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ISSN 1123-3117 Rapporti ISTISAN

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ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ

CORSO Gestione del personale,

qualità della vita di lavoro e stress lavoro-correlato

Roma, Istituto Superiore di Sanità 20-22 giugno 2011

A cura di

Felice Paolo Arcuri (a) e Silvana Caciolli (b)

(a) Società di Studi Socio-economici e Organizzativi S3 Opus, Roma. (b) Dipartimento di Ambiente e Connessa Prevenzione Primaria,

Istituto Superiore di Sanità, Roma

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Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e Direttore responsabile: Enrico Garaci Registro della Stampa - Tribunale di Roma n. 131/88 del 1° marzo 1988 Redazione: Paola De Castro, Sara Modigliani e Sandra Salinetti La responsabilità dei dati scientifici e tecnici è dei singoli autori. © Istituto Superiore di Sanità 2012

viale Regina Elena, 299 – 00161 Roma

Istituto Superiore di Sanità Corso. Gestione del personale, qualità della vita di lavoro e stress lavoro-correlato. Roma, Istituto Superiore di Sanità, 20-22 giugno 2011. A cura di Felice Paolo Arcuri e Silvana Caciolli 2012, iii, 93 p. Rapporti ISTISAN 12/19

Il primo gennaio 2011, è entrato in vigore l’obbligo, per tutte le Aziende, di inserire nel documento di valutazione dei rischi anche la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. L’Art. 32 del DL.vo 81/2008 stabilisce, inoltre, che tutti coloro che sono responsabili della sicurezza debbano ricevere adeguata formazione in materia di stress da lavoro. Per questo motivo, il Dipartimento di Ambiente e Connessa Prevenzione Primaria (AMPP) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha svolto dal 20 al 22 giugno 2011, assieme all’ente di formazione S3 Opus, un corso di formazione dal titolo “Gestione del personale, qualità della vita di lavoro e stress lavoro-correlato”. L’iniziativa aveva come obiettivo generale quello di fornire ai partecipanti un approccio di riferimento e gli strumenti operativi per un’efficace gestione del personale che puntasse alla valorizzazione del capitale umano, all’incentivazione della motivazione, al miglioramento delle condizioni di lavoro e quindi alla riduzione e/o prevenzione dei rischi stress lavoro-correlati.

Parole chiave: Gestione del personale; Qualità della vita di lavoro; Stress lavoro-correlato Istituto Superiore di Sanità Course. Personnel management, job life quality and job-related stress. Rome, Istituto Superiore di Sanità, June 20-22, 2011. Edited by Felice Paolo Arcuri and Silvana Caciolli 2012, iii, 93 p. Rapporti ISTISAN 12/19 (in Italian)

On January 1, 2011, came into force a requirement for all companies to include in their risk assessment document also job-related stress risks. Article 32 of the Italian Legislative Decree n. 81/2008 states, furthermore, that all those who are responsible for security should receive adequate training on job-related stress. For this reason, the Department of Environment and Primary Prevention (DAMPP) of the Istituto Superiore di Sanità (National Institute of Health in Italy), has held from 20 to 22 June 2011, in collaboration with the training institution S3 Opus, a training course entitled “Personnel management, job life quality and job-related stress”. The initiative was intended to provide participants with a general reference approach and operational instruments for an effective personnel management that aimed at enhancing human resources, stimulating motivation, improving working conditions and so reducing and / or preventing job-related stress.

Key words: Personnel management; Job life quality; Job-related stress Per informazioni su questo documento scrivere a: [email protected]. Il rapporto è accessibile online dal sito di questo Istituto: www.iss.it. Citare questo documento come segue:

Arcuri FP, Caciolli S (Ed.). Corso. Gestione del personale, qualità della vita di lavoro e stress lavoro-correlato. Roma, Istituto Superiore di Sanità, 20-22 giugno 2011. Roma: Istituto Superiore di Sanità; 2012. (Rapporti ISTISAN 12/19).

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INDICE

Premessa ............................................................................................................................................. ii Gestione dello stress organizzativo Cinzia Ciacia ................................................................................................................................... 1 Valutazione dello stress lavoro-correlato: modelli teorici e riflessioni sulla norma vigente Lucilla Livigni, Andrea Magrini, Carmela Monteleone, Antonio Bergamaschi ............................. 11 Un modello operativo per la valutazione dello stress lavoro-correlato Felice Paolo Arcuri.......................................................................................................................... 20 Un termometro per misurare la febbre nelle organizzazioni Paolo Gentile ................................................................................................................................... 33 Un modello di ricerca-intervento per la valutazione dei rischi psicosociali presso l’Azienda Sanitaria Locale di Lecce Emilio De Pascali, Simona Cera ..................................................................................................... 39 Il medico competente e la prevenzione del rischio stress lavoro-correlato Angelo Sacco.................................................................................................................................... 58 Problematiche inerenti i lavoratori ad alta scolarizzazione con disabilità in realtà organizzative complesse Giuseppe Di Loreto, Gloria Felicioli............................................................................................... 64 Normativa in materia di rischi psicosociali e sua genesi in rapporto alle figure di danno biologico e di danno esistenziale Claudio Venturato............................................................................................................................ 73 La strategia dell’Istituto Superiore di Sanità per la prevenzione del rischio stress lavoro-correlato Maurizio Pasquali, Francesca La Rosa........................................................................................... 91

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PREMESSA

Il Dipartimento di Ambiente e connessa Prevenzione Primaria (DAMPP) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha realizzato, dal 20 al 22 giugno 2011, la seconda edizione del Corso “Gestione del personale, qualità della vita di lavoro e stress lavoro-correlato” in collaborazione con la Società di Studi Socio-economici e Organizzativi S3 Opus. Gli atti relativi alla prima edizione, svolta dal 21 al 24 settembre 2009, sono stati pubblicati nel 2010 (1).

Il Corso, destinato principalmente a Medici del lavoro, Psicologi, Responsabili dei Servizi Prevenzione e Protezione (RSPP), Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), è stato articolato in tre giornate di formazione nelle quali sono state trattate le seguenti tematiche:

Gestione innovativa delle Risorse Umane Sistemi di valutazione dei rischi organizzativi Miglioramento della salute del lavoratore e delle condizioni del lavoro. L’iniziativa, per la quale sono stati richiesti i crediti formativi, ha ottenuto dalla

Commissione Nazionale per la Formazione Continua 19 crediti ECM per le figure professionali del Biologo e dello Psicologo.

I discenti, attraverso la compilazione dei questionari di valutazione del corso, distribuiti come di consuetudine in tutte le iniziative svolte dall’Istituto, si sono espressi positivamente nei confronti della metodologia didattica utilizzata, dei contenuti e degli obiettivi esplicitati, nonché dei docenti, dando nel complesso un giudizio favorevole dell’iniziativa.

Altrettanto positivi, inoltre, sono stati i giudizi riferiti dai partecipanti attraverso le schede di valutazione proposte per le iniziative formative accreditate che richiedono un giudizio sulla rilevanza dell’evento, la qualità educativa e di aggiornamento e infine l’efficacia ai fini della formazione continua del singolo.

I curatori del volume

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GESTIONE DELLO STRESS ORGANIZZATIVO

Cinzia Ciacia Società di Studi Socio-economici e Organizzativi S3 Opus, Roma; Facoltà di Medicina, Università Tor Vergata, Roma.

Premessa

Lo stress odierno è causato da un contesto che sta cambiamento e che genera un’incertezza continua. A differenza che in passato, quando per i nostri antenati era legato ad una reale minaccia per la sopravvivenza, lo stress è oggi conseguenza delle situazioni nuove, imprevedibili, che ci troviamo ad affrontare e che ci mandano in crisi. Le pressioni cui siamo sottoposti nella vita sono, infatti, molto numerose. È importante tenere sempre presente che tutti sperimentiamo un po’ di stress: lo stress è normale e, se adeguatamente gestito, può rivelarsi utile. Occorre però individuare il livello di stress per ciascuno di noi ottimale e scoprire i modi per riconoscere ed evitare che superi tale livello.

Nel corso dell’ultimo decennio, in particolare, si è potuto osservare il proliferare di gruppi di ricerca che si occupano dei problemi psicosociali del lavoro e della qualità della vita. I notevoli mutamenti che interessano il mondo del lavoro pongono infatti al centro dell’attenzione lo stress lavorativo che, nei paesi maggiormente industrializzati, rappresenta oggi uno dei principali problemi sanitari correlati al lavoro. Di conseguenza lo stress viene ormai affrontato a livello di organizzazione del lavoro, implementando programmi che privilegiano l’eliminazione delle sue cause piuttosto che il trattamento delle sue conseguenze.

In questa sede quindi, dopo aver illustrato lo stato degli studi teorici, sono analizzati gli strumenti pratici necessari per riconoscere lo stress e intervenire efficacemente nell’ambiente di lavoro, prestando particolare attenzione alle differenze individuali e alla valenza del clima organizzativo.

Stress e ansia

Stress e ansia nel linguaggio comune vengono utilizzati in maniera intercambiabile, ma non sono la stessa cosa. L’ansia corrisponde a una situazione psicologica di incertezza verso il futuro, è un meccanismo di interpretazione e percezione alterata della realtà. L’ansia, considerata una tra le più importanti sofferenze psichiche, è un meccanismo psicologico di risposta allo stress, che anticipa le percezioni del pericolo e attiva le autodifese. L’ansia può essere il segnale che siamo sottoposti a stress e, se ricorrente, ci indica che lo stress non è gestito efficacemente. Essa può avere origini diverse, collegate a una paura cosciente, oppure a sensi di colpa, quando cioè accettare il proprio Io reale è difficile e si produce una continua tendenza a proiezioni verso l’io ideale. Gli stati d’ansia possono affievolirsi nel tempo ma anche riattivarsi in situazioni di stress. Si distingue in:

funzionale, quando si tratta di una reazione all’aumento di adrenalina e alla tachicardia in risposta ad un evento reale: per esempio, nel caso di un esame, ci permette di affrontare la situazione con maggiore lucidità e attenzione e di utilizzare in modo più veloce la memoria;

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patologica, che si ha quando la tensione, la sensazione di allarme, pericolo, minaccia è pressoché continua. I sintomi sono tensione muscolare continua, tachicardia, difficoltà respiratorie, formicolio, sudorazione, distorsione della realtà.

Lo stress è una forma di allarme interno che scatta nella persona quando le richieste dell’ambiente sono percepite come superiori alle proprie forze. Hans Seyle descrive lo stress (1936) Sindrome di Adattamento Generale (SGA) ovvero una reazione fisiologica, cognitiva e comportamentale dell’individuo di fronte agli stimoli e alle difficoltà dell’esistenza. Lo stress è pertanto da considerarsi un fenomeno naturale che fa scattare meccanismi neurochimici che rendono i sensi più pronti ad affrontare la vita. La risposta adattiva può però divenire disfunzionale a seconda dell’intensità e della durata degli stimoli e delle caratteristiche del soggetto. Non è infatti lo stimolo in sé e per sé, ma è l’organismo nel suo complesso l’arbitro degli effetti che lo stress produrrà su sé stesso, attraverso le modalità di interpretazione delle situazioni vissute, attraverso la nostra reattività emotiva più o meno accentuata, attraverso dei meccanismi funzionali.

Seyle identifica due tipi di stress: il distress, ovvero lo stress negativo, nocivo, distruttivo, si ha quando il soggetto sente di

non essere più in grado di soddisfare le richieste dell’ambiente. È legato ad una mancata soddisfazione di bisogni vitali e provoca l’attivazione e il consumo di energie extra. La reazione biopsichica è data dalla stimolazione delle aree del dispiacere nel sistema limbico. Gran parte dei nostri comportamenti di distress si basano su modelli di comportamento appresi;

l’eustress, ovvero lo stress vitalizzante, energizzante, legato a situazioni piacevoli sfidanti nelle quali ci sentiamo coinvolti e “caricati”, in cui sentiamo la soddisfazione di bisogni vitali. La reazione biopsichica è data dalla stimolazione di aree del piacere nel sistema limbico.

Mentre il primo va dosato con saggezza, il secondo va cercato intenzionalmente. Mentre lo stress positivo ci fa sentire bene dandoci la giusta carica per affrontare la vita, lo stress negativo produce senso di inadeguatezza: l’individuo sente di non essere in grado di far fronte alle esigenze imposte dal lavoro e, nel contempo, di essere impossibilitato alla fuga. Gli effetti sono disturbo acuto da stress (DAS) e depressione.

Combattere lo stress è quindi importante per tutti. Importante e possibile: come negli ultimi decenni, l’importanza di una buona salute fisica è stata oggetto di numerosi programmi con risultati stupefacenti, allo stesso modo oggi è necessario porre attenzione alla gestione dello stress per mantenere una buona salute mentale.

Processo di stress e risposte individuali

Lo stress, come anticipato, è una risposta agli stimoli (stressors) provenienti dall’ambiente esterno. Le fasi del processo di stress sono le seguenti:

Stimoli

Nella prima fase distinguiamo tre tipi di stimoli: Fisici, ad esempio la temperatura ambientale che varia (caldo/freddo, passaggi bruschi da

luce forte a buio, rumore), stimoli che cioè colpiscono improvvisamente e fortemente i nostri sensi;

Biologici, legati a reazioni interne, per esempio la digestione di un pasto abbondante o alle variazioni del nostro sistema immunitario provocate da malattia;

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Psicosociali, ossia situazioni in cui ci sentiamo valutati, che toccano il nostro senso di autostima (un esame, un colloquio di selezione, una riunione con il capo), ma anche situazioni emotive in cui si mette in gioco la nostra identità, il “chi sono” (il primo appuntamento con un/a uomo/donna, l’ingresso in un nuovo gruppo, il cambiamento di quartiere o di città, il cambiamento di sede).

Mentre le risposte agli stimoli fisici e biologici sono pressoché omogenee per tutti, per quanto riguarda gli stimoli psicosociali la reazione degli individui è legata a parametri soggettivi, è cioè diversa da individuo a individuo. Inoltre, maggiore è la gravità oggettiva della situazione o degli stimoli, minore è il peso che riveste la differenza individuale. Un terremoto o un’alluvione sono situazioni stressanti per chiunque. Le reazioni, in questi casi, sono pressoché uguali per tutti a causa dell’immediata valutazione dell’evento come minaccia per la nostra esistenza. L’emozione attivata e la conseguente azione di fuga o ricerca di un riparo e l’insieme delle risposte neurochimiche tipiche della reazione da stress saranno le stesse per tutti.

Di fronte agli stimoli meno gravi, come le situazioni sociali di confronto con gli altri, la differenza tra individui è maggiore e le reazioni di stress tendono ad essere molto più specifiche e personalizzate. Ognuno, difatti, reagisce diversamente a determinate circostanze.

Le risposte, in sintesi, quando si tratta di stimoli di tipo psicosociale e soprattutto di bassa intensità, sono molto diverse da individuo a individuo.

Valutazione cognitiva

Qualsiasi nuovo stimolo comporta a livello cognitivo una valutazione rapida su di che tipo di stimolosi tratta, che caratteristiche ha, se già lo conosciamo oppure no, il significato che lo stesso assume per noi stessi, ecc. La valutazione cognitiva è molto importante perché determina sia ciò che è stressante e ciò che non lo è sia l’entità della reazione di stress.

La valutazione cognitiva deriva da valutazioni sulle esperienze precedenti che un individuo ha avuto, relative alla sua storia personale (esperienze di socializzazione, percorso evolutivo all’interno della famiglia, ecc.). In generale, quanto più una persona è stata abituata ad affrontare situazioni nuove, tanto più l’entità della reazione di stress sarà limitata.

Anche la struttura genetica influenza in parte la valutazione degli stimoli esterni: per esempio per quanto riguarda la sensibilità al caldo, al freddo e al dolore, ci sono persone che nascono con una soglia di tollerabilità più alta o più bassa di altre. Questi due aspetti non sono però del tutto divisibili: in effetti, la nostra storia, le esperienze che abbiamo avuto possono incidere e modificare la struttura genetica.

Attivazione emozionale

La fase di attivazione emozionale è molto importante poiché è la parte del processo che regola l’entità della reazione di stress. È l’attivazione emozionale che innesca il processo di stress e quindi le relative modificazioni sia biologiche che comportamentali

La reazione di stress

Negli studi di Selye la reazione di stress si articola in tre fasi costituenti la SGA: Fase di allarme Fase di resistenza Fase di esaurimento

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Fase di allarme

Consiste nel riconoscimento dello stimolo stressogeno (stressor) e nella conseguente e immediata reazione del nostro organismo. La fase di allarme è attivata dalla secrezione di sostanze ormonali (adrenalina e noradrenalina) da parte delle ghiandole surrenali che vengono così immesse velocemente nel sangue, permettendo una rapida reazione del sistema nervoso autonomo che accelera la rapidità di risposta dell’organismo allo stimolo stressogeno. All’interno della fase di allarme, Selye riconosce due momenti opposti: shock e contro shock. Il primo corrisponde alla fase iniziale di “caduta” al di sotto del livello fisiologico di funzionamento dell’organismo (base line), mentre il secondo si identifica col momento di reazione, attivata e sostenuta dal sistema neurovegetativo.

Fase di resistenza

È caratterizzata da una durata correlata alla durata dello stato di stress. In questa fase l’organismo tenta di rispondere allo stimolo stressogeno producendo una serie di sostanze che gli permettono di mantenere l’adattamento alla situazione stressante, al fine di ristabilire l’equilibrio fisiologico.

Fase di esaurimento

Quest’ultima fase si ha quando la fase di resistenza persiste per troppo tempo oppure se non è stata adeguata allo stimolo. In questa fase si abbassano le difese immunitarie e si perde il normale equilibrio fisiologico predisponendo l’insorgere di malattie, poiché i valori di funzionalità dell’organismo scendono al di sotto del livello di normalità.

Eventi stressanti e livelli di resistenza

Molti di noi non si rendono conto del fatto che tutti i cambiamenti della vita possono essere fonte di stress sia dal punto di vista della salute fisica, sia di quella mentale. Di seguito riportiamo un elenco di cambiamenti ordinati in base alla rilevanza, messa a punto da due ricercatori, Thomas H. Holmes e Richard H. Rahe nel 1967 per aiutare le persone a comprendere quali sono le fonti di stress nella loro vita:

Morte di un coniuge Divorzio Separazione dal coniuge Imprigionamento Morte di un parente stretto Incidente o malattia Matrimonio Licenziamento Riconciliazione familiare Pensionamento Problemi di salute di un familiare Gravidanza Problemi sessuali Acquisizione di un nuovo membro familiare Problemi d’affari Cambiamento nello stato economico

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Morte di un amico stretto Cambiamento di attività lavorativa Variazione nei contrasti con il coniuge Ipoteca di entità rilevante Ostacoli nel riscatto Una ipoteca Cambiamento di responsabilità sul lavoro Allontanamento da casa di un figlio Problemi con parenti acquisiti Notevole successo personale Inizio o fine del lavoro da parte del coniuge Inizio o fine della scuola Cambiamento nelle condizioni di vita Mutamento nelle abitudini personali Problemi con il capo sul lavoro Cambiamento negli orari o condizioni lavorative Cambiamento di residenza Cambiamento di scuola Cambiamento nelle attività del tempo libero Cambiamento nelle attività religiose Cambiamento nelle attività sociali Cambiamento nel numero delle riunioni familiari Cambiamento nelle abitudini alimentari Vacanze Natale Lievi violazioni della legge

Gli individui, secondo Selye, possiedono un “serbatoio di energie” per fronteggiare gli stimoli esterni, in base al quale si determina il livello di resistenza al fenomeno. Questa resistenza si esaurisce quando:

1. l’agente stressante è particolarmente intenso, 2. quando più fattori stressanti agiscono contemporaneamente, 3. quando l’azione degli agenti stressanti è prolungata nel tempo. In tutti questi casi si avrà come risultato una situazione di distress, causa di patologie sia psichiche, sia organiche. Quando, al contrario, la risoluzione di una situazione di stress produce nell’individuo una

sensazione di piacere, di gratificazione, agendo come un rinforzo positivo per simili situazioni future, la riserva di energie aumenta e si determina una situazione di eustress. Selye afferma che il problema principale degli studi sullo stress è riscontrabile proprio nella soggettività, ovvero nel fatto che ciò che è stressante per una persona può non esserlo per un’altra. Due variabili sono responsabili per il processo degenerativo dello stress sul soggetto:

la suscettibilità individuale; la predisposizione individuale. La suscettibilità individuale è principalmente legata al significato soggettivo che viene dato a

un evento, ovvero alla sua valutazione. La predisposizione individuale determina l’organo bersaglio della patologia stress-correlata:

l’apparato cardiovascolare, quello digestivo, la sfera sessuale, il sistema muscolo-scheletrico, la psiche, il sistema immunitario, ora singolarmente coinvolti, ora in combinazione tra loro.

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La risposta individuale da stress da cui si può sviluppare una malattia psicosomatica, può costituire un vero e proprio precursore di malattia.

Work stress, caratteristiche e comportamenti individuali

Oggi ci troviamo a dover rispondere a sollecitazioni e stimoli diversi molto complessi, meno legati rispetto al passato a realtà di pericolo concreto, ma sicuramente più pressanti e continuativi. Così anche le persone che per loro natura tenderebbero ad evitare il cambiamento, ci si trovano e devono quindi affrontare una serie di crisi generatrici di stress.

Nello specifico dello stress lavorativo il NIOSH (National Institute of Occupational and Safety Health) lo definisce come l’insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore. Lo stress connesso col lavoro può influire negativamente sulle condizioni di salute e provocare perfino infortuni. La Commissione Europea definisce lo stress Insieme di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche ad aspetti avversi e nocivi del contenuto del lavoro, dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente del lavoro.

Stress, personalità e ambiente

Nelle varie prospettive di ricerca sul work stress è stata da sempre data importanza alle caratteristiche della personalità degli individui – intesa come la più o meno stabile e durevole organizzazione del carattere, del temperamento, dell’intelletto e del fisico di una persona, che determina il suo adattamento totale all’ambiente – le quali possono facilitare o inibire gli effetti negativi dello stress. La personalità è difatti quella parte di noi che unifica gli aspetti biologici del temperamento, determinato dalla risposta psichica naturale agli impulsi, a quelli psichici del carattere, influenzati dall’ambiente.

Una delle principali teorie consiste nel considerare che ciascun individuo possa essere “psicologicamente predisposto” ad alcuni tipi di malattie. Il riferimento è allo studio pubblicato alla fine degli anni ’50 sulle personalità dette di tipo A e B e la predisposizione alle malattie coronariche (Friedman e Rosenman). Tale studio è orientato a definire le personalità di tipo A coronary prone, cioè con alta possibilità di manifestare malattie cardiovascolari. Le caratteristiche della personalità di tipo A, all’opposto di quella di tipo B, possono essere così riassunte:

elevata competitività ritmi sostenuti di lavoro fretta desiderio di riconoscimento sociale iperattivismo ambizione impazienza In seguito gli studi hanno mostrato (Chesney e Rosenman, 1980) come soggetti classificati

anteriormente come di tipo B se sottoposti lungamente a situazioni ambientali di tipo A possono con il tempo manifestare comportamenti appartenenti a quest’ultimo tipo. In questo senso altri autori (Lader, 1972) considerano la situational stereotipy come la più efficiente tra le teorie che tentano di spiegare i rapporti tra stimoli stressors e risposte degli individui, in quanto basata sulle risposte biologiche adattive dell’organismo all’ambiente circostante.

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Self-efficacy e strategie di coping

Com’è noto, per indicare la capacità di instaurare efficaci meccanismi di difesa dallo stress viene utilizzato il termine coping, che significa protezione o adattamento agli stimoli. Il coping è definito come insieme di pensieri e azioni soggettive per fronteggiare le situazioni di pericolo e può essere focalizzato sull’evento o sull’emozione che ne deriva. Se la strategia di coping è efficace il processo stressogeno viene interrotto e non determina patologie correlate.

A questo proposito, la teoria socio cognitiva della Human agency di Albert Bandura dimostra, attraverso numerosi studi effettuati sullo stress lavorativo, sia a livello individuale che a livello di gruppo, che:

gli individui con un alto livello di autoefficacia (self-efficacy) in situazioni di stress tendono a concentrarsi sul problema, sicuri di poter intervenire per risolverlo,

mentre coloro che hanno un basso livello di autoefficacia si fanno influenzare soprattutto dalle emozioni anziché reagire agli stressor che hanno determinato il problema.

Di conseguenza l’azione di gestione dello stress per essere efficace deve differenziarsi a seconda delle caratteristiche individuali:

mentre gli individui con un alto livello di self-efficacy agiranno per ridurre le caratteristiche di pericolo dell’evento;

gli individui con un basso livello di autoefficacia, dovranno cercare di modificare il proprio stato psico-emotivo.

Occorre inoltre considerare che il livello personale di efficacia può influenzare e orientare le scelte individuali verso un tipo di lavoro o di ambiente lavorativo piuttosto che un altro: coloro che hanno un elevato livello di self-efficacy sono quindi maggiormente indirizzati verso lavori ad alta responsabilità, che lasciano spazio di iniziativa e decisioni personali anche se più rischiosi.

Valutazione e gestione dello stress

Stress organizzativo e indicatori di malessere

Lo stress da lavoro è generalmente legato a monotonia, impossibilità di determinare il proprio ritmo di lavoro, ritmi e durata dell’impegno, mancanza di sostegno.

Attraverso i numerosi studi sullo stress condotti dai ricercatori della S3 OPUS, è stato possibile individuare i seguenti indicatori di malessere, che devono far scattare l’allarme circa le condizioni di salute:

insofferenza nell’andare a lavoro/Assenteismo; disinteresse per il lavoro/Desiderio di cambiare lavoro; alto livello di pettegolezzo; risentimento per l’organizzazione; aggressività inabituale e nervosismo; disturbi psicosomatici; sentimento di inutilità/irrilevanza; sentimento di disconoscimento; lentezza nella performance; confusione organizzativa in termini di ruoli, compiti, ecc.; venire meno della propositività a livello cognitivo; aderenza formale alle regole e anaffettività lavorativa.

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Lo stress connesso col lavoro può influire negativamente sulle condizioni di salute e provocare perfino infortuni. Per questo il DL.vo 81/2008 ha reso obbligatorio per il datore di lavoro valutare il rischio lavorativo.

Il sistema messo a punto da S3 Opus per la valutazione e gestione dello stress

Grazie agli studi e alle sperimentazioni condotte in contesti diversificati, in un lungo arco di tempo, S3 OPUS ha potuto mettere a punto un modello metodologico e i relativi strumenti operativi per la valutazione e gestione dello stress nelle organizzazioni, di cui di seguito si riporta una sintesi delle principali caratteristiche.

Il modello SVS - Sistema Valutazione Stress

Il modello elaborato da S3 OPUS individua, quali fattori di rischio psicosociale o organizzativo:

le caratteristiche del lavoro (complessità del lavoro; carico di lavoro, tempi e ritmi di lavoro; autonomia e controllo del lavoro);

la sicurezza e il comfort; i fattori socio-organizzativi (gestione risorse umane; sicurezza posto di lavoro;

comunicazione); i fattori relazionali (clima organizzativo; relazioni interpersonali con i colleghi; relazioni

interpersonali con i capi); la conciliazione vita-lavoro. Il modello individua nel contenuto, nell’organizzazione e nell’ambiente di lavoro le

principali fonti di stressor lavorativo. Più in dettaglio, si distinguono i seguenti fattori dello stress lavorativo:

aspetti temporali del lavoro; contenuto del lavoro; rapporti interpersonali nel gruppo di lavoro; rapporti interpersonali con i supervisori; condizioni dell’organizzazione. In questo modello causa-effetto il clima di lavoro, inteso come l’insieme delle opinioni, delle

percezioni, dei sentimenti dei membri di un’organizzazione, che colgono la qualità dell’ambiente di gruppo, la sua atmosfera, viene individuato come uno dei principali fattori di stress lavorativo.

Il comportamento dei singoli è infatti fortemente condizionato dall’ambiente di lavoro e dal clima emotivo che si sviluppa al suo interno. Un cattivo clima è generalmente causa di disfunzioni organizzative, elevata conflittualità interpersonale, bassa qualità del servizio, bassa produttività e può avere influenze negative sull’umore e la salute delle persone.

Un buon clima è connotato da elementi immateriali, quali: calore, sostegno, riconoscimento dei ruoli, apertura e feedback.

Il clima organizzativo riveste una grande influenza sul benessere delle organizzazioni e sulle relazioni che si stabiliscono all’interno del contesto lavorativo, sulle motivazioni e il senso di appartenenza dei singoli e, in ultima analisi, sulla qualità del lavoro e la produttività. È quindi di fondamentale importanza monitorare costantemente il clima di lavoro al fine di evidenziare il livello di benessere collettivo ed eventualmente intervenire per tempo sui rischi psicosociali del

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lavoro facendo in modo che sia l’organizzazione che gli individui non subiscano danni derivanti da stress lavorativo.

Nel modello SVS il benessere organizzativo è inteso come la capacità di un’organizzazione di promuovere e di mantenere il più alto grado di benessere fisico e psicologico dei lavoratori e costruire ambienti di lavoro che contribuiscano a migliorare la qualità della vita dei lavoratori (benessere psico-sociale). L’organizzazione in salute non considera solo la propria capacità di lavorare efficacemente ma anche le proprie abilità di crescere e svilupparsi. L’ambiente di lavoro e le relazioni interpersonali rappresentano infatti le principali variabili in gioco per la salute organizzativa. Sono considerati principali indicatori di benessere:

la soddisfazione per l’organizzazione: gradimento per appartenenza ad un’organizzazione ritenuta di valore;

la voglia di impegnarsi per l’organizzazione: desiderio di lavorare per l’organizzazione, anche oltre il richiesto;

la sensazione di far parte di un team: percezione di puntare uniti verso un obiettivo, di una coesione emotiva nel gruppo.

Il bisogno di supportare e sostenere le risorse umane di cui si dispone è oggi in costante crescita. I momenti di difficoltà personale, i disagi e le insoddisfazioni influiscono spesso sulle prestazioni lavorative e rallentano il processo di crescita formativa e produttiva del soggetto. A questo proposito S3 OPUS ha messo a punto un servizio di consulenza aziendale in grado di supportare le organizzazioni nella risoluzione e gestione dei problemi lavorativi.

Il servizio di counseling aziendale

Il servizio di counseling aziendale offerto da S3 OPUS mira alla promozione del benessere delle organizzazioni, valorizzando le capacità individuali e indirizzando le energie e le motivazioni dei singoli verso sviluppi coerenti con le esigenze dell’azienda e del mercato.

Più in particolare, le attività di counseling aziendale promosse da S3 OPUS prevedono interventi mirati ad aumentare il benessere nei contesti lavorativi e la motivazione dei lavoratori, migliorare la qualità della vita e la produttività del lavoro.

Il servizio si svolge, a seconda delle problematiche, a livello individuale e di gruppo. I colloqui individuali hanno l’obiettivo di offrire un sostegno in situazioni conflittuali e di

disagio, a facilitare la presa di decisioni, aiutare ad affrontare i momenti di crisi e a migliorare le relazioni con gli altri e potenziare le capacità di coping, rispettando i valori, le risorse personali e la capacità di autodeterminazione degli individui.

Le attività di gruppo sono ideate per coinvolgere e sviluppare le capacità di lavorare in gruppo, condividere un progetto, migliorare gli stili di convivenza, aumentare la motivazione al lavoro e la coesione organizzativa, supportare la gestione dei conflitti nelle fasi di cambiamento.

Le attività di orientamento e formazione permettono, infine, di aumentare il benessere aiutando le persone alla conoscenza dei propri limiti, reazioni e capacità di resistenza agli stressor, nonché a porre le basi ideali per sviluppare il lavoro di gruppo.

I corsi offerti dal servizio di counseling sono i seguenti: Leadership e motivazione del gruppo di lavoro. Gestione efficace delle risorse umane. Team building e lavoro di gruppo. Tecniche di gestione dello stress. Bilancio di competenze. Gestione dei conflitti e delle criticità. Problem solving. Gestione dei processi di comunicazione.

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Gestione delle riunioni. Public speaking e gestione delle criticità. Gestione degli obiettivi e dei risultati. Time managment. Il servizio svolge anche un’attività di ricerca per poter determinare l’origine dei problemi

lavorativi. A tal fine è prevista un’indagine sul clima di lavoro, nel pieno rispetto della privacy, basata sulla somministrazione di questionari semistrutturati.

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VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO-CORRELATO: MODELLI TEORICI E RIFLESSIONI SULLA NORMA VIGENTE

Lucilla Livigni (a), Andrea Magrini (a), Carmela Monteleone (a), Antonio Bergamaschi (b) (a) Cattedra di Medicina del Lavoro, Università degli Studi Tor Vergata, Roma (b) Istituto di Medicina del Lavoro, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

Lo stress? Tutti sanno che cos’è eppure nessuno sa che cosa sia! Hans Selye, 1973

Perché valutare lo stress lavorativo?

Da qualche tempo la valutazione dello stress è diventata in Italia un obbligo di legge, come si evince dall’art.28 del DL.vo 81/2008 e dalle indicazioni della Commissione Consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro del 17 novembre 2010, pubblicate con lettera Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali il 18 novembre 2010. Oltre ad un adempimento obbligatorio (o forse proprio per questo), la valutazione dello stress è diventata anche una preoccupazione di tante realtà lavorative, poco abituate a confrontarsi con questo tema, per alcuni aspetti ancora “oscuro” e di difficile inquadramento.

Può essere utile quindi partire provando a rispondere alla domanda: Che cosa è lo stress lavoro-correlato? Un aiuto ci viene dalla definizione presente nello stesso Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004, recepito dall’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2008: Lo stress lavorativo è una condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o aspettative riposte in loro. Specificando che gli ipotetici disturbi o disfunzioni causati dallo stress lavorativo si possono collocare su diversi ambiti (fisico, psicologico e sociale), l’Accordo Europeo e quello Interconfederale italiano, riprendono a pieno titolo la definizione di salute che è stata rilasciata dalla Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 (Stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità), definizione troppo spesso dimenticata dagli “addetti ai lavori” chiamati ad occuparsi, a più titoli, del benessere delle persone sul posto di lavoro. Proprio per ribadire l’importanza di tale approccio olistico e bio-psico-sociale alla salute (che coinvolge tutti gli aspetti propri dell’individuo: quello fisico, emotivo, mentale, sociale), il legislatore italiano ha ritenuto opportuno inserire la medesima definizione nel DL.vo 81/2008 (2), obbligando il contesto italiano ad una apertura rilevante verso dimensioni della salute poco misurabili, ma non per questo meno importanti rispetto a quella fisica.

Tale apertura, coatta e spesso mal digerita, è definita da molti utopistica, specie in un contesto italiano alle prese con problematiche che appaiono, e spesso sono, ben più urgenti per il Paese. Personalmente, pur condividendo la difficoltà (se non l’impossibilità) di garantire per tutte le persone (prima ancora che per tutti i lavoratori e le lavoratrici) uno stato di salute così globale e onnicomprensivo, pensiamo che sia comunque arrivato il momento di guardare al di là del modello biomedico, con la sua accezione riduttiva della salute.

E che sia arrivato il momento di dare avvio a modelli di prevenzione e gestione della salute e sicurezza – ma anche a modelli organizzativi – che si occupino davvero di ridurre al minimo gli

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effetti nocivi del processo lavorativo (in fabbrica, in ufficio, per la strada) sulle persone che lo svolgono. Questo pur alla luce della viva consapevolezza che si tratta di un percorso in salita, con strumenti spuntati, e con risultati sicuramente migliorabili in futuro.

