazionale o

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umanitaria. Sia il tempo d’attesa che la decisione della Commissione territoriale sono esterne

al raggio d’azione dell’operatore, che può quindi accompagnare e sorreggere il richiedente

asilo in questa fase ma non modificare né il tempo né la decisione che verrà presa. Il tempo e

il fatto che sia qualcun altro a decidere sono fattori cruciali.

Inoltre, è risaputo che la decisione della commissione sia ben lontana dall'essere oggettiva e

che una serie di variabili incontrollabili entrino in gioco nel “giudizio”. Questo è un panorama

generale della procedura che genera, nei soggetti coinvolti, ansia e confusione. Durante

l'Emergenza Nord Africa, il sistema di non-senso è riuscito addirittura ad esacerbarsi. In quel

caso le persone non hanno neanche potuto scegliere se presentare o meno la domanda d'asilo,

ma sono arrivati a forza in Italia per varie ragioni dalla Libia, e il nostro governo ha imposto

loro di fare domanda d’asilo come unica modalità possibile per rimanere regolarmente in

Italia. In più, quasi l'80% di queste richieste è stata inizialmente bocciata dalle diverse

Commissioni Territoriali, aumentando l’illogicità della situazione, e solo in un secondo

momento a chi era stato respinto è stato poi riconosciuto un permesso umanitario.

E' ovvio quindi che tutti i soggetti che ruotano attorno al richiedente in questa fase si ritrovino

in uno stato spiacevole di profonda confusione. E' evidente come ci siano delle contraddizioni

del sistema che si pongono al di là della possibilità e volontà sia dell'operatore che del

richiedente.

La procedura legale, quindi, “imbriglia” le possibilità attive della relazione tra i due e finisce

anche per compromettere in particolare il legame emotivo-relazionale. A questo proposito

colpisce come gli operatori cerchino di rendere il rapporto con i potenziali rifugiati il più

“umano” possibile, sforzandosi di riprodurre una relazione in cui l'aspetto emozionale ed

empatico non venga rifiutato.

Il problema sorge nel momento in cui la realtà sociale si scontra con l'iter della domanda

d’asilo, apparentemente governata dal diritto e da criteri oggettivi ma spesso invece in balia di

decisioni arbitrarie, parziali e soggettive cui si fa fatica a conferire senso.

In più gli operatori, come già sottolineato, finiscono per essere identificati con le istituzioni

che di certo non rappresentano né tanto meno vogliono rappresentare, questo sembra essere

il colpo più pesante assestato alla relazione operatore-rifugiato.

1.3. Riconoscimento giuridico vs riconoscimento sociale

La questione del riconoscimento non si esaurisce nelle sue accezioni legali. Dalle

testimonianze emerge che i richiedenti spesso hanno esplicitato come la loro frustrazione

non sia collegata soltanto all'avere ottenuto un permesso di soggiorno o meno. Sottolineano,

invece, un altro aspetto più sottile, ma indispensabile: queste persone, oltre ad aspettative e

attese rispetto all’accoglienza e all’asilo, hanno bisogno di veder riconosciuto il loro vissuto.

Si evince come non siamo più sul piano del riconoscimento giuridico, ma su quello del

riconoscimento di un'esperienza dolorosa: individui che hanno bisogno di vedere riconosciuto

cosa gli è successo, la sofferenza che hanno attraversato. Lo si potrebbe definire un

“riconoscimento sociale”. Questo permetterebbe loro di collocare la propria “biografia

traumatica” in una cornice di senso a cui attribuire significato. Oscurando questo aspetto, non

ci si rende conto della potenza ambigua dietro la definizione di rifugiato. E’ insito, infatti, nella

dinamica del riconoscimento il rischio di trasformarsi in una relazione asimmetrica. Il potere

di definire le categorie è prerogativa delle istituzioni. Tale forza rende, a volte, i soggetti

vittime di una seconda violenza “simbolica”: si nega il loro vissuto e non si riconosce la loro

sofferenza.

E’ ovvio che questo fenomeno generi ulteriore malessere e “sofferenza sociale” che possono

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minare ulteriormente anche la relazione con l'operatore.

2. I PROGETTI MIGRATORI

Questa è la traccia che è stata usata per presentare agli operatori/trici l'incontro del

24/10/2013:

“Partendo dalla tua esperienza lavorativa nel corso degli ultimi anni, ci piacerebbe che ti

fermassi un attimo a riflettere sulle fatiche, le difficoltà e, più in generale, sull’impatto che ha

avuto nelle relazioni con le persone che hai seguito la presenza di progettualità anche molto

diverse da quelle che arrivano dal livello istituzionale. Ad esempio, il desiderio di alcune persone

di andare all’estero o di spostarsi in altre parti di Italia, in alcuni casi anche

rompendo/interrompendo un certo tipo di percorso, come ha inciso nella relazione? O, ancora, in

che modo un periodo all’estero e un ritorno in Italia, in virtù di Dublino, hanno pesato, cambiato,

modificato, strutturato, la relazione tra te e le persone prese in carico? Quali problemi o

difficoltà hai incontrato a tal proposito nel costruire un rapporto con una persona di ritorno da

un paese estero o con una persona che desidera recarsi all’estero? Quali problemi, punti critici,

fatiche, riflessioni emergono o sono emerse per te da queste esperienze? Puoi provare a

raccontarci una o due esperienze che ti paiono particolarmente significative in questo senso?”

Ci sono casi in cui le persone non hanno interesse a rimanere in Italia e desiderano spostarsi

in altri paesi europei. A volte però, questo desiderio non viene esplicitato. Ciò può capitare

anche perché le norme a livello europeo sono diventate più restrittive nei confronti della

mobilità delle persone, che spesso si trovano obbligate a permanere sul territorio italiano

contro la loro volontà. A questo proposito, un operatore dell’associazione PIAM di Asti e

Settime pensa che non sia corretto costringere le persone ad intraprendere un determinato

percorso in Italia se esse vogliono risiedere altrove. Egli ipotizza che: «se ci fosse più libertà di

movimento probabilmente sarebbero famiglie o persone più felici, soddisfatte del percorso

che stanno facendo.»

2.1 Motivazioni

E’ possibile che i motivi per i quali si taccia il desiderio di andare altrove, siano da ricercarsi

nella paura che il rivelarlo possa compromettere la qualità del servizio a cui le persone hanno

diritto in Italia. Inoltre gli operatori mettono in luce come spesso ci sia un pregiudizio diffuso

secondo cui i servizi del Nord Europa, che riguardano l’asilo, siano migliori di quelli italiani,

senza che ci sia necessariamente una conoscenza profonda di quei paesi. Infatti, un operatore

ci ha parlato di due famiglie, una somala e l’altra afghana, che dopo essere riusciti ad

approdare nel paese desiderato (l’Olanda e la Germania), non hanno trovato l’accoglienza che

si aspettavano: «a volte si illudono che andare all’estero voglia dire trovare un posto migliore, per poi accorgersi del passo falso una volta arrivati.» Comunque, non per tutti l’Italia è vista

come un paese di passaggio ma rappresenta un’opportunità come un’altra, come ha messo in luce

un operatore nei progetti FER della Cooperativa Orso di Torino, dato che molti hanno passato la

vita a scappare e per loro «vivere nella casa occupata in Italia o vivere di nascosto a Parigi, può

essere abbastanza indifferente».

L’operatore del PIAM di Settime e Asti afferma che spesso essi hanno un progetto migratorio

specifico, dettato da un vissuto e da fattori culturali molto forti , «formatosi grazie al passaggio

in diversi luoghi che per noi, come occidentali o come operatori, è molto difficile da capire

come progetto migratorio.»

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Un altro fattore che caratterizza la relazione utente-operatore è la diversa concezione del

tempo. Le progettualità che vengono proposte hanno mediamente una durata di 4-5 anni, ma

gli utenti non hanno una prospettiva così lunga: «chi è portato a confrontarsi con un senso di

vita molto più precario del nostro non accetta questi progetti a lungo termine, ha un senso del

limite diverso perché il suo problema ce l’ha oggi e non è detto che tra 5 anni ci sia.» Da parte

sua, un operatore del PIAM sottolinea l’esigenza da parte degli operatori di abituare queste

persone a guardare lontano, «non solo al bisogno immediato su cui l’operatore può

intervenire assistenzialmente, la fatica sta nel lavorare su un minimo di prospettiva». Emerge

l’importanza dunque di dare a queste persone degli strumenti per crearsi delle prospettive

per il futuro.

In conclusione, ci sembra che la fuga possa rappresentare un meccanismo di resistenza

all’illogicità del sistema, che spesso obbliga i rifugiati ad incanalarsi in percorsi

“preconfezionati” che raramente soddisfano i loro desideri.

2.1 Nascondere il progetto migratorio: problemi e soluzioni

Un’operatrice del gruppo Abele di Torino e un operatore della Coop. Crescere Insieme di

Acqui Terme in provincia di Alessandria hanno sottolineato la frustrazione causata dallo

spreco di risorse, che potrebbero essere utilizzate per altri progetti. Se gli operatori sono al

corrente dei progetti dei richiedenti, hanno la possibilità di dare consigli più mirati e

indirizzarli verso progetti che vadano incontro alle loro intenzioni e ai loro desideri . A questo

proposito uno dei due racconta la sua esperienza con un ragazzo siriano che era attratto dalla

Germania e che fin da subito non ha fatto mistero dei suoi desideri. Alla fine egli ha deciso di

restare, grazie anche ai consigli dell'operatore, esempio di come «i percorsi di integrazione

funzionano non tanto sulle possibilità lavorative, quanto più sulle relazioni che si instaurano

con le persone.» Ad oggi questo ragazzo ha un contratto di tre anni in una pizzeria, perciò il

suo può essere considerato un percorso “positivo” e adeguato alle aspettative.

L’ operatore della Coop. Orso di Torino, parlando di casi in cui le persone decidono di

andarsene dal progetto all’improvviso, ha spiegato che la rabbia e la frustrazione si devono al

fatto che è inutile nascondere all’operatore i propri desideri, dato che: «non cambiano i

vantaggi che ricevi dal progetto, ma anzi ci si priva della possibilità di ricevere un aiuto per

realizzarli (questi desideri) che non viene negato se ci sono le possibilità di poterlo fare.» Un

operatore di Acqui Terme, dal canto suo, afferma che è importante cercare di tenere la rabbia

fuori dalle relazioni con gli utenti del servizio, perché ci si rende conto che è difficile per loro

essere onesti in ogni frangente e che ci sono sempre delle buone ragioni dietro la scelta del

“non dire”. C’è da considerare, inoltre, che non sempre queste scelte sono premeditate ma

dettate da un impulso: «quindi magari uno arriva, prova, raccoglie quello che può e poi magari

sente che altrove la situazione è migliore e allora prova ad andare via ma magari non è

appunto premeditato.» Inoltre, egli propone una soluzione: «Io alle volte cerco di trasferire

questa cosa al sistema, di non prendermela con le persone perché altrimenti rischio di dare

dei giudizi in modo da non trasferire la rabbia sulle persone, perché poi ti fa lavorare male.» A

fronte di ciò, egli ritiene fondamentale il lavoro di squadra e il continuo confronto tra colleghi

per poter agire di concerto.

