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Raffaello Morelli

Lo Sguardo Lungo

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ISBN 978-884672901-9

Versione cartacea del volume edita da

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Sommario

introduzione

1. Un sempreverde, l’impostazione cavouriana 9

parte i il Secolo e mezzo appena traScorSo

2. Il principio di separazione 11

3. Lo stato liberale e la non partecipazione dei cattolici 18

4. Gli anni del giolittismo e l’aggiramento cattolico della non partecipazione 21

5. Gli ultimi anni delle istituzioni liberali 23

6. I Patti Lateranensi dell’epoca mussoliniana 28

7. I Patti Lateranensi richiamati nella Costituzione della Repubblica 33

8. I Patti Lateranensi negli anni di De Gasperi 38

9. I primi anni dopo De Gasperi e il Convegno de Il Mondo 47

10. Verso l’approdo al centro sinistra, imperniato sulla divisione dei laici 62

11. Il centro sinistra, il dibattito sul Concordato e la legge sul divorzio 83

12. Le due sentenze costituzionali del 1971 e le possibili modifiche al divorzio 103

13. Il referendum abrogativo del divorzio, 1974 109

14. La riforma del Diritto di Famiglia, l’innovativa legge sull’aborto 116

15. I due referendum abrogativi dell’aborto, 1981 124

16. Il nuovo Concordato del 1984 128

17. Lo Stato è laico purché sia una laicità concordata (secondo la Corte) 141

18. Gli ultimi anni della prima repubblica 148a) il referendum sulla preferenza unica. 148b) il referendum elettorale. 151c) al voto con la nuova legge elettorale. 160

19. La seconda repubblica e i nuovi spazi per la Conferenza Episcopale 168

20. L’Ulivo e il progressivo dilagare della CEI 175

21. La Casa delle Libertà, il Papa in Parlamento e il problema dei musulmani 194

22. Il Governo dell’Unione e la svolta mancata 226

23. Il Popolo della Libertà al governo e la deriva confessionale che prosegue 248

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parte ii il principio di Separazione per convivere meglio

24. L’arretratezza in Italia del principio di separazione. I cattolici chiusi 281

25. Il principio di separazione significa non aspirare ad un modello chiuso 284

26. Il principio di separazione fonda la convivenza sulla libertà del cittadino 287

27. La laicità delle istituzioni non esclude la religione, anzi la include 301

28. Il principio di separazione è senso della realtà e seguire il tempo 307

29. Accuse al principio di separazione fatte dai non credenti ideologici 315a) il principio di separazione non vedrebbe

che l’avversario in Italia è la Chiesa. 315b) non vedendo la Chiesa come avversario,

il principio di separazione non sarebbe abbastanza laico. 319

30. Accuse al principio di separazione da parte dei cattolici chiusi 321a) il principio di separazione confinerebbe la religione nel privato. 321b) la separazione e soprattutto la laicità

sarebbero un termine indefinito. 326c) il principio di separazione non riconoscerebbe alla Chiesa

il ruolo spettantele. 327d) il principio di separazione sarebbe

l’anticamera di una concezione statalista. 331

31. Modi obliqui di opporsi al principio di separazione 333a) posizioni corrosive. 333b) travisamento di fatti storici. 335c) aggirare e aggettivare il termine laico per ridurne l’efficacia. 336d) attribuire valore separatista

alla diminuita adozione dei precetti religiosi. 339e) preferire al separatismo la politica accomodante. 341

32. Il principio di separazione e la sua capacità di affrontare i problemi moderni 342a) la politica non è solo potere. 343b) la fede e la ragione. 344c) la questione dei limiti alla ricerca per conoscere. 346d) l’agire e il legiferare. 349e) l’attività religiosa e il riconoscimento giuridico. 350f) il separatismo, gli agnostici e gli atei. 351g) il separatismo e i cattolici critici della Chiesa. 355h) il separatismo e l’Occidente. 358i) le radici giudaico cristiane. 359l) la convivenza con i musulmani. 360

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33. Il separatismo per affrontare problemi specifici 363a) il servizio pubblico garantisce l’obiezione di coscienza,

non ne è impedito. 364b) anticlericalismo. 366c) il diritto di finanziamento da parte del credente e non dello Stato. 367d) il velo islamico. 373e) i simboli religiosi nelle scuole. 378f) la visibilità e i suoni dei simboli religiosi. 382g) il testamento biologico. 384h) lo studio della teologia e il parlare di religione. 387i) l’insegnamento della religione. 391l) genetica e bioetica. 397m) legami affettivi. 401n) la giustizia penale. 405o) il tipo di società e la concorrenza. 407p) le polemiche sulla Costituzione. 412q) informarsi sulle cose interne del Vaticano. 414

34. Spunti per il separatismo: la Gaudium et Spes e il Papa 417

parte iii impegnarSi per il SeparatiSmo, verSo la convivenza aperta

35. La natura separatista del Libera Chiesa in Libero Stato 425

36. Differenze tra Stato separatista e istituzioni religiose 431

37. Gli antiseparatisti, i cattolici chiusi e la sinistra magmatica 436

38. L’impegno attivo a favore del separatismo 442

39. Un programma per il separatismo 452

40. Lo sguardo lungo (appello separatista ai cittadini mentalmente liberi) 461

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parte iv documenti Storici

A Discorsi di Cavour 477

Discorso di Cavour alla Camera dei Deputati del 25 marzo 1861 sulla questione di Roma capitale 477

Discorso di Cavour alla Camera dei Deputati del 27 marzo 1861 in merito agli ordini del giorno conclusivi su Roma capitale (estratto) 487

Discorso di Cavour al Senato del Regno del 9 aprile 1861 a seguito della discussione alla Camera su Roma Capitale (estratto) 488

Discorso di Cavour alla Camera dei Deputati l’11 ottobre 1860 sulla legge sull’annessione delle province italiane (estratto) 490

Discorso di Cavour al Senato il 16 ottobre 1860 sulla spedizione nelle Marche e nell’Umbria (estratto) 490

B Legge delle guarentigie 492

C Patti Lateranensi – Trattato fra la Santa Sede e l’Italia 496

D Patti Lateranensi – Concordato fra la Santa Sede e l’Italia 505

E Costituzione della Repubblica Italiana 516

F Il testo dell’accordo, 1984 (Nuovo Concordato) 517

G Intesa tra il Governo della Repubblica e la Tavola Valdese, in attuazione dell’articolo 8, comma terzo, della Costituzione 524

H Intesa tra la Repubblica Italiana e l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane Roma, 27 febbraio 1987 533

I Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione Decreto Ministero dell’Interno 23 aprile 2007 545

L Trattato di Lisbona 550

Indice delle persone, dei concetti e dei termini 553

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introduzione

1. Un sempreverde, l’impostazione cavouriana

In Italia, la questione della laicità in politica include un proble-ma che resta ambiguo: come affrontare il rapporto con la religione nel dibattito politico culturale. L’ambiguità del rapporto deriva da ragioni storiche e dall’abitudine a non approfondirla. Ed è impor-tante dissolverla soprattutto per sostenere chi, credente e non cre-dente, è fautore della laicità delle istituzioni ritenendola decisiva per migliorare la convivenza.

Queste pagine si prefiggono perciò un preciso obiettivo di azione politico culturale. Dare consistenza tangibile alla diagnosi secondo cui la via per risolvere a livello istituzionale un proble-ma così legato ad aspetti essenziali della libera convivenza, oggi e in prospettiva, è quella indicata da Cavour 150 anni or sono: la separazione tra Stato e religioni. Non soltanto costituisce la vera, grande eredità politica dello Statista, ma è così lungimirante nel suo profondo da rimanere sempreverde.

Con tale obiettivo, nella prima parte ripercorro in sintesi (progressivamente più ampia negli anni) l’evoluzione storica del principio di separazione in questo secolo e mezzo nel quadro dei principali avvenimenti pubblici coevi. L’intento è mostrare i con-testi delle epoche rispettive, talvolta sfatando infondati luoghi co-muni e facendo alcune constatazioni sul come del principio non sia stato accolto lo spirito e su quali ne siano stati i conseguenti costi per la convivenza. Nella seconda parte argomento, anche sul-la base dei precedenti avvenimenti sperimentali (ed avvalendomi pure della struttura logica che deriva dai titoli dei paragrafi in cui questa parte è suddivisa), l’inconsistenza delle critiche mosse al principio di separazione e le solide ragioni concettuali ed opera-tive per adoperarlo con riflessi positivi in molti campi. Nella terza parte, più breve, invito ad appoggiare l’idea che, per affrontare i problemi della convivenza attuale e per attrezzarsi al meglio in vi-sta del domani, è indispensabile, per i cittadini credenti e non cre-

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10 Lo Sguardo Lungo

denti, applicare urgentemente il principio di separazione tra Stato e religioni. Termino poi con la parte Documenti che consente al lettore interessato di dare la sua diretta valutazione di testi storici citati nel libro.

Le tre parti principali del libro seguono un ordine temporale e logico (prima la carrellata storica, poi le considerazioni sui con-cetti, infine l’esortazione programmatica) ma non è indispensabile leggerle nello stesso ordine. Volendo possono essere anche lette in ordine rovesciato o comunque combinato. Restano del tutto auto-sufficienti. La differenza è che nell’ordine in cui le presento, riten-go diano in modo più compatto l’idea che il principio di separa-zione non è una cosa teorica per amatori, bensì una cosa concreta legata ai fatti della convivenza viva e modellata proprio sui para-metri della vita, il tempo e i cittadini. Questa convinzione – che il principio di separazione tra Stato e religioni sia essenziale nella convivenza – non è irrilevante, dal momento che è una convinzio-ne spesso trascurata perfino da chi la condivide come principio. La trascura perché tanto (pensa illudendosi) è un problema di libertà acquisito. In teoria dovrebbe esserlo, e in altri paesi lo è. Ma in Italia no, non è affatto una prassi politica operativa. Anzi, è contraddetta tutti i giorni. Per questo, la sua violazione continuati-va è forse il principale aspetto della crisi in Italia della concezione politica liberale e del suo strumento costituzionale.

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parte i il Secolo e mezzo appena traScorSo

2. Il principio di separazione

Il 25 marzo 1861, durante il dibattito circa l’opportunità di fare Roma capitale del Regno d’Italia, poco più di due mesi prima della sua morte improvvisa, Camillo Benso Conte di Cavour colse lo spunto da un’interrogazione alla Camera dei Deputati di Torino per enunciare in modo organico il principio “libera Chiesa in libero Stato”, di cui espresse la formula precisa due giorni dopo sempre alla Camera (il testo dei discorsi, tuttora molto attuali, si trova in Documenti, lettera a, insieme a passi dei precedenti discorsi tenuti pochi mesi prima in cui già era fatto cenno a questo principio). È il principio della separazione tra i due ambiti che può essere anche espresso in modo molto sem-plice. In uno stato liberale, non c’è bisogno di alcuna legittimazione delle Istituzioni da parte della Chiesa e ciononostante le Istituzioni riconoscono alla Chiesa una assoluta libertà di parola e di magistero spirituale, salvo avere pretese teocratiche o praticarle. Questa imposta-zione rispondeva, per Cavour, ad una linea culturale e ad un’esigenza politica.

La linea culturale risaliva al filosofo liberale inglese John Locke (1632-1704), aveva trovato applicazione nel 1° emendamento della Co-stituzione degli Stati Uniti adottato nel 1791, era stata celebrata in Eu-ropa da un altro liberale Alexis de Tocqueville nel 1835 e nel 1840 ed era stata accolta nella Costituzione della Repubblica Romana del 1849. Nella Epistola sulla Tolleranza del 1689, Locke aveva affrontato la distinzione necessaria tra lo Stato (“una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili”) e una Chiesa (“una libera società di uomini che si riuniscono spontaneamente per onorare pubblicamente Dio nel modo in cui credono sarà accetto alla divinità, per ottenere la salvezza dell’anima”) essenzialmente perché nessuna delle due entità può utilizzare la forza per imporre la dottrina a meno di non contraddire i propri stessi principi. Il 1° emendamento stabilisce

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che “Il Congresso non potrà fare alcuna legge che stabilisca una religione o che proibisca il libero esercizio della stessa”, affermando così una linea lontana dai precetti statalisti di Rousseau. Tocqueville aveva colto – e ampiamente diffuso in Europa – la importanza decisiva del fatto che negli Stati Uniti si fossero meravigliosamente combinati lo spirito re-ligioso e lo spirito di libertà (Cavour l’aveva incontrato di persona a Parigi appunto a metà degli anni ’30). Il VII principio della Costituzio-ne della Repubblica Romana era “Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici”. Una simile linea culturale era ben presente a Cavour che già nel marzo 1854 aveva detto alla Camera di Torino “vi è chi crede che per essere cattolici sia necessario di credere alla supremazia della Chiesa sullo Stato. Noi invece crediamo che si possa e si debba essere cattolici mantenendo lo Stato assolutamente dalla Chiesa indipendente”. Con ciò irrobustendo la tolleranza di Locke che aveva rilevato che tollerare la Chiesa romana avrebbe obbligato “il magistrato a rispettare una giurisdizione straniera nel suo paese” e che tollerare gli atei, i quali non credono in un Dio, avrebbe impedito il mantenere patti e giuramenti, che sono i pilastri della società.

Quanto all’esigenza politica in Italia, Cavour prima aveva maturato sul problema dell’Unità una scelta contrapposta a quella di sapienti uomini di Chiesa, da Gioberti, a Rosmini, a Ventura, a Lambruschini, che intendevano risolverlo dando vita ad una federazione avente per capo il Pontefice. Poi, nella nuova prospettiva di Roma Capitale, Ca-vour colse con acutezza che occorreva superare la concretissima con-trapposizione tra la Chiesa e il Regno di Sardegna. Contrapposizione evidente nel tardo inverno 1848, quando il Regno concesse i diritti civili ai valdesi e, dopo, anche agli ebrei, mentre Papa Pio IX – il qua-le all’inizio, stimolato dal suo Ministro Pellegrino Rossi, aveva illuso di avere inclinazioni liberali  –  richiamato dai Cardinali, aveva dato a Roma uno Statuto secondo cui professare la religione cattolica era “necessario pel godimento dei diritti politici dello Stato”. Poi, dal 1850 la contrapposizione fu sulle leggi del Ministro Siccardi che avevano abo-lito tre grandi privilegi temporali della Chiesa, il foro ecclesiastico (gli uomini di Chiesa erano giudicati dalla Chiesa sottraendosi ai Tribu-nali Civili), l’impunibilità giuridica per chi chiedeva asilo alla Chiesa, la manomorta ecclesiastica (i beni ecclesiastici non erano soggetti ad imposizioni fiscali da parte dello Stato).

Inoltre, le leggi Siccardi consentirono l’uso delle terre lasciate in-colte e ruppero gli stretti legami tra le strutture religiose e la parte più reazionaria della società; legami che erano fondati anche sulla diffusa pratica degli ordini mendicanti che vivevano di carità e diffondevano

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13Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

un messaggio opposto a quello della necessità di lavorare (che non si trattasse di una persecuzione contro il clero era comprovato pure dal fatto che un alloggio e una pensione a vita restavano assicurati a tutti i frati e monaci espropriati e che i beni espropriati rimanevano nel giro del sostentamento del clero). Al di là degli interessi di Re Vittorio Emanuele II che stava ampliando il Regno con i plebisciti (in Emilia, 1859, e Toscana, 1860), quando dopo le controversie con il Re sul trat-tato di Villafranca (luglio 1859) l’Unità d’Italia divenne apertamente l’obiettivo centrale della politica di Cavour, diveniva sempre più im-portante dare stabili regole di tipo liberale che, insieme al superamen-to definitivo delle vestigia teocratiche, regolassero i rapporti tra Stato e religione. Il principio di separazione del marzo 1861 rispondeva a questa esigenza. E fu appunto nella logica del principio di separazione che negli anni successivi, scomparso Cavour, si arrivò progressivamen-te a sopprimere le vestigia teocratiche, oltre che in Piemonte, nel resto della penisola, e quindi a dissolvere gli Stati Pontifici, ridotti infine nel 1870, dopo Porta Pia, al Vaticano entro le mura leonine.

Il percorso per costruire le istituzioni sul principio di separazione non fu concepito e non era contro la Chiesa. Né per cultura né per scelta politica. Rientrava in un gran balzo politico per portare l’Italia nel mondo moderno delle istituzioni civili. Non per caso l’Italia, tutta l’Italia, del Nord e del Sud, era allora assai arretrata anche dal punto di vista socio economico, seppure in grado differente (si pensi alla en-demica mancanza nel sud dell’istruzione primaria, con l’analfabetismo oltre il 95%, oppure al brigantaggio che i neoborbonici attuali nega-no e attribuiscono agli odiati piemontesi, nonostante fosse radicato da due secoli). Solo dagli anni ottanta, a seguito delle politiche di moder-nizzazione e contro i privilegi medioevali, l’Italia iniziò ad avere una capacità produttiva comparabile con altri paesi. Eppure, fin dall’inizio, questo tipo di approccio fu contrastato dalla Chiesa cattolica pervica-cemente per non perdere il potere temporale (allontanamento degli ecclesiastici che svolgevano attività ostile al Regno, divieto di predi-cazione antigovernativa, rimozione dei simboli religiosi dalle scuole e dagli edifici pubblici, istituzione del matrimonio civile, unico valido per lo Stato).

Cavour era stato scomunicato da Pio IX nel 1855. Anni dopo, vi furono gli attacchi del giornale cattolico, L’Armonia, perché Cavour aveva selezionato un segretario israelita, Artom. Poi deve essere citato un episodio emblematico. Quando nel 1861 fu sul letto di morte, Ca-vour fu assistito dal coadiuvante della Chiesa attigua alla sua casa di Torino, il francescano Fra’ Giacomo Marocco da Poirino. Il Papa in

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14 Lo Sguardo Lungo

persona chiese al francescano di certificare che Cavour aveva ritrattato il suo operato contro il potere temporale della Chiesa. In un diretto colloquio tempestoso narrato nel suo diario, Fra Giacomo da Poirino, per non venir meno alla sua coscienza di sacerdote, si rifiutò di scon-fessare l’assoluzione data, nonostante la scomunica, ad un moribondo che non aveva ritrattato ma che non per questo negava il suo esser cattolico non praticante. Il francescano fu processato dall’Inquisizione che, di fronte ai suoi rifiuti, lo sospese a divinis e lo ridusse allo stato laicale, lasciandolo da solo (e così perdette le provvidenze riservate al clero, in seguito sostituite da una modesta pensione del Regno). In pratica, una riprova del dato complessivo che il potere temporale era ritenuto inscindibile dall’esser cattolici. Dunque il Papa Pio IX e la Chiesa videro solo, ed avversarono con estrema decisione, la linea che li privava del potere temporale. Ciò nonostante che il Regno d’Italia avesse concretamente dimostrato nel luglio del 1862 di non puntare a cacciare il Papa da Roma, tanto da bloccare con le armi dei bersaglieri, ad Aspromonte, una seconda spedizione di Giuseppe Garibaldi dalla Sicilia (“o Roma o morte”), dopo il successo della spedizione dei Mille sostenuta da Cavour ventisei mesi prima (a cominciare dalla materiale garanzia finanziaria per l’acquisto dei due vapori da usare per il tra-sporto dei Mille in partenza da Quarto).

Pio IX e la Chiesa, con il Sillabo, pubblicato insieme all’Enciclica Quanta cura (1864), condannarono esplicitamente tutta l’epoca mo-derna e in particolare il liberalismo e la sua politica (per dare un’idea della profondità della condanna, basti una citazione illuminante, “sia anatema chi afferma che si possa cambiare religione per seguire il convin-cimento personale”). Neppure con questo provvedimento Pio IX riuscì a richiamare all’ordine il Regno d’Italia, che proseguì la strada cavou-riana spostando nel 1865 la capitale del Regno a Firenze e completando l’impianto legislativo, avviato nel 1850 con la legge Siccardi e prosegui-to nel 1855. Quelle leggi avevano vietato agli enti ecclesiastici di acqui-stare beni immobili senza autorizzazione del governo e soppresso le case degli ordini religiosi non destinate all’assistenza degli infermi. La nuova legge del luglio 1866 stabiliva che nessun ente religioso poteva essere riconosciuto quale persona giuridica (il che riguardava gli effetti nel Regno e non quanto attinente lo Stato Pontificio, tanto che i se-minari, essendo destinati alla formazione del clero, continuarono nella loro attività). I cattolici bollarono queste leggi, e lo fanno ancora, come oppressive non volendo vedere (evidentemente per fede religiosa) che costituivano una via giuridica per attuare il principio di separazione. La personalità giuridica ad un ente religioso come tale (e non a singoli

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15Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

religiosi e loro gruppi quali persone fisiche) innescava necessariamente dei privilegi temporali incontrollabili in capo a quell’ente (si pensi alla problematica delle successioni, eliminate dall’essere il proprietario un ente religioso, qualcosa di intrinsecamente fuori del parametro tempo).

Escludere la personalità giuridica, peraltro, non escludeva che lo Stato soccorresse economicamente i bisogni della Chiesa. Infatti, nel-la medesima legge del 1866 fu trasformata la Cassa Ecclesiastica ed istituito il Fondo per il Culto, anch’esso alla diretta dipendenza dello Stato, con autonoma capacità patrimoniale ed amministrativa, sotto il controllo del Parlamento e del ministero della Giustizia. In pratica, il Fondo per il Culto divenne titolare di tutti i beni già degli ordini religiosi soppressi (fino allora nella Cassa Ecclesiastica) e doveva prov-vedere, non facendole più gravare sui bilanci dello Stato, alle maggio-ri spese del culto cattolico, inclusa l’erogazione di un supplemento di assegno ai parroci poveri per rendere congrue le loro entrate (da qui la denominazione di congrua). Dunque la fine del temporalismo non equivaleva ad abbandonare il clero povero al suo destino. La questione era che proprio al potere temporale la Chiesa non intendeva rinuncia-re, tanto che qualificava le leggi come eversive. Stando così le cose, a mano a mano che il potere temporale della Chiesa si riduceva e dun-que cresceva il problema della posizione dei cittadini cattolici all’inter-no del Regno d’Italia, la Santa Sede prescrisse al clero e ai cittadini di religione cattolica (gennaio 1868) di non partecipare alla vita politica e alle elezioni (l’allora famoso non expedit, vale a dire non conviene). Successivamente Pio IX dal giugno 1868 preparò, dopo tre secoli, un nuovo Concilio (tenutosi dal dicembre 1869 al luglio 1870), il Concilio Vaticano I, che confermò le condanne del Sillabo e stabilì il dogma dell’infallibilità del Papa per le questioni di fede.

Poco più di un mese dopo, infine, Vittorio Emanuele II, considera-to anche che era rimasto il solo a garantire la sicurezza di Roma e del Papa (Napoleone III era stato deposto dai prussiani), dette ordine alle proprie truppe di stanza in Umbria, al comando del generale Cadorna, cattolico praticante, di entrare nello Stato Pontificio e prendere Roma. Superata la resistenza simbolica delle truppe pontificie, la mattina del 20 settembre l’artiglieria (quella di stanza a Pisa, scelta perché aveva iniziato la battaglia a Curtatone e Montanara nel maggio 1848) aprì una breccia nelle mura tra Porta Pia e Porta Salaria e, come scrisse Edmondo De Amicis testimone dello scontro, due colonne di fanteria, i bersaglieri, entrarono in città.

Dopo Porta Pia, svoltosi il 2 ottobre successivo il plebiscito per l’unione al Regno d’Italia di Roma e del Lazio (che vide grande par-

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16 Lo Sguardo Lungo

tecipazione compresi i residenti nella città Leonina), crebbe il conten-zioso della cosiddetta Questione Romana, destinato a durare molto a lungo. Il Papa non partì da Roma (come temeva il Governo insediato a Firenze) ma si dichiarò un prigioniero del Regno Italiano, con la non troppo segreta speranza che vi sarebbe stata l’indignata reazione degli altri stati europei e dei cattolici. I cattolici ufficiali sparavano a zero contro l’operazione, che era definita dal quotidiano l’Unità Cat-tolica il disegno di Satanasso” mentre un altro quotidiano cattolico a Vienna definiva i piemontesi ladri e briganti che avevano saccheggiato Roma, Qualche mese dopo Porta Pia, nel maggio 1871, il Regno d’Ita-lia – dopo che a marzo la Camera dei Deputati aveva votato l’ordine del giorno di Pasquale Mancini che stabiliva l’uguaglianza di tutte le religioni davanti allo Stato per quanto riguardava la libertà personale di culto – applicò la linea espressa nel discorso di Cavour nel 1861 su Roma Capitale ed emanò quella Legge delle Guarentigie con cui erano fissate le prerogative del Pontefice, incluso un consistente diritto ad un’indennità non soggetto a decadenza, e stabiliti i rapporti tra Stato e Chiesa all’insegna dell’indipendenza reciproca e della libertà (il testo della legge si trova in Documenti, lettera b).

Il Papa espressamente non accettò né la legge né le offerte, nono-stante che la Legge delle Guarentigie includa alcuni aspetti (certe pre-rogative del Pontefice e l’indennità in denaro) che, rifacendosi a quella che era stata la realtà storica, interpretavano con larghezza il teorico separatismo perfetto. Pochi giorni dopo la Legge delle Guarentigie, il Papa confermò con l’enciclica Ubi Nos che il potere spirituale era indissolubilmente congiunto a quello temporale, anch’esso di natura divina in quanto garanzia di indipendenza, e ripeté più volte, tre anni dopo, il non expedit al fine di non legittimare il Regno italiano. Eppu-re il Regno d’Italia proseguiva nella linea cavouriana. Nonostante le reazioni della Chiesa, sei mesi dopo la Legge delle Guarentigie, apren-do la prima sessione parlamentare a Roma, Vittorio Emanuele II disse “noi abbiamo proclamato la separazione dello Stato dalla Chiesa, e, rico-noscendo la piena indipendenza dell’autorità spirituale, dobbiamo aver fede che Roma capitale d’Italia possa continuare ad essere la sede pacifica e rispettata dal pontificato”. In realtà la Chiesa, come scrisse Omodeo, “nella libertà propria schiantava ogni altra libertà”. Era avvolta nella convinzione fondamentale di essere il fulcro delle cose, al punto che Pio IX replicava al Cancelliere tedesco Bismarck, protestante, con le parole “ditegli che il suo potere passerà via, Noi abbiamo un potere che resterà per sempre”. Non per caso i settori più conservatori della destra parlamentare e del mondo cattolico, in nome del principio secondo cui

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17Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

di religione poteva parlare solo la Chiesa, nel gennaio 1973 preferirono un accordo con la sinistra anticlericale di allora per escludere le Facol-tà di Teologia dalle strutture delle Università del Regno.

Questa decisione fa trasparire due questioni distinte. Da un lato la scarsa consapevolezza dei conservatori i quali, semplicisticamente, pensavano possibile ridurre la questione religiosa ad un recinto iso-lato per potenti decaduti; dall’altro lato l’attitudine, in apparenza più morbida ma in realtà più tosta, del mondo religioso a riconquistare spazi esclusivi nel gestire gli aspetti della religione nella società, nel caso cominciando a creare le condizioni per riservarsene lo studio. In questo il mondo religioso restava bene all’erta, anche se in ritirata. La linea visibile ed accettata era naturalmente quella del Papa, della Curia e dei loro anatemi. Eppure sotto la superficie nel mondo cattolico non mancavano i cattolici transigenti in altre parole quelli che spingevano per trovare una forma di accordo con i liberali e il nuovo stato. Uno studioso all’epoca famoso, Villari, rilevò alla Camera nel 1875 che “il clero si avanza nelle nostre scuole; ha compreso che deve penetrare nelle nostre coscienze”. I cattolici transigenti parvero poter aumentare la loro influenza dopo che nel 1878 divenne Papa Leone XIII (molto impe-gnato a ricostruire la società in senso cristiano, culturale e formativo) a differenza dei cattolici intransigenti, riuniti nell’Opera dei Congres-si, che si battevano per i diritti del Pontefice e per il Magistero della Chiesa (al momento della costituzione dell’Opera nel 1874 fu chiarito “Il cattolicesimo non è liberale, non è tirannico, non è d’altra qualità; il Cattolicesimo è la dottrina che il Sommo Pontefice insegna dalla sua cattedra o con i Vescovi”). L’influenza dei cattolici transigenti non ebbe però alcun seguito. Si riaffermò molto presto la linea tradizionale della Curia Romana. Così che la scelta di rifiuto proseguì per anni e nel 1885 trovò una teorizzazione compiuta nell’enciclica Immortale Dei, che sot-tolineava “le più recenti teorie sfrenatamente liberali… come principi e fondamenti di un nuovo diritto… che per più di un aspetto si distacca sia dal diritto cristiano, sia dallo stesso diritto naturale… pertanto nessuno ha il diritto di comandare agli altri. Come se si potesse concepire una sovranità, la cui origine, forza e autorità non derivassero totalmente da Dio“. Otto mesi dopo, nel luglio del 1886, il Santo Uffizio ribadì an-cora una volta il divieto di partecipare alla vita politica per il clero e per i cittadini cattolici. Continuava ad applicarsi indiscussa la scelta di organizzare i cattolici e le associazioni cattoliche in via autonoma per sostenere i diritti e gli interessi religiosi della Chiesa.

Eppure, nonostante che i fatti provino inconfutabilmente come fu il mondo cattolico a contrastare la linea cavouriana, tutt’oggi (2010) vi

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sono storici di punta del mondo cattolico talmente invasati da confon-dere la lotta contro il potere temporale della Chiesa con la lotta alla Chiesa in quanto istituzione religiosa e da continuare a scrivere che Cavour e i suoi successori svolsero una capillare persecuzione anti-cattolica. Della confusione creata dalle loro fantasie, si avvalgono poi quelli che al giorno d’oggi, per motivi ideologici, vogliono ridurre il Risorgimento ad una epopea da romanzo antico. Lo avrebbero fatto grandi elites illuminate alla guida del ribellismo popolare e di azioni militari spericolate, restando ben lontane dalla necessità di diffonde-re insieme, nelle condizioni reali del momento, il principio della so-vranità del cittadino, non solo di enunciarlo. Viceversa, come hanno scritto gli storici, l’opera di Cavour è stata decisiva proprio sul punto dell’imprimere concretezza politica. Quella concretezza che, connet-tendo idee e comportamenti, ha dato una capacità realizzativa, altri-menti inesistente ed incoerente, a proclami civili (come quelli della Costituzione della Repubblica Romana) o ad azioni militari (cone la spedizione dei Mille) di per sé privi di mordente costruttivo. La strada della libertà del cittadino passava dalla realizzazione del principio del Libera Chiesa in Libero Stato, vale a dire liberarsi da autorità esterne alla sovranità del cittadino.

3. Lo stato liberale e la non partecipazione dei cattolici

Il prolungarsi dello sdegnoso rifiuto della Legge delle Guarentigie fu un tentativo di fermare il tempo e riportarlo al passato. Un oscuran-tismo confessionale che nutriva l’anticlericalesimo e se ne nutriva. Si depistava su altri temi lo svilupparsi dei rapporti politico sociali all’in-terno del nuovo Stato. Si rallentava il formarsi di un modo d’essere religioso non ghettizzante nella vita pubblica. Soprattutto, insistendo nel far mancare qualsiasi contributo politico sui temi della quotidiana convivenza, si tendeva a polarizzare l’attenzione sulla religione più che sulla realtà. Gli ambienti della politica, presidente del Consiglio Crispi (che qualche anno prima aveva definito il potere temporale “l’ultimo avanzo del feudalesimo politico”), risposero emblematicamente nel lu-glio 1895 facendo della data di Porta Pia, il XX settembre, una festa civile per dare ufficialità ai festeggiamenti già in uso da tempo. Quan-do – cosa di per sé non eccezionale in una convivenza libera, anzi fisio-logica – si manifestarono nel paese forti tensioni su temi politico sociali concreti (moti della primavera 1898), insieme a questi temi controversi assunse progressivo slancio la tendenza a prendere in parola la posi-

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zione di chi rifiutava la Legge delle Guarentigie. Nel senso che, se la gerarchia voleva essere trattata alla stregua di un gruppo politico pri-gioniero, tanto valeva considerarla così, contraddicendo la logica delle Guarentigie e del separatismo. Ciò naturalmente in modo alternativo nei diversi schieramenti politici, quello dell’opinione laica e quello de-gli ambienti cattolici.

Dalla parte dell’opinione laica, fu emblematico il caso del settima-nale satirico L’Asino, ispirato al motto “Il Popolo è come l’Asino, utile, paziente e bastonato” e costruito sugli articoli di Podrecca e sulle vi-gnette di Galantara. L’Asino prese le mosse nell’ambito del socialismo marxista (i due autori erano ambedue socialisti) subito dopo la fonda-zione dello PSI a Genova (gennaio 1893) e illustrava con linguaggio semplice e popolare, dal successo travolgente, l’intransigenza contro l’autoritarismo, contro il malgoverno della burocrazia già debordante, contro gli scandali. Le vicende pubbliche dell’Asino furono assai bur-rascose ma per anni sempre legate alle battaglie per le libertà sociali e dichiaratamente attente a non confondere la libertà con l’anticlericali-smo. Poi negli anni dopo il 1898, la linea cambiò. L’Asino divenne una voce sempre più virulenta contro il clericalismo e le sue degenerazioni, rivolgendosi alla povera gente di basso livello di istruzione per con-trastare la propaganda cattolica fondata proprio su questa ignoranza. Ovviamente era una politica opposta a quella del separatismo e non a caso L’Asino condusse furibonde campagne contro il giolittismo e i liberali accusati di essere succubi del clericalismo. Prezzolini, in modo paradossale ma acuto, osservò “per migliorare L’Asino bisognerebbe migliorare i cattolici come i preti li han fatti”, dato che anticlericali-smo e clericalismo si nutrivano della stessa incultura diffusa. Da allora, L’Asino fu per oltre quindici anni espressione (con grandissimi succes-si politico-editoriali) di una sinistra che parlava al popolo per ricercare alleanze con gli interventisti, la massoneria, gli anticlericali. Incapace non dico di capire ma almeno di intuire le azioni concretamente rifor-matrici del giolittismo, dalla nazionalizzazione delle ferrovie, all’intro-duzione del suffragio universale.

Un esempio rilevante di alleanza tra socialisti, massoni e anticle-ricali fu il tentativo nel febbraio 1907 di togliere l’istruzione religiosa dalle scuole elementari. Era in carica il terzo governo del liberale Gio-litti e in parlamento non sedevano rappresentanti ufficiali dei cattolici. Il socialista Bissolati, in accordo con il Gran Maestro della Massone-ria Ettore Ferrari, presentò una mozione tesa ad affermare il carattere laico della scuola elementare, con la motivazione di far chiarezza in una situazione non apertamente anticlericale sotto il profilo legislativo.

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Ebbene la mozione, nonostante l’espressa indicazione di voto del Gran Maestro, ottenne solo 60 voti favorevoli su oltre quattrocento votanti, non la votarono neppure diversi deputati massoni (l’episodio divenne la motivazione ufficiale per la storica scissione della massoneria con la fondazione della Gran Loggia d’Italia guidata da Saverio Fera, con sede in Piazza del Gesù). Ciò era una prova chiara che anticlericalismo e laicità non erano la stessa cosa, e altrettanto anticlericalismo e sepa-ratismo. La tolleranza religiosa nelle istituzioni, tipica espressione se-paratista, non poteva negare la libertà di scelta tra laicità e confessioni religiose né imporre scelte politiche in campo religioso salvo garantire la libertà di religione.

Dalla parte degli ambienti cattolici, a seguito delle vicende del 1898, crebbe parecchio, all’interno dell’Opera dei Congressi dei catto-lici intransigenti, la divisione sul tema dei rapporti con lo Stato liberale e con l’opposizione socialista. Per tutti tali rapporti andavano misurati con il metro degli interessi religiosi della Chiesa. Ma la linea clerico moderata sosteneva che la base divina e l’autorità su cui si fondava la Chiesa erano più solide e lungimiranti del processo rivoluzionario liberale che le aveva scalzate nella società. E che, avendo il liberalismo politico-sociale puntato sull’individualismo, si era innescato un pro-cesso di frammentazione di interessi che a sua volta aveva provocato una nuova risposta di matrice socialista in apparenza più rigorosa nel dare speranze ai più deboli. Solo che la risposta di tipo socialista era inaccettabile dagli operai (come era scritto nell’Enciclica Rerum No-varum del 1891) ed era ancora meno rispettosa di quella liberale dei diritti del magistero della Chiesa. Invece l’altra linea, definibile come democratico cristiana, voleva conciliare il Magistero religioso della Chiesa con la necessità di una nuova prassi politica e sociale del catto-licesimo attraverso un partito politico più autonomo dalla gerarchia; per farlo, tendeva a seguire l’analisi modernista di don Murri che con-divideva di fatto l’analisi socialista (naturalmente eccetto l’ateismo), il quale Murri però, proprio per tale motivo (l’uguaglianza dei cittadini non rientra nella morale cattolica naturale), venne sempre più messo ai margini dalla gerarchia con il nuovo Papa Pio X (1903). Così, po-chi mesi dopo che si era formata la nuova maggioranza dell’Opera dei Congressi con il peso determinante di don Murri, nel luglio del 1904 sorse un contrasto operativo molto duro con il Vaticano che si concluse con la soppressione pressoché integrale dell’Opera dei Congressi da parte della Santa Sede.

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4. Gli anni del giolittismo e l’aggiramento cattolicodella non partecipazione

Gli avvenimenti erano accomunati dal non aver niente a che fare con prospettive politiche di separatismo. Né da parte del mondo so-cialista né da parte di quello cattolico. Quello socialista non aveva aperture dato che vi prevaleva l’influenza di tipo marxista, lontana dal separatismo siccome riteneva la critica alla religione appunto il presup-posto della critica al capitalismo (non a caso la religione viene definita l’oppio del popolo perché, se non viene abbandonata, non è possibile lottare per fuoriuscire dalle ingiustizie del mondo, al pari di quanto succede al consumatore incapace di fare a meno dell’oppio). Ma nep-pure vi erano aperture da parte del mondo cattolico. La più radicata esperienza anche nei rapporti con gli altri fece però che i cattolici tro-vassero una loro via particolare per mantenere il rispetto del non ex-pedit (inteso come necessità di sostenere il diritto della Chiesa ai suoi privilegi temporali e alla sua autorità nel magistero nella società) e al tempo stesso per attrezzarsi così da pesare all’interno delle istituzioni terrene (per sostenere in modo più tangibile le proprie ispirazioni reli-giose e terrene a livello civile).

Il Vaticano dette chiare indicazioni. Un anno dopo la soppressione dell’Opera dei Congressi, l’enciclica Il fermo proposito (emanata ecce-zionalmente in italiano a sottolinearne l’aspetto nazionale) venne in modo esplicito “diretta ai Vescovi d’Italia per l’istituzione e lo sviluppo dell’Azione Cattolica, associazione laica per la propaganda cattolica reli-giosa nel mondo profano”. In pratica veniva portata avanti l’idea che i cattolici dovevano impegnarsi per sostenere le proprie posizioni. La questione del potere temporale appariva lasciata in disparte. E l’an-no dopo ancora nacque l’Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), non un partito bensì un braccio operativo impostato sulle direttive dell’enciclica. Che in sintesi erano: l’azione dei cattolici appartiene alla divina missione della Chiesa che opera per la civiltà cristiana nel suo complesso; essa ha grandi capacità di adattamento ai tempi e pertanto, ribadendo il non expedit, dà possibilità ai vescovi di dispensare dal suo rispetto quando ci si trovi di fronte a nuove evenienze politiche; sempre che i cattolici in politica si ricordino innanzitutto di seguire le massime della civiltà cristiana e insieme di difendere gli interessi della Chiesa. In sostanza l’enciclica negava una possibile separazione tra movimento cattolico e azione politica dei cattolici rispettosi degli indirizzi spirituali. E proprio perché don Murri si sottraeva a questo indirizzo venne alla fine scomunicato (1909).

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Da allora l’UECI cominciò a intervenire in vari modi nei proce-dimenti elettorali e qualche anno dopo, divenutone presidente il con-te Vincenzo Gentiloni, potenziò in maniera consistente le strutture aderenti. Nel giugno del 1912 i liberali di Giolitti scelsero di varare la storica e coraggiosa riforma elettorale che introdusse il suffragio universale maschile, comprendendo anche gli analfabeti che avessero assolto il servizio militare o compiuto i trenta anni. Il numero degli elettori triplicò d’un tratto. Nell’anno e mezzo successivo Gentiloni ritenne fosse venuto il momento di definire le minime condizioni che consentissero agli elettori cattolici di votare un candidato alle elezioni: senza fare un partito e dunque senza rendere parziale l’impostazione generale cattolica.

Stabilì che potevano essere formalmente appoggiati quei candidati che avessero dichiarato di accettare sette punti presentati dalla UECI come un baluardo cristiano. I punti erano libertà di associazione, li-bertà di coscienza, difesa dell’insegnamento privato e della istruzione religiosa, opposizione al divorzio, parità delle organizzazioni econo-mico-sociali, principi di giustizia nei rapporti sociali, far accrescere l’influenza dell’Italia nello sviluppare la civiltà internazionale. Come si può constatare, questi sette punti non mettevano in discussione né la Legge delle Guarentigie né questioni scottanti. Non confliggevaono frontalmente neppure con la legge francese sullo stato laico del 1905 aborrita dai cattolici (tanto che il Papa aveva emanato un’enciclica ap-posta, la Vehementer Nos, per riaffermare “che lo Stato debba essere separato dalla Chiesa, è una tesi assolutamente falsa, un errore molto per-nicioso… È in primo luogo colpevole di una grande ingiustizia verso Dio, perché il Creatore dell’uomo è anche il fondatore delle società umane… Noi dobbiamo a Lui non solo un culto privato ma anche un culto pubbli-co e sociale”). Certo non confliggevano dal punto di vista dei liberali. Per loro erano solo punti o normali o non insormontabili (visto che allora il divorzio era molto ai margini della società). Rientravano nel-la logica della separazione, quindi Giolitti e i liberali non trovarono contraddizione, anzi, nel fatto che diversi candidati si proponessero di seguire quei sette punti. Tra l’altro si trattava non di venire a patti con la gerarchia bensì di una libera scelta dei singoli candidati in chiave separatista. Quei punti non erano interpretabili come una politica con-cordata, poiché, come disse Giolitti, “chi si obbliga ad una determinata politica non può essere considerato liberale”. Per di più non si trascuri che gli eletti avrebbero dovuto, in quanto parlamentari, giurare fedeltà a quel Re che, per gli oltranzisti, restava il carceriere del Papa.

Questa strategia dell’UECI intaccava la rigorosa applicazione for-

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male del non expedit ma non rinunciava in niente ai suoi presupposti di difesa della Chiesa. Perseguiva i medesimi obiettivi attraverso una strada nuova. Tanto che, per accrescere il senso non rinunciatario dei sette punti rispetto alla posizione sostanziale della gerarchia, gli am-bienti cattolici dettero ai sette punti il nome di Patto Gentiloni. Una formula ambigua che può essere letta anche come accordo bilaterale del riconoscimento che per gestire la cosa pubblica non è possibile pre-scindere dalle tesi religiose. In verità il cosiddetto Patto Gentiloni non è mai stato quel riconoscimento e neanche un patto nel senso proprio del termine. È stato solo un abile accorgimento diplomatico unilaterale del mondo cattolico. Al candidato – sempre pronto a soddisfare l’elet-tore, come sa chiunque ne abbia conosciuto la psicologia immutabi-le – è stato offerto di dichiararsi disponibile a programmi coerenti con il suo modo di pensare e non esclusivi dei cattolici. Poi si è detto che ciò significa perseguire obiettivi conformi alla dottrina cattolica e in tal modo si è giustificata la partecipazione dei cattolici alla vita politica.

Il cosiddetto Patto Gentiloni poteva essere utilizzato dai fautori del principio di separazione perché non lo contrastava affatto, ma dal punto di vista cattolico serviva all’obiettivo opposto. Ciò fu confer-mato dallo stesso conte Gentiloni all’epoca. Sul tema essenziale del principio di separazione (il fatto che non c’è bisogno di alcuna legit-timazione delle Istituzioni estranea al processo democratico), il conte Gentiloni motivò i suoi sette punti con questo scritto folgorante: “è inutile dissertare sulla sovranità popolare che i cattolici non potrebbero mai ammettere nel senso proclamato dal liberalismo politico, perché ogni autorità è promossa da Dio e non dal popolo; cioè la sovranità non risiede essenzialmente ed inalienabilmente nel popolo”.

5. Gli ultimi anni delle istituzioni liberali

Nel periodo successivo alle elezioni politiche del novembre 1913, venne progressivamente meno lo scontro attorno alla Legge delle Gua-rentigie. Giolitti restò il referente della maggioranza dei deputati ma nel marzo del 1914 accettò di lasciare la Presidenza del Consiglio al conservatore Salandra. E Salandra avviò un percorso di governo assai diverso da quello del grande statista liberale. Quattro mesi dopo, nel luglio, tra le altre potenze europee iniziò la prima guerra mondiale e l’attenzione di tutti si centrò sulla politica estera. Lo scontro fu tra neu-tralisti ed interventisti, appunto perchè l’Italia (che faceva parte della Triplice Alleanza con Austria e Germania in guerra contro l’Intesa di

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Francia, Russia ed Inghilterra) al momento era potuta restare neutrale perché non interpellata preventivamente. In qualche mese si coagula-rono crescentemente nel paese interessi di ogni tipo per spingere ad entrare in guerra dalla parte opposta alla Triplice Alleanza. Ciò, nono-stante che la necessità di restare neutrali fosse sostenuta dai principali rappresentanti delle due culture antagoniste nell’ultimo sessantennio, la Chiesa e i liberali.

Pio X prima e poi il nuovo papa, che da quel settembre 1914 fu Be-nedetto XV, si schierarono subito per motivi religiosi profondi contro la guerra in corso e tanto più avversavano l’idea che vi entrasse anche l’Italia. Il liberale Giolitti e la sua maggioranza parlamentare resistette-ro a lungo contro tale prospettiva che giudicavano non corrispondente ai materiali interessi civili del paese. Nel frattempo il Ministro degli Esteri Sonnino, di area conservatrice liberale, operava con decisione per evitare ogni possibilità che al tavolo della futura pace potesse es-sere ammesso il Vaticano, perché ciò, internazionalizzando la posizio-ne vaticana, sarebbe potuto apparire una contraddizione con la logica profonda della Legge delle Guarentigie. A favore dell’intervento fu-rono, in modo martellante seppur diversificato, i giornali importanti, con alla testa il Corriere della Sera, gli ambienti futuristi di Marinetti, gran parte del mondo cattolico, una minoranza socialista, come Bisso-lati, Bonomi e Mussolini, un grande drammaturgo come D’Annunzio, la massoneria, la larga maggioranza degli industriali, il Presidente del Consiglio Salandra e, soprattutto, il Re Vittorio Emanuele III.

Dato il fine di questo libro, una piccola parentesi sul mondo catto-lico. Insieme al Papa, sostennero il non intervento gli eredi dei cattolici intransigenti mentre furono per l’entrata in guerra sia don Sturzo e gli ambienti murriani, a cominciare da Giuseppe Donati, convinti della necessità di completare il Risorgimento, e anche, dall’altra parte, gli eredi dei cattolici transigenti per sanare la Questione Romana nonché gli ambienti finanziari che pochi anni prima avevano appoggiato la guerra in Libia. In ogni caso, tutti furono partecipi dell’idea, assai cara a Casa Savoia, che una grande nazione doveva avere mire territoriali se non espansionistiche.

Il Governo stipulò a Londra un trattato segreto con l’Intesa (e la segretezza dello strumento diplomatico provocherà anni dopo la deci-siva riluttanza degli americani ad applicarlo) ancor prima di aver rotto con gli alleati. In seguito fu fatta irruzione alla Camera dei Deputa-ti per intimidire la resistenza della maggioranza (con l’atteggiamento ambiguo del Questore di Roma). Curiosamente, tutti questi ambien-ti si cementarono su un dominante assunto politico. Era necessario

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entrare in guerra a fianco dell’Intesa per completare il Risorgimento, per riaffermare una serie di rivendicazioni di territorialità italiana ed al contempo per arginare il socialismo tedesco. In particolare ne era convinto il mondo dei cittadini cattolici, in testa quelli conservatori che ritenevano decisivo schierarsi dalla parte della Corona per aver oc-casione di sanare lo storico dissidio; tanto che nel secondo gabinetto di guerra, quello del conservatore Boselli, entrò alle Finanze il milanese Filippo Meda, il primo cattolico ministro del Regno.

Una simile considerazione politica era irrealistica, come resero evi-dente la guerra e il dopo guerra. In specie fu un grave errore ridurre il Risorgimento a rivendicazioni territoriali e fu una concezione ristretta ridurre la questione socialista a problema ideologico di origine tedesca. Il Risorgimento fu certo un complesso di cose, ma il principio ideale di italianità e di cittadini italiani autonomi (Libera Chiesa in Libero Stato) non era una questione di confini, come pensava la Corona. Di-venuta una questione di confini, non a caso l’opinione pubblica seguì le vicende della guerra per senso del dovere più che per appassionata adesione, la cittadinanza si divise alla base e di conseguenza fu facile preda delle delusioni di un dopoguerra avaro di territori e ricco di problemi sociali conseguenti al conflitto, non esclusa spesso la miseria. E accettare la questione del socialismo soprattutto come ideologica, spalancava il terreno all’irrompere di un’altra ideologia molto più pe-ricolosa, quella comunista che stava esplodendo in Unione Sovietica e con ricadute ovunque (eventi cui infatti il nuovo Papa, Pio XI, prestava molta più attenzione del predecessore Benedetto XV). Nel complesso, per questa via, il quadro del confronto politico diveniva sempre più esterno al modo di essere liberale e alle strutture istituzionali che in-carnavano lo stato liberale.

L’appello ai Liberi e Forti con cui nel 1919 don Sturzo fondò il Partito Popolare insieme ad altri dieci (Sturzo ne fu il segretario) fu un atto coraggioso nel voler dare al mondo cattolico una rappresen-tanza aconfessionale basata sui propri specifici programmi politici. Ma non fu un atto davvero innovativo sul piano del principio della sepa-razione, e altrettanto non fu lungimirante sul piano della percezione dei problemi politici di fondo del paese. L’appello non prendeva come insegna la Chiesa (e per questo fu criticato da molti cattolici), però si centrava su richieste di nuove riforme di libertà – tra le quali elencava la libertà religiosa, la libertà della Chiesa nell’esercitare la sua missio-ne – nonostante che tali libertà fossero già integralmente garantite nel paese. E nel suo finale rincarava la dose, dichiarando l’ispirazione ai principi del Cristianesimo che consacrava la grande missione civilizza-

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trice dell’Italia di fronte alle democrazie socialiste materializzatrici e ai vecchi liberalismi settari. E infine, all’ottavo punto del programma allegato all’appello, chiedeva “libertà ed indipendenza della chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale. Libertà e sviluppo della coscienza cristiana, considerata come fondamento e presidio della vita della nazione, delle libertà popolari e delle ascendenti conquiste della civiltà nel mondo”. Appunto, la religione come base della nazione e i diritti dei gruppi sociali intermedi a base religiosa più che dei singoli cittadini. Nel complesso, il Partito Popolare di Sturzo, come partito di cittadini cattolici, non intendeva (né intese mai) rappresentare la Chiesa, ma la questione confessionale negata di principio veniva fuori, di fatto, come bussola politica.

Più in generale, nel clima molto teso delle problematiche sociali del dopoguerra, il mondo cattolico, con il neonato Partito Popolare si occupava delle questioni interne italiane, e intanto la segreteria del Papa e la Segreteria di Stato si impegnavano al massimo livello vati-cano in ambito internazionale. La Santa Sede, non essendo uno stato, non riuscì a far parte della conferenza della Pace di Versailles e giunse alla conclusione che, per uscire dall’isolamento in cui si era progressi-vamente trovata dopo la fine del potere temporale, era indispensabile ottenere dal Regno d’Italia un riconoscimento territoriale che consen-tisse di acquisire la capacità di svolgere un ruolo internazionale for-male e non solo spirituale. Nel più stretto segreto diplomatico, nella tarda primavera del 1919, fu preso a Parigi un contatto, tra l’inviato del Vaticano e il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando che si trovava nella capitale francese per trattare i ritocchi finali del futuro Trattato di Versailles.

L’incontro delineò una precisa soluzione (come nel tempo è emerso in modo certo) che consisteva nel riconoscere alla Santa Sede una por-zione di territorio non molto più vasta delle mura leonine però bastan-te per raggiungere una sovranità che avrebbe poi consentito l’accesso del Vaticano alla costituenda Società delle Nazioni. Tale soluzione, per richiesta del Presidente del Consiglio, non fu subito ufficializzata. Re-trospettivamente se ne comprende bene il motivo. Vittorio Emanuele Orlando  –  costituzionalista, parlamentare di lungo corso della sini-stra storica, che era stato ministro di Giolitti e poi deciso sostenitore dell’intervento in guerra, che era divenuto Presidente del Consiglio dopo la disfatta di Caporetto nel novembre 1917 – aveva concepito que-sta soluzione quale clamoroso colpo di teatro, da farsi contestualmente all’accordo di pace, per risolvere l’annoso problema con la Santa Sede e sbloccare in pieno il problema interno della partecipazione dei catto-

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lici. Da oltre un decennio Vittorio Emanuele Orlando aveva avuto in vari modi un ruolo istituzionale di raccordo con il Vaticano. Nel marzo 1918, considerate le difficoltà del dopoguerra, con un decreto aveva posto a carico dello Stato un aumento dell’assegno di congrua per i parroci, contravvenendo al principio separatista della legge del 1866 di non gravare sul bilancio dello Stato. Ora, nel giugno 1919, riteneva opportuno sistemare la Questione Romana una volta per tutte, anche quale sostegno alla sua posizione politica al momento assai traballante.

Così traballante che nemmeno tre settimane dopo il riservato in-contro parigino, il Ministero di Vittorio Emanuele Orlando cadde, an-che perché Giolitti e i liberali – avendo avvertito (anche sotto la spinta di Casa Savoia sempre attenta alle questioni di sovranità fisica) la con-cessione di un vero e proprio territorio al Vaticano come una sorta di ritorno al temporalismo, e comunque una violazione dello spirito di separazione – preferirono appoggiare come Presidente del Consiglio Nitti, politico molto più attento alle questioni dello stato liberaldemo-cratico.

La soluzione prevista da Vittorio Emanuele Orlando rimase nel cassetto e la sola novità nella situazione dei rapporti con il mondo cat-tolico restò il Partito Popolare. La nuova formazione politica portò una consistente rappresentanza parlamentare al mondo cattolico (103 deputati nelle elezioni del 1919) e fece parte dell’ultimo governo Gio-litti nel 1920-21 e poi degli ultimi tre brevi governi precedenti quello di Mussolini. Tuttavia Sturzo diffidò sempre del riformismo di Giolitti che temeva ostile agli interessi dei cattolici e del Vaticano (e di fatti bloccò l’ipotesi giolittiana di introdurre la nominatività dei titoli azio-nari). Però la linea del Partito Popolare non costituì né un modo di amalgamare i cittadini cattolici a quelli liberali né un punto per anco-rare l’impegno dei cattolici sui problemi dell’Italia prima che su quelli della Chiesa. Come del resto molti a quell’epoca, Sturzo sottovalutò le conseguenze dell’entrata alla Camera del fascista Mussolini alle elezio-ni del giugno del 1921, anche perché lui aveva toni rassicuranti sulla politica verso il Vaticano (Mussolini dichiarò subito che “la tradizione latina ed imperiale di Roma è rappresentata dal cattolicesimo. L’unica idea universale che esista a Roma, si irradia dal Vaticano. Se il Vaticano rinuncia definitivamente ai suoi sogni temporalistici – e credo che sia già su questa strada – l’Italia, profana o laica, dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali che una potenza profana ha a sua disposizione. Poiché lo sviluppo del cattolicesimo nel mondo, degli uomini che in tutte le parti della terra guardano a Roma, è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani”).

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In ogni caso Sturzo aveva ostilità verso Giolitti. Le cose giunsero al punto che nel febbraio del 1922 Sturzo e il Partito Popolare si op-posero strenuamente, dopo l’ultimo governo Bonomi, al ritorno della Presidenza del Consiglio a Giolitti, provocando la situazione fragile dei due governi Facta, in cui, nel giro di otto mesi, sfaldatosi il quadro costituzionale con la connivenza finale della Corona che rifiutò la fir-ma al decreto di stato d’assedio contro la marcia su Roma, si aprirono le porte al primo governo Mussolini (ottobre 1922). Pochi mesi dopo, nel luglio del 1923, nella divisione dei principali partiti anche al loro interno, don Sturzo fu indotto alle dimissioni da segretario del Partito Popolare dall’intervento diretto del cardinal Enrico Gasparri. Segre-tario di Stato Vaticano. Di fatto disturbava il Presidente del Consiglio Mussolini, che se ne era lamentato, nelle manovre per far approvare la legge elettorale Acerbo (quella su cui il fascismo edificherà la sua for-tuna). E poi c’era anche l’interesse del Vaticano a che il governo irrobu-stisse la situazione economica traballante del Banco di Roma in cui il Vaticano aveva fatto depositi cospicui. Infine l’innovazione, avvenuta con il decreto del Ministero di Vittorio Emanuele Orlando, di porre in parte a carico dello Stato le somme ritenute necessarie al Fondo per il Culto, aveva costituito una breccia nella regola separatista e dava la possibilità al regime nascente di pesare direttamente sulla vita eccle-siastica. L’intervento sul Partito Popolare si può considerare il primo passo formale per lo smantellamento della Legge delle Guarentigie.

6. I Patti Lateranensi dell’epoca mussoliniana

La contrapposizione ufficiale tra Stato e Chiesa scomparve – dopo quasi ottanta anni dalle leggi Siccardi ed a quasi sessanta da Porta Pia – nel primo periodo del regime fascista ormai consolidatosi. I dis-sensi vennero circoscritti, ma il criterio seguito per farlo non fu quello del principio di separazione. I Patti Lateranensi, formati dal Trattato (il cui testo si trova in Documenti, lettera c), dalla Convenzione Finan-ziaria (sempre alla stessa lettera c) e dal Concordato, furono sottoscritti lunedì 11 febbraio 1929 dal Cardinale Enrico Gasparri e dal Presiden-te Mussolini. Furono una complessa conciliazione tra due Stati non democratici raggiunta attraverso una trattativa di qualche anno e con-cepita, pressoché dichiaratamente, per consentire ai due contraenti di poter ambedue rivendicare la capacità di aver risolto per via pacifica l’annosa Questione Romana, ottenendo l’essenziale e al contempo sod-disfacendo le reciproche convenienze materiali. E infatti, le novità fon-

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damentali furono il riconoscimento alla Chiesa di una superfice di 44 ettari (assai ristretta eppure più vasta dei pochi palazzi apostolici entro le mura leonine, così da consentire la nascita dello Stato del Vaticano ed un esercizio effettivo della giurisdizione del Papa su un territorio e sui suoi abitanti), il versamento del Regno d’Italia al Vaticano di una somma in contanti di 750 milioni di lire e di titoli dello Stato al porta-tore per un valore nominale di un miliardo (versamento con cui il Papa dichiarò formalmente chiusa la Questione Romana), l’affermazione se-condo cui la religione cattolica è la sola religione dello Stato e la stipula di un Concordato in 45 articoli per definire i rapporti religiosi tra la Chiesa Cattolica e lo Stato Italiano (il testo del Concordato si trova in Documenti, lettera d).

Le due parti celebrarono la conciliazione con enfasi, unite nel li-quidare l’indirizzo del separatismo cavouriano seppur in ottiche diffe-renti. Il regime fascista aveva accelerato e spinto a concludere nel giro di poco più di un mese la parte finale delle trattative sui Patti perché voleva farsi accettare dalle gerarchie, possibilmente prima del Plebi-scito previsto alla fine di marzo, e magari sognando la fascistizzazione della Chiesa. Così poté presentarsi con il completo controllo nelle vi-cende interne, un controllo che, oltre alla raggiunta pacificazione con il mondo cattolico benedicente, il Concordato aveva rafforzato attra-verso il suo articolo 20 (i Vescovi dovevano obbligatoriamente giurare nelle mani del Capo dello Stato fedeltà allo Stato e far rispettare il Re e il Governo). Il risultato del Plebiscito (una sola lista di 400 nomi e un solo collegio per una sola domanda: “Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del Fascismo?”) fu un cappot-to, 89,6% di votanti con il 98,42% di sì.

Da parte sua, la Chiesa aveva ottenuto successi sostanziali, dall’abrogazione della Legge delle Guarentigie (con la conseguente caduta di ogni effettivo principio separatista), alla nascita dello Stato del Vaticano (che per il Papa estendeva al potere territoriale il ricono-scimento del ruolo internazionale di capo di Stato già presente nella Legge delle Guarentigie), alla riscossione di una ingente compensazio-ne finanziaria (che moltiplicava decine di volte la indennità già prevista in origine), alla stipula del Concordato tenacemente voluta (con cui si scambiava l’ossequio formale al Regno d’Italia con una impressionante serie di privilegi in materie fondamentali della vita quotidiana di ognu-no, basti citare la riduzione di imposte sui beni ecclesiastici, il nulla osta vescovile sulle assunzioni di ecclesiastici da parte dello Stato, l’im-possibilità di insegnare per i sacerdoti apostati, il benestare preventivo del Vaticano per i professori dell’Università Cattolica, l’insegnamento

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della dottrina cristiana come coronamento dell’istruzione pubblica, il riconoscimento degli effetti civili al Sacramento del matrimonio se-condo il diritto canonico).

Stando solo al proprio punto di vista, la Chiesa si mostrò più lun-gimirante del fascismo. Calcolò bene gli effetti di lungo periodo dei Patti Lateranensi sul rapporto tra Chiesa e Stato, per farlo inclinare verso un’impronta da stato cattolico. E ciò anche scontentando ristretti ambienti cattolici che, seppur senza venir meno all’obbedienza, giudi-cavano indigesto l’imprimatur così dato al regime. Non a caso Pio XI dichiarò pubblicamente pochi giorni dopo la firma dei Patti che “forse ci voleva un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare, un uomo che non avesse le preoccupazione della scuola liberale”.

Questo quadro credo basti a spiegare perché il grande liberale Benedetto Croce – che pure aveva sempre combattuto la massoneria e l’anticlericalismo – opponendosi al Senato alla ratifica dei Patti (ad opporsi furono solo in 6), disse di non opporsi “all’idea di conciliazione ma al modo in cui è stata attuata” e di rilevare che nella storia d’Italia anche “quando si formò un partito nazional liberale cattolico, che ac-colse uomini insigni, da tutti ancor oggi ricordati e venerati, e un poeta che si chiamò Alessandro Manzoni, quel partito non venne respinto e condannato dai liberali, ma dalla Chiesa”. Così come di guardare “con dolore la rottura dell’equilibrio che si era stabilito”, ricordando che “di fronte agli uomini che stimano che Parigi val bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no un messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Guai alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero mancati o le mancas-sero”. Non a caso questo discorso suscitò gran dispetto di Mussolini che replicò attaccando gli “imboscati della storia… che non la fanno prima di scriverla”. Il Trattato nella sostanza seppelliva la politica delle Guarentigie, essenzialmente sulla sovranità territoriale e sulla piena proprietà dei Palazzi Apostolici. Croce scrisse nella sua Storia d’Italia che la Città del Vaticano era un “giocattolo bambinesco di stato tem-porale”, ed effettivamente è (tuttora) lo stato più piccolo del mondo. Un altro oppositore, il senatore liberale Francesco Ruffini, scrisse che la Città del Vaticano rappresenta uno Stato sui generis e un’inedita categoria di Stato.

Al dibattito parlamentare sulla ratifica, seguirono forti tensioni di-rette tra Mussolini e Pio XI per quello che Mussolini aveva detto nel corso del dibattito. Contrariamente agli impegni presi con il Concor-dato, Mussolini aveva chiaramente fatto intendere che eventuali altre trattative sui reciproci rapporti avrebbero potuto riguardare solo il

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Concordato, proprio perché la Questione Romana era definitivamente chiusa. Insomma a Mussolini premeva soprattutto il Trattato. Questa interpretazione era contraria agli interessi della Chiesa. Non poteva accettare che, sia pure solo in teoria, si potesse discutere la particolare veste, riconosciutale dal Concordato, di religione di Stato e di titolare della formazione religiosa. Il Papa replicò formalmente con una lettera al Cardinal Gasparri sull’Osservatore Romano nella quale scrisse che “Trattato e Concordato sono l’uno complemento necessario dell’altro e l’uno dall’altro inseparabile e inscindibile. Ne viene che simul stabunt oppure simul cadent ; anche se dovesse per conseguenza cadere la Città del Vaticano col relativo Stato”.

In pratica, Mussolini pensava di aver risolto la Questione Romana pagando qualche prezzo che lo stato liberale non aveva mai voluto pa-gare e di poter poi affidare la gestione degli affari italiani al realismo della politica di potere e di forza del fascismo. Il Papa aveva puntato i piedi (cosa del tutto coerente sul piano religioso) ricordando che i diritti di libertà di religione erano la parte essenziale dei Patti. Per attutire i problemi anche giuridici posti da Pio XI (l’indissolubilità di Trattato e Concordato equivaleva a dire che la Questione Romana non era defintivamente chiusa) fu trovato il compromesso di aggiungere, prima della formale ratifica che doveva essere fatta dal Re e dal Papa i primi di giugno, una dichiarazione in cui le parti “riaffermano la loro volontà di osservare lealmente, nella parola e nello spirito, non solo il Trattato negli irrevocabili reciproci riconoscimenti di sovranità e nella definitiva eliminazione della questione romana, ma anche il Concordato nelle sue alte finalità tendenti a regolare le condizioni della religione e della Chiesa in Italia” (il testo integrale si può vedere in Documenti, al termine della lettera c). Dunque era confermato che la Questione Romana era chiusa ma anche che il Concordato era inderogabile per le condizioni della religione e della Chiesa in Italia.

In seguito ripresero non lievi tensioni circa il fatto che la Chiesa cominciò subito ad insistere a livello diplomatico, perché fosse abo-lita la festa civile del XX settembre. Mussolini sosteneva che non era previsto dal Concordato, che non era il momento e che si poteva fare solo se il Vaticano non avesse più sollevato proteste. In questo modo si arrivò a metà ottobre 1930 e solo allora Mussolini, divenuto soddisfat-to del comportamento del Vaticano, avviò la procedura per sostituire alla data di Porta Pia quella della Conciliazione (l’11 febbraio). Queste tensioni tra Mussolini e il mondo cattolico restarono sotto la cenere, anche se la Chiesa divenne progressivamente un sostegno forte per il regime. Era però un sostegno alle istituzioni fasciste per il fatto che sul

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piano civile non veniva fatta opposizione, ma non per questo si rinun-ciava alla propria libertà spirituale. Così le tensioni riemersero a fine maggio del 1931, quando Mussolini inviò ai Prefetti l’ordine di chiude-re i circoli dell’Azione Cattolica. Quell’Azione Cattolica che da cinque anni era rimasta la sola organizzazione a poter fare attività formativa a parte l’Opera Nazionale Balilla (cui i giovani dovevano aderire obbli-gatoriamente) e il Partito Nazionale Fascista. La motivazione era che l’Azione Cattolica svolgeva un’attività culturale religiosa contraria al fascismo.

Pio XI reagì a fine giugno con l’enciclica Non abbiamo bisogno in cui contestò in dettaglio gli abusi e le falsità commesse a danno della Azione Cattolica enunciando in sostanza l’idea che le garanzie reali erano quelle della fede e della collaborazione con il Pontefice dei fedeli e della gerarchia. E scriveva “il Clero, l’Episcopato, e questa medesima Santa Sede non hanno mai disconosciuto quanto in tutti questi anni è stato fatto con beneficio e vantaggio della Religione; ne hanno anzi spesse volte espresso viva e sincera riconoscenza. Ma e Noi e l’Episcopato e il Clero e tutti i buoni fedeli, anzi tutti i cittadini amanti dell’ordine e della pace si sono messi e si mettono in pena ed in preoccupazione di fronte ai troppo presto incominciati sistematici attentati contro le più sane e pre-ziose libertà della Religione e delle coscienze… Non è per un cattolico conciliabile con la cattolica dottrina pretendere che la Chiesa, il Papa, devono limitarsi alle pratiche esterne di religione (Messa e Sacramenti), e che il resto della educazione appartiene totalmente allo Stato… Noi non abbiamo voluto condannare il partito ed il regime come tale. Abbiamo inteso segnalare e condannare quanto nel programma e nell’azione di essi abbiamo veduto e constatato inconciliabile col nome e con la professione di cattolici.”

L’alto là del Papa produsse effetti e in due mesi fu di nuovo trova-to un accordo operativo pratico a proposito dell’attività dell’Azione Cattolica. È comunque chiaro che la realtà di tali tensioni restava sul punto della libertà di praticare la propria religione, senza però mai far riferimento al principio di separazione. Nel paese, anzi, troppi non fascisti non coglievano neppure quanto i Patti Lateranensi fossero lon-tani dalla logica del separatismo cavouriano. Si contentavano che non ci fossero più uno Stato asservito al Santo Uffizio e l’indice dei libri proibiti e che Chiesa e Stato si rispettassero nel cerimoniale. Di fatto una concezione conformistica, disattenta agli affari di coscienza, come li chiamava Croce, di cui non veniva inteso il valore civile e la carica di apertura sociale. Concezione che si riproponeva anche nel clero e nei fedeli italiani, che vibravano di orgoglio nazionalistico per la politica

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dello spazio vitale del fascismo (leggi l’avventura coloniale in Etiopia nel 1935-1936) nonostante che la Santa Sede la condannasse. Insomma, una concezione conformistica diffusa tra la popolazione, che manten-ne la sua presa sulla società e che si ripropose molti anni dopo alla Assemblea Costituente.

7. I Patti Lateranensi richiamatinella Costituzione della Repubblica

In una situazione drammatica come quella dell’immediato dopo-guerra, la questione della separazione tra Stato e Chiesa fu vista solo come una spinosa questione di principio, e si sa che in Italia ai principi civili viene attribuito un valore limitato. A rigor di logica del diritto, la caduta del regime e della forma di Stato avrebbero dovuto trascinare con sé quella del Concordato, che era un documento interno all’Italia. Ma rivedere le carte della conciliazione parve troppo audace, anche per le forti divisioni che c’erano, espresse o no, sul giudizio circa le pre-esistenti istituzioni liberali e sullo spirito del separatismo cavouriano.

In realtà la gerarchia vaticana non fece particolari pressioni uffi-ciali sul punto del costituzionalizzare il Concordato e manifestò le sue volontà solo in assai pochi colloqui al vertice riservatissimi. Va peraltro ricordato che dalla primavera del 1943 in poi, nel progressivo liquefar-si delle istituzioni del Regno, erano molto aumentati, rispetto a qual-che decennio prima, il prestigio e la considerazione della Chiesa pres-so l’opinione pubblica. Cosicché nell’aria aleggiava l’intento di non dispiacere ad una organizzazione così potente ed affidabile. Eppure anche il mondo cattolico esterno alla gerarchia di vertice si manifestò assai cauto. Sturzo scrisse che “spetta al popolo italiano il proprio volere circa la revisione del Concordato”, il cattolico liberale Jemolo parlò di “una Chiesa non desiderosa di Concordati ma di libertà”, l’arcivescovo e futuro cardinale Dalla Costa si limitò a chiedere che “si riconosca lo spirito e la sostanza dei Patti Lateranensi”. Per non parlare dei Valdesi, delle Chiese Evangeliche, in generale del mondo protestante che, nel corso del ’46, chiesero espressamente con più iniziative che venissero sancite in Costituzione libertà di religione, assoluta indipendenza delle Chiese dallo Stato, neutralità dello Stato in materia religiosa.

Moro, a dicembre del 1946, durante i lavori preparatori della Com-missione cosiddetta dei 75, disse che i democristiani “non intendono imporre l’affermazione di una maggioranza transitoria, ma vogliono av-

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viare tutta la vita politica italiana verso la pace religiosa, nella certezza che anche per mezzo del loro contributo saranno operati nel Concordato quei ritocchi cbe vaIgano a rendere i termini della pace religiosa perfettamente aderenti allo spirito liberale e democratico della nostra Costituzione”. In ogni caso la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa fu affrontata e risolta secondo le vecchie regole della riservatezza, senza coinvolgere in alcun modo l’opinione pubblica.

Il mondo della Chiesa e i cattolici ottennero più delle loro aspet-tative, se non addirittura il massimo, perché non venne individuata una diversa soluzione per i rapporti Stato Chiesa. Il parere divergente emerso nel mondo più laico – e dunque in teoria più disponibile al se-paratismo cavouriano – tra il possibilismo dei comunisti (propensi agli accordi bilaterali tra poteri e anche cedevoli nella speranza di salvare l’unità sindacale con i cattolici) e l’intransigenza degli azionisti e dei socialisti (fautori della laicità statale sul modello della legge francese del 1905), impedì di cercare un’altra strada per tornare al separatismo cavouriano e irrigidì la discussione su posizioni in realtà strumentali alle esigenze di ciascuna parte. Circostanza emblematicamente aggra-vata dal fatto che la Costituente in via preliminare aveva votato un ordine del giorno Bozzi secondo cui “il testo della Costituzione dovrà contenere disposizioni concrete di carattere normativo ed istituzionale anche nel campo economico e sociale”. E dunque, trattandosi di una Carta operativa nel reale, introdurre un esplicito riferimento ai Patti Lateranensi acquisiva ancora maggior rilievo.

Nella Commissione dei 75, la DC, Dossetti e Moro in testa, assi-curò in modo esplicito che gli articoli del Concordato non conformi al nuovo clima del paese sarebbero stati consensualmente modificati e solo per questo motivo Einaudi dichiarò di esser indotto al voto fa-vorevole (ed Einaudi era un separatista convinto tanto che pochi mesi prima al Congresso PLI aveva detto che la libertà di religione doveva essere riconosciuta ugualmente a tutte le religioni). Sempre la DC spin-geva perché il problema non restasse fuori dal testo che si andava ela-borando, evocando anche la possibilità che, qualora non fossero stati soddisfatti del risultato, su di esso i cattolici avrebbero potuto chiedere un referendum magari facendone insieme anche un altro sulla questio-ne istituzionale.

Il fatto è che il relatore della Commissione sul tema, Dossetti (al-lora alto personaggio del vertice DC, sostenitore insieme a La Pira di una linea evangelica e antagonista del cattolico pragmatico De Gaspe-ri), si investì di un mandato non affidatogli da nessuna delle due parti e perseguì un proprio disegno spingendo per il testo che poi alla fine

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sarebbe stato approvato. Vale a dire far passare una formula che al con-tempo fosse rispettosa dei desideri che a suo giudizio aveva il Vaticano ed insieme attuasse la propria ipotesi politica di coinvolgere la Chiesa nello sviluppo della nuova democrazia (come precisò concludendo il suo intervento finale in aula citando la frase di un cardinale alla fine del 1800, “il futuro sarà un secolo in cui la Chiesa non si accorderà con i principi o con i Parlamenti, ma si accorderà con le grandi masse popo-lari”).

Per questo complesso di motivi non fu cercata altra strada, e il con-fronto s’incanalò su un’alternativa che a prima vista appariva di antico stampo, tra clericali e anticlericali, ma che nelle intenzioni di alcuni voleva piuttosto essere il primo passo di un’utopia e che in ogni caso trascurava il separatismo di Cavour. Croce osservò che i tre partiti più grandi stavano operando “non già in una benefica concordia discors, ma in una mirabile concordia di parole e discordia di fatti, cui ha cor-risposto una commissione di studi e di proposte della stessa disposi-zione di animo, nella quale ciascuno di quei partiti ha tirato l’acqua al suo mulino”.

In aula Togliatti sostenne che “la pace religiosa è fondata su due colonne: il Trattato Lateranense e il Concordato” e definì “gli ultimi dei mohicani” i fautori delle linee separatiste. Concetto Marchesi addirit-tura disse che “con i Patti una nuova storia è incominciata nei rapporti tra la Chiesa e lo Stato”. I socialisti invece sostennero con Lelio Basso che “non è vero che la libertà religiosa nasca dai Patti Lateranensi: essa nasce e si fonda sulla coscienza democratica” e con Nenni “l’articolo sui Patti è in aperta violazione con lo spirito laico che ha animato la lotta di liberazione e la lotta contro il fascismo”. Ma il vero contrasto tra co-munisti e socialisti verteva su altre questioni, per questo non furono cercate altre strade (a parte gli azionisti che, pensando di stare in un paese anglosassone, non coglievano la realtà delle differenti tradizioni storiche). Per i comunisti, usando le parole di Togliatti scritte dieci anni dopo, “esisteva un solo problema, quello di valutare, mantenere ed allargare le possibilità di intesa e di collaborazione con le masse lavora-trici cattoliche”.

In pratica, il PCI contava, mostrandosi disponibile sui Patti La-teranensi (ed anche sul regolare i rapporti tra Stato e Chiesa in ter-mini concordatari), di stabilire un ponte con il mondo cattolico. Per addolcirne il forte anticomunismo (che proprio in quei mesi si stava confermando) e per rendere più accettabile la maggioranza di governo in carica, DC-PCI-PSI, emersa dopo la scomparsa della formula del Comitato di Liberazione Nazionale e ormai traballante. Al contrario

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i socialisti di Nenni (che a gennaio del 1947 avevano subito la scissio-ne di Palazzo Barberini guidata da Saragat), siccome puntavano a far passare il messaggio che alla fin fine il mondo cattolico restava subor-dinato alla Chiesa se non legato all’epoca fascista, intendeva sbarrare ai comunisti la strada dell’accordo con il mondo cattolico, inaugurando la logica ritenuta salvifica del Fronte Popolare.

Cosa accadde sull’articolo7 della Costituzione è noto. Con una for-mulazione che fu e sarebbe stata assai discussa, nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1947 i Patti Lateranensi (o più esattamente la procedura adottata per farli) furono inseriti nella Costituzione con 350 voti favo-revoli, di cui 95 comunisti, e 149 contrari, più 56 non partecipanti al voto. E all’annuncio di un voto oggettivamente così importante, nes-suno applaudì, circostanza di per sé illuminate del clima reale della Assemblea. Il voto del PCI apparve incerto fino all’ultimo, anche se Togliatti, in un riservatissimo colloquio durato un’intera mattina svol-tosi prima di Natale a Botteghe Oscure, aveva fatto chiaramente capire a Dossetti l’intento di approvarlo (nonostante Gramsci avesse scritto”il Concordato è il riconoscimento di una doppia sovranità in uno stesso ter-ritorio statale”). Il voto del PCI (Calamandrei lo definì “il voltafaccia di Togliatti”) fece la differenza perché, rendendo certo il risultato in partenza, influenzò anche gli assai numerosi incerti. Restò il marchio che sulla vicenda posero Benedetto Croce (“l’inclusione è uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico… che cosa c’è di comune tra una Costituzione statale e un trattato tra Stato e Stato, e come mai a questo trattato in sede di Costituzione si può aggiungere l’irrevocabilità, cioè l’obbligo di non mai denunciarlo o, che vale lo stesso, di modificarlo solo con l’accordo dell’altra parte, mentre l’una delle due, cioè l’altro Stato, non interviene e non può intervenire come contraente in quest’atto inter-no e quell’obbligo resta unilaterale”) e il futuro Presidente della Corte Costituzionale Paolo Rossi (“è necessaria la revisione proprio per mante-nere quella pace religiosa a cui tutti aspiriamo e che sarebbe compromessa dal passaggio immediato del Concordato fascista nella Costituzione. È ne-cessario impedire la rinascita di quel sentimento inutile e pericoloso che si chiama anticlericalismo”). Jemolo scriverà “fui decisamente contrario all’articolo 7 e notai che era fuori di ogni precedente l’introduzione nella Carta Costituzionale di un elemento che poteva considerarsi un trattato internazionale”.

È da rilevare che una indiretta dimostrazione che sull’articolo 7 la Chiesa e il mondo cattolico ufficiale ottennero quasi l’insperato per demerito altrui, si trova nell’evidente attenzione alla logica cavouria-na riscontrabile in altri articoli della Costituzione in materia religiosa.

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Oltre l’articolo 2 sui diritti inviolabili dell’uomo, sempre nei principi fondamentali c’è l’articolo 8 che, seppure con una formulazione an-cora fragile ai limiti del contraddittorio, stabilisce l’uguaglianza delle confessioni religiose di fronte alla legge. Poi, tra i diritti e i doveri dei cittadini, stanno gli articoli 19 e 20, sulla libera professione delle fedi ed il loro esercizio al di fuori di qualsiasi limite di legge, che esprimono in forma inequivoca la mentalità civile liberale in materia di libertà religiosa secondo lo spirito del separatismo cavouriano (il testo di tut-ti questi articoli è in Documenti, lettera e), anche se la formulazione letterale dell’articolo 20 consente una interpretazione estensiva che al limite lo contraddice (la legge del 1866 del Regno aveva revocata la personalità giuridica agli enti religiosi in quanto tali).

La coerenza tra l’articolo 7 e gli altri è stata ricomposta in dottrina attraverso il progressivo statuirsi della totale incompetenza dello Stato in materia religiosa mentre tale competenza sorge quando l’organiz-zazione religiosa chiede di esser riconosciuta per ottenere le positive conseguenze civili del proprio organizzarsi. Peraltro questa sottile di-stinzione a posteriori non evita che sia davvero problematico il con-certo di quegli articoli con l’articolo 7 nella pratica della convivenza e quindi l’abissale lontananza dal separatismo (basti ricordare il caso del sacerdote Ernesto Bonaiuti, scomunicato nel 1931, allontanato dal-la cattedra universitaria perché aveva rifiutato il giuramento fascista e non più riammesso in epoca repubblicana per il divieto concordatario di assumere nella Pubblica Amministrazione i preti apostati. Nono-stante che tale divieto violasse l’articolo 3 della Costituzione).

Non a caso, in assenza di proposte del mondo laico, furono addi-rittura le Chiese Evangeliche ad auspicare – in una tipica logica sepa-ratista dell’Italia cavouriana – che tutte le diverse Chiese avessero una assoluta parità di trattamento giuridico nell’ambito del diritto comu-ne. Ed è stato da quest’idea – così audace da mancare il coraggio di proporla integralmente al mondo cattolico – che era derivato l’istitu-to costituzionale delle Intese di cui all’articolo 8, pensato proprio per bilanciare la logica dei Patti Lateranensi e in fin dei conti per questo stesso motivo rimasto inattuato per i successivi quasi quaranta anni. Le Intese confliggevano con la logica della legge dei culti acattolici ammessi (la 1159 del 1929 e il connesso Regio Decreto 289 del 1930, che implicitamente concepivano l’unica religione degna in quella cat-tolica), che infatti fu dichiarata parzialmente incostituzionale trenta anni dopo. Eppure la 1159/1929 in gran parte permane come relitto di una concezione illiberale e pattizia dei rapporti tra Stato e religioni.

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8. I Patti Lateranensi negli anni di De Gasperi

Due mesi dopo l’articolo 7, PCI e PSI vennero esclusi dal gover-no e il 31 maggio 1947 si insediò il 4° gabinetto De Gasperi con la prima maggioranza quadripartita DC-PLI-PSLI (la forma primigena dello PSDI)-PRI. Questa formula di maggioranza centrista resterà do-minante per un decennio, un periodo in cui il dibattito politico sarà centrato sulla ricostruzione materiale del paese e sull’acceso dibattito tra partiti democratici e sinistra comunista, in perfetta analogia con la divisione internazionale in due blocchi, quello Occidentale e quel-lo imperniato sull’URSS. La Repubblica italiana cominciò a vivere in questa cornice costituzionale i rapporti tra Stato e Chiesa. All’inizio i dissensi e anche gli scontri in materia di Concordato restarono essen-zialmente nell’ambito interpretativo degli accordi tra i due contraenti, cominciando a toccare solo progressivamente il profilo costituzionale interno allo Stato italiano.

Certo, vi furono grandi proteste dei comunisti, furenti per il rapi-do colare a picco dello strumentalismo adottato sull’articolo articolo 7. Contrariamente alle loro attese, non aveva evitato la loro estromis-sione dal governo ma soprattutto non aveva affatto ammorbidito la posizione della Chiesa contro il marxismo che era basata su questioni spirituali e religiose. Il primo grande scontro furono infatti le elezioni politiche del 1948, che presentavano, dal punto di vista dei credenti, il pericolo di una vittoria dei comunisti, prospettiva che faceva balenare non solo le repressioni molto dure allora attuate nei paesi oltre la corti-na di ferro, ma anche la scia di sangue che aveva caratterizzato il dopo guerra italiano nelle regioni rosse. Considerati questi rischi che inve-stivano direttamente la stessa possibilità di avere libertà di religione, il mondo civile cattolico si affidò all’intuizione del medico Luigi Gedda, da oltre un decennio al vertice centrale dell’Azione Cattolica, prima come giovani e poi come uomini.

L’otto febbraio 1948 Gedda dette vita ai Comitati Civici (con forti perplessità iniziali da parte dei vertici della stessa Azione Cattolica), concepiti come organizzazione capillare di quadri per svolgere diffusa opera di propaganda politica e di assistenza al voto per chiunque ne avesse bisogno. I Comitati Civici, che usufruivano anche della mobili-tazione del clero, ebbero uno sviluppo travolgente costituendo in po-che settimane oltre ventimila comitati locali, ognuno dei quali operava con una media di poco meno di venti attivisti. Furono senza dubbio es-senziali nel grande successo della DC che raggiunse il 48,51% dei voti. Insieme con gli alleati del Partito Socialista dei Lavoratori (7,07%), del

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Blocco Nazionale liberale (3,82%) e del Partito repubblicano (2,48%), fu raggiunta una netta maggioranza centrista (61,88%). Nel Fronte Po-polare (che raccolse il 30,98%) ci furono dei mugugni tra gli anticleri-cali a causa della forte presenza del mondo cattolico. Essi trascuravano che la logica anticlericale aggregava lungo linee differenti da quelle della libertà di religione che loro stessi volevano. E che il mondo cat-tolico aveva difeso non i possedimenti del Vaticano bensì la libertà di religione in Italia. Non lo aveva certo fatto in un’ottica di separazione tra Stato e Chiesa, ma dal punto di vista dell’ottica di separazione non c’era alcun motivo di immediato disagio. Erano tutti cittadini italiani.

La DC degasperiana era ben consapevole della necessità di non ghettizzare il mondo laico. Quando poche settimane dopo le elezio-ni politiche ci fu da eleggere il Presidente della Repubblica, per dare equilibrio nelle alte cariche dello Stato, la DC candidò un esponen-te del partito liberale, Luigi Einaudi, allora Governatore della Banca d’Italia e Vice Presidente del Consiglio, famoso economista e impor-tante editorialista, che fu eletto al 4° scrutinio dai voti dei partiti del centro più qualche altro di stima. Nemmeno due settimane dopo, fu votata la fiducia al V governo De Gasperi, che riproponeva la formula quadripartita con un’ampia presenza dei rappresentanti dei partiti lai-ci, che erano valorizzati anche se la DC aveva la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento (305 su 574 alla Camera e 130 su 237 al Senato). Ciò mostra come il lungimirante segno distintivo della politica di De Gasperi (iniziato sotto più aspetti fin da prima delle elezioni) sia stato l’equilibrio tra cattolici e laici e il concepire la diversità tra i due filoni politico culturali quale apporto collaborativo da non seppellire sotto le tentazioni egemoniche democristiane. De Gasperi era personalmente un cattolico molto praticante, ma politicamente non aveva l’obiettivo di usare i valori del cristianesimo come modello istituzionale. Da qui le sue notevoli cautele nei riguardi del collateralismo dei Comitati Ci-vici geddiani, che si mobilitavano essenzialmente in chiave puramente anticomunista appoggiandosi alla fede.

Il secondo, e principale, grande scontro sul Concordato, fu la sco-munica – decretata dal Santo Uffizio a fine giugno 1949 sulla scorta di più eventi di livello europeo dei mesi precedenti – di “chi, iscritto al Partito Comunista, ne accetta la dottrina atea e anticristiana; chi la difende e chi la diffonde. Queste sanzioni sono estese anche a quei partiti che fanno causa comune con il comunismo”. Tale decisione riguardava ovviamente solo i cittadini credenti cattolici e per di più non violava il Concordato e ci sarebbe stata anche senza il Concordato, anzi ne prescindeva perché discendeva in modo indubbio dal credo cattolico.

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Eppure il PCI cercava di sostenere che la scomunica era un intervento nella politica italiana vietato dal Concordato. Ma ciò era insostenibile poiché il Concordato sanciva all’articolo 43 il divieto di iscrizione dei religiosi ad un partito politico e in più passaggi riconosceva alla Chiesa completa libertà nel governo spirituale dei fedeli. Requisiti rispettati in pieno dalla scomunica, che aveva radici religiose, non politiche. Sa-rebbe potuto divenire sostenibile solo con un’interpretazione dirigista del Concordato che negasse la libertà di religione quando la religione contrasta con i principi di qualche partito (che poi era stata la linea seguita qualche decennio prima in Russia) oppure un’interpretazione che viceversa riconoscesse alla Chiesa un valore preminente nell’in-dirizzo civile. Interpretazioni del genere, tuttavia, sarebbero state incostituzionali ed in aggiunta avrebbero vanificato quel percorso di conciliazione che il PCI aveva addirittura voluto costituzionalizzare attraverso l’articolo 7.

Tra la fine del 1948 e fino al luglio 1949 avvenne anche un parallelo, e altrettanto duro, scontro tra i partiti di governo e quelli di opposizio-ne sulla partecipazione alle trattative e poi sull’adesione dell’Italia al Patto Atlantico. Un’alleanza, sostenne in Parlamento De Gasperi, com-patibile con la Carta delle Nazioni Unite, che era un vincolo di mutua assistenza tra i suoi membri a carattere puramente difensivo, che salva-guardava la competenza del Parlamento italiano, che collocava netta-mente l’Italia nella comunità di paesi, principi e valori, democratici ed occidentali ed, al contempo, rappresentava un contributo alla stabilità interna chiarendo le responsabilità e gli obiettivi dei vari partiti. Nella duplice coppia di votazioni alla Camera e al Senato, la maggioranza fu assai ampia nonostante la forte opposizione socialcomunista. Le diffi-coltà di De Gasperi all’interno della DC furono peraltro insistite e non poco rilevanti, a causa della contrarietà di Dossetti e della sinistra del partito, che, propugnando una politica adatta a cogliere gli elementi unificanti dello scenario italiano, contrapponevano alla Alleanza At-lantica una linea di neutralità per agevolare il dialogo politico con le sinistre e non irrigidire i blocchi internazionali.

Il PSI si fece coinvolgere nella linea del PCI su ogni argomento, an-che se ne restò distinto sulla questione Concordato. Continuò a lanciare slogans di sapore anticlericale quali “libertà della Chiesa, libertà dalla Chiesa” ed invitò espressamente a promuovere nell’ambito culturale l’umanesimo marxista e a rendere possibile un dialogo polemico nei confronti sia della cultura cattolica che dello stesso laicismo borghese. In ogni caso, l’insistere per anni del PCI sull’intervento nella politica italiana da parte della Chiesa, non ebbe alcun esito nell’immediato. Sia

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dal punto di vista politico (perché la maggioranza del paese manteneva la scelta contro il comunismo e a favore del Patto Atlantico) sia dal punto di vista giuridico (perché la magistratura riteneva non propo-nibili le numerose denunce contro i vescovi per violazione giuridica del Concordato o delle disposizioni penali della legge elettorale). Però aggravò il danno dell’articolo 7. Servì a mantenere in vita quell’anticle-ricalismo che respingeva, a parole e nei comportamenti parlamentari.

Di fatti, in Italia il problema del rapporto con la Chiesa è un pro-blema reale. Ancor più quando il mondo cattolico assume tinte cleri-cali. E non per caso la DC, spinta dai suoi gruppi confessionali, andava premendo per compiacere il mondo clericale con atti allusivi di per sé molto eloquenti. A maggio del 1949, non venne reinserito tra le festi-vità nazionali il XX settembre, con il voto contrario del PLI, dei laici e dell’opposizione di sinistra. La tendenza era comunque palpabile e, nell’estate 1950, la rivista Il Ponte scriveva che si stava affermando in Italia “una dittatura sorda in un vero e proprio stato pontificio”. Il modo di affrontarlo (e, secondo il punto di vista liberale, di risolverlo) è il separatismo cavouriano. Ed il separatismo fu seguito dal Consiglio di Europa nel preparare il preambolo della Convenzione Europea dei Di-ritti dell’Uomo del novembre 1950, a Roma. Tra i principali estensori c’erano i cattolicissimi esponenti politici come il francese Schuman, il tedesco Adenauer e lo stesso De Gasperi, i quali però scrissero “forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto” senza riferimenti alla religione.

Escluso il separatismo, se si adotta una via di tipo concordatario, si è necessariamente destinati a far convivere ambiguamente la dichiara-ta volontà di conciliazione con il suo opposto, l’antico anticlericalismo. Questo poiché, facendo ruotare tutto intorno al modo di intendere il Concordato, la controparte è solo la Chiesa in quanto tale, cui si riconosce la piena rappresentanza dell’esercizio religioso. Quindi ogni contrasto interpretativo diviene un contrasto con la Chiesa e scivolare nell’anticlericalismo diviene passo assai breve. Così si innesca l’etero-genesi dei fini e i soloni marxisti della correttezza conciliatoria tramite il concordato davano loro stessi argomentazioni assai forti all’anticleri-calismo (che dicevano di aborrire).

Tra l’altro questa inclinazione all’anticlericalismo, forniva motivi aggiuntivi ad una parte consistente della gerarchia per alzare sempre più, nel tempo, la richiesta di modellare la società italiana sulla visio-ne religiosa. Ovviamente non si deve equivocare ed intendere posi-zioni del genere come posizioni reazionarie. Sono posizioni religiose, che non trascurano il mondo ma lo guardano attraverso le lenti della

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Chiesa. Ne fu un esempio, nell’agosto 1950, l’enciclica Humani generis, che da una parte ribadiva l’assoluta importanza della Chiesa e del suo Magistero, dall’altra compiva una apertura alla dottrina dell’evoluzio-nismo, argomento delicatissimo che ancor oggi vede una totale ostilità da parte di religiosi cattolici in varie parti della terra.

L’Enciclica si spingeva ad affermare che “il Magistero della Chiesa non proibisce che ricerche e discussioni sulla dottrina dell’evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull’origine del corpo umano che proverreb-be da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente da Dio). Però questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle due opinioni siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa. Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione”. Dunque la questione è chiara. Il ricerca-tore religioso può ricercare purché sottostia al giudizio della Chiesa. E così dovrebbe fare il cittadino. Non occorre dire che ciò non è accetta-bile per chi pratica il principio di separazione ma che non per questo significa che la Chiesa sia disinteressata a ricerche sulla evoluzione e quindi retrograda. Oppure che la Chiesa sarebbe retrograda perché intenzionata a modellare la società in base alla sua visione religiosa. Sono i civili che intendono adottare queste impostazioni religiose in campo civile, ad essere retrogradi di fatto. In genere, lo sono perché intendono strumentalizzare la religione (che non c’entra) per compiere atti mondani a loro convenienti.

Soprattutto per quegli ambienti della gerarchia che volevano fare della religione un modello civile, l’anticlericalismo identificava la laici-tà, la laicità anticlericale era laicismo – a loro giudizio senza principi – e ciò equivaleva a mettere in discussione la libera presenza della Chiesa attentando alla stessa libertà religiosa. Di conseguenza, per difendere la Chiesa, tendevano a formulare sempre di più giudizi su come vive-re e su come organizzare la convivenza, cominciando a tracimare sul terreno del dibattito politico culturale italiano. Purtroppo, questa loro attitudine trovava progressivamente un riscontro cortigiano, montan-te, in una diffusa rete burocratica di ogni classe sociale. Questa rete inclinava, in mancanza di una chiara politica laica di separatismo e anche stante il permanere in vigore di certe previsioni del Codice Roc-co (destinate poi nel tempo ad essere superate se non dichiarate inco-stituzionali), a conformarsi al punto dei vista di quelli che apparivano contare di più, i conservatori.

Un prodotto di questo clima fu la manovra innescatasi nel gennaio 1952, all’indomani della nomina di Gedda alla presidenza dell’Azione

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Cattolica (alcuni sostengono che la nomina venne fatta proprio a tal fine). La manovra non riuscì ma costituì una sorta di spartiacque po-litico. In vista delle comunali a Roma del maggio 1952 e utilizzando l’idea di un amico stretto, un monsignore romano vescovo di Pompei, Roberto Ronca, fondatore cinque anni prima del movimento conserva-tore Civiltà Italica (sostenitore della religione cattolica come religione di Stato e critico della politica della DC ritenuta debole verso la sini-stra), Gedda e diversi ed importanti ambienti del mondo cattolico più conservatore proposero di costituire una lista senza simboli compren-dente tutti coloro, inclusi i missini, che volevano impedire la vittoria del Blocco del Popolo (organizzato dai socialcomunisti e da parte dei laici attorno alla figura del vecchio Nitti, Presidente del Consiglio in epoca prefascista), vittoria che avrebbe costituito un grave imbarazzo per il Papa. La manovra passerà alla storia come operazione Sturzo, perché il sen. Sturzo, per il suo prestigio, per la sua posizione di storico antifascista, per la sua indipendenza dagli schemi ufficiali DC (cui non fu mai iscritto), era ritenuto il più adatto a mobilitare. Gedda impostò la proposta all’on. Gonella, allora segretario nazionale DC, come un aut aut, o la DC guidava l’operazione oppure l’operazione sarebbe stata fatta senza la DC. Gonella accondiscese e sollecitò l’adesione di Stur-zo, che pose le condizioni di poter scegliere liberamente i candidati e della adesione scritta del Msi. Gonella portò la proposta nella Direzio-ne DC che la approvò a stento. A questo punto Gedda contattò il MSI ma ebbe come risposta non l’adesione bensì la richiesta di colloqui con tutte le forze coinvolte. De Gasperi, che vedeva nell’operazione Sturzo una minaccia per la politica DC come lui la intendeva, colse la palla al balzo, sostenendo che i colloqui richiesti non erano un’adesione ad una iniziativa civica bensì una trattativa politicamente inaccettabile per la DC. Il vertice della Segreteria di Stato del Vaticano cercò di far andare avanti lo stesso la cosa ma Sturzo, preso atto della nuova situazione, rinunciò subito. E il nucleo dirigente della DC tirò un sospiro di sol-lievo.

L’operazione Sturzo ebbe vita brevissima, una settimana scarsa. Però dette luogo a conseguenze incancellabili. Quella più diretta e immediata la subì De Gasperi in persona, nonostante i quattro partiti centristi avessero poi vinto al Comune di Roma. A giugno, Pio XII, che avendo un temperamento un pò autoritario non aveva gradito la mancata attuazione della formula operativa da lui preferita, inflisse a De Gasperi l’umiliazione (definizione coniata dallo stesso statista in quanto cattolico) di non concedere a lui e alla sua famiglia un’udienza privata, in occasione del suo trentesimo di matrimonio e del farsi suora

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della figlia Lucia. La conseguenza permanente fu la formalizzazione dello sfaldarsi della piena collaborazione del 1948 tra le varie anime cattoliche. A ben vedere la frattura era già iniziata da qualche tempo, sotto la spinta di due distinti fattori. Da una parte, nella società e nei gruppi dirigenti, montava il continuismo con le pigre e comode abitu-dini dell’epoca mussoliniana; dall’altra, nella politica comunista, si an-dava trasformando il periodo della Resistenza da guerra di liberazione in un messaggio di palingenesi politico sociale. I due fattori si rafforza-vano vicendevolmente. Il primo portava i clerico moderati alla critica della politica degasperiana, considerata troppo attenta ai rigorosi pun-ti di vista dei partiti laici alleati, e frenava una ristrutturazione istitu-zionale più dinamica agitando sempre più lo spauracchio del mondo socialcomunista, ateo ed incombente. Il secondo tendeva a portare il confronto politico non tanto sui fatti e sugli strumenti operativi quan-to sulle visioni epocali e sulla volontà di sfruttare le difficoltà politico sociali e il comparire di pulsioni reazionarie. Il mondo conservatore reagiva chiedendo che la DC fosse sempre più cattolico moderata.

I risultati delle numerose amministrative di quel ’52 furono de-ludenti per la DC. Sul piano nazionale perse più del dieci per cento rispetto alle politiche, distribuito per circa il tre per cento all’insieme degli altri partiti di governo, per poco meno all’opposizione di sini-stra e per il restante cinque per cento alla destra, soprattutto quella missina. Questo accrebbe le tensioni nella DC, e spinse, innanzitutto De Gasperi e Scelba, anche sulla base di valutazioni complessive dello stato conflittuale del partito e del paese, a concepire una strategia fon-data sul cambio di sistema elettorale. Così, tra il secondo semestre del 1952 e il primo trimestre del 1953, i quattro partiti di maggioranza (il governo era un bicolore DC-PRI) fecero approvare la legge 148/1953 che, per la sola Camera, attribuiva 380 seggi (sui 590 di allora) a quel partito o quella coalizione di partiti formalmente apparentati che aves-se ottenuto nazionalmenete almeno il 50% più uno dei voti. L’opposi-zione di sinistra inscenò durante i due dibattiti parlamentari proteste fino agli scontri fisici e le diffuse con forza anche nel paese chiamando a ribellarsi contro una legge che, dicevano, avrebbe falsato il responso elettorale. Le destre seguirono analoga falsariga.

A proposito di tali avvenimenti, il commento scritto all’epoca fu che l’intento propagandistico aveva avuto la meglio sul ragionamento. La legge era appoggiata, oltre che dalla DC, dal PSDI di Saragat, dal PLI di Villabruna, dal PRI di Oronzo Reale e dal settimanale Il Mon-do di Mario Pannunzio, una rivista nata nel 1949, in quegli anni molto influente, che costituiva in Italia il nucleo della cultura liberale effet-

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tiva e aveva diversi collaboratori di primo piano come Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini. Lo scontro parlamentare provocò anche fuo-riuscite dal PRI (Parri), dal PSDI (Codignola) e dal PLI (Corbino). Il Mondo commentò a caldo “dicono di puntare al risultato aritmetico, ma non dicono quale risultato politico vogliono”. E in generale, prendendo spunto dal fatto che solo il senatore del PLI, Sanna Randaccio, relatore in aula, aveva difeso con forza la legge, osservò con incisività “nessuno ci può togliere il sospetto che la DC ha giocato sui due tableaux… Ci sia lecito formulare l’ipotesi che questa legge non sia piaciuta a quegli esponenti della destra clericale che vanno ancor sognando la possibilità (e immaginando la convenienza) di sempre nuove operazioni Sturzo”.

Per le elezioni del 7 giugno 1953 si apparentarono la DC, il PSDI, il PLI, il PRI, il Südtiroler Volkspartei ed il Partito Sardo d’Azione. Sulla carta si sarebbe dovuto superare la metà dei voti. Ma, a parte il clima dell’opposizione di sinistra, anche sul versante conservatore le ritrosie erano evidenti. Così gli apparentati ottennero solo il 49,8% e la legge non scattò. Mancarono 55.039 voti sui 27 milioni e ottantaset-te mila validi. Solo Alleanza Democratica Nazionale (i fuoriusciti dal PLI) ne aveva presi oltre 120 mila. E altri 160 mila voti il gruppo di Parri e Codignola. Sulla sinistra, presentarono due liste (non una sola come nel ’48) crescendo insieme del 4,42% mentre a destra il Partito Nazionale Monarchico raggiunse il 6,85% (dal 2,78) e il MSI il 5,84% (dal 2,01). I partiti apparentati riportarono lo stesso la maggioranza dei seggi, 303, ma la legge non aveva raggiunto il suo scopo politico, prima ancora di quello tecnico. Il segretario PSDI, Saragat, riassunse l’ac-caduto con una frase famosa “È colpa del destino cinico e baro”. Lui si riferiva alla circostanza che mentre la storia aveva confermato in pieno le ragioni politiche della scissione di Palazzo Barberini, le urne aveva-no premiato quelli che anni prima avevano sbagliato (questa volta la lista dello PSI era finalmente autonoma) e punito quelli che avevano visto giusto. Eppure la frase valeva in generale, intendendo il destino come l’attitudine italiana a non apprezzare chi riesce a vedere le cose con grande anticipo.

Valeva per Palazzo Barberini, ma valeva anche per la legge di rifor-ma elettorale. Era stata proposta per ragioni tecniche importanti di per sé (che molti si rifiutarono di capire) e pensate per consentire lo svilup-parsi della linea del centrismo degasperiano (che molti all’interno della stessa DC e nel mondo cattolico conservatore non avevano mai amato e spesso subito). Non a caso il liberale Guido Cortese aveva sintetizzato l’entrata in vigore della 148/1953 con le parole “il maggior obiettivo che si è voluto raggiungere con l’apparentamento dei quattro partiti, è ancora-

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re al centro la DC”. Eppure, aveva spopolato l’invenzione del deputato del PCI Giancarlo Pajetta, che l’aveva fatta chiamare legge truffa. Pec-cato che l’efficacia nella comunicazione immediata fosse fondata sulla falsificazione della realtà. La legge non cambiava il risultato elettorale e non agevolava nessuno (lo dimostrano proprio i fatti avvenuti). Dava alla maggioranza degli elettori, qualora ci fosse, un ulteriore margine di seggi per consentire di governare al di sopra degli intrighi. In pra-tica introduceva il principio che il parlamentarismo è essenziale per le istituzioni a condizione non abbia involuzioni, quali l’impedire o comunque l’ostacolare, attraverso manovre di palazzo, il rispetto della linea politica voluta dalla maggioranza dei cittadini.

Questo principio aveva tanti avversari. Tutti coloro che intende-vano conservare saldamente in mano ai parlamentari la possibilità di assumere qualsiasi decisione, anche opposta alle proprie posizioni tradizionali (si ricordi che i Patti Lateranensi furono introdotti in Co-stituzione senza esser preceduti da una discussione presso l’opinione pubblica e con non lievi sorprese di coerenza). Questi avversari ave-vano due diverse esigenze. Da una parte, il parlamentarismo marcato era sostenuto, in nome di concezioni obiettivamente vecchio stampo, dagli scissionisti dei partiti laici, i quali volevano che sulle decisioni della maggioranza degli elettori prevalesse la meccanica proporziona-lità della rappresentanza dei vari partiti, poiché il bene supremo do-veva essere la libertà dei singoli parlamentari (ma il bene supremo era che la libertà del parlamentare rientrasse pur sempre nelle scelte della maggioranza degli elettori quando la maggioranza c’è e non avesse la pretesa dei rappresentanti di decidere loro a prescindere dalla cornice in cui operano). Dall’altra parte, il parlamentarismo marcato era so-stenuto da quelli che non volevano che le decisioni dei partiti in Par-lamento avessero il vincolo di rispettare senza contorsioni gli indirizzi della maggioranza degli elettori e quindi non volevano dare margini più ampi alla maggioranza di governo (in pratica, volevano far contare assai più degli elettori i partiti e i gruppi parlamentari, che dovevano aver la facoltà di esercitare il mandato magari in modo incomprensibile per l’opinione pubblica, rendendole impossibile stabilire chi avesse la responsabilità delle scelte politiche compiute).

Il secondo tipo di motivazione accomunava tutti quelli che, a si-nistra, a destra e all’interno della stessa DC, non volevano una scelta politica chiara di collaborazione tra DC e laici. Il PCI riteneva l’insta-bilità delle maggioranze parlamentari la condizione migliore per far pesare la propria forza di mobilitazione delle masse popolari (consen-tendo di interloquire sottobanco con gli ambienti cattolici dotati di

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analoga capacità e per questo sempre corteggiati). Il PSI sperava che l’instabilità portasse ad un cambio di direzione nella DC attenuando la pregiudiziale antisocialista. I monarchici non volevano l’esistenza di una sicura maggioranza non conservatrice per poter meglio far con-tare presso la DC i propri numeri parlamentari. Quelli del movimen-to sociale si trovavano più a loro agio in una situazione parlamentare confusa che lasciasse più spazio ai loro richiami nostalgici e ribellisti. Infine il mondo conservatore cattolico (il sospetto espresso dal Mondo si era rivelato molto fondato) puntava ad una formazione più dichiara-tamente confessionale che fosse in modo aperto a favore del primato della dottrina cattolica. Tanto che Civiltà Cattolica, il quindicinale dei Gesuiti che va in stampa con l’approvazione della Segreteria di Stato Vaticana, scrisse apertamente che la DC avrebbe fatto meglio ad alle-arsi ai monarchici cattolici e rispettosi della Chiesa e ad attenuare il liberalismo politico.

La maggioranza degli italiani aveva preferito ancora la alleanza de-gasperiana tra DC e partiti laici, ma i laici scissionisti e i variegati am-bienti conservatori e religiosi avevano impedito che la scelta avesse una misura sufficiente a far scattare la nuova legge. Di fatto, l’era politica del degasperismo si era conclusa.

9. I primi anni dopo De Gasperie il Convegno de Il Mondo

Dopo le elezioni, nella DC esplosero forti dissensi che resero im-possibile ripetere l’alleanza elettorale e si giunse ad un monocolore democristiano affidato a De Gasperi. Però il monocolore fu battuto nel voto parlamentare a seguito dell’astensione di quelli che erano stati gli alleati alle elezioni. Poi, dopo convulse giornate agostane, non riuscendo la DC a trovare chiari equilibri neppure sul suo se-gretario Gonella, il Presidente Einaudi incaricò l’on.Pella che riuscì a varare un governo con democristiani meno propensi al clericalismo e con diverse personalità esterne più accette al mondo economico. La DC a settembre tornò a fare suo segretario De Gasperi, il quale però non riuscì a riportare in auge la propria politica. Il governo era visto con diffidenza dalla stessa DC (che lo aveva subito come un’im-posizione e lo etichettò come un governo amico) e Pella, che pure aveva tentato di smuovere le acque e di sollecitare l’azione operativa, prese atto della mancanza di condizioni e gettò la spugna i primi di gennaio 1954. Seguì in rapida successione un governo Fanfani sem-

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pre monocolore durato il tempo di essere battuto alle camere e poi a metà febbraio la DC accettò di tornare alla coalizione con PSDI e PLI con Presidente del Conisiglio Scelba. Risultò più duratura ma al fondo non poteva superare la montante confusione politica circa le contraddizioni che si andavano aggrovigliando sulle varie ipotesi so-stenute dai partiti alleati, anche nei confronti di quelli di opposizione di destra e di sinistra.

Col passare del tempo, cominciò a divenire evidente che De Ga-speri era un cattolico molto praticante, eppure non era mai stato un vero e proprio uomo del Vaticano. E che la sua linea politica di colla-borazione con i laici era stata progressivamente sovrastata dalle sep-pur caute tendenze clericali di fondo della maggioranza DC. La quale DC, percorsa da tensioni di vario genere, dei cattolici conservatori e di quelli che sognavano la palingenesi sociale, propendeva a rifugiarsi nel ruolo di unico difensore dei destini italiani, giustificando così l’af-fidare a propri uomini ogni incarico possibile ed anche il sopportare ogni comportamento, anche quelli più discutibili. Il principio, che ini-ziava a fare capolino, era la progressiva disattenzione alle regole della gestione civile ispirate ad una moralità laica. Non deve neppure essere trascurata la constatazione che non pochi di coloro che emersero dopo l’epoca degasperiana, erano maturati in epoca fascista e ne erano rima-sti impregnati. Sia sui criteri di gestione della cosa pubblica sia sulla grande distanza dalla mentalità di separazione tra stato e religioni.

Da parte del mondo democristiano, pure dalle correnti in fama di apertura al nuovo, venivano risposte abilmente elusive, ammiccanti ed in sostanza autoreferenziali. Il Presidente della Camera Gronchi scris-se che era necessario “affrontare il problema di una scelta politica, dopo che la politica centrista, cioè di equilibrio, si va dimostrando superata dai fatti e dalle esigenze che nascono. Spetta alla Dc, in conseguenza anche della sua posizione di partito – guida, di adeguare con maggiore solleci-tudine la propria azione alla esigenza di attrarre nuove forze nell’orbita della politica democratica dello Stato repubblicano”. E intanto la DC nel suo complesso favoriva la scissione tra i monarchici proprio nell’in-tento di disporre di alleati più duttili rispetto alle proprie esigenze di partito guida. Però al Congresso Nazionale di Napoli, all’inizio esta-te ’54, la DC chiuse formalmente alla destra ed elesse segretario l’on. Fanfani (De Gasperi già malato morirà un mese dopo), mentre in altri ambienti conservatori e contigui alle gerarchie (facenti sempre capo a Gedda) prendevano sempre più corpo riflessioni sull’opportunità di un secondo partito cattolico. In sostanza tutte manovre aventi come unico obiettivo la questione del potere.

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In mancanza di consistenti politiche attente al modo di essere laico, fu più agevole l’allargarsi della presenza del mondo cattolico su temi culturali e nelle materiali organizzazioni pubbliche. Non mi riferisco a quanto predicava Pio XII, il quale nell’ottica del separatismo, aveva ogni diritto di sostenere tesi non condivisibili dai separatisti sul piano dello Stato (ad esempio che “nessuna autorità umana, nessuno Stato, nessuna comunità di Stati, qualunque sia il loro carattere religioso, posso-no dare un mandato positivo di fare ciò che sarebbe contrario alla verità religiosa o al bene morale… Ciò che non risponde alla verità e alla nor-ma morale non ha oggettivamente alcun diritto né all’esistenza né alla propaganda né all’azione”). Mi riferisco all’impostazione che i nuovi dirigenti intesero dare al servizio pubblico RAI-TV che aveva iniziato le trasmissioni in quel gennaio 1954. Le norme di autodisciplina che vennero emanate erano un oggettivo concentrato di bigottismo con-servatore anche tenendo conto dell’epoca. “Dovranno essere escluse le opere di qualsiasi genere che portino discredito o insidia all’istituto della famiglia, risultino truci o ripugnanti, irridano alla legge, siano contrarie al sentimento nazionale… Quanto alla famiglia, deve aversi particolare riguardo per la santità del vincolo matrimoniale e per il rispetto delle istituzioni, e pertanto: il divorzio può essere rappresentato solo quando la trama lo renda indispensabile e l’azione si svolga ove questo sia permesso dalle leggi; le vicende che derivano dall’adulterio e con esso si intrecciano non devono indurre in antipatia il vincolo matrimoniale; attenta cura deve essere posta nella rappresentazione dei fatti o episodi in cui appaiono figli illegittimi”. E questo da parte di un servizio che, come scrisse su-bito un importante giornalista (che anni dopo sarà deputato del PLI), Luigi Barzini jr, avrebbe avuto una enorme possibilità di fare del bene e del male e avrebbe messo la vita del paese praticamente nelle mani di pochi uomini.

Mi riferisco inoltre al tipo di propaganda politica e di clima infor-mativo che aleggiavano. A proposito della prima, Togliatti promosse un appello ai cattolici (distribuendone quasi un milione di copie) per-ché avversassero insieme ai comunisti il proliferare delle armi nucleari. Iniziativa del tutto legittima ma il Corriere della Sera, in un articolo dello storico Spadolini, avanzò una giusta critica: “la campagna contro la bomba H non è che l’ultimo strumento per creare perplessità e stan-chezza nelle vaste zone cattoliche, che si richiamano al pacifismo istintivo, perenne, connaturato allo stesso messaggio evangelico”. Nulla a che vede-re con una mentalità attenta ai meccanismi reali della quotidianità del-la convivenza. E quanto al clima informativo, Il Mondo scrisse efficace-mente “la moda del giornalismo libellistico, lanciata dalla stampa clande-

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stina del neofascismo (basti ricordare le campagne contro Parri, Badoglio, Maugeri, Pacciardi, tutte basate su falsi documenti, false testimonianze, false ricostruzioni storiche) si è estesa ai settimanali dei benpensanti e da questa è passata ai quotidiani… Il cerchio dei giornali che si mantengo-no fedeli all’onestà dell’informazione e all’indipendenza di giudizio, e non si vergognano ancora di dichiararsi antifascisti, democratici, liberali, tende sempre più a restringersi… La stampa sta diventando monopolio dei qualunquisti, clericali, monarchici, neofascisti e, ciò che non guasta, maccartisti”. Detto fatto. Bastò che l’Osservatore Romano criticasse la decisione di accettare alla Mostra del Cinema a Venezia un film sulla figura di Martin Lutero, per non far arrivare mai il film alla proiezione.

Del resto, come avrebbe fatto osservare il professor Lariccia, un esperto di questioni di laicità, in quegli anni vi fu la manifesta ten-denza a svalutare i principi costituzionali, ad interpretare in senso re-strittivo le garanzie ivi contemplate specie riguardo al fenomeno reli-gioso. Soprattutto nell’atteggiamento dell’alta burocrazia pubblica. In quell’anno 1954 ci furono addirittura delle sentenze che dimostravano come certi magistrati giudicassero non facendo troppa attenzione ai principi dello Stato. La Corte d’Appello di Cagliari sentenziò che non commetteva reato il sacerdote che faccia propaganda elettorale contro i partiti marxisti “perché la battaglia politica si traduce in termini di cro-ciata religiosa”, mentre commette reato il sacerdote che fa propaganda contro il partito monarchico “le cui ideologie non sono contrarie al di-ritto divino positivo e naturale e non tendono a combattere la Chiesa e a negarle i diritti riconosciuti dai Patti Lateranensi”.

La mancanza di separatismo veniva messa in disparte, al di là delle dichiarazioni formali, pure dal comportamento dell’opposizione. In-vece di cercare di migliorare i rapporti con i partiti laici, l’opposizione compiva atti politici tesi a favorire il mondo dei democratici cristiani, nella convinzione che la cosa più importante per un mutamento di maggioranze fosse riuscire ad entrare nelle loro grazie. In questa ot-tica, è emblematica l’elezione l’anno dopo, ad aprile 1955, di Giovan-ni Gronchi a Presidente della Repubblica. Gronchi, seguace di don Murri, prima del fascismo fondatore del Partito Popolare, capo della Confederazione dei Lavoratori cristiani, poi tra i popolari del primo governo Mussolini, e nel post fascismo, più volte Ministro nei governi Bonomi, Parri e De Gasperi, quindi Presidente del gruppo parlamen-tare DC all’Assemblea Costituente, aveva avuto dei dissapori politici con lo stesso De Gasperi (sulla prospettiva del Patto Atlantico) e all’in-domani delle elezioni del 1948 era stato come confinato Presidente della Camera, ove era restato fino allora.

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Indro Montanelli, in una famosa intervista sul Corriere della Sera all’indomani della elezione, raccontò con accenti coloriti che Gronchi aveva teso le sue reti e diceva di essersi limitato a raccattare i voti che vi erano andati a finirci dentro. Perchè inizialmente la DC pensava di ripetere l’esperienza di sette anni prima ed eleggere un laico (in questo caso il laicheggiante sen. Merzagora) ma il PCI si opponeva preferen-do delle candidature apertamente democristiane e così si fece strada quest’idea di un democristiano. Allora, tra i DC, Gronchi riuscì a dar l’impressione di incarnare una prospettiva di politica unitaria nel pae-se al di là dei precisi confini delle scelte ufficiali, centrismo all’interno e atlantismo nella politica internazionale. Partito da 30 voti aumentati nelle due votazioni successsive, prima a 127 e dopo a 281, alla fine riuscì ad ottenere al 4° scrutinio tanti voti (658) che né le sinistre né la destra risultavano ciascuna da sola decisive. Così, per la prima volta, la DC aveva conquistato le due più alte cariche dello Stato. E cresceva il dilagare nelle istituzioni del mondo cattolico.

Nei mesi successivi vi fu un passo importante nell’opera di costru-zione delle Istituzioni repubblicane (opera faticosa proprio per la spac-catura politica del paese che favoriva le posizioni più strumentali) e il 21 gennaio 1956 s’insediò finalmente la Corte Costituzionale (che alla Costituente non era stata voluta dal PCI e negli anni successivi dal mondo dell’alta burocrazia). La quale nemmeno cinque mesi dopo emise la sua prima sentenza iniziando la sua opera per allineare la le-gislazione ai principi costituzionali. Sentenziò la propria competenza a giudicare sulle controversie riguardanti la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge anche se anteriori all’entrata in vigore della Costituzione (respingendo l’incredibile posizione con-traria dell’Avvocatura dello Stato, e dunque del Presidente del Consi-glio, Antonio Segni, DC).

Ed inoltre sentenziò che era incostituzionale quasi tutto un articolo del Testo Unico delle Leggi di pubblica sicurezza sulle affissioni perché violava l’articolo 21 della Costituzione, anche se questo non esclude la possibilità di dare regole per l’esercizio del diritto alla libertà di stam-pa ivi riconosciuto. Già questa abrogazione suscitò forti perplessità nel mondo cattolico che riteneva necessario che non si diffondesse il costu-me di pubblicazioni e spettacoli contrari al sentire della coscienza cat-tolica. Che andavano dalle tesi sulla fecondazione artificiale (che, disse il Papa, “oltrepassa i limiti del diritto che gli sposi hanno acquistato con il contratto matrimoniale”), alla violazione del comune senso del pudo-re, tutte questioni che dovevano mobilitare i cattolici nella difesa della dottrina cristiana, anche appellandosi alle disposizioni del Concordato.

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Le tensioni di questo tipo restavano sotto la superficie del dibattito politico, la cui attenzione si concentrava sul tema principe della divi-sione del mondo in blocchi e, in quei mesi, marzo 1956, dall’inizio a Mosca del processo alla figura di Stalin, nel XX Congresso del partito Comunista Sovietico. Un processo al culto della personalità, dal quale emersero notizie frammento a frammento e che metteva in discussione le granitiche certezze del mondo comunista, ovunque e in particolare in Italia. Togliatti definiva una manovra abbastanza sguaiata l’esten-dere la critica di Stalin ai successi storici e alle prospettive del comu-nismo. E continuò in questa impostazione fideista anche quando, a fine giugno 1956, scoppiò la rivolta operaia a Poznan in Polonia, con un centinaio di morti, a causa delle pessime condizioni economiche e della presenza delle truppe russe (l’Unità definì i rivoltosi spregevoli provocatori, giovani pregiudicati con una vita di espedienti). E poi, a fine ottobre 1956, quando a catena scoppiò la rivolta a Budapest in Ungheria, innescata da un’assemblea studentesca che richiedeva il via alle truppe sovietiche, l’abbattimento della statua di Stalin e un gover-no pluralistico e che fu seguita da una dura repressione con diverse centinaia di morti (l’Unità definì la rivolta d’Ungheria un putsch con-trorivoluzionario). Questi avvenimenti drammatici provocarono un duro dibattito all’interno del PCI e diverse uscite dal partito, fino ad esponenti del vertice parlamentare, senza peraltro far deviare il grup-po dirigente dalla sua impostazione politica, strategica e tattica.

Il gruppo dirigente aveva compreso con freddo cinismo che il ba-cino elettorale del PCI derivava dall’aspirazione di una certa fascia di cittadini a raggiungere un diverso assetto di potere e che questa aspi-razione travolgeva ogni valutazione critica e consapevole sui concreti progetti alternativi proposti. Venivano accettati a prescindere dal loro fondamento. Luigi Barzini jr., scrisse sul Corriere della Sera che il PCI non poteva fare né la rivoluzione che gli era vietata da Mosca né il rifor-mismo che gli era impossibile per formazione culturale. Perciò ne pre-vedeva una lenta decadenza. L’analisi era ineccepibile, le conclusioni si dimostrarono errate nei fatti. Perché l’aspirazione al nuovo e la stessa logica bipolare nel campo dei principi, spingevano la gente a sottova-lutare il problema del come costruire questo nuovo e la convivenza più libera dei cittadini. Il benessere che circolava nel paese, non era visto da vasti settori dell’opinione pubblica come riprova della affidabilità del sistema istituzionale e delle politiche di governo effettuate. Veniva visto come manifestazione dell’obbligo perenne delle classi al potere ad assicurare pane e divertimenti. Per cui, al PCI bastava mantenere incalzante la speranza del nuovo ed alimentarla con l’allora reclamiz-

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zati successi russi nello spazio (molto effimeri come dimostreranno gli avvenimenti) per mettersi al sicuro dalla decadenza elettorale.

Sul versante non comunista, sia i partiti laici della maggioranza che l’opposizione socialista trascuravano l’importanza del tema separazio-ne, oscillando tra l’ignorare le problematiche dei rapporti con la ge-rarchia e il farvi riferimento, quando capitava, in termini anticlericali. La battaglia politica verteva su tematiche più legate all’ideologia, alle questioni economiche e poi al problema socialista. Nell’agosto 1956 ci fu infatti a Pralognan nell’Alta Savoia un incontro tra Nenni e Saragat che mise in moto il processo di riavvicinamento tra il PSI e il PSDI. Si vide subito che il riavvicinamento ruotava sul problema di rompere il patto di unità di azione dello stesso PSI con il PCI. E questa operazio-ne – che si sarebbe poi sviluppata nei tempi lunghi, anche se con molta determinazione – verteva su questioni di schieramento e su questioni socio economiche ma non sulla questione dei rapporti Stato Chiesa. In questo modo, diveniva sempre più bassa l’attenzione al tema e alle sue implicazioni culturali e comportamentali. Per il mondo cattolico (la stessa Radio Vaticana qualificava la DC come l’organizzazione politica dei cattolici) era sempre più agevole intrufolarsi negli organi di governo e dello Stato senza avere ostacoli. Oltretutto godendo il frutto dell’im-pegno della gerarchia, che si batteva molto nel sostenere la presenza nel paese della dottrina cattolica per riparare la frattura, dicevano, fra la vita e la fede cristiana (perciò, ad esempio, il Vescovo di Prato, per scritto e dai pulpiti, definì “pubblici concubini” due giovani rei di es-sersi sposati solo in Comune, additandoli alla pubblica riprovazione in quanto cittadini) e per non cedere al pericolo comunista costantemen-te e lucidamente condannato dai vertici della Chiesa (come scrissero in quei mesi nelle rispettive lettere pastorali a Venezia e a Milano, due importanti personaggi destinati negli anni successivi a divenire Papa uno dopo l’altro, Angelo Roncalli e Giovanbattista Montini).

Per parte sua, la gerarchia non trascurava di trattare la questione dei rapporti tra il senso religioso e la laicità. A marzo 1957, l’arcive-scovo di Milano Giovanbattista Montini diffuse la Lettera pastorale all’arcidiocesi ambrosiana per la Quaresima (che poi fu lo spunto per la successiva riflessione, a dicembre, del fondatore di Gioventù Studente-sca, che diverrà anni dopo Comunione e Liberazione, don Giussani). La pastorale partiva dalla constatazione che “l’uomo moderno va per-dendo il senso religioso” ed aveva l’obiettivo di ricuperare “questo pri-mo gradino della vita religiosa e morale che reputiamo soggettivamente fondamentale”. Al cuore del ragionamento sviluppato in modo chiaro e non approssimativo, si trattavano “i principali doveri per la fioritura

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vitale del senso religioso”, nella prospettiva imprescindibile della neces-sità “di rieducare la mentalità moderna a pensare a Dio” dato che “oc-corre una religione vera per difendere il senso religioso dal troppo facile pericolo di sbandamento… Il senso religioso spontaneo non è un criterio di verità; è un bisogno di verità”. Un dovere essenziale era esser ben consapevoli delle due forme precipue di attacco al senso religioso da parte delle tendenze contemporanee, il laicismo e l’ateismo. Sul lai-cismo si ragionava osservando che secondo il suo indirizzo “la sfera della vita pubblica dovrebbe essere immune da ogni influsso religioso e morale derivato dal cattolicesimo. Donde lo zelo anticonfessionale e anti-religioso in tanti uomini della vita pubbiica, nei quali i principi liberali si sono trasformati in un’intransigenza sospettosa e dogmatica. Una paura li muove, quella del cosiddetto clericalismo, cioè del prevalere abusivo dei motivi religiosi e dell’organizzazione ecclesiastica nel campo vastissimo della competenza statale e della materia profana… Paura, poi, che non sembra punto giustificata, sia per il fermo rispetto che la Chiesa pone ai limiti della propria sfera d’azione, sia per i criteri di civile libertà da cui è ora informata la vita pubblica italiana”. E poi si facevano brevi consi-derazioni sull’ateismo “insensibile a ogni forma di pensiero che non sia quella di un preconcetto e chiuso positivismo” sottoposto a “smentite teoriche e pratiche alle affermazioni da cui era partito: la recente tragedia ungherese insegni”.

Ora sembra evidente che, a parte i problemi concettuali più di fon-do che riprenderò nella seconda parte, queste considerazioni “sull’in-transigenza sospettosa e dogmatica” di intendere i principi liberali erano per un cattolico un modo un pò consolatorio per chiudere gli occhi di fronte alla realtà del proprio mondo. La paura del cosiddetto cleri-calismo non era una fisima. Attraverso la DC, la presenza nei gangli delle istituzioni era enormemente più ampia di quanto fosse dieci anni prima ed era cresciuta assai di più di quanto fosse la consistenza dei suffragi elettorali riportati. E siccome nello stesso periodo si era in-staurata la collaborazione con i laici, diveniva oggettivo che l’originaria aspirazione all’equilibrio degasperiano si era trasformata in una ten-denza ad utilizzare un rapporto a carattere politico liberale in una oc-casione per puntare all’egemonia confessionale. Un’attitudine che non apparteneva solo alle pratiche DC e che curiosamente corrispondeva ai comportamenti diffusi in tutto il mondo cattolico fin nelle strutture gerarchiche.

Era comprovato che non di rado si usavano metodi molto privatisti-ci, anche se non illegali, per aggirare i controlli pubblici e per mimetiz-zare diverse consistenze patrimoniali riconducibili al mondo cattolico.

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Un cattolico come Jemolo riconosceva in Chiesa e Stato che in diversi casi gli enti della Chiesa, a cominciare dalle Parrocchie, tendevano “a ricorrere largamente a degli espedienti per non sottoporre i nuovi acquisti all’autorizzazione statale, preferendo possedere in forme fiduciarie. Ciò sia per la preoccupazione di nuove leggi eversive, sia per ragioni fiscali e per l’interesse di apparire più poveri che in realtà non fossero, onde ottenere ai loro titolari i supplementi garantiti dal fondo per il culto, sia per non dover sottostare al controllo degli organi statali nell’amministra-zione dei loro beni”. E non solo. Il libro riferiva anche che erano state realizzate importanti opere di rilevante valore sociale per minorenni minorati con contributo pubblico ma che poi, cedendo a pulsioni con-fessionali, era stato inserito nello statuto che all’esaurimento del com-pito le stesse opere sarebbero state assegnate al patrimonio della Santa Sede. Dunque i liberali, anche se avessero avuto il difetto di inclinare all’intransigenza sospettosa e dogmatica, trovavano nella realtà motivi concreti di preoccupazione per praticarlo.

Nonostante queste difficoltà, la logica di puntare ad istituzioni più attente alla coerenza costituzionale e ai bisogni reali dei cittadini, in quelle settimane faceva passi avanti importanti. Sul piano interno, la Corte Costituzionale operava in concreto per riportare una serie di norme nell’alveo della Costituzione. In quel mese di marzo pubblicò la sentenza 45/1957 con cui fu dichiarata l’illegittimità di una parte di un articolo del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza che dispone-va l’obbligo di preavviso per le funzioni religiose svolte in luoghi aperti al pubblico. Il che è naturale in regime di libertà di religione, ma non appariva così ovvio nello stato di fatto della mentalità delle strutture pubbliche. Sul piano della politica estera, iniziò il percorso politico più innovativo e più concreto di tutto il dopoguerra, la costruzione dell’Europa.

Di fatti attraverso l’azione determinata del Ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino – che già i primi di giugno del 1955 ave-va tenuto a Messina una conferenza interministeriale terminata con la Risoluzione di Messina in cui furono poste le basi per una stretta col-laborazione supernazionale in ambito quasi continentale – il 25 marzo 1957 venne sottoscritto a Roma il Trattato Istitutivo della Comunità Economica Europea. L’atto di nascita dell’ente progressivamente dive-nuto, secondo il metodo del passo a passo scelto dal suo promotore ita-liano, l’attuale Unione Europea. L’adesione iniziale fu di Belgio, Fran-cia, Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda. Anche su questo tema politico nuovo, che si dimostrerà decisivo negli anni successivi e fino ad oggi, non si può non rilevare come il PCI e il suo leader Togliatti,

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nonostante il dichiarato realismo, avessero una visione statica e non riuscissero a cogliere le prospettive del mondo futuro. La Direzione del PCI votò la contrarietà dei comunisti al Trattato Istitutivo proprio pochi giorni prima la firma. Quanto a Togliatti, parlò più volte aperta-mente contro in Parlamento, sostenendo la tesi (surreale alla luce degli eventi) “nel passato abbiamo sempre criticato la politica estera seguita dai governi che si sono succeduti dal 1947. Riconoscevamo, però, che una po-litica estera, anche se sbagliata, esisteva. Oggi, invece, la nostra opinione è che, in sostanza, non si può dire se esista una politica estera italiana. Non si riesce a capire quale essa sia”.

Per fortuna, lo stato di montante disattenzione per il problema del rapporto Stato Chiesa non sfuggì ai movimenti e ai partiti dell’area lai-ca. L’evento più significativo fu il VI Convegno degli Amici del Mondo (Teatro Eliseo di Roma, 6 e 7 aprile del 1957). Il Convegno si collocò nel solco degli appunti di Calamandrei scritti per l’occasione e letti po-stumi (“solo quando noi rimaniamo inerti e ci lasciamo sopraffare, solo allora la DC si mostra compatta e passa all’attacco. La nostra salvezza è nelle nostre mani”) e seguì in sostanza le considerazioni del messaggio che, pur di essere presente, aveva inviato l’anziano Gaetano Salvemi-ni. Reclamava l’abolizione del Concordato e tendeva a farla dipendere dall’anticlericalismo (secondo la sua propensione a trarre conclusioni deterministiche, come 48 anni prima relative a quel forte antigiolit-tismo di cui in vecchiaia si era pentito). Il Convegno sottolineò nel documento finale, presentato da Ernesto Rossi, l’impegno ad operare “per creare una nuova situazione che consenta l’abrogazione del Concor-dato e l’instaurazione di un sistema giuridico di netta separazione dello Stato dalla Chiesa”. Di fatto, al grande successo anche di pubblico del Convegno, non fece seguito il realizzarsi di un impegno coerente. Gio-carono contro le divisioni politiche complessive tra i laici, la calante conoscenza delle cose ecclesiastiche denunciata da Luigi Salvatorelli e l’abitudine a legare quell’impegno, oltre che alle idee liberali, a quelle diciamo così di un distorto mito risorgimentale, alimentando la confu-sione tra il separatismo e l’anticlericalismo (nella storia dell’ottocento liberale anche gli atti di sapore anticlericale sono stati funzionali al battere le pretese temporali, non ad un pregiudizio contro la Chiesa). Ciononostante la diagnosi del Convegno restava corretta.

Episodi esterni ne davano conferma. Ad esempio, il Vescovo di Prato fu querelato dai due giovani definiti “pubblici concubini” per ingiurie e danni procurati (la loro attività commerciale si dimezzò) e la questione sollevò enormi discussioni, che non vennero sopite neppu-re dalla condanna del Vescovo in primo grado (Tribunale di Firenze,

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marzo 1958). Il Vaticano minacciò di scomunicare i querelanti e i giu-dici fiorentini e vi furono proteste formali nelle chiese di mezza Italia. In questo modo divenne manifesta la propensione alla pratica inva-denza da parte della gerarchia nelle vicende italiane. Specie in materia di interessi economici degli ambienti ecclesiastici e a proposito della questione della sacralità di Roma (che serpeggiava sempre ed ebbe un picco anni dopo, nel 1965, quando, in nome della sacralità, venne vie-tata la rappresentazione integrale de il Vicario, un dramma teatrale di Hochhuth – un negazionista della Shoah, come si è saputo dopo – a sostegno della tesi che il Papa Pio XII non era intervenuto in favore degli ebrei tedeschi).

Peraltro, la corretta diagnosi del Convegno del Mondo (e cioè che le indebite ingerenze ambientali nella società italiana da parte della Chiesa ruspante, erano già troppe e andavano crescendo, anche per-ché, come aveva detto Salvemini, non vi era abbastanza coscienza sta-tale e non si teneva la schiena dritta) risultava meno incisiva perché si accompagnava ad una sostanziale disattenzione al dibattito che andava avvenendo all’interno del mondo cattolico. E in più era sottoposta alle ironie ed alle contrarietà sostanziali da parte dei cattolici e della sini-stra socialcomunista. Sulla rivista il Mulino, che pure si presentava a favore della collaborazione tra cattolici e laici, un gruppo di cattolici pubblicò un articolato intervento sul Convegno in cui, con toni assai pacati, lo criticava a fondo. Sosteneva le posizioni dei cattolici demo-cratici, molto rigide nel non affrontare il problema separazione. Par-tivano dall’affermare che il conflitto non era tra Stato e Chiesa ma tra credenti e non credenti, “perché il cristiano prima di essere cittadino è credente… e sa che fuori della Chiesa non c’è verità”. Criticavano i laici perché separavano libertà e tolleranza e sostenevano che la tolleranza doveva esser accettata pienamente senza illudersi che potesse porta-re ad una interpretazione uguale da parte cattolica e da quella laica. Sostenevano anche che il pericolo clericale esisteva nel senso di un ritardo culturale delle elites cattoliche “ma l’anticlericalismo non deve essere il privilegio del laico che in realtà vorrebbe estromettere dalla socie-tà italiana tutta la Chiesa e i valori morali di cui il cattolico e portatore e plasmare, lui, la società italiana secondo la sua fede religiosa”.

Questa volontà laica di non esser tollerante e di assorbire la Chiesa era assunta come certezza apodittica (trascurando la circostanza essen-ziale che l’esser laici non è una fede, è il metodo di accettare sul piano civile tutte le fedi senza farne prevalere qualcuna). Si sorvolava sullo spiegare da cosa poteva desumersi la fondatezza di una simile tesi (che equivocava oggettivamente sul significato di tolleranza liberale, che sul

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piano istituzionale non poteva disconoscere la tolleranza verso chi la pensa diversamente in materia religiosa privilegiando un credo). Però se ne derivava ugualmente la conseguenza secondo cui non si doveva processare la Chiesa come istituzione bensì lo Stato come luogo non abbastanza partecipato democraticamente. Sottolineando che il pro-cesso alla Chiesa avrebbe portato al fronte laico dai comunisti ai radi-cali, mentre il processo allo Stato alla collaborazione dei cattolici con i laici per una maggiore democratizzazione della politica nel rispetto dell’azione religiosa della Chiesa. In questo modo, come con un gioco di prestigio, veniva del tutto eluso il problema del rapporto tra Stato e religioni.

La laicità veniva legata al presupposto ideologico (non dimostra-bile e di sapore elettoralistico) che la separazione era la stessa cosa del fronte laico con i comunisti (dando per scontato che loro fossero separatisti), e la posizione istituzionale dello Stato improntata al se-paratismo veniva equiparata come dignità civile a quella immanente della Chiesa senza distinguere tra gli aspetti religiosi e quelli tempo-rali. Facendo così vedere di concepire il cattolicesimo democratico come una posizione autonoma, sì, ma autonoma solo nella difesa della Chiesa. Posizione giusta sul punto (la libertà di religione) sul quale la Chiesa dovrebbe essere difesa (se nella Repubblica italiana tale libertà fosse messa in forse, cosa che non è mai stata) ma del tutto ambigua sul negare che il problema del separatismo nei rapporti stato religioni sia essenziale per le istituzioni civili e non possa in alcun modo essere ignorato nel regolare la convivenza. Nella convivenza il cattolico de-mocratico non può agire essendo prima credente poi cittadino, bensì al contrario. Deve comportarsi come un cittadino consapevole innan-zitutto che molti altri cittadini non hanno minori diritti sol perché non hanno il suo credo (in altre parole, quando agisce pubblicamente deve accantonare la propensione della religione cattolica al proselitismo).

Poi c’erano le critiche al Convegno formulate dalla sinistra social-comunista. Durante il dibattito sulla fiducia al monocolore DC di Zoli (quello che segnò l’inizio dell’era post centrista nel giugno 1957 per la volontà del dissimulato integralismo del Segretario DC Fanfani), Togliatti fece un discorso per niente lungimirante che, oltre a defini-re l’Europa “un’avventura” e “uno strumento pericoloso” e a rilevare l’evidente “rafforzamento del comunismo e del socialismo”, manifestò, anche nella forte critica al Convegno degli Amici del Mondo, la sua incapacità di cogliere il senso degli eventi profondi: “la richiesta di an-nullamento dei Patti non è una soluzione, è un’avventura. La soluzione è la sua applicazione. Nel Concordato esplicite clausole impediscono a de-

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terminate organizzazioni religiose di svolgere la loro attività nell’ambito politico. Noi chiediamo un impegno del Governo in questo senso. Noi fac-ciamo carico ai partiti che hanno collaborato con la DC dal 1948 ad oggi di non essersi battuti su questo terreno”. Il Segretario del PLI Malagodi criticò apertamente queste idee osservando che il dire “il Convegno degli Amici del Mondo è di un anticlericalismo sorpassato e applichiamo il Concordato, vale fino al giorno felice in cui in uno Stato comunista non esisterà più la questione religiosa e, come dice Isaia, il leone giacerà con l’agnello… Riproporre per bocca dei comunisti la problematica dei rap-porti tra Stato e Chiesa può portare il paese a dividersi in due su una linea di frattura pro e contro la Chiesa, in un conflitto nel quale andrebbero perduti i valori più preziosi della libertà anche in campo religioso…”.

In realtà la convinzione di fondo del PCI era che anche il mondo cattolico avrebbe finito per riconoscere la superiorità della società so-cialista in senso marxista, e quindi la sua ineluttabilità. Per il PCI, si trattava quindi di far maturare anche all’interno del mondo cattolico le condizioni per tale riconoscimento, stabilendo un dialogo con i cre-denti che non condividevano gli autoritarismi legati ai dogmi religiosi, un dialogo che non ne contestasse la spiritualità e non toccasse la lo-gica dei rapporti Concordatari. Oltretutto una simile strada sembrava presentare due vantaggi dal punto di vista del PCI. Allontanare la tesi (estranea al marxismo) della libertà del cittadino e del senso dello Sta-to di diritto quale strumento per risolvere con i mutamenti delle leggi i problemi dei rapporti sociali. E al tempo stesso agevolare la compren-sione da parte delle masse dei credenti che l’emancipazione passava per il rifiuto dell’idea di libertà individuale del capitalismo borghese. Da ciò derivava anche il rigetto della proposta politica di alternativa delle sinistre al partito DC quale partito di molti cattolici, in quanto un’alternativa ai cattolici come tali non avrebbe chiuso la partita sul piano religioso, al contrario l’avrebbe resa più ostica, facendola appa-rire anticlericale.

Complessivamente, pur con motivazioni perfino contrapposte, il tema dei rapporti Stato Chiesa rimaneva sul fondo del dibattito politi-co. Sul palcoscenico, oltre le quotidiane problematiche della gestione di governo, stava la questione socialista. Nel PSI l’interrogativo era: “rotta l’unità di azione con il PCI, dobbiamo avvicinarci alla maggio-ranza”? Nell’area degli altri partiti ex centristi, invece era: “a quali condizioni avvicinare il PSI per farlo entrare nell’area della maggio-ranza”? Una questione molto controversa, soprattutto perché tutti la affrontavano privilegiando il mantenere immutata la propria identità tradizionale. La DC quella del grande partito espressione dell’Italia

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cattolica e moderata e diga solida al comunismo. Il PSI quella del par-tito radicato tra i lavoratori e nel sociale prima di tutto, e poi distinto dal PCI per la politica estera e la non democrazia del comunismo so-vietico. Il PSDI quella di nato sull’autonomia del socialismo dal PCI e che puntava alla riunificazione quale prova del suo aver visto giusto. Il PRI quella di chi aveva forti radici di tipo azionista e che riteneva auspicabile l’arrivo dei socialisti per realizzare un’azione politico più programmata. Il PLI quella di chi manteneva le sue radici critican-do il sistema di pensare di allargare al PSI senza richiedere adeguata coerenza sulla politica interna, a cominciare da quella economica che non doveva essere pianificatrice. E questo perché, come continuava a insistere Malagodi, libertà politiche e libertà economiche non sono separabili. Farlo equivale a porre le premesse per l’iniziativa statale e, oltre un certo punto critico, porre limiti alla libertà economica si trasforma nel negarla.

Soprattutto, l’importante questione socialista era bloccata dalle grandi difficoltà politiche interne al PSI, riconducibili ad una cultura vetero-ideologica dell’area. Con il cuore Nenni sarebbe stato presumi-bilmente disponibile ad una autonomia più decisa, però al Congresso di Venezia del febbraio 1957 egli aveva prevalso sulla prospettiva poli-tica ma perso nell’elezione dei Consiglieri Nazionali che avrebbero do-vuto attuarla. Così i suoi comportamenti si barcamenavano su una li-nea oscillante, con parole d’ordine doverose per il popolo della sinistra (attacchi alla DC clericale e ai socialdemocratici arrendevoli, speran-zosa fiducia nei cambiamenti di Kruscev) e insieme giudizi fermi sulle fallite prospettive dal XX Congresso peraltro espresse anche dai cen-tristi. In questa situazione, la questione socialista veniva utilizzata in sottofondo dal segretario DC, l’on. Fanfani. La sua linea – storicamen-te molto diversa da quella degasperiana anche se più volte lui era stato importante ministro in quei governi – non era filosocialista e puntava con determinazione a rafforzare il ruolo DC, in termini organizzativi ed egemonici, in un’ottica di promesse di palingenesi civile fondata sulla Chiesa, sul mondo produttivo e su una società tradizionale. Però con abilità, sfruttando il clima sfavorevole al capitalismo nonostante il galoppante miracolo economico ed inoltre le necessità d’immagine dei socialisti, Fanfani e la DC (sotto il benevole sguardo del Presidente Gronchi) riuscirono a scaricare da sé stessi, attribuendolo ai liberali, il fantasma della conservazione, mettendo in secondo piano tre fattori oggettivi, oltre quello che la cultura liberale non può essere di destra.

Che intanto il PLI non aveva le necessarie dimensioni di un vero partito conservatore, che le pratiche di governo conservatore e i con-

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tatti sottobanco con i conservatori li aveva notoriamente proprio la DC (sia, più stretti, con il Partito Monarchico Popolare di Lauro sia con il missino Michelini), che il PLI aveva rifiutato decisamente (e continuerà a farlo anche negli anni seguenti) le grandi pressioni per confluire in una grande destra con il Partito Nazionale Monarchico restato a Covelli e il MSI. Questa fermissima scelta dei liberali di non confondersi con la destra fu politicamente decisiva per evitare al paese le condizioni per ipotesi avventurose (che anche allora giravano nel mondo), eppure non ebbe gli opportuni riconoscimenti, a cominciare e soprattutto da parte DC. Alla DC premeva che le forze laiche fossero e restassero divise, così da poterne meglio sfuggire i motivi ispiratori. Basti pensare agli annosi ritardi con cui, giocando sulle divisioni al-trui, il mondo democristiano aveva procrastinato e continuava a pro-crastinare istituti previsti dalla Costituzione ed anche a non imporre le revisioni dei codici di epoca fascista oppure a tollerare una molto vischiosa applicazione dei principi di una società aperta.

Da parte sua, la Chiesa, molto compatta sulla lotta al marxismo seppure con avvertibili distinzioni interne sul come condurla, tende-va a muoversi insistendo sui valori della vita cristiana, e dunque sul-la difesa del comune senso del pudore, sull’irrobustire i diritti delle scuole private cattoliche, sul riconoscere nella Chiesa il naturale luo-go di incontro per rinsaldare la compattezza morale e spirituale dei cittadini. Ne conseguiva il fermo sostegno al Vescovo di Prato nelle sue altalenanti vicende processuali (nelle quali peraltro fu aggiustato il tiro, mettendo in risalto che il Vescovo aveva inteso fare un atto di governo spirituale dei fedeli e non di governo civile dei cittadini) e poi l’intransigente difesa della propria immagine e delle proprie struttu-re, quando Roger Peyrefitte le attaccò con un libro (Le chiavi di San Pietro). In questo quadro diveniva atto naturale che si minacciasse di scomunica chi aveva tratto in giudizio il Vescovo di Prato non rico-noscendo la giurisdizione ecclesiastica (anche se i giudici dicevano di essere competenti in presenza di atti della Chiesa penalmente rilevanti in quanto compiuti dolosamente con la volontà di ledere). Più in ge-nerale il potentissimo cardinale Siri sosteneva apertamente che non si poteva inibire alla Chiesa di sostenere il matrimonio cristiano con tutti i mezzi possibili nel campo spirituale, anche perché l’articolo 7 della Costituzione aveva accolto nella Costituzione la norma concordataria, per cui “le leggi ordinarie dello Stato vanno sempre interpretate secondo lo spirito delle norme concordatarie, e non viceversa”. Un ragionamento che costituisce una evidente riprova che si parla di missione spirituale ma poi invece di libertà di religione si intende privilegio di religione.

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In tale logica, era quindi comprensibile che le gerarchie sul territorio ritenessero opportuna la presenza di un partito di ispirazione cattolica e lo sostenessero privilegiando il programma economico e sociale de-mocristiano sugli altri, a partire da quello liberale, che veniva definito rappresentare solo interessi economici particolari. Invitando inoltre a non disperdere i voti.

Alla fine la linea fanfaniana ottenne un buon successo alle elezioni di fine maggio 1958 (dal 40,1% del 1953 al 42,2%, da 263 a 273 seggi alla Camera). Crebbero anche il PSI (dal 12,7 al 14,2%, da 75 a 84 deputati), il PLI (da 3,01% al 3,5%, da 13 a 17 seggi) e il PSDI (da 4,5 a 4,6, da 19 a 22 seggi). Il PCI restò stabile perdendo 3 deputati (da 143 a 140), il PRI che era insieme ai neonati radicali ebbe una lieve flessione (da 1,62% a 1,4% ma passando da 5 a 6 deputati), arretrò il MSI (dal 5,84% al 4,87%, da 29 a 24 seggi) ed anche complessivamente i due movimenti monarchici. Di fatto si era consolidata l’egemonia DC nella pratica e come teoria. Ed anche nell’allontanare la gestione del princi-pio separatista dall’agenda politica.

10. Verso l’approdo al centro sinistra,imperniato sulla divisione dei laici

All’indomani delle elezioni ’58, venne votato con maggioran-za molto risicata il nuovo governo, un bicolore DC-PSDI presieduto da Fanfani che lo definì per la prima volta governo di centrosinistra. Nell’esporre al Senato il programma, Fanfani dichiarò che erano due i cardini della politica interna, la difesa della sicurezza dello Stato e la difesa della “autonomia dello Stato: certi, difendendola, di non trasgre-dire i doveri nascenti dalle nostre comuni credenze, di adempiere i nostri doveri civici, di rinsaldare la compagine nazionale, di garantire una pace religiosa… I patti che l’acquisirono saranno rispettati da noi. La saggezza di cui, specie nei momenti più difficili, hanno dato prova i reggitori della Chiesa cattolica, ci dà la certezza che quei patti continueranno ad essere rispettati anche dalla parte che con l’Italia li concluse… Nostro dovere di governanti della Repubblica vigilare affinché in materia non si manifesti da nessuna parte alcuna trasgressione”. La parola utilizzata – autonomia dello Stato – non lascia adito a dubbi. Stando al vocabolario significa governarsi da sé. Ma in Italia, rispetto alla Chiesa, il problema po-litico non era questo, per il fatto stesso che non si era più all’epoca del temporalismo. Il problema politico era come lo Stato intendesse governare i rapporti con la Chiesa sul piano interno. Usando questa

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parola, il Presidente del Consiglio stava tra l’ignorare questo proble-ma e l’eluderlo, ribadendo la scelta concordataria. Non per caso. Non tanto per ascendenze culturali, pur da non trascurare dato che undici anni prima, alla Costituente, Fanfani era stato uno dei professorini dossettiani. Principalmente perché Fanfani riteneva dichiaratamente decisiva la prospettiva del come trattare la questione socialista. La cosa per lui essenziale l’aveva affermata con l’impegno a difendere la sicu-rezza dello Stato contro il comunismo (per soddisfare i filoatlantici e per far intendere al PSI cosa doveva garantire). Per il resto, Fanfani riteneva decisivo poter guidare il fulcro della linea politica con molta determinazione, cosicché non si contentò di esser divenuto Presidente del Consiglio, e neppure di aver tenuto ad interim il Ministero degli Esteri, ma conservò in contemporanea anche la carica di Segretario DC.

In ogni caso la questione dei rapporti da tenere con la Chiesa nel paese rispuntava sempre fuori poiché era nelle cose. Un mese dopo, il governo fu conseguente (come al solito mantenendosi alla larga dal-la questione separatista) nel trattare la pretesa di numerosi titolari di parrocchie e diocesi che non volevano celebrare le funzioni religiose in manifestazioni ufficiali con la presenza di giunte comunali a cen-tralità del PCI. Il Ministero dell’Interno intervenne con una sua cir-colare facendo presente (giustamente) che siccome la partecipazione dei rappresentanti eletti era un obbligo, l’alternativa poteva essere solo “escludere ogni eventuale funzione religiosa in occasione di cerimonie di carattere ufficiale promosse dall’amministrazione comunale”. Una posi-zione del genere poteva andar bene come un consiglio ai presuli a non esagerare. Ma era indebita in una logica di libertà di religione. In una logica siffatta l’amministrazione locale avrebbe dovuto caso mai invi-tare ogni rappresentanza religiosa sul territorio a tenere le rispettive funzioni, lasciando ai singoli religiosi accettare o meno. Siccome però applicare la libertà di religione con coerenza pareva un’audacia incon-cepibile, si preferiva rinunciarci e spingersi a consigliare una linea di conformismo concordatario che evitasse atti davvero inammissibili in una società non confessionale.

Una parte del tessuto civile dell’area cattolica era però in condi-zioni precarie. Due settimane dopo scoppiò un altro bubbone con la denuncia da parte del ministro delle Finanze, Preti del PSDI, del caso Giuffré, un ex uomo di banca romagnolo soprannominato poi il ban-chiere di Dio, lasciato operare dal precedente Ministro (Andreotti), che era immerso in operazioni di raccolta fondi ad interessi altissimi (e di fatti alla lunga non rimborsati) coinvolgendo svariati istituti re-

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ligiosi che parevano i destinatari dei benefici finali. Su questo affare Malagodi propose un’inchiesta parlamentare, distinta dalle indagini della magistratura, perché aveva colto che esistevano comunque del-le falle nella capacità dell’amministrazione di fare controlli ad ogni livello (da qui venne la Commissione parlamentare d’inchiesta, pre-sieduta dal senatore a vita Paratore, per esaminare il comportamento degli organi della Pubblica Amministrazione in ordine alla cosiddetta “Anonima Banchieri”, e, in sintesi, venne fuori che gli organi tributari non avevano approfondito i primi sintomi a seguito dell’intervento di un influente padre cappuccino).

In questo clima turbolento sull’interfaccia società-organizzazioni cattoliche vaticane, si inserì i primi di ottobre 1958 la rapida scomparsa di Pio XII dopo diciannove anni di pontificato. Due settimane e venne eletto successore il cardinale Angelo Roncalli, che assunse il nome di Giovanni XXIII. Presentato come papa di transizione a causa della sua età avanzata, si rivelerà rapidamente un pontefice capace di inizia-tive che hanno scosso la Chiesa. A cominciare dall’annuncio, appena due mesi dopo l’elezione, della celebrazione del Concilio Ecumenico per la Chiesa Universale, poco meno di un secolo dopo quello di Pio IX. Nel frattempo, nel mondo DC andava crescendo l’insofferenza per il protagonismo accentratore del Presidente del Consiglio. Ebbe riflessi nazionali lo scontro siciliano provocato dalla rottura nella DC contro un proconsole fanfaniano designato Presidente della Regione Sicilia. Venne bloccato dalla ribellione della maggioranza regionale del partito che elesse invece l’on. Milazzo facendo convergere in modo determinante i voti delle opposizioni, PCI e MSI. Il che inasprì molto il dibattito politico nazionale e i rapporti interni alla DC.

Intanto, la Corte Costituzionale continuava nella sua opera di ade-guamento delle leggi alla Costituzione. Con la sentenza 59/1958 a Cor-te Costituzionale sancì l’incostituzionalità degli articoli 1 e 2 del Regio Decreto 289/1930 sui culti acattolici.

Il ragionamento per arrivare a questa conclusione partì dall’affer-mare che l’articolo 3 della legge sui culti ammessi, la 1159/1929, era co-stituzionale in quanto “l’obbligo di notificare le nomine dei ministri dei culti acattolici al Ministro competente per l’approvazione è da ritenersi sancito se e in quanto da tali nomine la confessione religiosa miri a far di-pendere determinati effetti nell’ambito dell’ordinamento giuridico stata-le; e la disposizione del secondo comma, in base alla quale nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti dei ministri di culto non approvati, vale a determinare in tal senso il contenuto e lo spirito del primo comma. Sicché l’articolo 3 della legge mentre da una parte lascia impregiudicata la

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libera esplicazione del culto (in quanto non esclude la figura del ministro del culto non approvato, ma esclude soltanto gli effetti civili degli atti da lui compiuti), viene a trovarsi in logica correlazione con l’articolo 8, nella parte in cui si riferisce alla disciplina giuridica dei rapporti fra lo Stato e le confessioni acattoliche”. Viceversa l’articolo 1 del R. D. 28 febbraio 1930 è da considerare che, statuendo esso l’obbligo della autorizzazione per l’apertura di templi ed oratori in modo generale, involge non soltanto i casi in cui questa autorizzazione sia resa necessaria per il conseguimento di certi vantaggi,… ma anche quello relativo all’apertura del tempio in quanto mezzo per una autonoma professione della fede religiosa, al di fuori dei rapporti con lo Stato”. Di conseguenza dichiarò questa parte incostituzionale mentre l’articolo 2 lo era totalmente, “posto che esso sottopone l’esercizio della facoltà di tenere cerimonie religiose e compiere altri atti di culto negli edifici aperti al culto alla condizione che la riunione sia presieduta o autorizzata da un ministro di culto la cui nomina sia stata approvata dal Ministro competente, condizione che non riguarda gli effet-ti civili ed è in contrasto con la libertà ampiamente garantita dall’articolo 19 della Costituzione”.

Questa sentenza fu importante per stabilire esplicitamente che l’esercizio di una qualsiasi religione non è soggetto ad alcuna autoriz-zazione. E dunque gli effetti delle Intese hanno un ruolo del tutto di-verso dall’esercizio spirituale anche pubblico, che è libero. Comunque diveniva sempre più chiaro – al di là delle adducibili tante giustifica-zioni di tipo procedurale – che la costituzionalizzazone delle vecchie norme tendeva a non passare attraverso la loro revisione da parte del Parlamento, anche perché sull’adeguarla vi erano le resistenze di molte strutture pubbliche. Non a caso dietro le pronunce della Corte, non solo c’erano lunghe dispute giuridiche a vari livelli giurisdizionali, ma anche le richieste dell’Avvocatura dello Stato volte a difendere l’arre-trato status quo (cosa inammissibile se l’Avvocatura si fosse compene-trata nella struttura costituzionale e l’avesse considerata la vera cosa da preservare).

In moltissimi ambienti era diffusa una sostanziale diffidenza circa la capacità delle istituzioni di far fronte da sole ai problemi del pae-se, senza il concorso della Chiesa. Soprattutto sulla lotta al marxismo. All’interno della Chiesa vi era una compattezza assoluta sulla lotta anticomunista, ma continuavano a manifestarsi percepibili distinzio-ni sui modi di condurla, anche se molto felpate. Tutti concordavano sull’impossibilità di cedimenti in dottrina e nei suoi principi. Da qui sorgevano le distinzioni sulla vagheggiata politica di apertura a sini-stra, poiché i comportamenti del PSI per molti non davano piena cer-

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tezza di un saldo anticomunismo e del distacco dal marxismo (di fatti, si diceva, il PSI si distacca dal PCI ma non intende farlo in farlo campo sindacale). Nella DC, l’ala sinistra spingeva molto per l’attenzione ver-so i socialisti anche richiamando le convenienze di sviluppo del parti-to DC come se queste convenienze prevalessero sulle questioni civili degli ideali.

Peraltro, non solo in quell’area ma in generale, l’atmosfera domi-nante concepiva il mettere al centro della passione politica la ricerca di un porto sicuro e definitivo di convenienze piuttosto che una continua costruzione di condizioni e di regole per una migliore convivenza dei cittadini. La peggior conseguenza del modo di stare sul territorio del PCI era forse l’abitudine predominante del dare ai cittadini l’obietti-vo politico dei sogni e delle utopie nel nome di una (pretesa) assoluta concretezza. Questa abitudine contribuiva ad allontanare l’opinione pubblica dalle questioni reali e aveva finito per indurre un analogo comportamento da parte DC. E insieme era uno dei sintomi princi-pali del definitivo tramonto del degasperismo. De Gasperi, anche per esperienze personali, non trascurava idee, principi e filoni politici ma era molto attento all’edificio istituzionale da costruire (seppure con i mattoni di cui si poteva disporre, come chiosò lui stesso in una occa-sione). Non a caso non suscitò adeguata riflessione il fatto che, ritiratosi dalla politica, scegliesse la via del sacerdozio Dossetti, uno dei leader DC alla Costituente, poi impegnatosi contro il PCI a Bologna. Al di là delle personali vocazioni, appariva come un sintomo non seconda-rio di una constatazione. Un personaggio intellettualmente onesto e coerente prendeva atto che la naturale collocazione del percorso delle proprie idee era nella dimensione religiosa. Quasi a dire che in fin dei conti non aveva avuto torto il leader dc degli anni ’40 a non aver voluto percorrere appieno il sentiero del mischiare religione e politica.

L’inizio dell’anno 1959 vide la caduta del Ministero Fanfani, rite-nuto troppo autoritario dai grandi notabili (che alla fine si ribellarono dando vita, nel convento di Santa Dorotea, alla corrente dei dorotei che resterà dominante per tre decenni), la nuova nomina a Presidente del Consiglio di Antonio Segni (ritornando ad un monocolore DC che sembrò mettere da parte l’apertura a sinistra e per questo ottenne ini-zialmente i voti del PLI, e poi dei due partiti monarchici e del MSI), le dimissioni di Fanfani da Segretario DC e a marzo l’avvento alla Segre-teria di Aldo Moro. Sul piano del suo magistero la Chiesa proseguiva nel suo percorso. Provvide a confermare la scomunica delle sinistre socialcomuniste ed ora anche dei cattolici che collaboravano. Poi pre-cisò che il sistema della pianificazione (all’epoca fulcro del dibattito

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politico italiano, in particolare in campo economico) distruggeva la libertà dei cittadini. Intervenne – in Francia ma con evidenti riflessi in Italia – per porre fine all’esperienza dei preti operai, perché veicolo di contaminazione con il marxismo e con il laicismo e di incompatibilità con i doveri sacerdotali. Insistendo inoltre sulla speranza che la DC superasse le divergenze interne in conformità alla sua funzione di brac-cio dei cattolici e negando che la DC avesse propensioni confessionali, foss’altro perché non c’era mai stata una azione guidata dalla Chiesa contraria allo Stato.

