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1. Dal Convivio alla Commedia Nel III canto del Paradiso Piccarda Donati rivela a Dante che la perfetta disposi- zione del regno dei cieli prevede una gerarchia rigorosa tra le anime dei beati che il pellegrino andrà incontrando lungo il suo itinerario. Alla gerarchia celeste corri- sponde una distinzione tra altrettanti gradi di beatitudine, ciascuno dei quali è com- misurato ai meriti delle anime secondo un criterio infallibile di giustizia distributiva. Nella città di Dio non vi è alcuna invidia per questa diseguaglianza: anzi, è essenzia- le alla condizione stessa dei beati tenersi stretti alla volontà del Padre secondo una concordia assoluta che fa coincidere la volontà di ogni suddito con la volontà dell’i- neffabile Imperatore. Nella chiusa del suo discorso, Piccarda menziona un principio che costituisce il punto di saldatura tra metafisica della giustizia e ontologia, ovvero la distinzione tra ciò che Dio «crea» e ciò che la natura «face»: E ’n la sua volontade è nostra pace: ell’è quel mare al qual tutto si move, ciò ch’ella cria e che natura face. (Paradiso III, vv. 85-87) Già nel I canto del Paradiso Dante aveva utilizzato l’immagine del mare in un con- testo che rimandava alla teleologia della natura. Dio vi era raffigurato come motore del- l’essere nel duplice senso di causa efficiente prima e causa finale ultima di ogni singolo ente creato. Anche se Dante talora sembra utilizzare il verbo «fare» in modo promiscuo, riferendolo sia alla creazione dal nulla sia alla generazione delle cose secondo processi riconducibili all’ordinario operare della natura, da un punto di vista generale egli si attiene rigorosamente al dogma: per creazione si deve intendere l’atto libero e sponta- neo con cui Dio, in principio, ha tratto dal nulla la forma e la materia delle sostanze 1 . In LECTURA DANTIS LECTURA DANTIS 19 1 Il discorso di Piccarda si ricollega al contenuto della prima esposizione dottrinale sull’ordine Alessandro Raffi Dante e il Liber de causis: il problema della creazione nella «teologia» della Commedia

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1. Dal Convivio alla Commedia

Nel III canto del Paradiso Piccarda Donati rivela a Dante che la perfetta disposi-zione del regno dei cieli prevede una gerarchia rigorosa tra le anime dei beati che ilpellegrino andrà incontrando lungo il suo itinerario. Alla gerarchia celeste corri-sponde una distinzione tra altrettanti gradi di beatitudine, ciascuno dei quali è com-misurato ai meriti delle anime secondo un criterio infallibile di giustizia distributiva.Nella città di Dio non vi è alcuna invidia per questa diseguaglianza: anzi, è essenzia-le alla condizione stessa dei beati tenersi stretti alla volontà del Padre secondo unaconcordia assoluta che fa coincidere la volontà di ogni suddito con la volontà dell’i-neffabile Imperatore. Nella chiusa del suo discorso, Piccarda menziona un principioche costituisce il punto di saldatura tra metafisica della giustizia e ontologia, ovverola distinzione tra ciò che Dio «crea» e ciò che la natura «face»:

E ’n la sua volontade è nostra pace:ell’è quel mare al qual tutto si move, ciò ch’ella cria e che natura face.

(Paradiso III, vv. 85-87)

Già nel I canto del Paradiso Dante aveva utilizzato l’immagine del mare in un con-testo che rimandava alla teleologia della natura. Dio vi era raffigurato come motore del-l’essere nel duplice senso di causa efficiente prima e causa finale ultima di ogni singoloente creato. Anche se Dante talora sembra utilizzare il verbo «fare» in modo promiscuo,riferendolo sia alla creazione dal nulla sia alla generazione delle cose secondo processiriconducibili all’ordinario operare della natura, da un punto di vista generale egli siattiene rigorosamente al dogma: per creazione si deve intendere l’atto libero e sponta-neo con cui Dio, in principio, ha tratto dal nulla la forma e la materia delle sostanze1. In

LECTURA DANTIS

LECTURA DANTIS 19

1 Il discorso di Piccarda si ricollega al contenuto della prima esposizione dottrinale sull’ordine

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un passo del terzo libro della Monarchia, Dante contesta un’affermazione di PietroLombardo ribadendo che «potestatem creandi nullo modo Deus commictere pos-set». La distinzione tra creare e fare è la sola cornice entro cui può sussistere l’ideasecondo cui tutto ciò che ha l’essere deriva dalla Bontà divina «mediate vel imme-diate», in conformità ad un assioma che attraversa l’opera dantesca dal Convivioall’Epistula XIII, un assioma in cui fede e ragione sono destinate a convergere senzaalcun margine di incertezza2. Dio è causa e origine di tutte le cose, anche se non tuttele cose sono state create ex nihilo sui et subjecti. C’è un rapporto di vassallaggiometafisico tra Dio, unico detentore della potestas creandi, e la natura, delegata adamministrare quell’insieme di processi generativi supplementari nell’economiagenerale della creazione che la teologia scolastica collocava sotto la rubrica denomi-nata «opus distinctionis». Il fatto di aver trascurato le implicazioni di questa dottrinaha indotto alcuni esegeti della Commedia, tra cui lo stesso Bruno Nardi, a introdurresurrettiziamente nell’apparato concettuale del poema una nozione del tutto estraneaalla mentalità dantesca quale poteva essere quella di «creazione mediata». La primaformulazione di questa tesi risale al saggio di Nardi su «Dante e Pietro D’Abano»:partendo dal presupposto formulato nel canto VII del Paradiso, secondo cui ciò chela divina Bontà produce da se stessa «sanza mezzo» è incorruttibile e sempiterno,Dante giungerebbe a concludere che «le cose del mondo infralunare non son createaffatto da Dio, ma dalle intelligenze o dalle sfere celesti»3. Gli studiosi hanno piùvolte sottolineato che la riflessione dantesca risponde alla volontà di trovare un pun-to di equilibrio tra il modello creazionistico della tradizione ebraico-cristiana el’emanazionismo di matrice neoplatonica. Che il neoplatonismo mediato dalle fontigreco-arabe abbia avuto una grande influenza nella formazione del pensiero dante-

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cosmico che Beatrice svolge nel canto iniziale: «Nell’ordine ch’io dico sono accline / tutte nature, perdiverse sorti, / più al principio loro e men vicine; / onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar del-l’essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che là porti» (Paradiso I, vv. 109-114). Per un’analisi del les-sico dantesco relativo alla creazione cfr. le voci «causa», «creazione», «Dio», ed «effetto» dell’Enci-clopedia Dantesca (d’ora in poi: ED). Attilio Mellone, alla voce «creazione», annota: «Nelle scuole“creare” era il termine tecnico che indicava “l’atto di produrre dal niente della materia e della forma”[...] Dante conosce la distinzione tra “fare” e “creare”: afferma che Dio cria e il complesso delle causeseconde face [...] ma generalmente non è rigoroso» (ED, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,1970-1978, vol. II, p. 251).

2 Il contesto in cui Dante afferma tale principio è un chiaro esempio della sua concezione laica eghibellina del potere papale: «Nec etiam possent omnia sibi commicti a Deo, quoniam potestatemcreandi et similiter baptizandi nullo modo Deus commictere posset, ut evidenter probatur, licet Magi-ster contrarium dixerit in quarto» (Monarchia III, VII, 6). La locuzione «mediate vel immediate» ricorrein Epistula XIII, 55-56: «[...] Et cum esset sic procedere in infinitum in causis agentibus, ut probatur insecundo Metaphysicorum, erit devenire ad primum, qui Deus est. Et sic, mediate vel immediate, omnequod habet esse habet esse ab eo [...]».

3 B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 45. Sull’idea di opusdistinctionis in Dante si vedano S. Bemrose, Dante’s angelic intelligencies. Their importance in theCosmos and in Pre-Christian Religion, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1983; e P. Boyde, L’uomonel cosmo. Filosofia della natura e poesia in Dante, Bologna, il Mulino, 1984.

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sco è un’acquisizione che dobbiamo proprio agli studi pionieristici avviati dal Nardi.Nonostante tutto, la distinzione tra ciò che Dio crea direttamente e ciò che verrebbe«creato» attraverso il concorso di cause intermedie, lungi dal configurare un tentativodi conciliare il Revelatum con le dottrine neoplatoniche, metterebbe in discussione lanozione stessa di creazione dal nulla.

Con il presente lavoro ci proponiamo di riaprire la questione e analizzare le sezio-ni del canto VII del Paradiso che affrontano tale problema collegandosi, attraversouna fitta rete di rimandi intertestuali, alle analoghe sezioni dei canti II, XIII, e XXIX.Nella prospettiva anagogica che caratterizza l’itinerario di Dante pellegrino attraver-so le sfere celesti, l’elevazione dal cielo della luna (canto II) al primo mobile (cantoXXIX) individua un progresso della conoscenza dove il mistero della creazione siapre a nuove e sempre più potenti rivelazioni. Nessuna di queste, tuttavia, può avalla-re l’ipotesi interpretativa della creazione mediata che pure parrebbe celarsi sotto ilvelame dei riferimenti neoplatonici sottesi all’impianto teorico dell’ultima cantica.Prima di procedere alla lettura delle terzine in questione sarà comunque necessariorisalire al laboratorio del Convivio. Inizieremo con un excursus su alcuni passi del IIIlibro riguardanti il rapporto tra Dio e il molteplice, dopodiché effettueremo una scan-sione sul vocabolario dantesco per meglio focalizzare la distinzione tra i concetti di«creazione» e di «informazione».

Nel II capitolo del III libro Dante inizia a commentare i versi della canzoneAmor che ne la mente mi ragiona, attorno alla cui esegesi ruota l’intero libro:

Ciascuna forma sustanziale procede da la sua prima cagione, la quale è Id -dio, sì come nel libro Di Cagioni è scritto, e non ricevono diversitade per quel-la, che è simplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che di -scende [...]. Onde con ciò sia cosa che ciascuno effetto ritegna de la natura de lasua cagione [...] ciascuna forma ha essere de la divina natura in alcuno modo:non che la divina natura sia divisa e comunicata in quelle, ma da quelle è parti-cipata, per lo modo quasi che la natura del sole è participata ne l’altre stelle.

(Convivio III, II, 4-6)4

Il contesto a cui si riferisce nello specifico il passo sopra citato riguarda la naturadell’anima umana, intesa come la più nobile tra le forme sostanziali create da Dio«sotto lo cielo». La dignità che spetta all’anima dell’uomo nel mondo sublunare èqualcosa di analogo al rango degli angeli nel mondo sopralunare. Sia gli angeli chele anime degli esseri umani sono oggetto di creazione diretta da parte di Dio. Tutta-via, dalla «simplicitas» della natura divina, che in se stessa costituisce il sommo gra-do di perfezione, non possono derivare le differenze che si riscontrano nei singoliindividui «più o men lontani dal principio». Le anime degli uomini sono più o menonobili, più o meno virtuose: pur derivando tutte dall’unico Padre si differenziano

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4 In questo lavoro facciamo riferimento al testo e alle note dell’edizione critica del Convivio curatada C. Vasoli e D. De Robertis (Dante Alighieri, Opere minori, t. I, p. II, Milano-Napoli, R. RicciardiEditore, 1988).