L’operatore spesso si trova ad agire dentro delle ipocrisie provenienti dal sistema, che egli si

trova a dover gestire. Perciò, anche se si cerca di essere il più possibile trasparente, spesso

questo non è sufficiente. Durante un incontro, un’altra operatrice della Coop. Orso di Torino

non ha esitato a portare alla luce le incongruenze che riguardano il ruolo dell’operatore, il

quale spesso si trova a dover gestire anche il ruolo di autorità che gli viene attribuito: «la

stessa che gli aveva dato i documenti, li aveva messi su un treno senza dargli nessuna

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prospettiva al momento del riconoscimento dell’asilo, li aveva abbandonati a se stessi nel

momento in cui non c’era un posto dove andare o progetti in cui entrare.» Ciò porta a delle

conseguenze, come ci ha spiegato lei stessa: «questa confusione noi la sentivamo addosso, pur

cercando di spiegare che facevamo parte di un’altra categoria e non avevamo tutto questo

potere tra le mani.» Dalle testimonianze emerge come le persone imparino ad adattarsi al luogo in cui si trovano a

vivere, osservando gli operatori: «siamo sempre sotto osservazione, nel senso che le persone ti

misurano, imparano, sviluppano delle loro strategie e […] per noi, nel lavoro che facciamo, non è

importante quante possibili strategie le persone abbiano, ma è importante capire cosa servi loro in

quel preciso momento.»

2.2 Segnali silenziosi di resistenza

L’operatore di Acqui Terme di Crescere Insieme ci ha detto inoltre che nel tempo gli operatori

hanno individuato dei segnali che possono voler dire che quella persona in realtà desideri

spostarsi altrove, quali la difficoltà ad imparare l’italiano o la fatica ad ambientarsi perché:

«potrebbe essere una resistenza conscia o inconscia di questa persona che non mostra

interesse perché il suo obiettivo è altrove, quindi non si attiva.»

La fuga dai progetti non sembra configurarsi come un tentativo di resistenza

all’integrazione,in quanto sono solamente i richiedenti che decidono se integrarsi o meno

all’interno della società, come sottolinea un operatore dell’associazione PIAM di asti e Settime:

«queste persone hanno molti più anticorpi di quanto si pensi per assorbire il

multiculturalismo, molti vivono all’interno di una propria rete, moltissimi vivono qui da tanti

anni ma non parlano l’italiano, quindi questo rischio di vivere un’integrazione coatta non è un

passaggio obbligato e in molte situazioni non avviene. E’ un rischio ma non una legge

inevitabile. Quindi la fuga non per forza deve rientrare in questa logica, cioè come risposta

all’integrazione».

3. I DIVERSI PROGETTI: CARA, SPRAR, FER, POR

Questa è la traccia che è stata usata per presentare agli operatori/trici l'incontro del

14/11/2013

“Partendo dalla tua esperienza lavorativa di questi ultimi anni, ci piacerebbe provassi a

riflettere su cosa abbia significato/significhi lavorare con persone che arrivano da realtà molto

differenti tra loro, quali ad esempio CARA, SPRAR, Case occupate, dormitori di bassa soglia,

eccetera. Quanto è rilevante il percorso precedente alla presa in carico nella costruzione del

rapporto con queste persone e in che modi lo influenza? Quali problemi, punti critici, fatiche,

riflessioni emergono o sono emerse per te da queste esperienze? Puoi provare a raccontarci una

o due esperienze che ti paiono particolarmente significative in questo senso?”

Nella relazione tra operatore e rifugiati un ruolo rilevante è occupato dal progetto in cui i

rifugiati sono o non sono inseriti: Cara, SPRAR, FER o case occupate. Ogni progetto ha delle

potenzialità, dei vincoli e dei limiti ed averli sperimentati in posti diversi potrebbe

condizionare la possibilità di instaurare un rapporto di fiducia.

3.1 Emergenza Nord Africa a Biella

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Il consorzio Filo da Tessere assieme alla Caritas di Biella ha gestito le persone richiedenti asilo

arrivate all’interno dell’Emergenza Nord Africa (ENA) a Biella e in seguito per alcune di queste

persone sono stati attivati una serie di altri progetti quali il progetto Mappe e Non solo Asilo 4

FER e il progetto “Non solo asilo 2 - San Paolo”. Sul territorio di Biella prima di quelli arrivati

durante l’emergenza Nord africa c’erano pochi rifugiati, che erano arrivati da soli o dopo

un’iniziale accoglienza nei CARA del sud Italia ed erano stati ospitati in dormitori o fatti

transitare dalle case occupate di Torino a progetti di accoglienza simili a quelli dello SPRAR

ma attivati grazie al progetto quadro Piemonte Non Solo asilo.

A Biella la prima accoglienza dell’Emergenza Nord Africa è avvenuta all’interno di una stessa

struttura poi in seguito sono state intercettate in tutta la provincia di Biella una serie di

risorse sul territorio, tra cui appartamenti e famiglie resesi disponibili per l'ospitalità.

Un’operatrice del progetto Non Solo asilo 2 San Paolo di Biella si sofferma sulle problematicità

dell’Emergenza Nord Africa: «non si sa mai che tipo di servizi si può dare, non si sa quanto

durano, ci sono proroghe su proroghe, non è mai definito nulla, gli operatori stessi vivono in

una situazione di totale incertezza».

La prima difficoltà incontrata dagli operatori è stato il ritardo del pagamento del Pocket

Money (2,5 euro al giorno) che sin dal loro arrivo sarebbe spettato ai rifugiati: «questo era un

argomento a loro molto chiaro, a loro spettavano dei soldi ma questi soldi non sono arrivati

nei tempi e nei modi attesi e stava finendo il percorso dell'emergenza Nord Africa.» Il

rapporto di fiducia che si era creato tra gli operatori e i rifugiati era messo in crisi da questo

ritardo. Un’altra difficoltà è stata la diversa organizzazione dell’accoglienza tra ENA e post

ENA, cioè dal passaggio da un intervento assistenzialista ed universale: « in cui a tutti

bisognava dare tutto» ad un assistenza individualizzata negli altri progetti: «ci sono dei criteri

d'accesso, ci sono dei criteri che riguardano le caratteristiche dei destinatari e quindi c'è “una

selezione” e “valutazione”, cioè risorse giuste per le persone giuste» .

Tuttavia, molti volontari hanno continuato a comportarsi come nell’ENA, ritenendo, ad

esempio, che i progetti FER, o ancora di più i progetti “Non solo asilo 2 – San Paolo”, non

dovessero essere destinati a poche persone, ma dovessero essere aperti a tutti. Essi hanno

continuato a porsi, nei confronti delle persone, dando a tutti le stesse regole e risposte ma

senza riflettere sulle esigenze di ognuno.

Un operatore del progetto San Paolo 2 di Biella parla delle difficoltà di costruire un rapporto

di fiducia con i rifugiati provenienti dall’ENA:

«La difficoltà di essere la stessa persona che proponeva un’ulteriore cosa, un ulteriore percorso

agli stessi che io avevo imparato a conoscere per un anno e mezzo [...] insomma la stessa persona

che non aveva delle risposte alle loro domande, era la stessa che gli proponeva qualcosa in più,

quindi giustamente come fidarsi?».

Di fronte a questa situazione, gli operatori hanno attraversato una grossa crisi riguardo il loro

ruolo e la loro professionalità perché gli scontri si sono svolti tutti sul piano personale. A

questo proposito l’operatrice ci dice: « quel progetto lì tu non me lo proponi, non perché io o il

progetto abbiamo delle caratteristiche, ma semplicemente perché tu ce l'hai con me e quindi

si creavano situazioni di grossa conflittualità, di provocazione e di forte polemica. ».

Un operatore ci riporta l’esempio di un ragazzo con una buona occupazione lavorativa e una

buona conoscenza dell’italiano al quale hanno organizzato un progetto FER per fargli

prendere la patente. Due suoi amici venuti a conoscenza del suo progetto si sono rivolti agli

operatori perché volevano parteciparvi anche loro, ma essi non avendo un livello linguistico

adeguato non avrebbero potuto superere l’esame. L’operatore continua:

« noi tuttora stiamo cercando di far capire che le poche risorse che il nostro paese ci mette a

10

disposizione, siccome sono già poche, devono essere sfruttate in maniera efficace e pensate

specificamente per il percorso di quella persona, perché altrimenti quelle risorse, per tutti

quanti, andrebbero sprecate ».

L’operatrice di Biella ci mostra le soluzioni che hanno adoperato per venire fuori da questa

situazione di disagio tra operatore e rifugiato . In primo luogo si cambia l’operatore di

riferimento perché in questo modo si può ripartire da zero ed evitare rivendicazioni rispetto ad

una storia pregressa; inoltre si propongono dei progetti con una struttura ben definita, con

criteri e obbiettivi precisi e veicolati da un altro ente.

Per gli operatori dell’ENA è stato molto difficile ricreare questa fiducia con i rifugiati perché gli

attacchi erano molto personali e poi i nuovi progetti (come Fer o San Paolo) hanno come

premessa il “camminare insieme” cioè occorre una certa complicità tra operatore e rifugiato

per raggiungere un obiettivo comune.

L’operatrice di Biella ci dice:

« Da parte mia è stato molto difficile tenere insieme rispetto e consapevolezza di tutto il lavoro

che era stato fatto prima con anche la pazienza di accogliere questo smarrimento e non fiducia

del sistema, che è stata una premessa, cioè insomma parlavano della cooperativa in cui lavoro,

come se parlassero del mostro, quella che gli ha fregato i soldi, piuttosto che altro. »

L’operatrice, parlando della sua esperienza nel progetto Non Solo asilo 2 San Paolo, ha trovato

due soluzioni per sovrastare la sfiducia provocata dal post- ENA. Il primo elemento utile è stata la

presenza della giuria per selezionare l’accesso al progetto, quindi la presenza di un ente terzo; il

secondo è la presenza di un tempo ben stabilito, che è quello della durata del progetto.