I primi di novembre si verificò peraltro un episodio che, anche se in apparenza rientrò subito, fu emblematico della realtà delle comples-se lotte politiche in corso negli ambienti cattolici. Il Presidente della Repubblica Gronchi, al fine di sostenere una posizione favorevole alla distensione tra i blocchi, intendeva compiere una visita ufficiale a Mo-sca prima della visita prevista a Roma del Presidente USA Eisenhower. Una mossa del genere costituiva, sul piano italiano, un appoggio si-gnificativo alla prospettiva di apertura a sinistra, anche solo in termini di immagine. E quindi investiva il forte dibattito al riguardo diffuso in tutto il mondo cattolico, al di là della DC. La visita a Mosca era un’azione innovativa e, per motivi Costituzionali, il Presidente Gron-chi doveva avere l’assenso preventivo del Governo. Così fu fissata una riunione del Consiglio dei Ministri per assumere le decisioni in merito. C’era però da tener conto di una insistita campagna contraria alla visita da parte di non pochi ambienti cattolici, che battevano sulle questioni ideologiche del comunismo e sulla inopportunità di abbassare la guar-dia. In prima fila, erano l’Osservatore Romano e Civiltà Cattolica. Due giorni prima della attesa riunione del governo, era previsto un incon-tro al Quirinale tra Gronchi e 35 giornalisti rappresentanti il vertice dell’Associazione nazionale della Stampa.

Durante il suo saluto, Gronchi fece un ragionamento pensoso. Os-servò che le trasformazioni continue delle società e delle istituzioni comportano opportunità di revisione delle cose, come ad esempio an-che dei concordati che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa. Precisan-do anche di essere obbligato per motivi costituzionali ad eseguire le decisioni della maggioranza pur se non coincidono con i propri punti di vista. L’episodio divenne noto perché tra i 35 c’era il vice direttore de Il Tempo, Vittorio Zincone, poi deputato liberale, che riportò l’episo-dio senza dissimularlo provocando notevole clamore. Le parole, a par-te la serietà professionale di Zincone, erano di certo vere – nonostante le impaurite dimissioni dei vertici dell’Associazione della Stampa per non farsi coinvolgere – tanto che il Quirinale accompagnò la smenti-

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ta con la promessa di distribuire a riprova il testo dell’intervento del Presidente, distribuzione che non ci fu mai. Parole vere e non casuali. Perché Gronchi, apparentemente per caso, aveva lanciato un preciso messaggio. Se proprio si vuole mettere bocca nelle questioni politi-che facendosi forti di una certa interpretazione della dottrina, si tenga presente che altri possono allora ritenere opportuno, in nome un’altra interpretazione sempre cattolica, di sostenere la necessità di rivedere il Concordato per adeguarlo ai tempi. Guarda caso il governo, il mo-nocolore DC, su impulso dello stesso Presidente del Consiglio Segni, dette il via libera alla visita moscovita ponendo come condizione solo che fosse una visita protocollare di Stato al Presidente URSS. L’alto là di Gronchi aveva avuto effetto. La questione, come era scoppiata all’improvviso con gran fragore, in quarantotto ore tornò sotto la su-perficie. Però era stato scosso, al più alto livello, il tabù della revisione del Concordato.

Appare verosimile che Gronchi avesse due obiettivi. Uno, quello più immediato, respingere le pressioni provenienti dal mondo cattoli-che, anche delle gerarchie, che avevano sì un’origine di principio dot-trinale ma che si trasformavano in azione politica per influenzare le scelte di pertinenza dei politici. L’altro obiettivo era far balenare di aver colto nell’aria una propensione a rivedere il Concordato (il che era ovviamente possibile senza rivolgimenti costituzionali, se le due parti erano d’accordo). Era evidente che anche chi, o per convinzione o per accorta dissimulazione, non condivideva in pieno le posizioni degli Amici del Mondo  –  il ritornello era “sono degli anticlericali”, quasi che i clericali fossero il bene – non poteva non constatare, magari parlando con le persone vicine, che effettivamente la diagnosi di fondo del Convegno dell’aprile ’57 era sostanzialmente corretta. Le parole di un giurista credente come Jemolo, sono icastiche: “oggi non si può aprire una filiale di una banca senza la benedizione del vescovo; il croci-fisso, a volte il ritratto del Papa, appaiono dietro gli sportelli; in numerosi Ministeri durante la settimana santa si svolgono gli esercizi spirituali, a cui assistono i funzionari, ministro in testa. Non vi è riunione di prefetti o congresso di magistrati o di bibliotecari o raduno di ex militari o ex carabinieri, che non termini con la visita al romano Pontefice”.

Il clima era questo e, perfino nel monolite PCI, sul tema concorda-to venivano fuori considerazioni diverse da quelle abituali. Sul mensile del partito, Rinascita, a giugno ’59, l’on. Natoli aveva avviato un di-battito cominciando dal chiedere una autocritica, ai laici per le richie-ste abrogazioniste e al movimento operaio per le incertezze di fronte all’invadenza clericale. E poi avvertiva l’esigenza che si cominciasse

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a riflettere su obiettivi politici che rimediassero i guasti della clerica-lizzazione attraverso una revisione concordataria. In realtà la chiave di questo dibattito era la necessità di aggiustare la posizione del PCI di fronte a quanto si andava delineando nell’area socialista ormai da tre anni, a seguito dell’incontro di Pralognan. Essa restava divisa al proprio interno sui rapporti con i comunisti ma nei rapporti religio-si era unita nel non concepire una società conformista nella illibertà, concepita invece dai marxisti. Per cui l’area socialista rimaneva sempre sensibile ai guasti prodotti dall’invadenza confessionale nella società (anche se, dal punto di vista psicologico ed emotivo, propendeva, so-prattutto il PSI, più per l’anticlericalismo che a cogliere il senso della strada separatista). Questa, per il PCI, era una difficoltà nella linea di collegamento con il PSI. Acuita dalla marcia di avvicinamento alla politica di centro-sinistra tra la DC e il PSI, intesa dal Segretario DC Moro come uno strumento per staccare il PSI dalla unità con il PCI. Da qui lo sforzo di Natoli di fare una proposta per ammorbidire un punto di dissenso tra PCI e PSI. Naturalmente restando lontano da ogni suggestione separatista che il PCI non riusciva a concepire, non considerando realistico che la Chiesa potesse intrattenere con lo Stato italiano rapporti di separazione come li aveva con altri stati separatisti.

Nel far balenare una ipotetica disponibilità alla revisione, il Pre-sidente Gronchi aveva agito secondo il proprio stile. Personaggio di ultraquarentennale esperienza politica, era tanto determinato quanto molto cauto. Nel Congresso Nazionale DC di dieci giorni prima a Fi-renze, avevano sì prevalso la corrente dorotea di Segni, Rumor, Tavia-ni ed il segretario Moro sulla consistente corrente Nuove Cronache di Fanfani, però l’atmosfera non era di rigida chiusura all’apertura a sinistra evocata da Moro, seppur con circospezione. Certo le richieste dei socialisti erano più ampie, ma comprendevano pure forti critiche al Concordato, ai limiti dell’anticlericalismo, per cui era opportuno cominciare ad esaminare la questione. E nella DC le cose, molto len-tamente, cominciavano a muoversi. Di sicuro, un mese dopo la DC confermò la sua politica di forte attenzione ai desideri della Chiesa finanziando le scuole materne cattoliche (riuscendo a spuntarla su tutti i laici usando i voti dei monarchici) e avviando un disegno di legge per dare al clero la pensione a prescindere dall’aver versato contributi. Ma in merito all’apertura a sinistra, era palpabile che la cosa stesse matu-rando. Al punto che, preso atto del pressoché nullo esito della visita a Mosca di Gronchi (accompagnato dal Ministro degli Esteri Pella che era un più fermo atlantista ), a febbraio 1960 il PLI volle cogliere l’oc-casione e tolse l’appoggio al Presidente Segni. Perché, nonostante aves-

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se vinto il Congresso DC, il Presidente del Consiglio lasciava avanzare la maturazione dell’apertura.

Quella maturazione non era una scelta per adottare la logica so-cialista della società. Era una sorta di involuzione dell’interclassimo democristiano. Ci si esercitava a soppesare le opportunità migliori per tener buona una parte della sinistra e insieme non scontentare la gerarchia cattolica. E si sottovalutava in pieno che, nonostante il mi-racolo economico degli anni ’50, si era bloccato lo sviluppo politico della concretezza di governo tradotta in una logica istituzionale attenta alle questioni di cittadinanza. Si consideravano rigidamente le appar-tenenze sociali proprio quando la loro rigidità si stava affievolendo. Così il paese restava arretrato sotto diversi profili della quotidianità e nella tendenza confessionale si realizzava l’opportunismo comunitario. Ormai se ne parlava apertamente. All’epoca uscì un film di Federico Fellini “La dolce vita” costruito sulla critica, netta e metaforica, dei costumi di una Roma secolare e papalina, dedita allo star bene senza un’anima di principi e di valori. Sull’Europeo Montanelli chiosò “l’at-to di accusa compilato da Fellini corrisponde a verità o, almeno, a una parte della verità. Che esso faccia il gioco dei comunisti, posso deplorarlo: ma non m’impedisce di testimoniare la verità”. E sulla Stampa Jemolo prendeva atto di come il paese “appaia più tranquillo che mai… e il suo aspetto sia quello di un malato che ha accettato la propria malattia, conoscendola tale e ritenendola incurabile;… con ministri che non hanno mai adottato provvedimenti volti a dare fiducia nell’amministrazione… e prelati giudicati santi uomini… ma essi pure guasti dalla necessità di costruire chiese e seminari. Che troppo spesso in scandali si senta parlare della fiducia che truffatori e speculatori godevano nei palazzi vescovili, non ha rialzato l’autorità spirituale”.

In una situazione simile, la Direzione DC, caduto il governo di Se-gni, indicò la formula DC, PSDI e PRI, dichiaratamente di centro sini-stra. Gli incontri per costruire il governo si infransero sulla difficoltà di fare un programma abbastanza convincente anche per il PRI (dila-niato da forti dissensi tra la maggioranza La Malfa – Oronzo Reale e la minoranza di Pacciardi), il PSI nicchiava. La crisi divenne assai tor-tuosa. Molti ambienti cattolici, anche del vertice delle gerarchie, am-monivano con forza contro l’apertura a sinistra. Gronchi tentò molti incarichi e approdò alla fine a Tambroni, più volte ministro nel decen-nio precedente, politicamente assai vicino allo stesso Presidente, che al Congresso di Firenze aveva fatto parte della minoranza fanfaniana, che era favorevole all’apertura a sinistra ed era molto ostile ai liberali. Tambroni varò un monocolore presentandolo come un governo am-

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ministrativo rivolto anche ai socialisti e nella replica insistette sul con-trapporre chi operava per il bene del paese agli altri che lo ostacolava. Titubanti i socialisti, ottenne la maggioranza con i voti determinanti del MSI (Tambroni fece osservare che i voti del MSI erano determi-nanti in decine di amministrazioni locali e alla regione Sicilia). Alcuni ministri si dimisero, la Direzione DC chiese le dimissioni di tutto il go-verno. Gronchi conferì l’incarico a Fanfani. Per risposta, il MSI ritirò l’appoggio alle giunte di Roma e di Genova. La Direzione DC concluse che per il governo Fanfani di centro sinistra i numeri erano traballanti (sarebbero stati indispensabili tre deputati indipendenti sparsi) dato che gli altri partiti erano tutti contrari. Inoltre una forte ritrosia ver-so l’operazione si manifestava nei gruppi parlamentari democristiani. Fanfani rinunciò, Gronchi decise di far concludere il percorso parla-mentare al governo Tambroni che sostituì i dimissionari. La fiducia fu ottenuta anche al Senato con i voti del monarchico Degli Occhi, del senatore a vita Paratore e di nuovo con quelli del MSI.

Il governo cominciò ad operare ma gli assetti restavano parecchio instabili. Il PCI spingeva le proteste contro l’utilizzo dei voti del MSI. Il nodo dei rapporti con i pastori di anime locali tendevano a creare situazioni inusuali (dal vescovo di Napoli che operò per impedire un balletto al Teatro San Carlo perché vi figurava una ballerina russa, all’arcivescovo di Milano Montini che protestava per gli spettacoli tea-trali e cinematografici indecenti, a quello di Bari che applicò un decre-to del Santo Uffizio escludendo dalla processione del santo protettore il Sindaco e la Giunta comunale). Era comunque evidente che la DC si sforzava di anestetizzare i problemi piuttosto che di affrontarli con progetti che li curassero. E piuttosto di seguire una logica politica tera-peutica, vi era chi, come secondo alcuni lo stesso Gronchi e di sicuro Tambroni, preferiva alla faticosa strada della politica dei programmi passo a passo, quella più elitaria (in apparenza più semplice, in realtà più avventurosa) dell’autoritarismo strisciante. Il segretario on. Moro aveva chiara la situazione ma preferiva non “sottolineare ulteriormente le difficoltà del partito” e rinviava la verifica di sei mesi. Il Vaticano si manteneva distante, prima ribadendo di essere contrario ad intese con un PSI ancora ambiguo sui rapporti con il PCI e dopo ricordando che qualora “sul terreno politico si presenti il problema di una collaborazione con quelli che non ammettono principi religiosi, spetta allora all’autorità ecclesiastica la liceità morale di tale collaborazione… e in ogni caso la soluzione è l’ubbidienza alla Chiesa, custode della verità”.

Come si vede, si confermava davvero rilevante la distanza tra i criteri di separazione tra Stato e Chiesa e i comportamenti effettivi.

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Andavano declinando la passione e l’interesse per darsi strumenti concreti pensati per affrontare i problemi effettivi del mondo reale, magari aggiustando gli strumenti che già si hanno. Il dibattito po-litico si illudeva di parlare dell’oggi ma era sempre più tutto rivolto al passato. Nel senso che si celebravano i fatti storici o si prendeva spunto da antiche impostazioni politico culturali di tipo ideologico, tralasciando lo sforzo di capire l’essenza delle questioni nel presente e nella prospettiva. Un esempio, all’epoca molto attuale, era l’incapacità di troppi, perfino tra i dirigenti politici, nel capire che avere un’impo-stazione costruttiva modellata sulle cose da fare, non poteva ridursi ad essere anticomunisti e quindi democratici ma al contrario richiedeva di essere democratici nelle proposte e in esse anticomunisti. Questo atteggiamento rivolto al passato degli eventi e delle ideologie – a parte il chiudere gli occhi sul presente per voluto calcolo di potere – aveva come inevitabile conseguenza il sospingere il principio di separazione e la sua fisiologica propensione realistica, sempre più nell’angolo tra le vecchie cose di pessimo gusto.

Rappresentativo di questo rivolgersi al passato era il PSI (certo non il solo, basti pensare all’ideologismo del PCI o alla ossessione della DC per il proprio primato quale garanzia istituzionale). Il sole dell’av-venire era meramente il simbolo del PSI. All’avvenire non si pensava quando si evitava con cura di tener conto delle dure repliche della storia, che avevano mostrato i miti marxisti chiusi al domani e alla centralità del cittadino libero. Ciò portava il PSI, che pur avvertiva con forza gli aspetti del comunismo contrari alla libertà, ad un neu-tralismo prosovietico in politica estera e al non staccarsi dal PCI e dal marxismo in una miriade di associazioni di tipo politico, culturale e sindacale. Quasi istintivamente – e forse anche per non ammettere che gli scissionisti di Palazzo Barberini avevano visto giusto – adottava atteggiamenti di antico stampo: sulla questione religiosa di tipo anti-clericale, nei rapporti di lavoro di tipo classe operaia, in economia di tipo pianificatorio. Viceversa sarebbero stati maturi i tempi per pren-dere coscienza che le radici del socialismo possono essere solo quelle dell’umanesimo democratico della libertà di spirito. Pochi mesi prima, nel novembre ’59, a Bad Godesberg, la socialdemocrazia tedesca aveva segnato il distacco (senza ritorno) dalla visione del mondo del socia-lismo marxista, imperniata sull’assolutismo della verità dell’essere in marcia verso la realizzazione del socialismo. Le ripercussioni in Italia furono sintomatiche. Non si parli del PCI, le cui prese di posizione ufficiali fatte dai massimi dirigenti contro Bad Godesberg furono in-tellettualmente cieche ed imbarazzanti. Ma anche nel PSI non si levò

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una voce di apprezzamento o almeno di ripensamento. A proposito di Bad Godesberg, si commentò che l’obiettivo del PSI restava la sop-pressione (proprio così, soppressione, neppure superamento) del siste-ma capitalistico e non il servilismo.

Nella DC regnava uno stato di forte tensione causato dalla estrema difficoltà di comporre le divisioni in mancanza di una chiara scelta di indirizzo politico operativo. Si voleva la lotta al comunismo ma non si riusciva ad individuare la logica dei provvedimenti efficace per farla. La logica occidentale veniva declamata di continuo ma praticata assai poco, anche perché praticarla presentava troppi aspetti di una men-talità protestante. La lotta al comunismo si tendeva a farla come lotta di potere, impegnandosi ad ottenere più consensi ma solo dopo aver accettato i terreni di battaglia imposti dal PCI e lasciato passare il con-cetto che il futuro sarebbe stato il socialismo di tipo sovietico. Veniva omesso l’impegno per dare al principio di libertà una concretezza che portasse la cittadinanza sui terreni “occidentali” (libertà civili, con-correnza economica, lotta ai privilegi, uguaglianza nelle dignità e non nel conformismo, socialità come presupposto della libertà individua-le e non del collettivismo, laicità delle istituzioni), lontano dai terreni tipici del PCI (statalismo, economia dirigista, negazione dell’indivi-dualismo, strumentalismo religioso) e soprattutto in grado di risultare credibili rispetto alle attese di palingenesi civile di molti cittadini.

Poi si interpretava l’esigenza di mantenere il primato DC come quella di massimizzarne la distribuzione di incarichi ad ogni livello prescindendo dalla verifica dei risultati ottenuti. Privilegiando sempre i desiderata del Vaticano, non soltanto sul piano spirituale ma anche su quello delle conseguenze più terrene. La situazione era ulteriormente aggravata dalla moda di attribuire alla formula centrista più che alla DC la responsabilità del cedimento alla spinta confessionale e quindi dall’ipotizzare che, una volta superato il centrismo, si sarebbe superato anche il clericalismo. E siccome il superamento del centrismo voleva dire escludere i liberali, che erano i soli fautori del principio di separa-zione, si arrivava all’assurdo che, per meglio combattere la linea con-fessionale, la si agevolava escludendo i fautori del separatismo. Questo era ed è un dato oggettivo storico. Senza dubbio lo sviluppo del clima confessionale del Paese era avvenuto sotto il centrismo, ma non per-ché lo volessero i liberali ma perché – pur trovandosi nelle condizioni storiche concordatarie – tutti e tre i partiti laici, reciprocamente divisi e sospettosi, non avevano attivato una politica di contrasto al proces-so confessionale proprio nel momento in cui la DC andava perdendo, insieme all’impostazione degasperiana, la propensione a stare attenta

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ad aver rispetto per le tematiche laiche. E la politica del PSI aveva anch’essa contribuito.

A parte la specifica questione laica, in tre mesi, le violente pressioni di piazza volute dal PCI, travolsero il governo Tambroni e mostrarono i gravi limiti del modo di concepire la politica da parte DC. Tanto più che il significato dei disordini di Genova, provocati dai portuali per impedire il Congresso del MSI e di fatto sedati solo dall’intervento degli alpini, e poi di quelli di Roma, era molto chiaro all’on. Moro. Li definì l’episodio più grave e minaccioso per le istituzioni. Ma era chia-ro non solo a Moro. Era chiaro a tantissimi. Il Presidente dell’ENI, il supercattolico Enrico Mattei allora molto presente e potente nella politica italiana, espresse solidarietà a Tambroni per la sua energia nel difendere lo Stato. La Stampa scrisse “quando in un movimento entrano i comunisti che perseguono scopi ben diversi da quelli dei partiti democra-tici… Nessuno può prevedere il corso ulteriore dei fatti. Accordate loro un dito e presto anche il braccio è perduto”. Lo stesso Nenni percepì che la difesa in termini mitici dell’antifascismo aveva costi altissimi per gli stessi socialisti. Oltre che per il paese. E scrisse nel suo diario “Era facile prevederlo. La vittoria antifascista di Genova viene usata dai comu-nisti in termini di frontismo, di ginnastica rivoluzionaria, di vittoria della piazza, tutto il bagaglio estremista che pagammo caro nel 1919”.

L’uscita dalla crisi fu trovata nella formula morotea delle conver-genze parallele, che consentì di fare un nuovo ma robusto monocolore DC presieduto da Fanfani, appoggiato esplicitamente da PLI, PSDI e PRI, che insieme sottolinearono la pregiudiziale difesa della libertà cui tendevano i rispettivi programmi, seppur nella loro diversità. Il gover-no passò anche con l’astensione parlamentare del PSI, come prova fino all’autunno, data per “acquisire titoli e qualità per sollecitare la spinta a sinistra che il Paese ha impresso alle cose”. Le convergenze parallele furono un dato obbligato, ma in ogni caso erano l’inizio delle tipiche pratiche dilatorie dell’on. Moro (che precisò in Consiglio Nazionale l’eguale distanza della DC dal PCI e dal MSI) per gestire l’esistente ma non per dare inizio ad una coerente rinnovata progettualità. Il PSI non ce la faceva a tradurre in concretezza programmatica il suo abbandono del frontismo con il PCI. Al massimo seguiva riflessi antichi e voleva avere dialogo solo con i laici di centro sinistra e non con i liberali. Per-ciò stesso impedendo la convergenza politica dei laici e la possibilità di porre nell’agenda politica le questioni della laicità delle istituzioni.

In quel periodo, l’arcivescovo di Milano, il cardinale Montini, aveva seccamente ammonito le ACLI essendo stato colpito dal fatto che nel loro indirizzo “prevalga l’interesse per le cose temporali, e che

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l’interesse per la loro missione religiosa e cattolica vada prendendo un posto subordinato. La politica, che non è la vostra missione, ha ormai una prevalenza nella vostra stampa, e quasi sempre in forma polemica non già verso gli avversari del nome cristiano, ma verso persone e gruppi e gior-nali del campo nostro. Mi pare che la vostra adesione alle linee direttive della Chiesa, anche da me più volte a voi ricordate, circa la famosa aper-tura verso il socialismo non abbia quella chiarezza e quella franchezza, che si vorrebbe avere da buoni cattolici militanti… Sollevate scandalo perché una combinazione governativa non è riuscita; e non pensate, non fate cenno che non è riuscita solo perché i Socialisti non davano garanzie di sufficiente rispetto alle nostre idee e alle nostre cose… Io vorrei invece richiamare il vostro senso di responsabilità verso la causa cattolica e verso la stessa causa dei Lavoratori”.

Al tempo stesso, la Conferenza Episcopale Italiana, CEI, aveva fat-to il punto in materia di laicismo, rilevandone quelli che, secondo lei, erano i gravi limiti. In sintesi, “una mentalità di opposizione sistematica e allarmistica verso ogni influsso che possa esercitare la religione in genere e la gerarchia cattolica in particolare sugli uomini, sulle loro attività e sulle istituzioni… Non può restare indifferente che l’idea laicista si in-filtri insensibilmente anche tra le file del clero e del laicato cattolico… E si ha la tendenza a sottovalutare la capacità dell’azione magistrale e sacramentale della Chiesa accettando i metodi e lo stile degli avversari; a preoccuparsi più dell’apertura verso il mondo esterno che della fraterna carità e dell’unità di spirito con ·coloro che lavorano soffrono”. La Con-ferenza Episcopale, identificava due forme di laicismo: “quella ateista (marxista)… e quella più blanda che ammette Dio ma nega l’ordine so-prannaturale come realtà viva ed operante della società”. E concludeva affermando che “il clero dovrà evitare nei rapporti con il laicato ogni forma di esagerato autoritarismo non interferendo in campi nei quali non ha alcun diritto di fornire direttive”. Si era dunque arrivati almeno a riconoscere una laicità diversa dal marxismo, anche se non a togliere la qualifica di laico al marxismo, perché si usava come metro di giudizio non la libertà individuale ma l’ordine soprannaturale quale cosa viva. Tuttavia le stesse indicazioni della CEI non erano adottate nella pra-tica. Ad esempio, le organizzazioni locali tendevano ad identificare la scuola laicizzata con il PCI e il suo (dichiarato) ateismo. Il che era una tipica furberia, perché, essendo il PCI ormai inviso alla maggioranza degli italiani, era più facile opporsi alla scuola laica definendola come incline al comunismo e al socialismo succube del comunismo. E poi gli stessi organi di stampa centrali del Vaticano, difendevano a spada tratta l’esigenza di una censura negli spettacoli, all’insegna di una mo-

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rale conformistica da imporre a tutti, non di una fede di cui chiedere il rispetto ai fedeli.

Sul piano complessivo il Vaticano avviò la fase preparatoria del Concilio, sottolineando come il suo obiettivo non fossero tanto i pro-blemi di esattezza dottrinale, quanto “di rimettere in valore e splendore la sostanza del pensare e del vivere umano e cristiano, di cui la Chiesa è depositaria e maestra nei secoli… Va deplorato il traviamento dello spirito umano, tentato e sospinto verso il solo godimento dei beni del-la terra, che la modernità della ricerca scientifica mette ora con facilità alla portata dei figli del nostro tempo”. Avvertire questa propensione della Chiesa a ricalibrare in termini meno dottrinali il modo di essere presente nella società, avrebbe forse dovuto suscitare subito maggiore attenzione nel mondo laico circa i rapporti da tenere con l’istituzione cattolica. Avrebbero dovuto rafforzarla ancor più le parole di Giovanni XXIII in persona, nell’aprile 1961, in occasione dell’incontro ufficia-le con il Presidente del Consiglio. Disse che le vicende risorgimentali erano state, seppure tra contrasti, “la preparazione alle pagine vittoriose e pacifiche dei Patti Lateranensi”. Ora, il Papa era stato una vita nel-la diplomazia vaticana ricoprendo importanti incarichi nelle capitali estere. Solo partendo da concezioni scioccamente anticlericali, sarebbe possibile pensare che Giovanni XXIII pronunciasse parole di questo genere (che riducendo l’Unità d’Italia alla preparazione del Concor-dato, potevano essere inaccettabili per la parte italiana) se non per far intendere che della questione accordi del Laterano, occorreva cogliere gli aspetti positivi nei rapporti tra Stato e Chiesa. In sostanza per sol-lecitare la collaborazione con realismo. Quindi per non restare obbli-gatoriamente legati alle sue forme del passato. Il che significava che in termini di realismo, fermo il Trattato, si poteva ragionare sul rivedere alcune parti del Concordato.

Appena un mese dopo, l’enciclica Mater et Magistra ebbe una por-tata assai più vasta toccando questioni importanti. Tuttavia, leggen-dola, si capisce che le intenzioni del Papa avevano il medesimo ap-proccio del mantenere la primazia della Chiesa (ricordava le parole della Rerum Novarum, “non è possibile trovare soluzione che valga, senza ricorrere alla religione e alla Chiesa”) calandola nelle novità del mondo sopravvenute. Molte considerazioni generali:” Tra comunismo e cristianesimo, il Pontefice ribadisce che l’opposizione è radicale, e precisa che non è da ammettersi in alcun modo che i cattolici aderiscano al so-cialismo moderato”. “La presenza dello Stato in campo economico, anche se ampia e penetrante, non va attuata per ridurre sempre più la sfera di libertà dell’iniziativa personale dei singoli cittadini… La socializzazione

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non va considerata come il prodotto di forze naturali operanti determini-sticamente; essa invece è creazione degli uomini, esseri consapevoli, liberi che non possono sottrarsi del tutto alla pressione dell’ambiente…”. “La retribuzione del lavoro, come non può essere interamente abbandonata alle leggi di mercato, cosi non può essere fissata arbitrariamente; va inve-ce determinata secondo giustizia ed equità… nella determinazione della retribuzione si abbia riguardo al loro effettivo apporto nella produzione e alle condizioni economiche delle imprese”… “Il diritto di proprietà pri-vata sui beni anche produttivi ha valore permanente, appunto perché è diritto naturale fondato sulla priorità ontologica e finalistica dei singoli esseri umani nei confronti della società… Inoltre, storia ed esperienza attestano che nei regimi politici, che non riconoscono il diritto di pro-prietà privata sui beni anche produttivi, sono compresse o soffocate le fondamentali espressioni della libertà… movimenti sociali-politici, che si propongono di conciliare nella convivenza la giustizia con la libertà, fino a ieri nettamente negativi nei confronti del diritto di proprietà privata sui beni strumentali, oggi, maggiormente edotti sulla realtà sociale, rivedono la propria posizione e assumono, in ordine a quel diritto, un atteggia-mento sostanzialmente positivo.”… “L’inserirsi della Chiesa in un popolo ha sempre riflessi positivi in campo economico-sociale, come dimostrano storia ed esperienza… Infatti l’errore più radicale nell’epoca moderna è quello di ritenere l’esigenza religiosa dello spirito umano come espressio-ne del sentimento o della fantasia, oppure un prodotto di una contingenza storica da eliminare quale elemento anacronistico e quale ostacolo al pro-gresso umano…”. E poi una serie di dettagliate prescrizioni in diversi campi economico sociali.

Forse sarebbe stato opportuno, per il mondo laico, riflettere sul-le conseguenze profonde di queste posizioni per poter compenetrare quali movimenti si prefigurassero nella Chiesa. Fu fatto solo di sfuggita, sia sull’enciclica che su altri indizi convergenti che provenivano dalla Chiesa italiana. A parte le prediche contro l’apertura a sinistra del car-dinale Montini già fatte in precedenza, vi fu poche settimane dopo una lettera spedita all’on. Moro dal Presidente della CEI, cardinale Siri, che in Vaticano era una personalità di assoluto primo piano, per alcuni già vicino ad essere eletto Papa nell’ultimo Conclave. Aveva scritto a Moro: “nel momento in cui si ha motivo di credere che equivoci ed artate inter-pretazioni stiano oscurando la verità, ho il dovere di richiamare alla di lei attenzione quanto segue: 1) L’atteggiamento della Chiesa nel giudicare i comunisti e coloro che li sostengono con la loro azione o sono loro asso-ciati non è affatto mutato; 2) la linea di portare assolutamente i cattolici a collaborare con i socialisti, prima che da questi siano state ottenute vere

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e sicure garanzie di indipendenza dai comunisti e di rispetto a quanto noi dobbiamo rispettare, non può essere assolutamente condivisa dai vescovi; 3) quanto accaduto, il modo e la forma nel quale è accaduto, fa profonda-mente temere per l’avvenire. In nome di Dio, la prego di riflettere bene sulla sua responsabilità e sulle conseguenze di quanto sta compiendo”.

Queste parole sono illuminanti sul modo di ragionare della ge-rarchia e poi di operare. Contano le idee professate e praticate, non le affabulazioni. Viceversa, una larga parte del mondo cattolico e di importanti gruppi intellettuali, anche di cultura più laica, si stavano impegnando a fondo per diffondere una lettura distorta dei documen-ti vaticani. Andavano sostenendo che l’interesse della Chiesa per una visione più ecumenica e per l’attenzione alle questioni sociali era un incoraggiamento all’apertura a sinistra. Eppure, in linea tecnica, sul Corriere della Sera l’ex Presidente Einaudi ricordava che socialità non era parlare di continuo di piccola proprietà contadina o di cooperative o di aziende sociali. Lo sarebbe stato piuttosto “abolire tutte le tasse sui piccoli trasferimenti, con rimborsi delle spese notarili a carico dello Stato… La piccola, la media, la grande proprietà trovano con il tempo cia-scuna il loro luogo ottimo. E non l’affrettare i tempi con incoraggiamenti e sussidi ovvero con la cantina sociale, l’oleificio sociale, tutto perché sia adorno dai furbi e dai procaccianti dell’attributo sociale”. Eppure il PSI continuava a battersi per la soppressione del capitalismo. Eppure vi era l’importante questione del crescente marchio confessionale delle istituzioni (che venne perfino irrobustita con la creazione di un fondo di previdenza per il clero a prescindere dai contributi versati) e il fatto che il governo, cercando un rimedio, l’affiancò (in tipico spirito con-cordatario) con una legge gemella istitutiva di un fondo di previdenza a richiesta dei ministri delle religioni non cattoliche. Da confessionale a pluriconfessionale.

L’apertura a sinistra era ritenuta una panacea. Il gruppo dirigente della rivista Il Mulino rilevava che la miglior ricetta per battere i co-munisti era una politica di riforme (il che era giusto) ma poi da que-sto faceva fantasiosamente derivare che era indispensabile l’appoggio all’apertura a sinistra (era talmente estemporaneo, che tra i marxisti si supponeva questa fantasia fosse un disegno organico del capitalismo). Era un salto logico. Infatti, come formula politica, si mitizzava l’im-portanza di dove si schierasse il PSI a prescindere dalle sua cultura, e così si accresceva la centralità del conservatorismo DC, alla quale DC, con l’indicare nei liberali i responsabili colposi in tema gestionale ed economico, si ridava una verginità riformatrice. Come programma, si facevano passare per decise riforme le pulsioni stataliste e pianifica-

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trici (obiettivamente care ai comunisti). Il tutto continuando a tenere nell’angolo ogni impostazione separatista, anzi chiamando gli ambien-ti ecclesiali a supporto dei propri disegni di potere. Di fatto, si enfatiz-zava una visione della politica incentrata sulla necessità di rafforzare numericamente le maggioranze, pensando che il riformismo fosse cer-care equilibri ideologici diversi (piuttosto che un approccio diverso nell’affrontare i problemi reali) e che la partecipazione informata si riducesse a promesse incoerenti (quasi non importasse dare strumenti di valutazione ai cittadini bensì convincerli a sperare nell’ineluttabilità di un’idea). Questi approcci, tra l’altro, finivano per favorire l’inserirsi di manovre di potere sempre più sotterranee, dedite a svolte autoritarie e ben finanziate, che di fatti diverranno una costante di quegli anni. Comunque allargavano lo spazio lasciato alle strutture della Chiesa, che trovavano sempre più materia per le loro funzioni spirituali e al tempo stesso erano sempre più conformisticamente corteggiate nella quotidianità. Per cui, nell’immediato, per le strutture della Chiesa, il sostenere i propri principi spirituali non aveva costi.

Il PSI mise fine alle convergenze parallele presentando una mozio-ne di sfiducia al governo (solo dimostrativa quanto all’esistenza del go-verno, dato che i numeri per la maggioranza non venivano a mancare) e dicendosi indisponibile alla eventuale partecipazione ad un governo. Atti che però parevano essere finalizzati ad evitare di scoprirsi sul ver-sante comunista ed insieme ad ottenere maggior considerazione. Così, il PRI ribadì che, tenuto anche conto della inconciliabilità con i libera-li, era necessario il centro sinistra organico. Mentre il PCI continuava la sua ortodossia a favore dei paesi oltre cortina (difendendo la deci-sione della Germania dell’Est di costruire il muro che divideva in due Berlino) ma, per non rischiare l’isolamento, non si dichiarò pregiudi-zialmente contrario alla collaborazione con i cattolici e i socialisti, per superare le barriere tra movimento operaio e movimento cattolico.

Il Segretario DC Moro trattava la questione socialista come par-te del progetto di costruire l’unica maggioranza ritenuta credibile, il centrosinistra con il sostegno del PSI. Diceva una cosa esatta – il Va-ticano non si oppone – che però voleva dire quello che significavano le parole e non (come interpretavano gli interessati a fare l’operazione) che il Vaticano approvava o sosteneva. Del resto Moro ripeteva sempre l’impossibilità di un collegamento organico e di un’alleanza politica tra DC e PSI, prospettando piuttosto un sostegno del PSI ad un’azione di governo su alcuni punti programmatico per i quali valesse la pena di assumere una posizione non negativa. Una possibilità ovviamente da provare in concreto, ma che non poteva essere esclusa, “se i partiti de-

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mocratici vogliono la valorizzazione più larga, sul terreno politico dei ceti popolari, sottratti all’ipoteca totalitaria del comunismo”. Moro intende-va il centro sinistra come la prosecuzione del centrismo (“in crisi per il progressivo restringersi dell’area nella quale questa politica operava”) nel senso di poter ora “percorrere tutto il cammino che in passato per la durezza delle condizioni di partenza e per il forte impegno richiesto dal-le prime difficili tappe pareva in parte precluso”. Le sue strategie erano imperniate sul ruolo svolto dal proprio partito quale attore principale della convivenza nazionale. Vale a dire sul tessere ogni alleanza pos-sibile per agevolare questo ruolo. Prima del congresso DC di Napoli (febbraio 1962), Moro incontrò il Presidente della CEI, cardinale Siri, esponendogli l’intera piattaforma del suo programma congressuale, sulla quale ci fu l’assenso, salvo il punto della politica estera, su cui il cardinale indusse a formulazioni più inequivoche circa l’Alleanza Atlantica e la politica dell’URSS.

La stessa linea fu complessivamente approvata dal Congresso e su-bito dopo lo stesso Moro scrisse a Giovanni XXIII ribadendo che “la Democrazia Cristiana non verrà mai meno, pur nel necessario adatta-mento alle contingenze politiche, in vista della salvezza della democrazia italiana, alla sua ispirazione e alle sue caratteristiche di raggruppamento essenzialmente di cattolici militanti”. Il dissenso con i liberali – che con-tinuavano a rifiutare con fermezza la grande destra – stava proprio sul giudizio relativo alle concessioni programmatiche da fare al PSI. Per i liberali doveva essere negativo poiché prevedeva soluzioni sbagliate dal punto di vista di un mercato libero, improvvisate dal punto di vista istituzionale, contraddittorie sul piano politico, visto che i socialisti continuavano a perseguire il processo unitario con i comunisti in cam-po sindacale. Tutte questioni che giustamente non potevano interes-sare il Vaticano che invece prese atto della volontà DC ed emanò una direttiva ai Vescovi suggerendo che “desistano dalla loro opposizione alla linea Moro-Fanfani” dato che “sarebbe quanto mai funesto per l’Ita-lia e per la religione che la divergenza fra gerarchie cattoliche e Demo-crazia cristiana si accentuasse”. Dopo l’accordo sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, Fanfani dette vita ad un nuovo governo a tre, DC, PSDI, PRI con l’astensione dei socialisti.

La linea dell’on. Moro – confermare il primato della DC, e della sua natura di gruppo cattolico come già stabilita nel precedente Congresso di Firenze, attraverso il centro sinistra che allargasse ai socialisti – tro-vò immediato riscontro in alcuni fatti dei mesi successivi. Prima il governo (contrari tutti gli altri) varò una nuova legge sulla censura che non innovava niente per cinema, varietà e televisione, ripercorrendo i

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soliti sentieri del comune senso del pudore ed altri ammennicoli cari al mondo cattolico. Poi vi fu un vero e proprio scontro, nella DC e nel centro sinistra, in occasione della elezione di nuovo Presidente del-la Repubblica. Con diplomazia ma determinazione Moro e il gruppo doroteo respinsero il tentativo di Fanfani, e di molti franchi tiratori in diverse votazioni, per impedire l’elezione del candidato scelto dalla DC, l’on. Antonio Segni, e favorire un accordo con i partiti del cen-tro sinistra trainante anche il PCI. Per raggiungere lo scopo, Moro fece presente come fosse essenziale far passare le scelte del partito ed adottò uno slogan sintomatico, eleggendo Segni il centro sinistra resta vivo, se Segni è sconfitto il centro sinistra è morto. Naturalmente ciò indispettì moltissimo gli altri tre partiti di centro sinistra, ma Moro fu irremovibile. Alla fine Segni prevalse con una quindicina di voti più del quorum, con l’apporto determinante dei liberali e delle destre (29 voti i liberali e un’altra sessantina gli altri). Infine, qualche tempo dopo venne varata la legge per la nazionalizzazione dell’energia elettrica. A parte la controversa impostazione monopolista voluta dai socialisti come simbolo, essa fornì ai tradizionali ambienti imprenditoriali cui facevano capo le società nazionalizzate, una disponibilità di somme liquide all’epoca colossali. Queste somme colossali, nella ampia di-sattenzione per i meccanismi del mercato e per le sue regole aperte, negli anni successivi furono lo spunto per dar vita ad operazioni poco legate a settori produttivi e sempre più spericolate, in pratica avviando l’attitudine alle scorrerie finanziarie sotto l’ombrello delle protezioni politiche. In tutto questo, i problemi Stato religioni apparivano del tutto marginali nel dibattito politico corrente.

Ad ottobre 1962, poi, si aprirono i lavori del Concilio Vaticano II con una significativa allocuzione di Giovanni XXIII. Disse che il Con-cilio “si è proposto di riaffermare ancora una volta il Magistero Eccle-siastico, che non viene mai meno e perdura sino alla fine dei tempi… ed irradiare per ogni dove la luce della verità, indirizzando sulla via giusta la vita dei singoli, della convivenza domestica e della società”, E fece una notazione rilevante. “Alcuni, sebbene accesi di zelo per la religione, valu-tano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa… A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti

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profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo… Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più ef-ficace. La Chiesa non è rimasta indifferente a quelle meravigliose scoperte dell’umano ingegno ed a quel progresso delle idee di cui oggi godiamo; ma, seguendo con vigile cura questi fatti, non cessa di ammonire gli uomi-ni perché, al di sopra dell’attrattiva delle realtà visibili, volgano gli occhi a Dio, fonte di ogni sapienza e di ogni bellezza… Occorre che questa dottri-na certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella no-stra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione… Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore… esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando”.

Da questo discorso emerge l’idea innovativa di Chiesa intesa quale istituzione impegnata a dare alla dottrina cristiana forme adeguate ai tempi senza aver nostalgie del passato. Ed inoltre dedita a praticare il comprendere più che il punire. Del resto Giovanni XXIII era un uomo che veniva dalla tradizione ma non un uomo del tradizionalismo, tanto che innovò in vari campi tra cui importante quello del rapporto con le questioni ebraiche, avviando il maggior processo di riavvicinamento fra Roma cristiana e Gerusalemme ebraica in quasi duemila anni. In questo spirito si misero in moto i lavori del Concilio. Che poi avran-no pochi mesi dopo, ulteriore sollecitazione dall’ultima enciclica di Giovanni XXIII, la Pacem in terris, rivolta a tutti gli uomini di buona volontà, in cui si pone la pace nella sua visuale complessiva poggiata su quattro pilastri, la verità, la giustizia, la libertà, l’amore. I lavori del Concilio avranno ben poca eco immediata nel dibattito politico italia-no, in quei mesi centrato in generale sulla preparazione delle oramai prossime elezioni nazionali (con Moro impegnatissimo a limitare il più possibile le preoccupazioni dell’apertura ai socialisti presso l’elettora-to dc) e in particolare sulla istituzione della scuola media unica, cui i socialisti attribuivano il valore di ideale egualitario realizzato, tra-scurando i non indifferenti problemi formativi insorgenti. Vi poi era sostanziale convergenza dei partiti di centro sinistra e dei liberali su un importante problema di politica europea (le critiche al presidente fran-cese, De Gaulle, per l’opposizione all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Economica Europea, ed il rifiuto della forza nucleare Nato). Ma il nodo delle questioni italiane era sul da chi far governare

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il paese, più che sul come governarlo. Così dominava il rapporto tra DC e PCI. Con la DC che rivendicava di essere l’architrave della de-mocrazia italiana e di rappresentare l’intera società. Con Togliatti che continuava il corteggiamento delle masse cattoliche: “l’aspirazione a una società socialista non solo può farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma tale aspirazione può trovare uno stimolo nella coscienza religiosa stessa”. Con il PLI che continuava a battersi da una parte con-tro la grande destra e dall’altra contro l’apertura a sinistra, vista come pericoloso trascurare le ragioni politico culturali delle impossibilità di governare un paese libero con l’ideologia marxista e con i riferimenti all’Unione Sovietica.

A fine aprile 1963, i risultati elettorali furono netti. Alla Camera, un milione e duecentomila voti in più e raddoppio del PLI, che arrivò al 7,1%, un milione di voti in più al PCI (+2,5%), aumento del 1,5% del PSDI, stabili il PSI e il PRI, lieve aumento MSI (+ 3 seggi), sette-centomila voti in meno alla DC (-4%) e crollo dei Monarchici unificati (meno 17 deputati). Il mondo vaticano ne fu profondamente turbato. Civiltà Cattolica, che poco prima aveva già scritto che “un cattolico, nell’organizzazione della vita politica, sociale ed economica, non può prescindere dal dogma”, commentò sconsolata “se nonostante i ripetu-ti avvertimenti della Chiesa un quarto dell’elettorato italiano aderisce apertamente ad una dottrina e ad un partito da essa condannati, è segno che l’Italia sta attraversando una profonda crisi religiosa”. La Radio Va-ticana, dal canto suo, in non dichiarata polemica con tutta una serie di ambienti preoccupati solo a farsi vedere più potenti, disse che “il comunismo avanza dovunque viene meno la battaglia ideologica”.

11. Il centro sinistra, il dibattito sul Concordatoe la legge sul divorzio

Il dopo elezioni fu caratterizzato soprattutto dalle forti tensioni nel PSI, molto deluso per i risultati. Al punto che, pur essendoci sulla car-ta una robusta maggioranza per il centro sinistra (quella centrista clas-sica c’era ma assai più ristretta), il Comitato Centrale del PSI respinse l’accordo per il primo quadripartito organico di centro sinistra che le delegazioni dei partiti avevano formalmente raggiunto. In sostanza perché Moro aveva posto la condizione della maggioranza delimitata, e cioè che il governo si sarebbe dimesso in caso di appoggio da parte del PCI. A quel punto la DC ripiegò ancora una volta sulla formula di un proprio monocolore, Presidente del Consiglio il Presidente in cari-

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ca della Camera, Giovanni Leone, che avrebbe dovuto far maturare le cose non intaccando la gestione imperniata sulla DC. Il governo passò ma non riuscirono le forti pressioni per indurre al voto anche la ses-santina di deputati e di senatori del PLI (pressioni che riuscirono con i monarchici e con gli altoatesini). Comprensibile, visto che la bandiera di Malagodi era stata l’alternativa liberale e che sarebbe stato assurdo chiudere la ribellione anti dc e ricominciare i tira e molla parlamentari all’indomani della chiarissima indicazione degli elettori che avevano bocciato l’approccio dell’attivismo centralista democristiano incarna-to da Fanfani (per il PLI i problemi nasceranno negli anni successi-vi, quando non riuscì a liberarsi della ambiguità insita nella formula dell’alternativa, se l’alternativa era al modo di governare della DC op-pure alla presenza del PSI). In ogni caso, la linea della DC suscitò le vibrate proteste del PCI che lanciò la campagna per “battere il piano moro-doroteo” dell’anticomunismo, e per realizzare una “azione unita-ria con il Psi e le altre forze della sinistra cattolica e laica”.

Nelle medesime settimane del giugno scomparve Giovanni XXIII da tempo malato. Rapidamente il Conclave elesse nuovo Papa il car-dinale Giovanni Battista Montini, che assunse il nome di Paolo VI. Il Concilio aveva già concluso la sua prima fase e si stava preparando alla seconda. Naturalmente vi erano quelli che auspicavano il rinvio della nuova fase ed altri che temevano tale eventualità. Nemmeno una settimana dopo l’elezione, Paolo VI fissò per fine settembre l’avvio del secondo periodo del Concilio. Ancora poche settimane e affermò “la sollecitudine pastorale mostrata dalla Chiesa non significa cambiamento di giudizio circa errori diffusi nella nostra società, e già dalla Chiesa con-dannati, come il marxismo ateo… Cercare di applicare rimedi salutari e premurosi ad una malattia contagiosa e letale non significa mutare opi-nione su di essa, sibbene significa cercare di combatterla non solo teorica-mente ma praticamente”.

Verso fine estate ’63, vi fu un’importante intervista su La Nazione a Togliatti, in cui lui ribadì alcune valutazioni politiche emblematiche sui rapporti con i cattolici: “fra cinquant’anni il mondo sarà dominato da noi e dai cattolici. Certo, troveremo i punti per una collaborazione reciproca… Non c’è proprio nulla nella dottrina cattolica che respinga un indirizzo sociale e politico guidato da un’economia programmata… E la nostra concezione, per cui nella società sia il collettivo degli uomini a detenere la direzione, perché dovrebbe essere ostacolata dai cattolici? Sì, per loro, a un certo punto interviene la Grazia, questo imponderabile e non storico elemento; ma anzi, sul piano dell’azione pratica, deve essere un incentivo per i veri cattolici a ottenere quella che noi e loro riteniamo

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una maggiore giustizia”. Parole che la dicono lunga sulla sorta di invasa-mento strumentale che avvinghiava i marxisti in politica. Il mondo cat-tolico era ritenuto come tale l’alleato naturale e predestinato, del tutto prima di aver trovato le cose da fare insieme. Poche settimane dopo Togliatti, quasi per favorire questa convinzione svincolando le due forze dai condizionamenti del rapporto con realtà esterne, propose il finanziamento pubblico dei partiti e il Presidente del Consiglio, noto giurista cattolico, si affrettò a commentare l’idea come “perfettamente morale” per contrastare il ricorso a fonti occulte di finanziamento. Il che era una considerazione fondata, se non fosse che la via del finan-ziamento pubblico non avrebbe risolto la questione dei finanziamenti occulti (che appartiene ad un’altra dinamica) ed avrebbe attivato una distorta funzione burocratica degli stessi partiti (conseguenza negativa che i fatti successivi hanno comprovato in modo indiscutibile).

Nel tardo autunno, dopo due mesi di lavori, si concluse la seconda fase del Concilio iniziata a fine settembre. E il Papa emanò come Co-stituzione Apostolica la prima delle costituzioni approvate dal Con-cilio, la Sacrosanctum Concilium, principalmente attinente la nuova liturgia della Chiesa. Fu sancito il principio della partecipazione dei fedeli e introdotto il sistema dei Sacramenti celebrati nella lingua na-zionale così da concretizzare quella partecipazione (per lo stesso moti-vo si arriverà poi al sacerdote celebrante rivolto verso i fedeli e non più verso il crocifisso). Insieme il Papa emanò anche il primo dei Decreti del Concilio, Inter mirifica, che riguardava i mezzi di comunicazione di massa. Problematiche esaminate sotto il profilo della dottrina della Chiesa e sotto quello della loro importanza nello svolgersi dell’azione pastorale.

Quasi in contemporanea, a qualche settimana dallo svolgimento del Congresso Nazionale del PSI che aveva dato la vittoria alla com-ponente autonomista di Nenni alleato con altri gruppi (come quelli di Riccardo Lombardi e di De Martino, politicamente più ideologizzati e quindi anticomunisti, però fautori di scelte programmatiche in di-versi sensi più improntate al marxismo), si crearono le condizioni per il primo governo organico di centro sinistra presieduto dall’on. Moro. L’Avanti lo salutò con il titolo “da oggi ognuno è più libero” e tempo dopo scrisse “i poteri di decisione economica finora detenuti dalle clas-si imprenditoriali e capitaliste sono trasferiti in mano pubblica”, parole emblematiche dell’enfasi fuori del tempo del mondo socialista orga-nizzato. In ogni caso, tranquillo sul piano dei numeri stante la grande maggioranza, il governo ebbe forti giudizi negativi dall’interno della sua coalizione. Però con significativi esiti diversi.

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Nel PSI larga parte della minoranza (decine di parlamentari) si al-lontanò dall’aula al momento del voto. Atto che avviò il processo di scissione e, poche settimane dopo, la nascita del PSIUP, socialisti di Unità Proletaria (Nenni commentò sull’Avanti che il PSIUP non aveva prospettive perchè era infondato il sospetto che il PSI “abbandonasse l’opposizione alla società borghese e capitalistica”, ci risiamo con l’enfa-si). Nella DC i centristi popolari dell’on. Scelba (che solo alla Camera erano una trentina) dichiararono che non avrebbero votato il governo per la presenza socialista disgiunta dal verificarsi di adeguati chiari-menti sulla questione dei comunisti. Il giorno dopo, tuttavia, furono attaccati duramente dall’Osservatore Romano che contestò il loro at-teggiamento poiché “ogni indebolimento del partito cui va il suffragio dei cattolici italiani rafforza, non indebolisce, gli avversari dell’ordine de-mocratico… In Italia per il partito dei cattolici e per la democrazia stessa l’alternativa è unica: o uniti o sconfitti”. Scelba con i suoi obbedirono al richiamo. Episodio illuminante per constatare l’infondatezza di tutte quelle vulgate secondo cui la Chiesa si oppose all’apertura ai socialisti. La Chiesa, come sempre, ne faceva un problema di creare le condizioni migliori per svolgere la propria missione religiosa. Secondo lei, l’unità dei cattolici era la prima.

L’on. Moro restò poi Presidente del Consiglio per quattro anni e mezzo con tre suoi diversi governi (mentre alla segreteria DC l’ave-va sostituito l’on. Mariano Rumor anche lui rimasto fino alle elezioni del 1968). Furono tutti governi di centro sinistra, eppure il periodo fu obiettivamente l’apice della gestione democratico conservatrice delle istituzioni. Nei vari campi, economico, sociale, scolastico, religioso, si seguirono approcci non dinamici e si finì spesso per compiere scelte in chiave illiberale. Anche perché il miracolo economico del decennio precedente aveva attivato nella popolazione delle attese di maggiore attenzione alle libertà effettive dei cittadini cui non era seguita una effettiva azione riformatrice.

All’inizio di quel 1964, la situazione economico sociale del paese era sempre più immersa in una congiuntura economica assai difficile, che aveva origine appunto in strutture e rapporti di lavoro obsoleti. Vi contribuivano più fattori. L’azione comunista che cavalcava in modo disinvolto le rivendicazioni di tutti i corporativismi e delle varie atte-se sociali frustrate; il disegno democristiano di mantenere in sostanza intatta la propria centralità quale fulcro della gestione democratica; la volontà degli ambienti economici del paese di difendersi dalla linea sindacale della lotta di classe anche attraverso un appoggio finanziario poco dissimulato all’estrema destra. Paolo VI iniziò ad esprimere la

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sua personalità in termini più culturalmente raffinati del predecessore ma anche più dilaniati da sofferte spinte operative divergenti. Uguale però era la conferma della tradizione della Chiesa e la necessità, scrive-va, di “preservare la fede del popolo italiano, minacciata dalla evoluzione stessa della vita moderna e direttamente dal laicismo e dal comunismo”. Questi cenni furono rapidamente colti da Moro, che li adattò alle sue esigenze più immediate e cominciò a mettere sullo stesso piano l’op-posizione del PCI e quella del PLI. Posizione diversa dalla sua tradi-zionale (sullo stesso piano erano PCI e MSI), ma che per lui era utile allo stesso scopo. Non affrontare la questione politica dei meccanismi di riforma necessari per il paese e poter restare di fatto ostile al farli. Del resto, dalla sinistra, nel PCI e nei gruppi fuori del parlamento, si proponevano i rimedi dell’ideologia marxista, vecchi e peggiori del male, e si aborriva ogni ricetta liberale. Questa politica influenzava poi il PSI e anche i conservatori, spinti così a restare aggrappati all’esi-stente come miglior garanzia contro il totalitarismo e le innovazioni irrispettose della autorità.

Stavano venendo al pettine i frutti dell’aver spostato l’attenzione per anni sul tema dell’apertura a sinistra, che era stato assorbente so-prattutto nel mondo cattolico e non poco depistante. Era maturato come una mossa di schieramento per puntellare il potere e quindi era necessariamente divenuto del tutto disattento al come articolare quelle concrete riforme che avrebbero potuto dare un significato innovativo all’apertura. Si era pensato e si continuava a ragionare in termini di potentati politici o rivolti a conservare sé stessi oppure portatori di teorie obsolete (che si supponeva avrebbero infiammato il popolo dei lavoratori). Agevolati in questo dalla borghesia, la quale, tendendo a non decidere sulla base dei principi di costruzione ma essenzialmente solo su quelli di convenienza, non riesce poi a giudicarne gli effetti. Il mantra dell’incontro delle masse cattoliche e marxiste – che era stato il cavallo di battaglia di Togliatti all’epoca della Costituente, che aveva portato all’articolo 7 della Costituzione e che veniva ripetuto esplici-tamente in quei mesi – era assai radicato nel PCI, nei gruppi attigui della sinistra alto borghese e in una certa base intellettuale (al punto da non essersi in fondo conclusa neppur oggi, nonostante alcune sue mutazioni superficiali nel tentativo di nascondere le continua smentite nel riscontro dei fatti).

Tra l’altro, le esigenze del centro sinistra e quelle del come rappor-tarsi tra Stato e Chiesa, erano in conflitto e provocarono molti contra-sti e tensioni. La DC, proprio perché dava al centro sinistra il senso di un’operazione strumentale di allargamento a sinistra, non voleva

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cedere molto spazio al PSI, sui programmi o nella gestione. Così, la guerriglia parlamentare sul terreno dei rapporti tra istituti pubblici e interessi ecclesiastici, appariva al PSI assai adatta per mantenere viva la posizione di autonomia del socialismo e insieme rispondere alle esi-genze di una parte crescente dell’opinione pubblica. Esigenze sia nei confronti dell’opposizione del PCI, che non poteva sottrarsi alle pole-miche con la Chiesa, sia nei confronti della DC, che non poteva non restare contigua alla gerarchia. L’episodio forse più clamoroso della guerriglia fu che il primo governo Moro cadde nel giugno 1964 bat-tuto sui finanziamenti alla scuola privata (per la quasi totalità di tipo cattolico). Il conseguente svilupparsi della crisi e l’approdo al secondo governo Moro divennero poi occasione di uno scontro di fatto con il Presidente Segni sulla prospettiva di dar spazio nel centro sinistra a tecnici e a strutture dello stato, anche militari. I primi di agosto vi fu un burrascoso (e controverso) incontro al Quirinale presenti Moro e Saragat, in cui Segni ebbe un ictus, dal quale non si riprese mai bene e che quattro mesi dopo lo portò alle dimissioni (e come successore, contro Leone, candidato ufficiale di una DC molto divisa, prevalse Sa-ragat, al 21° scrutinio con l’appoggio anche del PCI che vi colse un’oc-casione di grande ripresa d’iniziativa delle forze socialiste).

In quei giorni di agosto ’64, Paolo VI pubblicò la sua prima encicli-ca, Ecclesiam suam. Fu una sorta di indicazione sulle attese auspicabili per i successivi lavori del Concilio (“non è nostra ambizione dire cose nuove né complete; il Concilio Ecumenico è là per questo”), su quali fossero le intenzioni dottrinali del pontificato, a partire dalla maggio-re attenzione alle problematiche del mondo moderno (“Il fascino della vita profana oggi è potentissimo. Il conformismo sembra a molti fatale e sapiente. Chi non è ben radicato nella fede e nella pratica della legge ecclesiastica pensa facilmente essere venuto il momento di adattarsi alla concezione profana della vita, come se questa fosse la migliore… non è forse vero che spesso qualche zelante Religioso guidato dalla buona in-tenzione di penetrare nelle masse popolari o in ceti particolari cerca di confondersi con essi invece di distinguersi, rinunciando con inutile mi-metismo all’efficacia genuina del suo apostolato?… Il grande principio, nunciato da Cristo, si ripresenta nella sua attualità e nella sua difficoltà: essere nel mondo, ma non del mondo”), ai rapporti di dialogo con le diverse realtà, da quella degli atei che negano Dio (“ancor prima di con-vertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli… La Chiesa avverte la sbalorditiva novità del tempo moderno; ma con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate. Non promette così la felicità terrena,

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ma offre qualche cosa  –  la sua luce, la sua grazia  –  per poterla, come meglio possibile, conseguire; e poi parla agli uomini del loro trascendente destino…), a quella dei credenti in Dio (“alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento; e poi agli adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella musulmana special-mente, meritevoli di ammirazione per quanto nel loro culto di Dio vi è di vero e di buono; e poi ancora i seguaci delle grandi religioni afroasiatiche. Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni re-ligiose… ma non vogliamo rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane”) e infine ai Cristiani fratelli separati.

La lettura dell’enciclica Ecclesiam Suam, ancor più se integrale, fa emergere in sostanza che l’occasione del Concilio fosse dare alla dot-trina della Chiesa strumenti adeguati ai tempi per meglio dialogare e per trasmettere la parola di Cristo. Vale a dire dar più forza ai principi religiosi, non cambiarli (lo vedremo più a fondo nella seconda parte).

Il successivo novembre ’64 il Papa emanò (insieme a due altri De-creti, uno sull’ecumenismo ed uno sulle chiese orientali) la seconda delle Costituzioni del Concilio, la Lumen Gentium, con cui rivide a fondo, nell’inquadrare il popolo di Dio, la concezione stessa della ge-rarchia nella Chiesa ed il ruolo di rilievo dei fedeli che non apparten-gono ad un ordine religioso. In particolare, compie un’ampia digres-sione su cosa sono e quale ruolo abbiano questi fedeli chiamati “laici”, che ritengo sia centrale nell’economia di questo libro (per questo la riprenderò in modo specifico nella seconda parte) al fine di capire le differenze della logica concordataria con il separatismo. Qui basti ri-cordare che la Lumen Gentium ribadisce come “la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è co-stituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. La Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione”. Ad un’udienza generale di oltre quattro anni dopo Pa-olo VI riassumerà ancora il concetto dicendo “se la Chiesa, da un lato, si distingue dalla società temporale per la definizione originale della sua specifica natura religiosa e spirituale, dall’altro avverte di essere in mezzo agli uomini e per gli uomini, non per dominarli, ma per evangelizzarli”.

Il dibattito politico riservava scarsissima attenzione alle proble-matiche del Concilio e restava centrato sulla questione della formu-la di centro sinistra, sulle varie scadenze elettorali e, crescentemente,

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sull’argomento della possibile unificazione socialista e sulle operazioni degli USA in Vietnam. Quasi in un angolo si parlava anche dei riflessi sulla Comunità Europea della accesa disputa tra il generale De Gaulle e gli americani. Questa disputa portò all’episodio della non partecipa-zione della Francia al Consiglio CEE, assenza che non venne ritenuta inficiare la validità della riunione, facendo così compiere un ulteriore passo verso un’Europa che fosse qualcosa di più di una semplice con-ferenza tra Stati. Poi c’era la CGIL che attaccava la politica dei redditi del governo in quanto politica di subordinazione sindacale alle scelte del governo. Nel PSI vi erano divisioni molto accentuate sulla perma-nenza al governo di centro sinistra (i contrari erano intorno al 40%) ma le divisioni sparivano quando si trattava di approvare mozioni di condanna della presenza USA in Vietnam. E riprendevano quando si parlava dell’unificazione, avversata in particolare dai socialisti che erano dirigenti della CGIL. Naturalmente facevano capolino anche le problematiche separatiste del rapporto tra Stato e religioni, perché, essendo cosa reale, non erano eliminabili. E così ci furono polemi-che quando venne fuori che il governo Leone aveva di fatto accolto le richieste del Vaticano di non far pagare ai suoi enti l’imposta sugli utili distribuiti dalle società di capitali. Altre polemiche perché Nenni era andato in visita privata dal Papa e l’Avanti aveva salutato come un segno dei tempi l’udienza data per la prima volta ad un socialista (la precedente visita del Presidente Saragat era stata protocollare). Del re-sto, in generale, permanevano sì diverse dissonanze tra lo spirito costi-tuzionale e certe norme, ad esempio del codice penale, come quelle sul vilipendio della religione cattolica, vecchio retaggio del concetto di re-ligione di Stato, che confliggevano con la logica di libertà di religione. Eppure anche in quel periodo vi fu una conferma di costituzionalità da parte della Suprema Corte distinguendo tra la libertà di professare qualsiasi religione riconosciuta ad ogni cittadino e l’offesa recata al sentimento religioso prevalente tra gli italiani.

La discussione sul Concordato continuava lo stesso a serpeggia-re sullo sfondo. Il fatto più rilevante non divenne noto a quell’epoca, emerse successivamente e risulta dai diari di Nenni. Nell’udienza pri-vata dal Papa, il leader socialista (che peraltro era il vice presidente del Consiglio in carica) si sentì dire da Paolo VI che “la Chiesa non aveva motivo di opporsi alla revisione del Concordato” e addirittura “possia-mo regalarvi i preti spretati” (con evidente riferimento alla dissonanza Costituzione e articolo 5 del Concordato, scoppiata sul caso Bonaiuti). Pare evidente che questa dichiarata disponibilità papale è alla base della successiva fase di trattative sulla revisione, che sarà lunghissima.

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Ed è un fatto che la disponibilità fu il Vaticano ad averla, il che è una conferma della mancanza strategica in proposito dello Stato. A par-te questo fatto rilevante, il tema Concordato serpeggiava in dibattiti e convegni, come la tavola rotonda su “Revisione o abrogazione del Concordato?” tra esponenti laici e comunisti, a fine aprile 1965. Le posizioni furono differenti, da Ernesto Rossi che ammoniva “la revi-sione non fa altro che indebolire lo Stato” al repubblicano Biasini che sosteneva la revisione. La cosa più evidente era che non vi era attenzio-ne alla necessità di partire da una politica di separazione, che sareb-be stata la premessa necessaria per sciogliere il nodo. Tanto che uno degli interlocutori era il senatore comunista Perna, il quale difendeva imperterrito l’introduzione dell’articolo 7 in Costituzione, nonostante le critiche degli altri oratori. Il dato allora più in vista, anche se nazio-nalmente meno percepito stante il clima predominante di tematiche del solito tipo – centro sinistra sì, centro sinistra no, clericali e anticle-ricali, comunisti e anticomunisti – fu la posizione di una importante rivista veneta, Questitalia, diretta dal trentottenne Wladimiro Dorigo e da un gruppo di altri cattolici in genere tutti provenienti dalla Azio-ne Cattolica e dalla DC, che pure non vollero mai definirla cattoli-ca. Questitalia pubblicò in quella primavera ’65 un numero dedicato ai rapporti tra Stato e Chiesa, e, dando una certa lettura dei lavori conciliari, assunse al riguardo una posizione nettamente separatista. La prospettiva della separazione doveva essere quella in cui utilizzare anche la via della revisione del Concordato, pur con i rischi che una discussione non pubblica potesse rivitalizzarlo. Questitalia scrisse che, seguendo quanto prevedeva la Lumen Gentium, la revisione avrebbe attivato “una liberazione di opinioni di credenti laici all’interno della nostra società religiosa”.

In prima fila del dibattito politico corrente, restavano in ogni modo le questioni dell’unificazione socialista, con il primo comitato ufficiale di PSI e PSDI per prepararla (riuscì a far nascere un anno e mezzo dopo il Partito Socialista Unificato ma non ad andare oltre una federazione tra gli organi dirigenti ad ogni livello), le tensioni nel governo per la ri-chiesta dei repubblicani di affrontare i problemi dei costi dell’apparato statale, che frenavano lo sviluppo, e poi le polemiche sul fatto che la legge sulle pensioni voluta dal governo aveva raccolto anche i voti del PLI. Un nuovo clamoroso episodio del dilagare dello strapotere demo-cristiano, al di là delle stesse funzioni politiche esercitate, fu la riunione delle Camere in seduta comune, per la prima volta nella Repubblica. Si doveva decidere sul rinvio a giudizio presso la Corte Costituzionale dell’ex ministro delle Finanze, il sen. Trabucchi, per aver concesso li-

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cenze d’importazione di tabacco a due privati (ex deputati DC) in cam-bio di versamenti alla Democrazia cristiana. Il documento per il rinvio a giudizio prevalse (461 voti contro 440 a scrutinio segreto) ma non risultò approvato mancando la maggioranza assoluta dei componenti il Parlamento (476, quota che pure era stata raggiunta quanto a firme a favore della discussione in seduta comune) prevista dal regolamento, regolamento che il liberale Bozzi mostrò non corrispondere alla logica costituzionale. Anche perché gli argomenti a difesa usati dallo stesso Trabucchi (secondo lui il ministro, in determinate circostanze di inte-resse pubblico, può violare la legge o andare oltre la legge, specie non per vantaggi personali ma per valutazioni di partito) erano tipici di una concezione di potere personale rientrante in quella di diritto naturale cara alla DC. Dato di fatto confermato dai commenti DC all’indomani, che parlarono apertamente di vittoria, chiaramente anteponendo gli interessi di partito alle esigenze di chiarezza della convivenza.

A metà settembre 1965 si aprirono i lavori della sessione conclusiva del Concilio Vaticano II. In nemmeno tre mesi, si arrivò a pubblicare tre dichiarazioni (in particolare una, la Dignitatis Humanae, sulla li-bertà religiosa), altri sei Decreti (in uno dei quali, il Christus Dominus, si introduceva la regola delle dimissioni dei pastori a 75 anni) e due Costituzioni, una Dogmatica ed una Pastorale. Della Dignitatis Huma-nae approfondirò nella seconda parte. Qui mi limito a dire – premes-so che si tratta di una dichiarazione importante, da leggere tenendo come base le strutture generali dell’edificio dottrinale ed in particolare quelle delle Costituzioni conciliari – che la Dignitatis Humanae rappre-sentò un rilevante cambiamento interno alla gerarchia e ai fedeli circa il modo di intendere la libertà di religione, anche del mutare culto. Ma non va trascurato che mantenne invariato il fine della libertà di religione: consentire un miglior esercizio del proselitismo alla Chiesa e al popolo di Dio. Delle Costituzioni, quella dogmatica, Dei Verbum, è un pilastro dottrinale religioso, che ebbe una elaborazione contra-stata. Nei suoi capitoli sulla Rivelazione, sulla trasmissione della Divi-na Rivelazione sull’interpretazione della Sacra Scrittura, sul Vecchio Testamento, sul Nuovo Testamento, sulla vita della Chiesa, formula l’auspicio che “con la lettura e lo studio dei sacri libri « la parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata» e il tesoro della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini”. In pratica esalta la convinzione del credente che la fede è una grande grazia e che al-trettanto lo è il poterla donare agli altri mostrando che il cristianesimo è speranza e gioia di vivere. Dunque è essenziale lo studio della parola di Dio a cominciare da quello della Bibbia.

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93Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

La quarta Costituzione è la Pastorale Gaudium et Spes. Si definisce una Pastorale “Sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”, un tutto uni-tario di due parti. Espone l’atteggiamento della Chiesa verso l’attuali-tà del mondo e degli uomini. Nella prima parte la Chiesa sviluppa la sua dottrina nel rapporto con queste realtà. Nella seconda considera più da vicino i diversi aspetti della vita odierna e della società uma-na, in particolare i problemi al tempo più urgenti. In questa seconda parte vi erano elementi non solo immutabili ma anche contingenti. Perciò la Gaudium et Spes dev’essere interpretata secondo le norme generali teologiche ma pure secondo le mutevoli circostanze connesse per natura agli argomenti trattati. L’obiettivo era quello di ristabilire fecondi legami con gli uomini e le donne di buona volontà, nell’im-pegno comune per i grandi valori religiosi, lasciando da parte alcuni argomenti, tra i quali quelli della procreazione umana che richiede-vano, per espressa notazione, altre diligenti ricerche. “La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana”. Infine il richiamo conclusivo: “La Chiesa, in for-za della missione che ha di illuminare tutto il mondo con il messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini di qualunque nazione, razza e civiltà, diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo”.

Questo del dialogo era un punto essenziale per la Chiesa e l’obiet-tivo di fondo del robusto impegno di tutto il Concilio. L’ampiezza e la durata dei lavori, il numero delle persone coinvolte, testimoniava-no che la Chiesa intendeva procedere lungo la prospettiva spalancata con il papato di Giovanni XXIII, preservare il vissuto religioso più che praticare il temporalismo. In tale prospettiva, indotta anche dalla realtà del declino della fede tra la gente, la Chiesa aveva la necessità di aprirsi per parlare ai non credenti e dialogare sulle ragioni permanenti della fede. Come dichiarò lo stesso Paolo VI in una intervista a Caval-lari sul Corriere della Sera, “accanto a una crisi della fede del mondo non c’è per fortuna una crisi della Chiesa… Nel Concilio, lo stesso formarsi di due parti, progressisti e non progressisti, non implica mai il problema della fedeltà”. Un atteggiamento del genere creò molta attenzione in ogni ambito ma suscitò anche interpretazioni del tutto forzate sia nei tradizionalisti cattolici sia nel mondo del progressismo della sinistra e di quello consociativo. I primi scandalizzandosene, i secondi ralle-grandosene, cercavano di far dire al Concilio quello che non aveva detto e tanto meno fatto, l’abbandono di secoli di dottrina cattolica.

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Tanto che nel primo anniversario della chiusura del Concilio, Paolo VI affermò due doveri nei confronti del Concilio Vaticano II. Il primo dovere era di riconoscenza verso quello che aveva dato il Concilio. E aggiunse: “Un secondo dovere succede a quello della riconoscenza, ed anche questo subito noi promettiamo di compiere; ed è la fedeltà al Con-cilio. Esso ci impegna. Dobbiamo comprenderlo; dobbiamo seguirlo. E, professando questo proposito di fedeltà a quanto il Concilio c’insegna e ci prescrive, sembra a Noi doversi evitare due possibili errori: primo quello di supporre che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch’esso sia tale novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseu-do-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato, e perciò consenta di proporre al dogma cattolico nuove e arbi-trarie interpretazioni, spesso mutuate fuori dell’ortodossia irrinunciabile, e di offrire al costume cattolico nuove ed intemperanti espressioni, spesso mutuate dallo spirito del mondo; ciò non sarebbe conforme alla definizio-ne storica e allo spirito autentico del Concilio, quale lo presagì Papa Gio-vanni XXIII. Il Concilio” tanto vale quanto continua la vita della Chiesa; esso non la interrompe, non la deforma, non la inventa; ma la conferma, la sviluppa, la perfeziona, la aggiorna. E altro errore, contrario alla fedel-tà che dobbiamo al Concilio, sarebbe quello di disconoscere l’immensa ricchezza di insegnamenti e la provvidenziale fecondità rinnovatrice che dal Concilio stesso ci viene. Volentieri dobbiamo attribuire ad esso virtù di principio, piuttosto che compito di conclusione; perché, se è vero ch’es-so storicamente e materialmente si pone come epilogo complementare e logico del Concilio Ecumenico Vaticano Primo, in realtà esso rappresenta altresì un atto nuovo e originale di coscienza e di vita della Chiesa di Dio”.

L’idea di continuità religiosa – una professione fatta dal Papa e non legata alla sua persona nel senso che sarà confermata senza interruzio-ne fino ad oggi dai suoi successori, tutti singoli Padri Conciliari – fu rifiutata, in vario modo e per ragioni diverse, da larga parte del mondo politico culturale italiano. Pensava di piegare il Concilio alle proprie convenienze. Già Togliatti, nell’intervista dell’agosto 1963 citata sopra, aveva sostenuto “il fenomeno giovanneo ha creato un cattolicesimo re-sponsabile della politica, le premesse per una trasformazione del mondo”. Più che un giudizio di prospettiva, era stata la solita fissazione ideo-logica sull’incontro delle masse socialiste e cattoliche smentita dalla storia, allora e dopo. Analogo atteggiamento tennero i progressisti ita-liani all’indomani del Concilio, dando al Concilio un’interpretazione utile per le loro contingenti linee politiche. Che variavano dalle utopie

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della liberazione comunista, ad una sorta di assicurazione per il potere da parte dei cattolici del centro sinistra, alla speranza di trovare una Chiesa più disponibile coltivata da un altro mondo del centro sinistra, quello non cattolico. Tutte queste linee volevano poter leggere le novità del Concilio Vaticano II con lo schema angusto della politica italiana e solo raramente lo consideravano per quel che era, un grande sforzo spirituale per ridefinire nella modernità le vie della fede.

La pubblicistica della sinistra, marxista e cattolica, ne dava una lettura quale inizio di transizione ai valori della solidarietà sociale fondato sull’autonomia dalla pratica religiosa, e dunque in direzione dell’utopia del socialismo. Al contrario, i conservatori e i reazionari la vedevano come un tentativo di rottura con la tradizione della Chiesa e dei valori morali di una società bene ordinata. Ambedue le tendenze inclinavano, anche se in modo opposto, a intendere il rapporto tra Sta-to e Chiesa come un qualcosa da superare per puntare ad una nuova conciliazione, così da dismettere definitivamente le logiche istituzio-nali liberali nate un secolo prima. Si ricordi che quelle logiche erano fisiologicamente evolutive, appunto per garantire le libere attività indi-viduali e associate (religiose incluse). Simili inclinazioni trascuravano che i mutamenti di rotta avviati dal papato di Giovanni XXIII – pre-servare il vissuto religioso più che riproporre il temporalismo – avreb-bero dovuto essere semmai l’occasione per cercare ulteriore alimento della strada separatista, che meglio avrebbe potuto svilupparli. È chia-ro che lo impedì la preclusione ideologica contro il metodo liberale.

La lotta politica quotidiana restava in ogni caso sugli altri temi or-mai tradizionali da tempo. Il governo di centro sinistra di continuo sottoposto a tensioni rilevanti, anche all’interno della DC. I socialisti impegnati in riforme che fossero incisive e ben visibili, soprattutto la programmazione economica, che cercavano di tenere distinta dalla logica della pianificazione, e la riforma sanitaria che voleva introdur-re il servizio nazionale al posto delle mutue. La riforma universitaria proposta dal Ministro Gui, che pure sollevava forti e diffuse proteste negli Atenei tra i professori e gli studenti. I liberali che si sforzavano di fare una nuova opposizione creatrice al centro sinistra ma che non riu-scivano a sciogliere il dilemma politico di fondo sulla natura di questa loro opposizione, se alla politica DC oppure alla presenza socialista. La guerra americana nel Vietnam che faceva parte dell’impegno dello Stato italiano contro il comunismo russo, ma che specie in Italia trova-va consistenti difficoltà di sostegno nella base cattolica. Tuttavia, per fortuna del paese, la società politica di parte laica, pur divisa in materia di schieramenti, cominciò a ritenere importante arginare l’ingerenza

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del conservatorismo confessionale. La rilevante novità fu che, pur con-tinuando a dibattere e a premere sull’argomento Concordato (l’acceso dilemma si limitava ad abrogazione o revisione), la parte laica rivolse l’attenzione – e poi la scelse come campo di scontro politico – ad una questione più circoscritta, ma più percepibile dall’opinione pubblica. In una società occidentale pareva insostenibile, a parte il punto di vi-sta religioso, mantenere la rigida concezione dell’indissolubilità del matrimonio. Una concezione che si ancorava non nella Costituzione (l’Assemblea Costituente aveva eliminato dal progetto di Costituzio-ne l’indissolubilità del matrimonio e, prima del voto, Dossetti aveva espressamente sostenuto che le norme interne del Trattato non sono costituzionalizzate) ma nell’interpretazione conservatrice della parte del Concordato relativa al matrimonio cattolico (con cui arbitraria-mente si pretendeva di attribuire alla trascrizione del matrimonio reli-gioso il valore di assoggettare il diritto dello Stato al diritto canonico mentre la trascrizione non poteva che essere la presa d’atto della cele-brazione, dopodiché i suoi effetti procedevano ciascuno per la propria strada, senza che vi fosse implicita accettazione del diritto canonico).

Il dibattito sulla possibilità di divorziare cominciò a radicarsi nell’opinione pubblica laica acquistando una qualche consistenza. Ben presto la cosa assunse un aspetto di rilievo politico non più trascu-rabile. Vi era stata l’iniziativa del deputato socialista Loris Fortuna (ottobre 1965), che fu meritoria ma che fu del tutto personale, tanto che per anni non venne appoggiata ufficialmente dal PSI. Il PSI era sempre dichiaratamente laico, ma, ormai legato alla real politik di cen-tro sinistra, era divenuto molto attento ad evitare quell’anticlericalismo che aveva cavalcato fino a pochi anni prima e dunque ad evitare anche i connessi argomenti sensibili per i cattolici (tanto che vi fu un accordo tra il Presidente del Consiglio Moro e il suo vice Nenni per non affron-tare il tema del divorzio in cambio di una rapida approvazione del pro-getto di riforma del diritto di famiglia predisposto dal Guardasigilli, il repubblicano Oronzo Reale). Il primo partito che, dopo qualche mese di dibattito interno avviato dall’iniziativa di Antonio Baslini (1966), decise ufficialmente di battersi per il divorzio fu il PLI. Il Consiglio Nazionale decise, il 2 luglio 1967, con una maggioranza superiore ai ¾, di impegnare i deputati liberali “a sostenere la introduzione dell’istituto del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano, sia per il matrimonio civile sia per gli effetti civili del matrimonio cosiddetto concordatario”. Questa posizione per oltre un anno di primo ed unico partito parla-mentare ufficialmente a favore del divorzio contribuì con forza alla crescita del processo di aggregazione sulla materia.

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La proposta Fortuna ebbe piuttosto l’effetto di smuovere le acque in tema di Concordato. La DC, forse sopravvalutando le proprie forze, volle che si dibattesse la sua costituzionalità in Commissione Affari Costituzionali. In quella sede l’on.  Bernardo Mattarella sostenne in modo esplicito che “la indissolubilità non è un effetto del matrimonio, ma è una sua caratteristica fondamentale. Non può, quindi, essere consi-derato tra gli effetti civili… Tra gli effetti civili non rientra la possibilità di divorzio”. Questa tesi era, in campo civile, la tipica fotocopia di una posizione del Vaticano in campo religioso. E, siccome in campo civile non è applicabile il criterio applicato in campo religioso, la tesi di Mat-tarella non resse. A gennaio 1967 la Commissione la bocciò e dichiarò che una proposta di divorzio non era di per sé incostituzionale. Pochi giorni dopo Paolo VI in persona espresse in pubblico, al Tribunale della Sacra Rota, le “dovute riserve” e commentò “Non vogliamo ta-cere la triste impressione che sempre Ci ha fatto la bramosia di coloro che aspirano a introdurre il divorzio nella legislazione e nel costume di Nazioni, che hanno la fortuna d’esserne immuni, quasi fosse disdoro non avere oggi tale istituzione, indice di perniciosa decadenza morale… Noi pensiamo che sia un vantaggio morale e sociale e sia un segno di civiltà superiore per un Popolo l’avere saldo, intatto e sacro l’istituto familiare”.

Posizione scontata dal punto di vista religioso. Cui, come prevedi-bile, gli esponenti della politica laica reagirono sul subito con un rifles-so condizionato di tipo anticlericale, confutando al Papa il diritto di sostenere le sue posizioni. Era tuttavia un fatto che l’Azione Cattolica cominciò a mobilitarsi a sostegno dell’indissolubilità del matrimonio. Tenne un grosso convegno presieduto da Vittorio Bachelet che si im-pegnò, con l’adesione di molti esponenti di primo piano del governo e della DC, a lavorare contro l’introduzione del divorzio in stretto rac-cordo tra cittadini credenti, religiosi e non.  Quanto al Papa, prose-guendo nel suo magistero, promulgò l’enciclica Populorum Progressio, con cui nel solco della Gaudium et Spes, affrontava i problemi sociali, della cooperazione e del sottosviluppo, criticando sia il capitalismo che il marxismo (gli ambienti della sinistra e quelli conservatori ten-devano, per opposti motivi, ad interpretarla in chiave di contingenza politica piuttosto che di dottrina religiosa). Fatto sta che questa diffici-le decifrabilità della posizione Papale in termini di politica mondana, contribuì a portare i laici di governo, forse ricordando anche le parole del Papa a Nenni, a prendere l’iniziativa del fare insistite pressioni sul Presidente del Consiglio perché della questione del Concordato, ormai ineludibile, si arrivasse a discuterne in sede parlamentare, nonostante le fortissime ritrosie DC.

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Occupandosi della materia Concordataria venti anni dopo l’arti-colo 7, il 5 ottobre 1967, la Camera votò a maggioranza una mozione DC–Socialisti–Repubblicani, su cui il governo Moro (il terzo) pose la fiducia. Fu una tipica mozione di una raffinata logica morotea per trattare il problema evitando di indicare un indirizzo di soluzione che andasse oltre l’ovvio (per il mondo conservatore era non ovvio trattare il problema). La mozione di poche righe “rilevata l’opportunità di ricon-siderare talune clausole del Concordato in rapporto alla evoluzione dei tempi ed allo sviluppo della vita democratica, invita il Governo a prospet-tare all’altra Parte Contraente tale opportunità in vista di raggiungere una valutazione comune in ordine alla revisione bilaterale di alcune norme del Concordato”. I reali umori profondi del gruppo DC in materia con-cordataria furono espressi a nome del gruppo dall’on.Gonella. Il quale identificò il separatismo con l’anticlericalismo (perché “la dottrina cat-tolica vuole la distinzione fra Stato e Chiesa; ma la distinzione non signi-fica separazione ; posso distinguere il diritto dal rovescio, ma non li posso separare”) ed equiparò il separatismo con il dimenticarsi della pace reli-giosa (attaccando Malagodi perché aveva detto che i rapporti tra Stato e Chiesa sarebbero stati pacifici anche senza i Patti Lateranensi perché la pacificazione era già consacrata nello spirito degli italiani). Soprattutto replicò stizzito a Basso e Malagodi che avevano fatto riferimento all’esi-genza politica di tener conto dello spirito nuovo del Concilio: “i laici che insistono sul rigore del laicismo non possono essere amministratori dei concili né interpreti autorizzati delle costituzioni e dei decreti conciliari… Non lo Stato, ma la Chiesa potrà dire se le decisioni conciliari implichino, da parte sua, proposte di revisione di norme concordatarie”.

Il tipo di partita era reso ancor più chiaro dalla circostanza che il PCI non presentò neppure una mozione contrapposta (come invece fecero il PLI e il PSIUP) e che intervenne nel dibattito con Natoli per ribadire con un ampio discorso la tradizionale linea togliattiana avversa al separatismo e a favore del Concordato da attuarsi per con-trapporsi al confessionalismo. I limiti della mozione della maggioranza furono messi a fuoco con nettezza dalla dichiarazione di voto contraria del liberale Cocco-Ortu che indicò tre ragioni: “Il rifiuto di riconoscere la necessità di cancellare le contraddizioni tra il Concordato e la Costitu-zione indica una sostanziale mancanza di volontà politica. L’esposizione dell’oratore democristiano, on.Gonella, indica che la revisione dovreb-be limitarsi esclusivamente all’articolo 5, problema grave ma lontano dall’esaurire il problema. Il Governo e la maggioranza hanno rifiutato esplicitamente il concorso del Parlamento nella determinazione delle di-rettive da seguire nelle trattative che il governo dovrebbe aprire con la

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Santa Sede”. Parole con venature profetiche visti i lunghissimi tempi operativi e il velo di opaca riservatezza (in particolare La Malfa sosten-ne che spettasse solo al Governo gestire le trattative), più o meno spes-so negli anni, che ne sarebbero seguiti. Del resto, la linea della mag-gioranza era del tutto diversa da quella di separatismo liberale assunta da tutto il gruppo liberale, che qualche giorno prima aveva presentato un progetto di reintroduzione della festività civile del XX settembre.

Va ricordato che i limiti della mozione della Camera, e di più la stessa tesi della revisione, vennero subito criticati anche in campo cat-tolico. La rivista fiorentina Testimonianze di Ernesto Balducci, sacer-dote scolopo, sostenne che la revisione auspicata dalla mozione avreb-be costituito una conferma dello strumento concordatario e che “a noi sembrano legittimi molti dubbi sulla possibilità di conciliare la pratica concordataria con la rinnovata percezione che la Chiesa ha raggiunto del suo mistero e della sua natura nel corso del Vaticano II… La comuni-tà cristiana non ha particolari diritti o privilegi da rivendicare rispetto alla comune condizione degli altri cittadini… La libertà non è una pre-rogativa specifica dei cristiani o dei credenti. È diritto di tutti: e sarebbe scandalo molto grave se nel nostro tempo i cristiani, anziché promuovere insieme agli altri la causa comune della libertà, si limitassero a perseguire garanzie solo per sé stessi”.

A parte questo sprazzo di dibattito sul Concordato, continuavano a tener banco i ripetuti contrasti interni al Partito Socialista Unificato, le dilaganti manifestazioni universitarie con ripetute occupazioni che ebbero vari risvolti sulla attività didattica (in parte anche su quella dei liceali), la legge di soppressione dei manicomi e soprattutto la que-stione della istituzione delle regioni. Il PLI fece una lunga battaglia ostruzionistica in Parlamento perché, oltre alle riserve politiche circa i prevedibili risultati elettorali in alcune regioni del centro nord del paese, sosteneva l’assurdità di cominciare l’istituzione delle Regioni dalla legge elettorale senza che fossero stati affrontati studi e regole relativi alle questioni finanziarie, economiche, di funzionamento in-terno e di rapporti con lo Stato centrale e tanto meno predisposte le indispensabili leggi conseguenti. Da non dimenticare anche le prime accese polemiche in materia dello status dei magistrati. Il Presidente della Commissione Interni e più volte Ministro Fiorentino Sullo, espo-nente di punta della sinistra DC, commentò: “nel nostro sistema costi-tuzionale il potere giudiziario, a differenza dell’esecutivo che risponde al Parlamento e del legislativo che risponde al popolo, non risponde che a se stesso. Il Parlamento su questi problemi dovrà dire una parola chiara, affinché nessun potere divenga potere chiuso”. Ed inoltre le grandi que-

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stioni della politica estera, dalla vicenda Vietnam e il montare delle proteste studentesche del maggio francese e poi di quelle in Germania.

In tale clima, le elezioni politiche della seconda metà di maggio del 1968 ebbero dei risultati non banali. Facili da leggere ma dalle con-seguenze complicate. Premesso che i votanti furono circa un milione e ottocentomila in più, la sintesi dei numeri dei partiti segnala una crescita della DC (+0,84%), una forte caduta dei PSU (-5.26%), un ar-retramento del PLI (-1,15%), del MSI (-1,65%) e uno scivolamento dei PDIUM (0,45%), mentre crebbe il PCI (+1,64%) e andò bene il nuo-vo PSIUP (+4,45%). Politicamente significava che la DC, puntando sull’immagine di partito di governo moderato conservatore, aveva ra-schiato il possibile su movimento sociale e monarchici, il PLI, coerente ma non in grado di chiarire il senso di fondo della sua opposizione, aveva ceduto circa due cento mila voti al PRI che aveva una posizione antisocialista ma stava nel centro sinistra al governo, i socialisti unifi-cati avevano preso pochissimi voti di più del PSI quando era separato, lasciando campo libero al PSIUP ed in parte al PCI. Nel complesso i partiti del centro e della destra avevano ceduto circa lo 0,8% a quelli della sinistra tradizionale. Il centro sinistra nel suo insieme era arre-trato di venti seggi, emorragia in sé sostenibile, ma la grave sconfitta del PSU aveva modificato gli equilibri ed introdotto evidenti elementi di insoddisfazione. Ed infatti il PSU, con Nenni dissenziente, dichiarò non esserci più le condizioni per partecipare al governo e così vi fu il nuovo monocolore DC presieduto da Giovanni Leone.

In ogni caso, i risultati elettorali, mostrando che il mondo con-servatore era in calo, agevolarono la tematica del divorzio che comin-ciava a far capolino cautamente nei partiti, in aggiunta al PLI. Così, all’inizio della V legislatura, Fortuna presentò una proposta di legge per introdurre casi di scioglimento del matrimonio, questa volta sotto-scritta da una settantina di deputati di più gruppi del centro sinistra, compresi alcuni della sinistra comunista, senza peraltro ancora l’ade-sione ufficiale dei rispettivi partiti. Viceversa Baslini presentò analo-ga proposta con l’adesione del PLI e dei suoi parlamentari. Paolo VI pubblicò, riprendendo i lavori di una apposita commissione istituita da Giovanni XXIII, l’enciclica Humanae vitae sul “gravissimo dovere di trasmettere la vita umana”, con cui ripropose con rigore la dottrina della Chiesa della inscindibile connessione tra amore fisico e procre-azione, pur riconoscendo la possibilità di sfruttare i cicli di fertilità femminile e ammettendo la paternità responsabile “di far crescere una famiglia numerosa” oppure “di evitare una nuova nascita”. L’argomento dei rapporti tra Stato e Chiesa era ormai chiaramente sul tavolo. Il

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senatore della Sinistra Indipendente Albani, ex presidente delle ACLI lombarde, presentò un disegno di legge costituzionale per la sostitu-zione dell’articolo 7 della Costituzione, limitandolo al riconoscimento internazionale dello Stato del Vaticano, e la modifica dell’articolo 8 (nel complesso affrontava il problema della separazione ma non col-legandolo ad un disegno politico generale e finì per non aver seguito). Il Ministro della Giustizia Gonella dette invece attuazione a quanto aveva votato la Camera un anno prima, nominando una Commissio-ne di studio per la revisione del Concordato, da lui presieduta e con sei studiosi esperti della materia esterni alle burocrazie statali. Le due proposte Fortuna e Baslini iniziarono l’iter nelle Commissioni affari Costituzionali e Giustizia della Camera e infine fu approvato un te-sto unificato (la storica Fortuna-Baslini) che passò in Assemblea a fine aprile del 1969.

Nel frattempo, dopo il primo (e sarà l’unico) Congresso Nazionale dei socialisti unificati nell’autunno 1968, si erano ricreate le condizioni per un centro sinistra organico che fu affidato a Rumor (alla Segreteria DC fu eletto Piccoli), mentre Moro si era dissociato dalla maggioranza interna DC e aveva cominciato a parlare di strategia dell’attenzione verso il PCI per prendere atto del dissenso che il PCI aveva avuto la precedente estate verso l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Le discussioni sulla Fortuna Baslini si protrassero fino quasi a dicembre ’69. Il dibattito mise in luce la posizione di conformismo conservato-re della DC e delle destre, mentre la posizione del fronte divorzista convergeva sull’introdurre il divorzio ma restava variegata sulle mo-tivazioni. Da quelle separatiste dei liberali a quelle dei comunisti di sistemazione dei casi della realtà sociale (senza recidere i fili della pro-spettiva di accordo con il mondo democristiano). Non ebbero in pra-tica rilievo le inclinazioni anticlericali e palingenetiche sostenute dalla propaganda mediatica della Lega per il Divorzio (presieduta da Fausto Gullo e diversi autorevoli esponenti anche liberali ma diretta di fatto tandem radicale Marco Pannella e Mauro Mellini). Nell’approvazione della legge Fortuna-Baslini (53,5% dei votanti) risultarono determi-nanti tutti i partiti che l’avevano sostenuta. Peraltro, dal punto di vista politico, anche se larga parte dell’area laica sorvolava sulla cosa e prin-cipalmente la sorvolavano i quotidiani, era risultata particolarmente incisiva la posizione del PLI al di là dei numeri. Proprio perché da anni all’opposizione del centro sinistra, il PLI rendeva non credibili le accuse democristiane di manovra socialcomunista ed inoltre, in quan-to fermo separatista, vanificava il sospetto di complotto anticlericale, almeno presso quei cittadini non pregiudizialmente schierati.

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102 Lo Sguardo Lungo

In generale va constatato che non c’era una sufficiente riflessione critica sullo stato dei rapporti di convivenza. Tutto o quasi era approc-cio ideologico oppure ricerca di un modello di società risolutivo, perfi-no infiammandosi emotivamente nel trovarlo. Sul punto, si può misu-rare il campo libero lasciato alla Chiesa. Al Concilio e dopo, la Chiesa si era dedicata ad approfondire i problemi del mondo, seppure nella sua ottica religiosa. Invece, in molti ambienti della società italiana, ad esempio in buona parte di quelli giovanili, di quelli sindacalizzati, di una certa cultura cattolica, si tendeva a ritenere che approfondire i pro-blemi del mondo fosse affidarsi a quelli che apparivano gli ineludibili nuovi destini, cercando di compiacerli sotto il profilo del potere e non preoccupandosi della capacità di cogliere i meccanismi delle idee sul e nel mondo. Ecco perché la questione dei diritti civili verrà progres-sivamente distaccata dal senso più profondo che i diritti hanno e sarà interpretata sotto l’aspetto meramente più contingente del valore in sé (il valore del divorzio, ad esempio) e non per la sottostante e prevalente concezione separatista. Del resto, la forte carica liberatrice che la cul-tura della contestazione giovanile aveva avuto negli Stati Uniti e che in Europa aveva aggiunto caratteri più ideologici (la ricerca del modello sicuro), in Italia aveva dato molto spazio al dilagare di un borghesismo pseudo rivoluzionario che, come i successivi decenni dimostreranno, era interessato, più che alle prospettive liberatrici dell’azione politica, alle conseguenze funzionali che l’agitare questi temi aveva per i succes-si di privata carriera, soprattutto se agitati in maniera conformistica.

Gli avvenimenti dei mesi successivi confermarono che la logica delle posizioni in campo era purtroppo incapace di sviluppare un’ag-gregazione politica imperniata sulla laicità delle istituzioni. Anche per-ché, occorre ricordarlo, il clima politico generale era dominato da im-mediate tensioni politico sociali molto forti, che prima, nel luglio 1969, provocarono la nuova separazione dei socialisti, poi si manifestarono nello scoppiare dell’autunno caldo e infine cominciarono a tracimare in episodi del montante terrorismo. Poi c’era la questione di dare re-gole ai rapporti di lavoro introducendo nel marzo 1970 lo Statuto dei Lavoratori con il voto del centro sinistra e del PLI. Inoltre, nel giugno del 1970, ci fu la grande novità della nascita dell’istituto regionale con le sue prime elezioni. Nella materia che stiamo seguendo, a parte l’av-vio di un cauto dibattito al Senato sul testo sul divorzio proveniente dalla Camera, l’argomento più contiguo fu la legge attuativa dei Re-ferendum, e soprattutto di quello abrogativo previsto dall’articolo 75 della Costituzione fino ad allora inattuato. Di fatti l’Azione Cattolica, non appena la legge sul divorzio passò alla Camera e prima che il Sena-

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103Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

to la varasse, chiese pubblicamente l’entrata in vigore del referendum abrogativo, con il chiaro intendimento di disporre di uno strumento da utilizzare contro il divorzio nella convinzione che la cittadinanza fosse in sostanza conservatrice e confessionale. La DC colse la palla al balzo (anzi si diceva che era un tacito accordo con i religiosi raggiunto alcuni mesi prima) e portò in sei mesi all’approvazione della legge che regolamentò i referendum abrogativi (giugno 1970). La maggioranza che votò questa legge fu assai diversa da quella per il divorzio (a favore furono il centro-sinistra e l’intera destra), contro il PCI e la sinistra (esplicitamente preoccupati della rottura tra le masse a seguito del pos-sibile referendum sul divorzio) ed il PLI perché contrario al principio referendario (nonostante un notevole scontro interno con la minoran-za, Presenza Liberale, che era a favore dell’attuazione costituzionale) poiché Malagodi attribuiva al tema referendum il valore emblemati-co di aiuto ai grossi partiti e contro le forze intermedie (motivazione che, formulata così, è solo un regalo alla concezione centralista ma che pone implicitamente questioni dimostratesi negli anni non irrilevanti).

Introdotto il referendum abrogativo, nei sei mesi successivi – no-nostante i quasi frenetici conciliaboli, anche sotto il nuovo governo di centro sinistra presieduto da Emilio Colombo, tra il Vaticano che pre-meva per alcuni emendamenti e ambienti DC che di fatto non contra-stavano l’approvazione definitiva pensando al referendum – il Senato esaminò e varò il testo sul divorzio già approvato dalla Camera (con la medesima maggioranza di un anno prima) e il primo dicembre 1970 fu varata la nuova legge, la 898/1970, che mutava in modo emblematico i rapporti civili.

12. Le due sentenze costituzionali del 1971e le possibili modifiche al divorzio

Il successo della Fortuna-Baslini non cambiò il modo di compor-tarsi dei divorzisti: la loro convergenza sulla legge non andava oltre la materia specifica. Il giorno successivo l’approvazione, i gruppi cattolici più conservatori annunciarono il ricorso al referendum abrogativo, co-stituendo il Comitato per il Referendum sul Divorzio presieduto dal prof. Gabrio Lombardi, presidente del Movimento Laureati Cattolici. L’atteggiamento dei partiti divorzisti, trainati dal PCI, fu molto cauto e al ribasso. Evitare qualsiasi polemica con il mondo cattolico, distin-guere ad ogni costo (e in modo irrealistico) tra la DC e i promotori del referendum, dare ogni disponibilità alla revisione del Concordato. La

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Jotti dichiarò che occorreva superare i contrasti e guardare al dopo divorzio, il vice presidente del Consiglio, De Martino, con l’avallo della Direzione PSI, affermò che non serviva tanto il vecchio spiri-to anticlericale quanto aprire una trattativa sul Concordato (un altro socialista, Ballardini, definì il divorzio una mina vagante da disinne-scare). Il vicesegretario PCI Enrico Berlinguer scrisse sull’Unità che non seguire la via dell’accordo con la Chiesa avrebbe portato ad una guerra di religione, alla rottura del quadro democratico e impedito la politica di unità proletaria e democratica; il direttore dell’Unità, Torto-rella, che i divorzisti volevano ostacolare la politica dell’incontro e del dialogo con i cattolici. La Lega per il Divorzio contestò la legittimità del ricorso al referendum abrogativo, Malagodi giustamente la criticò, senza peraltro cogliere la necessità di usare il tema dei diritti civili e del separatismo come fulcro della strategia liberale, in particolare nella consistente prospettiva referendaria. Baslini focalizzò il clima scriven-do “siamo nella fase delle scuse che alla DC e al mondo cattolico vengono rivolte non solo dalle forze democratiche ma anche dai comunisti e da loro soprattutto”.

In ogni modo, nei primi mesi del 1971 si sviluppò di nuovo un forte dibattito sulla questione Concordato e vi furono rilevanti novità. Vi fu l’iniziativa individuale del sen. Basso che presentò una seconda, dopo quella di Albani, proposta di modifica degli articoli 7 ed 8 della Costi-tuzione con un taglio compiutamente separatista. Tra i partiti, comin-ciò il PLI i primi di febbraio confermando la prospettiva separatista a partire da una attuale seria revisione del Concordato. Anche perché “in seno alla Chiesa cattolica è in atto un’evoluzione analoga, come è ap-parso nel Concilio Vaticano II e nelle note dichiarazioni di Papa Giovanni XXIII e di Papa Paolo VI circa la funzione provvidenziale del Risorgi-mento anche per la Chiesa”. Per cui, considerato che il Vaticano si era dichiarato disponibile alla procedura di revisione consensuale propo-sta dal Governo fin dal 1967 “la revisione in parola deve essere diretta: a) ad eliminare i contrasti esistenti fra la Costituzione democratica della Repubblica e il Concordato del 1929, b) ad adottare le misure appropriate ad assicurare reale e piena applicazione a quelle disposizioni del Concor-dato che escludono interferenza di gerarchie ecclesiastiche nella lotta fra le parti politiche in Italia”. La settimana dopo, su proposta di Baslini, la minoranza del PLI con molti altri della maggioranza, si riunì a Mila-no e stilò un documento a favore della prospettiva abrogazionista cui aderì Eugenio Montale con una lettera a Baslini: “il concordato mi fa ricordare quei fossili che si tengono sottovetro per paura che vadano in pezzi. Bisogna prenderlo com’è o lasciarlo (andare a pezzi). Ogni modifica

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105Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

non farebbe che peggiorarlo. Lasciamo dunque morire questo anacroni-stico istituto nato in tempi in cui lo Stato, o meglio il Potere, rinunciò a sé stesso per poter sopravvivere… Sono certo che molti sinceri cattolici si uniranno a noi per dire addio ad una collusione ormai intollerabile”.

Su questa base, lo stesso pomeriggio molti liberali aderirono (quat-tro deputati e tre senatori) alla affollatissima costituzione della LIAC, Lega Italiana per l’Abrogazione del Concordato (con il parere contra-rio di Malagodi e il divieto di partecipazione ufficiale emesso dal PSI), promossa insieme a Pannella e a tanti esponenti dell’area laica in ri-sposta alla evidente intenzione delle strutture territoriali cattoliche di appoggiare la parte oltranzista degli antidivorzisti nella raccolta delle firme per l’abrogazione della Fortuna Baslini. Purtroppo divenne tut-tavia presto chiaro che, nonostante negli organi LIAC vi fossero Basli-ni e diversi esponenti di primo piano di Presenza Liberale (la sinistra interna del PLI), l’ispirazione di fondo della stessa associazione non era separatista cavouriana bensì incline a forme di anticlericalismo, più o meno eslicite e più o meno esasperate.

Poi avvenne un fatto decisivo. Il 1 marzo 1971 una storica sentenza della Corte Costituzionale, la 30/71, sancì la prevalenza della Costitu-zione – che nella sua organicità definisce uno stato indipendente – sui Patti Lateranensi smantellando così ogni pretesa confessionale di co-stituzionalizzazione delle norme concordatarie attraverso l’articolo 7. Questo importante pronunciamento spinse i fautori della revisione del Concordato a rompere gli indugi, anche perché la Commissione Mi-nisteriale creata dopo il dibattito del 1967 aveva concluso i suoi lavori e il Vaticano aveva manifestato disponibilità a lavorare alla revisione del Concordato. Così un mese dopo la Camera approvò un ordine del giorno dei capigruppo di centro sinistra e del PCI, in cui si invitava il Governo a promuovere il negoziato con lo Stato del Vaticano. Le linee guida erano di seguire le indicazioni del Presidente del Consiglio Emilio Colombo, peraltro assai generiche (e riservate sul testo della Commissione Ministeriale che non venne comunicato, in sostanza re-ticenti su tutti i punti di rilievo posti dalla Fortuna Baslini e dalla sentenza costituzionale) ma con un’estensione significativa. Quella di mantenere i contatti con le forze parlamentari e di riferire alle Camere prima di un’eventuale stipula conclusiva della revisione. Ciò signifi-cava, in pratica, ammettere che la revisione del Concordato non atte-neva esclusivamente un trattato internazionale (in cui il Parlamento è informato dopo) bensì un problema importante per i cittadini e sul quale il parere del Parlamento assume rilevanza. Si astenne il PLI (che, sulla strada della separazione, chiedeva una controllo in profondità, e

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quindi molto più di scambi di equilibrati favori in ottiche contingenti al di fuori di un continuo contatto con un’apposita commissione par-lamentare) ed anche il PSIUP, mentre votarono contro alcuni deputati della sinistra perché non volevano il Parlamento ai margini del proces-so di revisione (a loro nome intervenne Natoli, espulso dal PCI con il gruppo del Manifesto nel dicembre ’69, il quale disse apertamente che l’ordine del giorno del centro sinistra e del PCI rinunciava ai principi di una prospettiva separatista, che invece stava maturando, al fine di poter agevolare le manovre “della maggioranza, della maggioranza vec-chia e della maggioranza nuova”).

A completare lo smantellamento di ogni tesi circa la possibile non costituzionalità della legge sul divorzio – ancora carezzata negli am-bienti cattolici più tradizionalisti – arrivò poche settimane dopo una nuova sentenza della Corte Costituzionale, il 5 luglio. Con la sentenza 169/71 sancì che la legge sul divorzio era costituzionale poiché con i Patti Lateranensi lo Stato non aveva assunto l’obbligo di non introdur-re l’istituto del divorzio nell’ordinamento. A questo punto l’alternativa tra modifica della legge e referendum abrogativo divenne sempre più incombente. Ma emerse anche sempre più chiaro che il mondo laico non era impegnato, in campo matrimoniale, a favore di una prospet-tiva nettamente separatista. Tanto che i parlamentari socialisti Euge-nio Scalfari e Fortuna avanzarono insieme al radicale Pannella (allora non parlamentare, che come LID sosteneva che il referendum anti-divorzista era incostituzionale e violava il Concordato) la proposta di escludere dalle materie referendarie una quindicina di articoli della Costituzione. Proposta che, al di là della strumentalità per impedire il referendum, echeggiava la propensione di riservare solo alle Came-re le scelte civili, come se i cittadini non fossero all’altezza di volere riforme di modernità. Certo, poteva essere considerata una risposta discutibile, insufficiente ma di sicuro raziocinante, se paragonata agli appelli elitari di una borghesia allora attratta dai miti rivoluzionari che emanava appelli che, per quanto sostenevano, erano lontanissimi dal-la laicità. Il commissario Calabresi veniva definito un torturatore (più di cinquecento firmatari) e, in difesa di quelli di Lotta Continua, si dichiarava di condividerne questi slogan “quando essi gridano ‘lotta di classe, armiamo le masse’, lo gridiamo con loro; quando essi si impegnano a ‘combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento’, ci impegniamo con loro” (una cinquantina di firme). In un caso e nell’altro, si ritrovano perso-naggi di punta della cultura, come Eco, De Mauro, Mieli, Squitieri. In altre parole, in quel clima non si pensava di usare la difesa del divorzio

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107Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

come occasione per avviare lo sviluppo del principio di separazione nell’opinione pubblica.

Del resto, nell’ultimo semestre 1971, Il PCI si impegnò ai massimi livelli per trovare la via di modificare la legge sul divorzio “in modo da interpretare ciò che di valido possa esservi nelle istanze di alcuni stra-ti popolari cattolici” (Bufalini) e così “evitare che il paese sia posto di fronte a questa prova che potrebbe essere lacerante” (Berlinguer). E qua-si riuscì a coinvolgere anche i laici agitando la scadenza di fine anno per l’elezione del Presidente della Repubblica (l’obiettivo era il solito, mettere insieme le sinistre e buona parte della DC). A partire da metà novembre vi fu una serie di riunioni tra i partiti che avevano votato la legge sul divorzio per individuare possibili modifiche alla legge, il che suscitò diffuse reazioni di diniego della trattativa proprio nel mondo cattolico, preoccupato dalla prospettiva che si bloccasse ii referendum. Poi, il 2 dicembre, il PCI, tramite la sen. Tullia Carettoni della Sini-stra Indipendente, presentò un progetto di modifica della legge sul divorzio inquadrato nelle manovre per la elezione del Presidente della Repubblica. Il progetto Carettoni però fu stigmatizzato dai laici e fallì: non riuscì né a cementare i laici su un comune disegno culturale ri-spetto al mondo cattolico né a unire le sinistre sulla Presidenza (per il Quirinale riuscì poi a spuntarla Giovanni Leone con una maggioranza di centro diversa da quella di governo).

Il risultato negativo sulla Presidenza della Repubblica non indusse la sinistra ad un ripensamento. Anzi, larga parte si ingegnò a dilazio-nare in altro modo il referendum abrogativo sul divorzio. E così la Segreteria e la Direzione del PSI posero esplicitamente il problema di evitare il referendum, indicando come mezzo le elezioni anticipate per impedire “la spaccatura radicale del paese, il risorgere degli storici stecca-ti, la convergenza clerico fascista”. Di fatto fiancheggiavano l’iniziativa Carettoni in sintonia con il PCI, che da parte sua affermava, con Gior-gio Amendola “io credo che se si arriverà al referendum vinceranno i divorzisti. Ma credo anche che la battaglia per il referendum dividerebbe il grande schieramento delle forze lavoratrici democratiche”. Della logica separatista nessuna traccia. Oltretutto sottovalutando che la DC pun-tava addirittura (con la proposta di legge del capogruppo Andreotti) ad arrivare con le trattative al doppio regime distinguendo i matri-moni concordatari da quelli civili, doppio regime che la Jotti per il PCI dichiarò di accettare. Intanto, un consistente gruppo di esponenti cattolici (tra i quali lo storico Scoppola) dissero di non appoggiare il referendum abrogativo e proponevano di astenersi. Alla fine, la DC definì inadeguato il progetto Carettoni e si mostrò invece interessata

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(passaggio dal governo Emilio Colombo al primo governo Andreotti) alla strada delle prime elezioni anticipate nella storia della Repubblica, elezioni che PSI e PRI richiedevano a gran voce nella logica di impe-dire l’immediato ricorso al referendum abrogativo. Indette le elezioni anticipate per il 7 maggio 1972, e dunque divenuto il referendum im-possibile per quell’anno a norma della stessa legge sul referendum, il lavorio sottotraccia per cambiare il divorzio perse interesse rispetto alle problematiche elettorali. E nel clima di tensioni e disordini che avvolgeva l’Italia, dominavano le prime prove delle frange della lotta armata e l’attenzione alla politica del manganello e doppiopetto inau-gurata l’anno prima dal MSI-Destra Nazionale di Almirante.

Gli elettori aumentarono di un milione e mezzo e altrettanto au-mentarono i votanti (quindi la percentuale arrivò al 93,21%). La DC ebbe una piccola diminuzione percentuale (-0,5%) conservando gli stessi seggi, il PSI e il PSDI con liste separate ottennero complessi-vamente un + 0,3% e un seggio in meno (61 il PSI e 29 lo PSDI), il PLI perse cinquecentomila voti abbondanti e 11 deputati, il PRI ne guadagnò oltre trecentomila e arrivò a 15 deputati (+6), il PCI ebbe una lieve crescita (+0,2%) e guadagnò due deputati, ma la sinistra ebbe un tracollo perché lo PSIUP perse novecentomila voti (il -3,0%) e, non avendo avuto neppure un quorum pieno, ottenne zero deputati rispet-to ai 23 che aveva. Il Manifesto e il Movimento Popolare Lavoratori di Labor raccolsero poco (trecentocinquantamila voti in due); a destra il MSI raddoppiò i voti guadagnandone quasi un milione e mezzo, arri-vando a 56 deputati (+32) e risultando il vero vincitore della tornata.

La DC prese atto che i numeri del centro sinistra erano sulla carta aumentati di 5 deputati ma che il quadro politico era del tutto diverso, con la sinistra indebolita e la destra missina cresciuta ancor più. Oc-correva accogliere di nuovo i liberali, magari dando loro la funzione innaturale di argine a destra (che il PLI di fatto non poteva neppure svolgere). Il PSI continuava a non voler sentir parlare di liberali, man-tenendosi ancora su posizioni velleitarie tra l’ideologismo tradizionale e la sudditanza psicologica nei confronti del PCI (che pure appariva sempre più distante dalle tesi socialiste) e delle organizzazioni dei la-voratori. Il dato certo era la completa divisione dei partiti laici, in-capaci di prospettare agli elettori una offerta politica condivisa della loro area così da risultare propositivamente centrali ed attrarre anche altre sensibilità contigue. In circa un mese fu varato il secondo governo Andreotti, tripartito, DC-PSDI-PLI, con l’appoggio esterno del PRI. Dunque una nuova maggioranza neo centrista, però con una classe dirigente DC palesemente ritrosa e incline più a tentare operazioni

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109Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

d’ordine che ad imboccare la strada di una nuova logica costruttiva. Inoltre, non c’era più la chiara maggioranza dei partiti divorzisti, che erano calati da 331 deputati a soli 304.

13. Il referendum abrogativo del divorzio, 1974

Con le elezioni anticipate 1972, le trattative sulla legge 898/1970 e sulla questione revisione del Concordato avevano avuto altri dodici mesi di tempo. Non venne sfruttato. Cercare di ricostruirne le ragio-ni non è essenziale ai nostri fini. Comunque quasi sicuramente furo-no plurime. Prima di tutto il mondo cattolico, in senso religioso e in senso politico, aveva una serie di differenziazioni. Intanto si estende-vano le conseguenze di una lettura anticoncordataria delle decisioni del Concilio. Ad esempio, Don Giovanni Franzoni, abate dell’abbazia benedettina di San Paolo fuori le Mura a Roma, il quale era stato mol-to giovane un Padre Conciliare, assunse al riguardo posizioni nette (ed anche sulla obiezione di coscienza e sulla critica della guerra in Vietnam) che lo portarono a frizioni forti con la gerarchia vaticana. Poi vi erano diversi esponenti del clero che richiedevano apertamente una Chiesa meno burocratica ed autoritaria (aspirazione umanamente comprensibile, ma che denotava un rifiuto psicologico della realtà di quanto era scritto nei documenti conciliari sulla natura della Chiesa e del popolo di Dio, e dunque ipotizzavano una struttura democratico collegiale concettualmente impossibile in senso religioso di Chiesa).

Sulla sponda contrapposta, c’era il Comitato per il Referendum sul Divorzio di Gabrio Lombardi che voleva fare il referendum, per profonde ragioni religiose, culturali e sociali. Di fatti si irrobustì via via con il sostegno dell’Azione Cattolica, della Conferenza Episcopale, della DC e del MSI e nei primi mesi del 1973 raccolse un milione e trecento settantamila firme su una proposta abrogativa della legge sul divorzio. Quanto ai vasti ambienti democristiani, di partito e della bu-rocrazia diplomatica (quella che, come Ministero degli Esteri, teneva i concreti rapporti con lo Stato del Vaticano), i pareri avevano molte sfu-mature ma in sostanza convergevano sul tentativo di tenere insieme la questione referendum abrogativo, quella della legge 194 e quella della revisione Concordataria. Questo tentativo si mostrò progressivamente una linea di tipo diplomatico che non teneva conto di alcune realtà. A cominciare da quella che nell’estate del ’71 era stato il Papa in persona a bloccare un’ipotesi applicativa della idea consistente nel modificare sì la legge 898/1970 ma accompagnandola, in una logica da trattati-

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va civilistica, alla revisione dell’articolo 34 del Concordato, quello sul matrimonio (come dire, il Vaticano avrebbe dovuto, riconoscendo allo Stato la possibilità di introdurre il divorzio, rinunciare alla propria contrarietà per motivi religiosi). Ma anche, non teneva conto del fatto che nella DC stava radicandosi la linea di non coinvolgere il governo sulla questione referendum, ufficialmente per non rendere impossibile i rapporti con gli alleati laici, ma in sostanza anche per potere, senza dirlo, abbandonarsi alla tentazione di cavalcare il referendum nella convinzione che alla fine fosse vincente.

In linea generale, il governo Andreotti era attaccato dal PCI perché avrebbe preparato il terreno per una avventura autoritaria, il che, stante la presenza dei liberali, era una tesi ridicola. Non a caso il governo por-tò a compimento l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza “basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali”. Ma era-no comportamenti che il PCI teneva per mascherare l’impostazione di progressiva chiusura verso i movimenti di estrema sinistra che seguiva il nuovo segretario Berlinguer. Andreotti non si lasciava distrarre e, pre-occupandosi dell’incombente referendum, chiese formalmente al Con-siglio di Stato un parere sulla possibilità di farlo svolgere nella primave-ra 1973, in quanto anno successivo al 1972. Il Consiglio di Stato bloccò questa possibilità. L’interpretazione congiunta della legge sul referen-dum e delle norme del procedimento elettorale portò a stabilire che, qualora le elezioni politiche determinino l’impossibilità che 365 giorni dopo esistano i termini necessari per le procedure preliminari al voto, occorre aspettare che nell’anno ancora successivo arrivi il periodo di legge per il referendum. Dunque niente referendum neppure nel 1973.

Anche questa ulteriore dilazione, non venne di fatto utilizzata per azioni volte ad evitare il referendum. Mentre con il 1973 l’Europa si al-largava a Danimarca, Gran Bretagna ed Irlanda, in Italia la situazione economico sociale diveniva sempre più esplosiva e rispuntò presto la propensione a cercare di farvi fronte non con provvedimenti struttura-li di tipo economico ed istituzionale, bensì allargando la base governa-tiva. Così soprattutto i grandi DC, cominciarono a dire che il governo non aveva abbastanza forza per replicare alle minacce all’ordine de-mocratico e che la soluzione sarebbe dovuta essere una nuova alleanza con i socialisti e senza i liberali. Andreotti obiettava che il governo era fragile proprio perché minato dalle nostalgie di quelli che intendevano accettare al buio la preclusione socialista verso i liberali. Il sen. Fan-fani si attivò moltissimo per stringere in gran segreto, prima del Con-gresso Nazionale DC del giugno ’73, un patto (detto di Palazzo Giu-stiniani) con gli altri tre principali leader DC, il suo avversario storico

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111Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

Moro, Rumor e Piccoli, per realizzare un preciso programma: ritorno al centro sinistra, Fanfani segretario, Rumor presidente del Consiglio e Moro agli Esteri. L’intervento di Moro al Congresso espresse il noc-ciolo della questione; “la Dc è l’alternativa di se stessa perché in Italia vi è una impossibilità di avvicendamento”. Su questa linea si posero il mutamento di governo e il ritorno alla formula di centro sinistra. In realtà, ciò che il Congresso aveva deciso emerse sei mesi dopo, quando terminò l’iter processuale dell’ultimo tentativo svolto da svariati am-bienti giudiziari di ripristinare la prevalenza del Concordato.

L’anno precedente a giugno, le Sezione Unite civili della Cassazio-ne avevano disposto il rinvio alla Corte Costituzionale di una causa per stabilire se l’articolo 34 del Concordato, contenendo una riserva generale di giurisdizione in favore dei tribunali e dicasteri ecclesiastici nelle cause attinenti ai matrimoni concordatari, implichi difetto di giu-risdizione dei giudici dello Stato italiano. Dopo questo rinvio, ne erano seguiti altri cinque dalle Corti di Appello di Torino, Napoli e Trieste. In questo modo, si cercava di sostenere una tipica tesi formalistica, secondo cui anche in presenza dell’articolo 1 della legge 898/1970 che introduceva il divorzio, sarebbe stato incostituzionale l’articolo 2 che stabiliva la competenza del tribunale a decidere anche per i matrimoni celebrati con rito religioso e trascritti; ciò perché tale competenza sa-rebbe dovuta essere quella dei tribunali ecclesiastici ai sensi del Con-cordato. In pratica con un artificio giuridico si tentava di arrivare a quella impostazione del doppio matrimonio proposta da Andreotti e accettata dal PCI durante i tentativi di modificare la legge sul divorzio per evitare il referendum.

A questo ultimo tentativo politico per via giudiziaria, pose fine nel dicembre 1973 la sentenza 176 della Corte Costituzionale. Innanzi-tutto ribadì la validità della precedente sentenza 169/1971 che aveva stabilito che “lo Stato ha assunto unicamente l’impegno di riconoscere al matrimonio contratto secondo il diritto canonico, e regolarmente tra-scritto, gli stessi effetti del matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di stato civile: libero restando, peraltro, di regolare tali effetti”. E poi ar-gomentò che “il quarto comma dell’articolo 34 del Concordato contiene una precisa specificazione, per ipotesi tassative, delle cause matrimoniali riservate alla giurisdizione e competenza delle autorità ecclesiastiche, con il connesso obbligo dello Stato italiano di riconoscere piena efficacia, nel proprio ambito, alle pronuncie da queste ultime adottate”, ipotesi in pra-tica riassumibili nella nullità del matrimonio rato e non consumato. Di conseguenza non era fondata la questione di legittimità dell’articolo 2 della legge sul divorzio.

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Arrivati a questo punto Fanfani, come segretario DC, tirò fuori quello che era il suo reale disegno e rispolverò le vere decisioni del congresso di sei mesi prima. Tra l’altro, il fatto che il segretario del PCI fosse stato indotto dalle drammatiche vicende internazionali, innanzitutto in Cile, ad avanzare all’inizio autunno la proposta del compromesso storico, finiva indirettamente per alimentare il disegno fanfaniano della fondamentalità democristiana. La DC come baluardo per respingere insieme la proposta del compromesso e gli attacchi del-le nascenti Brigate Rosse (che i comunisti esorcizzavano dicendo che erano malati e i socialisti che erano elementi neofascisti). Occorreva dare linfa al referendum per rilanciare la DC tra le masse. Sotto questo aspetto, il disegno di Fanfani non era ovviamente condivisibile nel me-rito dai liberali e dai laici. Almeno però accettava il confronto di fronte ai cittadini. Viceversa, per un lungo periodo precedente, l’alta buro-crazia pubblica cattolica e un gruppo di professori molto introdotti nei vertici del mondo confessionale, si arrovellò sul modo di cambiare la legge sul divorzio così da soddisfare un minimo le richieste vaticane e insieme da riuscire ad evitare il referendum. La situazione era vis-suta dal mondo dei corridoi che contano, come un oltraggio alle loro funzioni di intermediatori verso oltretevere. L’imperativo di questi alti personaggi cattolici era una volontà talmente antiseparatista da prefe-rire perfino una transazione sulla parziale accettazione di una legge come il divorzio non voluta dal mondo cattolico più vero e dalla DC. Tanto che a fine novembre ’73, il Corriere della Sera dette notizia di un accordo segreto fra la DC, il PCI e il PRI per evitare il referendum, però ufficialmente venne smentito.

La stragrande maggioranza del mondo cattolico, a cominciare da gran parte delle gerarchie, riteneva che il referendum fosse una bat-taglia da fare, tra l’altro perché vincente (alla luce anche, in quel pe-riodo, del quasi immediato naufragio del tentativo radicale di alzare a freddo il tono dello scontro con la gerarchia provando ad indire un referendum per abrogare il Concordato). Come d’abitudine le gerar-chie ragionavano pacatamente quasi schernendosi. Del referendum sul divorzio il Pontefice Paolo VI disse “noi non l’abbiamo chiesto, ma non possiamo impedire che un gruppo di cattolici, avvalendosi di uno strumento costituzionale, cerchi di cancellare una legge che giudichia-mo negativamente”. La CEI tese a sottolineare sempre la posizione di contrarietà religiosa al divorzio come linea guida pastorale. Tra i cattolici vi fu anche chi, come il rettore dell’Università Cattolica, Lazzati, segnalò con cautela che era preferibile coniugare i principi irrinunciabili con le esigenze nuove e che i cattolici, pur restando

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113Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

contrari al divorzio, “non possono imporre a chi non crede una regola che solo la fede rende possibile”. Su posizioni contrarie ad appoggiare il referendum, vi fu anche il cosiddetto gruppo dei “cattolici del No”. Nella dichiarata diversità politica dei suoi aderenti, stilò un appello per chiedere ai democratici di fede cristiana di votare secondo co-scienza e di rifiutare la proposta abrogazionista, nel nome della con-vivenza pluralistica e democratica. Ma erano circoscritte minoranze, in genere persone a stretto contatto professionale con gli ambienti laici delle strutture universitarie o sindacali, impegnate a muoversi solo sul piano dei principi e solo all’interno del loro mondo di cat-tolici, senza affrontare mai il piano politico del separatismo tra Stato e Chiesa che emergeva sul tema legge del divorzio. Dunque non po-nevano reali problemi alla linea di chi in quello stesso mondo, anche nelle alte gerarchie, aveva continuato a porre, a quelli che erano i preoccupati nell’area laico-comunista, l’alternativa tra il referendum già indetto per il 12 maggio oppure una modifica della legge che fosse soddisfacente per lo Stato del Vaticano. La grandissima maggioranza dei politici cattolici e dei conservatori era convinta che in ambedue i casi l’avrebbe spuntata il mondo della tradizione della Chiesa, sic-come alla fine avrebbe prevalso l’obbedienza filiale del popolo cat-tolico. Convinzione che attanagliava anche il PCI, che continuò fino alle ultime settimane, ai massimi livelli, a cercare una modifica della legge per evitare il referendum.

La campagna referendaria fu molto accesa pressoché solo tra gli addetti ai lavori. Eccettuate le grandi manifestazioni organizzate allo scopo, vi fu una scarsa partecipazione alle riunioni pubbliche, soprat-tutto agli appuntamenti per il NO e soprattutto nell’intera fascia delle regioni rosse. La RAI si mantenne equilibrata nelle sue trasmissioni, ove i laici facevano la loro parte (assai tremebondo il PCI), ma non ammetteva la Lega Italiana per il Divorzio, cioè i radicali, che non essendo in Parlamento non avevano titolo di partecipazione. Così la presenza dei divorzisti nei programmi radiotelevisivi appariva non del tutto completa. Il che poteva pesare negativamente sulla capacità di mobilitare gli elettori, argomentò Pannella, considerato che i partiti laici, pur impegnati senza riserve, avevano ridotte strutture sul territo-rio e che il PCI non aveva attivato per intero la sua abituale macchina organizzativa. Per questo, una decina di giorni prima del voto Pannella iniziò un digiuno, all’epoca una protesta assai clamorosa. Dall’altra parte, i Comitati per il SI di Gabrio Lombardi, di Cotta, della DC, del MSI, di Comunione e Liberazione, ed anche delle ACLI, dell’Azione Cattolica, sciorinavano una presenza capillare e martellante che bat-

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teva su concezioni arcaiche della società, della donna, dei rapporti in-terpersonali, della famiglia e del costume. In specie Fanfani utilizzava un argomento che riteneva imbattibile presso le donne in generale e quelle meridionali in particolare, questo “i beni comuni della famiglia diventeranno preda di fameliche, concupiscenti e venali concubine. Le mogli con la tragedia divorzio hanno davanti una sola prospettiva: lo spet-tro di un’angosciante solitudine, avvolta nella miseria più nera”.

La Chiesa, seppur in modo più prudente, anche per non contri-buire a scivolare verso guerre di religione, era impegnata a fondo per l’abrogazione di una legge estranea alla dottrina sociale cattolica. Questo non impedì che gruppi di credenti, anche se limitati (la più nota fu Suor Maria Galli) finissero per fare intensa propaganda per il voto NO, proprio in nome della fede da vivere e non da imporre per via legislativa (lo stesso fecero anche il Vescovo di Trento e sei riviste cattoliche tra cui Testimonianze e il Regno). Ma ciò fu un puro atteggiamento culturale e non assunse l’aspetto di divisione del mondo cattolico sul piano dell’azione politica a favore del separatismo Stato religione. Questa fu la situazione di fatto, riscontrabile agevolmente nella sostanza dei documenti e delle cronache dell’epoca, completa-mente diversa della vulgata – diffusa negli anni seguenti per il conver-gente interesse degli ex-PCI e di un certo altro mondo della sinistra DC – per far credere ai più giovani che era stato anche quel mondo “religioso” a volere, e in fondo a vincere, la battaglia di civiltà del dirit-to al divorzio; vulgata diffusa anche da ambienti giornalisti superficiali (od anche aristocratici nel profondo) che si sono fatti abbacinare dal protagonismo mediatico anticlericale dei radicali più che dal riflettere sullo spessore dei movimenti reali e sul fatto che in realtà la legge sul divorzio rispondeva ad una logica separatista.

Addirittura, nel lavoro storico di un ricercatore della sinistra in questi ultimi anni del primo decennio 2000, si ammicca perfino all’idea di un’incertezza del PLI sul referendum poiché lasciava nel voto libertà di coscienza ai propri elettori. Evidentemente abbacinati ancor oggi dai falsi miti (le presunte battaglie civili guidate dalla sini-stra), qui non ci si rende conto che questa scelta avveniva dopo che il partito aveva portato avanti la legge sul divorzio, per primo nel 1967 e poi senza tentennamenti in tutto il periodo successivo. E che corri-spondeva in generale ad una concezione di partito lontana da quella di partito chiesa monolitico cara ai non liberali. Per i liberali, il fatto che il partito enunci la propria idea e la sostenga apertamente, non implica che chi non condivide questa idea sia automaticamente fuori dal filone liberale. Approfondirò il tema nella seconda parte.

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115Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

La gran massa dei dirigenti del PCI, al di là delle dichiarazioni ufficiali, visse la campagna referendaria nel più grande timore, rilevan-do, con crescente disperazione, la scarsa affluenza ai comizi unitari in giro per il paese. Lo conferma l’episodio dei comizi di chiusura della campagna nazionale. Il senso della comune battaglia tra i diversi parti-ti laici venne sottolineato dal comizio conclusivo a Roma, a Piazza del Popolo: gli oratori furono La Malfa, Malagodi, Nenni, Parri, Saragat. Per la prima volta il mondo politico laico, da trenta anni litigioso e di-viso, trovò il coraggio di accordarsi per una battaglia civile e per ripor-tare il paese nel novero delle nazioni progredite. In questa occasione, il tabù delle reciproche esclusioni venne accantonato e il PCI, nella disperazione e per non fornire argomenti agli avversari antidivorzisti, accettò di farsi rappresentare dall’azionista Parri (da sempre a favore della legge e allora della Sinistra Indipendente), limitandosi a tenere il proprio ultimo comizio il giorno prima, in un’altra piazza di Roma, Piazza San Giovanni, che tecnicamente riuscì ma su cui aleggiava un pessimismo funereo, che filtrò sulla stampa.

I risultati dettero ragione a tutti coloro che avevano creduto nella maturità del paese. Il NO andò al di là di ogni ottimistica previsione, il 59,3% (un distacco di sei milioni di voti), oltretutto con una distribu-zione geografica in sostanza uniforme (il NO prevalse in 13 regioni, in-cluse Sicilia e Sardegna e dove perse, perse di poco, eccetto in Molise). I gruppi più potenti ed organizzati, da un lato la DC e il mondo delle parrocchie, dall’altro il PCI, non avevano capito la voglia di libertà e di autonomia privata dei cittadini e soprattutto delle donne. La netta maggioranza dei cittadini aveva votato con la propria testa senza segui-re i pastori politici e religiosi. La DC e le parrocchie avevano rifiutato di accettare la sconfitta parlamentare e avevano tentato una rivincita che restituisse la signoria in materia di costume e di convivenza fa-miliare, il PCI non sapeva immaginare una fuoriuscita dalle secolari regole della tradizione se non attraverso la propria via ideologica. Am-bedue non avevano inteso il messaggio che veniva forte dagli altri paesi civili. E soprattutto non avevano inteso il forte cambiamento nel mon-do femminile. Un mondo che per lo più non aveva bisogno di andare ai comizi degli uomini perché ben consapevole, per la natura stessa del proprio genere, dei problemi della vita a due e ben deciso a scegliere la propria autodeterminazione. L’Avvenire scrisse subito “dobbiamo prendere coscienza che si è dinanzi a un mutamento di costume e di cul-tura”. Forse non fecero altrettanto i laici e i liberali. Gioia e soddisfa-zione furono fortissimi. Però l’insegnamento di quanto era accaduto non venne davvero percepito da tutti nelle sue implicazioni politiche

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profonde. Che non concernevano solo i diritti civili e che non erano un sobbalzo anticlericale a sostegno di una sorta di fondamentalismo laico. Purtroppo, per molti motivi, tale percezione non vi fu.

14. La riforma del Diritto di Famiglia,l’innovativa legge sull’aborto

In quel periodo, sotto l’urgenza dei serissimi problemi della situa-zione politico sociale, in Italia e a livello internazionale, i partiti e la gente erano attratti dalle questioni contingenti dei rapporti di pote-re parlamentare e non, dall’economia e dai provvedimenti per la vita quotidiana (e in controluce era già incombente la prospettiva del com-promesso storico). I criteri operativi di fondo – seppure intimamente connessi con il modo di organizzare la cosa pubblica, quale è appunto il principio di separazione tra Stato e Chiesa nel fissare le regole civi-li – erano del tutto accantonati rispetto alle ideologie. Persino quando gli argomenti trattati avrebbero consigliato di tenerli ben presenti, se non di adottarli. Così avvenne per la definitiva istituzionalizzazione della legge sul divorzio. Venne interpretata (almeno dalla maggioranza degli italiani) come doveroso adeguarsi alle condizioni di vita civile del mondo occidentale, ma non furono fatte riflessioni, se non di sfuggita, sul fatto che lo stesso modo di risolvere la questione dello scioglimen-to matrimoniale era un’applicazione dello spirito separatista e che di questo spirito si sarebbe potuto renderne più diffusa l’applicazione anche nell’ambito dei rapporti partitici. Così si continuò ad agire su temi importanti e ormai all’ordine del giorno civile, quali il diritto di famiglia, l’aborto e la revisione del Concordato, come temi a sé stanti cui fare una sorta di manutenzione civile e non come argomenti su cui sarebbe stato decisivo applicare in modo esplicito e convinto il prin-cipio di separazione. Che questo fosse il comportamento della DC, è comprensibile, lo è molto meno che fosse quello dei cosiddetti laici nel loro insieme.

Il mondo cattolico, maggioranza della DC compresa, tendeva a prendere atto che nella società italiana non erano più applicabili le ri-cette tradizionali. E crebbe la ritrosia a contrapporsi frontalmente alle richieste modernizzanti. Non solo perché tali richieste di per sé erano dirompenti appunto perché fondate. Soprattutto perché per molti, a cominciare dai morotei della DC, una rigida contrapposizione sui temi dei diritti civili o religiosi avrebbe reso impraticabile ogni prospetti-va di compromesso storico, prospettiva che invece era allora ritenuta,

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117Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

dalla parte democristiana influenzata da Moro e dalla grande industria presieduta da Gianni Agnelli, la strategia più adatta per impedire il successo totale dei comunisti. In questa logica, venne in pratica adotta-ta la propensione a seguire una via il più possibile collaborativa.

Così, dopo aver dilazionato la cosa per anni, la DC contribuì i pri-mi di marzo 1975 alla legge che dava il diritto di voto ai diciottenni. Nel campo del Diritto di famiglia – un campo assai contiguo a que-stioni care alla comunità religiosa, vuoi per motivi di fede che di mo-dello sociale – la DC contribuì non poco, un mese dopo, a formulare e a far passare con una ampia maggioranza vaste modifiche strutturali della normativa preesistente al fine di svecchiarla ed uniformarla ai principi costituzionali. Vennero introdotti rapporti molto più paritari nel matrimonio, abbassata l’età per contrarlo, introdotta la comunione dei beni, riformulato il rapporto tra genitori e figli, assicurata la me-desima tutela ai figli nati fuori del matrimonio, trasformato l’esercizio della potestà, abolito l’istituto della dote. La propensione a collaborare prevaleva anche nel campo della revisione del Concordato, ma di fatto esclusivamente solo attraverso contatti informali e sondaggi, privi di proposte formali. Era del resto la mentalità del governo Moro IV, con vice La Malfa, che, anche per compiacere il PCI molto favorevole alla trattativa, annunciò che si sarebbero ripresi i negoziati con il Vatica-no, senza peraltro coinvolgere né i partiti di maggioranza né quelli di opposizione. Quanto alla normativa sull’aborto, all’epoca un reato, naturalmente la DC mantenne fermo il riferimento ai valori cattolici nel mezzo di forti critiche e non apriva alla concezione separatista. Tuttavia (almeno in gran parte) faceva resistenza al cambiamento sen-za esasperare gli ostacoli, anche perché le norme al riguardo dell’allora vigente Codice Penale del fascista Rocco, apparivano anacronistiche e inasprivano le sottostanti questioni sociali.

Nella prima metà di gennaio del ’75 un ginecologo liberale di Fi-renze, il dottor Conciani, avendo aperto un ambulatorio del Centro Italiano Sterilizzazione e Aborto (CISA), l’organizzazione creata a Mi-lano diciotto mesi prima da Adele Faccio, venne arrestato per procu-rato aborto dal Pm Carlo Casini, già tra i sostenitori del referendum abrogativo contro il divorzio. I liberali toscani solidarizzarono con il loro iscritto Conciani (che resterà iscritto liberale per moltissimi altri anni) e gli fecero visita nel carcere delle Murate (il segretario regio-nale che era l’autore insieme a quello di Firenze Colonna), ma non riuscirono a far recare alle Murate anche il segretario nazionale PLI, l’on. Bignardi. Bignardi non era contrario personalmente ma era pre-occupatissimo in punto di diritto, pensando ai meccanismi che poteva-

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no innescarsi scivolando fuori dal parlamentarismo. Così quando Spa-daccia, segretario dei radicali, e la Faccio, per il CISA, si assunsero la responsabilità organizzativa dell’ambulatorio Conciani e il Pm Casini fece arrestare anche loro, l’immagine dell’iniziativa passò nelle mani dei radicali. Anche perché i primi di febbraio la Lega per i diritti civili 13 maggio (creatura di Pannella) e l’Espresso (che per mesi riserverà a Pannella una pagina la settimana) lanciarono la raccolta di firme per il referendum abrogativo del reato di aborto. E nonostante i liberali avessero già scelto di schierarsi a favore di una legge per consentire l’interruzione di gravidanza, avessero predisposto il relativo progetto legislativo e intanto collaborassero (di fatto soli tra i partiti parlamen-tari) alla raccolta delle firme referendarie anche con apposite pubblica-zioni, non riuscirono ad essere percepiti dall’opinione pubblica come protagonisti. Così, quando a luglio ’75, vennero depositate in Cassazio-ne le 750.000 firme raccolte per l’abrogazione degli articoli del Codice Penale sull’aborto, la battaglia venne attribuita solo all’Espresso e alla Lega per i Diritti Civili 13 maggio.

Le titubanze dei liberali sulla vicenda Conciani sono un snodo po-litico in apparenza minore ma esemplare come sintomo di uno stato di cose. Non tanto in relazione agli stenti quantitativi dei liberali, quan-to per l’impostazione che assumeva la campagna per l’aborto. Ancora una volta un argomento importante venne affrontato mantenendosi alla larga dal separatismo. Le varie forze politiche (eccettuato il MSI) predisposero disegni di legge per introdurre l’interruzione volontaria di gravidanza (anzi, non a caso i liberali erano i soli ad impostare la questione in termini di procreazione responsabile). Lo consigliava il clima politico generale ed anche quello giuridico visto che una nuova sentenza della Corte Costituzionale, la 27/1975, dichiarò incostituzio-nale (sempre contro l’avviso della Avvocatura dello Stato) l’articolo del codice penale che puniva l’aborto di donna consenziente nella parte in cui non considerava il diritto alla salute della donna incinta (salute fisica e psichica), diritto che doveva esser considerato comunque prio-ritario rispetto a quello del feto. In pratica, tuttavia, la linea adottata era di assecondare la diffusa protesta riferita ad una organizzazione obsoleta della società che non dava spazio ai diritti civili. I più non si ponevano affatto la questione di considerare l’interruzione di gravi-danza come parte del più generale criterio del principio di separazione tra Stato e religioni, un principio che, come vedremo nella seconda parte di questo volume, induce conseguenze rilevanti anche in campi che travalicano la questione strettamente religiosa.

Per l’immediato, il principio di separazione avrebbe significato una

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119Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

ferita forse mortale alla tesi del compromesso storico. Il senso del com-promesso storico era porre al centro della politica il confronto per il potere tra le grandi forze popolari in quanto rappresentanti delle mas-se; masse che si suppone avrebbero bisogno, per sapere come agire, di essere guidate dai loro capi e gruppi dirigenti. Concezione del tutto diversa dalla politica come confronto pluralista tra le idee individuali, che il separatismo rende possibile e promuove con l’obiettivo di creare le condizioni per far emergere di volta in volta ricette alternative per i problemi della società civile (per i liberali, ispirate sempre alla libertà del cittadino). La DC era attenta pressoché solo alla crescita del PCI e del comunismo, nell’incertezza sul giudicarla o no inarrestabile e in ogni caso dibatteva sul come frenarla per autotutelarsi. Le fluttuazioni interne negli assetti del partito DC esprimevano il riflettere sul passag-gio dal discutere sul pendolarismo della DC tra i laici al discutere sul rapporto tra le grandi forze popolari, un rapporto tale, quanto meno, da assicurare alla DC una solida compartecipazione. Era invece mol-to più ardua la transizione al principio della separazione tra Stato e Chiesa. Oltre al minacciare costantemente i permanenti interessi più temporali della gerarchia e dunque essere sgradita, avrebbe incontrato la dura opposizione del PCI fautore (fin dai tempi dell’articolo 7) della priorità dei rapporti tra le masse. E soprattutto avrebbe innescato un processo di gestione della cosa pubblica imperniato sui singoli cittadi-ni, più democraticamente conflittuale e più legato alla coerenza degli effettivi comportamenti. Dunque lontano dal modo di essere della DC stessa.

Nel luglio del 1975 tutte queste problematiche erano avvertite nel mondo DC, che, contrariamente alle sommarie tesi giornalistiche, non è mai stato legato a banali superficialità. Anche perché i risultati delle regionali e delle amministrative della primavera precedente, avevano registrato una netta avanzata del PCI e la questione di trovare una via di uscita era dominante. Impermeabile all’idea di separatismo, la DC decise di restare fedele a sé stessa, di cambiare la forma per continuare la sostanza del proprio predominio. In un clima di enorme preoccupa-zione per il proprio futuro, fu deciso a stretta maggioranza di far segre-tario il moroteo Zaccagnini (con l’appoggio dello stesso defenestrato Fanfani) con il resto una marea di schede bianche dei dorotei (incre-duli di trovarsi minoritari dopo oltre 15 anni) e degli andreottiani. Senza dirlo con chiarezza, si era deciso che per mantenere il potere era opportuna una linea di solidarietà nazionale (formula che ammantava di responsabile preoccupazione per l’Italia l’effettiva logica di com-promesso storico), di fatto un felpatissimo accordo sotterraneo con il

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PCI di Berlinguer. Nel semestre successivo, Moro (il quale, con il suo 5% della DC, era insieme Presidente del Consiglio e capo corrente del Segretario Politico) fece diventare sempre più fitta la rete di concreti rapporti con l’opposizione comunista per occupare il sottogoverno na-zionale e locale. I socialisti finirono per accorgersi che intorno a loro si stava facendo terra bruciata, pur essendo determinanti per il governo. E il 31 dicembre 1975 il Segretario socialista De Martino scrisse un ar-ticolo rinfacciando alla DC il disprezzo per il PSI accompagnato dalle riverenze ai comunisti, nonostante che il PCI fosse all’opposizione. E concluse che il PSI rifiutava l’inversione di fatto dei ruoli tra PSI e PCI e si ritirava dalla maggioranza.

Il punto è che il PSI restava immobile sulle posizioni tradizionali degli equilibri più avanzati. Voleva essere un partito di sinistra concor-rente ma non alternativo al PCI. Dunque lavorava a non farsi aggirare e trascurava che la politica di Berlinguer era proprio aggirare i sociali-sti attraverso il rapporto diretto con le masse cattoliche. Di fatti il PCI addossò al PSI la responsabilità della crisi e manovrò sottobanco per assicurarsi che Moro restasse Presidente del Consiglio. Effettivamente venne il Moro V, monocolore DC con l’astensione del centro sinistra e dei liberali, ma le condizioni nel paese permanevano assai difficili, in particolare per la DC, assediata da contestazioni di vario genere. Per di più a fine anno la Cassazione aveva dato il via alla fattibilità del referendum abrogativo sull’aborto promosso da Espresso-Lega 13 maggio. Questo (mentre Paolo VI insisteva per “una equa e moderna revisione” del Concordato in modo che “i punti essenziali vi trovino la loro leale ed amica conferma”) aveva impresso una accelerazione alla discussione parlamentare per una legge condivisa sull’interruzione di gravidanza, con l’intenzione di evitare le spaccature frontali del refe-rendum. Alla Camera, per alcune settimane, le cose andarono avanti, tanto che il liberale Bozzi venne nominato relatore della maggioranza della Commissione. Ma sotto traccia operavano i gruppi del mondo cattolico, esterno e interno alla DC, che volevano una legge al fondo rispettosa dei principi sanciti dalla Chiesa in difesa dalla vita. Così il compromesso trovato in Commissione venne preso in contropiede in aula da un emendamento Piccoli che ne vanificava spirito e contenuto. Messo ai voti a scrutinio segreto, l’emendamento venne approvato dal blocco DC e MSI per pochi voti.

Gli eventi presero allora una via quasi obbligata. Essendo stata fissata a giugno (il 13) la data del referendum abrogativo degli artico-li del Codice Rocco, emerse un’altra volta una convergenza obiettiva tra più mondi. Il mondo più tradizionalista e conservatore (che non

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voleva rischiare l’abrogazione attraverso il referendum, preoccupato anche delle manifestazioni in appoggio del referendum fatte secondo l’Osservatore romano da “una sarabanda femminista” che con la parte-cipazione dell’UDI – l’organizzazione femminile del PCI – “disprezza chi crede e difende la legge morale”), il mondo genericamente laico e referendario (che non voleva rischiare l’approvazione parlamentare di una nuova legge sull’aborto assai arretrata) e il mondo moroteo (che voleva evitare una contrapposizione frontale in un modo o nell’altro tra i referenti delle masse popolari, cosa che avrebbe ostacolato la sua strategia generale). Le elezioni anticipate sarebbero state la soluzione per evitare a tutti il rischio. E ancora una volta si votò anticipatamente: il 20 giugno 1976.

Essenzialmente i risultati soddisfecero le prospettive morotee. La DC confermò il risultato di quattro anni prima risalendo assai rispetto alle ultime amministrative; il PCI mantenne le amministrative e dun-que avanzò del 7% sul 1972; il PSI restò fermo; PSDI, PLI e MSI arre-trarono complessivamente di circa il 7%. Nel complesso DC e PCI in-sieme passarono dal 65,8% al 73,10% (fino ad oggi il risultato biparti-co di parecchio più alto dopo il 1948, comprendendo il celebrato 2008, che non è stato per niente un successo per il bipartitismo, al contrario). Dunque la situazione era che, se da una parte con le elezioni anticipate la legge sul referendum rinviava al 1978 il referendum Espresso-Lega 13 maggio, dall’altra la filosofia del compromesso storico aveva molto tempo per svilupparsi e poter affrontare anche l’importante questione di una legge accettabile (anche se non condivisa) sull’interruzione di gravidanza. La situazione generale restava molto difficile per l’impaz-zare del terrorismo e il passaggio politico si presentava assai delica-to. Ai cultori democristiani della strategia del mantenere comunque il potere, la Presidenza del Consiglio affidata al proverbiale realismo di Andreotti parve la scelta più adatta per ricompattarsi all’interno e gestire la situazione con un monocolore che si sarebbe retto sulle astensioni dal PCI al PLI.

Quasi contemporaneamente, vi fu il fatto nuovo dell’arrivo di Cra-xi alla Segreteria del PSI. Che, anche per la modalità contorta con cui si realizzò, non fu inizialmente percepito come l’inizio di una nuova era socialista, destinata a durare oltre un quindicennio e con il tempo indirizzata sull’autonomia e sul netto distacco dal comunismo e dal PCI. Ma nonostante questo cambio di segretario, nella politica socia-lista non vi furono, per il momento, cambiamenti in tema di principio di separazione. Continuò a restare assente nell’agenda loro e degli altri.

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Naturalmente restavano bene in vista le questioni del Concordato e dell’aborto. Sul Concordato vi era stato il fatto nuovo che nel febbraio 1976 Paolo VI in persona aveva detto che “la Sede Apostolica è pronta a dedicare la sua attenzione ad una equa e moderna revisione”, eppu-re trattative reali non c’erano mentre continuava un lavorio riservato condotto da ristrettissimi ambienti diplomatici, nonostante la materia avessero un contenuto assai rilevante per il tipo di convivenza italiana. Il quadro cambiò molto con Andreotti Presidente del Consiglio, che prese in mano l’intera questione, togliendola agli ambienti dell’alta burocrazia e ai professori che lavoravano nei corridoi. Da un lato rese parlamentare la discussione del Concordato, dall’altro concordò con il Vaticano una commissione a sei (Gonella, Jemolo ed Ago per l’Ita-lia, i cardinali Casaroli e Silvestrini più padre Lener per il Vaticano) per procedere concretamente. Così concretamente che a fine novem-bre 1976 Andreotti fu in grado di presentare alla Camera un progetto di Concordato-bis che fino ad allora tutti ignoravano, introducendolo con la considerazione che “una denuncia non avrebbe altro significato che rimettere in discussione valori fondamentali di equilibri civili”. Il dibattito mise in rilievo che i radicali (entrati alla Camera il giugno pri-ma) e Democrazia Proletaria erano per l’abrogazione del Concordato, i liberali per il separatismo consensuale, il PCI contro il separatismo e contro il fossile di Montale o la foglia secca di Jemolo di lasciar ca-dere il Concordato (Natta disse i rapporti con la Chiesa “non erano determinati tanto dal separatismo o dal Concordato ma dai contenuti che l’uno o l’altro regime possono assumere nella concreta determinazione storica”). I socialisti di Craxi sostennero l’importanza di una revisione che armonizzasse il Concordato alla Costituzione. La conclusione (PLI astenuto) fu di proseguire nella trattativa con il Vaticano tenendone in-formato il Parlamento. E cominciarono anche le trattative con le altre confessioni religiose.

Pressoché in parallelo, la Corte Costituzionale continuava la sua opera per riportare la legislazione nell’alveo di una corretta interpreta-zione del Concordato che non attribuisse privilegi indebiti alle struttu-re cattoliche. La sentenza 108 / 1977 sancì la illegittimità costituzionale della norma che escludeva dalle assicurazioni sociali obbligatorie per la invalidità, vecchiaia, i religiosi alle dipendenze di enti ecclesiasti-ci. Venne argomentato che il rapporto previdenziale sussisteva tutte le volte che una prestazione lavorativa ne aveva i requisiti e il vincolo di obbedienza religiosa non è ragione di un diverso trattamento. La legge impone il trattamento previdenziale nel caso di attività di lavo-ro qualsiasi ne siano poi le sue modalità di svolgimento, anche quelle

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rientranti nei criteri dell’obbedienza ecclesiastica. Da rilevare che, an-cora una volta, l’Avvocatura dello Stato sosteneva la tesi della piena costituzionalità della legge che dava questi privilegi agli enti religiosi.

L’argomento più alla ribalta in quel periodo fu la questione della cosiddetta legge sull’aborto. Le proposte di legge si chiamarono tutte interruzione di gravidanza, anche se i liberali premettevano la dizione procreazione responsabile. Via via, le posizioni dei partiti laici si ag-gregarono, anche se questo accordo sulla questione interruzione della gravidanza, peraltro già assai importante, non divenne mai una con-vergenza sul suo significato culturale. Coesistevano tante logiche, quel-le della procreazione responsabile, del femminismo dell’utero me lo gestisco io, della maternità sociale, dell’anticlericalismo, della crescita del ruolo della donna, dell’unità delle masse di sinistra su problemi di una società evoluta aperto al rapporto con le masse cattoliche femmi-nili, del voler adeguarsi alla realtà giuridica di altri paesi percepiti vi-cini nell’ìmmaginario collettivo. La discussione alla Camera approdò ad un testo condiviso che, ad inizio primavera 1977, venne approvato a stretta maggioranza in assemblea (naturalmente con l’opposizione di DC e MSI). È opportuno tuttavia ricordare che tra i contrari vi furono i quattro deputarti radicali che si batterono in aula, a lungo e con de-terminazione, contro una legge da loro definita confusa, inconsistente e mistificante.

Il testo approvato alla Camera passò immediatamente al Senato dove in commissione emerse subito la volontà dell’area PCI di utiliz-zare l’occasione per proseguire sulla strada del compromesso storico. La cosa si manifestò in una serie di revisioni del testo ma quella più emblematica fu annunciata l’11 maggio dal senatore cattolico della Si-nistra Indipendente, La Valle, la modifica la titolo della legge premet-tendo alla frase interruzione di gravidanza, quella di “Tutela sociale della maternità”. Una scelta chiara a favore di una lettura sociologica tendente a prescindere dalla individualità della donna. Questo non servì ad acquisire il consenso della DC e dall’altra parte si attirò i ful-mini del Movimento Liberazione della Donna, diretto da Eugenia Roccella (la stessa che oggi, nel 2010, è attivissima teocon), che definì il tutto una cosa ambigua, macchinosa, gesuitica.

In ogni caso, l’intento era quello di sostenere il compromesso stori-co. Lo chiarì esplicitamente l’intervento in aula di due settimane dopo di un altro senatore della Sinistra Indipendente, Gozzini, il quale, par-lando a favore del nuovo testo, disse apertamente “chi è contro questa legge è contro il compromesso storico”. Ancora due settimane e venne preso in parola. Quando si arrivò al voto finale, i senatori DC pre-

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sentarono una proposta preliminare di non passaggio agli articoli che venne votata a scrutinio segreto. Sulla carta i gruppi a favore della leg-ge sull’aborto contavano 161 voti, ma il risultato fu 156 voti per il non passaggio agli articoli e solo 154 a favore del passaggio. Non si è mai saputo con certezza i nomi di chi defezionò, ma le analisi convennero che i franchi tiratori venivano dall’area di centro sinistra contraria ap-punto al compromesso storico e che perciò cercava di mantenere vivo un punto di frizione con il mondo cattolico.

Due giorni dopo, alla Camera, il socialista Balzamo, il liberale Boz-zi, il comunista Natta, il repubblicano Mammì e il socialdemocratico Preti presentarono di nuovo un progetto di legge che riproduceva il te-sto uscito dalle Commissioni al Senato e basato sulla depenalizzazione nonché sulla autonoma decisione finale della donna. Fu evidente che la questione aborto era ritenuta di per sé una cosa diversa dal compro-messo storico e che quindi doveva andare avanti il processo legislativo per superare le disposizioni del codice Rocco. I radicali andavano per conto loro e, nel corso del 1977, raccolsero le firme per abrogare il Concordato (qualche mese dopo, la sentenza 16/78 della Corte Costi-tuzionale dichiarò inammissibile questo referendum perché la legge del referendum esclude la possibilità di abrogare trattati internazio-nali). Nelle aule parlamentari il disegno di legge sull’aborto fece la sua strada. Vi furono appassionate discussioni, prima alla Camera (con l’opposizione aperta e insistente, ancora una volta, dei radicali) e poi al Senato, ma alla fine venne approvato un nuovo testo di legge, ambedue le volte con strette maggioranze. Così, pochi giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro, a metà maggio del 1978, venne varata la famosa 194/1978 che sancì non l’aborto libero bensì il diritto della donna, qualora ne ricorrano le condizioni, ad interrompere la gravidanza, gratuitamente e nelle strutture pubbliche, e insieme stabilì politiche di prevenzione da attuarsi presso i consultori familiari. In pratica questo fu il culmine dell’epoca in cui in Parlamento esistette una faticosa maggioranza dei laici. È chiaro che di questa maggioranza non facevano parte i radicali. I quali erano tanto contrari alla legge da poco approvata, da insiste-re presso la Cassazione perché venisse tenuto lo stesso il referendum abrogativo delle norme del Codice Rocco da loro presentato nel 1975.

15. I due referendum abrogativi dell’aborto, 1981

Nei mesi successivi al maggio 1978, l’opinione pubblica era atten-ta principalmente ad avvenimenti lontani dal terreno abituale per le

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questioni Stato Chiesa. La situazione politico sociale era sempre più incandescente e presa dall’urgenza di tensioni terroristiche che non declinavano. Inoltre, in pochi mesi si verificarono notevoli avvicenda-menti nelle massime cariche sia dello Stato che della Chiesa, quasi a rimarcare il cambio di epoca. Dopo la scomparsa di Moro, mutò anche il Presidente della Repubblica, a seguito delle dimissioni anticipate di Leone e dell’elezione a luglio di Sandro Pertini. Ad agosto morì Paolo VI, venne eletto Papa Giovanni Paolo I che decedette a sua volta dopo un mese e così, a settembre, iniziò il lungo Pontificato di Karol Wojty-la, con il nome di Giovanni Paolo II, dopo secoli un Papa non italiano ma proveniente dalla Polonia.

La novità politica più rilevante che si profilò nel periodo, fu tut-tavia l’esaurirsi della politica di compromesso storico praticata attra-verso la solidarietà nazionale delle astensioni sul governo Andreotti. Di mese in mese diveniva sempre più chiaro che la gestione essenziale del potere restava saldamente nelle mani democristiane, che l’appor-to comunista era in pratica aggiuntivo per poter far meglio accettare i sacrifici attraverso la linea dell’austerità (ma non serviva ad aprire le porte del governo), che una simile strategia non dava risposte né sul versante della sinistra terrorista né su quello delle montanti scon-tentezze tra i partiti laici minori. In prima fila quelle crescenti del PSI (nell’agosto vi fu il famoso saggio craxiano su Proudhon, contro il marxismo ortodosso). Perfino Berlinguer dovette prenderne atto (Giorgio Amendola diceva già da un anno e mezzo che non si poteva essere accondiscendenti con la sinistra dei “compagni che sbagliano”, eufemismo per indicare la lotta armata). Così a dicembre 1978 Berlin-guer si dissociò sull’adesione italiana allo SME e a fine gennaio 1979 ritirò l’appoggio al governo, aprendo la strada a nuove elezioni antici-pate. Che questa volta furono per ragioni più apertamente politiche. Il 3 giugno 1979, la DC restò stabile, il PCI perse il dodici per cento dei parlamentari che passarono in gran parte ai quattro partiti laici e ai radicali che ottennero il loro massimo. Alla solidarietà nazionale non si tornò più.

In materia concordataria, erano continuati fitti contatti ma, a par-te la stesura di alcune bozze di ipotesi di accordo, non si era andati oltre. A novembre ’78 Gonella aveva illustrato la situazione ai gruppi parlamentari e ai partiti (si era arrivati alla terza bozza di testo di mo-difica). Poi a dicembre 1978 si tenne un nuovo dibattito in Senato sul Concordato, in cui i partiti revisionisti (a parte i separatisti liberali) ri-conobbero che dei progressi vi erano stati ma che ancora tanto restava da fare. Di fatti, la mozione finale elencava questi aspetti da risolvere

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(soprattutto la legislazione matrimoniale, gli enti ecclesiastici, la reli-gione nelle scuole). Nel corso del 1979, la questione della revisione del Concordato restò un pò nelle retrovie, anche se la Commissione conti-nuò a riunirsi, anche perché nel mondo laico diversi, e in particolare i liberali, avvertivano il pericolo che una accelerazione non alla luce del sole poteva essere una cattiva consigliera e indurre a favorire troppo la controparte. Nel marzo 1980 fu firmata una nuova bozza di intesa tra l’Italia e il Vaticano (la quinta), che però, nonostante le ripetute rassicurazioni provenienti dalla Presidenza del Consiglio rappresen-tata dalle tre personalità che nell’anno seguente ne furono titolari in successione (Andreotti, Cossiga e Spadolini), non venne mai trasmessa ai parlamentari e ai partiti.

Nell’ottobre 1979, la Corte Costituzionale proseguì, con la senten-za 117, l’opera di adeguamento della legislazione vigente alla Costitu-zione, dichiarando che “la libertà di coscienza, riferita alla professione sia di fede religiosa sia di opinione in materia religiosa, non è rispettata sol perché l’ordinamento statuale non impone a chicchessia atti di culto; la libertà è violata, infatti, anche quando sia imposto al soggetto il com-pimento di atti con significato religioso”; e di conseguenza erano inco-stituzionali alcuni articoli del codice di procedura civile e procedura penale nei passaggi delle formule di giuramento in cui, dopo i riferi-menti al davanti a Dio, non era contenuto l’inciso “se credente”. Una questione in apparenza meno rilevante ma di grande importanza di principio rispetto alla libertà di religione.