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quindi per l’intervento di cause seconde e per il modo in cui la forma sostanziale siimprime e si attualizza nella materia del mondo sublunare. A sostegno della sua tesi,Dante riporta l’autorità del Liber de causis, un testo che assume un ruolo decisivonella formazione dell’idea di creazione quale verrà a configurarsi nel Paradiso.Accanto agli scritti di Dionigi pseudo-Areopagita, il Liber de causis è il testo neo-platonico a cui Dante fa ricorso con maggiore frequenza. Tradotto dall’arabo in lati-no per opera di Gerardo da Cremona nella Toledo nel XII secolo, il trattato arrivò inoccidente come opera di Aristotele, pur essendo in realtà un’epitome della Elemen-tatio Theologica di Proclo elaborata all’interno del circolo di al-Kindi5. L’anonimoautore di questo trattato cercava già di conciliare il monoteismo con l’idea di emana-zione, riducendo quest’ultima al concetto di una scala di tre cause superiori concate-nate secondo gradi di perfezione decrescenti – Dio, l’Intelletto Primo, l’Anima delmondo –; le ultime due partecipano della potenza causale di Dio, ma soltanto Dio è«creatore» in senso proprio. I dubbi sull’autenticità dell’attribuzione furono già ma -nifestati da Alberto Magno, che dedicò al Liber de causis un’ampia parafrasi, e poida Tommaso d’Aquino, le cui riserve erano state avanzate prima ancora di entrare inpossesso della traduzione latina della Elementatio Theologica approntata dal confra-tello Guglielmo di Moerbeke attorno al 1268 presso la corte pontificia di Viterbo.Nel suo commento, elaborato attorno al 1272 e redatto secondo lo stile della exposi-tio librorum, Tommaso analizza i trentuno teoremi di cui si compone il Liber de cau-sis mettendoli spesso a confronto con estratti delle opere dello pseudo-Areopagita.Nel passo sopra citato Dante insiste su un tema che nel III libro del Convivio ricorresempre in stretto collegamento con la simbologia solare, ovvero il tema della simpli-citas che compete sommamente alla natura divina in quanto puramente intellettuale.Dio è causa prima di tutte le forme sostanziali, ma non è la fonte diretta delle molte-plici differenze che si scorgono nella realtà degli enti creati che da quelle forme sonocostituiti. In questo caso il richiamo al Liber de causis non si accompagna a una cita-zione letterale, come prova il fatto che Dante qui utilizza l’espressione aristotelica«forma sostanziale», estranea al lessico dell’autorità menzionata, ma si configurapiuttosto come una sintesi di dottrine ricavabili da alcuni teoremi divenuti ormai deiloci communes tra i più frequentati6. Il problema si ripropone in un capitolo del IIIlibro dove si discute dell’irradiarsi della bontà divina nel cosmo:

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5 Sulla tradizione del Liber de causis rimandiamo agli studi fondamentali di Cristina D’AnconaCosta, secondo la quale il testo arabo tradotto da Gerardo da Cremona è opera dello stesso al-Kindi. Sivedano, in particolare: C. D’Ancona Costa, La casa della sapienza. La trasmissione della metafisicagreca e la formazione della filosofia araba, Milano, Guerini e Associati, 1996; oltre al più recente studiointitolato La trasmissione della filosofia araba dalla Spagna musulmana alle università del XIII secolo,in AA.VV., Storia della filosofia nell’Islam medievale, a cura di C. D’Ancona, Torino, Einaudi, 2005, vol.II, pp. 783-831. Importanti indicazioni circa il rapporto tra Dante e il Liber si possono leggere nell’intro-duzione e nelle note, sempre a firma di C. D’Ancona, all’edizione italiana del commento tomistico, inTommaso d’Aquino, Commento al «Libro delle cause», Milano, Rusconi, 1986, pp. 7-120.

6 Nel suo saggio dedicato alla rassegna delle citazioni dantesche dal Liber il Nardi rimanda in par-ticolare alla proposizione I: «omnis causa primaria plus est influens super causatum suum quam causa

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[...] la divina bontade in tutte le cose discende, e altrimenti essere nonpotrebbero; ma avvegna che questa bontade si muova da simplicissimo princi-pio, diversamente si riceve, secondo più e meno, da le cose riceventi. Ondescritto è nel libro de le Cagioni: «La prima bontade manda le sue bontadi soprale cose con uno discorrimento». Veramente ciascuna cosa riceve da quellodiscorrimento secondo lo modo de la sua vertù e de lo suo essere; [...] così labontà di Dio è ricevuta altrimenti da le sustanze separate, cioè da li Angeli, chesono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità de la loro forma, ealtrimenti da l’anima umana, che, avvegna che da una parte sia da materialibera, da un’altra è impedita [...]; e altrimenti da li animali, la cui anima tuttain materia è compresa, ma alquanto è nobilitata; e altrimenti da le piante, ealtrimenti da le minere; e altrimenti da la terra che da li altri [elementi], peròche è materialissima, e però remotissima e improporzionalissima a la primasimplicissima e nobilissima vertude, che sola è intellettuale, cioè Dio.

(Convivio III, VII, 2-6)

In questa pagina Dante spiega per quali motivi la Bontà divina, principio alienoda qualsiasi forma di composizione, causa semplicissima che si irradia in modo uni -forme su tutte le cose, produca una molteplicità variegata di effetti secondo una sca-la che sembra ammettere al suo interno una serie di infinite differenze. In questocontesto il rapporto di partecipazione che lega il molteplice all’Uno presuppone lacreazione del mondo come evento già compiuto: l’irradiarsi della bontà divina è unflusso paragonato alla luce del sole che splende con la medesima intensità su ognico sa, dal fango alla perla, là dove ogni cosa, a sua volta, riflette la luce primigenia aseconda del rango che le è stato assegnato in principio. «Discorrimento» è la sceltalessicale adottata da Dante per tradurre il sostantivo «influxus» del Liber de causis7.Alla potenza speculante degli angeli, pure forme intellettuali che costituiscono lozenit del creato, corrisponde l’opaca «grossezza» della materia, nadir ontologico ilcui grado di partecipazione alla luce è quasi eguale a zero. Più una creatura si riem-pie di luce intellettuale, maggiore è il suo grado di prossimità a Dio e minore il suo

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universalis secunda»; e alla proposizione XVIII: «[...] Ens primum est quietum et est causa causarum.Et si ipsum dat rebus omnibus ens, tunc ipsum dat eis per modum creationis» (cfr. B. Nardi, Saggi difilosofia dantesca, cit., pp. 107-108).

7 Richiamiamo l’interpretazione proposta da Piero Boitani, che in una Lectura Dantis associa il«discorrimento» di Convivio III, VII, 3 al «discorrer di Dio sovra quest’acque» di Paradiso XXIX v. 21:«Nel latino classico e medievale “discurrere” indica il ramificarsi della mente e lo spaziare, propriodell’oratore, su un qualche argomento. Il primo coinciderebbe con l’aprirsi dell’Amore eterno in nuoviamori. Il secondo si riferirebbe indirettamente all’azione della parola di Dio, fondamentale in Genesi enel Prologo giovanneo [...]. Occorre poi aggiungere che in Convivio (III, VII, 3) Dante cita il Liber decausis per affermare che “la prima bontade manda le sue bontadi sopra le cose con uno discorrimento”:la parola “discorrimento” sostituisce l’originale “influxio”. Ancora una volta, Dio discende in tutte lecreature per mezzo del “discorrer”. Cristoforo Landino, commentando Paradiso XXIX, giungerà sino arendere esplicita l’equivalenza tra il “trascorrere” di Dio e il discorso della creazione» (AA.VV., Lectu-ra Dantis Turicensis, vol. III: Paradiso, a cura di G. Güntert e M. Picone, Firenze, Franco Cesati Edito-re, 2002, p. 445).

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livello di compromissione con la materia. A supporto della sua tesi Dante cita ini-zialmente la proposizione XX del Liber de causis: «[...] bonitas prima non influitbonitates super res omnes nisi per modum unum, [...]» e prosegue la sua argomenta-zione con una sintesi di dottrine ricavate dal Liber e dagli scritti dionisiani. La costi-tuzione del Molteplice, sia nella sua scansione in «gradi generali» che nella sua ulte-riore suddivisione in «gradi singolari», è determinata dallo statuto ontologico di cia-scuno degli enti preposti a ricevere la Luce divina, che in se stessa è una, e tale daeffondersi su ogni realtà creata in un unico e solo modo. La dicotomia neoplatonicaUno/Molteplice coincide con la differenza ontologica tra la Causa Prima, identica alSommo Bene ed unica emittente dell’essere, e le cose riceventi, che dell’essere sonopartecipi. Sembra che Dante nel Convivio metta tra parentesi il problema teologicodella creazione per discutere il problema metafisico del creato nei termini propri del-la sola ragione naturale. Le questioni filosofiche del Convivio non rimandano alRevelatum, anche in virtù della collocazione eccentrica rispetto al sistema dellescienze che assume la teologia, secondo la ripartizione del II libro che associa i cielidell’astronomia tolemaica alle scienze dell’enciclopedia medievale. Detto altrimen-ti: Dante in queste pagine non tratta della creazione in quanto Evento, bensì del crea-to come struttura fondata sull’ordine razionale che Dio in principio ha impressoall’aurea catena degli esseri. In sintonia con lo stile complessivo del Convivio si col-locano le seguenti annotazioni:

[...] lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di dirit-to raggio, e in cose per modo di splendore reverberato: onde ne le Intelligenzeraggia la divina luce sanza mezzo, ne l’altre si ripercuote da queste Intelligen-ze prima illuminate. Ma però che qui è fatta menzione di luce e splendore, aperfetto intendimento mostrerò [la] differenza di questi vocabuli, secondo cheAvicenna sente. Dico che l’usanza de’ filosofi è di chiamare “luce” lo lume, inquanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare “raggio”, in quanto esso èper lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare “splen-dore”, in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso8.

(Convivio III, XIV, 4-6)

Se dalla lettura di questi brani passiamo ad effettuare un veloce esame cursoriocirca l’ambito lessicale dei termini adottati nel Convivio in riferimento ai processicausali, possiamo individuare due campi semiotici distinti ciascuno dei quali è asso-ciato a una coppia di lessemi. Al concetto di creazione ex nihilo appartengono isostantivi «creatura»/«creazione», sempre dosati con grande parsimonia, insieme al

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8 Il passo viene analizzato da P. Boyde, L’uomo nel cosmo. Filosofia della natura e poesia in Dan-te, cit., p. 337, dove l’autore chiama in causa la metafisica della luce di Roberto Grossatesta. La citazio-ne di Avicenna è probabilmente desunta dal suo trattato De anima III, I, come annota il Vasoli nella notaa p. 454 dell’edizione critica cui facciamo riferimento. Il termine «splendore» ritorna nel discorso sullacreazione che Tommaso tiene nel XIII del Paradiso: «Ciò che non more e ciò che può morire / non è senon splendor di quella idea / che partorisce, amando, il nostro sire» (vv. 52-54).