Al di là dell’obbligo normativo, un altro motivo per occuparci dello stress lavoro-correlato è il cambiamento nel lavoro di oggi e nella nostra società più in generale. Il lavoro che svolgiamo oggi nelle nostre organizzazioni pubbliche e private, può essere definito come demograficamente eterogeneo, fluido, socialmente intenso, vario, cognitivamente impegnativo, con forte richiesta di assunzione di responsabilità, disponibilità alla collaborazione, capacità di integrazione di conoscenze diverse (Bagnara e Livigni, 2009). Si comprende facilmente quanto possa essere impegnativo, se non gravoso, in alcuni momenti della nostra vita, rispondere a tutte queste richieste lavorative. Del resto anche studi europei di più largo respiro rispetto alla sola realtà italiana, riferiscono di cambiamenti del lavoro che obbligano ad una nuova attenzione agli aspetti sociali, relazionali, emotivi, cognitivi del lavoro, così fortemente presenti oggi più che mai. In particolare i fattori su cui l’Osservatorio Europeo sui Rischi Lavorativi dell’Agenzia Europea (EU-OSHA/European Agency for Safety and Health at Work) ci fa riflettere sono: la diffusione di nuove forme contrattuali flessibili che riducono il rapporto di lavoro ad un arco temporale breve se non brevissimo; l’innalzamento dell’età anagrafica della forza lavoro che impatta sulla capacità di adattamento alle richieste esterne; una aumentata pressione lavorativa in termini di raggiungimenti di risultati e obiettivi; un maggiore coinvolgimento emotivo per la continua esposizione sociale e le responsabilità di ciascuno; una evidente e sempre più diffusa difficoltà nel conciliare esigenze lavorative e familiari. Il cambiamento quindi, micro e macro che sia, è un filo conduttore della nostra esistenza, lavorativa e non. Ma mentre nel secolo scorso i cambiamenti del e nell’ambito lavorativo avevano un carattere di eccezionalità e di puntualità che ne facilitava l’adattamento, oggi invece sono diventati un fattor comune trasversale, che abbraccia la quasi totalità dei settori e dei ruoli lavorativi (Bagnara et al., 2011). Anche l’Osservatorio Europeo fa notare quanto le lavoratrici e i lavoratori siano oggi esposti a continui cambiamenti, spesso non voluti, le cui motivazioni sovente sfuggono a chi li “subisce”. È necessaria, quindi, sul lavoro e nella vita, una nuova capacità: quella di adattarsi, e di farlo in tempi rapidissimi. Molto più rapidi rispetto a quando richiesto una volta. Tali cambiamenti (soprattutto quelli strutturali e organizzativi) possono facilitare l’esposizione e l’insorgenza dei rischi psicosociali. È per questo motivo, oltre che per un obbligo di legge, che bisognerebbe impegnare risorse ed energie per sperimentare percorsi efficaci di valutazione, ma anche e soprattutto di intervento, per migliorare le condizioni di salute e di benessere in cui tutti noi ci troviamo a lavorare. Senza voler fare una crociata contro il cambiamento (e la capacità di risposta funzionale che è auspicabile avere), riteniamo che sia indispensabile quanto meno “riflettere” ed essere, quindi, consapevoli del potenziale stressante contenuto nei cambiamenti del e nel lavoro (soprattutto quelli strutturali, imposti, imprevedibili), condividendo ben più autorevoli preoccupazioni a riguardo1.

Ancora, un aggiuntivo motivo che dovrebbe spingerci a confrontarci sul tema dello stress lavorativo, così come richiesto dall’Accordo Europeo2, riguarda la sua innegabile attualità. Un

1 L’importanza della gestione del cambiamento nelle modalità organizzative e nelle forme contrattuali è ben

evidenziata in vari documenti europei. Fra i tanti, il Libro Verde, 2001 e la Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea 2002/C-161/01. Ancora, si evidenzia come la Commissione Europea (DG Occupazione, Affari Sociali e Inclusione) abbia condotto un’importante iniziativa di studio e ricerca sull’impatto immediato e sulle conseguenze a lungo termine delle ristrutturazioni per la salute, “HIRES - Health In Restructuring”, con conclusioni allarmanti rispetto al deterioramento della salute psicofisica dei lavoratori e lavoratrici.

2 Lo scopo dell’Accordo, esplicitamente formulato nell’introduzione dello stesso, è “migliorare la consapevolezza e la comprensione dello stress da lavoro da parte dei datori di lavoro, dei lavoratori e dei loro rappresentanti, …”.

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rapporto internazionale del 2011 in cui si fa il punto sull’applicazione dell’Accordo Europeo nei paesi europei aderenti, sottolinea come recenti dati raccolti nel 2009 a livello europeo1 attraverso indagini nazionali (ove presenti), indichino che negli ultimi dieci anni il livello di stress attribuito al lavoro è aumentato in sei paesi membri (Danimarca, Germania, Lettonia, Austria, Slovacchia, Finlandia), rimasto stabile in due (Olanda e Gran Bretagna), diminuito solo in uno (Svezia). Ancora, sempre la stessa fonte riporta un incremento dello stress lavorativo negli ultimi tre anni nei primi nove paesi sopramenzionati, a cui si aggiungono Bulgaria, Estonia, Irlanda, uno stazionamento del livello in Olanda, Gran Bretagna e Belgio; e un decremento solo in Svezia. Anche i dati 2010 della EWCS (European Working Conditions Survey) evidenziano un leggero incremento nell’occorrenza dei fattori che possono condurre a situazioni di stress lavoro-correlato, primi fra tutti: la pressione/domanda lavorativa e l’insoddisfazione legata al vasto tema del work life balance.

Al di là delle stime e dei dati di trend rilevati a livello europeo, una testimonianza dell’attuale e precario equilibrio fra le famose e famigerate sfere di cui siamo composti (fisica, psicologica, sociale) viene testimoniato (in via diretta o indiretta, a seconda delle diverse interpretazioni del dato), dal numero di suicidi che si sono contati in Europa negli ultimi anni e che sono stati attribuiti, in numerosi casi, al disagio vissuto dalle persone sul posto di lavoro2. È interessante notare come stia cambiando anche l’approccio nell’individuazione delle responsabilità rispetto a tali casi così eclatanti: in alcuni casi è stata riscontrata una negligenza e, quindi, relativa responsabilità, da parte del vertice aziendale che, pur a conoscenza del malessere vissuto dai dipendenti, sembra non aver avviato alcun intervento correttivo.

È interessante notare come stia cambiando anche l’approccio nell’individuazione delle responsabilità rispetto a tali casi così eclatanti: in alcuni casi è stata riscontrata una negligenza e, quindi, relativa responsabilità, da parte del vertice aziendale che, pur a conoscenza del malessere vissuto dai dipendenti, sembra non aver avviato alcun intervento correttivo. Anche alla luce di tali drammatici episodi (che comunque rappresentano la punta dell’iceberg di un disagio più latente e diffuso), si rende ormai obbligatoria una riflessione più allargata sulle condizioni macro, di sistema e di mercato, in cui ci troviamo a vivere e, quindi, a lavorare.

Riflessione che dovrebbe fare da cornice imprescindibile a ciò che la legge richiede oggi, ovvero alle puntuali valutazioni sulle condizioni micro, di contenuto e di contesto lavorativo, specifiche di ciascuna realtà lavorativa.

Ciò non significa che il datore di lavoro diventi responsabile (in alcuni casi, penalmente responsabile) di tutte le condizioni che contraddistinguono il proprio settore e/o mercato di riferimento, quanto piuttosto che, nel tentativo di “valutare” e quindi misurare lo stress lavorativo, non possiamo ignorare il fatto che la gravissima crisi economica in cui ci troviamo (e alcune conseguenti scelte del management) ha, senza dubbio, una influenza sulla salute delle lavoratrici e lavoratori3.

1 Fonteprimaria EU Advisory Committee on Safety and Health at work: Scoreboard 2009 – Community Strategy on

health and Safety at work. 2 Appare significativo per chi scrive che numerosi suicidi sul lavoro si siano consumati in specifici settori di

mercato, concentrandosi in strutture particolarmente pressate da riassetti organizzativi sostanziali, con una feroce concorrenza interna, e con l’imposizione di nuovi modelli produttivi e lavorativi.

3 Secondo uno studio pubblicato su Lancet nel 2009 (Stuckler D. et al., 2009) in Europa la crisi economica ha portato in poco più di un anno, ad oltre 1.700 suicidi in più: per ogni incremento del 3% della disoccupazione, sono cresciute del 30% le morti dovute a eccesso di alcol ed è aumentato di quasi il 5% il tasso dei suicidi. Anche secondo la Società Italiana di Psichiatria (Rapporto-Convegno Nazionale Psichiatri Italiani, 2010), la salute psicologica è oggi messa a rischio da una nuova minaccia: la condizione di precarietà economica, che grava soprattutto sulle giovani generazioni.

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Se poi guardiamo al borsellino delle aziende e degli enti pubblici in cui lavoriamo e, contemporaneamente, leggiamo i dati europei sulle assenze per malattie, emerge un terzo motivo per cui occuparci dello stress: i costi. Sentirsi o essere stressati rappresenta un costo, per le aziende, per la società, per le persone. Sempre nel rapporto internazionale sull’implementazione dei contenuti dell’Accordo Europeo si stima che lo stress lavoro-correlato è costato nel 1999 e costa tuttora, alle imprese e ai governi dell’UE, circa 20 miliardi di Euro, derivanti dalle assenze e dai relativi costi per la salute. Si specifica inoltre che tale cifra è stata calcolata sulla base di una stima conservativa che attribuisce allo stress lavoro-correlato almeno il 10% dei costi sostenuti per la salute. Sempre la Commissione Europea riferisce che nel 2007 la Francia, tristemente afflitta da numerosi suicidi attribuiti a cause lavorative negli ultimi 4 anni, ha quantificato una spesa che oscilla fra i 2 e i 3 bilioni di euro come cost of stress. Mentre in UK circa 10 milioni di giorni lavorativi persi sono stati attributi a condizioni di ansia, depressione e stress direttamente correlato al tipo di lavoro e alle condizioni lavorative. Già qualche anno fa, nel 2005 l’Agenzia Europea per la Salute e Sicurezza sul Lavoro aveva stimato che circa il 22% della popolazione lavorativa dell’UE si dichiarava affetta da forme di stress e che lo stress contribuisce fra il 50% e il 60% alle assenze del personale, configurandosi come la seconda causa di assenza dal lavoro nell’UE, dopo i disturbi muscolo-scheletrici. Del resto il legame fra performance lavorativa (anche in termini di risultato economico) e livello di stress lavorativo è ben noto anche agli estensori dell’Accordo Europeo che puntano su questo aspetto per incentivare i datori di lavoro ad avviare iniziative di valutazione dello stress lavoro-correlato. L’Accordo infatti, nella sua traduzione italiana, recita: “Considerare il problema dello stress sul lavoro può voler dire una maggiore efficienza e un deciso miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenti benefici economici e sociali per le aziende, i lavoratori e la società nel suo insieme”. Riteniamo che la scelta delle parole e degli aggettivi utilizzati, nonché il loro ordine, non sia casuale, ma punti proprio ad evidenziare la “convenienza” di tale valutazione per chi detiene la responsabilità dei risultati economici e finanziari di una organizzazione di lavoro.

Come si origina lo stress lavoro-correlato?

Visti i tanti motivi (condivisibili o meno) per cui avviare la valutazione dello stress, cerchiamo ora di fare un po’ di chiarezza su alcuni termini, concetti e modelli riguardanti lo stress lavoro-correlato. Per fare questo, guardiamo soprattutto al contributo ricevuto negli anni passati da autori stranieri che si sono occupati, sia pur in altri contesti culturali e socio-economici, del tema dello stress legato all’ambito lavorativo e delle implicazioni sulla salute delle lavoratrici e dei lavoratori.

All’origine degli studi sul benessere delle persone troviamo il ribaltamento della prospettiva meccanicistica, che metteva l’elemento umano e sociale al pari di quello meccanico e fisico. Solo quando le persone sono state poste al centro delle organizzazioni, riconoscendone “il primato” rispetto alle strutture e alle tecnologie, ha avuto senso occuparsi delle loro condizioni psicologiche, sociali, relazionali, oltre che fisiche, durante l’esperienza lavorativa.

Riportiamo le classiche e più condivise definizioni dello stress lavoro-correlato, molto simili a quella contenuta nell’Accordo Europeo. L’Agenzia Europea per la Salute e Sicurezza sul Lavoro ha definito lo stress legato all’attività lavorativa come una condizione che si manifesta quando le richieste dell’ambiente di lavoro superano la capacità del lavoratore di affrontarle (o controllarle). Specifica chiaramente che non può considerarsi una malattia, ma può causare problemi di salute mentale e fisica, se si manifesta con intensità e per periodi prolungati. Ancora, il NIOSH (National Institute for Occupational Safety and Health) alla fine degli anni

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Novanta, ha definito lo stress lavorativo come l’insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse, esigenze del lavoratore.

È facile immaginare quindi, come è già stato detto da molti, che lo stress lavorativo non è una condizione che va evitata a priori. Esiste, infatti, lo stress positivo, eustress, che rappresenta il grado ottimale di tensione e sollecitazione esterna che ci permette di raggiungere i nostri obiettivi. Lo spirito della valutazione dello stress, imposta dal DL.vo 81/2008, non è combattere ogni forma di stress. Va piuttosto cercato nel tentativo di valutare l’entità del distress, legato a fattori prettamente organizzativi e lavorativi, definibile come sforzo esagerato e innaturale, dovuto a una continua esposizione a stimoli esterni che si rivelano dannosi per il soggetto a cui si rivolgono. Ben consapevoli che lo stress è una condizione legata in buona parte alla soggettività di ciascuno e alla percezione delle proprie risorse a disposizione, l’obiettivo della valutazione dello stress lavorativo dovrà essere quello di analizzare la situazione organizzativa e lavorativa e cercare di soffermarsi esclusivamente sui fattori stressanti legati al lavoro, senza straripare in ambiti extra lavorativi di difficile interpretazione.

Vediamo di seguito alcuni dei più importanti modelli di studio sullo stress lavorativo. Uno dei primi, nonché uno dei più accreditati modelli sullo stress lavoro-correlato, è quello

di Karasek, meglio conosciuto come modello domanda/controllo (Karasek, 1979). In base a tale modello lo stress lavorativo è la risultante dell’interazione tra la richiesta lavorativa (job demand) e la libertà decisionale (job control). Con l’espressione richiesta lavorativa si fa riferimento a carichi e ritmi di lavoro, ovvero agli aspetti che richiedono un certo sforzo fisico o psichico, mentre con l’espressione libertà decisionale si indica la possibilità dell’individuo di gestire la domanda, distinta in discrezionalità (skilldiscretion) e in autonomia di decisione (decision authority).

Nella prima componente rientrano la possibilità di imparare nuove cose e il grado di ripetitività dei compiti, mentre nella seconda componente rientrano la possibilità del lavoratore di controllare la programmazione e l’organizzazione del lavoro, nonché la possibilità di assumere decisioni in autonomia. La classificazione proposta da Karasek prevede quattro tipologie di lavori: i lavori attivi (domanda alta/autonomia alta), i lavori passivi (domanda bassa/autonomia bassa), i lavori ad alto strain (domanda alta/autonomia bassa) e i lavori a basso strain (domanda bassa/autonomia alta) (Avallone, 2011). Studi successivi hanno mostrato come la relazione tra domanda e controllo viene moderata dalla dimensione del supporto sociale, il supporto del capo e dei colleghi ad esempio possono aiutare il lavoratore a sviluppare uno stile di coping efficace (Johnson e Hall, 1988). I lavoratori con alte richieste, basso controllo e basso sostegno sono quelli con il più basso livello di benessere (Avallone, 2011). Il nome di Karasek è importante perché ci ha consegnato un questionario di valutazione dello stress, tradotto in vari paesi con una sua versione validata anche per il contesto italiano.

Un altro autore che ha fornito un importante contributo sul tema dello stress è Cooper, che prende in considerazione sia variabili squisitamente organizzative che caratteristiche individuali. La complessità del modello di Cooper lo rende fra i più attuali soprattutto alla luce delle nuove modalità lavorative di oggi.

In tale modello (Cooper e Marshall, 1976; Cooper e Marshall, 1978; Sutherland e Cooper, 1988), le fonti di stress si presentano in termini di pressioni derivate dall’ambiente, le quali possono essere suddivise in cinque macro-categorie: le fonti intrinseche al lavoro, il ruolo dell’organizzazione, lo sviluppo di carriera, le relazioni di lavoro, la struttura e il clima organizzativo. Nelle fonti intrinseche al lavoro, rientrano le condizioni fisiche come la rumorosità, le vibrazioni, l’illuminazione e le carenze di igiene ambientale, le quali agiscono negativamente sulla motivazione, l’efficienza e la concentrazione del lavoratore. Oltre alle condizioni fisiche Cooper sottolinea le caratteristiche del compito, le cosiddette task demands,

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come possibili fonti di stress. Col termine task demands si fa riferimento alla responsabilità, soprattutto quella concernente la vita di altre persone, alla pressione temporale e al carico di lavoro. Quest’ultimo può essere sovradimensionato o sottodimensionato, inteso in termini quantitativi (work load quantitativo – avere troppe cose da fare) o in termini qualitativi (work load qualitativo – avere compiti troppo complessi). Una delle fonti di stress riconducibili al ruolo dell’individuo nelle organizzazioni è l’ambiguità di ruolo, ovvero quando il lavoratore non dispone di informazioni chiare circa gli ambiti e le responsabilità del lavoro da lui svolto né circa le aspettative dei colleghi rispetto al suo ruolo. Rientrano nella stessa categoria anche il conflitto di ruolo, ovvero la richiesta al lavoratore di mansioni o competenze incompatibili con il ruolo nell’organizzazione, e la responsabilità nei confronti delle cose e delle persone. Quest’ultima in particolar modo sembra determinare rischi di cardiopatie croniche, fumo eccessivo e aumento della pressione sanguigna (Wardell et al., 1964, French e Caplan, 1970). Un’altra macro-categoria è lo sviluppo di carriera, infatti un mancato avanzamento può condurre a frustrazione e insoddisfazione così come la paura di perdere il posto di lavoro può scatenare disturbi psicosomatici. Le ultime due aree, possibili fonti di stress, individuate da Cooper, sono le relazioni al lavoro, come le difficoltà relazionali con i colleghi, i capi e i subordinati, e la struttura e il clima organizzativo, come la possibilità di prendere parte o meno alle decisioni.

Come già accennato, il modello di Cooper non prende in considerazione solo le fonti oggettive di stress, quali quelle precedentemente illustrate, ma anche caratteristiche di personalità e comportamentali quali il livello d’ansia, il locus of control o ancora la tolleranza verso l’ambiguità.

Variabili soggettive che vanno a rendere ancora più difficile la valutazione dello stress effettivamente riconducibile a sole dimensioni lavorative. Cooper riconosce la singolarità degli individui e inoltre comprende la connessione tra vita lavorativa e vita privata: ovvero sottolinea quanto il modo che ha il lavoratore di reagire allo stress dipende anche dalla sua vita familiare e dalla facilità o meno di conciliare le richieste lavorative con quelle personali/familiari. Sempre secondo tale modello gli output dello stress sono suddivisibili in tre categorie, gli effetti fisiologici (es. colesterolo, frequenza cardiaca), gli effetti individuali comportamentali (es. tabagismo, alcolismo) e gli effetti organizzativi (es. assenteismo, turnover) (Gabassi, 2006). Dunque nel considerare gli effetti dello stress lavoro-correlato bisogna prendere in considerazione anche la reattività soggettiva, dato che risposte fisiologiche e comportamentali allo stress sono collegate alle caratteristiche della situazione quanto a quelle di personalità dell’individuo.

Anche il modello teorico proposto dal NIOSH, così come già fatto da Cooper, riconosce l’importanza dell’interazione di variabili individuali e di variabili contestuali. Il NIOSH, responsabile dei rischi per la salute umana sul luogo di lavoro, definisce lo stress lavoro-correlato come una reazione fisica ed emotiva dannosa che si verifica quando le richieste del lavoro non corrispondono alle capacità, alle risorse e ai bisogni del lavoratore. Spesso il concetto di stress viene confuso con quello di sfida, ma a differenza della sfida che può motivare il lavoratore ad acquisire nuove capacità nonché fornirgli energia dal punto di vista fisico e psichico, lo stress può causare un impoverimento o un danno alla salute. Lo stress sembra derivare dall’interazione delle caratteristiche del lavoratore con le condizioni lavorative. Per alcuni il focus dovrebbe essere sul lavoratore, ovvero sulla personalità e lo stile di coping, i quali predirebbero le condizioni lavorative stressanti per quel determinato lavoratore. Altri spostano il focus sulle condizioni lavorative ritenendo che specifiche situazioni lavorative risultino stressanti per la maggior parte dei lavoratori, sono tra queste il sovraccarico di lavoro e il conflitto di ruolo. Il NIOSH ritiene che condizioni lavorative stressanti abbiano un’influenza diretta sulla sicurezza e sulla salute del lavoratore sebbene fattori individuali intervengano ad

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indebolire o rafforzare tale influenza. La malattia di una persona cara, ad esempio, può intensificare l’effetto di condizioni lavorative stressanti, mentre al contrario un buon work life balance e un adeguato supporto sociale possono mitigare le conseguenze dello stress sul luogo di lavoro. Lo stress lavoro-correlato sembra produrre effetti negativi non solo per il singolo lavoratore, ma anche per l’intera organizzazione: non a caso anche per il NIOSH elevati livelli di produttività sono associati ad un basso livello di stress. Fondamentale risulta l’azione di prevenzione primaria allo stress sui luoghi di lavoro. A tal proposito il NIOSH ogni anno pubblica l’elenco delle dieci malattie e infortuni più importanti e la relativa strategia preventiva. Sono quattro le azioni che possono prevenire lo stress da lavoro (Cossero e Ranieri, 2001): job design, ovvero mansioni adeguate alle capacità del lavoratore e definizione precisa dei compiti; vigilanza sui disturbi psicologici e sui fattori di rischio; diffusione dell’informazione, dell’educazione e della formazione; e infine miglioramento dei servizi di salute mentale rivolti ai lavoratori.

Un nuovo modello interpretativo sullo stress lavoro-correlato proviene dalla riflessione del Nord Europa e introduce l’interessante costrutto della giustizia organizzativa. In particolare, i Paesi Scandinavi sono stati i pionieri di ricerche sulla giustizia organizzativa nonché i primi ad individuare possibili associazioni tra quest’ultima e variabili organizzative. Studi recenti hanno individuato quattro modi di percepire la giustizia organizzativa, in riferimento all’allocazione degli outcome lavorativi (giustizia distributiva), in termini di correttezza dei processi (giustizia procedurale), in riferimento alle relazioni interpersonali (giustizia interazionale) e infine in termini di informazioni condivise (giustizia informativa) (Colquitt, 2001).

Ricerche mostrano come la giustizia organizzativa sia positivamente associata al benessere organizzativo e in particolar modo al commitment, alla soddisfazione e alla cittadinanza organizzativa. Altre ricerche suggeriscono come, laddove manchi la percezione di giustizia organizzativa, si verifichino conseguenze negative come turnver, burnout, assenteismo e comportamenti controproduttivi (Cohen-Charash e Spector, 2001; Elovainio et al., 2002; Janssen, 2004; Tepper, 2001). Secondo il modello della giustizia organizzativa, il sentirsi trattato ingiustamente all’interno dell’organizzazione di lavoro può avere un’influenza negativa sulla salute del lavoratore: studi specifici, ad esempio, hanno confermato che lo stress prolungato percepito in contesti di lavoro sentiti come “non giusti” può provocare la comparsa di disturbi del sonno, alterazioni dell’omeostasi cardiovascolari e compromissioni cognitive (Elovainio et al., 2001). In particolar modo, i disturbi del sonno, sempre più frequenti al giorno d’oggi anche fra i più giovani, sono un indicatore di stress che, interferendo sul processo giornaliero di recupero, vanno a danneggiare la salute del lavoratore (Magnavita, 2009). Studi ulteriori mostrano come vi sia una relazione tra giustizia organizzativa e stress e in particolare suggeriscono vi sia una relazione più forte tra quest’ultimo e la giustizia procedurale e interpersonale. Il work life balance risulta essere un mediatore di tale relazione e inoltre la percezione della giustizia sembra essere associata a livelli più bassi di stress, ciò faciliterebbe la gestione del work life balance (Judge e Colquitt, 2004).

Alla luce dell’obbligo valutativo vigente, rimane centrale il problema di individuare una metodologia valida per la valutazione dello stress lavoro-correlato, la cui difficoltà è legata alla assenza di indicatori chiari e di indici obiettivi, così come valori di benchmarking nazionali e internazionali. A tal proposito, particolare interesse suscita il modello management standards adottato dall’HSE, il cui questionario è stato validato in Italia su 6.000 lavoratori di aziende afferenti a differenti settori produttivi. Il modello è molto interessante perché si basa su principi supportati dalla letteratura scientifica in piena linea con l’Accordo Europeo del 2004, e fornisce una guida per la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Il modello individua sei fattori di rischio stress lavoro-correlato: la domanda, il controllo, il supporto, le relazioni, il ruolo e il cambiamento. Abbraccia quindi dimensioni individuali (controllo), relazionali (supporto,

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relazioni), organizzative (domanda, ruolo), e di interfaccia fra individuo e organizzazione (cambiamento). Il modello HSE, adottato dalla recente metodologia INAIL (2011-Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro-), riconosce per esempio l’importanza di gestire con la dovuta attenzione e quindi efficacia, i momenti di cambiamento organizzativo strutturale. Sulla base delle dimensioni sopra elencate, il processo di valutazione si articola in sei fasi:

1. Preparazione dell’organizzazione. Si realizza il pieno coinvolgimento del gruppo di lavoro (datori di lavoro, dirigenti, preposti, medico competente ove previsto, Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione- RSPP -, Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza -RLS) e dei lavoratori, in modo da definire un gruppo di coordinamento e sviluppare un piano di progetto e una coerente strategia comunicativa e di coinvolgimento del personale.

2. Identificazione dei fattori di rischio stress: conoscenza dei Management Standards. I Management Standards fanno riferimento alle sei dimensioni organizzative chiave. Il gruppo di coordinamento, così come tutti i soggetti coinvolti nel processo di valutazione, devono essere a conoscenza delle modalità della procedura valutativa attraverso percorsi formativi/informativi ad hoc.

3. Raccolta dati: valutazione oggettiva e soggettiva. La raccolta dati viene effettuata tramite tecniche di valutazione oggettiva (dati forniti dall’azienda su assenze, infortuni, etc.) e tecniche di valutazione soggettiva (questionario indicatore della valutazione soggettiva dello stress lavoro-correlato). Da notare l’importanza di utilizzare varie fonti di raccolta dati e di investigare anche il vissuto soggettivo dei lavoratori per permette di avere un quadro più completo della situazione.

4. Valutazione del rischio: esplorare problemi e sviluppare soluzioni. Il gruppo di lavoro per conto del datore di lavoro deve confermare i risultati ottenuti dalle fasi precedenti, analizzandone il significato in relazione a gruppi omogenei di lavoratori e sviluppando possibili soluzioni tramite focus group ad hoc.

5. Formalizzazione dei risultati: sviluppare e implementare piano/i d’azione. Consultati i lavoratori ed esplorate le aree di intervento, si individua un percorso per l’adozione di misure preventive e correttive, nonché specifici piani d’azione nei settori dove sono emerse criticità.

6. Monitoraggio e controllo del/i piano/i d’azione e valutazione della loro efficacia. Il monitoraggio permette la valutazione delle misure adottate, con particolare riferimento alle criticità precedentemente emerse.

Il modello HSE presenta quindi una potenza descrittiva derivante dalla esaustività delle dimensioni investigate, e una potenza investigativa derivante dal ricorso ai diversi strumenti di rilevazione, soggettivi e oggettivi. Molto importante, inoltre, il costante coinvolgimento richiesto nelle diverse fasi valutative tanto fra gli attori della sicurezza quanto nei confronti dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti.

Conclusioni

È condivisa la difficoltà di definire in modo univoco lo stress lavoro-correlato e di eleggere una unica metodologia di analisi come la migliore attuabile. Nel nostro contesto italiano rimane l’obbligo normativo ricaduto sulle spalle di un datore di lavoro che, sempre più spesso, si trova con fatica a far quadrare i bilanci di realtà produttive, spesso piccole e piccolissime, che a mala pena riescono a sopravvivere. Il rischio che si corre, tanto per le piccole quanto per le grandi realtà lavorative, è che da un lato la valutazione dello stress lavorativo si riduca ad un ennesimo

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(e alquanto semplicistico) adempimento normativo, dall’altro che sia strumentalizzata per portare avanti rivendicazioni da parte dei lavoratori che non possono trovare la loro gestione, né tanto meno risoluzione, in un documento di valutazione dei rischi. Probabilmente l’approccio più strategico a tale materia potrebbe essere quello di sperimentare, con onestà intellettuale e metodologica, percorsi e strumenti ancora imperfetti, nella convinzione che solo la ricerca, la sperimentazione e l’applicazione riusciranno davvero a migliorarli.

Un ultimo motivo per occuparsi della valutazione dello stress lavoro-correlato è riconducibile al fatto che potrebbe rappresentare una reale opportunità di miglioramento delle caratteristiche e condizioni di lavoro delle donne e degli uomini oggi. E questo ora più che mai, proprio alla luce del collasso del sistema economico e lavorativo, ma anche sociale, in cui ci troviamo. Prima che si risolva tutto in un adempimento normativo (con significative ripercussioni sul piano penale in caso di inadempienze), riteniamo che provare a “misurare” lo stress e intervenire in ottica migliorativa, possa essere un modo per recuperare una vocazione d’impresa, che non si esaurisca solo nell’indice dei profitti, ma che si compia in un orizzonte più vasto e più nobile che qualche imprenditore, definito utopista e illuminato, aveva osato intravedere anni e anni or sono.

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UN MODELLO OPERATIVO PER LA VALUTAZIONE DELLO STRESS LAVORO-CORRELATO

Felice Paolo Arcuri Società di Studi Socio-economici e Organizzativi S3 Opus, Roma. Università Tor Vergata, Roma.

Opportunità e rischi della valutazione dello stress

Con l’introduzione dell’obbligo di valutare lo stress il nostro ordinamento ha fatto un balzo in avanti storico, facendo finalmente propria (con soli sessanta anni di ritardo!) la definizione di salute data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948, secondo cui la salute non corrisponde alla semplice assenza di malattia ma ad uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale. Ne consegue che il datore di lavoro oltre a dover tenere sotto controllo il rischio infortuni e il rischio malattie, debba preoccuparsi anche di assicurare ai lavoratori una buona qualità della vita di lavoro.

Eppure questo passaggio non è stato salutato con adeguata soddisfazione: molti anzi avrebbero preferito aspettare altri sessant’anni! Dobbiamo l’estensione dell’obbligo di valutazione dei rischi anche a quelli di natura psico-sociale più al fatto di far parte dell’Unione Europea che non ad una consapevole maturità nazionale, come dimostrano diversi fatti, tra cui:

la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Giustizia europea dell’Aja (C.49/00 del 15/11/2001) per non aver applicato quanto previsto dalla direttiva quadro europea 89/391 che prevedeva l’obbligatorietà di considerare nella valutazione dei rischi “l’insieme dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori”;

la lentezza con cui l’accordo quadro europeo sullo stress è stato recepito nel nostro ordinamento (3 anni e mezzo, dall’8 ottobre 2004 al 9 aprile 2008);

i numerosi rinvii che hanno spostato l’obbligo introdotto dal DL.vo 81 dal 2008 al 31 dicembre 2010;

la lentezza con cui la Commissione consultiva per lo stress lavoro-correlato - istituita ai sensi degli articoli 6, comma 8, lettera m-quater, e 28, comma 1 bis del DL.vo 81/2008 presso il Ministero del Lavoro - ha emanato le linee guida metodologiche (17 novembre 2010);

la parzialità di queste linee guida che riducono l’obbligo alla sola “valutazione oggettiva” (o “preliminare”), relativa alla rilevazione di indicatori oggettivi e verificabili, ove possibile numericamente apprezzabili, mentre la “valutazione soggettiva”, relativa alla percezione soggettiva dei gruppi omogenei di lavoratori, è relegata a mero approfondimento da attivare solo nel caso in cui la valutazione preliminare riveli elementi di rischio da stress lavoro-correlato e le misure di correzione adottate dal datore di lavoro si rivelino inefficaci.

Tutti questi elementi lasciano capire quante preoccupazioni e resistenze susciti nel nostro Paese l’introduzione dell’obbligo di valutare lo stress e quanto ancora faccia paura sentire le opinioni dei lavoratori sulle effettive modalità di organizzazione e gestione del lavoro. Valutare i fattori che possono creare stress negativo ai lavoratori vuol dire infatti valutare non solo le caratteristiche intrinseche del lavoro (ad esempio il lavoro monotono e ripetitivo, oppure che richiede attenzione e concentrazione costanti, o che comporta un forte coinvolgimento emotivo)

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ma anche la qualità dell’organizzazione del lavoro, le modalità di gestione del personale, l’equità e la trasparenza del trattamento, il sistema di comunicazione interno, i rapporti interpersonali sia di tipo orizzontale che verticale, il clima organizzativo, e anche le difficoltà di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, soprattutto per le persone che hanno carichi di cura familiare, o la paura di perdere il posto di lavoro, a causa del tipo di contratto di lavoro, della situazione aziendale, o del più generale andamento dell’economia.

Può essere scomodo valutare i fattori di stress presenti nell’azienda, ma rappresenta anche una grande opportunità di crescita, miglioramento, sviluppo e, in ultima analisi, di democratizzazione:

crescita culturale, che deriva dalla maggiore consapevolezza (sia da parte del datore di lavoro che dei lavoratori e dei loro rappresentanti) dei punti di forza e di debolezza di un’azienda (perché l’analisi organizzativa realizzata per effettuare la valutazione consente di evidenziare non sole le criticità ma anche le positività) e dal confronto dei punti di vista;

miglioramento delle condizioni di vita di lavoro che può derivare dalle misure introdotte per la riduzione e la prevenzione dello stress;

sviluppo dell’impresa che può trarre beneficio dalle migliori condizioni di lavoro che generalmente determinano una riduzione di assenteismo, sprechi, errori e infortuni;

maggior democratizzazione dell’impresa, che deriva dal coinvolgimento dei lavoratori nei processi di analisi delle problematiche e di ricerca e attuazione delle soluzioni.

Con la valutazione dello stress lavoro-correlato, si può dare inizio ad un circolo virtuoso che determina un maggior coinvolgimento dei lavoratori all’analisi dei problemi e alla ricerca delle soluzioni; attraverso questo coinvolgimento si possono determinare, oltre a migliori condizioni di lavoro, più soddisfazione e senso di appartenenza; tutto ciò si dovrebbe tradurre in minore assenteismo e maggiore produttività. La valutazione dello stress, se ben condotta, può quindi aiutare le aziende a compiere un vero e proprio salto culturale, entrando a far parte di quell’ancora ristretto gruppo di aziende innovative che legano il loro successo allo sviluppo del capitale umano.