3.2 Sprar di Ivrea

Ivrea è una piccola cittadina che ha, dal 2002, un progetto SPRAR per uomini, donne e nuclei

familiari gestito dalla Coop. Mary Poppins. I rifugiati arrivano ad Ivrea mandati da Roma

oppure sono già presenti sul territorio. Le presenze sul territorio sono molto difficili da gestire

perché da un lato i rifugiati ospitano amici, fanno feste negli alloggi, litigano tra loro e si crea

confusione; dall’altra essi arrivano ad Ivrea tramite passaparola di altri connazionali o

conoscenti che li riempiono di fantasie sullo Sprar:

«Questa persona ha una fantasia dello SPRAR di Ivrea del tipo che noi gli diamo la casa, il

mangiare, noi gli procuriamo lavoro, noi gli diamo questo e quello…. Noi non diamo tutte

queste cose qua, noi diamo un’accoglienza temporanea di sei mesi presso uno dei nostri alloggi

o presso una comunità, per un primo periodo di accoglienza, diamo il pocket money di 90 euro

al mese, ma non è fisso, loro devono imparare ad utilizzarlo, devono anticipare i soldi […]

dopodichè io faccio tutti i rimborsi.».

L’operatrice della cooperativa Mary Poppins di Ivrea afferma di preferire l’accoglienza di

richiedenti asilo appena arrivati in Italia, che non parlano italiano e che soprattutto non

conoscono nessuno, per evitare che nutrano aspettative nei confronti dello SPRAR. L’operatrice

si sofferma a parlare della provenienza dei rifugiati dai Cara descrivendola come un’ esperienza

terribile:

« Innanzitutto da un punto di vista legale, sono accompagnati in modo inadeguato rispetto alla

commissione territoriale, quindi molto spesso ricevono delle tipologie di permesso sbagliate

rispetto a quella che è la loro storia per la quale sono scappati dal loro paese. Non gli fanno i

corsi di italiano, stanno parcheggiati li magari nove mesi e non sanno una parola di italiano,

hanno uno status e non hanno fatto assolutamente nulla, anche da un punto di vista sanitario,

neanche uno screening, che è la cosa più elementare e semplice che possa essere fatta.».

Quindi i rifugiati, sottolinea l’operatrice, arrivano dai Cara che sono già frustrati perché

«magari hanno lasciato il loro paese perché vittime di tortura e arrivano nei CARA e di nuovo ci

sono delle violenze o delle cose molto brutte.»

11

I CARA sono molto diversi dallo SPRAR, come li descrive l’operatrice. Nello SPRAR i rifugiati:

«vivono negli alloggi, devono andare a farsi la spesa, quindi devono imparare a farsi la spesa al

supermercato, devono cucinare, imparare a pulire la casa e a convivere con persone che non si

sono scelte, persone di etnie diverse, ognuno con una situazione legale diversa, quindi con una

permanenza diversa.». Al centro del progetto SPRAR vi è sempre un percorso individualizzato

per ogni singola persona perché c’è chi ha maggiori strumenti personali per poter raggiungere

l’obiettivo del progetto e chi, a causa del suo « “percorso migratorio”, non riesce a sviluppare e

sfruttare appieno il periodo passato in accoglienza. Inoltre non tutti quelli che arrivano nello

SPRAR hanno voglia di tirarsi su le maniche e di imparare l’italiano, frequentare tirocini; molti

di loro vogliono i documenti per andarsene via. Altri diventano assistenziali, fanno poco o

nulla, e perciò perdono la possibilità di essere inseriti in altri progetti.»

L’operatrice infine insiste sul fatto che se un rifugiato richiede di uscire da un progetto SPRAR

non può più accedervi, può solo entrare in un altro tipo di progetto, come ad esempio il FER.

3.3 FER di Torino

Un’operatrice della Coop. Orso di Torino ci illustra un pezzo dell’accoglienza nel contesto

torinese. In particolar modo la cooperativa ha inserito in un progetto FER i rifugiati che

avevano occupato la clinica San Paolo. L’operatrice è molto critica sul funzionamento del FER in

Italia perché secondo l’Unione Europea dovrebbe essere un progetto annuale di sostegno

accanto allo SPRAR, ma ciò non avviene: «il FER si posiziona come uno strumento di sostegno.

Sostanzialmente i rifugiati dovrebbero già avere una casa, un avviamento al lavoro, cioè tirocini

già fatti, una formazione minima eccetera, e il FER dovrebbe aiutare a prendere appunto una

patente eventualmente o pagare alcuni affitti di una casa che già esiste, oppure cercare un

inserimento lavorativo più stabile. In realtà questo non capita perché di fatto lo SPRAR non

soddisfa per i numeri le richieste e i bisogni dei rifugiati e quindi viene usato come una

stampella dello SPRAR.»

L’Operatrice fa un esempio: I rifugiati arrivati alla clinica occupata sono stati attirati da racconti

di amici e connazionali, attraverso una rappresentazione distorta del nostro mondo: pensavano

di trovare a Torino casa e lavoro. Sono proprio queste rappresentazioni che spesso spingono i

rifugiati a scappare e a lasciare il proprio paese. Occorre però sempre secondo l’operatrice fare

una distinzione tra i “veri rifugiati” e coloro che usano questo status per ottenere i documenti.

In entrambi i casi secondo lei però le persone arrivate in Italia non trovano quello che si

aspettavano di trovare.

Un operatore del Filo da Tessere di Biella usa la metafora della palla da ping pong per descrivere

il continuo passaggio dei rifugiati da un’organizzazione all’altra: CARA, SPRAR, FER, POR ecc...

L’operatrice della Coop. Orso concorda con questo “sballottamento” dei rifugiati e per questo

quando lei gli propone un nuovo tirocinio loro sono stanchi perché l’hanno già fatto in

precedenza, senza ottenere un lavoro.

Un altro elemento importante è il tempo poiché ogni individuo ha caratteristiche e

potenzialità diverse ma anche tempi diversi. Infatti ci sono persone che in 6 mesi riescono ad

imparare una lingua e a trovare un lavoro, ma sono una minoranza, altri impiegano degli anni.

Per i rifugiati che si trovano in un paese nuovo, l’inserimento dipende anche dalle capacità

psicologiche di attivare delle risposte in situazioni di difficoltà. Partendo dal presupposto che

lo status di rifugiato è una condizione temporanea diventa necessario chiedersi: «qual è il

tempo in cui avrebbe senso che ci siano dei progetti e dei servizi dedicati specificatamente al

richiedente asilo e rifugiato e come si fa a mettere in piedi un sistema che non renda le

persone rifugiate a vita?»

Per essere “integrati” in Italia sono necessari dai 3 ai 5 anni ma i progetti di accoglienza,

SPRAR e FER, hanno una durata troppo breve per poter garantire l’integrazione ai rifugiati. Gli

12

operatori attuano un intervento creativo, costruendo dei valori simbolici di continuità tra i

vari progetti, per dargli un senso oltre alla loro durata annuale. Inoltre, la concezione del

tempo che hanno i rifugiati è differente da quella degli operatori: i primi infatti vogliono

raggiungere dei risultati in breve tempo, mentre gli operatori pensano a risultati su periodi a

lungo termine.

Tra le possibili strategie per istaurare una relazione con il rifugiato, l’operatrice della coop.

Orso di Torino propone di creare una relazione partendo dalla storia biografica del rifugiato

perché è l’unico elemento che si ha a disposizione , indipendentemente se sia vera o falsa . Un

ostacolo alla relazione può essere la lingua poiché l’operatore e il richiedente potrebbero non

avere una lingua comune e in quel caso la comunicazione non è facile. Bisogna inoltre essere

consapevoli che non si tratta mai di una relazione paritaria, l’operatore non deve illudersi di

poter essere considerato alla pari del rifugiato, poiché in quanto occidentale e autoctono/a

vanta tutta una serie di privilegi. Ma è possibile costruire una parità frammentaria, aprendo

piccole finestre di parità, come quando gli operatori riescono a trovare dei compromessi con i

rifugiati, riuscendo a stabilire delle priorità e costruendo un percorso migratorio che si

prefigge una meta. L’operatore è uno strumento affinché il rifugiato possa realizzare il proprio

percorso, perciò, quando egli perde la fiducia del rifugiato, quest’ultimo rischia di non poter

più raggiungere il suo obiettivo.

3.4 POR di Torino

Un altro progetto che abbiamo avuto modo di conoscere attraverso le parole di un operatore del

Gruppo Abele Lavoro di Torino è il Por (Programmi Operativi Regionali) I Por sono dei progetti

finanziati dal Fondo Sociale Europeo che seguono linee di indirizzo regionale e provinciale, e

che emettono un bando o una gara d’appalto per selezionare i destinatari. Per i rifugiati era

stato organizzato un apposito progetto Por che prevedeva l’orientamento e l’inserimento

lavorativo. Le maggiori problematiche che l’operatore ha incontrato sono state la difficoltà di

trovare enti in cui attivare dei tirocini o stage e le resistenze da parte dei rifugiati , che già ne

avevano fatti altri ma con scarsi risultati. A volte i rifugiati vorrebbero avere la possibilità di

poter scegliere loro quale percorso intraprendere senza dover sempre seguire le direttive degli

operatori.

L’operatore del Gruppo Abele Lavoro di Torino del Por inoltre critica l’organizzazione dei

progetti poiché all’inizio è previsto una durata ma poi i tempi vengono prolungati e « Ad averlo

saputo dall'inizio si lavorava in un'altra maniera.».

Un esempio di progetto Por riuscito è stata l’assunzione di un rifugiato presso un panificio a

Torino dopo aver seguito un tirocinio per tre mesi.

4. GENERE e GENERAZIONI

Questa è la traccia che è stata usata per presentare agli operatori/trici l'incontro del

28/11/2013

“Partendo dalla tua esperienza lavorativa di questi ultimi anni, ci piacerebbe provassi a

riflettere su cosa abbia significato/significhi lavorare con persone che arrivano da realtà molto

differenti tra loro, quali ad esempio CARA, SPRAR, Case occupate, dormitori di bassa soglia,

eccetera. Quanto è rilevante il percorso precedente alla presa in carico nella costruzione del

rapporto con queste persone e in che modi lo influenza? Quali problemi, punti critici, fatiche,

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riflessioni emergono o sono emerse per te da queste esperienze? Puoi provare a raccontarci una

o due esperienze che ti paiono particolarmente significative in questo senso?”

4.1 Genere ed età nella relazione

A volte ciò che si ritiene possa essere d’aiuto nell’instaurare buone relazioni, come la

vicinanza d’età, si rivela insufficiente, come ha avuto modo di raccontarci una giovane

operatrice della Coop. Mary Poppins di Ivrea attraverso la sua esperienza con un ragazzo

somalo. L’operatrice pensava di essere riuscita a stabilire un buon legame con lui, grazie

anche alla vicinanza d’età tra di loro, ma alla fine il ragazzo ha deciso di scappare dal progetto

«senza avvisare nessuno, cosa che ha lasciato tutti interdetti perché c’è la possibilità di

abbandonare il progetto SPRAR, se ne può parlare e raggiungere un punto in comune.