In materia di aborto, la problematica veniva tenuta calda da due gruppi destinati poi a rivelarsi minoritari. Da una parte c’erano i set-tori del mondo cattolico più legato a concezioni tradizionaliste, che non accettavano la nuova sconfitta su un tema sensibile come l’aborto ma che non avevano più la capacità di comprendere la società italia-na, soprattutto quello che volevano le donne italiane. Le loro posizio-ni non promanavano direttamente dalla gerarchia (più avvertita del fatto che la missione della chiesa attiene ai principi religiosi e non è quella di capire la gente a fini politici), anzi erano loro ad influenzarla fortemente, seppure la direzione della chiesa fosse cambiata a seguito del passaggio ad uno straniero (nel rapporto tra la fede e il mondo esterno cominciava a farsi strada una concezione diversa, più attenta ai principi religiosi che alla mobilitazioni per riaffermare il potere in Ita-lia). Dall’altra parte stavano i radicali. Continuavano la loro battaglia tematica sull’aborto inquadrandolo non come tema in sé bensì come tema funzionale alla loro strategia di imporre ai cittadini l’adozione della loro visione sulle cose del mondo, appunto attraverso un gruppo

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di temi sottoposti a referendum. Dunque i radicali erano sempre più chiaramente impegnati a garantire un proprio presenzialismo di tipo politico generale, che si sostituiva all’azione politica condotta tramite il confronto di idee e culture a livello parlamentare.

Così, nell’estate 1980 furono presentati dieci referendum abrogati-vi radicali (tra cui quello sull’aborto) e due referendum sempre contro la 194 del cattolico Movimento per la Vita di Carlo Casini (lo stes-so magistrato dell’arresto di Conciani). Dei tre referendum richiesti contro la 194, la Corte Costituzionale ne ammise solo due. Infatti a febbraio 1981 la cosiddetta richiesta massimale del Movimento per la Vita non fu ammessa poiché chiedeva l’abrogazione dell’articolo della 194 che prevedeva l’aborto terapeutico. La Corte sancì che tale previ-sione non poteva essere abrogata via referendum in quanto attuativa del costituzionale diritto alla salute, che non poteva esser sottoposto alla discrezionalità del legislatore. A metà maggio 1981, dopo una cam-pagna dai toni propagandistici molto duri (Pannella sostenne che la legge perpetuava la situazione preesistente degli aborti clandestini), vi fu il voto che ripetette sostanzialmente i raggruppamenti di quella del referendum per il divorzio, con i partiti laici distinti visibilmente dal PCI nel sostenere il No contro le due proposte di abrogazione e la DC e il MSI a sostegno del Sì a quella del Movimento per la Vita.

Il referendum radicale voleva introdurre l’aborto libero abrogando una serie di limiti previsti dalla legge 194; la proposta venne respinta dal 88,4% degli elettori (una differenza di più di 23 milioni e ottocen-tomila elettori). Il referendum del Movimento per la Vita voleva abro-gare alcune norme della 194 così da rendere più stringenti le condizioni in cui era ammesso l’aborto (in pratica la possibilità di scegliere veniva tolta alla donna e data al medico); la proposta venne respinta dal 68% degli elettori (una differenza di 11 milioni e quasi quattrocentomila elettori). La legge 194/1978 fu così confermata in modo netto. Non è banale – considerate le successive vulgate falsificatrici tuttora correnti sui mass media – sottolineare non solo che i radicali si batterono fino all’ultimo contro la 194 così come è, ma che la loro tesi di aborto più libero venne accolta solo da tre milioni e mezzo di cittadini mentre erano più di 10 milioni e centomila quelli che volevano restringere le norme della 194. Ma sono appunto questi i dati di fatto che le vulgate falsificatrci alla base del conformismo consociativo cercano di tenere nascosti. Per far credere che la legge sull’aborto sia stata una sorta di colpo di mano degli ambienti radicali (presupponendo che siano non affidabili) e depistare a proposito delle procedure politiche che hanno portato all’approvazione.

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Questo dato di fatto conferma che dare alla convivenza regole ac-cettabili per tutti, è questione assai più complessa dello sbandierare vociando le personali convinzioni di vita confondendo la propria liber-tà con quella degli altri. E che sostenere le proprie convinzioni e basta, è cosa ben lontana dalla logica del principio di separazione tra Stato e Chiesa. Una logica che punta a creare le condizioni non per imporre una particolare convinzione in campo etico, ma per consentire di con-vivere attraverso il libero confronto di tutte le convinzioni.

16. Il nuovo Concordato del 1984

Come ho già detto, le annose trattative in materia di revisione con-cordataria languivano da mesi, anche se proprio nell’aprile ’81 Go-nella, il presidente italiano della Commissione, aveva consegnato al Presidente del Consiglio (in quel momento Forlani) l’ultima bozza su cui anche il Vaticano assentiva. Peraltro, il Governo aveva cambiato indirizzo da tempo e ora sarebbe stato lui a contattare direttamente la Santa Sede per le conclusioni. Siccome le incertezze del quadro politi-co erano molte, fu preferito non portare in parlamento l’ultima bozza. Poco dopo, il risultato del referendum a metà maggio e le complesse vicende di vario genere che andavano capitando (elenchi della loggia P2, attentato di Ali Agcà al Pontefice, lo scandalo del vaticano Istituto per le Opere di Religione, IOR, il sequestro Cirillo) fecero cadere il democristiano Forlani. E l’arrivo a Palazzo Chigi di un laico, Spado-lini (con il primo pentapartito DC-PSI-PSDI-PRI-PLI), fece sperare in alcuni ambienti che si stessero creando le migliori condizioni per concludere la trattativa. Però la situazione restò in completo stallo, senza che nell’ultimo semestre 1981 si arrivasse ad alcun incontro po-litico esplicito, in parte anche perché le gravissime vicende legate allo scandalo del vaticano Istituto per le Opere di Religione resero molto complicati i rapporti con la Santa Sede.

A gennaio del 1982, vi furono due sentenze, la 16/82 e la 18/82, del-la Corte Costituzionale (presieduta da Elia, uno di quei professori cat-tolici che quasi dieci anni prima avevano tentato invano la strada della revisione della legge sul divorzio) che, pur con molta circospezione e cautela, sancivano, in materia di matrimoni non concordatari celebrati in Chiesa, che la copertura costituzionale derivante dall’articolo 7 non significava affatto che la riserva di giurisdizione a favore della struttura ecclesiastica potesse estendersi al punto da evitare, in fase di trascri-zione dei relativi atti ecclesiastici, i controlli del rispetto dei principi

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dell’ordinamento italiano, che in ogni caso l’autorità giudiziaria ita-liana è tenuta a compiere. Diveniva sempre più chiaro, insomma, che la struttura concordataria non riusciva più a reggere la realtà pratica della convivenza regolata dalla Costituzione. Venne allora stabilito di ritoccare ancora l’ultima bozza di revisione del Concordato, che fu poi consegnata a metà maggio ’82 ma che di nuovo non venne trasmessa ai parlamentari e ai partiti.

Contemporaneamente, i primi di maggio, nella DC ebbe inizio l’era De Mita che al Congresso venne eletto segretario, superando Forlani, dagli zaccagniniani e dalla nuova corrente Piccoli-Andreotti-Fanfani. La linea era rinnovamento del partito nel quadro del pentapartito, cauta competizione nei confronti di Craxi (cui Forlani prestava più at-tenzione) e sopportazione del governo Spadolini. Nello stesso periodo esplose la vicenda del commissariamento del Banco Ambrosiano in cui lo IOR aveva moltissime responsabilità e nel frattempo divenivano sem-pre più difficili i rapporti tra Craxi e i repubblicani. Ad agosto i ministri socialisti si ritirarono dal governo ma Spadolini restò in carica con un governo fotocopia. A novembre, però, dopo una lite furibonda tra due ministri, il socialista Formica e il dc Andreatta, Spadolini cadde, il PRI uscì dal governo e assunse la carica di Presidente del Consiglio Fanfani, il quale riprese in mano i testi della bozza più recente di revisione del Concordato. Il quadro politico restava però instabile, anche perché sul-la sinistra il PCI di Berlinguer riconosceva sì che l’ipotesi del compro-messo storico era naufragata, ma non comprendendo che la questione stava non nelle formule quanto nella stessa identità politico ideologica del PCI. Non si rendeva conto di non essere più credibile e proponeva come se nulla fosse il superamento della pregiudiziale anticomunista con un governo di salute pubblica imperniato su tecnici (“l’alternativa democratica”). Una proposta che non aveva alcun disponibilità da par-te dei socialisti. Gli equilibri stavano passando nelle mani di Craxi che ad aprile ’83 tolse l’appoggio a Fanfani di fatto aprendo la strada ad una ulteriore interruzione anticipata della legislatura.

E mentre pochi giorni prima del voto avvenne l’improvviso e as-solutamente clamoroso arresto di Enzo Tortora, giornalista televisivo notissimo e allora consigliere nazionale del PLI (arresto con cui i Pub-blici Ministeri avviarono la pluridecennale stagione dei loro interventi mediatici, spesso suffragati nelle dichiarazioni da prove inequivocabi-li e poi finiti dopo anni con assoluzioni complete, interventi che non sempre hanno consentito agli interessati di ricuperare la dignità inde-bitamente colpita), alle elezioni politiche di fine giugno 1983, la DC, nonostante il piglio rinnovato, perse oltre il 5% conservando solo un

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piccolo margine sul PCI che era arretrato dello 0,5%. I quattro laici crebbero complessivamente del 4,5% (più di tutti il PRI), guadagnò il MSI, +1,5%, e persero i radicali, -1,3%. Visti i risultati e considerato il quadro politico complessivo, il Presidente della Repubblica confe-rì l’incarico di governo a Bettino Craxi alla testa di un pentaparti-to. Craxi assunse subito in prima persona la questione revisione del Concordato, affidando i contatti tecnici a Margiotta Broglio, studioso della materia (da anni sostenitore della tesi di un concordato quadro, composto di pochissime norme generali sulle grandi questioni, e del rinvio delle altre materie a leggi dello Stato frutto di incontri con la volontà della Chiesa), e a Gennaro Acquaviva, suo consigliere politico ufficiale, proveniente dai movimenti cattolici delle ACLI di Labor di cui era stato alto dirigente negli anni sessanta. La linea adottata fu una stretta conclusiva sui testi (vi erano state sette bozze di revisione) che giunse in porto nell’arco di pochi mesi. Allora Craxi fornì una sommaria informazione alle forze politiche cui poi seguì il dibattito in Senato il 25 gennaio ’84 e alla Camera due giorni dopo, onde poter successivamente procedere alla firma definitiva.

A parte qualche piccola differenza tra l’informativa e quanto ven-ne detto dal Presidente del Consiglio nelle aule parlamentari, sena-tori e deputati constatarono che in sostanza si trattava di un nuovo Concordato vero e proprio (anche se non vennero messi a conoscenza preveniva del testo che il Governo stava per firmare). Il Presidente del Consiglio, trattando del Concordato con la Chiesa cattolica e insieme della quasi contestuale Intesa con la Tavola Valdese, ripercorse i tem-pi e i modi in cui si era venuta a formare la sesta ed ultima bozza di revisione. E concluse: “senza pretendere merito alcuno nella soluzione di un problema che l’azione dei Governi che hanno preceduto l’attuale e l’intervento attivo del Parlamento, ma anche la maturazione stessa del-la coscienza civile nei laici e nei cattolici hanno contributo a sciogliere, ritengo che la piena attuazione del dettato costituzionale in materia di religione possa risolversi nella migliore cooperazione tra società civile e società religiosa consolidi i fecondi rapporti tra lo Stato e la Chiesa nel quadro di una moderna separazione che, proprio in quanto tale, necessita non di arcaici steccati o di monopoli delle coscienze, ma di uno Stato laico nel quale i cittadini, senza distinzione di credenze, in piena e consolidata libertà possano sempre compiere scelte religiose consapevoli.”

Il dibattito fu di spessore e tutti tendevano a sottolineare il coeren-te impegno negli anni sulla materia del proprio partito. Già questo fa capire che la revisione, pur innovativa in molte disposizioni, lasciava tuttavia inalterata la questione centrale dei rapporti tra Stato e Chiesa

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e che, sotto la superficie, le diversità restavano rilevanti. Ciascuno in-terpretava la situazione a proprio piacimento al di là della natura dei fatti. Così le parole di Craxi, proprio quando si apprestava a firmare il nuovo Concordato, cercavano di far intendere che lui e i socialisti erano fautori anche della politica opposta a quella concordataria, la “moderna separazione” (tanto che, ad esempio, a parte le dichiarazio-ni, ovviamente non ebbe seguito l’auspicio del superamento della le-gislazione sui cosiddetti culti ammessi). E Bufalini, parlando a nome del PCI continuava a battere sul tasto delle grandi convergenze, di tutto e il contrario di tutto: “Ciò che possiamo fare oggi e nel prossimo futuro è contribuire alla formazione di una base comune nella quale la tradizione risorgimentale, quella del cattolicesimo liberale e democratico e le tradizioni del movimento operaio e delle altre componenti laiche, si confrontino dando ciascuna il meglio di sè. E pur con le differenze di pensiero che hanno caratterizzato tanti artefici della storia italiana, non esitiamo a riconoscere che un compimento positivo dell’opera alla quale ci accingiamo rappresenta il frutto di lotte e di battaglie lontane e diver-se di quanti gettarono le basi dell’Italia unita e di quanti, da Francesco Ruffini ad Antonio Gramsci, da Gobetti a Togliatti, da Calamandrei a Sturzo, hanno vissuto ed alimentato principi non caduchi di tolleranza civile e di autonomia dello Stato, di libertà religiosa e di libertà politica”. Concetti anche questi che, se le parole hanno un senso, servono più a definire una politica di separazione tra Stato e Chiesa che non a mo-tivare quel Concordato per cui il PCI votò. Ma anche Fabbri (PSI), Gualtieri (PRI), Schietroma (PSDI) calcarono gli accenti sulla coeren-za dei rispettivi partiti, restando ecumenici sulla questione essenziale, separatismo sì o no.

Nei vari schieramenti vi furono però posizioni di parlamentari che dissero le cose come stavano. Vi furono contrari al nuovo Concordato perché abrogazionisti Enriques Agnoletti (sinistra indipendente) e Mel-lini (Partito Radicale), vi furono contrari perché utopisti come La Valle, vi furono favorevoli al nuovo Concordato perché antiseparatisti catto-lici come il DC indipendente Scoppola. Enriques Agnoletti smorzò gli entusiasmi per le modifiche osservando che “le modifiche proposte non sono il risultato di una trattativa che le ha precedute tra le parti, ma sono il risultato del fatto che gran parte delle proposte e delle modifiche non fanno altro che sancire quanto era stato già acquisito, grazie alle sentenze della Corte costituzionale, ai referendum, alla diversa coscienza e pratica socia-le, all’aumentata e diffusa libertà di opinione, di espressione, di cultura, di stile di vita privata e sociale. Cristallizzare quanto è stato acquisito, anche con miglioramenti soprattutto formali, significa, sì, convalidarli, ma può

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significare bloccare una possibile evoluzione futura per conquistare nuovi ed imprevedibili spazi di libertà che il vecchio Concordato aveva tentato di bloccare senza riuscirvi perchè era cambiata la società a cui si rivolgeva”. Mellini criticò i socialisti appunto perché “non rifiutate la politica delle foglie secche del Concordato, perché state rinverdendo, e per rivendere, le foglie secche del Concordato che già sono cadute appunto perché secche”. E precisò “sbaglia chi parla della revisione dei Patti Lateranensi, perché qui evidentemente si intende soltanto procedere alla revisione del Con-cordato: e noi siamo contrari a questa revisione, perché convinti che se c’è qualcosa da rivedere, sarebbe semmai il Trattato”.

Tra gli interventi dichiaratamente del mondo cattolico e sempre improntati alla chiarezza, i più rilevanti furono quelli del tutto con-trapposti di La Valle (Sinistra Indipendente) e di Scoppola (Dc). La Valle pronunciò un intervento in cui richiamava “la decrepitezza e l’am-biguità dello strumento concordatario “ed espresse “la convinzione che si dovesse giungere ad un superamento pacifico e consensuale della forma concordataria, superamento già inscritto nel sistema di universalità ed eguaglianza di diritti e di libertà della Costituzione repubblicana, supe-ramento già indicato come via maestra dal complesso dell’insegnamento conciliare… Nell’insegnamento conciliare la Chiesa chiedeva non più concordati, ma concordia tra comunità religiosa e comunità civile”. Un discorso appassionato di un cattolico di livello fautore di una Chiesa di popolo dedita ad un’opera di evangelizzazione in un forte clima utopico. Ma davvero non confessionale. Scoppola, invece, pronunciò un discorso apertamente antiseparatista e nel finale ebbe cenni di stu-pore, appena celati ma soddisfatti, perché proprio un esponente della cultura socialista veniva indotto a promulgare un Concordato. Quanto all’antiseparatismo, Scoppola affermò in modo non equivoco che “nel primo comma dell’articolo 7, la libertà della Chiesa ha uno spessore isti-tuzionale, per cui la libertà della Chiesa non può tornare ad essere soltan-to la libertà di singole coscienze: la formula della Costituzione non può essere reinterpretata nella formula, pur altissima e degnissima sul piano storico, della libera Chiesa in libero Stato nella quale, come i giuristi, gli ecclesiastici e gli storici sanno, l’accento cadeva su quell’« in» che sotto-lineava una soggezione”. Risulta evidente che le parole di Scoppola, a favore del nuovo Concordato, erano di fatto opposte a quelle del Presi-dente del Consiglio, di molti altri laici e anche del comunista Bufalini.

La sola coerente rivendicazione del principio di separazione venne dai parlamentari del PLI, sia al Senato che alla Camera. Al Senato par-larono Valitutti e per dichiarazione di voto Malagodi. Valitutti, dopo aver celebrato il discorso di opposizione di Croce nel 1929, rilevò che

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lo stesso previsto rinvio a future non facili intese con il Vaticano su materie importanti dimostrava “preferibile una soluzione di tipo separa-tistico che, senza sacrificare nessuna delle esigenze condizionanti la libertà della Chiesa e delle chiese, apra il varco alla definizione di rapporti tra Sta-to e Chiesa in Italia più corrispondenti alle specifiche funzioni e responsa-bilità delle due istituzioni… Spetta ai liberali testimoniare, nel presente e per l’avvenire, la superiorità della soluzione separatistica rispetto a quella concordataria”. Poi Valitutti disse che nell’impianto del nuovo Concor-dato “apprezzava particolarmente lo svuotamento delle definizioni con-cordatarie del rapporto tra Stato e Chiesa” e ribadì” la fedeltà dei liberali all’impegno di ricercare soluzioni più rispettose del principio sintetizzato nella formula storica « libera Chiesa in libero Stato » sottolineando di “credere fermamente nella forza morale che si emana dalle fedi religiose, purché siano fedi e non instrumenturn regni, fedi nei valori spirituali che le religioni hanno il fine di insegnare con mezzi morali. Perciò dobbiamo fare tutto quanto è in nostro potere affinché l’ordinamento giuridico di-fenda sempre di più e sempre meglio la Chiesa e le chiese dal rischio di cedere a tentazioni temporalistiche”. Malagodi ricordò al Presidente del Consiglio che non era stata esaminata la possibilità di “un semplice ac-cordo che rappresenti il superamento totale del concetto concordatario. Il fatto che il Concordato sia conchiuso malgrado la natura profondamente mutata delle parti che lo conchiudono aggrava la situazione; tutto quello che di progresso si è riscontrato nella struttura e nello spirito del nostro Stato e nello spirito stesso della Chiesa cattolica poteva, e a nostro giudizio avrebbe dovuto, portarci al superamento totale della forma concordata-ria, che è pur sempre una forma di privilegio. Il fatto che il Concordato non possa essere domani modificato, in base alla Costituzione, se non con il consenso dell’altra parte o con revisione costituzionale e che sia stato conchiuso appunto da queste forme nuove, tanto dello Stato quanto della Chiesa, rende più seria e più grave la constatazione che non siamo capaci di uscire dalla forma concordataria… sappiamo benissimo quali sono i termini che portarono per esempio un partito così poco cattolico come il Partito comunista a votare per l’articolo 7 alla Costituente e che lo por-tano ancora oggi, logicamente, a votare per la soluzione proposta… Noi crediamo con molti cattolici, e crediamo anche in armonia con lo spirito generale delle ultime riforme spirituali introdotte dal Concilio nella Chie-sa, che il Concordato sia una limitazione alla libertà della Chiesa e non il trionfo della libertà della stessa”. Malagodi concluse che il voto del PLI era “nella forma dell’astensione proprio per marcare che sappiamo che ci sono dei progressi, che però riteniamo insufficienti perché sul punto centrale non c’è progresso”.

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Alla Camera per il PLI parlarono Zanone e per dichiarazione di voto Patuelli. Non intervenne l’esperto tecnico della materia, Bozzi, per evitare un conflitto di interessi (altra epoca, altro stile) con l’es-sere lui il Presidente della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali. Zanone rispose all’obiezione che il tempo non sarebbe stato ancora maturo per il principio di separazione, affermando che “tuttavia verso un superamento si deve andare. Ma se il problema sta soltanto nel fatto che il tempo non è ancora maturo, allora occorre accele-rarne la maturazione. In proposito, debbo riconoscere che le linee indicate dal Presidente del Consiglio mi sembrano contenere alcune indicazioni utili per preparare proprio il superamento del sistema concordatario. Noi non abbiamo firmato al Senato e non firmeremo alla Camera il docu-mento che approva la revisione, perché riteniamo che oggi per regolare i suoi rapporti con una democrazia libera e garantista la Chiesa non abbia bisogno di concordati”. Patuelli sottolineò che “da sempre i liberali si battono per il superamento del Concordato. In questo coincidono anche sentimenti diversi, la convinzione politica liberale e in molti, in me ad esempio, la professione di fede cattolica… I parlamentari liberali si aster-ranno, perché, pur essendo stata capovolta la filosofia del Concordato del 1929, ci troviamo di fronte ad un Concordato, anche se ad un concordato-cornice… Auspichiamo che questa sia soltanto una fase di passaggio verso il definitivo e completo superamente del regime concordatario”.

Avuto il via libera dalle due Camere attraverso due mozioni firmate dai capigruppo del centro sinistra e del PCI, Craxi fece approvare il 17 febbraio in Consiglio dei Ministri il testo definitivo del nuovo Con-cordato e poi il 18 lo sottoscrisse a Villa Madama insieme al Cardinale Casaroli (il testo del nuovo Concordato si trova in Documenti, lettera f). Tre giorni dopo, il 21 febbraio, Craxi sottoscrisse a Palazzo Chigi con la Tavola Valdese rappresentata da Giorgio Bouchard quell’Intesa che pure era stata materialmente predisposta anni prima ed era rima-sta dormiente in attesa dell’accordo con il Vaticano (il testo dell’Intesa con la Tavola Valdese si trova in Documenti, lettera g).

Il nuovo Concordato ha una premessa esplicativa delle ragioni per la modifica consensuale del testo del 1929, e poi nell’articolato contie-ne alcune novità, dalla sottolineatura della reciproca collaborazione per il bene del Paese alla cancellazione della religione cattolica come sola religione dello Stato. E poi la redifinizione dei rapporti tra uffici dello Stato e uffici della Chiesa, una limitazione degli enti ecclesiastici alle finalità di religione e di culto (cui seguì la nomina di una apposi-ta commissione nelle settimane successive) e l’introduzione di nuovi sistemi di finanziamento degli Istituti per il sostentamento del clero,

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che fanno parte dell’ordinamento canonico ma erano finanziati dal-lo Stato; ora si apriva alla previsione della progressiva sostituzione di questo finanziamento diretto introducendone un altro affidato all’otto per mille dell’imposta delle persone fisiche. Poi vi era l’allineamento delle questioni del matrimonio concordatario alle vicende referendarie e costituzionali della Repubblica Italiana e la conferma, attraverso una nuova formula, della libertà di insegnamento per la Chiesa, lasciando a successive trattative la precisazione di una tutta una serie di questioni su programmi, orari, libri di testo, insegnanti. Veniva estesa l’assistenza spirituale, oltre che in campo militare, anche in ambito ospedaliero e carcerario, rinviata la questione della valorizzazione del patrimonio artistico a successive intese e stabilito che per il futuro la collaborazio-ne tra Stato e Chiesa cattolica era affidata alla Conferenza Episcopale Italiana piuttosto che al Vaticano stesso.

All’epoca si fece passare la doppia firma di Craxi sul nuovo Con-cordato e sull’Intesa Valdese come una storica decisione di oppor-tunità politica assunta da un grande statista. Che forse l’aveva presa anche conciliando le posizioni dell’allora (e per qualche mese ancora) suo vice segretario Valdo Spini, di famiglia nella Chiesa valdese, e del suo principale consigliere (per molti anni ancora) Gennaro Acquavi-va, viceversa un cattolico impegnato. Decisione venuta in un periodo di grande slancio della linea craxiana, che proseguì con la scelta per ospitare i missili Pershing a Comiso, con i fasti del Congresso PSI a Verona per arrivare l’anno dopo alla decisione sulla scala mobile e al relativo referendum. Senza dubbio non era un Craxi malato e in disar-mo come sarà nei primi anni novanta. Eppure, a distanza di un quarto di secolo, si può dire obiettivamente che anche il disegno di Craxi, seppure in modi molto differenti dalle vicende fasciste del 1929 e dallo strumentalismo togliattiano del 1947, appare del tutto evanescente se confrontato alla capacità della Chiesa di mantenere la propria centrali-tà nelle vicende politico sociali (che anzi con il nuovo Concordato si è irrobustita e sancita, si può vederne l’articolo 9).

Ancora una volta, si pensava di avere in mano le redini e di poter strumentalizzare l’accordo. Craxi pensava di utilizzare l’importanza della Chiesa anche a livello europeo nella lotta da lui ingaggiata con coraggio per sconfiggere l’idea comunista. E sottovalutò che di nuovo la Chiesa, pur essa impegnata con determinazione contro il comuni-smo, non identificava la sua missione in questo scontro, la identificava in un disegno ben più ampio. Quindi, una volta raggiunto l’obiettivo, era indisponibile a ricompensare coloro che erano alleati nei conte-sti più ridotti, per di più nazionali. In aggiunta cominciava allora a

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delinearsi la nuova linea di Giovanni Paolo II il quale, anche perché non italiano, tendeva a sottrarsi alle dinamiche della politica italiana e ad abbandonare le suggestioni temporaliste per incentrare la missione della Chiesa sull’influenzare i rapporti di cittadinanza in chiave reli-giosa. Il che rendeva anacronistica – in paesi democratici e liberi come l’Italia – la logica concordataria e avrebbe richiesto analoga capacità da parte dello Stato per attuare una politica secondo il principio di separazione tra Stato e religioni.

La linea di Giovanni Paolo II aveva già dato un indizio di cambia-mento in una questione minore, i rapporti tra Chiesa e massoneria. Nel postconcilio si erano sviluppati per anni molti colloqui tra le quinte cui da parte massonica si tendeva ad attribuire gran significato. Poi nel gennaio 1983 nella revisione del Codex iuris canonici era sparita la citazione diretta della massoneria. L’interpretazione autentica venne però data a novembre quando la Congregazione per la dottrina del-la fede (prefetto il cardinale Ratzinger) espresse un giudizio negativo sulle associazioni massoniche “poiché i loro principi sono sempre con-siderati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita”. Già questo cambiamento, all’epoca passato un po’ sotto silenzio, aveva un senso preciso: sulla fede non sono possibili compromessi o confusioni. La linea di Giovanni Paolo II si manife-stò infine con chiarezza nel Convegno Ecclesiale di Loreto dell’anno dopo, nell’aprile 1985: la Chiesa e i cattolici italiani devono impegnarsi per far sì che la fede abbia o ricuperi un ruolo-guida e la sua efficacia trainante nel cammino verso il futuro dell’Italia. Dall’altra parte, an-che la linea concordataria continuò a tradursi in accordi specifici con la Chiesa cattolica (quali la modifica nel 1985 della disciplina del ma-trimonio concordatario o la definizione a dicembre dello stesso anno del regolamento per l’insegnamento della religione cattolica, IRC), nell’Intesa del 1986 con l’Unione delle chiese cristiane avventiste del 7° giorno e con le Assemblee di Dio in Italia, nell’intesa con l’Unione delle Comunità Ebraiche nel febbraio 1987 (il testo di questa Intesa si trova in Documenti, lettera h) e poi nell’affinamento e nella minor rigidità della legge sul divorzio voluti nello stesso febbraio anche dai partiti laici.

In particolare, la questione dell’insegnamento della religione cat-tolica comprova quanto fossero fondate le preoccupazioni del senatore Valitutti circa il pericolo che le trattative lasciate aperte nel Concor-dato fossero occasione di nuovi contrasti che, vanificando lo spirito concordatario, chiedono sempre di più allo Stato. Il regolamento per l’insegnamento della religione cattolica firmato dal Ministro Franca

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Falcucci e dal cardinal Poletti – che il Presidente della Camera, la co-munista Jotti, contribuì a non far esaminare al Parlamento – introdu-ceva l’insegnamento alle scuole materne, lo ampliava alle elementari e includeva i docenti di religione nei consigli di classe. Per di più entrava nel merito dell’insgnamento alternativo per chi non voleva avvalersi dell’ora di religione. A questa stipula seguirono nei mesi successivi molte proteste nelle scuole italiane che costrinsero ad alcune modi-fiche (tipo la valutazione della religione non più in pagella) finché a luglio il TAR del Lazio accolse un ricorso avverso il Ministro, che però venne bloccato dal Consiglio di Stato. L’anno scolastico 1986-1987 fu caratterizzato da diffuse agitazioni e da schermaglie parlamentari ac-canite. Che come vedremo sono proseguite per anni (e non si sono ad oggi sopite).

Dal secondo semestre del 1986, peraltro, il panorama politico era stato sempre più caratterizzato dalle crescenti polemiche che mina-rono il secondo governo Craxi. Il dissidio montante era tra la DC di De Mita e lo stesso Craxi a proposito di un contestato patto per la staffetta a Palazzo Chigi, che secondo De Mita c’era stato e che Craxi negava (con scarsa credibilità). Alla fine, i primi di marzo 1987 Craxi si dimise ma fare un nuovo governo risultò molto arduo. Il Presidente della Repubblica Cossiga (che era stato eletto al termine del mandato di Pertini, nel luglio 1985) affidò numerosi incarichi senza risultato. Il problema, al di sotto del dibattito acceso ma assai cifrato, era che Craxi puntava a mantenere la propria centralità e la DC intendeva ricuperare la sua. Craxi non escluse si potesse dar vita a nuove soluzioni che man-tenessero comunque il segno che la lunga presidenza socialista non era stata una parentesi. La DC aveva la forza di frenare Craxi ma non quel-la di ricuperare il suo vecchio ruolo di centralità. Quindi immaginò di ricorrere alle elezioni per raccogliere i frutti sia del miglioramento della propria immagine sia del declino di quella del PCI. Anche per far finire l’esperienza di pentapartito in senso craxiano e insieme per soprassedere alla effettuazione dei referendum già indetti su materie ostiche, come la responsabilità civile dei magistrati e sulle centrali nu-cleari (per poterli celebrare entro l’anno, fu fatta nel successivo agosto una apposita legge di deroga alla generale norma referendaria vigente).

A tal fine, quando l’incarico venne dato al Presidente del Sena-to Fanfani per una sorta di governo istituzionale monocolore DC, la stessa DC progressivamente operò, d’accordo con lo stesso Fanfani, perché i voti di maggioranza per la fiducia, che c’erano, di fatto non ci fossero. Craxi, sfruttando anche la ritrosia dei parlamentari per l’inter-ruzione anticipata della legislatura, sperò che, per bloccare la manovra

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DC, i liberali fossero disponibili ad arrivare ad un governo istituzio-nale che prendesse anche i voti del PCI. L’ipotesi non si concretizzò perché la DC, di fronte a questa eventualità per lei pericolosa, offrì a Malagodi la Presidenza del Senato resa libera dal fatto che Fanfa-ni avrebbe dovuto guidare il governo elettorale. La proposta venne accettata seppure con incertezza (i liberali avrebbero avuto congruo riconoscimento anche nell’ipotesi socialista), sottovalutando così che tale loro scelta, oltre a contribuire al blocco della prospettiva politica craxiana ed a ferire il pentapartito che pure in aula il PLI continuò a difendere, sarebbe apparsa come la pratica rinuncia del PLI a svolgere un ruolo autonomo dalla sfera d’influenza DC. Lungo questa strada Fanfani chiese di non essere votato, il gruppo DC si astenne, il governo non ottenne la fiducia e a metà giugno 1987 vi furono le elezioni antici-pate. I risultati corrisposero abbastanza alle aspettative di De Mita. La DC guadagnò 1,4%, il PCI perse il 3,2%, il PSI guadagnò il 2,9% e i tre laici persero il 3,4% (il PLI lo 0,8%), mentre fecero il loro ingresso i verdi con 13 deputati, i radicali si ripresero guadagnandone 2 ed entrò solitario alla Camera Bossi.

Dopo le elezioni si tornò naturalmente al pentapartito, però con un equilibrio in sostanza precario, con Presidente del Consiglio una sorpresa, il democristiano Goria. Il clima restò litigioso. Le tematiche del rapporto Stato religioni si stavano allontanando dalla primissima pagina dell’agenda politica ma ce le riportò la vicenda giudiziaria re-lativa al dissesto dello IOR del 1982 in base alla quale il Tribunale di Milano aveva emesso mandato di cattura verso Paul Marcinkus, Luigi Mennini e Pellegrino De Strobel, quali dirigenti ed amministratori dello stesso IOR. Gli imputati ricorsero in Cassazione e nel luglio ’87 la Cassazione annullò il mandato senza rinvio per “difetto di giurisdi-zione del giudice penale italiano in ordine a reati commessi nel territorio dello Stato da soggetti svolgenti funzioni di dirigenti ed amministratori di un “ente centrale” della Chiesa cattolica”, quale lo IOR in base all’ar-ticolo 11 del Trattato dei Patti Lateranensi. Il che, data la particolare natura commista delle attività dello IOR, abbastanza lontane dalle pratiche religiose, innescò nuove diatribe sui risvolti temporali della attività della Chiesa.

Restava poi consistente la conflittualità in materia ora di religione. Ad ottobre 1987, a seguito delle agitazioni del PLI e del PRI, vi fu un ufficiale incontro bilaterale Stato-Vaticano in cui venne confermato che il Concordato implicava l’impegno all’insegnamento della religio-ne cattolica ma anche il chiaro intendimento dell’Italia a garantirne la non obbligatorietà ed anche un’ora alternativa per chi non se ne avva-

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lesse. Questo tipo di accordo (non chiarissimo) sfociò il secondo e il terzo giorno successivi in un dibattito alla Camera in cui Goria annun-ciò che l’incontro era servito solo a confermare la reciproca volontà di collaborare e che vi sarebbe stata una rinegoziazione della intesa Falcucci-Poletti con cui definire in modo inequivoco anche il diritto di non avvalersi dell’insegnamento della religione e lo status degli inse-gnanti di religione. Le dichiarazioni del governo furono approvate con una sbrigativa mozione della maggioranza da cui si dissociò il PLI con una autonoma mozione di conferma del principio della separazione e dell’impegno al governo di trattare con il Vaticano il consensuale superamento dello strumento concordatario.

Merita di essere posta in rilievo la posizione un pò acrobatica che nel dibattito assunse il neo vice-segretario del PCI Occhetto. Per ra-gioni tattiche, come spesso a loro capita (nel caso far intendere alla DC che il suo eccesso di disponibilità nei confronti del PSI portava alla fuoriuscita del PCI dal fronte dei sostenitori del concordato ad ogni costo), Occhetto disse che il PCI non avrebbe approvato questa nuova intesa in nome della propria coerenza togliattiana. “Noi comunisti — e lo diciamo con orgoglio — ci muoviamo nel solco dell’insegnamento di Cavour. Abbiamo sempre guardato o guardiamo con ammirazione alla sua indicazione per una «libera Chiesa in libero Stato». Sappiamo che era una indicazione storicamente non matura a quei tempi, e tuttavia ritenia-mo che essa continui a rappresentare una prospettiva storica elevata sia per la Chiesa sia per lo Stato, destinati inevitabilmente ad aggiornarsi e a rinnovarsi: una prospettiva quindi da tener sempre a mente, nell’esercizio della proposta politica. E siamo gli eredi di Togliatti, che decisamente contribuì a risolvere la «questione romana», a garantire la pace religiosa, a rafforzare così una democrazia che era al suo inizio”. Insomma, anche distorcendo la storia (nell’ottocento il separatismo venne realizzato e fu la Chiesa a rifiutarlo), la sinistra comunista cominciava a pensare di poter rappresentare anche i liberali e la loro posizione separatista e al tempo stesso di rivendicare un’idea opposta. Una posizione che, se-guita in questi ultimi quasi venticinque anni, è costata strategicamente cara alla sinistra.

All’inizio del 1988, la Corte Costituzionale continuava la sua opera per costituzionalizzare le vecchie normative sulle comunità israelitiche emanate nel 1930. E stabilì che la previsione di cui all’articolo 8 della Costituzione si riferisce solo ai principi fondamentali dell’ordinamen-to e non anche a specifiche limitazioni poste da particolari disposizioni normative, come la legge del 1930. Insomma, lo Stato ha abbandonato ogni pretesa di fissare direttamente per legge i contenuti degli Statuti

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delle Comunità religiose. Non c’è quasi bisogno di dire che l’Avvoca-tura dello Stato sostenne anche in questo caso la costituzionalità del-la stessa norma dichiarata poi incostituzionale. A metà aprile, dopo la litigiosità politica di quei mesi, le acque si calmarono con il nuovo governo sempre pentapartito affidato al Segretario DC De Mita, che cumulava le due cariche e così realizzava un anno dopo la famosa staf-fetta con Craxi. I rapporti con l’area dei cattolici erano mantenuti sem-pre sul filo dello strumentalismo di potere dei partiti. E così qualche mese dopo, al meetimg annuale di Comunione e Liberazione, De Mita veniva accusato di laicismo e il socialista Martelli osannato perché ap-poggiava la parità tra scuola pubblica e privata. E da parte sua il Con-siglio di Stato sentenziò che l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole è obbligatorio in mancanza di una valida alternativa. Ciò nonostante che la maggioranza fin dal 1984 avesse stabilito che l’inse-gnamento religioso fosse facoltativo. Montavano, e non solo a Palermo, anche le polemiche in materia di lotta alla mafia. Andavano pure forte quelle sull’aumento del finanziamento pubblico ai partiti difeso a spa-da tratta dal PCI. Nel frattempo proseguivano le battaglie giudiziarie conseguenti alle indagini della Procura di Milano sulle vicende IOR a margine del crac Banco Ambrosiano. Mesi dopo, all’inizio del 1989, il Congresso Nazionale DC sostituì De Mita alla Segreteria con Forlani, varando una nuova maggioranza Andreotti, Gava, Forlani.

Dal punto di vista di queste pagine, si deve rilevare retrospettiva-mente che nel periodo continuò a crescere la fiducia di troppi nella tranquilla prospettiva che la mentalità laica penetrasse ad ogni livello della società, siccome la laicità non poteva non prevalere contro il con-fessionalismo oscurantista. Non interessa qui stabilire se fin da allora fosse avvertibile – a parte la posizione separatista dei liberali – la dire-zione che in realtà stavano prendendo le cose. Qui preme constatare che anche quella sentenza della Corte Costituzionale, la 203/1989, che risulta un traguardo assai importante – per la prima volta la Repubbli-ca Italiana era definita uno Stato laico – a ben valutarla, appare un raf-finato provvedimento giuridico, in apparenza celebrativo della laicità finalmente riconosciuta (non a caso Presidente Saja, grande magistra-to, e redattore Casavola, un cattolico sensibile al clima moderno), in so-stanza delineante una laicità dai connotati modello cattolico, pertanto non del tutto esaustivi e di certo non separatisti.

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17. Lo Stato è laico purché sia una laicità concordata (secondo la Corte)

Ad aprile 1989, la Corte Costituzionale emise un giudizio di legitti-mità costituzionale in via incidentale sulla legge di attuazione del nuovo Concordato del 1984 applicata alla facoltatività dell’ora di religione. Que-sto proprio perché “Lo Stato è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvaler-sene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione”.

Per arrivare a tale conclusione, la sentenza 203/1989 compie un am-pio esame sul principio di laicità. Il principio della laicità dello Stato, definito come “uno dei profili della forma di Stato delineata dalla Carta costituzionale della Repubblica”, “implica non indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”. E si afferma che alla luce del nuovo Concordato “il genus (“valore della cultura religiosa”) e la species (“principi del cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano”) concorrono a descrivere l’attitudine laica del-lo Stato-comunità, che risponde non a postulati ideologizzati di estranei-tà, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini”. Inoltre, dal punto di vista costituzionale, recita la Sentenza, è molto rilevante nel nuovo Concordato il richiamo “nel rispetto della libertà di coscien-za e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento” (della religione cattolica) in modo che “non ne risultino limitate la li-bertà di cui all’articolo 19 della Costituzione”. E specifica: “torna qui la logica strumentale propria dello Stato-comunità che accoglie e garantisce l’autodeterminazione dei cittadini, mediante il riconoscimento di un di-ritto soggettivo di scelta se avvalersi o non avvalersi del predisposto inse-gnamento della religione cattolica… È palese il passaggio da motivazioni proprie dell’età liberale (essere la religione affare privato e l’istruzione religiosa compito elettivamente paterno) a quelle dello Stato etico (essere la religione un connotato dell’identità nazionale da farsi maturare nel-la scuola di Stato). Solo con l’Accordo del 18 febbraio 1984 emerge un

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carattere peculiare dell’insegnamento di una religione positiva: il potere suscitare, dinanzi a proposte di sostanziale adesione ad una dottrina, pro-blemi di coscienza personale e di educazione familiare, per evitare i quali lo Stato laico chiede agli interessati un atto di libera scelta”.

Queste parole – con cui si riconosce che l’impianto complessivo della Costituzione esprime il valore della laicità anche senza che il suo nome vi sia esplicitamente previsto, come ad esempio lo è nella Co-stituzione francese  –  sono una prova di quanto osservato sopra. La Corte comincia con il distinguere tra indifferenza dello stato verso le religioni (dice la laicità non deve essere questo) e garanzia per la libertà di religione. Dunque per la Corte la garanzia per la libertà di religione deve includere l’apprezzare il fatto religioso. Dal punto di vista separa-tista, l’interpretazione fin qui può avere un senso (vedremo quale nella seconda parte del volume) ma è innegabile che l’interpretazione inten-da limitare il portato della laicità dello Stato, in quanto indica che nor-mativamente lo Stato non dovrebbe riconoscere uguale dignità e diritti all’essere o al non essere religiosi. Eppure il successivo richiamo al re-gime plurale in campo confessionale e culturale significa invece che si dovrebbe avere anche il diritto di rifiutare qualsiasi religione. Quindi sarebbe stato più esatto il termine “neutralità” dello Stato rispetto alle religioni (tesi classica del grande costituzionalista Mortati), che vuol dire non Stato ateo ma Stato non confessionale. Subito dopo, il com-mento alla disposizione del nuovo Concordato attribuisce un significa-to che non c’è e che comunque non può essere quello di parte italiana. Infatti la Corte – richiamandosi al punto del nuovo Concordato in cui la Repubblica riconosce il valore della cultura religiosa e tien conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano – trasforma la dizione del Concordato 1984 di per sé esplicita ed inequivoca (il valore non è esclusivo, tanto che, è scritto, il cattolicesimo “fa parte del” patrimonio, non “è il” patrimonio) in una definizione forzata e un tantino fantasiosa di uno Stato-Comunità contrapposto allo Stato-persona e perfino in una descrizione di una funzione di servizio di detto Stato rispetto alla coscienza dei cittadini.

Non sono passaggi casuali. Servono ad introdurre, proprio mentre si mostra di celebrare la laicità, una concezione antiseparatista della laicità (nonostante ciò sia incoerente). Lo Stato come istituzione viene sottilmente negato quando si introduce il concetto di Stato-comunità che, come vedremo specificamente in seguito, è un concetto molto caro ai cattolici che contiene non lievi spunti contrari all’organizzazio-ne pubblica. Il parlare di istanze della coscienza dei cittadini rientra anch’esso in una visione sottilmente cattolica (anche qui ne parleremo),

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per cui queste istanze sono espressione sociale più che individuale del cittadino. Per aver poi certezza che il richiamo a questo concetto di Stato Comunità e a questo tipo di istanze della coscienza siano inte-se proprio nel significato che si vuole introdurre, la Corte sottolinea che l’Accordo del febbraio 1984 va al di là delle motivazioni proprie dell’età liberale avendo il carattere di insegnamento di una religione “positiva”. Non vi è dubbio che l’intento è far capire che è ammesso non riconoscere la preminenza del cittadino individuo, che la religione è una necessità sociale, che una analoga necessità sociale è la libertà di coscienza dell’essere umano (in parallelo al libero arbitrio religioso) più che la libertà civile individuale e che sono possibili interventi posi-tivi di sostegno alle attività religiose.

È dunque chiaro che, a parte la giusta valutazione positiva della sentenza per il suo aprirsi alla realtà fino ad allora negata da larga parte del mondo cattolico, non vi era nel mondo politico una consapevolezza adeguata di cosa implicasse una corretta presenza di normali istituzio-ni laiche. Tra l’altro proprio quando, come fecero presente i liberali, stava cominciando ad emergere la questione immigrazione asiatica ed africana, che naturalmente avrebbe introdotto nuove religioni e quindi acuito il problema di applicare il principio di separazione Stato religio-ni. Ancora una volta si trattava di un problema centrale per la convi-venza. Invece, quasi per quieto vivere, immaginando di essere restati alla vecchia polemica tra clericali e anticlericali, si cominciò sempre più ad accettare molte distinzioni (inesistenti nella lingua italiana) sui termini riferiti alla laicità (come tra laici, intesi come politicamente ac-cettabili, e laicisti, equiparati ad anticlericali statalisti) e ad utilizzare il termine laicità non più da solo bensì aggettivandolo, tipo sana laicità, laicità positiva, laicità non malata. Ed inoltre a dire che il parlare di lai-ci e di cattolici era anacronistico e così via. Si sentenziava che bisogna evitare le tensioni. Nella pratica, il medico pietoso ha fatto la piaga can-cerosa. Da allora ad oggi, non piccole conseguenze negative per il se-paratismo e quindi per il paese, sono derivate da questo sottovalutare il come stavano cambiando i termini della questione istituzioni-religioni. I problemi erano nuovi ma soprattutto stava mutando l’approccio della Chiesa al modo di essere presente religiosamente in Italia.

Dopo la sentenza costituzionale 203 del 1989, il tema dei rapporti tra Stato e religioni restò nelle retrovie del dibattito politico. Un pò perché in materia la cornice generale appariva fatta. Un pò perché fino a luglio ci fu la crisi durata oltre due mesi del governo De Mita (cui suc-cesse Andreotti). Un pò perché l’attenzione politica era attirata dalle convulsioni sempre più galoppanti del comunismo internazionale. La

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linea riformatrice che il Segretario del Partito Comunista dell’Unio-ne Sovietica Gorbaciov (le allora famosissime glasnost, trasparenza, e perestrojka, ristrutturazione) stava sviluppando dal febbraio 1986, ave-va suscitato molte attese ma non era riuscita ad irrobustirsi davvero. In Italia, il nuovo segretario del PCI, Occhetto (divenuto segretario nel giugno del 1988 per una grave indisposizione di Natta) avviava il Partito su quella strada dei mutamenti d’immagine sostitutivi della proposta politica che tanta strada faranno nel periodo successivo. Già subito evidenti però, tanto che sul Corriere della Sera, Giuliano Zin-cone scrisse: “Il Pci si accoda a tutte le tematiche progressiste, movimen-tiste, che fino a ieri bollava come ‘sovrastrutturali’ o ‘piccolo borghesi’… Benvenuto tra noi, compagno Occhetto. Benvenuto tra i socialtraditori, calunniati per anni come servi della Cia e ladri; benvenuto tra i radicali non violenti, bastonati come omosessuali, femministi e drogati; benvenu-to nella sinistra liberale che conosceva Tocqueville, Gobetti e Dahrendorf quanto questi autori, in ogni sezione, erano trattati (a parte il capestro) come Salman Rushdie… benvenuto (perfino) nella cultura degli autono-mi disarmati, che dicevano quel che oggi ripete il congresso dell’Eur… Ma a chi racconterai che questo si chiama comunismo, compagno Occhetto?”.

In campo internazionale, le convulsioni del comunismo comincia-rono a primavera 1989 in Cina, con la rivolta di Piazza Tienanmen, la prima a svolgersi sugli schermi Tv mondiali, e poi esplosero all’inizio di novembre con la caduta del muro di Berlino, che innescò una catena di cadute nei principali paesi al di là di quella che era stata la cortina di ferro. Anche in Italia, peraltro, il contraccolpo fu forte. Occhetto, sen-za avere interpellato prima nessuno, neppure quelli della segreteria, intervenne ad un’assemblea di partigiani alla sezione della Bolognina e annunciò che occorreva non chiamarsi più comunisti. Poi stabilì a tappe forzate e con decisioni a maggioranza, prima in Direzione, poi al Comitato Centrale e infine al Congresso fondativo di Rimini nel marzo 1991, di cambiare nome e simbolo al partito adottando quelli di PDS e di Quercia. Furono colpi di teatro efficaci dal punto di vista spetta-colare, il cui principale effetto di sostanza era però quello di indurre a non fare i conti con la propria storia. La riprova è che l’Unità, a firma dell’allora direttore D’Alema, criticò la “campagna arrogante e strumen-tale” contro il PCI sulla base del fallimento dei regimi dell’Est e la “polemica provinciale sul nome del nostro partito. Che c’entra il Pci?”. Questo aver cambiato nome e simbolo ed essersi illusi di aver quindi risolto le questioni politico culturali grandi come macigni che erano dietro l’antico volto, è stato il difetto genetico che si é portata dietro la sinistra marxista nell’ultimo ventennio.

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145Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

Nell’estate dello stesso anno 1989 avevano poi cominciarono ad aleggiare, con l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, i prodromi della guerra nel Golfo che, dopo varie tensioni, deflagherà mesi dopo, a gennaio del 1991, coinvolgendo anche l’Italia per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale. Nell’ottica della carrellata storica sui rap-porti tra Stato e religione, va rilevato che in quel periodo emerse con chiarezza l’ulteriore avvicinamento di diversi ambienti del paese, in particolare della sinistra, alle posizioni del Pontefice interpretate in modo distorto. Dall’epoca dell’invasione del Kuwait, i primi di agosto 1990, il Papa predicava con impegno la pace. Nel discorso di Natale affermò che “la guerra è una via senza ritorno”. E poi continuò in modo serrato con esternazioni e iniziative liturgiche, chiedendo l’audacia della pace e la convocazione di una Conferenza per la Pace in Medio Oriente, cosicché da agosto 1990 a febbraio 1991, arrivarono a 40 i suoi interventi al riguardo, secondo il conto fatto dall’Osservatore Ro-mano. Subito dopo il discorso di Natale, con un atto senza precedenti nella storia della Repubblica, il segretario del PCI (ormai in trasforma-zione) Occhetto scrisse una lettera al Papa motivando perché “noi co-munisti contiamo su di Lei”. E nelle cinque o sei settimane successive, mentre scoppiava la guerra in Iraq, proseguì con la medesima logica una campagna molto robusta a favore della linea di Giovanni Paolo II, cui veniva attribuita la guida morale del movimento di chi voleva la pace ed era contro l’intervento dell’Italia. La campagna suscitò crisi di coscienza nel mondo cattolico e nella DC (il gruppo di Comunione e Liberazione e una dozzina di deputati, oltre il deputato Umberto Bossi, erano contrari all’invio di truppe italiane). Lasciamo da parte, per quello che qui ci interessa, la condivisibilità o meno della decisio-ne dell’allora Presidente USA George Herbert Bush (padre) di aprire le ostilità (che poi liberarono il Kuwait ma rinunciarono a rovesciare l’iracheno Saddam), anche se bisogna dire che non era infondata la osservazione dei DC maggioritari, secondo cui quando si evoca indi-sturbati l’obiezione di coscienza, poi non si deve farne ragione politica di proselitismo. L’essenziale qui è rilevare che voler assegnare tale lea-dership al Papa era insieme un evidente strumentalismo molto fragile e un’errata valutazione delle sue posizioni.

Lo strumentalismo consisteva nel voler dar l’impressione che, sull’importante argomento pace, la Chiesa era d’accordo con la sinistra contro il mondo conservatore e guerrafondaio. Facendo intendere che, anche se le contingenti vicende storiche costringevano il PCI/PDS all’opposizione, si trattava solo di tener duro perché in prospettiva la politica di pace avrebbe trionfato attraverso il successo della sinistra.

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Solo che un simile messianesimo comunista non era credibile. Citava il Papa, si richiamava a Gramsci, si diceva laico, e non ne avvertiva la contradditorietà Al tempo stesso non capiva che Giovanni Paolo II si muoveva in un disegno di nuova evangelizzazione con fondamenti completamente religiosi, al di fuori della politica. E quindi non era ipotizzabile che il Papa potesse concedere qualcosa ad un partito. In-fatti, quei fondamenti religiosi presupponevano che solo la religione, e non la politica, poteva essere in grado di riprendere un dialogo ef-fettivo con il nuovo sentire religioso islamico. Presupposto che, giusto o sbagliato che fosse, non poteva essere laico né tanto meno seguire un’ottica da principio di separazione tra Stato e religioni. In ogni caso questa era l’essenza della posizione del Papa e del Vaticano, sempre più in allontanamento da una tradizionale prospettiva temporalistica.

Cosa ribadita anche dalle posizioni della Conferenza Episcopale Italiana. La quale nelle stesse settimane distingueva tra obiezione di coscienza (ammessa) e diserzione (rifiutata) con l’espresso motivo che l’obiezione viene prima di prendere le armi mentre la diserzione viene dopo che l’obiezione non è stata esercitata e quindi risponde a logi-che del tutto differenti e non accettabili. Insomma i discorsi del Papa, anche quando erano per la pace, erano considerabili pacifisti solo in senso religioso, non con prospettive ed effetti di politica civile (non a caso lo stesso Giovanni Paolo II disse in quei giorni “noi non siamo pacifisti, non vogliamo la pace ad ogni costo”). Giovanni Paolo II andava preparando gli animi a far pesare di più il valore religioso nelle loro coscienze, non a negare la loro realtà sociopolitica. E pochi mesi dopo, una conferma che le valutazioni della Chiesa non fossero in una logica pacifista come il PCI/PDS voleva credere e far credere, venne dalla posizione della Chiesa a favore dell’intervento bellico occidentale in Jugoslavia perché, affermò, là ormai venivano commesse atrocità cui era opportuno opporsi. Fatto sta che la convinzione profonda di tut-to un certo mondo della sinistra di ogni colore era che dalla Chiesa non era opportuno prescindere e che anzi era opportuno affidarsi alla Chiesa con speranza. Al riguardo, in una intervista, Andreotti ironizzò “sono serenate sotto le canoniche, fatte da persone non abituate”.

La politica interna italiana era in quel periodo dominata dall’alle-anza di fatto del famoso CAF, acronimo di Craxi-Andreotti-Forlani. Nel 1990 tra gli avvenimenti più di rilievo vi fu il passaggio della Mon-dadori a Berlusconi che dette origine ad un durissimo scontro eco-nomico politico con De Benedetti durato decenni e soprattutto due episodi più direttamente politici. A luglio vennero al pettine i nodi della riforma della emittenza TV con la legge Mammì che toglieva il

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147Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

monopolio alla RAI e regolava l’intensità degli spot pubblicitari. Il po-tentissimo mondo delle burocrazie della RAI si ritenne toccato nei più radicati privilegi e tentò di tutto per bloccarla. Così attraverso la pro-pria area di riferimento, la sinistra DC, indusse alle dimissioni cinque ministri (Martinazzoli, Sergio Mattarella, Mannino, Misasi, Fracanza-ni) titolari di dicasteri molto importanti. Non riuscì perché la determi-nazione della maggioranza era forte e Andreotti si limitò a sostituirli, portando all’approvazione della legge il 1 agosto. Altro avvenimento di rilievo fu l’emergere, a fine anno, dell’esistenza sotto copertura, dagli anni cinquanta e a lungo, di una formazione organizzata militarmente del genere Stay Behind, conosciuta come Gladio, che svolgeva opera di informazione, risposta e salvaguardia per essere pronta a contrasta-re una presa del potere dei comunisti. Una rete conosciuta da alcuni dei vertici di governo, la cui legittimità venne garantita da Andreotti e in modo più aggressivo dal Presidente della Repubblica Cossiga. Il quale, anzi, proprio da qui iniziò le sue esternazioni contro un mon-do politico giudicato imbelle e mediocre, mentre l’opposizione PDS organizzava manifestazioni di piazza contro chi aveva tradito la Co-stituzione e in particolare contro di lui, di cui finirà tempo dopo per chiedere l’impeachment. In ogni caso, a gennaio 1991, su Gladio il PSI dichiarò insufficienti le dichiarazioni sulla sua legittimità e su una questione collaterale (il cosiddetto piano Solo) adombrò responsabilità dell’ex presidente Antonio Segni. Il che provocò le dimissioni del figlio Mario Segni, anche lui DC, da Presidente del Comitato Parlamentare per i Servizi di Informazione e per il Segreto di Stato, motivate con la rottura del rapporto di fiducia.

Intanto, sul piano dei rapporti con il Vaticano, nel dicembre 1990 il Presidente Cossiga emanò il decreto per dare la personalità giuridica all’Opus Dei, che allargava ulteriormente gli enti vaticani che ne erano dotati. Poche settimane dopo, arrivò poi, nel campo ora di religione, una nuova significativa sentenza della Corte Costituzionale, la 13/1991, che stabilì che “alla stregua dell’attuale organizzazione scolastica è inne-gabile che lo “stato di non-obbligo” può comprendere, tra le altre possi-bili, anche la scelta di allontanarsi o assentarsi dall’edificio della scuola”. Anche in questa occasione il redattore fu Casavola, e di nuovo veniva indicata la linea della ragionevolezza alle burocrazie pubbliche e agli ambienti confessionali: un conto è sfruttare il Concordato e l’Intesa sulla scuola al meglio per i propri interessi educativi ma non si devo-no stravolgere i principi costituzionali dello Stato. Peraltro la sentenza funzionò nel tempo solo sullo specifico argomento (e neppure al cento per cento). Per il suo senso generale, remarono contro una opportuna e

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conseguente lettura del problema ora di religione in chiave il più possi-bile separatista (visti gli obblighi assunti con il Concordato 1984), la ra-dicata inclinazione alla cedevolezza da parte delle strutture pubbliche, dei politici, i dc prima di tutto, ma anche della sinistra e perfino di non piccoli ambienti diffusi perfino tra i laici, in sostanza antiseparatisti.

A marzo 1991 i socialisti dovettero prendere atto del fallimento del loro disegno connesso alla firma del nuovo Concordato del 1984: divenire gli interlocutori privilegiati della Chiesa. Acquaviva, di cui abbiamo già parlato per il suo ruolo all’epoca del Concordato e restato alto dirigente del PSI, rilevò che, in vista della ripresa dopo venti anni delle Settimane Sociali del mondo cattolico, il vescovo Camillo Ruini (eletto Presidente della CEI i primi di quel mese) e la CEI avevano in-vitato a fare interventi solo alti esponenti della DC e nessun socialista. Acquaviva commentava indispettito che era stata persa un’occasione e che, invece di aprirsi, la Chiesa “chiudeva porte e sbarrava chiavistelli”. In realtà, ancora una volta, l’assurdo era aver pensato possibile stabilire chissà quale rapporto politico preferenziale con la Chiesa al di là dei rapporti diplomatici. Le porte e i chiavistelli c’erano sempre stati dal punto di vista dei principi. Lo ignora solo chi punta al potere e basta, non chi tiene fuori la fede dalla politica.

18. Gli ultimi anni della prima repubblica

a) il referendum sulla preferenza unica.

Da qui in poi, darò più spazio alle specifiche vicende dei rapporti interpartitici italiani. Il fine rimane la carrellata sul principio di sepa-razione, ma ritengo assai importante vedere come la trasformazione del tipo di confronto pubblico abbia lasciato nuovi spazi alla Confe-renza Episcopale Italiana. All’inizio vi è stato il progressivo disgregarsi del dibattito politico ideologico culturale che, bene o male, era presen-te nella prima repubblica. Dopo, per correggere quello che era stato l’errore dell’arroccarsi dei partiti nel palazzo, si è arrivati all’emergere nella lotta politica di un contrapporsi ancor meno legato alla proget-tualità e in sostanza teso all’immediato raggiungere maggioranze na-zionali per conquistare il potere di governo. E questo vuoto di progetti ha favorito la Chiesa.

Nel marzo 1991, la situazione politica, molto turbolenta, ebbe un ulteriore scossone dalla ultimativa richiesta di Craxi (per evitare ele-zioni anticipate, inutili visto che il PDS si era negato alla prospettiva

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149Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

dell’unità socialista) di chiarire alla luce del sole i rapporti di governo: infatti giudicava la compagine del sesto governo Andreotti ormai ina-datta ad affrontare una precisa agenda di riforme. E così, in un clima di polemiche di cui era protagonista primario pure Cossiga, fu rag-giunto un nuovo accordo di pentapartito su un programma consistente in alcuni atti innovativi, accantonando però la revisione dell’articolo 138 della Costituzione (Craxi si riservava di ritornarci, convinto della necessità di inserire una maggior partecipazione popolare nelle scelte politiche fondamentali, quali la revisione della Costituzione). Venne costruito il settimo governo Andreotti, un pentapartito, che però, tra il momento del giuramento e la presentazione alle camere, divenne un quadripartito, perché i ministri repubblicani non andarono a giurare e il PRI si defilò, siccome i tre ministeri ad esso assegnati non compren-devano più il Ministero delle Poste (si parlò di declassamento della de-legazione repubblicana). Questo avvenne perché all’ultimo tuffo il PRI aveva tolto dai ministri il nome di Mammì (una complessa coda della crisi del precedente luglio) e Andreotti non si fidava di un altro nome repubblicano alle Poste (che affidò al socialdemocratico Vizzini).

Le polemiche sulla riforma generale del sistema non accennarono a placarsi. Cossiga continuava a dominare la scena con proposte di un grande patto per le riforme, approvato anche da grandi vecchi della Repubblica come Bobbio e Valiani. Craxi continuava a mostrare segni di insofferenza. E la situazione si ingarbugliò molto anche per l’attesa di un referendum sulla preferenza unica indetto dal democristianissi-mo Mario Segni. In contrasto con la maggioranza dei suoi, Segni vole-va introdurre elementi concreti di innovazione per rompere il morbo del controllo delle elezioni da parte di gruppi di potere nei vari partiti, al sud soprattutto ma anche al centro nord (scrisse “la partitocrazia ha fondato il suo potere sul clientelismo e sulle cordate di corrente”). Segni era appoggiato abbastanza trasversalmente da singoli parlamentari e fin dall’inizio dal PLI e poi dal PDS, da Rifondazione, dal MSI e da movimenti cattolici. La DC era cautamente contraria (seppur De Mita definì questo referendum una cavolata) ed anche il PSDI. Il TG1 di Vespa e il Governo Andreotti lo avversavano felpatamente.

Craxi (o meglio il gruppo dirigente socialista, Amato in testa) co-minciò con la proposta di far svolgere il referendum l’anno successivo (cambiando di nuovo la legge) ma poi si avvitò nella progressiva idea che il referendum sulla preferenza unica fosse un modo subdolo per contrastare la grande riforma. Craxi inviò una circolare ai quadri pe-riferici del partito in cui spiegava il “rifiuto contro un voto che, riguar-dando un tema marginale, sposta l’attenzione dai problemi istituzionali”.

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Tesi stupefacente. Non soltanto perché riducendo ad una il numero di preferenze si spezzava una facile catena di omertà adoperata dai gruppi di potere; non soltanto perché la stessa identica proposta della preferenza unica era stata votata qualche anno prima dal Congresso Nazionale del PSI; ma soprattutto perché il ricorso al giudizio dei cit-tadini era appunto il pomo della discordia tra PSI e DC sul modo di fare la grande riforma. In questo caso, mentre Craxi voleva cambiare l’articolo138 della Costituzione al fine di sottoporre a tutti i cittadini il primo e il secondo progetto di riforma costituzionale votati in Parla-mento (in modo che vi fosse anche la proposta socialista), nel caso del referendum di Segni si opponeva sempre più al voto popolare. Così, mentre molti personaggi del mondo industriale, Gianni Agnelli, Ro-miti, Pinin Farina, Luigi Abete dichiaravano il loro SI, Craxi e i socia-listi si intestardirono nell’auspicare l’astensione (il discrimine era dive-nuto il quorum) giungendo a consigliare il famoso “andate al mare”. Di fatto il referendum sulla preferenza unica – che corrispondeva ad una diffusa aspirazione a smuovere le acque – acquistò connotati antisocia-listi, perché molti osservavano che la contrarietà a mutare un aspetto, seppur solo marginale, significava che in realtà Craxi, riformatore a parole, in pratica non voleva cambiare mai nulla. Al referendum il quo-rum fu ampiamente raggiunto (62,5%) e i Sì sfiorarono di pochissimo i 27 milioni di voti. Craxi sembrava incredulo e accusò la DC di averlo lasciato solo nell’andare al mare. Il suo vice Di Donato se la prese con le TV di Berlusconi che avevano dato grande spazio ai referendari. In realtà il PSI dimostrò di non essersi reso conto che la caduta del Muro di Berlino aveva cambiato alla radice il quadro politico internaziona-le ed anche, per riflesso, quello italiano, rimuovendo il contesto della democrazia bloccata.

Mi sono soffermato sull’episodio referendum sulla preferenza uni-ca  –  di per sé non facilmente spiegabile in termini di lungimiranza politica – perché su di esso si è infranta l’onda lunga socialista e sono emersi pure i sintomi di un calo di energie e di lucidità personali di Craxi nel percepire la politica (ci tornerò in seguito). L’episodio è molto significativo non soltanto per la storia parlamentare italiana, ma anche per la questione affrontata in questo libro. Infatti, la Chiesa stava con forza proseguendo nella sua strategia e sarebbe stato indispensabile che la società civile – e in specie gli ambienti da anni promotori della necessità di cambiamenti nelle istituzioni e nella gestione di gover-no – non si esaurisse da parte sua in una crisi crescente ed infinita, sempre più distratta rispetto ai fondamentali aspetti della convivenza, E tra questi i rapporti religiosi non sono davvero secondari. Giovan-

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151Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

ni Paolo II all’inizio di maggio aveva emanato l’enciclica Centesimus Annus e quest’enciclica era un passaggio assai importante sulla linea del sottolineare l’importanza dell’impegno spirituale nella vita di ogni giorno (avremo modo di parlarne più diffusamente nella seconda par-te), al di là delle sommarie letture in chiave anticapitalistica che ne vennero date frettolosamente negli ambienti indutriali e delle critiche per non aver l’alleanza tra la Chiesa e il movimento dei lavoratori. Non a caso, il settembre successivo, il Presidente CEI Ruini, divenuto cardi-nale, seguendo questo indirizzo sollecitò i cattolici ad opporsi al “falso concetto di libertà” in quanto corrompe “l’etica cristiana e le più genui-ne tradizioni del nostro popolo”. E nella stessa direzione, commentando a febbraio 1992 sull’Avvenire la caduta del comunismo a livello inter-nazionale (a fine dicembre 1991 si era dissolta perfino l’Unione Sovie-tica e contestualmente rinate molte repubbliche autonome), il prefetto della Congregazione della Fede, cardinale Joseph Ratzinger paventò il “rischio che, alla fine, prevalgano il nichilismo ed il vuoto spirituale”. E si preoccupò del “tentativo di ricostruire gli Stati nell’Europa dell’Est secondo gli indirizzi massonici”, in base ad una “radicale separazione tra Chiesa e Stato” attraverso la “promozione di una legislazione staccata dalla grande eredità etica e dall’umanesimo cristiano”.

b) il referendum elettorale.

Come si vede, la presenza della Chiesa nella società terrena, cioè il problema evangelizzazione, veniva teorizzata e praticata in modo rin-novato. In sostanza l’evangelizzazione aveva finito per accettare il filtro dell’uomo, anche se non ancora quello del cittadino. Ora non mira-va a mettere in questione i vigenti regimi democratici ed economici trattando alla pari con i detentori del potere. Si affidava piuttosto alla spiritualità dei singoli. Nel presupposto che poi nei singoli la spiritua-lità avrebbe dovuto prevalere sui criteri civili della convivenza. Così il filtro sarebbe stato l’uomo, che avrebbe introdotto il criterio religioso tra quelli decisivi per la convivenza anche a costo di chiudere gli occhi sull’esperienza storica. Proprio per questo sarebbe stata ancor più im-portante una forte presenza anche dei motivi a favore della laicità isti-tuzionale, specie se impostata in senso differente dall’anticlericalismo. E sarebbe stata opportuna un’attività volta all’adeguamento costante delle leggi della convivenza, cosa che della laicità è una caratteristica precipua, per ridurre lo spazio del ricorso alla speranza utopica piutto-sto che all’esperienza.

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Invece Craxi, e con lui il mondo socialista, era andato collocandosi in una posizione che non coglieva le istanze di cambiamento sempre più evidenti nella società civile. Così si pose subito in posizione ostile contro la richiesta di 3 referendum elettorali, due sul senato e uno sui comuni, su cui da ottobre 1991 venne iniziata la raccolta delle firme da 57 promotori, e cioè Segni unitamente a partiti (PLI e Radicali) e a singoli deputati ed esponenti della DC, del PDS, della Sinistra In-dipendente, del PRI, dei Verdi, a docenti universitari e persone attive nella società civile. A gennaio la raccolta si concluse con poco meno di un milione quattrocentomila firme e la Corte di Cassazione li dichiarò ammissibili. Poche settimane dopo, nel febbraio del 1992, si verificò poi un episodio del tutto locale e in apparenza secondario, che di fatto dette il via alla decisiva stagione di mani pulite: venne arrestato, men-tre stava riscuotendo una tangente, il presidente socialista del Pio Al-bergo Trivulzio a Milano. Vi furono immediate dissociazioni da parte socialista e sul subito la questione parve circoscritta a reato di un mari-uolo locale, come lo etichettò Craxi.Diveniva però sempre più evidente che il PSI non era più alfiere del cambiamento, anzi nella percezione di molti – con il gruppo Espresso Repubblica che da tempo diffondeva violentissime campagne di stampa contro Craxi e i socialisti – pareva affiancarsi a quelli che erano di ostacolo. Come il pluridecennale pote-re DC (anch’esso in grave crisi, tanto che il Presidente Cossiga, dichia-rando di voler restare sempre cristiano democratico, ma di non riuscir più ad essere democratico cristiano, si dimise dalla DC).

Mancavano poche settimane alle elezioni politiche, che, per la pri-ma volta dopo 25 anni, erano elezioni ordinarie e non anticipate. In giro si avvertiva una voglia forte di cambiamento. Che si riversava in aperte critiche ai partiti più grossi, innanzitutto DC e PDS e in una crescente considerazione, nelle zone del Nord, per la protesta contro Roma Ladrona predicata dalla Lega di Bossi. I risultati dell’aprile 1992 furono molto innovativi. Riferendoci alla Camera, la DC scese di poco sotto il 30% perdendo il 4,7% e 28 deputati (con la Rete formata dalla scissione di Leo Luca Orlando su posizioni di sinistra cattolica e popolar-populista al 1,9% e 12 seggi), il PDS crollò al 16,1% per-dendo 70 seggi, il PSI ebbe una lieve flessione (-0,6 e due deputati in meno), progressi del PRI e del PLI (ambedue guadagnarono lo 0,7% e 6 deputati ciascuno), successo di Rifondazione Comunista (rispetto ai risultati cinque anni prima di Democrazia Proletaria tendenzialmente movimentista, più 4% e 27 seggi), lievi flessioni del PSDI (meno 0,1% e 1 deputato) e del MSI (meno 0,5% e 1 deputato), arretramento dei radicali (meno 1,4% e 6 seggi). Trionfò la Lega Nord passando da 1

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deputato a 55. Il messaggio dei risultati era abbastanza chiaro. Quanto alla maggioranza di governo, nonostante il consistente arretramento della DC, i margini restavano abbastanza netti. Quanto alla sinistra, era in crisi epocale il PDS al minimo storico e, anche contando Rifon-dazione, restava un arretramento del 6,5% e di 42 seggi. Dunque non era affatto preclusa la ricostruzione del pentapartito. Ma occorreva che la maggioranza interpretasse i risultati come una sveglia e attuasse i suoi indirizzi senza il rituale immobilismo dei vecchi riti di palazzo. Viceversa divenne crescentemente chiara l’incapacità di abbandonare le vecchie abitudini.

Confermato Presidente del Senato Spadolini ed eletto Presidente della Camera Scalfaro al posto della Jotti (con i voti della maggioranza, dei Verdi, della Rete e dei radicali), una prima riprova – mentre sui muri comparivano le prime scritte a favore del pool di mani pulite che stava emettendo avvisi di garanzia in alto loco ed anche arresti – venne nella questione Presidenza della Repubblica che si presentò immedia-tamente per le dimissioni di Cossiga con un anticipo di una settantina di giorni. Le esasperanti manovre tattiche nel mondo democristiano, soprattutto tra Andreotti e Forlani, e le cautele di Craxi che aveva aspi-razioni in proprio, impedirono per una settimana alla maggioranza, che aveva i voti, di trovare un accordo per l’elezione. All’improvviso, l’attentato mortale al giudice Falcone provocò un soprassalto nei gran-di elettori che il 25 maggio, sotto la martellante spinta di Pannella, elessero Presidente della Repubblica Scalfaro, con i voti di chi già lo aveva votato un mese prima e in più il PDS.

Subito dopo le vicende del Quirinale, la crisi governativa postelet-torale seguì ritmi abbastanza lenti. Divenuto presidente Scalfaro, fu presto chiaro che Craxi doveva abbandonare ogni speranza di ritor-nare a Palazzo Chigi. Peraltro la situazione aveva spostato l’equilibrio a vantaggio del PSI e Craxi pesò nella scelta del nuovo Presidente del Consiglio. Fece sapere al Quirinale che le sue preferenze erano per Amato, De Michelis, Martelli non in ordine alfabetico. E il cattolico DC di lungo corso Scalfaro, vuoi per tener conto dell’indicazione vuoi forse conoscendo le persone, dette l’incarico ad Amato, personaggio di spicco ma anche, dei tre, quello meno portato ai progetti politici ri-formatori e anche molto sensibile al mondo delle strutture ministeriali.

Craxi percepì che le questioni giudiziarie relative alla gestione del potere e del finanziamento pubblico stavano prendendo una china esplosiva. E il 3 di luglio ’92, intervenendo nella discussione sulla fidu-cia al Governo Amato, fece una diagnosi spietata e rivolse a tutti una chiamata di correo che vale la pena di rileggere (anche perché di fatto

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fu il suo testamento politico).”All’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti e al sistema politico, fioriscono e s’intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudica-ti. E, tuttavia, ciò che bisogna dire – e che tutti del resto sanno – è che buona parte del finanziamento politico è irregolare e illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, atti-vità propagandistiche, promozionali o associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’au-la, responsabile politico o di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: pre-sto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tan-to scottante dei finanziamenti dall’estero, sarebbe solo il caso di ripetere l’arcinoto «tutti sapevano nessuno parlava». Un finanziamento irregolare o illegale al sistema politico, per quante reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato, non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’av ventura”.

Queste parole furono però una diagnosi, non una strategia politica conseguente. Non incisero nel quadro politico salvo essere un lascito a futura memoria. Negli ambienti politici, quello che era avvenuto, non veniva formalmente ammesso (per vergogna, per ipocrisia o per mala-fede) e quello che stava avvenendo veniva comunque sottovalutato (per incomprensione parziale da parte di chi lo avrebbe subito o apposta da parte di chi lo stava preparando).

Dopo altri due mesi di eventi molto rilevanti ed anche drammatici sul piano giudiziario, i primi giorni di settembre, in sordina, avvenne un fatto importantissimo destinato ad avere un gran peso reale nelle vicende politiche italiane. Cedendo alle pressioni molto forti del PDS (Occhetto e Fassino in testa, il quale ultimo, quale responsabile esteri, seguiva la forma della linea tracciata da anni dal predecessore Napo-litano) e a quelle non tanto più deboli dello stato maggiore del PSI (il vicesegretario De Michelis in testa), Craxi annunciò che al Congresso di Berlino avrebbe sostenuto la richiesta del PDS di aderire all’Inter-

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nazionale Socialista. In pratica, Craxi rinunciava al diritto di veto che deteneva quale leader socialista di grande prestigio internazionale (al punto di aver avuto un incarico dell’ONU) esercitato fino ad allora. Per anni aveva dichiarato e scritto che l’unità delle sinistre era molto difficile e molto lontana, aveva criticato la relazione Occhetto al Con-gresso di Rimini per l’antiamericanesimo e per le tinte da compromes-so storico, pochi mesi prima aveva duramente polemizzato con il PDS che aveva richiesto l’impeachment contro il Presidente Cossiga.

Ora dava un via libera incondizionato all’accettazione del PDS nell’Internazionale Socialista. Non davano spunto per una svolta del genere, né la storia semisecolare del PCI, né le complessive politiche attuate in Italia, né il reiterato rifiuto della prospettiva dell’unità so-cialista sempre in Italia, né la natura profonda della cultura politica diessina, né i rapporti in corso con il governo Amato. Soprattutto, sul piano dell’opinione pubblica, l’accettazione legittimava il PCI/PDS nonostante la caduta del muro a Berlino, i cui effetti valutava alla ro-vescia, pur essendo passati tre anni. La fine del comunismo aveva tolto al PCI/PDS l’ideologia di riferimento ma la mancanza del riferimento lasciava ancora più libera la classe dirigente del PCI, la stessa di prima, di proseguire nella sua mitica pretesa di egemonizzare il rinnovamen-to dell’Italia senza fare una riflessione, seria e profonda, sulle proprie arretratezze politico culturali, che pure l’avevano portata per decenni a non indovinare una sola previsione sulle questioni decisive.

Certo, era legittimo, quasi ovvio, che il PSI concepisse una ma-novra particolare nei confronti del PDS, visto che, avendo rifiutato il frontismo da decenni, sviluppato l’autonomia e nell’ultimo quindicen-nio spezzato ogni rapporto di sudditanza con i comunisti, il PSI era divenuto autonomo e credibile tanto da tentare una sorta di federazio-ne della sinistra sulla base delle proprie posizioni socialiste (Martelli e Formica sollecitavano da mesi l’unità socialista in parallelo ai miglio-risti di Napolitano, che però nel PDS erano del tutto minoritari). Ma una manovra del genere era concepibile solo non dimenticando la real-tà delle cose (la distorta propaganda decennale dei comunisti aveva reso radicati forti pregiudizi antisocialisti, tanto che svariati sondaggi dell’epoca mostravano addirittura che la base PCI/PDS preferiva il democristiano Forlani a Craxi). Per essere concepibile, una manovra del genere doveva essere vincolata a rigide condizioni e cautele circa intenzioni e comportamenti politici dei “nuovi” socialisti in maniera da non perdere il controllo di una simile operazione in Italia. E invece nulla. Il PSI non avvertì tutto ciò. Dette un via libera senza condizioni e basta. Perseguì il sogno dei rapporti a sinistra, senza cogliere che,

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caduto il muro, non avevano più senso diplomazie con quella sinistra di nostalgici, a prescindere dai contenuti reali. Ancora una volta il so-cialismo italiano era vittima delle sue emozioni.

L’ingenuità di questa decisione fu catastrofica. Molto più del già non giustificabile “andate al mare” sul referendum della preferenza unica. Ed ebbe conseguenze molto gravi ed irreversibili. Per il mon-do socialista, sia nei mesi successivi (quando il PDS fu uno scatenato oppositore del governo Amato) che negli anni successivi (quando il PDS cavalcò spudoratamente l’anticraxismo trasformandolo in una emblematica caccia all’uomo al di là dalle questioni politiche). Ma in sostanza soprattutto per il quadro politico generale. L’accettazio-ne senza condizioni del PDS nell’Internazionale Socialista non spinse alla maturazione culturale degli ex-comunisti. Al contrario costituì, nel mondo della sinistra e in non piccoli settori dell’opinione pubblica, la prova provata che il muro era caduto anche in Italia e che non esiste-vano più differenze tra chi era stato comunista, chi era stato socialista e chi voleva liberarsi dai soprusi centralisti. Il PSI aveva perduto la sua ragione sociale. Questo diverrà sempre più evidente negli anni, nonostante l’impegno di alcuni, che però non volevano vedere la realtà fino in fondo. Da subito l’opinione pubblica inclinò a concludere che se il PDS era stato accettato dall’Internazionale Socialista, allora non sussistevano più ragioni di distinguo culturali ma solo ragioni di atti-vità politica in Italia e neppure avevano più ragion d’essere le pratiche concepibili ai tempi della guerra fredda. La lotta al malgoverno (e al malaffare) andava affrontata per quel che era e dunque avevano titolo per guidarla solo i vecchi oppositori o chi si era subito distinto, a pre-scindere dalla coerenza delle loro proposte e dalla loro credibilità di comportamenti.

In ogni caso, questa catastrofica decisione di Craxi all’Internazio-nale Socialista, conferma ulteriormente gli indizi  –  i quali all’epoca erano oggetto anche di valutazioni riservate sul piano diplomatico del-le ambasciate – dell’esaurirsi della spinta politica socialista di Craxi, come leader e come persona. Sul piano quantitativo appariva logorato dal non riuscire a superare nelle elezioni nazionali quota 15%, no-nostante la disinvoltura nella gestione del potere. Poi cominciavano a venir meno le energie psicologiche e fisiche necessarie per il disegno di grande riforma politica di cui era protagonista da un quindicennio. Già da non breve tempo era emersa la malattia di cui soffriva, una ma-lattia che per sua natura ha un decorso assai subdolo dagli esiti molto invasivi, anche nelle fasi intermedie. Da ciò una spiegazione aggiuntiva degli errori dell’ultimo periodo.

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157Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

A parte questo, va rilevato che Craxi è stato un forte innovatore per il socialismo e che per tale via ha contribuito assai positivamente a mu-tare gli assetti politici del paese. La sua visione prospettica è stata, in-vece, più limitata nel campo dell’analisi generale della convivenza. So-prattutto, al di là delle convenienze di partito, non ha mai colto quanto poteva essere funzionale al suo progetto curare il rapporto con i laici in genere ed i liberali in particolare. Continuò ad anteporre problemi di potere del PSI e in nessuna occasione mostrò di aver capito che un col-legamento più forte e una attenzione maggiore alle vicende del mondo liberaldemocratico, avrebbero costituito un’alleanza particolarmente feconda per un movimento socialista che da solo, per una serie di vi-cende storiche italiane, non poteva superare certi limiti quantitativi e culturali. Sotto questo aspetto resta emblematica la scelta del nuovo Concordato. Craxi aveva ridotto il problema dei rapporti Stato-Chiesa ad una questione di buon vicinato, migliorandone, mediante aggiorna-mento, il regolamento condominiale. Aveva rifiutato, o quanto meno non afferrato, l’esistenza del reale problema politico, non risolubile at-traverso concordati e intese.

Amato iniziò a governare con molta determinazione le svariate difficoltà del paese, che a settembre divennero drammatiche sul pia-no economico per un forte attacco dei mercati internazionali alla lira. Amato fece una manovra da 93.000 miliardi e svalutò la lira. E poi chiese ed ottenne leggi delega per la previdenza, la sanità, il pubblico impiego e la finanza locale. Il rigore del governo suscitava forti rea-zioni con mobilitazioni di varia origine anche in piazza. Il problema maggiore era però che i due maggiori partiti della coalizione, la DC e il PSI, erano sottoposti, a seguito di fortissime pressioni giudiziarie, a notevoli tensioni interne. Nella DC portarono all’avvento del tandem Jervolino Presidente – Martinazzoli Segretario, e nel PSI ad uno scon-tro tra Craxi e Martelli. Ed inoltre stava nascendo un nuova aggre-gazione politica attorno ad un Manifesto lanciato da Adornato, anni prima direttore del periodico della Federazione giovanile del PCI, che diceva “Come l’antifascismo fu la base della prima Repubblica, così la questione morale può e deve essere la base della seconda Repubblica… la nomenklatura è oramai un ostacolo allo sviluppo… C’è bisogno di una vera e propria liberazione”. Su questa logica si andava ragionando sul formare un nuovo partito, Alleanza Democratica, con l’adesione di fatto di Occhetto, della minoranza socialista e della maggioranza re-pubblicana. E sull’Indipendente, Vittorio Feltri inneggiava ai giudici che inviavano avvisi di garanzia a Craxi e che “hanno colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui giornali per raccogliere altra glo-

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ria… I giudici lavorano tranquilli, in assoluta serenità: sanno che i citta-dini, ritrovata dignità e capacità critica, sono dalla loro parte”. Questa situazione – che si traduceva in ripetuti avvisi ed arresti, successi alle amministrative delle leghe e sconfitte per i partiti di governo e per il PDS – avrebbe richiesto una risposta riformatrice ampia e decisa. Invece Amato reagiva con un’opera di governo dalle prospettive poli-tiche pressoché asettiche.

Nel clima di montante protagonismo dei pubblici ministeri, si co-minciava anche a dire in giro che il Parlamento non era più legittimato perché i voti erano stati presi con l’inganno e lo strapotere. Il Presi-dente Scalfaro, in modo indiretto, finiva per avallare questa interpreta-zione. Eppure c’era chi, come l’accademico e pubblicista Italo Mereu, sulla rivista liberale Libro Aperto diagnosticava lo stato delle cose con lungimirante lucidità: “Ho approvato l’azione di Mani pulite – quale si è svolta agli inizi – come un’opera di giusta pulizia che – casomai – arri-vava con molto ritardo (e non si capisce né come né il perché). Perché se ogni potere avesse svolto – compreso il quarto potere, cioè la stampa – il proprio compito come doveva, se ogni ufficio della procura avesse sempre e comunque premesso l’azione penale a cui era tenuto – sia con il vec-chio che con il nuovo codice – di procedura penale –, non saremmo di certo arrivati a un tale degrado politico e giudiziario. Con il nuovo «rito ambrosiano», dove si costringono gli imputati a confessare, con il ripristi-no – mediante l’arresto e il l’isolamento carcerano – della vecchia tortura giudiziaria. Per questo – se mi sembra più che giusto il referendum dove il vero sovrano (cioè l’elettore) potrà dire con chiarezza ciò che vuole – mi sembra altrettanto corretto (in futuro) i nuovi eletti mettano subito mano al nuovo Codice di procedura penale, mandando al macero quello at-tuale, reso obbrobrioso dalla legislazione di Martelli (nota dell’autore, e infatti una larga maggioranza del PLI espresse fortissime riserve), e diano inizio alIa strutturazione diversa del nuovo ordinamento penale di rito accusatori. Nell’attesa, ci è sembrato molto opportuno l’ordine che il Procuratore generaIe della procura di Milano ha dato all’ufficio della procura di Mani Pulite, obbligando tutti al più assoluto silenzio (come da legge). Dopo tante interviste, anticipazioni, resoconti di interrogatori ci è sembrato un «basta» più che opportuno per la serietà delle indagini”.

In questo clima, costellato da dilaganti provvedimenti dell’auto-rità giudiziaria, ci si avviò alla celebrazione del referendum elettorale di Segni. Lui deluso abbandonò la DC definendola senza speranza, mentre una parte consistente della sinistra (Rifondazione e una non piccola quota del PDS), la Rete e il MSI lo avversavano dipingendolo come “un maggioritario cavallo di Troia per sfuggire all’assedio” del rin-

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novamento e Fini chiedeva ai missini di valutare l’opportunità di non partecipare ai lavori parlamentari per il disagio di frequentare quelle aule. Nel giro di quindici giorni dalla metà di aprile 1993, prima venne approvato con l’82,2% dei voti il referendum che, abrogando alcune norme, introduceva il maggioritario richiesto dai proponenti e poco dopo Amato rassegnò le dimissioni.

Nel frattempo la Chiesa aveva compiuto un atto di rilievo nell’am-bito della sua linea di evangelizzazione della società. Dopo tre secoli e mezzo, riabilitò di Galileo Galilei, condannato per l’eliocentrismo e costretto all’abiura. Un atto nel chiaro intento di avvicinare la Chiesa alla sensibilità della società moderna e, per questo, atto di obiettiva saggezza che mostra la capacità della Chiesa di non lasciare immobili le frontiere della pratica religiosa. La fede ha sempre voluto essere la risposta rassicurante di fronte all’ignoto. Siccome però, da oltre un secolo, i confini dell’ignoto mutano rapidamente nella coscienza di ciascuno, allora i cattolici non escludono di adeguare le frontiere della pratica religiosa all’evolversi della società.

Peraltro questo non consentiva davvero di dedurne la possibilità di mettere un movimento di cattolici in quanto tali sullo stesso pia-no politico culturale dei movimenti politici laici. La religione, quando sconfina nella proposta politica, non produce crescita civile ed eman-cipazione. Però rende sempre di più necessario elaborare un nuovo tipo di risposta da parte della laicità al volto rinnovato della Chiesa che si presentava nel dibattito sociale riconoscendo, seppure in grande ritardo, certi suoi non casuali errori storici. Invece il mondo politico, dei partiti e non, era in tutte altre faccende affaccendato e non si pre-occupava di simili aspetti ritenuti troppo liberali se non intellettuali, e giudicati lontani dalla realtà della convivenza. E proseguiva nella poli-tica delle Intese con le varie confessioni, tanto che Amato, negli ultimi tre mesi della sua Presidenza, modificò l’intesa con la Tavola Valdese e ne firmò due nuove con l’Unione cristiana evangelica battista e con la Chiesa evangelica luterana. Come è ovvio, la realtà si sarebbe pre-sto vendicata di questa disattenzione nei suoi confronti. Il dilemma sui rapporti religiosi, separatismo e concordati, non è così lontano dal quotidiano come si vuol far credere.

Il fatto è che la libertà religiosa del cittadino, sancita nella Costitu-zione, non costituisce un automatico riflesso civico per sostenerla da una parte della classe politica (in testa quella democristiana ma non solo) e dalle burocrazie dello Stato. Nella loro mente scatta sempre la molla di favorire quelle religioni che sono organizzate ed hanno già un qualche accordo con i palazzi del potere. Il mondo politico in generale

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pare raramente in grado di affrontare simili storture. Ci vuole la Corte Costituzionale. Non a caso nello stesso periodo dell’aprile 1993, ci fu la sentenza 195 che dichiarò incostituzionale una legge urbanistica della Regione Abruzzo che, come condizione per concedere contributi al realizzare un edificio di culto, imponeva l’esistenza di un’intesa con lo Stato. “Possono sussistere confessioni religiose che non vogliono ricercare un’intesa con lo Stato, o pur volendola non l’abbiano ottenuta, ed anche confessioni religiose strutturate come semplici comunità di fedeli che non abbiano organizzazioni regolate da speciali statuti. Per tutte, anche quindi per queste ultime vale il principio dell’uguale libertà davanti alla legge. Qualsiasi discriminazione in danno dell’una o dell’altra fede religiosa è costituzionalmente inammissibile in quanto contrasta con il diritto di li-bertà e con il principio di uguaglianza… È determinante la finalità che caratterizza la disposizione impugnata e l’effetto che ne discende: finalità ed effetto essendo quelli di facilitare l’esercizio del culto, l’agevolazione non può essere subordinata alla condizione che il culto si riferisca ad una confessione religiosa la quale abbia chiesto e ottenuto la regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione”.

c) al voto con la nuova legge elettorale.

Aleggiava la necessità di ricorrere ai grandi esponenti dei corpi del-lo Stato. Così Ciampi passò da Governatore della Banca d’Italia alla guida di un governo più tecnico, anche con la stessa base parlamentare del precedente quadripartito cui si aggiungevano gli indipendenti di sinistra (in veste di braccio operativo del PDS, che si astenne insie-me alla Lega Nord). La pubblica tempesta non si placò. Chiaramente nell’opinione pubblica convergevano la forte voglia di cambiamento indotta dalla caduta del comunismo (e quindi della democrazia bloc-cata) e il non percepire un qualunque progetto organico dotato di forza sufficiente per riformare uno Stato che palesemente non funzionava in modo adeguato. I parlamentari si agitavano in una logica dominata dalle emozioni, sospinti da suggestioni occasionali, privi vi un disegno politico vero e proprio. Una volta respingevano la richiesta di autoriz-zazione a procedere nei confronti di Craxi (tre mesi dopo cambiarono idea) e l’altra decidevano di abolire nell’articolo 68 della Costituzione l’aspetto essenziale dell’immunità parlamentare circa i processi, un tassello fondamentale degli equilibri istituzionali (non a caso ne era stato discusso anche nelle due precedenti legislature senza farne nulla).

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Si stava perdendo l’abitudine a voler cogliere il nesso tra la politi-ca e la realtà effettiva (sul tema immunità, vi furono addirittura testi universitari di diritto costituzionale secondo cui la riscrittura dell’ar-ticolo 68 della Costituzione non sembrava aver innovato rispetto alla sostanza, il che è insostenibile solo leggendo i testi tanto che è stato na-turalmente poi smentito dalla storia successiva). Grandi giornali, come il Corriere della Sera e Repubblica, parteggiavano per il cambiamento ma trascuravano le sue possibili strade e i suoi contenuti.

Non pochi parlamentari e dirigenti partitici si agitavano non per trovare nuove idee ma per rifarsi una verginità dando ai propri partiti di provenienza colpe debordanti, che, se vere, dipendevano essenzial-mente dalle loro scelte negli anni precedenti. Continuavano in tutto il paese gli arresti di esponenti locali e nazionali di partiti di maggio-ranza e di opposizione. Tale era il numero di denunce alle procure che Borrelli, Procuratore Capo del pool Mani Pulite, alla radio invitò i cittadini a cessare le segnalazioni perché intasavano il pool. Il PLI e il PRI mutarono gli assetti di vertice a seguito degli avvisi di garanzia ai rispettivi segretari, Altissimo e Giorgio La Malfa, per violazione del finanziamento pubblico ai partiti. Nel PLI fu eletto segretario Costa e nel PRI assunse le funzioni di segretario il vice Bogi. Segni annun-ciò la presentazione di Alleanza Democratica alle prossime elezioni. Ma al contempo, non ottenendo riconoscimento da Occhetto in pro-spettiva elettorale, fu cedevole rispetto al richiamo delle esigenze DC impersonate da Mattarella nel fare la modifica della legge elettorale (lo esigeva il risultato del referendum), che venne votata introducendo in parte il maggioritario a turno unico, conservando un quarto di pro-porzionale (attraverso una complessa procedura di sbarramento e di scorporo collegio per collegio dei voti già utilizzati per il maggiorita-rio) e senza cogliere la necessità segnalata da alcune parti di adeguare diversi quorum – pensati nella Costituzione con il sistema della legge proporzionale – all’aver introdotto il maggioritario elettorale. Il man-cato adeguamento finirà per produrre ai giorni nostri non lievi tensioni politico istituzionali.

Poi, dopo qualche settimana, Segni abbandonò Alleanza Demo-cratica perché troppo vicina al PDS e fondò il Patto Segni (e poi farà il Patto per l’Italia). La DC in pochi mesi, dall’estate 1993 all’inverno successivo, passò da un’assemblea costituente per rinnovare senza rin-negare, ad un nuovo partito, il Partito Popolare Italiano, separandosi dal Centro Cristiano Democratico di Pierferdinando Casini e Mastel-la. Fini continuava a parlare di una strategia di Alleanza Nazionale da parte del MSI e ogni volta giurava due volte che non avrebbe mai sciol-

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to il MSI (“L’Alleanza Nazionale non è una nuova formazione politica, è una strategia di riscossa della nazione. Non apparteniamo alla schiera di coloro che avendo alle spalle un fallimento devono necessariamente cambiare ragione sociale, nascondere l’immagine e in qualche circostanza cambiare perfino il modo e il simbolo con cui si presentano agli italiani”).

Intanto la Chiesa, con una rara intervista di Giovanni Paolo II sulla Stampa concessa a Jas Gawronski, continuava a tessere la sua tela per un nuovo tipo di presenza spirituale nella quotidianità. Sman-tellando luoghi comuni del dibattito politico. Riguardo al presunto pacifismo religioso contraddetto dalla disponibilità all’uso della forza in Jugoslavia, disse “bisogna togliere all’aggressore la possibilità di nuo-cere. Ogni popolo deve avere il diritto di difendersi… Ai tempi della guerra del Golfo,… quella è stata una guerra non tanto di difesa ma di tipo punitivo. Si voleva dare a questa guerra il carattere di una guerra di religione. Nei Balcani la situazione è differente. La posizione della Santa Sede è stata sempre questa: evitare una guerra fratricida”. Sull’entrata della Polonia in Europa osservò: “l’importante che vi entri con i valori che sono i suoi, non adattandosi in maniera acritica e cieca ai costumi oc-cidentali”. A proposito del comunismo e lo scontro con il capitalismo rispose: “L’attenzione al sociale nei Paesi del socialismo reale ha avuto però un prezzo molto alto, pagato con un degrado in molti altri settori della vita dei cittadini… il capitalismo nella sua dimensione pratica, al livello dei suoi principi basilari sarebbe accettabile dal punto di vista della dottrina sociale della Chiesa, essendo sotto vari aspetti conforme alla legge naturale. Purtroppo subentrano degli abusi – varie forme di ingiustizia, di sfruttamento, di violenza e di prepotenza – che alcuni fan-no di questa pratica di per sé accettabile, e allora arriviamo alle forme di un capitalismo selvaggio. Sono gli abusi del capitalismo che vanno condannati”.

Circa gli indiretti effetti del totalitarismo sulla consapevolezza dei cittadini, Giovanni Paolo II osservò “nel processo di autodifesa e di lotta contro il totalitarismo marxista, all’Est si è conservata un’altra dimensio-ne umana… Se un uomo vive in un sistema che è programmaticamente ateistico, anche in un Paese come la Polonia, si accorge meglio ad esempio di che cosa significhi la religione. Si accorge di una cosa di cui non sempre ci si accorge in Occidente: e precisamente che Dio è la fonte della dignità dell’uomo, la fonte ultima, unica, assoluta. L’uomo all’Est se ne accorge-va, e se ne accorgeva un prigioniero nei gulag, se ne accorgeva Solzeni-cyn. All’Ovest, l’uomo questo non lo vede in modo così chiaro. Lo vede fino ad un certo punto. La sua coscienza in gran parte si è secolarizzata. Non di rado, egli vede la religione come qualcosa di alienante”.

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Circa l’importanza del prestare attenzione a tutti i problemi so-ciali e non solo a quelli economici, il Papa osservò “il confronto con l’Unione Sovietica ha costituito una spinta forte. E pensavano all’unità non solo economica e politica, ma anche culturale e spirituale. Oggi ho l’impressione che tutto sia ridotto alla semplice dimensione economica, o quasi. A questo punto sorge un grande compito e una forte sfida per la Chiesa, per il Papa con i vescovi, a difendere e promuovere altre dimen-sioni e altri valori, spesso dimenticati… Il Vangelo non cessa di essere un «segno di contraddizione… voglio e devo evitare di essere parziale, di schierarmi da una parte. Devo attenermi alla dimensione dei princi-pi, perché questa è anche la missione della Chiesa. È poi il compito dei cristiani laici impegnati nel settore pubblico trasformare questi principi in un’altra moneta, la moneta della vita pratica, concreta, cioè di in-trodurre questi principi nella vita di ogni giorno, nella loro famiglia, nella vita pubblica, nell’economia e nella politica”. Le conseguenze di questi concetti espressi da Giovanni Paolo II le approfondirò nella seconda parte. Qui mi preme mostrare come certe tematiche affron-tate a fondo sul piano religioso da parte di una Chiesa in trasforma-zione, avrebbero richiesto una più attenta consapevolezza separatista da parte delle istituzioni mentre invece ci fu solo superficiale disat-tenzione.

Il governo Ciampi tirava dritto sulla strada delle privatizzazioni e dell’uscita dello Stato dalle banche. Peraltro, anche qui, secondo una logica leggibile in vario modo: “nessuna demonizzazione può essere con-sentita contro il pubblico in economia, nessuna cecità può essere tollerata rispetto a quello che ha rappresentato per l’Italia la lunga ingerenza po-litica nella gestione economica delle imprese pubbliche”. Tanto che alla fine anche il PDS voterà la finanziaria presentata da Ciampi. Peraltro proprio il varo della finanziaria, stando a varie dichiarazioni pubbli-che del Presidente del Consiglio e di membri del Governo, avrebbe costituito l’esaurirsi del compito politico del Governo. In questo for-micolare vorticoso, non per caso il Premio Nobel Modigliani richia-mava l’attualità delle ragioni per cui molti anni prima aveva scelto la cittadinanza americana: “l’Italia appare oggi come un Paese da evitare perché incivile e non sicuro mancando di un sistema di garanzie delle libertà individuali”.

Forse è proprio su questo punto delle libertà individuali che si può misurare l’inadeguatezza, ancora una volta, dell’azione politica del maggior partito della sinistra. La questione era che, nonostante fosse ormai liberato dai condizionamenti dei gruppi e persone più ideologiz-zati in senso marxista e più tradizionalisti, il PDS non si staccava dal

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proprio vissuto “glorioso”. Secondo la migliore atmosfera gattoparde-sca, era certo di essere riuscito a superare indenne prima il crollo del comunismo e dopo (per prescrizione) la maggior parte delle accuse dei magistrati. Aveva rimosso le annose corresponsabilità consociative e riteneva di avere le carte in regola per vestire i panni dell’implacabi-le accusatore del pentapartito e poter raccogliere, attraverso il nuovo maggioritario, il diritto a succedergli. Muovendosi da questo assunto, il PDS ritenne essenziale solo avere un volto differente che consentisse di aggregare un’area più vasta in grado di prevalere in nome del nuovo e del non compromesso.

Per di più, al vasto turno di elezioni amministrative in molti cen-tri importanti del novembre 1993, i risultati positivi (anche perché enfatizzati per tali, nonostante vi fossero stati segnali di scricchiolii) fecero crescere l’eccitazione dei dirigenti. Pareva sufficiente cavalcare l’innovazione palingenetica portata dall’azione dei magistrati. E dun-que, certi della vittoria, erano convinti che per assicurare il successo bastasse dar l’impressione che tale sarebbe stato l’esito ineluttabile e trascurarono di dare altri contenuti alla loro proposta circa il rafforza-re le condizioni di libertà dei cittadini. Perciò si preoccuparono solo di costruire la gioiosa macchina da guerra della (solita) coalizione che univa le forze di sinistra chiamata Alleanza dei Progressisti. PDS, Ri-fondazione Comunista, Partito Socialista italiano, la Rete, Cristiano Sociali, Verdi, Alleanza Democratica, erano inopinatamente raccolti, circa i problemi politici reali, a sostegno acritico della magistratura (fatto inedito per la sinistra). Non riuscendo neppure a farla bene l’Al-leanza, tanto che, subito dopo il suo annuncio, si chiameranno fuori Cristiano Sociali, Verdi, Alleanza Democratica. Non solo, venne pure sottovalutato che in quella compagine il PSI non era più credibile dal punto di vista elettorale, siccome appariva aver di nuovo lasciato la sua posizione autonoma dal PDS e di esser passato dalla parte degli stessi magistrati che stavano perseguendo i socialisti (e, per ironia della storia, l’operazione venne fatta con disinvolta miopia dall’allora Segre-tario Nazionale Del Turco, la stessa persona che quattordici anni dopo sarà vittima incolpevole, quale governatore dell’Abruzzo, di un altro clamoroso caso di giustizialismo dei magistrati).

In questo clima assai agitato pervaso da una diffusa insofferenza per le insufficienze dello statalismo e dal sogno di una sorta di nuova frontiera liberale, da fine primavera 1993 erano sempre più insistenti le voci che si andava interessando crescentemente alle vicende politiche quel noto imprenditore che aveva fatto fortuna nell’edilizia e poi aveva intrapreso con successo la carriera di proprietario delle TV private del

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paese, Silvio Berlusconi. Il suo interesse era dovuto essenzialmente ad una valutazione assai negativa delle pessime prospettive dell’intera sua costruzione economica nel caso si fosse irrobustita la logica statalista che in nome dei privilegi burocratici soffocava il mercato. Valutazione che molti fin da allora affermavano, dati alla mano, essere in realtà la conseguenza di una pesante situazione debitoria che richiedeva di pesare di più nelle alte sfere pubbliche.

Fatto sta che nel secondo semestre del ’93, Berlusconi moltiplicò i contatti per trovare una persona disposta a guidare una coalizione contro le sinistre ma, per un motivo o per l’altro, fosse reale o fosse una finta, la ricerca non pareva aver esito. Berlusconi fece una prima uscita di tipo politico affermando da Bologna che alle comunali di Roma a novembre, se avesse abitato lì, avrebbe votato Fini, dichiaratamen-te missino, contro Rutelli, alto borghese, già segretario dei radicali e poi dei Verdi, coccolato dalla sinistra. La dichiarazione fece scandalo, ma Fini arrivò al secondo turno e perse di molto poco una gara sulla carta impossibile. È ragionevole ritenere che a dicembre, Berlusconi avesse ormai concluso che doveva esser lui a scendere in campo al mo-mento delle elezioni, nonostante diversi tra i suoi dirigenti aziendali lo sconsigliassero. Nei rapporti con le altre forze politiche, non riuscì a convincere a coalizzarsi Martinazzoli ma preparò il terreno per coin-volgere gli altri ex DC e intanto convenne con Pannella della necessità di convergere “contro la bottega del PDS”.

Nella logica di stringere i tempi per la chiusura della legislatura, più volte apertamente preannunciata da Scalfaro, venne poi, pochi giorni prima del Natale 1993, una mozione di sfiducia al governo pre-sentata con questa stessa motivazione da 148 deputati (86 DC, 29 PSI, 8 PRI, 6 PSDI, 6 radicali, 4 PLI, 2 Verdi, 7 Misto). Ne seguì che il 16 gennaio il Presidente Scalfaro sciolse le Camere e, senza aver esperito passaggi parlamentari, convocò ancora una volta le elezioni anticipate, per il 28 marzo (dimenticando che gli ebrei, essendo quella domeni-ca la loro Pasqua, avrebbero dovuto astenersi dal voto, da qui le loro proteste e quindi il ripristino delle votazioni estese al secondo giorno, che forse era il reale obiettivo). Solo a questo punto – molti suoi fu-turi nemici non avevano creduto a questa eventualità o comunque la sottovalutavano – Berlusconi ruppe gli indugi e due giorni dopo, il 18 gennaio 1994, costituì la Fondazione Forza Italia (Berlusconi, Marti-no, Caligaris, Tajani e Valducci) seguita, ancora qualche giorno dopo, dall’annuncio della sua entrata in politica. Appunto attraverso Forza Italia imperniata su una schiera di suoi dipendenti aziendali. Con il colpo di teatro di due alleanze differenti con due partner apparente-

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mente tra loro incompatibili, una al nord con la Lega e una al centro-sud con AN. In più il CCD di Pier Ferdinando Casini e i Radicali di Pannella. Ed inoltre molti personaggi sparsi, provenienti in varia mi-sura dall’area dell’ex pentapartito, soprattutto quella socialista, e del rampantismo dell’ex estrema sinistra.

I partiti laici assunsero atteggiamenti differenti. Il PRI si divise in pratica tra la maggioranza lamalfiana che si accordò con i gruppi intermedi e diversi dirigenti storici che trovarono ospitalità nei Pro-gressisti. Il PSDI si divise in due tronconi, la maggioranza dette vita con ex socialisti alla lista autonoma Socialdemocrazia per le Libertà, una minoranza aderì alla coalizione intermedia. Il PLI aveva indetto in quei giorni il suo Congresso che, vista la pesante situazione debi-toria lasciata dal segretario uscente Costa, decise di sciogliersi men-tre i delegati si ricostituirono il giorno stesso nella Federazione dei Liberali (Presidente Alfredo Biondi, coordinatore l’autore) che alle politiche non presentò proprie liste ed ebbe suoi esponenti candidati in più coalizioni. I principali candidati dissero che sarebbe stata una divisione tattica per riunirsi una volta eletti, come avevano fatto più volte i radicali, ma, due mesi dopo, vi fu la separazione definitiva tra Biondi e Costa, divenuti ministri di Forza Italia, e tutti gli altri che si presentarono con lista propria alle Europee, elessero presidente Antonio Baslini e dopo di allora sono restati costanti oppositori del centro destra.

Sullo sfondo il Vaticano proseguiva nei suoi passi. A livello inter-nazionale ove firmò il riconoscimento reciproco con Israele normaliz-zando i rapporti dopo decenni, e a livello italiano dove continuava a chiedere libertà di educazione quasi in Italia non vi fosse. Però trovava autorevoli appoggi. Il Presidente Scalfaro (che del resto durante il suo mandato esibì sempre all’occhiello il distintivo dell’Azione Cattolica) appoggiò apertamente la richiesta vaticana fatta dal cardinale Laghi che premeva per i finanziamenti statali alle scuole private cattoliche. E Berlusconi si precipitò a commentare, pensando alle urne, che si trattava di una richiesta giusta che solo “le sinistre stataliste nutrite di cultura illiberale potevano non accogliere”.

Emerse un singolare contrasto tra i grandi giornali che dileggia-vano Berlusconi definendolo la malattia del paese ed anche il ragazzo Coccodè, e vari sondaggi che, siccome cominciavano a segnalare gli ottimi livelli del centro destra, venivano giudicati inaffidabili specie dal PDS. In ogni caso, vi sono cose che retrospettivamente colpiscono molto. Intanto che il PDS, pur dotato sulla carta di una organizza-zione molto capillare, non avvertì assolutamente quanto andava acca-

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dendo. Si beava inebriato della prospettiva di una agevole vittoria da parte della gioiosa macchina da guerra, magari attraverso un’alleanza post elettorale con i Popolari e con le separate anime della sinistra da Rifondazione Comunista ai Cristiano Sociali, ai Verdi e ad Alleanza Democratica. Inoltre colpisce che rimasero assai spiazzati gli ambienti delle alte burocrazie pubbliche e finanziarie e di personaggi di lungo corso politico del mondo democristiano. Questi, a cominciare dal Pre-sidente Scalfaro, ritenevano che i partiti ex-DC sarebbero restati l’ina-movibile fulcro degli equilibri politici e che il ricorso al voto avrebbe spazzato via i corrotti e risolto i problemi. Infatti, secondo loro erano state le specifiche persone a corrompere il sistema e una volta rimossa quel tipo di classe dirigente politica, il sistema avrebbe potuto rimet-tersi in moto con pochi ritocchi.

Partendo da tali miopi analisi, le elezioni anticipate si trasformaro-no in una gigantesca trappola politica per chi aveva lavorato a lungo per farle puntando al pubblico lavacro dei propri peccati. Perché da parte sua, Berlusconi, da ottimo imprenditore abituato a tastare il pol-so ai consumatori anche se digiuno di cultura politica, aveva fiutato il vento, magari anche dietro suggerimento di certi suoi consiglieri. Crollato il comunismo, il felpato statalismo del mondo democristiano o le utopie progressiste diffidenti del mercato e della variabilità indivi-duale, non venivano più accettate da una parte consistente del paese, che scalpitava in attesa di una ventata di libertà e di politiche liberali. Avendo compreso che la questione politica reale era su questo pun-to, non interessava più il problema di come realizzare questa ventata dandole una concretezza di scelte legislative e di comportamenti (fatto che per Berlusconi costituirà negli anni il vero tallone di Achille che l’opposizione non si è proposta in sostanza di colpire davvero).

Ai nastri elettorali, la situazione fu dunque questa. Nel centro de-stra, Forza Italia, AN, Lega Nord, Lista Pannella, CCD di Casini e di Mastella, Socialdemocrazia, nei progressisti PDS, PSI, nei gruppi vicini ai Progressisti, Federazione dei Verdi, la Rete, Alleanza Demo-cratica, nei gruppi di sinistra Rifondazione, negli ex democristiani e intermedi Partito Popolare Italiano, Patto Segni e poi SudTiroler, oltre ad una selva di piccolissime liste tematiche o circoscritte. Va rilevato che a livello di collegi uninominali si verificarono, per necessità politi-che o questioni locali, svariati tipi di convergenze che pesarono molto nella effettiva assegnazione dei seggi a questo o quella forza politica.

I risultati elettorali (riporto la Camera) furono che le liste del cen-tro destra ottennero nel proporzionale complessivamente il 46,35% (Forza Italia 21,01%, AN 13,47%, Lega Nord 8,36%, Lista Pannella

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3,51%,), i Progressisti il 22,5% (PDS il 20,36, PSI il 2,19%), gli in-termedi 15,75% (Popolari 11,07%, Patto Segni 4,68%), Rifondazione il 6,05%, i Verdi il 2,7%, la Rete il 1,86%, Alleanza Democratica il 1,18%, SudTiroler 0,6% e altre 53 liste poco meno, tutte insieme, del 3,0% dei voti. Ma sommando i risultati dei collegi uninominali, la assegnazione dei seggi fu ancora più favorevole al frastagliato centro destra di Berlusconi che in tutto ottenne 356 seggi, contro 27 degli intermedi, 21 dei Democratici (Patto Segni e Alleanza Democratica), 164 dei progressisti, 24 di Rifondazione, 3 della SudTiroler e altri 33 del misto (di cui molti orbitavano nel centro destra, ad esempio seguì questa via Giulio Tremonti, eletto con Segni, per poter accettare il Ministero offertogli da Berlusconi su consiglio di Pannella). Era co-minciata la seconda repubblica.

19. La seconda repubblica e i nuovi spaziper la Conferenza Episcopale

Mi sono soffermato sulle vicende del passaggio dalla prima alla seconda repubblica, per mostrare come si è innescata la tendenza all’esaurirsi del dibattito politico sulle idee e sulla cultura. Emerge che Berlusconi non è l’inventore della politica che prescinde dalle idee. Piuttosto è stato colui che con prontezza (fa lo stesso se vi sia stato spinto da personali convenienze) ha percepito che il vecchio quadro di contrapposizioni ideologiche frontali era crollato per il ko di uno dei due contendenti, che pertanto non vi era più ragione di mantenere la democrazia bloccata e che la gente aspirava ad uscire dalle ritualità che strozzavano il libero dispiegarsi della cittadinanza. In questa pro-spettiva, la carta vincente era farsi promotore del cambiamento verso orizzonti di maggior libertà individuale del cittadino. E siccome nel seguire questa linea egli era senza concorrenza (la sinistra e quelli che davano la colpa solo alle persone e non ad un sistema ingessato, tende-vano a riproporre il continuiamo dei poteri senza riforme vere), sapeva di poter essere creduto senza dover dar prova di avere programmi con-seguenti. Bastava promettere (poi ci sarebbe stato tempo) e il promet-tere era stata sempre la chiave del suo successo di venditore impegnato a guadagnare sui bisogni dei suoi clienti.

Così ha preso sempre più piede la pratica del dibattito politico pri-vo di progetti di cultura, di programmi e di responsabilità circa le cose realizzate. Tra l’altro portava ad un successo immediato. Ora, un di-battito del genere è di per sé estraneo alla logica della separazione tra

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istituzioni e religioni. La separazione è legata alla realtà dei rapporti di vita e alla sperimentata estrema difficoltà (per non dire alla effettiva impossibilità) di mantenere ben funzionante il rapporto di cittadinan-za includendo il valore religioso tra quelli usati per costruire e giudica-re le azioni di governo. Più ci si allontana dalla logica della separazione e più forte è la tentazione (o meglio l’illusione) di potersi servire della religione e delle sue strutture come serbatoio elettorale per raggiunge-re o mantenere il potere. Servendosene si peggiorano le condizioni di convivenza e si pongono fin da subito le condizioni per divenire suc-cubi della influenza delle organizzazioni religiose. Foss’altro perché, agendo così, non matura la continua consapevolezza dell’importanza del tema separazione, mentre dal canto suo la Chiesa non cessa mai di svolgere il suo mestiere dell’evagelizzazione spirituale.

Da allora e per alcuni anni successivi, le tematiche attinenti i rap-porti tra Stato e Chiesa divennero sempre più marginali nel dibattito politico. Non solo il confronto politico era sempre più un mero scon-tro per il potere, ma tendeva a riflettere meno sui problemi quotidiani della convivenza e ancor meno su quelli che, per migliorare la convi-venza, mettono in discussione abitudini consolidate e conformistiche quali clericalismo e anticlericalismo. I primi mesi del nuovo governo Berlusconi furono assorbiti dagli scontri furibondi tra i ministri e i pubblici ministeri, in specie quelli di Milano, oppure con la RAI, e su-bito dopo dalle burrascose tensioni tra Berlusconi e Bossi. Forse anche incentivati dalla mentalità grifagna di un grande amico del Presidente del Consiglio e suo legale celebrato per vincere sempre in Cassazione nonché dai risultati delle elezioni Europee del giugno 1994 (alle quali Forza Italia dilagò al 30.6% con leggeri cali di AN, della Lega Nord e Radicali, comunque il totale degli alleati, un pò cannibalizzati da Forza Italia, passò dal 46,35% al 51,82%), vi furono tentativi di Ber-lusconi di acquisire a Forza Italia parlamentari eletti con Bossi. Bossi se ne accorse e reagì con dura determinazione arrivando a dicembre a togliere l’appoggio al governo ricoprendolo di insulti. Ma nulla sulla questione separatista.

Le uniche volte che i rapporti con la Chiesa vengono discussi da questo tipo di politici è quando si vogliono mandare segnali di dispo-nibilità alle tesi confessionali. Ormai questo avveniva dovunque, da parte di una coalizione, da parte dell’altra, nonché dalle istituzioni. Il neo segretario del PDS, Massimo D’Alema, centrò una delle sue prime dichiarazioni sul proprio favore per il finanziamento pubblico della scuola cattolica di buon livello. Il neo presidente della Camera, la leghista Irene Pivetti, disse che la DC aveva consentito la scristianiz-

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zazione della società. Il Presidente della Repubblica Scalfaro scrisse a Berlusconi, in vista della conferenza mondiale del Cairo sulla popola-zione, per invitare il governo a difendere il diritto alla vita e a respin-gere le ipotesi della limitazione delle nascite, cioè esattamente quello che sosteneva il Vaticano in piena alleanza con l’integralismo islamico e contro le tesi del mondo occidentale.

Le manifestazioni cattoliche a favore delle scuole private e della difesa della vita, trovavano molta attenzione da decine di senatori e da parte del Polo di centro destra che cercava di indurre il Parlamento a riconoscere i diritti dell’embrione. Poi fu emanata l’enciclica Evange-lium Vitae con cui il Papa dava la conferma magistrale della condanna dell’omicidio. Dell’aborto “diretto, cioè voluto come fine o come mez-zo” e dell’eutanasia, che sono valutazioni religiose applicate al vivere comune. La Chiesa continuava a pensare alla sua presenza nel mondo delle coscienze, senza sottintesi temporali. Il mondo civile e quello dei partiti, tutti presi dai contrasti politici (dalla caduta di Berlusconi e da metà inverno 1995 dalle vicende del nuovo governo di Lamberto Dini, anche lui ex Banca d’Italia) trascuravano ogni altro argomento e giudicavano con sufficienza l’insistere della Chiesa nelle sue imposta-zioni. Così come vedevano una normale espressione della Conferenza Episcopale, la propaganda a favore della scuola cattolica definita quale unica garanzia della trasmissione di un sapere non ideologico ma non neutrale, differente dall’ideologismo frutto dell’egemonia gramsciana. Né veniva colto l’indirizzo di un’altra enciclica del maggio 1995, la Ut unum sint con il forte auspicio dell’unità dei cristiani, poiché “la divisione dei cristiani è in contraddizione con la Verità che essi hanno la missione di diffondere, e dunque essa ferisce gravemente la loro testimo-nianza”.

Il dibattito politico non si poneva il problema che la Chiesa pun-tava ad una sempre più forte propaganda religiosa, e che attraverso questa propaganda si stavano irrobustendo le condizioni per una in-fluenza, indiretta ma assai robusta, sul come affrontare le questioni della convivenza. Vale a dire per garantire l’influenza della Chiesa senza passare dal temporalismo. Ad esempio, in tema di obiezione di coscienza rispetto alla questione dell’aborto, autorevoli esponenti laici si attardavano sulla necessità di riconoscerla ai medici che non intendevano praticarlo, cosa naturale per un liberale e per un sepa-ratista. Ma non affrontavano la reale questione istituzionale indotta da questa pressione religiosa per indurre all’obiezione di coscienza: un simile tipo di obiezione di coscienza (che non può essere messa in discussione) fa sorgere il problema di come lo Stato sia comunque in

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grado di assicurare il servizio interruzione di gravidanza. Ci si affidava in sostanza un po’ alla statistica (esistono anche medici non obiettori) e un po’ all’ipocrisia (tanto verranno trovati di fatto accomodamenti). Non si pensava ad una funzione del pubblico che opera in regime di separazione (il che significa non farsi imbrigliare dalla logica concor-dataria secondo cui il bene comune va perseguito in collaborazione con la Chiesa).

C’è di più. In quell’anno, il 1995, il mondo politico, tramite il go-verno Dini, produsse una riforma di importanza strutturale per l’Ita-lia. Venne pensata e varata una riforma pensionistica per garantire un futuro post-lavorativo ad una società con meno nati e più anziani. E questo attraverso il passaggio dal metodo contributivo (media dello stipendio percepito negli ultimi anni) al metodo retributivo (i contri-buti versati effettivamente), la progressiva abolizione delle pensioni di anzianità, la riduzione di durata della vita lavorativa per i lavori usuranti. Un vero e proprio spartiacque. Vale a dire una riforma re-ale la cui importanza è indiscutibile. Ciò non toglie, tuttavia, che sia sintomatico (ed in realtà un errore molto grave dal punto di vista dei rapporti tra Stato e Chiesa) il pressoché totale disinteresse del dibat-tito politico rispetto ad un altro avvenimento che avrà conseguenze di fondo, e ancor più di sostanza, sul tessuto politico sociale italiano, il terzo Convegno Ecclesiale della Chiesa italiana tenuto a Palermo a fine novembre 1995. Dal titolo preciso, Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia. Riporto le parole del Papa anche perché i con-cetti espressi furono ripresi pari pari nelle conclusioni del Convegno.

Giovanni Paolo II disse che l’Italia “che ha un’insigne e in certo sen-so unica eredità di fede, è attraversata da molto tempo da correnti cultura-li che mettono in pericolo il fondamento stesso di questa eredità cristiana: la specificità del cristianesimo… In luogo di tali certezze è subentrato in molti un sentimento religioso vago e poco impegnativo per la vita; o anche varie forme d’agnosticismo e di ateismo pratico, che sfociano tutte in una vita personale e sociale condotta “etsi Deus non daretur”, come se Dio non esistesse. In Italia infatti la Chiesa continua ad essere viva e sta prendendo più chiara coscienza che il nostro non è il tempo della semplice conservazione dell’esistente, ma della missione… Mi compiac-cio della scelta compiuta dalla Conferenza Episcopale Italiana di dedicare attenzione prioritaria ai rapporti tra fede e cultura, attraverso la messa in opera di un progetto o prospettiva culturale orientato in senso cristiano… Le leggi dello Stato sembrano ignorare o addirittura tendere ad aggrava-re le condizioni di vita delle famiglie. Né una migliore attenzione pare dedicata alla scuola e all’educazione delle nuove generazioni. È, questo,

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certamente un dovere dello Stato, al cui assolvimento non fa ostacolo, anzi contribuisce, il sostegno a quelle scuole non statali, come sono le cattoliche, che rendono un servizio pubblico aperto a tutte le fasce sociali. Esse, per il loro progetto pedagogico ricco di valori umani e solidaristici, non pregiudicano, ma piuttosto consolidano, una vita pubblica ispirata a principi di democrazia, onestà e giustizia sociale. A chi gioverebbero ulteriori chiusure, anacronistiche quanto ingiuste e discriminanti, che in realtà recano danno ai giovani, alla famiglia e all’intera nazione?”

E il Papa poi concludeva “la Chiesa non deve e non intende coin-volgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o per l’altra soluzione istituziona-le o costituzionale che sia rispettosa dell’autentica democrazia… Ma ciò nulla ha a che fare con una “diaspora” culturale dei cattolici, con un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della dottrina sociale della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace. È più che mai necessario, dunque, educarsi ai principi e ai metodi di un discernimento non solo personale, ma anche comunitario, che consenta ai fratelli di fede, pur collocati in diverse formazioni politiche, di dialogare, aiutandosi reciprocamente a operare in lineare coerenza con i comuni va-lori professati”. Il cardinal Ruini riprese l’idea del Papa traducendola in un compito operativo: “si tratta ora di favorire la crescita di luoghi e di momenti in cui il discernimento possa divenire più specifico e concreto, anzitutto da parte di chi opera in politica”.

Questi passaggi, letti con attenzione, contengono integralmente il nocciolo della linea seguita dalla Chiesa già allora e soprattutto da al-lora. Le ragioni religiose vanno diffuse tra la gente. Ora, questo tipo d’esternazioni –  si ritengano importanti o meno sotto il profilo cul-turale – sono del tutto normali in un clima di separazione tra Stato e religioni. Ognuno ha il diritto di proclamare le proprie convinzioni religiose ed esprimere quando vuole le sue attese (anche quando, come nella fattispecie, la legge finanziaria aveva disposto finanziamenti alle scuole private solo qualche giorno prima). Viceversa, nella cornice con-cordataria effettivamente esistente, quelle parole avrebbero dovuto far comprendere ai politici, e ancor più agli statisti, quali ne sarebbero state le conseguenze e quindi portarli ad intraprendere una politica di lungimirante riequilibrio. Dal punto di vista dello Stato, la collabo-razione per il bene del paese prevista dal Concordato 1984 non può mai confondere l’impegno a lasciar libero il proselitismo religioso di

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chiunque, con il disinteresse circa la prospettiva dell’arrivare ad un predominio di criteri fideistici nel definire le scelte legislative (che sono fatte in base al clima che c’è nell’opinione pubblica). La laicità delle istituzioni implica l’inequivoco interesse ad evitare un simile predo-minio che sarebbe in contraddizione con i valori costituzionali dello Stato.

Ciò nonostante, simili problematiche, pure essenziali per la citta-dinanza, erano in sostanza fuori dal dibattito politico dell’epoca. Che era assorbito dalle manovre per vincere le elezioni, ancora una volta anticipate e ormai alle porte, Contendenti il berlusconiano Polo per le Libertà e il neo nato Ulivo di Romano Prodi, di cui faceva parte anche il gruppo del Presidente del Consiglio in carica, Dini. In pratica non si badava né ai contenuti delle tesi della Chiesa né dei suoi stili comuni-cativi adattati alle tecniche moderne, dai cofanetti Cd, ai poster e alle visite sponsorizzate nei luoghi di lavoro. Per riflesso condizionato si pensava al Vaticano asserragliato nel suo territorio.

Riguardo la questione religiosa, il principale interesse stava nel considerare il mondo cattolico un parco elettorale in cui cogliere più voti possibile. E non ci si rendeva conto che quel mondo era già stato investito dal messaggio di Palermo (“…i cattolici impegnati in politi-ca allo scopo di trovare linee di convergenza e obiettivi comuni”) e che sarebbe stato quel mondo che, invece di fare il parco voti, avrebbe un poco alla volta acquistato influenza nel dettare l’agenda dei valori (e allo Stato liberale interessa non evitare quell’influenza, che deriva dalla libertà religiosa, bensì porre la netta esigenza di mantenere le conseguenze in un equilibrio di tipo per così dire antimonopolistico). Emblematico di questa situazione fu da un lato il Sindaco di Napoli, il PDS ed exPCI Bassolino, che, accecato dalle furbizie tattiche, sfila-va accanto al Cardinale della città nella processione di San Gennaro, pensando di aver vinto un terno al lotto. E dall’altro Berlusconi che af-fermava apertamente di proporre “un modello di Stato cattolico-liberale che abbia il primato della società sullo Stato”, frase di ambigua matrice cattolica che stravolgeva il senso di uno stato liberale. Uno stato libera-le non può essere religioso, trae legittimazione dalla società e non è ad essa secondario (ne parleremo più diffusamente nella seconda parte).

Le elezioni politiche di fine aprile 1996 ebbero un risultato un pò rocambolesco, a seguito dei particolari schieramenti in campo. Erano quattro, il Polo per le Libertà (quattro liste) Ulivo (altre quattro liste per undici gruppi di centro sinistra, tra cui liberali e repubblicani), Rifondazione Comunista, Lega nord. Con due di questi schieramenti, Ulivo e Rifondazione, legati da un patto di desistenza nei collegi uni-

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nominali. Nei voti del proporzionale il Polo per le Libertà (nel com-plesso 43,95%) prevalse sull’Ulivo (34,70%), di poco sommando anche Rifondazione (8,57%), mentre la Lega raggiungeva il 10,07%. Ma nei collegi uninominali giocarono molto la difforme distribuzione dei voti e soprattutto il criterio di desistenza seguito nell’area di centro sini-stra. Così l’Ulivo ottenne il 42,16% e 246 seggi, la lista della sinistra, i Progressisti, il 2,63 con 15 seggi, il Polo per le Libertà il 40,29% e 169 seggi, la Lega Nord il 10,83% e 39 seggi, più i 3 seggi della Sudtiroler. Al Senato vi furono risultati analoghi ai collegi uninominali. Riassu-mendo, come seggi aveva vinto la coalizione con leader Romano Prodi, per due fattori determinanti. Il primo fattore, imprescindibile, che la Lega stava per conto suo (altrimenti il centro destra sarebbe stato in netta maggioranza) e il secondo, assai importante in seconda battuta, che Rifondazione aveva giocato di sponda insieme a Prodi e dunque non aveva vinto il solo Ulivo (tanto che a metà legislatura il governo Prodi cadde quando Rifondazione ritirò l’appoggio).

All’epoca non fu però questa la lettura martellante che ne dettero gli ambienti prodiani e i commentatori della grande stampa. Rimos-sero la questione Lega Nord, rimpasticciarono il caso Rifondazione, e diffusero quest’altra interpretazione: siccome la coalizione Ulivo prende più voti della somma dei singoli partiti, è dimostrato che gli italiani di centro sinistra vogliono l’Ulivo unito. Una interpretazione del genere esaminava i dati con gli occhiali dell’idea fissa dei prodia-ni: l’ulivo indistinto. Due osservazioni. La prima, la differenza era lieve (480 mila voti su 16 milioni e settecentomila) tanto da non poter escludere la propensione dell’elettore a scegliere per comparazione nei singoli collegi uninominali, e dunque consentiva solo di conclu-dere che gli elettori avevano preferito la coalizione di centro sinistra alla coalizione di centro destra. La seconda, non si faceva distinzio-ne tra proporzionale (ove i partiti dell’Ulivo erano da soli) e collegi uninominali (dove vi erano stati accordi di desistenza comprendenti anche i voti di Rifondazione, che non faceva parte dell’Ulivo e mai ne farà). Più che di interpretazione, si trattava della nascita (avvertita e segnalata esplicitamente per scritto dalla Federazione dei Liberali) della mistica dell’Ulivo inteso non come coalizione ma come unità in-differenziata. Una mistica che ha bloccato il centro sinistra e il paese per ben dodici anni. E che, non per caso, aveva come uno dei suoi as-sunti pregiudiziali la repulsa del separatismo, sostituito dal principio della indifferenza tra la cultura laica e la cultura religiosa cattolica (la dizione ipocrita era che le differenze sarebbero un sorpassato fossile dell’ottocento).

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In realtà una simile mistica rientrava oggettivamente nel concepi-re la politica come sola lotta di potere e i problemi della convivenza come accessori (e infatti si negavano le diversità dei filoni culturali). Per rendere credibile tale ineluttabile propensione, si chiedevano per-fino conferme, a proposito dei risultati elettorali, ad ecclesiastici di primo piano sperando di trovare appoggi. In una intervista, la Radio Vaticana negò ogni preoccupazione per i risultati ricordando che, pro-prio perché era stata neutrale, accettava la vittoria di uno o dell’altro. E in altra intervista, un eminente gesuita da sempre fautore della via di centro sinistra, disse che il voto all’Ulivo esprimeva una continuità del cattolicesimo democratico in contrasto con l’idea liberista ma che erano ugualmente cattolici quelli che votavano il polo testimoniando i propri valori in un ambiente estraneo. Vale a dire, la gerarchia ripeteva posizioni religiose ovvie (i cattolici sono tali per il loro credo e non per il loro voto), che però il mondo dei partiti e il sistema dell’informazio-ne non volevano intendere per quello che significavano cercando di volgerle come testimonianza pro-ineluttabilità della mistica dell’Ulivo aggregante.

20. L’Ulivo e il progressivo dilagare della CEI

Un mese e mezzo dopo le elezioni, a giugno 1996, nel diffuso clima di euforia prodiano per averla spuntata, dagli ambienti laici venne una concreta presa di posizione su un tema sempre più attuale ed impor-tante. Sul Sole 24 ore, quattro professori, Flamigni, Massarenti, Mori, Petroni, pubblicarono il Manifesto di Bioetica Laica. Vi si dicevano cose che, nelle acque stagnanti del conformismo concordatario, parve-ro quasi audaci. Si partiva dalla preoccupazione che “attese e timori si faranno man mano maggiori quanto più tra l’opinione pubblica avanzerà la percezione di quanto le nuove conoscenze scientifiche possono influire sulle vite dei singoli e sulla società nel suo insieme”. E si auspicava che non vi fossero dispute ed opposizioni dalle conseguenza nefaste. A tal fine si sottolineava come “la visione laica del progresso…, cui viene rimproverato di non avere altri principi al di fuori dei fatti,… nel proporsi all’opinione pubblica in alternativa alle visioni religiose, non oppone fatti a principi, ma principi a principi”.

Il Manifesto di Bioetica Laica passava ad elencare i tre principi più rilevanti per il progresso della conoscenza nella genetica. Uno, “la visione laica considera che il progresso della conoscenza sia esso stesso un valore etico fondamentale. L’amore della verità… non tollera che esista-

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no autorità superiori che fissino dall’esterno quel che è lecito e quel che non è lecito conoscere”. Due, “la visione laica vede l’uomo come parte della natura, non come opposto alla natura”. Tre, “la visione laica vede nel progresso della conoscenza la fonte principale del progresso dell’uma-nità, perché è soprattutto dalla conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana”. Successivamente, il Manifesto di Bioetica Laica affronta le applicazioni della conoscenza. E afferma “i laici san-no che il confine tra quel che naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini. Nel momento in cui le tecnologie biomediche allargano l’orizzonte di quel che è fattualmente possibile, i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è… possono soltanto derivare da principi espliciti, razionalmente giustificati in base a come essi riescono a guidare l’azione umana a beneficio di tutti gli uomi-ni… Le intuizioni e le regole morali sono in perenne evoluzione. Se gli uomini si renderanno conto che modificare quel che era considerato im-modificabile può condurre a uno stato di cose migliore… ci si può atten-dere che essi cambieranno la propria percezione di quel che è lecito fare. Noi laici pensiamo che i cambiamenti possano essere considerati dei veri e propri progressi. Non pensiamo, tuttavia, che il progresso in quanto tale sia automatico, né che sia garantito o inarrestabile… Insistiamo sulla capacità degli uomini di giudicare volta per volta, in un processo in cui l’analisi concettuale e la ragion critica svolgono un ruolo determinante”.

I nostri principi di laici, prosegue il Manifesto di Bioetica Laica, sono per primo che “coloro che più direttamente sono toccati dai pro-gressi delle tecnologie biomediche hanno un diritto prioritario di infor-mazione e di scelta reale”. Per secondo che “il rispetto delle convinzioni religiose dei singoli individui… Questo rispetto per le convinzioni religio-se non ci fan tuttavia dimenticare che dalla fede religiosa non derivano di per sé prescrizioni e soluzioni precise alle questioni della bioetica. Vi può essere una discussione e una giustificazione razionale dei principi morali anche senza la fede. Vi può essere una discussione e una giustificazione ra-zionale che parte dai presupposti della fede. Ma non vi può essere alcuna derivazione automatica di una giustificazione razionalmente accettabile a partire dalla sola fede”. Terzo principio laico è il “garantire agli individui una qualità della vita quanto più alta possibile, di contro al principio che fa della mera durata della vita il criterio dominante della terapia medica”. Quarto principio è il “garantire a ogni individuo un accesso a cure medi-che che siano dello standard più alto possibile, relativamente alla società nella quale egli vive e alle risorse disponibili”.

Infine il Manifesto di Bioetica Laica afferma che tutto ciò si fonda su un assunto implicito “la separazione della sfera morale da quella del-

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la fede religiosa” e analogamente il “tenere distinti i piani della morale e del diritto”. Insomma “per i laici, i principi morali si fondano sull’ade-sione volontaria da parte degli individui… Essi sono diversi dalle norme giuridiche”. Da ciò il Manifesto di Bioetica Laica deriva che “di fronte ai problemi biomedici, con conoscenze in continua evoluzione e spesso in contraddizione, dove il confine tra conoscenza positiva e valori è tenue, salvaguardare una ampia sfera di libertà di ricercatori e medici è un’esi-genza indispensabile. Nessuna applicazione meccanica di norme rigide può produrre risultati positivi in una realtà mobile, in un mondo carat-terizzato dal pluralismo culturale e dei valori… La legislazione in campo biomedico debba essere guidata dall’idea di lasciare a ogni ricercatore e a ogni medico la più ampia sfera di decisioni autonome compatibile con l’interesse della collettività. La legislazione dovrebbe favorire l’emergere di codici di comportamento come risultato del confronto dentro la comu-nità scientifica, e tra la comunità scientifica e l’opinione pubblica… La libertà di ricerca deve così coniugarsi con un sempre più forte sentimento di responsabilità dei ricercatori e dei medici nei confronti della società. Soltanto un diffuso sentimento di responsabilità può garantire che la li-bertà di ricerca non subirà interferenze ingiustificate”. Infine il Mani-festo di Bioetica Laica conclude “La visione laica si differenzia dalla parte preponderante delle visioni religiose in quanto non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori e visioni diverse. Là dove il contrasto è inevitabile, essa cerca di non trasformarlo in conflitto, cerca l’accordo ‘locale’, evitando le generalizzazioni. Ma l’accettazione del pluralismo non si identifica con il relativismo, come troppo spesso sostengono i cri-tici”.

Il Manifesto di Bioetica Laica segnò nella percezione pubblica un punto di svolta su un fatto rilevante. Nella convivenza, perfino al di là delle intenzioni, la logica del conformismo finisce per svolgere un’ope-ra oscurantista di chiusura dei circuiti della conoscenza. Inoltre il Ma-nifesto di Bioetica Laica esercitò la sua influenza culturale sulle singole mentalità e in particolare su quelle dei ricercatori. Peraltro il suo im-portante sforzo di chiarezza restò all’interno di un mondo invischiato nelle abitudini concettuali italiane e quindi insensibile alle questioni dei rapporti tra libertà e norme di legge. Lo dimostra un passaggio dello stesso Manifesto di Bioetica Laica, ove si afferma “la differenza essenziale tra i principi morali e norme giuridiche è che i primi danno maggiore spazio alla libertà che non le seconde”. Cioè si attribuisce la ra-dice della libertà individuale ai principi morali e non alla legge. Il che, quando si parla di convivenza, non è sempre vero. Anzi negli stati libe-raldemocratici lo svilupparsi autonomo della libertà individuale nella

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convivenza è reso possibile proprio dall’esistenza della legge che lo tutela e lo promuove: solo questa condizione attiva l’interagire abituale delle diverse autonomie con la libertà. Così, i quattro professori – che personalmente sono laici di vario genere, dalla sinistra tradizionale, al moderato, al conservatore, all’ateo – hanno redatto un Manifesto di rilievo con il dichiarato intento di individuare opportuni criteri di comportamento efficaci addirittura per scongiurare dispute ed oppo-sizioni rispetto allo svolgersi della nuova rivoluzione scientifica. Però hanno omesso la necessità logica e politica cardine. La necessità di un quadro legislativo generale che spinga a comportamenti in tal senso. Vale a dire un quadro legislativo ispirato al principio di separazione tra Stato e religioni, che è il solo terreno su cui si può sviluppare una li-bertà individuale di quel tipo, liberata dalle pressioni confessionali. In pratica, senza dubbio affermano una serie di esigenze caratteristiche della cultura laica, ma, dal punto di vista istituzionale, non cercano di liberarsi dai vincoli del mondo concordatario (sottacere il problema agevola di fatto l’inerzia acquiescente).

Dunque anche questo sforzo culturale del mondo laico, pur signifi-cativo e nel suo ambito importante, non toccava l’essenza delle questio-ni del separatismo (perciò stesso autoriducendo il proprio peso). E in ogni caso non trovò adeguato riscontro nel concreto mondo del gover-no e della politica ufficiali. Che si rivolgevano sempre più a questioni di gran rilievo ma d’altro genere. Ad esempio il governo Prodi non si occupava certo di banalità. Stava operando (seppure con una certa in-certezza iniziale) per rendere possibile l’immediata entrata dell’Italia nell’Europa monetaria. Questione importantissima, perché tra l’altro c’era Bossi che voleva far entrare nell’euro il solo Nord lasciando la lira al Sud (con un “evidente” spiccato senso dei bisogni del meridione e dell’unità d’Italia).

Inoltre il governo Prodi avviò il risanamento dei conti dello Sta-to, altra questione rilevante. Poi sul piano delle autonomie locali, si svilupparono in molti comuni iniziative volte ad introdurre il registro delle unioni civili. Questione di principio significativa, assunta però in modo svincolato dalla grande battaglia per la separazione e non per caso arenatasi nel tempo sulla spiaggia degli atti dimostrativi fini a sé stessi. Purtroppo l’idea di molti era (ed è) di poter fare le proprie scelte di vita (ad esempio l’unione di fatto) a prescindere dal quadro legislativo, allo stesso modo in cui un malinteso senso di libertà tende a dimenticare che la libertà civile è un concetto introdotto unitamente allo stato e che non può esservi libertà civile se non assistita da norme adeguate e coerenti dello stato nel suo complesso.

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In questo come in tutti i casi, il problema degli assetti dello Stato non può essere trascurato. E tanto meno il grande tema della sepa-razione. Invece questo tema era accantonato dalla grande politica ed anzi si andava irrobustendo l’ossequio (molto terreno) al mondo catto-lico, dimostrandosi al contempo del tutto impreparati agli eventi del dopo il Convegno Ecclesiale di Palermo. Mobilitandosi su tematiche di altro tipo oppure mobilitandosi su aspetti parziali dei rapporti tra Stato e religioni, si finisce in ogni caso per attivarsi in misura insuffi-ciente rispetto alla mobilitazione e alla pressione continua fatte dalla Chiesa sul piano spirituale dei cittadini. La Chiesa era consapevole, per dirla con le parole usate in quel tempo del Cardinale Ruini, che neppure Roma è “immune da fenomeni mondiali che investono la cul-tura e i costumi. Siamo in presenza di orientamenti filosofici e di vita che escono dall’orizzonte mentale cristiano”. Appunto per questo, con incrollabile determinazione, la gerarchia ripropone i propri valori spi-rituali. Questo un liberale non vuole davvero impedirlo. Un liberale, invece denuncia e pungola tutto quel mondo civile, in testa i politici e chi fa opinione, che accetta, anzi talvolta addirittura promuove (giusti-ficandosi a parole con la necessità di superare gli steccati ottocenteschi e con lo zelo dei neofiti) qualcosa di inaccettabile per il separatismo: il trasformare concetti spirituali dei religiosi (del tutto leciti) in criteri politici per legiferare e per l’atteggiarsi pubblico.

Soprattutto il mondo della comunicazione era caduto nel profondo equivoco di presentare la Chiesa quasi nel ruolo di contropotere civile. Basti pensare al modo in cui in quegli anni il mondo della comuni-cazione celebrava le gesta di Giovanni Paolo II (gesta, termine di per sé improprio, che però ben si attaglia all’immagine datane quasi si trattasse di una stella di Hollywood) a proposito delle moderne tecni-che di propaganda da lui utilizzate come veicolo di evangelizzazione. Eppure già all’epoca esistevano delle voci provenienti dal mondo re-ligioso che criticavano con forza questo stato di cose. Il teologo Hans Kung scriveva che Giovanni Paolo II stava utilizzando “le tecnologie avanzate come i media e i viaggi intorno al mondo, per imporre il para-digma del Medioevo, della Controriforma, dell’Antimodernismo”, con ciò compiendo, diceva, uno sbaglio epocale oltretutto rovesciando il Concilio Vaticano II.

Ora, non intendo avventurarmi in queste problematiche teologi-che. Ritengo però evidente che il mondo della comunicazione civile superava ogni limite professionale e contribuiva in modo massiccio a fare della struttura Chiesa cattolica un’entità di successo da utilizzare nelle lotte di potere, senza porsi pressoché alcuno degli enormi pro-

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blemi indotti sul piano istituzionale da una scelta siffatta. Una scelta che innescava in molti politici e nei parlamentari degli atteggiamenti imitativi, per cui nel tardo ottobre 1996 vi furono ancora una volta forti polemiche per il tentativo (alla fine non riuscito) di introdurre nella legge finanziaria il principio che nelle zone mancanti di scuole pubbliche, lo Stato avrebbe potuto erogare fondi alle scuole private che avessero voluto stabilirsi là. E del resto una scelta che contribuiva anche ad ingenerare confusione nel mondo laico. Perfino il Grande Oriente prese ancora le distanze dal separatismo e, nell’insistito ten-tativo (fatto e non riuscito nei decenni più recenti) di aprire il dialogo con la Chiesa, decise di attribuire a Giovanni Paolo II l’onorificenza Galileo Galilei, conferita ai non massoni che si distinguono nell’affer-mazione dei principi di Libertà, Uguaglianza e Fraternità tipici della Libera Muratoria.

Anche nei mesi successivi, l’agenda politica non riguardò il noccio-lo del principio di separazione, piuttosto si occupò di come soddisfare al meglio le richieste del mondo religioso in tema di finanziamento alle scuole private. Il Ministro dell’Istruzione, il PDS Luigi Berlin-guer, tendeva a modellare la riforma della scuola definendo le scuole paritarie non sul come delineare i criteri minimi dettati dallo Stato alle scuole non statali per poter essere definite una istruzione pubblica (cosa tanto più legittima perché esiste l’altra soluzione, il diritto di cui all’articolo 33 della Costituzione di istituire scuole senza oneri per lo stato) bensì sul come far equivalere funzioni e programmi tra scuole pubbliche e private nel concorrere alla formazione dei giovani. Tale impostazione snaturava sia le scuole pubbliche (cui non si riconosce più la funzione prioritaria di assicurare uguali condizioni di partenza conoscitiva e formativa) sia le scuole non statali (spinte a rinunciare almeno in parte alla loro specificità culturale e a concentrarsi sugli aspetti economico-gestionali della loro opera). E addirittura a Gargon-za, ove l’Ulivo tenne nel marzo 1997 i suoi stati generali, nella contrap-posizione tra l’ulivismo indistinto prodiano e gli altri, l’unico a parlare dei rapporti con il Vaticano fu il filosofo Vattimo, che non dimostrò qualità di diagnosta politico laico sostenendo che in tema di clonazio-ne animale si rilevavano importanti aperture da parte della Santa Sede (questo perché due giorni prima il cardinale Ratzinger aveva condan-nato solo la clonazione umana).

In ogni modo un certo mondo politico pensava (con l’occhio fisso al proprio vantaggio elettorale) di poter così venire incontro alle insisten-ze delle organizzazioni cattoliche. Non tenendo conto della espressa contrarietà anche delle Chiese Evangeliche (quantitativamente meno

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numerose) che scrivevano “appare insanabilmente contraddittorio che uno Stato laico affidi una delle sue fondamentali funzioni a enti privati di tendenza, fortemente caratterizzati da precompressioni ideologiche, con particolare riferimento a quelle di carattere religioso”. Anzi il Partito Po-polare Italiano, sia tramite il presidente del Senato Mancino che diret-tamente, presentava norme per ottenere stanziamenti per la scuola pri-vata cattolica, convergendo al riguardo con il segretario PDS D’Alema. In conclusione, l’attività maggiore di riequilibrio dei rapporti tra Stato e religioni, venne svolta ancora dalla Corte Costituzionale la quale emise una nuova sentenza, la 329/1997, secondo cui “la protezione del sentimento religioso è venuta ad assumere il significato di un corollario del diritto costituzionale di libertà di religione, corollario che, natural-mente, deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni “. E pertanto dichiarava illegittime le norme penali che sanzionavano più gravemente il vilipendio della religione cattolica.

Va detto che in quegli stessi giorni del luglio 1997, il governo Prodi presentò un disegno di legge su “Norme sulla libertà religiosa e abro-gazione della legislazione sui culti ammessi” (la vecchia 1159/1929), di per sé significativo ma purtroppo con il tipico intento delle com-missioni di studio. Infatti su di esso si avviò un lungo dibattito in Commissione Affari Costituzionali, che durerà anni e non ebbe con-clusione nella legislatura. Era indubbio che il clima di scarsa effettiva attenzione per il separatismo creasse un vuoto di concetti civili. Acuito da uscite surreali di importanti esponenti di governo. Nell’autunno 1997, il Ministro Berlinguer osservò che “la scuola privata è penaliz-zata rispetto a quella pubblica. Le disparità potranno essere superate con la nuova legge”. In tale vuoto di concetti frammisto a cortigianeria, s’inseriva prontamente il magistero religioso che, diretto ai singoli cit-tadini, loro tramite finiva per non restare nel suo ambito originario (tra l’altro, all’inizio dell’autunno del 1998, l’enciclica Fides et Ratio teorizzò questa necessità di affidarsi alla ragione per arrivare alla fede; ne parleremo nella seconda parte).

Il mondo politico civile continuava a trascurare tutto questi sinto-mi. Anzi, con grande disinvoltura e incapace di prevederne i pericoli impliciti per la laicità istituzionale, dall’estate del 1998 avviò alla Ca-mera l’esame delle varie proposte di legge sulla Procreazione Assistita, tutto giulivo nel vedere possibile la loro unificazione, soprattutto sicu-ro della presunta necessità di legiferare su ogni materia (la discussione si protrarrà molto a lungo e avrà l’ovvia prevedibile conclusione su

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cui torneremo). Anzi, da alcune parti si cercava di sostenere posizioni insostenibili da un punto di vista liberale e separatista. Lo storico Galli Della Loggia si chiedeva dubbioso se la fecondazione eterologa non possa mettere in discussione “il carattere biologico-personale della di-scendenza”. Il prof. Cotta, lo stesso del referendum sul divorzio, quale presidente internazionale dei giuristi cattolici, criticava il segretario del PPI, per aver preferito da cattolico la fedeltà alla Costituzione repub-blicana agli insegnamenti del Papa e indicava la presunta ortodossia per un liberale (mascherarsi da liberali è una fissazione freudiana dei conservatori religiosi) nella condanna della fecondazione eterologa e della procreazione assistita.

La politica si immergeva del tutto nei dibattiti della attualità po-litica. Sulla Commissione Bicamerale per le Riforme Costituzionali presieduta da D’Alema, alla fine arenatasi; sulle forti tensioni tra Prodi e Rifondazione Comunista che portarono ad una prima crisi per la finanziaria nell’autunno del 1997, poi superata all’ultimo tuffo; sulla seconda e finale crisi dell’ottobre 1998 tra l’Ulivo e Rifondazione, di nuovo in materia di finanziaria, che, nonostante il disperato tentativo di attirare deputati di Rifondazione (con la scissione e la nascita dei Comunisti Italiani di Cossutta rimasti fedeli al governo), portò alla caduta di Prodi. Il Presidente Scalfaro dette l’incarico (tra le forti pro-teste del Polo) ad un altro esponente della medesima coalizione vinci-trice delle elezioni, Massimo D’Alema. E D’Alema rapidamente formò il governo utilizzando anche l’apporto – di fatto sostitutivo dei voti di Rifondazione – dell’UDR, nuova formazione di fuoriusciti dal centro destra guidati da Mastella, di cui era stato promotore Cossiga, con l’espresso intento di andare oltre la non più esistente contrapposizione tra comunisti e anticomunisti.

Intanto, nelle ultime settimane dell’estate 1998, era sorto un in-ciampo pericoloso e imprevisto sulla strada dei rapporti concordatari tra Stato e Chiesa. La procura calabrese di Lagonegro, in un’indagine a carico del fratello per usura, aveva coinvolto nell’associazione per delinquere anche il cardinale Giordano, arcivescovo di Napoli. Da parte del Vaticano vi fu per diverse settimane una vera e propria solle-vazione e vari esponenti di primissimo piano intervennero protestan-do fieramente, tirando in ballo violazioni del Concordato, chiedendo nome speciali per impedire atti di indagine senza preavviso presso i vescovi, e arrivando perfino a paragoni con le persecuzioni dei regimi comunisti. Le indagini seguirono il loro corso (alla fine, una trentina di mesi dopo, il cardinale fu assolto con formula piena dal Giudice per l’Udienza Preliminare di Lagonegro) e nell’immediato indussero le

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istituzioni non ad un cedimento ma ad una inclinazione a non inaspri-re i rapporti con il Vaticano, proprio in contemporanea con un’ulterio-re sentenza della Corte di Cassazione in materia di legge sull’aborto e con un nuovo sussulto da parte laica nel sottolineare i pericoli della situazione che si andava profilando.

La Corte di Cassazione negò la possibilità legale di interferire sulla decisione della donna di abortire. La Federazione dei Liberali, condi-videndo la sentenza, dichiarò che “dare quel diritto avrebbe equivalso a ricacciare la donna nella schiavitù del ruolo meccanico di contenitore del seme maschile cui per secoli è stata costretta. La 194 è una legge pervasa dallo spirito laico di responsabilità degli interessati e non di imposizione da parte dello Stato di questo o quel tipo di scelta. All’interno del rappor-to di coppia che ha portato al concepimento, l’uomo ha ogni possibilità di contribuire alla decisione di abortire o meno. Ma la decisione ultima può spettare solo alla donna, l’unica titolare fisiologica della gravidanza”.

Nello stesso periodo, i primi di novembre 1998, la rivista Critica Liberale insieme ad alcuni intellettuali lanciò, attraverso il quotidia-no Repubblica, il Manifesto Laico dei 5 Sì e dei 5 No. Sulla base del Manifesto si costituì poi il Comitato per una Società Laica e Plurale il 19 novembre al Teatro Brancaccio di Roma. Il Manifesto Laico, che venne sottoscritto da molte decine di migliaia di lettori, elencava i cinque capisaldi dell’altra Italia (“l’autonomia e il pluralismo dello stato, la rigenerazione della scuola pubblica, la libertà d’insegnamen-to, la libertà di espressione di tutte le religioni, la libertà delle scelte morali e culturali di ciascun individuo”) e i suoi cinque avversari (“le ingerenze delle gerarchie ecclesiastiche, il finanziamento statale diretto o indiretto delle scuole confessionali, i trucchi per aggirare il dettato costi-tuzionale del “senza oneri per lo Stato”, i privilegi della chiesa cattolica, legislazione che provoca disuguaglianza tra i cittadini”). Il Manifesto precisava che l’altra Italia è quella di “chi crede che la convivenza civile si fondi sullo spirito criticodi ciascun cittadino. Di chi condanna ogni integralismo ideologico o religioso… Di chi non fa confusione tra reli-gione e ideologia politica, tra fede e posti di governo e di sottogoverno. Di chi sa che la libertà dello stato si fonda sulla sua autonomia. Di chi soprattutto trova ripugnante volere imporre agli altri, soprattutto alle nuove generazioni, valori univoci e verità rivelate. Il tutto con i soldi pubblici… Siamo molto preoccupati dalle ricorrenti e sfacciate rivendi-cazioni clericali, dalle aperte ingerenze sui pubblici poteri, ma ancor di più dall’acquiescenza e dai segnali di resa delle forze politiche e culturali che hanno, o dovrebbero avere, valori pluralistici contrapposti al fonda-mentalismo nostrano”.

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Il Manifesto Laico, poi, svolgeva critiche di fondo sul comporta-mento del mondo cattolico e della Chiesa. “Soltanto concezioni ferme al medioevo possono ancora concepire il pluralismo come la sommatoria di sistemi chiusi e imposti. Il principio dello stato moderno è la distinzione fra diritto e morale. La gerarchia ecclesiastica cattolica non si è ancora pacificata con questo principio. Essa interviene pesantemente sia sull’at-tività del governo e del parlamento sia, addirittura, sulle trattative per la formazione degli esecutivi. Poiché i cattolici non hanno più (o ancora) un solo grande partito, è il Vaticano a farsi partito. Già da tempo, il Papa ha lanciato ufficialmente la campagna politica contro una legge democratica-mente voluta dal popolo italiano (quella che regola l’interruzione volon-taria della gravidanza) e contro proposte di legge o politiche dei governi locali che riguardano la regolamentazione della fecondazione artificiale e il riconoscimento delle coppie di fatto. Oltre a continuare a battere cassa pubblica per le proprie scuole confessionali. Ugualmente aperto è il con-tenzioso tra una pratica laica e gli ambienti politici cattolici che si fanno portavoce della Chiesa sulla negazione della donazione dei gameti che va contro la libertà di procreazione, e sulla limitazione di tecniche, accettate ovunque, per la terapia della sterilità. Ugualmente inaccettabile è il mo-nopolio dei cattolici nel Comitato nazionale per la bioetica. La Chiesa interferisce – come non succede in nessuno degli stati occidentali – diret-tamente nelle scelte politiche della nostra repubblica, perché non accetta quello che per lo stato liberale e democratico è invece il fondamento indi-scutibile: l’articolo 3 della Costituzione”. Il Manifesto Laico concludeva così: “È chiaro che lo stato non impone, né privilegia particolari scelte morali. Secondo la Chiesa romana, invece, i cittadini non dovrebbero es-sere trattati egualmente, ma in relazione alla loro adesione ai principi religiosi cattolici. Confidiamo che il governo difenda questa fondamentale prerogativa di civiltà, che sia davvero il governo di tutti, e non il governo dei cattolici praticanti”.

Come si vede il Manifesto Laico sollevava con forza e senza ipo-crisie diverse questioni importanti. Eppure, pur facendo riferimento esplicito all’acquiescenza e ai segnali di resa del mondo laico, in termi-ni logici ed emotivi attribuiva alla gerarchia le responsabilità principali dello stato di cose (Bobbio non lo aveva sottoscritto perché usava “un linguaggio insolente, da vecchio anticlericalismo, irrispettoso e posso dir-lo? Non laico, emotivo e umorale”), sorvolando sul problema essenziale per il principio di separazione. E cioè che le responsabilità principali spettano al mondo dei laici che non pratica quel principio come do-vrebbe e che accetta che le istituzioni non si ispirino ad esso. All’epo-ca, la Federazione dei Liberali, a cominciare da Zanone e dall’autore,

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aderì alla Società Laica e Plurale, per non suscitare divisioni rispet-to ad argomentazioni giuste anche se incomplete. Resta però il fatto che, partendo con questa impostazione di origine, l’azione di questo organismo venne agevolmente etichettata dall’imperante conformi-smo come un’azione di inguaribili nostalgici lontani dalla realtà e non penetrò nel profondo della cittadinanza, quella che pure aspirerebbe davvero, specie a sinistra ma non solo, ad una più robusta e coerente laicità istituzionale.

Non a caso, proprio nei giorni in cui i laici cercavano di rialzare la testa, uno dei primi atti del neo Presidente del Consiglio D’Alema fu accrescere il finanziamento alla scuola privata per essere al passo con i tempi. E poche settimane dopo, fece una visita al Papa per trattare la formazione di una commissione paritetica per il caso del cardinale Giordano e alcuni alleggerimenti fiscali al clero. Ancora poche setti-mane, e a Bologna la regione decise di finanziare anch’essa le scuole private cattoliche. Questa propensione al realismo un pò disinvolto e senza attenzione ad un progetto ideale, divenne fin dall’inizio la carat-teristica del governo D’Alema. Del resto rientrava nel suo curriculum di politico spregiudicato gestore delle situazioni tenendo conto esclu-sivamente degli umori prevalenti tra i suoi rappresentati. Certo, sotto questo profilo si era sempre preoccupato di cogliere le tendenze di set-tore maggioritarie. E infatti in quegli anni aveva seguito questa logica sia come segretario del partito che come leader politico.

A Gargonza, contro il prodismo, aveva sostenuto “noi non siamo la società civile contro i partiti. L’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla tout court ai cittadini è un mito estremistico che ha prodotto anche dittature sanguinarie ed ha prodotto Berlusconi”. Però lasciò campo libero al prodismo sia come progetto sia come oscuramento nell’Ulivo di liberali e repubblicani. La sola re-azione percepibile di D’Alema fu il tentativo di includere i liberali e i repubblicani nella sua Cosa 2, cioè nel passaggio, attraverso gli Stati Generali della Sinistra, del suo PDS a DS. E quanto a leader, aveva colto il momento della politica. Non più organizzazione ma un alto grado di personalizzazione, di comunicazione, di valenza istituzionale (più presidente della bicamerale che segretario PDS). Nel primo caso, rispetto al prodismo, aveva colto un’esigenza corretta, nel secondo, sui nuovi modi organizzativi, un crescente disagio democratico. Peraltro in ambedue i casi non curava una diversa progettualità bensì si inge-gnava per sfruttare le opportunità del potere. Era convinto che il pote-re avrebbe ammaliato il mondo della borghesia rampante e gli avrebbe consentito di entrare in sintonia con l’eterno conformismo italico.

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Di conseguenza da Presidente del Consiglio, praticò in politica estera un atlantismo senza incertezze, ringraziando gli Stati Uniti per il loro ruolo nella sicurezza in Europa e schierando l’Italia in guerra, per la prima volta dopo cinquanta anni, a fianco della Nato che bom-bardava Belgrado e la Jugoslavia (evidentemente i due vecchi demo-cristiani Cossiga e Scalfaro avevano individuato la persona giusta). In politica interna era chiaramente contrario (diceva che Prodi aveva un disegno di egemonia moderata sulla sinistra) alla nuova formazione dei Democratici per l’Ulivo che Prodi formò nel febbraio 1999, nella prospettiva dell’Ulivo indifferenziato; eppure ritenne di poter risolve-re la questione, non contrastandola in termini politici (tanto che la tesi dell’Ulivo indifferenziato resterà in piedi per un altro decennio), ma approfittando della scadenza del Presidente della Commissione Eu-ropea, per allontanare Prodi dall’Italia candidandolo a fine marzo a quella carica attraverso una delibera del Consiglio dei Ministri. Infine sul piano dei rapporti con il Vaticano, mostrò una forte disponibilità al realismo diplomatico. Oltre a quanto già scritto sopra, porterà (a fine inverno 1999-2000) all’approvazione alle Camere del disegno di legge  –  promosso da Forza Italia e poi trasformato con un accordo di maggioranza  –  che stabiliva un nuovo ordinamento per la parità scolastica ed il diritto all’istruzione. La legge 62/2000 costituiva una rilevante svolta a favore delle scuole cattoliche, al punto che il Ministro Berlinguer la qualificò come un compromesso rispetto alla dizione co-stituzionale (“per non andare ad uno scontro noi abbiamo detto ai catto-lici: accettate che concentriamo le risorse sulle materne”). Ciononostante continuarono le pressioni del mondo cattolico per equiparare scuole statali e scuole non statali e il PPI arrivò a proporre che lo Stato si facesse carico degli stipendi dei docenti delle scuole non statali.