Principi generali per la valutazione dello stress

La valutazione dello stress lavoro-correlato, come più in generale la valutazione dei rischi psico-sociali, presenta una serie di caratteristiche che la differenziano, in quanto a metodologie e modalità di misurazione, dalle altre valutazioni relative ai rischi fisici, chimici e biologici. Per questo motivo il legislatore, oltre a prevedere un’adeguata specifica formazione per i Responsabili del Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP), ha sentito la necessità di prevedere che la valutazione venisse realizzata seguendo le linee guida elaborate da una apposita Commissione consultiva per la valutazione dello stress lavoro-correlato.

In attesa che la Commissione consultiva pubblicasse le proprie linee guida, altri soggetti, per lo più pubblici, hanno realizzato loro proposte operative che, mentre sono tra loro molto simili per quello che riguarda i principi, propongono modalità di ricerca e strumenti tra loro diversi e, a volte, inconciliabili1..

Le principali differenze tra i diversi approcci proposti risiedono nelle scelte riferite a: utilizzo di indicatori oggettivi (tasso di turnover, tasso di assenteismo, tasso di

conflittualità, tasso di infortuni, ecc.), soggettivi (percezione dei lavoratori in riferimento 1 A solo titolo esemplificativo, si ricordano le linee guida realizzate da: Coordinamento SPISAL della Provincia di

Verona, Regione Toscana, Regione Lombardia, Coordinamento Tecnico Interregionale della Prevenzione nei Luoghi di lavoro, Confindustria Latina, ISPESL-HSE, tutti riportati nella bibliografia di riferimento.

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alle condizioni e alle caratteristiche del lavoro e dell’ambiente di lavoro e dell’organizzazione del lavoro, ecc.) o misti;

modello teorico chiuso, riferito cioè ad aspetti strettamente connessi allo stress correlato al lavoro, o aperto, di tipo olistico, che colloca le problematiche studiate in un contesto più ampio, capace ad esempio di cogliere anche le difficoltà relative alla conciliazione tra la sfera lavorativa e quella familiare;

focus dell’indagine limitato ad individuare i fattori che possono determinare stress oppure attenti anche a cogliere le reazioni dei lavoratori e, quindi, gli effetti dello stress sulla salute dei lavoratori e sulla performance aziendale;

strumenti di rilevazione dei dati, modalità di raccolta e di elaborazione dei dati. Considerata la complessità del fenomeno studiato, data innanzitutto dalla molteplicità delle

cause e dalla soggettività delle risposte, si ritiene preferibile utilizzare un modello concettuale di tipo olistico, che consente di mettere in relazione diretta i fattori di stress con i rischi per la salute dei lavoratori cogliendo la soggettività del fenomeno.

La soggettività del fenomeno rende particolarmente complessa la sua valutazione: lo stress, come è noto, è il risultato di un processo di adattamento che coinvolge l’individuo durante la sua interazione con l’ambiente; il soggetto valuta l’evento che deve essere affrontato e cerca una strategia per farvi fronte, la risposta agli stimoli (strain) dipende dalla valutazione soggettiva che ogni individuo dà ad ogni stressor che proviene dall’ambiente esterno: persone diverse possono reagire in modo diverso a situazioni simili e anche una stessa persona può, in momenti diversi della propria vita, reagire in maniera diversa a situazioni simili. La risposta immediata dell’individuo allo stimolo stressogeno risente di precondizioni abituali o del momento, compresi le caratteristiche della personalità e la capacità di adattamento dell’individuo (stile di coping). Ora, considerando che non tutti reagiamo ad uno stimolo nello stesso modo e che la risposta è una condizione soggettiva che può produrre effetti positivi o negativi, risulta evidente che una valutazione seria del fenomeno non possa prescindere dalla percezione soggettiva dei lavoratori. Per questi motivi si sconsigliano improbabili scorciatoie che portano ad affidare la valutazione dello stress alla sola lettura dei dati oggettivi, che possono certamente semplificare la valutazione dello stress intesa come formale adempimento normativo, ma rischiano seriamente di pregiudicarne la validità e l’utilità. Purtroppo, come detto, le indicazioni metodologiche fornite dalla Commissione consultiva per lo stress lavoro-correlato sembrano limitare l’obbligo alla sola valutazione oggettiva. Va anche segnalato che alcuni magistrati hanno avviato procedimenti contro aziende pubbliche e private perché il sistema di valutazione adottato è risultato carente1.

La raccolta dei dati soggettivi presenta ancora tre grandi vantaggi: 1. rappresenta un modo efficace per formare e informare i lavoratori sul rischio stress; 2. consente di coinvolgerli nell’analisi dei fattori di stress preparando così il terreno ad una

fattiva collaborazione per l’individuazione e la messa in opera delle soluzioni; 3. consente di far emergere i cosiddetti “errori latenti”, ovvero quei problemi attribuibili non

ad errori delle singole persone (cd. errori attivi) ma ai processi di lavoro, alle scelte organizzative, alle condizioni dell’ambiente di lavoro, alle decisioni manageriali o alla cultura organizzativa. Vengono definiti errori organizzativi o anche errori latenti perché

1 La prima inchiesta del genere avviata in Italia in materia di violazione dell’articolo 29 del Testo unico sulla

sicurezza del lavoro è stata avviata a Torino dal pubblico ministero Raffaele Guariniello nel marzo 2011 e riguarda sette aziende iscritte nel registro degli indagati per aver fornito documenti non attendibili in relazione ai disagi denunciati dai lavoratori. Cfr. www.inail.it

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possono sopravvivere a lungo all’interno dell’organizzazione prima di manifestarsi (Kirwan e Ainsworth, 1993).

Ovviamente non è sufficiente chiedere ai lavoratori di esprimere la propria valutazione per avere risposte affidabili: occorre creare il clima giusto, motivando i lavoratori e assicurando loro il più assoluto anonimato. Allo stesso modo, bisogna assicurare l’attendibilità dei dati “oggettivi” che, nei limiti del possibile, dovrebbero contenere numeri verificabili, che non richiedono interpretazioni o valutazioni soggettive da parte del compilatore In ogni caso, è bene che la valutazione non venga realizzata da una sola persona ma da un gruppo di lavoro in cui siano rappresentati in parti equivalenti datore di lavoro e lavoratori. Occorre assicurare, inoltre, sistemi di elaborazione dei dati scientificamente affidabili e sufficientemente trasparenti. Si consiglia di diffidare delle eccessive esemplificazioni come dei sistemi che non forniscono elementi utili a comprendere il calcolo dei punteggi.

Tutti i dati, devono essere poi elaborati per ogni Gruppo Omogeneo di Lavoratori (GOL), ovvero per gruppi di lavoratori che sono esposti sostanzialmente allo stesso tipo di fattori stressogeni. In questo tipo di indagini, infatti, i valori medi finiscono spesso per nascondere i problemi mentre l’intento è quello di individuarli con chiarezza e precisione.

Sulla base di queste premesse è stato sviluppato il Sistema di Valutazione dello Stress (SVS) (Arcuri, Ciacia, Gentile, Laureti, 2011), articolato in un modello teorico di riferimento, un modello operativo e nei relativi strumenti correlati.

Modello teorico di riferimento

Il Sistema per la valutazione e la gestione dello stress lavoro-correlato SVS si basa su un modello teorico di riferimento messo a punto da S3 Opus adattando e rielaborando alcuni dei principali studi condotti in materia (in particolare, Cooper, 1986). Il modello concettuale adottato è di tipo olistico e consente di mettere in relazione diretta i fattori di stress con i rischi per la salute dei lavoratori cogliendo la soggettività del fenomeno.

I fattori che possono determinare stress lavoro-correlato presi in considerazione dal modello SVS sono riassumibili nei seguenti cinque gruppi:

1. Caratteristiche del lavoro (contenuto del lavoro, aspetti quantitativi e temporali, possibilità di controllo, ecc.).

2. Condizioni fisiche dell’ambiente di lavoro (igiene, rischio chimico, fisico, biologico, ergonomico, ecc.).

3. Fattori socio-organizzativi (clima, stile di management, possibilità di carriera, pari opportunità, sicurezza del posto di lavoro, ecc.).

4. Rapporti interpersonali con i capi e nel gruppo di lavoro. 5. Difficoltà di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro (carico familiare, rete

sociale, distanza casa/lavoro, ecc.). Il modello prende in considerazione anche le reazioni prodotte dallo stress sui lavoratori (di

tipo psicologico, fisiologico e comportamentale) e i loro effetti su comportamento lavorativo (in termini di motivazione ed efficienza) e salute (ipertensione, malattie cardiovascolari, malattie gastro-intestinali, depressione, ecc.). Le reazioni acute, e quindi l’efficienza lavorativa e il rischio di malattie, sono mediate da fattori individuali (es. i tratti caratteristici della personalità, la competenza professionale e la capacità di coping) e fattori non lavorativi (quali lo stato finanziario, la situazione familiare, il livello di supporto sociale, ecc.) che spiegano la diversa reazione degli individui allo stesso stimolo stressogeno.

Parallelamente al piano individuale, e quindi alle conseguenze prodotte sui lavoratori in termini di malattie somatiche, il modello consente di analizzare le conseguenze prodotte dallo

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FATTORI DI STRESS LAVORATIVO- Caratteristiche del lavoro- Condizioni fisiche- Fattori socio-organizzativi- Fattori relazionali

FATTORI INDIVIDUALI

REAZIONI ACUTE- Psicologiche- Fisiologiche- Comportamentali

FATTORI NON LAVORATIVI

RICADUTE NELLA ORGANIZZAZIONE

MALATTIE

DISFUNZIONIORG.VE

stress sull’organizzazione, in termini ad esempio di assenteismo, alti tassi di turn-over, ridotta produttività, aumento di incidenti, conflitti e violenze (Figura 1).

Fonte: rielaborazione S3 Opus da C.L. Cooper, 1986

Figura 1. Modello teorico di riferimento relativo a cause ed effetti dello stress lavoro-correlato

Questo modello teorico consente di individuare e definire le modalità di prevenzione, che fanno riferimento a tre diversi livelli di intervento:

Prevenzione primaria: consiste nella progettazione ergonomica dell’azione organizzativa (nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, ecc.) ed è finalizzata a rimuovere i fattori stressogeni.

Prevenzione secondaria: consiste principalmente in attività di formazione-informazione finalizzate sia a diffondere la cultura della prevenzione e della sicurezza (quindi a promuovere la salute), sia a rafforzare le abilità di coping individuale, ovvero le capacità di adattamento delle persone alle richieste mutevoli dell’azienda; può intervenire anche sui fattori non lavorativi al fine di alleviare i problemi dei dipendenti, ad esempio introducendo elementi di flessibilità organizzativa (es. telelavoro o banca delle ore) e/o attivando servizi di conciliazione (es. asilo-nido aziendale).

Prevenzione terziaria: consiste nella gestione dei problemi sia a livello individuale che organizzativo: comprende quindi la sorveglianza sanitaria e i servizi di counseling e di assistenza orientati, ad esempio, a favorire il reinserimento sociale del lavoratore nel proprio posto di lavoro dopo una lunga assenza per malattia ma anche le modalità di gestione dei conflitti.

Le misure di prevenzione nel loro insieme sono finalizzate a ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo (art. 15, comma d, DL.vo 81/2008) e, più in generale, alla costruzione di ambienti di lavoro caratterizzati da un alto livello di benessere organizzativo (Avallone e Paplomatas, 2005).

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Il modello operativo

Il modello operativo proposto utilizza una metodologia di lavoro diffusa a livello europeo e adottata in quasi tutti i modelli di valutazione dei rischi (Ispesl, 2010), articolata in sei punti (Figura 2):

1. Preparazione delle attività 2. Individuazione dei fattori di rischio 3. Raccolta dei dati (oggettivi e soggettivi) 4. Valutazione dei rischi 5. Gestione del rischio (individuazione e attuazione delle soluzioni) 6. Controllo e riesame.

NO

D.V.R.Rischio non significativo

GESTIONE DEL RISCHIO

Rischio significativo

OPINIONI SOGGETTIVE DEI LAVORATORI

FOCUS GROUP DI APPROFONDIMENTO

SORVEGLIANZASANITARIA

CAMBIAMENTO

DATI AZIENDALI OGGETTIVI

Dati epidemiologici (MC)

VALUTAZIONE

INDIVIDUAZIONE DEI FATTORI DI RISCHIO

PREPARAZIONE DELLE ATTIVITA’

SI

APPROFONDIMENTO

ORGANIZZATIVOFORMAZIONE/

INFORMAZIONE

RACCOLTA DATI

SICONTROLLO E RIESAME

Figura 2. Modello operativo per la valutazione e la prevenzione dello stress lavoro-correlato

Preparazione delle attività

La valutazione dello stress è un’attività complessa che, per avere successo, richiede l’acquisizione di molte informazioni, competenze diversificate, sensibilizzazione e coinvolgimento di tutto il personale; per questi motivi è necessario una preparazione accurata che si esplica almeno nei seguenti punti:

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Incontro con il Top Management, durante il quale vanno affrontati i seguenti aspetti: effetti dello stress sui lavoratori e sulla capacità produttiva dell’azienda; principali cause organizzative dello stress; modalità di svolgimento dell’indagine e sue implicazioni sulle attività produttive, necessità di garanzia dell’anonimato. In questa sede vanno inoltre prese alcune decisioni importanti per il successo della valutazione, quali: se effettuare la valutazione soggettiva su tutti i dipendenti o su un campione; in che modo informare i lavoratori dei risultati dell’indagine; in che modo e misura coinvolgere i lavoratori nella individuazione di misure di miglioramento (si consiglia di realizzare appositi focus group con i gruppi omogenei in cui siano stati rilevati problemi di una certa rilevanza).

Costituzione di un gruppo di lavoro (Stress Team) di cui dovrebbero far parte almeno i seguenti soggetti: datore di lavoro (DL) o dirigente da lui espressamente designato (es. capo del personale), preposti, responsabile del servizio prevenzione e protezione (RSPP), rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS), un rappresentante dei lavoratori per ogni gruppo omogeneo individuato, medico competente (MC). Il gruppo di lavoro può essere integrato da un consulente esterno, purché qualificato e competente nella materia (preferibilmente uno psicologo o un sociologo).

Definizione di un piano d’azione, in cui vengono stabiliti attività, tempi, modalità operative, divisione dei ruoli. In questa fase vanno prese alcune decisioni importanti per il successo dell’indagine, tra le quali, per le aziende di medio-grandi dimensioni, l’individuazione del campione di lavoratori a cui andrà somministrato il questionario, le modalità di selezione del campione e le modalità di somministrazione del questionario. In questa fase vengono anche definiti i Gruppi omogenei di lavoratori (GOL) su cui effettuare l’indagine e che dovranno essere rappresentati in modo proporzionale nel campione di lavoratori. È bene inoltre che lo Stress Team (ST) prenda decisioni chiare sul proprio modo di funzionare e sulla periodicità dei propri incontri.

Realizzazione di azioni di formazione-informazione rivolte a tutti i lavoratori. Il coinvolgimento del personale, come già detto, è una condizione essenziale per il successo dell’iniziativa. Occorre “preparare il terreno”, creando le condizioni e il clima giusti per la realizzazione dell’indagine. Tutti i lavoratori (anche quelli con contratto di lavoro flessibile, anche quelli assenti per malattia) dovranno avere informazioni adeguate su cause ed effetti dello stress, sulle finalità della valutazione, sulle modalità di realizzazione.

Individuazione dei fattori di rischio

Il modello teorico alla base del sistema SVS individua, in accordo con gran parte della letteratura in materia, cinque fattori di rischio organizzativo: le caratteristiche del lavoro (complessità, carico di lavoro, tempi e ritmi, autonomia e controllo), le condizioni fisiche (sicurezza e comfort), i fattori socio-organizzativi (modalità di gestione delle risorse umane, comunicazione, sicurezza del lavoro), fattori relazionali (clima organizzativo, relazioni interpersonali con capi, colleghi e collaboratori), la difficoltà di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.

Raccolta dei dati

Coerentemente a quanto indicato nel modello teorico, la valutazione dello stress lavoro-correlato si basa sulla raccolta e l’analisi sia di dati aziendali “oggettivi”, quali il “tasso di turnover” o il “tasso di mobilità” (che possono eventualmente comprendere anche i dati

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epidemiologici sulle condizioni di salute collegate o collegabili allo stress), sia dati soggettivi sulla condizione di lavoro, ovvero sulla percezione che il lavoratore ha relativamente alle proprie condizioni di lavoro e agli effetti che queste producono sulla sua salute. La raccolta dei dati soggettivi è completata da informazioni anagrafiche, su alcune caratteristiche del proprio lavoro (es. lavoro in turni) e su alcuni aspetti extralavorativi (quali ad esempio la distanza casa-lavoro).

Il modo con cui viene richiesto al lavoratore di rispondere al questionario è importante per assicurare il successo dell’indagine. Il lavoratore va coinvolto e motivato, non costretto; deve capire l’importanza della ricerca e l’utilità del suo contributo e deve essere messo nelle condizioni ottimali per rispondere con sincerità e tranquillità alle domande. Per ottenere ciò, gli vanno spiegate innanzitutto le finalità dell’indagine (il miglioramento delle condizioni di lavoro al fine di ridurre e/o prevenire le cause di stress) e gli vanno fornite la garanzia di anonimato e le assicurazioni che verranno comunicati ai lavoratori i risultati dell’indagine e che gli stessi verranno utilizzati per migliorare le condizioni di lavoro.

Valutazione dei rischi

L’analisi e il confronto tra dati oggettivi e dati soggettivi consente una prima valutazione del rischio. Attraverso un sistema di calcolo automatizzato e ben collaudato, SVS consente di classificare il rischio stress in 3 categorie: rischio basso, medio, alto.

se il rischio risulta basso, si potrà procedere alla redazione del documento di valutazione del rischio (DVR), limitandosi a prevedere come uniche misure di intervento iniziative di formazione/ informazione rivolte a tutti i lavoratori (senza scordarsi quelli più deboli ed esposti come i lavoratori part-time, quelli a tempo determinato, quelli con il contratto a somministrazione, i lavoratori assenti per malattia, ecc.), il periodico controllo dello stress (si consiglia di prevedere una verifica ogni anno) e la verifica della correttezza della procedura di valutazione adottata;

se il rischio risulta invece “significativo” (medio o alto), occorrerà svolgere un approfondimento d’indagine che consenta di focalizzare meglio le relazioni causa-effetto soprattutto su quei settori e quei gruppi omogenei di lavoratori che risultano dall’indagine essere particolarmente esposti. Una metodologia particolarmente indicata per approfondire queste tematiche è il focus group che ha il vantaggio, tra l’altro, di assicurare un forte coinvolgimento dei lavoratori interessati alla problematica e di individuare, assieme all’analisi delle cause, prime possibili soluzioni. La differenza tra rischio medio e rischio alto determina l’urgenza dell’intervento.

La valutazione oggettiva viene realizzate sulla base di 3 aree (eventi sentinella, contesto del lavoro, contenuto del lavoro) articolate in 12 indicatori, mentre la valutazione soggettiva viene realizzata sulla base di 5 aree (caratteristiche del lavoro, condizioni fisiche, fattori socio-organizzativi, fattori relazionali, conciliazione) articolate in 13 indicatori a cui si aggiungono ulteriori 3 indicatori relativi alle reazioni dei lavoratori. La valutazione finale mette a confronto, per ogni Gruppo Omogeneo di lavoratori, i valori ottenuti nella valutazione oggettiva e in quella soggettiva, evidenziando così le differenze tra le due analisi.

Il sistema SVS valuta l’entità del rischio non solo come media aziendale di tutti i fattori di rischio, ma come valore di ogni fattore per ogni gruppo omogeneo. Ne consegue, in generale, che l’analisi evidenzia esposizioni di intensità diverse a ciascun fattore di rischio considerato, per ogni gruppo omogeneo di lavoratori (Figura 3). Il sistema consente inoltre di cogliere le differenze dei valori di stress anche tra gruppi di lavoratori distinti per genere (Figura 4), per classi d’età, nazionalità, tipologia contrattuale (a tempo indeterminato/atipici).

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0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

70,0

80,0

90,0

100,0

GOL 1 GOL 2 GOL 3 GOL 4

Caratteristiche lavoro

Condizioni fisiche

Fattori socio-organizzativi

Fattori relazionali

Conciliazione vita-lavoro

Reazioni lavoratori

Figura 3. Comparazione tra Gruppi Omogenei di lavoratori

1,0

10,0

100,0

UOMINI

DONNE

Figura 4. Analisi degli indicatori per genere (scostamento dai valori medi)

Gestione del rischio (individuazione e attuazione delle soluzioni

Lo scopo della valutazione del rischio stress lavoro-correlato è quello di aumentare la consapevolezza dei datori di lavoro, dei lavoratori e dei loro rappresentanti sugli effetti dello stress nonché di guidarli e sostenerli nella riduzione del rischio attraverso l’analisi degli indicatori oggettivi aziendali e la rilevazione delle condizioni di stress percepito dai lavoratori (Accordo quadro europeo

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8/10/2004). Essa non può limitarsi all’osservazione di indicatori oggettivi o soggettivi, si deve addentrare negli aspetti dell’organizzazione che possono essere migliorati, come, ad esempio, assicurare il rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo (DL.vo 81/2008, art. 15, comma d).

La valutazione oggettiva individua i principali fattori di rischio presenti nel luogo di lavoro relativamente ad ogni gruppo omogeneo di lavoratori e definisce, quindi, una sorta di scala di probabilità che ogni lavoratore ha di incorrere in problematiche connesse allo stress, mentre la valutazione soggettiva indica la percezione dei lavoratori e definisce, in qualche modo, una scala del danno subito. I livelli individuati per ognuna delle due valutazioni sono 3 e indicano un rischio basso, medio e alto. L’incrocio delle due valutazioni dà origine alla matrice del rischio stress lavoro-correlato raffigurata in Figura 5, nella quale i rischi maggiori (evidenziati in rosso) occupano le caselle in alto a destra, quelli minori (evidenziati in verde) la posizione in basso a sinistra, con tutta la serie disposizioni intermedie (evidenziate in giallo). Una tale rappresentazione fornisce una preziosa sintesi del livello di stress rilevato per ogni gruppo omogeneo, facilita il confronto tra i diversi gruppi omogenei di lavoratori e fornisce importanti elementi per la definizione delle priorità e la programmazione temporale degli interventi di prevenzione e protezione da adottare (Figura 6).

alto 3 5 6

medio 2 4 5

VA

LUT

AZ

. O

GG

ET

TIV

A/

PR

OB

AB

ILIT

A’ R

ISC

HIO

basso 1 2 3

basso medio Alto

VALUTAZIONE SOGGETTIVA / DANNO

Figura 5. Matrice dei valori del rischio stress

AREA GOL 1

GOL 2

GOL 3

GOL 4

GOL 5

GOL 6

Caratteristiche del lavoro 5 3 3 6 4 2

Sicurezza 1 4 2 5 1 1

Fattori socio-organizzativi 5 6 4 5 5 4

Fattori relazionali 1 3 1 2 6 2

Conciliazione 2 4 2 3 1 1

Figura 6. Esempio di pianificazione dell’intervento

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L’esempio riportato in Figura 6 fornisce chiari indicazioni su come e dove intervenire. Appare infatti immediatamente evidente che:

1. la criticità tipica che caratterizza l’azienda nel suo complesso è relativa ai fattori socio-organizzativi, dove i valori di stress sono alti in quattro dei sei gruppi considerati, e medio-alti negli altri due. Per ridurre il livello di stress, quindi, l’azienda dovrà impegnarsi innanzitutto in un radicale cambiamento organizzativo.

2. occorrerà concentrare la massima attenzione sul Gruppo Omogeneo n. 4, dove sono individuate ben tre aree con rischio alto e due di rischio medio; anche i GOL 1 e 5 (con due valori alti) e il GOL 2 (con un valore al massimo livello di criticità) mostrano chiari segni di malessere su cui è urgente intervenire.

3. I problemi di sicurezza legati alle caratteristiche dell’ambiente di lavoro così come i fattori relazionali non sono propri dell’azienda nel suo complesso ma sono specifici di un singolo gruppo omogeneo, dove occorrerà agire con tempestività e in modo puntuale.

La logica dell’intervento vuole che gli sforzi si concentrino prioritariamente sulle aree rosse, dove il rischio è più alto. L’analisi degli indicatori e dei singoli item fornirà indicazioni puntuali sulle criticità presenti e, di conseguenza, sulle azioni correttive da intraprendere.

La valutazione dei rischi (e gli eventuali risultati dell’approfondimento condotto attraverso focus group) fornisce le indicazioni necessarie per mettere a punto gli interventi utili per la prevenzione e riduzione del rischio che, a seconda dei casi, potranno riguardare misure di prevenzione primaria (relative ad azioni di miglioramento delle condizioni di lavoro, delle procedure di lavoro e dell’organizzazione del lavoro), secondaria (soprattutto iniziative di formazione e informazione) e/o di prevenzione terziaria (che si esplicano prevalentemente attraverso la sorveglianza sanitaria, il counseling e le relazioni sindacali).

SVS facilita il lavoro dello ST fornendo alcune prime indicazioni di buone pratiche relative alle problematiche evidenziate dall’analisi.

Controllo e riesame

A distanza di tempo, a cadenze predefinite, occorre verificare i risultati ottenuti attraverso l’attuazione delle soluzioni individuate. Il controllo viene fatto ripetendo la valutazione del rischio, eventualmente approfondendo gli aspetti relativi alle criticità evidenziate e ai gruppi di lavoratori maggiormente esposti. Si consiglia di ripetere la valutazione annualmente (preferibilmente variando il mese di rilevazione per evitare l’incidenza della stagionalità). Nei casi in cui il rischio riscontrato sia alto si suggerisce di ripetere la valutazione dopo 6 mesi.

In sintesi, il percorso proposto attraverso il sistema SVS per la valutazione del rischio stress-lavoro-correlato prevede una serie di azioni che debbono essere realizzate da un apposito gruppo di lavoro interno all’azienda (ST): il sistema SVS non sostituisce il lavoro dello ST ma lo guida e lo supporta, fornendo tutte le indicazioni metodologiche e gli strumenti necessari per l’analisi e un software (Figura 7) che gestisce le informazioni secondo una procedura informatizzata ben collaudata che restituisce allo ST il documento di valutazione del rischio e i suggerimenti (buone pratiche) per ridurre i rischi.

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Figura 7. Home-page del software SVS

Bibliografia

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Avallone F, Paplomatas A. Salute organizzativa. Milano: Cortina; 2005.

Cooper CL, Sloan SJ, Williams S. Occupational Stress Indicator Management Guide. Windsor: NFER-Nelson; 1988.

Confindustria Latina. Linee guida per la valutazione e la gestione dello stress lavoro-correlato alla luce dell’accordo europeo 8/10/2004. Latina: Confindustria Latina; 2010.

Coordinamento SPISAL della Provincia di Verona (AULSS 20-21-22). Proposta di metodo per la valutazione del rischio stress lavoro correlato. Verona: Coordinamento SPISAL; 2009.

Coordinamento Tecnico Interregionale della Prevenzione nei Luoghi di Lavoro (Regioni Lazio, Veneto, Marche, Abruzzo, Toscana, Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna). Valutazione e gestione del rischio da stress lavoro-correlato. 2010.

Kirwan B, Ainsworth LK. A guide to task analysis. London: Taylor & Francis; 1993.

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Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro. Modello Management Standard HSE contestualizzato alla luce del DL.vo 81/2008. Roma: Ispesl; 2010.

Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro. La valutazione dello stress lavoro-correlato. Proposta metodologica. Roma: Ispesl; 2010.

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Regione Toscana. Valutazione del rischio da stress lavoro-correlato. Prima proposta di linee di indirizzo. Anno 11-numero 2306; 2009. Disponibile all’indirizzo: http://www.puntosicuro.it/sicurezza-sul-lavoro-cat-3/indicazioni-per-la-valutazione-del-rischio-stress-lavoro-correlato-art-9525/; ultima consultazione 8/6/2012.

Sacco A, Arcuri FP. (Ed). Ergonomia nel lavoro che cambia. Roma: Edizioni Palinsesto; 2010.

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UN TERMOMETRO PER MISURARE LA FEBBRE NELLE ORGANIZZAZIONI

Paolo Gentile Società di Studi Socio-economici e Organizzativi S3 Opus, Roma.

Valutazione della sicurezza e partecipazione

Le norme più sono importanti, più devono essere facilmente comprensibili, più vogliono essere efficaci più devono essere facilmente gestibili, ovvero non devono permettere interpretazioni soggettive. Questa considerazione, vorremmo che fosse finalmente recepita dal legislatore. In molte aziende italiane, il rispetto delle norme antinfortunistiche e di prevenzione vengono vissute come un’angheria che costringe ad una mole esagerata di registrazioni (tutte le azioni svolte a favore della sicurezza), che debbono essere raccolte, archiviate, aggiornate e rese disponibili ad eventuali ispezioni. Tutto questo si trasforma spesso in una raccolta di documentazione che in alcuni casi prescinde dalla efficacia delle misure adottate e dalla stessa conoscenza di ciò che si raccoglie. Si raccolgono verbali di corsi di formazione-informazione che prescindono dalla qualità e comprensibilità dei corsi acquistati per i propri dipendenti e collaboratori, si raccolgono firme di consegna di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) che prescindono dal loro effettivo e appropriato utilizzo, si raccolgono contratti di manutenzione che prescindono dalla consapevole stesura di un piano di manutenzione razionale ed efficace, si raccolgono dichiarazioni di conformità di macchinari e impianti a volte rilasciate con una buona dose di approssimazione.

L’obiettivo (spesso grazie a consulenti apprendisti azzeccagarbugli) è poter dimostrare all’eventuale ispettore di aver adempiuto tutte le prescrizioni di norme che non si riescono a capire e padroneggiare, norme che risulta più semplice e meno costoso affidare al controllo di una consulenza esterna piuttosto che gestire internamente all’organizzazione.

A volte le linee guida che dovrebbero facilitare l’applicazione di una legge, risultano contraddittorie, interpretabili e in alcuni casi più oscure e complesse del testo legislativo.

Un obiettivo di tutti coloro che sono impegnati nella prevenzione dovrebbe essere quello di rendere più semplice la comprensione delle norme e chiari i comportamenti da seguire, per i datori di lavoro, per i lavoratori e i loro rappresentanti, per le figure professionali che vi operano, per gli addetti ai controlli di adempimento (sostanziale) delle norme. Si dovrebbe sempre ricercare una giusta sintesi tra ciò che è necessario e ciò che è ridondante, solo forma: leggere un documento di valutazione del rischio da parte di un lavoratore dovrebbe essere cosa semplice che rende immediatamente comprensibile la conoscenza dei rischi cui si è esposti. La prima necessità è che tutti i soggetti interessati vengano messi in condizioni di partecipare alla valutazione e alla individuazione delle misure di protezione, partecipare al controllo del rispetto delle norme, all’efficacia dell’organizzazione e dei mezzi di protezione adottati.

L’obiettivo dovrebbe essere quello di permettere alle aziende di poter fare a meno di tanta consulenza esterna, perché si è messi in grado di affrontare e gestire i problemi con le proprie risorse, o che si possa ricorrere ad un consulente solo per coadiuvare il proprio lavoro, non per delegarlo, impostarlo, dirigerlo e controllarlo.

Parafrasando una canzone di Giorgio Gaber si potrebbe dire che sicurezza è partecipazione. Il dibattito sul ruolo dei lavoratori nella valutazione dei rischi non nasce certo con la

Circolare Ministeriale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 18 novembre 2010; già

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nel 1970 Ivar Oddone e Gastone Marri realizzano, per la Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), la famosa dispensa AMBIENTE DI LAVORO, dove si propone una metodologia semplice basata sulla conoscenza dei fattori di rischio presenti nell’ambiente di lavoro, che permetta ai lavoratori di raccogliere ed esprimere le proprie percezioni sull’ambiente di lavoro, operando una diagnosi che gli consenta di intervenire e confrontarsi con il datore di lavoro e con gli “esperti” eventualmente chiamati come soggetti terzi ad effettuare le misurazioni del rischio ambientale: partecipare alla valutazione e alla proposta di soluzioni ai problemi ambientali.

L’impostazione adottata da Oddone e Marri presuppone che i lavoratori siano parte del processo di valutazione e vengano messi in condizioni, attraverso una metodologia semplice, di esprimere le proprie percezioni sull’ambiente di lavoro. Attraverso questa percezione sarà possibile operare una diagnosi preliminare: è dal confronto tra la fabbrica e l’accademia che deve nascere la valutazione dei fattori di rischio presenti nell’ambiente di lavoro.

Il passo successivo consiste nel mettere in condizioni il lavoratore di intervenire nella ricerca di soluzioni ai problemi ambientali, individuati anche attraverso la sua percezione, e partecipare a riprogettare il proprio lavoro.

Il modello proposto da Oddone e Marri nella sua impostazione metodologica è ancora attuale e può essere utilizzato nell’individuazione e valutazione dei rischi, ivi compresi quelli del quarto gruppo (rischi psico-sociali), nell’ottica della partecipazione, per elaborare una prima ipotesi di lavoro (dal punto di vista e dall’esperienza dei lavoratori) costruita autonomamente dal contributo del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) o Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza Territoriali (RLST) e dai lavoratori, che si dovrà confrontare con una analoga autonoma ipotesi di lavoro elaborata dal datore di lavoro e dai suoi dirigenti (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione – RSPP –, Addetto al Servizio di Prevenzione e Protezione – ASPP). Entrambe queste ipotesi, attraverso la mediazione della letteratura esistente e da eventuali figure professionali esterne all’organizzazione coinvolte, dovrebbero dar luogo ad una traccia comune di valutazione che avvalendosi, ove occorra, di misurazioni e analisi specifiche affidate a tecnici terzi dovrebbe giungere all’elaborazione del piano di intervento sull’ambiente e l’organizzazione del lavoro che verrà periodicamente revisionato e dibattuto nelle attività di formazione-intervento.

La legislazione Europea volta a promuovere il miglioramento delle condizioni di sicurezza e di salute durante il lavoro, richiede agli stati membri, la promozione della partecipazione dei lavoratori e dei loro Rappresentanti.

Il coinvolgimento dei lavoratori, insieme agli altri soggetti del servizio di prevenzione e protezione (RSPP, Medico Competente – MC, RLS/RLST, preposti) rappresenta un valore aggiunto nella costruzione di una cultura della salute e sicurezza aziendale, permette la presa di coscienza e quei cambiamenti nei comportamenti che possono realizzare una effettiva riduzione dei rischi. È fondamentale riconoscere da parte degli esperti e dei vertici aziendali il valore dell’informazione proveniente dai lavoratori nell’analisi e nell’individuazione delle misure di prevenzione. La legislazione italiana ha recepito questo principio attraverso il DL.vo 626/1994 prima e riconfermato con il DL.vo 81/2008.

Metodologie e strumenti per la valutazione dello stress

Il 31 dicembre 2010 è entrato in vigore l’obbligo di valutazione dello stress lavoro-correlato, le indicazioni metodologiche da seguire sono state indicate dalla Commissione consultiva per la salute e sicurezza sul lavoro nella circolare diffusa il 18 novembre 2010. Con la circolare viene fornito, ai datori di lavoro pubblici e privati, agli operatori e ai lavoratori uno strumento di

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indirizzo ai fini della corretta attuazione delle previsioni di legge in materia di valutazione del rischio stress correlato al lavoro.