Nonostante avessimo cercato di agevolarlo […] il ponte età non è stato sufficiente a creare un

rapporto.»

La stessa operatrice ci racconta di una sua esperienza, questa volta positiva, con un ragazzo

libico, nella cui cultura le donne occupano un posto subordinato, come le dice lui stesso, che

decide comunque di darle un’opportunità e il pregiudizio è stato modificato nel corso della

relazione, permettendo che si instaurasse un buon rapporto di fiducia: «Ha verso di noi un

atteggiamento ottimo. Si fida, ci chiede consiglio, cosa non così scontata. Quindi, in questo caso

essere donna all’inizio era una difficoltà mentre oggi per lui è una risorsa poter contare su un

team di donne che lui considera il motore della Coop Mary Poppins.»

Come ci ha raccontato un’operatrice della Coop.Orso di Torino, in termini culturali, la donna

tende a ricoprire un ruolo di maternage e di accoglienza, che entra in conflitto con il ruolo

normativo che l’operatrice, in certi frangenti, è tenuta a ricoprire, creando delle tensioni

all’interno della relazione. Lei ci ha raccontato la sua esperienza con un signore somalo

all’interno del progetto “Non Solo Asilo 2 San Paolo”. Egli non ha usato i soldi nel modo in cui

era tenuto e l’operatrice gliel’ha dovuto comunicare:

«nel momento in cui ho smesso di mettere in atto l’azione di maternage che probabilmente

questo signore si aspettava da me in quanto donna e quindi ho richiamato un meccanismo

di intervento più tipicamente maschile, di tipo normativo, lui come reazione mi ha

aggredita non fisicamente, anche se ci è andato molto vicino, ma soprattutto verbalmente».

Per contro, in certe situazioni, lei stessa ci dice che caratteristiche più tipicamente femminili,

come la flessibilità e l’accoglienza, possono favorire il percorso degli utenti, senza che siano

etichettate come contrassegni di vulnerabilità. Inoltre, può verificarsi che l’operatrice riesca a

sviluppare un rapporto più accomodante e confidenziale verso certi tipi di soggetti che, con le

donne, si sentono più a loro agio. Lei ci parla così di una sua esperienza con un ragazzo del

Congo: «il fatto di essere donna e di essere stata un po’ più morbida nella fase di selezione

lasciando più spazio a lui e al suo progetto che non alle mie paure e preoccupazioni […] lo ha

aiutato molto a superare la fase critica e poi a realizzare i suoi obiettivi.»

In determinati frangentil’essere donna, perciò, può rivelarsi un vantaggio. Una operatrice del

Gruppo Abele di Torino con una formazione psicologica ci racconta la sua esperienza con una

ragazza transessuale, con la quale c’è stata un’apertura che, come lei stessa ipotizza,

difficilmente si sarebbe verificata con un uomo. Lei ce la descrive così: «Credo che in questo

caso sia stato davvero vincente avere come riferimento una donna giovane con cui si sentisse

libera di affrontare qualsiasi argomento.» L’operatrice stessa ci ha raccontato inoltre della

sua esperienza con donne nigeriane più grandi di lei, con le quali si è sentita messa alla prova:

«Lo vedo anche tra di loro, all’interno del gruppo, se ha i una certa età, quello che dici vale fino

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a un certo punto.» Bisogna comunque cercare di ristabilire dei ruoli e sta all’operatore trovare

dei modi affinché il suo ruolo venga rispettato.

Emerge dunque che certi preconcetti possono essere modificati nel corso della relazione,

portando ad una rivalutazione della figura femminile da parte delle persone che aderiscono ai

progetti.

A volte, però, questo non avviene in quanto emergono dei codici culturali che riflettono le

aspettative che si hanno nei confronti delle persone appartenenti ad un determinato genere.

4.2 Nuclei familiari

E’ molto diverso per l’operatore relazionarsi con un solo individuo piuttosto che con una

famiglia intera. In quest’ultimo caso: «parlare con il nucleo significa parlare di maestre, asili,

vaccini, ma anche di contraccezione per la donna, lavoro per uomo e donna, salute materno-

infantile, quindi di più aspetti contemporaneamente»

Le famiglie vivono in contesti autonomi, quindi nel momento in cui ci si relaziona, si ricopre il

ruolo di loro “ospite”. Ciò permette che si instauri un rapporto amicale, basato sulla fiducia, in

quanto, come ci spiega un operatore del PIAM all’interno di un progetto SPRAR a Settime: «ci

si pone nella posizione di dover accettare da loro delle cose.» Risulta che in questo tipo di

contesto, il pericolo di confusione dei ruoli sia molto più alto perché due sfere che

normalmente restano separate si sovrappongono: da una parte il ruolo istituzionale

dell’operatore e dall’altra quello di persona che viene invitata a condividere qualcosa, che sia

cibo o bevande, a casa loro, perciò in una dimensione molto intima. Sussistono delle differenze

se si ha a che fare con una famiglia di tipo tradizionale o con dei coniugi più giovani.

Il rapporto con le donne è generalmente caratterizzato da maggiore imbarazzo e «significa

guadagnarsi degli spazi che loro ti permettono di occupare». Trattandosi di un operatore

uomo, gli risulta più semplice relazionarsi con gli uomini, con i quali si instaura un rapporto

più paritario.

Inoltre, l’operatore mette a fuoco che gli operatori possono andare incontro ad atteggiamenti

da una parte di riconoscenza per il lavoro che svolgono, dall’altra di tipo rivendicativo per cui

l’operatore «deve rispondere a tutte le esigenze che la famiglia presenta in modo serio e

tempestivo.» Ciò può sfociare in atteggiamenti di ostilità, complicando la relazione. Come ha

messo a fuoco anche un’operatrice, oltre ad atteggiamenti di rivendicazione, si può andare

incontro ad approcci vittimistici da parte di queste persone in quanto l’operatore è visto come

un privilegiato che, in quanto tale, non può comprendere appieno le difficoltà del richiedente.

Nel dibattito è emerso che con i bambini il rapporto risulta più facile e trasparente anche se

con loro le difficoltà derivano più dal fatto che sia molto difficile porre dei confini all’interno

della relazione. Forse con loro è più importante «rispondere innanzitutto umanamente e poi

con qualsiasi altro ruolo possibile e immaginabile», in quanto sono molto fragili e si

rapportano in modo diverso rispetto agli adulti.

4.3 La relazione: parità e asimmetrie

Una questione che è venuta fuori con forza ed in modo trasversale durante gli incontri con gli

operatori si è focalizzata sulla liceità di instaurare dei rapporti che andassero oltre la

relazione di aiuto tra operatore e rifugiato. Per alcuni operatori sembra che la ricerca di una

relazione amicale sia inevitabile, anche se ciò può comportare dei rischi e si ha difficoltà a

tracciare dei limiti. A questo proposito, un’operatrice che lavora nel gruppo Abele di Torino

non ha dubbi: «Io non credo nei rapporti amicali. Non credo nei rapporti paritari, nel senso

che penso che in una relazione d’aiuto non si sia sullo stesso livello e metto tra virgolette

15

quello che viene definito “rapporto di fiducia”». Nel suo lavoro deve mettere in conto che le

persone raccontano ciò che vogliono dire a che non sarà mai tutto ma ciò non impedisce

comunque che si possano creare buone relazioni. Lei crede fermamente in una relazione

lavorativa, finalizzata: «Io so che sono la persona che ti fa da tramite per un’opportunità che tu

hai e quindi è quello l’obiettivo della nostra relazione.» Anche un’altra operatrice della Coop.

Orso di Torino sottolinea che si tratta di una relazione asimmetrica, determinata dai ruoli che

i soggetti della relazione ricoprono: l’operatore è colui che aiuta mentre il beneficiario riceve

supporto. Comunque l’operatrice precisa che spesso c’è la prima fase: «che avviene con la

conoscenza della storia dell’altro, di forte empatia, un immedesimarsi nella posizione

dell’altro per poi ritornare però nella tua». Risulta importante dunque operare un distacco

dopo questa prima fase, dato che si rischia di offrire un’amicizia «come surrogato delle

risposte che non puoi dare», come suggerisce l’operatrice del gruppo Abele. A questo

proposito, un’educatrice professionale che frequenta il Laboratorio Multidisciplinare sul

Diritto D’asilo e che fa l’operatrice per UPM a Torino mette a fuoco i rischi che derivano dal

suo lavoro, nel quale «stai sempre sul confine tra ciò che ti arriva dal mandato istituzionale e

ciò che ti arriva invece dai beneficiari». Il fatto di trovarsi in bilico tra due versanti comporta

molti rischi, tra i quali è molto forte quello di burn out, in quanto il livello di coinvolgimento

che caratterizza questo tipo di relazioni è molto alto. Perciò è molto importante fare un

continuo lavoro di supervisione per evitare di incorrere nel rischio di arrivare a respingere le

persone, come ci spiega un’operatrice: «se non hai un approccio sano tu, difficilmente riesci a

raggiungere risultati professionali adeguati e quindi rischi soprattutto di far male all’altro.»

Un operatore del PIAM di Settime, durante uno degli interventi, ha indicato quali, a suo

parere, sono le buone qualità dell’operatore: in primis la pazienza, poi la capacità d’ascolto e

in ultimo, ma non meno importante, la trasparenza. Lui ce l’ha spiegato così: «far vedere

all’altro che sei in difficoltà, che non puoi rispondere a tutto in tempi brevissimi e sperare che

questo far vedere all’altro che stai lavorando per lui, sei al suo servizio ma sei anche una

persona che ha bisogno allo stesso modo di ascolto e comprensione, ho la speranza che anche

questo sedimenti un rapporto di fiducia.»

4.4 Attribuzione di pregiudizi e stereotipi: uno specchio tra culture, tra riflessioni e

testimonianze.

Una delle questioni che è emersa con forza durante l’incontro, concerne la percezione che gli

utenti dei servizi hanno degli operatori: spesso essi vengono visti come dei privilegiati che,

perciò, non possono comprendere a pieno le difficoltà a cui i richiedenti asilo vanno incontro.

Ciò può dare luogo ad un atteggiamento di rivendicazione o di vittimismo da parte degli utenti

del servizio. Una possibile soluzione per rimodellare queste percezioni consiste nel mostrare

qual è la vera realtà italiana oggi. Solitamente, comunque, esse tendono a sfumare in una fase

successiva, che corrisponde alla fine del progetto, quando sono loro «ad andare a cercare

lavoro, a portare i curriculum, a vedere il numero di persone italiane che stanno cercando

lavoro oggi». Essi, allora, hanno modo di rendersi conto della scarto tra il loro immaginario e

la situazione reale italiana.