Alle Europee di metà giugno 1999, Forza Italia fu il primo partito con poco più del 26% (più quasi 6% cannibalizzando la Lega Nord dimezzata e Alleanza Nazionale scesa del 5% nonostante la lista in comune con Segni e qualche provenienza radicale), andarono molto bene gli alleati radicali con una campagna molto personalizzata (9,6%, aumento di più del 7%) mentre crollò la sinistra, il PDS scese del 4% e i due gruppi derivanti dalla scissione di Rifondazione persero il 2,3%.

Intanto il Presidente del Consiglio D’Alema, di concerto con il Sin-daco di Roma Rutelli, fu assai rispettoso delle esigenze della gerarchia a proposito del grande evento religioso, con evidenti risvolti anche di tipo mediatico, che era l’ormai prossimo anno del Giubileo, il 2000. Fra tutti può essere citato il fatto che le immagini del Giubileo furono prese in esclusiva dalla RAI e come contropartita, oltre i ¾ degli utili

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187Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

al Vaticano, l’obbligo di escludere film o programmi di intrattenimen-to contrari allo spirito ecumenico in prossimità delle trasmissioni sul Giubileo. Si può rilevare anche l’eccessiva predisposizione del Comune e dello Stato nell’assistere il Vaticano sotto il profilo urbano, struttura-le, ambientale, logistico. Il giornalista ed ex ministro Alberto Ronchey scrisse “il Vaticano, che auspica e pronostica 30 milioni di pellegrini, ha manifestato esigenze spesso esorbitanti. Oltre a richiedere lavori pubblici costosi, o anche avventurosi come lo scampato pericolo del grande sotto-passo di Castel Sant’Angelo, ha imposto per esempio che vengano accolti a Tor Vergata 2 milioni di pellegrini fra il 29 e 30 agosto 2000, che signi-fica 26 mila pullman destinati a occupare 780 chilometri di rete stradale. Sarebbe spettato al Campidoglio e a Palazzo Chigi far presente, con il massimo rispetto, che si rischiava e si rischia un disastro. Ma la Chiesa di Roma non conosce Roma?Troppo zelo confessionale può degenerare nella commistione tra sacerdotium e regnum, benché siano passati centotrenta lunghi anni dai tempi del Papa Re”.

Questo eccesso di cedevolezza delle strutture pubbliche, portò la gerarchia a spingersi ancora oltre. Nel gennaio del 2000, visto che il mondo degli omosessuali aveva indetto per la prima settimana di lu-glio, a Roma, il raduno del World Gay Pride, il cardinale Segretario di Stato Sodano in persona, non si peritò a chiedere che il governo vietasse il raduno. Una simile richiesta era tipicamente temporalista, di fatto la pretesa che la Chiesa fosse egemone sul territorio. Cosa chia-ramente inaccettabile anche per un mondo laico timoroso e pavido. Da oltre due secoli, il diritto di riunirsi dei cittadini è considerato uno dei pilastri del convivere civile, qualunque ne sia il motivo. Ormai la gerarchia era lanciata e, qualche giorno dopo, fu chiesto, tramite il se-gretario della CEI, anche maggiore vigilanza dell’Italia contro i matri-moni misti fra donne italiane e musulmani. Altra richiesta mascherata da fattore spirituale ma di sapore temporalista. Le istituzioni in pratica non accettarono l’idea di vietare il World gay pride né di intervenire sui criteri matrimoniali, ma si dettero ad un balletto di fitte e prolun-gate discussioni a proposito del come, dove, quando si potesse svolgere il raduno. In questo si distinsero sia il centro sinistra (dopo D’Alema, vittima della propria stessa convinzione che il potere gli avrebbe pro-curato consenso in occasione delle regionali della primavera, anche con il governo Amato che ad aprile gli successe, con una formula ana-loga) che il centro destra.

Nel centro sinistra, la giunta di Roma aveva concesso inizialmente il proprio patrocinio, risorse e una serie di permessi, che poi sotto il fuoco delle polemiche revocò, restrinse, bloccando anche i promessi

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fondi, senza arrivare al richiesto divieto. E il Presidente del Consiglio Amato (non per caso già all’epoca del Concordato 1984 influente sot-tosegretario alla Presidenza di Craxi ) in aula, dopo aver fatto riferi-mento alle norme costituzionali che rendevano lecito il raduno, giunse a dire “Pure in questa cornice costituzionale, nutro la preoccupazione che una manifestazione del genere sia inopportuna nell’anno del Giubileo e che sarebbe meglio si tenesse in un anno diverso da quello indicato. Mi sembra, poi, che la scelta della città non possa essere slegata da quell’even-to e, in qualche modo, dovuta al fatto di contrapporsi ad esso. Le autorità responsabili hanno cercato da tempo di indurre gli organizzatori italiani di tale manifestazione ad accettare un’ipotesi di rinvio… Un lungo di-scorso con gli organizzatori ha indotto le autorità locali a ritenere che, nell’aspettativa di altre riunioni o manifestazioni che potranno esservi in concomitanza con quella, un concreto pericolo per la sicurezza e l’inco-lumità pubblica possa esservi ove la riunione sia accompagnata da un corteo; si è detto agli organizzatori che il corteo potrebbe essere vietato per ragioni di sicurezza ed incolumità pubblica. Nel momento in cui, però, gli organizzatori accettano una manifestazione stanziale, ci troviamo co-stituzionalmente in una situazione nella quale i motivi di incolumità e sicurezza pubblica non giocano e, quindi, ci troviamo nella condizione di limitare la manifestazione ad un luogo definito, di isolarla dal resto della città, di seguirne lo svolgimento con prescrizioni, nella convinzione che la Costituzione e la legge consentono comunque interventi per impedire delitti. Purtroppo, però, dobbiamo adattarci ad una situazione nella qua-le, al di là delle opportunità, inopportunità e preoccupazioni, vi è una Costituzione, che ci impone vincoli e costituisce diritti”. Sono parole che esprimono con chiarezza la vocazione di questo importante esponente della sinistra al conformismo confessionale.

Nel centro destra non erano da meno. Il presidente della regione Lazio, Francesco Storace, chiese un rinvio del raduno perché sgradito alla gerarchia ecclesiastica. Il capo dell’opposizione, Berlusconi, di-chiarò “è naturalmente totale la libertà per ogni categoria di manifestare pubblicamente. In questo caso ritengo però inopportuna e la scelta del luogo e quella del tempo” Basta questo rapido florilegio di dichiarazio-ni per rilevare i contorcimenti logici, giuridici e comportamentali dei più grossi protagonisti politici, lontanissimi dal separatismo. Dire che purtroppo si deve applicare la Costituzione, lascia interdetti. Definire inopportuno l’esercizio del diritto di manifestare è come dire che è un diritto che va e viene secondole circostanze. Asserire che la manifesta-zione sarà stanziale, quando poi si svolgerà un corteo in una vasta zona di Roma, suscita quasi incredulità.

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189Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

Questa situazione surreale di preoccupazioni di palazzo, assicurò un enorme successo alla manifestazione. Vi prese parte una folla im-mensa e colorata del mondo omosessuale e laico, che con bandiere, striscioni e musiche – con toni effervescenti e mai esasperati – intende-va riaffermare un diritto primordiale della convivenza. A ben vedere, la ricorrenza del Giubileo, era in pratica esaltata dalla celebrazione di un diritto umano come quello di riunirsi. Del resto in quei mesi, il Par-lamento europeo aveva chiesto di introdurre la convivenza registrata tra persone dello stesso sesso con gli stessi diritti e doveri previsti per le coppie eterosessuali. Dato il clima, Piero Ostellino, già direttore e attuale fondista del Corriere della Sera, aveva scritto che “il Paese non ne esce come un modello di tolleranza: il 56 per cento degli italiani non è d’accordo che il gay pride si tenga a Roma; il 51 lo ritiene inopportuno nell’anno del Giubileo; il 33 pensa addirittura che sarebbe meglio non si tenesse in Italia (L’Espresso di questa settimana). Tutti cattolici osservan-ti? Ne dubito. È piuttosto, la fotografia dell’Italia di sempre: conformi-sta, bigotta, illiberale, antiriformista. Già Apollinaire – me lo ricorda un vecchio liberale come Ettore della Giovanna – annotava, a proposito di Roma, di non aver mai visto una città ‘con così tanti devoti e così poca devozione’”.

Vanno segnalati anche altri due aspetti di questo dilagare conti-nuo delle richieste vaticane. Le richieste rientravano nel profilo della fede ma non per questo erano trascurabili nei rapporti di convivenza, visto il pressoché nullo impegno politico culturale da parte dei settori istituzionali e civili. L’uno riguardò la richiesta formale della CEI al governo che il Giubileo fosse celebrato con un atto di clemenza nei confronti dei carcerati. Pareva ci fosse disponibilità. Però l’opposizio-ne propose di farlo cogliendo l’occasione di lanciare un’amnistia per chiudere la fase di tangentopoli e, al rifiuto del centro sinistra, ritirò l’assenso all’atto di clemenza versione CEI. La richiesta finì nel nulla. L’altro aspetto fu relativo al problema dell’eutanasia. Lo stesso Papa aveva in più occasioni parlato contro una simile ipotesi, nel silenzio della politica che considerava l’argomento un tabù innominabile. Al punto che il ministro della Sanità, Veronesi, sbottò dicendo che “come medico ho il compito di prolungare la vita ma come cittadino rilevo che il problema dell’eutanasia esiste. Tanto vale parlarne”. In ambedue i casi, il clima prevalente era una cappa di spesso conformismo ritenuto un accorto metodo di gestione pubblica. Un dirigente della Federazione dei Liberali, Prosperi, fece appello all’orgoglio laico, scrivendo “non è colpa della Chiesa: i clericali fanno il loro mestiere, sono i laici che fuggono”.

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Il mondo della ragione tipico dei laici cercava di mettere in eviden-za le storture concettuali sottostanti gli approcci fideistici alla scienza, anche quando non provenienti da credenze religiose tradizionali. Così a novembre 2000, un folto gruppo di scienziati, guidati dal Premio Nobel Dulbecco e tra i quali Boncinelli, Bellone, Garattini, Regge, diffuse un appello a favore della “ricerca italiana in campo agrobiotec-nologico… messa a repentaglio da alcune iniziative dell’On.  Pecoraro Scanio, Ministro per le politiche agricole e forestali. Dopo aver promosso una lunga campagna contro l’utilizzo della genetica moderna in campo agricolo, il ministro è passato alle vie di fatto promulgando direttive volte a far chiudere tutte le ricerche che utilizzano organismi geneticamente modificati (OGM)… La comunità scientifica italiana non può accettare questi attacchi intimidatori, ovvero che alcune metodiche scientifiche sia-no giudicate pericolose o irrilevanti sulla base di pregiudizi ideologici”. Pecoraro Scanio non è un esponente cattolico. Di sicuro, tuttavia, certe sue pulsioni politiche erano un veicolo per il diffondersi di una men-talità oscurantista fondata sul conformismo e non sulla ricerca e sulla diversità delle posizioni.

Non era certo solo. Quando Giovanni Paolo II celebrò, nel più am-pio evento del Giubileo, quello dei Politici, ci fu una ressa di adesioni. Non di quelle fisiologiche dei partiti o dei personaggi notoriamente cattolici quanto a religione e (innanzitutto) a presenza politica, bensì del fior fiore degli apparenti laici. Tipo nel Comitato di accoglienza, il Presidente della Repubblica Ciampi, tutto avviluppato nel proprio sogno comunitario. E poi, come segnalava il sito Italia Laica.it sen-za essere smentito, il Ministro dell’Interno, di origine PRI, Bianco, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Chiti DS, il Segretario DS Veltroni, il Sindaco di Roma Rutelli, e numerosi parlamentari dei DS (Corvino, Giacco, Lombardi, Lucà, Lumia, Manzella, Napoletano, Nieddu, Pellegrino, Pezzoni, Pozza Tasca, Siniscalchi, Veltri), dei so-cialisti (Ceremigna, Crema e Crostoni), dei verdi (Cambursano Cento, De Luca e Turroni), dei democratici (Maggi e Testa), del PdCI (Lento), degli ex PRI (Mazzucca).

Il successore di Chiti, Sottosegretario alla Presidenza del Consi-glio, alla Presidenza della Regione Toscana, Martini, anche lui DS, si spinse oltre e scrisse “Noi amministratori dobbiamo saper guardare con attenzione ed apertura a questa lezione di Papa Wojtyla. Essa può aiutarci a gestire meglio le difficoltà che si incontrano nell’affrontare i problemi delle collettività e nel far funzionare la macchina pubblica”. E per non lasciare margini interpretativi, lanciò la Festa della Toscana celebrati-va dell’anniversario della cancellazione della Pena di Morte da parte

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del Granduca nel 1786, invitando i Vescovi toscani a far suonare le campane. Il che fa molta scena ma anche tanta confusione, visto che il Catechismo della Chiesa continuava (e continua) ad ammettere la pena di morte tutt’oggi, duecento venti anni dopo il Granduca. Il problema di fondo è che questo mondo politico sedicente laico non distingue il privato dalla funzione pubblica esercitata. Non a caso sono imperme-abili al separatismo (se non lo fossero, si sarebbero subito affrettati a visitare, le sinagoghe, le moschee e tutte gli altri luoghi di culto, cosa che non risulta allora abbiano fatto). A favore del separatismo si espri-meva con fermezza il Manifesto 2001 della Federazione dei Liberali che sosteneva che “il rilancio del principio dello Stato laico è il solo valore che può garantire l’equilibrata convivenza civile per l’oggi e per il domani; i problemi cardine possono essere costruttivamente gestiti solo nel segno della rigorosa separazione tra istituzioni civili ed istituzioni e credi religiosi, poiché solo lo Stato Laico è concepito per non imporre scelte morali ai cittadini” e specificava che” una politica dell’immigra-zione deve essere coerente con i valori dello Stato Laico”. Nel frattempo, un’ulteriore sentenza della Corte Costituzionale, la 508/2000, sanciva l’incostituzionalità di un’altra parte del codice penale relativa al vili-pendio che era riferita solo al culto cattolico.

La legislatura stava ormai volgendo al termine. E divenivano sem-pre più frequenti le mosse di posizionamento delle forze politiche. La novità più rilevante fu sul centro destra. Berlusconi era riuscito a ricom-pattare l’opposizione nella Casa delle Libertà, comprendendo oltre AN e UDC anche la Lega Nord di Bossi, d’ora in poi alleato molto stretto, e il PRI (che con il Congresso di Bari, su impulso di La Malfa, aveva ab-bandonato per reazione l’Ulivo che lo rifiutava nonostante la tradizione repubblicana di sinistra). Al centro si registrò la nascita di Democra-zia Europea, un tentativo di terzo polo di cultura cattolico democri-stiana, promosso dall’ex segretario della CISL D’Antoni, dal Ministro Zecchino che lasciò il Partito Popolare, dai senatori a vita Andreotti e Colombo, da Gnutti e Comino scissionisti dalla Lega Nord. Nel cen-tro sinistra, venne costruito un cartello elettorale con il simbolo della Margherita e il nome Democrazia e libertà costituito da Democratici per l’Ulivo, Ppi, Rinnovamento italiano di Dini e Udeur di Mastella. Comunque erano tutte manovre concernenti la conquista del potere, nelle quali i progetti politico culturali restavano assai sullo sfondo.

In questa situazione, continuavano ad essere dominanti le indica-zioni della Chiesa, che ovviamente insisteva sul proprio magistero. In quei mesi l’accento era sulle problematiche della droga, sull’evitare pratiche contraccettive, sulla decisiva importanza delle scuole private

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da sostenere con i bonus, sulla televisione diseducatrice. E poi sulla richiesta formale alle forze politiche di dire “chiaro come intendono i problemi della vita, della famiglia, della gioventù, della libertà scolastica, della solidarietà nazionale e internazionale”. Questa ultima richiesta, la sua cornice e la polemica che ne seguì, costituisce un lampante esem-pio di come non vi sia la cultura della separazione. Perfino un filosofo non banale, di cultura non cattolica ed esperto politico, Cacciari, solle-vò una questione (definendo indecente i partiti genuflessi alla richiesta del Cardinale Sodano per l’anniversario del nuovo Concordato) senza accorgersi della propria profonda contraddizione. Lui faceva parte dei Democratici, il nerbo dei Democratici era costituito da personalità e grossi gruppi di cattolici, fautori dell’indifferenza tra cattolici e laici. Ne conseguiva che essere più o meno genuflessi non era cosa in alcun modo rilevante dal punto di vista del suo partito, i Democratici per l’Ulivo. Lo è – e tantissimo – se si adotta una politica di separazione tra Stato e Chiesa. Tra l’altro è per questo che, una volta, gli antichi quadri delle burocrazie pubbliche formatisi nell’epoca dello Stato li-berale non avrebbero potuto neppure concepire una genuflessione del genere.

L’intero rapporto tra Stato e Chiesa era dominato dalla cautela dei politici italiani preoccupati di non apparire troppo esigenti (specie sotto elezioni). In quei mesi vi fu un altro episodio, non in materia strettamente religiosa, ma significativo del modo di intendere quei rapporti. Dall’estate dell’anno precedente esisteva una commissione bilaterale Italia-Vaticano per esaminare il caso “Radio Vaticana” che a Santa Maria di Galeria, nel Comune di Roma a nord ovest, con i suoi 58 tralicci alti 100 metri, suscitava comprensibili tensioni sull’inqui-namento elettromagnetico. Tanto che si instaurò anche un processo penale, di cui inizialmente il Vaticano rifiutò la giurisdizione ai sen-si dei Patti Lateranensi (tesi accolta in primo grado ma respinta anni dopo dalla Cassazione), e che è poi proseguito con una lieve condanna in primo grado, con un’assoluzione in secondo e poi due anni fa con un nuovo annullamento in Cassazione e rinvio in Corte di Appello che ha di recente confermato il reato (“getto pericoloso di cose”) ma lo ha dichiarato prescritto. Al di là della questione della possibile pericolo-sità sotto il profilo del causare tumori (il Ministro Veronesi, notissimo esperto in oncologica, precisò subito che le onde elettromagnetiche non rientravano tra le settantotto cause di effetto cancerogeno censite dall’Agenzia Internazionale per le Ricerche sul Cancro), era sicuro che all’inizio le emissioni non rispettavano i limiti di potenza sanciti dalle leggi italiane.

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La questione fu oggetto di trattative piuttosto defatiganti, che pezzo a pezzo indussero il Vaticano prima a spostare le trasmissioni in onde corte e poi, con più difficoltà e tempi, quelle in onde medie. Si dovette però passare anche da un’ordinanza per imporre a Radio Vaticana di adeguarsi alla legge italiana pena l’oscuramento, fatta dal Ministro all’Ambiente Bordon (anche lui Democratico) e bloccata dal Presidente Amato. Poi, a seguito di un pur vago impegno Vaticano a ri-entrare al più presto nei limiti di legge, il governo addirittura ringraziò con un comunicato formale che ciò avvenisse. Oggi, sotto il profilo del rispetto delle norme italiane, il problema pare ormai risolto da anni. Resta però il fatto della assoluta cautela, se non peggio, con cui gli or-gani dello Stato hanno chiesto il semplice rispetto della legge.

Si arrivò alle politiche del 13 maggio 2001. Il centro destra della Casa delle Libertà quanto a seggi vinse nettamente in ambo le Camere (368 seggi alla Camera e 176 al Senato) battendo l’Ulivo che candi-dava a Presidente del Consiglio il parlamentare europeo Rutelli (vo-tato anche dai liberali quale iscritto al gruppo liberale al Parlamento Europeo). Quanto a voti, al Senato la Casa delle Libertà ne riportò un numero inferiore degli altri se all’Ulivo si fosse potuto sommare Rifondazione ma in ogni caso la Casa delle Libertà era stata più debole nelle regioni dove per l’assegnazione del seggio non sarebbe servito prenderne di più stante la netta prevalenza dell’Ulivo. Del resto, ana-logo fenomeno si verificò anche alla Camera, dove vi fu una notevole differenza tra i voti riportati nella parte proporzionale e in quella mag-gioritaria. Nel proporzionale il complesso dei partiti della Casa delle Libertà prese un milione e centomila voti più che nei collegi uninomi-nali. Negli uninominali il quaranta per cento della differenza andò a Democrazia Europea, il resto di nuovo fu perso laddove, data la preva-lenza della coalizione avversa, non sarebbero serviti per l’attribuzione del seggio. Nei collegi l’Ulivo più Rifondazione guadagnarono circa 1,4 milione di voti rispetto al proporzionale ma non nella percentuale dei seggi, che restò del 39,58. Il che conferma che il dato non si poteva leggere come una preferenza elettorale per le liste comuni bensì come il normale processo di trascinamento quando l’assegnazione del seggio del collegio è ritenuto dal votante una cosa scontata. Mi soffermo su tale circostanza, perché la lettura distorta e fideistica dei risultati da parte del prodismo a favore dell’ulivismo indistinto, influenzerà molto e a lungo i successivi sviluppi della politica.

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21. La Casa delle Libertà, il Papa in Parlamentoe il problema dei musulmani

La nuova legislatura si apriva con una diffusa azione rivendicativa del mondo cattolico che penetrava anche nelle zone tradizionalmente “rosse”. In quelle settimane, il liberale Polacco si augurava un dibattito pubblico sull’accordo della Regione Toscana con la Conferenza Epi-scopale per l’assistenza religiosa negli ospedali che introduceva una nuova figura professionale, gli “assistenti religiosi”, cioè assunti a ruolo dalle Aziende sanitarie. Non solo pagati dalle istituzioni (finanziate quindi dai credenti delle varie fedi ma anche dai non credenti) ma dipendenti unicamente dall’ordinario diocesano e facenti parte del co-mitato etico locale dell’Asl per collaborare alle iniziative di formazione e di educazione alla salute (cosa analoga avvenne mesi dopo nel La-zio dove un’intesa con la CEI istituì nelle Asl la figura del cappellano ospedaliero per fornire l’assistenza religiosa).

Episodi del genere si andavano moltiplicando. A Bologna, il cardi-nale Biffi indicò come metodo di integrazione l’obbligo per gli studenti di religione musulmana di frequentare le lezioni di religione cattolica. Mentre il presidente del Lazio Storace intendeva togliere i sussidi ai conviventi, perché diversi viziosi, ed assistere le famiglie povere pur-ché regolarmente sposate. Alleanza Nazionale annunciò che la pillola abortiva Ru 486 doveva restare illegale. Il neo ministro alle Politiche comunitarie Buttiglione parlò di modificare l’articolo 33 della Costi-tuzione in modo che, togliendo la clausola “senza oneri per lo Stato”, si possano finanziare anche le scuole private e realizzare l’equivalenza tra scuola pubblica e scuola non pubblica. Da parte sua il neo mini-stro dell’Istruzione, Letizia Moratti, comunicò l’intenzione di non far differenza nelle graduatorie per le supplenze tra chi aveva insegnato nelle scuole pubbliche e chi nelle altre. E la Chiesa, direttamente con il Papa, continuava ad esprimersi per il divieto di contraccezione e di aborto che dovevano essere rispettati anche con l’azione dei medici.

Da tutti questi casi, si può constatare come la strategia della Chiesa Cattolica fosse ormai essenzialmente rivolta alla diffusione degli aspet-ti religiosi della propria dottrina attinenti la quotidiana vita civile ed al formare nei cittadini la predisposizione ad una mentalità coerente con la dottrina. Attraverso tale percorso, la CEI accresceva la propria influenza sull’agenda politica, sottilmente contribuendo, vista la scarsa reazione del mondo laico, a reintrodurre la fede come criterio politico-istituzionale di fatto. Ora, tutti quelli che, sulla base dell’esperienza storica, ritengono che le istituzioni possano funzionare non mischian-

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do religione e istituzioni nel rispetto dei diritti individuali, non pos-sono, senza contraddirsi, rispondere con il vietare o il contestare alla Chiesa la sua opera di evangelizzazione. La strada per non mischiare religioni e istituzioni è un’altra, quella del separatismo e dei diritti ti-pica del liberalismo. Che ormai da molto tempo insegna come, negli stati democratici non teocratici e non temporalisti, il rimedio sia la convinta spinta dei cittadini nel rivendicare il proprio ruolo di reali sovrani della convivenza, non sottomessa civilmente ad alcuna autorità antecedente questa loro sovranità. Dunque la strada vera è la capacità dei cittadini di non farsi influenzare dal magistero religioso per quanto attiene le scelte civili.

È fisiologico che la Chiesa segua la propria missione religiosa. E che quindi dica la propria opinione su qualsiasi evento della vita quo-tidiana, poiché ogni evento coinvolge emozioni umane. E la Chiesa si definisce universale non solo per i luoghi ma anche per i temi. Tanto che interviene su tutto. All’epoca vi fu il grande e tragico evento del 11 settembre 2001, l’eccidio delle Torri Gemelle a New York. Il cardi-nale Ruini, proclamò “il dovere e la necessità di lottare contro il terro-rismo internazionale” evitando la fobia verso i musulmani e “lo pseudo moralismo che tende a vedere negli Usa il male del mondo”. Espresse solidarietà e vera amicizia per gli americani, dichiarò che l’attacco agli americani andava respinto anche con le armi, in modo limitato e senza rappresaglie indiscriminate. Qualche tempo dopo il Papa stesso condannò “l’iniquo fardello del terrorismo” che è un crimine contro l’umanità verso il quale non si deve avere indulgenza, poiché “la pace non è disgiunta dalla giustizia” e proclamò che il giorno dell’attentato “sarà ricordato come un giorno buio della storia”.

Al posto del non farsi influenzare dal magistero religioso per quan-to attiene le scelte civili, in Italia andava circolando la propensione all’ossequio temporale verso la gerarchia cattolica accompagnato da pulsioni xenofobe di vario genere contro i musulmani. Così sottova-lutando il fenomeno sempre più evidente dei fondamentalismi. Alcuni mesi prima, nella Relazione al V Congresso della Federazione dei Li-berali, l’autore aveva detto: “i fondamentalismi non sono una religione né un fatto religioso. Sono un fatto politico, che usa il veicolo religioso perché la religione in genere è assertrice di una verità rivelata e dunque adatta a divenire, sul piano politico, il substrato dell’asservimento dell’in-dividuo e del suo spirito critico e creativo. Fondamentalista è ogni pro-getto politico che vuol abbattere le delimitazioni tra religione e politica, politicizzando la religione e puntando ad una sorta di teocrazia sostitutiva dello stato laico moderno… Esistono un fondamentalismo cristiano, un

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fondamentalismo ebraico, un fondamentalismo indù, un fondamentali-smo confuciano e naturalmente un fondamentalismo islamico. Non esiste solo quest’ultimo anche se si vuol far credere così… Tutti i fondamenta-lismi rifiutano in varia misura valori decisivi per i liberali, quali plura-lismo, tolleranza, democrazia e le forme istituzionali che li incarnano, considerano chi non fa parte della propria comunità chiusa un infedele e demonizzano chi dissente facendone un pericoloso eretico e un nemico”.

Di certo, su queste problematiche sorvolavano il governo e in ge-nere il complessivo dibattito politico. Tutti tesi a cercare come convi-vere con il mondo cattolico oppure come usare strumentalmente la crescente presenza islamica in Italia. Il ministro Moratti assunse in pianta stabile poco meno di 15.000 insegnanti di religione – in gran parte ecclesiastici – e il Cardinale Ruini continuava a lanciare fulmini contro i matrimoni misti tra musulmani e cattolici. La RAI, da parte sua, stipulò con la Santa Sede una convenzione per mandare in onda tutti gli eventi segnalati dal Vaticano come di rilievo. In pratica ve-nivano seguite logiche opposte a quelle di uno spirito separatista. Il mondo laico non si impegnava per far vivere le ragioni del principio di separazione e per tramandarle. Al contrario.

Ancora una volta l’attenzione era verso le questioni contingenti del-la politica. Questioni anche assai rilevanti, come l’entrata, il 1 gennaio 2002, nell’epoca dell’euro. Di cui però il Ministro Bossi parlava con assoluto disinteresse ma anche tutti gli altri che se ne dichiaravano entusiasti, nulla avevano fatto (dal governo Prodi a quello in carica) per affrontare i fenomeni speculativi che si sarebbero innescati (e si innescarono) non adottando nel cambio provvedimenti pratici di con-trollo. Un altro argomento di grande dibattito furono le dimissioni da Ministro degli Esteri Ruggiero, nonostante i suoi stretti rapporti diretti con il mondo Fiat, il quale contestò a Berlusconi di non ga-rantire abbastanza il suo ruolo nei confronti di altri ministri (l’occa-sione fu una vicenda di forniture militari). Dimissioni che portarono all’assunzione dell’interim (durata quasi un anno) da parte dello stesso Berlusconi. Poi c’era il dibattito sull’impegno dei militari italiani in Afghanistan. Insomma, o non si trattava l’argomento rapporti tra Stato e religioni, o, parlandone, quasi per riflesso condizionato ci si allineava alle posizioni del Vaticano. Quando si trattò di indicare il rappresen-tante del governo per la Convenzione Europea sulle riforme (quella che redigerà la cosiddetta Costituzione) al di là della scelta della per-sona (che fu Fini) fu chiarito subito l’indirizzo. Adoperarsi affinché l’Unione Europea tenesse conto del ruolo della religione, per impedire che i valori spirituali fossero emarginati nella Costituzione. Per questo

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sarebbe stato necessario un richiamo alle radici cristiane. Un indirizzo politico che verrà seguito in pieno anche dall’altro rappresentante ita-liano nella Convenzione, Amato.

Questa posizione dell’Italia – evidentemente del tutto contrappo-sta ad una logica separatista tra Stato e religioni –  resterà immutata per l’intera durata dei lavori della Convenzione Europea. Insieme, sul piano interno, si faceva finta di non vedere che la Santa Sede conti-nuava ad avere comportamenti di magistero, coerenti con il suo punto di vista, che avevano oggettiva influenza su questioni di scelte civili. È proprio sul come dovevano essere fatte le scelte civili che il mondo laico avrebbe dovuto mobilitarsi. Ad esempio, il Papa chiese espres-samente a magistrati e ai legali di impegnarsi per la difesa del matri-monio al di là delle leggi statali sul divorzio. La cosa non ebbe molto seguito perché il Ministro della Giustizia, Castelli, rigettò l’argomen-tazione extra costituzionale, ma non venne data la sensazione di una forte mobilitazione a favore della tesi ineccepibile del ministro leghi-sta. Nella stessa atmosfera, quando il Papa chiese tre precisi interventi, riconoscimento giuridico dell’embrione, divieto di aborto e divieto di eutanasia, la risposta del governo e della maggioranza fu tipica di chi, senza dirlo, cerca di instaurare una trattativa sulle richieste. Quindi, quasi per facilitare i rapporti, venne intanto approvata una proposta di legge per assumere 20 mila religiosi, scelti con assenso del rispettivo vescovo, per insegnare religione nelle scuole statali. Nel merito delle richieste, sul riconoscimento dell’embrione venne proseguita con lena la discussione parlamentare sulla fecondazione medicalmente assistita, sull’aborto si tergiversò in modo da mostrarsi disponibili senza smon-tare la legge 194, entrata nella coscienza della larga maggioranza dei cittadini, mentre non ci fu bisogno di particolari accorgimenti per l’eu-tanasia, dato che non rientrava in alcun ordine del giorno.

Sedici scienziati, tra cui Flamigni, Levi Montalcini, Veronesi, fece-ro un appello perché non fosse bloccata la ricerca sulla procreazione assistita. (“La persona non ha inizio con il concepimento… La continuità del genoma dall’ovocita fecondato all’adulto non implica che, per una sorta di irradiazione retroattiva, tale dignità dell’individuo adulto river-beri all’ovocita fecondato di origine. Consentiamo ai ricercatori italiani di partecipare, nel rispetto più rigoroso dell’etica e della legge, all’impegno internazionale per cogliere le grandi opportunità applicative, comprese nuove cure per gravi malattie, che gli studi in questo campo lasciano in-travedere”). A degli scienziati non era possibile chiedere di più. Restava la questione politica della difesa del principio di separazione. Invece, l’opposizione di centro sinistra, quasi per armonizzarsi con il clima

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propendente al confessionalismo, ribadì la propria convinzione circa la validità del principio di indifferenza, trasformando a Parma, a fine marzo 2002, il cartello elettorale della Margherita in partito ed accla-mando Rutelli presidente. E il neo presidente non mancò di teorizzare che non vi sarebbero potute essere correnti esplicitamente laiche. La Lega Nord non volle restare indietro e poco dopo propose l’obbligo di esporre il crocifisso in tutte le scuole e in tutti gli uffici della pubblica amministrazione. In una simile atmosfera diveniva naturale che il get-tito dell’otto per mille a favore del Vaticano aumentasse del venti per cento superando i 900 milioni di euro.

Questi comportamenti appaiono politicamente schizofrenici se si tiene presente che nelle stesse settimane il Governo ripresentò con lo stesso titolo (“Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legisla-zione sui culti ammessi”) il progetto di legge presentato cinque anni prima dal governo Prodi: Era stato dibattituto a lungo nella prece-dente legislatura, con modifiche e sistemazioni diverse soprattutto per opera del relatore on. Maselli ed ora aggiornato senza stravolgimenti. Dunque era ispirato ad una logica di libertà di culto, non solo esostan-zialmente diversa da quella concordataria, ma soprattutto opposta a quella confessionale. Invece alla Camera il dibattito sulla fecondazio-ne medicalmente assistita si svolse secondo gli indirizzi ideologici di riconoscimento dell’embrione come persona, di intervento dello stato-comunità nelle procedure procreative, di far prevalere le convinzioni religiose di alcuni su quelle degli altri. Né far questo rispondeva alle esigenze di unire i gruppi parlamentari, perché né il centro destra né il centro sinistra rimasero uniti. Nel centro destra votarono contro di-versi deputati di origine laica e nel centro sinistra votarono a favore diversi deputati cattolici, in specie parte rilevante della Margherita (ciò avvenne perché ambedue le coalizioni si nascondevano dietro il princi-pio della cosiddetta libertà di coscienza, principio di cui parlerò nella seconda parte per contestarne decisamente applicazioni del genere, nel senso che l’opzione della laicità e del separatismo non sono riducibili in campo politico a questioni di coscienza).

Il voto alla Camera sulla legge circa la fecondazione medicalmente assistita – che era una smentita pratica delle speranze di una certa sini-stra di poter trovare un compromesso in materia – provocò una certa indignazione nel mondo laico che si vedeva costretto a confidare in qualche miglioramento nel passaggio della legge al Senato. Al Senato, in apparenza per sottolineare quale fosse il vero punto in questione, quattro senatori (due eletti con la Casa delle Libertà, il primo firmata-rio il repubblicano Del Pennino e Iannuzzi di Forza Italia, e due eletti

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con la coalizione dell’Ulivo, Turroni dei Verdi e Debenedetti dei DS) presentarono un disegno di legge costituzionale per l’abolizione del regime concordatario tra Stato e Chiesa. Per precisione storica, va det-to che questo disegno di legge faceva parte di un gruppo di proposte di legge di iniziativa popolare avanzate dai radicali (e presentate da altri dato che i radicali non erano in parlamento). Infatti proponeva la modifica degli articoli 7, 8 e 19 della Costituzione in modo da libe-rarla dagli equivoci e dalle contraddizioni concordatarie, ma era una dichiarazione di principio, non era parte di un attivo disegno politico separatista. Il disegno politico delle svariate proposte radicali era quel-lo, perseguito nel ventennio precedente e in modo chiarissimo negli anni novanta, di far subentrare alla legiferazione in parlamento quella più diretta dei cittadini. Dunque, essendo già abbastanza chiaro che i referendum abrogativi non erano riusciti nello scopo (né potevano riu-scirvi), i radicali tentavano con le proposte di iniziativa popolare, cer-cando di mettere il parlamento di fronte al diretto volere del popolo. Come se il volere del popolo fosse quello di attivisti organizzati e non il processo di diffusa partecipazione responsabile a sostegno non di sva-riati temi isolati ma di un complessivo disegno politico istituzionale. Così non fu un caso che tale proposta, di per sé giusta, rimase un atto dimostrativo e non fu mai presa in esame dalla politica parlamentare.

Restava evidente che gli organi dello Stato non politici avevano una minor ritrosia a toccare leggi coinvolgenti questioni religiose. Ad esempio, un rinvio da parte della Cassazione alla Corte Costituzio-nale, dette occasione a quest’ultima di emettere la sentenza 327 del 1 luglio 2002 che sancì l’incostituzionalità parziale di un articolo del Codice Penale che, in chiara violazione della laicità costituzionale, era rimasto inalterato pur prevedendo un differente trattamento sanziona-torio a seconda di quali funzioni religiose venissero turbate. Poi vi fu il caso – ai limiti dell’incredibile – della legge regionale della Lombardia che non si era ancora adeguata alla sentenza costituzionale 195/1993 e che dunque continuava a richiedere, per erogare contributi in caso di costruzione di edifici di culto, l’esistenza di una Intesa con lo Stato, criterio fotocopia di quello già dichiarato incostituzionale. L’incosti-tuzionalità venne confermata dalla nuova sentenza 346 del 2002. Ma resta l’inutile dispendio di risorse umane e finanziarie.

In quel periodo, la scena dei rapporti tra Stato e religioni vedeva comunque sempre in primo piano le iniziative della Chiesa cattolica. La quale, seguendo la sua ormai quasi ventennale impostazione di cui il Presidente della Conferenza Episcopale si era dimostrato un ese-cutore molto zelante, era presente su qualsiasi argomento che le in-

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teressasse e quindi su moltissimi temi della convivenza quotidiana. Innanzitutto su quelli che le stavano a cuore: l’affissione del crocifisso in tutte le sedi pubbliche e specialmente scolastiche, i criteri per rego-lare l’immigrazione, la sanità, la giustizia, i programmi tv. Trovando immediato ascolto nel Ministro della Istruzione che si disse subito fa-vorevole ad un decreto per rendere obbligatorio il crocifisso in tutte le aule, con una tale confusa fretta che pochi giorni dopo fu obbligata a smentire l’intento di intervenire con provvedimenti urgenti. Ma la volontà di compiacere l’istituzione Chiesa era tangibile. Così si arrivò, nell’autunno 2002, a due fatti significativi. Prima, all’inizio di ottobre, in occasione della cerimonia di santificazione del fondatore dell’Opus Dei vi fu uno schieramento davvero notevole di massimi esponenti del governo, della maggioranza, dell’opposizione, di cultura cattolica e non, e dell’economia. Fin qui, si potrebbe spiegarlo in termini di propensione alla mondanità. Però poi, a metà novembre, il 14, avvenne un fatto di certo emblematico della volontà di ossequiare la Chiesa. Il Presidente del Senato, Marcello Pera, e il Presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, invitarono Giovanni Paolo II a parlare in Par-lamento a camere riunite.

L’invito fu un atto gratuito di pura cortigianeria. Non ne esisteva-no motivi né diplomatici né politici. L’Unità diretta da Furio Colombo (che era stato da giovanissimo giornalista RAI, firmatario di appelli dell’editoria di sinistra, poi plenipotenziario Fiat negli USA, poi de-putato PDS e che in politica civile era acerrimo avversario dei due Presidenti) ne è una riprova. Introdusse la cosa il giorno prima con il titolo “Finisce il conflitto tra le due Rome. L’evento lo sigilla”. Non era un titolo ironico. Da un lato esprimeva le trepidanti attese degli ambienti che concepiscono la politica come solo potere e che, volendo sempre mostrarsi i più zelanti in tutto, vedevano l’invito in Parlamen-to come occasione per farsi vedere vicini al Papa. Dall’altro esprime l’incapacità della sinistra di cogliere il senso reale del problema dei rapporti tra Stato e Chiesa. Di quella sinistra che si illude, adottando un profilo di conformismo ufficiale, di esorcizzare le questioni reali e scrive: “non vi sono elezioni in vista e questo rende meno pesante il rischio di strumentalizzazioni per quello che dirà o non dirà. Ma non lo elimina. Sarà la voce del pastore e della guida morale quella del Papa che sarà attentissimo a non pronunciare parole che possano essere considera-te un’ingerenza politica”. Come se pastore il Papa non lo fosse stato fin dall’elezione e non avesse iniziato subito una sua diversa linea di evan-gelizzazione, che poneva al mondo laico l’obbligo di una rinnovata presenza culturale per sostenere le ragioni della politica istituzionale

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dello stato e del separatismo. Il Papa era sempre una voce del pastore e i cittadini sono sempre soggetti politici. La laicità deve occuparsi dei cittadini.

L’Unità – e mi riferisco ad essa perché l’ottusità politica dimostrata da una certa sinistra è oggettivamente ancor meno scusabile di ogni tendenza retrograda nel mondo cattolico – riportò la riunione titolan-do in prima quasi tutta pagina “Le carceri che scoppiano applaudi-scono il Papa”, omettendo in pratica gli interventi dei due Presidenti ma sottolineando la popolarità del Papa, le 26 ovazioni al suo discorso e il fatto che gli applausi erano venuti, a seconda degli argomenti, da un settore o da quello opposto. Tre circostanze furono chiare. Che la poltrona del Papa era in alto al centro, che era bianca come la sua veste e che “P.F. Casini e Pera stavano ai fianchi del Papa come soccorrevoli attendenti”. Il commento dell’Unità, nel consentire apertamente alle parole del Pontefice, concludeva testualmente così “[Il] discorso di Gio-vanni Paolo II (anche le sue parole sulla libertà della scuola e sulla parità possono essere accettate se restano all’interno dell’attuale legislazione, non della politica apertamente confessionale della Moratti)… cozza con tutta evidenza sulle recenti dichiarazioni della Curia, e in particolare dei cardinali Ruini e Sodano che, dopo un anno e mezzo, parlano dell’attua-le governo come il più vicino alla Chiesa. Ma a quale Chiesa viene da chiedersi?” Ancora una volta, pur di privilegiare il conformismo, certa sinistra fantastica su presunte divisioni della Chiesa, in cui la parte buona e democratica percepirebbe i problemi sociali e sarebbe frenata da quella tenebrosa prona ad un governo reazionario. Ma come si può immaginare il Papa contrapposto al Segretario di Stato e al Presidente della CEI? Non è immaginabile perché lo smentiscono di continuo parole e comportamenti. Si era ancora al ridicolo. Se non si fosse in-vece alla tragedia, poiché nel frattempo, presi dal far vedere che tutti concordano sull’opposizione al governo, vengono trascurati i problemi politici della convivenza insieme allo sforzo per capire la reale pre-dicazione della Chiesa ed il senso ed i modi della sua presenza nella politica. Quel giorno furono presenti, il Presidente della Repubblica, Ciampi, le più alte autorità istituzionali del nostro Paese, del Presiden-te del Consiglio Berlusconi e dell’intero Governo.

Quell’invito – già avanzato dai predecessori, Mancino e Violante, anche loro oggettivi corifei della tesi ulivista della indifferenza catto-lici-laici, e che era accolto per la prima volta nella storia d’Italia – era stato un errore in sé. Non poteva essere considerato un invito mon-dano, perché un invito mondano sarebbe stato offendere la persona ospitata e il luogo ospitante. Era necessariamente un invito simbolo.

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Ma considerato che la Chiesa richiama sempre la superiore verità di-vina, considerato che non esistevano visibili contenziosi nell’applica-zione giuridica del Concordato, considerato che la quotidiana libertà del magistero cattolico in Italia non faceva sorgere bisogni informativi del Parlamento, la visita papale poteva simboleggiare solo il riconosci-mento che la religione cattolica resta l’anima delle istituzioni italiane anche se non lo è più giuridicamente. In poche parole, l’invito era un arretramento rispetto al Concordato 1984, perché restituiva alla Santa Sede quell’ossequio che nel 1984 era stato circoscritto ad una concor-dia che neppure escludeva (avevano detto in aula diversi di coloro che lo approvavano) una prospettiva di progressiva ancor maggior distin-zione. Non solo veniva confermato lo strumento concordatario ma se ne faceva un piedistallo civile per la Chiesa che essa non aveva neppure richiesto.

Il Presidente Pera si spinse anche a teorizzarlo. Con parole forbi-te disse che “questi valori  – di umanità, fraternità, solidarietà, carità, giustizia – i credenti li basano sulla Rivelazione, e i laici non credenti li giustificano invece con la ragione o la cultura”. Con ciò in pratica affer-mando che sui valori la rivelazione equivalga a ragione ed abbia effetti analoghi. Ribadendolo poi con “come potremmo apprezzare, sostenere, difendere le nostre conquiste se ad esse fosse estraneo ogni concetto di verità o di approssimazione alla verità?”. Ma quale verità se non quella dell’esperienza e del reale? E infine fece una precisazione logicamen-te audace “noi agiamo nel rispetto dei principi di autonomia e laicità. Anche questi principi li consideriamo eredità del Cristianesimo”. Il che significa che secondo Pera non ci sarebbe differenza di valori tra istitu-zioni laiche e quelle che hanno la fede come fonte istituzionale. Come ateo devoto non avrebbe potuto esprimersi meglio.

Il Presidente Casini, da buon cattolico, tese a negare le differenze dicendo “oggi il rispetto profondo che contraddistingue le due istituzioni permette di esprimere con responsabilità principi di autonomia che sono patrimonio di tutti”. E poi aggiunse “siamo onorati che Ella parli oggi al nostro popolo, rivolgendosi direttamente a coloro che lo rappresentano”, come se le idee e le parole del Papa fossero una cosa eccezionale soli-tamente tenuta al riparo dagli occhi popolari. Dopo esibì la devozione al Papa asserendo “il suo elevato Magistero ci richiama alla nobiltà della politica, a ritrovare la parte migliore di noi stessi per metterla al servizio della comunità nazionale”. E riecheggiò l’impostazione vaticana “non ci sono più comode certezze ideologiche, né le promesse della scienza e della tecnica sono sempre così rassicuranti”. Attribuendo anzi al Pon-tefice un ruolo guida “i responsabili politici del mondo hanno sempre

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potuto contare sul sostegno e l’incoraggiamento delle Sue parole e delle Sue iniziative”. Per poi concludere sulle radici cristiane, “consideriamo con grande rispetto le parole che Ella ha più volte pronunciato sulla ne-cessità di preservare la matrice spirituale dell’Europa e dei popoli euro-pei, un’anima che è essenzialmente cristiana, anche per chi cristiano non è”. In pratica accettando che un documento istituzionale rivolto alla convivenza delle diversità nel futuro europeo fosse impostato su una discutibile uniformità del passato.

Poi il discorso di Giovanni Paolo II, il quale non fece sconti. Ripe-tette, da uomo dei media esperto e di età esimente dai compromessi, le linee essenziali della sua evangelizzazione. Che era impossibile far rientrare negli schemi furbeschi della lotta partitica italiana. Già chia-risce tutto il punto di avvio. Il legame profondo tra l’Italia e la Santa Sede “ben difficilmente si potrebbe comprendere al di fuori di quella linfa vitale che è costituita dal cristianesimo” e ad esso hanno molto contribuito i grandi Papi del ’900 “basti pensare a Pio XI, il Papa della Conciliazione, ed a Pio XII, il Papa della salvezza di Roma”. La citazione del Papa della Conciliazione la dice lunga, se si pone mente a quanto lo stesso Pio XI disse a Mussolini sul fatto che i diritti della Chiesa in Italia erano la parte essenziale del Trattato per chiudere la Questione Romana (“simul stabunt oppure simul cadent”). Poi il Papa legò il rispet-to dei diritti umani a “la convinzione che esista una ‘verità’ sull’uomo”. Sincera e leale solidarietà e coesione interna”. Fece un insistito richiamo al bene comune che “esige una cooperazione solidale e generaosa che non può prescindere dal riferimento ai fondamentali valori etici iscritti nella natura stessa dell’essere umano”. Citò l’enciclica mettendo in guardia dal “rischio dell’alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità”.

Poi richiamò “la crisi delle nascite, il declino demografico, la famiglia come dettato dall’articolo 29 della Costituzione”, la necessità di “favorire lo sviluppo della scuola in un sano clima di libertà”. Ammonì sul fatto che “crisi dell’occupazione e povertà, pongono il bisogno di una solida-rietà spontanea e capillare” e affermò che “un segno di clemenza verso i detenuti mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara ma-nifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l’impegno di personale ricupero in vista di un positivo reinserimento nella società”, con ciò richiamando la concezione per cui l’importante è riconoscere la colpa, non scontare la pena. Poi Giovanni Paolo II espresse “la fi-ducia che, anche per merito dell’Italia, alle nuove fondamenta della ‘casa comune’ europea non manchi il ‘cemento’ di quella straordinaria eredità

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religiosa, culturale e civile che ha reso grande l’Europa nei secoli”. Invocò “Europa, all’inizio di un nuovo millennio, apri ancora le tue porte a Cri-sto!”. Proseguì “a ciò s’aggiunge il terrorismo internazionale… proprio in una tale situazione le religioni sono invece stimolate a far emergere tutto il loro potenziale di pace, quasi “convertendo” verso la reciproca com-prensione le culture e le civiltà che da esse traggono ispirazione. Per que-sta grande impresa, il cristianesimo ha un’attitudine e una responsabilità del tutto peculiari: annunciando il Dio dell’amore, esso si propone come la religione del reciproco rispetto, del perdono e della riconciliazione. L’Italia e le altre Nazioni che hanno la loro matrice storica nella fede cri-stiana sono quasi intrinsecamente preparate ad aprire all’umanità nuovi cammini di pace, non ignorando la pericolosità delle minacce attuali, ma nemmeno lasciandosi imprigionare da una logica di scontro che sarebbe senza soluzioni”. Come era ovvio, un discorso tutto incentrato sul ruolo della religione e non su quello delle istituzioni civili per migliorare la convivenza nella diversità. Neppure un discorso tanto per farlo, visto che pochi giorni dopo la CEI si premurò subito di sottolineare che l’at-to di clemenza chiesto dal Papa non poteva esser rifiutato per presunte ragioni di sicurezza.

Questa situazione incresciosa per le istituzioni laiche era un pro-dotto dello spasmodico desiderio di risultare graditi alla gerarchia religiosa. Il che è una delle conseguenze della scelta di imperniare la politica solo sulla conquista del potere (privilegiando la ricerca degli appoggi elettorali). Atteggiamento che non era affatto patrimonio di-stintivo del centro destra (che con la riforma scolastica del Ministro Moratti, legge 53/2003, estese non poco il concetto di scuola paritaria imboccando una strada di sostanziale favore per le scuole cattoliche, sotto il paravento di averlo per la scuola privata) e trovava accoglien-za profonda anche nel centro sinistra. Anzi, nel centro sinistra era favorita anche dalla linea dei sostenitori della prospettiva dell’Ulivo indifferenziato, il cui fulcro era dichiarare inesistenti le differenze culturali tra mentalità civile laica separatista e mentalità religiosa cat-tolica. Una linea che la realtà delle cose smentiva di continuo (in quel periodo ci furtono i profondi dissensi nella sinistra sull’Afganistan) ma che continuerà per anni. In Italia questa linea era sospinta, oltre che dai prodiani, da Rutelli ed era sorda a qualunque obiezione. In pratica al realismo delle diversità implicito nel principio di separazio-ne, si contrapponeva la pretesa illusoria che basti sognare un certo tipo di condizione umana perché il sogno si realizzi (attribuendo una dimensione comunitaria a quella che dovrebbe essere l’autonomia del cittadino).

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Tra i laici, il VI congresso della Federazione dei Liberali insisteva sulla necessità di “uno stato che non imponga comportamenti dettati da particolari comunità politiche, ideologiche o religiose”. La presenza della Chiesa era però martellante. Il cardinale Ratzinger scrisse apposita-mente a chi, credente, era impegnato in politica, per ricordare che “il pluralismo non deve portare alla insignificanza” siccome l’insegnamen-to papale costituisce la “resistenza profetica innanzi leggi imperfette”. Il tema era importante ma come d’abitudine scorse via come acqua fresca. Apparivano più di rilievo – ed effettivamente erano più urgenti anche se non tali da oscurare l’altro tema, di cui anzi erano un’implici-ta conferma – i due temi che concretamente tenevano banco e lo tenne-ro per diversi mesi. L’ormai prossima guerra in Iraq voluta da George W. Bush e la vicenda delle radici cristiane nella Costituzione Europea.

Il Presidente degli Stati Uniti era invasato nel sostenere la tesi – al cui proposito esiste l’imbarazzo di trovare la qualificazione negativa più adatta per dirne la pericolosità e l’inefficacia – che occorre esporta-re la democrazia. In ciò appoggiato del primo ministro inglese Blair. Il filosofo americano Walzer la contrastava in un’ottica diversa da quella di certa sinistra. “Una campagna per un apparato internazionale forte, organizzato per sconfiggere le aggressioni, fermare massacri e pulizie et-niche, controllare le armi per la distruzione di massa e per garantire la sicurezza. Un apparato internazionale però dovrebbe essere opera di molti Stati diversi, non di uno solo. Questa è la richiesta dell’«internazionali-smo»: che altri Stati, oltre agli Usa, si facciano carico della legalità globale e che siano pronti ad agire, politicamente e militarmente… Quando ci battiamo contro una seconda Guerra del Golfo, dovremmo farlo anche per questo tipo di responsabilità multilaterale”. Il direttore del Corrie-re della Sera, De Bortoli, scrisse un editoriale per sostenere appunto che la guerra preventiva era “il prodotto pericoloso dell’unilateralismo americano e soprattutto non è iscritta nel sistema condiviso delle regole internazionali”. Una chiara indicazione del come la questione fosse sui modi utilizzati e non sul fine di bloccare il dittatore iracheno. La po-litica italiana, più che riflettere su una posizione costruttiva, ruotò su angosciosi dilemmi di opportunità tattica.

Nella sinistra vi erano molte posizioni. Chi cavalcava la solita pro-testa pacifista ed antiamericana (ferrovieri, lavoratori portuali), la Cgil che diceva di non stare né con Bush né con Saddam, diversi che pren-devano parte alla settimana di digiuno contro la guerra e il terrorismo indetta dalla Santa Sede (la quale non approvava la guerra anche per non indispettire il mondo musulmano). Il centro destra cercava di bar-camenarsi dando pieno sostegno “all’attacco legittimo” degli americani

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senza portare ufficialmente l’Italia in guerra. La Federazione dei Libe-rali definì un grave errore avviare la guerra al despota Saddam senza una decisione ONU, un’avventura che “in un colpo solo innescherebbe il pericolo di ottenere in Medio oriente risultati opposti alle intenzioni, smi-nuirebbe profondamente il ruolo dell’Onu, incrinerebbe gli insostituibili legami atlantici, frenerebbe la crescita politica dell’Europa”. Sorsero non piccoli problemi anche nei confronti di alcuni imam in Italia che par-teggiavano per l’Iraq. Alla fine il centro destra votò a favore per l’inter-vento italiano commisto ad iniziative umanitarie mentre il centro sini-stra in gran parte si astenne, con il resto contrario e con forti polemiche verso il comitato di Emergency ed altri pacifisti. Oltre quaranta docenti del liceo Berchet di Milano scrissero un documento pubblico contro gli Stati Uniti per la loro posizione diametralmente opposta a quella della seconda guerra mondiale. Il Corriere della Sera replicò che “così facendo, di fatto contraddicono uno dei caratteri fondamentali della scuola come luogo in cui viene riconosciuta la legittimità di tutte le posizioni. La scuola dovrebbe cercare di non rendere le cose del mondo illusoriamente semplici, dovrebbe coltivare il dubbio più che instillare facili certezze”.

Sull’altro tema, il Vaticano continuava ad intervenire con decisione in materia di radici cristiane in Europa, tanto che condannò la bozza di Preambolo predisposta dal Presidente della Convenzione Europea, Giscard d’Estaing. Fu giudicata completamente insoddisfacente per lo statuto giuridico della Chiesa e delle comunità religiose, proprio quan-do sarebbe decisivo sconfiggere “il duplice rischio del laicismo ideologico e dell’integralismo settario”. Giovanni Paolo II era impegnato di persona in questa campagna e, dopo che il 18 luglio 2003 la bozza completa del Trattato per la costituzione per l’Europa fu trasmessa al Presidente del Consiglio di Europa, cominciò a parlarne settimanalmente al momento della messa domenicale nell’evidente intento di influenzare i lavori della Conferenza Intergovernativa che dovevano portarla al testo definitivo. Trascinò sulla sua posizione tutti gli ambienti cattolici più rilevanti, dal Governatore della Banca d’Italia, ai Presidente del Senato e della Came-ra, al movimento Comunione e Liberazione, al vice-Presidente del grup-po parlamentare del PPI. Le Conferenze dell’episcopato europeo solle-citarono Berlusconi, che era il Presidente di turno dell’Unione Europea, ad impegnarsi per inserire le radici cristiane nel Preambolo. Si schierò anche il Presidente della Commissione Europea, Prodi. Quest’ultimo andò oltre. Affermò che inserire le radici cristiane avrebbe irrobustito il rapporto con Israele e che sarebbe poi stato sufficiente ribadire la volon-tà di dialogo con i musulmani. Un ragionamento evidentemente molto lontano dalla cultura della separazione tra Stato e religioni.

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207Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

Nel campo politico generale, sempre all’inizio dell’estate 2003, vi furono, in rapida successione, due fatti nuovi. Il primo, quello davvero nuovo e in pratica decisivo ai fini politico elettorali, fu che il segretario di Rifondazione Comunista, dopo anni di contrapposizione, ottenne l’approvazione a maggioranza nella sua direzione della prospettiva di arrivare ad un accordo di programma con l’Ulivo di Prodi. Circa un mese dopo, a metà luglio, lo stesso Prodi, con una lunga intervista sul Corriere della Sera, fece capire che sarebbe tornato alla politica italiana da Bruxelles e in tale ottica lanciò l’idea di una lista Ulivo per l’Europa, senza liste di partito. Di fatto era l’aspetto complementare della linea Bertinotti (anche se dall’inizio fu chiaro che veniva igno-rato l’insolubile problema della univoca collocazione degli eletti nei gruppi parlamentari). Poi avvenne anche un terzo fatto nuovo, che par-ve interessare solo la Toscana e che invece negli anni successivi avreb-be avuto assoluto rilievo nazionale. I DS toscani lanciarono l’idea di modificare lo Statuto Regionale per introdurre le liste senza preferenze e lo sbarramento al 4% per chi non fosse in coalizione. Come vedremo diverranno i temi politici principali per il successivo quinquennio a livello nazionale.

In politica estera il mondo laico restava in una difesa assai arrocca-ta e passiva. Si limitava, quando lo faceva, a contrapporsi alle richieste della Chiesa, ben raramente a sostenere le proprie posizioni politico culturali. Al punto che la Chiesa era protagonista anche sulle posizio-ni in contrasto con quelle del governo – come nel caso della politica dell’immigrazione – in cui era l’opposizione a chiamare spesso in bal-lo la Chiesa per condividerne le impostazioni di maggior attenzione ai problemi umani ed etici di quelli che arrivavano. Altrimenti, sulla maggioranza parlamentare, conduceva la danza la cultura religiosa cattolica. Sulla scuola venne approvata la legge che sanava la situazione equiparando gli insegnanti di religione a quelli a tempo indeterminato (purché mantengano il gradimento del vescovo) e vennero finanziati i bonus per le famiglie che sceglievano le scuole private. Al Senato proseguiva con determinazione la legge sulla procreazione assistita in versione confessionale. Invece l’altra legge in esame da anni, quella sulla libertà religiosa, galleggiava senza approdare a niente, pur suben-do le aperte critiche della Lega Nord all’impianto ritenuto relativista ed illuminista, foriero dell’indifferentismo religioso e di nuovi diritti ai musulmani.

Nell’autunno 2003 scoccò una scintilla che fece mise in luce ancor di più il conformismo per il crocifisso nelle aule scolastiche. A richiesta di un genitore musulmano, a Chieti era stato appeso un simbolo cora-

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nico accanto al crocifisso. I dirigenti scolastici lo rimossero. Il governo si affrettò a confermare che nelle aule, restando valide le norme degli anni ’20 (argomento giuridicamente del tutto infondato), non si po-tevano esporre altri simboli se non il crocifisso, nell’ottica dell’intesa Stato-Vaticano per l’insegnamento della religione cattolica. Il ricorso del genitore venne accolto in via cautelare dal Tribunale dell’Aquila, tra le proteste del Cardinale Ruini, del ministro dell’Interno, di quello della Istruzione, di quello di Giustizia, del centro destra e del centro sinistra, eccetto Rifondazione Comunista. Il Sindaco chiuse la scuola. Il Presidente della Repubblica, Ciampi, nell’apparente intento di cal-mare le acque sul piano religioso, in realtà proseguendo la sua impo-stazione comunitarista della patria come condivisione dei credi, fece una dichiarazione assai equivoca e storicamente assai problematica. “Il Crocifisso è sempre stato considerato non solo come un segno distintivo di un determinato credo religioso, ma, soprattutto, come simbolo di valori che stanno alla base della nostra identità culturale”.

Come segretario dei Liberali, l’autore scrisse al Presidente Ciampi che “la piattaforma condivisa da tutti gli italiani può trovarsi solo nel principio della laicità delle Istituzioni simboleggiato dalla bandiera trico-lore. Questo principio assicura il pluralismo religioso e la libera conviven-za tra cittadini diversi, intenti a costruire la propria vita nel rispetto degli altri e della loro dignità umana. Voler ritrovare le radici della cittadinanza italiana in un simbolo religioso – per di più di un’unica Chiesa, anche se maggioritaria nel nostro paese – costituisce non solo una revisione storica problematica ma soprattutto l’abbandono del criterio di separazione tra sfera politico civile e sfera religiosa che l’esperienza di secoli ha mostrato essere l’unico capace di riuscire a non evocare i mostri dell’oppressione, della violenza, della guerra e della fame. Come Lei ha ricordato senza posa in tutti questi anni della Sua Presidenza, il simbolo dell’Italia esiste ed è la bandiera tricolore. È stato conquistato con dure lotte, dal Risorgi-mento alla Resistenza, sostenute da chi stava dalla parte della libertà. È un simbolo che riunisce italiani di fedi e culture diverse e che non implica la confusione tra radici storiche della formazione civile, politica e sociale degli italiani e il privilegiare da parte delle Istituzioni il simbolo dei cat-tolici rispetto a quello di altri credi, dai cristiani protestanti, agli ebrei, ai musulmani e altre organizzazioni religiose. Il crociano “non possiamo non dirci cristiani” è un doveroso riconoscimento culturale di quanto sono stati nel nostro paese processi storici complessi e non intendeva cer-to escludere gli apporti che all’identità nazionale hanno dato differenti culture religiose. Benedetto Croce votò contro i Patti Lateranensi sotto il fascismo e in epoca democratica polemizzò duramente per l’attribuzione

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209Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

del Ministero della Pubblica Istruzione a un cattolico. È difficile farne un paladino di Istituzioni confessionali. Lo Stato laico non è un vezzo passa-tista. È l’essenza di un’Italia che vuol costruire il futuro dei suoi cittadini salvaguardando la loro libertà di essere responsabilmente sé stessi”.

A questa lettera, rispose con cortese evasività il Consigliere Pre-sidenziale Sechi, confermando che il Presidente aveva sempre inteso richiamare gli articoli 2 e 3 della Costituzione. Ma ciò non spostava l’evidenza che anche il Presidente Ciampi era in consonanza oggettiva con la tesi delle radici cristiane quale valore politico fondante dell’Ita-lia. Tanto che due giorni dopo l’Avvocatura dello Stato impugnò con gran celerità l’ordinanza del Tribunale dell’Aquila ricalcando il motivo espresso dal Presidente, e cioè che “il crocifisso, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana nella sua radice storica come valore universale”.

Questa vicenda del crocifisso – che proseguirà negli anni attraverso diverse vicissitudini e casi – costituisce una ulteriore riprova del come, per i laici, sostenere le proprie ragioni non basti: è arretrato e perdente trattare uno alla volta i vari aspetti del complessivo rapporto tra isti-tuzioni e religione, vale a dire la questione del separatismo. In quelle settimane, anche un’altra iniziativa legislativa per regolare i diritti delle coppie di fatto, pur essendo stata assunta da una esponente della de-stra, Alessandra Mussolini, insieme ad una della sinistra, Livia Turco, cominciò il suo cammino con gran clamore e finì nel dimenticatoio. Del resto, pure il tragico eccidio dei militari italiani in Iraq a Nassiriya contribuiva a rafforzare sia le tendenze comunitarie che quelle pacifi-ste. Ed anche contribuiva al riconoscersi o nei riti celebrativi oppure nella loro pregiudiziale contestazione strumentale per chiedere il ritiro delle truppe. Una simile atmosfera favoriva obiettivamente la maggio-ranza della Casa delle Libertà. Che infatti continuò imperterrita nella sua impostazione di cultura fideistica. Di conseguenza, nonostante lo strenuo impegno al Senato di due senatori della maggioranza, Del Pen-nino e Compagna (non a caso non di Forza Italia) che le provarono tut-te nel tentativo di far ragionare i colleghi, la Casa delle Libertà approvò la legge sulla procreazione medicalmente assistita (la famosa 40/2004) in termini rigidamente ideologici (divieto di fecondazione eterologa, impianto limitato a 3 embrioni, divieto di ricerca, tutela dell’embrione) e cominciò ad adottare i criteri religiosi finanziando le famiglie per ogni nuovo figlio a prescindere dallo specifico stato economico nell’ot-tica dei punti suggeriti nella “giornata della vita”. Dal canto suo la Lega Nord aveva in animo di dare regole restrittive per la costruzione di edifici di culto islamico da sottoporre anche a referendum di appro-

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vazione tra i cittadini. Altrove il clima della convivenza religiosa non era così. Nelle stesse settimane in Francia venne introdotta la legge del divieto di ostentare grossi simboli religiosi nelle scuole pubbliche (che semmai pone problemi dal versante opposto, cioè adotta un sistema rigido di educazione alla laicità che è discutibile).

In questo quadro, ancora una volta il mondo laico venne movi-mentato dall’iniziativa dei radicali, capeggiati sul tema, oltre che da Pannella, da Cappato. Di nuovo, però, non nel senso di farne la base di una iniziativa costruttiva nel quadro di una revisione del principio separatista nei rapporti tra Stato e religioni bensì in quello di sfruttare al massimo l’occasione delle proteste suscitate per ottenere una visi-bilità politica contingente. Giocando sullo scandalo della legge 40, i radicali cominciarono subito il tam tam per il lancio di un (ennesimo) referendum abrogativo. Sul punto, a cavallo tra i primi di febbraio e marzo 2004, vi fu uno scambio di contatti via telefono e mail tra i diri-genti radicali e presidente e segretario della Federazione dei Liberali, che – ovviamente super contrari alla nuova legge intrinsecamente illi-berale nei suoi fondamenti civili – insistevano con i radicali per seguire una strada differente da quella referendaria.

Gli argomenti dei liberali erano soprattutto due. Era un errore gravissimo di prospettiva culturale confondere la materia della pro-creazione assistita con quella del divorzio e dell’aborto richiamata dai radicali con toni enfatici. Il divorzio era un’esigenza di civiltà nella convivenza moderna, la contrastavano i conservatori per ragioni stru-mentali, gli oscurantisti per ragioni ideologiche e la Chiesa per ragioni religiose. L’aborto, aveva gli stessi nemici, ma restava un’esperienza di vita conosciuta da qualsiasi donna fin da piccola, di ogni condizione sociale e in qualsiasi paesino sperduto. La conoscenza delle problema-tiche abortiste era molto diffusa, seppur non in reali termini scientifici. Le leggi e i referendum sul divorzio e sull’aborto seguirono l’impo-stazione laica (nel caso dell’aborto, con la costante opposizione dei radicali, non si scordi) perché erano argomenti noti a tutti e perché rispondevano ad un’attesa radicata nella maggioranza de cittadini.

Viceversa la procreazione medicalmente assistita era una questione conosciuta da poche persone, proprio perché in pratica riguardava una minoranza di coppie e di donne, perché non aveva dietro di sé una sto-ria vissuta essendo una scoperta recente e perché, salvo gli specialisti, non era conosciuta davvero neppure da laureati, donne ed operanti nel settore scientifico. Di conseguenza ottenere la mobilitazione dei cittadini per il tema in sé, sarebbe stato arduo e ancora di più sperare in uno spontaneo afflusso di massa alle urne per la scelta abrogativa.

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Il secondo gravissimo errore era di natura più giuridica ma di fatto decisiva. La legge sul referendum stabilisce il quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto per la validità della consultazione ed i risultati effettivi dell’ultimo decennio mostravano che era praticamente impos-sibile raggiungerlo se gli oppositori disertavano le urne sommandosi al 25% almeno degli astenuti abituali. Si pensava seriamente che il mondo cattolico del centro destra, quello del centro sinistra, la CEI, non avrebbero utilizzato questo strumento di agevole applicazione?

Riassumendo, i liberali sostenevano che il ricorso al referendum sarebbe stato un autogol grave ed avrebbe avuto conseguenze negative a più stadi. Infatti, non passando il referendum abrogativo, sarebbe risultata confermata la legge 40, da ciò sarebbe stato dedotto (seppur forzosamente) che gli italiani erano a favore di tutte le sue storture culturali, che era accettata la prevalenza della cultura religiosa e per anni non si sarebbe parlato più di modifiche legislative, neppure in caso di vittoria del centro sinistra alle elezioni del 2006. Al posto di un dissennato referendum abrogativo, i liberali consigliavano un impegno politico comune per illustrare capillarmente i guasti culturali della leg-ge, sottolineare la stretta connessione con i principi del separatismo e preparare il terreno per future battaglie politiche e modifiche legi-slative, che oltretutto sarebbero state agevolate sia dal (nel frattempo) sperimentato impatto negativo della legge, sia dal (possibile) avvicen-damento nel 2006, sia dalle facilmente prevedibili pronunce di incosti-tuzionalità sulla legge da parte della Corte Costituzionale.

Per i radicali, la parola d’ordine “al referendum, al referendum” era ossessiva e superava ogni riflessione. L’importante era cavalcare il referendum intestandosene l’iniziativa, di cui non volevano avver-tire le controindicazioni. Al punto che per liberarsi degli intralci dei due senatori Del Pennino e Compagna, protagonisti della battaglia al Senato contro la legge 40, fecero un blitz in Cassazione per de-positare il quesito. Naturalmente venne subito fuori la difficoltà del raccogliere le firme da soli, appunto perché – nonostante il solito cla-more medianico – il tema autonomamente non tirava. Allora, vista la mala parata, i radicali convinsero il segretario DS Fassino e trovarono un accordo per ripartire, questa volta con l’appoggio delle struttu-re dei DS. I DS, a loro volta, pensavano di aver fatto un’operazione furbissima per marcare il territorio dei progressisti laici, per chiarire ai teodem che la prospettiva del partito democratico avrebbe mante-nuto le caratteristiche laiche e per stipulare un’assicurazione politica che avrebbe funzionato qualunque fosse il risultato del referendum (se vinceva l’abrogazione sarebbe stato sciolto il nodo pericoloso per

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la nuova maggioranza nella legislatura successiva, se non vinceva la responsabilità della situazione non sarebbe stata addebitabile alla si-nistra, che poteva trarne la giustificazione per accettare la convivenza con i suoi teodem).

Nel frattempo, un gruppo di scienziati (Bernardini, Boncinelli, Ca-valli Sforza, Dallapiccola, Di Mauro, Dulbecco, Hack, Novelli, Pacini, Pettoello-Mantovani, Piazza, Pignatti) aveva lanciato un sacrosanto appello contro i nuovi programmi della Scuola Media dai quali era “scomparso l’insegnamento della Teoria dell’Evoluzione della specie… cosicché i programmi scolastici non contengono tracce della storia evolu-tiva dell’uomo né del suo rapporto con le altre specie. Il mancato appren-dimento della teoria dell’evoluzione per dei ragazzi di 13-14 anni rappre-senta una limitazione culturale e una rinuncia a svilupparne la curiosità scientifica e l’apertura mentale”. L’insegnamento fu poi reintrodotto dopo un anno su decisione di una apposita commissione ministeriale istituita sull’argomento e presieduta dalla Levi-Montalcini. Resta però assai significativa la decisione antiseparatista presa originariamente dall’alta dirigenza ministeriale con la connivenza di fatto del Ministro, che, stando ai comportamenti successivi, forse non si era neppure resa conto della enormità della cosa.

Alle elezioni europee di metà giugno 2004, la stella berlusconia-na impallidì. Sia perché la somma dei voti delle liste di centro destra equivaleva a quella delle liste di centro sinistra ma anche perché Forza Italia era calata a favore degli alleati ed aveva perso largamente il posto di primo partito italiano a favore del prodiano Uniti nell’Ulivo. Uniti nell’Ulivo aveva ottenuto il 31,08% e cioè un miserrimo lo 0,13% in più di quanto ottenuto cinque anni prima dalle liste che lo compone-vano. Quindi risultato di sostanziale stallo, che però si accompagna-va al contemporaneo successo alle amministrative del centrosinistra ove batté il centro destra 52 contro 11 province e 2 comuni capoluogo contro 9 più la Regione Sardegna. Questo provocò reazioni diverse. Prodi rilanciò subito l’idea di una grande alleanza di governo attor-no ad Uniti nell’Ulivo (senza approfondire per ora la questione della collocazione europea degli eletti), Berlusconi tradiva titubanze ed una sindrome da accerchiamento, anche per le pressioni da parte di Fini, dell’Udc e perfino della Lega Nord, resa più rude dalla lunga degen-za ospedaliera di Bossi. Lo scontro scoppiato poche settimane dopo all’interno del governo, tra Fini e il ministro dell’Economia Tremonti, portò rapidamente alle dimissioni di quest’ultimo, sostituito poi da Si-niscalco. A rappresentante italiano nella nuova Commissione europea, fu nominato Buttiglione dell’Udc.

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Intanto la Conferenza Intergovernativa aveva raggiunto l’accor-do sul testo definitivo del Trattato per adottare una Costituzione per l’Europa. Il Preambolo si ispirava alle eredità culturali, religiose ed umanistiche dell’Europa, dunque non prevedeva riferimenti alle ra-dici cristiane. In un successivo articolo, era dichiarato il rispetto del-lo status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali, di cui l’unione riconosceva “l’identità e il contributo specifico, mantenendo un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazio-ni”. Naturalmente la Chiesa espresse al massimo livello il proprio vivo rammarico per il fatto che erano state tagliate le radici da cui si era nati. Molti politici del mondo cattolico, del centro destra e del centro sinistra (guidati da Casini) si affrettarono a chiedere anche in Italia un referendum per approvare la Costituzione europea (ben sapendo che la Costituzione italiana vieta referendum su trattati internazionali) ed alcuni, come la Compagnia delle Opere, arrivarono a dire che la Co-stituzione europea era “voluta dalla massoneria internazionale”. Vi fu-rono dichiarazioni emblematiche che facevano venir fuori la profonda volontà antiseparatista. Non facendo riferimento alle radici cristiane, disse il Cardinale Tonini, “non si è trascurato il passato, bensì il futuro” (ma il richiamo alle radici cristiane, era un problema proprio per la convivenza futura). Diversi chiedevano il referendum, precisando che in tal caso avrebbero votato il testo del Trattato come male minore (ma se da cattolici compievano il passo di non accettare il magistero religio-so su una legge civile, allora perché chiedevano il giudizio dei cittadini nel referendum, se non per farsi belli con i confessionali?).

In prima fila tra i critici era il Presidente del Senato Pera, il qua-le faceva discendere dalle polemiche sulle radici cristiane, per lui de-solanti, che l’Occidente restava senza radici (non a caso, a fine anno 2004, pubblicò insieme al Cardinale Ratzinger il volume Senza Radici, in cui si convergeva nel sostenere che l’Europa non ha unità né ideale né operativa, che predica la pace anche quando è messa in pericolo dalla guerra santa islamica, che pratica il dogmatismo dell’ideologia laicista). Per contro spuntavano alcune iniziative tese a incentivare l’in-tegrazione scolastica dei giovani musulmani, peraltro subito bloccate dal Ministro dell’Istruzione che pure acconsentì all’esame di idoneità per entrare nelle scuole pubbliche. Insieme vi erano anche proposte, da parte di musulmani, di istituire scuole private islamiche che potes-sero rientrare nei criteri delle scuole paritarie. Emergeva pure un di-battito sulla richiesta da parte dell’Unione comunità islamiche in Italia (Ucoii) di prendere parte attiva alla vita pubblica mentre il governo, volendo il dialogo con i musulmani moderati, non dava un ruolo rap-

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presentativo esclusivo all’UCOII e intendeva valorizzare anche i grup-pi musulmani che condannavano esplicitamente il terrorismo.

Ad ottobre 2004, a Roma ci si stava preparando alla solenne firma a fine mese (29 ottobre) del nuovo Trattato per la Costituzione europea nella stessa sala in cui il 25 marzo 1957 erano stati firmati i Trattati di Roma istitutivi della Comunità Europea. Inopinatamente a Bruxelles Buttiglione non superò l’esame per la nomina a Commissario Euro-peo (era il primo cui succedeva). Doveva essere il Commissario per la Giustizia, Sicurezza, Libertà ma la Commissione Libertà Civili non approvò le sue affermazioni molto controverse a proposito delle cop-pie omosessuali. Nonostante l’iniziale conferma di fiducia fattagli dal governo italiano, dopo qualche settimana di accanite discussioni, la situazione divenne tale, anche se il voto non era vincolante, che But-tiglione rinunciò (i primi di novembre Berlusconi risolse il problema sostituendolo con Frattini, che era Ministro degli Esteri, cogliendo l’occasione per insediare Fini agli Esteri). Il dibattito politico non fu banale e ancora una volta i cattolici erano molto all’attacco e i laici replicavano senza sollevare la vera questione politica del separatismo.

La campagna del mondo cattolico, con in prima fila Il Foglio, era centrata sulla denuncia della congiura anticristiana dilagante in Eu-ropa che avrebbe negato adeguato spazio al cattolicesimo integrale. E per farlo continuava a confondere la libertà con il riconoscimen-to della verità. Tenuto conto della vera posta in gioco, i liberali non potevano farsi distrarre. All’epoca, l’autore commentò “il diritto del prof. Buttiglione di pensare quello che crede e di esporlo liberamente, non va confuso con il dovere dei liberali di evitare il crearsi di situazioni istituzionali che possano anche solo innescare la violazione del criterio liberale della libertà fruita da tutti. Questa confusione è un cavallo di Troia, all’apparenza innocuo, usato sovente dai sostenitori della libertà individuale non come valore primario bensì come valore derivante dal riconoscersi nella verità (che può essere quella di una religione, oppure l’appartenenza ad una comunità, ad una razza, ad un clan e così via, ma che di certo porta fuori dalle istituzioni liberali: chi o quale organo mai dovrebbe essere legittimato a fissare la verità?)”. Poi specificava “dibatte-re sui temi dell’omosessualità e del suo riconoscimento civile è un obbligo per qualunque parlamentare che sia liberale. Quando si deve nominare un Commissario con il Portafoglio Giustizia, Sicurezza e Libertà, che, qualunque siano i poteri della Commissione, ha un forte valore emble-matico, bisogna evitare che la politica delle libertà civili venga messa in cantina. L’obbiettivo di rimuovere le discriminazioni verso omosessuali e donne non deve restare inattuato o addirittura ostacolato da chi, come il

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Commissario Buttiglione, dovrebbe viceversa battersi in suo favore. Butti-glione, già in altra sede, aveva proposto di espungere gli omosessuali dalle categorie da non discriminare e, in quella sede, ha illustrato il suo pensie-ro sulla condizione delle donne, pensiero che lo accomuna alle usanze del-le società islamiche non troppo progredite… Dal punto di vista liberale, l’importante è quale politica intenda fare il Commissario, non il suo cre-do religioso. È accettabile un islamico di idee aperte che non discrimina le donne, non lo è un cattolico di idee chiuse che le discrimina. Non lo è il tentativo di piegare le istituzioni europee a riconoscere una supremazia religiosa che nega il principio liberale della separatezza di Stato e Chiese”.

I comportamenti dei politici cattolici italiani confermavano che i pericoli insiti nelle dichiarazioni di Buttiglione erano appunto la pos-sibilità di distorcere la funzione istituzionale. Infatti continuarono per mesi a strillare contro le persecuzioni alla strega cattolica e sulla crisi dell’Europa senz’anima e scristianizzata che (parole dello stesso Butti-glione) avrebbe voluto imporre ai parlamenti nazionali il matrimonio gay e politiche di privilegi delle minoranze omosessuali, non renden-dosi conto, evidentemente, dell’assurdità di una simile posizione e del-le metastasi ambientali che diffondeva il sostenerla.

La procedura referendaria andava avanti e mentre la Corte di Cas-sazione dava il via libera, Amato, ora DS, provava a chiudere le stalle dopo che il suo partito aveva fatto scappare i buoni. Presentò un in-credibile (in quanto non è immaginabile quale interesse potesse avere la maggioranza parlamentare di centro destra) disegno di legge di mo-difica della legge 40 per evitare il referendum. A metà gennaio 2005 la Corte Costituzionale ammise i referendum abrogativi (salvo quello che abrogava del tutto la legge). Le varie prese di posizione chiarirono subito come sarebbe andata finire, visto che i due poli si affrettarono a confermare la piena libertà di coscienza degli elettori e la CEI insisteva per l’astensione in modo da salvare la legge. Un atteggiamento di sotto-lineatura delle posizioni spirituali era usuale da parte delle alte gerar-chie vaticane. Ad esempio nello stesso periodo lo tennero nei confronti del nuovo ambasciatore olandese presso la Santa Sede. Il Papa reiterò le posizioni della Chiesa sul rispetto della vita umana dal concepimen-to alla morte naturale e della castità come mezzo principe per la lotta all’AIDS. La sola differenza era che l’Olanda non si faceva sviare e legiferava secondo i suoi criteri civili, perfino a proposito di eutanasia.

In Italia, invece, quello stesso mondo laico che appoggiava i poli-tici genuflessi, replicava agli inviti astensionisti soprattutto attraverso contestazioni di tipo anticlericale, considerandoli un’ingerenza nella politica italiana. Oppure teneva comportamenti che apparivano og-

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gettivamente incoerenti. I radicali – che come si è visto avevano volu-to il referendum a tutti i costi – annunciarono che stavano trattando un’alleanza organica con Berlusconi. Ora Berlusconi era il capo della maggioranza trasversale, composta da Casa delle Libertà e Margheri-ta, che aveva fatto della legge PMA un manifesto del proibizionismo antiscientifico, e che sosteneva la tesi del non dare indicazione di voto ai referendum. Dunque era l’alfiere della linea più pericolosa contro la laicità delle istituzioni. Allora che senso aveva trattare l’alleanza or-ganica ? I cittadini potevano solo dedurne che la legge PMA e laicità delle istituzioni non erano poi affare molto importante, e che quindi erano sacrificabili. Così scaturiva un messaggio molto negativo alla vi-gilia dei referendum. La sola strada da tentare sarebbe stata la richiesta in contropartita di abbinare elezioni regionali e svolgimento del refe-rendum per accrescere le possibilità di quorum. Niente.

In compenso, la galassia cattolica si mobilitò in massa. Tutte le as-sociazioni cattoliche di ogni genere e ambito professionale, fino alla Margherita, alla Udc, mastelliana, alla Lega Nord, e parte di AN. Solo parte, perché Fini dichiarò (un pò a sorpresa) di approvare quasi tutti i referendum. Ed anche un gruppo di donne del centro destra erano esplicitamente per tutti i Sì. Il sottofondo vero degli astensionisti era costituito dalla tesi sostenuta in un libro del Papa uscito in quel pe-riodo dal sapore autobiografico e quasi un suo testamento politico. La verità divina precede la legge umana; pertanto la legge umana non può dare norme in materia di vita e, se lo fa, confligge con la legge di Dio. Per questo l’introdurre aborto ed eutanasia sono un abuso giuridico come lo fu l’avvento del nazionalsocialismo. E il buon cattolico non può che rispettare la voce di Dio opponendosi con grande compat-tezza ad iniziative che vorrebbero andarle contro. A tal fine, può fare azioni a difesa della presenza cattolica, come una marcia del popolo della scuola cattolica che il cardinale Tettamanzi organizzò a Milano a sostegno della scuola privata cattolica e contro il relativismo etico. Poi il 2 aprile 2005 scomparve Giovanni Paolo II. A conferma della com-mistione emotiva che aveva creato, tutta la fase delle sue esequie fu im-mersa in un clima di grande partecipazione esaltato dalle riprese TV in mondovisione. La Repubblica italiana non fu da meno proclamando tre giorni di lutto nazionale. Due settimane dopo, il Conclave elesse nuovo Papa il cardinale tedesco Joseph Ratzinger – fino ad allora per oltre 24 anni il Prefetto della Fede (dunque legatissimo a Giovanni Paolo II) – che assunse il nome di Benedetto XVI.

Il giorno successivo la scomparsa del Papa, si erano tenute le ele-zioni regionali che videro prevalere in modo netto il centrosinistra (12

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regioni a 2). Quasi lo stesso nei comuni ove si votò (44 a 18) con il particolare di Venezia ove i gruppi cattolici fecero preferire Cacciari al giudice Casson ex DS. Lo spirar del vento provocò vari movimenti dalla Casa delle Libertà verso l’area dell’Unione, che in prospettiva appariva tendenzialmente vincente. In ogni caso, nella maggioranza il clima era agitato, al punto che l’Udc ed il Nuovo Psi passarono all’ap-poggio parlamentare e questo indusse Berlusconi ad aprire la crisi. Crisi aperta e subito chiusa portando al governo Buttiglione (Udc), Caldoro (Nuovo PSI) e La Malfa (Pri). Intanto la Corte Costituzionale, con la sentenza 168/2005, aveva dichiarato incostituzionale ancora una parte di un articolo del codice penale che prevedeva un trattamento sanzionatorio più severo ove le offese siano recate alla religione cat-tolica. Sul piano della Costituzione Europea a gennaio a Strasburgo, il Parlamento europeo aveva approvato il testo dei Trattati firmati a Roma con il 74% dei voti favorevoli e il 6% di astensioni. Era seguita l’ampia approvazione parlamentare in Italia e i referendum favorevoli in Spagna e Lussemburgo. Viceversa, secondo le peggiori preoccupa-zioni, il referendum francese sulla Costituzione europea vide vincere il No con il 54% dei voti (che venne poi seguito da un risultato peggiore in Olanda, con il 61,6% di No). Il risultato portò a congelare la previ-sta procedura di ratifica della Costituzione, rinviandone la conclusione alla fine 2008, e ad avviare una pausa di riflessione, che durerà fino al giugno 2006, riaccendendo così anche le attese del mondo cattolico.

In tema di referendum sulla procreazione assistita, la campagna a favore dell’astensione era sempre più massiccia e vanamente ostaco-lata dal mondo laico, anche da chi fin dall’inizio aveva denunciato i pericoli del referendum. Si arrivò addirittura a violazioni della legge da parte prima del Presidente del Senato Pera e poi, in modo paral-lelo, dal Presidente della Camera Casini. Il Presidente del Senato fece un’intervista al Corriere della Sera, riportata anche sul sito internet ufficiale del Senato, in cui annunciò la sua volontà di astenersi dal voto, intendendo la cosa “una pausa di riflessione e un omaggio alla democrazia parlamentare”. Tale intervento ebbe un rilevante impatto mediatico a cascata e si configurò come consapevole atto di propa-ganda a favore dell’astensione dal voto, corrispondente alla personale convinzione politica del sen.Pera. L’autore, a nome della Federazione dei Liberali presentò una denuncia poiché secondo quanto disposto dell’articolo 98 della 361 del 1957 (per legge applicabile ai referendum) il Presidente del Senato appartiene a quella categoria di persone che hanno il divieto “di utilizzare i poteri e le funzioni di cui si compongono le rispettive attribuzioni” allo scopo di “costringere gli elettori a… od

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a… o ad indurli all’astensione” e che per tale fatto sono puniti con la reclusione a sei mesi a tre anni.

Come scrisse in una memoria l’avv. Brenelli della FdL, “l’abuso delle proprie attribuzioni così come l’esercizio delle relative funzioni è in re ipsa, dal momento che svolgere l’invito in oggetto dalla “cattedra” della Presidenza del Senato sarebbe stato del tutto superfluo sul piano dottrinale, mentre era del tutto indispensabile per dar rilievo e visibilità mediatica ad un consapevole atto di propaganda a favore dell’astensione, decisivo sotto un profilo simbolico per far apparire lo Stato stesso incline all’astensione”. È singolare che i PM di Milano, tanto solerti a vedere possibili reati ovunque possibile, nella fattispecie abbiano lasciato in-sabbiare la questione. Sia quella del sen. Pera che quella dell’on. Ca-sini. Perché sette giorni dopo il sen. Pera, anche il Presidente della Camera rilasciò un’intervista al Corriere difendendo il diritto di non andare a votare e affermando “nei giorni scorsi il Presidente del Se-nato, Marcello Pera, ha dichiarato che non andrà a votare sulla base di ragioni di grande momento… Sono considerazioni che condivido piena-mente…” Di nuovo l’on. Casini non teneva conto dell’articolo 98 della 361/1957, di nuovo l’autore presentò un esposto denuncia e di nuovo i PM di Milano tanto solerti hanno lasciato insabbiare la questione. Essendo questo il quadro della campagna referendaria, quando si svolse la votazione la non raggiungibilità del quorum era scontata, lo era meno una percentuale di votanti, così bassa, solo il 25,5% degli aventi diritto.

Dato lo scopo di questo libro, è necessario accompagnare la noti-zia della denuncia con una riflessione sull’articolo 98 della 361/1957. Gli obblighi sono stabiliti per “Il Pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio… il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare…”. Valgono quindi sicura-mente per il Presidente del Senato e per quello della Camera. Poi vi è la dizione “il ministro di qualsiasi culto”. Questa dizione non riguarda il Papa o il Presidente della CEI (che è opinabile siano nella categoria pratica) ma neppure gli appartenenti alla gerarchia della Chiesa Cat-tolica. Si tenga infatti presente che, a norma del Trattato del 1929 e del relativo Concordato (vigenti nel 1957 quando la legge fu fatta), lo Stato non poteva interferire nelle attività della Chiesa, la quale pote-va comunicare e corrispondere liberamente con tutti i fedeli (articolo 2, comma 2 del Concordato). La dizione della legge non poteva che riferirsi agli altri culti, con i quali nel 1957 non vigevano intese parti-colari. Inoltre, un concetto analogo di riconosciuta libertà alla Chiesa di svolgere comunicazione e corrispondenza, fu confermato dal nuovo

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Accordo del 1984, sempre all’articolo 2. Ne consegue che la Chiesa aveva pieno diritto di proclamare le proprie linee spirituali tra le quali rientra senza dubbio la contrarietà alle pratiche di procreazione assi-stita vietate dalla legge 40/2004. Per tale motivo non fu presentata la denuncia contro le gerarchie della Chiesa (che diffondevano la loro fede), mentre fu presentata contro i Presidenti delle Camere che erano tenuti al rispetto della legge.

Sottolineo che la situazione dell’articolo 98 è emblematica della assurda relazione tra Stato e religione. Lo Stato riconosce (del tutto giustamente) libertà alla Chiesa ma si costringe di continuo ad osse-quiarla e a privilegiarla come se da essa dovesse ottenere qualche le-gittimazione. Inoltre, l’atteggiamento del mondo laico è di sostanziale soggezione e di scarsa difesa delle proprie impostazioni, tanto meno di quelle separatiste che, naturalmente, renderebbero impossibile ogni ossequio o privilegio religioso. In questo stato di cose, avviene che, pur di compiacere i desiderata dei religiosi cattolici, organi di vertice dello Stato non hanno rispettato precise leggi della Repubblica al solo fine di conservare, nella fattispecie, altre leggi fondate solo sui principi di fede e non su quelli di una libera convivenza civile. Questo mancato rispetto è tollerato da Pubblici Ministeri ossequiosi. Il mondo laico si disperde su alti lai anticlericali (insostenibili in termini di libertà civili, controproducenti quanto ad effetti) e subisce rassegnato ogni sopruso. Non pensa a mobilitarsi su una seria battaglia per la separazione.

Ottenuto un clamoroso successo nella conferma della legge 40, i vertici ecclesiastici restarono composti, senza chiedere una revisione della normativa sull’aborto (cosa per loro saggia, visto che sarebbe andata contro il comune sentire dei cittadini) ed invece auspicando una “legittima e sana laicità che non escluda quei riferimenti etici che trovano il loro fondamento nella religione”. Il che significava ancora una volta, riferendosi ai temi allora all’ordine del giorno, escludere la legalizzazione delle coppie di fatto e assicurare adeguati finanziamenti alla scuola cattolica. Il centro destra era naturalmente soddisfatto per la conferma della legge che aveva tenacemente voluta. Anzi, l’on. Ca-sini ritenne giusto il momento di proclamare il suo no al “laicismo di Stato, perché non ci può essere Stato senza Dio e senza religione” (fin-gendo di dimenticare che solo se lo Stato non ha un Dio, ognuno può avere un Dio; e che solo se lo Stato non ha religione, tutte le religioni hanno uno stato e possono liberamente predicare la loro verità). Da parte sua, il centro sinistra era ambiguamente assente su tali temi (sic-come una sua componente determinante era a favore della legge 40). Si occupava solo di trovare un accordo di coalizione tra la federazione

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dell’Unione, comprendente DS, Margherita, Udeur, e altri soggetti (da Rifondazione Comunista, ai Verdi, all’Italia dei Valori, allo SDI) per poi procedere in autunno a primarie di coalizione con cui scegliere il candidato presidente del consiglio per le elezioni 2006 (chi sarà mai?). A margine di tali incombenze, cercava anche di tranquillizzare la CEI. Il centro sinistra, vincendo le elezioni, non avrebbe rivisto il meccani-smo dell’otto per mille, un meccanismo senza dubbio incentrato su un privilegio di tipo confessionale.

A fronte di questa attitudine politicamente rinunciataria del mon-do della cultura laica, proseguiva senza soste l’opera ecclesiastica della Chiesa. A Ferragosto 2005 Benedetto XVI espresse con semplicità e chiarezza la concezione della Chiesa cattolica sul come organizzare la convivenza. “L’epoca moderna ha creduto che accantonando Dio e seguen-do solo le nostre idee e la nostra volontà saremmo diventati veramente liberi, ma ciò non è accaduto. È importante che Dio sia presente nella vita pubblica, con segni della croce, perché solo lui indica la strada e senza di lui i contrasti divengono inconciliabili”. Parole semplici e chiare, con cui Benedetto XVI esercitava il suo diritto di esprimere il credo religioso tradizionale e di negare il principio della laicità dello Stato. Viceversa i laici non esercitavano il diritto di ribadire la superiorità civile del principio di libertà politica, che consente alla religione quello che la religione non consente alla libertà politica. L’autore scrisse che rispet-to alle parole di Benedetto XVI, risaltava “l’insufficienza del progetto dell’Unione su questi temi”, poiché non affermava “senza ambiguità che la più ampia libertà religiosa e gli equilibri tra libertà e responsabilità del cittadino sono promossi solo da atti legislativi redatti a prescindere dalla fede… Lo Stato non può consentire a nessuna religione di monopolizzare il Dio nella sfera pubblica civile e di costringere i non credenti a ricono-scersi nei simboli religiosi. Mai. E ancor meno nel momento di un attacco drammatico dei fondamentalismi al principio cardine dell’Occidente, che è lo sviluppo delle strutture civili separato dalle suggestioni religiose”.

Le strutture istituzionali ai vari livelli, si preoccupavano essenzial-mente di riuscire gradite ai valori della gerarchia. Perciò era impor-tante privilegiare il culto cattolico rispetto ad altri. E così a Genova si lasciava la preghiera dei musulmani senza un’area dove potesse effettuarsi e a Milano si impediva l’apertura di una scuola egiziana (d’accordo Comune di centro destra e Provincia di centro sinistra) per-ché, insegnando anche la religione islamica, non avrebbe realizzato il compito di integrare, che è compito esclusivo della scuola pubblica (principio esatto applicato in modo surreale sia perché integrazione non significa religione unica sia peché viene dimenticato quando si

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tratta di imporre alle scuole paritarie il rispetto dell’equivalenza). Di nuovo si mise in luce come ateo devoto il Presidente del Senato, Pera. All’incontro estivo di Comunione e Liberazione proclamò la contrap-posizione dell’occidente all’Islam, il che rendeva necessario battere l’Europa meticcia per rafforzare le radici giudaico cristiane (seguito dal Vice Presidente del Consiglio Fini). Poi al Convegno di Forza Italia a Gubbio, il Presidente Pera enfatizzò la superiorità dell’Occidente. Il tutto secondo l’antica illusione dei conservatori, il privilegiare il bene e la virtù rispetto alla libertà. Quel bene costituito dalla democrazia del senso collettivo, che aderisce ad una fede e ad un credo comune. Non per caso Pera criticò espressamente la risposta multiculturale e quella della tolleranza, lanciando un appello a basare i fondamenti morali sulle tradizioni del nostro popolo (non sulla libertà del cittadino). E negò il liberalismo proclamando che “oggi, la cultura diffusa in Occi-dente è un pericolo per l’Occidente stesso”.

Rispetto a queste uscite, i sussurri dell’Unione sulla eventuale pos-sibilità di prendere in esame i Patti civili di solidarietà (PACS) per dare una tutela pubblicistica alle unioni di fatto, parevano atti di coraggio politico, pur se assai controversi al suo interno. Comunque ad ogni piè sospinto, anche l’Unione si premurava di rassicurare le gerarchie, tanto che ci fu una sorta di siparietto tra Prodi e lo SDI che si stava fondendo nella Rosa nel Pugno con i radicali. Lo SDI sollevava il problema del Concordato in vista del programma dell’Unione, Prodi replicava che il Concordato “non è e non sarà all’ordine del giorno del programma dell’Unione”, la Rosa nel Pugno si riteneva soddisfatta della risposta restando nell’Unione senza fiatare, cioè mostrando che il tema separa-tismo non era davvero importante rispetto agli altri. L’Unione in pra-tica non pensava che ai propri equilibri interni (era contenta perché Bobo Craxi aveva lasciato De Michelis e il centro destra) e alle primarie scelse quale candidato Prodi, che ottenne il 74,1% dei votanti. Erano a mala pena i voti di DS e Margherita prevedibili in partenza, non uno sfondamento, un risultato per nulla esaltante dal punto di vista Ulivo indistinto; il vero successo delle primarie fu la presenza di differenti opzioni politiche e non si poteva affermare, come farneticavano certi ambienti, che gli elettori dell’Unione avevano indicato la confluenza nell’Ulivo, che invece poteva essere solo una parte dell’Unione.

Nella realtà esterna continuavano in modo massiccio, senza riceve-re repliche adeguate, le campagne di alcune parti politiche contro la libertà religiosa dei musulmani (scuole, moschee e matrimoni misti), contro le unioni di fatto, contro la pillola Ru486, contro la mancanza di una campagna di dissuasione sull’aborto (facendo entrare nei con-

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sultori il movimento della vita). E da parte sua la Chiesa si lamentava perché il laicismo intendeva vietarle gli spazi pubblici e richiamava all’ordine i politici disposti ad appoggiare leggi sui temi della vita, leggi inique secondo il suo punto di vista. Era anche contraria ad un aspetto della riforma della Costituzione che fu votata in via definitiva a metà novembre 2005, quello del passaggio di significative funzioni del-lo Stato alle Regioni. Il Governo rassicurava peraltro di aver intenzioni positive nei confronti delle diverse richieste della Chiesa. E, sul piano dei giudizi, la Corte di Appello dell’Aquila condannava il giudice Tosti perché si era rifiutato di tenere udienza nelle aule in cui era esposto il crocifisso da solo (un giudizio ovviamente destinato nel prosieguo ad avere strascichi fino alla Corte Europea, perché al di là delle bizantine argomentazioni del Tribunale e la rigidità strumentale del giudice di Camerino, l’indiscutibile dato di fatto complessivo è che così si con-fermerebbe il privilegio dato ad una religione mentre la giustizia viene esercitata in nome del popolo italiano, che è cattolico solo in parte, seppure la più consistente).

Nel frattempo il 10 settembre 2005, il Ministro dell’Interno Pisanu aveva esteso per decreto lo spirito Concordatario anche all’islam cre-ando la Consulta per l’Islam Italiano di 16 membri, metà con la citta-dinanza italiana, tra i quali i presidenti della Ucoii e delle altre associa-zioni musulmane. Un organo per risolvere “i problemi dell’integrazione delle comunità musulmane” e che rientrava nella logica di riconoscere la rappresentanza dei musulmani non direttamente ai cittadini musul-mani (come sarebbe opportuno in una logica incentrata sulla libertà) ma indirettamente attraverso l’associazionismo. Il Manifesto annuale dei liberali poneva invece al primo punto “la laicità delle istituzioni, vale a dire quella separazione delle scelte politiche dalle questioni religio-se che è stata alla base dello sviluppo delle società libere e che costituisce la strada maestra per contrastare efficacemente l’attuale drammatica sfida dei fondamentalismi; la laicità delle istituzioni assicura l’esercizio della piena libertà religiosa senza privilegi a favore di qualunque confessione e dunque rende superato e controproducente ogni strumento concorda-tario”. Inoltre, per dar più consistenza alla politica liberale essenziale in una società pluralista, multietnica e democraticamente conflittuale, le due principali realtà liberali, la Federazione dei Liberali e la rivista Critica Liberale, stabilirono un patto operativo comune. L’obiettivo era contribuire come soggetto autonomo ad una piattaforma di gover-no della coalizione Unione in cui potessero riconoscersi i liberali, la loro mentalità e le loro proposte, e capace di promuovere un’azione di governo attenta al metodo e alle scelte liberali.

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Si era infine arrivati quasi alla conclusione della legislatura e alle politiche 2006. Si sarebbero tenute con la nuova legge elettorale, defi-nita “una porcata” dal suo principale autore il Ministro Calderoli, che introduceva un sistema maggioritario di coalizione senza preferenze con distribuzione proporzionale all’interno delle coalizioni. Il clima generale, rilevavano i sondaggi, era nettamente favorevole all’Unione, anche perché il centro destra appariva arenato in molte beghe inter-ne e non aveva mantenuto diverse promesse fatte, a cominciare dalla diminuzione delle tasse. L’Unione non è che si presentasse molto più compatta nel programma, anzi (e in più emergevano chiari dissensi sulla prospettiva di fusione DS-Margherita, cara a Prodi e non ai due gruppi dirigenti). L’Unione sembrava un pò meno succube della politi-ca degli atei devoti, anche se il maggior fautore della legge sull’indulto e sulla amnistia, voluta con forza dalle componenti cattoliche e che venne bocciata a gennaio 2006, era il socialista Buemi. Mentre in mate-ria di Pacs ad essere molto più cauto era lo stesso candidato Prodi, per non indispettire il Vaticano, nonostante che il Parlamento Europeo raccomandasse di farli, i Pacs, per non discriminare gli omosessuali. Proprio nell’Unione si ripeteva il siparietto verificatosi sul Concordato, questa volta sull’eutanasia. La Rosa nel Pugno presentò una legge per introdurre l’eutanasia, l’Udeur replicò che non se ne parlava neppure, e così ciascuna parte fu felice di esser paladina della propria linea e ra-strellare voti. Eppure la coalizione era la stessa per tutti e due, benché le linee fossero contrapposte (di conseguenza era chiaro che le rispetti-ve linee erano solo opinioni culturali senza valenza operativa politica). Poi l’Unione rifiutò il contributo autonomo di una lista liberale – cui erano disponibili i DS – perché Rutelli e la Margherita, convinti di rap-presentare loro i liberali pur senza una politica liberale, posero il veto onde evitare coerenti fautori della laicità istituzionale. Non a caso, il Mre (Sbarbati) e la Rosa nel Pugno si dissero non soddisfatti delle po-sizioni del programma dell’Unione in tema di laicità. Programma che nelle sue 280 pagine, o forse proprio per quello, veniva ritenuto adatto per vincere le elezioni ma non per governare dopo il paese.

La tematica dei rapporti tra Stato e religioni era largamente pre-sente nel dibattito pubblico, assai più che in quello politico. Benedetto XVI emanava la sua prima enciclica Deus caritas est (anche la prima ad esser coperta da diritto di autore come tutti i documenti dei vertici ecclesiastici) per ribadire in modo approfondito il perché i cristiani devono dedicarsi alla carità nel mondo ma non devono “mettersi al ser-vizio di strategie mondane”, come furono il marxismo e la teologia del-la liberazione. Poi era deflagrata la vicenda delle sollevazioni a livello

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internazionale contro le vignette su Maometto apparse in Danimarca, che gli islamici ritenevano offensive. Di nuovo, su questo tema emerse-ro subito le propensioni antiseparatiste. Già il dichiarare “la libertà di espressione rispetti la libertà religiosa” (ma le vignette non impedivano a nessuno di avere la religione islamica) era una dichiarazione molto ambigua. Uno dei capi della Ucoii, Hamza Piccardo, fu invece chiaro nella sua concezione morbida ma illiberale in quanto confessionale: “Il confine sottile della libertà di ciascuno di noi sta nel dolore o nel disagio che può provocare nell’altro. Ecco che allora le vignette sono state perce-pite come una forma di imposizione, come avviene per la ‘democrazia’ in Iraq. O le bombe o gli insulti, i mussulmani devono, comunque e sempre, accettare il diktat occidentale, altrimenti passano per rozzi o integrali-sti”. Non era questione di accettare dei diktat ma di avere o non avere una mentalità integralista. E Piccardo questa mentalità la dimostrava chiaramente. D’altra parte, essendo alieno da ogni propensione di tipo separatista, il Ministro Calderoli fu davvero eccessivo nell’esercizio del diritto di critica. Si esibì al TG1 riportando sulla maglietta le vignette di Maometto. La reazione del mondo arabo fu talmente clamorosa che in Libia scoppiarono dei tumulti davanti al consolato italiano con una decina di morti e decine di feriti. L’episodio portò alle dimissioni del-lo stesso Calderoli e del Ministro dell’interno libico e non ebbe altre conseguenze in Italia perché la Lega Nord pose un alto là e continuò l’affissione delle vignette su Maometto, la distribuzione di prodotti da-nesi boicottati negli Stati arabi e la sua campagna contro le moschee.

Naturalmente il Presidente Pera non restò indietro. Appoggiò la tesi vaticana secondo cui è prioritaria la regola della reciprocità dei comportamenti, da noi e negli stati islamici (tesi che può andar bene per lo Stato della Chiesa ma certo non per quello italiano, cui inte-ressa innanzitutto la libertà religiosa nei propri confini e solo dopo quello che avviene nelle frontiere altrui, a meno appunto di non voler esportare la democrazia con la forza). Il Presidente Pera scrisse che nei confronti dei musulmani “la prudenza senza fermezza è una resa”, che occorre difendersi contro la violenza fanatica del mondo islamico e che questi sarebbero stati i veri argomenti della campagna elettorale. Questa era l’atmosfera diffusa in una parte consistente della Casa delle Libertà. Perciò diviene comprensibile che il progetto di legge “Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammes-si” che era in discussione già dal 1997, che era stato ripresentato con lo stesso titolo cinque anni prima dal Governo Berlusconi e che era ampiamente condiviso anche dall’opposizione, non sia andato oltre le approfondite discussioni teoriche. L’aveva spuntata il pervicace ostru-

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zionismo strisciante di una componente della stessa Casa delle Libertà con l’avallo dei teodem. Da rilevare che è del tutto incongruo sostenere il sistema concordatario e poi ostacolare una legge di attuazione della Costituzione. Va preso di nuovo atto che questo è il modo di essere del confessionalismo dei politici italiani.

Tra le altre tematiche politiche, restava in primo piano, oltre la contrapposizione tra Casa delle Libertà e Unione, la discussione sul-la riforma della parte seconda della Costituzione e sul Referendum costituzionale contro la sua conferma presentato a gennaio dal Co-mitato “Salviamo la Costituzione” (presieduto dal sen. Scalfaro) che aveva raccolto in poche settimane le firme necessarie con l’appoggio di 15 Consigli Regionali per votare il giugno successivo. E poi prendeva quota la Consulta per l’Islam italiano voluta da Pisanu, che, tra le po-lemiche anche se ad ampia maggioranza (11 sì, 2 no l’Ucoii e l’imam di Salerno, 1 astenuto, un marocchino studente, due assenti), votò il Manifesto dell’Islam d’Italia, appunto tra le polemiche dell’Ucoii che voleva un’impostazione rivendicativa centrata sulla dignità e su diritti non concessi. Il Manifesto dell’Islam d’Italia, redatto sotto forma di lettera-impegno della Consulta al Ministro, ribadiva la linea dell’in-tegrazione attraverso il dialogo e la libertà religiosa, della condanna dell’estremismo e avanzava proposte sui luoghi di culto, sulla scuola, sulla formazione universitaria e sulla famiglia.

Si arrivò così alla campagna elettorale. Il Direttore del Corriere della Sera, Mieli, fece un fondo per schierare il giornale con l’Unione (e apparve non una furbizia tattica ma l’aderire convinto al proget-to della indistinzione culturale come base politica del nuovo partito prodiano). Il Vaticano ripeté le sue tesi tradizionali secondo cui il cit-tadino cattolico deve seguire la dottrina della Chiesa su una serie di problemi decisivi per la convivenza, tipo embrione, famiglia monoga-mica, scuola cattolica, rifiuto dell’aborto e dell’eutanasia. Predicazio-ne che non può venire accusata di ambiguità e che, a causa del clima antiseparatista che rende attenti solo ai risvolti elettoralistici, trovava il consenso di tutte e due le coalizioni assetate di consensi. Ne avevano motivo, poiché i sondaggi segnalavano una brusca caduta dell’Unione.

Le urne furono una corsa sul filo di lana. Al Senato le due coa-lizioni pareggiarono in seggi con prevalenza dell’Unione attraverso i senatori a vita, mentre in voti prevalse la Casa delle Libertà di cir-ca trecentomila voti. Alla Camera l’Unione arrivò prima di un soffio, 24.755 voti su 38.153.343, pari allo 0,06 per cento. E siccome i liberali nel loro complesso avevano fatto campagna per l’Unione – “non perché ci rappresenti (anzi essa ha fatto il possibile per evitarlo), non perché abbia

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un programma preciso e soddisfacente, ma perché è lo strumento dispo-nibile per chiudere un ciclo, per riconfermare il criterio dell’alternanza e per imboccare la strada della politica come confronto secondo le regole. In pratica, per votare Unione, i liberali non appoggeranno in alcun modo le liste che sono distanti dal liberalismo…” – ed avevano inoltrato molte decine di migliaia di mail oltre ai contatti, risulta evidente che anche il contributo liberale fu determinante per raggiungere il successo di 24.755 voti. Lo sottolineo per semplice precisione storica e per meglio inquadrare il fatto politico. Nei fatti, la politica del nuovo governo non fu certo esaltante e riuscirà a rendere visibili le peggiori preoccupazio-ni circa le impossibili impostazioni della indistinzione ulivista.

22. Il Governo dell’Unione e la svolta mancata

I due mesi successivi alle politiche del 2006 furono densi di avveni-menti istituzionali. Le nomine dei Presidenti alla Camera (Bertinotti) e al Senato (Mancino) avvennero senza grossi intoppi ma fecero intrave-dere le difficoltà della maggioranza al Senato. Pochi giorni dopo, Gior-gio Napolitano fu eletto presidente della Repubblica, con 543 voti al 4° scrutinio, e con l’astensione della Casa delle Libertà perché il nome non era stato concordato (i liberali commentarono l’elezione di Napolitano come “un atto molto positivo. Proprio chi non condivide il filone politico culturale cui il sen. Giorgio Napolitano ha fatto riferimento, può essere sicuro di trovare in lui un Presidente fermo custode dei diritti dei cittadini che la pensano altrimenti). Ancora qualche giorno e si insediò il governo Prodi che al Senato si reggeva oggettivamente sui voti di tutti i sette senatori a vita (era la prima volta che avveniva perché nel 1994 solo in 3 su 11 avevano appoggiato Berlusconi). Per quanto concerne la Costi-tuzione Europea, nella prima metà di giugno i capi dei paesi membri si posero l’obiettivo di risolvere il problema prima delle elezioni europee 2009 e di ridiscutere la Carta approvata a Roma (il che risvegliò qualche speranza nei cattolici in tema radici). Infine nella seconda metà del mese di giugno, si svolse il referendum confermativo della riforma Costitu-zionale, con una affluenza limitata anche se superiore al 50%, nonostan-te non fosse richiesto il quorum. La riforma fu bocciata da oltre il 60% dei votanti, in tutte le regioni salvo Lombardia e Veneto (la Federazione dei Liberali e Critica Liberale si erano espressi per il No avendo definito le modifiche “un pasticcio per il merito dei principi introdotti, in radicale contrasto con il costituzionalismo liberale… che incentiverebbe il plebisci-tarismo e l’idea della politica ridotta a scontro di forza e di potere”).

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Contemporaneamente erano già ricominciati avvenimenti a riprova del come sui principi la Chiesa restasse sempre in attacco e di come il mondo laico non fosse capace di costruire una politica adeguata alle proprie posizioni. Cominciò il neopresidente della Camera, Bertinotti, di sicuro laico ma laico un po’ approssimativo, che in una trasmissione televisiva chiese al Papa di tener conto anche dei diritti delle coppie di fatto (trascurando che la terza carica della Repubblica non disserta con la gerarchia in materia di fede, perché la cosa non concerne la politica, né se la terza carica è credente né a maggior ragione se non lo è). Il Presidente della CEI tuonava contro l’eutanasia e la legalizza-zione dei matrimoni omosessuali mentre Benedetto XVI confermava che le istituzioni debbono seguire i valori “radicati nella grande eredità cristiana dell’Europa e, in particolare, dell’Italia”. E quando il nuovo Ministro per l’Università, Mussi, ritirò l’adesione dell’Italia, data dal precedente governo, alla dichiarazione etica di sei paesi europei contro la ricerca sulle cellule staminali, fu sommerso dalle critiche, non sol-tanto del centro destra e della Chiesa, ma anche dei cattolici dell’Unio-ne e dall’imbarazzato distinguo del Presidente del Consiglio Prodi, che precisò che ciò non significava voler modificare la legge italiana vigente.

Il Corriere della Sera, che era un giornale favorevole al governo, scrisse “è palpabile il disappunto prodiano per la impossibilità di trovare punti di contatto su argomenti diversi da quelli sui quali l’episcopato sta martellando da mesi. È come se il premier cercasse il dialogo, deciso a non regalare l’episcopato al centro destra; e si accorgesse che l’interlocu-tore parla una lingua diversa”. Un’osservazione putroppo giusta nel-la mentalità abituale; stupefacente da un punto di vista separatista. Come si può pensare che la disponibilità ossequiosa basti ad ottenere il consenso da parte di chi fa richieste spirituali? Se si galleggia, cer-cando di eludere il nodo dell’accettare o meno la fede come fonte di ispirazione legislativa, è naturale non avere neppure il consenso della Chiesa.

L’errore concettuale consiste nell’affrontare in ottica elettoralistica il problema dei rapporti pubblici con la religione. Un errore che porta a cercare il rimedio nella cultura del compromesso e non in quella della scelta responsabile aliena dall’ideologia e attenta ai risultati (cioè il conflitto democratico liberale). Compromesso che invece venne di nuovo praticato nella mozione di indirizzo del Senato, che vietò la di-struzione di embrioni pur autorizzando (per un soffio) la ricerca sulle cellule staminali adulte. Provvedimento in larga parte confessionale e antiscientifico che non riuscì neppure ad evitare le forti critiche da

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parte del Vaticano. Riuscì meglio l’operazione dell’indulto di tre anni che venne approvato a larga maggioranza secondo i desideri vescovili e della Rosa nel Pugno ma che provocò non piccole polemiche, subito di Di Pietro, della Lega Nord e di singoli parlamentari, a lungo termine nell’opinione pubblica (tra l’altro le cose ne dimostreranno l’assoluta inefficacia rispetto allo svuotare le carceri).

In quell’estate 2006, salvo questi tentativi di galleggiamento su temi di sensibilità religiosa, il dibattito era tutto sul futuro del PD, evo-cato dai suoi fautori come palingenesi civile che sarebbe andata oltre le ideologie cattoliche e socialiste. Europa, quotidiano della Margherita, pubblicò un articolo dell’autore in cui al riguardo si sollevavano tre questioni. Primo, che non venivano mai definiti la natura e il progetto del Partito Democratico e che non definirli equivaleva a rilanciare il tradizionale disegno bipolare dei due partiti chiesa, una volta DC-PCI, ora destra-sinistra. Secondo, che ci si affidava alla politica spettacolo della promessa epocale e intanto non si impegnavano le energie per governare bene. Terzo, che gli artifici propagandistici per indurre il cittadino liberale a sostenere l’area socialista e cattolica che è e vuole apparire tale, erano inutili di per sé. In pratica il PD praticava una sorta di ecumenismo, che, nel profondo, è parente molto stretto del centralismo democratico. Si comportava come una sinistra incapace di recidere i legami con il suo passato e vogliosa di praticare la vecchia tendenza o ad inglobare i liberali oppure a spingerli a destra. Insomma una sinistra impegnata a soffocare i liberali e la loro distinta mentalità.

E mentre ci si baloccava in simili utopie della indistinzione destina-te per struttura al fallimento, la Chiesa continuava a battere su aspetti del proprio credo, quali la condanna di chi elimina gli embrioni e di chi vuol mantenere la scuola pubblica distinta da quella privata. E il governo tendeva sempre più a tenere il rapporto con le religioni attra-verso la trattativa. Così riprese in mano il problema della Consulta per l’Islam italiano. Il Ministro dell’Interno Amato, trattativista di lungo corso, approfittando che il Manifesto dell’Islam d’Italia approvato a marzo non si era tradotto in un decreto formale, fin da giugno aveva cominciato a parlare della necessità di riformare l’istituto della cittadi-nanza per adeguarlo al radicamento in Italia oltre che alla discendenza familiare. Poi a metà agosto l’Ucoii ruppe la tessitura di Amato, un tantino burocratica, esprimendosi su una questione collaterale al tema ma di grande impatto. Con una inserzione a pagamento sui quattro quotidiani del gruppo Monti, l’Ucoii attaccò frontalmente lo Stato di Israele scrivendo “ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane”. E siccome l’inserzione suscitò ovviamente proteste in moltissimi ambienti, anche

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all’interno del mondo dei musulmani italiani, l’Ucoii precisò che tutte le espressioni forti erano “l’unico modo per far passare il messaggio alla gente altrimenti vittima di una informazione distorta, di un terrorismo mediatico: basti vedere cosa è capitato a D’Alema per aver camminato al fianco di un deputato Hezbollah” (in quei giorni il Ministro degli Esteri era stato fotografato durante la sua visita a Beirut).

Ora – a parte la teorizzata necessità di creare eventi clamorosi per poter ottenere ascolto, che si addebita ai mezzi di comunicazione e che non può essere approfondita qui – è evidente che la posizione Ucoii era contigua all’estremismo palestinese, cioè lo stesso sfondo che aveva causato la critica all’equivicinanza del Ministro degli Esteri. La tesi dell’Ucoii era politicamente inaccettabile (e fu seguita da furibondi attacchi da parte del centro destra) ma il Ministro Amato dette una ri-sposta contraddittoria dal punto di vista logico e inadeguata dal punto di vista politico. Infatti, in vista di una nuova riunione della Consulta per l’Islam italiano a fine agosto, Amato annunciò che i componenti la Consulta per l’Islam italiano avrebbero dovuto sottoscrivere una Carta dei valori del dialogo da sviluppare in seguito (tra cui il rico-noscimento della unicità dell’olocausto) e su cui costruire la consulta dei musulmani italiani. Naturalmente l’Ucoii rifiutò subito (dissero “una carta dei valori c’è già e si chiama Costituzione” aggiungendo che “l’olocausto non è unico né irripetibile”). Il Ministro andò avanti, come vedremo oltre. Ma furono chiari due punti. Primo, volendo essere cer-to di quali posizioni potesse assumere la Consulta, aveva ottenuto al tempo stesso la commistione tra religione e politica e il compromettere a fondo l’esistenza stessa della Consulta. In pratica l’opposto del volu-to. Secondo, sul piano generale non aveva attivato nessuna politica di contrasto al sapore fondamentalista delle tesi Ucoii, che fosse coerente con i principi di libera convivenza, a cominciare dalla distinzione tra politica e religioni.

Le difficoltà materiali dei rapporti con la religione dell’islam, in specie da parte della religione cattolica, emersero sotto il profilo dottri-nale con il formidabile impatto mediatico mondiale (i popoli islamici si infiammarono nella protesta) di una conferenza del 12 settembre 2006 tenuta da Benedetto XVI all’Università di Ratisbona. Personalmente appartengo alla schiera di quelli convinti che lo scontro non fosse lo scopo della conferenza del Papa su “Fede, ragione ed università”. In ogni caso, Benedetto XVI citò una frase del “dotto imperatore bizan-tino Manuele II Paleologo… sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: ‘Nessuna costrizione nelle cose di fede’. È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere

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e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le dispo-sizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il ‘Libro’ e gli ‘increduli’, egli, in modo sorpren-dentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: ‘Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai sol-tanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava’. L’imperatore spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole”.

Le furibonde reazioni (in particolare nel mondo arabo e nelle sue televisioni) sottolinearono che questo passo significava una intollera-bile critica all’Islam e un’offesa per la sensibilità dei credenti musul-mani. Benedetto XVI negava in modo assoluto (ed ufficialmente) di aver avuto tale intenzione e si rammaricò delle reazioni suscitate, pre-cisando che si trattava di “una citazione di un testo medievale che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale… Il mio discorso era ed è un invito al dialogo franco e sincero con grande rispetto reciproco”.

Ai fini della nostra carrellata, tuttavia, la reale questione contenu-ta nel discorso di Ratisbona non sta nell’enfatizzare quella citazione espungendola dal contesto complessivo dello stesso discorso, come fecero allora i media senza percepibili diversità tra alleati e nemici dell’occidente. La questione reale è innanzitutto che la tesi espressa nel complesso del discorso (“non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”) non viene quasi avvertita dimostrandosi non inquadra-bile nelle dinamiche dei media, abituate ai messaggi statici, non razio-cinanti, slogans destinati non a far pensare ma a diffondere conformi-smo. Con il risultato, come scrisse il professor Rusconi sulla Stampa, che, stando alle enfatizzazioni, “d’ora in avanti non ci sarà più spazio per le retoriche del dialogo interreligioso che non entrano a fondo nel merito delle incompatibilità tra le religioni stesse”. Comunque, questo forse corrisponde ancora al pensiero di fondo del Papa (concetto ripre-so anche nell’occasione del libro di Pera). Un altro risultato, di certo non voluto da Benedetto XVI, è che, per usare di nuovo le parole di Rusconi, mentre “un motivo ricorrente di questo Papa è l’invito accorato a non escludere Dio dalla sfera pubblica… L’incidente di Regensburg sta a dimostrare che alla Chiesa non basta avere accesso alla grande sfera pubblica perché sia convincente”. Infine, non va trascurato il significato della tesi in sé di Benedetto XVI sulla ragione, che credo importante ma di cui parlerò nella seconda parte.

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Ebbene, anche l’episodio Ratisbona e i suoi strascichi, finirono per produrre esiti antiseparatisti. Il mese dopo, un ordine del giorno del Senato, se preso sul serio (vale a dire andando al fondo del suo signi-ficat di atto parlamentare, al di là delle sua superficialità), costituisce l’ennesima conferma della propensione dei gruppi politici al confor-mismo concordatario. Il documento – condiviso da tutti i Capigruppo e votato da tutti salvo otto astenuti – mischiò affermazioni di sicuro opportune con considerazioni assai opinabili e con alcune scivolate davvero inaccettabili sotto il profilo dei rapporti Stato religioni. Giu-stissimo ribadire che il Governo “prosegue nell’azione di prevenzione e di tutela a salvaguardia della sicurezza della persona del Pontefice e dei luoghi di culto su tutto il territorio nazionale, nonché a garanzia dell’in-columità dei cittadini”; giustissimo ribadire che il Governo in ambi-to internazionale si rende “promotore di iniziative volte a riaffermare i principi di libertà religiosa e di rispetto dei diritti civili”; giustissimo ribadire che “per libertà religiosa si intende la libertà di praticare la propria fede, di cambiarla o di non averne alcuna”. Poi però è quanto meno assai opinabile “esprimere al Pontefice Benedetto XVI la piena solidarietà dell’Italia dopo gli ingiusti attacchi” sia perché è un pasticcio dare solidarietà su concetti espressi in materia religiosa sia perché si definiscono “ingiusti” dei rilievi critici avanzati in un’ottica religiosa che non dovrebbero interessare il Senato.

Infine ci sono delle pericolose scivolate in almeno tre affermazioni. Mettersi a qualificare come “un’interpretazione politica assolutamente impropria di quel discorso” l’attribuzione al Papa di “intenzioni denigra-torie nei confronti dell’Islam”, già non va bene perché implica entrare nel dibattito religioso; ma soprattutto è grave dire che “la lettura in-tegrale del testo dimostra in modo inequivocabile la sincera premura di Benedetto XVI per il dialogo tra le culture e tra le religioni”. Questo giu-dizio – si è già visto prima – va bene se riferito alle intenzioni del Papa ma non va bene se riferito alle tesi da lui sostenute (non banalmente buoniste) circa il senso del dialogo reciprocamente rispettoso. Secon-do, si sottolinea l’esigenza di opporsi alle “esortazioni alla violenza di esponenti del radicalismo islamico”, ventilando l’idea che il radicalismo appartenga intrinsecamente alla religione dell’islam mentre così non è ed anzi sostenerlo favorisce le stesse esortazioni che si vuol battere. Terzo, si dice che la politica estera, in particolare la cooperazione e le relazioni economiche, dovrebbe affermare “il diritto alla libertà religio-sa e di parola, contro ogni persecuzione, in un’ottica di reciprocità”; ma il concetto di reciprocità è, l’ho già osservato, una tesi abituale dello Stato del Vaticano, però non può essere un criterio dello Stato italiano,

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che, se lo adottasse, subordinerebbe ad una condizione di controparti-ta il sostenere la libertà di religione e di parola.

Per concludere, quello del Senato sulla lezione papale di Ratisbona è nel complesso un documento concepito per essere ossequioso nei confronti dell’istituzione Chiesa cattolica. Fatto tanto più negativo perché in aula diversi intervenuti vollero dare ad esso il senso di un ap-poggio dell’Italia al viaggio di Benedetto XVI in Turchia che si sareb-be svolto poco tempo dopo. Davvero una inaccettabile commistione di ruoli diversi, pensabile solo in un’ottica concordataria, inconcepibile in chiave di separazione tra Stato e religioni.

In quelle settimane aveva poi avuto inizio la tragica vicenda di Piergiorgio Welby, che, al di là dall’aspetto umano, metteva a nudo la diffusa ipocrisia nell’affrontare casi terminali concreti. Welby, malato di distrofia muscolare, chiedeva che gli venisse staccato il respiratore. Scrisse anche al Presidente della Repubblica, il qaule auspicò un con-fronto sereno. La Chiesa affermò che “l’eutanasia è una forma di as-sassinio” ma anche che l’“accanimento terapeutico è inutile e dannoso”. I cattolici politici, di maggioranza e di minoranza, concordavano ma restavano elusivi quanto alla specifica richiesta. Intanto, sul problema delle scuole e delle moschee islamiche continuavano accese scaramuc-ce tra i musulmani e gli ambienti del centro destra che si davano da fare per impedire questa realtà in Italia. Anzi, vi fu una notevole prote-sta quando la commissione Affari costituzionali della Camera convocò anche l’Ucoii tra i vari esponenti musulmani nell’ambito delle consul-tazioni in materia di libertà religiosa (Boato e Spini avevano ripresen-tato nella legislatura l’annoso progetto di legge “Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi” di cui si andava discutendo da un decennio). Soprattutto AN e la Lega Nord intendevano evitare il riconoscimento giuridico delle organizzazioni musulmane. Il Ministro dell’Interno continuava a lavorare sulla Con-sulta per l’Islam italiano e, per elaborare una “Carta dei Valori della cittadinanza e dell’Integrazione”, nominò un Comitato Scientifico di cinque esperti delle Università di Torino, di Trieste, di Roma 3, della Gregoriana e del Pontificio Istituto di Studi Islamistici; come si vede una composizione consociativa dal punto di vista religioso.

Poi si tenne, nella seconda metà di ottobre 2006, il 4° Convegno Ec-clesiale di Verona, con 2700 partecipanti e 30 gruppi di studio, aperto dal cardinale Tettamanzi. Che, fra l’altro, perorò un maggiore ruolo del laicato, fornendo il dato di 31.474 sacerdoti operanti in Italia, fra i quali circa 1500 stranieri, più che dimezzato nell’ultimo secolo a fron-te di una popolazione quasi raddoppiata (del resto si può aggiungere

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che, in Europa, negli ultimi trenta anni i cattolici sono calati del 35%, mentre in Africa sono cresciuti molto, seppure meno dei musulmani). Benedetto XVI contestò la “nuova ondata di illuminismo e laicismo” dove “Dio sembra diventato superfluo e lontano”, tornò ad attaccare le leggi che indeboliscono la famiglia e indicò la collaborazione con quei laici che difendono “le radici cristiane della nostra civiltà” specificando che “la Chiesa non è e non intende essere un agente politico ma ha un interesse profondo per il bene della comunità politica”. E terminò ricor-dando che “solo se, come Cristo, non sono del mondo, i cristiani possono essere speranza nel mondo e per il mondo”.

Chiuse i lavori il cardinale Ruini che dedicò particolare attenzione al “risveglio religioso, sociale e politico dell’Islam” del quale il “terrori-smo è un aspetto”. Ammonì che “la verità cristiana ha carattere inclusivo, tende ad unire e non a dividere, è fattore di pace e non di inimicizia e così mostra chiaramente di non essere una ideologia”. E precisò che l’attacco alla morale cristiana in corso ha tra i suoi fattori “l’affermarsi di un erotismo sempre più pervasivo e diffuso, così come la ricerca del successo individuale ad ogni costo, sulla base di una concezione della vita dove il valore prevalente sembra essere la soddisfazione del desiderio, che diventa anche la misura e il criterio della nostra personale libertà”. E nel finale, fece un ragionamento rilevante ai fini del presente libro. Specificò che la comunità religiosa consente ai “fratelli nella fede collocati in forma-zioni politiche diverse, di aiutarsi reciprocamente ad operare in maniera coerente con i comuni valori a cui aderiscono. È diffusa l’impressione che questo obiettivo sia stato mancato in larga misura nel decennio scorso, anche se una valutazione più attenta potrebbe suggerire che esso ha avuto pure delle realizzazioni non piccole, principalmente, ma non esclusiva-mente, in occasione della legge sulla procreazione assistita e del successivo referendum. Per fare meglio in futuro può essere utile tener accuratamente presente la differenza tra il discernimento rivolto direttamente all’azione politica o invece all’elaborazione culturale e alla formazione delle coscien-ze: di quest’ultimo infatti, piuttosto che dell’altro, la comunità cristiana come tale può essere la sede propria e più conveniente, mentre partecipan-do da protagonisti a un tale discernimento culturale e formativo i cristiani impegnati in politica potranno aiutare le nostre comunità a diventare più consapevoli della realtà concreta in cui vivono e al contempo ricevere da esse quel nutrimento di cui hanno bisogno e diritto”.

Di queste posizioni ecclesiali, seppur rilevanti nei contenuti, il di-battito politico non si interessava. Non per un improvviso amore per la distinzione separatista tra politica e religione bensì per la semplici-stica attitudine ad occuparsi solo delle convenienze elettorali o delle

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dispute partitiche, dalle vicende della finanziaria del governo Prodi alla grande manifestazione che Berlusconi indisse contro di essa ra-dunando a Roma più di un un milione di persone. Manifestazione che tra l’altro rappresentò l’inizio del processo di unificazione tra Forza Italia e AN con la separazione della UDC, che non vi prese parte, manifestando separatamente a Palermo sullo stesso argomento. La conseguenza più immediata fu che il Governo, pressato dai propri te-odem, preferì cancellare dalla finanziaria l’emendamento tendente, in materia di successioni, ad equiparare i diritti delle coppie di fatto a quelli delle famiglie. E rinviare l’intera questione delle coppie di fatto, che rientrava nei patti di governo, ad una serie di approfondimenti tra laici e cattolici all’interno dei DS e della Margherita. Sulla scena pub-blica, la gerarchia accusava apertamente che in giro c’era di volontà di sradicare la famiglia dall’Italia.

Intanto le settimane passavano e sul caso di Piergiorgio Welby non veniva assunta in via formale alcuna decisione. Il filosofo Seve-rino osservò che “se la classe politica chiamata a decidere è legata alla Chiesa al punto da non riuscire a prendere una decisione, è finito tutto. Anche l’autonomia dello Stato, riconosciuta dalla stessa Chiesa”. L’au-tore di questo libro fece un commento che si riporta: “Alla tragedia umana di Pier Giorgio Welby si deve dare una risposta liberale. Quella che percorre il sentiero della libertà individuale tracciato dalla respon-sabilità di ciascuno e che non la strumentalizza fuggendo lungo la china dell’affidarsi alle responsabilità altrui. A Welby resta solo la capacità di pensare e di esprimersi, non quella di compiere azioni materiali che attu-ino le sue scelte essenziali. Come quella di por termine all’accanimento terapeutico che lo tiene in vita causandogli solo inutili sofferenze in os-sequio all’egoismo conformista di malintesi precetti religiosi. Dunque, un minimo rispetto della volontà della persona Welby impone che chi può fisicamente compiere tale azione da lui voluta, la compia. Se non possono farlo in pratica tutti quelli che vorrebbero, poiché per la sua stessa malat-tia Welby è confinato in una struttura protetta, potrebbe però farlo chi ha professionalmente accesso alla struttura. E potrebbe farlo il magistrato chiarendo che l’accanimento terapeutico dà una vita senza la qualità della vita e quindi va interrotto, specie quando lo chiede la persona interessata. Compiere questa azione è un atto di responsabilità connaturato all’essen-za di cittadino libero. È un atto che si nutre della coerenza della libertà. Non dello scandalo. Non del clamore. Non del fuggire nello strumenta-lismo ambiguo e corrivo di chiedere e di aspettare che la legge, in quanto espressione della collettività, si assuma il diritto di concedere al cittadino la libertà di lasciare che il suo corpo muoia. Libertà di vivere, libertà di

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morire, sono diritti della natura umana che una legge civile non concede ma si limita a riconoscere”.

Purtroppo questa tendenza a chiedere, nei casi più spinosi, l’in-tervento della legge era, e sarà, un tendenza di molti (dai radicali ai DS e poi al PD) talvolta del tutto autolesionista, come vedremo sul testamento biologico. Alla fine, due settimane dopo, nei giorni pri-ma Natale, mentre gli oltranzisti cattolici lo accusavano di omicidio, un medico anestesista di Cremona, Mario Riccio, staccò il ventilato-re polmonare a Welby come richiesto. E l’attitudine al conformismo della confusione proseguì con le critiche alla Chiesa per aver negato i funerali religiosi (nonostante fosse cosa coerente con i suoi indirizzi). Il dottor Riccio venne accusato appunto di omicidio dalla Procura di Roma, non si scompose ed otto mesi dopo venne prosciolto dal Giu-dice dell’Udienza Preliminare, perché il fatto non costituisce reato ai sensi dell’articolo 51 del codice penale sull’adempimento di un dovere. Come si vede, la legge specifica non era indispensabile.

Sempre nei giorni di Natale 2006, vi furono altri episodi di volontà di ossequio al conformismo confessionale. L’UDC propose di inserire in ogni Statuto regionale il riferimento alle radici cristiane. E il Sinda-co di Roma Veltroni, in periodo di sciopero dei giornalisti, compì un battesimo furtivo. Ribattezzò la stazione Termini della Capitale con il nome di Giovanni Paolo II. Quando aveva lanciato l’idea diciotto mesi prima, aveva già suscitato le proteste fatte da migliaia di cittadini e cen-tinaia di associazioni italiane ed estere. Ora non aveva detto niente alla Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni che lui stesso aveva costituito in precedenza. Insomma agiva furtivamente con un atteg-giamento ossequioso estraneo alle sue competenze istituzionali. Subito dopo Capodanno, il Ministro dell’Interno Amato proseguì la sua linea di attenzione al fenomeno musulmano con piglio più sociologico che politico. Annunciò che avrebbe indagato sugli standard dei luoghi di preghiera e di acculturamento dei musulmani italiani, cercando anche di capire la provenienza dei finanziamenti. Di tale annuncio non venne colta la singolarità (un Ministro dell’Interno questi dati avrebbe dovu-to averli da tempo), mentre venne interpretato come un atto di forza, sia dall’intero arco parlamentare sia dalla Ucoii, che minacciò il ritiro dalla Consulta per l’Islam italiano. Insieme continuava la campagna del vice-direttore del Corriere della Sera, Allam, contro aspetti del-la presenza dei musulmani, vuoi per le inclinazioni alla predicazione terroristica sia per la pratica di fatto della poligamia (in consonanza obiettiva con alcune tesi della Chiesa sulla famiglia come specifico fon-damento del tessuto sociale).

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Il problema reale consisteva però nel fatto che, mentre appare in-discutibile il diritto della Chiesa di sostenere le proprie convinzioni religiose (ad esempio, la contrarietà all’eutanasia, alle coppie di fatto o la ripetuta perplessità sui matrimoni tra cattolici e musulmani), invece sarebbe indispensabile che non solo il mondo laico e separatista ma an-che solo chi ha un normale senso dello Stato, respingesse l’applicabilità sul territorio italiano di quanto sosteneva la CEI tramite il suo segreta-rio monsignor Betori: “la eguale libertà di ogni confessione religiosa non implica una piena uguaglianza” (per lo stesso motivo, qualche settimana dopo, il cardinale Poupard, presidente del Consiglio pontificio per la cultura ed il dialogo interreligioso, si oppose all’idea di aprire spazi negli aereoporti destinati alla preghiera dei mussulmani negli aeropor-ti). Invece non successe praticamente nulla, salvo da parte di esponenti di altri credi religiosi. In pratica, aumentavano le problematiche della convivenza religiosa. In alcune zone del paese, perfino in modo un tantino preoccupante, come la negazione di permessi edilizi per co-struire moschee oppure cimiteri musulmani.

Di fronte a questo stato di cose, è controproducente scandalizzarsi e dire che in nessun altro paese l’agenda dei problemi e le prescrizioni risolutive sono in mano alla struttura ecclesiastica cattolica. L’impor-tante sarebbe fare del principio di separazione tra Stato e religioni il fulcro di una politica. Non facendo questa scelta, la politica è sem-pre sottoposta all’offensiva, di per sé legittima, della Chiesa. Anche su materie molto particolari, come le critiche di Benedetto XVI alla convenzione dell’Onu sui diritti dei disabili perché esplicitamente tesa all’evitare la nascita di bambini malformati, cosa ritenuta equivalente ad una ricerca innaturale del figlio perfetto. Figuriamoci su problemi di impatto più ampio come la questione delle unioni di fatto.

Su pressione delle componenti non appartenenti al mondo catto-lico, la maggioranza di centro sinistra, eccetto l’Udeur e i teodem, fu indotta a votare a fine gennaio 2007 una mozione che, richiamato il programma elettorale dell’Unione (che l’anno prima aveva fatto stor-cere il naso alla sinistra comunista e alla Rosa nel Pugno perché diceva solo “L’Unione proporrà il riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto”) impegnava il Governo a presentare un disegno di legge su quel tema entro il 15 febbraio, “al fine di definire natura e qualità di un’unione di fatto, non è dirimente il genere dei conviventi, né il loro orientamento sessuale. Va considerato piuttosto, quale criterio qualificante, il sistema di relazioni (sentimentali, assistenziali e di solidarietà), la loro stabilità e volontarietà ». Il Governo fece la sua parte. L’otto febbraio presentò al Senato un

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237Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

progetto di legge redatto dai Ministri Bindi e Pollastrini per intro-durre i DICO (Diritti e doveri delle persone stabilmente Conviventi) riferiti a “due persone maggiorenni, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e si prestano as-sistenza e solidarietà materiale e morale, non legate da vincoli di ma-trimonio, parentela, affinità, adozione, affiliazione, tutela”. Occorreva essere iscritti nei registri anagrafici del comune con una dichiarazione contestuale, e ne conseguivano alcuni legami, i diritti e le tutele del lavoro dopo 3 anni di convivenza e i diritti di successione dopo 9 anni. Il mondo ufficiale della Chiesa si mobilitò apertamente e decisamente contro un simile progetto, ottenendo l’aperto plauso del centro destra, dell’Udeur (che dichiarò subito che si sarebbe astenuta) e in sostanza dei teodem che annunciarono emendamenti limitativi.

Un editoriale del quotidiano della CEI, l’Avvenire, scrisse che sulle unioni di fatto si stava formando uno spartiacque destinato a pesare sul futuro della politica italiana. E per l’occasione riesumò la formula del “non possumus” con cui quasi un secolo e mezzo prima il cardinale Antonelli, segretario di Stato di Pio IX, aveva bollato la riunificazione dell’Italia, considerandola una usurpazione. In coerenza, il moderno Cardinale Poletto dichiarò che “Satana è in azione per indurre al peccato anche con progetti di scassinamento della famiglia e della società”. E Be-nedetto XVI mise il sigillo affermando che riconoscere le unioni di fat-to avrebbe trasformato “interessi privati in diritti” quando la famiglia “si fonda sull’ordinamento divino”. Le reazioni del mondo laico furono purtroppo ancora una volta fuori bersaglio e quindi insufficienti. Con-testarono alla Chiesa la violazione dell’articolo 7 della Costituzione che stabilisce la reciproca “indipendenza e sovranità”. Il che è restare alle vecchie parole d’ordine senza intendere che la Chiesa esercita il suo magistero spirituale e che gli equivoci sorgono proprio da chi, non appartenendo alla gerarchia, vuol restare ai criteri concordatari difen-dendo essenzialmente i privilegi che lui stesso ne trae. Nella logica separatista, sparirebbe la propensione ossequiosa (talvolta addirittu-ra servile) e le leggi si modellerebbero sulla base delle necessità della convivenza civile, non su quello che dice la fede (ed è della fede che la Chiesa parla).

Non per caso questo mondo pseudo-laico (non si è laici senza com-portamenti conseguenti) stava vigile, nel profondo rimanendo estraneo alla fuoriuscita della religione dalla politica, quasi vibrando nell’atte-sa di quale sarebbe stato il comportamento dei cattolici democratici. E cercava di ingraziarseli. Anche perché loro, i cattolici democratici (come Alberigo, La Valle, Scoppola), facevano la loro parte chiedendo

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alla Chiesa di non premere sui parlamentari. Ma ne ottenevano una risposta sprezzante “la Chiesa ha il dovere di parlare, i credenti sono chiamati a testimoniare”. Perché il problema non è il respingere for-malmente i richiami all’ordine da parte della gerarchia, il problema è disconoscere la possibilità stessa di fare leggi in base alla fede religiosa, quel disconoscere che è il nocciolo del principio di separazione. L’im-postazione di larga parte del mondo laico aveva questo grave punto de-bole, che non battagliava in proprio per le idee della convivenza aperta e si aspettava che battagliassero i cattolici democratici all’interno della logica concordataria. Sappiamo tutti come è andata a finire, nonostan-te qualche manifestazione ritualmente laica. In quella XV legislatura non ci fu nessuna legge sulle unioni di fatto.

Sulla questione di principio tornerò più approfonditamente nelle altre parti del libro. Qui, mi limito ad aggiungere che il fulcro della questione è il comportamento di tutti coloro che, credenti e non cre-denti, intendono preservare la laicità delle istituzioni. E che non de-vono cedere, per disattenzione, alle interpretazioni (spesso infondate) che vengono sparse a piene mani da parte del mondo politico cattolico. In quel momento, ad esempio, la Chiesa a tutti i livelli (inclusa la di-stribuzione di una lettera da parte dei parroci) batteva molto sul dire che la sola famiglia è quella prevista nell’articolo 29 della Costituzione come società naturale fondata sul matrimonio dell’uomo e della don-na. Già questa è un impostazione giuridicamente infondata. Ma solle-varono il problema solo un convegno a tema organizzato dalla rivista Critica Liberale e poi un documento della Federazione dei Liberali che ne fece un suo pilastro affermando “l’articolo 29, primo comma, della Costituzione non può essere usato per porre limiti al riconoscimento giuri-dico delle famiglie non tradizionali o non fondate sul matrimonio (al pari di quanto avvenuto in quasi tutti gli altri paesi dell’Europa Occidentale).”

Emblematicamente le rotture nella maggioranza ci furono, ma non sul tema religioso. Furono sì su un tema molto importante, come quel-lo della politica estera (la relazione del Ministro degli Esteri D’Alema venne bocciata in aula 160 a 158, perché, del centro sinistra, non la votarono due senatori a vita, Andreotti e Cossiga, e due pacifisti comu-nisti, Franco Turigliatto e Fernando Rossi). Ma quando Prodi, dimis-sionario, fu rinviato alle Camere, egli pose all’Unione 12 condizioni irrinunciabili tra cui menzionava le politiche per la famiglia ma non i Dico da lui stesso presentati appena poche settimane prima e nep-pure la dizione del programma elettorale. Inoltre a marzo il Ministro dell’Istruzione Fioroni, riferendosi allo scrutinio finale in vista degli esami di maturità, attribuiva valore alla scelta dell’ora di religione.

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239Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

Nel frattempo continuavano i lavori del Governo nell’ottica non se-paratista. Il 4 aprile 2007, vennero firmate sia due particolari variazioni alle precedenti Intese con valdesi e avventisti e ben sei nuove Intese rispettivamente con la Chiesa Apostolica in Italia, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni (mormoni), i Testimoni di Geova, la Sacra Arcidiocesi d’Italia greco ortodossa, l’Unione Buddista e l’Unio-ne Induista. Tutte le sei Intese allora firmate sono, dopo tre anni, anco-ra non approvate per legge; solo a maggio 2010 il Consiglio dei Ministri ha varato i disegni di legge attuativi. E poche settimane dopo quelle Intese, nella riunione della Consulta per l’Islam italiano, il Ministro Amato approvò ed istituì con decreto la Carta dei Valori predisposta dai cinque esperti nominati il precedente ottobre e presieduti da un docente di Diritto Ecclesiastico, Cardia, molto legato agli ambienti cattolici, già sperimentato nelle vicende del Concordato 1984, della sua attuazione e delle intese successive. Questa Carta (che si trova in Documenti, lettera i) è una elaborazione di tipo notarile conciliatorio delle varie posizioni in materia religiosa presenti nel confronto poli-tico. Appare chiaro il suo essere sbilanciata nel senso delle posizioni della Chiesa, del mondo cattolico, del governo nel dibattito sulle radici cristiane e per di più essenzialmente contraddittoria, quando fa gran-de professione di laicità e insieme reintroduce il concetto di specifica tradizione religiosa italiana (che era la tesi del Concordato del 1929).

La maggior preoccupazione del mondo cattolico restava comunque la questione della famiglia. Il 12 maggio 2007, dopo una preparazio-ne accurata di due mesi cui presero parte poco meno di cinquanta associazioni nazionali del mondo cattolico, si tenne un grande conve-gno, il Family Day. Questo convegno imperniato su un Manifesto per la Famiglia appoggiato in punto di dottrina dai vertici vaticani (che esprimevano concetti molto duri contro le unioni di fatto e contro le pratiche assimilabili, a loro dire, come incesto e pedofilia), sospinto dalla rete parrocchiale, radunò a Roma una folla straripante con par-tecipazioni di tanti esponenti di spicco del centro destra e del centro sinistra. Con l’accortezza abituale la Chiesa esibiva i suoi principi e valori non preoccupandosi che per far ciò il Family Day veniva con-cepito dal mondo conservatore per riaffermare la supremazia di un modello unico di vita imposto ai singoli cittadini dalla comunità. Era su questa supremazia e per niente sulla famiglia, la contrapposizione reale tra il Family Day e la manifestazione del Coraggio Laico che si tenne lo stesso pomeriggio, affollata di molte migliaia di persone ma quantitativamente non comparabile con l’altra. Il Coraggio Laico era concepito come celebrazione di un evento storico (il referendum sul

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divorzio del 13 maggio 1974) che aveva segnato l’avvio del processo di riscoperta della responsabilità individuale, poi frenato ma non per questo meno necessario. Ai ritrosi che lamentavano come il clima della manifestazione Coraggio Laico tendesse ad essere troppo antivaticano, i liberali replicavano che a maggior ragione occorreva esser presenti per denunciare un antivaticanismo che è solo autolesionismo. Perché l’avversario civile non è la Chiesa che predica, ma quei cittadini, specie politici, che cercano il consenso al prezzo di rinunciare alla laicità.

A fine maggio, vi fu un nuovo intervento del Tar Lazio che sospe-se l’ordinanza del ministro Fioroni che attribuiva valore negli scrutini alla scelta dell’ora di religione. Ma i politici di governo mantenevano lo spirito ossequioso alla gerarchia. Sul tema famiglia, Salvi, ex PD dive-nuto in quelle settimane Capogruppo di Sinistra Democratica, avendo fiutato l’aria della voglia di compromesso con il mondo cattolico, pro-pose di abbandonare la strada dei Dico (che implicava un riconosci-mento di diritto pubblico) per passere ad un istituto di diritto privato, i Contratti di Unione Solidale, i CUS, cioè accordi di fronte al giudice di pace o ad un notaio, quindi resi pubblici e con effetti non lontani a quelli dei Dico. Ora, pochi mesi prima il Consiglio dei Ministri aveva proposto i Dico in applicazione del programma elettorale, e quindi era normale pensare che i Cus fossero già una accettabile riduzione per consentire un qualche riconoscimento della realtà dei rapporti di coppia. Ebbene così non fu. Anche la discussione sui Cus si trascinò per mesi approdando nella legislatura solo all’approvazione in Com-missione del Senato. In compenso, c’è un episodio assai significativo che rivela il senso profondo di come i politici cattolici democratici e adulti intendono davvero il rapporto con la gerarchia. Ai primi di ago-sto, il Presidente del Consiglio, Prodi, dichiarava a Famiglia Cristiana: “Un terzo degli italiani evade. È inammissibile. Per cambiare mentalità occorre che tutti, a partire dagli educatori, facciano la loro parte, scuola e Chiesa comprese. Perché, quando vado a Messa, questo tema non è quasi mai toccato nelle omelie? Eppure ha una forte carica etica”.

Questa dichiarazione, che provocò contrapposti scandali presso i confessionali scodinzolanti e presso la sinistra anticlericale, fotografa in modo nitido la differenza fra la concezione pubblica di una mentali-tà di potere e quella propria di una convivenza civile liberale. La con-cezione pubblica di una mentalità di potere, pur mossa dalle migliori intenzioni, finisce per considerare le tasse un obbligo etico. E si preoc-cupa di farlo rispettare con la pressione psicologica, anche ossessiva, per imporre un comportamento conformistico. La storia dice che, più ci si affida alla forza, più ci si espone ai sotterfugi e poi al rischio delle

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241Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

rivolte fiscali. La convivenza civile liberale ritiene le imposte un tassel-lo dello stretto legame di rappresentanza tra stato e cittadino, su cui converge l’interesse di rendere possibili, finanziandoli, gli strumenti regolatori della libera convivenza. La storia dice che lo stato libera-le adotta meccanismi normativi pubblici capaci di spingere meglio ai comportamenti finanziari desiderati per la loro semplice evidenza e per la loro equità percepita. Nella fattispecie, la mentalità modellata sul potere, pur di irrobustire la propria propaganda, giunge a violare uno dei capisaldi dello stato liberale, quello della laicità delle istituzio-ni. E pretende di dettare alla Chiesa quali omelie la Chiesa dovrebbe fare. Ma, non si dirà mai abbastanza, in uno Stato liberaldemocratico il modo d’essere religioso della Chiesa è una sua libera determinazione. E, in ogni caso, la missione della Chiesa attiene alla cura delle anime, non ai modi dell’organizzazione dello stato (fisco incluso).

Era insomma completamente prevalente la logica concordataria e, al suo interno, la capacità di iniziativa della Chiesa. La quale, con il nuovo Segretario di Stato, Bertone, in carica da circa un anno e mezzo, era addivenuta a nominare il successore del Cardinale Ruini alla Presi-denza della CEI nella persona del Cardinale Bagnasco. E poco dopo si dava una nuova organizzazione riportando nell’ambito della Segreteria di Stato valutazioni e giudizi sul governo italiano. Insieme si sforzava di coprire ogni terreno. Su quello europeo continuava a fare pressio-ni sulla questione delle radici, anche se i desiderata del Vaticano non parevano trovare spazio nell’ambito della Dichiarazione solenne adot-tata a Berlino il 25 marzo 2007, in occasione del 50° anniversario dei Trattati di Roma, con cui era stato deciso un nuovo slancio al progetto d’integrazione europea per completare il processo di riforma entro il 2009. Il Vaticano da parte sua reagiva con puntiglio.

Il Cardinale Ruini ipotizzava apertamente la riscrittura della leg-ge sull’aborto. Il Segretario di Stato Bertone denunciava il sospetto di un disegno preciso contro la Chiesa. Non solo su contraccettivi e sull’aborto. Ma anche sull’ICI, visto che l’Europa chiedeva al gover-no chiarimenti a proposito delle esenzioni fiscali concesse alle attività della Chiesa. Tra l’altro era una richiesta giustificata quella europea, a riprova che quel mondo sapeva esercitare i criteri della laicità senza le ipocrisie italiane. Infatti pochi mesi prima il Decreto Legge n.223/06, noto come Bersani-Visco, aveva reso applicabile la preesistente esen-zione dall’ICI anche alle “attività che non abbiano natura esclusivamen-te commerciale”. In pratica l’agevolazione era estesa alle attività di tipo commerciale svolte da enti non commerciali. Sembrava fatta apposta per la Chiesa detentrice di un enorme patrimonio immobiliare. Di fat-

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to, però, appariva in contrasto con le norme europee, dato che avvan-taggiava fiscalmente chi svolgeva attività di impresa – che è ormai il mezzo preferito per svolgere attività assistenziali di ogni tipo – anche utilizzando non esclusivamente a fini religiosi l’immobile sede dell’at-tività; mentre ne erano esclusi gli altri soggetti non religiosi esercitanti un’impresa. Il che rientra appunto nei vietati aiuti di stato.

La logica concordataria era poi messa in ulteriore difficoltà dallo svolgersi degli avvenimenti e dal fatto che nel centro sinistra veniva in-terpretava sempre più come uno strumento elettorale di rapporto con gli elettori cattolici. Sul piano degli avvenimenti, vi era innanzitutto il problema della crescente tendenza all’islamofobia. Almeno in ambito culturale stava emergendo con evidenza e toccava la quotidianità in molti comuni del nord sul tema delle moschee (con le passeggiate della Lega Nord tenendo al guinzaglio i maiali per contaminare i terreni previsti per la costruzione) e delle scuole coraniche, anche in città ros-se classiche come Bologna. Arrivava perfino a suscitare polemiche tra ministri di primo piano sul permettere o no il burqa. Il tutto senza che il problema fosse oggetto di un approfondito confronto politico reale. Sul piano più dei partiti, nel Partito Democratico a fine ottobre 2007 l’elezione a segretario di Veltroni prescisse dal dibattito su obiettivi e programmi di tipo politico salvo quello di conquistare il potere. Em-blema di ciò fu l’immagine di Veltroni che chiude i lavori della grande assemblea estraendo di tasca una paginetta con i nomi dei neodirigenti centrali e regionali designati senza aver coinvolto prima nessuno. Non male come esempio partecipativo in una formazione politica che del-la partecipazione parla di continuo. Questa fuga dai problemi delle scelte politiche acuiva le tensioni di governo che nell’estate avevano già indotto De Mita a dire che al decesso del governo mancava solo la certificazione. Ora lo scrivevano anche i giornali della sinistra non PD che elencavano le inadempienze del governo su tutta la linea. In più, vi erano i dissensi montanti sulla finanziaria in corso, che divennero espliciti con la richiesta dei sen. Dini e D’Amico di metter la fiducia sul testo concordato. E infine arrivò l’intervista in cui il presidente della Camera, Bertinotti, misurò il fallimento dell’Unione con la distanza dal popolo di sinistra.

Mentre sul governo si addensava la burrasca, dai vertici della Ma-gistratura venne ancor una volta il richiamo ai concetti del principio di separazione. Di fatti la Cassazione stabilì che la famiglia di Eluana Englaro, giovane donna in coma da 15 anni, aveva titolo per chiedere l’interruzione dell’alimentazione artificiale. Le reazioni furono quelle prevedibili. Il centro destra gridò allo scandalo e la Chiesa ne trasse

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243Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

spunto per ribadire la necessità di leggi coerenti con il sentire della coscienza religiosa. Il Direttore de Il Foglio colse il momento per lan-ciare la proposta di una moratoria sull’aborto e la CEI la giudicò utile per “risvegliare la coscienza di tutti su un fatto che inevitabilmente è la soppressione di un essere umano”. Il confessionalismo di centro destra scattò con la proposta di aggiornare la legge 194. Peraltro, al di là di esibiti atteggiamenti tendenti all’oltranzismo, sul piano strettamente legislativo le impostazioni confessionali non progredivano ulterior-mente. Né in Europa né in Italia.

In Europa, dopo le bocciature della Costituzione nei referendum francese e olandese nella primavera 2005, il lavorio della diplomazia aveva progressivamente portato all’accordo di ridurre la Costituzione ai principi fondamentali in un Trattato di riforma, decidendo poi, al Consiglio Europeo di fine giugno 2007, di convocare una nuova Con-ferenza Intergovernativa con indicazioni dettagliate di come chiudere il testo definitivo del Trattato. Per questa via si arrivò a modifiche ai due trattati in vigore – il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea – che toglievano il valore costi-tuzionale del Trattato del 2004 ma ne conservavano in sostanza le isti-tuzioni previste. L’intera nuova formulazione venne firmata a Lisbona il 13 dicembre 2007 e non prevedeva ampliamenti, in materia di rap-porti tra l’Unione Europea e le religioni, della Costituzione del 2004, che, come si ricorda, non aveva riferimenti alle radici giudaico cristia-ne (il testo del Trattato di Lisbona in Documenti, lettera l). Il Trattato di Lisbona ha molti accorgimenti di limitazioni terminologiche e visive (non vengono usate le parole Costituzione e Legge, non ci sono più i simboli dell’Unione Europea salvo l’Euro né la statuizione della pre-valenza del diritto comunitario né il Ministro degli Affari Esteri né la Carta dei Diritti Fondamentali) ma poi vi è una dichiarazione di 16 paesi che afferma il valore di usare i simboli dell’Unione Europea, un’altra che riconosce tale primato come un principio fondamentale consolidato nella giurisprudenza della Corte di giustizia, una norma che attribuisce lo stesso valore giuridico alla Carta dei Diritti Fonda-mentali e infine è previsto un Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la politica di Sicurezza. A questo punto iniziava di nuo-vo il processo di approvazione dei singoli stati che avrebbe dovuto concludersi entro il 31 dicembre precedente le nuove elezioni europee del 2009. Ma senza il riferimento alle radici giudaico cristiane.

A fine novembre 2007, Benedetto XVI emanò la sua seconda en-ciclica, Spe Salvi, un’enciclica che in chiave teologica, argomentando contro il materialismo, specifica il senso cristiano della speranza. Che

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sarebbe una necessità, per poter rispondere al bisogno di progresso di tutti, non solo degli individui, che può essere trovato solo nella veri-tà di Dio. La speranza cristiana è ritenuta l’unico modo di sopperire alla incapacità di svolgere un simile compito dimostrata da ragione e libertà, che danno un contributo molto importante ma limitato ai loro ambiti. Spe salvi è una enciclica che ancora una volta chiarisce il significato profondo di cosa intenda essere la Chiesa nei rapporti con il mondo terreno e la società, che essa segue con grande attenzione. Vi tornerò nella seconda parte.

In Italia, le tematiche care alla Chiesa erano all’ordine del giorno ma latitavano i fatti legislativi conseguenti, appunto perché l’impor-tante era farsi vedere disponibili. Era un costume bipartisan. Dal PD, l’accoppiata Veltroni-Franceschini era disposta a sposare le cause di moda –  e infatti sostenevano anche l’elezione diretta del Presidente della Repubblica oppure del Presidente del Consiglio come se fossero la stessa cosa e senza soppesare le conseguenze – per cui manifesta-vano al Direttore del Foglio la disponibilità a discutere dell’aborto. Naturalmente nel centro destra sgomitavano per non restare indietro. Così, mentre tra gli italiani continuavano a crescere i comportamenti laici, i “grossi”, PD e FI, blandivano chi impugna la fede in politica, agevolando il clima svuotato di idee e conformista.

In tema di rapporti Stato religioni avvenne un episodio emblema-tico che coinvolse le autorità de l’Università La Sapienza di Roma. Pri-ma, per fregiarsi di conformismo all’inaugurazione dell’anno accade-mico, fecero al Papa un invito del tutto fuori luogo perché in contrasto col tema della inaugurazione (contro la pena di morte, che il Vaticano non esclude) e non attinente un dibattito religioso; poi, incapaci di ga-rantire all’ospite quella tribuna che gli avevano offerto (ma sarà colpa o dolo?), lo hanno trasformato in martire cui si è impedito di parlare (Comunione e Liberazione chiese libertà per il Papa). Insomma, un doppio sfregio ai laici perpetrato da una mentalità confessionale ina-datta a governare la convivenza. Non a caso si creavano spazio per le richieste di norme che rispettassero la dottrina della Chiesa. E infatti la CEI insisteva in televisione per rivedere la legge sull’aborto mentre i medici cattolici reclamavano cure intensive per rianimare i feti con meno di 24 settimane. Analoghi tira e molla avvenivano anche su altri temi come la questione della costruzione di moschee nelle città italia-ne. La cosa veniva lasciata naturalmente alla competenza municipale per quanto concerneva l’urbanistica ma non era previsto un indirizzo di libertà nella costruzione condizionata al finanziamento solo da par-te privata. Per contro prendeva corpo l’erosione della legge 40 sulla

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fecondazione assistita da parte dei TAR di varie regioni, che riteneva-no viziate da eccesso di potere le norme di divieto della diagnosi pre impianto.

A riprova di quanto sarebbe essenziale il valore della laicità, va se-gnalato il dissapore di quel periodo tra il Vaticano e il mondo rabbi-nico a proposito della preghiera cattolica del venerdì santo. Il Papa, per non offendere la sensibilità ebraica, modificò la preghiera che il popolo ebraico si convertisse al cristianesimo e decise che l’Oremus et pro iudeis della liturgia del Venerdì Santo venisse così sostituita: “Preghiamo anche per gli ebrei, affinché Dio Nostro Signore illumini il loro cuore, affinché riconoscano Gesù Cristo, salvatore di tutti gli uomini. Preghiamo”. L’assemblea Rabbinica Italiana replicò che “all’espressio-ne del vecchio rito (“accecamento degli ebrei”) se ne sostituisce un’altra (“affinché Dio li illumini”) concettualmente equivalente… ma si introdu-ce un invito ai fedeli a pregare affinché gli ebrei finalmente riconoscano “Gesù Cristo Salvatore”… L’adozione di tale formula liturgica è in netta e pericolosa contraddizione con almeno quarant’anni di dialogo ebraico-cattolico, spesso difficile e sofferto… perché si legittima un’idea di dialogo finalizzato alla conversione degli ebrei al Cattolicesimo, cosa che è ovvia-mente per noi inaccettabile”. Polacco, liberale ed israelita, commentò “anche da questa vicenda riemerge l’importanza della salvaguardia della società laica. Perché solo questa forma di convivenza garantisce a ciascu-no, credente nella varie forme o non credente, di vivere la propria vita nel reciproco totale rispetto”.