La norma così come interpretata dalla commissione prevede che per misurare il rischio stress si debba ricorrere ad una misurazione preliminare attraverso l’analisi dei dati oggettivi.

Se il risultato di questa misurazione indica una “temperatura elevata” nell’organizzazione, si renderà necessario un approfondimento diagnostico attraverso la rilevazione della percezione dei lavoratori.

Il documento prodotto dalla Commissione consultiva per la salute e sicurezza sul lavoro nella circolare diffusa il 18 novembre 2010 indica il livello minimo di attuazione dell’obbligo: divide tra una fase preliminare necessaria e una eventuale da attivare nel caso in cui la valutazione preliminare indichi rischi evidenti, e in tal caso dopo aver sperimentato delle azioni correttive e queste risultino non efficaci. Ovvero il datore di lavoro avvalendosi del RSPP, coinvolgendo il MC ove nominato e previa consultazione del RLS o del RLST (spesso nelle aziende di minori dimensioni da solo con il supporto di un consulente) effettua la valutazione con l’ausilio di una check list. Solo se le risposte alla check list indicheranno rischi evidenti, il datore di lavoro preparerà un piano di interventi e solo se questi interventi non daranno risultati apprezzabili, effettuando una nuova valutazione (dopo due anni?) dovrà coinvolgere i lavoratori per la seconda (eventuale) fase.

La Commissione prosegue con indicazioni su alcuni fattori “oggettivi e verificabili, ove possibile numericamente apprezzabili” da utilizzare nella valutazione. Eventi sentinella, fattori di contesto e di contenuto del lavoro se non numericamente apprezzabili si potrebbe dire non essere ne oggettivi ne verificabili; così pure dove non se ne conosca la metodologia di raccolta degli eventuali dati numerici, affidati esclusivamente alla discrezionalità del datore di lavoro. Manca l’indicazione, da parte della commissione, dei livelli oltre il quale questi indicatori evidenzierebbero una situazione di rischio, così che alcuni possono proporre valutazioni basate esclusivamente sul confronto con i propri dati dell’anno precedente: un evento sentinella potrebbe indicare una situazione disastrosa pur in presenza di un miglioramento e qualcuno potrebbe concludere che nello specifico quell’indicatore evidenzia un progresso piuttosto che una situazione di rischio.

In relazione alla valutazione dei fattori di contesto e di contenuto, la Commissione indica che è necessario sentire i lavoratori e/o il RLS/RLST, mentre nelle aziende di maggiori dimensioni è possibile sentire un campione rappresentativo di lavoratori seppure la scelta delle modalità è rimessa al datore di lavoro.

La circolare del Ministero del Lavoro, non ci indica quale “termometro” utilizzare per misurare i dati “oggettivi”, ma ci dà alcune indicazioni sulle caratteristiche e sul funzionamento che deve avere il nostro “termometro”.

Se le indicazioni fornite sono sufficienti utilizzando strumenti di rilevazione diversi, purché in linea con la circolare, si dovrà pervenire a risultati analoghi. Ad esempio così come per misurare la temperatura corporea possiamo fare diverse misurazioni con termometri che utilizzano diverse scale (Kelvin, Celsius, Fahrenheit) ottenendo misurazioni con valori nominali diversi, ma tutte in grado di indicare in maniera univoca se l’organismo sotto misurazione ha la febbre o meno; analogamente ci aspetteremmo quindi che utilizzando diversi strumenti, costruiti seguendo le indicazioni della circolare del 18 novembre 2010, tutti siano in grado, pur utilizzando scale diverse, di indicarci in maniera univoca quando in una organizzazione si rilevi un rischio elevato di stress lavoro-correlato, e sia quindi necessario (secondo le indicazioni della commissione consultiva) ricorrere alla rilevazione dei dati soggettivi, ovvero quando non se ne ravveda la necessità.

A differenza di quanto prevede la circolare citata riteniamo che sia sempre indispensabile ricorrere alla rilevazione della percezione dei lavoratori, e non solo quando la valutazione dei

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dati oggettivi lo renda necessario: sarebbe come se un medico effettuasse la diagnosi su un paziente senza consultarlo sui disturbi che percepisce.

Riprendiamo, a sostegno di questa tesi, una considerazione contenuta nella proposta metodologica dell’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro (ISPESL, ora Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro-INAIL): al fine di evitare un’azione del tutto autoreferenziale da parte del datore di lavoro, è buona norma coinvolgere direttamente i dipendenti in quella che può diventare anche un’occasione d’incontro e di confronto sui temi della quotidianità lavorativa spesso trascurati, ma in grado di produrre un valore aggiunto al lavoro stesso. Affermazione che condividiamo totalmente: il coinvolgimento e la partecipazione sono la chiave per migliorare le condizioni di lavoro e ridurre i rischi per la salute e sicurezza sul lavoro.

Ci sembra che la Commissione consultiva per la salute e sicurezza sul lavoro contraddica con la sua circolare questa affermazione, che pure è presente in forme e modalità diverse in quasi tutti i documenti ufficiali compresi quelli prodotti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, laddove indichi la possibilità che la valutazione possa essere effettuata con la sola analisi dei dati “oggettivi”.

Abbiamo testato due diversi strumenti per la rilevazione dello stress lavoro-correlato: il Sistema di Valutazione dello Stress (SVS), messo a punto dal gruppo di lavoro riunito

da S3 Opus; e la Check list degli indicatori verificabili, messa a disposizione dal Network Nazionale

per la Prevenzione del Disagio Psicosociale nei Luoghi di Lavoro e realizzata dal Servizio di Prevenzione Igiene e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro (SPISAL) - ULSS 20 Verona/ISPESL (d’ora in poi, per semplicità, Check list ISPESL).

In entrambi i sistemi si chiede di raccogliere dati relativi a eventi sentinella/indicatori aziendali, fattori di contesto e di contenuto del lavoro che come chiede la commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro devono consentire una valutazione oggettiva, complessiva e, quando possibile, parametrica.

La differenza metodologica fondamentale tra i due strumenti è rappresentata dalle modalità di valutazione dei risultati, in particolare di quelli riferiti agli indicatori aziendali/eventi sentinella, ovvero di quei dati che più degli altri dovrebbero avere carattere di oggettività ed essere misurati numericamente.

SVS chiede nella propria check list di rispondere con valori numerici su tutti gli indicatori aziendali/eventi sentinella e ad alcuni dati di contesto e contenuto del lavoro, mentre per i rimanenti dati si chiede di rispondere con un si/no ovvero presente/assente.

Ogni domanda/item può raggiungere un punteggio massimo che varia in funzione del peso assegnato dal sistema a ciascun item. I dati quantitativi vengono trasformati in tassi: ad esempio il numero di infortuni registrato nell’anno viene messo in rapporto al numero di lavoratori e nel caso specifico viene moltiplicato per 1000 per renderlo confrontabile al dato INAIL (infortuni per 1000 dipendenti); il numero di ore di assenza in rapporto al numero di ore lavorabili espresso come percentuale rappresenta il tasso di assenteismo e così via.

I tassi così ottenuti vengono confrontati con: 1. i valori medi nazionali (territoriali e/o settoriali, se disponibili) rilevati da fonti ufficiali

(Istat, Inail, Inps, ecc.); 2. i valori medi prodotti dal sistema SVS, sulla base di tutti i dati elaborati nelle aziende

dove è stato sperimentato il sistema SVS; 3. le variazioni dei dati aziendali con quelle riferite all’anno precedente. Nell’elaborare i punteggi il sistema assegna a ciascun confronto che effettua (fonti ufficiali,

database SVS e trend aziendale) un diverso peso, ovvero nell’assegnazione del punteggio il

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confronto con le fonti ufficiali pesa per il 60% sul punteggio ottenibile dall’item, quello con il database SVS il 30% mentre un trend negativo pesa per un ulteriore 10%.

Un ulteriore punteggio viene assegnato dal sistema in presenza della contemporanea presenza di indicatori che superino i valori di riferimento appartenenti allo stesso gruppo (sinergia di più fattori). Ad esempio dove si riscontri contemporaneamente un elevato turnover negativo, una elevata mobilità interna volontaria e involontaria e un eccessivo ricorso a lavoratori atipici; piuttosto che un elevato ricorso al lavoro straordinario e contemporaneamente un eccessivo numero di ore di ferie non godute, presenza di lavoro notturno e festivo.

Per i dati non quantitativi (appartenenti ai fattori di contesto e contenuto lavorativo) la risposta semplicemente può valere 0/1 o 0/-1 e in questo caso il sistema non effettua nessun tipo di confronto tra quelli indicati per i dati quantitativi.

La valutazione sintetica, ottenuta dalla somma algebrica di tutti i punteggi realizzati, rappresenta il valore della pressione stressogena presente in ogni gruppo omogeneo di lavoratori. Indipendentemente dal valore sintetico ottenuto, la valutazione indicherà tutti gli item e gli indicatori di cui viene rilevato un valore superiore alla norma, sui quali è necessario intervenire per migliorare la performance aziendale.

La check list messa a disposizione dal Network Nazionale per la Prevenzione del Disagio Psicosociale nei Luoghi di Lavoro a differenza di SVS, non chiede dati quantitativi.

Per gli eventi sentinella/indicatori aziendali chiede se il valore è superiore uguale o inferiore a quello dell’anno precedente, se il valore è superiore a quello dell’anno precedente il sistema assegna 4 punti se è rimasto uguale assegna 1 punto se è diminuito assegna 0 punti.

Per i fattori di contenuto e contesto del lavoro si chiede di rispondere a ciascun item SI/NO e per ciascuna risposta viene assegnato un punteggio 0/1.

Non viene considerato nessun effetto sinergia. Il valore sintetico viene ottenuto dalla somma dei punteggi ottenuti. Entrambi i sistemi presentano il risultato della valutazione secondo tre possibili situazioni:

rischio basso, rischio medio, rischio elevato. Non c’è dubbio che il sistema SVS può essere più impegnativo, in particolare nelle piccole e

medie aziende dove possono non essere effettuate registrazioni di taluni eventi che consentano valutazioni numeriche, mentre la check list ISPESL è più immediata e semplice. Inoltre SVS richiede obbligatoriamente una seconda fase con il questionario somministrato ai lavoratori i cui risultati vengono messi a confronto e incrociati con quelli della check list (dati “oggettivi”)1.

Torniamo alla metafora dei due termometri con diverse scale e vediamo se le due check list sono in grado di rilevare una temperatura elevata.

Abbiamo provato a simulare con i due sistemi la valutazione di due aziende idealtipiche, la Superstress Srl e la Senzastress SpA, per vedere se i risultati erano analoghi con entrambe le valutazioni:

1. l’azienda Superstress Srl ha tutti gli indicatori aziendali/eventi sentinella elevatissimi seppur leggermente migliori dell’anno precedente;

2. l’azienda Senzastress SpA al contrario ha tutti gli indicatori aziendali/eventi sentinella con valori molto bassi seppur leggermente peggiori rispetto all’anno precedente.

Con la check list ISPESL, al contrario del sistema SVS, la Superstress Srl ottiene un punteggio molto basso e viene ritenuta a rischio basso, mentre la Senzastress SpA ottiene un punteggio elevato e ritenuta a rischio alto. È ovvio che la simulazione è stata effettuata utilizzando valori limite per dimostrare che i termometri utilizzati misurano due fenomeni diversi. Lo stesso ISPESL, che mette a disposizione gratuitamente per le aziende la check list,

1 Per la nostra prova abbiamo utilizzato solo la check list per la rilevazione dei dati oggettivi di SVS per renderla

confrontabile con la valutazione della check list adottata dall’ISPESL.

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individua il pericolo che la valutazione stessa possa tradursi, per la maggior parte delle aziende, in una generale e generica attestazione di assenza di rischio o nella mera compilazione di un documento cartaceo, ma, come del resto la stessa Commissione consultiva per la salute e sicurezza sul lavoro, sembra più preoccupato che le aziende possano rispettare un obbligo (formale) piuttosto che la valutazione da effettuare sia efficace.

Una pre-condizione per mettere a disposizione uno strumento di valutazione è che dimostri di essere affidabile da un punto di vista logico-concettuale, ovvero che le sue basi conoscitive oltre a superare gli eventuali test di significatività statistica dimostrino di essere logicamente significativi e di accordarsi con la letteratura scientifica. In assenza di questa pre-condizione nessun test statistico può da solo dimostrare la validità dello strumento, non consentendo in assoluto induzioni che vadano al di là delle popolazioni dalle quali sono estratti i campioni studiati. Ciascuno strumento dovrebbe essere sottoposto periodicamente a revisioni dettate dall’analisi delle esperienze realizzate, e dalla discussione del gruppo di “esperti” circa la rispondenza logica della metodologia e dei parametri utilizzati: attendiamo la relazione che la Commissione Consultiva provvederà ad elaborare, entro il dicembre del 2012, allo scopo di verificare l’efficacia della metodologia adottata e valuti le opportunità di integrazioni alla luce del monitoraggio che effettuerà, con modalità che verranno definite dalla stessa commissione, sulle attività realizzate.

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UN MODELLO DI RICERCA-INTERVENTO PER LA VALUTAZIONE DEI RISCHI PSICOSOCIALI PRESSO L’AZIENDA SANITARIA LOCALE DI LECCE

Emilio De Pascali, Simona Cera UO di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, Asl di Lecce

Introduzione

Con il presente contributo s’intendono illustrare le varie fasi operative in cui si articola un progetto di ricerca-intervento per la prevenzione dei rischi psicosociali, realizzato presso un’Unità Operativa di terapia intensiva di un Presidio Ospedaliero dell’Asl di Lecce.

Per far ciò, diviene utile delineare, in premessa, i punti salienti del percorso di rinnovamento organizzativo-gestionale e di governance che hanno riguardato in questi ultimi anni l’azienda e che, tra l’altro, hanno condotto, nell’ottobre del 2009, all’istituzione dell’Unità Operativa di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione.

Premessa

“Non è perché le cose sono difficili che noi non osiamo farle, è perché non osiamo farle che le cose sono difficili”.

Seneca

Alla luce dei due anni appena trascorsi, la frase di Seneca mi appare emblematica di quel vissuto di “scoperta” e sperimentazione del nuovo che sovente ha caratterizzato il lavoro degli operatori dell’UO di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione.

La nascita dell’Unità, rappresenta, per molti versi, l’adeguata risultanza di una lunga fase di rinnovamento nella politica aziendale di gestione e potenziamento delle risorse umane, con un’attenzione particolare rivolta nei riguardi della dimensione relativa al “benessere organizzativo” dei dipendenti.

Già a partire dagli anni 2006-2007, in maniera del tutto nuova e “pionieristica”, veniva realizzato su una vasta area dell’intera Asl di Lecce, un progetto di ricerca-intervento dal tema: L’analisi del clima organizzativo e dei rischi psicosociali per la prevenzione dei rischi psicosociali dei dipendenti. Con l’obiettivo di favorire l’avvio di un processo d’ammodernamento nella cultura gestionale e organizzativa dell’azienda, venne adottata una prospettiva “globale” d’intervento che si tradusse, in prima istanza, nella creazione di una base di partecipazione allargata e di consenso condiviso.

Leva strategica divenne la fase formativa con il coinvolgimento delle figure direttive con i più alti livelli di responsabilità, i professionisti dell’area core, i rappresentanti sindacali e le varie figure deputate alla salvaguardia della sicurezza e della salute dei lavoratori (il Medico Competente, i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Sicurezza Aziendale, ecc.).

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Al fine di garantire un qualificato livello d’addestramento, la gestione della formazione fu affidata ad un’azienda leader nel settore, composta da professionisti esperti nell’indagine organizzativa e nell’elaborazione dei dati.

Specifici moduli formativi elaborati e gestiti dal Professore Vincenzo Majer e dai suoi collaboratori vennero indirizzati in maniera differenziata al diverso target professionale e si struttureranno su due livelli:

1. di sensibilizzazione, rivolto al management e ai rappresentanti delle varie Organizzazioni Sindacali, con l’obiettivo di accrescere la conoscenza sui vari aspetti implicati nel costrutto di “clima organizzativo e dei rischi psicosociali” e sulle ripercussioni di tale dimensione sul benessere della vita lavorativa;

2. di sviluppo di specifiche competenze psico-socio-tecniche utili per la rilevazione e la misurazione scientifica del clima organizzativo e dei rischi psicosociali aziendale e degli indicatori di rischio psicosociale, secondo la metodologia della “ricerca-intervento”, attraverso l’utilizzo degli strumenti più idonei quali: questionari, focus group, interviste, ecc.; rivolto essenzialmente agli psicologi e ai sociologi.

Al termine del percorso formativo, si giunse all’individuazione di un team di professionisti dell’area core (formalizzato, con atto deliberativo, dalla Direzione Aziendale), con il compito di supportare e coadiuvare in maniera stabile l’implementazione del progetto di ricerca-intervento.

Fu così realizzato, nell’anno 2007, il progetto di rilevazione del clima organizzativo e dei rischi psicosociali che vedrà il coinvolgimento di 5 Strutture Ospedaliere e 4 Distretti Socio-sanitari, con la partecipazione di 1762 dipendenti (numero di rispondenti alla somministrazione del questionario).

Tale progetto si muove in linea con gli indirizzi normativi emanati in materia di Tutela della Salute e della Sicurezza dei Lavoratori, a partire dal DL.vo 626/1994, per passare alle disposizioni europee in materia, giungendo, in maniera rappresentativa, alla Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica del 24 marzo 2004 che, nelle misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle Pubbliche Amministrazioni”, individua: “… le condizioni emotive dell’ambiente in cui si lavora e la sussistenza di un clima organizzativo e dei rischi psicosociali che stimoli la creatività e l’apprendimento….

Ancor più, da ultimo, la predetta rilevazione si pone in maniera del tutto convergente con le nuove disposizioni del Decreto Legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 (Testo Unico Sicurezza luoghi di lavoro), riguardo alle misure di prevenzione e valutazione dei “rischi psicosociali” in ambito lavorativo e, rappresentando una significativa “fotografia” del clima organizzativo e dei rischi psicosociali dell’azienda, consente, oggi, di realizzare utili confronti con le risultanze delle rilevazioni analoghe attualmente in corso nelle varie Unità Operative (UUOO).

L’Unità Operativa di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione

Sin qui è emerso come, nel corso di questi anni, il governo aziendale, per il tramite della predisposizione di un idoneo percorso di sensibilizzazione e formazione e della realizzazione del progetto di ricerca-intervento per la rilevazione del clima organizzativo e dei rischi psicosociali, abbia manifestato l’intento di rendere obiettivi realmente perseguibili e non semplici enunciati di principio la valorizzazione delle risorse umane e l’innalzamento della qualità della vita aziendale, in vista del raggiungimento di più alti livelli d’efficienza ed efficacia.

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Ed è proprio in linea di continuità con quanto sopra che, a valle del percorso di sviluppo di nuove idee e prassi per la gestione delle risorse umane, venne istituita l’Unità Operativa di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione. Nel regolamento applicativo, è stabilito che l’èquipe di base, composta da tre psicologi, un sociologo, un assistente sociale e da un esperto in informatica statistica, sia supportata dal team dell’area core (all’uopo già formato) e dalla Rete dei Referenti. Questi ultimi, designati per ogni Unità Operativa Complessa dagli stessi colleghi, svolgeranno, da un lato, la funzione di radar/segnalatori dei bisogni emergenti nelle diverse realtà lavorative, dall’altro, avranno il ruolo di diffondere le varie iniziative intraprese in favore della tutela e del potenziamento della dimensione relativa al Benessere dei dipendenti. A riguardo, le modalità di scelta dei singoli referenti, sono state orientate verso la designazione di soggetti che ricoprano, di fatto, un significativo ruolo di leadership nel gruppo di lavoro.

Obiettivi e funzioni

L’Unità Operativa di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, lavora in staff alla Direzione Aziendale e in stretto collegamento con l’Area del Personale, offrendo supporto nelle azioni di governance aziendale e gestione delle risorse umane, svolgendo interventi finalizzati alla prevenzione primaria e secondaria del disagio lavorativo.

Sin dalla sua istituzione, la predetta Unità, oltre a dare seguito all’originario progetto di rilevazione del clima organizzativo e dei rischi psicosociali, svolge indagini sulla rilevazione dei rischi psicosociali presso le varie Unità Operative per le quali siano state segnalate particolari criticità dalla Direzione Aziendale o/e dalle Direzioni delle rispettive Strutture.

Inoltre, da circa un anno, è stato attivato lo Sportello d’Ascolto sul disagio lavorativo, rivolto a tutti i dipendenti, con lo scopo non solo di offrire un sostegno individuale di primo e secondo livello, ma anche di indirizzare gli interessati verso i servizi allo scopo preposti (medico competente, psicologia clinica, consulenza psichiatrica, consulente di fiducia, ecc.), nonché di attivare eventuali interventi in favore del gruppo di lavoro /unità operativa di appartenenza.

In proposito, sino ad oggi si è registrato un discreto numero (35) di accessi da parte del personale, a conferma sia dell’esistenza di un bisogno, sia dell’ormai diffusa aspettativa nei riguardi di una Direzione Aziendale “attenta” e in grado di cogliere le reali esigenze dei dipendenti, al fine di migliorarne le condizioni lavorative e aumentare il livello di efficienza dei Servizi.

È previsto, inoltre, che l’Unità Operativa svolga un’importante funzione di supporto nei confronti dei Comitati Pari Opportunità e Mobbing ed è stato, altresì, predisposto, in collaborazione con gli Uffici del Medico Competente, con il Responsabile del Servizio Protezione e Prevenzione Aziendale e con i Responsabili dei lavoratori per la sicurezza, il Regolamento per la gestione del fenomeno stress lavoro- correlato.

Altri fondamentali segmenti operativi riguardano l’attività di consulenza nei confronti dei nuovi assunti, al fine di agevolare le varie fasi che vanno dall’orientamento all’inserimento lavorativo, nonché la predisposizione d’azioni formative all’interno di corsi ECM e non, in tema di prevenzione dei rischi psicosociali potenziamento delle risorse umane.

Pertanto, il lavoro dell’Unità di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, si articola preordinandosi in tre ambiti di collaborazione intra-aziendale:

1. con l’Area Gestione Risorse Umane e l’Ufficio Formazione per l’adozione di rimedi di natura gestionale e/o formativa in grado di prevenire e ridurre le criticità organizzative;

2. con i Comitati per il Mobbing e per le Pari Opportunità, con le Organizzazioni Sindacali, con il Consulente di Fiducia, anche al fine di monitorare le situazioni organizzative in rapporto al sistema di valutazione dei dipendenti, sia dal punto di vista del riconoscimento dei meriti personali, sia della percezione dell’equità delle opportunità di crescita professionale per ognuno;

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3. con il Gruppo di Supporto dell’area core, con i Referenti Istituzionali, con il Servizio di Psicologia Clinica, con l’Ufficio del Medico Competente, con il Servizio Prevenzione e Protezione Aziendale, con i Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza per la tutela dello stato di salute dei lavoratori.

Analisi di una ricerca-intervento per la rilevazione dei rischi psicosociali

Metodologia e strumenti

Le indagini per la prevenzione dei rischi psicosociali realizzate presso le varie Unità Operative, si strutturano attraverso la forma della action research, in adesione a quel filone di studi, rappresentato in Italia dal gruppo di lavoro di E. Spaltro, maggiormente orientato verso le finalità operative.

Tale orientamento definisce questo tipo di intervento quale strategia finalizzata non solo alla concreta possibilità di misurare le diverse dimensioni organizzative, rilevando le criticità interne, ma anche alla possibilità di condurre processi di cambiamento dell’organizzazione stessa, incrementando la funzionalità e il benessere lavorativo.

La fase iniziale della procedura metodologica adottata dalla nostra Unità Operativa, si fonda, nei suoi capisaldi, sui seguenti passi:

raccolta preliminare di dati relativi ad elementi organizzativi e indicatori oggettivi di rischio (organigramma, orario di lavoro e turni, carichi e ritmi di lavoro, ferie non godute, tasso d’assenteismo, assenze per malattia, infortuni, turnover, sanzioni e procedimenti disciplinari, segnalazioni al medico competente, ecc.);

realizzazione di interviste semi-strutturate rivolte ai dirigenti/ responsabili delle varie strutture;

somministrazione, all’intera Unità Operativa (ad esclusione dei dirigenti/responsabili) di un questionario standardizzato;

elaborazione automatizzata dei dati e prima analisi per la valutazione delle criticità emerse con le figure apicali dell’UO;

restituzione dei dati al personale tramite predisposizione di focus group d’approfondimento tematico con campioni rappresentativi delle varie figure professionali coinvolte;

elaborazione di un report finale che includa anche, in base delle aree di criticità emerse, di concerto con la stessa Unità Operativa, le possibili strategie di miglioramento, e la pianificazione della loro realizzazione.

C’è da dire che, tale metodologia, è frutto di una specifica formazione professionale conseguita dagli operatori di Psicologia del Lavoro, attraverso qualificati momenti di supervisione professionale e una costante opera di approfondimento e sperimentazione.

D’altro lato, disporre, allo stato, di un valido modello di rilevazione del clima organizzativo e dei rischi psicosociali per realizzare il disciplinato iter di prevenzione dello stress lavoro-correlato dei dipendenti (come previsto, in ultimo, dalle disposizioni del DL.vo 81/2008) non esonera gli stessi operatori dal proseguire nel percorso di perfezionamento della prassi metodologica impiegata, sulla base degli esiti delle esperienze di rilevazione che si vanno via via stratificando.

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Strumenti utilizzati/analisi quantitativa e qualitativa

Come strumento di analisi qualitativa per la raccolta d’informazioni viene utilizzata l’intervista semi-strutturata rivolta alle figure apicali dell’UO interessata.

Tale tecnica di analisi, pur focalizzandosi su aree tematiche prestabilite, consente di calibrare l’approfondimento dell’ indagine mano a mano che emergono ambiti di interesse funzionali con gli obiettivi della ricerca-intervento. Si è rivelata una tecnica preziosa perché consente di creare una relazione con i responsabili delle varie Strutture garantendo loro un setting “protetto” in cui esporre liberamente opinioni e vissuti circa le dinamiche organizzative indagate.

Per quanto attiene gli strumenti di tipo quantitativo, si è avuto cura di orientarsi verso la scelta di strumenti scientificamente attendibili e validi; il questionario utilizzato si compone essenzialmente di due parti:

1. l’M_DOQ10 (Majer_D’Amato Organizational Questionnaire 10, D’Amato & Majer, 2005) che permette di realizzare una approfondita analisi del clima organizzativo;

2. Una versione sperimentale dell’OPRA (Organizational and Psychosocial Risk Assessment) pubblicata successivamente nella sua forma definitiva (Magnani, Mancini & Majer, 2009), per l’individuazione delle fonti di pressione sul lavoro e gli eventuali outcomes psico-fisici.

Nello specifico, il questionario multifattoriale M_DOQ10 è composto da 70 domande su scala Likert a 5 punti (da vero a falso) che misurano 10 dimensioni centrali delle dinamiche organizzative.

Oltre a permettere una conoscenza diretta e non mediata della realtà che si vuole indagare, questo strumento ha il pregio di consentire l’individuazione delle situazioni critiche su cui si può concretamente intervenire e anche dei punti di forza che l’organizzazione deve mantenere e sviluppare.

La scelta di utilizzare uno strumento che permetta di valutare le fondamentali dimensioni del clima organizzativo nasce dalla stretta correlazione esistente, ampiamente riconosciuta in letteratura, tra le caratteristiche del clima e le variabili relative al benessere lavorativo/ stress lavorativo. Difatti, come hanno ben dimostrato diversi studi, tra cui quelli di Majer e D’Amato (2001), migliorando il clima organizzativo e ponendo attenzione alla prevenzione dei rischi psicosociali all’interno del contesto lavorativo, si eleva il benessere individuale, s’incrementa la produttività e si favorisce la diminuzione del tasso di assenteismo, di turnover e di incidenti sul lavoro (si migliora la performance lavorativa).

D’altro canto, è criterio comune ritenere che per comprendere appieno un’organizzazione sia fondamentale conoscere “l’aria” che tira, che si “ respira”, al suo interno.

Il clima organizzativo si pone quindi come un importante presupposto per il mantenimento di un adeguato livello di salute psicofisica e il contenimento del rischio da stress lavoro-correlato (come previsto dal DL.vo 81/2008) ma, di contro, può rappresentare una tra le possibili fonti di sintomi di malessere individuale e/o organizzativo, come sostengono Cooper e Marshall (1976).

Come sostengono Quaglino & Mander (1987): il clima rappresenta la sintesi di percezioni e rappresentazioni tendenzialmente condivise che si organizza in una mappa cognitiva che guida le persone alla lettura dei contesti e ne influenza atteggiamenti e comportamenti, confermando una correlazione sempre più stretta tra morale alto e produttività possibile.

Per quanto attiene la prima versione dell’OPRA, anche questo è un questionario multifattoriale, che risponde più direttamente alle esigenze di valutazione della presenza di fattori di rischio psicosociale e condizioni di stress lavoro-correlato.

Si articola su 2 assi principali: una prima parte, relativa ai rischi psicosociali, costituita dai fattori a rischio di mobbing,

burnout, salute psicofisica;

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una seconda parte composta da ulteriori variabili significative per cogliere il benessere organizzativo: soddisfazione, identificazione, fiducia nell’indagine.

Una volta somministrato il questionario, analizzati i risultati in forma automatizzata, elaborato un report, il focus group si è rivelato uno strumento qualitativo fondamentale per approfondire direttamente con i lavoratori i dati emersi e ricercare insieme soluzioni.

La restituzione dei dati avviene, infatti, all’interno di appositi focus group composti da un campione “ragionato” di dipendenti appartenenti a gruppi professionali omogenei, (medici e comparto), in maniera tale che vi possa essere la condivisione delle medesime problematiche lavorative.

La discussione e l’interpretazione dei dati raccolti con gli stessi partecipanti è preferibile perché è ricca di spunti di analisi e prefigura possibili soluzioni anche se innalza il livello delle aspettative sulla disponibilità dell’organizzazione ad affrontare i nodi problematici emersi nell’indagine.

Si è avuto modo di notare come, promuovendo le abilità di problem solving dei soggetti e individuando possibili soluzioni condivise, si registri poi più facilmente una maggiore adesione alle azioni di miglioramento predisposte.

Avvio della ricerca-intervento

Dalla committenza all’utenza

Il nostro lavoro prende l’avvio dalla richiesta d’intervento inviata in maniera congiunta alla nostra Unità Operativa dal Direttore Sanitario e dal Direttore Generale che, avendo ricevuto in contemporanea 27 domande di trasferimento dagli infermieri di una stessa Unità Operativa, ci chiedono di rilevare le cause del malessere.

Se adottiamo una lettura sistemica, e consideriamo l’Azienda Sanitaria Locale – in qualità di organizzazione – come un “sistema complesso”, questo non può essere definito come un agglomerato di parti a sé stanti, ma come un sistema formato da sottosistemi interconnessi tra loro. Pertanto, essendo un “sistema interattivo”, non possiamo leggere le manifestazioni di disagio soggettivo che si presentano al suo interno come unicamente correlabili all’individualità del singolo.

Difatti, come afferma P. Watzlawick: un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica, solo così facendo il centro dell’interesse si sposta dalla monade isolata artificialmente alla relazione tra le parti di un sistema più vasto.

Proprio in ragione di tale lettura, l’iniziale fase di pianificazione del nostro lavoro è consistita nel fare chiarezza di tutti i ruoli implicati e delle persone che li assolveranno, al fine di condurre un’azione di coinvolgimento e sensibilizzazione di tutte quelle componenti dell’organizzazione che hanno a che fare con l’Unità Operativa in questione.

Allo scopo di aumentare la compliance dei vari sottosistemi implicati e di raccogliere informazioni sulle dinamiche interne all’Unità Operativa, preliminarmente, prendiamo contatti con il Direttore Amministrativo e quello Sanitario del Presidio Ospedaliero interessato, nonché con lo Psicologo in questo operante al fine di informarli sul nostro intervento e diamo, di seguito, l’avvio ad una serie di interviste semi-strutturate con le figure apicali dell’Unità Operativa indagata.

C’è da dire che, soprattutto in questa fase iniziale, si può rilevare nei nostri interlocutori una certa “diffidenza” verso gli operatori di psicologia del lavoro, probabilmente da collegarsi ad una percezione che la rilevazione – essendo stata predisposta dall’alto, cioè dai vertici aziendali – possa

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rispondere a chissà quali oscuri obiettivi (Ci hanno mandati dallo psicologo!). Per tale ragione, è opportuno utilizzare qualsiasi momento di contatto diretto, anche quelli più informali, per costruire un clima di fiducia e collaborazione, al fine di giungere a superare la percezione degli operatori di psicologia del lavoro quali: quelli mandati dalla direzione aziendale a fare diagnosi psicologica.

D’altro canto, gran parte delle loro percezioni e rappresentazioni si possono ricondurre ad un’importante variabile, rappresentata dal fatto che il committente e l’utente non coincidono.

Ma, proprio questa variabile, rappresenta un aspetto cruciale delle dinamiche organizzative su cui intervenire in maniera significativa.

Da un punto di vista formale, il committente, nella persona della Direzione Aziendale, ha il compito iniziale di definire gli obiettivi dell’indagine e d’individuare i soggetti che la realizzeranno (dare “mandato” all’UO di Psicologia del Lavoro).

Ciò nonostante, il ruolo dell’utente non può essere quello di fruitore passivo dell’intervento/indagine, tutt’altro, è necessario motivare e coinvolgere i nostri dipendenti - utenti non solo nella fase iniziale di raccolta dati (e questo non solo per una questione di correttezza deontologica) ma anche in tutte le fasi del percorso al fine di sollecitare in loro stessi una motivazione personale e una domanda specifica rispetto all’indagine.

È attraverso un’adesione convinta del personale al rinnovamento, come affermano Avallone e Paplomatas (2005), che si può raggiungere un risultato e consolidarlo nel tempo, favorendo la crescita della cultura della qualità e della valutazione, attraverso il reale coinvolgimento del personale nel processo di riprogettazione organizzativa, l’azione formativa, il lavoro di gruppo, etc.

Solo per il tramite di una partecipazione attiva e consapevole all’intero processo che il ruolo di utente potrà commutarsi in una sua specifica funzione di committenza, contribuendo a dare solidità e spessore all’intero processo.

La ricerca-intervento sull’analisi di rischi psicosociali diviene così, strumento che genera coinvolgimento e partecipazione, testimoniando l’attenzione che l’azienda pone nei riguardi delle risorse umane e sollecitando aspettative di miglioramento.

In tal modo la nostra azione rappresenta non solo un “sensore” dello “stato di salute” di un’organizzazione, ma mette in moto un reale processo di cambiamento.

Anche la posizione dei dirigenti e/o responsabili delle varie articolazioni sanitarie e dei servizi amministrativi contattati, appare alquanto tipica, in quanto emerge un malcelato atteggiamento di natura difensiva, probabilmente legato al timore che la “punteggiatura” degli eventi (il malessere manifestato dai dipendenti) possa essere ricondotto, in qualche modo, alle scelte gestionali/organizzative da loro realizzate.

Anche rispetto a questi ultimi interlocutori, diviene necessario, in qualità di consulenti del lavoro, accrescere il consenso, trasmettendo il messaggio che l’intervento che si va realizzando non costituisce una “pagellina dei capi”, non è uno mezzo di valutazione del loro operato ma, al contrario, rappresenta uno strumento di miglioramento da mettere in campo per accrescere il benessere di tutti.