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verbo «intendere» nell’accezione tecnica che ricorre in Convivio IV, I, 8, dove Danteannuncia di avere interrotto gli studi filosofici per le difficoltà incorsegli nell’affron-tare la questione «se la prima materia de li elementi era da Dio intesa»9. A un proces-so di produzione causale distinto dalla creazione, appartiene invece la coppia lessi-cale «informazione»/«informare». Il sostantivo «creazione» ricorre soltanto due vol-te in tutta l’opera di Dante, entrambe nel II libro del Convivio. Nel V capitolo Dantespiega in che senso angeli, arcangeli e troni costituiscono la «prima» gerarchia cele-ste: «non prima quanto a nobilitade, non a creazione (ché più sono l’altre nobili etutte furono insieme create), ma prima quanto al nostro salire a loro altezza» (Convi-vio II, V, 6). Nel penultimo capitolo, una volta tracciata la differenza tra le «cosenaturali corruttibili» studiate dalla fisica e «le cose che sono sanza materia» oggettodella metafisica, leggiamo che «le cose incorruttibili [...] ebbero da Dio comincia-mento di creazione e non averanno fine» (Convivio II, XIV, 11)10. Non ci pare di ef -fettuare un’induzione frettolosa se avanziamo l’ipotesi che nel Convivio «creatura»equivalga a «creatura spirituale», come se tutto ciò che Dio trae all’essere dal nulladovesse costituire necessariamente un’entità incorruttibile in quanto proveniente dalSommo Bene. Creare significa quindi dare un inizio assoluto a un essere dotato diintelligenza, capace di partecipare al raggio della luce divina e di rifletterne il benein piena libertà e coscienza di sé, per cui le «creature» in senso proprio sarebbero dacircoscrivere unicamente alle intelligenze angeliche e alle anime degli uomini. Setale ipotesi fosse verificata, l’oscura questione «se la prima materia de li elementiera da Dio intesa», potrebbe derivare dalla difficoltà incontrata da Dante nel collega-re questo concetto di creazione dal nulla all’idea di un effetto come la materia prima,priva della dignità spettante a una «creatura» uscita dalla mano di Dio. Per la bassez-za ontologica che la caratterizza, in quanto mero sostrato dei processi fisici di gene-razione e corruzione, la materia è assolutamente incapace di partecipare alla luceintellettuale.

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9 Per motivi che cercheremo di chiarire ulteriormente nelle pagine seguenti non consideriamoaccettabile la definizione proposta da Maria Corti, secondo cui «intendere» vale come equivalente di«far passare qualcosa dalla potenza all’atto indirizzandolo al suo fine». È assurdo infatti pensare che lacreazione divina della materia sia un processo che presuppone una potenza preesistente, una sorta dimateria della materia. La definizione si trova in M. Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive perCavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 1983, p. 116. Nelle considerazioni svolte dalla Corti nelle paginesuccessive non si pone affatto il problema di distinguere tra la causalità divina e la causalità dei «moto-ri celesti». Per la vexata quaestio relativa all’interpretazione di questo passo cfr. B. Nardi, Dante e lacultura medievale, Bari, Laterza, 1949, pp. 248-259. Riportiamo integralmente il passo dantesco inConvivio IV, I, 8: «Per che, con ciò fosse cosa che questa mia donna un poco li suoi dolci sembiantitransmutasse a me, massimamente in quelle parti dove io mirava e cercava se la prima materia de li ele-menti era da Dio intesa, – per la qual cosa un poco dal frequentare lo suo aspetto mi sostenni –, quasi nela sua assenzia dimorando, entrai a riguardare col pensiero lo difetto umano intorno al detto errore[scil.: il problema della nobiltà]».

10 Per una trattazione analitica del lessema si veda la voce «Creazione» a cura di F. Anceschi, inED, cit., vol. II, p. 251. Una terza ricorrenza del lessema, in Convivio IV, XXVIII, 19 viene contestata dal-la Simonelli per motivi filologici a favore della lezione alternativa: «([oper]azione)».

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Passando all’esame del campo semantico relativo ai processi causali che nonimplicano la creazione dal nulla, incontriamo il termine «informazione». Nel Convi-vio ricorre due volte a distanza ravvicinata, in un passo del IV libro dedicato all’in-flusso dei cieli sui processi generativi che avvengono nel mondo sublunare:

Lo tempo, secondo che dice Aristotile nel quarto de la Fisica, è «numerodi movimento, secondo prima e poi»; e «numero di movimento celestiale», loquale dispone le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione.Ché altrimenti è disposta la terra nel principio de la primavera a ricevere in séla informazione de l’erbe e de li fiori, e altrimenti lo verno; e altrimenti èdisposta una stagione a ricevere lo seme che un’altra. E così la nostra mente, inquanto ella è fondata sopra la complessione del corpo, che a seguitare la circu-lazione del cielo altrimenti è disposto un tempo e altrimenti un altro.

(Convivio IV, II, 6-7)

Abbiamo riportato integralmente il passo anche per la presenza di un altro termi-ne tecnico – «complessione» – di grande importanza nel contesto della nostra inda-gine, come vedremo più sotto. Dante sta parlando del tempo non solo nella suadimensione quantitativa, come la si ricava dalla definizione della Fisica aristotelica,ma anche nella sua dimensione qualitativa, illustrata con l’esempio delle stagioni.Ogni stagione dispone in maniera differente la materia delle «cose di qua giù» a rice-vere l’influsso dei cieli, e questo processo interessa anche la mente umana nellamisura in cui è fondata sulla «complessione» del corpo11.

Le considerazioni fin qui svolte ci portano a ravvisare nel Convivio la distinzio-ne tra due processi causali: la «creazione», che scaturisce unicamente da Dio in quan-to Bene fontale, e il processo di «informazione» attuato dalle «secondarie ca gioni»,ovvero dai corpi celesti. Soltanto Dio è «dator entis» e fondamento della totalità delreale, mentre «datores formarum» possono essere ciascuna delle «secondarie cagio-ni» che contribuiscono alla perfezione del cosmo, partecipando di una porzione fini-ta del potere divino. La fonte di questa concezione si trova nelle proposizioni XVII eXVIII del Liber de causis, dove l’autore distingue tra la causalità «per modum crea-tionis», spettante alla Causa Prima, e la causalità «per modum formae», che è eserci-tata a diverso titolo dall’Intelletto e dall’Anima del mondo. Dante sostituisce le ulti-me due ipostasi con le sfere celesti assegnando loro il ruolo di cause seconde, inconformità a un modello già collaudato nelle opere di Alberto Magno12. Nel Convi-

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11 La citazione aristotelica è tratta dal celebre passo di Physica IV 17, 219b 1. Nelle note dell’edi-zione critica da lui curata Cesare Vasoli commenta il brano dantesco nel modo seguente: «è il principioche le forme dei corpi inferiori dipendono dai corpi celesti e dai loro moti, chiaramente espresso, tra glialtri, nei loro commenti aristotelici, anche da Alberto Magno (De caelo et mundo, II, tr. 1, 2) [...] e daTommaso d’Aquino (Exp. De caelo et mundo, II, lect. X)», in Dante Alighieri, Opere minori, t. I, p. II,cit., p. 535.

12 La proposizione XVII suona: «Redeamus autem et dicamus quod ens primum est quietum et estcausa causarum et, si ipsum dat omnibus rebus ens, tunc ipsum dat eis per modum creationis. Vita au -

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vio possiamo quindi intravedere le linee essenziali dell’impianto metafisico che saràsviluppato nel Paradiso, dove Dante darà risposta alla questione «se la prima mate-ria de li elementi era da Dio intesa»: Dio svetta come causa universalissima e princi-pio fontale di ogni bene; le cause seconde elargiscono perfezioni amministrando,governando e conservando le cose nella loro integrità ontologica; la materia rispon-de e si fa suggellare più o meno bene a seconda del grado di potenza e di disposizio-ne a captare la luce. Le cause seconde e la materia sono rispettivamente i principi diin dividuazione formale e iletico degli enti, ma l’«operari» conseguente il loro «es -se» sgorga da Dio in quanto causa delle cause, ossia causa dell’essere e della poten-za operativa di tutte le cose. La potenza della materia consiste nella sua capacità diassumere qualsiasi forma, dalla più primitiva, costituita dagli elementi, alla piùnobile, che è costituita dai corpi celesti. La potenza delle cause seconde consiste nel-la capacità di imprimere le forme sul quaderno della materia, secondo il disegnoprovvidenziale racchiuso negli abissi insondabili della Sapientia Dei. Il problemaulteriore sarà quello di mostrare in che modo il triplice ordine delle cause si configu-ra nella creazione del mondo come Evento accaduto in principio: ed è alla soluzionedi questo problema che Dante dedicherà l’intera sequenza dei canti II, VII, XIII eXXIX del Paradiso, in un trapasso dalla metafisica alla teologia speculativa cheall’epoca del Convivio non era ancora stato definito nei suoi contorni.

2. Il canto VII del Paradiso: primi effetti e cause seconde

Come in tutti i canti di transizione, caratterizzati da un’atmosfera narrativa rare-fatta e quindi più congeniale alla meditazione, anche il VII del Paradiso approfondi-sce alcune questioni lasciate in sospeso dal canto precedente, dove il pellegrino,assorto in devoto silenzio assieme a Beatrice, ha ascoltato il discorso dell’imperatoreGiustiniano, che ne occupa eccezionalmente l’intero spazio. Il canto VII affronta treproblemi strettamente legati fra loro: la creazione del primo uomo, la redenzione delgenere umano e la resurrezione della carne. Come ha dimostrato Georges Güntert inuna sua Lectura, l’orientamento semantico del canto risente della sua ambientazionenella sfera di Mercurio, il cielo che corrisponde alla scienza della dialettica, secondola ripartizione che Dante ha illustrato nel II libro del Convivio13. Il canto VII è dun-que una glossa al grandioso affresco storico che Giustiniano, nella duplice veste digiurista e teologo, ha delineato nel canto precedente, mettendo in risalto il disegnoprovvidenziale che con la pax romana ha preparato le condizioni indispensabili al -l’avvento di Cristo. In questo segmento dell’itinerario tra le sfere celesti – che ha unafunzione prolettica nei confronti delle tematiche che saranno affrontate nel cielo di

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tem prima dat eis quae sunt sub ea vitam non per modum creationis, immo per modum formae. Et simi-liter intelligentia non dat eis quae sunt sub ea de scientia et reliquis rebus nisi per modum formae».

13 AA.VV., Lectura Dantis Turicensis, vol. III: Paradiso, cit., p. 107.

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Giove – il problema della giustizia divina viene ad articolarsi in un dittico: il VI can-to esalta la forma del potere imperiale di Roma, mentre il VII mostra come il misterodell’incarnazione, della morte e della resurrezione di Cristo ne costituiscono il conte-nuto profondo, l’elemento di trascendenza in mancanza del quale il divenire storicorisulterebbe privo di significato. Ne risulta un’idea di provvidenza tipica del pensieromedievale: l’evento politico sta al suo significato teologico come la forma tran seuntedel potere sta al contenuto metastorico grazie a cui essa si inquadra in un ordine disenso escatologico. L’acribia dialettica con cui Giustiniano ha esposto questa dottri-na trova il suo naturale sbocco nella dissertazione di Beatrice del canto successivo. Iltema della creazione è come incastonato nel più ampio problema della giustizia divi-na, in maniera tale che dal punto di vista epistemologico le parole di Beatrice si col-locano su un duplice versante: si propongono come corollario al discorso di Giusti-niano, e al tempo stesso fungono da postulato alla dissertazione che verrà ulterior-mente sviluppata nel canto XXIX. L’incastonatura del tema della creazione ha luogoin due segmenti: il primo si estende dal verso 64 al verso 75, e occupa le quattro ter-zine successive alla sezione in cui Beatrice risponde a un primo dubbio che si erainsinuato nella mente di Dante in relazione alle oscure parole proferite da Giustinia-no circa la duplice «vendetta» operata dalla provvidenza divina, prima col sacrificiodel Redentore e poi con la distruzione del tempio di Gerusalemme per mano dell’im-peratore Tito. Il secondo segmento si estende dal verso 124 al verso 144, ed occupala sette terzine successive alla sezione in cui Beatrice discute il problema dellaredenzione dell’umanità in Cristo. È in queste sette terzine che si sviluppa il climaxdottrinale di Beatrice, prima che il canto si chiuda definitivamente con quattro versiin cui si accenna alla questione della resurrezione della carne. Dal canto VII si dipa-na una fitta trama di nessi intertestuali che riannodano alcune tematiche dei cantiprecedenti – in particolare il II e il III – e si protendono verso i canti a seguire – ilXIII e il XXIX – costruendo un arazzo variegato di significanti e di significati il cuifulcro è ancora una volta il problema della creazione. Una ricognizione accurata del-la totalità di questi rimandi eccede gli obiettivi del presente lavoro, e sarà oggetto distudi ulteriori.