Nel campo della politica dei partiti, arrivò la tempesta annunciata sul governo. L’occasione fu l’intervento della magistratura campana con 23 ordini di custodia contro esponenti dell’Udeur accusandoli di favoritismi nella gestione pubblica. Tra i provvedimenti ci fu l’arresto ai domiciliari della Presidente della Regione Campania, che era anche moglie del Ministro della Giustizia, e l’indagine a piede libero sullo stesso Ministro Mastella. A parte il senso del provvedimento (la già molto discutibile limitazione della libertà di movimento del Presidente di un Consiglio Regionale, che nel tempo è poi divenuta uno scandalo protrattosi per oltre due anni, senza neppure il rinvio a giudizio) e a parte le circostanze del provvedimento (il Ministro nei mesi preceden-ti si era apertamente impegnato per una norma molto limitativa sulle intercettazioni e per mettere vincoli allo strapotere dei PM), l’on. Ma-stella si dimise in aula alla Camera, tolse la fiducia al governo e lasciò la maggioranza. Il Presidente Prodi sembrava incredulo che ancora una volta la sua vittoria elettorale gli avesse consentito di governare solo un numero ridotto di mesi. Dieci anni prima aveva governato trenta mesi,

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questa volta ventidue. Sperimentalmente era chiaro che non funzio-nava la sua formula di assemblare molte forze politiche senza un reale programma politico in positivo, cioè limitato e condiviso. Il secondo governo Prodi cadde in Senato il 24 gennaio 2008 e nel giro di tre set-timane si formarono gli schieramenti per le elezioni anticipate.

Veltroni decise di portare il PD da solo alle elezioni, non per pun-tare ad un preciso programma alternativo al centro destra, bensì per puntare ad un sostanziale bipartitismo con un PD stretto intorno alla prospettiva di una vocazione maggioritaria ma indefinita. L’UDC di Pier Ferdinando Casini si staccava dal centro destra accogliendo nelle proprie liste il nuovo gruppo cattolico centrista della Rosa Bianca (Ta-bacci, Pezzotta). Berlusconi era il candidato della lista del Popolo della Libertà, che oltre gli ex-Forza Italia ed ex-AN, comprendeva la Nuova Dc di Rotondi, i Liberaldemocratici di Dini, l’Udeur di Mastella, i Po-polari Liberali di Giovanardi. Alleati per la candidatura Berlusconi la Lega Nord e il Movimento per l’Autonomia Sud di Lombardo. L’Italia dei Valori fu l’unico alleato del PD sulla candidatura Veltroni, i radi-cali entrarono nelle liste PD. Andarono da soli la Sinistra Arcobaleno, che raggruppava varie anime, i socialisti di SD e i liberali con la lista dell’ultima ora tra il Nuovo PLI, che allora si era staccato dal centro destra, e la Federazione dei Liberali.

Andava da sola anche la lista Per la Vita del Foglio imperniata sul-la lotta all’aborto, che intendeva cavalcare la parte più oltranzista del mondo cattolico. Come a Napoli ove la polizia, chiamata da un ano-nimo, fece irruzione in ostetricia per controllare l’aborto di un feto malformato. Questo sembrava un assaggio del clima su cui pareva con-fidare la fazione più esasperata degli atei devoti. Nascondendosi dietro la religione e problemi tormentosi, vorrebbero stabilire per legge un controllo invasivo e diretto dello Stato nella vita delle donne, delle famiglie e dei medici. Questa non era una battaglia culturale e di co-stume, è semplicemente totalitarismo. E infatti un fondo sul Corriere della Sera (di Piero Ostellino) osservò che “La lista elettorale per la «moratoria dell’aborto » di Giuliano Ferrara — che pur sa ben distingue-re fra peccato e reato — rischia di confondere la condanna dell’«aborto di Stato», in Cina, in India, nella Corea del Nord come coercitivo strumento pubblico di controllo collettivo delle nascite, e l’aborto, come legittima scelta individuale della donna, da noi. L’«aborto di Stato» è, eticamente, «omicidio di Stato» e, legalmente, «violenza di Stato» nei confronti della libertà di scelta della donna. Sul piano etico sempre di aborto si tratta. Ma su quello politico fa tutta la differenza fra totalitarismo e individualismo liberale. Nell’averli messi sullo stesso piano sta secondo me, lo dico con

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stima e con affetto, la difficoltà di Ferrara di comprendere non tanto le ragioni degli abortisti quanto del liberalismo”.

Il quotidiano della CEI, Avvenire, scrisse buone parole sulla lista antiaborto auspicando che il tema fosse fatto proprio anche da altre liste. Presto, però, lo slancio di questa operazione si esaurì, mostrando che nel mondo cattolico l’oltranzismo suscita benevolenza ma, di certo al momento, nulla di più. Non poteva esser seguito chi voleva imporre la visione politico religiosa della lista Per la Vita e insieme una commi-stione tra politica e religione nell’ottica del rendere uniforme l’intera società e impedire le libere scelte individuali. Credo che a laici, creden-ti e non credenti, debba interessare il difendere la libera convivenza e la laicità delle istituzioni dagli attacchi del delirio fondamentalista senza sottovalutarne le implicazioni.

In difesa dei principi della ricerca, della legge sull’aborto, della pillola Ru486 ci furono notevoli polemiche tra l’Ordine dei Medici romano e l’Agenzia del farmaco, da una parte, e una serie di partiti e associazioni cattoliche, dall’altra, mentre c’era poco impegno da parte dei movimenti laici e apparente disinteresse dagli altri. In particolare Veltroni si mise a teorizzare, invece della laicità, la laicità eticamente esigente, cadendo ancora una volta nella trappola di dare specifica-zioni alla laicità quasi ne avesse bisogno. La campagna elettorale fu in sostanza inequivoca dal momento che il risultato era già scontato da mesi per mancanza di alternativa credibile al dilagare del centro destra. Alla Camera la coalizione imperniata sul Popolo della Liber-tà prevalse di cento uno seggi sulla coalizione del PD mentre 36 an-darono all’UDC. Al Senato il centro destra prevalse di 35 seggi sulle minoranze. Quindi successo molto netto. E l’onda del centro destra proseguì nelle Regionali in Friuli e in Sicilia ove Lombardo distanziò la Finocchiaro di ben 35 punti percentuali e poi in una serie di elezio-ni di importanti città. Fu la chiusura di un’era, quella del modello di resistenza al berlusconismo fondata sul rifiuto istintivo delle sue parole d’ordine e del suo modo di muoversi. La scelta di Veltroni si mostrò suicida in un duplice senso. Perché ha tentato di vampirizzare l’oppo-sizione senza avere un progetto e perché ha inteso combattere Berlu-sconi giocando sul terreno su cui lui è di casa. Nel complesso, quella scelta è stata la prova conclusiva che per battere Berlusconi occorrono precisi programmi alternativi e atti politici coerenti.

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23. Il Popolo della Libertà al governoe la deriva confessionale che prosegue

Subito dopo le elezioni politiche, si seppe che un mese prima set-te (dei sedici) esponenti della Consulta per l’Islam italiano e un folto gruppo di esponenti di varie associazioni islamiche, avevano concorda-to di confluire in una Federazione dell’Islam italiano. Era concepita in chiave moderata e pluralista per corrispondere, nel quadro dei valori della Costituzione italiana, alla volontà di gran parte delle comunità musulmane. A questi risultati attribuiva grande importanza il Mini-stro uscente Amato e il mondo musulmano moderato riconoscibile. Viceversa si percepirono subito delle perplessità nel nuovo ministro dell’Interno, il leghista Maroni. Anche perché risultava da ricerche attendibili che quasi un terzo degli italiani vedeva male il diffondersi dell’associazionismo islamico e dei suoi luoghi di culto.

I primi di maggio 2008 si insediò il nuovo governo Berlusconi, assai dimagrito quantitativamente. Il nuovo Presidente del Consiglio riprese subito la sua linea per apparire la persona adatta a metter tutti d’accordo nell’interesse del fare. Così convenne con Veltroni la modi-fica della legge per introdurre alle elezioni europee 2009 una soglia di sbarramento, contro i piccoli (quasi che indecisioni e immobilismo dipendessero da loro) e con un occhio agli sviluppi dell’ormai incom-bente referendum sulla modifica della legge elettorale. Un referendum voluto da Segni, Parisi, Guzzetta, Montezemolo, da larga parte del mondo dei democratici e da una serie di alti borghesi scontenti, e che, siccome dava il premio di maggioranza non più alla prima coalizione bensì alla prima lista, non era affatto sgradito allo stesso Berlusconi per il vantaggio datogli. Su un altro versante, Berlusconi si premurò di far rilevare che questo suo nuovo governo era il governo più vicino che la Chiesa avesse mai avuto. La Chiesa ne prendeva cautamente atto e proseguiva nella sua propaganda martellante. No ad aperture alle famiglie di fatto, sì agli aiuti alle famiglie tradizionali, no alle linee guida del passato governo sulla fecondazione assistita, sì alla prote-zione dell’embrione, no alle tendenze razziste ma sì al negare i locali parrocchiali alla preghiera dei musulmani. Insomma ciascuno doveva non solo vivere la propria fede nel privato ma testimoniarla nella vita pubblica. Né la CEI replicava, ma ovviamene era compiaciuta (anche se forse all’insegna di un realistico scetticismo), quando il sen.Pera, seppur non più Presidente del Senato, prendeva spunto dal fatto che in Irlanda aveva prevalso il No nel referendum sul Trattato di Lisbona, per sostenere su La Stampa che era “la vendetta cristiana, la storica ri-

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sposta dei credenti all’Europa senza Dio. Questa Ue è morta perché è sta-ta abbandonata dai popoli e ora solo Benedetto XVI può dare un’identità al vecchio continente” (e qualche tempo dopo azzardò un falso storico, scrivendo “…il povero De Gasperi, reclamato santo e celebrato perché voleva unificare l’Europa, ma dimenticando che lui l’Europa la voleva cristiana” quando nel precedente capitolo 8 abbiamo già visto la vicen-da del preambolo della Convenzione dei Diritti Europea).

Espressioni del genere sono evidentemente l’opposto del principio di separazione. E non manifestano solo la variabilità culturale di chi le pronuncia, ma una propensione diffusa a sognare il passato sotto il profilo della storia e sotto quello della conoscenza. Qui si annidano i veri nemici contro cui battersi con determinazione nel nome della lai-cità delle istituzioni. Non a caso le idee di costoro sono il terreno natu-rale per l’aggregazione delle tendenze politiche più retrive. Se ne ebbe la riprova a metà luglio quando la Corte d’appello di Milano confermò l’autorizzazione alla famiglia di Eluana Englaro ad interrompere i trat-tamenti di idratazione ed alimentazione forzate al loro congiunto in coma da oltre 16 anni. Allora l’associazionismo cattolico definì la sen-tenza “la prima esecuzione capitale della storia repubblicana”. E al Se-nato, guarda caso, l’intero centro destra e l’Udc votarono per sollevare conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, il Senato e la Corte di Cassazione. A nome della Federazione dei Liberali l’autore inviò una lettera ai senatori per sottolineare l’errore di una scelta che distorceva “il modo di configurare il rapporto tra il cittadino e la legge, facendolo regredire allo Stato etico”. La questione istituzionale specifica la appro-fondirò nel corso della seconda parte del libro. Qui desidero sottoli-nearne la sintesi. Che l’ansia – perché di ansia si tratta – di compiacere il conformismo confessionale, aveva già fatto danno portando partiti di rilievo, quali Popolo della Libertà, Lega Nord e UDC, alla dispo-nibilità a distorcere regole istituzionali decisive in un stato moderno. Naturalmente la lettera non sortì effetti percepibili, proprio perché si era invasati nel mostrarsi conformisti ad una identità che maschera le questioni reali della convivenza per rifugiarsi nel conformistico com-piacente la comunità religiosa.

È quasi ovvio constatare che il proseguire a mischiare questioni di religione e questioni di identità politico civile, non poteva migliorare i parametri della convivenza. Al contrario, li peggiorava di fatto. Ad esempio, la presenza della immigrazione musulmana – che orami era da considerarsi un fenomeno acquisito nel nostro paese ed era pure en-trata all’interno della cittadinanza italiana – riesce a rientrare peggio nella convivenza qualora si osteggino le fisiologiche esigenze di prati-

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care la rispettiva religione. Oltretutto c’era chi soffiava costantemente sul fuoco. La Lega Nord sosteneva che i luoghi di culto islamici pote-vano essere fatti solo previa approvazione dei cittadini interessati. E suoi esponenti inneggiavano alla cristianità e spingevano per evitare diverse attività musulmane, dai commerci all’istruzione. Ma anche nel PD vi era chi, come il Presidente della Provincia di Milano, che auspi-cava venisse impedita la preghiera dei musulmani per le strade (pratica che si andava estendendo come conseguenza della difficoltà di avere moschee). Del resto, il problema di come ubicare le moschee tirava in ballo oggettivamente la questione di principio della separazione. Sic-come la Repubblica era immersa nella logica del Concordato e delle religioni ammesse, il fatto che la condizione religiosa dei musulmani restasse ancora indefinita, rendeva molto incerti i principi cui erano tenuti gli stessi organi dello Stato. Per cui era lasciato campo libero, in pratica, alle iniziative regolamentari dei Sindaci, che intervenivano quasi a piacimento. Soprattutto si lasciava loro il potere di stabilire di-ritti e modalità dei cittadini o dei residenti di pregare insieme, e quindi si mettevano in forse i principi costituzionali di libertà religiosa.

Queste problematiche apparivano politicamente sepolte dall’istin-tivo ossequio per il conformismo religioso comunitario. Con il governo Prodi si era potuto constatare nel centro sinistra. Nel settembre 2008 si constatò nel centro destra. Di fatti due Ministri in carica, Rotondi e Brunetta, il primo dichiarato esponente cattolico, si fecero promotori di una proposta di legge sulle unioni civili. Molto attenti a porre dei paletti. Il primo paletto era che la proposta non coinvolgeva il governo, perché non era nel programma elettorale. Il secondo, che la proposta non prevedeva l’utilizzo di risorse dello Stato, che dovevano continua-re ad essere destinate solo a quella famiglia di cui in Costituzione sono garantiti i diritti. Terzo, la proposta intendeva legiferare su un fenome-no non marginale, le persone che a vario titolo convivono senza essere sposate, spesso indipendentemente dal sesso. Quarto, la proposta in-tendeva tutelare alcuni diritti fondamentali come l’assistenza in caso di malattia, la successione, i diritti relativi all’alloggio, e tutti i diritti, inesistenti nel codice civile, che rendono il convivente prioritario ri-spetto ai parenti; anche delle coppie gay. Eppure nel giro di poche ore vennero i no della maggioranza. Innanzitutto l’altro Ministro Giova-nardi e poi i senatori del Popolo della Libertà. Venne puntualizzato con puntiglio che una cosa è tener conto dei diritti individuali delle persone, una cosa diversa è riconoscere i diritti di coppia, che mine-rebbero le basi della famiglia tradizionale e non sarebbero accettati. In pratica una conferma di quanto fosse radicato il tabù conformistico

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che discende dal non voler ragionare sulla commistione dei rapporti civili con quelli della religiosità.

Una simile commistione veniva viceversa utilizzata attivamente an-che nel centro sinistra con il fine di irrobustire le proprie posizioni di partito. Al punto che nell’area PD si formò anche una nuova aggrega-zione, Persone e Reti, che dava corpo alle ambizioni di esponenti di origine laica e cattolica (Binetti, Rutelli, Bobba, Calgaro) nel portare la religiosità al centro dell’azione politica. Tutto questo mondo, del Popolo della Libertà come del PD, venne colpito con forza dalla nuo-va decisione della Corte Costituzionale che (ovviamente, per quanto accennato prima) respinse i ricorsi estivi del Senato sul conflitto fra or-gani dello Stato, in relazione alla sentenza milanese sulla sospensione dell’alimentazione e idratazione forzate ad Eluana Englaro.

E i dispiaceri non erano finiti. Poche settimane dopo – nonostante una rilevante campagna della stampa di impostazione cattolica che de-finiva un assassinio sospendere alimentazione ed idratazione – la sen-tenza delle Sezioni Unite della Cassazione non trovò difetti di diritto in quella della Corte di Appello di Milano (confermando il princi-pio che il complesso delle normative vigenti consente al cittadino già oggi la libera scelta di come vivere e di come morire, senza che una legge apposita sia indispensabile). Passarono altre poche settimane, e un certo oltranzismo subì un altro colpo negativo da una vicenda minore ma significativa. A Cremona venne assolta la moglie di imam accusata di aver esibito il burqa in Tribunale, pur con la precisazione che, a richiesta, lo aveva sollevato per il riconoscimento e mostrato i documenti a conferma. La Lega continuava sulla linea antimusulmana spinta soprattutto dal capogruppo alla Camera Cota che proponeva di limitare le moschee e di disperderle, rifiutando anche il distribu-irle quartiere per quartiere secondo istanze provenienti perfino dalla gerarchia cattolica. Il ministro Calderoli sostenne che costruire le mo-schee sarebbe riprendere le bandiere del comunismo (mentre è cosa nota che il comunismo affossò la libertà di religione) e propose di ri-correre a referendum consultivi nelle zone prescelte. Che era solo un furbo strumentalismo campato in aria, poiché la libertà religiosa è un valore costituzionale e la Costituzione non si cambia con procedure referendarie. Essendo questo il clima, il Ministro degli Interni Maroni lasciava cadere l’iniziativa dei suoi due predecessori sulla Consulta per l’Islam italiano non provvedendo più a convocarla. Lasciando cadere le insistenze dei moderati della Federazione dell’Islam e del quotidia-no Avvenire con articoli dello stesso presidente degli esperti che ave-vano elaborato la Carta dei Valori.

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Intanto il sen. Pera pubblicò un altro libro, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica, comprendente una lettera di Be-nedetto XVI. Fu un libro che suscitò accese discussioni, naturalmente nel mondo laico, ma anche in quello cattolico. Il mondo laico e liberale era indignato della pretesa di cercare di far passare l’idea – davvero avventurosa – per cui non c’è liberalismo senza Dio, nel senso che il liberale si deve rivolgere al cristianesimo per chiedergli la speranza e svanisce se non si radica nell’immagine del Dio cristiano. Ciò in nome di un assemblaggio in cui il collante era dimenticare il significato es-senziale ed innovativo nei secoli degli autori di cultura liberale (Locke, Tocqueville, Kant, Croce, Popper) e gabellare per liberalismo una con-fusa miscela tra liberalismo e religiosità che annulla ambiti e tempi di applicazione soffocando in pratica l’autonomia civile del cittadino. Con la scusa che la religione cattolica deve operare anche fuori della convin-zione privata, il sen. Pera richiede non tanto che la religione sia pratica-ta pubblicamente quanto che si sovrapponga alle pubbliche istituzioni delle quali dovrebbe costituire la stella polare unica (“dobbiamo dirci cristiani”, afferma il senatore). E infatti condanna ogni incertezza cul-turale che impedisce in Europa la identità unica e un’unica comunità morale. Di conseguenza, la lettera di Benedetto XVI era molto laudati-va appunto circa il liberalismo fondato sull’immagine cristiana di Dio, circa le critiche all’Europa e alla sua possibile Costituzione, e soprat-tutto circa un punto: “trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismo ma, al contrario, per essere fedele a sé stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi”.

Già queste parole di apprezzamento danno la misura di quanto la concezione del sen. Pera sia distante dal liberalismo reale, che per natura non può essere “domestico”. Uno dei caratteri ineludibili del liberalismo è infatti la libertà di religione, appunto perché la religione non deve far parte delle opzioni politiche; un altro dei suoi caratteri è che il liberalismo non può collegarsi con una dottrina del “bene” senza contraddire sé stesso, in quanto, nel formulare programmi, da solo indicazioni di probabilità sperimentale circa le conseguenze dei propri atti; un altro dei suoi caratteri è la connessione imprescindibile del liberalismo con il reale vissuto e non con la tradizione che prevalga sulla convivenza umana in atto. Al di là di questa osservazione, sono si-gnificative le reazioni che il libro suscitò nel mondo cattolico. In parti-colare un prete, don Paolo Farinella, diffuse un appello per contestare al sen. Pera “il volere instaurare una religione civile dal vestito cristiano,

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ma senza Cristo risorto e senza Vangelo” e di sostenere “il progetto cleri-co-ateo degli atei devoti”. E contestare a Benedetto XVI una contraddi-zione nello “stabilire un nesso diretto e indissolubile tra liberalismo e cri-stianesimo”, e un’altra nell’“escludere definitivamente qualsiasi incontro sul piano della fede” in contrasto con il Concilio Vaticano II che esorta al dialogo (ed osserva che il sen. Pera lo nega). Quindi l’appello di don Farinella conclude che “il liberalismo sta dimostrando palesemente il proprio totale fallimento” e che “il Papa si fa irretire da un senatore ateo e clericale nella celebrazione di un rito liberista della religione civile”. Ap-pare evidente che queste tre posizioni, del sen. Pera, del Papa e del pre-te, vertono in linea principale sul come triturare meglio il liberalismo evitando il principio di separazione tra Stato e religioni. Il sen. Pera battezzando liberalismo una cosa che non è liberale (l’autonomia civile di un cittadino non si limita a quella privatissima di ciascuno, anche delle persone condannate all’ergastolo), il Papa cercando di far diveni-re la libertà di culto, storicamente e praticamente sostenuta solo dagli stati liberali, un qualcosa che potrebbe sopravvivere anche ritornando alla primazia civile dei valori religiosi, don Farinella respingendo il liberalismo per restare alla religione come rifiuto dei rapporti terreni e rifugio nella propria coscienza.

In fin dei conti emergeva ancora una volta il nocciolo del proble-ma. La convinzione religiosa induce la Chiesa ad aspirare a salvare le genti attraverso la propria dottrina. Quando si arriva sul piano civile, il mondo dei confessionali prende spunto dalla materia religiosa per confliggere con il liberalismo e con il principio di separazione. Solo che questa linea dello zelo confessionale non ha né lo spessore e la coerenza di quella originaria della Chiesa né lo stesso campo di appli-cazione religioso, dato che lo zelo confessionale dovrebbe occuparsi di politica civile. Così, rispetto alle polemiche sui musulmani o sul libro di Pera, restavano prevalenti gli aspetti religiosi del caso Englaro, af-fiancati da un conformismo comunitario trasversale. Lo ribadì il fatto che, dopo i rifiuti di altri ospedali di accogliere Eluana per l’interru-zione dell’accanimento terapeutico, quando in Toscana ambienti della maggioranza di centro sinistra proposero di accoglierla in una struttu-ra regionale, l’ipotesi fu subito respinta dal Presidente di allora, il DS Martini (lo stesso della riportata dichiarazione del 2000 che citava ad esempio il Pontefice) e dall’assessore alla salute, Enrico Rossi (che è il Presidente di oggi), i quali dichiararono “la Toscana diventerebbe la terra dell’eutanasia” (il che era semplicemente una dichiarazione non rispondente al vero, in diritto e in fatto). Il governo, preoccupatissimo della piega che stava prendendo la vicenda, cercò di porre rimedio.

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La cosa più grave fu che i più zelanti clericali furono l’ex socialista Sacconi, Ministro, e l’ex radicale femminista di primo piano, Euge-nia Roccella, sottosegretario. Venne comunicato agli ospedali un atto di indirizzo secondo cui il governo continuava a ritenere illegale la sospensione dell’idratazione ed alimentazione forzate. Il che, visto il ruolo del governo in uno stato di diritto, è pressoché incredibile, vi-ste che c’erano state sentenze definitive della magistratura. Lo scopo era chiaro. Intimidire le strutture sanitarie per guadagnare il tempo di fare una legge. Berlusconi invece iniziò con l’assumere una posizione tattica. Affermò pubblicamente di non aver saputo niente dell’atto di indirizzo e di ritenere che in queste materie non spetti all’esecutivo intervenire; d’altra parte, aggiunse, la sua era un’opinione personale mentre Sacconi aveva parlato a nome del governo, dopo aver incon-trato Gianni Letta. Nel frattempo gli integralisti cattolici protestavano in tutti i modi, in particolare inscenando un simbolico aiuto a Eluana portandole bottiglie d’acqua e panini fuori della clinica ove era ricove-rata. Il babbo Englaro desiderava che la fine avvenisse nelle sue zone di origine, il Friuli, e aveva individuato una clinica disponibile. I cat-tolici chiedevano al governatore del Friuli di vietare alla clinica di pro-cedere all’interruzione delle cure. Ma il governatore del Friuli, Renzo Tondo del Popolo della Libertà, si rifiutò fermamente di intervenire in vicende attinenti rapporti solo privati (e in sostanza mantenne que-sta decisione in seguito, pur mediando con le forti pressioni della sua giunta). L’UDC nazionale invitò il governo a varare un “decreto salva-vita” per Eluana Englaro.

Due giorni prima del Capodanno 2009, l’Osservatore Romano, dette notizia che con l’anno nuovo sarebbero entrate in vigore norme promulgate da Benedetto XVI già ad ottobre. Di conseguenza, la Città del Vaticano non recepirà in modo automatico la legislazione civile ita-liana sia perché divenuta caotica e complessa sia per il possibile contra-sto con i principi non rinunciabili della Chiesa in materie eticamente sensibili. Fu sintomatico il tipo di polemiche che ne seguì. Conformisti e anticlericali furono sulla medesima lunghezza d’onda. Nel senso che gli ambienti della maggioranza di centro destra negavano che le leggi andassero contro il Vaticano (ma sul punto le sentenze sul caso Engla-ro bruciavano) e vari del centro sinistra, radicali inclusi, proclamavano che quella del Vaticano era una inammissibile ingerenza negli affari italiani. Furono pochi coloro che fecero osservare come si trattasse di un atto pienamente legittimo, visto che lo Stato del Vaticano è uno Stato sovrano. Prevaleva il riflesso condizionato a ragionare in termini di commistione tra cittadinanza civile e obblighi religiosi.

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Questa abitudine pareva istintiva. Ci si stupiva quando avveniva qualcosa che la metteva in discussione. Ad inizio d’anno 2009 ci fu-rono, soprattutto nelle grandi città del Nord, molte manifestazioni dei musulmani in appoggio dei palestinesi e contro Israele a proposito de-gli scontri in corso nella striscia di Gaza (con molti che criticavano la scarsa responsabilità della sinistra italiana nell’essere molto tiepida nel difendere le ragioni degli israeliani). Diverse di queste manifestazioni, a cominciare da Milano e Bologna, furono seguite da pubbliche pre-ghiere musulmane sui sacrati delle rispettive cattedrali. In Vaticano ci fu un grande (ed espresso) turbamento nel vedere questi sacrati pieni di fedeli musulmani genuflessi e adoranti. Al di là che la questione fu compresa in qualche modo anche dagli stessi islamici che organizzaro-no incontri per chiarimenti, il fatto è che era stata smentita la convin-zione profonda che in Italia ci fossero solo i cattolici. Il che è significa-tivo per cogliere un ulteriore motivo per l’insistito richiamo delle ge-rarchie alle verità religiose in punto di dottrina e di evangelizzazione.

Il padre Englaro fu determinato nel proseguire la sua battaglia per rispettare le volontà della figlia quando era ancora cosciente. Non la-sciò spazio alle reiterate pressioni d’ogni tipo che venivano dal mondo cattolico, gerarchie e non, dal Popolo della Libertà e dagli ambienti di governo, anche attraverso l’uso degli strumenti mediatici. La circolare del Ministro Sacconi – chiaramente invalida per evidente incompeten-za costituzionale – raggiunse lo stesso l’effetto di spaventare la clinica di Udine che declinò la propria disponibilità dichiarando “altrimenti ci farebbero chiudere”. La regione Piemonte, la Liguria, l’Emilia si dis-sero disponibili ad accogliere Eluana. Alla fine il babbo che voleva il Friuli, assistito da un avvocato di Udine, Giuseppe Campeis, che riuscì a mobilitare il Sindaco Honsell, ebbe lì l’assenso da una casa di riposo pubblica per anziani, La Quiete, che decise l’accoglienza con una vo-tazione 4 a 3 nel comitato direttivo.

Intanto il TAR della Lombardia affermò ancora una volta che la Regione era tenuta a garantire una struttura di ricovero a semplice richiesta del babbo Englaro, la giunta lombarda dichiarò che non avrebbe rispettato l’ordinanza (atteggiamento di nuovo incredibile perché indiscutibilmente irrispettoso della legge). Il capogruppo al Senato del PDL, Gasparri, gridava eccitato all’eversione costituzio-nale, il Presidente della Camera, Fini, il Ministro Prestigiacomo e la Lega Nord erano invece contrari ad un intervento del governo, Ber-lusconi continuava a temporeggiare. In realtà proseguivano contatti frenetici con la Presidenza della Repubblica per trovare una possibi-lità di intervento e dal Quirinale veniva nulla più dell’affermazione

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che poteva essere utile una legge condivisa sul testamento di fine vita. Alla fine, il 6 febbraio, siccome la sospensione di idratazione ed ali-mentazione di Eluana Englaro era vicinissima, Berlusconi decise e il Governo promosse un decreto legge per lo stop. Ma il Presidente Napolitano non intendeva controfirmare. Nel giro di poche ore, a ri-unione in corso del Consiglio dei Ministri, scoppiò un vero e proprio scontro istituzionale dichiarato, con il governo che scelse allora di intervenire via legge ordinaria da varare in due tre giorni sotto le ban-diere del primato del Parlamento.

Tra i costituzionalisti, fino al quel momento tutti contrari al decreto legge, spuntarono diversi favorevoli, come Capotosti, Mirabelli, Onida sulla scorta del sofisma per cui il decreto sarebbe stato un anticipo del-la legge (costituzionalmente è la materia a determinare l’urgenza, non il voler fare una legge alla svelta). Tutti i cattolici, di centro destra e di centro sinistra, salvo rarissime eccezioni, erano favorevoli al decreto. La Federazione dei Liberali dichiarò che anche “il disegno di legge go-vernativo per impedire l’applicazione di sentenze definitive della Corte di Appello di Milano e delle Sezioni Unite della Cassazione costituisce una violazione eccezionalmente grave dei principi e delle strutture dello Sta-to di Diritto. Ciò indipendentemente dal fatto che i tempi parlamentari consentano o meno al disegno di legge di raggiungere il suo scopo nella clinica di Udine, Il governo, in particolare il Presidente del Consiglio e il Ministro del Lavoro nelle loro demagogiche semplificazioni depistanti, è incapace di rendersi conto che non applicare sentenze definitive della ma-gistratura dissolve i vincoli della convivenza democratica secondo la legge tra cittadini liberi di essere diversi. Con le regole dello Stato di Diritto la libertà di ogni cittadino è viva, con le norme della morale teocratica la libertà muore”.

Mentre ad Eluana Englaro venivano sospese idratazione ed ali-mentazione, vi furono quarantotto ore di forte tensione ed anche tenta-tivi di blitz nella casa di riposo per revocare l’ospitalità alla ricoverata. Nel tardo pomeriggio del 9 febbraio 2009, Eluana cessò di vivere. Il Ministro Alfano volle commentare che Eluana era morta di sentenza. Suggellò con queste parole avventate, un’altra vicenda in cui è emersa evidente quanto sia negativa la mancanza del principio di separazione a presidio della libera convivenza di cittadini responsabili. Il rispetto della volontà di una persona – che dovrebbe essere cosa naturale – è stato reso possibile solo dalla eccezionale e determinata volontà del padre di Eluana Englaro, che, senza mai scadere in sterili ideologismi e demagogici comportamenti protestatari e ribellistici, ha percorso la strada del ricorso alle leggi vigenti e alla Costituzione. Qui è bene an-

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che ricordare che nei mesi successivi fu riconosciuto che, in relazione ai fatti, non avevano alcun fondamento giuridico tutte le diverse in-chieste attivate in vario modo, amministrativo e penale, verso i vari soggetti che avevano effettuato l’interruzione delle cure.

Dal drammatico caso Eluana Englaro trasse nuova spinta la leg-ge sul Testamento Biologico che era in discussione da mesi al Senato (mentre la pratica scientifica andava avanti e il professor Antinori ef-fettuava la fecondazione con lo sperma non congelato di un marito in coma). Una legge cui anche nel centro sinistra veniva data grande importanza perché veniva collegata alla questione della legge sulle cure palliative e l’assistenza ai malati cronici. Trovo singolare, peral-tro, l’evidente ritrosia da parte del centro sinistra al rendersi conto che insistere, come a quel tempo fu di moda, sulla assoluta necessità di addivenire ad una legge in materia, fosse un gratuito favore al centro destra. Il quale deteneva la maggioranza e dunque non avrebbe avu-to difficoltà a far passare le proprie tesi. Tant’è. Il primo a dichiarare apertamente che le cose non andavano, pur essendo nel gruppo del PD, fu il sen. Veronesi il quale era da anni fautore di una legge come strumento di autodeterminazione del paziente e che lanciò un allar-me per il rischio di una legge “che invece calpesta e nega tali diritti, ripiombandoci culturalmente al potere assoluto dello Stato sulla vita dei suoi cittadini,… una legge anti-costituzionale”. E mise il dito sulla piaga emersa nella legge. Era divenuta “una legge che nega sé stessa, perché da un lato riconosce il diritto a veder rispettate le volontà della persona circa i trattamenti sanitari che possono essere messi in atto nel caso si perda la capacità di intendere e volere, ma dall’altro esclude che fra tali trattamen-ti figurino la nutrizione e l’idratazione artificiale, che sono le condizioni per mantenere in vita un corpo in stato vegetativo permanente”. Dunque non era più un Testamento Biologico ma una dissimulazione. “Per se-coli la gente ha avuto paura di morire, ma ora nasce una nuova paura perché le capacità di intervento della medicina moderna sono cresciute fino a raggiungere la possibilità di mantenerci tecnologicamente in vita all’infinito. Più che vita, uno stato intermedio tra la vita e la morte”. E quando la persona che è l’attuale paziente ha espresso la sua volontà di non esser sottoposto all’accanimento terapeutico finale, diviene irrile-vante ogni altro contorcimento dialettico.

Anche per non voler riconoscere che, al di fuori del principio di se-parazione, esistevano differenze non sormontabili tra la visione laica e quella cattolica, il PD le provava di tutte per raggiungere una soluzione condivisa. Tuttavia non riusciva a trovare una posizione unitaria nep-pure all’interno dei propri gruppi parlamentari. Naturalmente il dibat-

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tito in Senato terminò con il voto di una legge, che teneva conto solo delle tesi confessionali, spazzando via tentativi di mediazione come quello di Rutelli (togliere dal testamento idratazione ed alimentazione e affidare la sospensione delle cure, se il paziente non può decidere, al medico curante con la consulenza non obbligatoria di fiduciario e di familiari) o l’idea della moratoria avanzata da Dini. Nello specifico affronterò l’argomento testamento biologico nella seconda parte, ma desidero affermare subito che vi sono delle falsità obiettive in quello che sostengono i fautori della legge.

Ad esempio, non è vero che sarebbero i fautori della libertà a voler imporre con la legge il proprio punto di vista. I liberali hanno sempre sostenuto il contrario, che la legge non era indispensabile. A volere la legge erano i conservatori di mentalità comunitaria, perché si era-no accorti che senza legge specifica avrebbe necessariamente prevalso l’ordinamento complessivo della Repubblica e così si sarebbe aperta la porta al riconoscimento, caso per caso, al diritto del cittadino di decidere come affrontare la propria fine. Cosa che non vogliono, tan-to che insistono sul fatto che la legge non sarebbe un riconoscimento di autodeterminazione ma solo un obbligo burocratico comunitario. Così come vogliono imporre la somministrazione ai malati terminali dell’idratazione-nutrizione, dicendola equivalente a dare pane e acqua, quando qualunque medico, credente o non credente, sa trattarsi di intervento medico che esula dalle funzionalità naturali e che compren-de farmaci salvavita. Come scrisse la liberale Casiraghi, la legge deve offrire al cittadino la possibilità di usufruirne secondo le proprie con-vinzioni etiche e o religiose. “Non si possono fare leggi ipocrite che sono presentate come regolamentazione ma sono divieti”. E anche fossero po-chi gli interessati, non importa perché “il rispetto delle minoranze è il termometro della democraticità di uno Stato”.

Intanto, a metà febbraio, dopo la grave ed imprevista sconfitta del PD nelle regionali sarde, Veltroni si era dimesso da Segretario e il vice Franceschini subentrò come segretario reggente. A fine marzo 2009 si celebrò il primo Congresso fondativo del Popolo della Libertà che confermò di essere un partito assai accentrato sul leader, con una sud-divisione a tavolino delle altre cariche rappresentative, con un ruolo di limitato rilievo riconosciuto al cofondatore, ex segretario di AN e Presidente della Camera, on. Fini. Forse non per caso, subito dopo il Congresso, il Presidente della Camera Fini rimarcò questa distinzio-ne e, riprendendo la linea da lui inaugurata con il voto referendario contro la legge sulla procreazione medicalmente assistita, commentò a proposito della legge sul testamento biologico, che “il testo del Se-

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nato è andato oltre gli auspici della Chiesa”. Pochi giorni dopo, replicò uno dei leader dei teocon, il vice presidente del senatori PdL Qua-gliarello, il quale sentenziò che “l’influenza della religione è tanto più necessaria in una società multi religiosa per evitare guerre di religione”. Parole oscure, nel senso che accettare l’influenza delle religioni age-vola, se non accelera, lo scivolo verso le guerre di religione; e restano oscure anche se il loro intento fosse il proporre un atteggiamento tat-tico di cercare in sede civile una composizione tra i diversi credi, vale a dire una sorta di parcellizzazione della società in zone di influenza. La polemica al momento non proseguì perché si verificò il tremendo evento del terremoto all’Aquila, con i suoi duecento morti e ingenti danni, che per qualche tempo assorbì l’attenzione e le energie della politica. Subito dopo, nell’Italia settentrionale, cominciarono a far ca-polino prove di attenzione della Lega Nord ai musulmani moderati sulla questione moschee. Avvenne a Torino, ove la stessa comunità moderata si spaccò sulla richiesta di una nuova moschea, dato che alcuni musulmani accusavano gli altri di essere al servizio di manovre fondamentaliste nord africane, ed anche a Parma, ove un imprendito-re musulmano moderato cercava appoggi per metter sù una moschea condivisa.

A maggio 2009, l’assemblea della CEI disse sì all’Italia multietnica e no alla politica del governo voluta dalla Lega Nord sui respingimenti in mare, sul reato di immigrazione clandestina e sulle ronde padane. Il Presidente della Camera Fini intervenne di nuovo. Da una parte auspicò che venisse tutelato il diritto di asilo (e già su questo vi furo-no polemiche perché Fini era il coautore appunto della relativa legge Fini – Bossi) e dall’altra affermò di nuovo che “il parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso”. Tale dichiarazione, che finalmente aveva il tono di un’affermazione separatista, provocò forti reazioni nel centro destra. Volonté, capogruppo UDC, disse di Fini “il peggiore attacco laicista della storia repubblicana, ci riporta nel più buio dei totalitarismi neri del novecento” (frase che è frutto o di ignoranza o di volontaria negazione della natura separatista al fine di incensare il confessionalismo) e il Presidente del Senato Schifani, del PDL, replicò “penso che sia giusto aprire costruttivamente al confronto tra laicità e re-ligione anche nelle aule parlamentari” (parole che, dette da un avvocato seconda carica dello Stato, sono un capolavoro di confessionalismo ostentato ed ossequioso).

Poi, presero il sopravvento le polemiche sulle diverse candidature alle europee, sulla relativa campagna e sulla data del referendum Segni e Guzzatta. Quanto alle europee, il dibattito fu inquadrato nell’inizio

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dagli attacchi incentrati su Repubblica circa la vita personale del Pre-sidente del Consiglio. Che probabilmente contribuirono a frenare un pò le attese elettorali del Popolo della Libertà. In ogni caso, a giugno, il centro destra prevalse largamente, con il PDL al 35,2% (due punti e mezzo in meno rispetto alle politiche e altrettanto in più rispetto alle precedenti europee), la Lega Nord al 10,3% (due punti in più rispetto alle politiche e circa sei rispetto alle europee precedenti). Arretramen-to del PD al 26,12% (contro il 33,2% alle politiche e il 31,1% alle euro-pee 2004), crescita del IDV al 8% (in pratica il doppio delle politiche e quasi il quadruplo delle europee 2004), lieve aumento della UDC al 6,5% (alle politiche era il 5,6% e il 5,9% alle europee). Gi altri non ottennero deputati europei restando ai risultati delle politiche. Alle contemporanee amministrative, il centro destra crebbe assai e comin-ciò a profilarsi un asse preferenziale tra Berlusconi e Bossi.

Quanto al referendum Segni-Guzzetta partì con tantissimi appog-gi, quelli dei molti mesi prima, quando si pensava genericamente che sarebbe bastato agitare le acque per cambiare la legge elettorale e dare il premio di maggioranza del 55% esclusivamente al partito arrivato primo. In seguito, una riflessione più meditata, portò a vedere la du-plice realtà. Che si proponeva di fatto di tornare come meccanismo alla mussoliniana legge Acerbo e che, essendo ormai il PD in caduta libera, si faceva un regalo enorme a Berlusconi, il quale avrebbe fa-cilmente vinto da solo anche senza l’alleanza con la Lega. Il comitato referendario cominciò a perdere diverse adesioni, mantenendo però il deciso appoggio del PD e del costituzionalista Barbera, in base ad una confusa strategia. Si formarono Comitati per l’astensione dalle urne, dei quali i principali furono due, quello dei professori democratici re-stii ad intrupparsi nell’avventura Guzzetta, presieduto dall’ex ministro PD Bassanini, e il Comitato Batti il Referendum Elettorale, presieduto dall’autore, che comprendeva i partiti liberali, quelli repubblicani e i giovani dell’associazione DyalogUE (acronimo di “Developing Young-Adults’ Liberty of Opinion on the Government of a United Europe) vale a dire una completa convergenza laica dell’area liberaldemocra-tica per la prima volta dopo decenni. Questi comitati sostenevano il non andare a votare. Il Partito Radicale sosteneva di andare a votare. Il Popolo dalla Libertà lasciava libertà di scelta (Berlusconi disse “ma come si fa a rifiutare un regalo?”). Da sottolineare che il non andare alle urne è nel caso una espressa previsione costituzionale, non con-fondibile con la disaffezione alla politica. Gli italiani capirono bene la questione e la partecipazione fu del 23,31%, la più bassa (non di poco) di ogni consultazione referendaria.

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261Parte I – Il secolo e mezzo appena trascorso

Nel frattempo erano riprese le polemiche sul testamento biologico che giaceva alla Camera e quelle sulla legge in materia di intercetta-zioni. La Federazione degli Ordini dei Medici pronunciò a larga mag-gioranza il suo No motivato. Vi fu un’intervista televisiva di D’Alema singolarmente preveggente perché disse di ritenere che il governo Ber-lusconi avrebbe avuto nuove scosse dalle inchieste giudiziarie a Bari (in cui le indagini per questioni locali si erano allargate alle feste a Palazzo Grazioli di Roma, residenza del Presidente del Consiglio). Di fatto per altri due tre mesi vi fu una forte offensiva di Repubblica sulle relative vicende relative alla vita privata di Berlusconi. Nel periodo uscì anche un altro libro del professor Sartori, il Sultanato, critico nei confronti del Presidente del Consiglio (che, diceva il professore, resta-va un cabarettista) ma, come si conviene ad un logico, in modo acuta-mente diverso della vulgata antiberlusconiana, “la dittatura è una cosa possibile ma forse non avverrà”. Alla campagna giornalistica e di una parte della TV contro di lui, Berlusconi replicò affermando “non mi butterete giù con trame giudiziarie e mediatiche”.

A fine giugno 2009 venne pubblicata una nuova enciclica, la “Ca-ritas in Veritate, che è il “principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa… orientativa dell’azione morale”. Un’enciclica significativa di cui parlerò nella parti successive. Qui basti richiamare le due po-sizioni emblematiche. Una che nega l’idea di imperniare sul cittadino la convivenza, affiancando al cittadino la comunità (“accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene co-mune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e grup-pi intermedi che si uniscono in comunità sociale”) e l’altra che postula un legame tra fede razionalità (si impone “la scelta tra due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell’immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo… ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l’uomo”).

I primi di luglio venne approvata la legge istitutiva del reato di in-trodursi in Italia in modo clandestino e ciò complicò ulteriormente i rapporti del governo e della maggioranza con l’associazionismo di base cattolico. Come erano complicati i rapporti sulla questione delle critiche al libertinaggio, che la stessa CEI riteneva non essere solo un affare privato, seppure in linea di principio e senza espliciti accenni ad alcuno. A metà luglio la Cassazione annullò la pena inflitta dalla Corte d’Appello dell’Aquila al magistrato Luigi Tosti, poiché la circolare mi-nisteriale del periodo fascista che prevede l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie, appare “in contrasto con il principio costituzionale di laicità dello Stato” ed oltretutto è “atto amministrativo generale che

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appare però privo di fondamento normativo e quindi in contrasto con il principio di legalità dell’azione amministrativa”. Il liberale Polacco os-servò che “ove il diritto alla fede è garantito, ciascuno è libero di esporre in casa e fuori casa, in auto, portandolo addosso o quale immagine cari-cata su qualsiasi supporto informatico il simbolo religioso preferito e si possono erigere luoghi di culto con ben evidenti i singoli simboli religiosi. Il problema nasce quando qualcuno vuole dare ad un simbolo religio-so – nel caso il crocifisso ma il discorso varrebbe anche diversamente – un valore “universale” imponendo una sorta di primato “erga omnes” in un campo dove la singola sensibilità è invece sovrana”.

In generale, di sicuro aleggiava la sensazione che in giro, al fine di abbattere il governo, vi fosse l’intento (o la speranza) di far saldare gli interessi di alcuni gruppi editoriali, le divaricazioni di tipo spirituale e dottrinale, il conservatorismo corporativo di certi apparati burocrati-ci, con le oggettive carenze di impostazione politica (che peraltro non venivano mai affrontate). E non affrontando il lato più propriamente politico, l’offensiva finiva per avere scarso respiro. Peraltro ciò non appariva casuale. Questa sensazione era avvalorata anche da specifi-che vicende di notevole valore di principio che travalicavano anche la questione Berlusconi, e investivano la questione di come si configura il potere. Ad esempio, il tentativo del Consiglio Superiore della Ma-gistratura di rimuovere aspetti degli illeciti disciplinari per la attività politica e di consulenza dei magistrati (stabiliti dal precedente governo Berlusconi e poi modificati nel testo dal governo Prodi). Tale tentativo fu seccamente respinto da una importante sentenza della Corte Costi-tuzionale. La 224/2009 afferma che “non è ravvisabile alcuna violazione dei parametri costituzionali invocati dal giudice rimettente, perché, nel disegno costituzionale, l’estraneità del magistrato alla politica dei partiti e dei suoi metodi è un valore di particolare rilievo e mira a salvaguardare l’indipendente ed imparziale esercizio delle funzioni giudiziarie, dovendo il cittadino essere rassicurato sul fatto che l’attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far preva-lere una parte politica. In particolare, non contrasta con quei parametri l’assolutezza del divieto, ossia il fatto che esso si rivolga a tutti i magistrati, senza eccezioni, e quindi anche a coloro che, come nel caso sottoposto all’attenzione della Sezione disciplinare rimettente, non esercitano attual-mente funzioni giudiziarie. Infatti, l’introduzione del divieto si correla ad un dovere di imparzialità e questo grava sul magistrato, coinvolgendo anche il suo operare da semplice cittadino, in ogni momento della sua vita professionale, anche quando egli sia stato, temporaneamente, collocato fuori ruolo per lo svolgimento di un compito tecnico”.

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Tra fine luglio ed inizio agosto scoppiò la polemica per la decisione (a maggioranza 4 a 1) dell’Agenzia del Farmaco di rendere commercia-bile in Italia (seppure con molto ritardo) la pillola Ru486. Il governo reagì con l’abituale ipocrisia politica. Il Ministro Sacconi e la sottose-gretaria Roccella, indispettiti per la decisione e senza appigli ragione-voli, agitavano falsità giuridiche e immotivate paure. Infatti facevano intendere che ammettere la vendita della Ru486 avrebbe supererato la legge sull’aborto e che la pillola Ru486 avrebbe costituito un grave pericolo per la salute della donna. Un simile atteggiamento non è solo illiberale e faceva intendere un intento punitivo, inquinava anche la trasparenza del dibattito democratico sui modi di organizzare la con-vivenza. Puntavano a fare una commissione parlamentare di inchiesta sulla pillola Ru486 ma il Presidente Fini si dichiarò apertamente con-trario e la cosa divenne subito occasione di forti divisioni nel Popolo della Libertà sul farla o no. Da parte del PD, peraltro, non erano incal-zati, perché il PD non era determinato per compiere a livello politico una scelta inequivoca a favore della laicità delle istituzioni. L’Avvenire, viceversa, reagì chiedendosi polemicamente “se si tiene fuori il Parla-mento da questioni inerenti la salute dei cittadini, di cosa si interessano allora i deputati?” (trascurando capziosamente che il vero tentativo non era l’attenzione alla salute dei cittadini bensì il pregiudizio dei teocon di adottare precetti religiosi).

Subito dopo il TAR del Lazio, con una sentenza esemplare, escluse l’insegnamento della religione dalla valutazione sul profilo scolastico degli studenti, voluta dal Ministro PD Fioroni. Il Vaticano attraverso il Presidente della Commissione Episcopale per l’Educazione Cattolica, commentò in modo ineccepibile: “La Chiesa non farà ricorso contro la sentenza. Il problema è del Ministero della Pubblica istruzione”. E infatti il Ministro PDL Gelmini preannunziò il ricorso. È proprio il caso di dire più papisti del Papa.

Nella seconda metà di agosto, crebbero per vari motivi le tensioni tra il mondo cattolico ed esponenti del centro destra. L’Avvenire faceva spesso trasparire il notevole disagio, ai limiti dell’insofferenza, della base dei lettori, ecclesiale e non ecclesiale, per le scelte di vita del Pre-sidente del Consiglio. La Lega Nord e le gerarchie duellavano sul tema immigrazione (il capogruppo Cota dette del “solito cattocomunista” al Segretario del Pontificio Consiglio dei Migranti, Marchetto) e la Pa-dania arrivò a pubblicare un articolo di un collaboratore in cui faceva perfino cenno alla necessità di rivedere il Concordato. Il Presidente della Camera Fini ribadì che “in materia di bioetica non decide la Chie-sa” e ovviamente ci furono le reazioni del presidente e del vicepresi-

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dente del gruppo PDL al Senato, Gasparri e Quagliarello, con il rifiuto di prendere lezioni di laicità (ma anche il Presidente del Senato prese le distanze). Poi, in una decina di giorni tra fine agosto e i primi di set-tembre, scoppiò e si consumò il caso del direttore dell’Avvenire, Boffo.

Il Giornale dette vita ad una campagna assai forte criticando Bof-fo perché, nonostante i suoi continui scritti sull’Avvenire circa il suo “desiderio irrinunciabile che i nostri politici siano sempre all’altezza del loro ruolo” ed i suoi giudizi severi sui comportamenti del Presidente del Consiglio, aveva patteggiato nel 2004 una ammenda al tribunale di Terni per il reato di molestie telefoniche ad una signora onde lasciasse il marito con cui lo stesso Boffo avrebbe avuto una relazione. Il tutto sulla base di una informativa – che lo stesso direttore del Giornale, Feltri, riconobbe settimane dopo non precisa nella parte allusiva (per cui si scusò invitando a pranzo Boffo) – che aveva radici in voci che stavano circolando da tempo, come riconobbe il cattolicissimo intellet-tuale Messori. La questione, di cui Boffo respingeva il quadro, indusse furibonde polemiche (Berlusconi si dissociò apertamente dagli attac-chi) all’esterno del mondo cattolico su tutti i mezzi di comunicazione e al suo interno. Boffo rassegnò due volte le dimissioni e il Presidente della CEI le respinse esprimendogli stima e fiducia, ma le polemiche continuavano ad imperversare (sempre all’interno si sosteneva che ne-gli organi della Chiesa i comportamenti debbono essere conformi alla morale) e Boffo si dimise la terza volta in modo irrevocabile da tutti i suoi incarichi. Lo fece con una lettera, dal tono molto curiale di un non ecclesiastico, che accusava il “blocco di potere laicista” di aver riservato “ad un libero cronista una colossale montatura romanzata” e spiegava di non poter distrarre con il suo caso la Chiesa occupata in cose più grandi.

Al di là dell’episodio, quello che colpisce – e interessa un libro sui rapporti tra Stato e Chiesa – sono le questioni che ne emersero senza però trovare un preciso chiarimento. Boffo era il fulcro del sistema dell’informazione vaticana. Oltre che nell’Avvenire, nella rete TV2000 e nella capillare rete di Radio Inblu. Dal Giornale supponevano che l’informativa provenisse dall’interno di quel mondo, tanto che delle debolezze di Boffo sarebbero stati a conoscenza il cardinale Ruini, il cardinale Tettamanzi e monsignor Betori. Tutti gli interessati smenti-vano scandalizzati, e lo stesso Boffo nella lettera di dimissioni si do-mandava il “perché si debba vedere disegnate gerarchie ecclesiastiche che si fronteggerebbero addirittura all’ombra di questa piccola vicenda”. Ve-dendola dall’esterno, la questione non è chiarissima ma vi sono alcuni punti fermi.

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Boffo era un esponente della linea Ruini. Tra la linea del Presiden-te Ruini e quella del successore Bagnasco, vi è stata la cesura imposta dal Segretario di Stato Bertone. Il quale, riprendendo in mano le re-dini della politica del Vaticano nei confronti del Governo italiano (si è visto nel capitolo precedente), ha in pratica mutato la linea seguita per moltissimi anni dal Cardinale Ruini alla Presidenza della CEI. Ruini aveva usato la presenza spirituale della Chiesa per far pressione alla politica di partito, ottenendo rispetto sia pure modulato sui calcoli elettorali (tanto che lui, amico fraterno di Prodi, finì per staccarsene proprio perché la coalizione di Prodi non era in grado di assicurare quel rispetto che dava la coalizione avversa). E il suo successore Ba-gnasco seguiva fedele la medesima linea. Ma poi, alle politiche 2008, era intervenuta la rottura di Berlusconi con l’Udc che aveva messo in forte difficoltà la logica ruiniana del rispetto. Nell’ultimo anno e mezzo si erano andati moltiplicando i segni di differenziazione in-nanzitutto con la Lega Nord (l’islamofobia, le polemiche religiose a Milano, la formazione tramite le ronde, il divieto di celebrare le nozze dei clandestini, l’insistenza sui respingimenti). Ed anche con le note vicende sul privato del Presidente del Consiglio. Da qui si sarebbe pensato che fosse il caso di far trasparire su l’Avvenire il disagio nei confronti della deriva presa dalla maggioranza di centro destra. E pare certo che il Cardinale Ruini, proprio due mesi prima, in quel luglio 2009, lo abbia fatto presente a Berlusconi, mentre continua-vano gli episodi di reciproca tensione. Al punto che a fine agosto vi fu un’intervista all’Osservatore Romano in cui il Cardinale Bertone, per riprendere le redini, confermava che la Chiesa parla con la sola voce del Papa e dopo, per l’incarico avuto, con quella sua. Facendo intendere che era dunque preferibile parlare e trattare tra Stati e che la CEI si impegnasse sul magistero e sull’evangelizzazione senza pro-blematiche di rispetto politico.

Questo è quello che si poteva capire. Anche perché a metà set-tembre, Benedetto XVI, in una omelia in Vaticano per un’ordinazione episcopale, disse “la fedeltà è altruismo, e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono affidati. Sappiamo come le cose nella società civile e, non di rado, anche nella Chiesa soffrono per il fatto che molti di coloro, ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità, per il bene comune”. Ovviamente poteva essere una considerazione generale. Ma il momento ed il luogo solenne fanno sorgere qualche interrogativo. E poi resta il fatto che, mesi dopo le dimissioni e nonostante fosse stato annunciato il contrario, Boffo non aveva avuto successione nei suoi tre incarichi.

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Bossi fece visita prima al Cardinal Bagnasco e poi al Cardinal Ber-tone con il fine dichiarato di ricucire i rapporti che si stavano sfilac-ciando. Atmosfera positiva in pieno ma il giorno dopo il Presidente del Pontificio Consiglio dei Migranti, monsignor Vegliò, confermò per chiarezza la posizione della Chiesa, “è assurdo negare la società multiet-nica”. Su un tema attiguo, intervenne il viceministro Urso che, nell’am-bito di un dibattito organizzato dalla fondazione finiana Fare Futuro e da quella di D’Alema, lanciò la proposta di introdurre l’ora di religione islamica per evitare la ghettizzazione. Naturalmente vennero i no della Lega, con il Ministro Maroni, di Casini e della CEI con il Cardina-le Bagnasco che disse : “la conoscenza del fatto religioso cattolico non si configura come una catechesi confessionale, ma come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola. Non mi pare che l’ora di religione ipotizzata corrisponda a questa ragionevole e riconosciuta mo-tivazione”. Ma subito un altro Cardinale, il Presidente del Consiglio per la Giustizia e per la Pace, Martino, mantenuto in carica dal Papa oltre i limiti di età anche perché collaboratore sull’ultima enciclica, ribadì una sua posizione tradizionale: “se si ammettono gli immigrati, che vengono con la loro cultura e la loro religione, si richiede che debbano inculturarsi nel Paese dove arrivano; e a meno che non scelgano di conver-tirsi al cristianesimo – perché la libertà di religione è un principio sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo – se scelgono di conservare la loro religione hanno diritto ad istruirsi nella loro religione”. Sarà un caso, ma la differenza di impostazione tra la CEI di Bagnasco e il governo vaticano di Martino era palesemente evidente.

I primi di ottobre 2009 si era intanto conclusa positivamente la procedura di approvazione del Trattato di Lisbona con il successo del secondo referendum in Irlanda, passato con il 67,1% di sì mentre la prima volta il Trattato era stato sconfitto con il 46,1%. Essendo l’Irlanda l’ultimo dei 27 paesi di cui era richiesta l’approvazione, Bru-xelles e tutti gli europeisti tirarono un sospiro di sollievo e comincia-rono ad attivarsi freneticamente per compiere tutti gli adempimenti organizzativi e politici per far entrare in vigore il Trattato di Lisbona con il 1 dicembre successivo. Cosa che avvenne. Vi furono così impor-tanti novità, in particolare la notevole estensione del controllo parla-mentare, la nomina del Presidente della Commissione anche in base alle elezioni europee, il riconoscimento giuridico della Carta dei di-ritti fondamentali dell’Unione, fondato sulla cultura dei diritti e delle libertà individuali. Restano tuttavia aperte problematiche rilevanti. Soprattutto il permanere del metodo intergovernativo, fondato sul veto nazionale (politica estera e di sicurezza, difesa, risorse proprie),

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che subordina il Parlamento europeo e la Commissione al Consiglio europeo.

Subito dopo il referendum irlandese, il dibattito politico italiano fu incentrato sul fatto che la Corte Costituzionale bocciò il cosiddetto Lodo Alfano sullo scudo alle massime cariche dello Stato, provocan-do una furibonda reazione del Presidente del Consiglio che criticò, oltre la Corte, anche il Presidente Napolitano, incolpato (senza basi) di aver dato assicurazioni dimostratesi infondate. Ora, il lodo Alfano era incostituzionale perché, stando alla precedente sentenza della Cor-te nel 2004 sull’analogo Lodo Schifani, non rispettava il richiamo di allora al criterio di uguaglianza rispetto agli altri parlamentari. Però la Corte Costituzionale era voluta andare oltre, affermando anche la incostituzionalità per il motivo che il Lodo Alfano era con legge or-dinaria mentre avrebbe dovuto essere con legge costituzionale. E ciò non solo era contraddittorio ma intaccava l’importantissimo principio che la giurisprudenza della Corte Costituzionale non dovrebbe essere esposta a stormir di fronde contingenti. È quindi ragionevole ritenere che la causa reale del nuovo atteggiamento della Corte fosse la volon-tà di rendere più difficile il limitare le possibilità di intervento della magistratura verso le alte cariche e quindi di conseguenza la volontà di rafforzare il potere della magistratura come istanza di potere e non come funzione di garanzia. Che poi è la posizione specularmente op-posta ma logicamente analoga alla tesi berlusconiana che la maggio-ranza elettorale può tutto.

Per qualche giorno si parlò della corsa alla Segreteria del PD. Nelle due tappe previste dal regolamento interno, congresso e primarie, pre-valse nettamente la candidatura dell’on. Bersani, che sembrava voler riportare il PD su una linea di partito più definito nella organizzazione e nel progetto politico. Trascorsero poche settimane e si verificò un altro episodio destinato a tenere banco a lungo. Una sentenza della Corte Europea di Strasburgo accolse il ricorso di una cittadina italia-na a proposito dell’imposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche. I laici e i liberali la giudicarono una sentenza di grande importanza perché riafferma in modo argomentato il carattere laico e pluralista delle istituzioni europee e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sottoscritta anche dall’Italia. Invece vi furono reazioni scomposte e fuori contesto giuridico da parte del centro de-stra. Si distinsero l’avvocato del governo presso al Corte Europea, ed i Ministri Gelmini e Calderoli. L’avvocato giocò sulle parole in modo non confacente al suo ruolo, ben sapendo che l’articolo 7 della Costi-tuzione oggi vigente non si riferisce ad una religione di Stato (non più

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esistente) bensì al criterio di reciproca indipendenza tra Stato e Chiesa, per cui un simbolo di una religione non può essere imposto alle strut-ture dello Stato. Quanto al Ministro Gelmini, in pura trance teocon, cercava di asserire che la sentenza, dichiarando illegittima la presenza obbligata del crocifisso, cancellerebbe un simbolo di italianità. Ad-dirittura supponeva che la Convenzione Europea dei Diritti sarebbe in contrasto con il dettato costituzionale italiano, quando non poteva ignorare che da tempo la presenza obbligatoria del crocifisso era nega-ta proprio da sentenze di Corti italiane. Infine il ministro Calderoli usò un linguaggio barricadiero da sollevazione civile. Di tutta evidenza, ambedue andavano a caccia di applausi della parte più conservatrice della politica italiana. La Chiesa, contraria alla sentenza, tenne un at-teggiamento composto argomentando in punto della sua fede.

Pochi giorni dopo il Segretario di Stato Cardinale Bertone incon-trò il Presidente della Camera Fini di cui lodò a più riprese la laicità positiva. Contemporaneamente, concludendo il consiglio della CEI, il Cardinale Bagnasco ribadì “non è compito nostro dare giudizi parti-colari di merito: i cattolici possono difendere le loro convinzioni e valo-ri là dove sono”. Alla Camera, seppure tra notevoli polemiche anche all’interno del Popolo della Libertà sollevate principalmente da par-lamentari vicini al Presidente Fini, si trascinava stancamente l’esame sulla legge per il Testamento Biologico. Anche sull’immigrazione e acquisizione della cittadinanza vi erano dissensi e schieramenti ana-loghi, così come sui frenetici tentativi del duo governativo Sacconi Roccella di bloccare la distribuzione della pillola Ru486. Poi ci fu un’improvvisa uscita di Rutelli davvero singolare. Dichiarò che agli stranieri che divengono cittadini italiani, va richiesto un giuramento anche sul separatismo (andrebbe bene se non significasse, siccome non possono esservi discriminazioni tra cittadini, che a suo avviso in Italia gli altri cittadini avrebbero già il separatismo). E per non lascia-re equivoci interpretativi, Rutelli precisò anche che occorre valutare a fondo l’Islam che esclude laicità e pluralismo. Il che significa far uso della religione per dare giudizi politici, cioè adottare una linea antiseparatista.

Poi, al termine di un’udienza, il Presidente della Repubblica Na-politano fece una dichiarazione tanto sintetica quanto di importanza decisiva per la libera convivenza. Disse semplicemente , prima “nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Par-lamento”, poi “quanti appartengono alla istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione”. E infine “spetta al Parlamento esaminare, in un clima più co-

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struttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia”. Posizione non soltanto di principio ma assolutamente cen-trale nel contesto del dibattito politico in corso. Era un fermo alto là ad evidenti manovre in vari ambienti di potere, pubblici e privati, alla ricerca di risolvere le questioni politiche evitando di discutere alla luce del sole progetti politici alternativi (atteggiamento opposto nel profon-do ad una mentalità separatista).

A fine novembre 2009 gli elettori svizzeri decisero in un referen-dum (con il 57,5% dei sì) di inserire nella loro Costituzione il divieto di costruire nuovi minareti. La Federazione dei Liberali commentò che di fatto, la partita che si stava giocando era quella di decidere se continua-re a costruire una società aperta oppure ritornare a quella chiusa (ne palerò al capitolo 33.f). L’Unione Europea e il Vaticano difesero i mina-reti ed osservarono che il voto era ispirato da paura, dando l’impressio-ne di avere consapevolezza del problema. La Lega Nord era all’attacco del Vescovo di Milano, il Cardinale Tettamanzi (la Padania titolò “è un vescovo o un imam?”), anche se i suoi vertici invitavano ad essere cauti. Continuarono fino all’ultimo i tentativi del Ministro Sacconi di porre limiti alla diffusione della Ru486, insistendo perché la l’Agenzia del Farmaco prescrivesse per la pillola la necessità di ricovero (che ne avrebbe frenato l’uso). Ma l’Agenzia rifiutò osservando che la decisione di ricovero non rientrava nelle sue competenze. Intanto a Cremona una scuola cancellò la celebrazione del Natale per non offendere nessuno degli scolari. Nella seconda metà di dicembre vi furono vivaci pole-miche a proposito della beatificazione di Pio XII da parte del mondo israelita (venivano sollevavate forti riserve circa il comportamento di quel Papa sulle persecuzioni ebraiche) che poche settimane dopo si trasformarono in polemiche all’interno del mondo israelitico stesso a causa della controversa visita di Benedetto XVI al Tempio di Roma.

In campo scolastico, all’inizio del 2010, ci fu una decisione del Mi-nistro dell’Istruzione Gelmini di porre il tetto del 30% alla presenza di alunni stranieri nella classi. Nella scuola esplosero varie critiche e il Ministro puntualizzò che il tetto non riguardava tutti gli stranieri e in particolare quelli nati in Italia. Le critiche tesero a proseguire ma, come fece rilevare un esperto costituzionalista, il professor Ainis, era “la prima applicazione dello ius soli in un ordinamento che continua ad essere improntato allo ius sanguinis” (tanto che, precisava Ainis, in Italia gli stranieri aumentavano di quasi mezzo milione l’anno, quelli rego-lari erano ormai quatto milioni ma la concessione delle cittadinanze erano solo una frazione, da un terzo a un decimo, di quelle concesse dagli altri grandi paesi europei).

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La Chiesa continuava ad esternare a tutto campo. Sui problemi dell’immigrazione e del lavoro innanzitutto. Sulla prima la parola d’ordine era “ospitalità e legalità” che faceva stare unite le due anime anche interne alla gerarchia, quella più legalista e quella più evange-lica e che portava a predicare la necessità di non esasperare il tema immigrazione (e perciò l’Osservatore Romano, per i fatti degli scontri calabresi di Rosarno tra cittadini ed immigrati, bollava gli italiani di razzismo). In materia di lavoro il Papa richiamava a un “grande senso di responsabilità da parte di tutti: imprenditori, lavoratori, governanti” per affrontare la crisi. Nelle stesse settimane, riprese virulenta la polemica dell’estate precedente sul caso Boffo, con l’obiettivo di implicare il di-rettore dell’Osservatore Romano, Vian, insinuando corresponsabilità del cardinale segretario di Stato Bertone. La Santa Sede smentì reci-samente le supposte ricostruzioni sui retroscena delle dimissioni attra-verso una nota approvata da Benedetto XVI. In cui si affermava che Lui era sempre stato informato e si deploravano gli attacchi ingiuriosi al segretario di Stato e al direttore dell’Osservatore Romano. In ogni caso, le polemiche sul caso Boffo erano quisquilie rispetto ai vorticosi attacchi fatti allo stesso Pontefice e alla Chiesa nel suo complesso, in specie sulla questione della pedofilia, in diversi paesi del mondo, a cominciare da Stati Uniti, Belgio, Austria, Irlanda, Gran Bretagna, per citare quelli più vivaci in proposito. Benedetto XVI in prima persona reagiva con decisione agli attacchi e imponeva una linea di penitenza e di rigore all’interno.

A distanza oramai di un biennio dall’inizio della presente legisla-tura, si poteva altresì prendere atto del blocco di ogni discussione par-lamentare in materia di legge sulla libertà religiosa, che era iniziata nella seconda metà degli anni novanta ed abbiamo visto proseguita in un modo o nell’altro fino alle politiche 2008. Appariva chiaro un mutamento di clima, non solo nel centro sinistra (i proponenti, quello storico Maselli e Spini, non più deputati) ma anche nella maggioran-za di centro destra. Nella fase antecedente, il governo Berlusconi del quinquennio 2001-2006, era stato presentato un progetto di legge ana-logo a quelli del centro sinistra. Ora nel centro destra erano prevalse le posizioni di quanti preferiscono non compiere interventi ulteriori rispetto al quadro costituzionale (tralasciando che così resta in vigore il grave equivoco della legge sui culti ammessi, la famosa 1159/1929 di epoca fascista) anche per non dover affrontare il dibattito con la parte leghista a proposito della questione dei musulmani. Da rileva-re anche che su tale questione, finché la discussione è stata aperta in Parlamento, la Chiesa aveva espresso l’avviso che comunque si dovesse

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porre attenzione a mantenere l’esigenza di trattamenti differenziati tra confessioni rientranti o meno nelle Intese con lo Stato (e questa di-screpanza di trattamento delle religioni è concetto assai problematico).

In quello stesso periodo del febbraio 2010, il Ministro degli Interni Maroni mutò parere sulla questione dei rapporti con il mondo musul-mano (pare per consiglio del suo sottosegretario Mantovano, del PDL, nonché della deputato Souad Sbai, sempre del Popolo della Libertà e dei musulmani avversari del radicalismo, che facevano parte nella pre-cedente Consulta) e insediò un Comitato per l’Islam italiano nuovo di zecca. La impostazione non era più la rappresentanza del mondo isla-mico bensì quella di gruppo di consulenza del Ministro per fornirgli proposte sulle questioni rilevanti della presenza musulmana in Italia. Questa volta erano 19 membri, di cui cinque tra gli otto già presenti per la moderata Federazione islamica e senza membri in riferimento all’Ucoii, considerata espressione di un mondo islamico radicale non affidabile. E poi svariate persone di varie personalità laiche e religiose. In tutto 12 musulmani e 7 no. L’Ucoii protestò vivacemente asserendo che vi sedevano “alcuni tra i più noti islamofobi del paese, qualche pateti-co millantatore oltre a funzionari di potenze straniere” e denunciando il disegno di voler creare una sorta di controllo di Stato contraddicendo l’art. 8 della Costituzione.

Intanto da almeno un trimestre erano ormai crescenti le polemi-che nel Popolo della Libertà tra il Presidente della Camera Fini e il Presidente del Consiglio Berlusconi. In sintesi Fini osservava che il “premier confonde consenso e immunità” e questo portava i parlamen-tari finiani ad una serie di rilievi operativi nella attività delle Camere. In questo clima potenzialmente teso, si arrivò a fine febbraio all’ini-zio delle procedure elettorali per le elezioni regionali. Qui, i dirigenti ufficiali del PDL commisero errori nella presentazione delle liste del PDL sia a Roma che a Milano. In specie a Roma, fecero errori che non hanno precedenti nella storia della Repubblica. Per moltissimi giorni vi furono polemiche furibonde – e connessi ricorsi agli organi eletto-rali e giurisdizionali – sulla possibilità di ammettere alcune liste per le candidature PDL a Roma, Polverini, e a Milano, Formigoni (tra l’altro ambedue non della cerchia stretta del Presidente del consiglio, anzi la Polverini dell’area Fini). Il PDL aveva fatto il grosso pasticcio tutto da solo, con l’arroganza di chi, invasato dell’esser maggioritario, pensa di poter fare senza regole. Da questo pasticcio, però, tutti venivano coinvolti.

Esisteva altissimo il rischio che in due grandi regioni fossero as-senti le liste del partito più votato. Da qui l’innegabile interesse del

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Presidente del Consiglio a trovare un rimedio. Che però non escludeva l’interesse di tutti a trovarlo. Lasciare fuori i candidati della maggior forza politica (seppure per colpa sua) sarebbe stato profondamente antidemocratico perché avrebbe trasformato errori di procedura in sostanza facendole prevalere sui rapporti della convivenza reale. Lo affermavano anche due massimi esponenti della cultura di riferimento dell’opposizione di sinistra, l’attuale Presidente Napolitano e l’ex Presi-dente Scalfaro. Vi furono una serie di tentatitivi e provvedimenti anche di decretazione di urgenza, con l’opposizione che la riteneva incostitu-zionale e arrivava a chiedere l’impeachment per Napolitano reo di non averla bloccata. Questo facilitò la campagna tradizionale del centro destra, siccome l’opinione pubblica non movimentista e lontana dalle esasperazioni aveva difficoltà a ritenere Napolitano complice di Berlu-sconi. Il risultato finale fu che mentre a Milano fu possibile correggere gli errori, a Roma fu riammesso il listino della candidata Presidente ma non la lista del PDL e così in Lazio si arrivava al voto con la coalizione di centrodestra della Polverini priva del suo alleato più grosso.

Alle elezioni regionali di fine marzo 2010, nel complesso preval-se nettamente il centro destra del Presidente del Consiglio e del suo principale alleato Bossi. E incredibilmente riuscì a spuntarla, di poco ma non sul filo di lana, perfino nel Lazio (ove Berlusconi si era impe-gnato di persona nonostante il totale scetticismo di tutti i suoi). Questa prova di forza del Popolo della Libertà (o più esattamente di debolez-za dell’opposizione) non bastò peraltro a rasserenare il clima interno. Tra Berlusconi e Fini si manifestò subito il gelo sulle riforme, anche perché, con cadenza pressoché quotidiana, le dichiarazioni di Fini fa-cevano da controcanto alle iniziative di Berlusconi. A metà aprile si verificò l’uscita dal Comitato per l’Islam italiano di Scialoja, Direttore della Sezione Italiana della Lega Musulmana Mondiale e uno dei com-ponenti che già facevano parte della precedente Consulta di Amato in rappresentanza dei musulmani moderati. Scialoja si dimise perché, nelle nomine dei gruppi di lavoro, tra i relatori c’erano pochi musul-mani e troppi contrari all’Islam. Diceva del Ministero che forse erano stati mal consigliati, ma la questione reale era che Maroni aveva volu-to fare un comitato di consulenti, non di rappresentanti musulmani, mentre Scialoja sognava il sistema degli esperti incaricati di parlare a nome dei musulmani.

Negli stessi giorni si rinnovarono polemiche con il Vaticano da parte del mondo omosessuale fortemente critico per una frase del Car-dinale Bertone che, in Cile, durante una discussione sul celibato de-gli ecclesiastici ed i suoi possibili collegamenti con la pedofilia, aveva

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detto: “numerosi psichiatri e psicologi hanno dimostrato che non esiste relazione tra celibato e pedofilia, ma molti altri, e mi è stato confermato anche recentemente, hanno dimostrato che esiste un legame tra omoses-sualità e pedofilia. Questa è la verità e là sta il problema”. E subito dopo si incastrò la bocciatura da parte della Corte Costituzionale di un ri-corso di due Tribunali veneti per la non costituzionalità del divieto di matrimoni tra omosessuali. La Corte aveva sentenziato che il problema della costituzionalità non si pone e che spetta al legislatore decidere in proposito. In sostanza una vicenda significativa sotto il profilo del ri-chiamo, da parte della Corte, dell’esigenza (ovvia in realtà) che i criteri di come convivere non possono essere affidati al magistrato bensì alla legge. Esigenza trascurata in radice da larga parte del mondo politico del centro destra e del centro sinistra, che per calcoli elettoralistici non riesce neppure, si è visto, ad affrontare la questione delle famiglie di fatto, e che spera siano altri a togliere le castagne dal fuoco. Figuria-moci su questioni più avanzate che richiederebbero una dibattito serio e consapevole.

Verso la fine di aprile 2010, in occasione della Direzione del Popolo della Libertà, concepita ed attuata come un rilevante evento mediatico, vi fu un ulteriore forte scontro pubblico tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Camera. La sensazione delle immagini trasmesse era quella di un rapporto ormai saltato pressoché completamente, in-nanzitutto sui legami con la Lega Nord, ma anche sul piano personale riguardo al peso riconosciuto da un fondatore del PDL all’altro. Le polemiche si acuirono poco dopo quando scoppiò una rissa televisi-va tra il Capogruppo PDL alla Camera e il suo vice, finiano, il quale venne perciò costretto alle dimissioni, peraltro giudicate senza motivo da Fini.

Di rilievo vi fu poi la sentenza del Consiglio di Stato sulla questio-ne della valutazione dell’ora di religione a scuola. Una sentenza bifron-te, perché nell’immediato dava ragione al Ministero (nell’ordine i mi-nistri Fioroni, PD, e Gelmini, PDL) che voleva la religione rientrasse nei crediti scolastici, ma nella sostanza affermava il contrario, dicendo che senza corsi alternativi davvero esistenti ci sarebbe una violazione della libertà religiosa dello studente e che quindi “di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente farsi carico”.

Il Vaticano fu di nuovo al centro di furiose polemiche perché la gestione del suo enorme patrimonio immobiliare a Roma, affidata all’ente Propaganda Fide, era stata coinvolta nei suoi vertici nel giro di inchieste per i poco chiari affari di diversi costruttori o gestori “amici” riconducibili anche ad uno dei massimi dirigenti del Popolo della Li-

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bertà. Le accuse, per quanto concerneva l’istituto vaticano, non appa-rivano chiaramente fondate ma comunque la gerarchia, pur precisan-do che le contestazioni risalivano a fatti datati, avviò un forte ricambio all’internodi Propaganda Fide, anche perché il cardinale responsabile da quattro anni era indiano ed aveva notevoli problemi di salute. E per il Vaticano Propaganda Fide è troppo importante, sia per l’immagine generale ai fini delle offerte dei fedeli sia perché da sola sostiene gli oneri economici di più di un terzo delle missioni nel mondo. Qualche settimana dopo scoppiò anche una sorta di scandalo a Napoli, ove era arcivescovo il Cardinale Sepe, organizzatore del Giubileo 2000 e subi-to dopo responsabile di Propaganda Fide per un quinquennio intero. Venne data notizia di un’inchiesta sulla Curia napoletana. Il Vaticano mostrò di mobilitarsi a massimi livelli e l’interessato dichiarò una linea di disponibilità a collaborare con gli inquirenti per chiarire. Tuttavia venne rilevato che l’articolo 11 del Trattato Lateranense prevede che “gli enti centrali della Chiesa Cattolica sono esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano”. Come per dire, i Patti impongono rispet-to a un principe della Chiesa.

In ogni caso, il momento continuava ad essere difficile per la Chie-sa non solo in Italia. Perfino in Belgio, un paese che non aveva mai avuto bisogno di concordati per avere solidi rapporti con il Vaticano, i gendarmi belgi irruppero durante una assemblea della Conferenza episcopale belga, bloccando per quasi dieci ore i vescovi, alla ricerca di documentazione anche in tombe di importanti cardinali del passato. Il filone era quello oramai endemico della pedofilia. Il Vaticano inter-venne direttamente nella questione con note di protesta e deplorazioni da parte dello stesso Papa per i modi in cui erano state condotte le in-dagini. Sempre peraltro auspicando che la giustizia faccia il suo corso, rammentando la sua posizione anche tre mesi prima per l’Irlanda – e cioè “tali gravi fatti vanno trattati dall’ordinamento civile e da quello canonico, nel rispetto della reciproca specificità e autonomia” – e am-monendo i Vescovi di continuare a cooperare con le competenze delle autorità civili. Il Papa temeva l’eclissi del senso di Dio, al di là delle conseguenze più mondane. Certo che le conseguenze materiali stavano divenendo molto consistenti. Nei soli Stati Uniti negli ultimi quindici anni prima del 2010 sono state risarcite più di 1800 vittime comples-sivamente con più di un miliardo di euro. Ma era ancor più preoccu-pante la prospettiva di principio. Poiché proprio in quei giorni negli Stati Uniti la Corte Suprema ha stabilito che il Vaticano è sì uno Stato sovrano ma i suoi membri, anche quelli massimi, non possono godere di alcuna immunità diplomatica nei processi civili attivati per gli abusi

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sessuali commessi da ecclesiastici. Il che, dal punto di vista politico istituzionale, significa due cose correlate. Che negli USA lo svolgimen-to di attività religiose non può schermarsi dietro un paravento di stato estero e che lo svolgimento di quelle stesse attività coinvolge sul piano civile tutti i responsabili dell’organizzazione religiosa, anche se non americani. In altre parole i comportamenti religiosi non hanno uno status estraneo alle regole della convivenza civile e tanto meno rispetto ad esse privilegiato. Un indubbio e bell’esempio di laicità istituzionale.

Sempre nello stesso periodo, il Presidente Napolitano celebrò a Santena il duecentesimo anniversario della nascita di Cavour con un importante discorso che parve una risposta alle esplicite tendenze di certa sedicente storiografia dei cattolici più confessionali – sul tema al-leata di fatto con delle dichiarazioni in libertà di esponenti della Lega Nord – che tendevano a non celebrare Cavour nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia.” Il timore che si potesse procedere nelle celebrazioni del nostro centocinquantenario trascurando la valorizzazione di Cavour, dei fatti, dei luoghi, dei simboli che a lui riconducono, non meritava neppure una ovvia smentita”. Naturalmente il Presidente, ben conscio che le polemiche su Cavour non erano un vezzo storiografico, siccome facevano parte di precise e contrapposte concezioni politiche, si pre-occupò di confermare la questione dal suo punto di vista essenziale, quella dell’importanza decisiva di Cavour sull’Unità d’Italia, e quin-di implicitamente su Roma, peraltro non affrontando direttamente il tema del Libera Chiesa in Libero Stato. “Il processo di avvicinamento all’Unità d’Italia e il suo coronamento, non sopportano qualsiasi rappre-sentazione restrittiva o unilaterale… Non si può giocare a fare i garibal-dini, i democratici o i rivoluzionari contro i moderati cavouriani, né a separare il ruolo di guida svolto da Cavour, fermo restando il riferimento all’autorità del Re, dall’iniziativa di Garibaldi, dagli impulsi di Mazzini, dalle intuizioni di Cattaneo. La grandezza del moto unitario in Italia sta precisamente nella ricchezza e molteplicità delle sue ispirazioni e delle sue componenti; la grandezza di Cavour sta nell’aver saputo governare quella dialettica di posizioni e di spinte, nell’aver saputo padroneggiare quel pro-cesso fino a condurlo al suo sbocco più avanzato… La più recente opera, anch’essa di non comune impegno e spessore, dedicata a Cavour ha messo in evidenza le motivazioni di fondo che ne orientarono la politica oltre i limiti del Regno sabaudo, nel quale si venne formando e affermando… Si è riaffacciata in quest’ultimo periodo la tesi dell’assenza, nel disegno cavouriano, dell’obbiettivo di un’acquisizione del Regno delle Due Sicilie come parte del nuovo Stato che ci si proponeva di far nascere dal Regno di Sardegna. Ma già in opere precedenti, e tra le maggiori dedicate a Ca-

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vour, si era ragionato sul carattere aperto e dinamico di quel disegno, che non abbracciò immediatamente la ricerca dell’intera unità d’Italia, ma si allargò via via in modo da comprendere e cogliere tutte le opportunità e le esigenze che emergevano dallo sviluppo stesso dell’impresa originaria e dall’evolversi dello scacchiere europeo. Non ci si dedichi dunque – in vista del centocinquantenario – a esercizi improbabili, per non dire del tutto campati in aria, di nostalgismo meridional-borbonico o di cavouri-smo immaginario, nell’idoleggiamento di un presunto Cavour chiuso in un orizzonte nordista e travolto nolente dalla liberazione del Mezzogior-no… E di Cavour si trasmetta sempre di più, specialmente qui a Torino e in Piemonte, l’esperienza di riformatore liberale, che non deve essere offuscata dal ruolo preminente poi assunto sulla scena nazionale e sulla scena politico-diplomatica europea”.

Considerazioni, quelle del presidente, oggettivamente esatte, che, già per questo, imporrebbero riflessioni approfondite in vari settori della politica. Restano certo considerazioni legate al ruolo istituziona-le svolto. E il ruolo istituzionale evidentemente ha consigliato di sor-volare su ogni riferimento esplicito al Libera Chiesa in Libero Stato. Un principio che è stato al tempo stesso la chiave di volta per dare consistenza e realizzabilità al disegno unitario di Roma Capitale e il maggior lascito di prospettiva politica di Cavour. Questo libro sostiene che è un sempreverde perché è un’indicazione tuttora valida del come affrontare e risolvere i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, nei termini di allora, e tra lo Stato e le religioni, nei termini di oggi. Un principio che il mondo cattolico non ha mai accettato nella sua essenza e che anzi ha cercato sempre di avversare rivendicando una propria supremazia, ri-uscendo poi nell’intento con l’aiuto della destra mussoliniana prima e della sinistra togliattiana dopo. Conscio di tutte queste difficoltà e per di più testimone della scarsa attenzione attuale ai contenuti della poli-tica, il Presidente Napolitano ha scelto di riaffermare la realtà storica a proposito del decisivo contributo di Cavour all’Unità d’Italia e di non entrare nella questione separatista che in Italia è ancor oggi materia di differenziazioni.

Il Presidente Napolitano, anche per formazione ideologica, ritie-ne che la coesione nazionale si tuteli meglio senza divisioni rilevanti anche a costo di qualche sacrificio sulla libertà di coscienza del citta-dino. Tanto che, poche settimane dopo, a fine giugno, i giornali dette-ro notizia di una lettera del Presidente della Repubblica al convegno organizzato da un’Associazione cattolica in vista del pronunciamento della Grande Chambre di Strasburgo sull’appello del governo italiano contro la prima sentenza sul crocifisso (lettera peraltro non reperibile

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sul sito ufficiale del Presidente della Repubblica). Napolitano avrebbe scritto “la laicità è una garanzia della libertà religiosa… disponibilità ad accogliere e amalgamare le tradizioni più diverse, senza escluderne alcu-na, in una logica non già di indifferenza ed esclusione, ma di inclusione e arricchimento reciproco” e avrebbe concluso “sulle simbologie religiose è più opportuno che decidano i singoli Stati, che percepiscono meglio i senti-menti diffusi nelle rispettive popolazioni”. Conclusione assai discutibile da un punto di vista separatista (perché non consegue alla premessa) ma che soprattutto pare esprimere una volontà di restare un punto di riferimento per la coesione nazionale tra le opposte tesi dopo qualun-que pronunciamento definitivo della Grande Chambre (se la prima sentenza venisse confermata, essere un Presidente che intende tutelare anche certi sentimenti cattolici diffusi in Italia, se invece venisse accol-to l’appello, essere un Presidente che ribadisce la laicità quale garanzia della libertà religiosa).

Nel terminare la carrellata di questi 150° di vita italiana, è infine da rilevare che le cronache dell’estate del 2010 sono state contraddistinte dalla definitiva rottura formale, all’interno della coalizione di centro destra, dei rapporti tra il Presidente del Consiglio ed il Presidente del-la Camera. I fatti che finora si possono capire sono che i parlamentari seguaci dell’on. Fini hanno costituito alla Camera e al Senato, un nuo-vo gruppo parlamentare, Futuro e Libertà, dichiaratamente schierato all’interno della maggioranza di centro destra, maggioranza di cui ri-tengono di essere parte determinante al pari della Lega Nord. Il nuovo gruppo è in larga parte composto da ex dirigenti di AN ma non solo (del resto sono restati nel gruppo del Popolo della Libertà diversi molti altri massimi dirigenti di AN ). Questa nuova realtà prefigura aperta-mente la formazione anche di un nuovo partito politico con l’obiettivo di costituire una nuova destra, più coerentemente collocata, si sostiene, all’interno dei conservatori europei del Partito Popolare. Gli eventi mostreranno quali contenuti effettivi si darà la nuova formazione par-titica del centro destra.

In ogni caso è evidente che la divisione del Popolo della Libertà dopo pochi mesi di vita costituisce un’ulteriore conferma, oltre alle divisioni nel PD e dal PD, della impraticabilità del principio della in-differenza culturale, del bipartitismo fondato su di essa e della conse-guente semplificazione riduttiva dei problemi. E ciò sia per motivi con-cettuali che per ragioni di fatto. Ovunque, non solo nella tradizione italiana, il bipartitismo in democrazia non corrisponde alle cose della vita. Cosa del tutto diversa dal bipartitismo sono i sistemi elettorali maggioritari, se correttamente intesi non come letto di Procuste delle

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formazioni politiche ma come strumento per favorire la scelta da parte dei cittadini (che è il metro sperimentalmente più efficace). Da qui, la necessità di non equiparare al bipartitismo (una pericolosa mitizzazio-ne prodromica al personalismo dell’uomo forte) il bipolarismo in fase elettorale (che spinge a coalizioni modellate sull’esigenza di chiare scel-te di governo connesse allo specifico programma di ciascuna di esse). Così il bipolarismo in fase elettorale, senza imporre partiti innaturali all’insegna di semplificazioni irrealistiche, regola il parlamentarismo, che talvolta, lasciato a sé con il sistema puramente proporzionale, può essere incline a degenerare con la pericolosa amnesia circa il suo dover rappresentare la sovranità del cittadino.

* * *

Le vicende italiane dei rapporti tra Stato e religioni in questi 150 anni, fanno emergere evidente un fatto. In questo periodo, molte cose si sono evolute positivamente. I rapporti di convivenza e le condizio-ni di vita dei cittadini sono complessivamente molto migliorati negli aspetti materiali, vi è assai più apertura nello scambio delle idee, è diffusa maggiore attenzione alla libertà economica e quasi tutti hanno più rispetto dei diritti e della personalità di ciascun cittadino. Purtrop-po però, va anche detto che, grosso modo nell’ultimo ventennio, si è manifestata una preoccupante regressione progressiva nello spessore e nei contenuti del concreto dibattito sui temi politici della convivenza. Si è pensato che, caduto l’incubo Unione Sovietica, le dinamiche del-la rappresentanza politica fossero equiparabili a quelle dei consumi e dei loro meccanismi pubblicitari. Questa assurdità – divenuta oggi un dato sperimentato – ha aggravato il problema della mancanza del sepa-ratismo Stato religioni e ha lasciato campo alle diatribe di puro potere.

Per giungere ad una constatazione simile, basta soffermarsi sul come ha avuto inizio e sul come si conclude il periodo qui esaminato. Si è aperto con gli accaniti dibattiti politici sugli indirizzi del Conte di Cavour imperniati su due aspetti storici del calibro Unità d’Italia e il sempreverde principio Libera Chiesa in Libero Stato, e si conclude con dibattiti politico culturali talmente asfittici che spesso è pressoché impossibile capirne il costrutto rispetto ai reali problemi attuali della convivenza.

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Data la situazione, per il futuro è indispensabile uscire da una simi-le strettoia. Dobbiamo ricuperare presto la passione per la politica delle idee e dei progetti, senza la quale inizierà una decadenza inarrestabile, soprattutto a paragone con altre società ed altri paesi. Non sarebbe la prima volta che un popolo o una nazione, incapaci di rinnovarsi come obbliga a fare la vita stessa, finiscono per sgretolarsi. L’Italia non è an-cora a questo punto ma proprio per non arrivarci è necessario reagire presto e rimettersi a ragionare dedicandosi alla politica delle idee e dei progetti. Non esistono scorciatoie elusive. Il pensare trascurando il senso della realtà o il fare trascurando il pensare, portano a non avere futuro. Il separatismo, con il suo fondarsi sulla responsabilità del cit-tadino individuo e il nesso con il tempo, resta la strada maestra (di cui traccio la mappa nella seconda e terza parte). Una strada faticosa, come lo è ogni cosa necessaria a mantenere lo spirito giovane e ad evolvere.

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parte ii il principio di Separazione

per convivere meglio

24. L’arretratezza in Italia del principio di separazione.I cattolici chiusi

Dagli avvenimenti del secolo e mezzo passato ripercorsi fin qui in sintesi fedele, emerge un aspetto difficilmente controvertibile. In Ita-lia, salvo il primo periodo, lo spirito della separazione non è stato tran-quillamente applicato. Mai. Per diversi decenni a causa delle ritrosie ostruzionistiche del mondo cattolico, dopo a causa dell’ideologismo illiberale espresso in vari modi dalla sinistra marxista e dalla destra re-azionaria. Negli ultimi ottanta anni ne è stata anche eliminata la trac-cia giuridica strutturale. In termini di pacificazione – l’idea all’epoca tirata tanto in ballo per giustificare i Patti Lateranensi – il nuovo or-dinamento ha posto fine (a caro prezzo) alla Questione Romana nel quadro dei rapporti internazionali tra Stati sovrani, ma non ha di certo migliorato la convivenza civile interna allo Stato italiano.

L’esperienza mostra che la realtà dei rapporti di convivenza spinge di continuo ad applicare il principio di separazione tra Stato e religioni. E che in Italia i provvedimenti corrispondenti ad una logica separatista vengono assunti assai in ritardo rispetto ai bisogni della convivenza. Non tempestivamente e solo dopo l’urgere delle questioni reali. Peral-tro, finiscono per modellarsi sul criterio di separazione Stato-religioni non solo alcuni comportamenti sociali diffusi (è un dato di fatto che, mentre riconoscimenti di fiducia nella Chiesa permangono solidi, una quota sempre calante di cittadini pratica i modi di vita insegnati della Chiesa), ma perfino norme per regolare aspetti della convivenza. Che, di volta in volta, in quei casi ne trae giovamento.

Questa spinta alla separazione in un ambiente culturalmente re-frattario, ha finito per rendere plausibile il diffondersi nello spazio pubblico del paese di un concetto soporifero – che può avere cause

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diverse, quali la sottovalutazione, l’ipocrisia, la faciloneria, l’oppor-tunismo, la furbizia, il servilismo, la chiusura fideistica, l’ossessione ideologica, e può essere sottoposto a stimoli diversificati a seconda che prenda piede nel mondo più laico o nel mondo più cattolico – ma che concetto soporifero resta. Il concetto secondo cui la separazione Stato religioni sarebbe già un dato di fatto applicato nella laicità istituzio-nale (specie dopo il riconoscimento fattone dalla sentenza della Corte Costituzionale nel 1989). Dunque il problema non sussisterebbe più e sarebbe perciò inutile un impegno politico al riguardo. Solo che la realtà dei problemi correnti smentisce questo concetto in pieno e di continuo. Per varie e secolari ragioni storiche, l’Italia è arretrata nel campo della separazione Stato religioni. Rincorre sempre avvenimenti e bisogni che ne consiglierebbero l’applicazione. È giunto il tempo di affiancarli in partenza e riuscire a precederli.

Non facciamola facile. Si deve tener conto che, in Italia, il prin-cipio di separazione è visto con fastidio da moltissimi. Per opposte convenienze, preferiscono celebrare i fasti dell’antico anticlericalismo, quando lo scontro era con il temporalismo. Così, sia il mondo dei non credenti che il mondo dei credenti laici di origine più ideologizzata o con radici laiche culturalmente più superficiali, sembrano non porsi il problema che il passare del tempo ha fatto emergere problematiche non più direttamente attinenti il potere temporale della Chiesa. Oggi, la Chiesa mette in primo piano la partecipazione di cittadini religiosi nell’influire e nel decidere sulle cose della quotidianità, non il potere temporale. Da parte loro, gli ambienti cattolici esterni alla gerarchia vedono il principio di separazione tra Stato e religioni come cosa da tener lontano. Così, da un lato, scelgono la via comoda di rifarsela con il fantoccio polemico liberale avversato per decenni prima e dopo il 1929, e dall’altro, anche quando vogliono essere più riflessivi, pensano inopportuno riportare in auge un principio avvertito come sistema più pericoloso (perché più efficace) nel costringere la comunità religiosa a rivedere il suo modo profano di evangelizzare la società italiana. Inr-tanto, per quelli della gerarchia, il separatismo è un principio non con-diviso per tradizione e, considerando che non pare attuale nel mondo civile, un principio in fin dei conti ai margini dell’impegno dottrinale.

Essendo questo lo stato delle cose, è diffusa l’abitudine di non riflettere sull’importanza del principio di separazione. Da parte laica perché, drogati da un’idea di individualismo senza relazioni, si tende a non ragionare su quale sia il modo più confacente di promuovere regole di convivenza basate sulla libertà individuale. Da parte catto-lica perché, orfani dei bei tempi in cui i cattolici erano politicamente

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centrali, si tende ad occuparsi del proprio gruppo e di come poter mantenere se non un primato almeno la presenza cattolica premi-nente rispetto a chi la contesta in vario modo. In ambedue i casi, si propende a fare valutazioni politiche modellate solo l’oggi senza in-quadrarlo in dinamiche di prospettiva. Ci si prefigge più di prevedere come andrà la prossima gara politica tra le squadre di cui si fa parte, che non di proporre cornici di regole meno contingenti e meno legate agli interessi di potere effimeri. Con il risultato di non riuscire né ad affrontare bene la quotidianità della convivenza né a rendere possi-bile l’evolvere nel futuro della libertà individuale, in senso spirituale e in senso fisico. Risultato: si pongono le premesse per soffocare la stessa convivenza.

È urgente riflettere più attentamente sul fatto che il ritardo italia-no sul principio di separazione è figlio di resistenze concettuali molto radicate. In pratica, il criterio di separazione tra Stato e religioni è sop-portato a denti stretti perché se ne intuisce la concreta inevitabilità. Al tempo stesso, però, è rifiutato come principio lungimirante – talvolta anche dichiarandolo – da tutti coloro che non praticano il filone cul-turale liberale (e in Italia sono moltissimi) e che, più o meno consape-volmente, sono disturbati dall’avvertire che il principio di separazione introduce aspetti di liberalismo. Sotto questo profilo non fanno altro che constatare un fatto. Ma ciò non giustifica per niente il loro rifiuto pregiudiziale, che per la convivenza comporta esiti sperimentatamente negativi.

Dovrebbero piuttosto approfondire la natura delle forti obiezioni che loro fanno al principio di separazione in sé e alle sue conseguenze pratiche, senza farsi influenzare dalla circostanza che tale principio rientri nel filone della cultura liberale. Non perché debbano prepa-rarsi a divenire anche loro liberali (cosa che nessun liberale chiede, se liberale lo è davvero). Quanto per valutare oggettivamente che le loro obiezioni riferite alla convivenza civile sono preoccupazioni in-fondate. Contrariamente alle loro obiezioni, il principio di separazione consente la miglior convivenza tra diversi, purché questi diversi non pretendano di trasformare il proprio proselitismo in negazione degli altri. Senza dubbio ciò significa qualcosa, vale a dire accettare l’impos-sibilità che nella vita sia accettabile un monopolio, il che fa spuntare fuori il liberalismo. Questa è però una piccola concessione di principio che oramai anche lo spirito più credente, anche se non liberale, può tranquillamente fare per favorire una pacifica convivenza civile. Dato che quando la convivenza non è pluralista, ha dentro di sé pericolosis-sime cellule cancerose.

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A questo punto, prima di addentrarmi nelle riflessioni, ritengo opportuno stabilire una convenzione terminologica che nel prosieguo consenta di non ingenerare equivoci restando coerente con le idee sostenute. Siccome è un aspetto assai rilevante prendere atto (e dico prendere atto per far intendere che la cosa non merita neppure più di essere approfondita, se non si vuole tornare indietro di moltissimi decenni) che le parole laici e cattolici indicano una distinzione politi-ca necessaria e non una contrapposizione obbligata, adotterò una ter-minologia che non possa essere interpretata come un ritorno a quella contrapposizione. Pertanto la parola “cattolico” andrà intesa come “di religione o di religiosità cattolica” (quindi descrittiva di una caratte-ristica senza darne giudizi di tipo civile) mentre la formula “cattolico chiuso” indicherà persone o idee “inclini a vivere il mondo come ri-dotto ad una assorbente dimensione religiosa” (quindi descrittiva del-la caratteristica di una religiosità confessionale) cui loro vorrebbero obbligare gli altri. Per esemplificare, un cattolico potrà essere o non essere laico, separatista o concordatario, mentre un cattolico chiuso sarà per definizione non laico (nel senso civile, lo vedremo in seguito), concordatario e temporalista.

25. Il principio di separazione significanon aspirare ad un modello chiuso

Iniziamo a riflettere sulla reale natura del principio di separazione, soffermandoci innanzitutto su una caratteristica fondamentale eppure affrontata molto raramente.

Sostenere l’ampio e coerente ricorso al principio della separazione tra Stato e religioni, cioè della laicità istituzionale, è un atteggiamento completamente diverso dall’aspirare ad un modello istituzionale fisso da imporre al di fuori del tempo e dello spazio. La separazione tra Stato e religioni è un criterio con cui affrontare in politica moltissime que-stioni della convivenza (spesso questioni essenziali), in luoghi differenti nella stessa epoca oppure nello stesso luogo in epoche differenti. È una regola empirica che, togliendo la disputa sul potere temporale dalla ma-teria del contendere quotidiano, consente, attraverso il dibattito civile, il libero espletarsi degli effetti del passar del tempo nelle cose umane della convivenza. Tanto più che, come vedremo, adottare in politica la logica della separazione non implica solo una diversa impostazione quando si opera a livello legislativo ma influenza il come esercitare una serie di importanti funzioni al momento di applicare regole in vigore.

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Invece, il voler trovare un modello-soluzione fuori del tempo e del-lo spazio, indipendente dalle diversità individuali e dalla variabilità delle situazioni e dei problemi, è un retaggio secolare di modi di essere statici, già abbandonati dai successivi sviluppi della conoscenza uma-na. Quei modi si sono dimostrati non in grado di capire il reale e di trovare strumenti di intervento modellabili sul mondo della vita. Pen-siamo alla parabola delle ideologie, infrantesi alla prova delle cose. La logica del modello risolutivo (che poi è solo supposto tale) appartiene ad un altro piano logico rispetto al principio di separazione. Appunto per questo, quanti sono legati alla concezione del modello risolutivo che si pone come eterno (e pretende di esserlo) vogliono trovare a prio-ri un’alternativa al principio di separazione. Il principio di separazione non dovrebbe poter funzionare (ad esempio, perché non si incentra direttamente sulla territorialità degli Stati) ed ha la grave colpa nei rapporti civili di risultare dotato di una capacità liberatrice umana enormemente superiore e persistente.

Ecco il motivo profondo dell’atteggiamento di ripulsa verso il principio di separazione. Ha rotto antiche consuetudini e continua a romperle. Ha fatto vedere che dare regole alla convivenza riesce mol-to meglio se non si devono seguire sempre e comunque prescrizioni preesistenti decise da gruppi elitari al di fuori della partecipazione individuale diffusa. Ha tolto l’immutabile sicurezza della rigidità e della predestinazione. Ha fatto capire che il vero metro di paragone tra diversi approcci è la rispettiva capacità di affrontare nel tempo i problemi reali della convivenza. Almeno, lo è nel costruire le istitu-zioni dello stato adatte a farlo, assoggettandole a continua manuten-zione (che possono interessare anche questioni di territorialità). Ciò al limitato prezzo di smantellare senza pause i privilegi privi di merito, quelli dovuti al solo valore dell’appartenenza ad un gruppo, ad una comunità, ad una tradizione, civili o religiosi che siano. Ed è un prezzo che troppi, egoisticamente, sono riluttanti a pagare.

Va anche sottolineato che, per alcuni, il rifiuto del separatismo non dipende dell’egoismo ma è frutto dell’utopia profetica. Bisogna dirlo perché pure queste persone compongono il mondo reale. A parte le loro personali qualità – le parole che seguono sono di Padre Turoldo, noto anche come poeta, e illustrano la ricchezza della povertà – si ca-ratterizzano per il tendere a segnalare un problema ma non a proporsi di indicarne le vie di soluzione: “poveri sono gli uomini tutti; ma beati sono solo quelli che lo riconoscono e non negano questa verità del loro essere, solo quelli che non cercano disperatamente e in modi vani – per-seguendo ricchezza, autosufficienza e potere – di vivere come se non lo

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fossero; beati sono quelli che a partire da questa riconosciuta condizione di povertà, stabiliscono il loro rapporto con Dio e con gli altri uomini… Non ci potrà essere pace sulla terra finché ci sarà un solo povero umiliato e offeso nel Mondo e non ci renderemo conto che il benessere dell’Occiden-te è un’ingiustizia mondiale e che la civiltà del consumismo è un insulto a tutti i poveri della terra”. Padre Turoldo era assai legato ai problemi della libertà di coscienza ma non percepiva la necessità di distinguere il piano religioso da quello civile come premessa indispensabile per ottenere maggiori risultati. Sul piano religioso può essere profetico in-dividuare i problemi di una situazione del mondo, sotto il profilo civile limitarsi ad enunciare i problemi finisce per incancrenirsi se insieme non compie lo sforzo di coglierne i motivi storici e di indicare le vie per affrontarli e potenzialmente risolverli. La grandezza dei profeti è fuori della realtà e favorisce inintenzionalmente la conservazione delle condizioni del momento.

Tornando all’osservazione di prima (adottare il principio di sepa-razione equivale a non voler avere un modello istituzionale fisso al di fuori del tempo e dello spazio), si deve osservare che dal principio con-segue l’insostenibilità della pretesa di trattative da pari a pari tra Stato e religioni. Infatti, le religioni non possono applicare quel principio, seppure per motivi diversi l’una dall’altra. Quando sono religioni or-ganizzate attorno ad una struttura centralizzata funzionante attraverso sistemi di cooptazione e di autorità promanante dall’alto, le religioni hanno un modello contrapposto a quel principio e non ne rispettano la condizione di rimescolamento dal basso. E quando sono religioni che si fondano su un rapporto diretto tra il fedele e il divino, le religioni hanno un tipo di modello fisso che altrettanto non prevede mutamenti e interposizioni. Fondandosi su un rapporto con la divinità mediato dalla comunità dei credenti, le religioni non possono consentire che qualcosa di esterno alla comunità prenda parte alle decisioni della stessa o le influenzi. Inoltre, nel caso italiano, ove prevale una reli-gione del primo tipo, va poi considerato che, assurdamente, la pretesa di trattative da pari a pari, non viene tanto avanzata dalla gerarchia (negli ultimi decenni) quanto auspicata da ambienti non appartenenti alla gerarchia (i cosiddetti teodem, teocon o, come sono stati efficace-mente descritti, i cosiddetti atei devoti) mossi, lo vedremo, da motivi strumentali.

Un’ultima conseguenza della scelta separatista di non puntare al modello istituzionale fisso, è che fa divenire assurdo il tentativo di mi-surare la salute del principio di separazione in termini di popolari-tà. Non ha senso comparare il suo grado di momentaneo gradimento

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presso gli interpellati oppure il livello di potere esercitato in un dato istante da una o più organizzazioni religiose, con gli stessi parametri usati in altri momenti e per argomenti differenti. La misura del sepa-ratismo è l’ampio grado di completa libertà religiosa (di ogni cittadino e di ogni religione) e di assenza di privilegi confessionali che limitano i diritti di cittadinanza.

26. Il principio di separazione fonda la convivenzasulla libertà del cittadino

Un secondo aspetto da tener presente per riflettere sulla reale na-tura del principio di separazione, è che opera basandosi sulla liber-tà individuale dei vari cittadini: dunque la libertà individuale ne è la condizione necessaria. Una libertà individuale modernamente acqui-sita, che non preesiste alla convivenza materiale, bensì è il frutto del maturare di progressivi rapporti di convivenza nella storia. Ciò è un aspetto fondante. Da un punto di vista sia logico che storico, un conto è prendere le mosse politiche dalla persona reale in carne ed ossa, un conto è muovere da una prescrizione spirituale aprioristica.

Nel primo caso ogni meccanismo della convivenza muove dalla libertà delle persone che convivono, nel secondo quei meccanismi cer-cano di uniformarsi alle prescrizioni di una autorità superiore preesi-stente. Il primo è il mondo della politica della libertà di convivenza, il secondo è il mondo religioso. Non si deve tuttavia trascurare che am-bedue i mondi rientrano nella sfera dello spirito umano, corrisponden-do a due distinte maniere di rapportarsi con la realtà che ci circonda e con gli altri nostri simili. Quello della libertà è legato indissolubilmen-te alla concretezza dei fatti e della vita, che non può mai abbandonare perché deve trarne di continuo le modalità di loro funzionamento per cercare di capirle e poter affrontare meglio le nostre condizioni di esi-stenza. Quello della religione è legato indissolubilmente alla speranza e talvolta all’irrinunciabile aspirazione a che vi sia anche qualcosa di ultraterreno e di extratemporale, il Dio o il divino. Si aspira a questo qualcosa per dar compiutezza e continuità alla vita quotidiana, alla presenza umana su questa terra, per proteggere la comunità dei cre-denti dai pericoli collegandola spiritualmente ad altre realtà ignote e realizzando il sogno di non essere inghiottiti dall’effimero del nulla (in sostanza alludeva a questo il Cardinale Martini scrivendo a proposito del culto dei defunti che apre la speranza all’eternità).

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Il fatto che i due mondi rientrino nello spirito umano non deve essere confuso con la presunta indispensabilità di una loro gestione congiunta delle cose della terra. Ciò è sì possibile, anzi è avvenuto per secoli. In origine, i laici – in quel momento corrispondenti al popolo dei fedeli – erano integrati nella Chiesa quanto i chierici consacrati che la amministravano. Poi nell’alto medioevo, la cultura divenne mono-polio di chierici e monaci mentre i laici non potevano più occuparsi delle questioni della Chiesa ed avevano gli altri come guida spirituale. Successivamente, cominciò ad emergere lo Stato come potere indipen-dente secondo una sorta di spirito laico e questo innescò conflitti tra le autorità degli Stati e dei Comuni con le autorità religiose. Il Papa Bonifacio VIII affermò, all’inizio del 1300, che il potere spirituale do-veva essere esercitato dalla Chiesa ed il potere politico essere a favore della Chiesa. Questa tesi venne però contestata pochi decenni dopo, in particolare da Marsilio da Padova, che sottolineò come la pienezza dei poteri temporali e spirituali spetta al potere universale dello Stato.

Così si avviò il processo di crescente separazione della gestione delle cose del mondo reale da quelle dell’influenza religiosa, si svilup-pò lo spirito laico e progressivamente emerse il rilievo dell’individuo. L’esperienza storica ha fatto capire che dare più spazio ed importanza alla libertà del singolo porta benefici effetti sulla convivenza e sul-la capacità di conoscere. Tanto che la questione ha avuto soluzioni diverse pure nelle diverse religioni, le quali, nei paesi non europei, hanno attribuito ruoli diversificati al potere di interposizione dei mi-nistri del culto, incaricandoli di compiti più circoscritti (in sostanza di svolgere un’opera di elevata esegesi delle fonti e di predicazione, fino al teorizzare un rapporto diretto della persona con il Dio). Il tutto senza scardinare la posizione sovrastante del Dio e per alcuni versi rafforzandola. In seguito, anche in Europa, si è arrivati in modo cre-scente a cogliere la necessità di rivalutare l’importanza della libertà del credente.

Neppure allora, peraltro, una simile esigenza è sorta per contrap-porsi alla religiosità. È nata all’interno di una delle strutture più anti-che e diffuse in cui la religiosità si era manifestata. Non a caso Calvino e Lutero l’hanno qualificata come aspirazione al migliorare il modo di essere religioso della Chiesa per renderlo più efficace nel gestire la realtà umana. Per questa via ha cominciato a svilupparsi l’idea che, al fine di dare spazio alla libertà dell’individuo, non bastasse riformare le strutture della Chiesa, che, essendo fondate sul principio di autori-tà, la negavano. Siffatta mentalità riformatrice della protesta contro la gerarchia prese a diffondersi anche fuori degli ambiti della gerarchia e

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iniziò ad influenzare anche il clima civile vero e proprio per poi svilup-parsi nel tempo in concezioni culturali e politiche.

In Italia le cose sono andate diversamente. In breve, il Concilio di Trento (dal 1545 al 1563), convocato inizialmente con l’obiettivo di trovare un accordo con i cosiddetti protestanti, si risolse progressiva-mente in una vera e propria controriforma rispetto alle idee di Calvino e di Lutero. Naturalmente riferito a questioni teologiche e pastora-li – soprattutto sulla struttura gerarchica imperniata sull’autorità del Papa, sul celibato ecclesiastico e sull’istituzione dell’indice dei libri proibiti – confermò in sostanza la tradizione che identificava la religio-ne cattolica con la Chiesa, vista come rappresentanza divina in terra so-vraordinata al libero arbitrio. Quindi non potevano sussistere margini per aspirare alla libertà civile umana e tanto meno per trasformare in tale direzione il libero arbitrio. Di conseguenza, per secoli la Chiesa ha praticato incrollabilmente una linea di potere temporale senza aper-ture alla libertà civile. Ecco perché, da tempo, grandi liberali hanno osservato che in Italia si è avuta la controriforma senza avere mai avuto prima la riforma.

La lotta al temporalismo è nata dall’esigenza di entrare nel mondo della libertà del cittadino e si è conclusa insieme alla fine del tempo-ralismo. Una volta arrivati in questo mondo della libertà del cittadino, non sussisteva più la necessità della lotta alla Chiesa e alla religione, anzi, per coerenza con la libertà, diveniva prioritario l’esatto contra-rio. Tuttavia, questa istanza di separazione è stata sempre guardata con sospetto e in pratica mai sostenuta, con un appoggio adeguato e diffuso, da un paese immerso per secoli in una mentalità controrifor-mista diffidente verso chiunque esercitasse davvero la libertà civile. Per inciso, questa riflessione porta a valutare ancor meglio la coerenza del mondo liberale per aver introdotto con Giolitti, all’inizio del ’900, il suffragio universale nel segno di una coerenza ai principi abituata a guardare lontano senza fermarsi alle convenienze degli interessi par-ticolari. Il quale Giolitti, tra l’altro, compiendo questo atto, aveva se-guito la strada preconizzata da Cavour cinquanta anni prima, nell’ul-timo discorso al Senato sulla Questione Romana (vedi in Documenti, lettera a).

In tutte queste centinaia di anni, il reale oggetto dello scontro sul terreno civile è stato appunto la questione del ruolo del cittadi-no rispetto ai gruppi a lui sovraordinati per censo, nascita e religione. Quando alla fine è emerso il principio di separazione tra Stato e Chie-sa, la Chiesa prima si è opposta direttamente, dopo, con il passare dei decenni, ha cominciato a divenire più flessibile consentendo ai suoi

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credenti di agire nel politico, poi, dopo altri decenni, ha iniziato a spo-starsi sulla tesi della religione come centro di aggregazione sociale e in quanto tale avente diritto ad una presenza politica (da qui, ad esempio, gli anatemi contro la sessualità non procreativa, che pure è una tipica espressione dell’autonomia primaria del cittadino, oppure il definire le leggi che autorizzano l’interruzione di gravidanza “del tutto prive di autentica validità giuridica”, come afferma l’Evangelium Vitae). Sempre però la Chiesa ha continuato e continua a permettere, meglio a solleci-tare, l’attività di chi, tra i credenti in essa ma che non ne sono membri, continui a sostenere, seppure con felpatezza nuova, la impossibilità che i rapporti tra i cittadini conviventi siano regolati senza criteri ricondu-cibili alla fede religiosa.

In genere, questo tipo di credenti dice di applicare il principio del Vangelo “date a Cesare quel che di Cesare, a Dio quel che è di Dio”. Tali parole, però, dal punto di vista dei credenti, hanno un senso tutto di-verso da quello che potrebbero avere se avulse dal contesto evangelico. Nel contesto evangelico, le parole non implicano la necessaria accetta-zione del principio della separazione tra Stato e religioni fondato sulla sovranità del cittadino. Ricordano solo che Gesù Cristo ha rivelato un indirizzo di fede e che quel “dare” in modo distinto non è riconoscere la sovranità dei cittadini (tra l’altro attenzione, Cesare è lo Stato non i cittadini) ma applicare l’autorità divina. Secondo questa impostazio-ne evangelica, le istituzioni non devono essere equidistanti rispetto ai modi di esprimersi della libertà dei cittadini, né applicarli prima e a prescindere del riconoscere l’autorità della Chiesa che rappresenta Dio. Insomma, Dio non deve uscire dai pilastri dell’istituzione.

Viceversa, il separatismo – del resto così come il liberalismo po-litico  –  si fonda sull’individuo cittadino. E si propone di renderne massima la libertà di vivere esprimendo sé stesso, attraverso il metodo critico dei singoli e tra i singoli e attraverso adeguate regole di convi-venza. Affidarsi alla libertà del cittadino ha due risvolti. Uno è prende-re atto della diversità di ciascun individuo (che nel complesso è dise-guale l’uno con l’altro, essendo l’uguaglianza limitata ai fondamentali meccanismi di vita e ai diritti di viverla), l’altro è rendersi conto che l’identità di ciascuno non è un monolite ma ha più aspetti. Ne deriva una constatazione. Che un gruppo di conviventi (una famiglia, una comunità) può avere sì un certo numero di caratteristiche comuni ma non può avere una identità univoca estesa a tutte le rispettive caratteri-stiche. Ciò, dal punto di vista liberale, non è una teoria ma il modo di cogliere sempre più puntualmente legami e ritmi della realtà, di capire come gli individui convivono tra loro e tra le cose. Ed insieme, adottare

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questo metodo implica formulare ipotesi sulla maniera di svolgere un compito del genere, rispetto ai luoghi ed alle epoche, inventando isti-tuti adeguati per ampliare le relazioni di convivenza e così allargare le capacità espressive di sé, nelle idee e nelle iniziative. Riuscendo – nella storia è sempre avvenuto – anche a perseguire più alte condizioni di vita più rapidamente. Dunque, il liberalismo e il separatismo sono in-dissolubilmente connessi all’esperienza delle elaborazioni culturali nel tempo e ne sono un prodotto. Sono il trarre dalla realtà e ragionarci sopra. Senza presupporre la necessità della creazione o di un modello esplicativo globale.

Ora, è storicamente evidente che far convivere individui senza ave-re regole di convivenza, lascia come unico parametro la forza, non l’ap-porto degli individui. E per esperienza, affidarsi alla forza come mini-mo non assicura la miglior capacità di far fronte alle sfide ambientali e di organizzare al meglio la convivenza. Cosa invece possibile, come si è capito sperimentalmente nei secoli, se le regole danno più spazio ai contributi dei singoli. Il liberalismo, quindi, guarda fisiologicamen-te con diffidenza – e si sforza di attivare lo spirito critico – ad ogni concezione che nella convivenza introduca strutture concettualmente sovrastanti all’individuo o che in qualche modo si frappongono tra l’individuo e la realtà. Restando attento a distinguere tra quelle strut-ture che esprimono l’individualità e non la negano in partenza (tipo le relazioni interpersonali, la famiglia, l’associarsi, il partecipare ad un gruppo sociale, il riconoscersi in una patria) e quelle che la negano intrinsecamente (lo stato etico, la comunità chiusa, la classe eterniz-zata, le elites castali, le corporazioni). Il tutto avendo piena e realistica consapevolezza delle reali pulsioni insite nell’animo umano. Prima di tutto, quella dell’aspirazione all’eterno e alla sicurezza che si traduce nella religiosità, quella del cercare il rapporto umano complementare che si traduce nella sessualità, quella del riconoscere le affinità di stir-pe che inducono i legami di razza e tribali.

I rapporti tra cittadini non possono dunque prescindere dall’esi-stenza di una qualche forma di autonome regole pubbliche –  intese come autoorganizzazione del sistema politico – cioè non possono pre-scindere dallo Stato. Solo lo Stato può garantire il rispetto dei diritti di ogni suo cittadino, diritti che appartengono a quest’ultimo e che non dipendono dalle sue idee o dai suoi gusti. L’esperienza mostra che le società umane senza Stato separatista non assicurano nel tempo la libertà di tutti i loro membri. Del resto le utopie d’ogni specie, poi-ché per natura prescindono dal tempo, non assicurano la libertà di ciascuno. Non lo fanno né la religiosità ancestrale né le odierne idee

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libertariane, che addirittura, teorizzando regole valide solo al livello della comunità aderente, riducono la circolazione sociale escludendo l’ambito di chi non aderisce a quelle regole.

Per questa ragione tutti, non solo i liberali, hanno bisogno dello Stato che prescinde da una confessione religiosa. Fondandosi sulla li-bertà dei cittadini, lo Stato della separazione non può, senza contrad-dirsi, invadere l’esercizio della libertà e dirigerlo in qualche campo, ad esempio in campo religioso (anzi, è proprio questo fondamento la mas-sima garanzia di libertà per ogni religione). Se viceversa le istituzioni sono modellate sul principio di separazione, lo Stato è più duttile nel far funzionare il fisiologico conflitto democratico tra i diversi interessi, le diverse idee, le diverse culture, i diversi generi. Insomma, è più ca-pace nell’affrontare i problemi concreti della convivenza.

Nel quadro della libertà del cittadino, c’è un altro caratteristico (e molto importante) nocciolo del principio di separazione. Separare, da una parte, i criteri di funzionamento del libero interagire tra i suoi di-versi cittadini e, dall’altra, le loro scelte e le loro convinzioni personali espresse in una miriade di modi di vita. Ciò assicura una organicità complessiva del tessuto sociale anche in caso di forme di federazioni territoriali distinte. Nei vari ambiti, le minoranze e i singoli vengono ri-spettati, l’insieme della società può usufruire e sperimentare una mol-teplicità di iniziative, espressioni, ricerche, valutazioni derivanti dalla libertà di ognuno. La maggioranza ha il diritto di compiere scelte per dare alla convivenza indirizzi generali e norme. E questi hanno strut-turalmente dei bilanciamenti intrinseci e sono sempre sottoposti alla verifica dei fatti e ai giudizi di tutti i cittadini. Una simile separazione dei criteri di funzionamento – che è all’origine della società di questo genere – non può essere ottenuta attraverso sistemi di religiosità, che, per loro intrinseca natura, non accettano di essere sottoposti al giudi-zio umano né possono esserlo.

In tal senso, per esempio, è una distorsione gravissima, perché con-traddittoria e depistante, cercare di misurare il grado di successo di una religione sul numero dei suoi fedeli, quasi un credo fosse riducibi-le ad uno spettacolo di cantanti e valessero i rilevamenti statistici. Non a caso, la Corte Costituzionale, con le sentenze 925/1988 e 329/1995, dopo aver rilevato che, con il Concordato 1984, è superata la contrap-posizione tra le religioni basata “soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose”, ha precisato che “in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari pro-tezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza”.

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Insomma, per i fautori del principio di separazione (e della cor-relata laicità delle istituzioni) lo Stato è un’espressione dei cittadini e non qualcosa ad essi sovraordinato. La forza dello Stato liberale non viene dalla religione. Viene dal fatto di fondarsi sul consentire la li-bertà ad ognuno e di conseguenza sul riconoscere la libertà di ciascun altro. Il che può essere anche chiamato in senso retorico, come ha fatto Benedetto Croce, religione della libertà. Ma il contesto di quella frase retorica rende chiaro che in Croce il termine religione non è il sostantivo bensì l’aggettivazione del ruolo essenziale della libertà di ogni cittadino. In altre parole, in quel contesto il termine religione esprime una convinzione al di là della fredda razionalità ed ha una accezione molto lontana dal valore abituale di credo religioso. L’auto-rità, come scrisse icasticamente quasi cento anni fa il conte Gentiloni, necessariamente prescinde dai cittadini e dalla loro sovranità. Perché il riferirsi ai cittadini e alla loro sovranità, conduce per forza a que-stioni di libertà.

Croce esprime questa convinzione di continuo, in tutta la sua ope-ra. Anche se è di moda, o per ignoranza o per premeditazione, cercare di fargli dire cose contrarie a quanto scritto. Il caso più clamoroso è l’interpretazione che il mondo teocon cerca di dare allo scritto di Croce del 1942 Perché non possiamo non dirci cristiani. A parte la pre-liminare necessità di collocarlo nel periodo della propaganda del na-zionalismo tesa al misticismo ariano e al Wodan germanico (come il filosofo chiama l’antico Dio della Guerra) e dunque come esigenza di contrapporsi ad esso, in quello scritto Croce vede lo spirito del cristia-nesimo come uno spirito di libertà e non di una chiesa.

“Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità ab-bia mai compiuta: così grande, che non meraviglia che sia apparso o pos-sa ancora apparire un miracolo… anche la rivoluzione cristiana fu un processo storico, che sta nel generale processo storico”. “S’instaurava il concetto dello spirito, e Dio stesso non fu più concepito come indifferen-ziata unità astratta, e in quanto tale immobile e inerte, ma uno e distinto insieme… Questo nuovo atteggiamento morale e questo nuovo concetto si presentarono in parte ravvolti in miti…” “furono i severi fondatori della scienza fisico-matematica della natura, coi ritrovati che suscitarono di mezzi nuovi alla umana civiltà; gli assertori della religione naturale e del diritto naturale e della tolleranza, prodromo delle ulteriori concezioni liberali; gl’illuministi della ragione trionfante, che riformarono la vita sociale e politica, sgombrando quanto restava del medievale feudalismo e dei medievali privilegi del clero, e fugando fitte tenebre di superstizioni e di pregiudizi, e accendendo un nuovo ardo e un nuovo entusiasmo pel

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bene e pel vero e un rinnovato spirito cristiano e umanitario; e, dietro ad essi, i pratici rivoluzionari che dalla Francia estesero la loro efficacia nell’Europa tutta…”.

E prosegue “la chiesa di Roma, sollecita (come non poteva non essere) di proteggere il suo istituto e l’assetto che aveva dato ai suoi dommi nel concilio di Trento, doveva di conseguenza sconoscere e perseguitare e, in ultimo, condannare con tutta quanta l’età moderna in un suo sillabo, senza per altro essere in grado di contrapporre alla scienza, alla cultura e alla civiltà moderna del laicato un’altra e sua propria e vigorosa scienza, cultura e civiltà”.

Poi Croce conclude “il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi”. Basta leggere queste parole e il riferimento alle “nostre affinate filosofie” per capire il perché la Chiesa (che pratica l’attitudine alla coerenza) abbia sempre guardato con gran sospetto a Croce e alla sua libertà dell’individuo, che riconosce il Dio cristiano come fattore di religiosità piuttosto che come origine della sovranità.

Non è che la Chiesa di oggi non parli di libertà. Alla libertà la Chiesa ha cominciato a dare rilievo positivo con le encicliche Mater et Magistra e Pacem in terris emanate da Giovanni XXIII nel 1961 e nel 1963. Nella prima scrisse (si è visto nel capitolo 10) “non è possibile trovare soluzione che valga, senza ricorrere alla religione e alla Chiesa… il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi è diritto naturale fondato sulla priorità ontologica e finalistica dei singoli esseri umani nei confronti della società” e nella seconda che “la convivenza fra gli esse-ri umani è ordinata, feconda e rispondente alla loro dignità di persone quando si fonda sulla verità,… sulla giustizia,… sull’amore,… sulla li-bertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di esseri portati dalla loro stessa natura razionale ad assumere la responsabilità del proprio operare”. Si trattavano problemi di libertà, quindi, eppure non ci si riferiva alla libertà liberale dei cittadini e della loro sovranità.

E ciò fu ribadito nell’autunno 1964 da Paolo VI. Aprendo i lavori della terza sessione del Concilio Vaticano II, Paolo VI ricordò che il Concilio “si appresta a confermare la dottrina del precedente Concilio sulle prerogative del Sommo Pontefice; però si propone anche e princi-palmente di descrivere e mettere in onore le prerogative dei Vescovi… Se l’incarico apostolico esige da Noi che regoliamo le modalità d’azione quanto all’esercizio della potestà episcopale, tutto questo, come ben sa-pete, lo richiede l’unità della Chiesa; la quale tanto più ha bisogno di una guida suprema, quanto più si dilatano gli spazi della fede cattolica… Come a voi, è affatto necessario un centro e un principio di unità di fede

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e di comunione…; così Noi abbiamo sempre bisogno della vostra opera efficace… affinché la sua fede sia concordemente custodita”. Il che era un modo esplicito per ricordare, l’incrollabile realtà che la Chiesa non è un organo di democrazia collegiale nel senso liberale.

Il punto era così decisivo che il Papa, quando a novembre ’64 emanò la seconda delle Costituzioni del Concilio, la Lumen Gentium, fece inserire “una nota esplicativa previa circa i « modi » concernenti il capo terzo dello schema sulla Chiesa. La dottrina esposta nello stesso capo terzo deve essere spiegata e compresa secondo lo spirito e la sentenza di questa nota”. La nota esplicativa recita “il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo capo, ‘il quale nel collegio conserva integro l’ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale’. In altre pa-role: la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano Pontefice è il ‘capo’ del collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi… Il collegio non sempre è «in pieno esercizio», anzi non agisce con atto strettamente collegiale se non ad intervalli e “col consenso del capo… si tratta di “unione” dei vescovi “col loro capo”, e mai di azione dei vescovi “indipendentemente” dal papa. Questa gerarchica comunione di tutti i vescovi col sommo Pontefice è certamente abituale nella tradizione”. Di nuovo è chiarito in modo inequivoco che la Chiesa non si riferisce alla collegialità derivante dalla sovranità liberale.

Concetti analoghi in materia di libertà vennero confermati in segui-to dai lavori del Concilio Vaticano II nella Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae e nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, ambedue diffuse da Paolo VI il 7 dicembre 1965. La Dignitatis Humanae ha costituito un importante avanzamento della Chiesa verso il concetto di libertà civile abituale nel mondo laico, prima di tutto perché per la prima volta riconosce che i doveri religiosi di cercare la verità, di aderirvi e di farsene apostoli “attingono e vincolano la coscien-za degli uomini, e che la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore”. Poi aggiungeva “è manifesto che oggi gli esseri umani aspirano di poter professare liberamente la religione sia in forma privata che pubblica; anzi la libertà religiosa nella maggior parte delle costituzioni è già dichiarata diritto civile ed è solennemente proclamata in documenti internaziona-li… La libertà religiosa che compete alle singole persone, compete ovvia-mente ad esse anche quando agiscono in forma comunitaria”. Era un do-cumento completamente incentrato sulla libertà religiosa, sul rapporto con Dio, dei gruppi religiosi, della famiglia, dei limiti della libertà

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religiosa, sulla libertà religiosa alla luce della rivelazione, sull’atto di fede, sulla libertà della Chiesa. In nessun suo passaggio veniva fatto qualche riferimento al valore conoscitivo, innovativo e perciò creativo della libertà civile che indicano i liberali.

Nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes si precisava cosa si debba intendere per grandezza della libertà dell’uomo. Vi è scritto “l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà. Spesso però i nostri contemporanei la coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso il male. La vera libertà invece è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina. Dio volle, infatti, che l’uomo cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione… Questa ordinazione verso Dio, la libertà dell’uomo, realmente ferita dal peccato, non può renderla effettiva in pie-no se non mediante l’aiuto della grazia divina”. Gli stessi concetti sono stati poi ripresi dai successori.

Nel 1998, la Fides et Ratio ammoniva “Verità e libertà o si coniu-gano insieme o insieme miseramente periscono”. Nel novembre 2002, il cardinale Ratzinger diffuse una Nota dottrinale rivolta ai Vescovi e ai politici cattolici partecipi della vita politica. Richiamato il Cate-chismo, la Nota Dottrinale afferma che “la legittima pluralità di op-zioni temporali mantiene integra la matrice da cui proviene l’impegno dei cattolici nella politica e questa si richiama direttamente alla dottrina morale e sociale cristiana… l’impegno dei cattolici non può cedere a compromesso alcuno… l’impegno politico per un aspetto isolato della dottrina sociale della Chiesa non è sufficiente ad esaurire la responsa-bilità per il bene comune. La promozione secondo coscienza del bene comune della società politica nulla ha a che vedere con il “confessionali-smo” o l’intolleranza religiosa. Per la dottrina morale cattolica la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica – ma non da quella morale – è un valore acquisito e ricono-sciuto dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà che è stato rag-giunto”. Qui è teorizzato esplicitamente che la laicità non deve essere autonomia morale dalla sfera religiosa, mentre esattamente questa autonomia è alla base della sovrana libertà del cittadino. Forse questa dichiarazione è già molto dal punto di vista religioso, ma in termini di libertà nega l’essenziale riportando le decisioni pubbliche nell’ambito confessionale.

Benedetto XVI nel settembre 2006 arrivò anche a riconoscere che “l’esercizio della libertà religiosa comprende anche il diritto di cambiare religione, che va garantito non soltanto giuridicamente, bensì pure nella pratica quotidiana”. Però poi l’enciclica più recente, del giugno 2009,

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Caritas in veritate, conferma che “la verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valuta-zione del valore e della sostanza delle cose… La fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà… dobbiamo irrobustire l’amore per una libertà non arbitraria, ma resa veramente umana dal ri-conoscimento del bene che la precede”. Ed al capitolo 70 l’enciclica af-ferma in modo inequivoco: “si deve recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell’ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all’appello dell’essere”.

Quindi la libertà è solo libertà di come essere religiosi, non libertà civile del ricercare e dell’interrogarsi per capire (e questo è confermato dal Catechismo della Chiesa Cattolica, capitolo 1899 “L’autorità, che è un’esigenza dell’ordine morale, viene da Dio: « Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno ad-dosso la condanna » (Lettera ai Romani 13,1-2)”). Non è contemplata la libertà all’interno del discorso pubblico, e tanto meno è contemplato che la libertà possa costituire l’essenza della sovranità nel comporre le scelte civili. Anche un recente libro del sociologo professor Diotallevi, molto vicino agli ambienti vaticani, sostiene la differenza tra laicità alla francese (ed anche tra la sana laicità) e libertà di religione all’america-na, per fare considerevoli aperture a questa seconda; nel farlo, peraltro, lascia visibilmente in ombra il nesso (non eliminabile dal punto di vista separatista) della libertà di religione con la sovrana libertà civile del cittadino.

In generale, sta qui la radice del fatto che, pur con le aperture del Concilio Vaticano II al considerare il mondo nel suo evolversi, negli ambienti religiosi cattolici è assai arduo arrivare a comprendere le ra-gioni (e l’efficacia) della opportunità di puntare sulla libertà del citta-dino e a tal fine di adottare il separatismo Stato religioni. Resta molto forte la tendenza, anche per una indebita e confusa sovrapposizione di dati riferiti a tempi e luoghi differenti, a ritenere prevalente la necessità di assicurare non tanto la libertà di religione del cittadino, quanto la libertà delle religioni al di sopra delle persone dei cittadini. Tendenza che peraltro non è esclusiva degli ambienti cattolici italiani, ma viene seguita anche da quelli di molti paesi di origine africana ed asiatica di variegata religiosità, i quali portano ad adottare questo suo criterio, perfino e non di rado, il Consiglio per i Diritti Umani alle Nazioni Unite.

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La libertà delle religioni al di sopra delle persone dei cittadini è una forma di convivenza arretrata che di fatto affida ogni privilegio a gruppi ristretti di custodi di ogni specifica religione e per ciò stesso ri-entra nel genere delle teocrazie. Eppure, negli ultimi tempi, il Cardina-le Scola è di fatto un impegnato sostenitore della tesi della libertà delle religioni. Ha scritto che ormai “sui nuovi diritti vi sono due filoni inter-pretativi, forse incompatibili… da una parte, un’idea gradualistica della dignità umana, che differenzia il valore e la tutela della vita in funzione delle circostanze nelle quali un individuo si trova; dall’altra, una visione dell’uomo quale soggetto singolo che prescinde dal contesto nel quale è inserito. In estrema sintesi, l’esperienza giuridica oggi sembra collocare il singolo al centro dell’ordinamento, saltando i legami sociali nei quali la sua vita concreta è inserita… Se il compito del diritto è consentire la mera contiguità di individui che si muovono su binari paralleli, la vita associata scompare dall’orizzonte del diritto… quest’approccio impoverisce il ruolo della società civile e attribuisce alla sola autorità politica il compito di tu-tela e di cura degli individui. Siamo di fronte alla paradossale affermazio-ne di una massiccia centralità dello Stato, proprio in un momento in cui gli ordinamenti vanno dando spazio, almeno formalmente, al principio di sussidiarietà”.

Le parole sono già chiare. A parte la discutibile suddivisione inter-pretativa, per il Cardinale fondare il diritto sulla centralità del cittadi-no consentirebbe di muoversi su binari paralleli e farebbe scomparire la vita associata prescindendo dai legami sociali. Il che non ha fon-damento per il semplice motivo che il diritto del cittadino, stabilen-do guarda caso le modalità di relazione, costituisce una regola non prevaricatrice per consentire la convivenza del cittadino e non per escluderla. Peraltro il diritto del cittadino esclude un rapporto sociale dominante ed oppressivo, in altre parole i famosi valori comunitari e religiosi antecedenti allo Stato od almeno ad esso affiancati. Appunto la cosa che preme al Cardinale. Ed infatti, per evitare dubbi inter-pretativi, il Cardinale Scola applica le sue osservazioni al problema dell’immigrazione, affermando che “un modello antropologico indivi-dualista non è forse nemmeno un buon terreno comune per affrontare i processi migratori, dal momento che non è di facile assimilazione da parte delle culture non occidentali… L’esportazione della cultura giuridica che si va sviluppando nei nostri Paesi può essere interpretata in due sensi, diametralmente opposti. Può consistere in una sottile riedizione del co-lonialismo, grazie alla quale s’impone a una cultura altra una pratica ad essa estranea; oppure, al contrario, può essere la sincera proposta di un va-lore affinché un altro ordinamento lo riconosca… La tenace riedizione di

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logiche illuministiche, che puntano alla convivenza scommettendo sulla separazione tra arena pubblica e spazio privato, e tra ambito religioso e se-colare, non sembra giocare a favore della normalizzazione dei rapporti… esclude dalla vita sociale proprio quanto le persone religiose hanno di più caro. Una netta separazione tra sfera secolare e sfera religiosa non sembra aiutare la convivenza, anzi la priva di ragioni”. Ecco il Cardinale Scola lo ha confermato ancora una volta. Secondo lui, la libertà di religione del cittadino non basta se non viene dato spazio alla libertà della re-ligione della comunità. E dunque, dal punto di vista religioso, non va bene il principio di separazione. Il che viola la cosa decisiva dal punto di vista civile, cioè il diritto centrato sulla sovrana libertà del cittadi-no che garantisce a tutti l’esercizio delle libertà. In Italia, praticare la libertà della religione piuttosto che la libertà di religione individuale equivarrebbe a cancellare 150 anni di storia faticosa.

Naturalmente la grandezza del principio di separazione si deve ac-compagnare allo sforzo indispensabile per mantenersi in esistenza. Il fondarsi dello Stato sulla centralità del cittadino individuo si avvale dell’efficacia storica di questo strumento, e quindi non può utilizzare scorciatoie, quali il porre qualsiasi tipo di restrizione ai suoi avversa-ri, di cui pure si fosse già sperimentata l’arretratezza operativa. Non solo non può, senza contraddirsi, negare la cittadinanza ad opinioni contrarie alla preminenza del cittadino individuo. Non può negare che la religiosità, come religione priva di mire temporali, corrispon-da normalmente a propensioni diffuse nella società. Non può negare che i cittadini svolgano liberamente le rispettive attività del loro credo. Anzi deve garantire le condizioni legali ed ambientali perché sia loro possibile esercitare tali diritti, anche quando potenzialmente avver-si al principio di separazione. Lo Stato separatista esclude l’apporto delle religioni istituzionalizzate o no nel modellare le strutture civili; non esclude affatto che i cittadini abbiano le loro singole mentalità, valutazioni ed elaborazioni purché sempre connesse all’esperienza. Ovviamente, questo atteggiamento implica un impegno costante e de-terminato da parte dei fautori del principio di separazione, in pratica per renderlo sempre funzionante al meglio nella parte delle pubbliche istituzioni. Lo Stato separatista non è rigido, è finalizzato a massimiz-zare la libertà dei suoi cittadini e si modella attraverso processi di loro autoorganizzazione.

Per questo, dal punto di vista strutturale, la libertà civile individua-le è molto più ardua da soddisfare rispetto al libero arbitrio religioso. Il libero arbitrio si esercita all’interno di una fede che è una guida di autorità religiosamente indiscutibile. La libertà civile individuale si

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esercita senza una autorità indiscutibile (“per ciascun individuo libero di scegliere non c’è alcuna Sacra Scrittura” ha scritto il filosofo Giorello) e si affida alla responsabilità del cittadino e dei suoi governanti all’in-terno solo delle regole di convivenza esistenti al momento. Dunque si tratta di legami forti nel profondo ma soggetti a tensioni continue.

Perciò il principio di separazione richiede grande cura e appassio-nata applicazione come prezzo della sua maggior efficacia nel fondar-si sulla sovranità del cittadino e nel garantirla. Innanzitutto richiede piena consapevolezza del fatto che è proprio il partire dai diritti indi-viduali e dalle libertà del singolo a consentire il coerente svilupparsi delle relazioni interpersonali. E che dunque relazionarsi con gli altri è insito nel cittadino e non deve essere concepito come qualcosa che lo sovrasta fin quasi ad annullarlo.

Questa esigenza è essenziale. In particolare, deve essere attenta-mente rispettata quando, per qualsiasi ragione, occorre esercitare atti di solidarietà economica od affettiva nei confronti di un cittadino o di gruppi di cittadini. Specie da parte delle pubbliche istituzioni. La so-lidarietà non deve ridurre mai la sovranità del cittadino e tanto meno soffocarla.

Applicare il principio di separazione significa di continuo far sì che tra lo Stato e la sovranità del cittadino non si interpongano dei corpi intermedi che, in luogo di svolgere ruoli di meccanismo di trasmissione della volontà dei cittadini che li costituiscono, diano vita, per qualsiasi motivo, ad una rete di organismi poliarchici che finiscano per esclude-re di fatto quella volontà dei singoli. Una simile poliarchia sarebbe un ricadere in qualcosa di sovraordinato al cittadino, che verrebbe gestito da gruppi quanto meno disattenti ai principi reali della democrazia libera (non da tutti condivisa, non scordiamolo, senza che ciò debba far scandalo). Viceversa i cattolici chiusi pensano di tradurre in pratica civile la logica che di recente ha espresso il Cardinale Bagnasco (“i credenti in Cristo continueranno a sentirsi, oggi come ieri, oggi come nel 1945 all’uscita dalla guerra, oggi come nel 1980, nella fase più acuta del terrorismo, a sentirsi  – dicevo –  tra i soci fondatori di questo Paese”), logica che, fuori dal terreno religioso, è comunitaria e poliarchica, dal momento che fondatori d’Italia sono stati i cittadini, in quanto italiani non in quanto credenti in Cristo o in qualunque altro Dio.

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27. La laicità delle istituzioni non esclude la religione,anzi la include

Appunto perché vuole attivare la sovranità del cittadino, che ne è la caratteristica peculiare, la laicità delle istituzioni e dunque la sepa-razione, non esclude dal pubblico la religione bensì la include attraver-so la partecipazione pubblica del cittadino. Al cittadino chiede solo, quando pensa alla convivenza, di ragionare sempre “per conservare e promuovere i beni civili” (per dirla con Locke), lasciando da parte il proprio credo religioso, salvo assicurare la libertà di esprimerlo. E di non sentirsi minacciato e offeso se, in materia religiosa, altri la vedono in modo differente.

Questo atteggiamento non è relativismo. Anzi ne è l’opposto. Per un laico, non è affatto vero che una cosa vale l’altra. Il laico ha l’obiet-tivo della libertà del cittadino e rispetto a tale obiettivo, sa che le cose sono distinte e hanno conseguenze differenti. Ma a nessuna si deve negare attenzione o addirittura il diritto di esistere. Nel vivere la realtà, il laico è sempre aperto al dubbio ma ciò non significa non aver certez-ze. Ha la certezza del dato sperimentale, che deve essere considerato e poi accolto finché non trova smentita in un esperimento successivo. Quest’altro esperimento va incessantemente fatto nella convivenza, senza però che la disponibilità ai nuovi esperimenti si trasformi in una sorta di spasmodica attesa tale da far dimenticare una cosa essenzia-le: l’esperimento già realizzato è un punto incontestabile fino a prova contraria.

Questo legame alla realtà e al tempo, è l’essenza del separatismo e della laicità. Su di esso si misura non la contrapposizione bensì la dif-ferenza rispetto alla religione. La Costituzione conciliare del 1964, la Lumen Gentium, tratta diffusamente e a lungo dei laici, ma in tutt’altro senso, in quello di non appartenenti alle gerarchie della Chiesa, vale a dire “i fedeli, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nel-la Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano”. Il loro compito è “cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo… e manifestano Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col ful-gore della loro fede, della loro speranza e carità… Non c’è quindi che un popolo di Dio scelto da lui… La distinzione infatti posta dal Signore tra i sacri ministri e il resto del popolo di Dio comporta in sé unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati tra di loro da una comunità di rapporto…

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Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso”.

Nello specificare questo loro compito di fedeli, la Lumen Gentium richiama l’enciclica di Leone XIII Immortale Dei – decisamente critica avverso le istituzioni liberali e il concetto di sovranità popolare, come abbiamo già visto all’inizio – e ammonisce “per l’economia stessa della salvezza imparino i fedeli a ben distinguere tra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto membri della Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della società umana… affinché la missione della Chiesa possa più pienamente rispondere alle particolari condizioni del mondo moderno. Come infatti si deve riconoscere che la città terrena, legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri principi, così a ragione è rigettata 1’infausta dottrina che pretende di costruire la socie-tà senza alcuna considerazione per la religione e impugna ed elimina la libertà religiosa dei cittadini”.

I fedeli come li descrive la Lumen Gentium sono concepiti solo come popolo di Dio, non come cittadini. È su questa distinzione tra laici fedeli e laici cittadini che si marca il distacco dal parametro tem-po e ruota il significato profondo del separatismo. La religione della Chiesa implica – e già lo affermava l’enciclica Ubi Nos nei primi anni della Questione Romana – l’origine divina del potere vaticano (dunque la Chiesa agisce nel tempo per poter arrivare a farne a meno), potere vaticano che non deve essere una concessione del potere laico. Riguar-do l’origine divina del potere, il laico cittadino non entra in merito alla questione dal punto di vista religioso, è del tutto contrario dal punto di vista civile (perché è un’impostazione opposta a quella centrata sul cittadino) ma tollera in pieno chi la pensa così a condizione che non pretenda di tradurre la religione in pratica temporale (perché in tal caso emergerebbe l’inammissibile pretesa clericocentrica opposta alla concezione centrata sul cittadino). Questa tolleranza non è una conces-sione. È l’indispensabile applicazione coerente del principio di libertà di religione. È l’accorgimento che permette di esercitare l’attitudine laica allo spirito critico ed al dubbio, da parte dei diversi cittadini che convivono anche con la religione. Non a caso, storicamente lo spirito di tolleranza così inteso non appartiene alla tradizione della Chiesa e dei cattolici chiusi.

La Dichiarazione Dominus Jesus della Congregazione per la Dot-trina della Fede (sottoscritta nell’agosto 2000, previa approvazione formale avuta da parte del Papa un mese e mezzo prima, dal Prefet-to della Congregazione, Cardinale Ratzinger, e dal segretario, l’allora arcivescovo Bertone) chiarisce il punto nel definire “l’unicità e l’uni-

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versalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa”. Scrive: “Il perenne an-nuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso… Di conseguenza, si ritengono superate verità come il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo” così come insegnato dalla Costituzione del Concilio Vaticano II, Dei Verbum. “Per porre rime-dio a questa mentalità relativistica, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo… È quindi contra-ria alla fede della Chiesa la tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo, che sarebbe complementare a quella presente nelle altre religioni… Deve essere, quindi, fermamen-te ritenuta la distinzione tra la fede teologale e la credenza nelle altre religioni”. Provvedendo anche a ricordare quanto l’Enciclica Fides et Ratio ha distinto: “se la fede è l’accoglienza nella grazia della verità ri-velata, «che permette di entrare all’interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza», la credenza nelle altre religioni è quell’insieme di esperienza e di pensiero, che costituiscono i tesori umani di saggezza e di religiosità, che l’uomo nella sua ricerca della verità ha ideato e messo in atto nel suo riferimento al Divino e all’Assoluto”.

Ritengo impossibile non dare a queste parole il significato che han-no: la rivelazione non tollera appieno spirito critico e dubbio. E ritengo anche che, sul piano civile, sarebbe ormai auspicabile che i cattolici chiusi applicassero anche loro il principio laico della tolleranza piut-tosto che lamentarsi della religione confinata nel privato (che è cosa non vera). Di più. Di questa storia del potere concesso dallo Stato alla religione, sarebbe bene che l’intero mondo dei cittadini religiosi se ne facesse una ragione, quando si esce dall’ambito religioso e si entra in quello civile. Oltretutto, siccome lo stesso potere dello Stato laico de-riva dal cittadino – cittadino che, dal punto di vista di chi crede, esiste in quanto creatura di origine latamente divina (anche se i laici non entrano necessariamente nella questione dell’origine) – non si vede in punto di logica come si possa allora negare che anche questo potere dello Stato sia in qualche modo riconducibile al divino (per chi ritiene di non poterne fare a meno).

Insistere nel dire, come fanno i cattolici chiusi, che la religione è esclusa dal pubblico, sembra quasi una questione di esclusiva nella rappresentanza di questo potere. Già tale aspetto, ai laici, appare una cosa non molto rispettosa della divinità. Per di più, l’insistere con la proverbiale determinazione ecclesiastica sul mandato del Dio, fa sì che i separatisti facciano osservare come la Chiesa non coincida con la re-ligiosità. Il principio di autorità permea la Chiesa e il suo messaggio di

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religione di chiesa, mentre non permea necessariamente lo spirito di religiosità umana, che è aspirazione ad avere indicazioni al di là della ragione e dell’esperienza (del resto il Cardinale Martini ha detto “non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Nella vita ne abbiamo bisogno, è ovvio, ma non dobbia-mo confonderli con Dio”). Questa osservazione distintiva costituisce un motivo aggiuntivo per adottare il principio di separazione Stato reli-gioni.

Il principio di separazione non esclude la religione e i suoi argo-menti religiosi dalla discussione pubblica. Consapevole che il valore assoluto della spiritualità religiosa è necessariamente legato alla sfera privata della persona, il principio di separazione non esclude che que-sta fede spirituale dei singoli cittadini possa manifestarsi nel pubblico. Esclude che la discussione politica avvenga sugli argomenti di fede inerenti l’appartenenza degli individui a una comunità religiosa oppu-re ridursi ad un confronto tra rappresentanti di quelle comunità reli-giose in quanto tali. Ciò con un preciso e dichiarato fine concettuale. Preservare la sovrana libertà del singolo cittadino, impedendo delle inframmettenze che possano distruggerla, anche quelle comunitarie. Per il principio di separazione è essenziale evitare che il dibattito poli-tico pubblico possa essere bloccato da confronti decisionali centrati su materie, come quella della fede religiosa, che, in quanto dogmatiche, impediscono la possibilità stessa di funzionamento del dibattito. Infat-ti tali materie non attengono ai modi di organizzare la convivenza tra i cittadini ma, visto che nessuno nega il carattere comunque personale della fede, attengono alle differenti credenze delle comunità, le quali per definizione sono problematiche irresolubili attraverso l’esercizio del voto dei rispettivi fedeli considerati tutti insieme nell’arena demo-cratica.

La cosa essenziale su cui riflettere è che l’esperienza storica mo-stra due fatti. Primo, la laicità istituzionale è decisiva per consentire ai cittadini di esercitare, nella convivenza, la loro attitudine al dubbio critico e alla ricerca di conoscere sempre più. Secondo, il separatismo è il modo migliore per attuarla senza ostracizzare in nulla la religione. L’importante è prendere atto di questi fatti. Alcuni dicono che più e prima dello strumento separatista conta la mentalità di tolleranza reciproca tra i cittadini. E portano l’esempio degli Stati Uniti. Ma è un’obiezione sterile, nel senso che è come lo stabilire se è nato prima l’uovo o la gallina. A parte gli approfondimenti storici, ad oggi è chiaro, ricordando Tocqueville, che negli Stati Uniti al momento della edifica-zione dello stato, la società civile dei coloni, sulla scorta dell’esperienza

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fatta prima in Europa con le lotte religiose, aveva percepito che lo Stato doveva prevedere la libertà religiosa come parte della libertà; e così in quindici anni arrivò alla tolleranza reciproca del primo emendamento della Costituzione.

In Italia, la genesi dello Stato è stata del tutto diversa. Il Regno d’Italia è sorto contro le pretese temporali di uno Stato religioso e delle sue strutture e ha dovuto battersi (e deve farlo ancora oggi) per far dimenticare il temporalismo anche in linea di principio. Dunque le concrete condizioni ambientali italiane (non quelle teoriche dei li-bri e dei codici fuori del tempo) implicano la necessità di irrobustire quell’esperienza separatista e di diffonderla. In Italia, non si tratta di andare oltre il separatismo, dal momento che il separatismo non c’è mai stato davvero, prima perché non accettato dalla Chiesa, dopo per-ché eliminato anche formalmente dal fascismo e infine non più reintro-dotto successivamente. Si tratta di avere uno strumento che renda più agevole la tolleranza reciproca nella società, evitando il prevalere dello spirito confessionale che vuole utilizzare la religione per fini di potere.

Sotto questo profilo, non è possibile confidare sulla progressiva crescita spontanea, neppure in un paese civilizzato come il nostro, dell’indifferenza laica per i simboli religiosi. Tale crescita spontanea (comunque variabile quanto a tempo e spazio) ha un limite naturale nella aspirazione alla religiosità insita nell’animo umano. Ed è questo limite che rende il principio di separazione indispensabile per regolare da parte delle istituzioni la convivenza religiosa tra diversi. Di più, il senso comune empirico ci avverte che quando i politici e gli enti pub-blici intendono imporre un simbolo religioso, non hanno obiettivi sto-rici bensì obiettivi puramente contingenti, tesi a rifiutare lo scomodo separatismo. Preferiscono tener buone le masse tradizionaliste svento-lando i simboli quale testimonianza del passato, pretendendo però al tempo stesso di privare quei simboli del loro significato vivente. Così venendo meno ai loro compiti civili e insieme, almeno per quanto pos-siamo capirne noi separatisti, alla propria natura spirituale.

In Italia è addirittura pura accademia cercare di eludere il pro-blema del principio della separazione asserendo che quel che conta è estendere una mentalità diffusa di tolleranza reciproca e che la sepa-razione seguirà. Se non si adotta la logica del principio di separazione, non si arriverà ad una tolleranza reciproca tra diversi nella religione, perché in Italia il substrato culturale di partenza non era l’accettazio-ne della sovranità popolare (tanto che perfino il berlusconismo se ne è reso conto e trae vantaggio dal dichiararsi formalmente sostenitore del bisogno di quella sovranità di cui gli oppositori fanno fatica ad

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accettare il verdetto). Insomma nella situazione effettiva, la terapia è il principio di separazione quale criterio operativo pubblico. Riduce le ragioni di contrasto e spinge alla tolleranza reciproca. Altrimenti la realtà non è la tolleranza, diviene la pratica teodem, teocon e di ateo-devotismo, della commistione tra politica e religione a fini di potere. E siccome è innegabile che il principio di separazione venga percepito dall’opinione pubblica come pressapoco equivalente alla laicità, pro-porre un’alternativa alla laicità (per di più solo come auspicio che non definisce l’alternativa) manifesta semplicemente una volontà politica contro il separatismo, al di là del significato intrinseco della proposta dal punto di vista delle vicende interne al mondo cattolico.

I teocon dicono di preoccuparsi delle divisioni conseguenti il prin-cipio di separazione. Dimenticano, o fanno finta, che la funzione del cittadino individuo in una libera convivenza è quella di esprimere la propria diversità, proprio perché dalla diversità umana deriva la ca-pacità di affrontare la vita. Confondono la tendenza ad assimilare il già conosciuto per meglio guardare avanti, con la rinuncia al ricercare tipica del conformismo dello status quo della comunità che si chiude al futuro. Dimenticano pure che, per esperienza storica, esercitare la propria libertà è alla lunga molto più produttivo che non appropriarsi di qualche privilegio. La laicità istituzionale è stata concepita appunto per assicurare al cittadino la possibilità di lavorare al cambiamento nello scorrere del tempo.

Non si tratta di replicare il passato identificando in esso il bene supremo. La convivenza è oggi. Non è produttivo accapigliarsi sulle ra-dici passate come se i valori stessero solo lì e prescindessero dagli altri valori che sono maturati nel frattempo e che matureranno. La separa-zione tra Stato e religioni non impone a nessuno di rinunciare a quelle che considera le proprie radici. Crea le condizioni perché i cittadini possano affidarsi alle radici preferite. E possano percorrere le strade che prescelgono, religiose di ogni religione oppure non religiose, ma sempre fondate sulla irripetibile singolarità delle scelte personali, alla ricerca di prospettive non costrette negli spazi angusti del temporali-smo o delle pratiche pattizie e concordatarie, che sono la gabbia che il mondo confessionale vorrebbe imporre alla libertà.

Anche nell’organizzare le istituzioni della convivenza, allo stesso modo di come già è assodato nel campo della scienza (più di duecento anni fa, il grande scienziato Laplace rispose ad una domanda di Napo-leone, allora Primo Console, con “non ho bisogno dell’ipotesi dell’azio-ne del Creatore”), l’operare come se Dio non ci fosse, non significa af-fatto escludere la religione e tanto meno vietarla od impedirla. È solo

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la presa d’atto sperimentale che il parametro divinità è fuorviante se applicato alla costruzione delle strutture dello Stato e delle sue regole (eccetto la richiesta di libertà religiosa dei cittadini). E che siccome la religiosità è un dato insopprimibile della persona, è necessario separa-re le strutture dello Stato da quelle della religione in modo che lo Stato non intervenga nelle cose di religione e la religione possa esercitare le sue considerazioni in materia religiosa, quelle delle Chiese e quella degli spiriti religiosi, ma non intervenga come tale sul come organiz-zare le cose della convivenza. Perseguire valori va bene purché i valori proposti non manchino di rispettare e non mettano in discussione le regole concepite o concepibili per favorire la libertà del cittadino, ma-teriale e non solo spirituale.

28. Il principio di separazioneè senso della realtà e seguire il tempo

Considerare la realtà come è, costituisce un aspetto decisivo del principio di separazione e della laicità delle istituzioni. Ciò consegue dall’aver affidato la sovranità al cittadino individuo per dargli modo di esprimere la propria libertà. Di fatti, la realtà esterna è il contatto prevalente dell’esperienza umana e prende forma da questa esperienza attraverso gli aspetti multiformi in cui appare nel tempo alla molte-plicità dei cittadini. Pertanto il principio di separazione si fonda sulla realtà, non ne prescinde come cianciano i cattolici chiusi alla ricerca di modelli civili eterni. E va inteso nella prospettiva della realtà nel tempo. Il separatismo non ha un messaggio da imporre ai cittadini perché un messaggio negherebbe la realtà e il tempo. Il separatismo si pone nell’ottica di favorire l’utilizzo e la trasformazione della realtà, restando sempre consapevole dei vincoli che essa costituisce, almeno per quanto riesce a comprenderli.

Al fondo è per tale concezione fondamentale, che alla sua epoca Mazzini, legato a concezioni più ideologiche e prescrittive in vista di una religione dell’avvenire, giudicava il separatismo con grande suf-ficienza per non dire peggio: “la separazione dello Stato dalla Chiesa è un’arma di difesa contro il guasto di una Chiesa che non è più tale; può invocarsi per un periodo di transizione come rimedio… peraltro gli uo-mini che riducono il problema al trionfo della formula Libera Chiesa in Libero Stato, servono ad una funesta, indegna viltà o non hanno scintilla di fede morale nell’anima”.

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L’impostazione basata sulla realtà del separatismo e della laicità istituzionale ha delle conseguenze importanti sotto diversi profili. Nell’economia di questo libro, una conseguenza essenziale è la diffe-renza con la speranza cristiana. Il tema della speranza cristiana si può approfondire esaminando l’enciclica Spe salvi.

L’enciclica afferma subito, anche in riferimento alla Bibbia, che la fede è speranza, cioè che si spera in qualcosa che non si conosce ma cui si aspira, così portando il presente a precorrere il futuro (la fede “ci dà già ora qualcosa della realtà attesa… essa attira dentro il presente il futuro… il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future”). Prosegue affermando che con-cepire la speranza solo come individuale, è limitativo. Non è possibile “considerare il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri”. Eppure, scrive, la moderna “correlazione tra scienza e prassi” ha spostato la questione della fede sul livello “delle cose solamente private ed ultraterrene” trasforman-dola in “fede nel progresso”. Continua precisando che l’essenza della modernità sono la ragione e la libertà, ove “la libertà viene vista come promessa, nella quale l’uomo si realizza verso la sua pienezza”. L’enci-clica rileva poi che la storia ha mostrato come nel progresso moderno “se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo”. E specifica che per ottenere “la crescita morale dell’umanità, la ragione del fare deve urgentemente essere integrata me-diante l’apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discerni-mento tra bene e male”. “Così in tema di libertà, bisogna ricordare che la libertà umana richiede sempre un concorso di varie libertà… l’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza. La libertà presuppo-ne che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio… La libertà necessita di una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comuni-tariamente”.

Già questi concetti sono illuminanti e li commenterò tra poco. Inoltre, al paragrafo 24b dell’enciclica, è scritto “Poiché l’uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in

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modo irrevocabile una determinata  –  buona  –  condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone”. Poi prosegue: “Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore… In questo senso è vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici spe-ranze, in fondo è senza speranza. La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio… Il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Gesù – da soli e con le sole nostre possibilità non ci arriviamo. La relazione con Gesù, però, è una relazione con Colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi. L’essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere « per tutti », ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l’insieme”.

A me pare che le parole della Spe salvi chiariscano immediatamente perché e come il senso della realtà del principio di separazione sia mol-to diverso dalla speranza dei cristiani. Andando in ordine, l’enciclica comincia dal definire la speranza come fede. Dunque, siccome la fede in chiave di razionalità è un a priori, già colloca la speranza in una dimensione che non è più una semplice aspirazione umana ma una sorta di certezza che ciò che si spera prefiguri il futuro. Così l’enciclica propende in partenza a mettere tra parentesi la questione realtà e la questione tempo senza minimamente spiegare come ciò sia possibile nel tempo umano.