Di fatto, nelle interviste semi-strutturate che si realizzano, emerge come ciascuno, a modo suo, cerchi di allontanare da sé le possibili cause di malessere, fornendo chi una versione edulcorata della realtà (Va tutto bene, non c’è niente di cui preoccuparsi), chi risposte difensive e vaghe (Beh, forse… potrebbe essere…più di quello che ho fatto non potevo fare...), chi riconducendo l’origine delle azioni dimostrative dei dipendenti ad un’influenza esterna comune (È una mossa del sindacato!).

Di conseguenza, il ventaglio delle possibili spiegazioni circa l’origine del malessere registrato, resta per noi di difficile definizione, ma, d’altro lato, questo ci dà l’opportunità di non incorrere in un errore tipico di questa fase, come diceva Sherlock Holmes a proposito della fase iniziale delle indagini: Nulla è più ingannevole di un fatto ovvio. […] La tentazione di formulare ipotesi premature sulla base di dati insufficienti è la rovina della nostra professione..

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Dall’invito alla partecipazione

Dopo aver raccolto i dati relativi agli indicatori oggettivi di rischio, li analizziamo al fine di rilevare l’eventuale presenza di eventi sentinella.

Di seguito, concordiamo con le figure apicali dell’Unità Operativa in questione l’inoltro di una lettera di invito a partecipare ai lavori di somministrazione del questionario indirizzata a tutti i dipendenti dell’Unità Operativa. Per essere sicuri che l’invito possa arrivare ad ognuno degli interessati diamo la consegna al Coordinatore infermieristico di recapitare a ciascuno copia della lettera di invito. Ma, il giorno concordato per la somministrazione del questionario, scopriamo che il circuito comunicativo ha subito qualche intoppo e all’incontro si presentano solo 6 dipendenti. Pertanto, si è costretti a concordare una nuova data a distanza di pochi giorni e poi ulteriori 3 incontri per poter accrescere il livello di partecipazione dei dipendenti.

Fedeli ad una lettura sistemica della realtà indagata, evitiamo una “punteggiatura” sulle eventuali inadempienze comunicative del coordinatore infermieristico e ipotizziamo quelle che poi risulteranno essere aree di reale criticità per questa Unità Operativa: la dimensione della “comunicazione”, la dimensione relativa alla leadership e, ancora, quella riguardante la “fiducia nell’indagine”. Ad ogni modo, utilizziamo la fase della somministrazione in gruppo come momento d’ulteriore comunicazione delle finalità del progetto e per accrescere il livello di coinvolgimento e motivazione.

Realizzazione della ricerca-intervento

Descrizione del campione

I risultati presentati fanno riferimento ai dati derivanti dall’elaborazione di n.42 questionari, corrispondenti al numero di dipendenti che ha preso volontariamente parte alla fase di somministrazione. Il numero totale dei dipendenti dell’Unità Operativa corrisponde a 64 unità, per cui i partecipanti rappresentano il 64% della popolazione indagata.

I dati rilevati possono ritenersi rappresentativi della realtà indagata e inoltre, risultano ulteriormente suffragati da quanto emerso all’interno dei focus group.

Variabili d’analisi

Le variabili indipendenti prese in esame sono state: Genere (Maschio/ Femmina); Anzianità (inferiore a 5 anni/ tra 5 e 15 anni/ tra 16 e 25 anni); Ruolo (Sanitario: Dirigenza Medica/ Comparto); Tipo di contratto (Tempo determinato/indeterminato/convenzione); Orario di lavoro (Turnista 3 turni/Turnista 2 turni/ Giornaliero). Alcune categorie professionali sono state accorpate per analogia, dato il numero esiguo, nel rispetto dell’anonimato.

Dati Tecnici

La procedura di immissione dei dati, dal questionario cartaceo al foglio elettronico, è avvenuta in modo automatizzato mediante utilizzo del lettore ottico. Tutti i dati sono stati elaborati con l’ausilio di un apposito software per l’analisi statistica.

I punteggi ottenuti ai questionari sono riportati, come per consuetudine, in termini di “medie” e “distribuzione di frequenze” seguiti da sintetici commenti per favorire una più immediata lettura.

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Risultati

Si riportano, di seguito, le 10 dimensioni indagate dal Majer D’Amato Organizational Questionnaire 10 (M_DOQ10):

Comunicazione Valuta le percezioni relative alla diffusione dell’informazione, sia essa verso il basso o verso l’alto, se si effettua apertamente, facilmente, liberamente o se vengono posti ostacoli da parte dell’organizzazione o di chi occupa posizioni nodali nelle reti informative. Es. È difficile ottenere delle informazioni chiare, precise e certe.

Autonomia Indaga le percezioni relative all’assunzione di responsabilità, la sensazione di essere autonomo nello svolgimento del proprio lavoro, di non dover sottostare a controlli riguardo a tutte le decisioni, di conoscere il proprio campo di intervento e di poter organizzare il proprio lavoro decidendo tempi e modalità operative. Es. Nell’esecuzione del mio lavoro mi è concesso di assumere delle iniziative personali.

Team Indaga l’insieme dei comportamenti lavorativi, che indicano una disponibilità da parte dei membri del gruppo in cui si opera, a collaborare, a fornire informazioni, supporti e know-how. Es. Nel mio reparto/ufficio c’è un forte spirito di cooperazione.

Coerenza Valuta le percezioni relative a quanto i valori dichiarati dall’organizzazione risultano praticati coerentemente nelle prassi operative quotidiane. Es. La direzione prende le decisioni riguardanti l’organizzazione del lavoro senza consultare il personale.

Job description Valuta le percezioni relative alla misura in cui ciascuno dei dipendenti conosce la portata del suo ruolo e le attese dell’organizzazione nei suoi confronti. Es. Le funzioni connesse al mio ruolo sono chiaramente definite.

Job involvement Analizza l’insieme delle percezioni e dei vissuti relativi all’investimento energetico ed emozionale del singolo dipendente nel lavoro e nei confronti dell’azienda d’appartenenza. Es. Il mio lavoro mi permette di usare ogni mia capacità e conoscenza.

Reward Indaga le percezioni relative a come vengono valutate le persone, sia dal punto di vista del riconoscimento dei meriti personali, sia della percezione di equità delle occasioni di crescita lavorativa che vengono date a ognuno. Es. Nella mia azienda i sistemi d’incentivazione sono chiari e applicati con correttezza.

Leadership Analizza le percezioni relative allo stile di comando dei superiori. Punteggi elevati indicano che i responsabili mostrano una “leadership di tipo democratico/partecipativo”. Es. I responsabili trascurano di considerare i suggerimenti dei subordinati.

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Innovatività Fornisce la stima della sensazione che vengano incoraggiate la produzione di idee e soluzioni di tipo innovativo tanto da rendere orgogliose le persone che in essa operano. Es. Nella mia azienda vengono incoraggiate le idee innovatrici e originali.

Dinamismo Rileva le percezioni circa la velocità dell’organizzazione nell’adattarsi ai cambiamenti di scenario e la capacità di rispondere con efficacia/efficienza ai medesimi e inoltre, le azioni che l’azienda mette in atto per favorire il progresso personale e lo sviluppo lavorativo. Es. La direzione esita ad introdurre dei cambiamenti anche quando essi sono necessari.

Risultati ottenuti all’M_DOQ10 (Majer_D’Amato Organizational Questionnaire 10)

Dall’osservazione dei punteggi medi ottenuti dai dipendenti dell’Unità Operativa nelle dimensioni dell’M_DOQ10 (Figura 1) emerge che le percezioni di clima organizzativo e dei rischi psicosociali si mostrano positive per la dimensione del Job Involvement – cioè, l’investimento energetico ed emotivo verso il lavoro, verso i bisogni del paziente è elevato, nonostante le criticità evidenziate.

30

35

40

45

50

55

60

65

70

Pu

nti

T

Figura 1. Le 10 dimensioni dell’M_DOQ10

Se raffrontiamo i dati emersi con il campione normativo rappresentato dai punteggi ottenuti dai dipendenti appartenenti ad Unità Operative simili a quella indagata, tramite i dati provenienti dalle rilevazioni realizzate nell’ anno 2007 (Figura 2), notiamo come i valori raggiunti dalla nostra Unità Operativa nelle varie dimensioni appaiano complessivamente più bassi, compreso quello del Job Involvement.

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4644 45

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4751

48 4745 46

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53

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30

35

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70P

unt

i T

U.O. "X"

Dato generale

Figura 2. M_DOQ10. Confronto con UUOO simili

49 49 49

44

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4851

48

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37

4749 48 47

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35

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55

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70

Pun

ti T

Medici_"X"

Infermieri_"X"

Figura 3. M_DOQ10. Confronto Medici-Infermieri

Dalla comparazione delle due categorie professionali dei medici e degli infermieri (Figura3), si rileva come i medici registrino risultati superiori agli infermieri in tutte le dimensioni e in particolare nel:

Job Description (47/53)

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i medici hanno chiaro, più degli infermieri, cosa devono fare, qual è il loro ruolo, cosa l’azienda si aspetta da loro (anche l’idea che in azienda sia tutto organizzato per bene).

Job Involvement (49/58) vivono con un maggiore livello di partecipazione e coinvolgimento emotivo il loro ruolo.

Dinamismo (49/52) percepiscono maggiormente da parte dell’azienda una propensione a favorire il progresso personale e lo sviluppo organizzativo. Gli infermieri, di contro, registrano livelli più bassi in quelle dimensioni che rappresentano per la loro categoria professionale delle criticità, così come confermato dai dati emersi nei focus group, tanto da richiedere azioni migliorative:

Comunicazione (45/49) gli infermieri esprimono il vissuto di sentirsi “tagliati fuori” dai circuiti comunicativi importanti; alcuni tipi di notizie sembrano non giungere mai ai destinatari (es. corsi, convegni, ecc.); non sono previsti preordinati momenti di scambio comunicativo (riunioni).

Team (45/49) il grado di coesione e di disponibilità espressi dai membri del gruppo è alquanto basso, dimensione rivelatasi oltremodo critica nei focus e nelle interviste (risulta riconosciuta anche dalle figure apicali dell’UO). C’è da dire che, nell’Unità in questione vi è una peculiarità organizzativo-strutturale da collegarsi al fatto di essere suddivisa in varie micro-unità operative che, sovente, comporta per le medesime figure professionali (infermieri) situazioni lavorative alquanto differenti. In particolare, il personale impegnato in reparto (in prevalenza turnista) si confronta con un carico di lavoro alquanto oneroso vivendo, al contempo, i colleghi che lavorano nelle altre micro-unità come scarsamente supportanti. Tale situazione, ingenerando un vissuto d’iniquità, ha comportato un discreto livello di tensione e aperta conflittualità nel gruppo infermieristico. Inoltre, esiste un rapporto tra la percezione d’equità nel trattamento ricevuto all’interno della propria organizzazione e la motivazione al lavoro. A riguardo, come afferma Lathman (2009): Poche cose uccidono la motivazione individuale più velocemente della sensazione che qualcun altro riceva un trattamento migliore.

Leadership (47/51) per i medici è vissuta come maggiormente partecipativa e non autoritaria, mentre gli infermieri percepiscono una dirigenza più incerta e/o rigida.

Ancora, per il comparto, risultano ben al di sotto del valore medio le dimensioni relative all’Autonomia (41/49) e Innovatività (41/48), gli infermieri percepiscono di non poter esercitare l’iniziativa individuale e l’indipendenza nel proprio lavoro e che l’azienda non sia propensa ad accettare idee innovative e programmi anche inconsueti.

A riguardo, gli stessi medici, pur riconoscendo la necessità di limitare le iniziative personali, in ragione del fatto che si tratta di un’Unità che si occupa di terapia intensiva, ravvisano comunque la possibilità d’ampliare gli spazi d’autonomia professionale, standardizzando alcune procedure.

Oltremodo critica emerge per medici e infermieri la dimensione relativa alla Coerenza (37/44): che inerisce a quanto i valori dichiarati dall’azienda risultino poi perseguiti concretamente con azioni coerenti nell’operatività quotidiana.

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Infine, bassa risulta per entrambe le categorie la dimensione Reward (48/48), che riguarda il sistema delle ricompense e dei riconoscimenti; emerge chiara in loro la sensazione che non ci sia equità nei predetti meccanismi e che nei sistemi di valutazione manchi l’oggettività e si prediligano i favoritismi.

Risultati ottenuti all’OPRA (Organizational and Psychosocial Risk Assessment )

Le variabili di rischio stress lavoro-correlato/benessere organizzativo indagate con il questionario OPRA (versione sperimentale) sono le seguenti: Mobbing; Burn Out, Identificazione; Soddisfazione; Fiducia nell’indagine; Salute Fisica e Salute Psicologica.

Mobbing

Si misura rilevando la frequenza e la durata con cui si presentano alcuni comportamenti o situazioni negative sul luogo di lavoro, “precursori” del mobbing.

Le azioni subite sono generalmente attribuibili alle seguenti dinamiche: “mobbing sulla persona” (es. Vengono fatti commenti offensivi o insulti sulla sua persona o vita privata) e “mobbing sul ruolo lavorativo o mansione” (es. Qualcuno trattiene informazioni necessarie al suo lavoro).

Queste dimensioni evidenziano degli “indicatori di rischio” e non situazioni conclamate di mobbing.

Tra l’altro, nella categoria “mobbing lavoro” sono incluse azioni che vengono compiute per problemi d’organizzazione (es. dover svolgere mansioni inferiori al proprio profilo professionale perché le figure preposte sono assenti) e, per l’UO indagata, sono proprio queste ad essere indicate con maggiore frequenza. Dai risultati (Figura 4) emerge una percentuale di personale a rischio discretamente elevata, tanto da richiedere l’adozione di misure organizzative che riducano la percezione di “costrittività” e il monitoraggio del fenomeno nel tempo.

45%

55%Personale "nella norma"

Personale "a rischio"

Figura 4. Rischio mobbing: percentuale dipendenti che si percepiscono a rischio mobbing

Burn Out

Per quanto attiene il costrutto del burn out, questo si compone di tre aspetti emotivamente connessi:

Esaurimento emotivo (es. Il mio lavoro mi sfinisce); Cinismo (es. Non mi interessa realmente ciò che accade ad alcuni utenti);

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Realizzazione personale (es. Non riesco ad affrontare Efficacemente le problematiche degli utenti).

Per i primi due all’aumentare del punteggio corrisponde una situazione di malessere, mentre per il terzo, a punteggi più alti si correlano vissuti positivi. Analizzando i risultati (Figura 5) si nota come, il livello di esaurimento emotivo, per quanto elevato, si avvicina a quello delle altre strutture, mentre il basso livello di realizzazione personale e il livello di cinismo più elevato possono compromettere la qualità delle relazioni in ambito lavorativo (me la prendo un po’ con tutti).

8,5

5

8,4

4

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

Esaurimento emotivo Cinismo

4,5

7,6

Realizzazione personale

U.O. "X"

Dato generale

Figura 5. Burnout Confronto con medie UO simili

Le variabili del questionario OPRA (versione sperimentale) riguardanti il grado di benessere organizzativo sono:

Identificazione

Con il gruppo: il senso d’appartenenza e identificazione con il proprio gruppo di lavoro aumenta la performance del gruppo stesso, ma soprattutto accresce il morale delle persone e la soddisfazione che queste provano nelle attività che svolgono. Sentire di lavorare con un buon gruppo, con persone con cui si condivide non solo lo stesso ufficio o reparto, incrementa i sentimenti di sicurezza, d’autostima e di fiducia nelle proprie capacità e crea un senso d’appartenenza che ha risvolti notevolmente positivi a livello professionale, in quanto in un clima positivo le persone sono più stimolate a dare il meglio, ad impegnarsi sapendo di poter contare sugli altri e contemporaneamente d’essere importante per gli altri. Se il rapporto con una o più persone significative del contesto lavorativo è caratterizzato da una forte conflittualità, è probabile che i lavoratori siano soggetti a frequenti tensioni emotive che spesso possono indurre ad effetti individuali fisiologici: effetti individuali comportamentali ed effetti organizzativi.

Con la propria azienda: per identificazione organizzativa s’intende la condivisione di valori e obiettivi tale da stabilire una buona sintonia tra sistema di attese del soggetto e realtà lavorativa. Le ricerche mostrano che questo indice è collegato con i comportamenti prosociali extra-ruolo i riconoscimenti monetari da parte dell’organizzazione, l’anzianità di

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servizio e le intenzioni di lasciare il proprio lavoro. A livello teorico, l’Organizational Identification (OID) inoltre è stato collegato con la soddisfazione professionale, la motivazione, le prestazioni, la lealtà all’organizzazione, i comportamenti cooperativi e i comportamenti organizzativi di cittadinanza. Inoltre, OID è considerato come uno dei modi con cui le organizzazioni dirigono e coordinano i comportamenti dei lavoratori, perché l’identificazione aumenta i comportamenti che sono conformi all’identità e ai valori organizzativi. Di conseguenza, le organizzazioni dovrebbero investire in maniera considerevole nella promozione dell’identificazione fra i loro membri. Inoltre, un’aumentata identificazione dei dipendenti con l’intera organizzazione è uno dei possibili effetti attribuibili ad uno stile di leadership carismatico o trasformazionale.

Entrambe le misure sono valutate tramite la rappresentazione grafica della distanza o sovrapposizione tra il soggetto e il gruppo/organizzazione di riferimento, riconducibile ad una scala Likert a sette passi dove all’aumentare dei punteggi corrisponde un maggior grado d’identificazione con il sistema di riferimento.

Soddisfazione

L’indice per la misura della soddisfazione generale è rappresentato all’interno di un continuum su scala Likert da 0 (insoddisfazione totale) a 10 (soddisfazione totale). Alcuni studi mostrano come il livello generale di soddisfazione lavorativa possa essere misurato attraverso singoli item che presentano una buona correlazione con strumenti più complessi e che valutano lo stesso costrutto in relazione ai diversi aspetti della vita lavorativa. Questo item rappresenta una valutazione complessiva e puntuale del rapporto che una persona stabilisce con il proprio lavoro indipendentemente dal riferimento ad un preciso intervallo di tempo. L’ampia modalità di risposta prevista, oltre che a consentire una precisa misurazione del livello raggiunto, rimanda concettualmente ad un ancoraggio simile al voto scolastico e consente di distinguere chiaramente le persone insoddisfatte da quelle soddisfatte.

Fiducia nell’indagine

La fiducia circa l’utilità dei risultati dell’analisi di clima ai fini del miglioramento lavorativo è stata raccolta ponendo una singola domanda diretta con 4 modalità di risposta (da “per niente convinto” a “molto convinto”). La variabile Fiducia si riferisce alla percezione di utilità dei risultati della ricerca-intervento ai fini del miglioramento lavorativo e alla credibilità delle iniziative messe in atto dall’organizzazione.

I dipendenti (Figura 6) mostrano un buon livello di Identificazione con la loro Unità Operativa (82,8%).

Altrettanto non può dirsi per il livello di Identificazione con l’Organizzazione nel suo complesso, in quanto quasi la metà del personale (48,3%), sembrerebbe vivere l’azienda come un’entità lontana, non attenta alle esigenze dei dipendenti.

Si rileva comunque un buon livello di Soddisfazione per il proprio lavoro (82,8%), nei focus le persone adducono, a riguardo, le manifestazioni di riconoscimento che arrivano dai pazienti (es: quando li incontriamo fuori e ci ringraziano!).

Riguardo alla variabile Fiducia nell’indagine, dal grafico si può notare come il giudizio espresso dai lavoratori sia indicativo di un diffuso pessimismo (55,2% a rischio) circa la possibilità di miglioramento delle condizioni di lavoro e di una scarsa credibilità delle iniziative aziendali.

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Nei focus group viene indagata l’origine, che risulta per lo più legata a pregressi feedback negativi ricevuti dai membri più rappresentativi dell’organizzazione stessa rispetto ad alcune richieste di cambiamenti organizzativi avanzate nel passato.

17,2 82,8

55,2 44,8

17,2 82,8

48,3 51,7

0 20 40 60 80 100

Fiducia

Soddisfazione

Identif_Organizzazione

Identif_UO

Personale "a rischio"

Personale "nella norma"

Figura 6. Indicatori di rischio psicosociale: percentuali di dipendenti a rischio

Salute psico-fisica

Viene valutata utilizzando una check-list per la misurazione della salute sia fisica che psicologica. Rappresenta un valido indice del benessere psicofisico in grado di evidenziare la presenza e la frequenza di segnali di natura fisica e psichica che possono indicare una situazione di disagio e di malessere.(Il punteggio medio cresce all’aumentare della frequenza periodica con i quali si presentano diversi disturbi).

Dai risultati (Figura 7) emerge che, fatta eccezione per le dimensioni eccessivo nervosismo e ansia, le altre percentuali, data la loro esiguità, non possono essere riferite al contesto lavorativo.

7,6 92,4

6,1 93,9

11,1 88,9

9,4 90,6

8,1 91,9

17,6 82,4

5,2 94,8

6,0 94,0

7,2 92,8

7,9 92,1

20,4 79,6Eccessivo nervosismo

0% 50% 100%

Sentirsi privo di valore

Perdita fiducia

Cambiamenti umore

Infelicità

Superare le difficoltà

Ansia

Diffic. affrontare problemi

Procrastinazione

Sentirsi poco utile

Cali di concentrazione

Personale "a rischio"

Personale "nella norma"

Figura 7. Salute psicologica

Per quanto attiene la Salute Fisica (Figura 8), alcune percentuali, in particolare quelle riguardanti le dimensioni stanchezza, cefalee e dolori, meritano attenzione tanto da richiedere un intervento d’approfondimento diagnostico da parte del Medico Competente.

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55

70,3 29,6

59,2 40,7

66,6 33,3

29,6 70,3

59,2 40,7

77,7 22,2

92,5 7,4

48,1 51,8

74,0 25,9

0 20 40 60 80 100

disturbi del sonno

cefalee

disturbi gastrici

stanchezza

eccessi (bere o fumare)

disturbi sessuali

difficoltà respiratorie

dolori articolari

tachicardia

Personale "a rischio"Personale "nella norma"

Figura 8. Salute fisica

Azioni di miglioramento

Abbiamo visto come la categoria degli infermieri sia quella che vive le diverse aree del clima organizzativo e dei rischi psicosociali in maniera meno soddisfacente ed, in particolare, critiche risultano le dimensioni relative alla diffusione e allo scambio delle Comunicazioni, alla qualità delle relazioni nel Team di lavoro, allo stile della Leadership, alla Coerenza operativa, alla chiarezza del proprio ruolo.

Come azioni di miglioramento sono state delineate le seguenti strategie operative: Programmazione di momenti strutturati e preordinati di confronto e scambio al fine di

accrescere la condivisione delle scelte operative quotidiane e aumentare il livello di gratificazione e motivazione lavorativa del personale e istituzione di un registro per comunicazioni di servizio con firma per presa visione;

Individuazione di consuete modalità di “scambio collaborativo” tra il personale impegnato nelle varie micro-unità al fine di ridistribuire in maniera equanime i compiti e favorire un clima di maggiore distensione e condivisione;

Richiesta alla Direzione Aziendale dell’adeguamento di arredi e materiali deteriorati che da un lato, renderebbe più snello e fluido il lavoro quotidiano del personale infermieristico e dall’altro rappresenterebbe un segnale di riconoscimento e considerazione da parte della Direzione Aziendale nei riguardi dell’impegno profuso dagli operatori sanitari nello svolgimento dei loro compiti istituzionali;

Attivazione da parte dell’Unità di Psicologia del Lavoro di un percorso di training di gruppo, mirante a favorire l’acquisizione di tecniche di comunicazione efficace e gestione dei conflitti, in ragione dell’alta conflittualità emersa tra il personale di comparto. Inizialmente rivolto al personale infermieristico, tale modulo sarà indirizzato successivamente anche al personale medico, con l’obiettivo di potenziare le competenze comunicativo-relazionali in vista dello sviluppo di un adeguato clima di gruppo. In particolare, quest’ultimo modulo verrà “ricalibrato” sulla base dell’ esigenza, emersa nei gruppi, di rivedere le abituali modalità di “rilevazione degli errori”, al fine di farle divenire occasioni di crescita e miglioramento professionale.

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La metodologia didattica utilizzata è stata prevalentemente interattiva e partecipativa (esercitazioni, simulate, role playing e lavori di gruppo), così facilitando l’acquisizione di nuove competenze, abilità e atteggiamenti. Non solo, i partecipanti ai gruppi di training hanno avuto, in qualche maniera, il compito di farsi carico, all’interno dell’UO, del ruolo di “agenti/facilitatori di cambiamento”, cioè di coloro che fanno avanzare l’innovazione relazionale dall’interno, contribuendo, a loro volta, alla crescita delle risorse umane.

Monitoraggio degli esiti delle azioni migliorative intraprese al fine di apportare eventuali correttivi.

Conclusioni

Come abbiamo visto, il percorso di rilevazione dei rischi psicosociali non rappresenta tanto un processo di valutazione fine a se stesso, quanto un approccio globale che richiede da un lato, un profondo consenso costruito e condiviso tra i vari protagonisti, dall’altro, cambiamenti nelle culture organizzativo-gestionali.

L’attenzione per la salute e il benessere dei lavoratori tramite la prevenzione dei rischi psicosociali rappresenta un segmento irrinunciabile del processo di crescita e sviluppo di ogni organizzazione e ancor più lo è per il contesto lavorativo sanitario.

Difatti, come hanno dimostrato diversi Autori, tra cui Lazzari & Sommella (2003) esiste una stretta correlazione tra stress dei lavoratori e soddisfazione dei pazienti, per cui, consentire alle persone deputate a curare (medici) o a prendersi cura (infermieri) dei pazienti, di “star bene” nel proprio ambiente lavorativo, significa far sì che il servizio che loro garantiscono, possa giovarsi di tale benessere.

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IL MEDICO COMPETENTE E LA PREVENZIONE DEL RISCHIO STRESS LAVORO-CORRELATO

Angelo Sacco Medico Competente e Radioprotezione Medica, ASL Roma D

La valutazione del rischio stress lavoro-correlato

La normativa prevenzionistica in vigore sino alla emanazione del Testo Unico (TU) 81/2008 offriva solo alcuni modesti spunti in tema di prevenzione dei rischi organizzativi; essi erano contenuti nel DL.vo 626/1994; il decreto, come indicato nell’art. 1, c.1, prescriveva misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, in tutti i settori di attività, privati e pubblici. Come osservato da più parti, nonostante l’apertura del legislatore ai “principi ergonomici” e agli aspetti “organizzativi” dell’azienda, la norma appariva carente solo se si considera che, già nella definizione di “agente di rischio” (art. 2 lett. h), non v’era alcun riferimento ai rischi organizzativi; veniva infatti definito “agente”, l’agente chimico, fisico o biologico, presente durante il lavoro e potenzialmente dannoso per la salute. Allo stesso modo, nel momento in cui all’art. 2 lett. g del medesimo decreto si definiva “prevenzione” come il complesso delle disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell’attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno, si ammetteva intrinsecamente di considerare la “salute” nella sua accezione tradizionale e riduttiva, ovvero, “assenza di malattia”.

Ciononostante, una sfumata attenzione alla salvaguardia della sfera psichica del lavoratore si percepiva dalla lettura dell’art. 17 c.1 lett. a, laddove il legislatore indicava, tra le funzioni del medico competente, la collaborazione “…con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione, sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione dell’azienda ovvero dell’unità produttiva e delle situazioni di rischio, alla predisposizione dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei lavoratori”.

Allo stesso modo, nella norma, tra le misure generali di tutela contenute nell’articolo 3, risaltavano, tra gli obblighi del datore di lavoro, la programmazione della prevenzione mirando ad un complesso che integra in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche produttive e organizzative dell’azienda nonché l’influenza dei fattori dell’ambiente di lavoro (art. 3, c.1, lett. d) e il rispetto dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, anche per attenuare il lavoro monotono e quello ripetitivo (art. 3, c.1, lett. f).

Alcuni riferimenti specifici sulla prevenzione dei rischi connessi con il lavoro monotono e quello ripetitivo erano presenti nell’art. 53 (“organizzazione del lavoro”), ove era previsto che il datore di lavoro assegna le mansioni e i compiti lavorativi comportanti l’uso dei videoterminali anche secondo una distribuzione del lavoro che consente di evitare il più possibile la ripetitività e la monotonia delle operazioni.

Allo stesso modo, la norma, all’art. 8-bis (“capacità e requisiti professionali degli addetti e dei responsabili dei servizi di prevenzione e protezione”) prevedeva che per lo svolgimento della funzione di responsabile del servizio prevenzione e protezione, oltre ai requisiti di cui al comma 2, è necessario possedere un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione in materia di prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura

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ergonomica e psico-sociale, di organizzazione e gestione delle attività tecnico amministrative e di tecniche di comunicazione in azienda e di relazioni sindacali.

All’art.4 c.1 era previsto l’ulteriore obbligo per il datore di lavoro di valutare “...tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro”.

Quest’obbligo – che, come si ricorderà, fu recepito dal nostro legislatore solo in seguito ad una sentenza di condanna della Corte di Giustizia europea, fu dai più interpretato come l’obbligo, per il datore di lavoro, di concentrarsi su tutti i rischi (anche quelli non specificatamente citati dalla norma) e quindi anche su quelli di natura psicosociale.

Con l’emanazione del DL.vo 81/2008 e dei successi aggiornamenti e integrazioni, gli obblighi del datore di lavoro in tema di valutazione del rischio si ampliano e si diversificano.

La recente normativa conferma quanto già riportato nel testo modificato del DL.vo 626/1994, ovvero l’obbligo in capo al datore di lavoro di valutare tutti i rischi, definendo «valutazione dei rischi»: valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza (art. 2, c1, lett. q).

E la citata estensione degli obblighi datoriali si percepisce, da un lato per l’esplicito significato attribuito al termine “salute” (art. 2 c.1 lettera o: salute: stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità), dall’altro perché, l’art.28 esplicitamente amplia l’oggetto della valutazione a tutti i rischi per la salute e la sicurezza, ivi compresi quel fattori di nocività cui sono soggetti i lavoratori adibiti a mansioni che comportano rischi particolari, tra cui quelli legati allo stress lavoro-correlato, quelli riguardanti le lavoratrici madri, quelli connessi alle differenze di genere, all’età e alla provenienza da altri paesi.

È del tutto evidente la portata innovativa del precetto che obbliga il datore di lavoro a prendere in considerazione, nella valutazione, non soltanto i fattori di rischio ambientali e organizzativi (tra i quali, evidentemente, i rischi legati allo stress lavoro-correlato) ma anche quelle condizioni dei lavoratori (differenze di genere, di età e di provenienza geografica) che possono rappresentare, indubbi elementi individuali di suscettibilità a taluni specifici fattori di rischio.

Ed è dunque proprio in virtù del dettato di legge che impone al datore di lavoro di valutare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori e a quanto più ampiamente contenuto nel dettato costituzionale1 e nel codice civile2 che chiede al datore di lavoro di tutelare la dignità, l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore d’opera, che il datore di lavoro, utilizzando gli strumenti operativi e le metodologie che sono proprie della medicina del lavoro e seguendo le indicazioni fornite dal legislatore nella più recente Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 23692 del 18 novembre 2010, dovrà procedere alla valutazione e alla gestione anche dei rischi stress lavoro-correlato.

1 Art. 32 della Costituzione: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della

collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. 2 Art. 2087 del Codice civile (GU 4.4.1942, n. 79 e 79 bis): Tutela delle condizioni di lavoro. L’imprenditore è

tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza è la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

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Il ruolo del medico competente nella prevenzione del rischio stress lavoro-correlato

Quanto esplicitamente previsto dal DL.vo 81/2008 in merito alla valutazione e alla gestione dei rischi stress lavoro-correlato non può che trovare indispensabile consecutio logica nelle funzioni del medico competente aziendale, il quale è chiamato a collaborare con il datore di lavoro e con il servizio di prevenzione e protezione alla valutazione dei rischi, anche ai fini della programmazione, ove necessario, della sorveglianza sanitaria, alla predisposizione della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori, all’attività di formazione e informazione nei confronti dei lavoratori, per la parte di competenza, e alla organizzazione del servizio di primo soccorso considerando i particolari tipi di lavorazione ed esposizione e le peculiari modalità organizzative del lavoro (art. 25, c.1, lett. a).

E, se ripercorriamo la normativa prevenzionistica nel capitolo dedicato agli “obblighi del medico competente”, appaiono piuttosto ampi gli ambiti d’intervento del medico competente nel contributo alla valutazione e gestione di siffatta tipologia di rischio; essi non possono che essere quelli tipici della medicina del lavoro, riassunti negli interventi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria.

Sulla questione del contributo del medico competente alla valutazione del rischio la Società Italiana di Medicina del Lavoro e Igiene Industriale ha prodotto un Documento di Consenso (Cesana et al., 2006) e il dibattito scientifico ha registrato il pronunciamento di vari Autori (Gilioli et al., 2011, Buselli e Cristaudo, 2009); il lavoro di Gilioli et al. sopra citato ha dedicato un intero capitolo al “ruolo del medico del lavoro” nell’accertamento e nella prevenzione delle patologie stress lavoro-correlato e, in modo particolare, dei quadri riconducibili a condotte mobbizzanti; corre l’obbligo al proposito sottolineare come gli Autori, pur indicando delle linee di comportamento del medico competente aziendale, non hanno certo evitato di sottolineare tutta la complessità per il medico competente nello gestire situazioni pre-morbose e francamente morbose derivate non già dall’azione di agenti esogeni, ma da condizioni cagionate o da difetti dell’organizzazione del lavoro o da comportamenti francamente antigiuridici di singoli o di gruppi di soggetti. Allo stesso modo d’interesse per il medico competente è la consultazione di D’Orsi et al. (2010), che dedicano alla questione dell’approccio del medico competente al rischio da stress lavoro-correlato il capitolo 13.

Per entrare nel merito possiamo seppur sinteticamente dire che sul primo punto (quello della prevenzione primaria), il medico competente è chiamato a contribuire in virtù della lettera e dello spirito del richiamato art. 25 c.1, sia nella fase di “valutazione”, sia nella successiva “gestione” del rischio, promuovendo presso il datore di lavoro le migliori pratiche valutative e gestionali secondo gli orientamenti scientifici più efficaci. Del resto, a norma dell’art. 25, c.1, lett. m del DL.vo 81/2008, il medico competente “partecipa alla programmazione del controllo dell’esposizione dei lavoratori i cui risultati gli sono forniti con tempestività ai fini della valutazione del rischio e della sorveglianza sanitaria”. Indicazioni minime per la valutazione del rischio stress-lavoro-correlato sono riportate nella Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 23692. Enti e Istituti pubblici specializzati hanno proposto approcci semi-quantitativi di valutazione (Ispesl, 2010; Inail, 2011) sui quali si è acceso un interessante dibattito (Magnavita, 2011); si registra al proposito anche un’interessante tentativo di approfondire la questione della valutazione del rischio stress lavoro-correlato in una prospettiva di genere (Inail, 2009).