Partiamo dal primo segmento. Dopo aver dato risposta al dubbio del pellegrino,relativo al significato della duplice vendetta della provvidenza, Beatrice inizia achiarire il senso e le modalità della redenzione pianificata da Dio per riparare conCristo al peccato di Adamo. È l’intero quadro della creazione ad essersi guastato inseguito alla caduta del primo uomo, dato che col peccato la morte fece il suo ingres-so nel mondo proiettandosi come un’ombra cupa su tutto quanto il mondo subluna-re. Il peccato originario è la ferita inferta al cuore del creato dall’essere più prossimoa Dio. Da questo punto di vista la redenzione del genere umano va intesa anchecome una palingenesi, una seconda creazione del mondo che ripara gli effetti deicolpi assestati alla machina mundi. Per meglio comprendere questo aspetto Beatricechiarisce che il peccato di Adamo deriva dal libero volere del primo uomo, e nondalla sua natura. Adamo, «quell’uom che non nacque» (Paradiso VII, v. 26), fu crea-to dalla mano di Dio direttamente de limo terrae. Tutto ciò che Dio genera «sanza

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mezzo» è libero e perpetuo, non ha nulla di impuro: quindi, sarebbe un errore gros-solano sostenere che la natura di Adamo sia stata creata guasta fin dal principio. Ilpeccato non è un prodotto necessario della natura, ma il risultato di una scelta liberae di una volontà incondizionata. Come si vede, il dogma della creazione di Adamocostringe Dante ad abbandonare la posizione implicitamente sostenuta nel Convivio,dove le uniche «creature» ad essere considerate tali erano soltanto quelle spirituali.E quindi, se tutto ciò che Dio crea «sanza mezzo» reca il sigillo della bontà suprema,ne consegue che la natura originaria di Adamo, anche nella tempra del corpo, «qualfu creata fu sincera e bona» (Paradiso VII, v. 36). Il rapporto paterno tra Dio e il pri-mo uomo si esprime nella duplicità della creatura libera in quanto fatta a sua imma-gine e somiglianza, come si legge in Genesi 1, 26. Se il rapporto iconico perdura nel-la natura dell’essere umano, in interiore homine, la somiglianza originaria si oscuraper il distacco volontario dal Principio che la creatura intelligente e libera instaura inpiena coscienza di sé. Il libero arbitrio, se usato in maniera discorde dalla volontà diDio, finisce col corrompere la natura dal suo originario rapporto di partecipazionealla bontà divina. Il «diavolo» è colui che, etimologicamente, introduce il dissidiotra libertà e natura, produce distanza tra padre e figlio, «scaglia contro» – etimologi-camente – il volere dell’uno al desiderio dell’altro. Tuttavia, resta il fatto che ogniessere creato da Dio «sanza mezzo» reca sempre e comunque su di sé l’improntaduratura della Causa prima:

Ciò che da lei sanza mezzo distilla non ha poi fine, perché non si move la sua imprenta quand’ella sigilla.

(Paradiso VII, vv. 67-69)

Tutto ciò che viene prodotto immediatamente da Dio è perenne perché reca il tri-plice sigillo di una causa onnipotente, onnisciente e infinitamente buona, come riba-dirà San Tommaso nel canto XIII, ai vv. 52-8714. La dottrina della resurrezione deicorpi, cui Dante accenna negli ultimi quattro versi che chiudono il canto VII, sisostiene proprio su questa base. L’anima è immortale in quanto creata da Dio, la car-ne è corruttibile in via, nella penombra del Frattempo in cui deambuliamo come via-

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14 La radice di questa concezione sta nel modello cosmogonico che il Medioevo cristiano ha cono-sciuto grazie alla traduzione latina del Timeo platonico elaborata da Calcidio nel IV secolo. Il Timeo è ildialogo in cui si narra che il demiurgo divino, nel plasmare la materia caotica primordiale, si riserva laproduzione degli enti incorruttibili e immateriali, delegando agli dei inferiori la costituzione delle entitàmeno nobili soggette a generazione e corruzione. In un passo del De intellectu et intelligibili (I, I, 4)citato dal Nardi come probabile riferimento di un capitolo del Convivio, ma anche in altri testi di Alber-to Magno che Dante avrà quasi sicuramente presenti all’epoca in cui scrive il Paradiso, il Dottore diColonia riporta il discorso che il demiurgo rivolge agli dei inferiori al momento di produrre l’animaumana. Il summus deorum avoca a sé la produzione dell’anima razionale, che sarà la scintilla di immor-talità presente nell’essere più vicino alla condizione divina, e affida agli dei inferiori l’incarico di gene-rare quelle parti dell’anima che l’uomo condivide con i bruti, ovvero l’anima sensibile e l’anima vege-tativa (cfr. B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, cit., pp. 68 e ss.).

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tores. Ma alla fine dei tempi, quando la condizione della carne sarà restaurata in tut-to il fulgore della sua potenza primigenia, i corpi risorgeranno, e l’unione tra anima ecorpo tornerà salda come era in principio allorché Adamo uscì dalla mano del Crea-tore.

Le terzine che vanno dal verso 65 al verso 75 costituiscono il corollario di Bea-trice al discorso di Giustiniano. Il corollario permette a sua volta di rispondere alladomanda circa le modalità della redenzione del genere umano attuate dalla provvi-denza. La risposta occupa tutta la sezione che si estende dal verso 76 al verso 123:con l’irruzione del peccato originale l’esistenza del genere umano si caratterizza peruna contrapposizione radicale tra la natura e la Grazia. L’umana creatura con le soleforze di una natura ormai corrotta non avrebbe mai potuto riparare alle conseguenzedel peccato e colmare l’abissale distanza che la separava dal Padre. Soltanto l’ini zia -tiva infinitamente amorosa di Dio avrebbe potuto supplire all’insufficienza del gene-re umano e ricucire la frattura tra padre e figlio. Là dove l’occhio umano intravede lapossibilità di agire in via alternativa o secondo giustizia o secondo misericordia,l’infinita Bontà attuò entrambe le scelte con la morte del Figlio sulla croce, in uneccesso infinito di misericordia e giustizia simul. Da una parte, sacrificando il Fi -glio, Dio donò se stesso in un atto di misericordia senza limiti. Al tempo stesso, nel-l’estrema punizione della carne di cui si rivestì il Verbo, fu consumato l’unico atto digiustizia che potesse reintegrare la natura umana dallo stato di corruzione postlapsa-ria. I due momenti della giustizia e della misericordia corrispondono alla duplicenatura, divina e umana, del Crocifisso, in una mirabile coincidentia oppositorum chetiene insieme gli estremi nella loro differenza ontologica15. Ecco allora che nel vol-gere alla conclusione ha inizio la seconda dissertazione di Beatrice, quella in cui siintroducono i postulati degli argomenti che ci attendono all’altezza del canto XXIX.Rispondendo alla domanda inespressa che affligge Dante, Beatrice osserva che lecreature di questo mondo sublunare, pur derivando da Dio, sono destinate a corrom-persi in quanto non sono create «in loro essere intero»:

Tu dici: “Io veggio l’acqua, io veggio il foco,l’aere e la terra e tutte lor misturevenire a corruzione, e durar poco;e queste cose pur furon creature;per che, se ciò ch’è detto è stato vero,esser dovrìen da corruzion sicure”.Li angeli, frate, e ’l paese sinceronel qual tu se’, dir si posson, creati,

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15 Nella duplice natura del Cristo è racchiusa anche la soluzione alle enigmatiche parole di Giusti-niano del canto precedente: la croce fu la giusta punizione comminata da Dio all’uomo-Cristo in quan-to vittima sacrificale. La distruzione del tempio di Gerusalemme fu la giusta punizione comminata daDio agli ebrei per mano dell’imperatore Tito, qualora si passi a considerare la natura divina del Reden-tore. Per ulteriori approfondimenti cfr. P. Colilli, Canto VII, in Dante’s «Divine Comedy». Introductoryreadings, vol. III: «Paradiso», a cura di T. Wlassics, University of Virginia, 1995, pp. 107-114.

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sì come sono, in loro essere intero;ma li elementi che tu hai nomatie quelle cose che di lor si fannoda creata virtù sono informati.Creata fu la materia ch’elli hanno;creata fu la virtù informantein queste stelle che ’ntorno a loro vanno. L’anima d’ogne bruto e delle piantedi complession potenzïata tiralo raggio e ’l moto de le luci sante;ma vostra vita sanza mezzo spirala somma beninanza, e la innamoradi sé sì che poi sempre la disira.

(Paradiso VII, vv. 124-144, corsivo nostro)

Dante affida alla potenza percussiva dell’anafora il compito di chiarire la distin-zione tra ciò che Dio «crea» e ciò che natura «face», quasi volesse imprimere nellacera del significante il suggello di un significato definitivo. Il verbo «creare» ricorrequattro volte a distanza ravvicinata nell’ambito di sette versi, riprendendo l’anaforasemanticamente identica dei versi 67-69 del primo segmento16. Il processo creativonon consiste soltanto nel produrre l’essere dal nulla, bensì nel conferire all’effettouna perfezione ontologica proporzionale alla potenza della causa prima. Le «coseno ve» create direttamente da Dio sono immortali e imperiture, pur avendo avuto uninizio nel tempo, in quanto «creare» significa produrre gli oggetti «in loro essereintero», nella totalità di essere e forma. Ne consegue che nel novero delle «creature»propriamente dette rientrano tutti gli angeli del paradiso, la virtù informante dei cie-li, ma anche la materia del mondo sublunare, che dovrà costituire l’universalesubjectum – nel senso aristotelico di «ypokeimenon» – di ogni ulteriore informazio-ne proveniente dall’influsso delle cause seconde. Gli elementi, i composti, le animesensitive degli animali e le anime vegetative delle piante, sono come dei prodottiderivati, un effetto dei «primi effetti», ovvero delle cause seconde. Appartenendo almondo sublunare, soggetto a generazione e corruzione, i corpi composti dai quattroelementi e le anime inferiori, che nei vegetali e negli animali sono immerse e quasiimpregnate della materia corporea, non possono dirsi «create», ma più semplice-mente generate dal processo di «informazione» che ha le sue cause efficienti nel«raggio» e nel «moto» delle luci sante. Il verso 141 del canto VII («lo raggio e ’lmoto de le luci sante») richiama alla mente del lettore il verso 127 del canto II («Lomoto e la virtù de’ santi giri») in un chiasmo a distanza che stabilisce un rapporto dicontinuità tra la dottrina esposta qui, nel cielo di Mercurio, e la dissertazione sulleinfluenze celesti elaborata nel cielo della Luna. Unica eccezione tra «le cose di

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16 «Ciò che da lei sanza mezzo distilla / non ha poi fine, perché non si move / la sua imprentaquand’ella sigilla. / Ciò che da lei sanza mezzo piove / libero è tutto, perché non soggiace / alla virtutedelle cose nove» (Paradiso VII, vv. 67-72).