Poi l’enciclica prosegue dando atto, al di là delle antiche riserve, di alcune caratteristiche storicamente meritorie della ragione e della libertà nel far avanzare la conoscenza umana. Subito però reintroduce in modo apodittico il concetto che “l’uomo ha bisogno di Dio, altrimen-ti resta privo di speranza”. Questo concetto non è per tutti accettabile perché porta lontano dalla realtà, e, soprattutto, anche quando accet-tato, è appunto una mera questione di fede che prescinde dalla realtà e dal tempo. Dopodiché l’enciclica afferma di nuovo che la libertà, la quale in ambito civile è individuale per tutti gli individui, “deve es-sere sempre di nuova riconquistata comunitariamente”. Questo passare dall’individuale al comunitario non va sottovalutato, perché apre una crepa non piccola sul ritenere i singoli cittadini come unico e vero con-tatto con la realtà (e dunque mina anche la via del conoscere la realtà, sempre sul piano extra religioso).

Infine al paragrafo 24b, l’enciclica, dopo aver rilevato una speci-ficità importante della libertà – quella del non portare a conoscenze necessariamente definitive, per cui “non esisterà mai in questo mondo il

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regno del bene definitivamente consolidato” – e dopo aver criticato “chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre”, ancora una volta in modo apodittico afferma che “la vera, grande spe-ranza dell’uomo può essere solo Dio”. Ricapitolando, è giusta la critica dell’enciclica a chi promette un mondo migliore di eterna durata sulla terra – di fatto, qui l’enciclica ripete la critica tradizionale avanzata dal separatismo liberale – solo che lo fa non per sostenere che il mondo migliore sulla terra va conquistato giorno per giorno, ma per trovare conferma al presupposto fideistico che un mondo migliore esista solo fuori della terra. Tanto che con l’ultima frase dichiaratamente balza nella fede e lascia la realtà sperimentale. Non basta. Sempre al para-grafo 24b, l’enciclica specifica con chiarezza anche il senso del termine comunitario usato prima. Si riferisce al fatto che, siccome “il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Gesù… con Colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi”, allora attraverso “la comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l’insieme”. Si deve allora concludere che la speranza cristiana è aspirare a Dio attraverso Gesù, e solo attraverso Gesù costituire una comunità tra individui. Dunque non si tratta più di rapporti diretti tra cittadini nel-la loro esperienza con la realtà, bensì del riconoscersi nel popolo di Dio per fede a prescindere dall’esperienza di realtà. Inoltre, si sorvola sulla vera novità del metodo della libertà e della conoscenza scientifi-ca, quello della sperimentazione sul reale. Queste evidenti differenze tra senso di realtà e speranza cristiana costituiscono robusti motivi di principio per cui poi, sul piano civile, molti cattolici chiusi aborrono il separatismo.

Un’altra conseguenza del senso di realtà tipico del principio di se-parazione è che il criterio di separazione, proprio perché non vuol dare messaggi o non sostiene modelli rigidi, deve far sì che nessun cittadino sia fatto tacere perché ridurre i contatti con la realtà sarebbe un danno per l’intera convivenza oltre che per lui stesso.

Una terza conseguenza del senso di realtà del principio di separa-zione è che la separazione e la laicità istituzionale, essendo contrap-poste all’idea di una concezione sovrastante i cittadini, non possono poi contraddirsi adottando un’altra forma di rigidità eterodiretta. Per coerenza devono potersi definire nel tempo secondo quanto stabilisco-no i cittadini; devono consentire equilibri sempre nuovi a seconda dei modi di rapportarsi dei cittadini, il che implica istituzioni ritoccabili di continuo. In altre parole, alla separazione tra Stato e religioni e al fondarsi sul cittadino, è connessa una organizzazione dello Stato che funziona attraverso un sistema di prove ed errori, di pesi e contrappe-

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si, che viene concepita programmaticamente per evitare di ritrovarsi con strutture rigide. Per questo è vaccinata dal modellarsi su criteri di funzionamento religiosi.

Questa esigenza nell’organizzarsi istituzionalmente a prescindere dalla religione in sé, non significa che per i cittadini sia un tabù pub-blico parlare di religione. Significa adottare un patto di convivenza civile secondo cui la fede religiosa non deve mai trasformare in una fonte di legge civile la sua speranza verso qualcosa di auspicato atti-nente al divino. E neppure provarci. Tra l’altro un criterio decisivo per agire politicamente in uno stato separatista, risulta anche un antidoto per evitare che si deroghi a questo patto di convivenza. Si tratta di abbandonare il più possibile lo strumento politico delle promesse e degli scenari utopici, per praticare sempre più rigorosamente il sistema di porre sempre in primo piano il come, con quali strumenti e per quali vie, realizzare le varie idee ed esigenze offerti nei programmi e di specificare i tempi necessari per farlo. Sembra una cosa da poco, ma sarebbe determinante per restare molto di più legati alla realtà dello cose, secondo lo spirito del separatismo.

Per di più, anche in Italia, vi è la realtà di svariate religioni oltre quella cattolica. Seppur tutte insieme rappresentino finora una quo-ta minoritaria della popolazione, hanno una struttura differente da quella cattolica, sotto il profilo essenziale che non hanno come guida la loro Chiesa. Basti pensare agli israeliti e ai musulmani (ad esempio, questi ultimi, che numericamente già oggi sono il maggior gruppo re-ligioso italiano, forse come cittadini, di sicuro come residenti, hanno un rapporto diretto dell’individuo con Dio, poggiano sulla tradizione che progressivamente ha posto il capo temporale a capo delle autorità religiose e hanno la tendenza a sovrapporre i due piani, temporale e spirituale). Da qui l’ulteriore importanza, ai fini della ordinaria paci-fica convivenza, del principio di separazione tra Stato e religioni, che rende meno conflittuali i reciproci rapporti tra tutte le parti in causa.

Una quarta conseguenza del senso di realtà del principio di sepa-razione è che, valorizzando il ruolo del cittadino individuo, fronteggia efficacemente l’insorgere di fenomeni comunitaristi tendenzialmente autoreferenziali. Fenomeni del genere possono essere in sé un dia-framma che ostacola la libera circolazione pubblica delle idee, anche di quelle religiose, restringendo il dibattito politico ai professionisti della rappresentanza, a prescindere dalle idee scelte dai membri della stessa comunità. Oltretutto si deve tener conto che, in Italia, vi è un associazionismo assai debole e una consistente tradizione favorevole alle corporazioni. E mentre l’associazionismo è fattore di confronto

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partecipato e di mobilità (esalta le relazioni tra individui e il ricambio delle loro funzioni), le corporazioni sono fattore di rigidità e di appar-tenenza immutabile (si frappongono tra gli individui e vincolano ognu-no alla sua data professione e appartenenza). Il concetto comunitarista è dunque un concetto potenzialmente preoccupante. Quindi è essen-ziale potenziare il ruolo partecipativo civile attivo dei singoli cittadini.

Un simile potenziamento non è una richiesta particolarmente ar-dua. Basti ricordare che la problematica è già da tempo presente ad altissimo livello, anche nella famosa sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale, quella che in pratica riconobbe la laicità dello Stato. Fece benissimo. Solo che questa laicità non venne riconosciuta allo Stato-persona ma allo Stato-comunità. Ricordate: “l’attitudine laica dello Stato-comunità, che risponde non a postulati ideologizzati di estra-neità, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini”. Que-sto riferirsi allo Stato-comunità era un modo per non tirare in bal-lo la questione dello Stato fondato sulla persona cittadino, cosa che di fatto avrebbe significato dirimere il problema della sovranità sulle Istituzioni a favore del cittadino. All’epoca non lo consentiva il clima culturale in cui arrivò la sentenza. Era il clima del dibattito interno al mondo cattolico, che voleva conciliare il premere delle esigenze della modernità laica con i principi della sovraordinazione dell’autorità ri-spetto al cittadino. E se si fosse introdotto lo Stato-Istituzione, poi non avrebbe avuto senso l’accusa alla laicità di ostilità ideologizzata alla religione. Ancor più, sarebbe stato problematico definire l’Istituzione al servizio delle concrete istanze della coscienza “civile e religiosa”. Ciò perché, dal punto di vista dello Stato-Istituzione, la coscienza civile comprende quella religiosa, è di ogni individuo e costituisce un tratto costitutivo istituzionale senza bisogno di manifestare istanze (che in Italia potevano essere una esigenza di un passato molto lontano). Di-stinguere tra istanze della coscienza civile e della coscienza religiosa è una tipica propensione antiseparatista, perché introduce (lo voglia o no) l’interesse dello Stato a venire a patti con la religione.

Nel prosieguo, infatti, la stessa sentenza della Corte Costituzionale attribuisce allo Stato-comunità il diritto soggettivo di scelta a proposi-to dell’insegnamento della religione cattolica e commenta: “è palese il passaggio da motivazioni proprie dell’età liberale (essere la religione affa-re privato e l’istruzione religiosa compito elettivamente paterno) a quelle dello Stato etico (essere la religione un connotato dell’identità nazionale da farsi maturare nella scuola di Stato)”. L’importanza del riconosci-

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mento complessivo dato alla laicità dello Stato consigliò ai laici di non sottilizzare sulla sentenza. Ma ora l’assurdità concettuale e giuridica di questo passaggio non può essere sottaciuta.

La politica liberale dell’ottocento era separatista. Che il separati-smo volesse ridurre la religione ad affare privato e basta, lo sosteneva solo il mondo cattolico chiuso. La Repubblica Italiana non è uno Stato etico e proprio per questo la religione ha cessato progressivamente di essere un connotato dell’identità nazionale (come ancor oggi vorrebbe il mondo cattolico chiuso). Tanto meno un connotato da farsi matu-rare nella scuola di Stato (se il fine fosse questo, la sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale sarebbe gravemente contraddittoria perché nel complesso ha riconosciuto la facoltatività dell’ora di religione). Per tutto ciò è davvero essenziale potenziare il ruolo partecipativo civile attivo dei cittadini, come antidoto a propensioni comunitarie e ten-denzialmente poliarchiche che potenzialmente possono costituire un diaframma rispetto alla sovranità del cittadino.

Una quinta conseguenza del senso della realtà è che induce in chi lo applica la forte attenzione alla situazione della vita sociale quale è. E quindi può portare a quelle che, nella sua Pastorale del 1957, il cardi-nale Montini chiamava “paure dei liberali”. Il futuro Papa lamentò che i liberali avessero “una paura, quella del cosiddetto clericalismo, cioè del prevalere abusivo dei motivi religiosi e dell’organizzazione ecclesiastica… paura che non sembra punto giustificata”. Il problema dei liberali non era e non è il pregiudizio anticlericale, che non hanno mai avuto, ma il giudizio sui fatti reali (che allora erano quelli che nella prima parte ho ricordato). Il cardinale Montini pensava fosse sufficiente che la Chiesa limitasse la propria azione rispetto allo Stato in un clima di civile liber-tà. Per il realismo dei liberali non si doveva far finta di non vedere che la propensione al proselitismo religioso connaturata nella Chiesa – e di per sé lecita in una concezione separatista – stava trasformandosi sul piano civile. Non solo degenerando in aspetti assai simili a quelli di uno sfrenato temporalismo, ma soprattutto costituendo una sorta di monopolio religioso pericoloso come tutti i monopoli (e forse ancor più). Queste “paure”, o più esattamente questa forte attenzione, sono una costante ineliminabile del separatismo, naturalmente legato alla realtà. E valgono ancora oggi nelle forme oggi attuali.

Infine, va sottolineata un’ulteriore conseguenza del senso del-la realtà del separatismo. La libertà di coscienza deve sempre essere assicurata ai singoli cittadini. Tuttavia, da questa regola non si può mai dedurre un’altra cosa, cioè che la libertà di coscienza impedisca il formarsi di opinioni condivise da gruppi di cittadini o in particolare

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di rappresentanti parlamentari o associazioni politico partitiche, sui cosiddetti temi sensibili. Questa deduzione sarebbe appunto una fuga dalla realtà influenzata dall’ipocrisia di convenienze spicciole. Le indi-cazioni di voto corrispondono alla realtà che si manifesta e non hanno niente a che vedere con la libertà di coscienza ai singoli che, in una logica separatista, deve restare assicurata in ogni caso.

Allora, se la realtà è che la maggioranza di un gruppo politico la pensa in un certo modo su un tema, deve essere data conforme indi-cazione di voto, indispensabile appunto per far conoscere ai cittadini la realtà di come la pensi quel gruppo. Cosa diversa è se un gruppo politico non ha un’opinione su un tema o non vuol darla; in tal caso deve dirlo senza nascondersi dietro il concedere la presunta libertà di coscienza che è un’altra questione. Continuare a dire, come viene fatto molto spesso dal Popolo delle Libertà e dal Partito Democratico ma anche da altri gruppi, “lasciamo libertà di coscienza ai parlamentari” può essere talvolta sintomo di incertezza (dal punto di vista del se-paratismo liberale è una formula ovvia fino alla tautologia), ma quasi sempre è una furba ipocrisia per tenere i piedi in più staffe. È l’atteg-giamento di chi cerca di sfuggire la realtà e inganna la gente.

Infine, va sottolineato come sia lo stesso senso della realtà a porta-re il separatismo tra Stato e religioni a praticare la via giuridica della Intesa tra lo Stato e ognuna delle religioni che lo richieda riguardo alle modalità quotidiane di esercizio del rispettivo diritto. Proprio perché, come già ho detto, il bisogno religioso è un dato di fatto innegabile della vita di cui molti cittadini non desiderano fare a meno. E siccome, ripeto, la separazione Stato religioni serve a migliorare le condizioni della convivenza per mezzo del mantenere le religioni estranee alle istituzioni e non attraverso il cancellare le religioni dall’orizzonte del cittadino, l’Intesa è un modo concreto di riconoscere questo dato di fatto. È un sistema concreto di migliorare il libero esercizio della fede da parte di chi desidera averlo, oltre che come singolo, come compo-nente di un gruppo associato in comunità religiosa.

Per concludere il presente capitolo, è opportuno richiamare l’im-portanza del fatto che il principio di separazione si fondi sulla sovrani-tà del cittadino che interagisce. È il modo più fecondo mai escogitato dall’uomo per utilizzare e per incanalare gli apporti individuali nel correlarsi alla realtà esterna e adattarsi allo scorrere del tempo ricer-cando senza fine.

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29. Accuse al principio di separazionefatte dai non credenti ideologici

Precisati gli aspetti fondamentali, esaminiamo le principali obie-zioni mosse al principio di separazione (tra l’altro in parte contrad-dittorie) che provengono dai non credenti ideologici (quelli che non credono come conseguenza della ideologia scelta) e da un certo tipo di credenti (quello che si sente stretto dalle gerarchie). Poi approfondire-mo le accuse dei cattolici chiusi, dopo le opposizioni oblique e infine l’urgenza di applicare il principio di separazione ai problemi concreti.

a) il principio di separazione non vedrebbe che l’avversario in Italia è la Chiesa.

Questa accusa è un tipico esempio della pretesa che le proprie con-vinzioni ideologiche costituiscano la sola realtà (gli “altri” sono spari-ti). Dal punto di vista istituzionale, la questione non è decidere se vi sono persone o gruppi che hanno questa convinzione (l’avversario è la Chiesa). Vi sono di certo e, in uno stato centrato sulla separazione, hanno il diritto di conservare la loro opinione e di manifestarla, al pari dei credenti e dei normali non credenti. La questione è piuttosto se, applicadola al costruire le istituzioni dello Stato, questa convin-zione che l’avversario sia la Chiesa, agevoli o contrasti il modellare le istituzioni sulla regola della libertà di religione. Una simile questione presenta due aspetti, il primo di principio, il secondo operativo.

L’aspetto di principio riguarda la ragione sociale della Chiesa, la religione. Sulla base della esperienza, non è sostenibile la tesi – pro-pria di chi vuole la Chiesa come avversario – che la religione, o me-glio la religiosità, non siano un fattore primario bensì solo la conse-guenza di privilegi antichissimi concessi ad alcuni gruppi organizzati e che, rimuovendo tali privilegi e tali gruppi, sia possibile estirpar-la dall’animo umano. La storia ha fatto vedere che è sempre stato l’animo umano ad attribuire uno status particolare alla religiosità e riconoscimenti alla sue strutture, non la religiosità e le sue strutture ad imporsi sull’animo umano (anche le strutture si impongono ma solo dopo avuta l’attribuzione dello status). Quando si è tentato di estirpare la religione dall’animo umano si è dovuto prima soffocare la libertà del cittadino (cosa che il principio di separazione non può mai consentire) e ciononostante si è fallito nel rimuovere la religiosità individuale (le pratiche alternative sono state o imporre l’obbligo di

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conversione ad altra forma religiosa oppure l’eliminazione fisica).Il dato di fatto è che la religiosità risponde al non sopprimibile

bisogno di moltissime persone di poter disporre singolarmente di una strada per avere una risposta su ogni questione della vita. Per loro que-sta strada è la religiosità. Che naturalmente risponde esclusivamente in termini di fede e che viceversa, lungo la freccia del tempo, è sempre in ritardo. E non può non esserlo, rispetto ai liberi processi conoscitivi della ricerca sulle cose della terra (se non fosse in ritardo, significhe-rebbe che gli avvenimenti del futuro sono predeterminati, cosa che è una forma di fideismo). Eppure tantissimi preferiscono, su questioni non accertate o sui destini futuri, avere una risposta di fede (che ovvia-mente dal punto di vista razionale non è equiparabile alla verità com-provata e comprovabile ma è comunque una possibilità interpretativa) piuttosto che non avere niente come punto di riferimento, neanche dal punto di vista spirituale.

Già queste considerazioni fanno intendere che alla Chiesa non si può imputare l’esistenza della sua ragione sociale. Peraltro, non ha fon-damento neppure eccepire circa le conseguenze di tale ragione sociale. Obiettare che la religiosità ostacola le facoltà mentali nel predisporsi alla ricerca per conoscere di più, ha qualche fondamento solo nei con-fronti di chi, come metro della ricerca, assumesse la religiosità e non la sperimentazione e lo spirito critico. Vale a dire non le facoltà razionali della mente umana. E solo nei confronti di chi vuole adattare la realtà alla fede invece di sforzarsi di conoscere la realtà pezzo a pezzo attra-verso lo sperimentare e con lo spirito critico. Ebbene, da un punto di vista di organizzazione civile, il principio di separazione non ha questi problemi e si vede tenendo presente quel richiamato nocciolo distinti-vo che ne è la caratteristica: un conto sono i criteri di funzionamento dell’interagire tra i diversi cittadini, un altro conto sono le loro scelte e le loro convinzioni personali. Allora, perché mai, come vorrebbero i non credenti ideologici, si dovrebbe impedire o limitare quel tipo di religiosità e combattere la Chiesa?

Se un membro di una gerarchia religiosa riesce a non adottare quel tipo di religiosità quando osserva la realtà per comprenderla, non v’è differenza pratica con gli altri. Se invece qualcuno lo adotta, anche quando non appartiene ad alcuna gerarchia, è persona talmente cre-dente da non vedere altra realtà che quello in cui crede. Tantissimi non condividono affatto il suo comportamento ma è assurdo vietarglielo. La separazione lavora su due piani distinti. Non solo le idee di quella persona devono essere rispettate innanzitutto perché, quale cittadino, può avere altre qualità che non quelle di ricercatore (dato che ovvia-

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317Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

mente la vita non è solo ricerca). Ma anche perché quando si ricorre alla razionalità, bisogna fare attenzione a non trascurare mai l’altra fonte fondamentale del rapporto con la realtà, la sperimentazione. La razionalità da sola, non può sempre escludere in via assoluta che, mu-tando delle particolari condizioni fisiche o psichiche, non si riesca a provare qualche aspetto interpretativo che oggi ci pare dipendere da una semplice questione di fede. È fuor di dubbio che tanto più una questione appare già comprovata secondo criteri scientifici e sperimen-tali, quanto più è assai improbabile che domani venga fuori qualcosa che la falsifica. Ma il metodo della libertà del cittadino è una conquista che non può escludere i cittadini religiosi senza contraddirsi e dunque non ha alcun motivo per cercare di impedire la religiosità connaturata all’animo umano. Tenendo sempre separata la Chiesa dalla pretesa di dare strutture al mondo e di governarlo.

Ora l’aspetto operativo. Il secondo aspetto della questione, che l’avversario sia la Chiesa. Dal primo aspetto di principio sulla reli-giosità, deriva che l’avversario non può essere la Chiesa in quanto in-quinatore della laicità istituzionale, neppure nella specifica situazione italiana. La Chiesa – beninteso superata la fase delle radici lunghe del temporalismo, quello sì che era un avversario per la separazione e che lo resta – è solo in apparenza la fonte della distorsione della religiosità verso la politica di potere. Infatti, la Chiesa dichiara di interessarsi alla natura della società perché ha avuto questa missione da Dio. È ovvio che questa asserzione può non essere condivisa ma non può es-sere etichettata come strumentale. A meno di non ridurre la religiosità a malafede (il che appare davvero semplicistico e pregiudiziale), farlo significherebbe arrogarsi il diritto di stabilire quale deve essere la mis-sione della Chiesa. Ciò porterebbe ad escludere in radice la libertà religiosa (e non a caso, quando nella storia ciò è avvenuto, all’epoca del temporalismo e magari non in Italia, poi l’idea stessa di religione nazionale è dovuta venire anche concettualmente a patti con la libertà di religione, cioè riconoscere che per essere libera la religione non può essere solo di Stato).

Dunque, la Chiesa che svolge la propria missione fa il suo lavoro. Chi sostiene la libertà di religione innanzitutto, non può evidentemen-te impedirglielo. Non è neppure opportuno che confuti la Chiesa con argomenti propri del dibattito politico. Qualora si mettesse a confuta-re con questo tipo di argomenti quello che sostiene la Chiesa, sarebbe in conflitto con il principio di separazione (dato che indiscutibilmente, a meno di non adottare un’impostazione totalitaria, accetterebbe per simmetria di riconoscere alla Chiesa il diritto di intervenire in tema di

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politica civile, laddove l’intento dichiarato e ammissibile della stessa Chiesa è operare nel quadro della propria missione religiosa).

Solo obiezioni fatte in chiave religiosa non sarebbero in sé conflit-tuali con il principio di separazione. Ma avanzare obiezioni in chiave religiosa nel mezzo di un dibattito politico sui comportamenti della Chiesa, non potrebbe eludere il forte sospetto di ipocrisia strumentale. Il separatismo sa bene che la Chiesa è dichiaratamente strutturata in-torno al principio di autorità e di rivelazione e certo non di democrazia in senso liberale classico. Ragion per cui, che senso avrebbe, stando sul piano civile esterno alla Chiesa, fare delle obiezioni, davvero poco credibili, in nome della libertà religiosa nel quadro di una disputa di religiosità nel corpo interno della Chiesa? Sempre, è ovvio, purché la Chiesa non pretenda il potere temporale.

La situazione cambia del tutto e si ribalta quando le medesime tesi religiose vengono proposte da cittadini “normali”, vale a dire che non fanno parte dell’esercito gerarchico nelle sue molteplici forme. In tal caso quelle persone, come tutti i cittadini, hanno diritto alle loro idee, però le loro idee possono ovviamente essere oggetto di confronto e di dibattito pubblico in sede civile. E siccome, dal punto di vista dei fautori del principio di separazione, sono idee senza fondamento poli-tico, anzi nell’esperienza storica gravemente sbagliate, tali idee devono naturalmente essere confutate con determinazione e senza tregua, in quanto costituiscono una minaccia, più o meno grave a seconda dei casi, di arretramento delle condizioni di convivenza. Arretramento tanto più pericoloso oggi, quando nel mondo già circolano teorie fon-damentaliste inneggianti al fanatismo della religione stato, che in real-tà è una dittatura di particolari gruppi di potere.

Dal punto di vista del principio di separazione, in un caso, quello della Chiesa, si deve parlare di libertà religiosa e nell’altro, quello dei cittadini “normali”, ci si trova davanti ad una inaccettabile riviviscenza di politiche teocratiche. La Chiesa ha la sua missione e, al di là delle esigenze di opportunità diplomatica, la sua parola è strumento di quel-la missione. Cui anche gli scettici debbono guardare con il rispetto dovuto ad un’attività religiosa in una situazione di libertà religiosa. Vi-ceversa, chi ha a cuore la libertà di religione e più in genere la libertà, deve opporsi con forza a quei cittadini che con le loro idee politiche determinerebbero una invasione delle pubbliche istituzioni da parte dei criteri religiosi e che sono sostanzialmente a favore di una teocrazia già storicamente superata.

Alcuni qui obiettano “però, in un modo o nell’altro, si tratta delle medesime idee”. Non è così, perché le idee della Chiesa sono dichiara-

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tamente una missione religiosa. E della missione religiosa si può solo prendere atto, a meno di non voler comprimere la libertà religiosa. Viceversa, le idee di un cittadino si pongono come opinioni circa l’or-ganizzazione della cosa pubblica da discutere e da combattere in quan-to proposte sbagliate e pericolose. Allora alcuni potrebbero obiettare ancora che in fin dei conti anche i cittadini credenti fanno in qualche modo parte della loro Chiesa e dunque è arduo distinguere tra missio-ne religiosa e opinione privata. Di nuovo non è così. Quando la Chiesa parla ex cathedra, emana un messaggio alle coscienze su cui meditano i suoi credenti; quando un gruppo di cittadini inalbera le medesime parole facendone una proposta istituzionale, le trasforma da idee re-ligiose in progetto politico. Quindi soggetto alle vicende dei progetti politici. È appunto il progetto politico dei cittadini cattolici chiusi che i laici debbono contrastare pubblicamente e con forza, non il sottostan-te ragionamento in spirito religioso.

Tutti questi motivi illustrano il perché non abbia senso accusare il principio di separazione di non vedere che l’avversario è la Chiesa. Per-ché la Chiesa non è l’avversario. Anzi, questa accusa ottiene il risultato opposto. Indebolisce il principio di separazione e rafforza, lasciandoli indisturbati, i suoi avversari reali. Si indirizza contro la Chiesa invece che contro i cattolici chiusi che sostengono l’opportunità di raccordare Stato e Chiesa: i vari cittadini teodem, teocon, atei devoti, gli orfani della concezione dell’unità politica dei cattolici, e più in genere quelli anche in buona fede che sostengono le stesse cose. Tutti questi sono i veri avversari politici da combattere senza sosta in nome della separa-zione Stato-religioni e della laicità delle istituzioni.

b) non vedendo la Chiesa come avversario, il principio di separazione non sarebbe abbastanza laico.

La separazione tra Stato e religioni è la concreta via istituzionale della laicità. I laici commettono ben tre errori quando si identificano come contraltare alla religione organizzata e, peggio, alla Chiesa. Si indeboliscono nella percezione pubblica del cittadino (che può scam-biare questo atteggiamento per una minaccia alla sua sempre legittima scelta personale di cosa credere), sbagliano bersaglio (perché il reale avversario civile non è una chiesa che predica la sua fede ma sono quei cittadini, specie con ruoli politici, che cercano il consenso al prezzo di rinunciare alla laicità delle istituzioni) e favoriscono gli avversari su una questione oggi delicatissima (perché, concentrandosi sul contro-

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battere la religione, accettano il principio per cui il vero ed esclusivo scontro della modernità sarebbe l’accettare o meno Dio nella decisione pubblica, tesi che all’osso è il marchio dei fondamentalismi).

In proposito, non del tutto coincidente con l’impostazione pura-mente antireligiosa, sta la posizione di Facciamo Breccia, un’associa-zione che pure è disattenta al separatismo. Puntando a mobilitare in pubblico i cittadini sui temi della laicità, della autodeterminazione, dell’antifascismo e della cittadinanza, muove dai percorsi di libera-zione (donne, lesbiche, gay, trans, migranti) di tutti i soggetti ritenu-ti eccentrici, nella speranza che funzioni una logica di contropotere per riottenere i diritti, Facciamo Breccia vuol sì rispondere con de-terminazione e creatività alle crescenti ingerenze vaticane nella sfera pubblica (fanno l’esempio dell’istruzione pubblica, selvaggiamente precarizzata a beneficio di un settore privato confessionale) e a deco-struire il moralismo di radice religiosa e reazionaria. Lo fa appunto in un quadro ideologico più generale vicino alle lotte sociali e pro-motore di un’opposizione dal basso, per dare cittadinanza piena alla complessità sociale, contro ogni forma di riduzionismo e dogmatismo. Senza alcun riferimento al separatismo. Facciamo Breccia sottolinea che la religione cattolica viene brandita per rinforzare un’identità na-zionalista e razzista, da contrapporre a migranti, rom, musulmani. Su tali linee, dicono, viene fatta “laicità in modo nuovo e diverso rispetto all’anticlericalismo liberale”. Quindi parrebbe che identifichino il libe-ralismo con l’anticlericalesimo, figurarsi. Nel complesso appare come una posizione non strettamente contro le istituzioni religiose, quanto contro le strumentalizzazioni che ne vengono fatte. Peraltro in termini libertari molto ideologizzati che, essendo disattenti al problema della libertà del cittadino, assumono il nome di laici molto forzatamente.

Insomma la laicità non può essere, come vorrebbero i non credenti ideologici, un mero riaffermare riflessioni private, il ridurre la realtà ai nostri desideri, una generica protesta sociale o un modo rituale di celebrare il passato. È altrettanto importante impegnarsi in pubblico, ma in coerenza, sui principi attivi per ravvivare di continuo il funzio-nare della laicità istituzionale. Anche perché, e su questi punti decisivi tornerò in seguito, il principio di separazione e la laicità non devono commettere l’errore di supporre l’equivalenza totale tra Chiesa e l’idea di religiosità. Neppure devono limitarsi al problema del rapporto con la Chiesa, che al fondo è solo uno dei punti di partenza per avere istitu-zioni più adeguate nel rendere possibile l’affrontare le questioni della vita.

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321Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

30. Accuse al principio di separazioneda parte dei cattolici chiusi

Le principali accuse al principio di separazione mosse dai cattolici chiusi sono almeno quattro.

a) il principio di separazione confinerebbe la religione nel privato.

L’acccusa più frequente è che il principio di separazione, la laicità istituzionale e la cosiddetta secolarizzazione, si baserebbero sul tenta-tivo di confinare la religione nel privato e di lasciar mano libera alle istituzioni nel pubblico. Così le istituzioni intenderebbero incarnare una funzione di “religione civile”, come la chiamava Rousseau. Asse-rito questo, si interpreta il ritorno della religione sulla scena pubblica, o comunque il suo stabile radicamento, come crisi della laicità (e della secolarizzazione), che sarebbe incapace di restare da sola nel pubblico. E questo ragionamento, si badi bene, lo fanno non solo i fautori di una certa religione ma anche quelli di una certa laicità. Quasi che la crisi della laicità e dello stato fosse superabile con l’alternativa alla laicità o l’alternativa allo stato, nella illusione che la cura sia la ricerca di un modello differente.

Procediamo per gradi. Cominciamo con l’osservare che, agitare lo spettro della presunta crisi della laicità per reintrodurre la religione nello spazio pubblico, non può essere in ogni caso un paravento né per l’usare la fede come fonte legislativa né per l’usare le istituzioni re-ligiose come soggetti che fanno politica. L’una e l’altra cosa sarebbero un ritorno dissimulato alla concezione temporale della religione già superata come principio nel giudizio degli anni e nella coscienza civile. La seconda sarebbe anche un tentativo di dare spazio alle equivoche teorie (al fondo contrarie alla democrazia) della necessità di caste sa-pienti cui affidare, per la loro presunta maggior consapevolezza, la in-discutibile rappresentanza dei fedeli (in campo religioso) oppure degli iscritti (in campo sindacale) oppure dei “veri” interessi dei cittadini (in campo penale).

Al di là di questa osservazione, emergono due questioni assai rile-vanti. La prima che è sbagliato usare troppo il concetto di crisi quale prova della necessità di superare la laicità o lo stato, dal momento che proprio il principio di separazione (che determina la laicità e il tipo di stato) è fondato sulla opportunità di cambiare e dunque è fisiolo-

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gicamente in continua crisi. Chi si appassiona all’idea di crisi come sintomo di inadeguatezza irrimediabile, dimostra di aspirare ancora oggi ai modelli di soluzione eterna dei problemi e di gridare alla crisi per poter annunciare ancora l’utopia dell’immancabile modello palin-genetico improntato allo solito sogno di risolvere tutto una volta per tutte. Questa aspirazione è un meccanismo superato dalla esperienza storica. Con il principio di separazione si è entrati in un altro genere di territorio, in cui le istituzioni sono più fluide e per questo sono più soli-de e più vicine al cittadino. Come le costruzioni antisismiche, resistono meglio proprio perché sono molto meno rigide. Adottando il principio di separazione, le istituzioni contengono in loro stesse la loro evolu-zione, che è pensata fin dall’inizio come ineluttabile anche se ancora ignota. Riscoprire la religione come fondamento rassicurante delle isti-tuzioni, significa aspirare a qualcosa di immutabile. Mentre le certezze delle istituzioni libere sono quelle delle cose vive, consistono non nella immutabilità bensì nella possibile variabilità secondo le regole.

Poi vi è la seconda questione, quella della presunta volontà di escludere la religione dallo spazio pubblico. Prendendo la cosa alla let-tera, è un presumere del tutto irrealistico tipico delle lamentele di quel mondo religioso che confonde (per distrazione? apposta?) l’Italia con i paesi dove la libertà di religione non esiste. Andando a leggere tra le righe, il problema sollevato è meno banale. Cosa si intende con spazio pubblico? Restando con i piedi a terra, spazio pubblico non può che significare spazio ove convivono ed agiscono degli individui, che con-servano le loro personali caratteristiche, che non si nascondono e che non si mascherano. Da questo spazio il separatismo non vuole esclude-re, di certo, la religione, le sue idee e la loro trattazione. Nessuno può affermare il contrario.

Potrebbe provare a farlo, solo assumendo per buoni due errori sto-rici, distinti ma altrettanto rilevanti. Uno sarebbe confondere il prin-cipio separatista con le idee positiviste o addirittura con lo statalismo di tipo marxista. Per ragioni differenti, l’uno e l’altro giungevano a volere una specie di religione pubblica, che doveva permeare nel futu-ro le coscienze con la ragione della scienza o con l’ideologia del partito egemone, escludendo la religione di Dio. Ma appunto tali istanze, del resto appartenenti al passato, nulla hanno a che fare strutturalmente con separatismo e laicità delle istituzioni.

L’altro errore sarebbe quello di cambiare natura al separatismo. Andare indietro nel tempo per collocarlo all’epoca in cui sussisteva una forte analogia tra Stati e Chiese che si legittimavano reciproca-mente. La decisiva novità dello Stato moderno, però, è stata l’attri-

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323Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

buire sempre più una funzione centrale al cittadino e alla sua libera coscienza. E il cittadino, mentre esercita una sorta di legittimazione sullo Stato da lui formato, non può neppure supporre di legittimare la Chiesa fondata sull’autorità e sulla rappresentanza di Dio. Per cui lo Stato si fonda sul cittadino e non sulla Chiesa, ed inoltre, garantendo la libertà di religione ad ognuno, assicura che la religione sia in mezzo ai cittadini senza governare. Di questa nuova situazione, la stessa Chiesa ha ormai preso atto con la rinuncia al temporalismo. Quindi la laicità delle istituzioni non esclude la religione dallo spazio pubblico.

Peraltro, tornando alla questione dello spazio pubblico, va esami-nata anche la tentazione, foss’anche inconscia, di dare un altro signifi-cato a spazio pubblico. Una tentazione che distorce la realtà e utilizza la parola spazio rimpicciolendo il ruolo degli individui, facendoli spa-rire in un popolo indistinto e alla fine in una comunità identitaria di qualche tipo. Ecco, questa tentazione va rintuzzata. Per un atto di evi-dente realismo. Ma anche perché, l’intendere lo spazio pubblico spo-gliato della dimensione individuale e immesso nella dimensione comu-nitaria, consente di dare una lettura differente all’espressione “esclu-dere dallo spazio pubblico”. Lettura differente che, una volta fatta, farebbe derivare l’impossibilità di applicare il nocciolo del principio di separazione. Adottando la lettura realistica, l’espressione significa che lo spazio pubblico è fatto da cittadini individui e trova normale applicazione il nocciolo del principio di separazione (la distinzione tra i modi di funzionamento dell’interagire tra i diversi e le rispettive scel-te e convinzioni personali); con la lettura distorta, lo spazio resta ma l’individuo non c’è più e allora il nocciolo del principio di separazione è inapplicabile per mancanza di materia. Con questa seconda lettura, è agevole sostenere che lo Stato non ha più il suo fondamento (il con-fronto tra gli individui), dunque non può più garantire i suoi presup-posti e per farlo ha bisogno dell’intervento della religione che assicuri alla libertà l’indispensabile fondamento morale di verità (riducendo la libertà a semplice libertà di conoscere la verità).

La Nota Dottrinale del 2002 del cardinale Ratzinger illustra in fon-do la tesi di questa seconda lettura. “Con il suo intervento in questo ambito, il Magistero della Chiesa non vuole esercitare un potere politico né eliminare la libertà d’opinione dei cattolici su questioni contingenti. Esso intende invece istruire e illuminare la coscienza dei fedeli, soprat-tutto di quanti si dedicano all’impegno nella vita politica, perché il loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale della persona e del bene comune. Coloro che in nome del rispetto della coscienza individuale volessero vedere nel dovere morale dei cristiani di essere coerenti con la

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propria coscienza un segno per squalificarli politicamente, negando loro la legittimità di agire in politica coerentemente alle proprie convinzioni riguardanti il bene comune, incorrerebbero in una forma di intollerante laicismo. In questa prospettiva, infatti, si vuole negare non solo ogni rile-vanza politica e culturale della fede cristiana, ma perfino la stessa possibi-lità di un’etica naturale. Se così fosse, si aprirebbe la strada ad un’anarchia morale che non potrebbe mai identificarsi con nessuna forma di legittimo pluralismo”. Quindi il pluralismo sarebbe riconoscersi nella verità del-la cosiddetta etica naturale. Naturalmente questo non è condiviso da moltissimi cittadini, laici e non solo. Però i separatisti non hanno da obiettare nel merito perché si tratta di una convinzione religiosa.

Viceversa, attraverso la modifica di significato del concetto di spa-zio pubblico, la frase “esclude la religione dallo spazio pubblico” non è più una lamentela irrealistica ed acquisisce una incisività che impe-disce di applicare il principio di separazione nella convivenza civile. Si badi bene che di fatto questa modifica è funzionale al consentire alla religiosità di tornare indietro nei secoli, all’epoca in cui Stato e Chie-sa si legittimavano l’un l’altro. Un simile regresso permette di colpire alla radice il principio della separazione tra Stato e religioni (secondo cui non c’è bisogno di alcuna legittimazione delle Istituzioni da parte della Chiesa) rendendolo obsoleto e aprendo la strada al ripristinare il ruolo fondativo primario della Chiesa. Per tale motivo il mondo cat-tolico chiuso insiste così tanto sulla tesi che il principio di separazione non consente di avere la religiosità in pubblico.

Peraltro tale insistenza è priva di motivi consistenti. Non solo nel senso più ovvio, e cioè che spazio pubblico non può significare spa-zio senza individui o spazio in cui gli individui si smarriscono all’atto di farvi ingresso. Ma anche nel senso che, applicando il nocciolo del principio di separazione, può esistere perfettamente la religiosità in pubblico senza alcuna commistione tra trono e altare, come si diceva una volta. Adottata la laicità istituzionale, la religione (nei suoi aspetti di spiritualità religiosa) continua a rivolgersi alle coscienze e a far parte del clima in cui si determinano variegati comportamenti politici dei singoli (perché le persone votano) attraverso una somma di personali valutazioni. Il rapporto tra la religione e i criteri di scelta pubblica permane tranquillamente, solo non è diretto bensì è filtrato dalle valu-tazioni applicative individuali. E siccome con la laicità delle istituzioni gli individui sono liberi, le valutazioni individuali nel loro complesso articolano il confronto delle scelte pubbliche, tenendo conto della re-ligiosità senza riconoscerle mai di essere sovraordinata allo Stato dei cittadini.

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I cattolici chiusi cercano invece di sostenere che separare la religio-ne dalla politica non può significare separare la morale e dalla politica. Quindi, siccome la Chiesa è l’autorità religiosamente legittimata a defi-nire la moralità, per questa via è anche legittimata a stabilire ciò che è giusto in politica, magari attraverso gli stessi cattolici chiusi. Come di-cono, la Chiesa deve poter “influire”. Questo passaggio salta a piè pari la sovranità del cittadino, perché postula che l’individuo non sia per-sona che prende le proprie decisioni sulla base della propria coscienza. Sarebbe solo una sorta di passaparola di quanto ha stabilito la Chiesa o per essa la comunità. Il magistero della Chiesa non sarebbe un’assi-stenza morale ma una sorta di ordine. Il gruppo in cui si convive non sarebbe un insieme di relazioni interindividuali ma la fonte collettiva dei comportamenti di ognuno. E la ragionevolezza delle argomentazio-ni non consisterebbe nella loro logica e nella rispondenza alla realtà dei fatti, ma in quello che decide con il voto la maggioranza della comunità.

La differenza sta qui. Il principio di separazione si affida alle scelte morali del cittadino, però non lo riduce ad un passaparola della Chiesa o della comunità. Ritiene che complessivamente i cittadini siano con-sapevoli che il principio di separazione dia alla religione le massime garanzie per stare nel pubblico, dia alla comunità il massimo delle ga-ranzie di esprimersi; ma che la religione o la comunità non possono divenire, per mezzo dei propri ordini, un criterio di scelta pubblica. La ragionevolezza delle argomentazioni non è decisa solo dal voto della maggioranza senza tener conto della realtà sperimentale e dei punti di vista degli individui e delle minoranze. Se la religione o la comu-nità arrivano a diventare criterio di scelta pubblica, non soltanto salta il principio di separazione, ma, come l’esperienza storica ha mostrato fino ad oggi, la libertà di religione viene compromessa e per questa via anche la libertà in senso generale. Nel complesso i cittadini lo sanno.

Presumere che la laicità istituzionale abbia intenzione di farsi re-ligione civile sostitutiva della religiosità, è un’idea priva di sostanza. La società che emerge dal principio di separazione tra Stato e religioni non è monopolista o esclusiva. Lo spazio pubblico che ne deriva è uno spazio aperto. Allora, come fa a reggersi l’accusa alla laicità istituziona-le di escludere la religione dallo spazio pubblico, quando, per quanto attiene alla religione, la laicità istituzionale teorizza e fa esattamente il contrario?

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b) la separazione e soprattutto la laicitàsarebbero un termine indefinito.

Un’altra accusa frequente è che il fiore all’occhiello del principio di separazione, la laicità, è un vago luogo comune. Non si dovrebbe par-lare di laicità istituzionale perché il termine laicità è troppo indefinito, dal momento che di laicità ve sono molte versioni a seconda dei paesi e dell’epoca storica, distinte appunto per il diverso rapporto e lo spazio più o meno ampio che danno alla religione.

Intanto osservo che un simile ragionamento equivale a pensare che la somma di laicità e di religiosità sia una costante, per cui se cresce l’una diminuisce necessariamente l’altra. Vedremo che non è così. Su-bito dopo osservo che il ritenere improprio parlare di laicità non è un vezzo linguistico. L’accusa punta a non parlare di laicità per poter più agevolmente spingere ad abbandonare anche l’idea fondante di qual-siasi versione di laicità e di separazione. L’idea secondo cui le cose di questo mondo vanno decise affidandosi alla volontà terrena dei cittadi-ni “per conservare e promuovere i beni civili” e non alle interpretazioni in punto di fede sulle cose dell’altro mondo, specie se affidate a grandi sacerdoti sedicenti interpreti di qualche divinità. Questa idea, chi non è liberale non la accetta, più o meno esplicitamente, più o meno consa-pevolmente. Ed invece è un’idea essenziale.

Insistere sul fatto che l’autofondazione dello Stato sarebbe impos-sibile (e proprio per questa impossibilità sarebbe indispensabile la pre-senza pubblica della religione per dare senso alla vita delle persone e delle istituzioni) riecheggia una pretesa logico platonica di conse-quenzialità. Ogni cosa dovrebbe avere un antecedente comprensibile e temporalmente inquadrato. Viceversa, la conoscenza umana è arrivata a comprendere che tale pretesa di tipo religioso è estranea alla moda-lità che ci consente di avere la conoscenza limitata del reale: questa modalità è certa solo intrinsecamente, non in assoluto, ed è sperimen-tabile. Il che non significa che la religiosità non abbia un suo ambito di credibilità per chi professa quella fede; significa solo che ha parametri non verificabili al di fuori della fede stessa. E che il reale si conosce e si maneggia meglio (molto meglio) se non si pretende che tutto sia certo e conosciuto in assoluto.

Del resto, chi accusa la laicità di essere solo un vago luogo comu-ne, intende il termine vago come indefinita abitudine e gli da un’ac-cezione negativa. Dimentica solo che in questo caso il termine vago ha anche un’accezione positiva, siccome indica un modo di convivere comune non vincolato. Laicità istituzionale sta appunto a significare

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327Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

non che l’essere laici sia necessariamente una condizione auspicata o auspicabile per la privata coscienza, significa che è una condizione ri-chiesta nello stare insieme (per mezzo delle regole dello stato): vale a dire, nello spazio pubblico ed istituzionale non può essere utilizzato il parametro religioso quale referenza civile (non utilizzo che è poi l’anima del principio di separazione). La storia ci dice che l’utilizzare il parametro religioso (vale a dire utilizzare la scelta religiosa non come animo propenso a completarsi nella religione o come criterio associa-tivo tra correligionari, bensì quale criterio di convivenza valido per tutti) è fonte di incomunicabilità, di divisione e finisce per impedire la convivenza partecipe e compenetrata in ogni direzione. L’esperienza mostra invece che adottare il principio di separazione e accrescere la laicità delle istituzioni significa dare più spazio anche alla religione (che rinunci a pretese temporalistiche) nel pubblico e nel privato. La somma di laicità e di religione non è costante: può crescere la prima, può crescere anche la seconda.

c) il principio di separazione non riconoscerebbe alla Chiesa il ruolo spettantele.

Questa accusa ha fondamento solo se si attribuisce alla Chiesa una dimensione di tipo temporale. Ma ormai tale attribuzione non la vogliono più non soltanto la Repubblica Italiana ma anche la stessa Chiesa, la quale, almeno dall’epoca del Concilio Vaticano II e poi con più encicliche, ha rinunciato con chiarezza ad esercitare il potere terreno (in ciò ripercorrendo la linea della Assemblea dei Cardinali e dei Vescovi francesi che nel 1945 avevano accettato “la sovrana auto-nomia dello Stato nel suo dominio dell’ordine temporale” prevista nella famosa legge del 1905). Nella Centesimus annus è scritto “i modelli reali e veramente efficaci possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano tra di loro”. In seguito “la Chiesa rispetta la legittima autonomia dell’ordine democratico e non ha titolo per esprime-re preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale”. Riprendendo le parole di Giovanni Paolo II, ”un’interferenza diretta da parte di ecclesiastici o religiosi nella prassi politica, o l’eventuale pre-tesa di imporre, in nome della Chiesa, una linea unica nelle questioni che Dio ha lasciato al libero dibattito degli uomini, costituirebbe un inaccet-tabile clericalismo”.

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Allora, se la Chiesa non ricerca la dimensione temporale e se grup-pi esterni negano di volergliela restituire, non si può ragionevolmente sostenere che la laicità istituzionale non rispetti la Chiesa. Fisiologi-camente rispetta la Chiesa cattolica come organizzazione pubblica religiosa allo stesso modo in cui rispetta tutte le altre religioni co-munque strutturate. Insieme è rispettosa della tradizione italiana che ha profonde radici storiche nel cattolicesimo. Inoltre constata che il non parlare affatto degli aspetti della convivenza civile, come avviene nell’Islam, ha aperto le porte alla strumentalizzazione della religione come supporto del potente di turno, con conseguenze negative nei pa-esi a maggioranza musulmana.

La questione vera è però d’altro genere. Vi sono non sparuti am-bienti di credenti esterni alla gerarchia indisponibili ad accettare l’idea che lo Stato si professi incompetente sulla religione e che quindi non riconosca alla Chiesa una sorta di status privilegiato consistente nel definire da pari a pari le reciproche limitazioni tra potere politico e potere religioso. A parte il fatto che in questo modo essi trascurano un aspetto assai importante (in generale e nella Repubblica Italiana, la religione non è una sola), la incompetenza dello Stato sulla religione significa prima di tutto che lo Stato laico non intende dettare regole per la religione. Il motivo non è quello di confinarla nel privato. Al contrario, è quello di non assoggettarne l’esercizio pubblico ad auto-rizzazioni preventive e al rispetto di regole che non siano quelle della normale convivenza pubblica dei cittadini. Accettare il pari a pari (al di fuori dei rapporti internazionali tra Repubblica e Stato del Vatica-no) vorrebbe dire o reintrodurre il temporalismo (ambedue le parti avrebbero un tipo di potere analogo) oppure riconoscere che la piena libertà alla Chiesa religione può essere assicurata solo attraverso que-sto tipo di trattativa. In ambedue i casi verrebbe contraddetta la laicità delle istituzioni. Infatti, secondo il principio di separazione, Stato e Chiesa religione non possono essere pari a pari perché operano in am-biti differenti, su tematiche differenti, con finalità differenti. Questo lo riconosce anche la gerarchia. Allora, per quale motivo mai, ambienti non appartenenti alla gerarchia insistono perché alla religione come gerarchia venga attribuito un rapporto da pari a pari, tra poteri?

Il motivo va ricercato nel fatto che questi ambienti della religiosità nel campo civile, pensano di tornare ai rapporti precavourriani e alla trattativa, perché ritengono non vi sia altro modo di corrispondere alla esortazione divenuta sempre più pressante da parte della gerarchia, sotto il lungo pontificato di Giovanni Paolo II (ricordiamo, un papa non italiano). Nel 1985, al Convegno Ecclesiale di Loreto, il papa in

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329Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

persona aveva detto “le strutture sociali siano o tornino ad essere sem-pre più rispettose di quei valori etici in cui si rispecchia la piena verità dell’uomo”. Nel 1994 aveva ripetuto “la Chiesa è una grande forza socia-le che unisce gli abitanti dell’Italia”. Nel 1995, al Convegno Ecclesiale di Palermo, aveva osservato “per un atteggiamento di sincero rispetto e dialogo verso quanti non hanno la nostra stessa fede, ci è doveroso ri-cordare a tutti che lo Stato di diritto, una genuina democrazia, ed anche una ben ordinata economia di mercato, non possono prosperare se non facendo riferimento a ciò che è dovuto all’uomo perché è uomo, quindi a principi di verità e a criteri morali oggettivi, e non già a quel relativismo che talvolta si pretende alleato della democrazia, mentre in realtà ne è un insidioso nemico”. E poi aveva precisato che questo dare all’uomo in quanto uomo “nulla ha a che fare con una “diaspora” culturale dei cattolici, con un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della dottrina sociale della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace”.

In applicazione di questi principi, il Cardinale Ruini, per più di un decennio presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha sostenu-to in tante occasioni che i cattolici possono stare legittimamente nei diversi schieramenti e partiti, ma quando il confronto politico e i pro-nunciamenti legislativi toccano aspetti essenziali e irrinunciabili della concezione dell’uomo, deve esserci una specie di coalizione trasversale che li raggruppi tutti. Concetti analoghi sono stati spesso ripetuti e lo stesso papa Benedetto XVI ha ricordato al mondo cattolico nel 2006 che “al di là dell’affermazione del diritto alla propria esistenza, deve sem-pre prevalere, con indiscutibile priorità, l’edificazione del Corpo di Cristo in mezzo agli uomini”.

Il fulcro della questione sta qui. È del tutto fisiologico, non incom-patibile e tanto meno minaccioso per il principio di separazione tra Stato e religioni, che la Chiesa richiami i suoi fedeli al guardare con at-tenzione alla divaricazione, che a suo giudizio esiste, tra la fede cristia-na e la mentalità corrente ed insista sulla conseguente necessità di un rinnovato sforzo di evangelizzazione per colmare l’evidente divario tra la realtà e la specificità della fede cristiana. Non fa altro che svolgere il proprio magistero nell’ambito della libertà di religione. Il problema sorge quando – come fanno ambienti cattolici chiusi non della gerar-chia ma della religiosità civile – si vuole sostenere che quello sforzo di evangelizzazione implica necessariamente il riconoscere alla Chiesa

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il diritto di trattare da pari a pari le reciproche limitazioni tra potere civile e potere religioso. Una pretesa simile viola il principio di libertà religiosa, poiché è un tentativo di imporre un riconoscimento priorita-rio ad una religione rispetto ad altre realtà sociali, se non addirittura ad una sola religione, come nella fattispecie. Se si vuole evangelizzare, vi è la libertà di farlo ma senza attribuire privilegi civili (tipo il trattare pari a pari con lo Stato) a chi lo fa.

L’ordinamento civile riconosce l’insopprimibile bisogno della re-ligiosità ma è altrettanto consapevole per lunga esperienza che solo il principio di separazione consente di evitare le divisioni, anche acerri-me, portate dalle diverse religioni nella convivenza quale derivato dei diversi valori predicati. Le evita perché, come detto, il nocciolo di quel principio separa il criterio pubblico di interrelazione tra i cittadini, da una parte e dall’altra, dalle personali convinzioni e credenze. Il credente ha il diritto di evangelizzare gli altri cittadini e i loro modi di vivere, ma non può, a meno di non violare la libertà religiosa, voler evangelizzare lo Stato, anche perché non è lo Stato libero che stabili-sce i modi di vita dei suoi cittadini. La pretesa di risolvere i problemi politico-sociali ricorrendo all’ausilio della Chiesa è un pericolosissimo regresso al temporalismo.

Del resto, avere criteri religiosi non è certo essenziale per l’ordina-mento civile. La storia ci dice che, adottando criteri religiosi, le regole che si danno alla convivenza tra diversi funzionano non poco peggio. La legge positiva è sì intrinsecamente provvisoria ma, nel mentre espli-ca i suoi effetti provvisori, rende possibili rapporti interpersonali più fecondi di quelli creati da un diritto non provvisorio fondato religio-samente. Di fatti la storia ci dice soprattutto che, adottando il criterio religioso, è impossibile costruire uno strumento capace di includere il tempo. Questione decisiva, poiché la vita di ogni individuo è inestrica-bilmente connessa allo scorrere del tempo. Non a caso le dottrine non liberali si sforzano sempre in vario modo – innanzitutto prescindendo dall’individuo – di fare a meno del parametro tempo.

Dunque è errato dire o far intendere che la democrazia (almeno quella liberale del principio separatista) pretenderebbe di assorbire la religione. È sbagliato in un duplice senso. Nel senso che la democra-zia non esclude la religiosità, semplicemente non la comprende come criterio di scelta delle regole per organizzare la convivenza tra diversi; e nel senso che la democrazia non punta ad assumere lo statuto di reli-gione civile per il fatto stesso che, fondandosi sulla sovranità popolare, è consapevole di basarsi su qualcosa di mutevole soggetto a prendere decisioni anche errate nell’immediato, ma si fa forte del poter affidar-

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331Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

si alla capacità di correggerle attraverso l’esame dei fatti nel tempo e non attraverso la dottrina di una autorità avulsa dalla cittadinanza. Del resto, sempre l’esperienza mostra che il legame sociale alla lunga più produttivo deriva proprio dalla convivenza tra diversi, non dalla pretesa di stabilire una comunità di identici (pure supponenendo che ciò sia effettivamente possibile) o comunque dalla pretesa di affidare a qualcuno o qualcosa il ruolo di centro regolatore del sistema sociale.

d) il principio di separazione sarebbe l’anticamera di una concezione statalista.

Si tratta anche questa volta di un’accusa contraria al senso comune. Sostenere che il principio di separazione reintrodurrebbe i difetti sto-ricamente comprovati della concezione comunista della cosa pubblica e dagli epigoni burocratico comunitari, è privo di qualsiasi realtà sia dal punto di vista dell’impianto filosofico sia sotto il profilo pratico.

Sotto il profilo dell’impianto culturale e filosofico, non occorre soffermarsi ancora su quanto finora scritto a più riprese. Il principio di separazione corrisponde intimamente ad una impostazione libera-le appunto perché si impernia sull’esperienza espressa dal cittadino e sulla volontà di renderla al massimo esprimibile, distinguendo i criteri pubblici di interrelazione individuale dalle convinzioni personali di ciascuno. Sulla distanza tra liberalismo e statalismo comunista e non, vi sono intere biblioteche che esimono dal ritornarvi qui. Semmai, è opportuno sottolineare un aspetto. Storicamente in Italia vi è stato un dissenso non piccolo tra i liberali e il mondo democristiano (che pe-raltro allora rappresentava l’unità dei cattolici), proprio sulla questione del come essere contro l’approccio comunista.

Dai fatti storici emerge chiaro che la lotta anticomunista è stata l’essenza strategica del mondo cattolico democristiano, al punto che, ad un ritmo crescente dopo i primissimi anni degasperiani, la battaglia anticomunista veniva prima del come governare il paese. Per i liberali fu viceversa. Prima veniva l’esigenza di governare al meglio i problemi del paese, proprio perché il governare doveva essere la miglior prova della maggiore efficacia della libertà rispetto al comunismo nel rego-lare i problemi della convivenza ed assicurare prosperità. Salta all’oc-chio che, nel contrapporsi al comunismo, la strategia democristiana inclinava alla logica fideistica ed utilizzava strumenti di tipo fideistico. Che poi, quando la difficoltà nel governare favorì la crescita elettora-le comunista, assunsero la forma di difesa degli interessi del proprio

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gruppo di potere per guadagnare tempo (era l’essenza della dottrina dell’on. Moro). Invece i liberali mantennero ferme le esigenze, tipiche della logica separatista, del corretto funzionamento delle Istituzioni. Anche sottoposti allo scherno della opposizione comunista incapace (di sicuro all’epoca) di capire certe problematiche, i liberali evitarono gli atteggiamenti fideisti, per quanto possibile visto il quadro politico. Questo determinò la loro debolezza quantitativa, causata non dalla qualità politica delle loro idee e proposte (che semmai hanno trovato largo conforto nei fatti degli anni successivi) quanto dal non essere riusciti a farsi capire dai cittadini e convincerli ad appoggiare i progetti liberali che fin da allora anteponevano la necessità di rifuggire dallo statalismo. Insomma, il principio di separazione è l’opposto di quanto sostiene l’accusa.

Questa accusa di essere l’anticamera dello statalismo non è meno fantasiosa sotto il profilo pratico. Almeno se si sta ai fatti del mondo reale. Tuttavia l’accusa sottintende una critica riferita ad un aspetto molto caro ai credenti cattolici chiusi, che non vogliono rinunciare al loro modello istituzionale fisso. Questi credenti dichiarano di essere a favore del pluralismo, ma il loro pluralismo di cattolici chiusi è molto diverso dal pluralismo che è il cuore del principio di separazione.

Il pluralismo liberale è diretta conseguenza del concetto di interre-lazione degli individui alla base del principio di separazione. È un’atti-tudine culturale enormemente più diffusa, viva, creatrice ed articolata di quella evocata con i paragoni tecnologici dell’accedere al web. È una attitudine che, attraverso il confrontarsi delle diverse pluralità, svolge il suo ruolo di sostegno delle istituzioni modellandole. Il pluralismo di quei cattolici chiusi esprime invece il concetto di pluralità delle società naturali che afferma esse preesistano alla organizzazione statuale e che proprio per tale motivo avrebbero titolo per governarsi. Poi, siccome le società naturali sono isolate come comunità e non hanno come fine il raccordarsi con le altre società naturali, esiste uno spazio vuoto tra ognuna di loro e lo Stato, che, in assenza di qualche forma federale, agevola il bisogno che la Chiesa legittimi questo tipo di Stato senza autonomo fondamento. Ecco perché i due concetti di pluralità por-tano ad atteggiamenti opposti sul principio di separazione. La critica al principio di separazione in quanto anticamera dello statalismo da parte di quei credenti cattolici è riflesso del loro rifiutare l’idea che il fondamento delle Istituzioni pubbliche possa prescindere dall’autorità divina mediata dalla Chiesa.

Al riguardo sono esemplari i distinti modi di intendere il principio di sussidiarietà. Comunque venga considerato. Se inteso come sussidia-

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rietà tra un’istituzione di livello superiore ed una di livello inferiore, i liberali non hanno difficoltà ad applicarlo come modo di riconoscere le attività di autogoverno dei cittadini legate al loro territorio all’interno di uno Stato delle autonomie (che rientra nel principio di separazione). Mentre il mondo cattolico lo richiede come riconoscimento del fatto che lo Stato non ha diritto di intervenire su questioni per le quali non sia indispensabile il suo ruolo. In altre parole, un settore della unita-rietà dello Stato viene messo sottilmente in discussione senza dirlo a viso aperto. Nell’altra eventualità, invece, se il principio di sussidia-rietà viene riferito ai rapporti tra le diverse società naturali tra di loro in quanto comunità chiuse, i liberali non hanno difficoltà ad applicar-lo come modo di riconoscere lo svolgersi delle rispettive funzioni e competenze tra gruppi di individui (che rientrano nei meccanismi del principio di separazione). Mentre il mondo cattolico chiuso lo richiede come riconoscimento del fatto che non sia indispensabile, per arriva-re un’organizzazione statuale, ricorrere alla libertà individuale come fondamento del principio di separazione. In altre parole, un aspetto decisivo della laicità delle istituzioni viene di nuovo messo sottilmente in discussione senza dirlo a viso aperto. Nel complesso, il mondo di quei cattolici chiusi adopera il principio di sussidiarietà in un modo che corrode l’unitarietà dello Stato e restringe l’importanza pubblica della libertà individuale.

Argomentato tutto ciò sulle quattro principali accuse, si può trar-re la solida conclusione che le accuse avanzate dai credenti cattolici chiusi appaiono riferite non tanto alle caratteristiche del principio di separazione in sé, quanto agli obiettivi della loro posizione di credenti cattolici contrari per ragioni di fede al principio di separazione.

31. Modi obliqui di opporsi al principio di separazione

a) posizioni corrosive.

Oltre le accuse esplicite al principio di separazione, vi sono delle posizioni che non avanzano accuse esplicite ma che, senza dirlo espres-samente, vorrebbero introdurre regole e comportamenti contrastanti in pieno con il principio di separazione. Ne ricordiamo due che vengo-no tirate fuori spesso.

Una è asserire che lo Stato dovrebbe prendere posizione e formu-lare soluzioni politiche stabili su vari temi della convivenza inerenti questioni eticamente sensibili. Una simile proposta equivarrebbe ad

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annullare il dibattito tra gli individui e a fasciare le differenze in norme cogenti, affidando solo alle istituzioni o alla comunità il ruolo di detta-re il da farsi. In fin dei conti questa posizione è una ricerca inespressa di un modello fisso, dal momento che lo Stato libero può avere solo il compito di creare le condizioni (diritti e strutture) per rendere mas-sima la possibilità espressiva dei cittadini, non confondendo la logica delle emergenze (in natura o tra gli uomini, che possono richiedere un intervento speciale) con quella degli ordinari criteri di funzionamento e di convivenza. Il principio di separazione ne verrebbe smantellato alla base.

L’altra posizione (che riguarda molto da vicino il rapporto tra isti-tuzioni e organizzazioni religiose) è più sottile e se possibile ancor più pericolosa. È quella di sostenere che i cittadini devono battersi per ottenere norme di convivenza più corrispondenti alle loro personali posizioni, specie di sensibilità religiosa. In superficie questo appare ovvio (tutti cercano di far passare il proprio punto di vista) ma al sodo mira a nascondere l’aspetto essenziale della convivenza (ciascuno dei cittadini, cioè anche l’altro, deve avere il diritto di fare lo stesso) per affermare una cosa tutta diversa: che lo specifico episodio decisionale deve portare ad una scelta che in seguito può prescindere dal quadro dei diritti in cui si è determinata. In altre parole, secondo questa tesi, la maggioranza, una volta impostasi, ha diritto di prescindere dalla minoranza.

Questo comportamento può essere ammissibile, e con attente cau-tele di tempo e di formulazione, solo sul tema della decisione specifica, non sul quadro generale dei rapporti di convivenza. Infatti il nocciolo del principio di separazione è la distinzione di due parti. Con questo comportamento, la prima (criteri dell’interagire tra i cittadini) potreb-be anche essere rispettata in quanto si arriva ad un norma generale, ma la seconda (scelte e convinzioni personali) no, se la norma genera-le adottata impedisce, dopo, il formarsi brulicante delle scelte e delle convinzioni. Ne deriva che le possibilità di confronto e di espressione di molti cittadini non sarebbero più quelle di prima. Il rapporto di convivenza è mutato. Non saremmo più allo Stato separatista e si sa-rebbe tornati al criterio di una comunità sovrastante, la comunità di quelli che personalmente la pensano in una certa maniera, che sia o no una società naturale nel senso dei cattolici chiusi.

Ora, una posizione del genere incide profondamente sul come con-cepire l’essere umano e il cittadino (anzi è appunto per questo che è tenacemente sostenuta dai fautori del discorso religioso pubblico, inteso nel senso distorto già confutato sopra). Il principio di separa-

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zione è legato alla constatazione che il fulcro della libertà civile sta nel modo di essere di ogni cittadino, per la personale diversità ma non meno per le poliedriche e distinte caratteristiche in cui si frastaglia l’identità di ciascuno. Insomma, la regola della vita è la molteplici-tà delle identità e nelle identità, poiché nessuno – popolo, gruppo o individuo – ha un’identità unica o un’unica categoria di appartenen-za che lo determinano rigidamente. Viceversa il principio di un certo tipo di religiosità (solo in parte quella cattolica ma in altre zone del mondo questo avviene più compiutamente) e così pure di una certa impostazione classista, è l’assillo di attribuire a chiunque e ad ogni ambito un’identità unica e rigida, anche a costo di imporla, in taluni casi con la violenza. Insomma l’assillo di considerare gli esseri umani in base ad un’unica affiliazione e di non prendere in considerazione gli altri variegati interessi di una persona. Quasi che ognuno abbia solo l’identità della sua religione. E chiaro che appartiene a questo genere di concezione anche il presupposto sociologico dell’Italia come popolo cattolico chiuso, che troverebbe la propria unione nazionale nella fede.

I liberali, i laici non ideologizzati, chiunque guardi alla inequivo-cabile esperienza storica, non può non vedere come solo il principio di separazione possa garantire una convivenza aperta centrata sulla liber-tà di espressione, sulla discussione in pubblico, sul pluralismo cultu-rale, sull’ancorarsi alle diversità ma soprattutto sul far interagire le di-versità. Se si punta a questi obiettivi, è indispensabile adottare la laicità delle istituzioni. Si comprende bene che invece spingano a restringerla coloro che predicano il messianesimo religioso e pertanto pretendono di imporre a chiunque i loro punti di vista, ad esempio sull’inizio della vita e della morte. Per tutti questi motivi sono pericolose queste posi-zioni che costituiscono un attacco obliquo al principio di separazione.

b) travisamento di fatti storici.

Un altro modo di essere antiseparatisti quasi per distrazione, è quello di travisare le posizioni storiche. Sul nostro tema, il caso più eclatante è quello di una certa vulgata su Tocqueville. C’è chi prova a sostenere che Tocqueville non sarebbe, come è stato, un liberale non credente bensì un esponente di idee liberali cattoliche in sostanza fau-tore di una visione pattizia tra Stato e Chiesa. L’esatto contrario della realtà degli scritti di Tocqueville. Questo tentativo di trovare il modo di distaccare il liberalismo dalla laicità e dal separatismo, risponde alla esigenza di riportare gli eretici (nel senso che Tocqueville è stato uno

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dei grandi pensatori liberali e come tale contro il mondo conservatore dell’ancien regime suddiviso in stati e corporazioni) nel rassicurante alveo del conformismo religioso a carattere temporale.

Tocqueville non confondeva Stato e Chiesa auspicando una sorta di mezzadria istituzionale. Nella sua opera maggiore, La Democrazia in America, rilevava che negli Stati Uniti vi era “una meravigliosa combi-nazione di spirito religioso e di spirito di libertà” e che “una legislazione senza precedenti” lo rendeva possibile tenendo le Chiese fuori dallo Stato, seppur considerando tutti gli aspetti della realtà umana, realtà da cui quello religioso non è eliminabile (l’eliminarlo è stata invece, decenni dopo, l’illusione marxista). Tra l’altro, il distacco dell’ambito religioso dalla sfera politica negli Stati Uniti, non esclude la religione dal far parte di quell’associazionismo diffuso che là costituisce il ponte tra l’individualismo e il principio maggioritario (la religiosità, nelle sue diverse manifestazioni di Chiese e confessioni, può fornire una pre-cettistica potenzialmente utile per stabilire legami e per confrontarsi con gli altri). Il “confidiamo in Dio” sul dollaro, testimonia la ripulsa liberale e separatista dell’onnipotenza umana, non una specifica ade-sione religiosa. Insomma, la libertà di confrontarsi con la trascendenza è resa possibile esclusivamente dalle istituzioni che prescindono dalla trascendenza. Questo vale per i liberali di tutto il mondo.

È anche dalla impostazione di Tocqueville che deriva la condizione concettuale del principio della separazione. Principio che era decisivo all’epoca, come comprese Cavour nella sua obiettiva lungimiranza. Ma che lo è ancor più oggi, quando la realtà religiosa del nostro paese (e sempre più dei cittadini italiani) comprende la pratica di più confes-sioni religiose e rende ancora più importante che il sistema istituzio-nale applichi il separatismo. Da notare che diverse di queste religioni, anche se nel loro complesso rappresentano solo una quota minoritaria della popolazione, hanno una struttura differente da quella cattolica sotto il profilo essenziale che non vivono attorno ad una loro Chiesa. Basti pensare agli israeliti e agli islamici.

c) aggirare e aggettivare il termine laico per ridurne l’efficacia.

Da tempo e in modo ricorrente, gli ambienti cattolici chiusi ten-tano di fare distinzioni terminologiche intorno al concetto di laicità al fine di stravolgerne e sminuirne il senso. Ciò interessa da vicino il principio di separazione perché annovera tra i laici gran parte dei suoi sostenitori.

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A grandi linee, queste distinzioni terminologiche si possono suddi-videre in due gruppi. Le distinzioni sui sostantivi e quelle che compor-tano l’aggiunta di aggettivi. Nel primo gruppo stanno le differenti qua-lifiche che arbitrariamente vengono date a laico (o laicità) e laicismo e più precisamente alle persone laiche oppure a quelle laiciste. Nella lingua italiana non c’è una reale differenza di significato tra i due ter-mini. I dizionari della lingua italiana come il De Mauro, il Devoto Oli, il Dizionario Italiano, il Gabrielli, il Garzanti, il Giunti, lo Zanichelli, lo Zingarelli, convengono tutti sulla equivalenza dei due termini nel definirli “il sostenere la piena indipendenza del pensiero e dell’azione politica dei cittadini dall’autorità ecclesiastica, od anche l’atteggiamen-to di chi si oppone a interferenze della gerarchia ecclesiastica negli affari civili” (forse non a caso, il Dizionario della politica di Bobbio, Matteucci, Pasquino riporta solo laicismo nello stesso significato). Non è cioè vero che vi sia differenza tra un termine che indicherebbe un atteggiamento più radicale e un termine che non implicherebbe alcuna ostilità nei riguardi delle religioni. In una precedente fase, lo riconosceva la stessa Chiesa, tanto che nell’enciclica Maximam gravissi-mamque del 1924, è scritto “ogni volta che alla parola « laicismo » si dà il senso o l’intenzione di escludere o di osteggiare Dio e la Religione, Noi riproviamo assolutamente un siffatto laicismo e dichiariamo apertamente che esso deve essere condannato”. Questo significa appunto che la paro-la “laicismo” non ha di per sé tale significato. Successivamente, il mon-do cattolico ha creato questa distinzione artificiale per fare credere che il principio di laicità sarebbe comunque ammissibile mentre l’esigenza laicista sarebbe un riprovevole atteggiamento pregiudiziale contro la religiosità. Dal punto di vista linguistico restano fandonie assolute.

Un approccio differente di alcuni cattolici chiusi, con una conclu-sione analoga, è quello di partire dal definire il termine laico in chiave storica. Ciò consente loro di dire che nell’epoca medievale il laico è il “non chierico” o “non ecclesiastico” nell’ambito della comunità dei fedeli, mentre laicista sarebbe chi vuole la separazione della sfera poli-tica da quella religiosa. La destrezza consiste nel dar per buona l’idea che ancora oggi tutti i cittadini siano del popolo di Dio, trascurando il particolare che nei secoli è stato superato il concetto che tutti i cit-tadini fossero nel popolo di Dio. Questo fa meglio intendere la radi-ce inespressa delle insistite (e fantomatiche) distinzioni linguistiche. Rispetto a laicista, il termine laico sarebbe meno ostile alle religioni proprio perché farebbe parte del popolo di Dio.

Tale ricostruzione chiarisce anche il senso del secondo gruppo, la serie di aggettivi appiccicati al termine laicità. I più frequenti sono le-

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gittima, sana, ragionevole, positiva (i primi due già li usò Pio XII nel 1958 dicendo “come se la legittima sana laicità dello Stato non fosse uno dei principi della dottrina cattolica”). Non sono pensati per attribuire una qualità alla laicità (tipo la laicità è legittima, oppure la laicità è sana, oppure la laicità è ragionevole, oppure la laicità è positiva), mi-rano a scindere il concetto di laicità (separando quella illegittima da quella legittima, quella malata da quella sana, quella irragionevole da quella ragionevole e quella negativa da quella positiva).

Ora se, facendo queste variazioni di sostantivo e queste aggiunte di aggettivo, il problema fosse quello di distinguere tra chi è separatista (il nemico sono i cattolici chiusi) e chi è anticlericale (il nemico è la Chiesa), il termine ci sarebbe già, anticlericale, e si dovrebbe dire que-gli anticlericali oppure quella laicità che è anticlericale. Però l’obiettivo non è l’individuare una caratteristica. L’obiettivo è contestare il prin-cipio in sé della laicità, che è appunto l’autonomia civile del cittadino. Dunque serve distinguere tra la sedicente laicità di chi, magari addirit-tura non credente, è ossequioso agli interessi confessionali (portatore di una laicità legittima, sana, ragionevole, positiva) e la laicità di chi, magari addirittura da credente, non fa sconti e ritiene tutti i cittadini titolari degli stessi diritti e doveri (portatore di una laicità, illegittima, malata, irragionevole e negativa). Questa distinzione serve a una cosa precisa. Poter contestare l’essenza del principio di laicità e, una volta contestatala, ricondurre la laicità sotto il tallone della supremazia reli-giosa anche nelle questioni terrene ed istituzionali. Perché vi sarebbe un unico ordine delle cose soprannaturali, che riunisce la natura e la grazia, e la natura è autonoma solo nel perseguire come fine ultimo la grazia e la redenzione. Il che, in parole povere, significa smantellare il separatismo e tornare alle pratiche temporalistiche.

Credenti e non credenti devono porre grande attenzione a queste furbizie ed essere intransigenti nel non farsi raggirare. Da nessuno, seppure lo si pensi inconsapevole di questi rigiri sottostanti alle sue pa-role. Credenti e non credenti devono incessantemente, fino a sfinirsi, ripetere ed argomentare che la laicità istituzionale non solo non vieta od ostacola l’impegno spirituale e il senso religioso, ma ne è la miglior garanzia perché possano esistere e svilupparsi. Il saggista Magris ha scritto “con buona pace degli ignoranti, che continuano a usare scorret-tamente il termine laicità come se significasse l’opposto di fede e come sinonimo di ateismo o di agnosticismo, esso indica invece un pensiero capace, indipendentemente dalle convinzioni religiose o scettiche di chi lo professa, di distinguere ciò che è oggetto di fede da ciò che è oggetto di ragione, ciò che si può dimostrare da ciò in cui si può credere”.

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339Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

Inoltre la laicità istituzionale è il modo più sperimentato per age-volare la rinascita di un filone culturale indispensabile per superare la sterile tenaglia tra economia tecnocratica e opportunismo clerocratico, che ostacola letture del mondo realistiche e lungimiranti. L’impegno spirituale e il senso religioso devono esistere e svilupparsi come espres-sione dei cittadini. Se invece fossero sul piano civile il fondamento di particolari collegamenti di natura religiosa comunitaria con il fine di fare della propria fede una fonte legislativa ed imporre agli altri un dato credo, saremmo ancora una volta alla negazione del separatismo e al ritorno del potere temporale. Evitare che ciò accada richiede un impegno attivo, in coerenza, del resto, con l’idea stessa di laicità come autonoma espressione del cittadino in campo civile. Sono occorsi seco-li per arrivarci, possono bastare pochi decenni per perderla di nuovo.

d) attribuire valore separatista alla diminuita adozione dei precetti religiosi.

Il lavoro dell’Osservatorio della laicità promosso da anni dalla ri-vista Critica Liberale insieme al settore Nuovi Diritti della CGIL, ha prodotto una messe di dati che dimostrano come in tutti gli anni due-mila i cittadini siano propensi a vivere nel quotidiano seguendo sem-pre meno i precetti dettati dalla Chiesa. Pur dovendo poi tener conto della parallela crescita dell’immigrazione di altri credi, i dati sono che, dal 1991 al 2006, i matrimoni civili sono passati dal 17,5% al 33,7%, sono diminuiti i battesimi dal 91% al 79,2%, sono aumentate le nascite di figli fuori del matrimonio dall’8% al 20,7%, sono cresciuti i divorzi, da 23.000 a 49.500 (eppure al 2003 erano calati a 20.000). C’è stata an-che una leggera diminuzione della frequenza all’ora di religione nelle scuole arrivata al 91% nel 2007. Sul piano finanziario, poi, il gettito derivante dall’8x1000 è passato da 1 miliardo e 16 milioni di euro nel 2003, ai 991 milioni del 2007 e le donazioni dei fedeli sono scese dai 21,2 milioni di euro nel 1991 a 16,8 milioni nel 2007.

L’antropologa professoressa Magli, ha osservato, in relazione ai quadri operativi della Chiesa, che “dal Concilio Vaticano II in poi il numero complessivo dei sacerdoti si è ridotto di due terzi, senza prendere in considerazione poi l’età media che supera i sessant’anni. Le religiose, che hanno rappresentato fin dall’inizio la presenza più diffusa e più fattiva della Chiesa cattolica e il cui rapporto con i consacrati di sesso maschile è stato sempre di tre a uno, in Europa oggi non si presentano quasi più alla porta dei conventi e si cercano in India, in Africa, nelle Filippine (con le

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conseguenze di «significato» che questo comporta, ma di cui non è poli-ticamente corretto parlare). Negli Stati Uniti il numero delle religiose è passato dalle 180mila degli anni ’70 alle 68mila odierne, con un’età media di settanta anni e soltanto il 7% sotto i cinquanta, il che significa che si stanno estinguendo. I religiosi sacerdoti sono passati da 23mila a 14mila con una media di ottanta anni e soltanto il 21% sotto i sessanta”.

Tutti questi dati convergono nel mostrare che è in declino la con-cezione della Chiesa trionfante e terrena. Non provano affatto che è in declino la Chiesa spirituale. In primo luogo perché non c’è alcuna evidenza che equipari la minor attrazione al prendere i voti o al seguire i precetti della Chiesa (che di per sé è un problema per la Chiesa stessa e i suoi credenti) ad una minor propensione dei cittadini a volere anche un certo grado di spiritualità (questione che toccherebbe anche il clima isti-tuzionale). Inoltre perché da tempo (qualche decennio) la Chiesa ha de-ciso di fondarsi sull’essere minoritaria, ha dichiarato di non interessarsi prioritariamente all’esercizio del potere trionfante e ha virato la propria missione, in particolar modo in Italia, sulla cura dei comportamenti so-ciali nel segno del Vangelo. Dunque, da questi dati non viene sminuita la necessità di una decisa politica separatista, anzi diviene più attuale per evitare un’altra deriva preoccupante proprio sul piano politico.

Il fatto è che, nel solco dell’indirizzo della casa madre spirituale, nello stesso periodo di anni è divenuta più pressante la richiesta dei teodem, teocon, atei devoti e simili, perché le istituzioni assumano de-cisioni ispirate alla fede (e c’era da aspettarselo poiché di fatto, più si restringe la pratica religiosa, più aumenta in proporzione la parte di quei praticanti legata ad una concezione settaria della religione e dun-que diviene più probabile il voler marcare la propria fede e la possibili-tà di scontro con altre concezioni settarie; sotto questo profilo, quando esistono grandi differenze numeriche tra i diversi gruppi religiosi, ci si sente meno minacciati). Qui sta il punto cruciale. La necessaria con-trapposizione ad una simile richiesta che le istituzioni si ispirino alla fede, non può e non deve essere confusa con una battaglia contro il temporalismo. Sarebbe un bersaglio sbagliato.

Il bersaglio giusto da colpire è la spinta da parte di quei politici (tra l’altro spesso per motivi di bassa cucina di potere elettoralistico) ad interpretare le parole del magistero religioso come un obbligo a conformi comportamenti pubblici. Sul piano civile, assumere questa interpretazione è improprio ma soprattutto ha conseguenze inaccetta-bili. Infatti, curare istituzionalmente i comportamenti sociali in base al Vangelo diviene un invito politico a privilegiare la comunità dei cre-denti e a mettere da parte, o comunque sullo sfondo, il cittadino come

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341Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

individuo convivente. Accettando questo, la convivenza cambia natura e non dovrebbe più intendersi come composta dalle interrelazioni dei cittadini che usano lo spazio pubblico manifestando le loro variegate identità individuali; diverrebbe un luogo della socialità comunitaria disincarnata dal singolo.

Ovviamente la differenza è abissale. Che una casa madre spirituale curi i comportamenti sociali sul piano religioso è cosa che, dal punto di vista liberale e laico, riguarda lei e i suoi credenti, senza che lo Stato o la ostacoli o le affidi improprie supplenze. Che la medesima cosa ven-ga sostenuta sul piano civile, con politici in prima fila, significa propa-gandare la compressione dell’individuo, perciò è contraria al principio di separazione. Principio che risulta così molto più compromesso di quanto non dicano le statistiche sui costumi del vivere quotidiano. È vero che l’adozione dei precetti religiosi è in calo nel costume, ma la richiesta di organizzazione religiosa è in crescita nella politica.

e) preferire al separatismo la politica accomodante.

In alcuni ambienti vi è la tendenza a ritenere consigliabile adotta-re, nei rapporti Stato religioni, una sorta di atteggiamento alla Ponzio Pilato. Eppure, svolgere le proprie funzioni non secondo le norme ma per compiacere un certo pubblico, ha dato cattivi risultati all’epoca di Ponzio Pilato e non ne darebbe di migliori oggi. La circostanza che in Italia esista da moltissimo tempo una Chiesa molto radicata non può, per quieto vivere, indurre a non occuparsi strutturalmente dei riflessi sulla convivenza e ad esaurire ogni attività nell’affrontarli di volta in volta cercando degli accomodamenti. La questione non sono tanto gli accomodamenti quanto non occuparsi d’altro.

Cominciamo con il dire che impostare in termini di accomoda-menti il rapporto con una controparte non occasionale ma persistente, in questo caso una Chiesa, non è tecnicamente il modo migliore per tacitare la controparte. La controparte tende ad alzare il tono delle sue richieste, nella fattispecie le lamentele per essere discriminata e perse-guitata. Solo che persecuzioni religiose in Italia di certo non ci sono. Per di più, sono semmai tensioni che hanno luogo sul piano mediatico, magari con altri credi, e largamente frutto della propensione ad un proselitismo sociale motivato religiosamente che tende a trasformar-si in civile. Dirsi perseguitati è utile ad accrescere le richieste. Così l’atteggiamento accomodante è incline in sé a soddisfare le richieste, incrementando il privilegio.

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Insomma, dal punto di vista del separatismo, anche solo manute-nere i privilegi civili di una religione è quanto meno inquietante per le possibili conseguenze. Oltre a tutte le precedenti esperienze storiche, basti pensare a quanto è avvenuto negli ultimi decenni in Inghilterra e sta avvenendo tuttora. Vale a dire in uno Stato che ha scelto, nei confronti dei musulmani, di seguire la via dell’accomodamento e di trattare le relative problematiche accettando come rappresentanti del-la comunità islamica i capi religiosi, in violazione del principio della sovranità del cittadino (quei rappresentanti in realtà non sono eletti da nessuno). E l’accomodamento in spregio al separatismo, lungi dal risolvere i problemi con i musulmani, ha consentito perfino la crescita di appartenenti a nuove generazioni inquinati dal fondamentalismo (con punte terroristiche).

Anche nell’Italia di oggi, una scelta di semplice accomodamento al posto della revisione strutturale dei rapporti tra Stato e religioni, è fortemente sconsigliabile. Non tanto in base alla teoria della laicità istituzionale e del separatismo quanto per l’attuale forte spinta del sen-so comunitario religioso dei cattolici chiusi. I cattolici chiusi puntano espressamente a far sì che i fratelli nella fede, collocati in formazioni politiche diverse, possano aiutarsi reciprocamente ad operare in ma-niera coerente con i comuni valori a cui aderiscono. Che sono valori religiosi e che dunque in prospettiva potrebbero portare la fede ad essere una fonte legislativa.

Nel complesso, dunque, propugnare la politica dell’accomodamen-to è un modo obliquo per attaccare il separatismo. Il mondo liberale e laico deve reagire con decisione e prontezza sostenendo i propri princi-pi culturali per una convivenza aperta. Senza incertezze e precauzioni incomprensibili.

32. Il principio di separazionee la sua capacità di affrontare i problemi moderni

Cominciamo ora ad esaminare quali conseguenze comporta l’ap-plicazione del principio di separazione sulle grandi questioni concet-tuali e su quelle quotidiane della convivenza. E come la laicità istitu-zionale sia capace di affrontarle nel tempo.

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343Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

a) la politica non è solo potere.

La prima cosa da osservare è che se si ritiene la politica solo un mezzo per conquistare il potere e per gestirlo fin che riesce, allora la scelta di quale rapporto tenere tra Stato e religioni rientra in valuta-zioni di convenienza misurate con il parametro potere. Usando questo parametro potere e siccome nella situazione italiana è praticamente impossibile prescindere da un appassionato giudizio sulla presenza re-ligiosa, la questione si riduce alla personale preferenza nel giudicare utile o no utilizzare il supporto della Chiesa e in generale del mes-saggio religioso. Così, se si giudica utile, verrà adottato un rapporto di tipo confessionale o concordatario (che è il miglior sistema di la-sciar spazio alle esigenze di tipo comunitario), sennò verrà adottato un rapporto di tipo anticlericale. Insomma, nell’ipotesi di politica uguale potere, non si può uscire da questa alternativa descritta e passare al principio di separazione tra Chiesa e religioni.

Viceversa, se si ritiene che la politica – cioè il discutere e il decidere sui rapporti di convivenza – concerne anche il potere e la sua gestione ma non si esaurisce affatto nel potere (convinzione che è dei liberali, seppure certo non loro esclusiva), allora diviene centrale la questione di adottare il principio di separazione. Di fatti, il principio di sepa-razione è la realizzazione pratica dell’idea che la politica non è solo potere. Lo è nel senso che chi segue il principio di separazione, poiché non comprende la religiosità del cittadino nei meccanismi di scelta de-mocratica, esclude che la politica abbia competenza su tutto e la ritiene in partenza non riducibile a solo potere. Lo è nel senso che, se si ritiene che la politica non sia solo potere, si adotta il principio di separazione Stato e religioni con ciò mostrando che esistono ambiti umani (nel caso la religione) che stanno fuori dai meccanismi del potere.

In sintesi. I fautori del principio di separazione sono di certo con-vinti che la politica non è puro potere. Anche gli altri convinti che la politica non sia puro potere dovrebbero adottare il principio di sepa-razione. Se non lo adottano, a parte casi di incoerenza, evidentemente pensano che ci siano altre cose diverse dalla religione, e non meno importanti, che rientrino nella vita ma non nel potere (che cioè non ri-entrano nei compiti dello Stato, a parte le questioni attinenti il privato). Non si capisce però quali sarebbero queste altre cose così importanti. È in ogni caso difficilmente contestabile che, se si adotta la separazione tra Stato e religioni, si dà un forte contributo a dare concretezza alla politica non di puro potere. Si fonda lo Stato sulla centralità del cit-tadino e si lascia spazio all’interagire pubblico dei cittadini senza an-

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nullarne il privato e senza pretendere di dare alla convivenza una sola identità. Non a caso, se viceversa si vuole rifiutare la centrale sovrani-tà del cittadino, obiettivamente una delle strade è ricorrere ai sistemi confessionali o concordatari.

b) la fede e la ragione.

Vi è un grande impegno da parte del mondo cattolico, anche ai massimi vertici della Chiesa, nel sostenere che la convivenza tra la fede e la ragione è possibile. Si sostiene anzi che è proprio la ragione a spin-gere verso la strada della fede poiché aiuta a riconoscere la verità. Ana-lizzando la questione con il dovuto rispetto ma senza ambiguità circa il significato attribuito alle parole, risulta palese che i sostenitori di tale tesi continuano a non voler accettare ciò che è ormai stato chiarito ed è coerente. Loro lo fanno perché, siccome le istituzioni laiche sono parametrate sulla ragione e non sulla fede, sostenendo che la ragione spinge alla fede vorrebbero trovare un motivo per confutare il princi-pio di separazione.

Perché questa sorta di commensurabilità tra fede e ragione è cosa sbagliata e, per i liberali e per i laici, inaccettabile? La verità religiosa non è commensurabile con la ragione, perché aspira ad avere risposte per tutto e su tutto (come conseguenza dell’assunto del divino) e non si può discutere (Severino, in morte di Giovanni Paolo II, scrisse che “il sacro e il divino, concepiti come dimensione eterna che domina il divenire e la storia, sono impossibili. Il Papa affermava il contrario, come uno che, in mezzo a un torrente in piena, sostenga che l’acqua va dalla valle al monte”). La ragione funziona nella piena consapevolezza dei suoi limiti e dunque non pretende affatto di avere risposte per tutto: fa esclusivo riferimento a ciò che essa ragione ha avuto modo di trattare e che essa è riuscita a comprendere con l’esperienza, salvo successive falsificazio-ni sperimentali che la rimettono in discussione dimostrando i limiti o la erroneità di quella comprensione. Allora non basta avere un tratto democratico e sottoporsi alle argomentazioni critiche; la questione è accettare o no che se una tesi non resiste ad ogni argomentazione, si-gnifica che non è vera e nessuna autorità la può trasformare in vera.

A questo punto sono possibili solo due casi. Nel caso la verità di fede si limiti ad occuparsi solo delle questioni trattate dalla ragione e fino ad allora spiegate nel rispetto della logica sperimentale e spe-rimentata della ragione, o la fede le condivide – e in tal caso diviene superfluo stare a discutere – oppure può contrastarle – e ne ha tutto

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345Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

il diritto  –  ma non può neanche lontanamente pretendere di essere apprezzata al riguardo da chi segue il criterio di ragione (il quale, per puro rispetto, si limita a dire che si tratta del punto di vista della fede non suffragato da alcuna esperienza). Nel caso invece la verità di fede si occupi di quanto la ragione e la sperimentazione non sono state an-cora in grado di capire, può sostenere qualsiasi tesi ma non pretendere che la ragione la avalli accettando come spiegazione la fede. In nessuno dei due casi, può essere accettabile che lo Stato riconosca per vero quello che la fede asserisce. Il che poi è la stessa affermazione del prin-cipio di separazione Stato religioni.

Tali argomentazioni i cattolici cercano di eluderle senza successo. Il filosofo cattolico Giovanni Reale ha detto di recente “la ragione ha due forme. La prima è quella che potremmo chiamare scientifica, la seconda filosofica o metafisica. La prima è delimitata dall’ambito dell’oggetto che indaga e delle leggi determinate che lo riguardano. Questo tipo di ragione non desidera colloquiare (con gli uomini di fede, nda). La seconda quella filosofica non è chiusa a determinati ambiti ma affronta problemi dell’in-tero, della totalità del reale. Quest’ultima colloquia con la fede perché tocca gli stessi problemi”. Appunto. La ragione affronta cose e problemi concreti nel senso di verificabili e sperimentabili e dunque “non può” (piuttosto che “non desidera”) colloquiare con la fede, comportamento che nelle istituzioni porta al principio di separazione Stato religioni. La filosofia ragiona sulla totalità (e quindi colloquia anche con la fede) ma non pretende che la sua forma di conoscenza sia necessariamente sperimentabile (e quindi, a differenza della fede, pone problemi senza elargire precetti religiosi di verità) e così non trova il principio di sepa-razione scandaloso o arroccato. Anzi, la filosofia prende atto, così come a proposito della scienza, che il metodo seguito dalla ragione, proprio perché è circoscritto, è quello che si affida all’uomo (e quindi giudica-bile in termini umani) piuttosto che affidarsi a Dio (ingiudicabile in termini umani). E che dunque fede e ragione sono incommensurabili.

Naturalmente niente esclude invece che un cittadino intenda, in maggior o minore misura, preferire la fede alla ragione, perché si ri-conosce in quanto è scritto nell’enciclica Caritas in veritate, “senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia”. Basta che questo cittadino non prenda la sua personale con-vinzione come un suo diritto a che le istituzioni disapplichino o non applichino il principio di separazione e impongano tale criterio agli altri. Poiché l’esperienza storica ha progressivamente dimostrato che la ragione non ha bisogno dell’ipotesi dell’azione divina per conoscere meglio il reale e per aumentare la libertà e la sovranità del cittadino

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sulla terra (il comprendere cosa sia l’essenza dell’uomo è una domanda filosofica estranea al penetrare la realtà fisica e a costruire le istituzioni civili).

Un ulteriore aspetto da rilevare è che il mondo cattolico tende a sottolineare – proprio perché il principio di separazione si fonda sulla divisione della sfera politica pubblica rispetto a quella della religio-sità – che la fede non coincide con la religione. Alla fede da il senso di fideismo che non deflette dall’annuncio della verità, alla religione il senso della disponibilità a ragionare sulle vicende del mondo. Oc-corre dire con chiarezza che questa distinzione è estranea al principio di separazione e non lo riguarda. Riguarda solo chi sceglie di porsi nell’ambito della Chiesa, dal momento che, sussista o meno quella di-stinzione, non cambia l’indispensabilità di applicare la separazione tra stato e religioni. Ai fini della convivenza, un atteggiamento religioso diverrebbe preferibile ad un atteggiamento fideistico solo se fosse di-sponibile ad applicare il principio di separazione. In pratica, però, non ci può essere preferenza alcuna se l’atteggiamento religioso si traduce anch’esso in una mera aspirazione pattizia o concordataria. Le aspira-zioni pattizie o concordatarie, rientrando nella ragionevolezza, sono meglio delle guerre di religione, ma ripropongono la commistione tra politica di potere e religione, rincorrendo le vecchie abitudini tempo-ralistiche inadeguate rispetto ai problemi di oggi e soprattutto prodro-mo di prospettive pericolose.

c) la questione dei limiti alla ricerca per conoscere.

La mentalità religiosa suppone, a livello della divinità, l’eterno e l’onniscienza. Da qui deriva la costante pretesa di fissare quali siano i limiti degli esseri umani e della natura. Questi limiti eterodiretti sono in sé una sorta di impedimento per le cose che gli esseri umani potreb-bero vedere o trovare o scoprire.

La mentalità separatista non accetta che venga posto questo tipo di impedimento, che è innaturale di per sé. È innaturale perché, quando in campo civile si pone una regola di divieto, non si pone senza un sottostante giudizio per cui, qualora mancasse il divieto, l’agire e le sue conseguenze porterebbero (con certezza o con molta probabilità) a qualcosa di negativo che è già stato sperimentato e quindi valutato nei tempi precedenti la regola (che in seguito potrà anche essere cambiata, ma che in ogni caso non è stata decisa a prescindere da una sua forte plausibilità).

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Viceversa i precetti religiosi, più attengono ai sommi principi e più sono avulsi dal rapporto con il reale e si pongono in una chiave “eter-na”. Ora questa valutazione eterna in assenza di effetti sperimentati è comprensibile sia accettata solo da chi ha la fede necessaria per ac-cettarla. Chi non ha la fede, non può che considerare tali valutazioni come una previsione sul futuro. E per lui ogni previsione sul futuro non è certa, non è neppure necessariamente errata e ha bisogno di es-sere scandagliata attraverso riflessioni comparative e simulazioni circa i suoi prevedibili effetti. Ma non giustifica porre dei limiti preventivi.

Porre preventivamente dei limiti a quello che si cerca o si pensa di fare, può avere un senso solo se si agisce nell’ambito di situazioni già sperimentate, sempre supponendo che, mentre si agisce, si ripresen-tino esattamente tutte le medesime condizioni della sperimentazione precedente. Già così, se la questione oggetto di valutazioni concerne gli stili di vita, bisogna riconoscere che le valutazioni sono necessaria-mente approssimate poiché sono fatte sulla base di esperienze attinenti diverse condizioni di tempo e di individui. Per cui il grado di loro previsione è per forza di tipo probabilistico, non è deterministico e talvolta è addirittura del tutto imprevedibile. Dunque i limiti sono cir-coscritti a quelle che possono essere le loro conseguenze certe, ragio-nevolmente probabili e accettabili o meno secondo il prevalente senso comune dell’epoca.

Se invece la questione concerne la comprensione dei meccanismi profondi della natura, la ricerca vera e propria, si entra in un settore che per definizione è ignoto e dunque eventuali valutazioni di blocco non possono che essere pregiudiziali (in base al credo dell’onniscien-za). Qui, sempre nel caso non si abbia la fede, i limiti non possono esserci. In questo caso, i religiosi chiusi cercano di supplire appellan-dosi a criteri di natura fideistica, tipo quello della paura circa le conse-guenze di quanto potrà essere conosciuto. Ma un conto è se la paura si traduce in un atteggiamento di prudente precauzione circa l’uso della conoscenza acquisita ex novo, un conto è se si traduce in un preventivo impedimento del ricercare la conoscenza.

Il principio di separazione non intende stabilire lui la validità della scelta personale di vita di ciascuno o della ricerca che viene eseguita e in quale campo viene eseguita. Sulla base dell’esperienza, il principio di separazione opera appunto perché ognuno possa fare le sue scelte (rispondendo delle conseguenze) e il ricercatore possa fare le sue ri-cerche (sottoponendole innanzitutto al vaglio degli altri ricercatori). Questi sono gli unici limiti civilmente ammissibili per il separatismo liberale. Non esiste alcun motivo per cui siano posti dei limiti pre-

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viamente contrattati con Chiese o comunque rappresentanti religiosi. Simili trattative sono superflue a fronte di proteste rientranti nella le-gittima espressione del proprio pensiero religioso (che non ha valenza sperimentale); sono una tattica assai pericolosa (e spesso contropro-ducente per la libertà di coscienza di chi è impegnato nella ricerca) a fronte di proteste contraddistinte dall’usare modi e metodi che le trasformano in questioni di ordine pubblico.

Le possibili conseguenze della ricerca devono invece essere ogget-to di dibattito e su tali conseguenze si può esaminare la necessità di porre limiti. Qui, sulle conseguenze, si può ammettere che giochi an-che la questione della preoccupazione della paura, più o meno ragio-nevole. Ma su dati precisi e ragioni bene indicate. Dunque il principio di separazione esclude la possibilità di porre un limite univoco sulle ricerche ed anche un limite univoco sui comportamenti di vita che preceda i loro esiti: sono i risultati dei comportamenti a poter essere sanzionati, non la libertà della persona di vedere rispettata la propria salute e di scegliere come comportarsi. Quando la ricerca si è conclusa o ritiene di esserlo, solo allora si può discutere sulle sue conseguenze. Questa tipologia nel porre norme è generale e vale tutte le volte. Non può, all’interno dello stato della separazione, essere oggetto di conti-nua contrattazione, a meno non venga individuata una tipologia ancor più efficace.

Questo tipo di norma metodologica esiste. Non è che siamo alla mancanza di norme per cui tutto risulterebbe relativo. Chi lo affer-ma, lo sa bene. In realtà muove questa eccezione non per evitare una norma di metodo per discutere come porre le regole quando dalla discussione pubblica ne emerge la necessità. Muove questa eccezione con l’obiettivo (analogo alla logica religiosa anche qualora non sia in sé religione) di introdurre una regola fissa che ponga preventivamente limiti alla ricerca della conoscenza. Porre un limite del genere non è possibile nello Stato separatista rispetto alle religioni.

Il principio di separazione, proprio perché ha come suo noccio-lo la distinzione tra criteri dell’interagire dei cittadini da una parte e dall’altra le scelte e convinzioni personali, include il concetto che la sfera di azione delle proprie competenze istituzionali è limitata e non aspira a coprire tutto; viceversa, la sfera di azione del cittadino è aperta a tutto e non ha limiti, salvo quelli resi indispensabili dal permettere la stessa libertà agli altri cittadini ed accolti perciò come norma pubblica. Quindi, porre limiti a priori alla ricerca non può essere contemplato nella laicità istituzionale perché contraddirrebbe il principio di sepa-razione. Anzi. Il quadro legislativo della laicità istituzionale riconosce

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che il principio di separazione tra Stato e religioni è il solo terreno su cui si può sviluppare una libertà individuale di ricerca sciolta dai vin-coli del mondo concordatario. Il valore e l’impegno della educazione civica è teso a tramandare nel tempo e tra le generazioni il senso di tali riflessioni come fondamento della responsabilità di ogni cittadino.

d) l’agire e il legiferare.

Dietro la mentalità separatista c’è la concezione secondo cui il pre-supposto dei comportamenti non sono le leggi, bensì le regole accetta-te per giudicarli istituzionalmente. Ciò significa che per il separatista non è indispensabile ci sia una legge per fare qualcosa. E che si può agire anche se non c’è una legge specifica.

Questo tipo di mentalità è una diretta conseguenza del porre il cit-tadino come individuo al centro dei rapporti di convivenza. Viceversa i religiosi istituzionali (teocon, teodem, atei devoti e confessionali vari di destra e di sinistra), che vogliono il cittadino un esecutore dei det-tami della comunità, sono fautori della panlegislazione e vorrebbero regolamentare minuziosamente ogni cosa. Il caso Englaro ne è stato un episodio, così come in genere la questione del testamento biologico.

Quando il Popolo della Libertà sollevò il conflitto di interessi, usò l’argomento che Corte di Cassazione e Corte di Appello di Milano avevano sentenziato in mancanza di leggi in materia, cioè avrebbero svolto una attività legislativa costituzionalmente non attribuibile alla Magistratura. Ebbe (ovviamente) torto, ma resta il fatto che secondo il Popolo della Libertà non si potrebbero fare sentenze legittime alla luce dei valori e dell’organizzazione generale del sistema costituzionale qualora manchino leggi espressamente regolatrici della materia speci-fica. Dall’altra parte il Partito Democratico ha insistito molto a lungo sulla necessità di fare una legge sul testamento biologico (di per sé non indispensabile) pur sapendo che, stante la maggioranza parlamentare, proprio questa legge avrebbe ristretto le possibilità del libero cittadi-no.

Solo in uno Stato Etico un cittadino può fare solo quello che una norma gli consente in modo esplicito. Alla comunità è affidato il com-pito di fissare i giusti comportamenti di ogni cittadino, così imponen-do all’individuo di conformarsi all’identità collettiva. La convivenza è ridotta ad una sorta di habitat computerizzato in cui ognuno può fare solo quello che nel programma di avvio è previsto faccia. Per fortuna, la vita non funziona così ed è aperta alle più strepitose evoluzioni. Per-

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ciò, le leggi non devono partire da una simile pretesa comunitaria. Le leggi (modificabili attraverso dibattito e partecipazione) imperniano i rapporti di convivenza sulla libertà di ognuno e, scontando variabilità e imprevedibilità, stabiliscono che un cittadino possa fare tutto ciò che non è vietato. Di più, per rafforzare questa impostazione ed evitare chiusure politico ideologiche, separano il governare e il fare le leggi dal valutare l’applicazione delle leggi vigenti, in modo appunto che sia un altro organo dello Stato a valutare se il modo di vivere la propria libertà violi in qualche modo la libertà altrui o altre leggi.

Insomma, un cittadino ha la libertà di vivere la propria vita, a pre-scindere dalla circostanza che le sue scelte siano accettate dalla co-munità in cui vive ed espressamente autorizzate da una norma in via preventiva.

e) l’attività religiosa e il riconoscimento giuridico.

Ho già fatto cenno (trattando degli articoli 19 e 20 della Costitu-zione) alla libertà di religione sancita dal principio separatista. Cittadi-ni, associazioni di cittadini o fondazioni istituite da cittadini a questo fine, possono tutti liberamente svolgere forme di attività religiose ed ecclesiali. Ciò per sottolineare che svolgere attività religiose ed eccle-siali non può essere sfavorito rispetto ad organizzazioni analoghe non dedite a fini di religione o di culto.

C’è però chi dell’articolo 20 della Costituzione (“Il carattere eccle-siastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di spe-ciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”) vorrebbe dare una lettura estensiva, che è insieme impropria e antiseparatista. Vorrebbero includervi gli istituti vaticani. Questo è del tutto improprio poiché le società come la Chiesa e in genere le confessioni hanno già definiti i loro rapporti con lo Stato agli articoli 7 e 8 della Costituzione. Ma è anche antiseparatista, in quanto, estendendo la libertà di cui all’articolo 20 senza distinguere più tra Enti vaticani ed Enti di diritto italiano, reintroduce l’idea che un ente Vaticano in quanto tale, possa avere personalità giuridica italiana, cioè la religione abbia uno status temporale.

Nell’ottica separatista non è possibile dare alla religione uno status temporale. La religione deve poter essere esercitata liberamente come espressione del sentire dei cittadini e questa libertà deve estendersi anche alle attività di forme associative o di fondazioni costituite a tal

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351Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

scopo ma sempre costituite da parte di cittadini operanti nell’ambito dell’ordinamento italiano. Tali associazioni o fondazioni non sono in sé una entità religiosa e dunque possono benissimo aver una persona-lità giuridica, che poi è funzionale a svolgere la loro attività, assogget-tata alle usuali normative di legge, fiscali incluse, senza speciali vincoli. Le esenzioni e le condizioni di particolare favore sussistono invece, sia come sia, a favore di uno Stato Estero, quello del Vaticano, che, nell’ambito del diritto Internazionale e in base al Trattato del Latera-no, esercita la sua soggettualità giuridica di Stato Sovrano, che non è in sé religione.

Applicando una concezione di questo genere, nel giugno 2010, come abbiamo visto alla fine della prima parte, la Corte Suprema de-gli Stati Uniti ha stabilito che, nell’esercizio dell’attività religiosa sul territorio americano, tutti i membri ecclesiastici dell’organizzazione Chiesa cattolica non hanno alcuna immunità civile derivante dal di-ritto internazionale, pur se non sono cittadini americani. Il Vaticano è una cosa di giurisdizione internazionale, l’esercizio della religione è cosa del tutto differente che rientra nel diritto comune della nazione ove si svolge.

f) il separatismo, gli agnostici e gli atei.

Il principio di separazione Stato e religioni e la laicità delle Isti-tuzioni appartengono di fatto al filone dell’agnosticismo completato dalla tolleranza. Il filone agnostico  –  concettualmente innestato su quanto scritto da Kant circa l’impossibilità per la ragione di dimo-strare o di negare l’esistenza di entità prive di condizioni –  sostiene l’inconoscibilità di tutto ciò che non è verificabile sperimentalmente. Con questa caratteristica, è naturale che l’autorità dello Stato possa dipendere solo dalle scelte fatte dai cittadini nella convivenza rispetto al mondo materiale e alle relazioni della convivenza. Inoltre occorre tener presente che i cittadini scelgono in base alla ragione ma anche in base alle personali emozioni, ai sentimenti, alle esperienze e ai deside-ri. Separatismo e laicità si prefiggono di dare la massima possibilità di effettuare libere scelte secondo questa libera individualità, ampliando a tutti i cittadini la tolleranza introdotta da Locke. Includendo inoltre anche la Chiesa romana e gli atei, escludendo il più possibile la pratica di dogmi e spingendo a pensare ogni certezza in soli termini d’elevato grado di probabilità (siccome la probablità rientra nell’ambito della diversità del cittadino).

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Tra le pulsioni dei cittadini, ci sono anche quelle dei tantissimi che ritengono invece indispensabile rispondere con certezza sul pun-to della conoscenza del Dio, di avere o no il credo religioso, anche se tale risposta resta una credenza inconoscibile con la ragione (e per questo, sulla religione, si distinguono dagli agnostici). In Italia, una grande maggioranza di persone è convinta dell’esistenza di Dio, una minoranza, peraltro non trascurabile, nega l’esistenza di Dio oppure ritiene di non potersi pronunciare. I primi sono i fedeli o comunque i religiosi (che con la fede, anche se approssimativa, vanno al di là dello sperimentabile), gli altri sono gli atei (che riconoscono la non esistenza di Dio anche senza averne la prova certa, una sorta di aver la fede di non averla) oppure gli agnostici di cui ho detto. Sia nel gruppo dei fedeli religiosi sia negli atei, diversi vorrebbero che anche le istituzioni fossero improntate al principio che sostengono. Invece, con una strut-tura separatista e di laicità istituzionale, lo Stato non prende posizione religiosa e tutti hanno diritto di cittadinanza, piena e indifferenziata quanto a diritti. La hanno proprio perché sussiste il principio di libertà individuale e perché il fatto che lo Stato sia organizzato secondo un criterio istituzionalmente agnostico e tollerante non porta affatto ad escludere che, oltre la stessa ragione, anche altri metodi di tipo reli-gioso o spirituale possano arrivare a dare ai credenti quella prova che oggi loro manca.

La laicità istituzionale ha una struttura separatista appunto per consentire a ciascun cittadino di perseguire come preferisce le pro-prie esigenze sotto il profilo della religiosità. È chiaro che non tutte le religioni sono eguali ai fini della convivenza. Solo a livello esemplifica-tivo, si può osservare che varia il livello rispettivo di dogmi introdot-ti; cristianesimo aperto, buddismo, confucianesimo, ne introducono meno di altre religioni. Il punto è che per chi non è credente di quella specifica religione, le vie di quella fede appaiono misteriose. Ma nel-le istituzioni laiche chi vuole può benissimo proseguire a percorrerle purché non pretenda di rendere obbligatorio il percorso per ogni altro cittadino. Ecco perché il separatismo e le istituzioni laiche possono avere il sostegno dei credenti di qualsiasi credo e dei non credenti.

Ai fini del presente libro, peraltro, diviene qui necessario osserva-re che i due gruppi di cittadini, quelli che affermano l’esistenza di Dio e quelli che la negano, tendono ad attribuire all’altro la mancanza di un dialogo e di un confronto seri. Nell’enciclica Ecclesiam suam, Pao-lo VI scriveva che “la negazione di Dio è un ostacolo al dialogo” poiché “molti, in diversissime forme, si professano atei… e della loro empietà fanno professione aperta… come programma di educazione umana e di

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353Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

condotta politica, nella ingenua ma fatale persuasione di liberare l’uo-mo da concezioni vecchie e false della vita e del mondo, per sostituirvi, dicono, una concezione scientifica e conforme alle esigenze del moderno progresso… non è una liberazione, ma un dramma che tenta di spegnere la luce del Dio vivente… Sono queste le ragioni che ci obbligano a con-dannare i sistemi ideologici negatori di Dio e oppressori della Chiesa, sistemi spesso identificati in regimi economici, sociali e politici, e tra questi specialmente il comunismo ateo… La nostra deplorazione è, in realtà, lamento di vittime ancor più che sentenza di giudici… L’ipotesi d’un dialogo si fa assai difficile in tali condizioni, per non dire impossi-bile, sebbene nel nostro animo non vi sia ancor oggi alcuna preconcetta esclusione verso le persone che professano i suddetti sistemi e aderiscono ai regimi stessi”.

Poi vi è l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR) che si definisce, e risulta essere, l’unica associazione nazionale che rappresenti le ragioni dei cittadini atei e agnostici (la massoneria ad esempio non comprende gli atei). Persegue tre scopi: “-) tutelare i di-ritti civili dei milioni di cittadini che non appartengono a una religione: la loro è senza dubbio la visione del mondo più diffusa dopo quella cat-tolica, ma godono di pochissima visibilità e subiscono concrete discri-minazioni, -)  difendere e affermare la laicità dello Stato: un principio costituzionale messo seriamente a rischio dall’ingerenza ecclesiastica, che non trova più alcuna opposizione da parte del mondo politico, -) pro-muovere la valorizzazione sociale e culturale delle concezioni del mondo non religiose: non solo gli atei e gli agnostici per i mezzi di informazione non esistono, ma ormai è necessario far fronte al dilagare della presenza cattolica sulla stampa e sui canali radiotelevisivi, in particolare quelli pubblici”.

Per il raggiungimento degli scopi sociali ha avviato numerose iniziative di sensibilizzazione, come lo sbattezzo, l’opporsi al finanzia-mento delle Chiese, i progetti per l’ora alternativa, la revisione delle statistiche cattoliche, il pagamento per gli oneri di urbanizzazione per i luoghi di culto, gli autobus atei, l’occhiopermille. Inoltre ha curato un esperimento di assistenza morale non confessionale a Torino, presso l’ospedale le Molinette. “Desideriamo che siano promulgate leggi che ri-conoscano le unioni civili e il testamento biologico, che non discriminino in base all’orientamento sessuale, che riducano gli insostenibili tempi di attesa per le separazioni e i divorzi, che depenalizzino il ricorso all’euta-nasia… La coscienza civile del nostro paese ponga fine ai cospicui privilegi concessi alle confessioni religiose, primo fra tutti l’otto per mille;… si so-stituisca l’ora di catechismo nelle scuole di ogni ordine e grado con un’ora

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di educazione civica”. Nel complesso una aperta e chiara dichiarazione di quello che si vuole essere, con l’avvertibile sentimento prevalente, quasi di sapore sindacale, del ritenersi controparte vilipesa del sog-getto Chiesa. Sentimento che, forse, porta soprattutto ad affastellare iniziative identitarie sul tema.

Il principio di separazione indica la via per una discussione ragio-nevole nella convivenza tra i due gruppi, quelli che affermano l’esi-stenza di Dio e quelli che la negano. La via, appunto, di limitare la discussione nell’ambito delle rispettive convinzioni, senza pretendere di trarne riflessi cogenti per tutti sul piano della effettiva convivenza civile (cioè nei vari argomenti la norma pubblica condivisibile deve essere congegnata in modo da offrire al cittadino opportunità di scelta e non comportamenti obbligatori). In nessun caso, le proprie convin-zioni religiose o i propri convincimenti razionalisti della non esistenza di Dio, debbono indurre a fanatismo dogmatico, dimostratosi storica-mente molto negativo.

Ora, oggettivamente, i vertici delle organizzazioni dei due gruppi ora indicati e delle loro principali strutture non vogliono operare nel senso del fanatismo. Resta però necessaria l’attenzione al fuoco che cova sotto la cenere. Nelle pagine di questo libro, ho più volte parlato delle problematiche reali dei rapporti tra i cattolici, lo Stato e gli altri cittadini e dunque non ci ritorno qui. Qui desidero accennare a un altro versante, e sottolineare che non è utile alla causa del principio di separazione e della laicità istituzionale, identificare agnosticismo con ateismo. Tale esibita identificazione – data l’indubbia distinzione di logica e di comportamenti tra i due filoni politico culturali – può essere dovuta esclusivamente al riconoscere la Chiesa come comune nemico. Questo, a parte l’errore di considerare la Chiesa non temporalistica il nemico – errore già trattato ma incombente, visto che si continua a diffondere l’errata concezione dell’incompatibilità della Chiesa con la democrazia liberale – nel caso italiano comporta una conseguenza pratica assai penalizzante.

Tale identificazione agevola l’accusa dei religiosi chiusi al princi-pio di separazione (la probabile strumentalità dell’accusa non muta la sostanza delle cose) di voler agevolare quanto meno chi, come gli atei, mirerebbe a distruggere la Chiesa vietando la religione in luogo pubblico. Il che, se fosse vero, esprimerebbe una volontà di imporre e dunque sarebbe illiberale. Quindi questa accusa serve a fomenta-re dubbi sulla coerenza della laicità. Per di più viene utilizzata per giustificare e rendere più facile una ritorsione che mette in giro tesi pericolose che fanno a pugni con il principio di laicità delle istituzioni:

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gli atei non avrebbero diritto a propagandare le proprie convinzioni. È invece ovvio che in regime di separazione e di laicità delle istituzioni, gli atei hanno ogni diritto di fare propaganda delle proprie idee. Per di più questa propaganda non deve far sentire offeso nessun cattolico e nessuna istituzione. Perché non è un’offesa quando altri la pensano diversamente e lo dicono in pubblico.

In pratica, l’associazione degli atei avverte senza dubbio la carenza di laicità istituzionale e lavora per porvi rimedio sotto qualche aspetto. Solo che lo fa senza mettere in primo piano le complessive proble-matiche istituzionali del separatismo; e dunque non sembra porsi il problema della campagna generale per accrescere la consapevolezza su questo tema, distinguendolo dalle specifiche tematiche di contrasto alla Chiesa Cattolica e alle altre istituzioni religiose. Sotto questo pro-filo, sono emblematiche le iniziative UAAR sulla revisione delle stati-stiche cattoliche o sullo sbattezzo. Nell’ottica della coerenza scientifica sono puntuali, ma difficilmente hanno la capacità di far maturare la coscienza del problema del separatismo e della laicità istituzionale. Per raggiungere questo obiettivo, nella situazione italiana occorre riuscire a parlare al mondo dei cittadini cattolici che è molto consistente. Lo schiacciarli sui cattolici chiusi ottiene lo scopo opposto.

g) il separatismo e i cattolici critici della Chiesa.

Una situazione del tutto diversa si determina quando le critiche alla Chiesa per gli atteggiamenti antiseparatisti provengono dall’interno del mondo dei fedeli, se non direttamente dal mondo della gerarchia. In tal caso, credo sia necessario distinguere tra le conclusioni delle cri-tiche per quanto attiene la necessità di applicare i principi separatisti (che naturalmente costituiscono fatti positivi) e la natura e i risvolti delle stesse critiche sotto il profilo teologico e della struttura ecclesiale (che, a parte l’aspetto culturale, sono estranei al mondo del separati-smo, in quanto operano sul piano della fede).

Nel novembre 1996 venne fondato a Roma il Movimento Interna-zionale Noi Siamo Chiesa, dopo che l’anno prima Noi Siamo Chiesa era sorta in Austria con la raccolta di firme per un “Appello dal popolo di Dio” sullo scandalo per pedofilia legato all’ex cardinale di Vienna, Groer. Il Movimento Internazionale Noi Siamo Chiesa è interno alla chiesa cattolica romana, auspica il rinnovamento sulla base del Conci-lio Vaticano II ed è rappresentato in più di 22 paesi in tutti i continenti. Per darne una dimensione, nel 1997 presentò in Vaticano sull’Appello

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dal Popolo di Dio quasi tre milioni di firme raccolte in Europa, di cui neppure l’uno e mezzo per cento di italiani. Il che già la dice lunga sul clima nel nostro paese.

Noi Siamo Chiesa denuncia che il limite fondamentale dell’intero sistema della chiesa cattolica romana è la sua costituzione gerarchica, il centralismo romano basato su una “società a due classi”, preti/laici e il totale non-rispetto del principio di sussidiarietà nella chiesa. Di conse-guenza sostiene cinque principi. “Il Popolo di Dio deve poter partecipare a tutti i livelli della nostra chiesa. Le donne devono essere ammesse al presbiterato. Il celibato dovrà diventare facoltativo, così che l’amore spon-sale non resti un tabù per i chierici. Si dovranno accettare i risultati delle scienze umane riguardo la morale sessuale e si dovrà rispettare il primato della coscienza individuale informata. Si dovrà predicare un Vangelo che sia un invito alla pienezza di vita e non uno strumento per disciplinare la gente attraverso l’intimidazione”. In applicazione di questi principi, Noi Siamo Chiesa sostiene fermamente la lettera aperta del teologo Kung ai vescovi dell’aprile 2010.

Nella lettera Kung addebita al Papa Benedetto XVI di non aver saputo cogliere una serie di opportunità: il ravvicinamento alle Chiese evangeliche, la continuità del dialogo con gli ebrei, il mancato dialogo con i musulmani improntato alla fiducia, il mancato aiuto alle popola-zioni dell’Africa nella lotta contro la sovrappopolazione e l’AIDS, asse-condando la contraccezione e l’uso del preservativo. Poi addebita il non aver colto il riconciliarsi con la scienza moderna, riconoscendo senza ambiguità la teoria dell’evoluzione e aderendo, seppure con le debite differenziazioni, alle nuove prospettive della ricerca, ad esempio sulle cellule staminali. E all’interno stesso del Vaticano, addebita il punto cruciale del non portare avanti le riforme del Concilio Vaticano II.

Kung prosegue: “So bene che anche molti di voi soffrono di questa situazione. A Roma si cerca di accreditare, con rinnovate esibizioni di sfarzo barocco e manifestazioni di grande impatto mediatico, l’immagine di una Chiesa forte, con un vicario di Cristo assolutista, che riunisce nelle proprie mani i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Ma la politica di restaurazione di Benedetto XVI è fallita”. Inoltre Kung denuncia la grave flessione nelle vocazioni, anche per gli scandali sessuali. E così esorta:

“1. Non tacete. Non scrivete lettere a Roma per fare atto di sottomis-sione e devozione, ma per esigere riforme!

2. Ponete mano a iniziative riformatrici. Tutti devono impegnarsi per il rinnovamento della Chiesa nel proprio ambiente di vita, piccolo o grande che sia. Spetta a voi, nella vostra qualità di vescovi, il compito di

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promuovere e sostenere simili iniziative, così come quello di rispondere, soprattutto in questo momento, alle giustificate lagnanze dei fedeli.

3. Agire collegialmente. Il Concilio ha decretato, dopo un focoso di-battito e contro la tenace opposizione curiale, la collegialità dei papi e dei vescovi, in analogia alla storia degli apostoli. Ma nel periodo post-conciliare il papa e la curia hanno ignorato questa fondamentale decisio-ne conciliare. Perciò, stimatissimi vescovi, non dovreste agire solo indivi-dualmente, bensì in comune con altri vescovi, con i preti, con le donne e gli uomini che formano il popolo della Chiesa.

4. L’obbedienza assoluta si deve solo a Dio. Voi tutti avete giurato ob-bedienza incondizionata al papa. Tuttavia sapete anche che l’obbedienza assoluta è dovuta non già al papa, ma soltanto a Dio. Perciò non dovete vedere in quel giuramento un ostacolo tale da impedirvi di dire la verità sull’attuale crisi della Chiesa, della vostra diocesi e del vostro Paese.

5. Perseguire soluzioni regionali: il Vaticano si mostra spesso sordo alle giustificate richieste dei vescovi, dei preti e dei laici. Una singola Confe-renza episcopale potrebbe aprire la strada procedendo a una soluzione regionale. Meglio sarebbe tuttavia mirare a una soluzione globale per la Chiesa nel suo insieme.

6. Si chieda la convocazione di un Concilio. È responsabilità di tutti voi riuscire a far passare la proposta di un concilio, o quanto meno di un’assemblea episcopale rappresentativa. Questo, a fronte di una Chiesa in crisi, è l’appello che rivolgo a voi, stimatissimi vescovi: vi invito a get-tare sulla bilancia il peso della vostra autorità episcopale, rivalutata dal Concilio. Date un segno di speranza ai vostri fedeli, date una prospettiva alla nostra Chiesa”.

Dall’insieme di queste considerazioni dottrinali assai critiche ma interne all’essere cattolici (non per caso Kung sostiene anche la neces-sità di un modello etico globale per tutte le religioni e per le relazioni internazionali), Noi Siamo Chiesa deriva scelte affini a quelle sostenute dal separatismo. Si comincia dal Trattato di Lisbona per l’Europa, ove Noi Siamo Chiesa si rallegra che non abbia avuto successo la campa-gna a favore delle cosiddette radici cristiane, giudicata molto negativa dal punto di vista religioso, e lamenta che autorevoli ambienti eccle-siastici pretendano ancora discutibili ruoli garantiti nelle istituzioni, di cui vi è traccia nell’articolo 15-ter del Trattato, che “rispetta e impe-gna l’Unione Europea a “mantenere con le Chiese un dialogo aperto, trasparente e regolare”. Invece di un ruolo dominante nel rapporto con le istituzioni europee, per Noi Siamo Chiesa “i credenti debbono testimoniare la loro fede, nella vita sociale e politica, ispirandosi solo alla parola povera di Gesù di Nazareth e le chiese debbono abbandonare le

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logiche ecclesiastiche della ricerca di privilegi e di ruoli particolari nelle istituzioni”.

Noi Siamo Chiesa critica il Vaticano anche perché osteggia la de-penalizzazione universale dell’omosessualità, proposta all’ONU dalla Francia con il consenso di tutti i paesi dell’Unione Europea. E nel 2008 Noi Siamo Chiesa ha pubblicato il libro “Sulla Chiesa povera” che tratta il problema dei molti beni terreni della Chiesa e della po-vertà della Chiesa.

Di recente, Noi Siamo Chiesa si è augurata la conferma della sen-tenza sul crocifisso della Corte di Giustizia Europea, ritenendo che il crocifisso sia un simbolo religioso sul quale tutti i cristiani debbano meditare nel raccoglimento delle loro coscienze, sia nella preghiera in-dividuale che in quella comunitaria, e non un simbolo stesso dell’iden-tità e della cultura nazionale: “la strumentalizzazione di questo simbolo nel nostro paese è fatta non solo da cattolici fondamentalisti (nostalgici di una “cristianità” finito da molto tempo) ma anche da forze politiche e cul-turali estranee a ogni riflessione evangelicamente ispirata”. La posizione di Noi Siamo Chiesa è esplicitamente appoggiata dai movimenti ed or-ganizzazioni cattoliche europee, che si ispirano al Concilio Vaticano II.

Naturalmente simili posizioni pratiche, nel merito sono funzionali al far maturare una consapevolezza favorevole alle corrispondenti scel-te laiche di cui parlerò in diversi punti del capitolo 33. Anche perché si arriva a formularle lungo percorsi che appartengono alla fede del popolo di Dio (e perciò esterni alla cultura laica). E dunque – anche se magari formulate con il diverso fine di esprimere una più coerente spiritualità – sono una riprova del fatto che le soluzioni derivanti dal principio della separazione Stato religioni sono valide per migliorare la convivenza sulla base dei diritti individuali del cittadino, a prescindere dalle dispute religiose, rispettabilissime ma che appassionano solo chi professa quella fede.

h) il separatismo e l’Occidente.

Nel mondo dei cattolici chiusi italiani, vi è chi pensa che basti avere la faccia mite per sostenere tesi fantasiose. Quella più rilevante è che lo Stato occidentale dovrebbe avere un Dio e una religione. Così la fede diverrebbe una fonte legislativa e politica. Una simile idea ha necessa-riamente delle pericolose conseguenze politiche. Rinnega il cuore stes-so della civiltà occidentale (e della sua evidente maggior capacità pro-pulsiva) che è l’aver sviluppato strutture civili separate da suggestioni

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religiose. E per questa via – che se ne renda conto o meno – corrode i presupposti della convivenza aperta tra cittadini liberi e responsabili, di ogni etnia e religione. Dietro l’apparenza paciosa, tale idea si spaccia per un approccio moderato alla convivenza. Ma non lo è. Anche i cre-denti, insegnava De Gasperi, non dovrebbero mai confondere l’esser personalmente cattolici praticanti con l’affidare alla fede e alla Gerar-chia la guida politica della convivenza. L’idea dello Stato Etico e della Religione di Stato è l’idea di fondo del partito dei teocon, che avvelena la pacifica convivenza ed è la strada più diretta verso il fondamentali-smo, nel mondo musulmano e in quello occidentale.

i) le radici giudaico cristiane.

Per anni la Chiesa e il mondo cattolico hanno insistito sulla que-stione delle radici giudaico cristiane, in modo martellante e senza grandi risultati in sede istituzionale. Dal punto di vista del separati-smo appare una campagna largamente legata all’Italia e per il resto finalizzata a difendere i propri privilegi secondo il motto “la miglior difesa è l’attacco”.

L’Europa viene emergendo da una serie di trattati tra Stati e, anche per la robusta presenza di tradizioni diverse rispetto a quella italiana o a quella polacca, non vuol cadere sotto il giogo del ritorno religioso. Nella discussione sulle radici giudaico cristiane dell’Europa, il mondo cattolico non riesce ad avvertire che una costituzione non è una storia del passato bensì un patto sul futuro. Non volendo inserire nel testo del Trattato di Lisbona il riferimento alle radici giudaico cristiane, la grandissima maggioranza dell’Europa non ha inteso negare la forte in-fluenza che queste hanno avuto nella storia europea. Ha solo affermato due questioni essenziali a proposito dell’Europa quale è oggi e quale vuole essere in futuro.

La prima è che non esiste, e non può esistere, alcuna nostalgia sul temporalismo e che l’Europa si fonda sul principio di separazione tra Stato e religioni. È questo risultato, non i conflitti attraverso cui ci si è arrivati, ad essere essenziale per la convivenza di centinaia di milioni di cittadini europei. Inserire nei documenti fondanti dell’Unione Eu-ropea un particolare accenno formulato genericamente sulle radici sto-riche prescindendo dalle vicissitudini storiche che hanno portato alla separazione, sarebbe stata un’operazione oggettivamene ambigua che avrebbe confuso e non chiarito la volontà europea. La seconda questio-ne è che i problemi che oggi e domani si troveranno ad affrontare gli

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europei non riguardano solo i gruppi giudaico cristiani ma moltissimi altri gruppi che non debbono essere considerati alla stregua di ospiti. Inserire nella Costituzione le radici storiche, avrebbe oggettivamente creato due categorie di cittadini, i giudaico cristiani e i non giudaico cristiani, reintroducendo la credenza religiosa a fattore distintivo della cittadinanza (distintivi sono i parametri anatomici perché non suscet-tibili di cambiamenti se non per via chirurgica).

Anche il non recriminare di continuo sulle scelte di convivenza per stare tra diversi, è un modo concreto di concepire i rapporti con l’altro in maniera feconda. Viceversa i cattolici chiusi non si rassegnano a rincorrere la supremazia della propria fede. Nel gennaio 2010, anche un diplomatico come il Ministro degli Esteri Frattini ha continuato a sostenere a Strasburgo che “senza radici cristiane si rischia un razzismo rovesciato… l’architettura europea è senza cittadini uniti da una stessa identità… giustamente riconosce agli altri, ad esempio i Musulmani, il tratto religioso delle identità che compongono larga parte del fenomeno migratorio, ma allontana poi, quando parliamo di Cristianesimo, questo stesso carattere in nome di una coscienza che noi, per noi stessi, vorrem-mo invece muta di fronte alla religiosità”.

E a giugno 2010, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (a detta di Berlusconi il reale factotum) Gianni Letta ha lamentato che “per colpa di vicende politiche, le radici cristiane sono state tolte come riferimento dalla Costituzione dell’Europa. Sono però convinto che le ra-dici siano più forti dei rami. Ed in questo caso Strasburgo rappresenta un piccolo rametto che può cadere senza danni”.

Queste parole sono una riprova ulteriore che i cattolici chiusi in-tendono imporre all’Italia una identità unica (ed è già un grave errore) ed in più un’identità di tipo religioso (che è un secondo errore grave). Al punto che la linea assunta dall’Europa è “un rametto che può cadere senza danni”. Delle conseguenze sulla vicenda del crocifisso nelle aule scolastiche, parlerò più diffusamente al capitolo 33.e.

l) la convivenza con i musulmani.

Il principio di separazione è un criterio generale per affrontare in modo più libero ed efficace i problemi della convivenza. Non intende sotto alcun aspetto avere la bacchetta magica, specie in un problema così vasto e complesso come quello specifico dei rapporti con il mondo musulmano in Italia, che riguarda più di un milione di persone di cui diverse decine di migliaia gli italiani convertiti. Peraltro, anche in

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questo caso, la gestione di quei rapporti è inquadrata efficacemente dai criteri di approccio assolutamente generali del principio di sepa-razione.

Il punto di partenza del problema sta nella stessa nostra Costituzio-ne, nel senso che essa prevede uno stato di cose inesistente nel mondo musulmano. In effetti l’articolo 8 della Costituzione dà ad ogni con-fessione pieno diritto di libertà, incluso quello “di organizzarsi secondo i propri statuti”, e stabilisce che “i loro rapporti con lo Stato sono rego-lati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Ora – e qui non è il luogo per approfondirne le ragioni  –  i musulmani non hanno rappresentanze siccome loro religione proclama un rapporto diretto tra il fedele e il Dio, per cui gli imam sono ascoltati per fede dai singoli, non per vincoli terreni. Dal punto di vista separatista, si sarebbe potuto sperare che la mancanza di organizzazione religiosa intermediaria tra la coscienza di ciascuno e il Dio, rendesse fisiologi-camente più autonome le decisioni dei cittadini musulmani relative alla convivenza e dunque facilitare il rapporto con loro. La speranza è però vana, perché al posto della mancante organizzazione religiosa intermediaria si manifesta per tradizione plurisecolare un fortissimo senso comunitario, che focalizza fortemente il modo di condurre la vita pratica sulla indicazione religiosa dell’imam di quella comunità. Così di nuovo viene fuori la difficoltà di muoversi in una situazione in cui la libertà individuale è limitata in quanto una specie di filtro limita la possibilità di esprimere appieno la propria personalità.

Questo dato già innesca problematiche complicate, perché le pre-diche dell’imam sulla fede, accoppiate alla mancanza di una precisa organizzazione rappresentativa, favoriscono interpretazioni ed atteg-giamenti differenziati da parte dei diversi imam. A questo primo dato se ne aggiunge un secondo, e cioè che nel campo islamico esiste una corrente politica internazionale, molto radicale, molto organizzata e ramificata, che usa il credo religioso a fini di lotta religiosa con meto-di oggettivamente terroristici. E ciò crea una fondata preoccupazione nella gran massa dei cittadini italiani e complica ulteriormente i rap-porti con il mondo musulmano.

Mancando la rappresentanza, una qualche forma di pratica intesa sulla vita quotidiana tra Stato e musulmani è stata fino ad oggi tec-nicamente molto difficile e di fatto manca. In queste condizioni, per affrontare il problema del rapporto con il mondo musulmano diviene necessaria l’applicazione del separatismo: occorre non dare spazio in politica alle questioni religiose. Ancora una volta l’ostacolo non è la religione, ma l’interpretazione che ne danno quelli (per analogia con

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i cattolici li chiamerò i musulmani chiusi) che, in tema di conviven-za, vogliono rifarsi a valori che contrastano l’esplicarsi della libertà individuale. Trascurando quasi completamente che in Italia non è in alcun modo trattabile il fermo rispetto, da parte dei cittadini di ogni religione e degli immigrati, dei principi costituzionali del nostro Stato e delle relative regole di convivenza. Adottare una logica separatista rispetto al problema del mondo islamico, significa non ripetere gli er-rori di impostazione compiuti dai Ministri Pisanu e Amato nel seguire una logica concordataria perfino mancandone il presupposto, e cioè la rappresentanza dei musulmani. Infatti i due ministri hanno cercato di inventare la rappresentanza a tavolino, cosa che non per caso non è neppure servita a stabilire buoni rapporti con l’organizzazione più numerosa dei musulmani, che è l’Ucoii. Almeno il Ministro Maroni ha percorso la strada del comitato di consulenza e non quella di una artificiosa rappresentanza della comunità. La via separatista è non far entrare la religione nella politica ed organizzare rapporti pratici di convivenza sul piano civile con chi rappresenta davvero qualcuno.

Per arrivare a delle intese, occorre che i musulmani abbiano dei rappresentanti delle loro tradizioni e quindi è preliminarmente oppor-tuno che entrino nell’idea di eleggerli. Questi rappresentanti dovran-no essere distinti dagli imam (che sono i referenti religiosi) e, in quanto eletti, dovranno rendere conto del loro operato a chi li ha eletti. In questo modo comincerebbero a costruire un punto di contatto con la logica della libertà fondata sulla autonoma coscienza dei cittadini. Un sistema elettorale di questo tipo  –  anche se finora commisto ad una pericolosa sovrapposizione tra il cosiddetto presidente eletto e l’imam  –  pare sia disposta ad adottarlo anche l’Ucoii. Siamo appe-na all’inizio e con procedure formalmente assai poco rigorose. Però sembra un passo avanti significativo della nuova Presidenza dell’Ucoii assunta da Elzir nella primavera del 2010.

Imboccata questa strada, il pluralismo separatista non opera attra-verso contrattazioni con i musulmani, che sarebbero incoerenti con la libertà di ciascun individuo di scegliere la propria vita personale. Nessun ente o gruppo deve poter tentare di dominare la vita e ogni suo aspetto; né è certo concepibile introdurre il finanziamento dello Stato ad una religione. Nella logica separatista, l’intervento pubblico può essere eventualmente ammesso solo se temporaneo, assimilabile ad una sorta di ingessatura per aiutare, nella fattispecie, a far crescere l’opportuna configurazione del sistema rappresentativo in un caso dif-ficile come quello della mancante rappresentanza musulmana. Ma ciò può essere preso in esame per quanto attiene l’organizzazione iniziale

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del sistema elettorale, non per far sorgere i luoghi di culto islamici, che, quando se ne avverte la necessità, devono essere del tutto autofinan-ziati e divenire libero luogo di incontro di persone libere di vivere la propria religiosità ovviamente sostenendone gli oneri.

La contrarietà di coloro che vorrebbero affrontare i problemi dei musulmani riducendoli ad una questione di ordine pubblico, è sempli-cemente illiberale. Confonde il problema religioso islamico (cui deve essere riconosciuta piena libertà) con l’eventuale azione politica della comunità islamica come tale (che richiede il normale contrasto dai se-paratisti perché vuol mettere insieme politica e religione) e soprattutto con l’azione politica di gruppi islamici fondamentalisti e potenzial-mente terroristici (che deve essere contrastata dallo Stato con intran-sigente fermezza). Questa confusione con il fondamentalismo rafforza le potenzialità dello stesso fondamentalismo, ed avviene sia quando si adottano contromisure sbagliate ed inefficaci sia quando si radica-lizza lo scontro come se fosse uno scontro religioso. Sarebbero invece positive apposite campagne di intervento rivolte a tutti i singoli musul-mani, italiani o immigrati, per attivare la loro libertà di coscienza, per sostenere chi vuol percorrere tale strada, per evitare le discriminazioni delle donne, le vessazioni contro chi intende convertirsi, la pratica dei matrimoni combinati, le violazioni dei diritti della persona (quali il valore civile del ripudio delle mogli e della poligamia oppure le tribali mutilazioni dell’apparato genitale).

33. Il separatismo per affrontare problemi specifici

Come già ho accennato, adottare il sistema della separazione tra Stato e religioni è molto importante per migliorare i rapporti di con-vivenza. Non solo per le questioni direttamente toccate dai rapporti aventi carattere strettamente religioso, ma anche per diverse altre che influiscono su cui quei rapporti. Infatti, il principio di separazione, proprio perché si fonda sulla molteplicità e variabilità delle identità individuali, opera naturalmente sui modi di comportarsi e per questa via finisce per caratterizzare ampiamente l’ambiente relazionale.

Inoltre, la missione della laicità e della separazione non sta nel con-trapporsi a chi non la condivide. Appunto perché il separatismo vuol servire a migliorare i rapporti di convivenza, ha fermezza nei principi ma è attento a collocarli nella realtà del luogo e del tempo. È natural-mente diverso dal giacobinismo razionalistico che afferma le proprie convinzioni a prescindere da quelle realtà. Così nella logica separati-

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sta, il principio è una convinzione di metodo che si applica con de-terminazione. Però non trascura una tempistica legata alle situazioni di fatto che esistono in partenza, prestando molta cura, per adeguare il quadro istituzionale, ad innescare processi di trasformazione della mentalità dei cittadini in una direzione coerente: e questo non avviene dall’oggi al domani.

Di seguito elenco alcune delle questioni su cui si esercita il separa-tismo, peraltro senza pretesa di completezza o di esaustività nel trat-tarle. Già non tratto divorzio e interruzione di gravidanza (che pure sono essenziali ai fini della laicità delle istituzioni) perché le leggi in materia, a parte discussioni e valutazioni per applicarle e per eventuali aggiornamenti, hanno già risolto nella sostanza gli aspetti inerenti il principio di separazione (salvo uno che, con un criterio di semplicità, tratto per primo). Per il resto, sia la completezza che la esaustività non rientrano appieno tra le caratteristiche del separatismo e della laicità delle istituzioni. Siccome il separatismo non costituisce un modello rigido ed eterno, può sempre darsi che, oltre quelle elencate di sotto, abbia anche altre caratteristiche già esistenti ma non inserite qui ed ancora altre ora inesistenti ma che potranno manifestarsi domani.

a) il servizio pubblico garantisce l’obiezione di coscienza,non ne è impedito.

Già nella prima parte, a proposito della legge sull’interruzione vo-lontaria di gravidanza, avevo rilevato che non risolveva formalmente il problema di come opera una funzione pubblica in regime di separa-zione. Credo che invece di affidarci ad una soluzione in base al caso statistico (tanto esistono anche medici non obiettori) e in base ad una qualche ipocrisia degli accomodamenti di fatto, sia necessario adegua-re le norme dei presidi pubblici alla logica della separazione. Per cui, i medici e i paramedici possono sempre esercitare il diritto all’obiezione personale ma il servizio del presidio in quanto tale deve essere orga-nizzato in modo da garantire tutti gli interventi richiesti e necessari per i pazienti.

Questo genere di questione è peraltro molto più ampia. Non ca-sualmente in Italia non esiste una legge generale sulla obiezione di coscienza, che pure è un aspetto rilevante della libertà individuale. Ci sono norme per l’obiezione di coscienza del personale militare (oramai desuete per l’abolizione della leva obbligatoria), del personale sanitario sull’aborto, del personale sulla sperimentazione animale, del perso-

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nale sulla procreazione medicalmente assistita. Ora si sta parlando di quella per i farmacisti.

Sarebbe opportuno affrontare direttamente il problema, che del resto rientra a pieno titolo nella logica separatista. La laicità delle isti-tuzioni non deve trascurare il modo di assicurare alla coscienza indivi-duale (che della laicità è il valore fondante) la possibilità di esprimersi nei vari episodi della vita pubblica, non solo al momento del voto. E farlo senza intaccare il principio delle scelte fatte dalla maggioranza né quello secondo cui l’obiezione di coscienza rientra nell’ordinamento dello Stato e non è interpretabile come rifiuto dello Stato (cosa che un certo mondo religioso tende visibilmente a fare). Oltretutto, un si-mile atteggiamento più che opportuno, sta diventando indispensabile poiché la convivenza anche in Italia è tra culture e religioni differenti. Questo fa prevedere l’allargarsi della problematica obiezione di co-scienza.

Questa nuova prospettiva nell’affrontare il problema obiezione di coscienza richiede di pensare ovviamente agli aspetti delle persone coinvolte nell’esercitarla (e dunque tener ferma la scelta compiuta dal-la legge e prevedere per l’obiezione forme di prestazioni alternative atte a far da deterrente agli abusi di comodo e insieme a scongiurare azioni corrosive della convivenza). Richiede peraltro anche di garan-tire il servizio pubblico fornito in base alla legge contro cui si esercita obiezione.

Deve essere del tutto abbandonata la logica di tipo vetero sinda-cale, per cui l’obiezione di coscienza, invece di essere una legittima espressione delle convinzioni personali (che ricorda la questione della disubbidienza civile cui accenno in seguito al capitolo 33.o), diviene uno strumento per mettere impropriamente in discussione le leggi e per bloccare un servizio pubblico. Tra l’altro, proprio perché lo Sta-to laico riconosce strutturalmente il diritto all’obiezione di coscienza, deve avere una struttura in grado di includerne l’utilizzo senza esser-ne bloccato nelle proprie funzioni. Anche attraverso la partecipazione delle associazioni sindacali dei dipendenti, è quindi necessario arrivare ad una normativa che dia regole più efficienti al funzionamento effet-tivo dei servizi pubblici in presenza di casi di obiezione di coscienza. Le prestazioni del servizio pubblico devono in ogni evenienza essere erogate ai livelli abitualmente forniti.

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b) anticlericalismo.

Il principio di separazione non vuole che le organizzazioni della religione influenzino le istituzioni civili, eppure non è contro quelle organizzazioni a meno che non siano temporaliste. Viceversa l’an-ticlericalismo vive per opporsi alle organizzazioni religiose; in Italia particolarmente per opporsi alla Chiesa Cattolica. Al punto che ne-gli ambienti anticlericali circola l’argomento secondo cui essere atei o agnostici non sarebbe pienamente tutelato siccome di loro non parla la Costituzione. È un ulteriore esempio di quello spirito formalistico (e concettualmente illiberale) secondo cui un cittadino può fare solo ciò che lo Stato permette in modo esplicito. La Costituzione sancisce la libertà dell’individuo comunque articolata e di questa fa parte ov-viamente la libertà di credere o di non credere; lo prevede la Dichia-razione Universale dei Diritti Umani del 1948 (che il Vaticano non ha mai sottoscritto, dato che non fa riferimento al fondamento divino dei diritti), non può essere sospesa neppure in casi eccezionali a seguito del Patto Internazionale sui Diritti del 1966 ed in ogni caso anche la Corte Costituzionale lo ha confermato incidentalmente.

Non di rado, personalmente l’anticlericale non è un pericoloso eversore, come vorrebbe il conformismo confessionale. È un indivi-dualista libertario romantico con una visione semplificata delle cose, che talvolta si carica pensando al risorgimento e alle lotte per scon-figgere il temporalismo ecclesiastico. Spesso non è davvero contrario alla libertà di religione e ritiene che a metterla in discussione siano “i preti” (non sottilizzando tra cattolici chiusi e non chiusi). Poi vi sono anche gli anticlericali che fanno dell’anticlericalismo una professione partitica, nel senso che utilizzano il tema, non tanto come proposta po-litica per raggiungere qualcosa nel merito della libertà (che pure sanno non realizzabile per quella via), quanto per attirare clamorosamente l’attenzione sulla propria persona e rendersi politicamente appetibili.

In un modo o nell’altro, comunque, l’anticlericalismo rientra tra le scelte personali del tutto lecite dal punto di vista separatista. Restan-do sempre allo stesso punto di vista, l’anticlericalismo è invece una proposta politica sbagliata. Specie se poi (sulla scia ideale dell’invet-tiva di Zola a fine ’800, “la civiltà non raggiungerà la perfezione finché l’ultima pietra dell’ultima chiesa non sarà caduta sull’ultimo prete”), as-sume i connotati dell’illuminismo estremo (per parafrasare un recente libro del filosofo francese Onfray) che attacca tutti i grandi espopnenti illuministi storici, rei di non essere stati abbastanza anticlericali e ab-bastanza radicali contro le monarchie. Il tutto nel nome di un sogno

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rivoluzionario antirazionalista e fuori del tempo nel richiedere scelte assolute al di fuori del mondo reale.

Che questo sia o no l’obiettivo consapevole, le istituzioni costruite sul principio anticlericale impedirebbero necessariamente la libertà di religione. Per cui, se un cittadino volesse istituzioni che questa libertà la mantengano, perfino se fosse personalmente anticlericale dovreb-be adottare il criterio separatista e non quello anticlericale. Succede invece che anche alcuni di quelli che più lavorano per la laicità, si fac-ciano irretire dall’anticonformismo del dirsi anticlericali. Di fatti Bob-bio ammoniva “lasciamo gli anatemi a quelli che si ritengono ispirati da Dio”. Purtroppo un esempio è il programma dell’Unione Atei, che, pur vedendo il proprio ruolo in positivo, come confronto democratico di privilegio della razionalità e della conoscenza scientifica, conclude che “si ritiene anticlericale solo in quanto si oppone alle ingerenze clericali, da qualunque religione siano compiute, nella vita sociale e politica e nelle scelte individuali”.

Peccato che l’esperienza dimostri che, specie nel quadro storico ita-liano, lo strumento politico coerente per togliere le ingerenze confes-sionali nelle istituzioni, non è l’anticlericalismo (contro la Chiesa) ma il principio di separazione Stato religioni (per levare ai cattolici chiusi il paravento religioso). E peccato che gli anticlericali si impegnino quasi sempre nella propria convinta passione per rivendicare la libertà di non esser sottoposti ad indebite ingerenze confessionali, senza però occuparsi del come eliminarne i motivi istituzionali. Un caso esem-plare è lo scrittore Busi, brillante e fantasioso. Analizza ed esprime, con acutezza estrema fino alle escandescenze, molti aspetti della realtà confessionale ma non pare esser curioso né aver interesse di trovare la via di irrobustire le condizioni perché la convivenza si possa liberare dal confessionalismo nelle istituzioni. Non tutti hanno l’antidoto della sua capacità di difendersi. Ed è invece per quei cittadini che occorre il separatismo.

c) il diritto di finanziamento da parte del credente e non dello Stato.

Il diritto del cittadino di dare risorse finanziare al suo credo rientra in pieno nel principio di separazione tra Stato e religioni, proprio per la sua stessa caratteristica di fautore della libertà di religione (è chiaro che il finanziamento diretto dello Stato ad una religione non ci rientra e lo considero a parte).

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Solo che la legge istitutiva dell’otto per mille, venuta dal Concorda-to del 1984, assume questo principio ma lo trasforma in specchietto per le allodole. Di fatti l’articolo 47, comma 3, della legge 222/1985, recita che le quote di otto per mille Irpef destinate “a scopi di carattere religio-so a diretta gestione della chiesa cattolica” fissate dal comma precedente (e successivamente estese ad altre confessioni) “vengono stabilite sulla base delle scelte espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annua-le dei redditi. In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”. Dunque, è assicurata la parità di influenza della scelta dei singoli contribuenti per quanto attiene al singolo peso sull’ammontare globale delle imposte spettanti all’Erario. Ma è concesso un privilegio alla Chiesa cattoli-ca (in origine tra i destinatari c’era solo essa, oltre allo Stato) anche sull’ammontare Irpef corrispondente alla percentuale di contribuenti che non hanno effettuato una loro scelta.

Ora non occorre essere dei maestri di logica per capire che que-sto sistema è un gioco di prestigio tipicamente confessionale. Infatti, all’inizio, la scelta era solo tra dare l’otto per mille allo Stato o darlo alla Chiesa. Però, come sanno tutti, il gettito Irpef è di pertinenza ordinaria dell’Erario (tra l’altro questo fa capire che inserire lo Stato tra i possi-bili destinatari della scelta era un semplice artificio per dissimulare il senso dell’operazione). Se un contribuente non esprime la sua scelta, si-gnifica, primo che non vuole destinarla alla Chiesa (altrimenti l’avreb-be espressa) e di conseguenza, secondo, che, con il non destinarla, non intende modificare la destinazione ordinaria dell’imposta. Viceversa si da alla Chiesa il privilegio di attribuirle in proporzione anche le somme del gettito Irpef non interessate dalle percentuali di scelta. Questo si-gnifica che la legge è stata concepita contro il principio di separazione. Perché si da mandato all’Erario di attribuire alla Chiesa delle somme che per loro natura apparterrebbero alla collettività civile. E non si tratta di pura teoria. Si tratta di attribuire somme rilevantissime.

Cosa accade in pratica. Solo il 40% scarso dei contribuenti esprime una scelta sull’otto per mille. Con il sistema della legge antiseparatista, ai destinatari delle scelte non viene attribuito solo il 40% del getti-to complessivo ma viene attribuito tutto il gettito. Così, ad esempio, alla Chiesa Cattolica cui sono andate, all’interno del 40% scarso delle scelte, quasi il 90% delle preferenze, non vanno somme pari al 90% del 40% bensì pari al 90% del 100%. Tradotto in cifre, un regalo di diverse centinaia di milioni di euro.

La legge è assai contraria al principio separatista anche sotto un altro aspetto importante. Il contribuente non può destinare il suo otto

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per mille alle organizzazioni religiose che preferisce, ma solo a quelle che hanno già stipulato una Intesa con lo Stato. Il che ribadisce che la legge non ha voluto regolare il finanziamento al rispettivo credo da parte dei singoli cittadini, ma ha voluto favorire il criterio di religione riconosciuta rispetto a quello di religione libera. Ancora con conse-guenze non solo di principio ma pratiche. Meno sono le confessioni destinatarie dell’otto per mille e meglio è per quelli che hanno l’Intesa approvata per legge. Dunque sarebbe significativo che intanto il Par-lamento approvasse presto la legge relativa al gruppo delle sei Intese firmate nel 2007 e varate nel Consiglio dei Ministri del maggio 2010. Resta comunque indiscutibile, per tutte le osservazioni fatte, la neces-sità, forte ed urgente, di portare la legge 225/1985 nell’alveo del princi-pio di separazione tra stato e religioni.

Poi c’è l’aspetto del finanziamento diretto dello Stato, nelle sue di-verse articolazioni, alle congregazioni religiose in quanto tali. Credo evidente che in linea concettuale non rientri nel principio di separa-zione tra Stato e religioni. Se infatti lo Stato finanzia direttamente le religioni, è come se ritenesse le religioni finanziate un fattore essenzia-le della società con un ruolo superiore a quello del cittadino. Tanto da supportarle anche quando non lo fa il cittadino (che non le finanzia o almeno non le finanzia abbastanza). Il punto è qui. Dal punto di vista della convivenza, le religioni non sono superiori al cittadino ma emergono dal cittadino, esistono in quanto il cittadino è credente. Se lo Stato, che è frutto dei cittadini, ritenesse le religioni superiori al cittadino, le porrebbe sopra di sé. E questo violerebbe la logica del principio di separazione.

Ho parlato di finanziamento alle religioni in quanto tali che non rientra nel principio di separazione. Vi possono invece rientrare quelle specie di finanziamento dello Stato non ai culti in sé bensì pensate per agevolare che compiti civili e sociali siano svolti senza esclusiva anche da organizzazioni religiose: non in quanto religiose ma in quan-to composte da persone in carne ed ossa aventi casualmente quella data religione. Penso ad attività di tipo culturale, di solidarietà sociale, di restauro del patrimonio artistico storico, di sostegno ai giovani, di strutture ospedaliere per la cittadinanza, di cultura della memoria, di lotta ai pregiudizi razziali. È ovvio che l’Ente pubblico erogante deve in tal caso verificare con rigore che il finanziamento sia utilizzato pro-prio per tali fini e insieme stare molto attento ad evitare che lo stesso fi-nanziamento crei dei privilegi discriminatori tra i diversi credi religiosi (magari creando di fatto condizioni di esclusiva a favore di qualcuno di essi). Ma sono questioni che, purché non siano presentate come sosti-

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tutive di funzioni istituzionali, attengono al modo di funzionare della gestione dei fondi pubblici e non al principio di separazione in sé.

Resta il problema di come affrontare i diversi casi reali di finanzia-mento alle religioni. Quelli alle religioni in quanto tali sono fossili dei tempi andati. Eppure continua il vizio dei privilegi economico fiscali ammessi dallo Stato sulle proprietà e sui redditi di chi esercita il culto. In base al principio separatista, quando gli enti di culto dispongono di redditi dalle proprietà e dalle attività che possono soddisfare le loro esigenze, lo Stato non può contribuire ulteriormente, ammettendo privilegi, alla gestione e alla accumulazione: così agevolerebbe senza motivi la struttura temporale del culto. In tal senso, casi di finanzia-mento alle religioni ce ne sono diversi, oltre ai casi visti. Il principale è quello della esenzione Ici, già segnalata nella prima parte. Il governo Prodi aveva introdotto nel 2006 l’estensione dell’esenzione dall’Ici a seguito delle pressanti pressioni del Vaticano contro quattro sentenze della Cassazione di due anni prima, con cui si era stabilito che anche le congregazioni religiose devono pagare l’Ici per gli immobili nei quali svolgono attività commerciale.

La prima questione da rilevare è che tale esenzione è stata talmente precipitosa da violare perfino le procedure formali di revisione concor-dataria. Il prof. Bellini, esperto di Diritto Canonico, ha fatto rilevare che l’articolo 7 comma 3, del Concordato vigente in materia tributaria sancisce che “le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al re-gime tributario previsto per le medesime”. Questo articolo non risulta modificato, eppure la estensione ICI deroga le leggi fiscali italiane (na-turalmente la controparte, essendo la modifica ad essa favorevole, non ha eccepito). Oltre a questo – che resta un fatto istruttivo di duttilità concordataria per cui lo Stato accetta di assoggettarsi alle esigenze di una religione senza esservi obbligato – è venuta una richiesta forma-le di chiarimenti da parte dell’Unione Europea per capire meglio la questione dei vantaggi fiscali concessi al Vaticano al di fuori e contro i Trattati Europei. Infatti la minore tassazione rientra nei vietati aiuti di stato e il fatto che a goderne sia un ente non commerciale, e quindi senza fini di lucro, magari con scopi meritori, non è rilevante, siccome l’esenzione ora comprende anche gli immobili dell’ente destinati all’at-tività d’impresa.

La questione ha sollevato in Italia furibonde reazioni dal mondo dei cattolici chiusi e dei teocon. Buttiglione sostenne la tesi, in sostan-za ipocrita, per cui “è dubbio che sia di competenza dell’Unione Eu-

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ropea… E comunque i vantaggi di cui gode la Chiesa sono gli stessi di cui godono gli enti senza fini di lucro. In un momento in cui la società si autorganizza, queste opportunità vanno allargate secondo il principio della sussidiarietà”. Più bruscamente, come è sua abitudine, il leghista on. Calderoli, con grande sprezzo del ridicolo, commentò “se io fossi la Chiesa scomunicherei l’Unione europea. Che vogliano imporre tasse a chi si occupa di cose spirituali e di carità, è veramente da scomunica”. In ogni modo, ad oggi pare non vi sia notizia di adeguate risposte da parte dei due governi susseguitisi da allora. Così prosegue la tendenza di gran parte dei comuni di non fare alcun accertamento.

Altri casi reali di finanziamento alle religioni sono gli insegnanti e le modalità di inquadramento dei cappellani militari e dei vari or-gani di assistenza. Per gli insegnanti osservo che, a parte la questio-ne dell’ora di religione, il dato di fatto sono gli insegnanti scelti dai vescovi e pagati dallo Stato, per di più messi in ruolo con una corsia preferenziale votata dal centro destra e dai due partiti cattolici del centro sinistra (Margherita ed Udeur). Solo questi stipendi hanno un costo superiore ai cinquecento milioni di euro l’anno. Poi ci sono i cappellani militari e della polizia con l’incarico di svolgere assistenza spirituale, nominati dalle autorità italiane su designazione dell’autori-tà ecclesiastica sulla base di specifiche Intese. Qui, sorvolo sulla cir-costanza che molti affermano che l’assistenza è in realtà propaganda. Sottolineo piuttosto che la cosa più grave è che sono pagati dallo Stato (di nuovo antiseparatismo) e che di fatto non c’è equilibrio tra le di-verse confessioni (mentre l’assistenza dovrebbe riguardare i singoli e non i militari all’ingrosso). Equilibrio indispensabile perché, secondo la convenzione con lo Stato, il cappellano “cura la celebrazione dei riti liturgici, la catechesi, specie in preparazione ai sacramenti, la formazione cristiana, nonché l’organizzazione di ogni opportuna attività pastorale e culturale”. Questi sono compiti di culto, non altro, per cui dovrebbe valere il principio di non privilegiare nessuna confessione.

Inoltre, ci sono i protocolli di intesa in materia ospedaliera tra le Regioni e le rispettive Conferenze episcopali. In genere è previ-sto l’obbligo di assistenti religiosi senza affrontare la questione della ripartizione tra le varie religioni (ma il problema esiste, anche per evitare che non venga garantito al cittadino degente la non violazione della sua sfera privata da possibili propagandisti sanitari della fede). In compenso si precisa che gli assistenti religiosi sono assunti a tem-po indeterminato dall’Ente sanitario od ospedaliero su designazione della Curia, che gli oneri finanziari del servizio, inclusi gli spazi ne-cessari per il culto e le suppellettili, sono tutti a carico dello stesso

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Ente, comprese le spese di illuminazione e riscaldamento dei locali di servizio (non si scordi mai che già l’ICI finanzia i culti e non si vede perché l’assistenza religiosa non rientri nei compiti di istituto della confessione). Ancora, l’esenzione fiscale totale per le parrocchie e gli enti ecclesiastici, comprese imposte su successioni e donazioni (ricor-date i cenni che ho fatto alla questione della personalità giuridica a religioni in quanto tali). E al fondo anche la questione degli oratori. È difficile negare che la legge che li riconosce inclina a privilegiare l’idea che i luoghi di aggregazione giovanile migliori sono quelli a carattere religioso e che per questo è opportuno sostenerli economi-camente.

Infine non si devono dimenticare ulteriori vie di finanziamento. Ad esempio, la norma per cui i comuni versano l’otto per cento degli oneri riscossi per l’urbanizzazione secondaria per le chiese. Siccome le chiese sono in grandissima maggioranza cattoliche, si aumenta il giro del finanziamento delle chiese di qualche miliardo di euro. Si aggiun-gono poi le erogazioni dirette disposte in autonomia dalla Presidenza del Consiglio a manifestazioni di dichiarata impostazione religiosa. E quelle ancor più discutibili dalla Protezione Civile (che negli ultimi otto anni sono state tante, come si evince dal fitto elenco pubblicato da Italia Laica.it). E poi il sistema dei patrocini con cui diversi soggetti pubblici finanziano iniziative a carattere religioso cattolico.

In tutti questi casi, la violazione del principio di separazione e della laicità istituzionale non consiste soltanto nella circostanza che lo Stato si interessi alla religione (nel senso della distinzione chiarita sopra), ma anche nel fatto che interessandosene non rispetta il criterio laico di non privilegiarne una sola e soprattutto manifesta questo interesse attraver-so erogazioni finanziarie concretissime e molto ingenti. Questo desti-nare grosse somme senza servizi corrispettivi che esulino dall’esercizio delle normali pratiche del culto specifico, è una stortura della laicità delle istituzioni che occorre progressivamente correggere, se si vuole una convivenza più rispettosa delle credenze di ogni cittadino.

Sia oltretutto detto che tali problematiche sono aggravate dalla cir-costanza che, seppure con il Nuovo Concordato, come ha rilevato il professor Lariccia, non esiste ancora fino in fondo una effettiva liber-tà religiosa per molti cittadini, né una uguaglianza tra i diversi credi, né una parità tra organizzazioni confessionali e no, né dei controlli giurisdizionali coerenti in materia religiosa. Di fatti, i controlli sono esercitati dal Consiglio di Stato che dipende dal Governo e che è co-stituzionalmente non competente in materia di diritti costituzionali, quali appunto la religione.

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373Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

d) il velo islamico.