I pregiudizi non provengono solamente dai richiedenti ma appartengono anche agli operatori.

Essi, a volte, scoprono di avere dei preconcetti secondo i quali certe questioni sono difficili da

affrontare con determinati soggetti, che vengono poi sfatati dagli utenti stessi. A questo

proposito è interessante portare alla luce l’intervento di un’operatrice che lavora per il

Comitato Collaborazione Medica di Torino attivo all’interno dei FER Mappe e Non solo Asilo 4.

Lei ci ha raccontato la sua esperienza con un gruppo di donne somale, con le quali si sono

organizzati degli incontri sulla salute materno-infantile. L’operatrice di riferimento ha

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consigliato all’ostetrica di parlare unicamente di contraccezione naturale, lasciando stare il

resto. Ma alla fine dell’incontro succede qualcosa di inaspettato: «una di queste donne giovani

chiede: “ma quando ci parli della pillola?” E’ emerso quindi che questi metodi naturali forse

sono sulla carta culturalmente più accettati ma era giunta voce di altro.»

C’è il rischio di proiettare su culture altre delle problematiche che appartengono più

tipicamente alla cultura cosiddetta occidentale, come la violenza sulle donne, connessa alla

grave questione del delitto passionale. Inoltre, forse, non si riflette spesso sul fatto che la

nostra cultura è ancora fortemente maschilista e ciò può favorire l’attribuzione di stereotipi

propriamente occidentali a culture ritenute tradizionalmente maschiliste, come suggerisce un

operatore del Piam dello SPRAR di Settime: «non è che in Italia viviamo in un parità di sessi,

esempio nel mondo del lavoro, per cui posso anche prevedere che possa essere un nostro

pregiudizio perché siamo una cultura molto maschilista ancora che guarda con sospetto una

donna che nella relazione occupa una posizione più alta e di maggior potere rispetto ad un

uomo.»

Per attuare una comprensione reciproca, emerge che bisogna cercare di comprendere

determinate modalità di comunicazione estranee alla propria cultura, che vengono

comunemente ritenute offensive e fuori luogo ma che in realtà rappresentano codici

linguistici e culturali altri. Ad esempio, il fatto di porre numerose ed insistenti domande sulla

vita privata della persona che ci si trova di fronte, non è per forza una volontà di

prevaricazione o una mancanza di rispetto, ma può rappresentare una modalità di entrare in

relazione con e preoccuparsi per l’altro.

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DALLA PARTE DEI RIFUGIATI

Paese

d’origine

Età Dublinati Anni di

permanenza in

Italia

Dove si

trovano

Tipo di

progetto

Uomini Donne

Afghanistan 30 no 2 Ivrea SPRAR x

Afghanistan 28 sì 2 Provincia di

Alessandria

SPRAR x

Afghanistan 23 no 3 Provincia di

Alessandria

SPRAR x

Costa d’Avorio 27 no 3 Provincia di

Alessandria

SPRAR x

Etiopia 27 no 7 Torino FER x

Ghana 23 no 5 Ivrea SPRAR x

Iran 24 sì 2 Ivrea FER x

Libano 60 sì 1 Asti SPRAR x

Libano 60 sì 1 Asti SPRAR x

Libano 23 sì 1 Asti SPRAR x

Libano 19 sì 1 Asti SPRAR x

Libia 26 no 3 Ivrea FER x

Mali 31 no 3 Biella ENA x

Mali 26 no 3 Biella ENA x

Mali 24 no 3 Biella ENA x

Mali 21 no 3 Biella ENA x

Pakistan 31 no 1 Provincia di

Alessandria

SPRAR x

Pakistan 31 no 1 Provincia di

Alessandria

SPRAR

(diniegato)

x

Pakistan 28 no 1 Provincia di

Alessandria

SPRAR x

Tot. 16 3

INTERVISTE DEL 20/03 AD IVREA

Ad Ivrea abbiamo raggiunto la sede della Coop. Mary Poppins, dove abbiamo incontrato una

operatrice, una referente e la direttrice. Le operatrici e la referente avevano partecipato agli

incontri del Laboratorio e ci avevano parlato dal loro punto di vista della realtà di

accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati ad Ivrea. Di lì a poco uno alla volta sono arrivati

quattro ragazzi provenienti dall'Iran, Ghana, Afghanistan, Libia con cui abbiamo iniziato a

parlare per raccogliere il loro punto di vista. I colloqui sono avvenuti in una stanza separata,

dove c’eravamo solo noi e loro.

STRUTTURE D'ACCOGLIENZA: CARA, SPRAR, FER

I quattro con cui abbiamo parlato concordano nel descrivere i CARA come un'esperienza

negativa: «il campo era brutto ma le persone che ci lavoravano e la direttrice ci trattavano

18

bene». Uno degli aspetti più sofferti era la difficoltà nell'imparare l'italiano. L’unica eccezione

è rappresentata da un ragazzo tra i quattro incontrati, che afferma di essersi trovato bene.

Due intervistati, parlando dei CARA, hanno evidenziato la presenza di continui litigi e conflitti

tra rifugiati di etnie e religioni diverse.

La situazione sembra cambiare, quando vengono trasferiti nello SPRAR di Ivrea. A proposito

uno degli intervistati afferma: «il progetto mi è piaciuto di più (dei CARA) perché danno

maggiore attenzione alla persona, attraverso corsi di formazione e scuole». Uno di loro ci ha

parlato della sua esperienza di inserimento all'interno di una famiglia italiana, un programma

compreso nello SPRAR: la definisce significativa per il suo percorso di integrazione ma nutre

dei dubbi sul fatto che a tutti possa piacere.

Un ragazzo dei quattro è poi passato dallo SPRAR al progetto FER di cui ci riporta anche un

giudizio positivo. C'è da sottolineare il fatto che egli, rispetto agli altri, ha raggiunto un buon

livello di autonomia economica e abitativa, tali da consentirgli di sfruttare al meglio le

opportunità offerte dal progetto FER.

Uno dei quattro ci offre una finestra sull'accoglienza dei minori in Italia, affrontando la

questione della fuga di questi ragazzi dai centri. A quanto egli ci racconta, essi seguono i

consigli dei loro conoscenti, secondo i quali dovrebbero andare alla ricerca di un lavoro fin da

subito. Egli però non è d'accordo, sostenendo l'importanza di una buona preparazione

linguistica e professionale.

RELAZIONI:

Tutti e quattro gli intervistati ci hanno detto di avere molti amici nei luoghi dove si trovano,

sia stranieri che italiani. Un ragazzo, sulla sua idea di fiducia, ci dice: «se le persone sono

educate con me e mi trattano bene, io gli do fiducia.»

Un altro ci ha raccontato di aver stretto molte amicizie dentro e fuori dallo SPRAR, però per la

maggior parte i suoi amici sono italiani.

Per quanto riguarda la loro percezione del lavoro degli operatori che hanno incontrato negli

anni e nei posti tendono a dirci che i rapporti con loro sono costruiti e basati sulla fiducia

reciproca. Infatti, come dice uno di essi: «loro costituiscono la mia vita, la cooperativa è

sempre presente quando c'è un problema e io mi rivolgo ancora a loro per il 90% delle volte

che ho un problema. Lo SPRAR è stato ed è il mio braccio destro.»

MEDIATORI:

La figura del mediatore culturale risulta invece alquanto confusa. Infatti per loro quattro

risulta più familiare il termine “traduttore”. La maggior parte di loro ci racconta che si sono

imbattuti nella figura del traduttore unicamente all'interno dei CARA o durante il colloquio in

COMMISSIONE TERRITORIALE.

L'IMMIGRAZIONE DAL PUNTO DI VISTA DI UN INTERVISTATO: UNA TESTIMONIANZA

PARTICOLARE

L'intervista di un ragazzo si discosta totalmente dalle altre, per il fatto che egli, per tutto il

tempo, ha voluto parlare di come vede l'immigrazione nel nostro paese.

Questo è il terzo anno di seguito che lui decide di apportare il suo contributo al progetto di

ricerca- azione del Laboratorio sul diritto d’asilo e senza troppi preamboli afferma che: “[i

richiedenti asilo] bisogna mandarli indietro prima che arrivino in Italia”. Andando più a fondo

su questa dichiarazione scopriamo quello che vuole dire “ meglio che ognuno rimane nel

proprio paese senza la guerra” piuttosto che “venire in Italia e poi dormire per strada”. “ io

19

soffro a vederli per strada, quando il loro desiderio è andare via dall’Italia per andare in paesi

dove possono veramente accoglierli” per lui l’accoglienza Italiana è “ un finto aiuto” per cui

aggiunge che “sarebbe meglio che l’Italia non facesse proprio entrare le persone piuttosto che

accoglierle per un certo periodo e poi lasciarle in mezzo alla strada, questa non è accoglienza e

se qui non si riesce a fare di meglio allora meglio che si aiutino le persone nel proprio paese e

ci si impegni per risolvere le crisi internazionali piuttosto che dire che qui si può essere

accolti.”

PROGETTO MIGRATORIO/CONFRONTO CON GLI ALTRI PAESI EUROPEI

Dalle interviste emerge che un ragazzo è stato “Dublinato”. Durante il suo percorso migratorio

indirizzato al ricongiungimento con il fratello in Finlandia, ha transitato in Italia dove gli

hanno preso le impronte. E’ poi comunque riuscito a raggiungere il fratello in Finlandia, ma

dopo tre mesi è stato rimandato in Italia. Della sua esperienza in Finlandia ci racconta che

non gli è piaciuta la gente: «era troppo fredda e gli operatori che si sono occupati di lui non

erano neanche simpatici».

PROPOSTE PER MIGLIORARE L’ACCOGLIENZA DEI RIFUGIATI

Dopo aver terminato la nostre quattro conversazione, abbiamo trovato uno dei ragazzi che

era passato primo che ci attendeva fuori dalla stanza perché voleva esprimerci altre

considerazioni. Secondo lui i progetti SPRAR normalmente accolgono i single o le famiglie e ci

sono pochi posti per donne sole con a carico dei figli. Egli ci ha parlato di una sua

connazionale che aveva un bambino piccolo e non sapeva a chi rivolgersi, poiché lo SPRAR di

Ivrea nel suo progetto non accoglie le donne con i figli a carico, e secondo lui i diversi progetti

SPRAR in Italia per donne con bambino sono comunque davvero pochi.

L’impressione personale riguardo all’ambiente della cooperativa è molto positiva: l’atmosfera

è scherzosa e rilassata, a dispetto della fermezza nel rispetto delle regole auspicata dalle

operatrici durante il laboratorio multidisciplinare sul diritto d’asilo. Nella cooperativa questi

due aspetti (fermezza ed ascolto) hanno trovato un buon equilibrio per costruire un servizio

efficacie e soddisfacente.