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quaggiù» è l’anima umana, il cui desiderio di unirsi a Dio per l’eternità è già di perse stesso una dimostrazione evidente della sua natura immortale e della sua destina-zione ultraterrena («erimus tunc sicut angeli», come è scritto in Matteo 22, 30). A unprimo sguardo, le parole di Beatrice ai versi 131-132 potrebbero trarre in inganno:quando ella afferma che gli angeli furon creati in loro essere «intero» non intendecerto suggerire l’ipotesi di una creazione «parziale» da parte di qualche altro enteche non sia Dio. O si dà creazione in loro essere intero o non si dà affatto creazione.L’ipotesi di una creazione mediata implicherebbe l’assurdo corollario di un attocreativo parziale, ipotesi priva di fondamento logico prima ancora che incompatibilecon la fede. Il senso dei versi 130-144 può essere riassunto nel modo seguente: ciòche è incorruttibile e sempiterno reca in se stesso il sigillo divino della creazione exnihilo avvenuta in principio, fuori da qualsiasi ulteriore influenza attribuibile allecause seconde. Tutto ciò che invece è soggetto al divenire dei quattro elementi eall’alterna vicenda della generazione e della corruzione non è stato creato da Dio néda alcuna istanza intermedia: è il prodotto di un processo naturale di «informazio-ne», e appartiene all’ambito di ciò che la teologia chiama opus distinctionis. Nellostudio su Dante e Pietro d’Abano Nardi elabora una diversa lettura del canto VII.Af fascinato e sedotto dall’emanatismo neoplatonico, Dante si discosterebbe da Tom-maso d’Aquino col porre la distinzione tra le cose create direttamente da Dio e glienti che risultano da un processo di creazione mediata, le cui cause efficienti andreb-bero appunto identificate nella virtù informante delle sfere celesti. Definire «etero-dossa» una dottrina di questo genere è un eufemismo, a dir poco. Si tratta di una verae propria eresia cui Dante cercherebbe di sottrarsi con uno stratagemma speculativo,tale da indurlo comunque a trarre una serie di conseguenze incompatibili con la fedecristiana: «Dante pensa di sfuggire all’eresia distinguendo, nelle cose corruttibili, laproduzione della materia da quella della forma. La materia fu creata da Dio imme-diatamente [...] La forma è data invece dalla virtù informante degli astri»17. Le uni-che forme create direttamente da Dio in questo nostro mondo sublunare sono le ani-me degli esseri umani. Pure la materia fu creata da Dio. Ma l’anima dei bruti e dellepiante, ovvero il principio formale che attualizza la vita degli esseri inferiori, vieneimpresso nella materia di quaggiù dalla virtù informante dei cieli. L’ulteriore mossaspeculativa cui Dante sarebbe suo malgrado costretto consiste nel fatto che nonpotendo più assumere che dalla creazione divina scaturisca un effetto vuoto e inde-terminato come la materia omnino informis degli aristotelici, sarebbe costretto a unulteriore ripiegamento. In principio, Dio avrebbe creato una materia caotica e mag-matica molto simile alla «terra inanis et vacua» di cui parla Genesi 1, 2, secondo unconcetto lontano dai principi della metafisica aristotelica ma conforme a un’ideaassai diffusa tra gli esponenti di certo platonismo medievale quali furono i platonicidella scuola di Chartres, a loro volta influenzati dal Timeo platonico, dalla Philo-sophiae Consolatio di Boezio, o anche – aggiungiamo noi – dall’incipit delle Meta-

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17 B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, cit., p. 45.

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morfosi di Ovidio18. Che la lettura del Nardi sia difficilmente sostenibile lo ha giàdimostrato l’analisi del canto VII del Paradiso condotta da Stephen Bemrose nel suolavoro sulle intelligenze angeliche, dove si mette chiaramente in evidenza che Danteapplica con rigore la distinzione tra creare e informare distinguendo tra l’atto creati-vo in principio e il successivo ordinamento del mondo che viene a compiersi conl’opus distinctionis19. Se poi applichiamo la distinzione tra i due generi di causalitàformulata nelle proposizioni XVII e XVIII del Liber de causis possiamo ulterior-mente corroborare l’esegesi di Bemrose. Le sostanze create possono dirsi «cause»nella misura in cui esercitano un «influxus» che non si estrinseca nel conferire l’es -sere dal nulla, ma nell’aggiungere perfezioni. Il lemma della proposizione IV delLiber de causis – «prima rerum creatarum est esse» – stabilisce un principio chevie ne ulteriormente specificato dalla proposizione XVIII – «Res omnes entia prop-ter ens primum» –, da cui discende la distinzione tra la causalità per modum creatio-nis, che appartiene unicamente a Dio in quanto puro Essere, e causalità per modumformae propria delle cause subalterne, come già si è visto sopra. La distinzione pre-sentata nel trattato pseudo-aristotelico può essere utilizzata anche nella lettura deiversi 139-141 in Paradiso VII: «L’anima d’ogne bruto e delle piante / da comples-sion potenzïata tira / lo raggio e ’l moto de le luci sante». Al contrario dell’animarazionale, l’anima vegetativa e l’anima sensitiva sono un prodotto delle cause secon-de. Il processo che porta alla loro generazione rinvia all’ordine di «ciò che naturaface», non al creare ex nihilo. Le cause efficienti del processo di informazione sono

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18 Anche secondo Boyde «Dante si rifà ai teologi platonici della scuola di Chartres del dodicesimosecolo e ai loro commenti al Timeo di Platone o alla Consolatio philosophiae di Boezio» (P. BoydeL’uomo nel cosmo. Filosofia della natura e poesia in Dante, cit. p. 398). Il Chaos primigenio descrittoda Ovidio nel I libro delle Metamorfosi può essere considerato l’antecedente letterario di quella «mate-ria fluitans» descritta da Boezio nel carme IX del III libro della Consolatio: «O qui perpetua mundumratione gubernas / terrarum caelique sator, qui tempus ab aevo / ire iubes stabilisque manens das cunc-ta moveri, / quem non externae pepulerunt fingere causae / materiae fluitantis opus, verum insita sum-mi / forma boni livore carens». Il sintagma «materia fluitans» ritorna in Monarchia II, II, 2-4, mentrel’espressione «forma boni livore carens» viene, per così dire, tradotta da Dante nel VII canto del Para-diso: «la divina bontà che da sé sperne / ogni livore» (vv. 64-65). Sul problema della materia in Dantecfr. il contributo di John Bruce-Jones L’importanza della materia prima. Aspetti della materia nellapoesia e nel pensiero di Dante, in AA.VV., Dante e la scienza, a cura di P. Boyde e V. Russo, Ravenna,Longo Editore, 1995, pp. 213-221.

19 «What Dante is distinguishing, both in Canto VII and in Canto XIII, are two categories of being:those formed sanza mezzo (VII, 67, etc.), that is, genuinely created; and those which the cose nove (VII,72), or secundary causes, have geneated by impressing form into matter. [...] A crucial consequence ofthe disctinction, thinks Dante, is the division between corruptible and incorruptible being. Only thosethings that owe their existence directly to God are incorruptible: [...] Corruptibility is a feature of all tho-se things produced indirectly, for then there is a certain instability in the informing process» (S. Bemrose,Dante’s angelic intelligencies. Their importance in the Cosmos and in Pre-Christian Religion, cit., p.94). Qualche accenno alla nozione di opus distinctionis in Dante si trova anche in T. Barolini, La «Com-media» senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 250 e ss.).Sul rapporto tra metafisica e cosmologia in Dante rimandiamo invece al saggio di G. Stabile, Dante e lefilosofia della natura. Percezioni, linguaggi, cosmologie, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2007.

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tutte create da Dio – creata fu la materia degli elementi, creata fu la virtù informante –ma le anime dei viventi privi di ragione sono generate «per modum formae», attra-verso l’effetto congiunto del «raggio» e del «moto» dei corpi celesti che «tirano» viale forme dalla «complession potenziata» della materia20. Il termine «complessione»,che abbiamo già incontrato in Convivio IV, II, 6, è un vocabolo tecnico della medici-na galenica che assume un significato oscillante tra «temperamento» e «costituzionefisica». Nel Medioevo tra le fonti della teoria della «complessione» vi era il trattatodi Galeno De complexionibus, accessibile nella traduzione latina di Burgundio daPisa risalente al XII secolo, l’enciclopedia medica nota come Pantegni, e il Colligetdi Averroè, senza contare i Quaesita circa complexionem presenti nel Conciliator diPietro d’Abano. Se interroghiamo i commentatori antichi, possiamo leggere unaserie di annotazioni in Benvenuto da Imola e nel Buti assai utili per cogliere il signi-ficato che il verbo «tirare» assume in questo contesto. Partiamo da Benvenuto:

Lo raggio e ’l moto delle luci sante, idest, influentia et virtus stellarum, ti -ra, idest, elicit, l’anima d’ogne bruto, idest, omnem animam sensitivam, e del-le piante, idest, omnem animam vegetativam, di complession potenziata, quiatalis anima educitur de potentia materiae, idest, simul cum corpore oritur, si -mul moritur21.

Nel rendere «tira» col latino «elicit» Benvenuto spiega il processo di estrazionedell’anima sensitiva e dell’anima vegetativa dalla «complessione potenziata» in ter-mini che si ricollegano alla dottrina dell’inchoatio formae promossa da AlbertoMagno, combattuta da Tommaso d’Aquino e condivisa da Dante fin dall’epoca delConvivio22. L’operazione attraverso cui l’anima dei bruti e delle piante vengono

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20 Sul significato della locuzione «complessione potenziata» si leggano le seguenti annotazioni delMaierù alla voce «potenziato» dell’Enciclopedia Dantesca: «l’esatta interpretazione [scil. dei versi139-141 in Paradiso VII] risale al Lombardi: “essendo l’anima forma non della materia prima, ma deicorpi organici, perciò – siccome le forme informanti la materia prima si tirano, si ricavano dalla di leipotenza (educuntur, così gli scolastici, ab agente de potentia materiae) istessamente l’anime dei bruti edelle piante debbono trarsi da un corpo non qualunque, ma la cui complessione, temperatura, struttura,ritrovisi potenziata, dotata di potenza, d’abilità, a potersi per le agenti stelle esse anime tirare, trarre”»(ED, cit., vol. IV, p. 622). Cfr. anche la voce «complessione» curata da Enrico Pasquini in ED, cit., vol.I, p. 127 dove l’autore fa riferimento a Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles II, 63.

21 Benvenuti De Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, Florentiae,G. Barberi, 1887, t. IV, p. 477.

22 Sull’influsso della dottrina dell’inchoatio formae in Dante si vedano le seguenti note di CesareVasoli: «Alberto sembra considerare la forma come un principio che agisce all’interno della stessamateria; e può parlare della generazione come di un continuus egressus, di una forma suscettibile disviluppo. Richiamandosi implicitamente a una dottrina stoica e neoplatonica, nota anche agli autorimedievali attraverso la concezione delle rationes seminales, ritiene addirittura che le forme siano con-tenute nella materia dalla sua costituzione (Physica, I, tr. 3, 15) e che l’agente estrinseco non le produ-ca, ma si limiti a modificarne lo stato. [...] La vicinanza della teoria esposta da Dante con quella alberti-na è abbastanza chiara e potrebbe essere ancora meglio confermata da un sistematico confronto dei te -sti» (C. Vasoli, Fonti albertine nel Convivio di Dante, in AA.VV., Albertus Magnus und der Alberti-

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«tirate via» è un «educere de potentia materiae». Stavolta non si tratta di un proces-so riconducibile alla metafora della luce che si imprime come un sigillo, quanto diun influsso astrale che risveglia le anime dormienti custodite e racchiuse dalla mate-ria complessionata, in una sorta di alchimia cosmica che consente loro di sbocciarepassando dalla potenza all’atto. Occorre tuttavia notare che la virtù informante deicieli non agisce sulla materia primigenia, vuota e indeterminata, ma su una materiache ha già ricevuto un livello iniziale di informazione, dato dalla presenza dei quat-tro elementi, e che pertanto reca già su di sé i primi segni dell’opus distinctionis.Dante, infatti, non afferma che la virtù informante agisce sulla «materia de li ele-menti», ma appunto sulla «complessione potenziata», ovvero sulla «vertù de li ele-menti legati», stando alla definizione di «complessione» che troviamo nel Convivio.Questo aspetto viene evidenziato anche nel commento del Buti:

[...] la prima materia in quella sua informità ne la quale fu creata, è perpe-tua e libera; ma in quella forma che à ora, è mutabile e corruttibile, perché nonè creata da Dio senza mezzo; ma con mezzo della creata virtù messa in loronella loro creazione, o per mezzo della luce; e le cose elementate tutte sonoarrecate ad essere da Dio per virtù delle influenzie dei cieli e dei corpi celesti,e però appare che sono temporali e mutevili e corruttibili [...]; e però ben dice:Creata fu la materia; cioè da Dio senza mezzo, ch’elli; cioè gli elementi, anno;e però quella è perpetua e libera, e non soiace se non a Dio. Creata fu la virtùinformante; cioè arrecante ad essere le cose elementate23.