Prima di tutto va precisato che l’usanza di coprire la testa con il velo si perde nella notte dei tempi. I motivi sono vari (spesso connessi alla sottomissione della donna) e hanno coinvolto un pò tutti, dai pa-gani ai religiosi di religioni diverse. Se fosse una usanza religiosa pra-ticata o nel privato o nell’ambito dei luoghi di culto, ovviamente non riguarderebbe il principio di separazione. Ne parlo perché, dai primi del ’900 in poi, le usanze dei potenti afgani che imponevano il velo alle donne ovunque in pubblico, hanno cominciato a diffondersi nell’islam e con la globalizzazione sono divenute, come tutti sanno, un proble-ma non trascurabile della convivenza in ogni paese. A differenza della croce cristiana o del copricapo israelitico, il velo islamico è oggetto molto controverso perché l’indossarlo o meno comporta giudizi molto radicali da parte di gruppi di musulmani che, ritenendo tradite le loro convinzioni religiose, giungono a lanciare decreti di morte.

In coerenza con la linea separatista di questo libro, non mi occupo delle accanite dispute religiose sul velo che esistono tra gli islamici (molti sostengono che il velo non è un simbolo religioso, ma una tra-dizione di questo o quel luogo). Faccio riferimento a due risvolti impli-cati dall’usanza del velo che toccano problemi di separazione tra Stato e religioni. Uno attiene al fatto che, secondo alcuni, marcare troppo la propria religione nei comportamenti di un cittadino normale (la cosa non riguarda coloro che sono membri di una Chiesa, come le suore cristiane) equivarrebbe a fomentare una contrapposizione a carattere religioso che disturba la convivenza ordinaria. L’altro consiste nella circostanza che diversi di questi veli limitano fortemente, se non del tutto, l’esposizione del viso.

Da tener presente che i tipi di velo islamico sono tanti, quelli prin-cipali quattro. Il burqa di origine afgana, il chador di origine iraniana, lo hijab e infine il niqab di origine araba. Il chador più lungo e lo hijab una specie di fazzoletto da testa, sono specie di mantelli a carattere religioso che non coprono il viso. Il burqa e il niqab coprono il viso della donna. Il burqa, a seconda delle versioni, lascia scoperti gli occhi oppure ha una piccola grata oppure manca del tutto di fessure. Il niqab si compone di due pezzi, uno per coprire capelli e busto, l’altro il naso e la bocca lasciando prevalentemente scoperti gli occhi.

Il primo dei due risvolti è per il momento assai poco presente in Italia, mentre è molto dibattuto in altri paesi dell’Europa Occidentale, specie in Francia e comincia ad esserlo negli Stati Uniti d’America. In Francia è stata fatta nel secondo semestre del 2003 una grande inchie-

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sta dalla Commissione di riflessione sull’applicazione del principio di lai-cità nella Repubblica (un centinaio di audizioni pubbliche, una quaran-tina di audizioni a porte chiuse, in cui sono stati ascoltati ogni genere di persone da parte dei venti membri della Commissione, espressione di sensibilità diverse ed esperti in campi differenti, e presieduta dal Difensore Civico di Francia, Stasi) che consegnò un articolato Rappor-to, negli Stati Uniti è da segnalare il discorso del Presidente Obama. In Francia, per la convergenza della tradizione anche legislativa (dal 1905 è in vigore la legge sulla laicità), del Rapporto Stasi e forse di una maggior pressione del problema sociale derivante dalle divisioni religiose, anche sotto la spinta del carattere decisionista del Presidente Sarkozy, si attribuisce grande importanza al non aggiungere occasioni di conflitto nella convivenza. Occasione che potrebbe essere costituita dall’eccessivo rilievo dato agli aspetti religiosi nei luoghi pubblici (sia nel senso di provocare gli altri sia nel senso di facilitare le pressio-ni comunitarie sull’abbigliamento della persona che indossa il parti-colare oggetto). Dunque l’obiettivo francese non è limitare la libertà di religione ma darle alcune regole per non mettere in discussione le libertà altrui (quali il diritto a circolare liberamente) o della perso-na direttamente interessata nell’abbigliamento. Perciò, tra il 2003 e il 2004, la Francia ha posto per legge dei limiti nell’abbigliamento nelle scuole primarie e secondarie, sancendo che non possono essere indos-sati troppo grandi simboli religiosi (dai veli islamici ad altri accessori espressione di qualsiasi religione) poiché tale ostentazione metterebbe in pericolo il clima pacifico necessario allo studio.

Oggi, in Francia si sta pensando di estendere il principio di porre limiti all’abbigliamento, vietando di indossare il velo integrale in tutti i luoghi pubblici. Almeno questa è la posizione del partito di maggio-ranza. Contro una impostazione del genere si è espresso il Presidente degli USA, Obama, dicendo di ritenere che “non si debba dettare a nes-suno come vestirsi e quindi neppure ad una donna musulmana”. Sarkozy ha replicato che “una giovane donna può indossare il suo copricapo pur-ché lo abbia deciso liberamente e non sia stata indotta dalla sua famiglia o dal suo ambiente”. In sostanza la questione è un po’ quella della libertà di o della libertà da. Obama difende il diritto di vestirsi a piacimento specie se vi sono risvolti religiosi, Sarkozy difende il diritto di esser liberi da coercizioni impositive di un simbolo.

In Italia vi sono stati laici indiscutibili che hanno giudicato il siste-ma francese come “giacobinismo applicato” (perché lo Stato avrebbe imposto per i propri valori la stessa sacralità di quelli religiosi) dopo avere, a scanso di equivoci, etichettato il ponzio pilatismo del sistema

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375Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

italiano come “opportunismo applicato”. Ragionando sulla cosa nell’ot-tica di una linea in chiave separatista in Italia, penso piuttosto che il provvedimento francese non attenga alla moda dell’abbigliamento quanto all’apostolato civile. Dispone che nelle scuole pubbliche – che trovano la loro più profonda ragion d’essere nella libera convivenza laica di individui diversi – ci si può abbigliare come si crede ed anche indossare oggetti di (qualsiasi) appartenenza religiosa ma non osten-tarli in dimensioni tali da farne un cartellone pubblicitario.

Il sistema francese non attribuisce nessuna sacralità ai valori e ai simboli laici. Fornisce regole per affrontare un problema reale, quello di evitare l’esasperazione delle tensioni religiose e la tendenza a ripro-porre, da più parti, la religione come fonte politica e legislativa (che è la radice vera del fondamentalismo). E ritiene che nel particolare ambiente, la scuola pubblica, tali regole possono essere utili per tenere separate politica e religione, la sfera pubblica del cittadino e il suo cre-do privato. Credo privato che il cittadino può praticare e manifestare a sua discrezione senza però la furbizia di farsene apostolo invasivo pro-prio nel luogo (la scuola pubblica) deputato al conoscere, al ragionare, a sviluppare lo spirito critico per e nella convivenza libera. L’eccesso di apostolato (i simboli religiosi fatti cartellone pubblicitario) non è conoscenza e discussione razionale, bensì il suo contrario, esaspera-ta volontà di affermarsi, poi di imporsi e infine di essere aggressivi. Istituire regole per imbrigliarlo, potrebbe preservare la funzione delle scuole pubbliche.

Ne consegue anche che questa regola può valere per le scuole ed anche per gli edifici pubblici, che hanno una funzione diversa ma ana-loga nello svolgere servizi per tutti i cittadini, e dunque sono luoghi da rendere religiosamente asettici. In tutti questi posti ha un senso dire “occorre indossare una sorta di divisa di convivenza” per lasciar fuori certi tipi di differenze che potrebbero ostacolare il corretto svolgimen-to della funzione cui quei luoghi sono deputati. Insomma una sorta di ingessatura che coscientemente non cancella la diversità religiosa, che permane, ma evita che possa distrarre gli studenti dal concentrarsi sullo studio di altri aspetti della vita.

Fin qui non trovo scandalosa la legge Francese. È invece inaccetta-bile l’estensione automatica della regola ad altri luoghi esterni che non sono tanto pubblici nel senso di istituzionali quanto nel senso di vita in pubblico. Nella vita in pubblico, nella convivenza, che è l’obiettivo finale dell’educazione civile, credo debba prevalere il diritto a vestirci come ci pare accoppiandolo allo spirito critico e al rispetto degli altri per evitare ghetti o dispute religiose reintrodotte. Alcuni potrebbero

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obiettare che così si lascia più campo alle oppressioni comunitarie sul-la volontà delle donne. Non credo sia così, non solo perché già le regole delle divise restringono il campo, ma soprattutto perché nei casi resi-dui, trattandosi prevalentemente di persone adulte, deve pesare anche la capacità critica e comportamentale dell’interessato di ritagliarsi i propri spazi di identità e di resistere alle pressioni familiari o comuni-tarie. In tale quadro ambientale mi pare giusto prevedere che necessiti una espressione di volontà dell’interessato, una specie di segnalazione, per far scattare la garanzia della protezione dello Stato alla propria libertà. Altrimenti, per difendere la libertà di ciascuno, allo Stato viene dato un permesso di invadenza troppo ampio, che finisce per limitare la libertà di tutti. Per questa strada, ad esempio, si potrebbe andar con-tro la libera scelta delle donne che scelgono un abbigliamento oppure ci si potrebbe inframmettere in rapporti familiari che dall’esterno non si possono conoscere.

Il secondo risvolto implicato dall’usanza del velo sui problemi di separazione tra Stato e religioni, la questione della copertura del volto, sta cominciando a toccare più da vicino l’Italia. Qui, peraltro, il pro-blema è chiaro da un punto di vista separatista. Come principio e come quadro legislativo italiano. Il principio è che, a parte il discutere sugli abbigliamenti religiosi, non è ammissibile una parcellizzazione della convivenza, che si avrebbe se, in pubblico, i cittadini fossero non rico-noscibili perché nascosti da una membrana-parete divisoria. Questo perché il diritto “libertà individuale religiosa” rientra nella generale libertà individuale, è sempre circolare, si radica nella soggettualità di ogni individuo e dunque non può estendersi al non farsi riconoscere quando ci si trova nello spazio pubblico, proprio quello dove i soggetti della sovranità si incontrano fisiologicamente.

Il quadro legislativo italiano investe il problema con una legge, la 152/1975, che è nata per un’altro scopo, la tutela dell’ordine pubblico, ma che si applica in modo abbastanza compiuto alla questione burba e niqab. All’articolo 5 sancisce che “è vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato moti-vo”. Credo la volontà della legge sia chiara e condivisibile. Il testo un po’ meno, sopratutto per l’inciso finale. Nel senso che, inquadrando l’inciso nel contesto costituzionale – neppure geninuamente separati-sta ma quello ora vigente – se ne dovrebbe automaticamente derivare per via interpretativa che la laicità istituzionale non consente il non farsi riconoscere in pubblico. Siccome però il nostro è un paese dove purtroppo si propende a legiferare su tutto, fissando ogni fattispecie

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377Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

per stabilire se una cosa può o no essere fatta, risulterebbe utile una breve specifica, “il credo religioso non costituisce giustificato motivo”.

Al riguardo, sono riemerse subito le radici antiseparatiste di molti ambienti. E pullulano gli eredi della famosa sentenza 203/2009 del-la Corte costituzionale, pronti ad usare non la laicità, cioè il risultato di quella sentenza, bensì la sua motivazione, cioè lo Stato-comunità, per cercare di destreggiarsi nei confronti di tutti i vari pareri. A co-minciare da quello della Ucoii, Unione Comunità Islamiche Italiane, naturalmente sostenitrice della piena libertà di indossare il velo senza curarsi dei principi italiani. Inoltre, per esemplificare, può essere citata l’incredibile circolare della Polizia di Stato del dicembre 2004 in cui il burqa veniva indebitamente escluso dal rientrare nella legge 152/1975 perché un segno tipico religioso (interpretazione poi travolta sette mesi dopo dalla legge Pisanu sul contrasto al terrorismo). Oppure l’ambi-gua sentenza 11919/2006 della Cassazione, III penale, che non chiarì se un reato consistesse nell’aver tentato di strappare il velo facendosi giustizia da sé oppure se fosse lecito non rispettare per motivi religiosi le norme di legge. Ed una sentenza del Consiglio di Stato (1663/2007) che è per lo meno giuridicamente anguillesca. Volendo carezzare ogni comunità, da una parte ha sancito che il burqa non è “finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento”, dall’altra ha detto che “tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministra-tiva, regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utiliz-zo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze”. Vale a dire, sia gli immigrati che i Sindaci della Lega Nord (“in via amministrativa”) possono fare come credono (in barba alla legge dello Stato che naturalmente in ma-teria religiosa è la sola che può avere qualche competenza).

Va infine precisato che il richiamo alla libertà di religione non c’en-tra nulla con burqa e niqab. La libertà di religione serve a praticare la propria religione nella convivenza e non ad autorizzare l’uso degli spazi di tutti rifiutando la convivenza con l’isolarsi e con il rifuggire gli altri, come avverrebbe se si consentisse di stare in pubblico senza esse-re riconoscibile. La difesa del privato non va in alcun caso confusa con l’anonimato nei luoghi pubblici. In realtà, questo richiamo alla libertà di religione è la tipica manifestazione di chi, non liberale e contro il principio di separazione in campo religioso, vorrebbe che la libertà religiosa fosse solo una manifestazione della propria comunità. E che le regole comunitarie prevalessero nella vita di una persona al punto da non considerare come ambito da rispettare quello della convivenza

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civile con gli altri. Una simile comunità sarebbe un salto nel passato buio e chiuso estraneo ai cittadini e alle loro relazioni.

Un atteggiamento del genere si può anche capire da parte dell’im-migrato che, privo non per sua colpa della cultura politica del nostro paese, sta compiendo i primi passi nella partecipazione democratica. È viceversa del tutto inaccettabile vedere arrampicarsi su queste posizio-ni di comodo, dei cittadini italiani e ancora peggio degli esponenti di partiti, in specie della sinistra, che dimenticano i principi costituzio-nali facendo finta di difenderli per cavalcare una moda. Siccome sono questioni basilari per la convivenza tra diversi in una società pluralista, non solo è opportuno ma talvolta anche necessario che lo Stato defi-nisca regole coerenti per garantire la pacifica convivenza. Si osservi, inoltre, che accettare l’idea che un cittadino possa non far vedere il proprio volto, significherebbe riconoscere ad una comunità religiosa il potere pubblico di regolare le forme della convivenza anche rispetto agli altri che non sono di quella religione. Si tornerebbe al temporali-smo oppure alla implicita pretesa che vi sia un’unica religione di Stato.

e) i simboli religiosi nelle scuole.

In Italia questo equivale a dire il crocifisso nelle scuole. Nella pri-ma parte del libro ho parlato della vicenda de L’Aquila, dell’episodio relativo alle dichiarazioni del Presidente Ciampi, della disavventura giudiziaria del giudice Tosti e della vicenda sentenza della Corte a Bru-xelles. Ora vorrei approfondire, naturalmente nel quadro della separa-zione tra Stato e religioni, i principi di cui tener conto quando si parla del crocifisso nelle scuole e nei locali pubblici (come tribunali, enti locali, regioni, ministeri, enti pubblici).

Mi pare impossibile che vi sia chi non riconosce che il crocifisso sia un simbolo religioso. Siccome lo è, sarebbe bene non comparisse nelle scuole e nei locali pubblici (per ovvie ragioni di imparzialità, così come non dovrebbero comparire gli altri simboli, poiché la soluzione della pluralità di simboli, non potrebbe essere esaustiva e comunque lede-rebbe la libertà dei non credenti). Va però preso atto che il punto forse di maggior mobilitazione da parte dei cattolici chiusi, dei comunitari e dei conservatori, è sostenere che il crocifisso rappresenta l’identità na-zionale italiana. Addirittura, per alcuni il crocifisso rappresenta l’unità nazionale più e meglio del tricolore (che sarebbe potenzialmente na-zionalista) e dell’Inno di Mameli (che sarebbe retoricamente schiavi-sta). Dir questo è un esercizio di destrezza che dimentica l’essenziale:

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il tricolore è il simbolo di un percorso storico di uno Stato (la lotta per la libertà, il Risorgimento prima, le guerre, la Resistenza poi e un impegno continuo sempre), il crocifisso è il simbolo di una importante religione a livello mondiale. Due piani incomparabili, a meno di non regredire all’idea che l’identità religiosa prevalga sull’unità nazionale.

Alternativamente, i cattolici chiusi e i conservatori sostengono che la maggioranza degli italiani vuole il crocifisso. Nei mesi scorsi il Mi-nistro Frattini ha insistito nel ricorso alla Grande Chambre europea sulla vicenda della sentenza sul crocifisso nelle aule scolastiche “per difendere un sentimento profondissimo nella storia dell’identità italiana, un principio fondamentale che tocca le radici del nostro Paese”. Dal canto suo, il professor Cardia, esponente dei cattolici chiusi, si è spinto a so-stenere che il principio di sussidiarietà in campo europeo deve portare a riconoscere che “gli Stati possono meglio poter valutare la situazione specifica; nel caso, l’esistenza di tradizioni e di sentimenti religiosi profon-di”. In risposta, pare quasi superfluo ribadire che, in uno Stato che non sia teocratico, non spetta alla maggioranza stabilire quale religione pri-vilegiare. Infatti non solo la legge 101/1989 ha sancito che “nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado l’insegnamento è impartito nel rispetto della libertà di coscienza e di religione e della pari dignità dei cittadini senza distinzione di religione”. Di più, non esiste alcuna legge dello Sta-to che impone l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, come si evince dall’ordinanza della Corte Costituzionale 389/2004, che ha escluso che siano in vigore i decreti dell’epoca fascista che la prevede-vano, quello del 1924 e quello del 1928.

Di fronte a queste repliche, i cattolici chiusi dicono che non si de-vono sacrificare i valori e i sentimenti della gente. Ma i valori e i sen-timenti religiosi non si dovrebbero imporre contando le teste. Allora, insistono dicendo che il crocifisso è un richiamo alla trascendenza con una dimensione profondamente liberale. Però, un conto è riconoscere la trascendenza, come fanno i liberali e i separatisti, quale possibile fat-tore complementare a quella consapevole limitatezza su cui si fonda la diversità individuale (la spiritualità è una ricerca personale per esplo-rare al di là della conoscenza sensoriale; rilevante per una compiuta maturazione di sé ma non misurabile con il metro terreno dell’espe-rienza). Un conto del tutto differente è imporla quando si organizza la convivenza (con la libertà religiosa, la trascendenza è un percorso individuale che nessuno deve imporre).

Poi ci sono quelli che vogliono il crocifisso quale contropotere della Chiesa allo Stato laico. Peraltro lo Stato laico trova il proprio bilanciamento non in un’organizzazione esterna ed estranea bensì nel-

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le strutture interne e soprattutto nell’impegno indefesso dei cittadini nel loro continuo confrontarsi per individuare la strada alla libertà di volta in volta ottimale. Infine c’è chi sostiene che, essendo il crocifisso una testimonianza storica assimibilabile alla religione senza però con-fondere la religione con la Chiesa in quanto istituzione secolare, allora togliere il crocifisso farebbe nascere una nuova religione in nome del rifiuto della religione come storia, prima ancora che come concezione trascendentale dell’esistenza.

Ora, dire che un simbolo può essere assimilato alla religione come storia, non lo trovo sostenibile, principalmente perché la religione non è solo storia, cioè cosa già vissuta (e quindi oggetto storico del passa-to), ma è soprattutto cosa vivente (e quindi oggetto della convivenza di oggi). Al riguardo trovo illuminante quanto scritto sul Tirreno da un maturo presbitero della Curia lucchese, Don Lenzo Lenzi. “Per i credenti, tali non solo all’anagrafe, Cristo o è molto di più di un simbolo della tradizione, o non è nulla di più di un uomo qualunque, nel quale non si può credere. Io credo che Gesù sia persona divina… è una persona radicalmente diversa. È un uomo, ma soprattutto è Dio che in quell’uomo si è incarnato. Non porta il messaggio di Dio, è quel messaggio. Se non vo-gliamo negare il cristianesimo deve esser chiaro che nessun credente può credere in un Gesù ridotto a simbolo della tradizione italiana. C’è, poi, il problema della laicità dello Stato… Ma come la Chiesa protesterebbe che, essendo ora in Italia i musulmani circa il 10% della popolazione, si mettesse la mezza luna islamica nel 10% delle aule scolastiche italiane, così si eviti di mettere in tutte quelle aule il simbolo della religione del 90% degli italiani. Sottolineando che chi dice di esser cristiano dovrebbe esserlo nella concezione della vita e nei comportamenti.

“La fede religiosa è una scelta libera di fronte al messaggio del fon-datore di una religione; una fede fondata su altre motivazioni non è una autentica fede; gli aiuti dello Stato a una sola religione possono creare falsi credenti, come uomini politici che cercano qualcosa in cambio. Non possiamo dimenticare che Cristo non ha mai cercato, nè ha insegnato a cercare quegli aiuti. Vuole credenti che cerchino Dio e che, trovatolo, vi-vano come Gesù ha insegnato, ha vissuto ed è morto per non abbandonare la strada che porta a Dio, Padre suo e Padre nostro… È immorale quando non si cerca Dio, fingere d’essere credenti”.

Quelle di don Lenzi, a me paiono considerazioni difficilmente con-futabili, di certo stando al punto di vista separatista. Il separatismo, appunto, non attiene alle cose del passato, non è una religione. È il criterio politico (finora insuperato) con cui assicurare la convivenza pacifica sui grandi temi di attualità e di domani. Tra cui la spiritualità,

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quale tema ineludibile. Rinunciando ad esporre il crocifisso nelle aule pubbliche, la civiltà occidentale non perde sé stessa e non fa regali all’Islam; indica la strada per incontrare gli altri, cosa che i musul-mani italiani non sono oggi in grado di fare (vedi compatta difesa del crocifisso da parte delle grandi organizzazioni musulmane in Italia, pensando alla mezzaluna domani) e che i fondamentalisti addirittura rifuggono giudicando la diversità un’offesa a Dio. Quella del separati-smo è la stessa strada che intende percorrere l’Europa quando, per non privilegiare alcuna religione, non inserisce il richiamo alla tradizione cristiana nel nuovo Trattato di Lisbona.

L’atteggiamento dei cattolici chiusi e dei conservatori rende più difficoltosa di quanto sarebbe normale l’attuazione dei criteri della se-parazione tra Stato e religioni. Perché cercano di contrastare la linea separatista alla radice, non sui tempi (sui quali potrebbe essere trovata una ragionata soluzione progressiva, ad esempio cominciando a rico-noscere il diritto legale dei singoli cittadini di chiedere, nelle scuo-le pubbliche e parificate, di non svolgere le attività di insegnamento all’insegna di un simbolo religioso) ma sul principio in sé. Da anni premono per stabilire che il crocifisso è l’identità italiana. E trovano Sindaci che, con atti non propriamente consapevoli della delicatezza delle questioni in gioco, hanno lo zelo di adottare la linea dei cattolici chiusi ed emanano provvedimenti per imporre l’esposizione del cro-cifisso nelle scuole. Nonostante che, come ha sentenziato il TAR della Sicilia, nell’aprile 2010, non ne abbiano la competenza.

Questi cattolici chiusi affermano che “la crociata contro il crocifisso è solo uno dei tanti tentativi di marginalizzare la religione, confinandola nel privato dei cittadini e nei soli luoghi di culto”. Da qualche mese sono scandalizzati perché “è proprio l’organismo giuridico europeo di tutela dei diritti umani ad attaccare l’inalienabile diritto di libertà di religione”. Anche perché “un certo fondamentalismo ideologico vuole trasformare la libertà di religione in libertà dalla religione”. Sono parole della fine giu-gno 2010, della parlamentare Gardini, eurodeputata del centro destra. Esprimono “furia” religiosa, non disponibilità a riconoscere le obiet-tive ragioni dell’altro. Non è molto meglio da parte del centro sinistra. Si continua da anni a sostenere un altro tipo di cedimento, quello di transigere sui principi, quasi che concettualmente si potesse farlo, e che, pur essendo in minoranza, ce ne fossero le condizioni.

Sei mesi prima, il PD aveva presentato al Senato un disegno di legge, primi firmatari il giuspubblicista Ceccanti e il vice Presidente Chiti, a proposito di “Norme generali sulla affissione di crocifissi nelle aule scolastiche sulla base del principio di autonomia delle istituzioni sco-

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lastiche”. Questo progetto, che riprende espressamente la linea predi-cata dal costituzionalista PD Barbera, propone un antiseparatismo ag-giornato, partendo dall’infondato presupposto (o per tracuratezza di quanto sancito dalla Corte Costituzionale o per calcolo spregiudicato) che siano tuttora vigenti i decreti del periodo fascista sulla esposizione del crocifisso. Di conseguenza prevede di attutire tale obbligo (che già non esiste) e stabilisce che sia l’autonomia scolastica a determinare l’affissione del crocifisso in ogni aula. Accordandosi per l’esposizione di ulteriori simboli religiosi o altrimenti realizzando il più ampio con-senso. Tale impostazione vanifica nella scuola pubblica ogni criterio di separazione tra Chiesa e religioni (l’autonomia della scuola rientra nella laicità istituzionale), facendo della presenza del simbolo (o di più d’uno) un fatto costitutivo della convivenza e individuando come criterio quello del massimo consenso (ma le religioni non si possono votare). Un indirizzo siffatto potrebbe essere esaminato solo come una norma transitoria per arrivare alla definitiva adozione del principio di separazione tra Stato e religioni. Ma il progetto Ceccanti-Chiti non vuole essere una norma transitoria (è per evitare questa ipotesi che si suppone vigente l’obbligo di esporre il crocifisso, così da dissimulare il rinnovato confessionalismo).

Insistere su posizioni del genere, non fa altro che inasprire il pro-blema crocifisso e rende ancor più chiara la necessità di arrivare al principio di separazione per non correre il pericolo di trovarsi prigio-nieri degli aspiranti fondamentalisti o del conformismo di Stato.

f) la visibilità e i suoni dei simboli religiosi.

Ho detto della propensione dei cattolici chiusi e dei conservatori a puntare sul simbolo religioso come simbolo di unità civile italiana e ad escludere ogni soluzione separatista. La stessa propensione si ripete in materia di visibilità dei simboli religiosi dagli spazi pubblici. Ciò con-ferma l’assoluta strumentalità di quando parlano di libertà di religione insidiata, secondo loro, dal volersi liberare dalla religione.

Di fatti, è una tipica libertà di religione il prevedere che non vi siano leggi di taglio religioso che privilegino questa o quella confes-sione e che quindi, nel rispetto delle norme vigenti (anche per quan-to concerne gli oneri edilizi relativi), si possano edificare su terreni o manufatti privati dei simboli religiosi visibili da fuori. È importante che, nei luoghi di rispettiva proprietà, ogni cittadino o associazione o comunità religiosa possano erigere simboli religiosi anche se il relativo

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manufatto li rende visibili passeggiando per la strada. Esprime l’idea che la convivenza è tra diversi e che la diversità deve essere in sé com-pletamente tollerata, in particolare quella religiosa, senza costituire disturbo per nessuno.

Come era prevedibile, i cattolici chiusi e i conservatori non hanno questa posizione. Ne sono purtroppo una conferma, i forti ostacoli che in molte parti d’Italia vengono frapposti alla autonoma costru-zione di moschee. Anche la decisione degli elettori svizzeri di inserire nella loro Costituzione il divieto di costruire nuovi minareti, è il primo frutto velenoso del come, in Svizzera e altrove, per lungo periodo è stata condotta una duplice propaganda. Sono il frutto velenoso della propaganda dei cattolici chiusi e dei conservatori per far coincidere l’identità italiana (e anche quella europea) con una identità religiosa; e della campagna dei musulmani più comunitari per far prevalere i costumi dell’identità musulmana su quelli attuali tra i cittadini eu-ropei. Gli uni e gli altri esasperano per opposte ragioni il fatto che la moschea è per l’islamico più di un semplice luogo religioso come noi l’intendiamo, è una sorta di casa stato pubblica ove si cerca la comune ispirazione dottrinale.

Come si vede, anche in queste materie una più rigorosa logica di separazione tra Stato e religioni sarebbe assai utile proprio perché por-terebbe ad imperniare la convivenza sulle libere determinazioni dei singoli cittadini e così la renderebbe sempre migliore.

Va peraltro ricordato che l’inquinamento della corretta logica isti-tuzionale avviene anche per la gestione dei contributi edilizi relativi ad edifici per servizi religiosi, che i Comuni usano a danno di altre desti-nazioni, senza che siano obbligati a farlo. Anzi è assai dubbio che i con-tributi possano essere erogati a chi già gode dell’otto per mille. Quan-to ad inquinamento, è altrettanto incombente la questione del suono delle campane. Questo suono è un richiamo storico per le funzioni di fede e talvolta per scandire le ore, che oggi ha un ruolo assai più ridotto (le funzioni religiose hanno assai meno presa e i mezzi moderni hanno introdotto mezzi alternativi meno invasivi per scandire le ore) ma che suscita più tensioni di quanto si immagini. Tuttavia, credo che le questioni sonore abbiano già una regolamentazione rispettosa dei principi di una società tra diversi, sia pure lasciando qualche privilegio razionalizzato all’esercizio delle vere e proprie funzioni liturgiche.

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g) il testamento biologico.

Questa problematica è il tipico terreno che dovrebbe essere tranquil-lamente affrontato nella logica della separazione tra Stato e Chiesa, dato che non impone determinati comportamenti a nessun cittadino. Invece i cattolici chiusi e i conservatori lo riempiono di molte preoccupazioni strumentali nel tentativo di imporre la loro visione religiosa. È un tema che, ogni giorno che passa, assume sempre più il rilievo di una grande scelta del come costruire le istituzioni. Fondate sulla libertà di ogni cit-tadino oppure su quanto impone lo Stato e il sentire di una comunità.

Quale scelta fare, è materia politica in cui opinioni diverse sono del tutto legittime. Purché qualsiasi scelta si chiami ognuna con il proprio nome (a cominciare dal testamento biologico in sé, che è cosa del tutto diversa dell’assistenza a malati gravi, cronici e spesso terminali, su cui è del tutto fisiologico vi sia forte attenzione da parte dello Stato, anche attraverso norme legislative, affinché possa essere fornita nei modi più confacenti dalle famiglie e nelle strutture sanitarie). Non sono invece tollerabili veri e propri imbrogli linguistici o concettuali, che esaspe-rano il dibattito, con ciò stesso mortificandolo nella inutilità. In questa attitudine all’imbroglio concettuale e politico, si distinguono oggetti-vamente i conservatori dei due maggiori partiti. Gli imbrogli tentati sono almeno cinque.

Il primo imbroglio è sulla questione della libertà di coscienza. La libertà di coscienza è una scelta personale. È ipocrisia se, in nome della libertà di coscienza, si pretende di impedire che qualsiasi gruppo poli-tico si pronunci fisiologicamente per scegliere una soluzione di princi-pio da dare al testamento biologico. La libertà di coscienza non è mai una via per evitare i problemi politici. È viceversa l’attitudine ammessa dagli ordinamenti fondati sulla libertà individuale e che appunto la riconoscono. Ma il testamento biologico resta un (enorme) fatto po-litico. Anche se disturba il quieto vivere di quelli che, con la libertà di coscienza, cercano a parole scappatoie di equilibrio, in sostanza di favore per una parte.

Il secondo imbroglio è la contrapposizione strumentale tra il parti-to della morte e il partito della vita. I sostenitori di una impostazione del testamento biologico secondo la libertà del cittadino, trattano delle persone vive cui la legge deve riconoscere la libertà di scelta nel rifiuta-re l’accanimento terapeutico. Invece, quelli che non vogliono accettare tale indirizzo, prima inglobano i ritrovati medici nelle cose di natura e dopo concludono che solo la natura potrà determinare il momento del trapasso. In ogni caso, le diverse opinioni restano legate al cosa per-

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mettere a persone che sono in vita e lucide. Non c’entrano partito della morte e partito della vita (aggrava l’imbroglio il tentativo di gabellare il testamento biologico quale viatico alla eutanasia).

Il terzo imbroglio è sostenere che sarebbero i fautori della libertà a voler imporre con la legge il proprio punto di vista. Almeno i liberali e moltissimi altri hanno sempre sostenuto il contrario, che la legge non era indispensabile. Sono stati il centro destra e la parte del PD molto attenta ai valori comunitari, a sostenere la assoluta necessità della leg-ge. Il motivo è semplice. Si sono accorti (in ultimo nel caso Englaro) che senza legge specifica avrebbe necessariamente prevalso l’ordina-mento complessivo dello Stato costituzionale e così si sarebbe aperta la porta al riconoscimento, caso per caso, del diritto del cittadino di decidere come affrontare la propria fine. Ciò per loro non è accetta-bile, per motivi di fede da parte dei religiosi, per motivi ideologici da parte dei conservatori del centro destra e del centro sinistra, i quali si ispirano alla tradizione comunitaria. I conservatori del centro destra avevano tentato di sollevare il conflitto di attribuzione tra Senato e Cassazione, ma il conflitto è stato giudicato improponibile. Con questo tentativo, è stato comunque assodato che il centro destra voleva far passare il principio, illiberale nel profondo, secondo cui un cittadino può fare solo ciò che una legge gli consente di fare, e non potrebbe rifiutare l’accanimento terapeutico proprio perché non lo stabilisce al-cuna legge. Quindi si constata che a volere la legge non sono i fautori della libertà di scelta bensì i conservatori di mentalità comunitaria. Se si fa una legge, allora – giustamente sostengono quelli della libertà di scelta – almeno si faccia una legge per lasciar libero il cittadino e non per affibbiargli un obbligo burocratico comunitario.

Il quarto imbroglio è sostenere che chi intende lasciar libero il cit-tadino, al fondo punta all’eutanasia. Ora testamento biologico ed eu-tanasia sono concetti riferiti a realtà differenti. Il testamento biologico è appunto un testamento, cioè si riferisce a future condizioni di vita in cui l’interessato non sarà più in grado di esercitare il proprio persona-le volere e di comunicarlo a chi lo assiste, e condizioni nelle quali la sopravvivenza sarebbe possibile solo con la somministrazione di far-maci salvavita. Per questi casi, il testatore biologico esprime la propria volontà di non essere sottoposto a questa somministrazione salvavita o ad altre pratiche mediche che costituiscono accanimento terapeutico. L’eutanasia, viceversa, riguarda i casi in cui l’interessato mantiene la piena facoltà di esercitare il proprio personale volere e di comunicarlo eppure chiede aiuto ad altri per porre fine alla propria vita mediante farmaci o pratiche di vario genere limitativi della propria fisiologia.

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L’eutanasia non è una cosa che si esaurisce nella volontà della persona interessata, richiede l’intervento almeno di una seconda persona per compiere atti letali in sé, cioè che provocherebbero la morte di ogni essere umano; ed è chiaro che permettere a qualcuno di compiere atti letali in sé spalancherebbe grandi falle nelle barriere legali contro l’as-sassinio che la società non accetta in modo atavico. Testamento biolo-gico e eutanasia sono due questioni su piani del tutto distinti.

Il quinto imbroglio è disinformare a proposito della somministra-zione ai malati terminali dell’idratazione-nutrizione, dicendola equi-valente a dare pane e acqua. Anche senza richiamare qui il fatto che la somministrazione forzata di pane ed acqua esula comunque dalle fun-zionalità naturali, qualunque medico, credente o non credente, sa bene che la somministrazione ai malati terminali di idratazione-nutrizione non è una somministrazione di semplici pane ed acqua, ma anche di farmaci salvavita.

Ciò detto, faccio notare che una legge sul testamento biologico ri-spettosa del criterio della scelta non fa prevalere né l’uno né l’altro principio ma consente che ambedue vengano messi in pratica. Invece, la volontà di imporre il volere dello Stato e della comunità religio-sa chiusa, spinge a non prendere in considerazione anche gli accordi possibili. Ad esempio, per il quarto e quinto imbroglio, sarebbe dav-vero agevole trovare per la legge un testo condiviso che sia esplicito nell’escludere l’eutanasia e nel definire in modo inequivoco la idrata-zione-nutrizione che non contenga alcun farmaco.

Invece, parlamentari del centro sinistra, come la Binetti, a giugno 2010 hanno detto a proposito di alimentazione ed idratazione che “il problema da affrontare è il valore della scelta del paziente. Se questo prende una decisione ora che però verrà applicata in tempi anche molto diversi quando sarà in stato di minima coscienza, che peso avrà quella decisione? Debbo calcolare dunque quale è il bene del paziente”. Simili parole, a parte il cancellare d’un tratto il valore secolare delle ordina-rie volontà testamentarie, sono chiarissime nel negare efficacia in sé a quanto dispone una persona perfettamente lucida (e che ha ogni possi-bilità di cambiare le sue decisioni successivamente). Occorre, secondo la sen.  Binetti che vi siano altre persone a decidere quale è il bene del paziente. Questa è la tipica concezione antiseparatista che vuole in ogni modo sfuggire la sovranità dell’individuo. E non è un personali-smo della Binetti. Lo aveva sostenuto l’altro parlamentare del centro sinistra, Livia Turco. La quale aveva arzigogolato attorno all’idea del testamento biologico come diritto mite, inteso come bilanciamento dei valori in gioco: “nel caso delle dichiarazioni anticipate i valori da bilan-

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ciare sono la volontà della persona e la tutela della sua vita”. Ci risiamo. La volontà individuale va bilanciata con la tutela della vita decisa da una terza persona. È perfino difficile capire come non si rendano con-to che la loro è una volontà di sopraffare la libera determinazione del cittadino.

Del resto, un altro parlamentare del centro sinistra, il senatore Veronesi, se ne è perfettamente reso conto che il criterio della scelta non fa prevalere nessuno dei due principi ma consente che ambedue vengano messi in pratica. A fine gennaio 2009 aveva dichiarato “il pro-blema vero, che si presenta oggi sulle direttive anticipate, è che in una società multietnica e multiculturale è imprescindibile abbandonare gli in-tegralismi, sia religiosi che scientifici, e abbracciare la libertà di pensiero, che può essere pensiero cattolico, musulmano, ebreo, ateo, o scientista. Nessuno chiede ai credenti di rinunciare a testimoniare la loro fede, ma tutti chiediamo loro di non imporre le loro scelte agli altri”. Questa è una seria posizione di laicità istituzionale e separatista.

h) lo studio della teologia e il parlare di religione.

Nella prima parte, ho richiamato la soppressione della facoltà di teologia nel clima di contrapposizione della Questione Romana. Ed ho commentato che era stato un episodio di convergenza da un lato dei settori più conservatori della destra parlamentare e del mondo cattoli-co (termine da specificare come cattolico chiuso, vista la convenzione adottata in questa seconda parte) e dall’altro della sinistra anticlerica-le. Non a caso la stessa linea venne confermata anche nel quando fu fatto il Concordato e di nuovo successivamente con il Concordato del 1984. L’abolire la teologia dalle Università del Regno prima e della Re-pubblica poi, è stato un atto legato ad una logica fortemente estranea al principio di separazione tra Stato e religione.

Di fatti, nella logica separatista, dall’idea che lo Stato non deve in-tervenire nelle questioni religiose, non consegue per niente che lo Stato debba ignorare le radici della religiosità nei cittadini. Tanto meno che lo Stato debba pretendere che i suoi cittadini non abbiano modo di studiare i concetti religiosi. L’escludere la materia dalle università pub-bliche ha significato dare alla Chiesa il monopolio dello studio della teologia, con due gravi conseguenze negative. Una è di principio: dif-fonde il messaggio per cui solo la Chiesa avrebbe titolo per studiare le questioni inerenti Dio, e così accetta la sua pretesa di esserne l’inelimi-nabile rappresentante, cosa che ha un sapore quasi temporalistico. L’al-

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tra è di fatto: essere l’unica titolare dello studio della teologia, consente alla Chiesa di farne prevalere lo studio in chiave cattolica apostolica e di evitare intrinsecamente che i giovani italiani possano approfondi-re la materia teologica con spirito critico e inquadrandola in orizzonti religiosamente più ampi. Il riconoscimento (di per sé giusto) dei titoli rilasciati dalle università pontificie completa poi l’assurda mutilazione autoinflittasi dallo Stato dando alla Chiesa il monopolio della Teologia.

Il problema non va considerato un vezzo per completare la costru-zione separatista. Ha implicazioni molto vaste. Dare la possibilità di studiare in Italia anche teologia mostra appunto che la laicità delle istituzioni non vuole escludere i fondamenti della religione dal novero delle cose da approfondire e su cui riflettere. Questa esclusione era la volontà del positivismo nell’ottocento e può essere ancora la volontà delle concezioni ancorate all’idea dello Stato che sottomette la reli-gione. Non rientra invece nella struttura mentale del laico e del se-paratista. Non può mai essere sospesa l’attitudine di ogni cittadino a cercare di conoscere ogni cosa del mondo e a riflettere. Per coerenza e perché, non facendolo, si lascia spazio ad altri modi di ragionare, anche a quelli che non utilizzano lo studio per irrobustire la sovranità civile del cittadino.

Credo che queste argomentazioni siano perfino intuitive per quel che attiene al campo della religiosità. Si può fare un esempio anche su un’altra materia, i riflessi sul come considerare la scienza. Le Università pontificie, nel clima di aspirazione alla onnicomprensività del mondo religioso e con una felpatezza che non deve essere scambiata come re-missività, tendono ad allargare il campo religioso. Oggi continuano a dire, quasi per caso, che scienza e teologia sono distinte ma non mu-tuamente esclusive, tanto che Darwin e la Genesi non sarebbero in-compatibili (è in sostanza la tesi del Cardinale Schönborn, sostenitore del disegno intelligente in sostituzione della casualità). Ora, di fronte ad un simile approccio, è decisivo rilevare subito che all’interno della teoria di Darwin può trovare spiegazione la fase storica della Genesi, mentre nella Genesi non trova spazio l’evoluzionismo. La negazione di un qualsiasi finalismo intrinseco al processo evolutivo non è riducibile al concetto di puro determinismo (invece la Chiesa insiste nel dire che “se la scienza e la fede dovessero enunciare verità incompatibili, la scienza dovrebbe fare marcia indietro”, parole dell’alto prelato vaticano Rino Fisichella, che è un teologo). In altre parole, non si può consentire il silenzioso sgretolamento delle basi della conoscenza critica della scien-za, che ha delle conseguenze molto concrete anche sulla convivenza quotidiana.

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Perché il tema è il medesimo della formula cavouriana (sempre 150 anni fa, dato che è lo stesso periodo storico di Darwin). La religione in sé è ineliminabile e può compiere ogni genere di ricerca ed elabora-zione, privata o pubblica, ma non può farsi teocrazia, né direttamente (e non lo fa più) né indirettamente facendo passi che appaiono d’altro genere ma che hanno una logica profonda che fuoriesce dalla percezio-ne del tempo, dal metodo sperimentale e dalla centralità del cittadino. L’esperienza storica dimostra che sulla realtà della convivenza civile possono incidere solo la scienza e le istituzioni costruite attraverso il confronto politico per valorizzare la libertà del cittadino. Il conformi-smo comunitario comprime la libertà.

Per ragioni analoghe, le discussioni sulla religione cattolica e su tutte le religioni non devono essere escluse dal dibattito civile, anche se non devono esaurirlo. Evitare perfino di parlare del religioso non lo esorcizza affatto, gli lascia più libertà di diffondersi nelle coscienze, non essendoci a fronteggiarlo gli antidoti critici della ragione e dello sperimentalismo. Più si riflette sulle religioni e più se ne possono co-gliere le reali caratteristiche.

Certo parlare e riflettere sulle religioni, ha poco o niente a che vedere con il modo con cui sono state trattate le notizie sui casi di pedofilia nella Chiesa cattolica verificatisi in vari paesi. Un modo che nella sua essenza appartiene piuttosto alla patologia odierna dei mass media. Un conto è la curiosità sociologica per stabilire se tale tendenza concerne particolarmente la Chiesa oppure ha dimensioni analoghe ad altre categorie professionali e sociali e ad altre religioni. Un conto è abbandonarsi in modo insistito e scandalizzato alla critica di un fat-to che per gli aspetti della persona cittadino rientra necessariamente, se mai, nella competenza dello Stato (proprio perché la pedofilia non può essere un fatto della religione dato che è l’opposto della religione spirituale ed infatti è da essa contrastato) e che dunque può interes-sare solo per le omissioni delle autorità pubbliche (mentre la Chiesa è responsabile solo rispetto alle denunce, che in uno Stato separatista sono un obbligo inequivoco e che oramai anche il Vaticano ricono-sce indispensabili avendo dichiarato nell’aprile 2010 “si deve sempre seguire la legge civile nella denuncia dei crimini di pedofilia alle autorità competenti”). Le effettive mancate denunce dagli ambienti della Chie-sa sono il frutto della tendenza a farsi istituzione in proprio e dunque a cercare di nascondersi e ad essere reticente in nome dell’onore della comunità-stato dei religiosi.

La patologia dei mass media attua un frullato indistinto di questi differenti aspetti. Non diffonde, anzi ostacola il formarsi di una con-

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sapevolezza sia sulle diverse competenze tra Stato e credenti sia sui di-versi atteggiamenti tra i credenti. Tra i credenti, gli uni privilegiano il rispetto della fede in sé (che condanna la pedofilia), gli altri privilegia-no l’istituzione Chiesa che in quanto tale, come contenitore sulla ter-ra della fede, non può essere incolpata o sospettata (farlo, affermano, sarebbe come disconoscere l’eternità del Dio ispiratore). Quest’ultimo atteggiamento fa sì che molti uomini della gerarchia e i cattolici chiusi, tendano, quasi per istinto, a riassorbire tutto sovrapponendo dottrina ufficiale e linea praticata. E, anche quando ammettono un errore, ne smettono la pratica solo moltissimo tempo dopo, per cui l’ammissio-ne può aver riflessi teorici (potremmo aver sbagliato) ma non incide sull’oggi (oggi abbiamo sempre ragione). Così il principio di sperimen-tazione viene in pratica accantonato nei tempi brevi e medi. E nei tem-pi più lunghi, le volte che ne viene riconosciuto il valore, è interpretato in modo da non modificare i principi religiosi di fondo. Che restano quelli immutati della fede spirituale anche nel campo civile.

Credo che i mass media avrebbero fatto meglio a sottolineare, più che i duri richiami di Benedetto XVI all’Irlanda, le ragioni per cui la struttura della Chiesa sia incompatibile con il peccare. Nel senso che la tesi cattolica che si deve perseguire l’errore e non l’errante, mette in difficoltà la Chiesa quando l’errante le appartiene. Perché fa vedere che nel mondo l’organizzazione Chiesa non serve a preservare dall’er-rore. Allora, se non si differenza da qualunque organizzazione umana, perché mai, se non per fede, la Chiesa dovrebbe essere l’autorità indi-scutibile? Qui emergono le carenze dei mass media. Riflettere aper-tamente su queste cose piuttosto che ricercare l’evento spettacolare, servirebbe a far vedere che la laicità istituzionale non si interessa della fede dei cittadini ma delle regole per la miglior gestione della convi-venza secondo le indicazioni date dai cittadini stessi. E che, essendo questo l’obiettivo, non esiste motivo per cui, invece che affidarsi ai cit-tadini, si dovrebbe venire a patti anche con un’istituzione che come tale è anch’essa immersa nei mali del mondo. Ciò significa peraltro che non esiste neppure motivo per trattare in chiave mondana gli affari interni delle istituzioni religiose, che sono modellate sulla fede e sul dogma della infallibilità. Invece anche noti giornalisti laici si esercita-no ai limiti del morboso nel chiedere conto alla gerarchia dei compor-tamenti interni. Talvolta pare di essere tornati ai guelfi e ghibellini. Il separatismo è tutt’altra cosa.

Essendo questo il clima, puntualmente una delle stelle dei teocon, il senatore Pera, ha ritenuto di dover scrivere una lettera molto virulen-ta al Corriere della Sera arrivando a toni apocalittici. “La guerra è fra

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il laicismo e il cristianesimo… Si deve portare la memoria al nazismo e al comunismo per trovarne una simile. Cambiano i mezzi, ma il fine è lo stesso: oggi come ieri, ciò che si vuole è la distruzione della religione… La distruzione della religione comportò allora la distruzione della ragione. Oggi non comporterà il trionfo della ragion laica, ma un’altra barbarie. Sul piano etico, è la barbarie di chi uccide un feto perché la sua vita nuoce-rebbe alla «salute psichica» della madre. Di chi dice che un embrione è un «grumo di cellule» buono per esperimenti… La barbarie sarà la distruzio-ne dell’Europa…”. Dopo gli anatemi contro i laicisti, il senatore Pera non si ferma e li scaglia anche all’interno del mondo cattolico e della gerarchia. “Questa guerra al cristianesimo non sarebbe così pericolosa se i cristiani la capissero. Invece, all’incomprensione partecipano molti di loro. Sono quei teologi frustrati dalla supremazia intellettuale di Benedet-to XVI. Quei vescovi incerti che ritengono che venire a compromesso con la modernità sia il modo migliore per aggiornare il messaggio cristiano. Quei cardinali in crisi di fede che cominciano a insinuare che il celiba-to dei sacerdoti non è un dogma e che forse sarebbe meglio ripensarlo. Quegli intellettuali cattolici felpati che pensano che esista una questione femminile dentro la Chiesa e un non risolto problema fra cristianesimo e sessualità. Quelle conferenze episcopali che sbagliano l’ordine del giorno e, mentre auspicano la politica delle frontiere aperte a tutti, non hanno il coraggio di denunciare le aggressioni che i cristiani subiscono e l’umilia-zione che sono costretti a provare dall’essere tutti, indiscriminatamente, portati sul banco degli imputati”. Conclude spaziando sulle scelte po-litiche degli Stati, prendendosela anche con i tedeschi, la cancelliera Merkel e il liberale Westerwelle (“oppure quei cancellieri venuti dall’Est che esibiscono un bel ministro degli esteri omosessuale mentre attaccano il Papa su ogni argomento etico”), e con tutti gli altri esponenti politici colpevoli di non essere teocon (“o quelli nati nell’Ovest, i quali pensano che l’Occidente deve essere laico, cioè anticristiano”). Credo innegabile che simili florilegi di illiberalismo, del tutto legittimi, producono dan-ni rilevanti nelle condizioni stesse del dibattito politico. Sia appunto per i toni apocalittici, sia per la sommarietà dei giudizi che prescindo-no dal comprendere e dal rispettare gli altri e le loro ragioni. Dunque sono corrosivi della convivenza specie in una società pluralista.

i) l’insegnamento della religione.

Questo problema sussiste nelle scuole pubbliche e nelle scuole pa-rificate (nelle scuole private riguarda le libere scelte dell’ente che ha

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istituito e gestisce la specifica offerta formativa). In linea di principio, credo indiscutibile che l’insegnamento della religione debba essere un insegnamento storico critico delle diverse concezioni religiose, magari inquadrato nelle loro vicissitudini mondane. In linea di fatto, va tenuto conto dello spirito acquisito della convivenza (che dovrebbe essere uno spirito liberale, anche se molti vogliono dimenticarlo) ma ciò non può essere l’alibi per ritornare al monopolio ecclesiastico che c’era prima di Cavour.

Tuttavia è sbagliato ritenere che siano le scuole paritarie in sé la misura di questo ritornare al monopolio. Il principio dell’insegnamen-to critico della religione non si difende difendendo l’idea della scuola pubblica contrapposta alla possibilità di scuole paritarie. Si difende di-fendendo l’idea di una scuola pubblica in cui si studia, come obiettivo e come valori. Si studia con programmi resi adeguati di continuo per far conoscere il passato, per comprendere il presente e mettere in con-dizione ciascun alunno di sviluppare la propria personalità e le proprie attitudini in vista del futuro. Mai perdendo di vista le condizioni socio economiche della realtà fuori della scuola, realtà di cui la scuola deve cogliere le esigenze in vista di colmarne le arretratezze e le tendenze per soddisfarle o per equilibrarle, sempre al fine di rendere più aperta la convivenza imperniata sul cittadino libero che dovrà essere domani l’alunno di oggi. Come scrisse già cinquanta anni fa il pedagogista lai-co Borghi, i valori universali vanno “concepiti non come un possesso da trasmettere, ma come un processo da attivare… Lo scopo dell’educazione non deve tanto mirare ad adattare gli alunni al loro ambiente, quanto a far loro conseguire la capacità di ampliare la sfera delle relazioni origina-rie dando vita ad un ambiente nuovo”.

Una siffatta funzione formativa, nella scuola pubblica italiana dell’intero secondo dopoguerra, c’è stata poco e in modo confuso. Si è scambiata l’idea che il maggior numero di alunni doveva aver modo di studiare, con la tentazione di rendere facile ciò che non può esserlo senza snaturarlo, lo studio. Ma lo studio reso più facile, non svolge più la sua funzione caratteristica, quella di insegnare a capire, a for-marsi uno spirito critico. Basti ricordare quanto è avvenuto negli anni sessanta/settanta. Quando fu fatta la media unica si abbinò la mate-matica alle osservazioni scientifiche, così soffocando strutturalmente la materia che è l’aspetto essenziale della valorizzazione della cultura scientifica moderna. Insieme si mantenevano arretrati di trenta anni ordinamenti e contenuti dell’istruzione tecnica e professionale. In ag-giunta non si educava allo spirito di cooperazione, al lavoro di gruppo, al gusto del nuovo e alle libere scelte degli alunni.

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Questi errori non hanno difeso la scuola pubblica e con il passar degli anni l’hanno minata nella sua essenziale funzione di studio. Sen-za dubbio ha pesato molto negativamente la convergenza della tarda cultura dello statalismo marxista (che pensava di risolvere tutto esal-tando il pubblico rispetto al privato e si preoccupava di assicurare alla scuola pubblica i finanziamenti, soprattutto per l’esercito di docenti, ma non i contenuti e lo spirito operativo indispensabili per lo studio) e della cultura cattolica (che si dimostrava disattenta alle reali proble-matiche critiche e formative della scuola pubblica, essendo da un lato intenzionata a preferire la propria pedagogia costrittiva nella finalità e nei contenuti e dall’altro molto attiva nel preservare e favorire il ruolo della cosiddetta scuola privata, guarda caso egemonizzata dalle scuole cattoliche). Ci si è quasi del tutto scordati delle parole del filosofo Ber-trand Russell, “l’educazione dovrebbe mirare alla libertà della mente dei giovani, e non al suo imprigionamento in una rigida armatura di dogmi destinati a proteggerla, nella vita, contro i pericoli dell’evidenza impar-ziale. Il mondo necessita di menti e di cuori aperti, non di rigidi sistemi, vecchi o nuovi che siano”.

Quello che è successo alla scuola alla fine degli anni ’90, dal punto di vista legislativo, è stato in realtà la conseguenza di decenni di inca-pacità del mondo razionalista e laico di svolgere una adeguata politica per la scuola pubblica, imperniata sul restituirle la propria fisiologica funzione di luogo di formazione e di studio. La legge del Ministro Luigi Berlinguer non è stata di per sé l’origine della malattia. Al più ne è stata la certificazione. E la successiva riforma Moratti, l’ha resa definitiva. Ora in diverse regioni, tipo Lombardia, Veneto, Emilia, Liguria, vi sono leggi che danno vari vantaggi anche finanziari alle scuole cattoliche paritarie. La questione vera, in ottica separatista, non è quella di urlare alla laicità violata. Violata lo è stata, ma prima. Quan-do non ci si è sforzati di garantire alla scuola pubblica le condizioni per adempiere alle sue funzioni di insegnamento, che non possono davvero essere assicurate solo da quegli insegnanti che cercano lode-volmente di supplire alle storture organizzative e culturali del sistema. Si è progressivamente abbassata la guardia su un’esigenza prioritaria della scuola pubblica, e quindi anche della paritaria, il garantire il plu-ralismo religioso e culturale, che è regola imprescindibile del sistema educativo separatista.

Un impegno concreto in una logica separatista, deve preparare il complesso e rivoluzionario progetto di una scuola che sia davvero scuola formativa. Dobbiamo smetterla con le lamentele per la lesa ma-està della scuola pubblica perché equiparata di fatto con quella privata

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paritaria. Per la scuola, la cosa decisiva non è chi la istituisce, la cosa decisiva devono essere l’indirizzo culturale, l’efficacia formativa dei programmi e la qualità degli insegnanti. Questi sono i compiti della scuola pubblica. Per la scuola pubblica, questi compiti dipendono an-cora dall’impegno e dalla responsabilità delle istituzioni, nelle quali il mondo laico e quello non confessionale, se lo volessero e ne fossero capaci, hanno influenza determinante. Ma i medesimi compiti le istitu-zioni devono obbligatoriamente attribuirli tramite la legge alle scuole che intendono essere paritarie. Così come dipendono dalle istituzioni i controlli sul rispetto da parte delle private paritarie dei requisiti di pubblica istruzione stabiliti dalla legge (che non devono più essere una sceneggiata permissiva e rinunciataria del senso dello Stato). Ancor più influenza potrebbero avere il mondo laico e quello non confessionale, se recuperassero la spinta alla battaglia politico culturale nei confronti dei conservatori, degli statalisti, dei cattolici chiusi. Una battaglia che è sulle idee, sui comportamenti, sulla capacità, e non sul diritto ad insegnare che è costituzionalmente libero.

Il mondo che crede nella laicità delle istituzioni e nella separazione Stato religioni, non può continuare ad assistere senza reagire all’offen-siva dei cattolici chiusi e dei conservatori che proseguono nelle loro richieste di stampo confessionale. Si pensi all’assunzione nella scuola pubblica, a tempo indeterminato, di migliaia di docenti di religione cattolica in quanto tali; alla consolidata abitudine delle scuole private cattoliche di licenziare gli insegnanti sposi con rito civile o conviventi di fatto; alla politica scolastica sempre più incline a ridurre le scuo-le a servizio di privati-clienti trascurandone la funzione pubblica di scuola quale ambito di convivenza e di confronto di persone ed idee differenti. Al punto che nell’estate 2006, gli ambienti della gerarchia vicini a Comunione e Liberazione sono arrivati a proporre che lo Sta-to rinunci alla gestione della Scuola pubblica per lasciarla alla società civile. Una simile proposta non va presa sottogamba. A parte il suo specifico aspetto tecnico, è un concreto assaggio della tesi di fondo dei cattolici chiusi e dei conservatori. Contestando l’attribuzione della titolarità della Scuola pubblica, si contesta lo Stato come costruzione della volontà dei cittadini individui per sostituirlo con una struttura imperniata su un corpo intermedio, la società civile, che senza Stato è una cosa indefinita e soggetta ad altri più reali e potenti corpi inter-medi. Il che è l’antico sogno dei cattolici chiusi. Che i conservatori si illudono presuntuosamente di poter controllare.

Intanto, i fautori del principio di separazione dovrebbero muoversi sul tema ora di religione. Oltre la questione delle corsie preferenziali

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395Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

per gli insegnanti designati dalla Chiesa ed il loro stipendio – regole che fanno a pugni con il principio di separazione – è l’impostazione stessa che deve mutare. La strada non è abolire l’insegnamento della religione, come volevano i positivisti e i marxisti sovietici. È un sogno sbagliato e perdente. “Per essere veramente formativo l’insegnamento della religione deve perdere il suo carattere confessionale… l’insegnamen-to religioso nella forma confessionale deve essere eliminato dalla scuola pubblica, senza che con ciò essa assuma la caratteristica della scuola neu-tra”, scrisse Borghi. La strada separatista è dare spazio all’insegnamen-to critico dei valori e della storia del vasto e complesso fenomeno reli-gioso, anche nei suoi aspetti diversificati, che non trascuri la tradizione italiana ma che neppure resti soffocato da un regime pattizio che è una forma di proselitismo. La Conferenza Episcopale Italiana nega che ora l’insegnamento religioso sia solamente una catechesi confessionale. È una difesa d’ufficio che non corrisponde alla realtà. Non soltanto perché è surreale non voler vedere che l’ora di religione è un vero e proprio monopolio cattolico, ma anche perché sta progressivamente determinando nella scuola la situazione confusa delle attività alterna-tive, che tendono a fuoriuscire dalla logica formativa.

Per cercare di togliersi questa sensazione di surreale, la gerarchia va oltre ed introduce un ulteriore argomento che pare lenitivo ed invece dovrebbe preoccupare ancor più il mondo laico. Nella primavera 2010, il cardinale Grocholewski, prefetto della Congregazione per l’Educa-zione Cattolica, ha sostenuto che l’insegnamento della religione come disciplina scolastica “diviene strumento privilegiato per la conoscenza e l’accoglienza dell’altro” mentre “un insegnamento della religione che si limita a presentare le differenti religioni, in maniera comparativa o neu-tra, può creare confusione o generare negli alunni relativismo e indiffe-rentismo religioso”. La tesi di dare il ruolo di disciplina scolastica alla religione, non alle religioni, ai loro valori, alla loro storia, ma proprio alla religione cattolica, riprende in modo apparentemente più dolce la solita teoria della religione fondamento dei fattori istitutivi della con-vivenza civile (fatto ciò, diviene solo un passo sostenere che si deve trattare con la religione).

Ed infatti lo stesso cardinale ha specificato “in un contesto mul-tietnico e multi religioso, risulta quanto mai importante la presenza di un insegnamento confessionale di qualità elevata, capace di introdurre l’alunno alla conoscenza della religione cattolica, contribuendo così a cre-are le condizioni per formare identità sicure e perciò capaci anche di soste-nere il dialogo con le altre religioni”. È un modo di porgere, aggiornato nella forma, il perenne spirito concordatario. L’insegnamento religioso

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cattolico avrebbe il compito ineludibile di creare le condizioni per i rapporti tra i cittadini, specie con quelli di altro credo; quasi che gli uomini vicini alle istituzioni religiose avessero più profonda conoscen-za della natura umana. È una sorta di supplenza cattolica offerta nel presupposto che lo Stato non potrebbe farne a meno, non bastando i cittadini, le loro interrelazioni, i loro confronti. A me pare che la laicità istituzionale deve decidersi a diffondere la propria cultura separatista, smettendo di fare furbi calcoli di presunte opportunità elettoralistiche, che in prospettiva sono solo autolesionistici.

Sulle attività alternative, si deve tener presente che poco meno di uno studente su dieci non segue l’ora di religione cattolica. Non è però chiaro per fare che cosa, dato che spessissimo la scuola non è in grado di offrire attività alternative (su questi temi si batte concretamente la Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni). Al punto che, nella infinita battaglia di ricorsi e controricorsi avverso i provvedimenti dei Governi (di centro sinistra e di centro destra) per privilegiare l’ora di religione (al di là della previsione concordataria), si è visto che nel mag-gio 2010 il Consiglio di Stato ha finito per ammettere che il Ministero non può eludere il problema di attivare l’ora alternativa a meno che non voglia incidere sulla costituzionale libertà religiosa dello studente. Allora, anche tenuto conto che questi non sono certo i tempi economici per risolvere il problema attraverso ulteriori aumenti di insegnanti – il cui numero in rapporto a quello degli studenti è già elevato – questa situazione crescentemente imbarazzante dimostra, oltre le problemati-che del separatismo, che il nodo da sciogliere è di per sé l’ora di religio-ne cattolica, seppur, ovviamente, facoltativa per motivi costituzionali.

Come dicevo sopra, l’ora di religione cattolica facoltativa deve es-sere sostituita da un ordinario insegnamento obbligatorio dei valori culturali e della storia delle religioni, che non trascuri la tradizione italiana ma sia libero dalla logica concordataria. Sarebbe anche un atto aperto al futuro, nel senso che colmerebbe il vuoto di educazione al fatto religioso di chi non si avvale dell’ora di religione cattolica e sa-rebbe il modo più adeguato di affrontare le trasformazioni nella citta-dinanza indotte dall’immigrazione e dalla multiculturalità che stanno allargando la pratica religiosa rispetto a quella cattolica. Anche tutti coloro che ritengono indispensabile riflettere sul senso della vita, non possono non riconoscere che per farlo la scuola dello Stato laico deve render conto criticamente delle varie espressioni culturali, religiose e non religiose, che, come sosteneva l’educatore Laporta, sono la testi-monianza dei modi e dei ruoli in cui quella riflessione si sia manifesta-ta e si manifesti nelle diverse culture.

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397Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

Così l’insegnamento obbligatorio dei valori culturali e della storia delle religioni sintetizzerebbe costruttivamente l’attitudine laica ad af-frontare la ricerca di senso in una verità di fede, se desiderata, tale da non creare alcuna contraddizione fra la verità scelta e la libertà che la sceglie. Dunque un insegnamento fondato su un’analisi critica, com-parativa, che sottolinea convergenze e divergenze. Anzi, al riguardo esiste anche uno studio di uno scrittore teologo cattolico, Salvarani, che avanza proposte operative sul come farlo. Naturalmente, da un punto di vista separatista, dovrebbe essere un insegnamento affidato ad insegnanti del ruolo pubblico, scelti dallo Stato nella scuola pub-blica e secondo delle regole pubbliche in quella paritaria, che si sareb-bero formati nelle facoltà di Teologia (anche statali ed estese a tutte le religioni) oltre che in quelle di Filosofia e di Storia.

Dell’esigenza di pensare ad un completo cambiamento del modo di concepire la pedagogia dell’ora di religione, scrive anche un docente della Pontificia Università Salesiana, Pajer. Si può anche considerare vada in tale direzione, l’intento del Ministro Gelmini manifestato nel settembre 2010 di dar corso nelle scuole alla lettura della Bibbia. A patto che, pur raccogliendo una sollecitazione tradizionale degli am-bienti cattolici, ci sia la volontà di mantenere intorno a questa grande opera il valore di fondamento religioso in larga parte comune all’ebrai-smo e al cristianesimo (la cui originaria ispirazione divina è ricono-sciuta anche dai musulmani) e di non puntare surrettiziamente a farne una riserva cattolica, sia per quanto attiene alla versione utilizzata sia per la professionalità nell’introdurla e nel commentarla.

l) genetica e bioetica.

Nella prima parte del libro ho avuto già occasione di parlare di questo tema più volte, riferendo del Manifesto di Bioetica Laica del 1996 e di successive prese di posizione in argomenti connessi. Vorrei qui confermare la assoluta centralità della questione sotto il profilo dei criteri di separazione tra Stato religioni.

Innanzitutto sono costitutive le ragioni che ho illustrate al capitolo 32.c sulla libertà di ricerca. Naturalmente si estendono alla ricerca sul corpo umano, dal momento che porre dei tabù etici su tale argomento sarebbe obiettivamente aderire ad un’etica eterodiretta da una cosid-detta convinzione superiore non sottoponibile a verifiche sperimentali. Con l’aggravante che, in questo caso, l’oggetto della ricerca è la natu-ra dei soggetti ricercanti, per cui por limiti ad una ricerca su di loro

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costituirebbe di per sé anche un limite alla riflessione sulle fonti del ricercare. Per la mentalità laica riesce inesplicabile il perché si voglia attribuire alla divinità il divieto (posto per pulsioni molto terrene) di conoscere i meccanismi costitutivi del corpo umano. Parrebbe che, dopo aver qualificato il divino come conoscenza assoluta, si ritenga di scalfirla qualora, invece di accettarla per fede, se ne indaghi anche solo alcuni aspetti. Tuttavia una concezione del genere è un dato di fatto stabile in molte credenze religiose e in particolare, seppure con misure assai variegate e sfumate, in quella cattolica. Perciò occorre accettare la sua esistenza, non venirci a patti.

Assicurare la libertà di ricerca in campo genetico e bioetico (inclu-sa la libertà di obiezione di coscienza del singolo) è una delle carat-teristiche principali della laicità delle istituzioni. Ed è uno dei punti su cui di continuo c’è maggior attrito con i cattolici chiusi e i conser-vatori. Ma qualsiasi compromesso di principio sarebbe al riguardo molto negativo, proprio perché la ricerca non implica in alcun modo un obbligo ad adottarne i risultati anche quando saranno comprovati, ed anzi questi risultati, una volta raggiunti, potranno essere oggetto di un dibattito pubblico sulla loro applicabilità a livello della convi-venza.

Così impostato il problema, divengono questioni di fede le pole-miche non di rado portate avanti dai cattolici chiusi a proposito degli studi sulla clonazione umana. Nella sostanza, questi studi appaiono ancora in fasi molto iniziali, se non preliminari, e soprattutto sono di-retti alla riproduzione di singole parti del corpo da utilizzare per cure sostitutive di organi non funzionanti di altri esseri viventi, piuttosto che alla effettiva duplicazione della persona umana. È irragionevole considerarli in partenza un’offesa alla dignità dell’uomo, foss’altro perché si tratterebbe di un prodotto dell’attività umana. Quindi non rifiutabile a priori.

Va peraltro rilevato che, dal punto di vista separatista, la questione non è discutere il modo di porsi della fede bensì la strumentalità con cui la usano i cattolici chiusi e tutto il mondo dei teocon, teodem, atei devoti e conservatori d’ogni specie, per tentare di affossare la laicità delle istituzioni. L’intento è emerso evidente, al di là dell’iter parla-mentare, nella vicenda della Procreazione Medicalmente Assistita, la legge 40/2004, secondo cui le tecniche di procreazione assistita non potevano far ricorso a tecniche di fecondazione eterologa ed era vietata la crioconservazione degli embrioni (salvo comprovate cause di forza maggiore) al fine di ridurre il soprannumero di embrioni creato duran-te la procreazione assistita.

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Questi due divieti, sull’eterologa e sul numero degli embrioni, sono la classica imposizione dell’etica di Stato. Il professor Prodomo dell’Università di Napoli, studioso di bioetica e liberale, ha stigmatiz-zato “la vecchia abitudine di alcuni cattolici, soprattutto italiani, a con-siderare la propria religione e la propria morale come la Religione e la Morale scritte con la maiuscola, per cui chi dissente da esse non professa un’altra fede o persegue altri valori morali ma è, più semplicisticamen-te, senza fede e senza valori”. Al fondo è la radice dell’atteggiamento proibizionista “sbagliato non solo perché pretende di sanzionare giuridi-camente una scelta morale individuale, ma, soprattutto, per un altro mo-tivo. Si tratta, infatti, di una condanna morale dettata da una concezione dei rapporti familiari fondata sulla mistica esaltazione del rapporto di sangue. E questo è un vero e proprio frammento archeologico di un’etica biologizzante, ossia di un’etica che pretende di ritrovare nella natura un ordine anteriore e superiore alle scelte culturali che l’uomo compie con-cretamente nel corso del suo sviluppo storico”.

Sta qui la distanza con la logica della separazione Stato religioni. Il non pretendere di imporre comportamenti e dare leggi che consentano certe scelte a chi vuole farle. A chi si domandava se la fecondazione eterologa non possa mettere in discussione “il carattere biologico-per-sonale della discendenza”, il professor Prodomo da liberale rispondeva di non poter “immaginare una società in cui fosse proibito a due perso-ne di sesso diverso, adulte e consapevoli, legalmente sposate o meno, di avere un figlio (altrimenti impossibile da far venire al mondo) attraverso una fecondazione eterologa, ossia facendo ricorso al seme di un donatore anonimo. Troverei questa proibizione assurda quanto una legislazione, ad esempio, che vietasse le adozioni, giustificando il divieto con l’argo-mento che al bambino adottato verrebbe negato un legame naturale e biologicamente fondato con i genitori adottivi. Se ben si riflette, infatti, la fecondazione eterologa ha molte analogie con la pratica dell’adozione. Si potrebbe parlare di una sorta di adozione solo da parte paterna, in quanto il partner maschile si impegna ad adottare, o riconoscere, un figlio genera-to dalla propria compagna o sposa con l’ausilio del seme di un donatore”.

Negli anni trascorsi da allora la legge è stata, per così dire, tosata dagli organi giurisdizionali. Prima, nel 2008, il TAR Lazio e il Tri-bunale Ordinario di Firenze bocciarono le Linee Guida Ministeria-li – che, subito dopo la legge, avevano vietato in generale la diagnosi di preimpianto – e sollevarono questioni di legittimità costituzionale. In conseguenza, nel 2009, la Corte Costituzionale, con la sentenza 151, ha demolito parti della 40/2004 affermando: “la giurisprudenza costitu-zionale ha ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità

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legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la re-sponsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le neces-sarie scelte professionali (sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002)… La previsione della creazione di un numero di embrioni non superiore a tre, in assenza di ogni considerazione delle condizioni soggettive della donna che di volta in volta si sottopone alla procedura di procreazione medical-mente assistita, si pone, in definitiva, in contrasto con l’articolo 3 Costi-tuzione, riguardato sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riserva il medesimo trattamento a situazioni dissimili; nonché con l’articolo 32 Costituzione, per il pregiudizio alla salute della donna – ed eventualmente, come si è visto, del feto – ad esso connesso”. Pertanto ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 2, della legge n. 40 /2004 limita-tamente alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre”.

La situazione è dunque meno peggio oggi che non sei anni or sono. Tuttavia, dal punto di vista della laicità delle istituzioni, restano le im-posizioni di credo morale mantenute dalla legge 40/2004. Innanzitutto perché a giugno 2010, nonostante la 151/2009 della Corte Costituzio-nale, non risultano ancora corrette di conseguenza le linee Guida del Ministero della Salute, che anzi trasmette su di essa informazioni di-storte. Poi perché rimane il divieto di donazione degli spermatozoi e degli ovociti che determina indebiti differenti trattamenti tra coppie con diversi gradi di infertilità, innescando così anche problemi di dif-ferente tutela sanitaria a seconda che si abbia o meno la disponibilità economica di ricorrere a ricoveri all’estero. Tutto ciò non avviene ne-anche per caso. La questione di cosa si intenda per vita è decisivo per i cattolici chiusi e per la religione cattolica. Il professore di bioetica Bonetti, ha sottolineato che “l’etica della disponibilità della vita difesa dal mondo laico sradica dalle fondamenta ogni pretesa della gerarchia ecclesiastica di mantenere il controllo sulle radici stesse dell’etica, va più a fondo della rivendicazione protestante del libero esame e del sacerdozio universale, del rapporto con Dio senza mediazione ecclesiastica”.

Di fatti, le vicende sulla legge 40/2004 non sono neppure un caso isolato, perché il medesimo atteggiamento politico culturale dei teo-con si è riproposto anche sulla questione della pillola RU486. Anche qui, trattandosi di una pillola non per la contraccezione di emergenza ma per l’aborto farmacologico, sono stati e sono molto forti i tentativi ostruzionistici di principio del mondo teocon (con la connivenza di

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quello teodem, tanto che nel 2007 il Ministro dell’epoca, Turco, adot-tò una procedura dilatoria per la prospettiva di commercializzare la pillola in Italia). Poi nel secondo semestre 2009 la decisione dell’Agen-zia Italiana del Farmaco ha consentito la distribuzione in Italia della RU486, ma il centro destra si è opposto fino all’ultimo e sta ancor oggi tentando di porre ostacoli a livello ospedaliero.

È indispensabile che su questi temi intervenga una decisa azione di sensibilizzazione da parte dei sostenitori della laicità delle istituzio-ni e del principio separatista. Un’azione che non si limiti alle specifi-che tematiche della salute della donna, per evitare il medesimo errore compiuto all’epoca del divorzio o dell’aborto, soprattutto da troppi nel mondo della sinistra comunista. Come allora per il divorzio e l’inter-ruzione di gravidanza, è indispensabile essere consapevoli che l’impo-stazione della residua legge 40/2004 e gli ostacoli continui alla RU486 non sono episodi a sé stanti, rientrano nel più generale problema della battaglia a favore del principio di separazione tra Stato e religioni.

Se si lascia in vigore una legge che vincola l’autonomia dell’indivi-duo, in particolare della donna, e in altri settori contigui se ne ostacola l’esercizio, al cittadino resta solo la libertà di coscienza di violare la leg-ge, magari con il sotterfugio o con l’espatrio oppure con medici amici o compiacenti. Solo la legge concepita laicamente lascia ad ognuno la libertà di coscienza sul ricorrere o no alla procreazione assistita ed impedisce le azioni intimidatorie del ministero. Dunque, rimuovere gli aspetti impositivi della legge PMA e gli atteggiamenti prevaricato-ri amministrativi, è essenziale per qualunque cittadino libero. Anche perché l’esperienza prova che abbandonare la strada della laicità dello stato avvia lo smottamento verso il fondamentalismo.

Del resto questo tipo di impegno per rivedere l’impostazione del governo è necessario in diversi campi, ad esempio in materia di diritti delle donne e della lotta all’AIDS, ove spesso nella realtà pratica pre-valgono linee di comportamento modellate sulle esigenze di fede dei cattolici chiusi, che poco hanno a che fare con le esigenze di una libera convivenza.

m) legami affettivi.

Sono un altro problema che vede frequentissimi duelli, più o meno di fioretto, tra il mondo dei separatisti e quello della Chiesa e dei cattoli-ci chiusi (per non parlare poi dei fondamentalisti). Non a caso è materia che tocca molto intimamente ogni individuo. Dalla notte dei tempi, ci

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si interroga sui motivi della fortissima propensione di esseri diversi nel cercare completamento psico fisico in un proprio simile, temporaneo o stabile. È uno degli ambiti ove le cause profondissime non sono del tut-to note. Ma alcuni aspetti ne sono noti e chiari nei meccanismi e nelle conseguenze. Il fatto che questi aspetti noti e i loro effetti vengano in qualche modo inquadrati dalla società, fa sorgere subito il problema se incentrare le norme, e in quale misura, su concezioni che impongono comportamenti di tipo religioso o comunitario oppure su regole relati-ve ai rapporti interpersonali dei singoli individui tra di loro.

Su questo problema influiscono tradizione e abitudini. Ripercor-rendo le fasi della vita individuale di ognuno, i primi rapporti affet-tivi sono quelli del neonato con i genitori e il loro ambiente. E per un periodo abbastanza lungo. Dopo affiorano e poi si sviluppano con sempre più forza le pulsioni dei rapporti sessuali. Stando così le cose, cominciano i duelli tra i due mondi sugli approcci da tenere. La Chie-sa e i cattolici chiusi propendono ad assumere come prioritaria negli affetti la famiglia, cui attribuiscono la funzione di comunità naturale della società. I separatisti e il mondo della razionalità laica e liberale propendono ad assumere come prioritari negli affetti i rapporti tra gli individui, che ritengono il centro reale delle cose vive.

Tra l’altro, la disputa si complica subito perché, sempre ripercor-rendo le fasi della vita individuale di ognuno, è vero che le pulsioni ses-suali cominciano dopo i primi affetti verso i genitori e il loro ambiente, ma è altrettanto vero che si manifestano pur sempre molto prima di quando l’individuo si pone il problema di metter su la propria nuo-va famiglia affettiva (anche a prescindere dall’aver trovato la persona giusta con cui farla) e continuano a manifestarsi indipendentemente dall’avere o no una famiglia. Di fatto ciò implica che il ragionare sulla famiglia e il ragionare sulla sessualità prendono vie ben diverse. Di conseguenza sono diversi anche gli approcci con cui sono concepite le norme sulle due tematiche.

Per il mondo religioso, la famiglia è la cellula primordiale della società che occorre difendere e mantenere sia perché così sarebbe la natura sia per non lasciar tutto lo spazio allo Stato. Fatta questa scelta, i legami affettivi tra i componenti la famiglia divengono necessaria-mente quelli determinanti, che prevalgono, che devono essere esclusivi e che, una volta creati di fronte a Dio, non si possono più sciogliere. Viceversa, per il mondo della razionalità laica e liberale, è il cittadino l’atomo primordiale della società, che occorre far sviluppare nelle sue caratteristiche e nelle sue interrelazioni, non escluse quelle sessuali, perché ciò arricchisce la società.

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Su queste materie, i duelli tra i due mondi sono sempre in cor-so proprio perché è in corso la vita. Lo Stato separatista, decenni or sono, ha prevalso su temi importanti come il divorzio o l’adulterio o la cosiddetta libertà sessuale; ma solo sotto il profilo istituzionale della maggior libertà, dal momento che non ha cancellato le diverse posi-zioni. Del resto è sempre così, poiché lo Stato separatista non intende proporre modelli ma consentire il più possibile a ciascun cittadino l’esprimere i propri pensieri e le proprie esigenze in ogni campo. Oggi, in questi settori, restano in discussione molte questioni assai rilevanti sul come considerare la famiglia, i legami affettivi diversi da quelli della famiglia tradizionale, i comportamenti sessuali.

I religiosi e i comunitari propugnano la necessità di restringere alla famiglia tradizionale i rapporti affettivi che le istituzioni possono ri-conoscere. E addirittura sostengono che la Costituzione consente solo tale tipo famiglia. Questo passaggio è un altro dei tanti esempi di come l’articolo 7 pesi nella quotidianità (ne ho già parlato al capitolo 22). Perché spinge tanti a dare un’interpretazione dell’articolo 29 non cor-rispondente al tenore letterale e alla logica. Il testo del primo comma, “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, parla dell’obbligo di tutelare i diritti di quel tipo di famiglia fondata sul matrimonio. Non esclude la possibile esi-stenza di altri tipi di famiglia e neppure la possibilità del legislatore di attribuire diritti anche a questi altri tipi. Quindi, è molto giusto chie-dere politiche di sostegno alla famiglia matrimoniale più efficaci e più generose (lo è perché anche chi privilegia il cittadino individuo non deve ignorare il significato delle sue scelte affettive), è molto sbagliato sostenere che i rapporti affettivi non possono assumere altre diverse forme e che quando li assumono nella realtà, le istituzioni non devono tenerne conto (lo è perché il separatismo è anche senso della realtà).

Tra l’altro, le cosiddette unioni affettive di fatto sono assai nume-rose ed è sempre più assurdo che le Istituzioni non abbiano un’istituto per riconoscerle e con il riconoscimento regolarne gli effetti giuridici sotto diversi profili della vita materiale (per esempio, l’assistenza in caso di malattia oppure la priorità alla persona convivente rispetto alla parentela di provenienza, che il codice civile che non riconosce). Lo è al punto che anche nell’area politica in cui proliferano i teocon, è venuta la proposta dei due Ministri Rotondi e Brunetta sulle unioni civili (di cui al capitolo 23). Ed è stata subito bocciata dal conformi-smo dei cattolici chiusi del centro destra (Rotondi è cattolico), nono-stante escludesse i finanziamenti pubblici (che, ai sensi dell’articolo 29 della Costituzione, non sono obbligatori) proprio perché affrontava la

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questione delle unioni affettive nella realtà dei suoi aspetti principali. Come avvenuto negli altri paesi dell’Europa Occidentale, è tempo di dare all’Italia una codificazione legislativa aperta e liberale (la norma-lità in uno Stato separatista) del variegato rapporto affettivo tra due cittadini conviventi, e quindi rispettosa delle libere determinazioni individuali.

È questa concezione che non si vuol far passare. Il mondo conser-vatore dei teocon, teodem, atei devoti, non tollera che le forme affettive includano rapporti di vario genere, come quelli riassunti dalla sigla del movimento Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transessuali, LGBT. Perché questo significherebbe anteporre l’individuo e la sua sessualità alla fa-miglia. Tale criterio chiuso di regolare la convivenza non solo limita in modo dichiarato e diretto la libertà del cittadino ma, nel segno di una sorta di solidarietà tra comunità religiose, provoca la scarsa capacità di mantenere i rapporti tra immigrati e cittadini italiani nell’ambito dei diritti civili delineati nell’ordinamento costituzionale. C’è una cauta sopportazione per la mancanza, all’interno di aree di immigrazione, di sufficienti garanzie per le scelte di vita personali. Da una parte si tollerano negli italiani forme di xenofobia e di razzismo, dall’altra si tollerano tra gli immigrati, in nome del multiculturalismo ghettizzan-te, delle violazioni dei diritti individuali, come il ripudio delle mogli, forme di poligamia “legalizzata”, nonché (come avvenne istituzional-mente da parte di dirigenti della Regione Toscana alcuni anni fa) le tribali mutilazioni dell’apparato genitale.

Eccoci di nuovo di fronte al perché la separazione tra Stato e re-ligioni è il solo modo per porre coerentemente il cittadino al centro della sovranità civile. Perché evita che qualche concezione, a comin-ciare da quelle religiose, possa sovrapporsi legalmente alle scelte di vita di ciascuno. È essenziale che dal punto di vista individuale non possano essere frapposti ostacoli all’esercizio della propria sessualità, salvi quelli dei civili rapporti interpersonali tra adulti consenzienti. Le Istituzioni non devono imporre che la sessualità abbia altre finalità che sé stessa, neppure quella procreativa.

Ed invece, in vari ambienti dei cattolici chiusi, serpeggia la tenta-zione di stabilire un protocollo della corretta morale anche a propo-sito dell’esercizio della sessualità. Occorre respingere questo tentativo oscurantista. Perché la corretta morale è un valore sociale solo in uno Stato etico. È naturale che ogni cittadino possa averne una sua propria. Anche se tale morale lo portasse ad agire in modo dannoso verso di sé, purché non implichi un reato verso altri. L’appuntare l’attenzione su questi aspetti contrari alla sovranità del cittadino rivela il reale intento

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antiindividualista della tesi. Deve essere condiviso l’appello di Ostel-lino a un principio liberale: “Rivendico il diritto all’immoralità”. Nella convivenza conta che ciascuno non danneggi gli altri o i loro averi. Quanto a sé, il cittadino resta libero di comportarsi come crede e an-che di sbagliare a proprio danno. Qualsiasi tipo di affetti abbia. Perché la solidità di una società non dipende dal suo conformismo d’identità.

n) la giustizia penale.

Esiste una chiara correlazione anche tra il principio di separazione e il concetto di giustizia penale a proposito di un aspetto decisivo nel modo di intenderla e di esercitarla. Sia da un punto di vista generale sia da quello di diffonderne le relative notizie.

Ciò partendo dal non dimenticare quale è lo stato delle cose di giu-stizia secondo ragione. Il peccato (per chi è credente rispetto al credo cui è riferito) viene commesso indipendentemente dal fatto di scoprilo ed è soggetto solo al giudizio del Dio di riferimento; e quando è sco-perto, se non è un reato, è soggetto solo al giudizio dell’opinione pub-blica. Lo stesso se il peccato è la violazione di convinzioni personali o comunitarie. In questi casi la giustizia non c’entra. Viceversa, il reato sussiste – e la giustizia c’entra – quando viene violata la legge, quando la sua scoperta porta al rinvio a giudizio ed è sancito da una condanna decisa nel processo in Tribunale.

Inquadrata la situazione generale, è un dato di fatto che i Pubblici Ministeri tendono ad occuparsi sempre più di temi sensibili sul piano etico-morale. Il che è un giusto esercizio delle loro funzioni in tutti i casi in cui, alla luce delle norme nella logica effettiva del sistema costi-tuzionale e legislativo, perseguono reati e questi reati, quando messi a fuoco, magari rientrano anche nella tipologia dei temi sensibili etico-morali. Non è però così qualora i Pubblici Ministeri si distacchino da questa impostazione. Man mano che lo fanno, la questione assume, dal punto di vista della separazione, connotati crescentemente inquietanti per la convivenza. In tali casi, infatti, il PM, avendo un convincimento personale circa il giusto modo di intrattenere relazioni di affari o qua-lunque altra attività rilevante presso l’opinione pubblica e ritenendo quel convincimento non seguito da una persona o da un gruppo di persone, si ingegna per escogitare una lettura dei codici tale da con-sentirgli di perseguire quei comportamenti da lui ritenuti disdicevoli. Così il reato è ipotizzato da tale lettura più che dal fatto fisiologica-mente inquadrato nell’ordinamento. In questo modo, prima ancora di

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aver notizia di un reato commesso, cioè di una avvenuta violazione della legge, il PM eleva i propri convincimenti a sospetti di colpa, la colpa al rango di notizia di reato e va a caccia di una interpretazione dei codici che possa fornire una tipicità secondo la legge alla notizia che si è costruita.

La questione è tanto più inquietante poiché a questo punto si sal-da con un altro aspetto distorto: come vengono diffuse le notizie in materia di giustizia penale. Il mondo giornalistico tende a trattare la giustizia penale con lo stesso metro dello spettacolo: il clamore e il sensazionalismo delle cose semplificate. È un criterio sempre errato nel profondo. Quando si applica alla lettura ad hoc dei codici, congiunge la distorsione nel dar notizie alla distorsione nell’amministrare la giu-stizia penale. Il risultato pratico è tagliare fuori il processo e indurre l’opinione pubblica alla diretta applicazione del giudizio negativo dato in partenza da quel PM. Per di più, il giudizio, nei suoi diffusi effetti pubblici, non sarà più correggibile a posteriori, soprattutto se la corre-zione arriva molto tempo dopo.

A prescindere dalle discussioni specialistiche sul modo di ammi-nistrare la giustizia penale, qui è necessario rilevare che la situazione descritta sopra confligge obiettivamente con i criteri di separazione tra Stato e religioni. Confligge nel senso che chi è sostenitore di questi criteri – e dunque di ciò che significano e che è stato esaminato in par-ticolare nei capitoli 25 e 26 – non può che opporsi decisamente a tali distorsioni giudiziarie e mediatiche. Perché certi PM reintroducono il principio secondo cui il non corrispondere ad un modo di comportarsi da loro ritenuto opportuno (che di per sé è solo commettere un pecca-to rispetto a ciò che loro pensano dovuto) potrebbe configurare reato, dopo denunciano il comportamento-peccato come reato acclarato e infine, utilizzando il meccanismo offerto da certi giornalisti, metto-no alla gogna gli imputati ottenendone la pubblica condanna, senza attendere il processo ridotto ad adempimento burocratico (mentre è il punto centrale del fare giustizia). Questa situazione contrasta in pie-no con i criteri di libertà individuale del cittadino. Il rispetto della legalità (di certo in uno Stato separatista), da una parte è essenziale per la libera circolazione delle rispettive espressioni dei vari cittadini, dall’altra significa rigoroso rispetto di quella legge. I vincoli penali per i cittadini e per le loro relazioni derivano dalla legge scritta e non da un presunto dover essere comportamentale stabilito a qualunque titolo e da chiunque sulla base delle più diverse suggestioni comunitarie. Ol-tretutto, la gogna anticipa, quasi sostituendola, la vera pena che spesso non arriverà essendo stata acclarata l’innocenza.

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407Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

Tutto ciò non significa affatto che solo i fautori della separazione si oppongono a queste storture di alcuni Pubblici Ministeri. Si oppon-gono anche tantissimi convinti sostenitori della logica concordataria. Dico solo che i fautori della separazione hanno un motivo in più per opporsi: la coerenza con le proprie idee generali che li hanno portati a volere la laicità delle istituzioni.

Desidero far rilevare – anche per dare ulteriore conferma che le considerazioni precedenti non derivano da pregiudizi verso certi Pub-blici Ministeri – che in Italia è assai diffusa la propensione a confonde-re il peccato con il reato quando invece la ferma distinzione di peccato e reato è un caposaldo della laicità. Ovunque. Lo è nell’ordinamento americano che è fondato sulla giurisprudenza più che sui codici ma anche sul rigoroso separatismo nel costume civile. Lo è nell’ordina-mento italiano, fondato invece sui codici e non abbastanza laico nel costume civile, dove violare una credenza non è reato, mentre è reato il non rispettare le fattispecie previste dalla legge penale, che in Italia presiede alla convivenza civile. In ogni caso, essendo diffusa in Italia la propensione a confondere i due aspetti di reato e di peccato, essa si ri-trova pure nella politica. Allora non è un caso, come è già emerso nella parte I, che le conseguenze del concetto costituzionale di laicità, nella sua accezione più specificamente giuridica, vengano applicate non tan-to dalla politica nel fare le leggi e dalle burocrazie nell’applicarle – che sarebbe la cosa più naturale – ma in via giurisprudenziale. In questo contesto la Corte costituzionale è costretta spesso a giocare un ruolo di supplenza. Il che è già una distorsione dei normali ritmi vitali di una società libera come dovrebbe essere quella italiana.

o) il tipo di società e la concorrenza.

Esiste una chiara correlazione pure tra il principio di separazio-ne e l’idea di società con cui si realizza la convivenza. Questo risulta già evidente da quanto argomentato nei precedenti capitoli 25, 26, 27 e 28. Vorrei però sottolineare che nella specificazione si può andare oltre. La laicità delle istituzioni opera necessariamente nello spingere verso una concezione aperta della società e quindi verso concezioni economiche estranee al dirigismo. Direi di più, finisce per influenzare il tipo di rapporti di vita ed anche per far riflettere sulla struttura del capitalismo.

Quanto ai rapporti di vita, va osservato che chi adotta i criteri di laicità delle istituzioni tende a prendere le distanze dal concetto di

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bene comune per quanto esso esprime alla lettera. Alla lettera, il bene comune è il bene della comunità. Dunque o applica la concezione provvidenziale che, tutto vedendo, stabilisce anche quanto serve alla comunità oppure trasforma quella che è stata la decisione di qualcuno (i capi, un partito, un gruppo sociale, la maggioranza) da cosa decisa a maggioranza per essere fatta o perseguita, in bene oggettivamente opportuno per tutta la comunità sovrapponendosi alle idee degli in-dividui cittadino. Nella prima accezione, il bene comune non rientra nella logica della separazione in quanto si pone come tipico concetto religioso. Nella seconda accezione, può rientrarci a condizione di non accettare la trasformazione implicita e distinguere tra l’opportuna ne-cessità di accettare la decisione assunta e il fatto di qualificarla come bene oggettivo per tutti. Nella logica della separazione non è possibile imporre ad ognuno di condividere una decisione della maggioranza. Di rispettarla sì, di condividerla no. Chiunque può legittimamente ri-tenere che la decisione non sia il suo bene.

Qui è necessaria una rapidissima parentesi. Per osservare al volo che siamo giunti alla soglia della disubbidienza civile, idea enunciata a metà ottocento dall’americano antischiavista Thoreau e largamente applicata nel novecento con le azioni di Gandhi e di Martin Luther King. È indispensabile tener presente che la disubbidienza civile non è il disconoscere lo Stato, è una forma non violenta (sua caratteristica essenziale) di azione politica fondata su una convinzione morale del singolo cittadino: l’assoluta fondatezza di un proprio diritto naturale nonostante quanto possa stabilire la legge. Thoreau ammette anche la disubbidienza alle leggi pur di seguire ciò che la propria coscien-za individuale ritiene giusto. Dunque la disubbidienza civile è l’esatto contrario della violenza, del sopprimere l’individuo, del privilegiare la massa indistinta e delle adesioni irresponsabili a qualche causa. Le idee della maggioranza contano solo se sono idee “giuste”, rispettose dei valori morali dell’individuo, che altrimenti è legittimato alla resi-stenza passiva, disposto anche a subirne le punizioni legali senza dare in escandescenze (non a caso sia Gandhi che Martin Luther King fu-rono assassinati da esaltati fondamentalisti). Il concetto di “leggi che devono essere giuste” è una questione molto profonda non riducibile al concetto di “leggi con cui non si consente”. In ogni caso, la disub-bidienza civile è fondata sul riconoscimento della libertà individuale che è il vero giudice degli interessi dei cittadini e non riconosce l’idea di bene comune per qualsiasi motivo sovraordinato. Chiusa parentesi.

Tornando al punto che sto illustrando, è evidente che, con il princi-pio di separazione, il bene comune è solo un modo di dire, un’espres-

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409Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

sione che viene dal passato. Le decisioni assunte non escludono mai in-teressi, volontà, iniziative, relazioni dei singoli cittadini. Questo aspet-to colpisce molto il mondo cattolico. Ha difficoltà ad accettare l’idea che uno Stato possa esistere senza monopolio sullo spazio pubblico e senza assoluta competenza sul bene comune. Insiste nel ritenere che la necessità della sussidiarietà di modulo cattolico (di cui ho parlato al ca-pitolo 30.d) sia rafforzata da questo indebolimento dello Stato rispetto al bene comune, mentre invece è l’indebolimento del bene comune che rafforza il cittadino individuo (in ciò realizzando lo Stato laico) e limita il ruolo sussidiario delle comunità. Credo si debbano rassegnare al fatto che lo Stato laico, assieme alla regola del contare le teste per decidere, segue anche quella del continuare a valutare gli effetti reali delle iniziative di ciascuno in ogni campo, per compararli con le deci-sioni prese e consentire alla società di decidere di conseguenza.

In particolare nel settore economico, questa continua valutazione delle iniziative di ciascuno la consente il mercato, attivando il relativo confronto secondo regole in parte ancestrali in parte di continuo ag-giornate. Così le iniziative di ciascuno, siano prodotti, siano idee, siano modalità di servizio, siano proposte politiche, vengono paragonate a quelle degli altri, vale a dire sono messe in concorrenza. Danno la de-cisiva centralità al fattore umano. In conclusione, è vero che adottano la concorrenza anche tantissimi che sono contro il principio di sepa-razione. Ma chi è fautore di questo principio non può che adottare la regola della concorrenza e agire per promuoverne l’adozione coerente.

Una cosa analoga avviene a proposito della riflessione che il prin-cipio di separazione induce a proposito della struttura del capitalismo. Sul punto gioca un’altra caratteristica del principio di separazione. Quella di comprendere nel suo sistema logico il parametro tempo. Tanto che, pur non essendo stato pensato a tal fine, attraverso la di-stinzione con il fattore religioso il principio di separazione permette di includere gli effetti mutevoli dello scorrere del tempo, tenendone conto e rappresentandoli.

Nel quadro della laicità istituzionale, per non pochi decenni sono venute a confronto le diverse culture economiche, quella capitalistica, potenzialmente la più dinamica ed innovativa, e quella marxista, che della prima esaltava gli inconvenienti sociali ma non sapeva correg-gerli, illudendosi che la cura stesse nella proprietà dei mezzi di produ-zione (di fatto poi rivelatasi un ritorno in forme nuove al passato delle società rigide, ancor più oppressive del cittadino). A poco a poco, du-rante circa un secolo abbondante, è risultaa sperimentalmente preva-lente la cultura capitalistica, che, proprio perché duttile strutturalmen-

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te a differenza di quella marxista, è stata in grado di correggere buona parte dei suoi errori, a cominciare da quelli curati con la scoperta e la progressiva introduzione delle fondamentali norme antimonopolisti-che e di tutta una serie di norme sui mercati e sulla partecipazione del lavoro. Da rilevare che in questa fase, in Italia la cultura capitalistica non ha mai prevalso altrettanto, proprio perché le logiche pattizie tra poteri compenetrate nei gangli della società, si diffondevano al di là dell’ambito religioso concordatario, che pure ne sono la sede naturale, e snaturavano lo spirito capitalista e la sua pratica effettiva.

Poi, all’incirca un quarto di secolo fa, quando è cominciato a venir fuori che il marxismo realizzato non teneva più il confronto e che or-mai il capitalismo stava prevalendo, sono sorte negli Stati Uniti alcune interpretazioni del tutto estranee allo spirito del capitalismo. Ne posso citare una del tutto fantasiosa ed irragionevole che fu di moda a lungo (soprattutto presso i vecchi anticapitalisti) a dimostrazione della diffi-coltà per molti di comprendere la natura del capitalismo. Mi riferisco alla tesi della fine della storia, secondo cui la vittoria del capitalismo non avrebbe avuto ulteriori sviluppi per mancanza di contendenti. Era assurda proprio perché il capitalismo è fisiologicamente un sistema di rapporti reali legato al cambiamento. Ed è stata seppellita abbastanza alla svelta.

Ve ne fu invece un’altra, più seria e solida, quella del capitalismo monetario. Al posto dell’attenzione al problema della sottoutilizza-zione dei fattori produttivi e in particolare del lavoro non utilizzato, predicata in origine dal liberale Keynes, la scuola del conservatore Friedman rilanciò la scuola di Chicago e si impegnò a focalizzare il funzionamento della economia sullo stretto legame tra la quantità di moneta e il livello generale dei prezzi così da imbrigliare le aspettative di inflazione del cittadino rispetto alle decisioni di politica economica. Il fine era instaurare un ordine giusto e semplice che funzionasse quasi a prescindere da altre regole dello Stato, per dimenticarsi del tempo. Peraltro, questa aspirazione politica dell’individualismo conservatore al “giusto” e al “semplice” ha una sua logica ed una certa efficacia solo come specifico riequilibrio (contrastare gestioni pubbliche dissennate foriere di inflazione, o l’elefantiasi ideologica dello stato o la prolifera-zione parassita dei gestori e delle razze padrone). Non ce l’ha se viene utilizzata come strumento essenziale per arrivare ad un mercato fuori delle regole dello Stato e per rendere così più liberi i cittadini.

Come mostra l’esperienza americana, l’esito della disattenzione alle regole diverse dalla moneta finisce per essere quanto meno un abnor-me allargarsi delle differenze tra i cittadini (che già è il contrario di

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411Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

un esito centrato sulla libertà del cittadino), poi si trasforma in una rincorsa alle disponibilità monetario finanziarie invece che alla pro-duzione economica, e arriva a concentrarsi direttamente sull’utilizzo della moneta di cui si dispone onde consumare nell’immediato senza freni. A parte i gravissimi errori politici e finanziari così indotti dal mondo conservatore, dai grandi gruppi bancari e dalle burocrazie fi-nanziarie, tutto ciò si può riassumere nel tentativo di mutare la natura del capitalismo.

Dal capitalismo di risparmio, fondato sullo spirito di responsabi-lità nel lavoro innovativo e sul limitare i consumi immediati, così da poter disporre di un domani soddisfacente (ecco che rispunta la que-stione tempo), si è passati in modo sempre più accelerato al capitalismo di debito, ispirato allo sganciare il denaro circolante dal lavoro o dai prodotti realmente innovativi e al consumare fulmineo, così da poter accaparrarsi il massimo possibile subito oggi e senza curarsi degli altri, come se il domani fosse irrilevante. L’esperienza ha dimostrato che il capitalismo di debito indipendente dal debito non può reggere. An-che in uno Stato separatista come gli Stati Uniti (vedere anche sotto al capitolo 34), non può reggere un capitalismo distaccato dal passar del tempo. Proprio perché non può essere aggirata la questione dell’utiliz-zo delle attitudini e capacità di ciascuno di esprimersi nel tempo, di poter sempre ripartire con nuove possibilità.

Negli scorsi anni, la tendenza al capitalismo di debito si era diffusa a macchia d’olio, in sostanza anche in Italia. Dove ha prodotto meno danni perché qui è più robusta la propensione al risparmio delle fami-glie, una risposta tradizionale nell’ottica di sopravvivenza “egoistica” di chi istintivamente sa che il tempo esiste e che non si può prescin-derne. Ma è il momento di andare oltre le vecchie abitudini, virtuose ma artigianali. Nella situazione italiana, il pensare di applicare a livello istituzionale il principio di separazione Stato religioni, che per natura consente di essere aperti al tempo, è molto utile anche per riflettere sul fatto che il capitalismo appunto senza il tempo non può funzionare. E che dunque occorre svincolare lo spirito capitalista dai legami pattizi ed amicali di poteri immutabili che lo hanno fin qui snaturato renden-done asfittica la pratica applicazione. Senza illudersi di poter aggirare il problema – così come gli alchimisti medioevali speravano di trovare la pietra filosofale capace di trasformare tutto in oro – attraverso un favoleggiato nuovo modello di sviluppo che prescinda dal fattore tem-po, dal brulicare delle iniziative dei singoli, dalla strutturale diversità di ciascuno, dalla collaborazione per mezzo della concorrenza secon-do le regole. Magari illudendosi di ricorrere ancora una volta ad un

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supposto bene comune (il mitico dover essere) dettato da una sorta di cartello dei poteri forti così da evitare la logica aperta del principio di separazione.

p) le polemiche sulla Costituzione.

Da qualche anno ha consistenza un dibattito, che tende ad allar-garsi, sul senso da attribuirsi alla Costituzione, al di là dell’immediato rispettarla. Quella italiana è una Costituzione “vecchia” da modificare oppure sono “conservatori” quelli che rifiutano di modificarla? Sic-come è un dato di fatto che i principali sostenitori del rifiuto delle modifiche sono in parte molto larga ambienti cattolici che godono di pubblico rilievo, è importante dare un giudizio in chiave separatista.

Tralasciando gli aspetti più tecnici e stando ai principi di fondo, la questione verte sul ruolo che si intende riconoscere al cittadino. Mol-tissimi cattolici pubblici argomentano – perfino facendone la ragione dello stare dei cattolici in politica – che compito della Costituzione è salvaguardare i valori di fondo della comunità civile e rappresentare la forma più immediata ed elementare di bene comune. Ho riprodotto le parole da loro comunemente utilizzate perché sono rivelatrici. Il lin-guaggio – da “comunità civile” a “bene comune” – tende a non parlare del cittadino, trasformando lo stare insieme da complesso di relazioni tra i singoli cittadini in qualcosa che assorbe i cittadini e ne prende il posto. Da qui, questi cattolici pubblici traggono l’impostazione per cui la Costituzione avrebbe vita autonoma rispetto ai cittadini e varrebbe piuttosto come documento comune della comunità che potrebbe esse-re modificato solo quando è favorevole la comunità nel suo complesso consociativo (e non dei cittadini, la cui sovranità dunque non tocche-rebbe la Costituzione). In questo modo un pò felpato, ma rigido, viene introdotto il concetto di Costituzione sacralizzata, che non dovrebbe essere alla mercé dei cittadini ma rispettare i valori certificati dai saggi che di essa hanno conoscenza.

Ora, il principio cardine dello spirito della separazione Stato re-ligioni è che le regole si cambiano nel rigoroso rispetto delle regole preesistenti ma si possono cambiare, cambiare anche dividendosi. Del resto, la stessa Costituzione lo afferma con chiarezza quando pone il solo limite di cui all’articolo 139, quello che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale. Le altre forme possono essere cambiate dai cittadini secondo le forme e i limiti della Costitu-zione vigente.

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413Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

Ne consegue che secondo le procedure costituzionali non vi è dub-bio che i cittadini possano esercitare la loro sovranità di aggiornare la Costituzione qualora lo vogliano. Se farlo e come farlo, riflettendo anche sui consigli dei saggi e dell’esperienza, è appunto nella disponi-bilità del dibattito politico nella convivenza. Non può sussistere una concezione sacrale della Costituzione né l’affidarla a custodi conso-ciativi. Ovviamente si devono rispettare i requisiti richiesti dalla Co-stituzione vigente. Ha cominciato il centro sinistra mutando il Titolo V della Costituzione con pochi voti di scarto a pochi giorni dalle ele-zioni, il centro destra vinse le elezioni ma accettò le modifiche e non attivò la procedura di referendum costituzionale prevista. Anni dopo il centro destra votò diverse modifiche costituzionali che ai liberali (di certo non solamente a loro) parvero un pasticcio inverosimile (troppi poteri riconosciuti al Primo Ministro, senza contrappesi adeguati, più giudici costituzionali di diretta nomina politica, il Presidente della Re-pubblica relegato a compiti incongrui, una macchinosa ed inestricabile divisione dei compiti tra Stato e Regioni e tra Senato e Camera che incentivava il plebiscitarismo e l’idea della politica ridotta a scontro di potere). Un vasto schieramento di opposizione al centro destra attivò la procedura referendaria prevista e le riforme costituzionali furono boc-ciate. Lo furono non perché la Costituzione fosse sacrale, bensì perché i cittadini ritennero le modifiche appunto un pasticcio.

Nella logica del principio separatista, dunque, non si può aggirare la sovranità del cittadino facendo appello alla necessità che il rifor-mismo costituzionale abbia radici profonde. Questa necessità è fon-data ed è comunque consigliabile ma non è un ostacolo preclusivo al riconoscere che il giudizio finale spetta alla sovranità del cittadino. La Costituzione è un prodotto politico che non viene mai ricondotto all’occasionalità di uno schieramento perché i giudici finali sono i cit-tadini. Le radici profonde della Costituzione stanno in questo – o le maggioranze qualificate nelle Camere rappresentative dei cittadini o la maggioranza referendaria dei cittadini – non nelle opinioni dei saggi esperti di bene comune.

L’impostazione sacralizzata dei cattolici pubblici trova un riscontro non casuale nell’Appello in difesa della Costituzione lanciato nel 1994 del cattolicissimo Dossetti, il quale sosteneva che la Costituzione “più che del confronto-scontro di tre ideologie datate, porta l´ impronta di uno spirito universale e in certo modo transtemporale”. Le parole di Dos-setti, che con la sua esperienza di vita ha dimostrato di essere molto legato alla concezione religiosa, mettono in chiaro che per quel tipo di cattolici lo spirito universale e transtemporale sovrasta il cittadino

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individuo, eliminando così di un colpo i due capisaldi del separatismo, l’individuo e il tempo.

Sacralizzarla contraddice la Costituzione nel profondo. La Costitu-zione deve essere una cosa viva. Deve essere sempre il miglior viatico alla discussione nella convivenza tra i cittadini, senza interruzioni al fluire delle loro relazioni, differenti e imprescindibili, per evitare che argomenti estranei al tempo e alla politica possano influire sulle scelte istituzionali. Ecco perché il principio di separazione risulta coinvolto nella questione della Costituzione.

q) informarsi sulle cose interne del Vaticano.

Ritengo che per chi sostiene la separazione Stato religioni sia op-portuno curare l’informazione sulle questioni del modo d’essere del Vaticano. E insieme ritengo che, curandola, debba maneggiarla con attenzione. La fonte principe per informarsi, a parte le conoscenze personali o particolari entrature, sono i cosiddetti vaticanisti, vale a dire saggisti o giornalisti che si occupano professionalmente di quanto avviene nello Stato del Vaticano.

Come in tutti i settori, ci sono naturalmente quelli più addentro e quelli più bravi. In ogni caso, informarsi il più possibile, magari incro-ciando le notizie, è connaturato alla mentalità laica. Anche se l’argo-mento è il Vaticano. Peraltro, questo tipo di informazione deve essere maneggiato con cura. In modo da non attivare, assumendola, una re-azione distorta.

L’argomento sono le strutture umane della Chiesa, non la sua spi-ritualità (i documenti vaticani resi noti attraverso altri tipi di canali ufficiali sono da valutare per quel che dicono). E dunque i non credenti non hanno titolo per mettersi in cattedra circa quella che secondo loro dovrebbe essere la coerenza tra fede e comportamenti; semplicemente non è cosa che li riguardi. I credenti hanno titolo ma, se sono separati-sti, non debbono fare oggetto quella coerenza di giudizio politico. Det-to ciò in generale, è anche indispensabile evitare un tipo di infezione non rara, quella di voler sempre vedere in quello che avviene i segni di una Chiesa che non c’è e che non ci può essere.

I contrasti nella Chiesa appartengono alla natura umana e sarebbe un grave errore supporre che tali contrasti possano mutarne la struttu-ra, che si modella inevitabilmente sull’autorità della fede. Il motivo di ciò lo ha di recente (febbraio 2010) ancora una volta precisato il Segre-tario di Stato, cardinale Bertone, in una lectio magistralis all’Universi-

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415Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

tà di Wroclaw in Polonia. Ha usato un ragionamento analitico. Come premessa ha richiamato il fatto che “i diritti umani sono universali non perché approvati e riconosciuti da maggioranze parlamentari o della pubblica opinione, bensì perché poggiano sulla natura dell’essere umano, che resta inalterata pur nel mutare delle condizioni sociali e storiche” così come affermato nell’enciclica dell’estate 2009, Caritas in veritate, che ha dettto “Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità”. Dopodiché il Cardinale Bertone ha osservato che “diversi movimenti sorti nel nostro tempo reclamano una forma di democratizzazione della Chiesa, nel senso di integrare nella sua costituzione interna quel patri-monio di diritti della libertà che l’illuminismo ha elaborato… A questi movimenti sembra ovvio servirsi di tali strutture di libertà per passare da una Chiesa considerata paternalistica e distributrice di beni ad una Chiesa-comunità, così che nessuno più rimanga fruitore passivo dei suoi doni. Tutti devono invece diventare operatori attivi della vita cristiana. La Chiesa non deve più venire calata giù dall’alto… Anche la liturgia non deve più corrispondere a uno schema previo già stabilito, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione, ad opera della comunità per la quale viene celebrata. Di questo passo può diventare un ostacolo anche la parola della Scrittura, alla quale però non si può del tutto rinunciare e che quindi viene affrontata con ampia libertà di scelta”.

A questo punto, di fronte ad un’ipotesi di Chiesa frutto dell’autode-terminazione democratica, il Cardinale si chiede “a chi spetta il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene?” e risponde con nettez-za “è ovvio come il confronto con la democrazia politica non regga con la struttura della Chiesa”. E chiarisce il perché. “Nella democrazia politica a queste domande si risponde con il sistema della rappresentanza: attraverso le elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le de-cisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; è circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico e comprende solo quegli ambiti dell’azione politica che dalla Costituzione sono assegnati alle entità rappresentative”. Questo, a parte altre questioni non irrilevanti cui accenna il Cardinale Bertone, non risolve “un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno può anche essere annullato da altri. Tut-to ciò che proviene da un gesto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può essere abrogato da un’altra maggioranza. Una Chiesa che riposi solamente sulle decisioni di una maggioranza diven-ta una Chiesa puramente umana, ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni e opinioni, dove l’opinione sostituisce la fede”. Tutto ciò avviene, afferma

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il Cardinale Bertone, poiché la Chiesa è “testimonianza invece di rap-presentanza”. Infatti “l’idea fondamentale del parlamentarismo è quella della rappresentatività. Il potere è demandato dal popolo a persone che lo rappresentano, sulla base del suffragio universale”.

“Nella comunità cristiana il concetto di rappresentatività è fonda-mentalmente diverso per due ordini di ragioni. Anzitutto le persone che guidano il Popolo di Dio non sono investite, anche quando fossero elette, del potere in forza del quale esercitano la loro diaconia, dal basso, ma dall’alto, attraverso il Sacramento e la missione. Al livello della Chiesa universale solo il Papa o tutto il Collegio Episcopale possono parlare in nome della Chiesa, cioè rappresentare la Chiesa. Al livello della Chiesa particolare, solo il Vescovo rappresenta la Diocesi; infatti, è lui, e non uno dei Consigli Diocesani, a rappresentare la Diocesi in seno al Concilio Ecu-menico, né i Consigli Diocesani senza il Vescovo, possono rappresentare i cattolici di una Diocesi”.

“In secondo luogo la fede non è rappresentabile da nessuno, perché la salvezza è un fatto eminentemente personale. Non ci si può far salvare da un altro, come ci si può far rappresentare da un terzo nell’ambito econo-mico o anche più strettamente personale, come nel matrimonio per pro-cura. È per contro affermazione corretta il dire che il Vescovo rappresenta la fede dei membri della sua Chiesa particolare, per esempio al Concilio Ecumenico. Il concetto di rappresentanza assume però in questo contesto un significato diverso, originalmente ecclesiale. Rappresenta questa fede solo nella misura in cui la sua fede è ortodossa, e quella corrisponde alla sua. Non la rappresenta in forza di un mandato dei suoi diocesani, ma la testimonia in forza della sua partecipazione più piena all’ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini. La tradu-zione più corretta del concetto di rappresentanza è perciò in sede ecclesia-le quello di testimonianza. Solo la testimonianza del Vescovo in merito alla sua Diocesi ha valore vincolante ultimo, cioè giuridico, con valore appunto di voto “deliberativo”, in seno al Collegio Episcopale”. Parole inequivoche. La rappresentanza si fonda sulla sovranità del cittadino e la rende operativa. La testimonianza si applica a chi vi si riconosce in base a valori extrarappresentativi fondati sull’autorità. Ecco il motivo profondo per cui la Chiesa è quella che è e non può essere giudicata in termini politici né essere rapportata alle procedure democratiche.

Ne deriva che sarebbe appunto un grave errore supporre di poter applicare alla struttura ecclesiastica costumi e metodi ad essa estranei. Ad esempio, quando si vede che alcuni ambienti della Chiesa conte-stano l’otto per mille, se ne può prendere atto con piacere dal punto di vista della laicità, ma nella consapevolezza che tale contestazione

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417Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

esprime una estrema minoranza, non cercando di darle voce molto più di quella data ad una curiosità intellettuale. Occorre che i laici – e soprattutto i mentori di un certo atteggiamento della sinistra – non scambino queste voci dall’interno come sintomi di chi sa quali immi-nenti mutamenti nelle decisioni della Chiesa. Non solo questo scambio illusorio riporta la religione della gerarchia al centro dell’attenzione del confronto politico – il che per il separatismo è già un errore di per sé – ma attribuisce a tali sintomi un valore operativo sul piano politico (se non addirittura prescrittivo o quanto meno influenzante) che sna-tura ogni politica volta a dar centralità al cittadino.

L’impegno a favore del separatismo deve indurre a non essere in-dulgenti con questa propensione a fare della Chiesa una cosa diversa da quella reale. Facendola divenire o una Chiesa solamente spirituale sfrondata del suo corpo tradizionale oppure la Chiesa ridotta a partito politico oppure la Chiesa con l’unica dimensione di gruppo di potere. La Chiesa può essere un crogiolo di tutto questo ma informarsi sul suo modo d’essere non deve equivalere a dibatterne la natura come se, quale istituzione, potesse influenzare lo Stato.

34. Spunti per il separatismo:la Gaudium et Spes e il Papa

Ho illustrato fin qui le ragioni per cui, al fine di ottenere il miglio-ramento della convivenza in Italia, è essenziale adottare il principio di separazione Stato religioni. Questa tematica, riferita a più campi, è assolutamente centrale in un progetto politico di cambiamento civi-le. Come credo risulti dalla trattazione, non è una prospettiva facile, anche se è indilazionabile. Richiede determinazione e accortezza per creare una progressiva e favorevole maturazione politico civile.

Il quadro, nonostante il Libera Chiesa in Libero Stato abbia porta-ta molto ampia, è di sicuro caratterizzato dalla presenza dell’articolo 7 della Costituzione e poi del vigente Concordato, che costituiscono un vincolo non piccolo con cui un progetto serio deve fare i conti. Perciò, insieme al predisporre questo tipo di maturazione e di battaglia po-litica, non è inutile esaminare anche la posizione che sullo specifico argomento possa tenere la Chiesa, che, al di là delle sue preferenze religiose, si mantiene sempre attenta alle convenienze pratiche.

Innanzitutto, si può fare riferimento ad alcune esperienze storiche in altri paesi. Tenendo sempre presente che, nei rapporti con il mondo,

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alla Chiesa non è mancato mai nei secoli il realismo del venire a patti. Fin da quando, nel 1122, la pace di Worms costituì, dopo un periodo di fortissime tensioni e guerre, il primo grande accordo di “separazio-ne” dei poteri dello Stato (il Sacro Romano Impero di Enrico V) e del-la Chiesa (del Papa Callisto II). Secoli dopo, gli Stati Uniti d’America sono nati costituzionalmente nel segno del principio di separazione Stato religioni e hanno sempre applicato con rigore la libertà religiosa. La Chiesa cattolica vi ha normalmente celebrato i suoi culti e svolta la sua opera di evangelizzazione. Alla fine, dopo più di un secolo e mezzo, nel 1948, i vescovi americani dichiararono apertamente il loro favore alla separazione tra Chiesa e Stato. Per l’aperta contrarietà di molti gruppi religiosi e cittadini americani, solo nel 1984 è poi arrivato un ambasciatore Usa in Vaticano. Anche in Belgio, per ragioni storiche differenti, il Concordato non c’è mai stato. Quel Regno, nato nel 1830 da un accordo tra cattolici e liberali che unì francofoni e fiamminghi, ha sempre adottato e praticato la libertà di religione e la Chiesa non ha mai sentito il bisogno di accordi pubblici in materia religiosa.

In Francia invece c’è stato un Concordato voluto da Napoleone I nel 1801. Poi nel 1905, vennero approvate, anche sulla scia delle ostilità anticattoliche seguite all’affare Dreyfus, le leggi di separazione con cui la religione diveniva un fatto privato, retto dalle norme sulla normale attività individuale e associativa. Il Vaticano protestò in modo vibrato con l’apposita Enciclica Vehementer nos. Dopo quindici anni di de-cisi contrasti furono ripresi i contatti diplomatici Francia Vaticano, e quest’ultimo nel 1924 (enciclica Maximam gravissimamque) riconobbe delle specifiche leggi per la Chiesa di Francia, peraltro senza abolire le precedenti condanne e senza accettare la laicità. Tanto che l’anno suc-cessivo l’enciclica Quas primas istituì la Festa di Cristo Re proprio per ribadire che non “v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È lui solo la fonte della salute privata e pubblica… Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria”. Lo scopo dichiarato del-la Festa di Cristo Re era “apportare un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.

Eppure, esattamente venti anni dopo, nel novembre 1945, i Car-dinali e i Vescovi francesi emanarono un importante riconoscimento della laicità. Scrissero: “Se con laicità dello Stato si intende proclamare la

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419Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

sovrana autonomia dello Stato nel suo dominio sull’ordine temporale, nel suo diritto a reggere da solo tutta l’organizzazione politica, giudiziaria, amministrativa, fiscale, militare della società temporale e, in un modo generale, tutto ciò che riguarda la tecnica politica ed economica, noi di-chiariamo nettamente che questa dottrina è pienamente conforme alla dottrina della Chiesa… Se la laicità dello Stato è una dottrina filosofica che contiene una concezione sistematicamente materialista ed atea della vita umana e della società, se queste parole, vogliono definire un sistema di governo questa concezione fin nella loro vita privata, alle scuole di stato, alla nazione tutta intera, noi ci leviamo con tutte Ie nostre for-ze contro questa dottrina”. Salta all’occhio che, anche se non si dice espressamente, i Cardinali e i Vescovi accolsero in pratica il principio di separazione tra Stato e religioni. Di fatti, esso non ha mai voluto essere una dottrina filosofica materialista e atea, tanto meno ha mai voluto imporla ai cittadini. Naturalmente i Cardinali e Vescovi francesi hanno usato la via di riaffermare la superiorità religiosa asserendo che la laicità è conforme alla dottrina della Chiesa (il che non è vero ap-punto sul principio cardine della sovranità del cittadino). Questo, dal punto di vista dello Stato separatista, esprime una mera convinzione personale (non il rifiuto di adempiere alle leggi dello Stato laico) e va benissimo.

La conferma della disponibilità a non fare del concordato una que-stione essenziale per la libertà della Chiesa, venne al massimo livello con il Concilio Vaticano II. Prima di tutto, nessuno dei documenti del Concilio Vaticano II fa riferimento esplicito ai concordati. In altre pa-role, il concordato non è assunto come strumento ineliminabile per la cooperazione con lo Stato (il che non significa ovviamente che la Chie-sa non continui ad usare vari generi di accordi per garantirsi la libertà in diversi paesi, quelli di tradizione concordataria, quelli ex comunisti, ed altri come Israele, contestualmente ai rapporti diplomatici, e come l’OLP, anche per rafforzare il dialogo interreligioso). Ma il Concilio è andato oltre. Nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, il capitolo 76, con i capoversi dal secondo al settimo, spiega in dettaglio che la Chiesa può rinunciare a quelli che ritiene propri diritti. Ecco il testo:

“La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana.

La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini…

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Quanto alla Chiesa, fondata nell’amore del Redentore, essa contribu-isce ad estendere il raggio d’azione della giustizia e dell’amore all’interno di ciascuna nazione e tra le nazioni. Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell’attività umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini.

Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori,… nell’eserci-zio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spes-so manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre.

Certo, le cose terrene e quelle che, nella condizione umana, supera-no questo mondo, sono strettamente unite, e la Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autori-tà civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni.

Ma sempre e dovunque, e con vera libertà, è suo diritto predicare la fede e insegnare la propria dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la propria missione tra gli uomini e dare il proprio giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime. E farà questo uti-lizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e in armonia col bene di tutti, secondo la diversità dei tempi e delle situazioni”.

È un testo essenziale per chi sostiene la tesi separatista. La strut-tura pastorale della Chiesa non pretende necessariamente il sistema concordatario e può accettare per convenienza un diverso rapporto purché in ambito civile venga garantita la libertà di religione. E la li-bertà di religione il separatismo la garantisce, anche se, dal proprio punto di vista, la fonda più correttamente sulla sovranità del cittadino. Tali parole hanno tale consistenza all’interno della stessa Chiesa, che, da allora, si è aperta una discussione circa l’opportunità generale di conservare lo strumento concordatario nei rapporti con l’autorità civi-le. Può essere che questo dipenda anche dalla preoccupazione di tipo spirituale secondo cui la collaborazione implica il rischio di distorcere sia l’animo della Chiesa che il ruolo dello Stato. Tuttavia pare prevalere la tendenza ad aver coscienza che il diritto costitutivo delle norme del-lo Stato garantisce, più e meglio dei patti a due, libertà ed autonomia di vita alla gerarchia e al popolo di Dio. La libertà religiosa è alla lunga

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421Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

più forte ed efficace di quanto non sia il privilegio alla religione della gerarchia, con cui da parte dello Stato è difesa la verità di fede.

Conferma di tale stato di cose si può reperire nelle parole di Gio-vanni Paolo II pronunciate il 17 ottobre ’91 al laicato cattolico brasilia-no nella Cattedrale di Campo Grande. I fedeli laici, disse il Pontefice, non possono assolutamente abdicare alla partecipazione alla politica e devono esercitare questa funzione con la piena autonomia personale di cui godono, quali cittadini della città terrena e come figli di Dio, liberi e responsabili. E specificò. “È un fatto evidente che un’interferenza di-retta da parte di ecclesiastici o religiosi nella prassi politica, o l’eventuale pretesa di imporre, in nome della Chiesa, una linea unica nelle questioni che Dio ha lasciato al libero dibattito degli uomini, costituirebbe un inac-cettabile clericalismo. Ma è anche ovvio che incorrerebbero in un’altra forma non meno pregiudiziale di clericalismo quei fedeli laici che. Nelle questioni temporali, pretendessero di agire, senza alcuna ragione o titolo, in nome della Chiesa, come suoi portavoce, o sotto la protezione della gerarchia ecclesiastica” (anche allora c’erano i teocon, i teodem, gli atei devoti). Giovanni Paolo II precisò ulteriormente: “abbiate il coraggio di assumervi la vostra libertà personale e responsabile e di intervenire atti-vamente nella vita politica… come cittadini guidato dalla loro coscienza cristiana. È certamente dovere e funzione dei Pastori della Chiesa aiutare a formare tale coscienza con i principi del Vangelo e la dottrina del Magi-stero. Tuttavia, nell’ambito dell’immensa varietà di opzioni che si offrono alla coscienza cristiana ben formata, siete voi che dovete definire Ie Vostre posizioni, fare Ie Vostre scelte – che nessuno ha il diritto di limitare – e impegnarvi, individualmente o insieme ad altri cittadini che condividono i Vostri stessi ideali, a promuovere un’azione vasta e profonda volta al retto ordinamento delle realtà temporali”.

Infine, ad un livello inferiore ma non infimo, la Conferenza Epi-scopale ormai dichiara ufficialmente di essere a favore della società multietnica. E, in una società multietnica, osservo, è naturale che nelle aule non ci sia il crocifisso quale simbolo religioso. Poi nel documento Instrumentum Laboris consegnato nel giugno 2010 da Benedetto XVI per il lavoro preparatorio del Sinodo dei Vescovi, assemblea Speciale per il Medio Oriente, previsto per la fine ottobre, è scritto al n. 37 “in Oriente, libertà di religione vuol dire solitamente libertà di culto. Non si tratta dunque di libertà di coscienza, cioè della libertà di credere o non credere, di praticare una religione da soli o in pubblico senza alcun impedimento, e dunque della libertà di cambiare religione. In Oriente, la religione è, in generale, una scelta sociale e perfino nazionale, non indi-viduale. Cambiare religione è ritenuto un tradimento verso la società, la

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cultura e la Nazione costruita principalmente su una tradizione religiosa”. Questo ragionamento non può che significare che la Chiesa ritiene di contrapporsi a tale concezione dell’Oriente di tipo comunitario. Allo-ra, nella effettiva situazione italiana, non è più sostenibile la necessi-tà di una pratica concordataria nei rapporti istituzionali con lo Stato. Perché la Repubblica Italiana garantisce di per sé con il proprio or-dinamento la piena libertà religiosa. Viceversa il Concordato, mentre non può aggiungere niente sul piano di detta libertà, provoca ogget-tivamente pesanti inquinamenti nella vita civile e attribuisce indebiti privilegi mondani alla religione cattolica.

Per reintrodurre in Italia una struttura istituzionale che applichi il principio di separazione tra Stato e religioni, ritengo si debba far leva anche su questi fermenti (e gli altri di cui ho parlato al capitolo 32.g), che esistono all’interno del mondo cattolico, in punto di dottrina pres-so una certa gerarchia e in punto di coscienza nel mondo dei fedeli. Resta però una necessità che è la precondizione di tutto. Ho citato la Gaudium et Spes che dice: “il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni”. Dunque in materia di Concordato la Chiesa non prende iniziative ma è disposta a valutare il come si realizza la propria testimonianza e quali siano le circostanze. Allora, si devono attivare i cittadini fautori del principio di separazione e sottolineare le già evidenti gravi difficol-tà civili indotte con il Concordato dallo spirito confessionale, che lo utilizza per interessi ben diversi dalla diffusione della fede. Le nuove circostanze non possono che essere anche frutto di una mobilitazione della coscienza civile, che, ricordando Croce, riconosce come “l’ascol-tare o no un messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza”. E non sia disposta a rinunciarvi.

La struttura istituzionale concordataria è distorta e provoca distor-sioni nella vita quotidiana. Ma tali distorsioni non interessano ai vari teocon, teodem, atei devoti, che preferiscono scambiare con interessi elettoralistici le strutture improntare al confessionalismo che limita-no il libero esercizio della libertà di coscienza dei cittadini. È quindi evidente che queste nuove circostanze non si determinano stando in poltrona. Come ha scritto Prosperi, “se i laici, i liberali non troveranno il coraggio di uscire da ‘gli atri muscosi, dai fori cadenti’ in cui oggi lan-guiscono o tutto sarà perduto, o la lotta finirà per doversi radicalizzare sempre di più”.

Occorre che il mondo laico, liberale e separatista, sappia fare quel-lo che da molti decenni è incapace di fare. Praticare con determinazio-ne la propria convinzione politica. Troppo spesso i laici, i separatisti,

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423Parte II – Il principio di separazione per convivere meglio

i liberali, hanno resa caricaturale la celebre distinzione di Weber tra etica della convinzione ed etica della responsabilità. Hanno ridotto la convinzione a sogno utopico (se ne parla a cena con gli amici fidati, in vacanza e in manifestazioni pittoresche) e ridotto la responsabilità ad opportunismo di giornata (esaminando solo le piccole convenienze spicciole, ignorando il merito e fuggendo i rischi). Hanno rinunciato alla propria identità politico istituzionale e hanno raccolto quello che hanno seminato: praticamente nulla. Oramai, è la realtà delle cose a ri-chiedere il separatismo. E sollecita chi nel separatismo ci crede, perché si impegni per modificare la situazione di oggi guardando al domani. Senza staccarsi dal mondo come è, senza rifugiarsi nella nostalgia di approcci vecchi e sterili e senza confondersi su quali siano gli avversari veri.

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parte iii impegnarSi per il SeparatiSmo,

verSo la convivenza aperta

35. La natura separatistadel Libera Chiesa in Libero Stato

Impegnarsi per la separazione tra Stato e religioni è, prima di tut-to, consapevolezza di lasciarsi definitivamente alle spalle la teoria dei Due Soli. Dante Alighieri la enunciò nel De Monarchia e in Italia è restata dominante per secoli. All’epoca, per far esprimere la felicità dell’uomo, ci si affidava all’Imperatore che doveva essere autonomo e in atteggiamento filiale verso il Papa. Dunque ci si collocava sul piano temporale, inteso come collaborazione tra i due poteri.

Teoria ove il potere della Chiesa era attinente il monopolio della fede, evocata dal Poeta con parole illuminanti nella Divina Commedia, “fede è sustanza di cose sperate ed argomento delle non parventi”.

Secoli dopo, abolita da parte del Regno di Sardegna e poi d’Italia la questione temporale, il principio del Libera Chiesa in Libero Stato ha rappresentato, in Italia, l’intuizione che, ai fini del dar corpo alla li-bertà materiale dei cittadini, eliminare il temporalismo era necessario ma non sufficiente. Cavour espresse questo concetto alla fine febbra-io del 1861, poche settimane prima del famoso discorso alla Camera, nelle istruzioni segrete ai negoziatori del Regno con il cardinale An-tonelli, Segretario di Stato di Pio IX: “finché il principio del potere da un lato e quello della tutela della Chiesa dall’altro dureranno… nessuna concessione reciproca che non implichi l’adozione leale e compiuta della massima Libera Chiesa in Libero Stato sarà efficace. L’era dei Concordati è passata”. E ciò, sottolineava, con l’obiettivo “di porre fine alla grande battaglia fra le civiltà e la Chiesa, fra la libertà e l’autorità”.

Libera Chiesa in Libero Stato poggia sull’idea che separare lo Stato dalle religioni è un passo ineludibile verso l’autonomia e la felicità del cittadino. Lo è perché ribalta la concezione che era stata dominante

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per secoli, secondo cui ogni parte del mondo, uomini e cose, rientra in una logica sovraordinata, rivelata tramite una certa autorità religiosa, che le leggi terrene dovevano limitarsi ad applicare. Il nuovo principio afferma invece che anche nel campo delle istituzioni civili, come già in quello scientifico, l’essenziale non è accapigliarsi sulle origini e sul-la divinità bensì discutere e confrontarsi in modo tollerante sul come risolvere i problemi della convivenza nel mondo, secondo criteri speri-mentali e senza bisogno dell’ipotesi dell’azione di Dio.

La consapevolezza di tutto ciò è maturata sviluppandosi dal prov-vedimento iniziale in cui era implicita. A fondamento dello Stato è stata introdotta la sovranità tollerante del cittadino invece che una fede. L’introdurre la sovranità tollerante del cittadino ha poi schiuso alla possibilità di accogliere una serie di ulteriori conseguenze. La più immediata è stata la congerie di innovazioni circa il modo di conoscere e quello di concepire lo Stato e il confronto civile.

Introdurre la sovranità tollerante del cittadino al posto della so-vranità della fede, ha portato a far sì che l’Istituzione separatista fosse sempre meno sovrastante al cittadino e tendesse a divenire essa stessa espressione del cittadino. Questa valorizzazione strutturale del citta-dino, non assume che l’individuo sia più importante perché perfetto. Al contrario, ne presuppone i limiti evidenti e si dispone a riconoscere che le identità dei cittadini sono tante e tanti i pareri. Accetta tutto questo, avendo constatato che per la convivenza è più efficace affidarsi alle iniziative dei cittadini e al rispettivo competere collaborativo. L’ef-fetto è che, riuscendo a conoscere di più le cose del mondo, si miglio-rano le condizioni della convivenza.

Constatare questi fatti voleva però dire anche accettare una dif-ferente concezione di cosa significhi conoscere e di come procedere per ottenere conoscenza. La conoscenza non era più racchiusa solo nelle opere dei predecessori ma si allargava al mondo come è, fisico e interpersonale. E il processo di conoscere non era solo più lo studio di quelle opere ma il comprendere i meccanismi del reale tramite lo sperimentare su di esso.

Questo processo e la molteplicità delle identità e dei pareri, rende-vano essenziale, al fine di poter far funzionare il meccanismo in modo costruttivo, la tolleranza e la propensione al cambiamento. Nella logica separatista, la tolleranza non è revocabile e non è semplice galateo. È molto di più e di diverso. È il metodo irrinunciabile per convivere e per collaborare nella concorrenza. Il filosofo Giorello ha descritto con grande efficacia il valore de “la pratica della tolleranza concepita come componente costitutiva di un “patto” rispettoso delle scelte dei singoli

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427Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

contraenti. È solo tale componente che rende gli aderenti al patto non sudditi, bensì cittadini di una società aperta e libera”. E lo ha specificato: “la tolleranza non è un’utopia irrealizzabile in alcun luogo e in alcun tempo, ma uno strumento efficace perché possa nascere e conservarsi una società libera e aperta – libera, in quanto ammette per qualsiasi opinione o forma di vita il diritto a una pubblica difesa; aperta, in quanto è costi-tutivo del patto il rispetto di chi opta per entrare come di chi opta per uscire”.

Va anche osservato che la tolleranza è un’altra faccia dello spirito laico del dubbio, non è un dogma rituale o uno slogan senza spessore. Sempre Giorello ha scritto che il valore della tolleranza “occorre ricor-darlo oggi più che mai, poiché da destra come da sinistra, da reazionari come da progressisti, da chierici come da “laici”, la tolleranza viene so-spettata di paternalismo, condiscendenza e (più o meno celato} senso di superiorità”. La tolleranza influisce sotto due aspetti. Accetta in pieno il valore della diversità, agendo contro il mito della identità comuni-taria, ed evita il chiudersi dell’individuo nella presunzione di potersi imporre all’altro.

Già la tolleranza era rivoluzionaria. Poi venivano i nuovi parametri del modo di conoscere. La ragione, fondata sul modo empirico dello sperimentare, e le implicazioni connesse. Se il modo di conoscere si spostava sempre più sul fare esperimenti circa la realtà per capirne il significato, ciò voleva dire che sempre meno l’ultima parola era ri-servata ai predecessori e che l’essenziale stava divenendo il risultato dell’esperimento. E se nuovi esprimenti fornivano risultati differenti nel tempo (o in differenti condizioni di spazio come aveva indicato Da-vid Hume), occorreva adeguare le ipotesi in modo conforme all’espe-rimento nuovo, sempre salvo successive conferme. Questo sistema di conoscere equivaleva ad accettare che non c’era più la conoscenza asso-luta e che ogni conoscenza era strutturalmente provvisoria, nel senso di valida fino a prova contraria. Ne emergeva una filosofia di vita aper-ta, la quale, a livello di convivenza pluralista, non si poneva il problema di rispondere alle domande metafisiche (perché, travalicando i limiti dell’autonomia umana, non potevano avere risposte verificabili), bensì quello di trovare norme più efficaci del convivere nella città terrena valorizzando conoscenza, conflitti regolati e responsabilità critica in-dividuale.

Inoltre, conoscere non escludeva in via di principio la fallibilità. Anzi, in un certo senso ne dipende, sostenne Mill in Sulla Libertà. Per-ché il motore della conoscenza si trova nel controllo dell’esperienza. Popper mostrerà che la conoscenza è scientifica solo se è falsificabile,

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cioè se è pensabile un esperimento che dimostri la sua falsità. L’ado-zione di questo strumento conoscitivo della scienza è intrinseca nella logica del separatismo. E gli attacchi al separatismo, aperti o dissimu-lati, trovano la vera ragione sul punto. Le asserzioni delle religioni non rientrano in questo processo conoscitivo, perché non possono essere verificate. Sotto tanti aspetti e prima di tutto su due aspetti essenziali: il tempo e la rivelazione.

Non possono essere verificate sul tempo (e in tempo) perché si presuppongono sempre vere, quindi non è possibile architettare un esperimento falsificante. Dunque, le conferme delle asserzioni non resterebbe che cercarle materialmente nei fatti. Però, dovendosi sot-toporsi anche alle successive verifiche dei fatti, queste conferme sa-rebbero destinate a non finire mai e così in tempi umani l’argomento di fede è indimostrabile. Del resto le materie di fede, trattandosi di materia rivelata, sono date a priori e perciò esulano dalla conoscenza sperimentale. Al riguardo ricordo le esplicite affermazioni della Co-stituzione dogmatica conciliare Dei Verbum, già trattata nel libro in particolare al capitolo 27. Insomma, le asserzioni delle religioni sono una conoscenza di altra categoria rispetto alla conoscenza scientifica, sono ritrovarsi nella ortodossia indiscutibile.

La sovranità tollerante del cittadino è essenziale non solo per age-volare il confronto all’interno del nuovo processo di conoscere (“senza intersoggettività dell’intendersi non c’è oggettività del sapere” ha scritto Rusconi), ma anche per la convivenza piena con chi vuole di più. E cioè quelli che sono soddisfatti di questo nuovo processo ma non lo ritengono esaustivo al di fuori delle materie civili oppure quelli che non ne sono del tutto soddisfatti perché vorrebbero avere qualche maggior certezza dall’esistere oppure quelli che non ne sono per nulla soddisfatti volendo tornare alla mitica età dell’oro o altrimenti so-gnando di cullarsi in una utopia. Nella logica separatista, la tolleranza è indispensabile per far convivere le diverse identità. Ma non significa relativismo. C’è la certezza del dato sperimentale, come ho detto. E, per quanto attiene lo Stato, la separazione significa adottare il dato empirico come fattore ineliminabile della ragione. E, di nuovo con le parole di Giorello, adottare l’indifferenza del “non frugare nelle co-scienze, e limitarsi a garantire la pacifica coesistenza delle più diverse forme di vita”.

Invece, la logica concordataria rappresenta nella forma e nella so-stanza il rifiuto della impostazione separatista del Libera Chiesa in Libero Stato. Nella forma, perché il fatto stesso di un richiamo con-cordatario nella Costituzione ha inserito un corpo estraneo nel quadro

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429Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

dei complessivi valori costituzionali (tanto che, si è visto più volte nella Parte I, la Corte Costituzionale, seppur con tanta cautela, è indotta ad un’opera faticosa di adeguamento in supplenza della politica). Già que-sto è un grave elemento di incertezza destabilizzante e di blocco alla libera circolazione nelle idee e nei rapporti, che tarpa la politica e diso-rienta i cittadini. Nella sostanza, poi, perché la forma non separatista è di per sé stessa invadente, nel senso che induce a poter considerare ogni pronunciamento della Chiesa come un’ingerenza che eccede il patto, anche quando non lo è. È già una complicazione molto negativa dal punto di vista della convivenza perché ostacola quel confronto tra le parti che invece rappresenta un fattore rilevante. Anche dal punto di vista della Chiesa spirituale, per usare le parole della Gaudium et Spes “può far dubitare della sincerità della sua testimonianza”.

Il separatismo assicura la libertà ad ogni cittadino, singolo od as-sociato, di avere la sua Chiesa o di non averla, di dichiararlo o di non dichiararlo. La garanzia pratica la dà la cittadinanza sovrana. Invece il Concordato, poiché presuppone che il patto tra Stato e Chiesa sia in-dispensabile per convivere, riduce molto (quasi annullandolo) il diritto dello Stato di non essere di nessuna Chiesa. Che invece è un diritto importantissimo per consentire libere istituzioni pubbliche, tali da far circolare idee, persone e merci (che sono poi il fondamento dell’Eu-ropa). Il separatismo non è un sistema di convivenza come un altro. È quello che attiva la convivenza aperta tra i cittadini, utilizzando l’au-tonomia individuale, la ragionevolezza del confrontarsi con gli altri, il poter realizzare la libertà, con ciò costituendo una base solida per cementare lo stare insieme. Così la convivenza è spinta al massimo, con un meccanismo che naturalmente evita la chiusura della circolazione tra i cittadini. Il separatismo svolge una funzione analoga a quelle del principio antimonopolistico nel settore economico e dell’imposta suc-cessoria nei rapporti tra famiglia e società. In mancanza, si minano in modo progressivo e grave le funzionalità della libertà civile.

Senza dubbio il separatismo è liberale, nel senso che chi è davve-ro liberale adotta fisiologicamente il separatismo tra Stato e religioni (perché, con le parole di Castellacci e Pievani, “laicità è autosufficienza conoscitiva della natura umana e del mondo, a prescindere da fondamenti trascendenti, e autonomia nella definizione delle norme di comportamen-to morale”). Però niente impedisce che utilizzi il separatismo anche chi appartiene ad altre culture politiche. A condizione, beninteso, che non voglia imporre ai cittadini, singoli ed associati, alcuna regola religio-sa o comunitaria e non voglia attribuire alle organizzazioni religiose o comunitarie qualche privilegio e legarle con qualche vincolo, salvo

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quelli che nella libera convivenza valgono per ciascuno. Lo dice l’espe-rienza empirica. Ed inoltre è il solo modo per lasciar libera la religione e insieme per non arrivare alle guerre di religione oppure a quell’uso politico della religione, che è l’anticamera della strada che porta alle guerre di religione.

Il separare Stato e religioni rientra nel filone di scuola liberale per cui, per far vivere al meglio la società, è opportuna una progressiva suc-cessione di separatismi a partire dalla separazione base (ogni cittadino individuo dall’altro) con due pecularietà. Che le aggregazioni poste-riori alla prima non rinnegano mai la caratteristica base e il passaggio precedente. E che la separazione è distinzione e non isolamento. Un simile accorgimento separatista consente il proliferare di opinioni ed anche etiche diverse e il proficuo confliggere democratico dei diversi punti di vista ed iniziative. Stabilito quale è l’ambito della discussione, quali sono gli obiettivi in gioco, il confronto è aperto e non c’è niente di prestabilito eccetto una cosa: si adotta il metodo sperimentale dei fatti. Quindi le diverse etiche possono bisticciare tra di loro ma non su questo. O più esattamente. Possono privatamente mettere in dubbio anche questo, ma finché non ne adducono una falsificazione concreta, il metro pubblico resta quello sperimentale. Le convinzioni spirituali sono pienamente ammesse ma non come surrogato indimostrato del dato sperimentale. Anche perché il dato sperimentale, in nome del se-paratismo, non pretende di valere come convinzione spirituale.

Dopo, le idee e le proposte in gioco si decidono sui risultati, non esiste qualcuno o qualcosa che, al posto degli altri, stabilisce cosa deve essere fatto. “Siamo stanchi dei vari pastori dell’Essere (con la ma-iuscola o meno)” è sbottato Giorello. Del resto anche Einaudi, nelle Lotte del lavoro pubblicate nel 1924, nel periodo nascente del fasci-smo che si fondava sulla remissiva voglia d’ordine senza politica della “gran massa borghese”, aveva scritto parole chiarissime e tipicamente separatiste: “È preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore. La soluzione imposta dal padrone, dal governo, dal giudice, dall’arbitro nominato d’autorità può essere la ottima; ma è tenuta in sospetto, appunto perché viene da altri. L’uomo vuole sapere perché si decide e vuole avere la illusione di decidersi volontariamente. Bisogna lasciare rompersi un po’ le corna alla gente, perché questa si persuada che lì di contro c’è il muro e che è vano darvi di cozzo. Nella lotta e nella discussione si impara la forza dell’avversario, a conoscerne le ragioni, a penetrare nel funzionamento del congegno che fa vivere ambi i contendenti. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita”.

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431Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

Per le medesime ragioni, non possono oggi stabilire il da farsi nep-pure le comunità etniche, degli immigrati e quelle degli italiani. Farlo porta diritti a bloccare la circolazione sociale ed il confronto delle idee e delle persone nell’ambito della cittadinanza. Questo pericolo è forse più immediatamente percepibile se riferito alle comunità di immigra-ti. Ma è ancor più incombente quando riferito alle comunità italiane. Il professor Escobar ha scritto: “i patrioti leghisti sono fieri della pro-pria comunità etnica, a prova di dubbio. Un insieme solidale e non un conglomerato indiscriminato e aperto di individui dissociati dalle loro tradizioni. A legare una società, o meglio un insieme, servirebbero le re-lazioni che, nella «continuità temporale del sentimento di appartenenza» si stabiliscono «con gli antenati e con i figli non ancora nati» e che si ma-nifestano vuoi nel generico amore per la patria, vuoi nei più tecnici riti di fecondità e culto dei morti. Come definire, se non olistico, questo legame sociale? Lo qualificano non l’identità, la dignità, la libertà dei singoli, ma una supenore totalità naturale e sacra, che dei singoli determina il ruolo e il valore, e che all’occasione glieli revoca. Lo stato smette così di essere uno spazio di neutralità, un luogo affrancato dalle pretese di qualunque assoluto e di qualunque ideologia, e perciò volto alla tutela della vita e della libertà d’ognuno, e del suo diritto d’avere, coltivare e praticare (se lo crede) un proprio assoluto e una propria ideologia. Insomma, lo stato smette d’essere laico”.

36. Differenze tra Stato separatista e istituzioni religiose

Tutti questi aspetti del separatismo  –  individuo, libertà, tolle-ranza, conoscenza, conflitto democratico – confermano anche l’altra grande ed incommensurabile differenza tra lo Stato separatista e le istituzioni religiose, nella specie la Chiesa cattolica: come concepire il tempo. Lo Stato separatista è immerso nel tempo per utilizzarne le opportunità costruttive, mentre l’istituzione religiosa è in contatto con il contingente aspirando a superarlo per uscire dal tempo e ricon-durlo alla rivelazione. Queste diversità si riflettono anche sul modo di concepire il rispettivo proselitismo. Non è neppure più la questio-ne, su cui pure il separatismo è arrivato moltissimo tempo prima, della adesione che maturi in coscienza e non per imposizione. Dopo il Concilio Vaticano II, la consapevolezza di questa necessità è molto cresciuta, almeno sul piano teorico, anche all’interno delle gerarchie e del popolo di Dio. La diversità è proprio sul modo di concepire il tempo.

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Il separatismo, secondo il filone liberale, opera costruendo le isti-tuzioni sulla base di astrazioni dal reale (cioè sulla base di una cosa concretissima, il cercare di coglierne l’essenza fisica ed umana) e di idee propositive per meglio usare il tempo. Lo fa nella consapevolezza di cosa implichi intrinsecamente. La stessa capacità di intervento in-terpretativo della realtà porta a costruire strutture il cui mutamento ruota intorno al manifestarsi della variabilità individuale. E così lo scorrere del tempo è inserito dentro, almeno in parte, alle istituzioni costruite, si palesa nel loro evolversi e nel fisiologico rinnovarsi nella partecipazione e nei rappresentanti. Questo può attendersi il neofita che adotta il separatismo la prima volta; uno sviluppo non prestabilito e nelle grandi linee conseguente il succedersi delle iniziative indivi-duali.

La Chiesa, per contro, opera perché le sue istituzioni e il mondo esterno si modellino il più possibile sulla moralità del messaggio del Dio e sugli insegnamenti eterni della dottrina ecclesiale. Moralità e insegnamenti che non si propongono di conoscere di più la natura e l’uomo, attraverso il processo di astrarre dal reale, bensì di utilizzare i secolari rapporti sociali, intrisi di paure dell’ignoto e di speranze di giustizia trascendente, per diffondere l’applicazione della loro dottri-na. Il pernio dell’offerta è la fede in ciò che prima è già stato fissato (ne è conferma quanto riportato nel capitolo 28, cioè il passaggio sulla libertà che non contempla il regno del bene, contenuto al punto 24b dell’enciclica Spe Salvi). Il neofita confessionale non aspira al futuro salvo che per esser degno di chi lo ha preceduto. Aspira a costruire più grande e più bello il monumento che già c’è, piuttosto che percor-rere le strade del mutamento. Secondo la Chiesa, si opera nel tempo per ingessarlo accuratamente e poi negarlo. Il tempo della vita sarebbe solo una umanità ripiegata nella contingenza, che non crede possibili innovazioni rispetto a quella moralità e a quegli insegnamenti. È una ricerca con passione della divinità che già si è manifestata.

Tra parentesi, mi pare qui sorgano diversi aspetti. Guardando le cose da fuori possono essere ritenute non del tutto infondate le lamen-tele provenienti dall’interno del popolo di Dio sulla poca spiritualità di fatto della Chiesa senza Cristo, come loro dicono; ma questo dal punto di vista di non credenti o di credenti solo spirituali; invece, se a formulare tali critiche è il credente nella Chiesa, non appaiono critiche molto ragionevoli, siccome la religione della Chiesa cattolica prevede appunto l’autorità religiosa della istituzione che deve esercitare la mo-ralità e gli insegnamenti quale rappresentante del Dio in terra. Chiusa parentesi.

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433Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

Dunque la Chiesa vampirizza il tempo. Non perché rifiuti le qualità di quanto emerge dalle cose che sono nel tempo. Piuttosto perché ten-ta di assorbirle ed insieme si rifiuta di ricavare la natura del tempo per inglobarla almeno parzialmente nelle proprie strutture. Insomma evita di assorbire la natura del tempo negandola per fede. Ancor meglio (dal suo punto di vista) utilizza quanto è prodotto nel mondo per irrobusti-re il suo modo di essere, modellato incrollabilmente su una rivelazione eterna. La Chiesa si occupa e si preoccupa del cittadino perché più efficacemente possa adeguarsi alla fede rivelata, nella convinzione che ciò costituisca la salvezza divina per lui, altrimenti destinato al cata-strofismo morale. Talvolta, quasi per mimetizzare le proprie posizioni, cerca di sostenere che quanto sostiene è solo un diritto naturale. Ma per dirla con le parole icastiche del libro Sante Ragioni di Castellacci e Pievani “l’univocità del diritto naturale è una finzione storica: nelle diverse epoche è stato considerato naturale tutto e il contrario di tutto”. Questo attaccarsi sempre al rivelato attendendo da esso le spiegazioni della realtà piuttosto che dalla ricerca, è anche la radice del costante ritardo della Chiesa sulla conoscenza terrena e umana (e spiega perché è destinata ad essere in ritardo ogni costruzione chiusa, religiosa o non religiosa che sia). Pretende di inquadrare storia e cronaca nella cornice del millenarismo della verità, del buono e del giusto. La fede assorbe la storia perché assume di affidarsi alla rivelazione divina, non alle scoperte degli uomini. E pone continui e assillanti interrogativi sui correttivi all’avanzare della tecnica scientifica. Lo fa per porsi in sintonia con la paura dell’ignoto e riconquistare il terreno perduto dalla rivelazione. Non intende affatto, con ciò, rinvigorire il sempre indispensabile spirito critico e arrivare alla falsificazione del noto che è la fonte del progredire insita nella scienza.

Tra la visione separatista laica e la visione religiosa esiste una gran-de diversità. Il loro interloquire è fecondo davvero solo se l’una non invade il campo dell’altra. Ora, il separatismo evita per vocazione di invadere il religioso, la Chiesa di oggi afferma che la morale confor-me ai precetti religiosi dovrebbe plasmare le leggi (e già qui si rischia il tifo per l’invasione), i cattolici chiusi  –  nella medesima accezione convenzionale descritta alla fine del capitolo 24 e utilizzata anche in questa terza parte – vogliono far modellare ai criteri religiosi le que-stioni istituzionali (l’invasione piena del confessionalismo). Eppure esistono documenti ufficiali della Chiesa che contrastano sia con il fare il tifo per l’invasione che con l’invasione del confessionalismo. Per il confessionalismo penso, ad esempio, al chiarissimo discorso in Brasile di Giovanni Paolo II (capitolo 34), per il tifo penso al punto 43

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della Centesimus Annus, che, nel ribadire qualcosa che è già un punto fermo nel modo di porsi rispetto alla politica civile («la Chiesa non ha modelli da proporre”), afferma, come ho già segnalato al capitolo 30.c, che “i modelli reali e veramente efficaci possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano tra di loro”. Questo significa che i modelli istituzionali non possono essere religiosi, né in quanto propo-sti dalla Chiesa (che non ne ha da proporre) né determinati dalla reli-gione (che l’enciclica non include tra gli aspetti opportuni per creare i modelli efficaci). Sarebbe essenziale prenderne atto. E prendere atto che questi ragionamenti non hanno niente a che vedere con la logica concordataria (che ha una sua ragion d’essere come trattato difensi-vo per la religione e quindi non ne ha nessuna in Italia). Ed inoltre costituisce quasi l’esatto contrario di come operano in Italia teocon, teodem, atei devoti e in genere i cattolici chiusi.

Il fatto che i modelli istituzionali non possano essere religiosi – e an-cor più l’accettazione di tale criterio nella dottrina della Chiesa – mette bene a fuoco la ragione per cui l’atteggiamento dei cattolici chiusi è completamente fuori misura sul piano civile. Tentano di far confusio-ne sostenendo che lo Stato non deve essere indifferente alla religione. Ma questo può avere un senso solo se vuole sottolineare che lo Stato non deve porre al bando la religione nella convivenza. Per tale motivo lo Stato separatista applica in modo fermissimo la libertà di religione. Ma applicare la libertà di religione non può voler poi dire privilegiare una religione sull’altra, imporre di avere una Chiesa oppure di non averne alcuna. In questo senso lo Stato separatista è indifferente (“non frugare nelle coscienze e limitarsi a garantire la pacifica coesistenza”). In-vece i cattolici chiusi non vogliono questa situazione. Negli anni hanno ripetutamente voluto, e vorrebbero ancora, modellare lo Stato secondo un credo religioso, identificare il cattolicesimo con il patrimonio ita-liano, contrapporre lo Stato-comunità allo Stato-individuo, sostenere concretamente le attività religiose. Oggi, l’associazione Centro cultu-rale Lepanto predica l’idea espressa da San Francesco di Assisi, ripresa dalla Rerum Novarum, e riecheggiata nella Lectio di Ratisbona, che la novità è il male, che “cambiamento significa secolarizzazione della cultu-ra, dissoluzione della natura umana, annullamento dell’esistente, insom-ma tirannia dell’incertezza, dell’insicurezza e del caos”.

Che i cattolici chiusi preferiscano non accettare la logica sperimen-tale dello stare ai fatti, sarebbe del tutto coerente con la tolleranza della separazione Stato religioni. Ne hanno il diritto. Ma non hanno

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435Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

il diritto di premere affinché le istituzioni fuoriescano dalla logica se-paratista, pretendendo, in nome di un credo, di imporre anche agli altri di non seguire quella logica o di ostacolare la loro possibilità di seguirla. Il fatto che chi ne sente il bisogno possa tranquillamente in-terrogarsi sulle connessioni tra fede e ragione, non significa affatto che, nell’ambito della logica empirica, questi siano interrogativi concepibili. Non lo sono per i motivi che ho già trattato al capitolo 32.b. Lo stesso vale nell’ambito delle istituzioni separatiste. Interrogativi del genere possono essere posti in pubblico, ma non fanno parte del reale dibat-tito pubblico ai fini delle pubbliche scelte, nel senso che appartengono alla logica di un altro piano. Se si pretende di applicarli sul piano isti-tuzionale, la loro logica corrode le regole della convivenza.

A parte i facili giudizi di opportunismo politico spicciolo, quando i teocon e gli atei devoti sostengono la tesi del modellare la società sul principio del Velut si Christus daretur, il loro tentativo è letteralmente antistorico, cioè va contro la realtà della storia e dell’individuo così come sono venuti maturando nel tempo. Non per caso sostengono tale principio con argomenti che cercano di valorizzare come laici dei sedicenti laici che laici non lo sono (“per questi laici, che vedono il re-lativismo e lo scientismo come minacce, esiste la verità, esiste la natura umana, esistono i valori non negoziabili, esiste la salvezza”). Sostenere cose del genere è un perfetto esempio di come anche persone istrui-te possano perdere il senso della logica ed affastellare parole avulse dalla semantica. Danno per scontato per il termine laico il signifi-cato antico del termine (“fedele” non appartenente alla gerarchia) e non quello moderno (“cittadino autonomo” nel mondo civile), così da poterlo accoppiare alla repulsa del relativismo (oggi impossibile per chi stia alla realtà) e dello scientismo (intendendo arbitrariamente la scienza), all’esistenza della verità e della salvezza (che o sono del tutto circoscritte e prive di interesse strutturale oppure sono dei concet-ti religiosi cardine). Si tratta di argomenti che, come espressione del fideismo (anche se lo si ritiene irrealistico), hanno piena dignità ma che altrimenti costituiscono delle mistificazioni e delle fughe dalla convivenza civile fondata sul libero cittadino. Oggi, nei rapporti civi-li, la questione della natura e la questione dei diritti dell’uomo stanno separate dalla questione di Dio.

Quando nel seicento Locke parlava della ragionevolezza della re-ligione cristiana, si riferiva alla religione che non confliggeva con la razionalità (e per questo non includeva i cattolici tra i cristiani). La separazione degli ambiti e delle caratteristiche – che in generale si ac-compagna al percorso di comprensione della centralità del cittadino

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e del valore delle diverse identità – diviene fortemente necessaria nel caso di materia religiosa. Non per negare che in Italia vi sia un’origi-ne cristiana ma per affermare che lo spirito e le idee moderne sono poi maturate attraverso processi di laicizzazione della convivenza caratterizzati dalla non rilevanza istituzionale dell’ipotesi dell’azione creatrice. Quando si inneggia al Velut si Christus daretur nello Stato, si spalanca la strada alla rinascita dei movimenti confessionali. Quei movimenti che si sentono struggere se non stabiliscono la natura fissa ed immutabile, l’identità unica, delle cose e delle persone. Il loro pro-blema sta proprio qui. Che seguono questo loro struggersi in barba all’evidenza. Se si verificano discrepanze, ci sarebbe qualcosa che non va nell’evidenza. Questa è purtroppo una caratteristica dominante del mondo dei religiosi integralisti. E di fatti, le religioni più impermeabili all’integralismo, come il buddismo, accettano viceversa cambiamenti derivanti dal progredire della scienza.

Non è neppure finita così, nel senso che la situazione internazio-nale porta un’ulteriore testimonianza della necessità di star lontani dal mischiare Stato e religioni. Nell’ultimo decennio si è sparso in molte zone il germe dell’uso politico radicale della religione. Non si può far finta di non vedere quali siano gli sbocchi della religione po-liticizzata. I cattolici chiusi non lo negano ma cercano di rassicurare affermando che il caso italiano è molto diverso e che loro non sono degli estremisti radicali. Il che è anche fondato pensando alla loro umanità personale. Solo che le tesi dei cattolici chiusi, anche ininten-zionalmente, innescano logiche che contengono la supremazia della comunità, il non rispetto della sovranità del cittadino, il marginaliz-zare chi è diverso, l’esaltare i valori di una unica identità religiosa, il rifiutare la realtà sperimentale. E simili principi sono lo scivolo verso i fondamentalismi.

37. Gli antiseparatisti, i cattolici chiusie la sinistra magmatica

Il fondamento dei diritti del cittadino e della sua sovranità tolle-rante sono il processo per porre progressivamente la libertà individua-le al centro della convivenza. Un processo che è assai più complesso e lungo del pur importante schema emerso con la Rivoluzione Fran-cese (libertà, uguaglianza, fraternità). Ed anche del dibattito sul suo corrispondere all’originario messaggio cristiano e in quale misura. Tra l’altro, un messaggio da allora ulteriormente precisato ed evoluto.

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437Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

Ormai è divenuto chiaro che le tre qualità sono riferite al cittadino in modi diversi. La libertà coinvolge direttamente il cittadino stesso (tutti), l’uguaglianza riguarda i diritti del cittadino, la fraternità con-cerne i rapporti tra i cittadini. Il che vuol dire che, per essere coerenti con l’impostazione dello schema, non è consentito aggirare la figura dell’individuo, collettivizzandola (uguaglianza diretta dei cittadini) o facendone oggetto comunitario o religioso (fraternità sovraordinata ai cittadini). Se poi l’individuo con queste prerogative della Rivoluzione Francese sia lo stesso dell’originario messaggio cristiano, non riguarda il problema della convivenza politica ma il problema religioso.

Ne consegue che, mentre ha senso dichiarare conclusa l’esperien-za marxista per il suo effettivo, anche se in origine non voluto, esser contro il cittadino, mentre ha senso dichiarare che il comunitarismo è una convivenza chiusa che imprigiona il cittadino, non ha più sen-so polemizzare sui delitti contro la libertà che nel corso dei secoli ha pur commesso la Chiesa. Le polemiche erano motivate contro quella Chiesa temporale oggi non più esistente in linea di principio e quegli stessi episodi divengono un dibattito interno alla consapevolezza dei credenti. Nelle istituzioni separatiste le religioni possono liberamente sostenere le proprie fedi, i cittadini possono aderirvi o contestarle, la politica e le istituzioni non trattano delle fedi e, nei luoghi ove si eserci-ta la funzione pubblica, applicano la neutralità garantendo al cittadino di non venire obbligato ad uniformarsi alle predicazioni religiose.