INTERVISTE DEL 27/03 IN PREVINCIA DI ALESSANDRIA

A Cassine siamo state accolte da un operatore di Crescere Insieme (la cooperativa che

gestisce nella Provincia di Alessandria dal 2001 i diversi progetti SPRAR) di nome Emmanuel,

che viene dal Rwanda, è arrivato a sua volta come rifugiato ma ormai vive e lavora qui da

molti anni, ha sposato un’ italiana e sembra aver trovato la sua stabilità. E’ venuto a prenderci

con un furgoncino, ha un modo di fare molto calmo ma allo stesso tempo sembra sicuro di sé.

Ci ha accompagnato nel posto dove si sarebbero svolte le interviste. Gli operatori della Coop.

Crescere Insieme” hanno pensato che il corso di italiano sarebbe stato un buon momento di

ritrovo perché potessimo incontrare le persone tutte insieme e intervistarle una alla volta in

una stanza separata rispetto a quella dove si tiene il corso di italiano.

Qui abbiamo potuto parlare a lungo con sei rifugiati, di cui due provenienti dall’Afghanistan,

tre dal Pakistan e uno dalla Costa d’Avorio, tutti inseriti nel progetto SPRAR (?).

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ESPERIENZE IN ALTRI PAESI EUROPEI

Dalle interviste è emerso che alcuni di loro hanno avuto l’occasione di permanere per qualche

tempo in un altro paese europeo, chi per una ragione o per l’altra.

Uno di loro ci ha raccontato della sua esperienza in Olanda, della quale conserva un ricordo

sgradevole: «E’ un bel paese ma per me è stato brutto.» Lì aveva fatto domanda d’asilo, ma

sfortunatamente per lui lo status gli è stato negato e, dopo quattro mesi in prigione, viene

rimandato in Afghanistan. E’ costretto dunque ad intraprendere il viaggio di uscita

dall’Afganistan per la seconda volta. Arrivato in Italia, questa volta gli vengono prese le

impronte digitali ma decide lo stesso di proseguire verso la Svezia. Questa volta non ha di

nuovo scelta perché, secondo Dublino II, è costretto a fare ritorno in Italia per portare avanti

la sua domanda d’asilo , il paese dove hanno preso le sue impronte. Viene quindi rimandato in

Italia in un CARA dove inizia le pratiche per la domanda d’asilo. Qui ottiene lo status di

protezione sussidiaria ed ora è inserito in un progetto SPRAR nella Provincia di Alessandria,

di cui si ritiene soddisfatto.

E’interessante notare come i pregiudizi che egli aveva riguardo al sistema d’accoglienza del

nostro paese, («Non volevo tornare in Italia perché la prima volta avevo visto tante persone

lasciate per strada e mi ero fatto l’idea che qui non ci fosse un buon sistema d’accoglienza») a

causa dei quali per due volte ha deciso di scappare altrove, siano stati completamente

capovolti.

Questa testimonianza ben si presta ad essere paragonata a ciò che gli operatori hanno avuto

occasione di portare alla luce durante il Laboratorio, specialmente in occasione del secondo

incontro, riguardante il desiderio dei richiedenti di spostarsi altrove. Durante l’incontro,

infatti, un operatore aveva avanzato l’ipotesi che una delle ragioni della fuga consistesse in un

giudizio negativo nei confronti del sistema di accoglienza italiano.

Questo caso ci sembra possa dare qualche conferma alla lettura fatta dell’operatore ; tuttavia

ci trasmette anche una piccola dose di fiducia per il fatto che, pur rimanendo vera la

sostanziale debolezza e le grandi carenze del sistema d’asilo italiano, esistono al suo interno

alcune realtà, progetti e prassi consolidate che portano i rifugiati che lì vengono accolti a

ricredersi rispetto a un loro giudizio iniziale negativo sul sistema di accoglienza italiano.

PROGETTI DI ACCOGLIENZA: CARA, SPRAR

Il progetto SPRAR in Provincia di Alessandria è costituito da diversi appartamenti dislocati sul

territorio alessandrino, nei quali vivono normalmente non più di cinque ragazzi ognuno, come

si desume anche dall’incontro con i sei rifugiati a Cassine che fanno parte del progetto.

Tutti loro si mostrano contenti del progetto e delle persone con cui si trovano a vivere.

Sembra dalle loro parole che le difficoltà maggiori derivino dalla convivenza stessa, in cui

persone diverse sono costrette a vivere insieme e a trovare un modo pacifico di rapportarsi

l’uno all’altro rispettando le altrui abitudini e usanze.

Uno di loro ci dice che «Non è semplice vivere insieme ma ci organizziamo al meglio.» Ma non

mancano i pareri totalmente positivi: «Vivo con cinque persone e sono tutti buoni, non ci sono

problemi.»

Anche in questo caso, possiamo trovare delle affinità con le dichiarazioni di un’operatrice di

un progetto SPRAR raccolte durante il Laboratorio, nelle quali veniva fuori con forza la

questione della convivenza: nello SPRAR i rifugiati devono imparare a convivere con persone

che non si sono scelte e a gestire al meglio l’alloggio fornitogli .

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Per quanto riguarda il CARA, le esperienze raccolte dai sei intervistati sono generalmente

negative e spiacevoli. Il CARA è descritto da tutti come un posto sovraffollato, sporco e

caratterizzato da molta confusione. Inoltre spesso è qui che il richiedente attende una risposta

dalla commissione per cui, oltre alle carenze strutturali del luogo, si aggiungono la propria

preoccupazione e tensione: «si è nervosi, è una brutta situazione, non si pensa se gli operatori

sono buoni o no, si sta male perché si è in attesa di sapere se si avrà o meno un permesso di

soggiorno.» Non manca però un ragazzo che ricorda con affetto tutte le persone che ha

incontrato all’interno del CARA (la dottoressa, gli operatori), dei quali parla come di una

famiglia.

CORSI DI FORMAZIONE, STUDIO DELL’ITALIANO

Come già anticipato, i sei che intervistiamo frequentano tutti il corso di italiano e sembra che

siano molto interessati e partecipi. Per quanto riguarda i corsi di formazione, tutti gli

intervistati ci hanno raccontato di frequentare un corso per meccanici. Sembrano tutti

alquanto soddisfatti del percorso che stanno facendo. Un ragazzo ci ha raccontato che sua

moglie e i suoi figli sono rimasti nel paese d’origine, perciò sente la responsabilità di mandare

dei soldi a loro. Per questo motivo ci esprime la sua preoccupazione per la mancanza di

lavoro.

OPERATORI E MEDIATORI

I sei intervistati esprimono tutti un giudizio positivo sugli operatori del progetto SPAR di

Cassine. Per quanto riguarda gli operatori incontrati nei CARA, come già accennato, la grande

confusione che caratterizza i centri sembra offuscare le figure degli operatori: tale è la

frustrazione e l’attesa che i rifugiati sembrano ricordare con difficoltà il rapporto instauratosi

con le figure di riferimento. Quello del CARA si configura quindi come un momento

particolare, un limbo dove si aspetta prima di passare in commissione territoriale e poi di

sapere come è andata e se si avrà o meno un riconoscimento di protezione internazionale od

umanitaria e questo pensiero è così sovrastante che diventa l’unico chiodo fisso dei

richiedenti.

La figura del mediatore risulta anche in provincia di Alessandria un po’ nebulosa tanto da

vederci costretti ad utilizzare il termine “traduttore”, di più immediata comprensione. Uno

solamente tra i sei intervistati ci riporta un’esperienza specifica, legata al mediatore

incontrato durante il colloquio in commissione. Che per di più non è stata una vicenda positiva

perché il ragazzo ci racconta che il mediatore che lo ha affiancato durante il colloquio ha

sbagliato a tradurre ciò che lui voleva dire, creando in lui una certa diffidenza per questa

figura professionale.

AMICIZIE E RELAZIONI ALTRE

Gli intervistati non sembrano aver sviluppato delle relazioni al di fuori del progetto. Uno di

loro però ci racconta di avere un’amica, la sua vicina di casa di 60 anni, che vive con un figlio

di 36 anni costretto sulla sedia a rotelle. Lei lo aiuta a studiare italiano mentre lui collabora

nelle faccende di casa. Spesso, quando la va a trovare passano il tempo insieme guardando dei

film specie con il figlio.

Ad ogni modo, la percezione che gli intervistati hanno della gente del posto è positiva. A

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questo proposito, uno di loro afferma: «Le persone sono molto accoglienti, non mi fanno

sentire straniero», a differenza di quello che ci racconta degli abitanti di Bari (qui era stato

precedentemente in un CARA), che non erano molto ospitali.

Sembra dunque che il progetto SPRAR, anche se diffuso sul territorio e non concentrato in una

sola struttura, non favorisca lo sviluppo di amicizie oltre i suoi “confini”. Dunque, in questa

fase la maggior parte delle amicizie che i rifugiati hanno sono strettamente interne al

progetto. C’è da dire comunque che la maggior parte degli intervistati non ha ancora

sviluppato un livello alto di conoscenza della lingua, che potrebbe contribuire alla formazione

di amicizie con persone del posto successivamente e alcuni di loro sono arrivati da poco

tempo.

1/04/2014 INTERVISTE A BIELLA

La struttura dove dovremmo fare quattro interviste a rifugiati presenti nella provincia di

Biella si chiama “Casa delle culture e dei popoli” ed è gestita dalla Caritas .

Situato, in una via secondaria, è un ex stabile tessile che ha conosciuto un tentativo di

riutilizzo decisamente interessante. All'entrata troviamo un’accogliente sala dove si svolge la

mensa. Daniele, un operatore della Caritas locale, ci accoglie e ci porta nella sala secondaria

dove faremo le interviste. E' un'ampia stanza, con dei divani posti a formare un quadrato dove

noi ci sediamo. Dopo una quindicina di minuti, si presentano tutti insieme i rifugiati per le

interviste: sono in 4. Facciamo passare uno davanti agli altri perché dice di avere un impegno

di lì a un'ora. Gli altri aspettano fuori, chiacchierando e scherzando tra di loro.

Sono tutti ragazzi proveniente dal Mali, arrivati nel 2011 a Lampedusa durante l’Emergenza

Nord-Africa e poi trasferiti nell’accoglienza allestita in provincia di Biella a Muzzano.

Il sistema di accoglienza biellese, sorto durante l’Emergenza Nord Africa, risulta essere un

caso particolare. I ragazzi, dopo essere stati accolti al centro di Muzzano, sono stati spostati in

accoglienze e appartamenti in condivisione con altri richiedenti sparsi per tutta la provincia

biellese. Tutti gli intervistati si dichiarano soddisfatti di quell’esperienza, indicando però un

punto critico; l’impossibilità di scegliere i coinquilini: «quando vuoi dividerci devi chiedere

come dividerci. Non puoi mettermi in una casa con delle persone a caso.»