E poi, ad locum:

Lo raggio e ’l moto; ecco che tocca due cose che sono cagione de le in -fluenzie dei corpi celesti, de le luci sante; cioè delle stelle le quali chiama san-te, cioè ferme, perché sono create senza mezzo da Dio, tira; cioè produce adessere, L’anima d’ogne bruto; cioè l’anima sensitiva et imaginativa d’ognianimale bruto, e de le piante; cioè l’anima vegetativa dell’erbe e degli albori,Di complession potenziata; cioè di composizione materiale, cioè elementale:imperò che tale anima si dice fatta del simplice formale degli elementi, depu-rato dalla virtù e dalla influenzia dei corpi celesti; e perciò tali anime sonotemporali e non perpetue, e non sono libere; ma soiaceno a la influenzia et a lavirtù dei corpi celesti24.

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smus. Deutsche philosophische Kultur des Mittelalters, Leiden-New York-Köln, E. J. Brill, 1995, p.45). Tra i molteplici esempi che si possono addurre, in ordine a un «sistematico confronto dei testi»,riportiamo il passo seguente: «Et licet formas secundum Peripateticorum sapientiam de materia edu-cantur, tamen virtus formativa uniuscuiusque rei formatae non est ex materia, eo quod non idem potestesse movens et motum neque formans et formatum, sed potius formativa virtus ex efficiente et moventeet primo» (Alberto Magno, De natura et origine animae, tr. I, cap. 2).

23 Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Comedia di Dante Allighieri, Pisa, FratelliNistri, 1862, t. III, p. 244.

24 Ibidem. Il riferimento al «formale degli elementi» ritorna anche nel commento di CristoforoLan dino: «L’anima d’ogni bruto: l’anima sensitiva ne’ bruti et la vegetativa delle piante non è perpetua

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In un capitolo assai controverso del IV libro del Convivio dedicato al problemadell’origine dell’anima, Dante ha definito la «complessione» come «la virtù deglielementi legati», associandola alla «vertù dei cieli» e distinguendola dalla «vertù delo motore dei cieli». Solo a quest’ultima è riconducibile la creazione dell’elementopiù nobile dell’anima umana, il suo «seme di felicitade», ovvero l’intelletto possibi-le individuale. La complessione della materia elementale e la virtù dei cieli sono daritenersi responsabili dei processi naturali che presiedono alla generazione dell’ani-ma vegetativa e sensitiva:

E però dico che quando l’umano seme cade nel suo recettaculo, cioè ne lamatrice, esso porta seco la vertù de l’anima generativa e la vertù del cielo e lavertù de li elementi legati, cioè la complessione; e matura e dispone la materiaa la vertù formativa, la quale diede l’anima del generante; e la vertù formativaprepara li organi a la vertù celestiale, che produce de la potenza del semel’anima in vita. La quale, incontanente produtta, riceve da la vertù del motoredel cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte leforme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quantopiù dilungato da la prima Intelligenza è.

(Convivio IV, XXI, 4-5)

In questo modo, l’insieme dell’anima vegetativa e dell’anima sensitiva – ossia,ciò che Dante nel passo citato chiama «l’anima in vita» – vengono tratte dalla mate-ria secondo un processo riconducibile all’ordinario operare della natura, in confor-mità alla dottrina dell’inchoatio formae: la virtù dei cieli agisce sulla complessioneed estrae da essa le potenze formali embricate nella struttura dei quattro elementi.Una volta che il composto è pronto, Dio fa piovere su di esso l’intelletto possibile,creato «sanza mezzo» alla stessa stregua dell’intelletto agente degli angeli25. Le

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perché è di complexione potentiata di compositione materiale. Questa è facta del semplice formaledegl’elementi purificato dalla influentia de’ cieli, et però è temporale et sottoposta alla influentia de’cieli, et perché è dedocta dalla influentia delle stelle infusa co’ razi loro et col moto, et però dixe el rag-gio e ’l moto delle sancte luci» (C. Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, Roma,Salerno Editrice, 2001, t. IV, p. 1678).

25 Accogliamo l’interpretazione del passo data dal Nardi nel suo studio sull’origine dell’animaumana, dove egli identifica l’anima in vita con l’insieme dell’anima vegetativa e sensitiva, smontandole opposte argomentazioni del Busnelli: «L’“anima in vita” prodotta dalla “vertù celestiale” non puòessere l’anima razionale, prima di tutto perché è tratta dalla “potenza del seme. [...] Nel luogo del Deunitate intellectus citato dal Busnelli, san Tommaso ammette che “niente impedisce di dire che la mate-ria del corpo sia in potenza all’anima intellettiva”; ma con questo, egli osserva, non si può dire chel’anima intellettiva sia tratta dalla potenza della materia: “unde non potest dici, quod educatur de mate-ria”. “Anima rationalis non potest educi de potentia materiae” ripete Tommaso, De pot. q. 3, a. 9, ealtrove. E Pietro d’Abano racconta che ebbe a patire persecuzioni da parte dei domenicani di S. Giaco-mo, a Parigi, perché fra l’altro l’accusavano d’aver sostenuto “animam intellectivam de potentia educimateriae”» (in B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 1949, pp. 267-268). Il problemadella creazione dell’anima attraversa come un filo rosso tutta l’opera dantesca, dal Convivio al VII delParadiso passando attraverso il XXV canto del Purgatorio.

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innegabili influenze della medicina galenica mediata dagli arabi non ci impedisconodi leggere questa dottrina alla luce di un’ulteriore proposizione del Liber de causis,in accoglimento della regola esegetica proposta dal Nardi che invitava a cercare tra leproposizioni che Dante non cita esplicitamente, nel nostro caso la V. In essa l’anoni -mo autore formula un teorema che sembra supportare la dottrina dell’anima espostanel Convivio, corroborando l’idea di una prossimità dell’uomo alle intelligenze sepa-rate proporzionale alla distanza che lo separa dagli animali privi di ragione:

Intelligentiae superiores primae, quae sequuntur causam primam, impri-munt formas secundas, stantes, quae non destruuntur ita ut sit necessarium ite-rare eas vice alia. Intelligentiae autem secundae imprimunt formas declines,separabiles, sicut est anima.

Esistono dunque due generi di forme. Quelle «stabili», impresse saldamente nel-la materia, che non si avvicendano nel corso del tempo, e quelle caduche e separabili(«declines»). Le prime sono prodotte dalle intelligenze superiori immediatamentesuccessive a Dio, le seconde dalle intelligenze inferiori. Nel commento a questa pro-posizione, Tommaso considera come fattispecie delle «formae declines» le animedei viventi privi di ragione, piante e bestie26. Una volta eliminato il riferimento aidue generi di intelligenze superiori come matrici di tali processi, e ripristinata l’ideache soltanto Dio crea forme incorruttibili mentre le cause seconde estraggono le for-me corruttibili dalla complessione della materia, otteniamo un modello eziologicoche in Dante, come spesso accade, nasce dalla combinazione nuova e imprevista didottrine preesistenti27. Dell’idea di «creazione mediata», il canto VII non reca alcu-na traccia. L’influsso che la virtù dei cieli esercita sulla materia del mondo di quag-

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26 Scrive Tommaso: «Possumus enim loqui de animae impressione dupliciter: uno modo ex parteipsius animae impressae, alio modo ex parte materiae cui imprimitur. Et haec quidem distinctio locumhabet in qualibet anima per se stante, qualis est quaelibet anima intelligens, ut infra patebit, quia essesubstantiae eius non totaliter consistit in unione sui ad materiam corporalem, sicut esse animae nonsubsistentis quales sunt animae brutorum et plantarum, unde in his praedicta distinctio necessaria nonest, quia simul consideratur esse talium animarum et ex parte materiae recipientis et ex parte ipsius ani-mae. Si ergo loquamur de anima per se stante scilicet intellectuali quacumque sive caelesti si ponanturcorpora caelestia animata secundum quod auctor huius libri supponit, sive de anima humana ex parteipsius animae, tunc secundum radices positionum Platonicarum, quas in multis auctor huius libri sequi-tur, talis anima est ex impressione intelligentiae quia, sicut supra dictum est in 3 propositione, Platoniciposuerunt quod ab alio principio causatur in aliqua re id quod est commune, et ab alio inferiori princi-pio id quod est magis proprium» (Tommaso d’Aquino, Super librum De causis expositio, Lectio 5. Lacitazione latina è tratta dall’edizione elettronica del Corpus Thomisticum curata da Enrique Alarcon:Sancti Tomae de Aquino, Opera omnia, recognovit et instruxit E. Alarcon automato electronico, Pam-pilonae ad Unuversitatis Studiorum Navarrensis aedes a MM a.D. Per la versione italiana con il com-mento di C. D’Ancona cfr. invece il Commento al «Libro delle cause», trad. it., cit., p. 223).

27 Come ha osservato Ruedi Imbach, il modus operandi di Dante è caratterizzato dall’utilizzare eassemblare in modo originale temi e materiali della cultura scolastica del tempo che di per sé non sonoaffatto originali (cfr. R. Imbach, Dante und die Naturphilosophie, in Quodlibet. Ausgewählte Artikel,Freiburg Schweiz, Universitätsverlag, 1996, pp. 399-420).

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giù non determina alcun processo creativo, ma permette alla forme racchiuse nelgrembo della materia di svilupparsi fino alla piena entelechia secondo un ordinetemporale astrologicamente qualificato. Questo influsso, o «informazione», presup-pone tuttavia come suo campo d’azione una materia già potenziata nei quattro ele-menti. Del resto, in Monarchia I, III, 6, l’espressione «esse complexionatum» vieneriferita ai minerali, ossia a quelle entità che nella scala ascendente degli esseri, cul-minante con l’uomo, costituiscono il genere intermedio che si colloca immediata-mente sopra i quattro elementi e al di sotto del mondo vegetale. Alla differenza tracausalità per creazione e causalità per informazione corrisponde, infine, la distinzio-ne tra due generi di forme: quelle incorruttibili, «distillate» dalla bontà divina e sce-vre da materia, ossia le intelligenze separate e gli intelletti umani; e le forme corrut-tibili, ovvero l’anima vegetativa delle piante e l’anima sensitiva dei bruti, talmenteimmerse nella materia da condividerne la vicenda di generazione e corruzione cheaffligge gli elementi e i composti materiali. E se le intelligenze angeliche dimoranoal cospetto di Dio fin dal primo giorno della creazione, le anime degli esseri umani,dopo il breve soggiorno nel corpo, saliranno alla Patria ultraterrena per ridiscenderequaggiù alla fine dei tempi, nella resurrezione della carne. L’unione di corpo e animache caratterizzerà i risorti sarà indissolubile come il «vime» di forma e materia cheDio ha impresso ai corpi celesti fin dall’inizio, come Beatrice ci rivelerà nel cantoXXIX. Il corpo glorioso dei risorti si configura come una sorta di corpo astrale chesopravanza, nella sua dualità di materia e forma, la stessa gloria degli angeli, pureintelligenze destinate a non rivestirsi mai di un corpo. Saremo più che angeli, sare-mo come astri.