Ma è nelle attività di sorveglianza sanitaria previste dall’art. 25 c.1 lett. b del DL.vo 81, che si concretizza la funzione più delicata del medico competente; è nel corso di questa pratica che può avvenire infatti l’opera di prevenzione secondaria attraverso il rilevamento del disagio dal

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lavoro e la diagnosi precoce dei disturbi e delle patologie stress lavoro-correlato. E poiché il corteo dei sintomi e dei segni che precede la strutturazione di quadri morbosi stabili inquadrabili nell’ambito delle “reazioni ad eventi” (“disturbo dell’adattamento”, “disturbo post traumatico da stress”, ecc.) ha in genere una lunga durata, esso si presta assai bene a potere essere rilevato nel corso di campagne di sorveglianza sanitaria. Come è noto, l’art. 41 comma 1 chiarisce le due situazioni in cui la sorveglianza sanitaria è obbligatoria:

a) nei casi previsti dalla normativa vigente, dalle direttive europee nonché dalle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva di cui all’articolo 6;

b) qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi.

La prima condizione riguarda, è evidente, tutte le situazioni in cui il datore di lavoro, in collaborazione con le figure preposte (servizio di prevenzione e protezione e medico competente) abbia individuato la persistenza, nell’ambiente e nell’organizzazione del lavoro, di uno o più rischi residui per la salute e la sicurezza dei lavoratori e qualora gli effetti sulla salute di siffatti fattori di rischio possano essere suscettibili di (efficace) prevenzione con l’intervento sanitario del medico competente. La Commissione citata dalla norma è la “Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro” istituita presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale.

La seconda condizione sembra riguardare qualsiasi lavoratore ne faccia richiesta, purché però la richiesta sia ritenuta dal medico competente correlata con i rischi lavorativi.

L’art. 41 comma 2 chiarisce che la sorveglianza sanitaria comprende: a) visita medica preventiva b) visita medica periodica c) visita medica su richiesta del lavoratore d) visita medica in occasione del cambio della mansione e) visita medica alla cessazione del rapporto di lavoro f) visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute

di durata superiore ai sessanta giorni continuativi. La visita medica preventiva è intesa a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui

il lavoratore è destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica (art. 41, comma 2, lettera a).

La visita medica periodica serve a controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica (art. 41, comma 2, lettera b).

Per la prima volta la norma fissa la periodicità degli accertamenti, qualora non prevista dalla relativa normativa, in una volta l’anno, ammettendo però che “tale periodicità può assumere cadenza diversa, stabilita dal medico competente in funzione della valutazione del rischio”. L’organo di vigilanza, con provvedimento motivato, può disporre contenuti e periodicità della sorveglianza sanitaria differenti rispetto a quelli indicati dal medico competente.

La visita medica su richiesta del lavoratore è legittimata dall’essere ritenuta dal medico competente correlata ai rischi professionali o alle condizioni di salute del lavoratore, suscettibili di peggioramento a causa dell’attività lavorativa svolta, al fine di esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica.

La visita medica in occasione del cambio della mansione ha lo scopo di verificare l’idoneità alla mansione specifica. Essa trova pertanto la sua giustificazione nel cambio mansione che periodica una variazione del profilo di rischio del lavoratore.

La visita medica alla cessazione del rapporto di lavoro è indicata nei soli casi previsti dalla normativa vigente, ovvero nel caso di soggetti con esposizione ad agenti chimici pericolosi, ivi compresi gli agenti cancerogeni, occasione nella quale il medico competente deve fornire al lavoratore le eventuali indicazioni relative alle prescrizioni mediche da osservare.

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Ulteriore novità scaturita dal processo di revisione del decreto legislativo 81/2008 è la previsione della visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi; anche in questo caso il dettato di legge prevede che il fine dell’accertamento è quello di verificare l’idoneità alla mansione. Numerosi sono infatti i disturbi e le condizioni patologiche associate agli effetti dello stress: tra questi, i disturbi dell’apparato cardiovascolare (soprattutto cardiopalmo e tachicardia, ma anche ipertensione arteriosa), del sistema gastroenterico (irregolarità dell’alvo, inappetenza, dimagramento, nausea, ecc.), dell’apparato muscolo-scheletrico (esaltazione della sintomatologia algica soprattutto dorso-lombare), della sfera sessuale e dell’apparato genitale, disturbi del sonno, ecc.; essi debbono essere attentamente ricercati nel corso della sorveglianza sanitaria periodica (in letteratura sono disponibili strumenti di semplice utilizzo e opportunamente validati (Magnavita, 2010), allo scopo d’individuare, se del caso, opportuni percorsi di approfondimento specialistico.

Conclusa la campagna di sorveglianza sanitaria dei lavoratori, corre l’obbligo per il medico competente di comunicare per iscritto, in occasione delle riunioni periodiche di sicurezza di cui all’articolo 35, al datore di lavoro, al responsabile del servizio di prevenzione protezione e ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, i risultati anonimi collettivi della sorveglianza sanitaria e di fornire indicazioni sul significato di detti risultati ai fini della attuazione delle misure per la tutela della salute e della integrità psico-fisica dei lavoratori (art. 25 c.1, lett. i). Tale comunicazione riveste un importante significato prevenzionistico e, se inserita nel contesto d’interesse, in quanto permette al datore di lavoro di verificare l’efficacia delle misure di prevenzione adottate. Nello specifico ambito di cui stiamo discutendo, i dati provenienti dalla sorveglianza sanitaria (in particolare le “segnalazioni del medico competente”) rappresentano uno degli indicatori “oggettivi” citati nella Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 23692 da utilizzare nella fase preliminare della valutazione del rischio da stress lavoro-correlato.

L’ultimo aspetto riguarda il giudizio d’idoneità alla mansione specifica, atto formale e obbligatorio per legge che deve seguire ciascuna visita di sorveglianza sanitaria. Tale atto, che rappresenta uno dei momenti più qualificanti dell’intera attività del medico competente, assume connotati di estrema delicatezza nei casi di disturbi o di patologie originate o aggravate dal clima organizzativo aziendale. A fronte di un soggetto sintomatico, l’espressione di un giudizio d’idoneità piena potrebbe, infatti, comportare una esacerbazione della sintomatologia per la persistenza dell’esposizione al rischio, mentre la non idoneità a continuare ad operare nell’ambiente “psico-patogeno” potrebbe rappresentare un ulteriore elemento di discriminazione e, per questo, di sofferenza per il lavoratore. Il giudizio deve essere dunque redatto tenendo conto dello specifico caso, operando un’attenta disamina dei rischi e dei benefici che la formulazione del giudizio in un modo piuttosto che nell’altro potrebbe comportare.

Intervenendo attivamente sui rischi organizzativi con gli strumenti e le modalità tipiche della medicina del lavoro (osservazione - valutazione - azione1), si schiude al medico competente l’opportunità di dare completo corso al mandato istituzionale di promuovere il benessere dei lavoratori e di adempiere all’obbligo normativo di collaborare con il datore di lavoro “…alla

1 Nel citato lavoro di Gilioli et al. (2001) venivano attribuiti al medico competente nell’ambito della collaborazione

col datore di lavoro alla valutazione e alla gestione dei rischi, i seguenti compiti: sensibilizzazione delle parti sociali alla corretta gestione del fenomeno; diffusione della conoscenza degli effetti delle aggressioni morali presso le organizzazioni lavorative; promozione di iniziative locali volte alla diffusione delle conoscenze; acquisizione di capacità di porre diagnosi; formulazione di giudizi d’idoneità che non potenzino la condizione di discriminazione/vessazione già in atto; segnalazione agli organismi competenti delle eventuali patologie riconducibili a condizioni di costrittività organizzativa.

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predisposizione dell’attuazione delle misure per la tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei lavoratori”.

Ogni atteggiamento rinunciatario rimarrebbe pertanto in palese contrasto con il ruolo e gli obiettivi della medicina preventiva occupazionale.

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PROBLEMATICHE INERENTI I LAVORATORI AD ALTA SCOLARIZZAZIONE CON DISABILITÀ IN REALTÀ ORGANIZZATIVE COMPLESSE

Giuseppe Di Loreto, Gloria Felicioli Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (Inps), Roma

Introduzione

Nell’ambito della sicurezza e salute sul luogo di lavoro l’obbligatorietà, dal 1° gennaio 2011, della valutazione dello stress lavoro-correlato, ha palesato le disarmonie che possono sorgere nelle organizzazioni produttive complesse.

Il vertiginoso passaggio da una società industriale ad una società di servizi sempre più sofisticati, il quadro di crisi economica globale che sta penalizzando soprattutto le piccole e medie imprese e la richiesta di personale sempre più specializzato sono infatti condizioni assai importanti nel determinare possibili significativi livelli di stress tra i lavoratori.

Le forme di lavoro flessibili introdotte in Italia negli ultimi 15 anni hanno per di più creato una vera e propria rivoluzione sociale: da un concetto di lavoratore iperprotetto e dal contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato siamo arrivati ad una precarietà non sostenuta da flexecurity (strategia integrata per la promozione della flessibilità e della sicurezza). Si sta diffondendo sempre più anche una mobilità geografica di lavoratori con alto livello di istruzione.

I giovani italiani si trovano quindi in una situazione mai vissuta dai loro pari requisiti che sono entrati nel mondo del lavoro negli scorsi decenni.

In questo quadro, l’analisi dello stress lavoro-correlato è quindi essenziale per prevenire da una parte situazioni di alterazione dello stato di salute dei lavoratori nella sua globalità e dall’altra una diminuzione della creazione di valore da parte dell’azienda.

Nella valutazione dello stress lavoro-correlato vanno considerati i potenziali fattori di rischio, seguendo delle note metodologiche condivise a livello internazionale e, possibilmente, già messe in atto e collaudate. In Italia, due monografie essenziali sono state pubblicate dall’ex ISPESL; la prima è la proposta metodologica dello stress lavoro-correlato e la seconda tratta l’approccio metodologico ispirato all’HSE britannico (Health Safety Executive).

Questi due lavori fondamentali trattano i vari aspetti inerenti la problematica in maniera approfondita e dettagliata: un’accurata analisi dei testi fa però notare che un argomento assai delicato viene affrontato solamente in maniera accennata. A pagina 13 della proposta metodologica, parlando dello step relativo alla raccolta dati organizzativi si evidenzia come tra le varie informazioni relative all’impresa siano da valutare quelle inerenti la presenza di lavoratori assunti ex L 68/1999. Si noti che non sono citate la precedente legge sul collocamento obbligatorio (n. 482/1968) e quella per il collocamento obbligatorio dei centralinisti non vedenti (n. 113/1985).

A questo accenno viene dato seguito scarso o nullo: eppure la presenza di lavoratori con disabilità, soprattutto di quelli ad alta scolarizzazione e specializzazione, se non ben gestita può essere una delle cause di attrito tra l’organizzazione e i lavoratori, dando luogo tra l’altro a fenomeni ben osservabili.

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onei.

Parallelamente alla rivoluzione del mondo del lavoro delineata in precedenza, nello stesso lasso di tempo, un secondo cambiamento ben meno evidente ha infatti interessato la realtà produttiva italiana: l’entrata in vigore della L 68/1999 che per la prima volta delineava la persona con disabilità come elemento produttivo valido e collocabile in base alle proprie capacità professionali.

Salutata come norma rivoluzionaria, quale del resto è, la L 68/1999 sta però sempre più dimostrando dei limiti dovuti proprio al suo essere stata redatta in un periodo in cui il lavoro dipendente a tempo indeterminato era la forma di contratto più diffusa in Italia; la cosiddetta “quota di riserva” riservata alle categorie protette ha man mano perso consistenza proprio per il mutare delle tipologie di inquadramento della forza lavoro. Altra nota dolente è l’ostracismo dimostrato da alcune associazioni di categoria che hanno visto diminuire la possibilità dei propri iscritti di essere inseriti nel mondo del lavoro1. Per di più, concorsi pubblici riservati alle persone con disabilità non hanno raggiunto un numero di idonei pari ai posti messi a concorso, portando le amministrazioni a dover assumere un numero inferiore a quello preventivato2; i concorsi generici inoltre non riempiono quasi mai la quota di riserva per mancanza di candidati parimenti id

All’entusiasmo generale che si ebbe a cavallo dell’ultimo Anno europeo delle persone con disabilità, il 2003, è peraltro succeduta una fase di riflusso dovuta anche alla carenza di una platea sensibile alle innovazioni tecnologiche introdotte3. Se sul versante teorico sono state intraprese interessanti forme di ricerca scientifica sul rapporto tra ipovisione e mondo del lavoro4, sul piano pratico sono stati infatti ben scarsi i risultati effettivi.

Il mondo della disabilità, per quanto si possa definire come tale un organismo complesso e formato da una moltitudine di situazioni personali e associative a dir poco eterogenee, è quindi uno dei più colpiti dai mutamenti attuali, sia per quanto riguarda i benefici assistenziali sia per quanto riguarda l’avviamento lavorativo degli aventi diritto.

Studi recenti, tra cui va segnalato uno di Veneto Lavoro (Belotti e Gardonio, 2006)5, dimostrano come ad aver più possibilità di inserimento siano le persone con disabilità ad alta scolarizzazione e ad alto livello culturale, ovviamente se le loro capacità professionali

1 La precedente L 482/1968 prevedeva infatti non solo una quota di riserva assai più ampia, ma anche delle

sottoquote riservate alle varie tipologie di categorie protette. Un grosso scontento è stato ad esempio espresso dalle comunità di persone sorde profonde, che più di altre stanno sperimentando un alto tasso di disoccupazione. Un fenomeno simile si sta avendo per le persone cieche e ipovedenti, poiché la politica centrale associativa basata sulla difesa del ruolo professionale di centralinista non vedente ha dovuto affrontare un duro colpo dovuto alla sparizione fisica dei centralini dovuta al progresso tecnologico.

2 Ad esempio, si veda la graduatoria del concorso ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) per collaboratori, posizione economica B1, pubblicato in Gazzetta Ufficiale (n. 29) il 12 aprile 2005. Su 49 posti a concorso ne sono stati coperti 40, come risulta dall’approvazione della graduatoria protocollo n. 0000019/DG del 19 aprile 2007. Simili risultati si hanno per il concorso ACI (Automobile Club d’Italia) pubblicato in Gazzetta Ufficiale, serie speciale concorsi ed esami (n. 16) del 25 febbraio 2005: la graduatoria finale approvata nella seduta del comitato esecutivo del 15 gennaio 2007 ha stabilito che per le sedi di Ferrara, Reggio Emilia, Asti, Biella, Rovigo, Verbano Cusio Ossola, Vicenza e Novara i candidati non avessero raggiunto l’idoneità.

3 Pensiamo solamente alla cosiddetta “Legge Stanca” (L 4/2004, “Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici”). Quando però nel 2007 scoppiò lo scandalo sulla mancata accessibilità del portale Italia.it di promozione turistica, nessuno dei principali siti che si occupavano di disabilità denunciò l’accaduto, cosa che invece fecero vari siti di informatica. A questo proposito interessantissimo è il parere espresso da Carlo Follis in http://scandaloitaliano.wordpress.com/2007/02/28/accessibilita-il-commento-di-un-disabile/ (ultima consultazione 30/5/2012).

4 Si ricordano, tra gli altri, due recenti studi su ipovisione e lavoro, che affrontano le varie problematiche inerenti a questo delicato campo, presentati all’ICOH (International Commission on Occupational Health del 2006 e al congresso INAIL del 2008.

5 In Belotti e Gardonio (2006) si noti soprattutto la Tabella a pagina 11, che evidenzia una maggiore collocabilità degli aventi diritto diplomati e laureati, ma un ridotto numero degli stessi rispetto al totale.

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coincidono con quelle genericamente richieste dal mondo del lavoro. D’altro canto, la popolazione con disabilità laureata o diplomata è assai ridotta, sia in numero assoluto sia in confronto ai pari età normodotati, come ben delineato in un testo dell’ISFOL (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori) dedicato al mondo del lavoro in generale1 . Analizzando le due situazioni, quella del mondo del lavoro in generale e quella più specifica delle persone con disabilità ad alta specializzazione, si può quindi iniziare ad ipotizzare che nei prossimi anni si assisterà ad una serie di complesse problematiche inerenti allo stress lavoro-correlato di questa tipologia di lavoratori. Dopo più di 10 anni dall’entrata in vigore della L 68/1999, infatti, si può supporre che il rapporto di lavoro delle persone con disabilità ad alta scolarizzazione abbia ancora degli aspetti critici sia dalla parte dell’aspettativa del dipendente che da quella dei datori di lavoro. Mentre ormai l’abbattimento delle barriere architettoniche sembra, anche se a fatica, essere entrato nella mentalità comune della sicurezza e salute sul luogo di lavoro, quello delle barriere mentali e culturali da entrambe le parti, è un risultato ancora da raggiungere. Va anche notato che la tematica è alquanto innovativa e che il numero di persone rientranti nella tipologia delineata – persona con disabilità con i requisiti sanitari per il collocamento obbligatorio e titolo di studio elevato (laurea) – sono rare. Molte persone non evidenziano inoltre in un primo tempo il loro disagio per paura di essere penalizzati per il loro stato di salute, sia in maniera diretta (demansionamento) che indiretta (mancanza di sviluppo professionale). Dato che alcuni dei fenomeni di stress lavoro-correlato insorgono inoltre per il ripetersi di situazioni organizzative, gestionali e comportamentali (a volte innestate da un management scarsamente attento) nel corso del periodo medio-lungo, si propongono una serie di problematiche ipotetiche che potrebbero evidenziarsi nel corso dei prossimi anni nella gestione del lavoro delle persone con disabilità, per porre degli spunti di riflessione nella valutazione dello stress lavoro-correlato.

Mancanza di tutela dei dati personali

Sin dal momento dell’assunzione, un’inadeguata gestione della documentazione relativa alla persona con disabilità può creare un forte disagio. La richiesta di documenti eccedenti, non indispensabili e non pertinenti all’instaurazione del rapporto di lavoro (basta il certificato del collocamento mirato, basato sulla diagnosi funzionale) per il neoassunto con disabilità può essere spiacevole, rappresentando una discriminante rispetto agli altri neoassunti normodotati. Tale circostanza si può ripetere all’atto della richiesta di permessi di varia natura connessi allo stato di salute per cui si sono ottenuti i benefici inerenti lo status di invalido civile (congedo per cure), persona in stato di handicap (permessi ex articolo 3, comma 3) o semplicemente di avente diritto al collocamento obbligatorio.

Iperprotezione da parte del management

In un’organizzazione complessa, la persona con disabilità ad alta scolarizzazione può trovarsi ad affrontare fenomeni di iperprotezione da parte di datori di lavoro e dirigenti. Il mancato invio in viaggi di lavoro, ad esempio, per paure ingiustificate da parte del dirigente

1 Pagina 421, tabella 7.19. In particolar modo si confronti il dato dei laureati normodotati e quello delle persone con

disabilità sul totale delle rispettive popolazioni. Il 10,2% della popolazione in età attiva è laureato, mentre il corrispondente relativo alle persone con disabilità è il 3,2%.

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può configurarsi come una discriminazione rispetto ai colleghi normodotati. Il ruolo del medico del lavoro competente è in questo caso fondamentale, anche per l’informazione relativa alla normativa di riferimento. Anche la normativa per la sicurezza e salute sul luogo di lavoro spesso viene applicata in maniera parziale: all’attribuzione di un tutor, figura peraltro prevista in casi ben precisi, potrebbe non essere affiancata un’accurata valutazione dei rischi specifici. Il tutor, in altre parole, deve essere una soluzione di rinforzo, prevista solo nel caso in cui le iniziative propedeutiche di rimozione delle barriere architettoniche non abbiano avuto risultati soddisfacenti.

Unità produttiva con più persone con disabilità o che hanno diritto a benefici ex L 104/1992

La Legge 482/1968, che aveva portato all’assunzione di numerosi lavoratori con disabilità a bassa qualifica, aveva determinato un fenomeno di concentrazione di persone assunte obbligatoriamente per motivi di salute in alcune unità organizzative ben precise (ufficio posta, sala copie, e, considerando anche le leggi per il collocamento obbligatorio dei centralinisti non vedenti, il centralino). Tale consuetudine andrebbe abolita, sia perché non permette la crescita professionale delle persone con disabilità sia perché potrebbe determinare disagi all’intera struttura lavorativa (ad esempio, qualora più persone usufruissero di periodi di congedo nello stesso lasso di tempo). Per di più in tal modo si creano dei settori “di esclusione” dei lavoratori con disabilità dalla quotidianità della gestione organizzativa.

Mancato rispetto dei dettati delle leggi su sicurezza e salute sul luogo di lavoro

Nella mentalità comune, la persona con disabilità è spesso associata a due principali cliché: la persona con disabilità motoria o sensoriale. La stessa tabella dell’invalidità civile, invece, prevede un punteggio valevole per la collocabilità obbligatoria per patologie non inquadrabili nelle precedenti (cardiopatie, malattie autoimmuni, endocrine o respiratorie). Quindi, mentre il problema delle barriere architettoniche viene perlomeno preso in considerazione, la presenza di rischi specifici correlati allo stato di salute del lavoratore è poco noto. Tra le circostanze che maggiormente possono arrecare disagio alla persona con disabilità, è la mancata attribuzione di tecnologie assistite o di workstations ergonomicamente adatte. L’omessa valutazione di questi rischi può portare a gravi disagi per il lavoratore, che vede le sue esigenze sul luogo di lavoro non rispettate.

Mancata possibilità di sviluppi di carriera

All’iperprotezione da parte di datori di lavoro e dirigenti può corrispondere anche una mancata possibilità di sviluppi di carriera: limitare i compiti e la mobilità del lavoratore con disabilità senza ragioni effettive e senza consultare lo stesso può, infatti, limitare le possibilità di carriera. Tale circostanza non prende comunque in considerazioni possibili

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cause che potrebbero rientrare nel campo della discriminazione, con le conseguenze previste dalla legislazione corrente.

Mancato rispetto dell’art. 20 della L 104/1992

Altra situazione potenzialmente problematica, il mancato rispetto della normativa inerente le pari opportunità di concorso o selezione pubblica. Il non poter svolgere le prove d’esame poiché esse non sono state somministrate in maniera accessibile e usabile crea nella persona un evidente disagio, poiché non può dimostrare la propria preparazione. Le stesse prove sono quasi esclusivamente svolte su supporto cartaceo anziché tramite tecnologie informatiche. È noto invece che molti lavoratori con disabilità riescono a superare l’handicap grazie all’ausilio di tecnologie informatiche (videoingranditore, screen reader, ecc.).

La coesistenza di uno o più di questi fattori può far percepire al lavoratore con disabilità come disarmonica la sua presenza all’interno dell’organizzazione lavorativa. Il prolungarsi di tali fenomeni potrebbe quindi rivelarsi fonte di stress, ascrivibile ad un rapporto disagevole tra luogo di lavoro e stato di salute dell’individuo.

Conclusioni

Ignorare o sottostimare le problematiche che possono emergere nei luoghi di lavoro dove sono presenti persone con disabilità, può portare all’accentuarsi di alcuni dei fenomeni classificati come spie di disarmonie sul luogo di lavoro.

La particolare tutela giuridica delle persone con disabilità può portare, infatti, ad un fenomeno di difficile applicazione per tutti gli altri lavoratori: un aumento di assenze giustificate a vario titolo, non rientranti nel periodo di comporto per la malattia, giustificate alla base dal medico di struttura pubblica e non contestabili in alcun modo. Tale fenomeno è nuovo e dovuto, soprattutto nelle pubbliche amministrazioni, alla riorganizzazione del sistema di permessi e congedi che si è avuto negli ultimi 3 anni.

Tale anomalia può essere superata grazie all’impegno di tutti gli attori del sistema sicurezza, compresi i lavoratori, ma soprattutto del management. Solamente con una vera formazione sull’argomento si potranno raggiungere finalmente quei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che rendono un’azienda sicura e che sono tra le finalità perseguite dal DL.vo 81/2008.

Nella tabella seguente (Tabella 1) si riporta la normativa di riferimento.

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Tabella 1. Normativa di riferimento

Tipo di provvedimento Descrizione

L 2 aprile 1968, n. 482 Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private.

L 29 marzo 1985, n. 113

Aggiornamento della disciplina del collocamento al lavoro e del rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti

Legge quadro 5 febbraio 1992, n.104 Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate

DL.vo 19 settembre 1994, n.626 Decreto legislativo in materia di salute e sicurezza sul lavoro (e successive modifiche)

DM del 10 marzo 1998 Criteri generali di sicurezza antincendio e per la gestione dell’emergenza nei luoghi di lavoro”

L 12 marzo 1998, n.68 Norme per il diritto al lavoro dei disabili DM 10 gennaio 2000 Individuazioni di qualifiche equipollenti a quella di

centralinista telefonico non vedente, ai fini dell’applicazione della L 29 marzo 1985, n. 113, ai sensi di quanto esposto dall’articolo 45, comma 12 della L 17 maggio 1999 n. 144

DPR 333 del 2000 Regolamento di esecuzione per l’attuazione della L 12 marzo 1999, n.68, recante norme per il diritto al lavoro dei disabili

Circolare n.4 del 17 gennaio 2000, Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale

Iniziali indicazioni per l’attuazione della L 12 marzo 1998, n. 68, recante: “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”

Circolare I° marzo 2002 n.4 Ministero dell’Interno (in collaborazione con la Consulta nazionale delle persone disabili e delle loro famiglie)

Linee guida per la valutazione della sicurezza antincendio nei luoghi di lavoro ove siano presenti persone disabili”.

L 27 dicembre 2002, n. 289 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2003)

L n.30 del 14 febbraio 2003 Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro (Legge Biagi)

DL.vo 196 del 30 giugno 2003 Codice in materia di protezione dei dati personali DL n. 276 del 10 settembre 2003 Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato

del lavoro, di cui alla L 14 febbraio 2003, n.30 L 24 dicembre 2003, n. 350. Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e

pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2004) L 9 gennaio 2004, n. 4 Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli

strumenti informatici (Legge Stanca) DL.vo 81 del 9 aprile 2008 Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro. Attuazione

dell’articolo 1 della L 3 agosto 2007, n. 123 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

DL.vo 106 del 3 agosto 2009

Disposizioni integrative e correttive del DL.vo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro

Bibliografia di approfondimento

Belotti V e Gardonio G. Disabili e Lavoro. L’impatto della Legge 68/99 in Veneto. Venezia Mestre: I Tartufi (25); 2006.

Di Deriu F e Ercolani D. Le persone con disabilità e il lavoro in ISFOL, PLUS participation labour unemployement survey. Indagine campionaria nazionale sulle caratteristiche e le aspettative degli individui sul lavoro. Soveria Mannelli (CZ): Rubbettino Editore; 2006. Pag. 418-425.

Di Loreto G, Gibilisco S, Corsa A, Felicioli G. Criteri per una corretta collocazione lavorativa del lavoratore con disabilità visiva. In: Atti del Convegno di medicina legale previdenziale INAIL 2008. pag. 311-322. Disponibile all’indirizzo: http://www.inail.it/repository/Content Management/node/P1769158566/riammissione.pdf; ultima consultazione 25/6/2012.

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Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro. La valutazione dello stress lavoro-correlato. Proposta metodologica. Roma: ISPESL; 2010.

Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro. La valutazione e la gestione dello stress lavoro-correlato. Approccio secondo il modello Managment standard HSE contestualizzato alla luce del D. Lgs. 81/2008 e s.m.i. Roma: ISPESL; 2010.

Articoli online consigliati

Carlo Follis. Accessibilità di Italia.it, il commento di un disabile. Articolo pubblicato online il 28 febbraio 2007 nella pagina web Scandaloitaliano di www.italia.it. Disponibile all’indirizzo: http://scandaloitaliano.wordpress.com/2007/02/28/accessibilita-il-commento-di-un-disabile/; ultima consultazione 25/6/2012.

Rubrica online Salute 24 de Il Sole 24 ore. Il telefono non basta più, adesso i ciechi aspettano una legge.

Disponibile all’indirizzo: http://salute24.ilsole24ore.com/articles/12308-il-telefono-non-basta-piu-adesso-i-ciechi-aspettano-una-legge; ultima consultazione 25/6/2012.

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NORMATIVA IN MATERIA DI RISCHI PSICOSOCIALI E SUA GENESI IN RAPPORTO ALLE FIGURE DI DANNO BIOLOGICO E DI DANNO ESISTENZIALE *

Claudio Venturato Camera dei Deputati, Roma

Rischi psicosociali nella normativa

Solo in tempi recenti, praticamente nel primo decennio del corrente secolo, la problematica dei rischi psicosociali ha attinto il livello normativo. Sono infatti entrate in vigore, sia nell’ordinamento comunitario che in quello nazionale, alcune norme, in particolare nel settore ordinamentale della sicurezza lavorativa, che tracciano un primo abbozzo di disciplina del fenomeno, peraltro ben noto da tempo e studiato da più d’una disciplina scientifica.

La normativa che si occupa dei rischi psicosociali, pur presentandosi la loro regolamentazione piuttosto parziale e frammentaria, sarà oggetto dell’ultima parte del presente studio, dedicato, nella sua parte iniziale, a tratteggiare brevemente la genesi della particolare dimensione giuridica che hanno assunto le patologie, e i relativi rischi, di carattere psicosociale.

Considerato che il presente contributo è parte organica di un corso di formazione interamente dedicato all’approfondimento della problematica dei rischi psicosociali nei suoi vari aspetti, si daranno in questa sede per noti la relativa nozione e il dibattito scientifico sugli stessi.

La presa di coscienza e l’interesse del sistema giuridico verso i rischi psicosociali non si sono palesati all’improvviso, al contrario l’adozione di apposite norme ha costituito lo sbocco di un vasto, complesso e anche contraddittorio “lavoro di scavo” che, come spesso è avvenuto, si è dipanato soprattutto a livello giurisprudenziale. Si possono far risalire le origini di questo processo agli anni ’70 del secolo XX, in significativa sintonia con un più ampio e complessivo fenomeno di rinnovamento e di apertura culturale in diversi campi.

È d’uopo notare già in premessa che la giurisprudenza italiana, nell’affrontare la problematica delle patologie psicosociali e nell’elaborarne i primi abbozzi definitori sul piano del diritto, non si è affatto limitata agli spunti offerti in tal senso dalla realtà lavorativa, pur essendo quello il periodo in cui anche l’ordinamento della sicurezza del lavoro – il cui impianto risaliva nella sua parte essenziale, in Italia, ad un ventennio prima – entrava in una nuova fase dinamica, che sarebbe poi sfociata nelle direttive comunitarie e nelle grandi leggi nazionali della fine anni ’80, inizio anni ’90.

Al contrario, è stato nell’ambito del ripensamento sulla portata applicativa e su un inizio di attuazione più ampia di alcuni fondamentali principi costituzionali, come il diritto alla salute –art. 32 della Costituzione (Cost.) –, fino ad allora solo parzialmente operanti, che si è aperto lo spazio necessario affinché il danno alla salute rappresentato dalle patologie definibili come psicosociali trovasse una copertura. Si osserva agevolmente come questa opera della

* Il presente articolo costituisce una rielaborazione delle lezioni tenute presso S3 Opus al corso “Ergon” dal titolo

“Applicazione della normativa in materia di rischi psicosociali” (gennaio 2011) e al corso tenuto all’Istituto Superiore di Sanità “Gestione del personale, qualità della vita di lavoro e stress lavoro-correlato” dal titolo “Rischi psicosociali tra leggi e giurisprudenza” (giugno 2011).

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giurisprudenza si sia estesa all’esplorazione dell’applicabilità del diritto alla salute a ogni sfera della vita civile, non limitandosi, appunto, alla sola sfera lavorativa.

Poiché, come indica la stessa denominazione, le patologie psicosociali sono sempre riconducibili sul piano eziologico a fattori sociali, estrinsecatesi in precisi comportamenti e quindi suscettibili di qualificazione sul piano della loro eventuale colposità, la base su cui la giurisprudenza, pur in assenza (allora) di nuove norme positive, ha creato lo spazio giuridico idoneo a coprire tale fenomeno è stata costituita dalla innovativa declinazione del concetto di “danno ingiusto” di cui all’art. 2043 del Codice civile (cc), con la quale la giurisprudenza ha “forzato” l’interpretazione dell’ordinamento verso un più ampio ed effettivo riconoscimento dei diritti della persona.

Va da ultimo ricordato come, anche relativamente all’argomento in esame, nella fase di piena emersione della problematica al livello normativo, il diritto dell’Unione Europea, nelle sue peculiari forme, abbia preceduto e fortemente stimolato il Legislatore nazionale.

Nuova interpretazione della portata applicativa del diritto alla salute

Come si vedrà meglio nel paragrafo successivo, la leva utilizzata dalla giurisprudenza per assicurare una più adeguata tutela del diritto alla salute è consistita nella profonda revisione del concetto di danno ingiusto, e in particolare di danno non patrimoniale. L’asfittica interpretazione tradizionale del danno non patrimoniale venne messa in crisi, tra l’altro, proprio da una rilettura più attenta, da parte della magistratura, della Costituzione e in particolare, per quel che riguarda il danno alla salute, dei suoi articoli 2, 32 e 41.

Dell’art. 32 assume rilievo, ai fini qui esaminati, in particolare l’attacco del comma primo, che esordisce stabilendo che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività….

Solo la lettura aggiornata operata dalla giurisprudenza negli ultimi decenni è stata in grado di sviluppare le effettive potenzialità di tale, apparentemente chiara, formulazione testuale. In riferimento alla tutela della salute in ambito lavorativo, tale lettura evolutiva ha poi trovato conferma, e ulteriore rafforzamento, alla luce dei limiti posti al principio di libertà dell’iniziativa economica dall’art. 41 Cost., commi primo e secondo: L’iniziativa economica privata è libera. // Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La lettura combinata di tali norme, ormai affermatasi, è quella per cui la Costituzione pone il diritto alla salute come diritto fondamentale dell’individuo (ben al di là del cittadino, quindi), oltre che come interesse della collettività. Alla base dell’opposta interpretazione tradizionale si collocava invece una certa strutturale ambiguità nella formulazione dell’art. 32 tra i due poli del “fondamentale diritto dell’individuo” e dell’ “interesse della collettività”.

Infatti nei primi decenni di applicazione della Costituzione il diritto alla salute era stato visto quasi esclusivamente come un interesse della collettività, quindi in termini meramente programmatici e amministrativistici.

Secondo tale orientamento, meno recente ma la cui eco ancora risuona in alcune sentenze degli ultimi anni, il diritto alla salute si configurerebbe come un mero diritto sociale, riconducibile più propriamente alla categoria dell’interesse legittimo, con tre principali conseguenze: 1) la sua realizzazione passerebbe necessariamente in tal caso attraverso provvedimenti attuativi della Pubblica Amministrazione (carattere meramente programmatico, e non precettivo, della norma), nei cui confronti il cittadino sarebbe titolare solo di una generica

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aspettativa; 2) il diritto alla salute non avrebbe alcuna rilevanza nei rapporti tra privati, ad esempio tra datore di lavoro e lavoratore, se non espressamente riconosciuto da apposite leggi speciali, e nei limiti di queste; 3) esso infine risulterebbe degradabile a seguito di interventi autoritativi da parte dell’amministrazione.

Al contrario, l’indirizzo ormai prevalente, che considera il diritto alla salute come diritto fondamentale della persona, e quindi diritto soggettivo, comporta che lo stesso non sia comprimibile ad opera della Pubblica Amministrazione, sia nei rapporti con la stessa Pubblica Amministrazione, sia nella sua diretta applicazione nei rapporti fra privati.

La rivalutazione del diritto alla salute come pieno ed effettivo diritto soggettivo della persona ha preso piede, a partire dagli anni ’70, soprattutto in sede civilistica ed ha svolto un ruolo fondamentale nel superamento dei tradizionali confini applicativi del sistema costituito dagli artt. 2043 e 2059 cc.