Alcuni al momento in cui gli parliamo sono riusciti a fare un ulteriore passo avanti, in quanto

hanno iniziato una convivenza con persone italiane.

OPERATORI E VOLONTARI

La “particolarità” della realtà biellese un po’ chiusa ma solidale e concreta si rispecchia forse

anche nella maniera in cui è stato gestito il rapporto tra i rifugiati e il territorio: il lavoro degli

operatori non si è esaurito nel tempo e nel luogo dei centri di accoglienza anche grazie

all’ampia rete di solidarietà e volontariato che si è affiancata da subito a loro nel rapporto e

nell’accoglienza successiva dei richiedenti asilo, rifugiati e titolari i protezione internazionale:

nel centro di Muzzano, accanto a tre operatori, erano presenti più di cinquanta volontari.

Quindi, la gestione creativa e allargata ai volontari ha permesso che la relazione operatore-

rifugiato andasse al di là dell' asimmetrico e piatto rapporto di aiuto e assistenza,

configurandosi invece come una vera e propria relazione sociale ed emozionale.

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RETE

Uno degli intervistati sottolinea come una famiglia di volontari in particolare lo abbia aiutato

anche per quanto riguarda la ricerca del lavoro:

«Se non conosci qualcuno, qui non trovi lavoro.»

Interessante come insista sull'importanza della “rete”, creata con i volontari, che non si

limitano ad assisterlo nel cercare casa o lavoro, ma con i quali si intessono delle vere e

profonde relazioni umane: un primo importante momento di un percorso reale di inclusione

sociale.

INSERIMENTO IN FAMIGLIE ITALIANE

Casi di inserimento diffuso di rifugiati in famiglie italiane all’interno dell’ENA non sono stati

certo la norma per quanto riguarda il resto del territorio sia piemontese che nazionale. Un

ragazzo intervistato ci racconta di come stia vivendo a casa della sua ragazza italiana, insieme

alla famiglia di lei. Un altro riporta la sua esperienza di come sia riuscito, grazie alle buone

relazioni costruite, ad andare a vivere a casa dei genitori di una volontaria che inizialmente

era nel gruppo che insegnava italiano e che, quando è partita per l’università a Bologna, ha

lasciato sua mamma come volontaria al suo posto. Dopo qualche tempo la mamma gli ha

chiesto se voleva provare ad andare prima qualche giorno, poi qualche settimana ed ora è

ancora lì a vivere con loro. Nel frattempo ha cominciato ad affiancare il marito della signora

nel suo lavoro di elettricista per grandi strutture, cosa che lo ha portato a fare prima un

apprendistato ed ora ad essere anche assunto a tempo indeterminato. Il lavoro gli piace molto

e gli dà anche la possibilità di viaggiare, infatti ci dice che è appena ritornato da qualche

giorno di lavoro in Germania.

APPRENDIMENTO DELLA LINGUA

I rifugiati di Muzzano lamentano che i mediatori non sono stati molto d’aiuto

nell’apprendimento della lingua italiana, soprattutto nella prima fase di accoglienza, un

momento cruciale del loro percorso migratorio. A riempire questa mancanza sono stati,

invece, gli operatori e i volontari.

INTERVISTE DEL 17/04 AD ASTI

Siamo giunte alla sede dell’associazione PIAM ( Progetto Integrazione Accoglienza Migranti)

per incontrare una famiglia di rifugiati provenienti dal Libano. La famiglia è composta da

quattro persone: il capofamiglia, la moglie, e due dei loro figli. Il Piam gestisce da qualche

anno un Progetto SPRAR a Settime e ora nell’ampliamento del triennio 2014-2016 gestirà

anche un progetto SPRAR ad ASTI.

COMPOSIZIONE DELLA FAMIGLIA

Il capofamiglia è un signore anziano con la coppola, simile ai nostri nonni siciliani, con molta

voglia di parlare ma che incontra un’enorme ostacolo nella scarsa conoscenza della lingua

italiana, però ricorre spesso al francese e si fa dare un foglio e una matita per poter scrivere o

disegnare e riuscire comunque a comunicare con noi. La moglie è una bella signora, che

rimane silenziosa la maggior parte del tempo forse anche perché, senza la traduzione fatta

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ogni tanto dal figlio, ha più difficoltà a capire le parole in italiano ma sorride spesso e sta

molto attenta a quello che sta succedendo. Il figlio è un giovane ragazzo molto intraprendente

che conosce l’Italiano già molto bene e si presta a tradurre facendoci spesso da intermediario

con gli altri membri della famiglia. Infine la figlia è una ragazza all’apparenza molto timida,

ma si capisce, pur non parlando se non direttamente interpellata, che è a sua volta in grado di

capire perfettamente quello che diciamo.

CARA – CONFRONTO CON GLI ALTRI PAESI EUROPEI

Abbiamo chiesto alla famiglia libanese le differenze che hanno riscontrato tra il CARA in

Svizzera e quello in Italia. In Svizzera dicono di essersi trovati bene: «Nel centro a Losanna si

mangiava bene, perché ci davano i soldi e poi noi cucinavamo quello che volevamo e uscivamo

liberamente» ma tutta la famiglia era concentrata in una stanza piccola. Del CARA di Crotone

in Italia ci hanno detto: «Non ci davano monete (soldi) e il cibo lo cucinano loro, il campo era

molto grande, dentro c’era di tutto: la scuola, l’infermeria, e non c’era bisogno di uscire. In

Italia eravamo in un container che era composto da una stanza con bagno. Nella stanza

c’erano i letti e solo in un secondo momento ci hanno messo l’aria condizionata se no era

caldissimo d’estate e freddissimo d’inverno.» Inoltre evidenziano come nel CARA in Italia vi

erano molti immigrati di nazionalità diverse ed ogni giorno c’era un problema: «Ogni giorno

era una guerra.»

SPRAR

Abbiamo impiegato qualche minuto per capire in che progetto fossero stati inseriti poiché non

sapevano cosa fosse lo SPRAR. Essi sono stati inseriti nello SPRAR ad Asti perché il

capofamiglia ha dei problemi agli occhi e deve curarsi a Milano.

Abitano in una casa nella periferia, ma possono facilmente raggiungere il centro della città

anche a piedi perché «Asti è una piccola città rispetto a Beirut.»

L’impressione è che si trovino bene e gli piaccia anche se non riconoscevano quello dove

erano stati inseriti immediatamente come un progetto SPRAR:

RELAZIONI DI AMICIZIA

I due coniugi ci dicono di fare fatica a instaurare relazioni di amicizia, perché non parlano

bene l’italiano, infatti i loro amici ad Asti sono tutti arabofoni.

I due ragazzi invece hanno costruito amicizie con i loro compagni di scuola. Entrambi studiano

al CTP per riuscire a prendere la licenza media, quindi la maggior parte delle loro amicizie

sono altri ragazzi stranieri ma con cui usano l’italiano come lingua per comunicare.

PROPOSTE PER MIGLIORARE L’ACCOGLIENZA DEI RIFUGIATI

Il capofamiglia libanese ha evidenziato come nei pochi mesi trascorsi in Svizzera aveva

imparato il francese mentre nel CARA di Crotone non aveva imparato l’italiano, pur

rimanendoci per più tempo ed andando tutti i gironi al corso. Quando infatti è arrivato ad Asti

non sapeva ancora parlare la lingua; secondo lui il problema è che nel CARA di Crotone non

vengono formate classi più piccole, nelle quali si potrebbe lavorare meglio. Egli ha inoltre un

problema agli occhi ma da quando è arrivato in Italia ancora non ha potuto curarsi

adeguatamente ed è tutt’ora in attesa della visita specialistica, poiché nel CARA non è stato

adeguatamente seguito; propone quindi di migliorare la presa in carico da parte della sanità in

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Italia già nella prima fase dell’arrivo includendo non solo una visita generale ma in caso di

necessità anche visite specialistiche.

Dalle testimonianze sono emerse due problematiche che loro come rifugiati hanno incontrato

nei CARA: da un lato le difficoltà nell’imparare l’italiano e dall’altra la presenza di persone

molto diverse tra loro. Riguardo al primo punto, le difficoltà maggiori concernono la mancata

suddivisione di classi in livelli omogenei di apprendimento, per cui ogni volta con l’arrivo di

nuove persone, si ricomincia da capo, rendendo così difficile imparare cose nuove. Per il

secondo la convivenza è molto difficile poiché in uno spazio limitato vengono racchiuse

persone molto eterogenee: di etnie, culture e religioni diverse e spesso queste diversità

portano a ostilità e conflitti.

INTERVISTE DEL 14/05 A TORINO

Mercoledì 14 maggio ci siamo incontrate a Torino verso le 11 davanti alla Fabbrica delle “e”. Il

programma è quello di intervistare due donne rifugiate.

Ad accoglierci alla Fabbrica delle “E”, una realtà che appartiene al variegato mondo del

Gruppo Abele, c’è Joli, una signora e una referente del Gruppo Abele dal sorriso accomodante

ma con un fare sicuro. Lei ci conduce in una stanza spaziosa, dai soffitti alti, caratteristica di

tutto l’edificio, adibita ad aula di lezione. Ci mettiamo a sedere mentre aspettiamo le due

donne rifugiate che dobbiamo intervistare, quando Ioli ci avvisa che una delle due non se l’è

più sentita di fare l’intervista. Sembra che la ragazza fosse spaventata più che altro dal

problema che si potessero collegare le sue dichiarazioni alla sua identità..

Dopo poco tempo passato a chiacchierare, sentiamo dei passi cadenzati sempre più vicini alla

porta, dalla quale fa capolino una ragazza minuta, con indumenti colorati, tra i quali spicca un

velo verde perfettamente sistemato sulla testa, a coprire i capelli. Lei arriva e si siede

timidamente sulla sedia e Ioli, che rimarrà con noi per tutta la durata dell’intervista, le spiega

quali sono i nostri propositi. Lei annuisce, sorridendo e l’intervista può cominciare.

PROGETTI E ACCOGLIENZE

La donna ci ha raccontato che quando è arrivata in Italia era incinta. E’ stata quasi subito

indirizzata in un centro per minori situato in aperta campagna a Carfizzi (in Sicilia in

Provincia di Crotone), un paesino di 6-700 abitanti, dove è rimasta un anno e nove mesi. Nel

centro c’erano 20-30 persone tutte minorenni, tranne una ragazza di 18 anni, anch’ella

incinta. Ci racconta che a lei viene permesso di stare lì insieme al suo compagno, il padre della

bambina.