3. In principio era l’arco: dal canto XIII al canto XXIX del Paradiso

Nel XIII canto del Paradiso è lo stesso San Tommaso a sciogliere il dubbio cheinfiamma di desiderio l’anima del pellegrino. Per quale motivo, parlando della pro-verbiale sapienza di Salomone, il Doctor Angelicus aveva affermato che «a vedertanto non surse il secondo»? (Paradiso X, v. 114). Massima espressione della sa -pien za umana dovrebbero essere il primo e il secondo Adamo, entrambi direttamen-te creati da Dio: il primo, dotato di quella natura «sincera e bona» che fu propria del-l’umanità in statu innocentiae; e Cristo, «alter Adam» secondo la carne, venuto nelmondo per espiare il peccato originario. La risposta di Tommaso è nota quanto lamatrice aristotelica della distinzione su cui poggia: Salomone fu il campione inegua-gliabile della saggezza politica e delle virtù etiche. L’Aquinate tuttavia ribadisce cheDante non è in errore quando considera Adamo e Cristo i massimi esempi dellasapienza speculativa. Per illuminarci sulla natura di questa distinzione Tommaso dàinizio ad un’ampia dissertazione che prende le mosse da lontano, iniziando dal dog-ma della Trinità. In virtù del nesso che salda il piano narratologico a quello episte-mologico, il transito dal cielo di Mercurio al cielo del Sole, il cielo dei sapienti in cuisi manifesta Tommaso, corrisponde a un ulteriore incremento di potenza dianoetica

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per la mente del pellegrino. Ecco allora che la nuova dissertazione sul tema dellacreazione si configura come una campata essenziale alla tenuta del ponte speculati-vo che attraversa il Paradiso, dal canto VII al XXIX:

Ciò che non more e ciò che può morirenon è se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro sire: ché quella viva luce che sì meadal suo lucente, che non si disunada lui né dall’amor ch’a lor s’intrea,per sua bontate il suo raggiare aduna,quasi specchiato, in nove sussistenze,etternalmente rimanendosi una.Quindi discende all’ultime potenzegiù d’atto in atto, tanto divenendo,che più non fa che brevi contingenze;e queste contingenze essere intendole cose generate, che producecon seme e sanza seme il ciel movendo.

(Paradiso XIII, vv. 52-66)

Il processo di irradiazione del creato viene descritto all’interno della prospettivatrinitaria, in maniera tale da rendere la metafisica quasi un’appendice della teologiaspeculativa28. Tutto ciò che esiste riceve l’essere da Dio, ed è raggio riflesso dellacausa esemplare presente nel Verbo, la Sapienza in cui e per cui tutto fu creato inprincipio. Dante ricorre al verbo «partorire» per designare la potenza creatrice di unSire il cui volto amoroso assume sembianze materne, come a creare un legame sotto-cutaneo con la «Vergine pregna» evocata più sotto, al verso 84. La luce del Verboemana («sì mea») dalla Luce fontale e si riflette nelle nove sussistenze angelichecome in altrettanti specchi in cui si rifrange l’eterna unità del Principio. Dante sfruttal’effetto di omofonia di «nove» a intendere il numero delle gerarchie angeliche allu-dendo al significato di «novae» – create ex nihilo. Da queste intelligenze la luce delVerbo scende giù di cielo in cielo, «d’atto in atto», fino a diradarsi in effimere «con-tingenze», nelle cose materiali che si generano e si corrompono: minerali, piante,animali. Dalla dissonanza tra la cera della materia, più o meno disposta a riceverel’informazione della Luce, e i corpi celesti, la cui disposizione muta nel corso deltempo, scaturiscono le configurazioni dei singoli esseri, ciascuno dei quali riflette inmodo più o meno adeguato l’idea di cui è imitazione. Per la prospettiva trinitaria

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28 Sulle implicazioni epistemologiche della «teologia» dantesca si veda il volume di F. Livi, Dantee la teologia. L’immaginazione poetica nella «Divina Commedia» come interpretazione del dogma,Roma, Casa editrice Leonardo da Vinci, 2008. Per quanto riguarda invece il rapporto tra teologia emetafisica della giustizia cfr. il recente saggio di G. Telone, Alle origini della creazione: «Giustiziamosse il mio alto fattore», in AA.VV., Etica e teologia nella «Commedia» di Dante, Roma, Edizioni distoria e letteratura, 2009, pp. 1-25.

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entro cui è inquadrato, il discorso di Tommaso assume un timbro assai diverso ri -spetto al tono quasi colloquiale che caratterizza il passo del Convivio – III, XIV, 4 –allegato da alcuni commentatori in riferimento al contesto presente. Lo abbiamo giàcitato nella sezione introduttiva. Il processo di irradiazione della Luce, nelle parole diTommaso, non è più una struttura immobile dal sapore ancora rigidamente emanati-stico quale poteva apparire nel trattato in volgare, ma è evento dell’Amore che pro-mana dalla potenza infinitamente creatrice del Dio partoriente, il Dio che «s’in trea»(v. 57) in Persone distinte. Ed è proprio con l’introduzione della dottrina trinitaria cheil cammino anagogico del pellegrino si immette in una dimensione nuova, con unoscatto in avanti rispetto al VII del Paradiso che prepara l’ultimo discorso sulla crea-zione collocato all’altezza del XXIX canto. L’esposizione di Beatrice sulla creazionedelle intelligenze angeliche costituisce il vertice speculativo dell’itinerario che abbia-mo seguito finora, un fiume carsico che attraversa l’intera Commedia dai canti XVI eXXV del Purgatorio, dedicati al problema della creazione dell’anima umana, finoappunto al XXIX del Paradiso. Beatrice ci guida attraverso un percorso teleologica-mente orientato: la visione delle cose in Dio, che Dante conseguirà per grazia divinanel XXXIII, costituisce l’apice noetico di una mistica navigazione dove la scansionenarrativa ritma le tappe di un tragitto dianoetico. Nel Primo Mobile, l’ultimo dei cielidell’astronomia tolemaica, penultima tappa del viaggio di Dante prima di entrare nelcielo senza spazio e senza tempo dell’Empireo, il pellegrino ha ormai acquisito lacapacità di guardare, simul, il modello eterno del mondo intelligibile e la sua immagi-ne sensibile, dopo che Beatrice ha dimostrato, nel canto XXVIII, in che modo«l’essemplo / e l’essemplare non vanno d’un modo» (vv. 55-56). Ovvero, per qualemotivo le sfere celesti sono tanto più veloci quanto più lontane dal loro centro fisico,la terra, mentre i cerchi angelici sono tanto più veloci quanto più sono vicini al lorocentro metafisico: Dio. Attraverso la potenza della poesia in volgare Dante tental’impresa inaudita di tradurre in parola scritta un barlume di quella visione «inpatria» che è oggetto della promessa escatologica. Beatrice inizia a parlare tenendolo sguardo fisso al Punto in cui si annodano «ogni ubi e ogni quando» (v. 12):

Non per avere a sé di bene acquisto,ch’esser non può, ma perché suo splendorepotesse, risplendendo, dir “Subsisto”,in sua etternità di tempo fore,fuor d’ogni altro comprender, come i piacque,s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.

(Paradiso XXIX, vv. 13-18)

Se nel VII canto tutto ruotava attorno alla Bontà sine invidia, secondo un lessicoancora apparentato al carme IX del III libro della Philosophiae Consolatio di Boe-zio, il centro del discorso di Beatrice, adesso, è l’amore infinito, lo stesso cantato daTommaso nel canto XIII. Alla diffusività del Sommo Bene che nella positio platoni-ca assume i tratti di un principio impersonale, subentra l’Amore di Colui che crean-do interpella la creatura uscita dal nulla. «Subsisto!» è l’esclamazione che l’angelo

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proferisce nel momento in cui diventa cosciente di sé come essere intenzionalmentecreato dal Padre. Al contrario di quanto Dante sosteneva nel De vulgari eloquentia,adesso gli angeli hanno voce, e rispondono alla chiamata del Padre con un grido digiubilo: «Subsisto!», quasi un’eco delle parole rivolte da Dio a Mosè in Esodo 3,14:«Ego sum qui sum». Se nel XIII canto del Paradiso Tommaso definiva «sussistenze»le creature angeliche, con un sostantivo mirato a designarne lo statuto ontologico inopposizione alle «brevi contingenze» del mondo sublunare, adesso è la stessa creatu-ra angelica che in prima persona proclama e assume il suo nome liberamente, nelrapporto filiale «io-tu». In questo modo, la creazione viene raffigurata da Dantecome l’Evento che spezza la solitudine del Principio sovvertendo la chiusura dell’U-no su se stesso: da un lato, l’apertura «sanza mezzo» dell’Uno al Molteplice, dall’al-tro l’apertura dell’Eterno al Novo, e con esso al fluire del tempo a partire da un Puntod’inizio assoluto. È proprio nella creazione degli angeli che possiamo cogliere lanatura profonda del mistero della creazione dell’universo intero, un mistero irriduci-bile alle misure di un senso umano troppo umano. Il Dio dell’amore è persona chenon si irrigidisce nella «autarkeia» delle antiche divinità pagane, ma si protende ver-so l’Altro, vuole e «intende» l’altro in quanto creatura da lui distinta, cosciente di sé,e persino libera di non corrisponderGli. Beatrice prosegue con l’ultima rivelazione:

Forma e matera, congiunte e purette,usciro ad esser che non avìa fallo,come d’arco tricordo tre saette.E come in vetro, in ambra od in cristalloraggio resplende sì, che dal venireall’esser tutto non è intervallo,così ’l triforme effetto del suo sirenell’esser suo raggiò insieme tuttosanza distinzione in essordire.Concreato fu ordine e costruttoalle sustanze; e quelle furon cimanel mondo in che puro atto fu produtto;pura potenza tenne la parte ima;nel mezzo strinse potenza con attotal vime, che già mai non si divima.