Un esempio, tra molti, è dato dal seguente passaggio di Cassazione (Cass.) 21 marzo 1973, n. 796: il bene della salute è riconosciuto e tutelato dalla Costituzione (art. 32) come diritto fondamentale dell’individuo, oltre che come interesse della collettività. Trattasi di un diritto primario e assoluto, che non può considerarsi condizionato o influenzato – per quanto attiene al suo sorgere e ai mezzi di tutela – da alcun rapporto giuridico….

È proprio con sentenze come quella citata che l’art. 32 Cost. venne “riscoperto”. In precedenza, come si è già ricordato, esso era stato considerato, e circoscritto, in chiave di norma meramente programmatica, anziché direttamente precettiva. Si temeva in particolare che una sua diretta applicazione avrebbe comportato costi insostenibili per la finanza pubblica (le vicende più recenti attinenti quest’ultima non contribuiscono peraltro, col senno di poi, a far considerare del tutto infondato il timore) e costi molto pesanti negli stessi rapporti tra privati, necessariamente investiti in pieno qualora appunto si consideri la norma come precettiva.

Solo l’evoluzione messa in opera dalla giurisprudenza, ispirata alla lettera e allo spirito complessivo della Costituzione, ha potuto determinare il superamento di tale ristretta visione iniziale, rivitalizzando la natura, pertinente al diritto alla salute, di vero e proprio diritto soggettivo, per di più costituzionalmente tutelato.

Anche la Corte costituzionale (C. cost.) ha avallato la tendenza delineata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, sia pure con qualche oscillazione.

Ad esempio C. cost., n. 88/1979, afferma, ripetendo quasi alla lettera la citata sentenza della Corte di Cassazione: “Il bene (afferente alla salute) è tutelato dall’art. 32 Cost. non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dell’individuo, sicché si configura come diritto primario e assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati. Esso è da ricomprendere certamente tra le situazioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione.”.

Ancora, con la sentenza n. 559/1987, la Corte costituzionale affermava che ..... il valore primario assegnato al diritto alla salute (art.32) comporta che la sua tutela debba spiegarsi non solo in ambito pubblicistico - al che si è provveduto con la Legge di riforma sanitaria n. 833 del 1978 - ma anche nei rapporti tra privati, ove la salute rileva come posizione soggettiva autonoma, la cui lesione va risarcita indipendentemente dalle conseguenze incidenti sull’attitudine del soggetto a produrre reddito.

Contrario è invece l’indirizzo seguito in quest’altra sentenza, intermedia tra le due citate, in cui echeggia ancora il preteso carattere solo programmatico dell’art. 32: Il diritto del singolo e l’interesse della collettività alla salute individuale abbisognano, per una effettiva tutela, di interventi appositamente preordinati (C. cost. n. 104/1982).

Ma qual è il contenuto essenziale di questo diritto, per come si è venuto delineando in questo indirizzo giurisprudenziale? Sembra del tutto pacifico che tale contenuto vada rintracciato nella

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salvaguardia dell’integrità psico-fisica dell’individuo, e pertanto in un’entità suscettibile di accertamento, e anche, almeno tendenzialmente, di misurazione sul piano medico-legale.

Tuttavia la predetta definizione costituisce solo il nucleo centrale del concetto di diritto alla salute. La giurisprudenza ha da tempo manifestato una tendenza all’ampliamento della portata della norma costituzionale, includendovi ad esempio il diritto alla salubrità dell’ambiente. La stessa nozione-base, quella di integrità psico-fisica dell’individuo, ha subito un’elaborazione espansiva, fino a ricomprendervi la protezione e lo sviluppo dell’intera personalità dell’individuo. In questo senso il contenuto del diritto alla salute risultante dall’indirizzo interpretativo richiamato, che si può ormai anch’esso considerare consolidato, non si limita più alla sola salute intesa in senso medico-biologico, pur costituendone quest’ultima il nucleo fondativo. Come si vedrà, risiede proprio in questa ampia visione lo spazio di tutela che si è potuto ricavare, nell’ambito di un diritto alla salute dal perimetro dilatato, anche nei confronti dei rischi e delle patologie di tipo psicosociale, trattandosi in questo caso di evenienze meno deterministicamente documentabili sul piano strettamente medico.

Tale più ampia visione poggia anche sul richiamo combinato, oltre che agli artt. 32 e 41, già citati, ad un’altra norma costituzionale chiave, l’art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Un significativo esempio di questo indirizzo interpretativo è fornito, tra molti, da Cassazione Sezioni Unite (Cass. S U) 6 ottobre 1979, n. 5172: La protezione si estende cioè alla vita associata dell’uomo nei luoghi delle varie aggregazioni nelle quali questa si articola, e, in ragione della sua effettività, alla preservazione in quei luoghi, delle condizioni indispensabili o anche soltanto propizie alla salute: essa assume in tal modo un contenuto di socialità e di sicurezza, per cui il diritto alla salute, piuttosto (o oltre) che mero diritto alla vita e alla incolumità fisica, si configura come diritto all’ambiente salubre.

Ai diversi “strati” in cui si articola, nella costruzione giurisprudenziale, il contenuto del diritto alla salute corrispondono, come si vedrà meglio nel paragrafo 3, diverse figure di danno che la stessa giurisprudenza considera risarcibili, pur affermandone con chiarezza la natura di danni non patrimoniali.

È significativo osservare, a conclusione del sommario quadro dell’evoluzione del concetto di “diritto alla salute” nell’ordinamento italiano, come, in un processo coevo alla ricordata linea evolutiva giurisprudenziale, anche l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) elaborasse e adottasse una propria nozione di salute, in sostanza convergente con quella di matrice giurisprudenziale sopra ricostruita. Tale nozione, tuttora in uso, considera infatti la salute dell’uomo come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solo l’assenza di malattia o infermità.

Superamento dei limiti del concetto di danno non patrimoniale

La profonda revisione del concetto di diritto alla salute sul piano più propriamente costituzionale aveva preso le mosse dall’esigenza di operare una sostanziale apertura nel sistema tradizionale di risarcimento del danno, esigenza sempre più fortemente sentita in relazione ai ristretti limiti e ai profili di iniquità insiti in tale sistema.

Questo processo di apertura si è estrinsecato in particolare nella creazione, tutta di matrice giurisprudenziale, delle figure del danno biologico e del danno esistenziale. Sono proprio queste

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le figure giuridiche che si sono prestate, tra l’altro, a fungere da veicolo per fornire un primo rimedio, di natura risarcitoria, agli eventi dannosi di tipo psicosociale che si verificano tanto nei rapporti di lavoro quanto al di fuori di essi, articolandone anche un abbozzo di classificazione, riferita quest’ultima però soprattutto ai rapporti di lavoro (nozioni giuridiche di mobbing, stress lavoro-correlato, ecc.).

È noto che il diritto al risarcimento del danno si fonda, nel cc del 1942, sull’art. 2043 “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”, da sempre letto in connessione con l’art. 2059 “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

La lettura coordinata delle due norme aveva dato luogo, in una prima fase, durata ben oltre gli anni ’70 del secolo XX, alla restrizione della piena risarcibilità ai soli danni patrimoniali, ai quali soltanto si riteneva si riferisse l’art. 2043 cc A questo ferreo limite sfuggiva in quel periodo soltanto il cosiddetto “danno morale”, unica figura di danno risarcibile a cui veniva ricondotto il contenuto dell’art. 2059 cc

Il danno morale peraltro veniva riscontrato dal giudice solo qualora il soggetto agente avesse causato il danno commettendo un reato, costruzione quest’ultima suggerita dalla presenza nell’ordinamento dell’art. 185, secondo comma, del codice penale, in base al quale ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.

Entro lo stretto perimetro interpretativo del sistema del danno risarcibile, così edificato, i danni alla salute potevano solo occasionalmente trovare un parziale e limitato ristoro, a condizione però che la vittima vedesse riconosciuta la dipendenza del danno subito da un reato, e inoltre che potesse provare la riconducibilità del danno ai moduli definitori del danno morale, cioè essenzialmente a un “patema d’animo” di natura transeunte, con esclusione di ogni danno avente carattere permanente, cioè proprio dei più gravi.

Questa costruzione sul piano civilistico faceva da perfetto pendant al sostanziale svuotamento, già sopra illustrato, del diritto alla salute sul piano costituzionalistico.

I limiti alla risarcibilità del danno alla salute non operavano affatto, invece, se si poteva provare che da tale danno erano derivate alla vittima conseguenze di carattere patrimoniale. In tal caso tornavano ad essere applicabili l’art. 2043 e la piena risarcibilità al medesimo collegata.

Nell’interpretazione tradizionale, dunque, si dava luogo ad una potente discriminazione tra soggetti titolari di una “capacità patrimoniale”, in particolare soggetti percettori di reddito (da qui il costrutto del danno emergente e del lucro cessante, in cui veniva, e viene, articolata la nozione generica di danno patrimoniale) e soggetti privi di un reddito, cioè proprio quelli più deboli, si pensi ai disoccupati, ai disabili, alle casalinghe, non in grado, se vittime di un danno alla loro salute, di dimostrarne conseguenze di carattere monetario, le uniche risarcibili. Solo se il fatto dannoso costituiva un reato era possibile per tali soggetti richiedere il risarcimento del danno morale, mai però tale da coprire gli eventuali postumi permanentemente invalidanti. Nessun risarcimento era previsto per la sopravvenuta incapacità del soggetto, percettore di reddito o meno, di esercitare le più svariate attività realizzatrici della persona umana diverse dal lavoro produttivo di reddito.

La “forzatura” della descritta gabbia interpretativa da parte della magistratura ha potuto prendere piede a partire da alcune specifiche caratteristiche delle norme coinvolte, segnatamente dell’art. 2043 cc, e da alcune caratteristiche generali del sistema istituito dal cc.

In particolare l’art. 2043, che costituisce il fondamento del diritto al risarcimento del danno, non menziona affatto la patrimonialità del danno come presupposto per la sua risarcibilità, ma solo l’”ingiustizia” del danno medesimo, cioè la sua contrarietà a norme positive o a principi vigenti nell’ordinamento giuridico. Il principio espresso in questa norma è quello, generalissimo, del neminem laedere e la sua applicazione ruota attorno alla dimostrazione della

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oggettiva ingiustizia della lesione, oltre che del nesso causale e della soggettiva colposità del comportamento dell’agente.

La determinazione dell’ingiustizia dello specifico danno, cioè che esso sia stato arrecato ad un bene protetto dall’ordinamento e che l’atto sia stato commesso con colpa, è rimessa al giudice. Questi, quando al caso in esame non risulta applicabile una norma particolare, agisce in base ai principi generali. Ogni caso implica quindi un’operazione interpretativa, di più o meno ampia portata.

Inoltre – e questo passaggio ha esercitato una particolare influenza nei confronti della problematica psicosociale – a differenza di ciò che accade in altri ordinamenti, nell’ordinamento italiano non sono predeterminate le categorie dei fatti illeciti che possono dar luogo a risarcimento. Il cc del 1942 ha scelto un modello basato sulla non tipizzazione degli illeciti civili. Ciò che il danneggiato deve dimostrare è, oltre al nesso causale tra l’atto e il danno subito, solo la colpa dell’agente, non che il fatto compiuto corrisponda ad una categoria fattuale predeterminata.

La configurazione del diritto alla salute come diritto soggettivo ha costituito il varco attraverso cui la giurisprudenza civilistica ha stabilito, in via interpretativa, la risarcibilità del danno arrecato alla salute come conseguenza di atti compiuti in violazione di tale diritto. Essa infatti iniziava proprio in quel periodo ad allargare le maglie interpretative dell’art. 2043 cc, e lo faceva soprattutto alla luce della nuova lettura del complesso costituito dagli artt. 2, 32, primo comma e 41, primo e secondo comma, della Costituzione. La forma specifica di questo processo fu l’elaborazione di diverse nuove figure di danno non patrimoniale, tra cui assunse ben presto un ruolo preminente il danno biologico.

A partire dalla metà degli anni ’70 la figura di danno non patrimoniale che ha incontrato il più ampio consenso presso la dottrina e la giurisprudenza sembra infatti essere stata proprio quella del danno biologico, e il motivo sembra risiedere essenzialmente nell’idoneità manifestata da questa figura a fungere da contenitore per i danni di vario tipo, che possono essere apportati al bene salute.

Nella nozione di danno biologico diversi interessi della persona umana hanno potuto trovare finalmente una tutela in precedenza sconosciuta, in relazione alla sua estensione a tutta la sfera denominata dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 184/1986, come “psico-fisica”, o anche “fisiopsichica”, o ancora “biopsichica”. La terminologia utilizzata dalla Corte, e ampiamente filtrata nella giurisdizione di merito e di legittimità, denota chiaramente l’affacciarsi anche della sfera psichica nel concetto di salute assunto come diritto soggettivo. Tuttavia sarà solo con l’avvento del danno esistenziale che il contenuto del danno biologico supererà definitivamente i limiti connessi agli aspetti medico-legali della nozione di salute, riconducendo a risarcibilità tutte le conseguenze dell’evento dannoso sulla vita relazionale del danneggiato, intesa in senso ampio. Un articolato dibattito ha poi interessato il profilo dei criteri utilizzabili per la determinazione del risarcimento conseguente al riconoscimento del danno alla salute, interagendo con la progressiva delineazione dei contorni delle nozioni di danno biologico e di danno esistenziale. L’intuizione originaria che ha condotto alla prima elaborazione del concetto di danno biologico è da ascrivere alla giurisprudenza genovese. Questa, con la sentenza del Tribunale (Trib.) di Genova del 25 maggio 1974, affermava: Nell’ipotesi di lesioni fisiche della persona, per la determinazione del danno risarcibile occorre considerare due distinti profili: da un lato, il pregiudizio di ordine patrimoniale subito dal danneggiato in conseguenza delle lesioni (da accertarsi nella sua concreta effettività, e non già tramite un astratto riferimento al reddito percepito dal soggetto leso, sulla base del sistema tabellare correttamente impiegato nella prassi); dall’altro – e cumulativamente – il pregiudizio non patrimoniale consistente nel “danno biologico”, e cioè nella lesione dell’integrità fisica in sé e per sé considerata (il cui risarcimento deve variare solo con il variare dell’età del danneggiato, restando invece affatto

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indipendente dal livello dei redditi di questo. Seguì a tale sentenza una complessa evoluzione, incentrata principalmente sulla individuazione di idonei criteri (tabellari o equitativi o misti) per la determinazione del risarcimento (criterio pisano, criterio milanese), che si è però svolta mantenendo fermo il punto di partenza, e cioè la chiara affermazione della possibilità di ricondurre all’ambito applicativo dell’art. 2043 anche danni dichiaratamente non patrimoniali, come il danno alla salute, superando le strettoie interpretative dell’art. 2059.

Emblematica di questo indirizzo, esteso a tutti gli ambiti della vita civile e non circoscritto all’ambiente lavorativo, è Cass. 11 febbraio 1985, n. 1130, laddove afferma: Poiché qualsiasi menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, sotto il profilo strettamente civilistico, costituisce un danno ingiusto, qualora sia la conseguenza di un fatto illecito, non può seriamente contestarsi che, ai sensi dell’art. 2043 cc – la cui portata è ampia e omnicomprensiva – il soggetto responsabile è tenuto al risarcimento in ogni caso, essendo illogico e arbitrario escludere la sussistenza del danno nelle ipotesi in cui il danneggiato non abbia ancora, o abbia perduto, o non abbia mai avuto, l’attitudine a svolgere un’attività produttiva di reddito. Anche il danno ingiustamente cagionato all’integrità psico-fisica di un neonato, di un infante, di uno studente, di una casalinga, di un pensionato, di un recluso, di una persona ricoverata, di una persona incapace, di una persona inabile al lavoro, e così via, deve essere risarcito perché dal punto di vista biologico costituisce una menomazione dell’integrità psico-fisica del soggetto.

E non può revocarsi in dubbio che il danno ora indicato è un danno di natura patrimoniale perché colpisce un valore essenziale che fa parte integrante del patrimonio del soggetto, cioè di quel complesso di beni di sua esclusiva e diretta pertinenza. In definitiva, però, deve riconoscersi che per la liquidazione del danno biologico l’unico criterio valido è quello equitativo di cui agli artt. 2056 e 1226 cc, in base al quale devono essere valutate tutte le circostanze specifiche, oggettive e soggettive, del caso concreto.

Si noti come, pur nell’adesione alla nuova corrente interpretativa, ancora sussista in questa sentenza un certo margine di equivoco circa la risarcibilità dei soli danni patrimoniali, ai quali viene ascritto, in maniera alquanto acrobatica, anche il danno biologico. Di percorrere il tratto mancante si farà carico soprattutto la giurisprudenza costituzionale, la cui più nota sentenza in materia è probabilmente la già citata sentenza n. 184 del 1986, che rispondeva ad un quesito sulla costituzionalità dell’art. 2059 cc

Con tale sentenza, la Corte subordina il riconoscimento della legittimità costituzionale dell’art. 2059 cc alla condizione che si attribuisca all’art. 2043 cc una tale ampiezza interpretativa e applicativa da coprire anche tutte le ipotesi di danno non patrimoniale – in particolare il danno alla salute – per tutta la parte non coperta dall’art. 2059 cc In questo modo viene evidentemente legittimata anche sul piano costituzionale tutta l’evoluzione della giurisprudenza di merito e di legittimità che si era già verificata, e ancor più si sarebbe verificata in seguito.

Afferma infatti la Corte costituzionale: Tuttavia, vale distinguere, anche in diritto privato (specie a seguito di diritti, inviolabili costituzionalmente, validi anche nei rapporti tra privati) l’evento materiale, naturalistico, che, pur essendo conseguenza del comportamento, è momento od aspetto costitutivo del fatto, dalle conseguenze dannose, in senso proprio, di quest’ultimo, legate all’intero fatto illecito (e quindi anche all’evento) da un ulteriore nesso di causalità.….Il danno biologico costituisce l’evento del fatto lesivo della salute mentre il danno morale subiettivo (ed il danno patrimoniale) appartengono alla categoria del danno – conseguenza in senso stretto. E altrove, nella medesima sentenza: qualsiasi lesione che viola l’integrità psico-fisica dell’individuo determina il danno cosiddetto biologico o alla salute.

Con questa sentenza, e con la sua distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza, il danno biologico, come unica figura di danno-evento, assume quel rilievo particolare cui si

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accennava, tra le varie figure di danno non patrimoniale che, con un ritmo piuttosto tumultuoso, si stavano ormai affacciando nella giurisprudenza civilistica. La Corte arriva a codificare tendenzialmente queste varie figure di danno come sovrastrutture del danno biologico; solo l’accertamento di quest’ultimo potrà di volta in volta aprire la strada alla verifica della sussistenza di una o più delle figure di danno-conseguenza, come il danno estetico, il danno alla vita di relazione, il danno edonistico, il danno da lutto (tanatologico), il danno da demansionamento, il danno alla serenità familiare, il danno da stress, il danno da mobbing (e la lista non è completa).

In quest’ambito le due figure più tipiche della problematica psicosociale - il danno da stress in molteplici ambiti della vita sia civile che lavorativa, e il danno da mobbing in ambito lavorativo – costituiscono particolari specificazioni del danno biologico emergenti nella giurisprudenza. Questa, sulla scorta della citata sentenza di costituzionalità, che aveva definitivamente asseverato l’ipotesi di un più generico “danno psichico”, si attiva per delinearne meglio i contorni, intrinsecamente piuttosto sfuggenti, e in particolare a differenziarlo da quel danno morale che, come si è visto, costituiva il contenuto tradizionale dell’art. 2059 cc.

Più di recente è sorta, e sta rafforzandosi, una tendenza ad ascrivere ambedue le figure di danno psichico (danno da stress e danno da mobbing), in funzione delle concrete circostanze, ad una ulteriore categoria di danno, il danno esistenziale, che a sua volta sta ormai assumendo il carattere di figura di riferimento per la categoria dei danni-evento.

Il danno esistenziale costituisce (per ora) l’evoluzione più recente del processo delineato e tende a coprire residualmente gli spazi che le altre e più specifiche figure di danno non riescono a coprire. Esso riguarda la sfera relazionale dell’individuo in senso ampio e onnicomprensivo. Pertanto ha trovato applicazione in ambiti estremamente disparati, dalla serenità familiare all’immissione di rumore ambientale, dalle conseguenze del morso di un cane alla vacanza rovinata, dalla sfera sessuale al demansionamento in ambito lavorativo, dal licenziamento alle molestie.

Va in conclusione osservato che il descritto processo di creazione di figure di danno non patrimoniale risarcibile risulta ancora notevolmente dinamico e lontano dal potersi considerare concluso.

Casi giurisprudenziali relativi allo stress e al mobbing

Si riportano in questo paragrafo alcune significative formulazioni contenute in varie sentenze, che si sono occupate di casi relativi sia ad ambiti extralavorativi che lavorativi, atte ad esemplificare alcuni snodi del processo descritto nel paragrafo precedente, particolarmente rilevanti per la problematica psicosociale.

La nozione di stress che ha influenzato la giurisprudenza degli ultimi anni è derivata da un vasto campo di elaborazioni scientifiche, che va dalle scienze psicologiche e antropologiche alla medicina legale.

Tale nozione riguarda le reazioni emozionali, spesso di notevole intensità, a stimoli esterni che mettono in moto risposte fisiologiche e psicologiche di natura adattiva. Tali risposte possono manifestare limiti e deficit. In certi casi gli stimoli esterni all’origine dello stress possono essere protratti nel tempo, in altri sono le conseguenze biologiche e psicologiche dell’esposizione istantanea ad un trauma a risultare protratte nel tempo (disturbo post traumatico da stress). Ciò che più conta è però la piena riconduzione di questo fenomeno, la cui esperienza risulta quanto mai diffusa e presente, almeno in certe fasi, nella vita individuale di ciascuno, alla nozione di salute, come conclamato deficit di salute.

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Allorché lo stress deriva dall’intervento illecito di terzi ovvero di istituzioni, ha quindi natura psico-sociale, la sua qualificazione come danno (ingiusto) alla salute ne consente allora la risarcibilità. Lo spazio risarcitorio conquistato negli ultimi anni dai fenomeni, come lo stress e il mobbing, riconducibili alla sfera degli eventi psico-sociali si inserisce quindi nella vicenda della risarcibilità del danno alla salute, anche in conseguenza dei confini non troppo definiti sul piano giuridico di queste figure.

Soprattutto mancano tuttora precise definizioni legislative sia dello stress che del mobbing. In questo senso lo stress, in particolare, può conseguire ad una illimitata varietà di eventi e vicende della vita, sia lavorativa che non lavorativa. La giurisprudenza si è trovata di fronte all’incombenza di cercare di delineare i tratti salienti e i limiti della nuova figura risarcitoria.

Questa, pur essendo sempre considerata come specificazione del generico danno alla salute, oscilla però tra le qualificazioni di danno biologico e di danno esistenziale, che si presentano nelle sentenze in modo piuttosto promiscuo.

Un primo caso che si cita, rappresentativo della nozione di stress in ambito familiare, è costituito da Tribunale di Monza, 15 gennaio 2007. In questa causa la madre aveva citato il padre naturale chiedendo il risarcimento, oltre che dei danni patrimoniali per il mantenimento del figlio, anche del danno non patrimoniale da stress per aver dovuto allevare il figlio da sola, affrontando la riprovazione sociale della sua situazione. Il Trib. di Monza non giudicò sufficientemente provato quest’ultimo profilo di danno, ma ne ammise in linea di principio la possibile ricorrenza:

Osserva, tuttavia, il Tribunale che l’accoglimento di una simile pretesa avrebbe presupposto comunque la sussistenza della prova – anche solo per elementi indiziari – dei fatti addotti, peraltro assai vagamente, dall’attrice, e cioè lo stress da “abbandono”, la sensazione di essere oggetto di valutazioni negative da parte della società (a causa dello stato di madre naturale), la sofferenza per il rifiuto del padre naturale di riconoscere il proprio figlio. Per contro, nessuno di tali elementi è stato oggetto del benché minimo tentativo di prova …..

Un caso di stress “parentale”, conseguente al decesso di un congiunto in un incidente stradale, è oggetto di una sentenza del Trib. Mantova del 19 giugno 2004, che così si esprime: Va premesso che la Corte di Cassazione, con le note pronunce del 31 maggio 2003 nn. 8827 e 8828, ha introdotto un sistema bipolare nella tutela risarcitoria della persona, distinguendo l’ambito del danno patrimoniale, soggetto alle ordinarie regole di cui all’art. 2043 cc, dal danno non patrimoniale disciplinato dall’art. 2059 cc, nel quale confluiscono il danno biologico in senso stretto, il danno morale tradizionale e tutti quei pregiudizi alla persona di rilevanza costituzionale, non suscettibili di valutazione economica (danno esistenziale).

Su queste premesse il Tribunale di Mantova escludeva la risarcibilità del danno patrimoniale consistente nel mancato futuro apporto del figlio deceduto al sostentamento della famiglia e anche di quello consistente nella successiva interruzione dell’attività lavorativa da parte del padre, nonché del danno biologico da invalidità temporanea dello stesso figlio, deceduto dopo un solo giorno dall’incidente. Al contrario, secondo il Tribunale I prossimi congiunti possono dedurre un loro danno biologico proprio, allorquando l’evento delittuoso abbia scatenato una malattia nel soggetto richiedente (si pensi alla complessa problematica della malattie di matrice psichica, nevrosi, depressioni ecc.) capace di arrecare menomazioni all’integrità psicofisica del soggetto, posto che nella nozione di danno biologico rientrano tutte le figure di danno non reddituale.

In particolare, con riguardo alla posizione della madre, il dott. G.G. accertava che la periziata non aveva elaborato il lutto per la prematura scomparsa del figlio, di talché erano rimasti disturbi di natura psichica consistiti nel tono triste dell’umore, nella tendenza al pianto, in uno stato di tensione associato a momenti di angoscia nell’affrontare i temi legati all’evento luttuoso; il consulente aggiungeva che il processo di reazione al lutto era fallito e quindi era

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insorta una patologia inquadrabile quale “disturbo post traumatico da stress” associato a segni clinici di patologia depressiva. Su tali basi veniva riconosciuto dal Tribunale alla madre il diritto al risarcimento di questo tipo di danno.

Un caso di danno da stress per immissioni elettromagnetiche è riconosciuto dal Trib. Brindisi in una sentenza del 17 agosto 2004. Il caso riguardava l’installazione di un impianto di telefonia mobile sopra un edificio abitativo in una città della provincia e verteva su un provvedimento cautelare di sospensione dell’installazione in attesa del giudizio di merito.

Il Tribunale accoglie il reclamo e ordina di non installare e di non attivare l’impianto. Tra le motivazioni della sentenza si legge: “Ne discende che, in presenza di un pericolo

anche solo potenziale per la salute umana, il principio di precauzione deve comportare una anticipazione della tutela, volta a prevenire l’insorgenza di possibili patologie a breve o a lungo termine, e deve altresì evitare l’insorgenza di diffusi stati di ansia e di stress emotivo per coloro che abitano o vivono in prossimità di una sorgente che emetta onde elettromagnetiche ad alta frequenza (è noto, del resto, che la salute umana non si identifica con la sola assenza di malattie, ma con uno stato di benessere fisico, psichico e mentale).”

Un caso di danno esistenziale, con un apprezzabile sforzo definitorio della fattispecie, è rappresentato dalla sentenza Trib. Locri del 6 ottobre 2000, n. 462: …Le possibili voci riconducibili a simili categorie sono decisamente ampie, e si incentrano nella lesione della sfera ontologico-esistenziale, senza interessare aspetti medico-legali, pur se talune figure possono presentare una duplice valenza … pertanto, e con un’elencazione non esaustiva, sono riconducibili a manifestazioni di “mobbing”, trasmissione di malattie, discriminazioni razziali, sessuali o religiose, uccisione di animali significativi per l’individuo, sequestro di persona, costrizione alla prostituzione, violazione del diritto alla riservatezza, induzione o agevolazione del consumo di droga, abusi sessuali, furto o danneggiamento di oggetti particolarmente cari, plagio da parte di sette o santoni, molestie sul lavoro, ingiustizie e vessazioni in ambito scolastico/universitario, abbandono di persone incapaci, ecc.

Parallelamente a questa estensione della tutela da lesioni di tipo psicosociale ai più diversi ambiti della vita civile, le medesime nozioni di stress e di mobbing si affermano anche nella giurisprudenza relativa agli ambiti lavorativi. Tutte le sfaccettature del diritto alla salute, che hanno dato luogo alla fioritura di figure di danno non patrimoniale fin qui riassunte, riguardano infatti qualsiasi persona fisica presente nell’ordinamento giuridico, indipendentemente dalla sua attività e, in particolare, dalla sua qualificabilità come lavoratore/lavoratrice.

In ambito lavoristico, l’elaborazione intervenuta in sede civilistica sul diritto alla salute è penetrata con alcuni anni di ritardo. Motivo principale di tale ritardo è stata probabilmente la presenza di una copertura assicurativa obbligatoria degli infortuni e delle malattie professionali. Tale copertura in quel periodo non si estendeva alle molteplici caratteristiche del danno alla salute, e in particolare non copriva i danni riferibili alla sfera dei rischi psicosociali.

In parallelo a quella civilistica generale, anche se un po’ sfalsata nei tempi, si è dunque verificata un’evoluzione giurisprudenziale che ha creato uno spazio risarcitorio specifico per il diritto alla salute dei lavoratori.

Tale spazio risarcitorio ha fatto leva sull’esistenza di una norma speciale, che tutela specificamente la salute (oltre che la sicurezza) dei lavoratori, l’art. 2087 cc. Esso è del seguente tenore: L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

L’art. 2087 cc è una norma fondamentale, organicamente inserita nella disciplina legale del contratto di lavoro. Esso perciò inserisce nel contratto di lavoro, indipendentemente da qualsiasi menzione espressa, una clausola che obbliga il datore di lavoro ad adottare una serie di misure nell’ambiente fisico e in quello organizzativo in cui viene inserito il lavoratore.

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L’inadempimento genera quindi una responsabilità contrattuale del datore di lavoro verso il lavoratore.

Il dovere di protezione del lavoratore risponde all’esigenza che il contratto di lavoro non esponga il lavoratore, parte debole del rapporto contrattuale e in genere obbligato a prestare il lavoro, ad una lesione di beni fondamentali pertinenti alla persona in quanto tale, e cioè l’integrità fisica e la personalità morale, espressione quest’ultima a cui si è ricondotta anche la tutela degli aspetti psichici della salute del lavoratore. Si rintracciano già, come si vede, in nuce in questa antica norma quelli che saranno i tratti essenziali del danno biologico e del danno esistenziale, come saranno costruiti decenni più tardi in sede giurisprudenziale.

Mentre dunque la responsabilità derivante dall’art. 2043 cc è di natura extracontrattuale, è opinione prevalente che quella derivante dall’art. 2087 cc sia di natura contrattuale.

Ai fini della sussistenza di quest’ultima occorre dimostrare, oltre all’esistenza di un rapporto contrattuale, l’inadempimento ad una o più obbligazioni derivanti dal contratto, il danno, il rapporto di causalità tra inadempimento e danno (art. 1218 cc: Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile).

Viceversa, nel caso della responsabilità extracontrattuale, non rileva il rapporto obbligatorio (contratto di lavoro), che non è pertanto da dimostrare, mentre occorre invece dimostrare la colposità del comportamento del danneggiante.

Questa duplice natura della responsabilità del datore di lavoro per i danni arrecati alla salute del lavoratore è la base su cui si fonda una peculiarità della tutela del diritto alla salute nell’ambito del rapporto di lavoro. A differenza di quanto accade nell’ordinaria sede civilistica, il lavoratore ha a disposizione due diverse opzioni di tutela, con diverse implicazioni circa la prescrizione della relativa azione processuale.

Mentre infatti il diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, è ovviamente imprescrittibile, non così accade per l’azione risarcitoria del relativo danno.

Il lavoratore che ha subito un danno alla salute ha a disposizione ambedue i tipi di azione risarcitoria, ex artt. 2043 e 2059 (responsabilità extracontrattuale) ed ex art. 2087 (responsabilità contrattuale).

La responsabilità contrattuale: a) si prescrive in dieci anni; b) esime il lavoratore dal dimostrare la colpa del danneggiante; c) rende applicabile lo speciale rito del lavoro. Però rende risarcibili solo i danni prevedibili al momento della stipula del contratto, a meno che il fatto dannoso non costituisca reato. Viceversa, la responsabilità. extracontrattuale ex art. 2043 si prescrive in soli cinque anni, ma rende risarcibili anche danni non patrimoniali diversi da reati, ed eventualmente diversi dallo stesso danno alla salute.

Fatte queste premesse, si può esaminare più da vicino qualche caso significativo di tutela giudiziale del diritto alla salute in ambito lavorativo, con particolare focalizzazione su casi riconducibili alla problematica psicosociale.

Nell’interpretazione data dalla giurisprudenza, l’obbligo del datore di lavoro non si limita ad un ruolo attivo, come potrebbe apparire dal tenore letterale dell’art. 2087 cc, ma include l’obbligo ad astenersi da comportamenti il cui effetto possa essere quello di arrecare pregiudizio ai beni tutelati, l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. Perciò, in particolare, da quei comportamenti commissivi od omissivi da cui può trarre origine un rischio (o addirittura un danno) di natura psicosociale.

Un esempio è dato da Cass. 17 luglio 1995, n. 7768: dall’art. 2087 cc deve essere immediatamente ricavato un dato letterale essenziale, consistente nell’espressa previsione dell’obbligo del datore di lavoro di “tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. E poiché tale obbligo (di indubbia natura contrattuale) può essere violato

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da un comportamento sia commissivo che omissivo, è certo che sul datore di lavoro incombe il dovere di adottare tutte le misure che sono atte a conservare i suddetti diritti dei lavoratori, ma anche ad astenersi da quei comportamenti che possono far sorgere o favorire la lesione dei medesimi diritti ….

Numerose sono state le applicazioni di tale principio significative sul piano psicosociale. Se ne riporta di seguito qualche esempio.

In un caso di infarto cardiaco subito da un lavoratore, Cass. 1 settembre 1997, n. 8267 si pronuncia in questo modo: Va risarcito, secondo le regole della responsabilità contrattuale, il danno alla salute derivante al lavoratore dal mancato adeguamento dell’organico che abbia determinato un eccessivo impegno di lavoro, ovvero dal mancato impedimento di un superlavoro eccedente, secondo regole di esperienza, la normale tollerabilità, e ciò anche quando tale eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore.

E prosegue: L’attività di collaborazione cui l’imprenditore è tenuto nei confronti dei lavoratori a norma dell’art. 2087 cc si estende all’adozione di tutte le misure che si rivelino idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore. Ne consegue che anche il mancato adeguamento dell’organico aziendale, se determinante un eccessivo carico di lavoro, e il mancato impedimento di un superlavoro eccedente la normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore, costituisce violazione degli artt. 41, 2° comma, Cost. e 2087 cc.

Sempre in tema di stress lavoro-correlato derivante da superlavoro, si colloca Cass. 5-2-2000, n. 1307, secondo cui: L’accettazione da parte del lavoratore di un lavoro straordinario continuativo, ancorché contenuto nel c.d. “monte ore contrattuale massimo”, o la rinuncia ad un periodo feriale effettivamente rigenerativo dell’impegno lavorativo non possono esimere il datore di lavoro dall’adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore, comprese quelle intese ad evitare eccessività di impegno da parte di un soggetto che è in condizioni di subordinazione socioeconomica.