Dopo uno spiacevole episodio al centro, che verrà approfondito più avanti, lei e il compagno

vengono sistemati in una casa fornita dal Comune sempre a Carpizzi. Ci racconta però che la

casa non era adatta ad ospitare una bambina piccola: «Aveva delle infiltrazioni d’acqua dal

tetto quando pioveva, non era forte.»

Dopo che il compagno se ne va a Roma, lasciandola sola con la bambina, decide di spostarsi a

Torino per seguire il consiglio di un amico che vive nella casa occupata di Corso Peschiera che,

probabilmente, sapeva del progetto “Piemonte Non Solo Asilo”, un progetto pensato dal

Coordinamento Non Solo Asilo, che prevedeva poco a poco la fuoriuscita di gruppetti di

persone prima dalla casa occupata, poi dal centro di Settimo della Croce Rossa, cercando di

abbinare le loro capacità ai diversi territori del Piemonte,; il primo gruppo a cui sarebbe stato

rivolto il progetto erano appunto le donne con bambini.

Dopo due giorni dal suo arrivo a Torino trascorsi nella casa occupata di Corso Peschiera, viene

inserita in una casa famiglia a San Mauro e poi in una grande abitazione a Rivoli, sotto la

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gestione del Gruppo Abele. Nel frattempo il compagno la raggiunge, perciò si trovano a vivere

con un’altra coppia di rifugiati, una coppia di operatori e un uomo rifugiato: in totale erano

quindi cinque adulti titolari di protezione, con i bambini, e con una coppia di operatori.

Anche qui però si verificano dei fatti spiacevoli con l’operatrice di riferimento e, dopo un anno

a Rivoli e la seconda fuga del compagno, torna a Torino dove le viene fornito un appartamento

per il quale darà un piccolo contributo spese quando troverà lavoro. Qui vive con la madre,

con la quale è riuscita a fare il ricongiungimento familiare e con la figlia, che ora ha sei anni e il

prossimo anno comincerà la prima elementare.

Il suo percorso risulta variegato per i diversi tipi di accoglienza che ha avuto modo di

sperimentare ma ora sembra che abbia trovato la sua stabilità ed è contenta.

SCUOLE, STUDIO DELL’ITALIANO

La ragazza ci racconta che al centro di Carfizzi lei e il compagno avevano iniziato a studiare

l’italiano, studio che è continuato quando si è trasferita definitivamente a Torino dove ha

iniziato a frequentare il CTP. Inoltre, è riuscita a conseguire l’esame di terza media.

Successivamente, è riuscita ad ottenere un contratto di apprendistato in un ristorante come

aiuto cuoca: ci racconta infatti che ama cucinare. Nello stesso ristorante ha poi conseguito una

borsa lavoro ed ha firmato un contatto di tre anni. L’esperienza però, sfortunatamente, si è

interrotta a causa del fallimento del locale. «Ora l’unica cosa che mi preoccupa è che non ho un

lavoro» ma può darsi però che possa iniziare un breve tirocinio all’interno della mensa del

Gruppo Abele.

OPERATORI E MEDIATORI

Durante l’intervista, la ragazza ci ha raccontato di due brutte esperienze con due operatrici

diverse, lontane nel tempo e nello spazio. Il primo episodio risale al periodo passato nel

centro per minori di Carfizzi. Ci racconta che non poteva allattare la bambina a cause di ferite

al seno, per cui il medico le aveva prescritto del latte in polvere. La sua operatrice però prende

il foglio del medico e lo getta nella spazzatura. Dopo qualche giorno, disperata per il fatto di

non poter allattare sua figlia, la rifugiata arriva ad aggredire l’operatrice. Con fare concitato e

la voce un po’ alterata, ci racconta che in quel frangente c’è stato anche l’intervento della

polizia. Questo sembra essere stato l’evento scatenante che ha reso necessario il trasferimento

della famiglia dal centro alla casa messa a disposizione dal comune di Carfizzi.

Il secondo episodio riguarda l’accoglienza nella casa di Rivoli. Anche durante questo racconto,

la voce della ragazza si altera e il flusso di parole è più sconnesso, rendendo più difficoltoso

seguire il filo del discorso. E’ probabile che il ricordo di questi avvenimenti sia ancora

perturbante e spaventoso per lei. Ci racconta dunque che l’operatrice di riferimento si era

arrabbiata per il fatto che lei avesse ospitato una sua amica che viveva nella casa occupata a

passare lì la notte. Inoltre, dice di essersi spaventata nel momento in cui ha temuto che

l’operatrice volesse toglierle la bambina rivolgendosi ai servizi sociali, a causa dei continui

litigi tra lei e il suo compagno. Sembra che questo sia stato il momento di maggiore sgomento

che lei abbia dovuto affrontare.

Fortunatamente, sul suo percorso non mancano delle figure di operatori che ricorda con

affetto ed ha come punto di riferimento tutt’ora, soprattutto del Gruppo Abele: «se c’è un

problema chiamo loro.» Di una ex dipendente del Gruppo Abele, che ora lavora per il comune

dice: «lei è come mia madre»

Per quanto riguarda i traduttori, dice di averne incontrato uno solamente in occasione del

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colloquio in commissione.

Anche in questo caso, dunque, la figura del traduttore resta nell’ombra e da quanto ci dice lei

alquanto marginale.

AMICIZIE E RELAZIONI

La ragazza etiope ci racconta che già nel centro per minori di Carfizzi è riuscita a sviluppare

dei legami che sono perdurati nel tempo: «c’erano dei ragazzi provenienti dal Ghana, dal Togo,

dall’Eritrea…con alcuni di loro ho instaurato dei legami di amicizia e mi tengo ancora in

contatto, per esempio con un ragazzo ghanese che ora si trova a Napoli.»

Lei ci confessa che non ama uscire di casa se non per andare al lavoro o a fare al spesa o in

chiesa e per questo motivo la maggior parte delle sue amicizie vanta persone etiopi ed eritree

e derivano dalla frequentazione della chiesa ortodossa. Spesso alla domenica invita i suoi

amici nel suo appartamento.

CONSIGLI

Ciò che potrebbe essere utile, dice, è non solo fornire maggiori informazioni a chi arriva ma

seguirli di più nel senso di accompagnarli all’inizio per sbrigare le varie faccende: per esempio

avere qualcuno che ti accompagni all’ufficio immigrazione.

Nella parte finale dell’intervista le abbiamo chiesto se all’inizio del percorso che il richiedente

deve intraprendere, sia meglio abitare fin da subito da soli e lei ha sottolineato l’importanza di

vivere secondo lei con altre persone soprattutto quando si è appena arrivati: « Hai bisogno

delle persone. Da solo sei più stressato, non puoi parlare con le altre persone. Senza le

persone non puoi camminare. Puoi andare da sola quando sai tutto.»

E’ interessante notare come, nonostante la brutta esperienza legata al centro di Carfizzi, lei

consideri fondamentale la convivenza con altre persone all’inizio del percorso migratorio per

poter raggiungere una buona integrazione all’interno della società.

CONCLUSIONI

Tra le varie realtà che abbiamo avuto la possibilità di conoscere, un posto particolare ci

sembra debba essere occupato dai progetti e dalla realtà di Biella. Innanzitutto, bisogna

precisare la sua breve storia di coinvolgimento nell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati:

le prime accoglienze strutturate fatte con il progetto Piemonte non solo asilo risalgono al

2008. Nel 2011 conosce il primo afflusso consistente (?) all’interno dell’ENA, una situazione

che da molte parti è stata complicata qui si è distinta per la gestione creativa dell’emergenza,

attraverso il coinvolgimento di un numero cospicuo di volontari. Ciò ha avuto delle

conseguenze inaspettate: il configurarsi di una relazione che andasse al di là della, seppur

importante, relazione di assistenza, sfociando in un rapporto più intimo, di spontanea

amicizia. Rispetto agli altri progetti incontrati sul territorio piemontese, ci è sembrato che i

rifugiati abbiano intrapreso un percorso di integrazione più agile e immediato, probabilmente

grazie alle reti sociali costruite con i volontari: infatti essi spesso non hanno offerto risposte

professionali, prerogativa degli operatori, bensì hanno messo in atto reazioni spontanee

dettata dall’empatia e dalla sensibilità.

Diverse sono state le affinità che abbiamo riscontrato tra le testimonianze offerteci prima

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dagli operatori e poi dai rifugiati. In primo luogo, ci sembrano fedeli e combacianti le

narrazioni dei progetti SPRAR e CARA: il primo più funzionale e dotato di un percorso

individualizzato a seconda delle caratteristiche personali dei soggetti coinvolti, mentre

riguardo al secondo nessuno risparmia giudizi estremamente negativi.

Da entrambi i fronti della relazione presa in esame è emerso come, a volte, i percorsi proposti

risultino troppo rigidi per i richiedenti, i quali si vedono costretti ad intraprendere una strada

che non sentono come loro. Spesso sembra che, inconsciamente, gli operatori assumano un

atteggiamento “paternalista” , volto ad insegnare al rifugiato il modo migliore di vivere in

Italia. Non è nostra intenzione dare un giudizio di tipo morale, in quanto siamo consci delle

buone intenzioni e delle difficoltà e ambiguità che il ruolo di operatore ha insite in sé stesso. Ci

sembra, inoltre, che l’operatore non abbia ampi margini di scelta, e in qualche modo si trovi

anche lui, come i rifugiati, costretto dal sistema, in una sorta di “gabbia” che imprigiona la

relazione.

Un ultimo nodo che ci preme portare alla luce, riguarda l’investimento ingente di empatia da

parte dell’operatore nella relazione con il richiedente. E’ soprattutto nella fase di

accompagnamento al colloquio con la commissione e durante l’attesa dell’esito, che

l’avvicinamento emotivo rischia di compromettere la relazione. La condivisione di un

momento carico di tensione, aspettative e frustrazione ha conseguenze per entrambi: per

quanto riguarda gli operatori, di fronte ad un diniego, essi vengono fortemente colpevolizzati

come responsabili dai richiedenti. Nel caso invece, in cui viene riconosciuto lo status, la

schizofrenia dell’attesa e dell’iter burocratico, può comunque compromettere

irrimediabilmente la relazione e l’efficace affiancamento in progetti successivi (FER, etc.).

La questione su cui vorremmo riportare l’attenzione, a conclusione delle nostre analisi e

riflessioni, è meglio espressa attraverso una serie di interrogativi, a cui ci sembra sia

necessario trovare una risposta:

- Fino a quando la relazione di empatia funziona?

- E' auspicabile uno stesso operatore per ogni fase? Oppure sarebbe consigliabile una

maggiore divisione degli operatori nei diversi momenti?

Rapporto scritto a giugno 2014 da:

Enrica De Gennaro

Margherita Pancheri

Camillo Pasquarelli

Con la supervisione di:

Dott.ssa Mariacristina Molfetta

Dott.ssa Paola Sacchi

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