(Paradiso XXIX, vv. 22-36)

Dall’unico atto creativo si irradiarono tre effetti «sinceri»: pure forme, puramateria, e pura unione dei due in un abbraccio perpetuo. In primo luogo gli angeli,«in che puro atto fu produtto»29. Le creature spirituali che dimorano nell’Empireo al

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29 Definire le intelligenze angeliche «puro atto» significa contraddire sia il principio della metafi-sica aristotelica per cui atto puro è soltanto Dio, sia la comune teoria degli scolastici compresi nell’arcoche va da Bonaventura da Bagnoregio a Tommaso d’Aquino. Per Bonaventura gli angeli sono addirit-tura composti di materia e forma, a partire dal principio dell’ilemorfismo universale secondo cui tutto

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cospetto del Padre costituiscono lo zenit del creato, in quanto specchi ricolmi di luceintellettuale. Sono i «primi effetti di là su» che Dio ama più da vicino, come Dante liappellava al verso 3 del canto XI del Purgatorio, all’interno della preghiera-parafra-si del Pater noster, una pluralità corale e gerarchica armonicamente retta dalla giu-stizia metafisica dell’unico Sire e Padre. In seconda istanza la materia prima deglielementi, il nadir: «pura potenza tenne la parte ima», in opposizione simmetricaall’atto puro. Infine, nello spazio di mezzo tra i due estremi, i cieli con le «luci san-te» destinate a modellare la materia di quaggiù per mezzo della virtù informante. Iprimi effetti dell’arco divino diventeranno le cause seconde dell’opus distinctionis30.Dalla dottrina trinitaria discende pertanto l’idea di una triplice, istantanea, creazioneavvenuta in principio. Da essa non si produce una folla indifferenziata di esseridestinati a colmare lo spazio di mezzo tra Uno e Molteplice, come le Enadi della tra-dizione neoplatonica risalente a Proclo. Ma nemmeno si genera un solo ed unicoeffetto, come l’Intelligenza prima di Avicenna – che proclamava: «ex uno non fit nisiunum» –, o dell’autore del Liber de causis, che alla proposizione IV fa coinciderel’Essere creato con l’Intelletto31. L’Intelligenza prima non è creatura, bensì Verbocoeterno al Padre, secondo quanto è stato decretato con il simbolo niceno: «genitumnon factum». E una volta definita la creazione come Evento assoluto, «sanza distin-zione in essordire», («creavit omnia simul», si legge in Ecclesiastico 18, 1) scompa-re l’intera «mitologia» dei sei giorni narrata dal Genesi: concepire l’atto creativocome un processo che cade nel tempo, anche se sotto il velame delle similitudini, èuna forma di idolatria inconcepibile con l’autentica «teologia»32. L’idea di creazione

ciò che è creato riceve l’essere da Dio, e come tale deve possedere quel principio universale di ricezio-ne che è la materia. Da qui la distinzione tra materia corporea e materia intelligibile. Per Tommaso,invece, vale il principio affermato fin dai tempi del De ente et essentia per cui ogni ente creato è affettoda un certo grado di composizione: composizione di materia e forma per le sostanze corporee, compo-sizione di essere ed essenza per le sostanze semplici, ossia gli angeli. Il concetto di atto puro qualificaunicamente Dio in quanto identità di Essere ed Essenza.

30 Secondo un topos che fa il suo esordio con Beda il Venerabile e giunge alla definitiva codifica-zione in ambito scolastico tramite Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino, ciò che fu creatoin principio si riassume in quattro ordini di esseri: il cielo, la materia prima, gli angeli e il tempo. Danteomette il riferimento al tempo in quanto privo della consistenza ontologica che compete alle altre«creature». Riducendo a tre gli effetti dall’atto creativo, Dante può ricondurre la sua dottrina nell’alveodel pensiero trinitario. Il tempo non è una sostanza. Il tempo, come insegna Aristotele nella definizionedella Fisica che abbiamo già incontrato, è numero del movimento, e non si configura come un ente cheabbia una collocazione definita nella scala degli esseri. Su questo aspetto della tradizione scolastica sivedano i lavori di A. Ghisalberti, La creazione nella filosofia di San Tommaso d’Aquino, in «Rivista diFilosofia Neo-scolastica», Milano, 1969, anno LXI, pp. 202-220; e A. Rodolfi, Tempo e creazione inBonaventura da Bagnoregio, in «Studi Medievali», Spoleto, 1996, anno XXXVII, fasc. 1, pp. 135-169.

31 Sui principi metafisici che reggono gli assiomi: «ex uno non fit nisi unum»; e «a stabile in quan-tum stabile non est nisi stabile», si veda il saggio di A. Bertolacci Il pensiero filosofico di Avicenna, inAA.VV., Storia della filosofia nell’Islam medievale, cit., vol. II, pp. 522-626.

32 Su questo punto sono di particolare interesse le riflessioni di Piero Boitani: «Che la riscrittura diGenesi sia integrale emerge dunque chiaramente proprio dall’eco di essa che udiamo qui. Ma anche

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mediata, qualora fosse accolta, riproporrebbe il medesimo paradigma: pluralità dellecause e pluralità dei tempi, anziché unicità dell’Evento assoluto in principio.

Una mappa del percorso che abbiamo cercato di tratteggiare nelle sue lineeessenziali può essere individuata in una digressione della Monarchia in cui Dante siaccinge a dimostrare «quod divina voluntas sit ipsum ius»:

Sciendum est igitur quod, quemadmodum ars in triplici gradu invenitur, inmente scilicet artificis, in organo et in materia formata per artem, sic et naturamin triplici gradu possumus intueri. Est enim natura in mente primi motoris, quiDeus est; deinde in celo, tanquam in organo quo mediante similitudo bonitatisecterne in fluitantem materiam explicatur. Et quemadmodum, perfecto existen-te artifice atque optime organo se habente, si contingat peccatum in forma artis,materie tantum imputandum est, sic, cum Deus ultimum perfectionis actingat etinstrumentum eius, quod celum est, nullum debite perfectionis patiatur defec-tum, [...] restat quod quicquid in rebus inferioribus est peccatum, ex parte mate-rie subiacentis peccatum sit et preter intentionem Dei naturantis et celi; et quodquicquid est in rebus inferioribus bonum, cum ab ipsa materia esse non possit,sola potentia existente, per prius ab artifice Deo sit et secundario a celo, quodorganum est artis divine, quam “naturam” comuniter appellant.

(Monarchia II, II, 2-4)

La metafora dell’artefice permette di considerare i cieli come strumenti in manoal Fabbro Supremo: «Questi organi del mondo così vanno, / come tu vedi omai, digrado in grado, / che di su prendono e di sotto fanno» (Paradiso II, vv. 121-123); epiù sotto: «Lo moto e la virtù de’ santi giri, / come dal fabbro l’arte del martello, /da’ beati motor convien che spiri;» (ivi, vv. 127-129). Divina techne è la natura, e icieli sono «martelli» destinati a scolpire la materia. La materia, a sua volta, è una

dall’andamento che il discorso prende ora, quando non solo vengono ignorati, ma esplicitamente ribal-tati, i sei giorni biblici, sostituiti ancora una volta dall’istante: perché l’essere divino “raggiò insiemetutto / sanza distinzione in essordire” e “senza intervallo”» (vv. 26-30): vi fu, insomma, simultaneità eistantaneità della creazione dell’universo. Il fatto è che Dante abbandona, appunto, l’immaginarioantropomorfico che domina il racconto di Genesi e di tanti altri miti di creazione, per inaugurare unmythos filosofico» (in Lectura Dantis Turicensis, vol. III: Paradiso, cit., p. 445). Sulle difficoltà pre-sentate dall’esegesi esameronale a partire dalla patristica si veda la seguente sintesi del Gregory: «Ilmito cosmogonico del Genesi si impone quale rappresentazione ed espressione della potenza di Jahwèe definisce un quadro cosmologico che riprende temi ampiamente diffusi nell’area mesopotamica, eli-minando ogni riferimento dualistico; l’ambigua presenza di una terra inanis et vacua e delle tenebraesuper faciem abyssi sarà subito integrata in un’interpretazione della creazione come evocazione exnihilo di tutta la realtà. L’esegesi dei primi secoli, più che mettere ordine nei compositi materialicosmologici del Genesi, completerà il discorso cosmogonico inserendo nei giorni della creazione ele-menti del tutto estranei, ma che faranno subito corpo con il racconto genesiaco, orientando il futuro svi-luppo delle cosmologie cristiane. Così dal II secolo, all’origine dell’atto creatore, sarà inserito il Verbo(identificato nelle parole in principio), e ancora gli angeli e demoni (spesso identificati con il creavitcaelum et terram) così da costituire una precisa gerarchia teologico-cosmologica» (in T. Gregory, Spe-culum naturale. Percorsi del pensiero medievale, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007, p. 197).

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realtà fluttuante e ondivaga: «materia fluitans» è l’espressione tolta da Boezio,come si è visto sopra, che Dante utilizza per giustificare l’incertezza del risultatoultimo, che pure ha la sua causa remota nella Sapienza di Colui che tutto move: «Lacera di costoro e chi la duce / non sta d’un modo; e però sotto ’l segno / ideale poipiù e men traluce» (Paradiso XIII, vv. 67-69). È una tipica concezione dantesca,probabilmente un retaggio del platonismo medievale derivante dal Timeo, quellasecondo cui la materia oppone una sorta di resistenza passiva all’informazione dellaluce. Solo in casi straordinari la cera della materia è a tal punto «dedutta», dispostaad assecondare l’influsso celeste, da permettere al sigillo di risplendere in tutta lasua potenza archetipica. Adamo e Cristo sono i due soli casi di perfetta aderenza tramateria e forma, tra corpo e anima, che Dante ricorda nel XIII canto del Paradiso,ma in quel caso fu Dio stesso a imprimere il sigillo, benché l’ausilio degli organi delmondo configurasse una combinazione astrale favorevole e quasi irripetibile. NellaCommedia non sussistono elementi che ci portino a pensare a una qualche forma diindulgenza nei confronti del concetto di creazione per intermediari. Il rigore con cuiviene tracciata la linea di demarcazione tra ciò che Dio crea e ciò che viene prodottoda quella Ars Dei che è la natura, non viene mai meno. Vero è che nel concetto dan-tesco di natura dobbiamo includere un complesso di cause che si estende dal mondosopralunare al sublunare: le cause seconde, ovvero la virtù informante dei cieli, e lamateria di quaggiù. Per quanto riguarda l’azione causale esercitata dalla virtù cele-ste, in Dante si presentano due modelli: il primo scaturisce dalla dottrina del datorformarum di Avicenna e si ispira al paradigma del sigillo e della cera: le formeseconde vengono impresse, quasi conficcate, sul quaderno della materia. Il secondosi ispira invece alla dottrina dell’inchoatio formae desunta da Alberto Magno e con-sidera l’influsso degli astri come un educere de potentia materiae esercitato sullavirtù degli elementi: le forme seconde vengono estratte dalla complessione potenzia-ta e quasi risvegliate dallo stato di latenza in cui giacevano. E in ogni caso sarà sem-pre necessario distinguere i contesti in cui Dante si riferisce o alla materia prima, la«pura potenza» assolutamente indeterminata; o agli elementi, che costituiscono ilprimo livello di informazione della materia; oppure all’esse complexionatum, costi-tuito dai minerali e dalle pietre soggette a loro volta all’influenza dei corpi celesti,secondo una concezione comune nel Medioevo32. Nel vocabolario dantesco, il signi-ficato del termine «complessione» si dilata fino ad assumere una valenza ontologicaben più ampia rispetto alla sua originaria delimitazione in campo medico. L’influssodel Liber de causis sembra decisivo in quest’opera di riadattamento dei materialiofferti dalla tradizione filosofica, sia per quanto concerne il rapporto tra Dio e natu-ra, sovrapponibile alla distinzione tra causalità per creazione e causalità per infor-mazione, sia per quanto riguarda la distinzione tra forme sempiterne e forme «decli-

32 Per un approfondimento di questo aspetto rimandiamo ancora una volta al lavoro di G. Stabile,Dante e le filosofia della natura. Percezioni, linguaggi, cosmologie, cit. Sulla stratificazione del con-cetto di materia in Dante cfr. P. Boyde, «Lo color del core». Visione, passione, e ragione in Dante,Napoli, Liguori, 2002.

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Dante e il Liber de causis: il problema della creazione nella «teologia» della Commedia

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nes» quali le anime dei bruti e delle piante. Allo spettro delle creature uscite dallamano di Dio si dovranno aggiungere, oltre alla tre saette scoccate dall’«arco tricor-do», il progenitore dell’umanità tutta, Adamo; il Redentore, Verbo che si fece carne; ele anime umane, oggetto di una creazione continua. Anche gli effetti della creazionedal nulla, allo stesso modo delle cause seconde, si ripartiscono in egual modo tra i duemondi, intelligibile e sensibile, e nelle due sfere, sopra e sub-lunare, come a tagliaretrasversalmente le due grandi divisioni regionali della metafisica platonica e dellafisica aristotelica. La grandiosità del pensiero dantesco non cessa mai di stupire.