Al polo opposto, ma paradossalmente convergente, ecco un caso di stress lavoro-correlato derivante da inattività forzata imposta al lavoratore. Il caso riguarda un lavoratore dipendente che in giudizio (Trib. Civitavecchia, 8-7-2004) ha fornito la prova che a seguito della sua prolungata inattività e del comportamento posto in essere dalla società datrice nei suoi confronti, ha subito un danno psicofisico qualificato dal consulente come “sindrome ansioso depressiva” e “disturbo post traumatico da stress cronico di livello marcato” con una conseguente invalidità permanente pari al 25% … la patologia contratta dal … non è qualificabile, ai sensi dell’art. 13 del predetto decreto, come malattia professionale stricto sensu, atteso che la stessa non è derivata dall’espletamento dell’attività lavorativa del ricorrente ma da una condotta illecita posta in essere dal datore di lavoro.

Dopo questa sommaria casistica riferita al danno da stress, ora si riporta qualche esempio significativo relativo alla problematica del mobbing. Anche il danno da mobbing, come il danno da stress, è concepito infatti come danno alla salute.

Oltre agli aspetti di rilevanza penale, anch’esso trova pertanto un suo spazio risarcitorio nel collegamento tra art. 2043 (e art. 2087, trattandosi di lavoratori) cc e norme costituzionali. In questo caso viene in rilievo, oltre all’art. 32, anche l’art. 41, secondo comma, Cost., già sopra ricordato.

Un interessante caso di preteso mobbing, sebbene non confermato dal giudice e anzi proprio per questo, è rappresentato da Trib. Udine, 17 ottobre 2006, riferito all’abitudine di un datore di lavoro di sfogare sulle dipendenti la sua frustrazione per l’andamento non positivo dell’impresa: “Va precisato come nel caso in esame non sia a parlarsi propriamente di mobbing aziendale, il quale ricorre nell’ipotesi in cui il lavoratore sia sottoposto a vessazioni, umiliazioni e indebite pressioni psicologiche continuative dirette a costringerlo ad abbandonare il posto di lavoro o ad accettare trasferimenti o demansionamenti; nella fattispecie il … intendeva invece, quantomeno

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in via prevalente, ottenere il diverso risultato di incrementare l’efficienza delle dipendenti, sfogando il proprio disappunto quando costoro non pervenivano ai risultati da lui auspicati.”

In un altro caso il giudice pone a base della sentenza una distinzione tra straining e mobbing, dimostrando un notevole sforzo di aggiornamento scientifico (Trib. Bergamo, 21 aprile 2005): Pertanto, mentre il “mobbing” si caratterizza per una serie di condotte ostili, continue e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso di un demansionamento). Lo “straining” è stato quindi definito come una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata da una durata costante ….

Si riporta ancora un passo significativo di Cass. 6 marzo 2006, n. 4774: Il mobbing si realizza con una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 cc; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato.

Sempre in tema di mobbing, degna di nota anche Cass. Sezione lavoro, 20 marzo 2009, n. 6907, che ha condannato al risarcimento dei danni un’azienda milanese, una cui dirigente aveva vessato per anni una dipendente con continui rimproveri orali adottati con toni pesanti e davanti agli altri colleghi.

Rischi psicosociali nella normativa

L’evoluzione della giurisprudenza fin qui ricostruita ha di fatto preparato il terreno per una prima regolamentazione normativa del fenomeno dei rischi psicosociali. Come già accennato, questo sviluppo è del tutto recente, ha infatti assunto una certa consistenza solo nell’ultimo decennio. L’evoluzione della giurisprudenza italiana ricostruita nei precedenti paragrafi costituiva comunque un chiaro segnale di una sensibilità diffusa e ormai matura, che postulava uno sbocco sul piano normativo. Quest’ultimo ha finora manifestato due caratteristiche salienti.

La prima consiste nel fatto che, presentandosi l’ambiente normativo relativo ai rapporti di lavoro come maggiormente strutturato e in qualche misura predisposto – si ponga mente ad esempio al carattere antesignano di una norma come l’art. 2087 cc –, la normativa finora adottata ha interessato essenzialmente il versante lavoristico.

Non può di conseguenza stupire la seconda caratteristica, cioè il fatto che, sul terreno normativo, si sia mossa prima l’Unione Europea, e solo sulla scorta di quest’ultima l’Italia.

Il primo documento ufficiale dell’Unione Europea in cui i rischi psicosociali sono espressamente trattati è un atto di indirizzo del Parlamento Europeo.

Nella Risoluzione approvata dal Parlamento Europeo il 20 settembre 2001 (GUCE 28 marzo 2002) viene infatti rilevata la necessità di iniziative adeguate a contrastare la diffusione di forme illecite di violenza psicologica nei rapporti di lavoro, considerata la crescente importanza sociale del fenomeno.

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In tale occasione il Parlamento Europeo invitava pertanto la Commissione a prendere in considerazione anche i fattori psichici, psicosociali e sociali nell’elaborazione di una strategia comune in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

In quest’ambito veniva in particolare sottolineata la centralità dell’organizzazione, sia lavorativa che produttiva.

La svolta auspicata dal Parlamento Europeo si produce nel 2002, allorquando, in risposta alla sollecitazione dallo stesso proveniente, viene presentata una importante comunicazione della Commissione delle Comunità europee (11 marzo 2002, COM (2002) 118 definitivo), intitolata “Adattarsi alle trasformazioni del lavoro e della società: una nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza 2002-2006”. In essa si legge, tra l’altro, la strategia…sposa un’impostazione globale del benessere sul luogo di lavoro, prendendo in considerazione le trasformazioni del mondo del lavoro e l’insorgenza di nuovi rischi, in particolare psico-sociali….

In attuazione di questa innovativa strategia, inserita nella Strategia Comune delineata dalla Commissione nell’ambito delle previsioni del Trattato di Lisbona (art. 139) viene quindi siglato l’8 ottobre 2004 un Accordo Europeo tra le organizzazioni sindacali di parte datoriale e di parte lavorativa, specificamente dedicato al problema dello stress lavoro-correlato. Parti firmatarie dell’Accordo in questione sono, da un lato, la CES (Confederazione dei sindacati dei lavoratori), dall’altro la UNICE (Confindustria europea), la UEAPME (artigianato e PMI) e la CEEP (associazione europea delle imprese partecipate dal pubblico e di interesse economico generale).

Si ricorda che l’articolo 139 del Trattato prevede che gli accordi conclusi tra le parti sociali a livello comunitario sono attuati secondo le procedure e le prassi proprie delle stesse parti sociali e degli Stati membri o, nell’ambito dei settori contemplati dall’art. 137 del Trattato, a richiesta congiunta delle parti firmatarie, in base ad una decisione del Consiglio su proposta della Commissione. In questo modo anche gli Accordi Europei vengono a rivestire natura di fonti del diritto europeo.

Con l’espresso richiamo effettuato dall’art. 28, comma 1 del DL.vo 81/2008 (La valutazione di cui all’art. 17, comma 1, lettera a),…deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004…), l’Accordo è definitivamente divenuto, a pieno titolo, fonte di diritto nell’ordinamento italiano. Le sue indicazioni sono pertanto divenute vincolanti per tutti i soggetti obbligati, in particolare per i datori di lavoro.

Si ricordano di seguito alcuni dei passaggi fondamentali dell’Accordo. Lo stress lavoro-correlato è stato identificato ai livelli internazionali, europei e nazionali

come preoccupazione sia per i datori di lavoro che per i lavoratori(operai) …. Lo stress può potenzialmente interessare tutti i posti di lavoro e qualunque lavoratore,

indipendentemente dalla dimensione dell’azienda, dal campo di attività, o dalla tipologia del contratto o del campo di attività. In pratica, comunque, non tutti i posti di lavoro e non tutti i lavoratori ne sono soggetti.

Lo stress è uno stato, che comporta disturbi e disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale e crea effetti sugli individui che si ritengono incapaci di colmare le lacune con i propri requisiti o le aspettative riposte su di loro.

L’individuo è in grado di fare fronte ad esposizioni di breve durata a pressioni, che possono essere considerate positive, ma ha grande difficoltà nel fare fronte ad esposizioni di intensa e prolungata pressione ….

Lo stress non è una malattia, ma un’esposizione prolungata ad esso può ridurre l’efficacia sul lavoro e può causare problemi alla salute.

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In applicazione della direttiva quadro 89/391, tutti i datori di lavoro hanno un obbligo di legge di proteggere la sicurezza e salubrità professionale dei lavoratori. Questo dovere inoltre si applica ai problemi dello stress lavoro-correlato che possono comportare rischi alla salute e sicurezza sul lavoro ….

Il richiamo dei problemi dello stress lavoro-correlato può essere evidenziato specificamente o all’interno del processo di valutazione dei rischi ….

Tra le misure menzionate dall’Accordo, da adottare a scopo di prevenzione dell’insorgenza di situazioni di stress, figurano in particolare: forme di comunicazione, forme di gestione, aumento della consapevolezza e della comprensione dello stress, forme di informazione e consultazione.

L’Accordo mette quindi a fuoco gli stretti rapporti tra stress lavoro-correlato e organizzazione aziendale (in particolare, ma non solo, organizzazione del lavoro): Identificare se c’è un problema di stress lavoro-correlato può richiedere un’analisi dei fattori come l’organizzazione del lavoro e i processi (disposizioni di orario di lavoro, grado di autonomia, abilità e requisiti professionali dei lavoratori, carico di lavoro, ecc.), condizioni di lavoro e ambiente … comunicazione (incertezza circa che cos’è previsto sul lavoro, prospettive di impiego e di carriera, cambiamenti ecc.) e fattori soggettivi ….

Questa indicazione sarà poi ripresa e sviluppata nel Testo Unico (TU) sicurezza del lavoro (il citato DL.vo n. 81/2008). La considerazione dell’importanza del fattore organizzativo per la tutela della sicurezza e salute dei lavoratori, non nuova, assume un carattere stabile e strutturato con gli artt. 30 e 300 del TU.

Questi due articoli estendono infatti al campo della sicurezza lavorativa l’approccio organizzativo del DL.vo 231/2001. Quest’ultimo, nell’ambito della lotta alla criminalità economica, aveva introdotto, accanto alla responsabilità penale delle persone fisiche autrici di uno dei reati contemplati, una possibile responsabilità amministrativa, pesantemente sanzionata, dell’ente di appartenenza.

In seguito, con la Legge delega per un testo unico della sicurezza lavorativa, ripresa e confermata dal DL.vo 81/2008, questo meccanismo è stato esteso ai reati commessi con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro. Pertanto anche una società o un ente pubblico potranno essere sanzionati, in aggiunta a chi al loro interno riveste il ruolo di datore di lavoro, dirigente, ecc., a seguito del verificarsi di un infortunio o di una malattia professionale.

L’ente tuttavia, anche in siffatti casi, potrà conseguire un effetto esimente della propria responsabilità se sarà in grado di dimostrare di aver adottato, prima del verificarsi dell’evento dannoso, un modello organizzativo atto a prevenire e azzerare, o ridurre nella misura possibile, il rischio che ha determinato l’evento. La legge indica anche, per i reati connessi alla sicurezza del lavoro, determinati modelli organizzativi considerati idonei ex lege. È evidente pertanto come questa norma costituisca un importante incentivo a prevenire sul piano organizzativo, tra l’altro, anche il rischio di stress lavoro-correlato.

Il menzionato art. 28 del TU sicurezza del lavoro ha introdotto, come si è visto, i contenuti dell’Accordo nell’ordinamento italiano. Esso, nel disciplinare la fondamentale funzione di valutazione dei rischi presenti sul luogo di lavoro, conferma al comma 1 che oggetto di valutazione sono tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ribadendo in questo modo l’esito di una ben nota vicenda giudiziaria che aveva interessato il precedente DL.vo 626/1994.

L’indicazione espressa di alcuni di questi rischi, tra questi quelli collegati allo stress lavoro-correlato, è solo apparentemente pleonastica. Questa precisazione sancisce infatti l’introduzione di un nuovo modello di valutazione dei rischi, che cerca di abbracciare la complessità delle relazioni umane nei luoghi di lavoro. La struttura motivazionale e la soddisfazione lavorativa

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entrano a far parte della nozione di benessere sul lavoro (e quindi di salute) adottata dal legislatore. Il benessere diviene a pieno titolo un diritto del lavoratore.

Postulano proprio questa concezione di salute estesa al benessere lavorativo alcune norme speciali che interessano il settore pubblico. Quest’ultimo infatti si sta contraddistinguendo per un particolare dinamismo, almeno sul piano delle previsioni normative adottate. Già alcuni anni or sono (24 marzo 2004) l’allora Ministro della funzione pubblica, Luigi Mazzella, emanò una direttiva recante misure finalizzate al benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni, come elemento del miglioramento della sicurezza e salute sul luogo di lavoro richiesto dall’allora vigente DL.vo 626/1994.

Vi si afferma tra l’altro che, per l’incremento dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche, le condizioni emotive dell’ambiente in cui si lavora, la sussistenza di un clima organizzativo che stimoli la creatività e l’apprendimento, l’ergonomia, oltre che la sicurezza, degli ambienti di lavoro sono elementi fondamentali. Si fa inoltre riferimento, tra l’altro, alla trasparenza e visibilità dei risultati del lavoro. A seguito della direttiva, diverse Pubbliche Amministrazioni hanno adottato apposite circolari interne.

Le indicazioni puramente amministrative della direttiva Mazzella sono diventate da ultimo obbligo di legge con la Legge 4 novembre2010, n. 183, c.d. “collegato lavoro” alla manovra di finanza pubblica per il triennio 2010- 2012.

L’art. 21 di tale Legge concerne misure atte a garantire pari opportunità, benessere a chi lavora e assenza di discriminazioni nelle pubbliche amministrazioni. In particolare la lettera b) del comma 1, sostituendo l’art. 7 del DL.vo 165/2001 (Testo Unico della PA) dispone, tra l’altro: Le Pubbliche Amministrazioni garantiscono altresì un ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo e si impegnano a rilevare, contrastare ed eliminare ogni forma di violenza morale o psichica al proprio interno.

Deve a tal fine essere costituito, entro 120 giorni, da ciascuna amministrazione un Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni, composto pariteticamente dalle organizzazioni sindacali più rappresentative e dall’amministrazione.

Accanto a quelle riguardanti lo stress lavoro-correlato, un breve cenno meritano le vicende normative relative al fenomeno del mobbing. Tale fenomeno è dapprima stato considerato nella Legge di riforma dell’INAIL (art. 13), quindi in alcune leggi regionali.

Nel maggio 2002, ai sensi dell’art. 13 del DL.vo 38/2000, l’INAIL riconobbe il diritto al risarcimento ad un lavoratore affetto da patologie psicofisiche derivanti da disagio lavorativo, descrivendo nel provvedimento il fenomeno come un meccanismo lesivo da ricondurre ad un tipo di rischio più ampio e configurabile come “costrittività organizzativa” insita nell’attività ovvero nell’ambiente di lavoro. Al fine di conferire stabilità alla predetta interpretazione, il 17.12.2003 veniva emanata la circolare INAIL n. 71 in materia di Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche. La circolare ha subito peraltro l’annullamento in primo grado da parte del TAR del Lazio con sentenza del 5 maggio 2005, e poi dal Consiglio di Stato (sez. VI, 17.3.2009 n. 1576). Tuttavia dalle medesime sentenze è stato fatto salvo il DM 27.4.2004, con il quale, ai sensi dell’art. 139 del DPR. n. 1124/1965, sono state definitivamente riconosciute come malattie professionali le malattie psichiche e psicosomatiche (gruppo 7 della lista II). Nelle tabelle è quindi ormai menzionato il mobbing, limitatamente alle malattie psichiche e psicosomatiche con disturbi post-traumatici o cronici da stress, determinate da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro.

Quanto alla legislazione regionale in materia di mobbing, anche in questo caso la vicenda è stata piuttosto movimentata. Infatti, a seguito di ricorsi per conflitto di competenza presentati

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dal Presidente del Consiglio dei ministri, la Corte costituzionale ha avuto modo di occuparsi ripetutamente della costituzionalità delle leggi regionali concernenti tale materia.

In particolare, con la sentenza n. 359 del 2003 la Corte ha dichiarato incostituzionale la Legge 11 luglio 2002, n. 16 della Regione Lazio, mentre con le sentenze nn. 238 e 239 del 2006 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative alle leggi 28.2.2005, n. 18 della Regione Umbria e 8. Aprile 2007, n. 7 della Regione Friuli Venezia Giulia. Oltre a tali leggi, è stata anche adottata dalla Regione Abruzzo la Legge 11 agosto 2004, n. 26, anch’essa ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte.

La Corte ha in primo luogo rilevato che, per i profili riguardanti le conseguenze patologiche sulla vittima, la materia attiene alla “salute e sicurezza sul lavoro” e non all’”ordinamento civile”. Pertanto le leggi regionali in materia non possono essere censurate sotto il profilo della competenza delle regioni alla loro adozione, trattandosi di materia riservata alla competenza legislativa concorrente dello Stato e delle regioni.

Nella prima sentenza in particolare, la Corte mette in evidenza come gli atti e i comportamenti vessatori debbano essere protratti nel tempo e caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Gli atti vessatori, costituiti sia da atti giuridici veri e propri sia da semplici comportamenti materiali, presentano in ogni caso la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti sul piano giuridico, mentre diverso e opposto rilievo assume la condotta esaminata nel suo complesso.

Dal lato della vittima può esservi l’insorgenza di disturbi di vario tipo e, a volte, di patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress post traumatico. Ma tali sintomi possono anche mancare, mentre vengono posti in essere atti che portano alla cessazione del rapporto di lavoro ovvero ad altre condotte giuridicamente rilevanti, a volte anche illecite, come reazione alla persecuzione.

In conclusione, si può osservare come i rischi psicosociali stiano ormai entrando stabilmente nell’ordinamento, con le modalità tipiche ormai affermatesi in via generale nel sistema normativo, e cioè modalità complesse e articolate su più livelli. Predominano ancora un carattere di insufficiente organicità e una certa episodicità dei singoli interventi normativi, ma l’evoluzione recente sembra aprire spazi per un futuro superamento di tali limiti.

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LA STRATEGIA DELL’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ PER LA PREVENZIONE DEL RISCHIO STRESS LAVORO-CORRELATO

Maurizio Pasquali, Francesca La Rosa Risorse Umane e affari generali, Istituto Superiore di Sanità, Roma

Premessa

L’attenzione alla tematica dello stress lavoro-correlato è certamente il frutto di una accresciuta sensibilità, sviluppatasi negli ultimi anni, per la salute psicofisica dei lavoratori.

Storicamente, infatti, gli unici rischi o pericoli percepiti dalla società civile, e considerati dalla normativa, sono stati quelli relativi alla sicurezza del lavoratore nel luogo di lavoro (si ricordi il DL.vo626/1994 di attuazione di alcune direttive CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro) e quelli legati allo stato di salute fisica strettamente inteso.

È solo di recente che con il DL.vo81/2008, si è iniziato a percepire come anche il benessere psicofisico del lavoratore fosse non meno importante del suo stato di salute fisica.

A tal proposito si evidenzia come, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) abbia già da tempo posto in essere attività volte a studiare e valutare le problematiche inerenti quello che oggi viene definito stress lavoro-correlato, tali iniziative verranno di seguito illustrate.

Il lavoro che ad oggi si sta svolgendo in Istituto mira principalmente a rispondere alla obbligatorietà di rilevazione del rischio psicosociale, come richiesto dall’art. 28 del DL.vo 9 aprile 2008 n.81 Testo Unico (TU) in materia di salute e sicurezza nel lavoro, che obbliga tutte le aziende/amministrazioni a valutare il rischio da stress lavoro-correlato.

Tale normativa, così come modificata dal DL.vo 106/2009, prevede che nella valutazione dei rischi da lavoro, debbano essere ricompresi tutti i rischi per la salute1 e la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori, quindi non solo i fattori di rischio per così dire tradizionali, ma anche i rischi di tipo immateriale, tra i quali va certamente ricompreso il rischio da stress lavoro-correlato.

Con l’emanazione del DL.vo 81/2008 detto Testo Unico Salute e Sicurezza sul Lavoro, si è pertanto assistito oltre che all’accorpamento e alla razionalizzazione delle norme in materia di sicurezza e antinfortunistica, alla introduzione di diverse e significative novità, destinate ad incidere non solo sulla gestione quotidiana della sicurezza sul lavoro, ma pensate anche per contribuire a creare una nuova percezione della sicurezza, intesa non più come attività collaterale, ma piuttosto come strumento essa stessa di gestione e di competitività.

A ben vedere, l’intento del Legislatore non è tanto o solo quello di sensibilizzare i lavoratori nell’utilizzo delle misure di prevenzione e antinfortunistica, bensì piuttosto quello di porre le basi per il diffondersi di una vera e propria cultura della sicurezza2, che possa coinvolgere in maniera ampia tutte le categorie sociali e diventi un elemento imprescindibile della gestione del lavoro. Di

1 La nozione di salute fatta propria dal TU è più ampia rispetto alla nozione per così dire tradizionale. La salute viene

infatti definita come: stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o infermità; art 2, 1° comma lettera o).

2 Accordo Europeo sullo stress sul lavoro siglato tra CES-sindacato europeo, UNICE, UEAPME e CEEP.

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fondamentale importanza è l’accordo europeo del 20041, recepito in Italia dall’accordo Interconfederale del 9/6/2008, nel quale viene data una puntuale definizione di stress lavoro-correlato. Si pone in evidenza come lo stress non sia prerogativa di alcuni settori lavorativi o mansioni, ma al contrario possa riguardare qualsiasi posto di lavoro e qualunque tipo di lavoratore, indipendentemente dalle dimensioni dell’amministrazione, dal settore di attività o dalla tipologia del contratto o del rapporto di lavoro.

A tal proposito però, si ricorda come, pur essendo senza dubbio valido il principio della trasversalità della problematica stress lavoro-correlato rispetto ai diversi settori e alle diverse mansioni, particolari caratteristiche siano proprie sia dell’ambito sanitario che del settore della Ricerca, in quanto caratterizzati da elementi quali l’originalità del lavoro svolto, l’alta competitività anche all’interno dei singoli gruppi di lavoro, l’elevato livello culturale e tecnico del personale. Questi elementi di peculiarità appena ricordati se da un lato, ovviamente, contribuiscono ad eliminare quasi del tutto il “rischio fisico” dall’altro, in modo altrettanto evidente, sottopongono il lavoratore del settore ad una tensione mentale continua che, talvolta potrebbe sfociare in stress psicofisico/lavoro-correlato.

Sono stati anche individuati alcuni potenziali indicatori di stress, tra cui un alto tasso di assenteismo o un’elevata rotazione del personale, frequenti conflitti interpersonali o lamentele da parte dei lavoratori.

Inoltre vengono individuati alcuni dei fattori che possono causare lo stress lavoro-correlato, quali ad esempio l’eventuale inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro nonché carenze nella comunicazione interna all’amministrazione (in merito, ad esempio, alle prestazioni richieste, agli obiettivi, alle prospettive di impiego e ai possibili cambiamenti).

Processo iniziale di ricognizione della presenza di indicatori e fattori dello stress lavoro-correlato in ISS

La problematica della rilevazione dello stress lavoro-correlato viene studiata, valutata e analizzata sotto vari aspetti da svariati anni, in Istituto.

Il nostro Servizio di Prevenzione e Protezione ha promosso e attivato in tal senso varie iniziative. Nell’anno 2002 è stata svolta dal Servizio un’indagine sullo stress in Istituto attraverso la

somministrazione di un questionario a tutto il personale. I risultati sono stati presentati in occasione della “Giornata ISS sullo Stress”.

Attività organizzate nell’ambito dell’ISS

Il 28-30 settembre 2004 si è tenuto un Corso di formazione dal titolo “Il mobbing e la prevenzione del disagio lavorativo” organizzato dall’ISS.

Nel Gennaio 2007 è stato istituito il Comitato Paritetico sul fenomeno del mobbing con lo scopo di: provvedere alla raccolta di dati; alla individuazione delle possibili cause e delle 1 Lo stress lavoro correlato è definito come: “condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di

natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative riposte in loro”; al contempo specifica che “lo stress non è una malattia ma una situazione di prolungata tensione può ridurre l’efficienza sul lavoro e può determinare un cattivo stato di salute”.

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condizioni di lavoro che lo modulano; di proporre azioni di prevenzione; di provvedere alla formulazione del codice di condotta1.

Tale Comitato ha svolto un’indagine sul tema del mobbing in Istituto, ed è stato somministrato un questionario a tutto il personale. I risultati di tale questionario sono stati illustrati in occasione del convegno “Benessere organizzativo per la prevenzione del mobbing”, tenutosi nel novembre del 2010.

Si evidenzia come, in ottemperanza a quanto previsto dal Collegato Lavoro (L 183/2010 art. 21, c) che va ad integrare l’art 57 del DL.vo 165/2001), l’Istituto Superiore di Sanità ha provveduto alla costituzione del Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione e il benessere di chi lavora e contro le discriminazioni. Tale Comitato sostituisce, unificandone le competenze, il Comitato per le pari opportunità e il Comitato paritetico sul fenomeno mobbing, dei quali assume tutte le funzioni

Anche questo è certamente un segno inequivocabile di come, nel tempo, sia divenuta sempre più compiuta la percezione della necessità di garantire il “benessere psicofisico del lavoratore”.

Il fatto che si sia voluto sostituire una molteplicità di soggetti diversi con il Comitato unico è indice, del definitivo riconoscimento della necessità di affrontare le tematiche afferenti al tema dello stress lavoro-correlato attraverso un approccio globale, anche in considerazione del fatto che, spesso, le diverse problematiche traggono origine da elementi comuni o comunque presentano punti di contatto tali per cui un approccio “unitario” può rappresentare sicuramente la soluzione più idonea.

Il 22 maggio 2007 è stato organizzato un seminario di presentazione di un’indagine dal titolo “Organizzazione e ambiente di lavoro: presentazione dei risultati di un’indagine svolta all’interno del CNESPS”. Si è trattato di un’iniziativa svolta all’interno del Centro sul tema di organizzazione e ambiente di lavoro attraverso la somministrazione di un questionario specifico e relativa analisi multivariata.

Il Dipartimento Ambiente e Connessa Prevenzione Primaria ha organizzato il corso “I rischi psicosociali in ambiente sanitario: stress, mobbing e burn-out”.

All’interno del “XXXV corso sulla Sicurezza per il personale che opera nei laboratori dell’ISS a rischio chimico e biologico”, è stato svolto un intervento dal titolo “Il benessere organizzativo” in cui si sono presi in considerazione alcuni fattori di rischio psicosociale e si è stimolata una proficua discussione con i partecipanti, si è esaminata la definizione di benessere organizzativo, le dimensioni che rendono buona una organizzazione e gli indicatori, sia positivi che negativi, che riguardano i lavoratori.

Il 22 novembre 2010 si è svolto presso l’Istituto un seminario organizzato a cura del Comitato Paritetico sul fenomeno del Mobbing ISS.

L’evento è stato rivolto a tutto il personale dell’Istituto Superiore di Sanità al fine di promuovere una nuova sensibilizzazione ai problemi del clima relazionale nell’ambiente di lavoro.

Nel corso di tale incontro si è inoltre data comunicazione della costituzione e del funzionamento dello Sportello di Ascolto, e della istituzione della figura del Consigliere di Fiducia.

Dal 16 Giugno 2011, su iniziativa della Direzione Centrale delle Risorse Umane e degli Affari generali, è stato prevista la possibilità per i dipendenti dell’Istituto di rivolgersi a personale incaricato della funzione di informazione e di interfaccia con gli Uffici, al fine di formulare domande o ottenere informazioni sui procedimenti di competenza della Direzione stessa.

1 Adottato con Decreto del Direttore Generale del 29 aprile 2008, n. 51.

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Tale intervento è stato pensato con l’esplicito obiettivo di facilitare la comunicazione con il personale e mira, oltre che a rafforzare il consueto rapporto di comunicazione tra Amministrazione e dipendenti anche a favorire il lavoro degli Uffici, affinché questo possa svolgersi in un clima di massima tranquillità.

Inoltre, nel sito del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’ISS (consultabile dal personale interno attraverso la nostra intranet) sono da tempo presenti, in versione stampabile, documenti informativi sullo stress e sul mobbing, che stiamo attualmente aggiornando e incrementando.

Queste naturalmente solo alcune iniziative di cui siamo a conoscenza.

Iniziative di facilitazione adottate per specifiche situazioni di disagio da stress lavoro-correlato in ISS

Come risulta evidente dagli interventi appena descritti adottati in Istituto, l’obiettivo primario dell’attività di prevenzione riferita allo stress da lavoro-correlato è, e rimane senz’altro, quello di impedire l’insorgenza di nuovi casi o, quanto meno, ridurre gli effetti negativi che eventuali fattori di stress possano determinare sulla salute dei dipendenti.

A tal fine, l’Istituto si propone di promuovere e rafforzare il senso di appartenenza all’Istituzione mediante la partecipazione e la condivisione degli obiettivi perseguiti dall’Istituto stesso, con lo scopo di favorire il sorgere di relazioni interpersonali improntate al rispetto della dignità umana e con la finalità di scoraggiare ogni forma di violenza psicologica.

In questo contesto, si segnala come, di primaria importanza sia stata l’attività svolta dal Comitato Paritetico sul fenomeno del mobbing1, dal momento che è stato scientificamente dimostrato che il fenomeno del mobbing sul luogo di lavoro produce seri e importanti riflessi sul benessere psicologico e sulla salute dell’individuo.

Oggi sempre più siamo convinti, che il processo volto alla prevenzione del rischio da stress lavoro-correlato richieda un intervento attivo del costituendo Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione e il benessere di chi lavora e contro le discriminazioni2.

Fondamentale importanza nell’attività di prevenzione del rischio da stress lavoro-correlato sarà riservata anche al miglioramento degli ambienti di lavoro, mediante un approfondito esame delle eventuali situazioni di criticità.

A tal proposito è stato evidenziato come, le interazioni sociali e i rapporti interpersonali nei luoghi di lavoro, se non sono gestiti in maniera adeguata possono rappresentare una fonte di stress capace di provocare disturbi di tipo psicosomatico.

Lo stesso mobbing nasce spesso da problemi di gestione delle risorse umane più che da problemi di ordine psicologico riferiti al singolo dipendente.

Riteniamo dunque che, l’attenzione all’ambiente di lavoro, peraltro imposta anche dalla necessità di assicurare il più elevato livello di sicurezza, rappresenti il primo passo per garantire

1 Il Comitato, costituito con Decreto Dirigenziale (DD) del 21/1/2007, è stato rinnovato con DD del 15/5/2008. Il

Codice di condotta è stato approvato all’inizio del 2008. 2 Si ricorda che, in ottemperanza a quanto previsto dal Collegato Lavoro (L 183/2010 art 21, c) che va ad integrare

l’art 57 del DL.vo n.165/2001), l’Istituto Superiore di Sanità sta provvedendo alla costituzione del Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione e il benessere di chi lavora e contro le discriminazioni. Attualmente sono ancora operativi il Comitato paritetico sul fenomeno mobbing e il Comitato pari opportunità che ha di recente approvato il “Piano triennale delle Azioni positive” per gli anni 2009/2011.

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al dipendente un sereno approccio con le mansioni affidategli e un importante fattore alla base della serena convivenza con i colleghi.

La realizzazione degli obiettivi esposti sin qui, presuppone, comunque, l’attivazione di percorsi di formazione e informazione continua non solo sul fenomeno dello stress lavoro-correlato, ma anche in materia di organizzazione e gestione delle risorse umane a favore di tutti coloro chiamati a svolgere funzioni direttive nell’ambito dell’Istituto.

A tal proposito si evidenzia come l’Istituto, compatibilmente con le risorse finanziarie stanziate allo scopo, abbia sempre cercato di promuovere la formazione e l’aggiornamento professionale dei propri dipendenti attraverso corsi di formazione mirati.

Un’altra area d’intervento fondamentale in materia di prevenzione del rischio stress lavoro-correlato è sicuramente individuabile nell’attività di ridimensionamento del fenomeno del precariato. È infatti evidente, come l’instabilità del rapporto di lavoro determini in capo ai soggetti interessati, ansia e preoccupazione che compromettono il sereno assolvimento delle proprie mansioni e dei propri incarichi con conseguenti ricadute nella vita di relazione e, frequentemente con gravi risvolti anche nei rapporti personali e familiari all’esterno dell’ambiente di lavoro. Com’è noto, il ricorso a forme flessibili d’impiego, anche a causa delle forti limitazioni alle assunzioni a tempo pieno e indeterminato, negli ultimi anni, pur rappresentando talvolta un’imprescindibile necessità per assicurare il buon andamento delle attività istituzionali nonché l’unica modalità possibile per reclutare nuovi dipendenti e collaboratori, ha assunto una dimensione tale da destare preoccupazione non solo nel management dell’istituto ma anche negli organi di governo.

È altrettanto noto come negli ultimi anni l’Istituto, attuando la disciplina prevista dagli strumenti di programmazione economico finanziaria, abbia intrapreso una complessa operazione di stabilizzazione del personale definito precario.

In questo contesto, l’Istituto si impegna ad attuare correttamente le disposizioni vigenti e quelle che, con ogni probabilità, saranno emanate dagli organi di governo al fine di garantire ad ogni dipendente a tempo determinato e ad ogni collaboratore dell’Istituto, il miglioramento della propria situazione giuridica ed economica.

A tal riguardo ricordiamo come, negli anni 2008/2010, è stato completato, attraverso tre successive fasi, il processo di stabilizzazione gran parte del personale precario presente in Istituto, con l’assunzione a tempo indeterminato di complessive 276 unità.

Sempre sul fronte assunzioni, e sempre nell’ottica di cercare di ridurre il fenomeno del precariato utilizzando gli strumenti previsti dalla normativa vigente in materia, l’Istituto ha ottenuto per l’anno 2011 l’autorizzazione a bandire concorsi per un numero complessivo di 106 posti a tempo indeterminato, suddivisi per i diversi profili professionali (ricercatori, tecnologi, funzionari, collaboratori tecnici enti di ricerca, collaboratori di amministrazione, operatori tecnici).

Un altro indice di grande disagio, che si è potuto riscontrare in alcune situazioni particolari, è dato dal grado di mobilità interna.

Spesso, infatti, il lavoratore non trova altro strumento per uscire da una situazione di stress che chiedere uno spostamento interno.

Insoddisfazione nel lavoro, cattivo rapporto con il capo, consapevolezza di essere limitati nella propria capacità di ricerca, sono fattori che determinano la volontà di cambiare.

La resistenza al trasferimento e la difficoltà nell’individuare un nuovo posto di lavoro, rischiano di accrescere il disagio del dipendente.

Per questo motivo, negli ultimi anni, si è cercato di facilitare, per quanto possibile e compatibilmente con le esigenze delle diverse strutture, la mobilità interna.

Ciò ha portato nell’ultimo anno all’accoglimento di circa 39 domande di trasferimento, mentre sono attualmente in fase d’istruttoria ulteriori 25 istanze che saranno definite a breve.

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Roma, luglio-settembre 2012 (n. 3) 2° Suppl.