Dunque sul piano istituzionale il Velut si Christus daretur ha solo un significato, voler tornare al passato. I tentativi di tornare indietro dal separatismo attraverso il Concordato, sono stati errori che hanno rimesso in discussione la sovranità del cittadino e la sua libertà. E lo sono ancora. In genere l’arretramento della cultura separatista e libe-rale danneggia più la convivenza che non la cultura di per sé, dato che, con il tempo e attraverso strade molto disagiate, la forza della libertà del cittadino riesce comunque a farsi sentire. Ma nel frattempo milioni di cittadini in carne ed ossa hanno sofferto e soffrono criteri di convi-venza arretrati ed ambigui. L’errore storico del voto sull’articolo 7 della Costituzione sta appunto nell’aver ragionato in termini di compromes-si legislativi nel nome di un fantomatico realismo. Intanto erano “uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico” come disse Croce, e per di più erano del tutto disattenti alle conseguenze.

Addirittura, una parte non piccola del mondo cattolico aveva pun-tato dichiaratamente, alla Costituente e dopo, a superare la concezione basata sul cittadino individuo per introdurre quella dei gruppi sociali in sostanza a lui sovrastanti (lo riconosceva già trenta anni fa, in una

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introduzione ai discorsi di Cavour, lo storico dell’ortodossia cattolico democratica, Scoppola). Quanto alla sinistra di provenienza marxista, non coglie i fondamenti del principio di separazione, tanto da ritenerli patteggiabili per tener conto “delle preoccupazioni espresse dal ponte-fice e dalle alte gerarchie della Chiesa. Mi pare che nella storia italiana, si trovò il modo di arrivare a una combinazione delle diverse sensibilità quando si scrisse l’articolo 7 della Costituzione» (parole pronunciate nel gennaio 2007 dal Presidente della Repubblica Napolitano, nonostante si sia dimostrato, fin dal suo discorso di insediamento, molto sensibi-le alle personalità e alle tradizioni liberali). Sembra non si percepisca che patteggiamenti del genere sono concepibili solo nell’ottica di una convivenza obbligata tra avversari ed ostacolano una convivenza tra cittadini con fedi differenti (di fatti, l’articolo 7 induce in pratica le istituzioni a focalizzarsi sul problema religioso, al punto che, nel di-cembre 2009, il Segretario di Stato Cardinale Bertone ha definito il re-lativo discorso di Togliatti alla Costituente “un discorso da padre della Chiesa”). È come se, per malinteso realismo, si rinunciasse ai contenuti concreti della convivenza pluralista, iniziando col sorvolare sul dato essenziale che i diritti individuali devono essere riconosciuti come pre-valenti sui diritti identitari di una comunità.

Ai diritti individuali, i cattolici chiusi rinunciano allegramente. Non si può pensare che, anni fa, un filosofo cattolico come Possen-ti abbia scritto, senza rendersi conto, che dalla Costituente “emerse il disegno di uno Stato laico come uno Stato aconfessionale, le cui istituzio-ni – mentre non esprimono una propria autonoma produzione di valori, imposta alla società – hanno uno scopo e un fondamento nell’uomo e nei suoi diritti e doveri. Lo Stato laico non è uno Stato neutrale e agnostico”. La realtà è l’esatto contrario. Quella di Possenti è una rinuncia felpata e consapevole ai cardini di una convivenza pluralista. Infatti, lo Stato laico si fonda sull’uomo cittadino e la sua libertà, e quindi è neutrale ed agnostico, per cui favorisce il pluralismo. Quello italiano non è del tutto laico perché l’intromissione dell’art. 7 – anche se, usando il lin-guaggio di Possenti, non è riuscita ad imporre alla società dei valori di stato – ha lasciati i suoi germi sparsi dappertutto, innescando una serie di continue tensioni con chi propende a reintrodurre pratiche temporalistiche. Tra l’altro sia chiaro che lo Stato neutrale è di sicuro aconfessionale dal punto di vista religioso, mentre lo Stato aconfessio-nale non è per nulla detto che sia neutrale rispetto ad ogni confessione religiosa; altrimenti, se non fosse così, i cattolici chiusi non avrebbero ragione di sofisticare di continuo sulle differenze tra Stato neutrale e Stato aconfessionale.

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Comunque, che i cattolici chiusi usino questi artifizi, oltre che nel loro pieno diritto all’interno della logica separatista, è pure compren-sibile. La questione più grave è nella sinistra, in quella sinistra di chi è venuto dopo la generazione dei comunisti seri. Il Presidente Napolitano ha parlato di fatti storici e in modo che fa trasparire, seppure con un piccolo sforzo di lettura, un giudizio non certissimo sul valore delle soluzioni adottate allora (di cui lui stesso ha vissuto l’epoca). Diverso il libro dal titolo emblematico, Il fallimento dei laici furiosi (2009), del direttore di Reset, Bosetti, esponente, pur non privo di curiosità, della attuale sinistra magmatica che cerca le soluzioni nelle indistinzioni on-nicomprensive. La tesi è che i laici sarebbero furiosi perché incapaci di cogliere le valide ragioni morali e civili della presenza religiosa in specie cattolica nella vita pubblica. È una tesi tipica della sinistra che continua a confondere le aspirazioni religiose con quelle politiche nel tentativo di accattivarsi (a fini elettorali e di potere) i cattolici più retrivi patteggian-do ancora sui principi civili. Con ciò, oltre a schierarsi su posizioni pas-satiste e teoriche, trascura diversi concreti problemi politici oggettivi, la presenza dei cattolici chiusi, dei teocon, dei teodem, l’eccessiva arren-devolezza di una parte del mondo laico, che giustamente è stato definito accomodante. Al punto che una simile tesi è stata contestata per la sua smemoratezza anche dalla parte cattolica della rivista il Mulino.

La sinistra magmatica è come indispettita dal constatare l’insucces-so della sua pretesa (che riteneva fosse il massimo della lucidità stra-tegica) di porre alla base della propria azione politica la indistinzione culturale tra cattolici e non, tra religiosi e non. Da qui l’accusa ai laici perché rilevano le diversità con il mondo dei cattolici chiusi. Solo che le diversità sono reali. La cosa che i cattolici chiusi non intendono ca-pire è che lo Stato laico e separatista esclude il temporalismo della Chiesa ma non esclude affatto le identità religiose dallo spazio pubbli-co. È neutrale rispetto a valori etici, non per una impossibile riduzione proceduralistica della democrazia (come è stato scritto), ma proprio per consentire un confronto pubblico – su ogni questione, anche sulle varie sensibilità etiche – in modo che ciascuno possa portare il proprio contributo. E sul punto la funzione dello Stato separatista è essenziale perché, come ha scritto il filosofo Viano, “il pluralismo religioso può essere un buon antidoto alle pretese delle religioni, soltanto se un ordi-namento esterno alle Chiese impone un regime di concorrenza religiosa, perché i gruppi religiosi di solito non apprezzano il pluralismo in quanto tale”. Con una avvertenza irrinunciabile: che il confronto non mira a scalfire il principio di realtà e quello di neutralità istituzionale, cioè i criteri in cui si incarna la separazione tra Stato e religioni.

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Ciò significa che il confronto non può trasformarsi da confronto tra diversi, in un percorso artificioso per imporre agli altri presunti valori comunitari. Seppur dissimulati sotto denominazioni più accattivanti, tipo la “vita buona” per tutti (si pensi alla esperienza di Comunione e Liberazione, che è un frutto radicato da don Giussani sulla riflessione del Cardinale Montini circa il senso religioso spontaneo – “non è un criterio di verità, è un bisogno di verità” – ma che poi è divenuto un frutto tutto diverso, ibridato con il potere di una comunità arroccata tendente ad imporre la propria verità, nonostante Paolo VI dicesse che si era “in mezzo agli uomini, non per dominarli, ma per evangelizzarli”). Uno stato separatista non vuole imporre neppure una “vita buona”, perché sarebbe sempre una vita buona solo per quelli che la credono tale. In uno stato separatista, la libertà di dibattere non può mai essere riconoscere alla maggioranza libertà di imporre le proprie visioni eti-che cambiando il modo d’essere della neutralità pubblica (ripeto con Giorello, dando la libertà di frugare nelle coscienze).

Insomma, un conto è la fede, un conto sono le proposte per la convivenza terrena. In punto di fede la Chiesa cattolica ed ogni altra confessione religiosa hanno la libertà di sostenere quel che pensano opportuno sostenere. Dunque le confessioni religiose non sono gli av-versari del separatismo. In punto di convivenza terrena, qualora un cit-tadino avanzi proposte legislative comunque fondate sulla fede (la cui rivelazione, per i religiosi, è definitiva e completa), siccome esse sono conseguentemente contrapposte ad una serie di parametri fondanti la convivenza civile e di fatto corroderebbero le istituzioni, devono essere contrastate con la massima determinazione da credenti e non credenti che intendono convivere nel reciproco rispetto e senza sopraffazioni. Sono questi cittadini chiusi e fideisti, i veri ed implacabili avversari del separatismo. Le istituzioni religiose non c’entrano niente. C’entra la convinzione di quel cittadino che vorrebbe basare la convivenza sulla propria fede religiosa per privilegiarla ed imporla agli altri. Tale pre-tesa non è un normale proselitismo civile. Corrisponde alla logica di un partito integralista, che appunto con l’utilizzo strumentale della religione a fini politici, avvia il percorso fondamentalista. Già per que-sto deve essere contrastata con ogni mezzo nell’ambito della coerenza separatista.

Inoltre, a meno che i cattolici chiusi non li vogliano solo per la loro religione (in tal caso confermando subito l’intento prevaricatore), i privilegi per le tesi religiose, una volta ammessi, dovrebbero essere estesi a tutte le altre confessioni religiose insediate in Italia (neppure solo quelle riconosciute). Questo, se risultasse possibile, trasformereb-

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be l’Italia in una specie di federazione di religioni e culture diverse, tendendo ad azzerare rapidamente i generali diritti di cittadinanza e la sovranità tollerante del cittadino; se invece risultasse impossibile, por-terebbe l’Italia alla soglia dei disordini a carattere religioso ed etnico. E ciò sarebbe un serio motivo aggiuntivo per opporsi alla proposta dei cattolici chiusi. Occorre peraltro chiedersi perchè dei cattolici mi-litanti i quali di continuo ripropongono il valore della pace quando si tratta di paesi molto lontani, poi non abbiano una sufficiente atten-zione al non determinare le precondizioni istituzionali di irriducibili contrapposizioni, quali sono sempre state le lotte di religione fuori del separatismo. La storia insegna che le guerre si possono dirimere con le regole civili della partecipazione, non nel nome di un Dio.

Commentando questa quasi incredibile vicenda della sinistra mag-matica, Bonetti, ha scritto “il problema della laicità in Italia non è quello di una improbabile scelta fra accomodanti e furiosi, ma quello di essere semplicemente e fermamente laici, pur riconoscendo alle confessioni re-ligiose, cristiane e non cristiane, un ruolo pubblico che ormai è ogget-tivamente impossibile disconoscere”. Nessuna maggioranza, conclude Bonetti, può imporre le proprie preferenze alla coscienza individuale, e quindi neppure i religiosi chiusi: “se dire questo significa essere furiosi, sarà il caso, come Erasmo, di scrivere un altro elogio della follia”.

Sono esistiti cattolici che hanno saputo adottare il principio di separazione Stato religioni. Si può citare il cattolico americano, l’al-lora candidato alla Casa Bianca Kennedy. “Appare quindi necessario che, da parte mia, si dichiari non qual è il genere di Chiesa che io faccio mio – questa infatti è cosa che riguarda me solo – ma qual è l’America nella quale io credo. Io credo in un’America in cui la separazione di Chie-sa e Stato sia assoluta e in cui nessun prelato cattolico possa insegnare al Presidente (qualora questi sia cattolico) quel che deve fare, e in cui nes-sun pastore protestante possa imporre ai suoi parrocchiani per chi votare; un’America in cui a nessuna Chiesa o scuola di carattere confessionale siano concesse sovvenzioni tratte dal pubblico denaro oppure preferenze politiche, e in cui a nessuno sia impedito di accedere a un pubblico ufficio, solo perché la sua religione differisce da quella del Presidente in grado di nominarlo o del pubblico in grado di eleggervelo. Io credo in un’America che ufficialmente non sia cattolica né protestante né ebraica; in cui nessun pubblico ufficiale richieda o accetti istruzioni sulla politica da seguire vuoi dal Papa, vuoi dal Concilio nazionale delle Chiese, vuoi da altre fonti ec-clesiastiche; un’America in cui la libertà di religione sia una e indivisibile, talché ogni azione contro una delle Chiese sia considerata attentato contro la nazione nel suo complesso”.

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Allora, perché non possono esserci in Italia politici cattolici del ge-nere di Kennedy? Nei primi anni ’50, all’Università di Pisa, la risposta di un gruppo goliardico era trasferire la Santa Sede a Boston; pochi anni fa, quella del Presidente dell’UAAR, il professor Odifreddi, in spirito suppongo analogo, fu di trasferirla a Gerusalemme. A parte la segnalazione in sé del dato mordace, respingere l’idea della presen-za della Santa Sede a Roma è una tipica fuga dalla realtà, che serve solo a non affrontare il tema in termini di separazione Stato religioni. È invece realistico dire che il mondo cattolico non può continuare a scandalizzarsi per le richieste separatiste. I problemi stessi della con-vivenza pongono con forza crescente il tema della separazione Stato religioni. Che proprio perché è il tema principe della libertà odierna della convivenza del cittadino, può ben costituire il punto di conver-genza di culture ed interessi diversi. A cominciare da chi, credente e non credente, non vuole che la politica sia ridotta a puro potere senza progetti, il che è poi la causa principale dell’attuale involuzione del confronto democratico.

38. L’impegno attivo a favore del separatismo

Qui va detta una cosa. Vale in generale, ma prima di tutto vale per quel numerosissimo gruppo di persone che difende le proprie convin-zioni di tipo separatista, liberale, laico, libertario. Non credo possibile che tale difesa – per salvare le convinzioni, oltre che per salvare l’ani-ma  –  possa essere efficace a meno che non si cali consapevolmente nel concreto agire politico. Quando, secoli or sono, iniziò la elabo-razione dei principi liberali, dalla tolleranza alla libertà individuale, l’importante era mettere in evidenza tali principi, perché mettendoceli si faceva compiere, per cominciare a livello individuale, un salto gigan-tesco nelle visioni politiche. Da allora sono passati moltissimi decenni ed oggi le riflessioni individuali dei cittadini più attenti devono, come sempre, proseguire per analizzare il reale ma da sole non bastano più. Oltre evocare i principi, occorre porsi il problema di farli penetrare ancora più robusti nella pratica istituzionale della convivenza quoti-diana, tanto più che le reti informatiche hanno potenziato i contatti tra i cittadini agevolando le condizioni per farlo. In Italia, questo oggi non avviene.

Si badi. La mia non è un’esortazione moralistica. È un invito a ra-gionare in modo obiettivo su un dato di fatto. Quasi tutti i sostenitori dell’importanza del cittadino individuo (ed anche della separazione

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443Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

Stato religioni) sembrano privilegiare la convinzione che le idee, l’im-pegno intellettuale, le posizioni politico culturali, siano decisive per l’espressione individuale, magari anche sul piano delle conoscenze ci-vili, ma non lo siano per modellare la politica della convivenza di tutti gli iindividui. È invece evidente che, già ai fini dell’espressione indivi-duale, non è indifferente il clima in cui si opera. E poi, siccome una specifica affermazione crescentemente apprezzata dei principi liberali e laici della ragione, è quella che le teste si contano e non si tagliano (anche se non di rado i fautori della politica come potere tentano di fare il conteggio dimenticando che si tratta di singoli cittadini), balza all’occhio che pesa molto la misura in cui certe concezioni sono condi-vise. Quanto meno influenza in maniera decisiva i tempi e le modalità in cui sono adottati dalle istituzioni i progetti che derivano dalle stesse concezioni centrate sul cittadino. Del resto, Rusconi ha scritto in Non abusare di Dio, “la laicità non è un semplice atteggiamento privato… È nello spazio pubblico che acquista pieno senso la laicità”. Appunto per-ché la libertà di ogni cittadino è già un’importante occasione di svilup-po per coloro che la possono e la vogliono cogliere. Ma è determinante il modellare la convivenza sulla libertà dell’istituzione separatista, che potenzia le interrelazioni pubbliche tra i cittadini individui, riducendo in modo drastico i filtri che la potrebbero ostacolare.

Peraltro, la convinzione che le posizioni politico culturali del citta-dino siano decisive anche per modellare la politica della convivenza, non si diffonde in modo automatico. Per valutare le disastrose con-seguenze di tale supposto automatismo che non c’è, basta osservare l’attuale situazione italiana, ormai chiaramente avvolta in difficoltà strutturali, alle quali non soltanto non viene data risposta ma, cosa più grave, per le quali non esiste in giro alcuna proposta di terapia. Eppu-re, dal punto di vista politico, latita proprio quel mondo che dovrebbe fisiologicamente rivendicare l’adozione politica del criterio della decisa apertura al cittadino per tagliare le unghie alle corporazioni degli inte-ressi amicali di gruppo. Invece di impegnarsi per riportare il paese in carreggiata, quel mondo appare simile ad una palude ove si galleggia illudendosi che galleggiare sia la strategia migliore per conservare sé stessi al prezzo di evitare i cambiamenti indispensabili.

È indispensabile modellare la politica della convivenza impernian-dola sul cittadino individuo e non sulle corporazioni. Solo che occor-re impegnarsi per arrivarvi. Il nodo della questione sta nella diversità di ciascuno. Questa diversità, moltissimi non vogliono riconoscerla e accettarla. Alcuni la accettano in modo subdolo, riconoscendo in teoria una libertà del singolo ma poi, nelle relazioni di convivenza,

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ammettendo solo valori di tipo “religioso”, del dover essere piuttosto del come esprimere la diversità nella realtà della convivenza e dei re-ciproci confronti. Il fatto è che la mentalità dei fautori della libertà del cittadino individuo e delle rispettive interrelazioni, ha delle specifiche particolarità (a cominciare dal metodo critico e dal realismo empiri-co sperimentale), che non sono facilmente riproducibili da chi quella mentalità non la ha in partenza, magari addirittura non la condivide e che al più è interessato a scimmiottarne qua e là alcune formule nep-pur ben digerite.

Non sono facilmente riproducibili non perché esista il diritto di au-tore per lo spirito critico e per il suo esercizio, così come per il realismo empirico (tanto che va benissimo se gli avversari dello spirito critico e del realismo sperimentale ne seguono spirito e i consigli). Non sono facilmente riproducibili perché lo spirito critico non è innato e il rea-lismo sperimentale richiede anch’esso esercizio. Sono una costruzione umana, una conquista del pensiero e delle lotte sulla carne della con-vivenza, non a caso osteggiata di continuo più o meno apertamente. Dunque, più si esercitano più si rafforzano. Non è possibile mantenere l’attitudine critica e sperimentale, praticare il costume della tolleranza e della determinazione, al contempo essendo sostenitori di gruppi che di queste cose rifiutano più o meno la centralità culturale.

Nelle condizioni italiane, è decisivo diffondere queste abitudini e la loro coerenza concettuale ed operativa. Che devono superare radi-cati pregiudizi, nonostante sia evidente che il separatismo, se applicato, costituisce un vantaggio per chiunque. Da qui, l’importanza di dare a tutti questi individui fautori della libertà del cittadino individuo, che però stanno per conto proprio (beati o corrucciati), un progetto che possono e vogliono condividere. Un progetto capace di far pesare istituzionalmente di più le idee, il metodo ed il realismo fondati sul cittadino individuo, rispetto alle culture fondate su altri valori, diversi da quelli del cittadino (tipo ideologia del gruppo o della gestione del potere) e che risultano da molto tempo dominanti. Perché moltissimi cittadini non hanno chiaro che questi altri valori ideologici chiusi, fan-no sperare tutto a parole ma sono assai meno efficaci nella prospettiva di dare spazi al cittadino.

In breve. Non è un destino che la cultura separatista del cittadino individuo e delle sue interrelazioni sia incapace di organizzarsi in pub-blico. Non ha fondamento ragionevole la paura che non si possa opera-re senza disporre di una promessa utopica. Non ha nessun fondamento la preoccupazione (di radice ideologica) che non si possa operare senza aver dietro una struttura stabile. Non ha fondamento il mito che in

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445Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

politica conti solo la forza del gruppo e che le idee possano al massimo trovare sponsor ai cui interessi dovrebbero subito piegarsi facendosi colonizzare. Di fatti, tutte le volte che i laici e i separatisti hanno ten-tato strade siffatte, nella furba convinzione che l’avrebbero spuntata lo stesso, i risultati sono stati disastrosi: non hanno assicurato neppure un piatto di lenticchie, figuriamoci le idee e i principi.

Ad esempio, aspettare che venga dato spazio alla ricerca e alla scienza, imbrigliate dai governi di centro destra e di centro sinistra, e nel frattempo affermare pensosi che la politica deve stare alla larga dalla ricerca, vuol dire solo stare in poltrona e non impegnarsi davve-ro per creare le condizioni normative favorevoli ad un’effettiva libertà scientifica. Perché senza impegno di tipo politico, leggi innovative non si sono mai fatte. Si pensa di salvare con l’antipolitica la libertà perso-nale di essere indignati? Ma l’indignazione non si nega a nessuno che voglia averla. La cosa davvero importante è dar corpo attivo a questa indignazione per mettere in pratica le idee dei cittadini a favore degli individui. Facendo questo si può aiutare in concreto la libertà di ricer-ca, altrimenti si resta fermi all’individualismo più o meno illuminato, più o meno condiscendente. Esprimere la propria libertà, è già tanto nei paesi totalitari. Non è più sufficiente nei paesi già avanti verso le istituzioni liberaldemocratiche, dove è indispensabile cercare di atti-varne l’utilizzo effettivo da parte di chiunque.

Il caso del separatismo è analogo, su scala ancor più grande. Il fatto che la realtà stessa della convivenza ponga con forza crescente questo tema, non significa affatto che la separazione Stato religioni possa determinarsi spontaneamente in modo automatico. Sostenere tale possibilità di uno spontaneismo facile, dipende da un modo fret-toloso e superficiale di guardare alla realtà, riprendendo acriticamente (soprattutto lo fanno quelli di cultura non liberale) il mercato e i suoi meccanismi pubblicitari.

Il mercato è un meccanismo economico per dar modo attraverso la concorrenza di fare emergere i prodotti e le idee più capaci di corri-spondere ai bisogni e ai gusti dei consumatori, i quali, preferendoli, li acquistano di più (e la pubblicità del prodotto è funzionale a decantar-ne le doti per incrementarne la scelta-acquisto). Un simile meccanismo di mercato, contrariamente alla apparente convinzione di molti, non è equiparabile al meccanismo politico. Il mercato ha per oggetto in ogni settore i prodotti di consumo resi disponibili dalle valutazioni e dalle iniziative economiche dei loro creatori o distributori, destinati al consumo dei singoli cittadini e strumenti del profitto di chi parte-cipa alla catena della fornitura. La politica, almeno quella che non sia

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di puro potere, ha per oggetto le leggi per regolare la convivenza e i comportamenti per gestirne le istituzioni (le elezioni servono a questo, il distribuire poltrone ne sono il mezzo, non viceversa). Le leggi e il go-verno non sono un prodotto di consumo individuale, sono il modo con cui affrontare il convivere tra tutti gli individui, in prevalenza secondo i grandi filoni culturali. Per questo è impossibile ridurre la politica ad un prodotto di consumo personale e ad una fabbrica del profitto.

Il voto non è un atto di acquisto personale (che soddisfa un proprio bisogno) bensì una scelta personale che opera mescolandosi alle scel-te degli altri individui per definire quanto peso attribuire a ciascuna delle alternative poste al voto. Da questa osservazione emergono due cose. Che per proporre le alternative da votare, non deve esserci una barriera (quale è il sistema elettorale vigente, indebitamente esclusivo nel mezzo e nella misura delle sottoscrizioni preventive, e troppo favo-revole alle organizzazioni preesistenti piuttosto che ai cittadini nuovi protagonisti) e che le alternative sono tanto più efficaci quanto più por-tatrici di filoni politici generali di maturazione di progetti e di alleanze ben individuati. Perciò, la volontà e l’intenzione di applicare un filone politico deve essere fatta decollare nell’opinione pubblica in momento antecedente alla prova del voto e quasi sempre non fermandosi alla prima prova ma seguendo i tempi della necessaria maturazione civile. Questo è senza dubbio il caso del principio di separazione, che, per riproporsi, richiede un impegno dai suoi fautori.

Un simile impegno è essenziale. Non c’è alcuna contraddizio-ne logica tra l’essere la separazione lo strumento adatto per costitui-re le condizioni in cui possa meglio esercitarsi la ricerca individuale della felicità, da una parte, e dall’altra l’impegnarsi coordinato degli individui per ottenere quello strumento. La felicità è del singolo ma si determina nel quadro di tutti i suoi parametri vitali, tra cui le in-fluenze attive e passive nei confronti degli altri individui e lo scorrere del tempo. Allora trovarsi in un quadro istituzionale che favorisce e incentiva le caratteristiche del cittadino individuo (il che agevola an-che la ricerca della propria felicità) è un preciso interesse dello stesso cittadino. Si dirà che occuparsi di cose più larghe delle proprie dirette ed immediate convenienze, in qualche misura costa impegno e fatica. È vero, però è del tutto irragionevole pensare di poter esistere senza impiegare energie ai fini dello stesso esistere. Secondo un famoso afo-risma, non esiste un pasto gratis. Nessuno può stare fuori della realtà. Ecco, battersi a favore di una organizzazione separatista dello Stato è il costo che il cittadino deve oggi sostenere per potersi nutrire meglio alla tavola della convivenza.

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447Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

Parlo di cittadino, di qualunque cittadino, non di una particola-re categoria. Il mondo cattolico non può continuare a scandalizzarsi per le richieste separatiste. Almeno, se è in buonafede. E altrettanto il mondo separatista non può scandalizzarsi per la voglia della Chiesa e delle varie confessioni di lanciare i rispettivi messaggi religiosi. Alme-no, se davvero pensa alla libertà nella convivenza e non a riproporre, nella forma vecchie contrapposizioni e nei fatti un’aspirazione al pote-re mondano comunque mascherata. In Italia, il tema della separazione Stato religioni è il tema principe della libertà odierna della convivenza del cittadino e può ben costituire il punto di convergenza di culture ed interessi diversi per convivere in modo ottimale.

Per porsi questo obiettivo, i sostenitori del separatismo devono di-smettere il prima possibile la mentalità di chi pensa solo a difendersi da una società che incute paura. La paura è sostanzialmente legata alle cose e alle persone che non si conoscono abbastanza, che quindi ci appaiono pericolose e potenzialmente una minaccia. Ci piace illuderci che sia una caratteristica di grande attualità, in particolare lo pensano i religiosi che predicano la necessità di pentirsi per le offese alla natura. Non penso che sia davvero così. Ogni epoca ha avuto le sue paure più o meno comprensibili. In ogni caso, il modo più efficace di rispondere alla paura è capirne le ragioni e reagire razionalmente. Così è possibile esercitare la propria libertà senza ridurre quella degli altri e mante-nendo la società aperta. Non è una reazione razionale costruire muri contro ciò e chi è diverso. Non lo è neppure reagire con un “no” con-tro tutto quello che ci sta attorno. Ha un significato solo ragionare e manifestare l’esser liberi – dicendo anche “no” come forma di dissenso quando necessario – ma sempre come conseguenza di un “sì” per una attiva scelta costruttiva. Ciò è decisivo per sostenere il separatismo.

Saper collegarsi per interagire nel diffondere il principio di sepa-razione sarebbe importante soprattutto perché i laici non ne sono stati più abbastanza capaci. Hanno trascurato il loro naturale modo d’esse-re di cittadini che non pensano alla tradizione come strumento per fer-mare lo scorrere del tempo e che non fanno delle abitudini un oggetto di fede. Rimangono spesso fermi all’orgoglio di condividere quel prin-cipio senza saper reagire ai continui attacchi che allo stesso principio vengono di fatto portati nella quotidianità della politica istituzionale, ormai da lunghissimi anni. E si badi bene. Questi attacchi non sono solo da parte dei cattolici chiusi ma da tutti i fautori di politiche chiuse. Politiche chiuse che oggi in Italia consistono nel rifuggire il dibattito pubblico sulle cose da fare per la convivenza e nel concentrare la con-trapposizione politica solo sulla paura del reciproco avversario dipinto

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come la fonte di ogni male, paura spesso accompagnata dalla carenza di progetti programmatici. Questo clima comprime la libertà dell’in-dividuo, avvolgendola in una atmosfera massificante e volutamente incline a terrorizzare piuttosto che a suscitare riflessioni e proposte.

Già una decina di anni fa, a Rusconi che più volte aveva sostenu-to che “in Italia la distinzione tra laici e cattolici sta diventando sempre più importante e problematica di quella tra sinistra e destra”, Possenti accorato rispose subito che “di fronte alle cento e cento culture laiche, il riferimento politico e civile al modulo liberale non è sufficiente a creare omogeneità”. Vale a dire, il professore cattolico chiuso ammetteva su-bito, ritenendolo un difetto, quello che per la parte laica è un pregio decisivo. Cioè che il modulo liberale non crea omogeneità. È naturale sia così. Prima di tutto perché il modulo liberale non intende assoluta-mente creare omogeneità, anzi parte proprio dal rendere possibile l’in-terazione delle differenze (qui sta il valore della tolleranza, che non è né esser condiscendenti né sentirsi superiori). La forza dei separatisti, dei liberali, dei laici, consiste appunto nell’utilizzare i diversi punti di vista dei cittadini, nel far interagire liberamente le diversità. Diversità tra gli individui e diversità nella identità di ciascun individuo. L’essere umano non è una creatura ad un’unica dimensione ed è questo che lo rende particolarmente capace di adattarsi alle cangianti condizioni esterne.

Lo Stato separatista è appunto la istituzione che rende possibile realizzare questa condizione. Stare alla realtà sperimentale senza bi-sogno dell’ipotesi dell’azione di Dio è la piattaforma necessaria del dibattito nello spazio pubblico aperto al contributo di tutti. Possenti insistette ancora scrivendo che “Il richiamo a Dio è luce e apertura, non blocco” e giunse ad evocare il cattolicissimo La Pira il quale “scrisse che occorreva contemplare l’architettura della città di Dio, per trarre da ciò ammaestramento per delineare l’architettura della città dell’uomo. Que-sta potrebbe essere la piena formula di una laicità aperta e promotrice”. Rieccoci ad un esempio concreto di come i cattolici chiusi vorrebbero distorcere la laicità per farle fare quello che a loro pare opportuno in punto di fede. In quanto è alla fede che vogliono ricondurre tutto, istituzioni comprese. E quegli altri cittadini conviventi che la fede non la hanno, come dovrebbero comportarsi? Come si fa a non vedere che questa sarebbe un’imposizione di valori?

Sul decisivo fatto che lo Stato separatista è la istituzione che rende concretamente possibile realizzare la libera convivenza tra diversi in-dividui e il loro libero interagire, esiste peraltro anche la posizione dif-ficilmente inquadrabile di uno storico, Galli Della Loggia. Ha più vol-te ripetuto, in varie formulazioni, questo concetto: “emergerà in tutta

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evidenza un dato sostanziale: il mutamento dell’opinione pubblica circa i rapporti tra Chiesa e Stato e tutto ciò che essi significano e comprendono. Si tratta di un mutamento di fondo. Questa svolta dell’opinione pubblica comincerà a far sentire sempre di più il suo peso. Il mutamento di cui sto parlando ha un effetto soprattutto: quello di rendere progressivamente inattuale la vecchia distinzione antagonistica laici-cattolici”. Senza dub-bio è in corso anche in Italia (all’estero, nei paesi occidentali, è già in essere da molto tempo) un mutamento dell’opinione pubblica circa i rapporti tra Stato e Chiesa. Ed è indubbio che sia un mutamento verso una maggior considerazione della propria autonomia. Allora la frase “rendere progressivamente inattuale la vecchia distinzione antagonistica laici-cattolici” cosa significa?

Mi auguro voglia dire, al di là dell’uso un po’ improprio del ter-mine “cattolici” come termine onnicomprensivo, che diminuirà l’an-tagonismo tra laici e Chiesa. In tal caso la tesi di Galli della Loggia sarebbe in sostanza la tesi di questo libro, eccettuato il non affrontare la spinta dei cattolici chiusi (che resta un robusto fenomeno politico sociale da contrastare sempre, se si vuol raggiungere l’obiettivo). Se invece vuol dire che è la distinzione in sé tra laici e cattolici ad essere inattuale ed inutilmentte antagonistica, è la tesi opposta a questo libro e a quella di Rusconi sul punto. In questo secondo caso, peraltro, o Galli della Loggia intende con ciò aderire alle posizioni dei cattolici chiusi (ne ha tutto il diritto) oppure sarebbe illogico che uno storico faccia previsioni ecumenizzanti assumendo che la distinzione laici-cattolici divenga inattuale, proprio quando sta crescendo l’autonomia civile dell’opinione pubblica ma a livello istituzionale permane ben poco attuato il principio Libera Chiesa in Libero Stato.

Piuttosto, circa la distinzione evocata da Rusconi, per evitare equivoci e magari altre interpretazioni (volutamente) fuorvianti, mo-dificherei la definizione di quale sia la distinzione più importante. La distinzione più importante e problematica è quella tra separatisti e confessionali. Sia in punto di teoria sia per non regalare nulla agli avversari. Lo è in chiave di teoria poiché lo stesso mondo laico non vuole prevalere su quello cattolico o marginalizzarlo. Il mondo laico vuole solo che possano esprimere liberamente le proprie convinzioni sia i laici che i cattolici o qualsiasi altro credente o non credente. Que-sta è l’origine del principio di separazione. A sua volta, il principio di separazione non si oppone ai cattolici o a nessun altro valore religioso, si oppone ai confessionali che non vogliono la religione distinta dalla politica istituzionale. Inoltre, secondo punto, adottando la distinzione separatismo/confessionalismo, non si offrono agli avversari margini

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interpretativi che distorcno la percezione della natura del separatismo, facendolo passare addirittura per contrario alla libertà religiosa.

Il separatismo senza equivoci è una profonda riforma civile, capace di dare l’opportuna cornice al libero rapportarsi tra i cittadini sui pro-blemi reali. Tale capacità mi pare intanto comprovata nei fatti dalle fu-ribonde reazioni che da lunghissimo tempo provoca nei cattolici chiusi e nei comunitari. Tuttavia nella sinistra – sia in quella filo Concorda-taria per nostalgia delle scelte togliattiane, sia in quella di formazione più laica eppur legata alle concezioni di partito stabilmente organizza-to – vi sono non pochi i quali pensano che a sostenere il separatismo vi siano due rischi. Perché il separatismo e la laicità sono fondati su credenze minime insufficienti per costituire una visione del mondo ed esprimono un metodo più che un contenuto. E perché organizzarsi per uscire in campo minaccia di costruire una ulteriore Chiesa.

Invero questi due rischi esprimono solo le perplessità di chi è ri-masto alle vecchie ideologie e non ha ancora messo a fuoco la natura del separatismo e della laicità. Il primo non è un rischio, è la cosciente scelta alternativa del separatismo di passare dalla vecchia visione del mondo centrata sulla ricerca di modelli fissi ad una visione del mondo che, proprio in quanto fondata sulla libertà del cittadino, vuole solo le regole per consentire la convivenza più aperta e variegata possibile. Neppure il secondo è un rischio. È la scelta alternativa del separatismo laico di avere per contenuto il metodo innanzitutto, appunto perché è il metodo aperto a consentire di poter applicare i variegati apporti provenienti dalle libere relazioni dei cittadini.

Avuta questa risposta, gli stessi ambienti di una certa sinistra ti-morosa formulano un’altra obiezione: “la debolezza del mondo laico esiste ed è intrinseca. Non dimentichiamo che non c’è laicità se non è accompagnata da spirito critico e che nel confronto tra spirito critico e spirito dogmatico, la vittoria nelle gare di questo mondo spetta sempre al secondo”. Questa obiezione sulla intrinseca debolezza dello spirito critico, esprime solo un complesso di inferiorità di chi la formula. Che ha fondamento solo se un laico pensa di poter essere insieme laico e determinista. Se si è deterministi, si agisce ricercando un modello fis-so e fuori del tempo, e allora si pensa solo all’immediato contingente e all’esercizio del potere. Peraltro far questo è il contrario dell’esser laici. Se si è laici, senza dubbio si adotta lo spirito critico, ma si applica all’andamento delle cose nel tempo, al di là del contingente e del po-tere immediato. Così si può constatare che, rispetto allo spirito critico, ad essere costantemente perdente è lo spirito dogmatico, che al più è dedito all’inseguimento di chi esercita lo spirito critico. Dunque, lo

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spirito critico è vincente, a condizione che si applichi di continuo nel reale, di non usarlo come una rendita. Deve operare ed essere eserci-tato, non stare a guardare, magari per ossequio a qualcuno o qualcosa.

Ciò precisato, l’interagire dei separatisti, dei laici è la capacità di avviare l’aggregazione indispensabile per far maturare nelle coscienze la volontà di attuare il separatismo di origine cavouriana. Il che impli-ca anche battersi con determinazione contro le tesi di quella parte di cittadini che sono disposti a rinunciare alla personale autonomia per i vantaggi legati al clima di conformismo sociale sparso dal confessio-nalismo concordatario. Occorre divenir consapevoli che la questione chiave è dare al paese una organizzazione dello Stato separata dalle religioni, quindi che non discrimini nessuno né avvantaggi qualcuno. La fede non è una norma né può influenzare le norme. Soprattutto il separatismo è essenziale nella nuova società, che è al tempo stesso multietnica e multireligiosa. Il professor Sartori ricorda che i conflitti multietnici potranno esserci sempre, mentre i conflitti religiosi pos-sono non esserci, se il modo di essere religiosi non è reciprocamente invasivo e non da spazio ai fanatismi del fondamentalismo (considera-zione logica, poiché le razze sono evolutivamente molto meno duttili di quanto può esserlo il modo di essere religioso). Ebbene, il separatismo è decisivo rispetto alle problematiche religiose ed è influente anche sotto il profilo della multietnicità: affrontando nel concreto la convi-venza tra diversi, è molto utile per arginarne le tensioni.

Rispetto alla importanza di arrivare ad introdurre il separatismo, divengono ininfluenti le altre distinzioni che vi possono essere per natura tra chi privilegia l’attenuare i difetti strutturali esistenti nelle istituzioni e chi vuole toglierli di mezzo e basta. Al momento è decisivo il progetto complessivo, non il dettaglio della tempistica attuativa. La società italiana è immersa nel confessionalismo quanto meno dal 1929, con conferme nel 1947 e poi nel 1984. Ne sono seguite molte storture e le precarie condizioni di salute sono cronicizzate. È naturale, secondo il principio di realtà, che la cura duri qualche anno. Il punto vero è la determinazione con cui si prepara e si intende realizzare il progetto politico di uno Stato separato dalle religioni.

Occorre partire da due considerazioni. Una è non farsi l’illusione che il progetto per il separatismo equivalga a puntare su un solo tema anche se importante. Il separatismo è forte e necessario perché non è monotematico, è un modo di intendere le funzioni pubbliche. Come si è visto, affrontare solamente un aspetto del separatismo, può miglio-rare quell’unico punto ma non crea la consapevolezza per affrontare in generale la questione separatista. Anzi, soddisfacendo quell’aspetto,

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diminuisce la voglia di lottare per l’intera questione. Piuttosto si potrà prendere spunto da un caso (oggi ritengo emblematico, nella cornice generale del ricercare scientifico, quello delle questioni bioetiche che costituiscono la spinta a sottrarsi ulteriormente al dominio del sacro) per usarlo come leva ed affrontare il problema separatismo in generale. Che è la vera partita da giocare.

L’altra considerazione è prendere consapevolezza, senza polemiche verso nessuno, che, all’epoca dell’irrompere di nuove norme laiche (dalla seconda metà degli anni ’60 ai primi anni ’80) con leggi come divorzio, riforma del diritto familiare e aborto, che nei decenni hanno dato buona prova di sé, l’indiscussa leadership, almeno su divorzio e aborto, non fu dei gruppi che oggi sono ossatura e tessuti del PD ma dei gruppi laici che rimorchiarono un PCI recalcitrante mentre la gran massa dei dirigenti cattolici, eccetto sul diritto familiare, era quasi del tutto assente, anzi dichiaratamente contraria. Dunque, è essenziale chiamare le cose con i loro nomi, senza furberie tattiche, foss’altro per-ché separatismo è senso della realtà. Lo Stato separatista ci vuole per rendere tutti più liberi ma insieme si deve riconoscere che questa idea ha le matrici culturali del mondo laico e liberale. E quindi può cammi-nare solo rispettando analoghe linee logiche e di indirizzo.

39. Un programma per il separatismo

La struttura di un programma separatista deve essere coerente con gli obiettivi del separatismo. Tenere ben distinte questioni politiche e questioni religiose. È indispensabile ribadirlo, poiché nel mondo della sinistra persiste il vezzo di dichiarare il pieno sostegno alla cultura laica però limitandone la funzione al concentrarsi sul confronto con la Chiesa e la sua dottrina. Questo perché si da per scontato che la laicità, pur essendo una prospettiva corretta, avrebbe una capacità attrattiva inadeguata verso i cittadini in paragone a quella religiosa e quindi sa-rebbe bisognosa di contemperarsi con le esigenze della religione so-stenute con moderazione. E inoltre si argomenta che, prima o dopo, la Chiesa dovrà prendere atto della realtà sperimentale e scientifica e di conseguenza mutare posizione. La struttura del separatismo è ben differente. Assicurare la completa libertà di religione è il massimo ed unico modo possibile di contemperarsi con la religione. Disconoscerlo porterebbe a reintrodurre la pratica concordataria. Tra l’altro, cercare una sintonia culturale con la tesi del Dio creatore, non è cosa da poco perché, reintroducendo il criterio dell’identità religiosa unica, conflig-

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ge con l’autonomia critica individuale e con il metodo sperimentale. Equivarrebbe a lasciare intrecciate questioni politiche e questioni re-ligiose.

Chi è convinto, sulla base dell’esperienza e della realtà sperimenta-le, che nella convivenza la fede non è il faro di verità per tutti, non può poi affidare la propria azione politico istituzionale a convincere la ge-rarchia dello spessore etico della laicità del cittadino. Per raggiungere l’obiettivo del non fare della fede la fonte legislativa, è molto più pro-duttivo, oltre che razionalmente indispensabile, insistere apertamente sulla genesi della laicità istituzionale: il rendere possibile a ciascuno lo sviluppare l’esercizio del proprio spirito critico, nel privato, nel pub-blico e rispettando le differenti identità altrui. Il messaggio politico separatista naturale e coerente è la filosofia della convivenza aperta che opera in termini politici. Allora diviene coerente anche il richiamo al dibattito pubblico e alla laicità, come dimensione pubblica e stru-mento imprescindibile del continuo esercizio critico individuale, senza limiti di argomenti toccati e senza abiure conclusive. Le regole di fon-do proposte per la convivenza, quando applicate, devono mantenere il rispetto della laicità e del pluralismo. Altrimenti, il ritorno della reli-giosità dal presunto esilio pubblico si trasforma in una sorta di licenza a lasciare solo la libertà di riconoscere un’unica verità.

Non ha alcune rilevanza, dal punto di vista separatista, che la re-ligione possa pure arrivare decenni dopo a conclusioni analoghe a quelle ottenute con il dibattito centrato sulla libertà del cittadino. È avvenuto con il temporalismo, con la democrazia del cittadino e con la possibilità di cambiare religione. Quel che ha rilievo decisivo per la convivenza sono le modalità e i tempi in cui ci si arriva. È delittuoso complicare le situazioni e farle incancrenire. Ciascuno può avere la sua fede, però sul principio dell’autonomia critica individuale, la ricerca di mediazioni con la religione organizzata equivale alla disponibilità a regredire. Perciò fuorvia e ritarda. Da qui la necessità del separatismo e del suo valore politico strategico.

Ribadita la specificità della struttura, il programma per la separa-zione tra Stato e religioni si rivolge a tutti coloro che condividano la volontà di fondare le istituzioni sulla libertà del cittadino. Deve essere uno strumento che favorisce la marcia verso il separatismo e che insie-me introduce un sistema di rapporti di convivenza quotidiana ad esso coerente. Innanzitutto, è concepito per iniziare, quanto prima e con de-cisione, a far maturare la separazione nella coscienza pubblica dei cit-tadini. Ci vorrà tempo ma nella società italiana sono numerosi già oggi i sintomi di quanto sia potenzialmente esplosivo il mischiare istituzioni

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e religioni. Sarebbe assurdo trascurare i sintomi e trovarsi poi obbligati ad intervenire sotto l’urgenza degli avvenimenti. Solo chi sta cultural-mente fuori del tempo ha bisogno di uno shock per divenire presente a sé stesso; non ne ha bisogno chi si radica nel tempo, come i fautori del separatismo. Separatismo che non è riportabile a diritti di natura religiosa o comunitaria secondo cui preesisterebbe allo Stato anche la libertà di riconoscere la verità. La separazione tra Stato e religioni è un tipico diritto civile che è creato all’interno dello Stato dalle persone reali e che consente di far meglio funzionare lo Stato assicurando l’eser-cizio della libertà civile del cittadino con i suoi mutiformi interessi. E invece, come ha scritto il giornalista blogger liberale, Valerio, “leggi e regolamenti, per colpa d’una classe dirigente non liberale e quindi non laica, cominciano a non essere più né uguali né liberali per tutti”.

Delineata questa cornice, si possono così riassumere i sette princi-pali punti di un programma separatista.

39.1 –  Il punto di partenza di un programma per la separazione tra Chiesa e religioni è proclamare che la religione non è, né può es-sere, l’identità onnicomprensiva di un individuo. Solo partendo da qui hanno senso la libertà di espressione e la discussione in pubblico. La libertà culturale di prendere decisioni e di essere diversi non può escludere la libertà di contestare l’adesione automatica a tradizioni an-tiche. Preservare ciò che ti è stato appiccicato addosso solo in virtù della nascita, difficilmente potrà essere di per sé un esercizio di libertà. Questa è la premessa necessaria del separatismo, che è il modo con-creto di battersi in campo religioso contro il giacobinismo applicato e contro l’opportunismo applicato. Abbandonando le preoccupazioni di apparire equanimi a tutti i costi, che hanno portato allo “stato all’ita-liana”, dominato dal rattoppare la realtà e dal fingere di non conoscere neppure la lettera e lo spirito delle sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione.

39.2  –  Il secondo passo è far interagire liberamente i diversi in-dividui e le diverse identità di tutti e di ciascuno. Non confondendo questo interagire con il dialogo tra differenti comunità, che in quanto tali non garantiscono la libertà di scelta dell’individuo di discostarsi, se lo vuole, dal modello di comportamento standard della comunità stessa. L’essere umano non è una creatura ad un’unica dimensione ed è questo che lo rende particolarmente capace di adattarsi alle cangianti condizioni del mondo circostante. A condizione, appunto, che possa interagire senza subire imposizioni autoritarie, di tipo civile, comu-nitario o religioso, da chi vuole di fatto ricondurre il pluralismo al riconoscersi nell’autorità di un supposto bene comune. Questo porre

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al centro dell’azione politica la libertà di ogni cittadino, dei suoi diritti individuali, delle reciproche relazioni con gli altri, evitando di ricor-rere ad identità collettive se non come autonome associazioni di scopo di cittadini, è il modo di rendere concreta l’indispensabile lotta agli in-tegralismi e ai fondamentalismi, che sono in agguato e sono l’opposto del criterio di separazione.

39.3 – il terzo passo è dar corso a una insistente campagna di sensi-bilizzazione e di formazione per diffondere il principio della separazio-ne Stato religioni quale solo sistema in grado di garantire a qualunque cittadino la piena libertà di esprimere il proprio eventuale credo reli-gioso, in pubblico e in privato. Allo stesso tempo e allo stesso modo, la separazione garantisce la piena libertà di espressione ad ogni comunità di cittadini religiosamente organizzata, mediante strutture o senza, in-clusa la libertà di proselitismo e di propaganda delle proprie rispettive credenze, purché rispettose della libertà piena di tutti i cittadini. Se-condo questo indirizzo, dovrà essere quanto prima affrontata e risolta la questione della convivenza con il mondo musulmano italiano. Le at-tività religiose possono essere espletate nei luoghi pubblici, nel rigoroso rispetto della sfera personale di ciascuno; dunque deve essere tutela-to pure il conseguente diritto di disinteressarsi delle attività religiose, senza esser sottoposto ad alcuna insistenza e coercizione surrettizia. In tutti i luoghi, sempre nel massimo rispetto della privatezza. A tal fine, ha valore emblematico il ripristino del XX Settembre come giorno festivo (tenuto anche conto che da qualche anno ne propone la celebrazione perfino la rivista di Andreotti, reinterpretandola come “Festa naziona-le del Risorgimento Unitario”). Nel quadro della medesima campagna, deve essere inquadrata la necessità di rivedere il Decreto della Presiden-za dei Ministri (emanato nel 2006 dal governo Berlusconi ed emenda-to nel 2008 dal governo Prodi) che ha dato le disposizioni cerimoniali delle precedenze tra le cariche pubbliche, ponendo i Cardinali al primo posto di precedenza rispetto a tutti gli altri. È una norma che determi-na una non accettabile confusione tra il ruolo del Vaticano come Stato estero e quello della Chiesa come organizzazione religiosa italiana, di fatto dimostrandosi un atto diseducativo nei rapporti civili perché dif-fonde la mancata prevalenza delle cariche istituzionali italiane.

39.4 –  Il quarto passo è la diffusione del principio della separa-zione e dei suoi risvolti attraverso le scuole pubbliche. La loro mis-sione è rivolgere una particolare attenzione ai valori Costituzionali della centralità del cittadino, dei rapporti interpersonali, delle regole del diritto, degli sviluppi della convivenza aperta a differenti religioni, culture ed etnie. Pertanto, nelle scuole pubbliche l’insegnamento della

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religione cattolica, oggi non obbligatorio a semplice richiesta, dovrà essere sostituito da un insegnamento obbligatorio di storia delle re-ligioni non ridotta alla specificità della storia italiana, insegnamento tenuto da docenti scelti esclusivamente dallo Stato. Cominciando fin da subito a non dare all’attuale ora di religione alcuna influenza ai fini della valutazione. Le scuole non statali che intendano svolgere una funzione paritaria, saranno tenute al rigoroso rispetto, nei program-mi e nella gestione del personale docente, delle medesime norme in essere per le scuole pubbliche. Ovviamente le scuole non statali che non scelgano di svolgere programmi paritari, avranno completa libertà di insegnamento quanto a scelta di programmi, di docenti, di orga-nizzazione e di arredi interni. Non dovranno esserci scuole religiose per bambini finanziate dallo Stato, qualunque sia la religione, perché ciò significherebbe dare priorità pubblica alla religione. Farlo sarebbe didatticamente controproducente perché costituirebbe in prospettiva fonte di violenza settaria e perché il fine della scuola pubblica è aiutare i giovanissimi a formarsi lo spirito critico, non ad allenarli al fideismo.

39.5 – Il quinto passo è attivare la revisione di quelle leggi che non corrispondono allo spirito separatista, in quanto favoriscono qualcuno privilegiandolo a scapito della convivenza e del giusto confronto tra i cittadini (come, in via esemplificativa, agevolazioni fiscali ad enti reli-giosi per funzioni e servizi commerciali in violazione della concorren-za oppure l’otto per mille, dalla struttura discriminante e congegnata in modo da tramutarla da scelta di destinazione personale in mecca-nismo d’aiuto mascherato, oppure i proclami delle Forze Armate di fedeltà alla religione cattolica oppure la legislazione sui culti ammessi e la discriminazione fra i culti in regime di intese o meno oppure anche la legge elettorale nazionale che spezza il rapporto tra cittadino e il suo rappresentante attribuendo invece la scelta alle oligarchie dei vertici dei partiti). Con la revisione deve riconoscersi il diritto legale di qua-lunque cittadino ad effettuare, in base a proprie esclusive valutazioni, le personali e libere scelte di vita attinenti al proprio credo religioso (come, in via esemplificativa, le scelte in materia di divorzio, procre-azione assistita, interruzione della gravidanza, testamento biologico, scelta del rapporto affettivo di convivenza, abbigliamento e accessori purché a volto scoperto, edificazione nel rispetto delle norme vigenti di simboli religiosi su terreni o manufatti privati visibili da fuori) senza che in nessun caso la fonte del diritto legale sia costituita da una fede religiosa. Con la revisione dovrà essere altresì previsto il rispetto dei principi separatisti nell’esercizio diretto delle pubbliche funzioni e ne-gli edifici pubblici, anche su espressa richiesta di uno o più utenti dei

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servizi svolti, ed inoltre garantito, insieme alla effettiva erogazione del servizio svolto, il pieno rispetto della eventuale obiezione di coscienza dei singoli dipendenti pubblici operativi in quel servizio. Criteri ana-loghi di funzionamento dovranno essere adottati anche da parte di strutture sanitarie private quando intendano ottenere contribuzioni di qualsiasi genere da parte di istituzioni dell’ordinamento dello Stato o enti pubblici. In ogni caso, i contenuti specifici della revisione delle leggi saranno oggetto per ciascuna materia di una elaborazione appo-sita che dovrà essere effettuata, penso, seguendo gli indirizzi che ho trattato ai capitoli 32 e 33.

39.6 – il sesto passo è impegnarsi per un riequilibrio nella gestione di diversi servizi pubblici, secondo il principio che lo spirito del sepa-ratismo fondato sulla sovranità tollerante del cittadino non può am-mettere posizioni dominanti nello svolgersi delle attività in pubblico. Ciò vale in ogni settore.

Ad esempio, il libero mercato non è uno stato di natura (anche se i conservatori individualisti hanno difficoltà ad accettare l’idea). Infatti, non esiste davvero al di fuori di regole pubbliche (quelle per la concor-renza incentrata sulla capacità del cittadino di esprimersi e di intrapren-dere liberamente) e al di fuori di accorte azioni istituzionali (quelle tese ad evitare il formarsi nella realtà di ostacoli, distorsioni e strozzature limitativi della personalità del cittadino e della concorrenza, quali i mo-nopoli di sfruttamento nelle varie forme). Nessuno è individualmente più libero se sciolto dal vincolo pubblico di organizzare la convivenza, o più sicuro se al riparo dai cambiamenti. Eppure tutto ciò resta lontano anni luce dallo stato padre padrone e da purezze teoriche avulse dalla realtà, che comprende anche compromessi temporanei e circoscritti.

La giustizia non è l’esercitare convinzioni preesistenti alla sovranità individuale del cittadino sul metro di ragioni religiose o comunita-rie. È l’applicazione puntuale delle leggi quali la convivenza si è data e quali sono. L’applicazione è affidata alla valutazione interpretativa della magistratura come corpo dello Stato specializzato a tal fine. In-dulgere, in ambienti della magistratura, ad interpretazioni suppletive delle leggi in base alle convinzioni del dover essere, determina fatal-mente, una volta innescatosi, una confusione di ruoli e di funzioni tra la magistratura e la politica. Il che è una distorsione grave perché, non essendo la magistratura eletta, ne deriva il contrapporsi di fatto, nel determinare l’origine della norma materiale, di un ordine dello Sta-to e della sovranità del cittadino, due realtà che restano su due piani diversi (quello della corporazione burocratica e quello della sovranità democratica) e che perciò non avrebbero componimento.

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L’esercizio della libertà di parola, che è un capisaldo del criterio di separazione, deve tener conto delle moderne tecnologie che operano in suo nome ma che possono stravolgerne il senso. Ormai è esperien-za quotidiana constatare che gli strumenti di diffusione delle parole, televisivi, cartacei e on line, funzionano di fatto da filtro improprio ed arbitrario delle idee e delle persone. In termini politico culturali, la volontà di questi filtri si sovrappone al normale esercizio della libertà di parola. Ne consegue che non esiste più un effettivo dibattito pub-blico, ma solo il confronto tra quelle idee e quelle persone che sono ammesse a comparire dai detentori del potere di filtro, vale a dire le proprietà aziendali (che hanno una logica proprietaria) e le redazioni giornalistiche (che talvolta hanno una logica di uguaglianza del tipo descritto da Orwell). Durante la maggior parte del tempo – quello che non rientra nei periodi elettorali regolati da norme di pari condizioni di accesso – i fruitori dei messaggi televisivi, cartacei e on line, cioè i cittadini, sono nettamente fuorviati dal modo in cui vengono date le notizie, quando sono date.

Questo stato di cose riguarda molto da vicino anche la presenza nel dibattito pubblico della Chiesa in particolare e delle religioni in genere, e dunque la adozione del principio separatista. Televisioni e giornali nelle varie forme tendono a scambiare il dibattito pubblico sulle idee e sulle proposte per una sorta di evento spettacolare e per una gara a chi conta di più ed è più popolare (come se il dibattito sulle idee e sulle proposte esistesse solo tra chi è più conosciuto nello spettacolo, oltretutto facendo dimenticare che la politica spettacolo spinge ad escludere quella pazienza che pure è una caratteristica es-senziale della politica). Così, per eccesso di zelo acritico e per aprofes-sionalità, televisioni (soprattutto la RAI in quanto titolare di Servizio pubblico, che viola in mille modi, ad esempio nel Televideo includen-do la CEI tra le Istituzioni) e giornali privilegiano nettamente la pre-senza della Chiesa cattolica, squilibrando l’esercizio della libertà di parola e trasformando non di rado l’informazione in propaganda. Il che è sempre un errore, in campo religioso lo è in modo particolare. Le chiese non devono avere privilegi, né rispetto alle altre tematiche né l’una rispetto all’altra. L’argomento religioso, oltre che nel privato della coscienza, si manifesta nel pubblico in modi che devono resta-re radicalmente differenti dalla esaltazione dello spettacolo e della battaglia politica. Televisioni e giornali non possono far da megafono oppure esercitare una concorrenza impropria ai servizi radiotelevisivi Vaticani o all’Osservatore Romano, che svolgono legittimamente il loro ruolo.

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39.7 – Il settimo passo è porsi l’obiettivo di rendere coerente il qua-dro costituzionale con il principio di separazione. Un obiettivo che implica una maturazione politica di fondo da raggiungersi attraverso i passi precedenti e perciò un obiettivo assai diverso da un soprassal-to giacobino. Nel libro abbiamo visto che il principio di separazione non è in nessun modo avverso alla religione né impone al cittadino una qualche credenza. Vuole solo che le pubbliche istituzioni restino neutrali in campo religioso, vale a dire non inglobino alcuna fede nei propri meccanismi. Il fine è evitare che le diatribe sulla fede religiosa, per loro natura legate all’ignoto, avvelenino la convivenza, come è co-stantemente successo nei secoli in forme diverse. A tale scopo occorre la modifica degli articoli 7 ed 8 della Costituzione per sancire l’uguale diritto di tutte le confessioni religiose di esercitare i propri culti – in-cluso se vogliono quello di stipulare intese con lo Stato per disciplinare i conseguenti diritti pratici – eliminando gli attuali privilegi a favore della chiesa cattolica. La struttura concordataria presenta in sé delle gravi incongruenze democratiche, che non sono eliminabili proprio perché rientrano in un sistema di valori differente. L’alternativa al Concordato non è un Concordato aggiornato, è nessun Concordato.

Proprio perché questo obiettivo non è contro la Chiesa, è necessa-rio farlo maturare, tenendo presente che i Patti Lateranensi compren-dono anche un patto internazionale, il Trattato. Contrariamente alle abitudini correnti, farlo maturare non va interpretato come rinviarlo o ritenerlo questione secondaria di cui parlare senza agire. Esattamente l’opposto. Farlo maturare significa perseguirlo con determinazione, pacata e paziente ma ferma e non rinunciabile, sapendo che il rap-porto tra istituzioni e religione deve essere trattato nel complesso e non un aspetto alla volta. Da una lato facendo penetrare a fondo nei cittadini la percezione di quanto l’esigenza separatista corrisponda ad una profonda ragione di libertà di coscienza per ciascuno, che favo-risce la concreta convivenza nella moderna società multireligiosa e multietnica. Dall’altro per comunicare alla controparte dei Patti ori-ginari, il Vaticano come Stato e in quanto titolare della Chiesa cat-tolica, che l’Italia ha la ferma intenzione di confermare gli accordi relativi alle questioni internazionali e di adeguare la parte attinente la vita interna della nazione ai propri valori costituzionali e ai principi europei del Trattato di Lisbona. Una volta predisposte le condizioni di maturazione per l’avvio operativo, il successivo lasso di tempo per realizzare questo obiettivo, credo sia ragionevole prevederlo intorno ad un’ulteriore decina di anni, così da svolgerne adeguatamente l’uno e l’altro aspetto.

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Una strategia di questo tipo per arrivare all’abbandono del sistema concordatario, non è in alcun modo equiparabile ad una richiesta alla controparte. Chiedere alla Chiesa una rinuncia al Concordato, con-fermerebbe il criterio antiseparatista del far ruotare tutto attorno alla Chiesa. La comunicazione invece è un tranquillo ma fermo esercizio della propria sovranità tollerante in campo civile. Le tematiche quo-tidiane del mondo moderno e della scienza non possono essere op-portunamente affrontate nella società italiana secondo la logica della ragione e della libertà del cittadino, finché nelle istituzioni l’articolo 7 della Costituzione e l’articolo 1 del Concordato 1984 provocano una specie di mezzadria tra Stato e Chiesa sulle cose del paese (per non parlare di altri articoli sul riconoscimento della personalità giuridica speciale a svariati enti religiosi, che vengono usati per creare distor-sioni). Impediscono tra due soggetti un dialogo che sia un contatto di buone relazioni sociali, trasformandolo in trattative obbligate per realizzare un privilegio religioso anche sotto gli aspetti materiali.

Del resto, volersi affidare ad una richiesta alla controparte di rinun-ciare al Concordato, sarebbe di per sé la riprova che nei rapporti civili è determinante il desiderio di quanto decide la Chiesa, cioè il contra-rio del principio di separazione. Come si può leggere nei Documenti, Cavour disse alla Camera “Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza. Rinunciate ad esso… noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato”. Il Papa rifiutò con pervicacia di rinunciare al potere temporale, nove anni dopo si arrivò a Porta Pia e in piena coerenza vi furono lo stesso le Guarentigie del Libera Chiesa in Libero Stato da parte del Regno. Il Papa continuò nel rifiuto, continuò ad avversare il liberalismo e de-cenni dopo si arrivò all’abbandono del separatismo con il regresso alla logica concordataria. Ma il progredire della conoscenza e gli eventi storici della vita civile hanno confermato che tale regresso peggiora le condizioni della convivenza, frena la libera sovranità del cittadino e neppure garantisce alla Chiesa nel tempo la presa del suo messaggio spirituale nei costumi della cittadinanza. Proprio perché consente di dubitare sulla sincerità della sua testimoninanza. Dunque, per il pro-gramma separatista, è il momento di ricordare il monito einaudiano: “nella discussione si impara la forza dell’avversario”. A patto che ci sia la volontà di lottare. Il mondo laico, questa volontà, deve mostrarla.

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461Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

40. Lo sguardo lungo(appello separatista ai cittadini mentalmente liberi)

La convergenza sul programma separatista comincia dalla presa di coscienza delle mutate condizioni storiche rispetto alle epoche del Concordato 1929, dell’inserimento dell’articolo 7 nella Costituzione e del nuovo Concordato 1984. Lo spartiacque è il 1989, la caduta del muro di Berlino, con tutte le sue conseguenze politiche planetarie.

Prima di questo spartiacque, per lunghi decenni vi è stata in co-mune la pretesa, nonostante i diversi climi politico istituzionali, di po-ter fare a meno della piena libertà del cittadino. Si pensava che per la convivenza sarebbe dovuto bastare gestire il cittadino in modo più indiretto. Affidandosi, nell’ordine, per un quindicennio all’indottrina-mento del Partito Nazionale Fascista in regime pattizio con la Chiesa, per poco più di un decennio al mantenimento delle libertà occidentali sotto la guida cattolico centrista e concordataria, per un trentennio alla prosecuzione di quell’opera di mantenimento attraverso le pratiche consociative di gestione del potere nel bipartitismo imperfetto appena scalfito dal socialismo craxiano e culminate nella pratica revisionista del Concordato. Insomma, una democrazia più o meno bloccata quan-to a piena libertà del cittadino. Dopo lo spartiacque del 1989, nei due decenni più recenti, l’opinione pubblica ha rapidamente percepito che non esisteva più la divisione del mondo in due blocchi e che quindi neanche l’Italia aveva più ragione di restare una democrazia bloccata.

Purtroppo, però, tale percezione non è servita ad avviare un con-fronto di merito su progetti alternativi circa l’affrontare i problemi po-litici della convivenza esistenti in ogni momento. All’inizio i maggiori partiti sono stati incapaci di avanzare un progetto di governo credibile nella nuova situazione creatasi. Questo vuoto è stato colmato da un im-prenditore il quale, per ragioni sue in questa sede ininfluenti, ha avuto il coraggio di rischiare il lancio di un nuovo partito per intercettare la voglia dei cittadini di libertà e di apertura rispetto alla sclerosi delle istituzioni governative. Il fatto che tale nuovo partito volesse apparire attento a corrispondere alle richieste per ingraziarsi così gli elettori ma non lo fosse quanto alle modalità del come farlo (a parte le promesse), negli anni ha portato il dibattito lontano dalla progettualità politica. È prevalso il sistema di raccogliere i voti suscitando attese mirabo-lanti e non proponendo scelte meditate. In ciò anche la parte avversa all’imprenditore, il centro sinistra, lo ha facilitato. Colta da sindrome imitativa, è stata alla larga dalla politica, dandosi a comporre coalizioni puramente contro e non progettuali.

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In tale stato di lontananza dalla politica, il separatismo Stato reli-gioni era per i partiti un argomento da non sfiorare neppure, perché controproducente in termini elettorali; e la Chiesa seguiva sempre più la linea di una presenza religiosa in termini di forte attenzione ai temi esistenziali del cittadino. Da parte loro, i cattolici chiusi di qualunque coalizione hanno compiuto in crescendo scelte confessionali e hanno premuto per ispirare le leggi alla loro fede (il che equivale ad imbocca-re la via che porta al fondamentalismo).

Tutto ciò non ha fatto compiere al paese il percorso innovatore di cui avrebbe avuto bisogno, per aumentare l’apertura, l’efficienza e i diritti di libertà nei criteri di gestione e nelle modalità di convivenza. Peraltro, le condizioni attuali del paese non sono più quelle di quan-do nella vita politica era necessario avere l’appoggio della Chiesa (già nel 2001, pochi mesi prima della scomparsa, il filosofo Colletti aveva osservato “adesso è giunta l’ora di cambiare, anche perché non c’è più il filtro della Dc nei rapporti con la Santa Sede”). Le condizioni attuali sono molto complesse ma, per risolverle, danno l’occasione di potersi affidare più direttamente ed appieno alla libertà del cittadino, che ri-sulta essenziale per modellare le leggi e per osservarle. Crescentemente in modo dichiarato, la discussione civile diviene se sia o no opportuno fare della fede la fonte legislativa e regolamentare, ad ogni livello, euro-peo, nazionale, regionale, locale. L’Europa ha già deciso per il separa-tismo (e, per limitare la portata di tale decisione, il mondo cattolico ha ottenuto l’incompetenza europea sulle diverse situazioni interne degli Stati membri). L’Italia è restata indietro ma ora può di nuovo scegliere. Non vi sono più le scuse della situazione internazionale per eludere il problema. Anzi, a livello internazionale i fondamentalismi si vanno profilando sempre più minacciosi e, per contrappasso, quasi sollecita-no la causa della separazione nei paesi che ancora non l’adottano.

L’obiettivo politico di questo libro  –  a differenza degli scritti di carattere storico sui laici e sulle loro battaglie di sapore anticlericale, come le opere del professor Teodori – è appunto contribuire ad atti-vare il meccanismo civile per raggiungere la separazione tra Stato e religioni e dunque per modificare il disposto costituzionale anacro-nisticamente concordatario. Come ho già rilevato, occorre rivolgersi a tutti coloro che condividono la volontà di fondarsi sulla libertà del cittadino. Ma farlo adottando il costume laico e separatista del reali-smo e della ragione, non delle esortazioni puramente emotive e uto-piche. Quindi bisogna sì tessere adeguati rapporti organizzativi ma non escludere chi al momento non è già dichiaratamente separatista. Chiunque, guardando dentro di sé, può arrivare a comprendere i moti-

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vi del costruire con il separatismo istituzioni più aperte alla libertà del cittadino. Occorre, è ovvio, iniziare da chi fa parte di movimenti che, a parte la loro scelta dei mezzi più o meno discutibile, non sono contrari in via pregiudiziale al tema del cittadino consapevole protagonista del-le scelte della convivenza. Al tempo stesso è però indispensabile che i separatisti vedano senza illusioni la realtà dei fatti al momento attuale.

Oggi, i due maggiori partiti delle due principali coalizioni in es-sere, sono immersi nella furbizia tattica, che fa loro assecondare le pressioni dei rispettivi teocon, atei devoti, teodem. In pratica l’esatto contrario di una prospettiva separatista. Il Partito Democratico, nel Manifesto costitutivo del 2007-2008, ha incentrato il suo modo d’esse-re sul seguente convincimento: “la laicità dello Stato, così come sancita dalla Costituzione, è garanzia che ogni persona sia rispettata nelle sue convinzioni più profonde e al tempo stesso si possa pienamente integrare nella comunità nazionale. In questo quadro, riteniamo che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica siano stati validamente definiti dalla Co-stituzione e che ogni sviluppo di quei rapporti debba muoversi nel solco fissato dalla stessa Carta costituzionale”. Il che corrisponde in pieno, in maniera fin troppo chiara, alla terminologia e alla logica dei teo-dem (laicità sancita nella Costituzione e non lo è, persona invece che cittadino, possibilità di integrarsi nella comunità, quasi fosse estra-nea, rapporti Stato-Chiesa già validamente definiti). In maniera non inferiore, i teocon hanno trasfuso le loro indicazioni nella Carta del Popolo della Libertà, prima “le radici giudaico-cristiane dell’Europa e la sua comune eredità culturale classica ed umanistica, insieme con la parte migliore dell’illuminismo, sono le fondamenta della nostra visione della società” e successivamente “noi sappiamo che i valori umanistici e cristiani si confrontano con i risultati del progresso scientifico, in par-ticolare in ambito biomedico. Tale progresso ha contribuito in maniera straordinaria alla salute ed al benessere di tutti i cittadini. Noi pensia-mo che la libertà e il progresso della ricerca biomedica vadano quindi salvaguardati e per questo debbano essere coniugati con i principi della protezione e della promozione della dignità umana, con il diritto alla vita, l’unicità di ogni vita umana, l’eguaglianza di tutti gli esseri umani, la tutela della salute”. Non è da meno dei primi due la piattaforma dell’UDC, che si rifà dichiaratamente ai modi dei partiti cattolici: “il dovere di “guidare” eticamente e politicamente il Paese, al di là delle ef-fimere rilevazioni statistiche del consenso. L’unità politica dei cattolici è formula che appartiene ad altra e superata stagione storica. Ciò però non vuol dire che tutti coloro che si riconoscono nell’ispirazione cristiana debbano necessariamente accettare la “diaspora” come condanna inap-

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pellabile della storia dei cattolici italiani e non possano invece ritrovarsi in una stessa casa politica” e si rivolge ad “un popolo laico che non si riconosce più nelle posizioni laiciste e che sente giunta l’ora di intra-prendere nuovi sentieri”. In conclusione, tutti e tre questi partiti sono attualmente contro il separatismo.

La questione della natura dello Stato, se separatista o concordatario, è invece una questione essenziale in linea di principio. Con conseguen-ze strutturali sulla formazione di ogni genere di rapporti tra i cittadini, tra di loro e nelle istituzioni. Il PD ha dichiarato formalmente la sua scelta concordataria, il che rende obiettivamente impossibile poterlo considerare in partenza, al di là dei discorsi da comizio, compartecipe di un’iniziativa politica di modifica del richiamo del Concordato nel-la Costituzione. Il Popolo della Libertà è palesemente acquiescente a quelle che appaiono le prevalenti intenzioni del moderatismo con-formista ed abitudinario della religione come pratica della comunità, dalle radici giudaico-cristiane al confuso assemblaggio tra progresso scientifico, dignità umana e diritto alla vita. L’UDC non nasconde, pur esimendosene a parole, l’obiettivo di voler ricostituire – oggi magari per scelta più che per stretta necessità – il partito di cattolici moral-mente ossequienti alla linea e alla terminologia confessionale (non per caso si riprende la fantasiosa distinzione tra laici e laicisti).

Il mondo dei separatisti deve dunque operare con rigorosa coeren-za. Deve puntare sulla capacità dei cittadini di mentalità laica, credenti e non credenti, di riconoscere l’importanza del nuovo clima politico culturale per poter affrontare i problemi della vita quotidiana, di oggi e del futuro. Da quelli socio economici a quelli della manifestazione delle proprie iniziative e modi di essere. Opportunità che sono soffo-cate dallo strumento concordatario. La capacità innovativa del puntare alla separazione non può che accompagnarsi all’innovazione nei crite-ri di mobilitazione dei cittadini. È necessario irrobustire e diffonde-re la consapevolezza che il problema è parte importante della libertà di convivere tra cittadini diversi, che abbiano una chiesa oppure non ne abbiano alcuna. Basandosi sulla folla di cittadini ed associazioni di svariata natura che, seppure scollegati, già condividono in silenzio la sovranità del cittadino oppure già si sono in qualche modo attivati per difenderla in linea di principio da ogni ipoteca confessionale – e questo non dimenticando neppure gli ambienti del centro sinistra di-sponibili, così come quelli del centro destra, che pure esistono – ci si potrà rivolgere innanzitutto, anche se di certo non solo, a coloro che non condividono le presenti offerte politiche o faticano a riconoscersi in loro (che nell’essenza finiscono per essere di potere, consociative,

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affaristiche, confessionali, nostalgiche, utopistiche). L’obiettivo è mo-bilitarli in una moderna battaglia di concreta libertà di ciascuno e di tutti i cittadini, che è l’indispensabile premessa per consentire dibattiti costruttivi attorno alle idee ed ai bisogni economici del cittadino, piut-tosto che sui falsi miti della conquista del palazzo.

Una simile mobilitazione deve partire da alcune consapevolezze. Del tipo che il programma separatista consiste proprio nel metodo stesso di concepire l’istituzione aperta nel tempo per fare interagire i cittadini. Del tipo che i fautori del separatismo non si sentono dei vasi di coccio tra i vasi di ferro delle identità religiose, perché hanno capito dalla pratica sperimentale che i legami robusti della convivenza sono quelli più fluidi nelle correlazioni e capaci di duttilità. Del tipo che nel costruire la mobilitazione sul separatismo, all’interno dell’area laica va dismessa ogni attitudine alle gelosie di protagonismo perso-nale e di gruppo. Del tipo che il separatismo sta sempre alla larga dei bipartitismi perché il di qua o il di là, al di fuori di particolari scelte elettorali, sono il rifiuto della diversità e del tempo. Del tipo che, come ricordato al capitolo 31.d, i cittadini si comportano statisticamente in modo assai meno conforme alle pratiche religiose e che quindi diven-gono più ricettivi, se sollecitati, a riflettere sulla loro contraddizione del fare scelte di vita più religiosamente autonome e al contempo di continuare a sopportare l’istituto concordatario che quell’autonomia intende strutturalmente toglierla. A chi è rassegnato a sopportare per abitudine il concordato e a motivarlo dicendo “pensiamo così di soddi-sfare la nostra spiritualità religiosa”, si deve replicare che per esercitare tale bisogno occorre la libertà di religione (che il separatismo assicura) e non il regime concordatario che neppure asseconda la libertà di reli-gione perché la ritualizza.

Il pericolo reale non è la Chiesa. Quando ad esempio la enciclica Caritas in Veritate scrive “l’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano”, asserisce del tutto legittimamente il suo credo. Però espri-me una pura petizione di fede non verificabile dal punto di vista spe-rimentale. E da questo punto di vista, è stato viceversa possibile verifi-care che, facendo a meno dell’ipotesi di Dio (che solo i cattolici chiusi presumono equivalente ad escludere Dio), si è riusciti a progredire nel conoscere il mondo fisico e a creare istituzioni più garantiste nei con-fronti della libertà e sovranità responsabile del cittadino. Insomma, la Chiesa, è vero, si considera depositaria della verità rivelata e, indossata tale corazza, non ha mai accettato il principio della separazione Stato religioni. Ha sempre cercato di imbrigliarlo ricorrendo ai concordati. Però la Chiesa è chiara, dice “in materia religiosa segui il tuo Vescovo”,

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e così il cittadino, quando invece si tratta di organizzare la convivenza civile, può cogliere bene quale è la scelta che lo garantisce di più e con maggior coerenza. Se quella del pastore religioso oppure quel-la del proprio rappresentante civile. Viceversa, il pericolo reale per la laicità delle istituzioni sono quelle persone e quei politici che tentano di negare le differenze, sul piano civile, tra la mentalità laica e quella religiosa e fanno della fede una fonte legislativa. E poi, non contenti, quei politici provano pure a dirsi liberali in quanto lasciano libertà di coscienza nei referendum sulla legge sulla procreazione medicalmente assistita. Non deve esser loro consentita questa ipocrisia grifagna che ammorba la convivenza. Sono davvero pericolosi.

Primo, perché quella differenza di mentalità tra separatisti e con-fessionali c’è ed è decisiva. Le leggi separatiste si fondano sull’autono-mia responsabile dell’individuo, quelle religiose vorrebbero imporre a all’individuo il comportamento che la comunità ritiene giusto (la ra-gione è la volontà di instaurare un modello chiuso, come esaminato al capitolo 25). Secondo, quella differenza di mentalità c’è ed è decisiva perché i cattolici chiusi favoriscono la divisione della società tra co-munità, uniformi al loro interno e contrapposte l’una all’altra, con ciò incentivando lo spirito della sopraffazione in nome del proprio sacro destino, il tutto a scapito dallo spirito della crescita individuale. Terzo, quella differenza di mentalità c’è ed è decisiva perché i cattolici chiusi privilegiano l’appartenenza alla propria comunità e ciò fomenta nel paese il clima delle regole fondate sui rapporti amicali piuttosto che sul diritto delle leggi. Quarto, quella differenza di mentalità c’è ed è decisiva perché i cattolici chiusi si adoperano per porre al centro del dibattito politico partitico il soddisfare questa loro arretrata imposta-zione concordataria e i suoi antichi costumi attualmente retrogradi. Quinto, quella differenza di mentalità c’è ed è decisiva perché i catto-lici chiusi frappongono gravi ostacoli all’approccio con il mondo della scienza e della ricerca, impedendo così di improntare ad una logica di conoscenza, innovativa e realistica, l’azione politica di governo e della vita quotidiana. Sesto, quella differenza di mentalità c’è ed è decisiva perché i cattolici chiusi si preoccupano quasi solo delle loro conve-nienze mondane dissimulandole dietro la pretesa di agire nel nome della croce.

Sono loro, i cattolici chiusi, e in primo luogo quelli impegnati in politica, ad essere i veri avversari del principio separatista Stato religio-ni. Si occupano della loro convenienza spicciola, nonostante si masche-rino dietro formali professioni di essere mansueti ed avversari degli estremismi. Sono viceversa loro che di fatto hanno vissuto di estremi-

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smo e che lo alimentano di continuo opponendosi alla ragionevolezza dei cambiamenti reali e del mutare classi dirigenti. Considerano il si-stema concordatario come una sorta di polizza di garanzia per il man-tenimento della loro funzione intermediaria tra il cittadino e i corpi ecclesiali. Per questa ragione fanno finta di non vedere la realtà. Vale a dire la realtà che in Italia non esiste la questione della libertà religiosa (se esistesse, sarebbe l’unica rivendicazione politicamente giusta tra le richieste religiose). Che solo disconoscendo questa libertà si può riven-dicare il Concordato. E che, di conseguenza, andare oltre il Concorda-to è una vera e propria questione di dignità nazionale attinente il con-sapevole orgoglio di riconoscere il dato concreto che in Italia sussiste il regime di libertà religiosa. Sono i cattolici chiusi che vogliono dare la falsa impressione di nascondersi dietro la dottrina della gerarchia. Sia per acquisire dei meriti presso di essa, sia per provare ad attribuirsi, dentro i rispettivi movimenti partitici e presso gli altri cittadini, uno spessore morale religioso.

Anche se vogliono farlo credere, non è che i cattolici chiusi siano obbligati dalla Chiesa a tenere in materia civile il comportamento che loro tengono. Anzi il loro atteggiamento tende a contrastare gli spunti di disponibilità che essa fa balenare da tempo. Spunti di cui i separati-sti, i laici, i liberali devono tener conto, senza sopravvalutarli, ma senza ignorarli, proprio in vista del programma delineato al capitolo prece-dente e del conseguente mobilitarsi per reintrodurre la separazione Stato religioni. Oltretutto gli stessi segnali dovrebbero intanto essere seguiti soprattutto da quelli come i cattolici chiusi che, a parole, dicono di essere fedeli alle indicazioni religiose della Chiesa. Come abbiamo visto nel capitolo 34, il Concilio Vaticano II innanzitutto non ha fatto parola di concordati, e in aggiunta nella Gaudium et spes ha detto che la Chiesa “non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente ac-quisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni”. Papa Giovanni Paolo II nel discorso in Brasile ai Vescovi ha confermato che “un’interferenza diretta da parte di ecclesiastici o religiosi nella prassi politica, o l’eventuale pretesa di imporre, in nome della Chiesa, una linea unica nelle questioni che Dio ha lasciato al libero dibattito degli uomini, costituirebbe un inaccettabile clericalismo”. E poi la Centesimus Annus, come osservato al capitolo 36, non include la religione tra le categorie opportune per creare efficaci istituzioni politiche.

Di fronte a queste enunciazioni della Chiesa ai massimi livelli, i fautori della separazione, i laici, i liberali, sarebbero autolesionisti se

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non avvertissero che il loro impegno determinato a favore della laicità delle istituzioni è indispensabile rivolgerlo verso i reali avversari poli-tici e non verso le istituzioni religiose. Dato che queste ultime non solo svolgono il loro compito (e ne hanno il diritto in base alla libertà di religione) ma esprimono insieme la consapevolezza che l’uso dei diritti privilegiati di cui attualmente godono “può far dubitare della sincerità della sua testimonianza”. Una simile consapevolezza è anzi da utilizzare nel percorso di mobilitazione che ho descritto al capitolo 39. È possi-bile che il clima nella Chiesa sia diverso da quello del 1929, del simul stabunt oppure simul cadent tra parte internazionale e parte italiana dei Patti Lateranensi. Non è escluso in partenza che di fronte ad una ferma e manifesta volontà separatista degli italiani, la controparte, fatti salvi i suoi diritti di libertà, per il resto prenda atto.

Questa consapevolezza della Chiesa non è tra l’altro sorpassata. Trova conferma in un passaggio della Nota del 2002 del cardinale Rat-zinger (“Ii riconoscimento dei diritti civili e politici e l’erogazione dei pubblici servizi non possono restare condizionati a convinzioni o presta-zioni di natura religiosa da parte dei cittadini”) e dopo anche nella linea di Benedetto XVI. A novembre 2008, il Papa ha sottolineato “urge il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicende-vole sono possibili e necessari”. Un concetto simile, nel quadro del Con-cilio e del predecessore, tocca una questione importante che i liberali sostengono da lunghissimo tempo e che è nel nocciolo del separatismo. Le identità dei cittadini non sono indifferenziate, tanto più se si trat-ta di religione. Invece, se una religione diviene fonte legislativa, si fa confusione sul senso del dialogo, si sparge conformismo e si imbocca la strada dei fondamentalismi. E dunque anche quello di Benedetto XVI è un ragionamento che non rifiuta frontalmente la possibilità di separazione Stato religioni.

Ancora. Nel maggio 2010, nella prolusione all’Assemblea della CEI, il suo presidente Cardinale Bagnasco, confermando l’impegno della Chiesa per la celebrazione nel 2011 dell’anniversario dell’Uni-tà d’Italia, ha sostenuto che il Concordato 1984 “si presenta come un approdo di generale soddisfazione” ma che esistono ancora “contrappo-sizioni” e che superarle “significa accettare che l’unità non ha rappresen-tato il prevalere di un disegno politico su altri disegni; certo anche questo è avvenuto, ma è stata soprattutto il coronamento di un processo ardito

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e coerente, l’approdo ad un risultato assolutamente prezioso, che impo-ne tuttavia a ciascuna componente un’autocritica onesta e proporzionata alla quota di fardello caricato − magari involontariamente − sul passo comune”. Confrontato con le scomuniche di Pio IX, il non expedit e la radicale avversione della Chiesa al processo unitario, parlare dell’Uni-tà d’Italia come processo ardito e coerente (quindi lo era il disegno di Cavour e di Vittorio Emanuele II che voleva il Libera Chiesa in Libero Stato) non è poco, anche perché riconosce l’esistenza di contrapposi-zioni e dunque (pur non lo esplicitandola) l’inadeguatezza del Concor-dato 1984. E tre mesi prima, come illustrato al capitolo 33, il Segretario di Stato Cardinale Bertone aveva spiegato con assoluta chiarezza la differenza indubitabile tra la rappresentanza (che caratterizza la de-mocrazia) e la testimonianza (che caratterizza la Chiesa). Sono sintomi ulteriori di una attenzione al problema, ovviamente da far maturare in senso separatista con il concreto agire dei cittadini Italiani.

L’assumere come avversaria l’istituzione religiosa Chiesa piuttosto che i cattolici chiusi sostenitori della fede come legge, non è solo un grave errore strategico ma è anche un errore tattico. Attaccando l’isti-tuzione Chiesa in quanto tale, si frappongono difficoltà non piccole verso quel mondo cattolico che, come ho trattato al capitolo 32.g (ma anche in altri passaggi come il capitolo 33.i), vorrebbe, attraverso la linea della religione, della sua spiritualità, della sua coerenza pedago-gica, che la Chiesa prendesse atto del superamento del sistema concor-datario. Compiere questo attacco sarebbe un errore tattico operativo ma anche una contraddizione grave della natura separatista. Il separa-tismo è impegno politico per istituzioni fondate sulle diversità dei cit-tadini. Insomma, i laici e i cattolici non chiusi possono ben convergere sul superare il concordato e dar corso più libero ai cittadini, eppure su altri aspetti importanti pur restando distinti culturalmente.

Esaminiamone alcuni. C’è la questione essenziale per cui molti cattolici non chiusi, in campo religioso attribuiscono all’uomo dirit-ti che precedono lo Stato e ne prescindono. Ed imputano al sistema concordatario proprio di essere un’alleanza per il potere dei gruppi dominanti a danno dei cittadini deboli con pochi diritti. Così la Chie-sa si farebbe forte del radicamento nella società per svolgere un ruolo di mediazione sociale tra cittadini e categorie, analogo a quello dello Stato, ruolo che costituirebbe una missione impropria della Chiesa ri-spetto al messaggio evangelico. Da qui molti cattolici critici traggono la distinzione tra Chiesa stato e Chiesa popolo di Dio ed incolpano la prima di esercitare un potere temporale che ingabbia la seconda e non ascolta la voce del Vangelo. Ora, se si restasse all’impostazione delle

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idee indifferenziate, il mondo separatista e quello di questi cattolici critici non potrebbero camminare insieme (proprio sul punto dei dirit-ti naturali). Lo possono invece ben fare (e lo debbono fare) nella logica non totalizzante ed aperta della laicità (che si fonda sulla diversità) per reintrodurre il separatismo Stato religioni.

Ci sono poi altri gruppi di cattolici che non sono critici verso la Chiesa e che sono non chiusi. Il robusto dibattito che anima questi ambienti sulla questione della laicità, dal loro punto di vista è chia-ramente mosso dalla esigenza di adeguare il cattolicesimo alla ricerca civile. Tanto che viene affrontato il problema dei presupposti della laicità istituzionale ridiscutendone il nocciolo, che, come abbiamo visto, è la distinzione tra i criteri dell’interagire degli individui e le posizioni o scelte degli individui (distinzione analoga alla questione del “come se Dio non ci fosse” o in altri termini “non occorre l’ipotesi dell’azione di Dio”). Il problema dibattuto è se nell’ottica religiosa non sia il caso di affidarsi alla libertà religiosa piuttosto che alla sana laicità, perché, citando le parole di Diotallevi, la prospettiva della li-bertà religiosa consente al secolarismo che “non da luogo ad alcun nuovo stabile ordine sociale” di dar rilievo alla specifica caratteristica del Cristianesimo, quella “di rivelarsi anche come una realtà ben-più-che-solo-religiosa”. L’obiettivo di una simile contesa interna al mondo cattolico non interessa ai separatisti sotto il profilo degli aspetti reli-giosi (non tocca l’essenza del principio di separazione, l’interrogarsi di certi cattolici sulla possibilità che questo principio possa considerarsi interno al mondo cristiano). La discussione è viceversa significativa per i separatisti se si considera quale ricerca esterna all’ambito reli-gioso sul come si possa manifestare la laicità istituzionale rispetto alla insufficiente (di certo per i cattolici) richiesta inevasa di senso e in quale misura sia possibile colmarla. Se è questo, la discussione avreb-be imboccata la via del riconoscere che la laicità non è più la peste del secolo che ha l’intenzione di escludere od osteggiare la Chiesa. Que-sta è una via potenzialmente molto utile al principio di separazione. Può essere la premessa, di fronte ad un deciso programma formale dei separatisti, per agevolarne quanto meno la presa d’atto, se non anche, da parte di alcuni, l’appoggio sul piano civile. E dunque se ne deve tener debito conto.

Inoltre, vi è anche da tener conto della novità del fatto che, alla ce-lebrazione istituzionale del 140° anniversario di Porta Pia, le massime gerarchie del Vaticano, nella persona del Segretario di Stato Bertone (nel 1970, al 100° anniversario, c’era “solo” il vicario di Roma, cardina-le Dell’Acqua), hanno deciso di prendervi parte con il Presidente Na-

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politano. Il che mostra certo la coerenza del Presidente nel praticare il suo convincimento di poter sempre “arrivare a una combinazione delle diverse sensibilità” (lo stesso che lo ha indotto a fare la lettera sul croci-fisso del giugno 2010, vedi capitolo 23). Mostra anche che la Chiesa ha curato passo passo il seme delle parole della prima apertura di Giovan-ni XXIII (vedi il capitolo 10) ed è ora disponibile a non restare ferma al significato del Concordato 1929, al punto di celebrare addirittura l’evento della breccia che Pio IX allora rifiutò perché, diceva, aveva resa prigioniera la sua persona e definitivamente violato il non rinun-ciabile principio del potere temporale. Insieme al riflettere su questa novità non banale, c’è però da prendere atto che il 140° anniversario di Porta Pia ha visto la Questura non autorizzare una manifestazione della Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni, annunciata da mesi, a causa della priorità esclusiva concessa ad un’altra manifestazio-ne dell’associazione Militia Christi. Una manifestazione in “Onore ai caduti Pontifici” “a 140 anni dai tragici eventi che portarono le truppe del liberal-massonico Regno sabaudo ad invadere lo Stato Pontificio, allora li-bero, sovrano e popolare” con il fine di “liberarsi di quel laicismo anticle-ricale che dalla Breccia è giunto virulento fino ad oggi”. Questo episodio è un’ulteriore dimostrazione della assoluta necessità dell’impegno se-paratista per sgombrare il campo delle arbitrarie ricostruzioni storiche e fare così chiarezza istituzionale sul significato del Libera Chiesa in Li-bero Stato, che è stato parte determinante del Risorgimento. Balza agli occhi che, nel 2010 concordatario, le burocrazie della Questura roma-na (o i superiori del Ministero dell’Interno?) fanno celebrare la condi-visione dell’anniversario del XX Settembre fingendo di non conoscere né le mappe di Porta Pia con le loro larghe superfici né la sostanza non formale del diritto di manifestare patrimonio di tutti i cittadini.

La mobilitazione per il programma separatista è dunque un’esi-genza della realtà, che ha molti spazi ma che richiede sforzo in ogni direzione. Anche presso quegli ambienti della sinistra che nella vulga-ta dovrebbero essere terreno fertile. Proprio mentre l’autore scriveva queste righe conclusive, un’icona di quel mondo, la nota editorialista Annunziata, ha redatto la prefazione di un famoso libro, Lettera ad un bambino mai nato. Con due passaggi attinenti la materia qui trattata. Il primo è uno squarcio che ripropone trentasei anni dopo l’incredulità della sinistra per cosa accadde al referendum per il divorzio (lo ho già segnalato alla fine del capitolo 13): “dalle sagrestie di tutta italia era uscita una sorprendente maggioranza a favore della legge per il divorzio. Dico sagrestie, perché quei numeri lì a favore del divorzio non sarebbero stati raggiunti se non fosse stato il paese in massa, anche quello cattolico,

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fedele e perbene, a dare il proprio consenso a quella legge del diavolo”. Una vivida immagine di chi ha tuttora difficoltà a capacitarsi dell’esi-stenza dei cittadini individui pensanti che, seppur credenti, votano in modo autonomo dai cattolici chiusi ed è restio, essendo prigioniero di una formazione ideologica (nel caso quella marxista), ad abbandonare la concezione comunitaria del rapporto tra le masse di sinistra e catto-liche, a costo di non arrendersi all’evidenza dei fatti storici.

Il secondo passaggio è, se si vuole, una conseguenza di quella dif-ficoltà di intendere la laicità, ma è concettualmente ancor più chiarifi-catore: “la morale e la scienza non si possono dividere. Almeno di fronte alla dignità di sé”. Morale e scienza sono necessariamente divise per struttura logica. Lo negano solo le mentalità comunitarie e religiose, in campo civile specie quelle chiuse, le quali poi cercano di strumentaliz-zare la divisione per proporre sterili commistioni innaturali tra le due cose. Ancor più morale e scienza sono divise nella dignità di sé, che dovrebbe consistere prima di tutto nell’accettare la realtà per come è e non per come vorremmo. Mi pare ci sia molto da discutere per tor-nare al principio di realtà connaturato al separatismo. Ai fini del pro-gramma separatista, è comunque sufficiente che questi ambienti della sinistra ammettano che la separazione Stato religioni da più garanzie anche a chi non la pensa come loro.

Per far progredire il programma di separazione, occorre dunque che quelli che ne sono fautori si impegnino in ogni direzione con de-terminazione, duttilità e pazienza. La questione decisiva è far maturare la consapevolezza che la eticità e i concetti spirituali dei religiosi (del tutto leciti) non devono trasformarsi in criteri politici per legiferare e per l’atteggiarsi pubblico. Non in base al pregiudizio ideologico, ma in base all’esperienza storica (ed anche alla logica). La grande chiave usata dal separatismo è trattare la convivenza solo con leggi ordinarie che parlano di religione esclusivamente per assicurarle la libertà. Per il resto, la fede non è una norma né il modello per le norme. Le pub-bliche istituzioni restano neutrali in campo religioso, vale a dire non inglobano alcuna fede nei propri meccanismi.

La convivenza democratica non si basa tanto sulla democrazia del voto quanto sulla libertà del voto che deriva dalla sovranità dei cittadi-ni. Infatti, la democrazia del voto senza la libertà del voto può usare la pressione del mito egalitario per imporre aspirazioni e gusti del potere (se del caso anche quello concordatario), concependo la volontà popola-re svincolata dalle regole e producendo conformismo. Invece la libertà del voto si fonda sui diritti di libertà del singolo cittadino e di continuo ricerca le regole storicamente più adatte per preservare le minoranze

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dai soprusi delle maggioranze, promuove la diversità e produce l’ugua-glianza dei diritti. Perciò mette le fedi di ciascun uomo, i loro valori e i loro simboli su uno stesso piano esterno ai meccanismi delle decisioni pubbliche. La libertà del voto non riguarda le categorie religiose. La libertà del voto riguarda i differenti cittadini e non è assillata, per usare l’immagine della filosofa De Monticelli, da “un forte bisogno di apparte-nenza comunitaria, e in questo senso di identità» che portano al pericolo de “l’uso del nome di Dio per fondare la politica e la legge” e a far sì che “individuo sia diventata una brutta parola, bisogna dire persona”.

Di fatti la grande questione del ricorrere al separatismo e del di-staccarsi in termini legislativi e civili dalla religione, è una presa d’at-to del fatto che la religione non vuol riconoscere la sovranità piena del cittadino. Sempre con le parole della De Monticelli “a me pare incredibile che un termine di radice kantiana, come “autodeterminazio-ne” – una variante di “autonomia”, vale a dire “libera soggezione alla legge morale” – possa essere inteso nel senso della “possibilità” (vale a dire, immagino, “liceità morale”) di fare quello che ci pare. Eppure devo arrendermi all’evidenza”. Che è quella della religione che sostiene la tesi “libertà di coscienza sì, principio di autodeterminazione no”. Que-sto accade appunto perché l’impostazione religiosa è quella di essere la guida insostituibile dei propri fedeli nella determinazione del bene comune. Situazione differente nel sistema separatista. Qui si può non essere d’accordo sulla religione proprio perché non c’è obbligo di esse-re d’accordo, mentre sulle leggi un cittadino si uniforma a loro anche se non è d’accordo, altrimenti è sanzionato. Esattamente per questo motivo le leggi non devono essere impositive in materia di libertà reli-giosa e di coscienza.

Non v’è dubbio che l’Italia, quanto a livello di laicità, è un’ano-malia nel mondo civile. Il separatismo non è una questione sofisticata lontana dai problemi della vita quotidiana. Al contrario è vita quoti-diana della libertà profonda nei rapporti sociali. Che non prescindo-no ma anzi dipendono dal come si inquadra in partenza la sovranità del cittadino. Per imboccare l’adozione della separazione tra Stato e religioni, si deve far crescere la mobilitazione dei cittadini. Non con-tro la religione o la religiosità di ognuno o di gruppi, bensì sull’ac-quisire consapevolezza che adottare pretese religiose nella struttura istituzionale pubblica costituisce necessariamente un attentato alla li-bertà sovrana di ciascuno. Perché la libertà del cittadino è il più forte e duraturo collante sociale mai esistito per lo sviluppo. Le istituzioni sono strumenti che i cittadini si sono dati per convivere al meglio nel-le date condizioni storiche. Qualora qualche cittadino o molti preten-

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dano di modellarle sul proprio credo religioso – che per definizione attiene alle cose non dimostrabili e non sperimentabili – le istituzioni diverrebbero discriminatorie verso coloro che non hanno lo stesso credo e non rispetterebbero più il criterio della sovranità individuale del cittadino.

Avendo questo fine, in Italia, credenti e non credenti debbono li-berarsi dell’inerzia di lunghissimo periodo che deriva dalla lotta al temporalismo. È un’abitudine da abbandonare perché il temporalismo non c’è più. Oggi, i pericoli sono quelli fondamentalisti, più urgenti e di tipo più radicale. Come ho detto prima, gli avversari della laicità delle istituzioni sono i cattolici chiusi, politici innanzitutto e cittadini normali. Anche se non lo dicono apertamente, loro aspirano ad istitu-zioni dogmatiche e assolutiste nella struttura onde soddisfare la loro fissazione per l’identità comunitaria anche a costo di confliggere con le ragioni della sovranità del cittadino. Sarebbe ben curioso che, per sconfiggere le pretese degli ultras della religione cattolica, si adottasse la diffusa prassi cattolica del combattere l’errore e non colui che erra. I separatisti, i laici, i liberali non devono combattere l’errore religioso sul piano politico civile perché quello che afferma la religione non riguar-da il piano politico civile. Invece i separatisti, i laici, i liberali devono combattere gli erranti sul piano politico civile perché sono pericolosi per la convivenza quando – non conta che lo facciano con consape-volezza oppure no – sostengono sul piano civile dogmi e assolutismi che minano la sovranità del cittadino. È assolutamente necessario, con determinazione, duttilità e pazienza, ribaltare il conformismo di chi, credente e non credente, pratica e sostiene gli errori del Concordato. Oltretutto tale conformismo non è capace di vedere che il diritto ordi-nario della libertà religiosa è, nella prospettiva della stessa istituzione religiosa, strutturalmente più ampio e più garantista che non i privilegi ottenuti con gli accordi pattizi.

L’Italia ha di certo bisogno che tutti i cittadini responsabili contri-buiscano alla rigenerazione della vita pubblica. Ma portando ciascu-no le proprie idee e le proprie esperienze. L’ansia di ricostruire sulle rovine di un sistema corrotto non può far confondere tra loro ruoli e compiti dei laici e dei religiosi (da noi soprattutto i cattolici). Per una nuova civiltà politica e per nuove alleanze di ricostruzione, occorrono progetti e programmi che non si affidino neppure di sfuggita al para-metro della fede religiosa. In una democrazia liberale, i religiosi come tali (coloro che vorrebbero come fonte delle leggi il loro credo e non la convivenza tra diversi) non costituiscono una politica e se la costituis-sero sarebbe un pericoloso fondamentalismo.

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475Parte III – Impegnarsi per il separatismo…

La politica separatista non esaspera i diritti di qualcuno contro quelli degli altri. Farlo sarebbe contrario alla consapevolezza della di-versità individuale, che non è mai sovrapporsi agli altri ma produrre un concorrente contributo originale. La via è trovare di volta in volta il modo per far convivere i differenti diritti contemperandoli. Non è facile, e per questo il separatismo non intende essere l’utopico nirva-na. Resta però indispensabile come continua ricerca da parte di chi è estraneo all’idea di modello immutabile. Ai cittadini si chiede solo di riconoscere che la società è plurale e che intorno a ciascuno di noi sta-rà qualcuno che vive in modo differente dal nostro. Nel reciproco ri-spetto. Immersi nello scorrere del tempo. È un impegno cui possiamo prender parte tutti, eccetto i fondamentalisti, che vorrebbero imporre il loro modello e congelare il tempo. Come separatisti, dobbiamo avere il coraggio di dire le cose come stanno, non solo confutando le tesi integraliste ma anche non favoleggiando unità indifferenziate tra i fi-loni democratici all’insegna di mitici approdi futuri. È il solo modo di convivere liberamente nella modernità e nella ricerca. Riaffermando la difficile centralità dell’individuo, dinamicamente responsabile, parte-cipe della convivenza ma non ingruppato in modo acritico in una co-munità. L’aspetto decisivo è appunto questo. La separazione tra Stato e religioni è una politica che mobilita aggregando chi la condivide senza risucchiarne lo spirito critico individuale. Anzi assicurando le massime possibilità espressive.

Il principio  separatista è il principio per creare le condizioni di garanzia della convivenza libera e pacifica sui grandi temi dell’oggi e del domani, consentendo a ciascuno di vivere i propri valori spe-rimentandoli senza obbligare qualcun’altro ad accettarli.  Adottare il principio di separazione è rispondere, attuandone la procedura, a quanto espresso alla Costituente da Dossetti, un avversario dichiarato del separatismo. Per dare solennità all’articolo 7, Dossetti disse che “il passaggio dall’attuale sistema concordatario al sistema in cui lo Stato unilateralmente disciplina i rapporti con la Chiesa… può avvenire solo in forza di un atto solenne, cioè in forza di un procedimento di revisione co-stituzionale”. Appunto, arrivare a modificare la Costituzione per ridare piena sovranità al cittadino, di nuovo applicando lo spirito cavouriano, decisivo per affrontare costruttivamente i problemi della convivenza.

Ecco, si dovrà adottare il principio separatista tra Stato e religioni per porre fine ai miti del novecento: l’inneggiare al collettivismo quale via per superare le propensioni al potere predatorio ricorrenti nell’ani-mo umano, il voler garantire la convivenza con le ideologie relegando in secondo piano la libera sovranità di ogni cittadino, l’esaltare i grandi

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schieramenti delle masse popolari che dissolvono il cittadino, il fare del moderatismo autoreferenziale e compiaciuto l’emblema del paese e il centro del potere, il praticare la politica non con il progettare e con il comportarsi ma con i soliti strumenti degli eventi spettacolari e delle proteste modellate sugli egoismi di gruppo, utopiche e fuori della dimensione tempo. Insomma, quei miti secondo cui l’essenza dell’impegno politico sarebbe solo enunciare i desideri a prescindere dal misurarli nella realtà che evolve.

Adottare lo sguardo lungo del principio di separazione è il modo più coerente di celebrare il 150° dell’Unità d’Italia, che su di esso è sor-ta, e di mantenerne la caratteristica di sempreverde. Di fatti, lo sguardo lungo è la maniera concreta in cui ciascuno ed ogni generazione pos-sono contribuire alla convivenza nella cittadinanza. Al giorno d’oggi, riorganizzare le istituzioni secondo il principio della separazione Stato religioni è l’unico vero segno che va oltre l’effimera contingenza.

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parte iv documenti Storici

A

Discorso di Cavour alla Camera dei Deputati del 25 marzo 1861 sulla questione di Roma capitale

Signori deputati, l’onorevole deputato Audinot con parole gravi ed elo-quenti, quali si addicevano all’altezza dell’argomento che egli ha preso a trat-tare avanti a voi, anziché rivolgere al Ministero interpellanze su fatti speciali, vi ha fatto una magnifica esposizione della questione di Roma. Nel conchiu-dere il suo discorso, egli lo riassumeva chiedendo al Ministero schiarimenti su due punti particolari, cioè sulle voci che correvano e corrono circa a negozia-zioni intavolate con Roma, e circa pratiche fatte o da farsi per ottenere l’appli-cazione del principio di non intervento alla questione romana; poi terminava con una interpellanza di ben altro momento, terminava, cioè, chiedendo al Ministero quale fosse la linea di condotta che egli intendeva seguire in questo supremo argomento.

E ben egli si apponeva; l’attuale discussione non poteva, né doveva essere ristretta allo scambio di poche spiegazioni; poiché la questione di Roma é posta sul tappeto, ragion vuole che essa sia trattata in tutta la sua ampiezza.

Ma, o signori, prima di accingermi a rispondere non solo propriamente alle interpellanze dell’onorevoIe deputato Audinot, ma a quel complesso di considerazioni che egli ha esposte can tanta efficacia, mi sia lecito il ricordarvi che l’attuale questione è forse la più grave, la più importante che sia stata mai sottoposta ad un Parlamento di libero popolo. La questione di Roma non è soltanto di vitale importanza per l’Italia, ma è una quistione la cui influenza deve estendersi a 200 milioni di cattolici sparsi su tutta la superficie del globo; è una quistione la cui soluzione non deve solo avere un’influenza politica, ma deve esercitarne altresì una immensa sui mondo morale e religioso.

L’onorevole deputato Audinot vel disse senza riserve: Roma debb’essere la capitale d’Italia. E lo diceva con ragione; non vi può essere soluzione della questione di Roma se questa verità non è prima proclamata, accettata dall’opi-nione pubblica d’Italia e d’Europa (a sinistra: bene!). Se si potesse concepire l’Italia costituita in modo stabile, senza che Roma fosse la sua capitale, io dichiaro schiettamente che reputerei difficile, forse impossibile, la soluzio-

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ne della questione romana. Perché noi abbiamo il diritto, anzi il dovere di chiedere, d’insistere perché Roma sia riunita all’Italia? Perché senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costruire (approvazione).

A prova di questa verità già vi addusse molti argomenti l’onorevole preopi-nante. Egli vi disse con molta ragione che questa verità, essendo sentita quasi istintivamente dall’universalità degli italiani, essendo proclamata fuori d’Ita-lia da tutti coloro che giudicano delle cose d’Italia con imparzialità e amore, non ha d’uopo di dimostrazione, è affermata dal senso comune della nazione.

Tuttavia, o signori, si può dare di questa verità una dimostrazione assai semplice, L’Italia ha ancora molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita,per abbat-tere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa; ora, o signori, poiché questa opera possa compiersi conviene che non vi siano cause di dissidi, di lotte. Ma finché la questione del-la capitale non sarà definita, vi sarà sempre motivo di dispareri e di discordie fra le varie parti d’Italia (benissimo!).

Ed invero, o signori, è facile a concepirsi che persone di buona fede, persone illuminate e anche dotate di molto ingegno, ora sostengono o per considerazioni storiche, o per considerazioni artistiche, o per qualunque altra considerazione, la preferenza a darsi questa o quell’altra città come capitale d’Italia; io capisco che questa discussione sia per ora possibile: ma se l’Italia costituita avesse già stabilita in Roma la sua capitale, credete vi che tale discus-sione fosse ancora possibile? Certo che no; anche coloro che si oppongono al trasferimento della capitale in Roma, una volta che essa fosse colà stabilita, non ardirebbero di proporre che venisse traslocata altrove. Quindi egli è solo proclamando Roma capitale d’Italia che noi possiamo porre un termine asso-luto a queste cause di dissenso fra noi…

Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellet-tuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente mu-nicipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato (segni di approvazione su vari banchi). Convinto, profondamente convinto di questa ve-rità, io mi credo in obbligo di reclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d’Italia e dei rappresentanti delle più illustri sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinché chi ha l’onore di rappresentare questo paese a fronte delle estere potenze possa dire: la neces-sità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intera nazione (applausi). Io credo di avere qualche titolo a poter fare quest’appello a coloro che, per ragioni che io rispetto, dissentissero da me su questo punto; giacché,o signori, non volendo fare dinanzi a voi sfoggio di spartani sentimenti, io lo dico schiettamente: sarà per me un gran dolore il dover dichiarare alla mia città natia che essa deve rinunziare risolutamente, definitivamente ad ogni speranza di conservare nel suo seno la sede del Governo (approvazione). Sì, o signori, per

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479Parte IV – Documenti storici

quanto personalmente mi concerne, gli è con dolore che io vado a Roma. Aven-do io indole poco artistica (si ride), sono persuaso che, in mezzo ai più splendi-di monumenti di Roma antica e di Roma moderna, io rimpiangerò le severe e poco poetiche vie della mia terra natale. Ma egli è con fiducia, o signori, che io affermo questa verità. Conoscendo l’indole de’ miei concittadini ; sapendo per prova come essi furono sempre disposti a fare i maggiori sacrifizi per la sacra causa d’Italia (viva approvazione); sapendo come essi furono rassegnati a vedere la loro città invasa dal nemico, e pronti a far energica difesa; conoscendo, dico, questi sentimenti, io non dubito che essi non mi disdiranno quando, a loro nome, come loro deputato, io proclamo che Torino è pronta a sottomettersi a questo gran sacrifizio nell’interesse dell’Italia (applausi dalle gallerie).

Mi conforta anzi la speranza (dirò anzi la certezza, dopo aver visto come fossero accolte da voi le generose parole che il deputato Audinot rivolgeva alla mia città natale), mi conforta, dico, la speranza che quando l’Italia, definiti-vamente costituita, avrà stabilita la gloriosa sede del suo Governo nell’eterna città, essa non sarà ingrata per questo paese che fu culla della libertà, per questa terra in cui venne deposto quel seme della indipendenza, che, svolgen-dosi rapidamente e rigogliosamente, si estende ormai in tutta la Penisola dalla Sicilia alle Alpi (segni d’approvazione).

Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta che Roma, Roma sola deve essere la capitale d’Italia. Ma qui cominciano le difficoltà della risposta che debbo dare all’onorevole interpellante (profondo silenzio).

Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni. Noi dobbiamo an-darvi di concerto colla Francia; inoltre, senza che la riunione di questa città al resto dell’Italia possa essere interpretata dalla gran massa dei cattolici d’Italia e fuori d’Italia come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che per ciò l’indipendenza vera del pontefice venga a menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma, senza che l’autorità civile estenda il suo potere all’ordine spirituale.

Ecco le due condizioni che debbono verificarsi perché noi possiamo anda-re a Roma, senza porre in pericolo le sorti dell’Italia.

Quanto alla prima, vi disse già l’onorevole deputato Audinot che sarebbe follia il pensare, nelle attuali condizioni di Europa, di voler andare a Roma malgrado l’opposizione della Francia.

Ma dirò di più: quando anche per eventi, che credo non siano probabili e nemmeno possibili, la Francia si trovasse in condizioni tali da non poter materialmente opporsi alla nostra andata a Roma, noi non dovremmo tuttavia compiere l’unione di essa al resto dell’Italia, se ciò dovesse recar grave danno ai nostri alleati…

Quando noi abbiamo invocato nel 1859 l’aiuto francese, quando l’impera-tore acconsentì a scendere in Italia a capo delle bellicose sue schiere, egli non ci dissimulò quali impegni ritenesse di avere rispetto alla Corte di Roma. Noi abbiamo accettato il suo aiuto, senza protestare contro gli impegni che ci di-chiarava di avere assunti; ora, dopo avere ricavato tanti benefizi dall’accordata alleanza, non possiamo protestare contro impegni che fino ad un certo punto abbiamo ammessi.

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480 Lo Sguardo Lungo

Ma dunque, mi si obbietterà, la soluzione della questione di Roma è im-possibile.

Rispondo: se noi giungiamo a fare che si verifichi la seconda delle accen-nate condizioni, la prima non offrirà molti ostacoli; se noi giungiamo, cioè, a far sì che la riunione di Roma all’Italia non faccia nascere gravi timori nella società cattolica (intendo per società cattolica quella gran massa di persone di buona fede che professano il dogma religioso per sentimento vero e non per fini politici, quella gran massa la cui mente non è offuscata da volgari pregiudizi); se noi, dico, giungiamo a persuadere la gran massa dei cattolici che l’unione di Roma all’Italia può farsi senza che la Chiesa cessi di essere indipendente, credo che il problema sarà quasi sciolto.

Non bisogna farsi l’illusione: molte persone di buona fede, non animate da pregiudizi ostili all’Italia, e nemmeno alle idee liberali, temono che, quando Roma fosse unita all’Italia, quando la sede del Governo italiano fosse stabilita a Roma, quando il Re sedesse sul Quirinale, temono, dico, che il pontefice avesse a perdere molto e in dignità e in indipendenza; temono in certo modo che il pontefice, invece di essere il capo di tutto il cattolicesimo, dovesse essere ridotto alla carica di grande elemosiniere o di cappellano maggiore! (si ride).

Se questi timori fossero fondati, se realmente la caduta del potere tempo-rale dovesse trar seco necessariamente questa conseguenza, io non esiterei a dire che la riunione di Roma allo Stato d’Italia sarebbe fatale non solo al catto-licesimo, ma anche all’Italia; giacché, o signori, io non so concepire maggiore sventura per un popolo colto che di vedere riunita in una sola mano, in mano ai suoi governanti, il potere civile e il potere religioso (bene!). La storia di tutti i secoli come di tutte le contrade, ci dimostra che, ovunque questa riunione ebbe luogo, la civiltà quasi sempre immediatamente cessò di progredire, anzi sempre indietreggiò; il più schifoso dispotismo si stabilì; e ciò, o signori, sia che una casta sacerdotale usurpasse il potere temporale, sia che un califfo o un sultano riunisse nelle sue mani il potere spirituale. Dappertutto questa fatale mescolanza ha prodotto gli stessi effetti; tolga adunque Iddio, o signori, che ciò avvenga nella nostra contrada.

Ciò premesso, io credo dover esaminare da tutti i lati la sollevata que-stione, quella cioè degli effetti che la riunione di Roma all’Italia avrà sulla indipendenza del potere spirituale del Pontefice.

La prima cosa che io debbo fare si è di esaminare se ora veramente il po-tere temporale assicuri al pontefice una effettiva indipendenza.

In verità, se ciò fosse, se il potere temporale guarentisse ora, come nei secoli scorsi, l’indipendenza assoluta del pontefice, io esiterei molto a pronunziare la soluzione di questo problema. Ma, o signori, possiamo noi, può alcuno affer-mare con buona fede che il potere temporale del pontefice, qual’è ora costitu-ito, conferisca alla sua indipendenza? No certamente, quando si vogliano con-siderare le condizioni attuali del Governo romano con ispirito di imparzialità.

Nei secoli scorsi, quando il diritto pubblico europeo non conosceva quasi nessun altro titolo giuridico di sovranità che il diritto divino; quando i sovrani erano considerati come proprietari assoluti dei paesi che costituivano il loro dominio; quando i vari Governi d’Europa rispettavono questo principio, oh!

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481Parte IV – Documenti storici

io intendo che, pel pontefice il possesso di alcune province, di uno Stato di una qualche estensione fosse una garanzia d’indipendenza. In allora questo principio era accettato, od almeno subito dalle popolazioni stesse; quindi, vo-lendo o non volendo, simpatico od antipatico che loro fosse quel governo,lo accettavano, lo subivano; perciò io non esito a riconoscere che fino al 1789 il potere temporale fu pel pontefice una garanzia d’indipendenza.

Ma ora, o signori, questo diritto pubblico è mutato; quasi tutti i governi civili riposano sul principio del consenso o tacito consenso od esplicito delle popolazioni. Noi vediamo tale principio solennemente proclamato in Francia ed in Inghilterra; noi lo vediamo quasi accettato in Prussia; vediamo che per-sino l’Austria stessa vi si accosta, e che la Russia, se lo contesta ancora, non lo respinge più con quella veemenza con cui lo combatteva l’imperatore Nicolò, il quale aveva quasi fatto del diritto divino un dogma religioso.

Ammesso che il consenso dei Popoli al Governo che è loro imposto sia necessario, è facile dimostrare che il potere temporale manca assolutamente di fondamento. Ora, che non vi sia questo consenso, che anzi vi sia stato, e vi sia tuttora un antagonismo crescente tra le popolazioni degli antichi domini del sommo pontefice, è cosa evidente.

Io non rianderò gli annali della storia; vi farò tuttavia osservare che quest’antagonismo si manifestò quasi immediatamente dopo la restaurazione del 1814.

Ed invero, o signori, pochi mesi dopo la restaurazione del 1814 noi vedia-mo, all’apparire negli Stati della Chiesa di un illustre guerriero, facendo ap-pello al principio della nazionalità italiana, noi vediamo insorgere i popoli di quelle contrade; noi vediamo proclamata la incompatibilità del Governo tem-porale colla civiltà novella di quel grande italiano, che nel suo lungo esiglio rese illustre la nostra patria, come grande economista, come abile statista; da quell’italiano che sul finire della sua carriera, per spirito di abnegazione, volle tentare l’impossibile impresa di riconciliare il potere temporale col progresso civile, e la cui morte fu una delle più grandi sventure che sia toccata all’Italia (bravo! benissimo! dalla destra). Intendo parlare di Pellegrino Rossi, che nel 1816 proclamò in Bologna il principio della nazionalità italiana.

Gli anni immediatamente successivi furono relativamente tranquilli; i popoli erano talmente spossati da quella lotta da giganti che aveva durato oltre a venticinque anni, che anelavano ad un assoluto riposo. A ciò forse contribuirono pure il Governo assai mite del venerando pontefice che illustrò allora il trono pontificale colle sue virtù, e la polilica liberale del suo ministro, il cardinale Consalvi.

Ma non sì tosto l’Italia si commosse nel 1820 e nel 1821, per ottenere libertà e indipendenza, che le Romagne, paese in cui è vivissimo l sentimento patriottico, si dimostrano insofferenti del Governo pontificale. D’allora in poi vi fu sempre antagonismo più o meno aperto fra le popolazioni dello Stato pontificio e il loro Governo. Dopo la rivoluzione del 1830 quest’antagonismo si tradusse in movimento insurrezionale; quelle provincie, senza opposizione di sorta, affermarono il loro diritto di sottrarsi al dominio temporale dei papi, e quel moto, partito da Bologna,si estese fino alle porte di Roma.

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482 Lo Sguardo Lungo

L’intervento straniero venne a soffocarlo.D’allora in poi l’intervento straniero divenne una necessità; cessò, è vero,

per qualche anno; ma se cessava di fatto, la minaccia ne durava imminente, e le truppe tedesche, ritiratesi dalle Romagne e dalle Marche, stavano accampate sul Po, pronte ad accorrere ad ogni moto che sull’altra riva scoppiasse; ciò che costituiva per certo un vero e continuo intervento.

Questo antagonismo si fece più forte e più irresistibile dopo il 1848, e d’allora in poi non bastò più la minaccia dell’intervento, l’intervento effettivo esteso a tutte le parti dello Stato divenne una necessità.

Certo, o signori, gli eventi del 1859 non hanno modificato questo senti-mento; è facile verificarlo. Le Romagne sono unite a noi ormai da due anni; la stampa vi è libera, libera vi è la manifestazione del pensiero così a laici che agli ecclesiastici; libere sono le associazioni; e le elezioni non vi sono state certamente violentate né dai Governi né dai privati.

Che queste libertà esistano, ne sia prova il fatto che in Bologna si è sta-bilito un giornale clericale; e quantunque io non lo legga, credo ch’esso sia ultraclericale, e forse più violento ancora della nostra Armonia (ilarità).

Voi sapete pure che i prelati hanno pubblicato le loro proteste non tutte formulate con quella moderazione che il santo ufficio che essi adempiono loro imporrebbe, e che non vennero per ciò molestati.

Ebbene malgrado questa libertà di cui godono le Romagne, si è forse ma-nifestato qualche rimpianto del passato Governo? Vi è una parte qualunque della popolazione che abbia desiderato l’antico regime? Sebbene (debbi con-fessarlo non solo a nome mio, ma anche de’ miei colleghi), qualche errore da noi commesso in quelle contrade abbia fors’anche prodotto alcuna causa fondata o non di malcontento: quel malcontento si traduce in qualche critica di questo o di quell’altro ministro, o forse anche dell’intero Gabinetto, ma giammai nel panegirico degli antichi governanti (segni di assenso).

Quanto accadde nell’Umbria è più notevole ancora. Appena fu divelta dal dominio clericale, appena fatta libera, l’Umbria fu sgombrata assolutamente dalle nostre truppe. necessità di guerra, considerazioni di alto momento, ci costrinsero ad appigliarci al partito, forse imprudente, di lasciare quella pro-vincia senza un solo soldato regolare, di abbandonare quel paese alle proprie forze, alla sua guardia nazionale, ed ai generosi volontari che le sue città ave-vano spontaneamente somministrato. Eppure l’Umbria non diede il più lieve segno di lamentare il passato regime; e quantunque forse si avesse ragione di temere che colà, più che in altre provincie, vi fossero elementi di reazione clericale (giacché il numero dei conventi era ivi, più che altrove, esuberante); quantunque gli eccitamenti d’ogni maniera venissero dalla vicina Roma per parte delle antiche autorità pontificie; ad onta di queste circostanze l’Umbria godette della più perfetta pace, nessun sentimento di reazione vi si manifestò nella popolazione; ed io oso dire persino che, se sull’altra sponda del Tevere non avesse sventolato il rispettato vessillo francese, probabilmente gli umbri, lasciati a loro stessi, non avrebbero tardato a stendere la mano ai loro fratelli d’oltre Tevere, e ad attirali nella gran famiglia italiana, malgrado tutti gli sfor-zi dei neofiti cattolici mascherati da zuavi (ilarità e segni di approvazione)…

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483Parte IV – Documenti storici

Quindi, o signori, mi pare aver dimostrato e stabilito in modo incontrasta-bile esservi antagonismo assoluto tra la santa sede e le popolazioni.

Se questo antagonismo esiste, qual rimedio i fautori del potere temporale possono apportarvi, onde questo stato temporale sia una garanzia della indi-pendenza del potere spirituale?

Io so che alcuni cattolici, più zelanti che illuminati, non rifuggono dal dire: il potere temporale essendo una necessità assoluta per la società cattoli-ca, esso dev’essere assicurato mercé presidii di truppe somministrate da tutte le grandi potenze cattoliche, e con fondi versati nel tesoro pontificio quando anche con questo metodo quei paesi debbano essere condannati a duro e per-petuo servaggio.

Io mi fermerò a confutare questi argomenti, degni non già di uomini pro-fessanti la santa religione di Cristo, ma piuttosto di coloro nel cui dogma re-ligioso i sacrifizi umani erano considerati come mezzo opportuno a rendersi propizie le divinità! (segni di approvazione).

Certo, o signori, non possono essere i seguaci della religione di Colui che sacrificò la vita per salvare l’umanità, quelli che vogliono sacrificare un intero popolo, che vogliono condannarlo ad un continuo martirio, per mantenere il dominio temporale del suo rappresentante su questa terra (bravo! bene!).

Altri fautori del potere temporale più moderati, più benevoli, dicono: ma egli è impossibile che il pontefice con riforme, con concessioni faccia scompa-rire l’antagonismo che ho accennato, possa conciliarsi quel popolo sul quale impera? Come mai i principii che assicurano la pace e la tranquillità delle altre parti d’Europa, applicati alle Romagna, nell’Umbria e nelle Marche, non produrranno gli stessi effetti? Ed essi insistono presso il pontefice, onde sia largo di riforme ai suoi popoli, né si sgomentano delle ripulse, ma tornano a chiedere concessioni e riforme.

Questi, signori, sono in un assoluto errore; chieggono al pontefice quello che il pontefice non può dare, perché in lui si confondono due nature diverse, quella di capo della Chiesa e quella di sovrano civile; ma si confondono in modo che la qualità di capo della Chiesa deve prevalere su quella di sovrano civile. Ed infatti, se il dominio temporale è stato dato al pontefice per assicu-rare la indipendenza della sua autorità spirituale, evidentemente il papa deve sacrificare le considerazioni riguardanti il potere temporale a quelle relative agli interessi della Chiesa.

Ora, quando domandate al pontefice di fare alla società civile le conces-sioni richieste dalla natura dei tempi e del progresso della civiltà, ma che si trovano in opposizione ai precetti positivi della religione, di cui egli è sovrano pontefice, voi gli chiedete cosa che egli non può, non deve fare. Se assentisse a siffatta domanda, egli tradirebbe i suoi doveri come pontefice, cesserebbe di essere rispettato come il capo del cattolicesimo. Il pontefice può tollerare certe istituzioni come una necessità; ma non può promulgarle, non può assu-merne la responsabilità, non può dar loro l’autorità del suo nome.

Io adduco un esempio. Il pontefice può tollerare in Francia il matrimonio civile, ma non può rimanendo pontefice, dargli l’autorità del suo assenso, non lo può proclamare come legge dello Stato. Ciò che io affermo per il matrimo-

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nio civile, lo dico per un’infinità di altre istituzioni che, considerate al punto di vista meramente cattolico, si trovano in contraddizione con alcuni precetti, e che è ormai riconosciuto essere una necessità di tollerare.

Quindi io non esito a dire: lungi dal fare al pontefice un rimprovero di aver costantemente rifiutato le riforme e le concessioni che da lui si chiedeva-no, questa sua, che non è ostinazione, ma fermezza, è,a mio avviso, a giudicar-ne da cattolico, un titolo di benemerenza (movimenti).

Di ciò io fui sempre convinto; ed io ebbi nella mia carriera molte volte a combattere contro coloro i quali di buona fede sostenevano la tesi che io ho ora esposta, contro quelli, cioè, che insistevano onde il papa assecondasse riforme.

Io mi ricordo che al Congresso di Parigi altissimi personaggi ben disposti per l’Italia, e preoccupati specialmente delle anormali condizioni degli Stati pontifici, insistevano presso di me onde tracciassi loro le riforme da presen-tarsi alla santa sede, onde indicassi il modo con cui potessero essere applicate. In allora rifiutai di farlo, e proclamai altamente la dottrina, che ho ora espo-sta, cioè l’impossibilità per il papato di aderire ai consigli che gli si volevano dare; e sin d’allora, aiutato potentemente dal mio egregio amico il ministro Minghetti, che ebbe parte principale a quei negoziati (e quindi mi è grato avere l’occasione di rendergli la giustizia che gli si dee e di attribuirgli quella larga parte di merito che mi si è voluto dare esclusivamente per ciò che si è compiuto a Parigi), ho dichiarato altamente che il solo mezzo di mettere le Romagne e le Marche in una condizione normale era quello di far sì che quei paesi potessero reggersi senza l’occupazione straniera, vale a dire di se-parare intieramente l’amministrazione di essi da Roma, di renderli civilmente, amministrativamente, finaziariamente indipendenti. S’io avessi poi bisogno d’avvalorare queste teoria presso quella classe numerosa di uomini di buona fede che credono possibile la conciliazione dei grandi principi del 1789 col potere temporale, direi loro: tutti i vostri sforzi verranno a rompersi contro il principio del Governo stesso.

Io non attribuisco i mali di quei paesi alle persone che sono state destinati a governarli. Credo in verità che, quando anche si fossero cambiati tutti gli antichi reggitori delle provincie soggette al dominio sacerdotale, quando si fossero destinati al governo delle medesime gli uomini più illuminati, o libe-rali, dopo breve tempo le cose sarebbero tornate nello stato di prima. Finché dura la riunione dei due poteri, la confusione dei medesimi, il mal governo saranno cose inevitabili… Quindi, o signori, io non credo esservi verità più dimostrata di quella che ogni riforma nel governo temporale è impossibile. Ciò essendo, lo stato attuale di antagonismo fra la popolazione e il Governo non può cessare; e, non potendo esser rimosso, egli è evidente che il potere temporale non è una garanzia d’indipendenza per pontefice.

Ciò chiarito, mi pare che i timori dei cattolici dovrebbero dileguarsi; se ora il papa non è veramente indipendente, se questo potere temporale non è per lui una garanzia, essi dovrebbero essere ormai molto meno teneri di que-sto potere temporale, di questa fallace garanzia.

Ma io penso che, a convincere pienamente questa parte eletta del cattoli-

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cesimo, sia necessario di provare che il papa sarà molto più indipendente, che potrà esercitare la sua azione in modo più efficace, quando, abbandonata la potestà temporale, avrà sancito una pace duratura coll’Italia sul terreno della libertà… Se il potere temporale non assicura l’indipendenza della Chiesa, con quali mezzi, mi si dirà, volete voi assicurarla? Ciò vi è stato detto dall’onorevo-le Audinot in questa tornata prima di me, e me ne compiaccio. Noi riteniamo che l’indipendenza del pontefice, la sua dignità e l’indipendenza della Chiesa possono tutelarsi mercé la separazione dei due poteri, mercé la proclamazione del principio di libertà applicato, largamente, ai rapporti della società civile colla religiosa.

Egli è evidente, o signori, che, ove questa separazione, sia operata in modo chiaro, definito e indistruttibile; quando questa libertà della Chiesa sia stabi-lita, l’indipendenza del papato sarà su un terreno ben più solido che non lo sia al presente. Né solo la sua indipendenza verrà meglio assicurata, ma la sua autorità diverrà più efficace, poiché non sarà più vincolata dai molteplici con-cordati, da tutti quei patti che erano, e sono, una necessità finché il pontefice riunisce nelle sue mani, oltre che la potestà spirituale, l’autorità temporale. Tutte quelle armi, di cui deve munirsi il potere civile in Italia e fuori, diver-ranno inutili quando il pontefice sarà ristretto al potere spirituale. Epperciò la sua autorità, lungi dall’essere menomata, verrà a crescere assai più nella sfera che sola le compete (bravo!).

Io credo che questo non ha bisogno di dimostrazione, e penso che ogni sincero cattolico, ogni sacerdote zelante per la religione, di cui è ministro, deve preferire di molto questa libertà d’azione nella sfera religiosa, ai privilegi ed anche al potere supremo nella sfera civile. Se altrimenti fosse, converrebbe dire che quei sacerdoti, quei cattolici non sono di buona fede, e vogliono fare del sentimento religioso un mezzo di promuovere i loro temporali interessi (risa di assenso).

La difficoltà dunque sta in ciò; né io penso che verun teologo assennato possa contestare questa verità. Bensì mi si dirà: come assicurerete questa se-parazione, questa libertà che promettete alla Chiesa?

A pare mio si può assicurare in modo efficacissimo; la Chiesa troverà garanzie potenti nelle condizioni stesse delle popolazioni italiane, nelle con-dizioni stesse del popolo che aspira all’onore di conservare in mezzo a sé il sommo capo della società cattolica.

I principi di libertà da me accennati debbono, o signori, essere inseriti in modo formale nel nostro Statuto, debbono far parte integrante del patto fondamentale del nuovo regno d’Italia.

Ma non è questa,a mio avviso, la sola garanzia che la Chiesa può ottenere; la maggior garanzia sta nell’indole, nella condizione stessa del popolo italiano. Il popolo italiano è eminentemente cattolico, il popolo italiano non ha mai voluto distruggere la Chiesa, ma volle solo che fosse riformato il potere tem-porale.Tali furono le opinioni dei più arditi penstori di tutti i secoli in Italia, Arnaldo da Brescia, Dante, Savonarola, Sarpi, anche Giannone, almeno per quanto si rileva dai suoi scritti, tutti vollero la riforma del potere temporale, nessuno la distruzione del cattolicesimo.

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486 Lo Sguardo Lungo

Questa riforma è un desiderio ardente dell’Italia, ma, quando essa sarà compiuto, io oso affermare che nessun popolo sarà più tenero, più tenace dell’indipendenza del pontefice, dell’assoluta libertà della Chiesa. Questo principio di libertà, io lo ripeto, è conforme all’indole vera della nostra na-zione, ed io porto fiducia che, quando le condizioni nostre siano prese ad attento esame dai più caldi fautori dell’indipendenza della Chiesa, essi saran-no costretti a riconoscere la verità di quanto di quanto ho già proclamato, e dovranno ammettere che l’autorità del pontefice, l’indipendenza della Chiesa saranno molto meglio assicurate dal libero consenso di 26 milioni di italiani, che da alcuni mercenari raccolti intorno al Vaticano, ed anche da truppe valo-rose ed amiche, ma pur sempre straniere (bravo!).

Ma, mi si dirà, voi manifestate delle speranze, i fatti però paiono pochi conformi alla loro realizzazione.

Voi vedete che ogni vostro tentativo di transazione, che ogni offerta di negoziati viene decisamente respinta.

Io non credo opportuno, e la Camera approverà la mia riserva, di adden-trarmi in minuti particolari delle nostre relazioni colla Corte di Roma; non esiterò però a riconoscere che finora nessun tentativo per aprire negoziati fu accolto da quella Corte; ma debbo altresì dichiarare che il momento per ad-divenire a trattative su quei larghi principii che io ho testé proclamati non era forse ancora venuto, e che quindi ci è lecito di nutrire fiducia che, quando le nostre intenzioni saranno chiaramente conosciute e giustamente apprezzate, le disposizioni della Corte di Roma potranno modificarsi e piegarsi a più miti consigli.

Signori, la storia ci offre molti esempi di pontefici che, dopo aver scagliato i loro fulmini contro alcuni sovrani coi quali erano in urto, hanno poi stretta pace ed alleanza con essi. Voi ricorderete che in tempi nefasti per l’Italia, Clemente VII, dopo aver veduta la sua Roma invasa dalle truppe spagnole e messa a sacco, dopo aver subito ogni sorta di umiliazioni per parte di Carlo V, alcuni anni dopo lo sacrò nel tempio di S. Petronio e strinse alleanza con lui, col funesto scopo di togliere la libertà a Firenze, sua patria. Ciò posto, o signori, non ci sarà egli lecito sperare (con calore) che il mutamento che si ope-rò nell’animo di Clemente VII onde ridurre in servitù la sua terra natia, non possa pure operarsi nell’animo di Pio IX, onde assicurare la libertà d’Italia e della Chiesa? (bene! benissimo!).

Ma e se ciò non s’avverasse? (segni d’attenzione). Se, per circostanze fatali alla Chiesa e all’Italia, l’animo del pontefice non si mutasse, e rimanesse fermo nel respingere ogni maniera di accordo? Ebbene, o signori, non per ciò noi cesseremmo dal proclamare altamente i principii che qui ora vi ho esposti, e che mi lunsingo riceveranno da voi favorevole accoglienza; noi non cesseremo dal dire che, qualunque sia il modo con cui l’Italia giungerà alla città eterna, sia che vi giunga per accordo o senza, giunta a Roma, appena avrà decaduto il potere temporale, essa proclamerà il principio della separazione, ed attuerà immediatamente il principio della libertà della Chiesa sulle basi più larghe (bene! bravo!). Quando noi avremo ciò operato; quando queste dottrine avran-no ricevuto una solenne sanziona dal Parlamento nazionale; quando non sarà

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487Parte IV – Documenti storici

più lecito porre in dubbio quali siano i veri sentimenti degl’Italiani; quando sarà chiaro al mondo che essi non sono ostili alla religione dei loro padri, ma anzi desiderano e vogliono conservare questa religione nel loro paese, che bra-mano assicurarle i mezzi di prosperare e di svilupparsi abbattendo un potere, il quale fu un ostacolo non solo alla riorganizzazione dell’Italia ma eziandio allo svolgimento del cattolicesimo, io porto speranza che la gran maggioranza della società cattolica assolverà gli italiani, e farà cadere su coloro a cui spetta la responsabilità delle conseguenze della lotta fatale che il pontefice volesse impegnare contro la nazione, in mezzo alla quale esso risiede (applausi).

Ma, o signori, Dio disperda il fatale augurio! a rischio di essere accusa-to di abbandonarsi ad utopie, io nutro fiducia che, quando la proclamazione dei principii, che ora ho fatta, e quando la consacrazione, che voi ne farete, saranno rese note al mondo, e giungeranno a Roma nelle aule del Vaticano, io nutro fiducia, dico, che quelle fibre italiane che il partito reazionario non ha ancora potuto svellere interamente dall’animo di Pio IX, queste fibre vibre-ranno ancora, e si potrà compiere il più atto che popolo abbia mai compiuto. E così sarà dato alla stessa generazione di aver risuscitato una nazione, e d’aver fatto cosa più grande, più sublime ancora, cosa la cui influenza è incalcolabile: d’aver cioè riconciliato il papato coll’autorità civile; di aver firmata la pace fra la Chiesa e lo Stato, fra lo spirito di religione ed i grandi principi di libertà.

Sì, io spero, o signori, che ci sarà dato di compiere questi due grandi atti, i quali certamente tramanderanno alle più lontane posterità la benemerenza della presente generazione italiana (vivi applausi).

* * *

Discorso di Cavour alla Camera dei Deputati del 27 marzo 1861 in merito agli ordini del giorno conclusivi su Roma capitale

(estratto)

… L’ordine del giorno Bon-Compagni è, in certo modo, una risposta com-pleta alle interpellanze dell’onorevole Audinot. Nella dimostrazione di tale mio assunto io darò quelle ulteriori e maggiori spiegazioni che da vari oratori mi vennero domandate.

L’onorevole deputato Audinot chiedeva recisamente di conoscere quale fosse l’opinione di Governo, quali fossero i suoi principii rispetto alla questio-ne romana. A questo io risposi precisamente come risponde l’ordine del gior-no Bon-Compagni. Io dichiarai dover essere Roma capitale d’Italia; l’ordine del giorno Bon-Compagni acclama questa verità. Io dissi che Roma doveva essere capitale d’Italia, e che ciò doveva essere proclamato immediatamente…

Sulla questione di Roma quindi mi pare che l’ordine del giorno Bon-Com-

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488 Lo Sguardo Lungo

pagni, che acclama Roma come capitale, corrisponda pienamente ai sentimen-ti manifestati da tutti gli oratori in questa Camera.

Fin qui il mio assunto è facile: ora eccomi di nuovo di fronte alla difficol-tà. che ho incontrata nella penultima tornata, quando ho dovuto parlare dei mezzi per andare a Roma…

… Mi pare che la questione dell’indipendenza del sovrano pontefice, fatta dipendere dal potere temporale, sia un errore dimostrato matematicamente ai cattolici di buona fede, ai quali si dirà: il potere temporale è garanzia d’indi-pendenza quando somministra a chi lo possiede armi e denari per garantirla, ma quando il potere temporale d’un principe) invece di somministrargli armi e denari lo costringe ad andar a mendicare dalle altre potenze armi e denari, egli è evidente che il potere temporale è un argomento non d’indipendenza, ma di dipendenza assoluta. L’uomo che vive tranquillo a sua casa, che non ha debiti, nè nemici, mi pare mille volte più indipendente d’un ricchissimo proprietario di latifondi, che ha sollevato contro di sé l’animo di tutti i suoi contadini, e che non può uscire se non circondato da bersaglieri e soldati (Bravo! Benel).

Mi pare quindi che noi dobbiamo avere l’assenso dei cattolici di buona fede su questo punto. Rimane a persuadere il pontefice che la Chiesa può es-sere indipendente, perdendo il potere temporale. Ma qui mi pare che, quando noi ci presentiamo al Sommo pontefice, e gli diciamo: santo padre, il potere temporale per voi non è più garanzia d’indipendenza; rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte Ie grandi potenze cattoliche; di questa libertà voi avete cercato strapparne alcune por-zioni per mezzo di concordati, con cui voi, o santo padre, eravate costretto a concedere in compenso dei privilegi, anzi, peggio che privilegi, a concedere l’uso delle armi spirituali alle potenze temporali che vi accordavano un po’ di libertà; ebbene, quello che voi non avete mai potuto avere da quelle potenze, che si vantavano di essere vostri alleati e vostri figli devoti, noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato (Bene!)…

* * *

Discorso di Cavour al Senato del Regno del 9 aprile 1861a seguito della discussione alla Camera su Roma Capitale

(estratto)

… Il principio solennemente proclamato della separazione della Chiesa dallo Stato, della libertà della Chiesa è stato accolto e nel paese e fuori molta favorevolmente sia da tutte Ie frazioni del partito liberale, anche da quelli che

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489Parte IV – Documenti storici

si preoccupano specialmente degli interessi conservatori. Questo è un gran fatto; ma ciò non basta a giungere ad una soluzione; bisognerà non solo ren-derci favorevoli Ie opinioni liberali, ma è forza altresì che Ia parte moderata ed illuminata della Società Cattolica riconosca la grande verità di questo prin-cipio; accetti il grande principio della libertà. E qui, o signori, s’incontrano molte difficoltà, gravi ostacoli: ma ciò deve forse destare meraviglia? Deve for-se sfiduciarci? No, o Signori, il principio della libertà non può essere accolto dalla Società Cattolica senza esitanza, senza svegliare certi dubbi e timori. Ed in verità, o signori, come ciò potrebbe essere altrimenti? È forse la prima volta che una grande nazione cattolica si rivolge risolutamente alla Chiesa offrendo-le la libertà piena ed intera in contraccambio di sacrifizi d’interesse temporale.

Il principio della libertà religiosa da applicarsi ad una società cattolica (mi si permetta il dirlo) è nuovo nei mondo. Forse la Chiesa cattolica non si è mai trovata a fronte di una società cattolica proclamante il principio di libertà. Che dico di una società cattolica? non si è forse mai trovata a fronte di un’al-tra società, che Ie offrisse quello che Ie offriamo noi. Ho detto e lo ripeto, il principio della libertà religiosa è recente in questa mondo… I riformatori di Germania, Calvino, Lutero, Zwinglio, ecc. ecc., non riconoscevano il dogma della libertà religiosa, più che non lo riconoscessero Clemente VlI e Paolo V.

Dunque non è da stupire se la Chiesa, se il cattolicesimo accoglie con tanta diffidenza un principio che negli stessi Stati protestanti non ha ancora ricevuto la sua intera applicazione. Ma un altro motivo esiste che spiega la dif-fidenza, il timore che suscita nella Chiesa la proposta di applicare largamente questo principio. Abbiamo visto, pur troppo, spesse volte, i partiti liberali, dopo aver combattuto per ottenere la distruzione degli antichi sistemi, per conquistare in nome della libertà un principio, conseguito il trionfo, fare uso del principio stesso per opprimere coloro contro quali avevano combattuto…

Noi non possiamo immaginare uno stato di cose fondato sulla libertà ove non siano partiti e lotte. La pace completa, assoluta, non è compatibile colla libertà. Bisogna saper accettare la libertà coi suoi benefizi e forse anche co’ suoi inconvenienti…

Ma, o signori, io credo che sia facile il dimostrare che l’Italia è la nazione del mondo la più atta ad applicare i grandi principii che ho avuto l’onore di proclamare… Quindi, o signori, in Italia più che altrove questa conciliazione può farsi, e può farsi utilmente. Sarà lotta, imperocché io non credo ad un accordo perfetto, vi sarà lotta, anzi e desiderabile che vi sia. Ove questa con-ciliazione si compiesse, io mi accingerei a sostenere non pochi assalti; anzi, dovendo parlar francamente dirò, che se Ia corte di Roma accetta le nostre proposte, se si riconcilia coll’Italia, se accoglie il sistema di libertà, fra pochi anni, nel paese legale i fautori della Chiesa, o meglio, quelli che chiamerò il partito cattolico, avranno il sopravvento; ed io mi rassegno fin d’ora a finire la mia carriera nei banchi dell’opposizione (ilarità prolungata)…

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490 Lo Sguardo Lungo

* * *

Discorso di Cavour alla Camera dei Deputati l’11 ottobre 1860 sulla legge sull’annessione delle province italiane

(estratto)

… Io credo che la soluzione della questione romana debba essere prodot-ta dalla convinzione che andrà sempre più crescendo nella società moderna, ed anche nella grande società cattolica, essere la libertà altamente favorevole allo sviluppo del vero sentimento religioso.

… Non esito ad affermare che il regime liberale che esiste in questa con-trada subalpina da 12 anni è altamente favorevole allo sviluppo del sentimen-to religioso… Io credo di non errare affermando che se il clero ha forse minori privilegi, se il numero dei frati è di gran lunga scemato, la vera religione ha molto più impero sugli animi dei cittadini che al tempo in cui il blandire una certa frazione del clero e l’ipocrito frequentare delle chiese facevano salire agli impieghi e agli onori…

* * *

Discorso di Cavour al Senato il 16 ottobre 1860sulla spedizione nelle Marche e nell’Umbria

(estratto)

Le sorti del potere temporale nell’Umbria e nelle Marche erano decise il giorno che tutto il rimanente d’Italia, dal Po al golfo di Messina, si era rivendicato a libertà. Non nego che sarebbe stata possibile la lotta a qualche tempo al Pontefice; ma il risultato finale era inevitabile… Se in alcuni paesi si dovette procedere contro qualche autorità ecclesiastica, si fu, o signori, perché vi sono certe provocazioni, le quali fatte in tempo di eccitamento possono pro-muovere a sdegno e quindi esser cagione di disordine anche negli eserciti più ordinati. Ed invero, o Signori, quando Voi saprete che sacerdoti negarono la sepoltura a semplici soldati che erano morti onoratamente combattendo, non troverete strano che l’autorità militare abbia dovuto agire con qualche energia per ottenere che questo scandalo non avesse luogo…

… Non vorrei lasciare senza risposta ciò che disse l’egregio mio amico, l’onorevole senatore Gioja, intorno a Roma.

Pare che l’onorevole senatore riputasse un poco imprudente la speranza

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491Parte IV – Documenti storici

da me manifestata altrove, che cioè mercé l’appoggio dell’opinione pubblica, la questione romana potesse venir sciolta in modo che l’accordo si stabilisse fra gli italiani e il Sovrano Pontefice, sicché Roma tornerebbe o diverrebbe ciò che io credo essere chiamata a divenire, la nobile capitale dell’Italia rige-nerata.

Certo io non mi dissimulo le difficoltà, né contesto la verità delle osserva-zioni fatte dall’onorevole senatore; e per vero, se io non sperassi che un qual-che cambiamento dovesse operarsi nello spirito da cui è informata la Corte di Roma, certamente questa mia speranza sarebbe assolutamente vana.

Ma, o signori, io nutro ferma fiducia che la libertà, l’esercizio della libertà largamente intesa e lealmente praticata, produrrà una grande modificazione dello spirito, nei sentimenti rispetto alla società civile.

Noi non pssiamo, signori, dal passato giudicare dell’avvenire, giacché bi-sogna essere giusti, il principio della libertà applicato ai rapporti della Chiesa con lo Stato, il principio della libertà di coscienza è un principio molto recente nella storia del mondo.

Nel secolo scorso questo principio era proclamato da pochissimi pensa-tori; non vi era partito potente che se ne facesse propugnatore; ed anche i professanti culti dissidenti non lo professavano a nome della libertà, ma bensì a nome di una migliore interpretazione dei principi del Vangelo.

Io non so se m’inganno, ma io confido che questo principio, porterà una grave modificazione nei sentimenti del Pontefice, del Capo del Cattolicesimo, che lo riconcilierà con la società moderna…

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B

Legge delle guarentigie

(legge 13 maggio 1871, n. 214, per le guarentigie delle prerogative del Som-mo Pontefice e della Santa Sede e per le relazioni della Chiesa con lo Stato)

Titolo primoPrerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede

Art. 1 – La persona del Sommo Pontefice è sacra ed inviolabile.

Art. 2 – L’attentato contro la persona del Sommo Pontefice e la provoca-zione a commetterlo sono puniti colle stesse pene stabilite per l’attentato e per la provocazione a commetterlo contro la persona del Re.

Le offese e le ingiurie pubbliche commesse direttamente contro la perso-na del Sommo Pontefice con discorsi, con fatti, o coi mezzi indicati nell’Art. 1 della legge sulla stampa, sono punite colle pene stabilite all’Art. 19 della legge stessa.

I detti reati sono d’azione pubblica e di competenza della Corte di assise.La discussione sulle materie religiose è pienamente libera.

Art. 3 – Il Governo italiano rende al Sommo Pontefice, nel territorio del Regno, gli onori sovrani; e gli mantiene le preminenze d’onore riconosciutegli dai sovrani cattolici.

Il Sommo Pontefice ha facoltà di tenere il consueto numero di guardie addette alla sua persona ed alla custodia dei palazzi, senza pregiudizi degli obblighi e doveri risultanti per tali guardie dalle leggi vigenti nel Regno.

Art. 4 – È conservata a favore della Santa Sede la dotazione dell’annua rendita di lire 3.225.000.

Con questa somma, pari a quella iscritta nel bilancio romano sotto il ti-tolo: Sacri palazzi apostolici, Sacro Collegio, Congregazioni ecclesiastiche, Segreteria di Stato ed Ordine diplomatico all’estero, s’intenderà provveduto al trattamento del Sommo Pontefice ed ai vari bisogni ecclesiastici della Santa Sede, alla manutenzione ordinaria e straordinaria, e alla custodia dei palazzi apostolici e loro dipendenze; agli assegnamenti, giubilazioni e pensioni delle guardie, di cui all’articolo precedente, e degli addetti alla Corte pontificia, e alle spese eventuali; non che alla manutenzione ordinaria e alla custodia degli annessi musei e biblioteca, e agli assegnamenti, stipendi e pensioni di quelli che sono a ciò impiegati.

La dotazione di cui sopra sarà inserita nel Gran Libro del debito pubbli-co, in forma di rendita perpetua ed inalienabile nel nome della Santa Sede; e durante la vacanza della Sede si continuerà a pagarla per supplire a tutte le occorrenze proprie della Chiesa romana in questo intervallo.

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493Parte IV – Documenti storici

Essa resterà esente da ogni specie di tassa ed onere governativo, comunale o provinciale; e non potrà essere diminuita neanche nel caso che il Governo italiano risolvesse posteriormente di assumere a suo carico la spesa concer-nente i musei e la biblioteca.

Art. 5 – Il Sommo Pontefice, oltre la dotazione stabilita nell’articolo pre-cedente, continua a godere dei palazzi apostolici, Vaticano e Lateranense, con tutti gli edifizii, giardini e terreni annessi e dipendenti, nonché della villa di Castel Gandolfo con tutte le sue attinenze e dipendenze.

I detti palazzi, villa ed annessi, come pure i musei, la biblioteca e le colle-zioni d’arte e d’archeologia ivi esistenti, sono inalienabili, esenti da ogni tassa o peso e da espropriazioni per causa di utilità pubblica.

Art. 6 – Durante la vacanza della Sede Pontificia nessuna Autorità giudi-ziaria o politica potrà, per qualsiasi causa, porre impedimento o limitazione alla libertà personale dei Cardinali.

Il Governo provvede a che le adunanze del Conclave e dei Concili ecume-nici non siano turbate da alcuna esterna violenza.

Art. 7  –  Nessun uffiziale della pubblica Autorità od agente della forza pubblica può, per esercitare atti del proprio ufficio, introdursi nei palazzi e luoghi di abituale residenza o temporanea dimora del Sommo Pontefice, o nei quali si trovi radunato un Conclave o un Concilio ecumenico, se non autoriz-zato dal Sommo Pontefice, dal Conclave o dal Concilio.

Art. 8 – È vietato di procedere a visite, perquisizioni o sequestri di carte, documenti, libri o registri negli Uffizi e Congregazioni pontificie rivestiti di attribuzioni meramente spirituali.

Art. 9 – Il Sommo Pontefice è pienamente libero di compiere tutte le fun-zioni del suo ministero spirituale e di fare affiggere alle porte delle basiliche e chiese di Roma tutti gli atti del suddetto suo ministero.

Art. 10 – Gli ecclesiastici che, per ragioni di ufficio, partecipano in Roma all’emanazione degli atti del ministero spirituale della Santa Sede, non sono soggetti, per cagione di essi, a nessuna molestia, investigazione o sindacato dell’Autorità pubblica.

Ogni persona straniera investita di ufficio ecclesiastico in Roma gode del-le guarentigie personali competenti ai cittadini italiani in virtù delle leggi del Regno.

Art. 11 – Gli inviati dei Governi esteri presso Sua Santità godono nel Re-gno di tutte le prerogative ed immunità che spettano agli agenti diplomatici secondo il diritto internazionale.

Alle offese contro di essi sono estese le sanzioni penali per le offese agli invitati delle potenze estere presso il Governo italiano.

Agli inviati di Sua Santità presso i Governi esteri sono assicurate, nel ter-ritorio del Regno, le prerogative ed immunità d’uso, secondo lo stesso diritto, nel recarsi al luogo di loro missione e nel ritornare.

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494 Lo Sguardo Lungo

Art. 12  –  Il Sommo Pontefice corrisponde liberamente coll’Episcopato e con tutto il mondo cattolico, senza veruna ingerenza del Governo italiano.

A tal fine gli è data facoltà di stabilire nel Vaticano, o in un altra sua resi-denza, uffizi di posta e di telegrafo, serviti da impiegati di sua scelta.

L’uffizio postale pontificio potrà corrispondere direttamente in pacco chiuso con gli uffizi postali di cambio delle estere amministrazioni, o rimette-re le proprie corrispondenze agli uffizi italiani. In ambo i casi, il trasporto dei dispacci o delle corrispondenze, munite del bollo dell’ufficio pontificio, sarà esente da ogni tassa o spesa del territorio italiano.

I corrieri spediti in nome del Sommo Pontefice sono pareggiati nel Regno ai corrieri di gabinetto dei Governi esteri.

L’ufficio telegrafico pontificio sarà collegato con la rete telegrafica del Re-gno a spese dello Stato.

I telegrammi trasmessi dal detto uffizio con la qualifica autenticata di pon-tifici, saranno ricevuti e spediti con le prerogative stabilite pei telegrammi di Stato e con esenzione da ogni tassa nel Regno.

Gli stessi vantaggi godranno i telegrammi del Sommo Pontefice, o firmati d’ordine suo, che, muniti del bollo della Santa Sede, verranno presentati a qualsiasi uffizio telegrafico del Regno.

I telegrammi diretti al Sommo Pontefice saranno esenti dalle tasse messe a carico dei destinatari.

Art. 13 – Nelle città di Roma e nelle sei sedi suburbicarie, i Seminari, le Accademie, i Collegi e gli altri Istituti cattolici fondati per la educazione e coltura degli ecclesiastici continueranno a dipendere unicamente dalla Santa Sede, senza alcuna ingerenza delle autorità scolastiche del Regno.

Titolo secondoRelazioni dello Stato colla Chiesa

Art. 14 – È abolita ogni restrizione speciale all’esercito del diritto di riu-nione dei membri del clero cattolico.

Art. 15 – È fatta rinuncia dal Governo al diritto di legazia apostolica in Sicilia, ed in tutto il Regno al diritto di nomina o proposta nella collazione dei benefizi maggiori.

I vescovi non saranno richiesti di prestare giuramento al Re.I benefizi maggiori e minori non possono essere conferiti se non a cittadi-

ni del Regno, eccettoché nella città di Roma e nelle sedi suburbicarie.Nella collazione dei benefizi di patronato regio nulla è innovato.

Art. 16 – Sono aboliti l’exequatur e placet regio ed ogni altra forma di as-senso governativo per la pubblicazione ed esecuzione degli atti delle Autorità ecclesiastiche.

Però, fino quando non sia provveduto nella legge speciale di cui all’Art. 18, rimangono soggetti all’exequatur e placet regio gli atti di esse Autorità che

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495Parte IV – Documenti storici

riguardano la destinazione dei beni ecclesiastici e la provvista dei benefizi maggiori e minori, eccetto quelli della città di Roma e delle sedi suburbicarie.

Restano ferme le disposizioni delle leggi rispetto alla creazione e ai modi di esistenza degli istituti ecclesiastici ed alienazione dei loro beni.

Art. 17 – In materia spirituale e disciplinare non è ammesso richiamo od appello contro gli atti delle autorità ecclesiastiche, né è a loro riconosciuta od accordata alcuna esecuzione coatta.

La cognizione degli effetti giuridici, così di questi come di ogni altro atto di esse Autorità, appartiene alla giurisdizione civile.

Però tali atti sono privi di effetto se contrari alle leggi dello Stato od all’or-dine pubblico, o lesivi dei diritti dei privati, e vanno soggetti alle leggi penali se costituiscono reato.

Art. 18 – Con legge ulteriore sarà provveduto al riordinamento, alla con-servazione ed alla amministrazione delle proprietà ecclesiastiche nel Regno.

Art. 19 – In tutte le materie che formano oggetto della presente legge, ces-sa di avere effetto qualunque disposizione ora vigente, in quanto sia contraria alla legge medesima.

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496 Lo Sguardo Lungo

C

Patti Lateranensi – Trattato fra la Santa Sede e l’Italia

IN NOME DELLA SANTISSIMA TRINITÀPremesso:Che la Santa Sede e l’Italia hanno riconosciuto la convenienza di elimi-

nare ogni ragione di dissidio fra loro esistente con l’addivenire ad una siste-mazione definitiva dei reciproci rapporti, che sia conforme a giustizia ed alla dignità delle due Alte Parti e che, assicurando alla Santa Sede in modo stabile una condizione di fatto e di diritto la quale Le garantisca l’assoluta indipen-denza per l’adempimento della Sua alta missione nel mondo, consenta alla Santa Sede stessa di riconoscere composta in modo definitivo ed irrevocabile la « questione romana », sorta nel 1870 con l’annessione di Roma al Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia;

Che dovendosi, per assicurare alla Santa Sede l’assoluta e visibile indipen-denza, garantirLe una sovranità indiscutibile pur nel campo internazionale, si è ravvisata la necessità di costituire, con particolari modalità, la Città del Vaticano, riconoscendo sulla medesima alla Santa Sede la piena proprietà e l’esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana;

Sua Santità il Sommo Pontefice Pio XI e Sua Maestà Vittorio Emanue-le III Re d’Italia, hanno risoluto di stipulare un Trattato, nominando a tale effetto due Plenipotenziari, cioè per parte di Sua Santità, Sua Eminenza Re-verendissima il Signor Cardinale Pietro Gasparri, Suo Segretario di Stato, e per parte di Sua Maestà, Sua Eccellenza il Signor Cavaliere Benito Mussolini, Primo Ministro e Capo del Governo; i quali, scambiati i loro rispettivi pieni poteri e trovatili in buona e dovuta forma, hanno convenuto negli Articoli seguenti:

Art. 1 – L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apo-stolica e romana è la sola religione dello Stato.

Art. 2  –  L’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede nel campo in-ternazionale come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione nel mondo.

Art. 3 – L’Italia riconosce alla Santa Sede la piena proprietà e la esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano, com’è attualmente costituito, con tutte le sue pertinenze e dotazioni, creandosi per tal modo la Città del Vaticano per gli speciali fini e con le modalità di cui al presente Trattato. I confini di detta Città sono indicati nella Pianta che costituisce l’Al-legato I° del presente Trattato, del quale forma parte integrante.

Resta peraltro inteso che la piazza di San Pietro, pur facendo parte della Città del Vaticano, continuerà ad essere normalmente aperta al pubblico e

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497Parte IV – Documenti storici

soggetta ai poteri di polizia delle autorità italiane; le quali si arresteranno ai piedi della scalinata della Basilica, sebbene questa continui ad essere destina-ta al culto pubblico, e si asterranno perciò dal montare ed accedere alla detta Basilica, salvo che siano invitate ad intervenire dall’autorità competente.

Quando la Santa Sede, in vista di particolari funzioni, credesse di sottrar-re temporaneamente la piazza di San Pietro al libero transito del pubblico, le autorità italiane, a meno che non fossero invitate dall’autorità competente a rimanere, si ritireranno al di là delle linee esterne del colonnato berniniano e del loro prolungamento.

Art. 4 – La sovranità e la giurisdizione esclusiva, che l’Italia riconosce alla Santa Sede sulla Città del Vaticano, importa che nella medesima non possa esplicarsi alcuna ingerenza da parte del Governo Italiano e che non vi sia altra autorità che quella della Santa Sede.

Art. 5 – Per l’esecuzione di quanto è stabilito nell’articolo precedente, pri-ma dell’entrata in vigore del presente Trattato, il territorio costituente la Città del Vaticano dovrà essere, a cura del Governo italiano, reso libero da ogni vincolo e da eventuali occupatori. La Santa Sede provvederà a chiudierne gli accessi, recingendo le parti aperte, tranne la piazza di San Pietro.

Resta per altro convenuto che, per quanto riflette gli immobili ivi esisten-ti, appartenenti ad istituti od enti religiosi, provvederà direttamente la Santa Sede a regolare i suoi rapporti con questi, disinteressandosene lo Stato italia-no.

Art. 6 – L’Italia provvederà, a mezzo degli accordi occorrenti con gli enti interessati, che alla Città del Vaticano sia assicurata un’adeguata dotazione di acque in proprietà.

Provvederà, inoltre, alla comunicazione con le ferrovie dello Stato me-diante la costruzione di una stazione ferroviaria nella Città del Vaticano, nella località indicata nell’allegata Pianta (Alleg. I) e mediante la circolazione di veicoli propri del Vaticano sulle ferrovie italiane.

Provvederà altresì al collegamento, direttamente anche cogli altri Stati, dei servizi telegrafici, telefonici, radiotelegrafici, radiotelefonici e postali nella Città del Vaticano.

Provvederà infine anche al coordinamento degli altri servizi pubblici.A tutto quanto sopra si provvederà a spese dello Stato italiano e nel termi-

ne di un anno dall’entrata in vigore del presente Trattato.La Santa Sede provvederà, a sue spese, alla sistemazione degli accessi del

Vaticano già esistenti e degli altri che in seguito credesse di aprire.Saranno presi accordi tra la Santa Sede e lo Stato italiano per la circola-

zione nel territorio di quest’ultimo dei veicoli terrestri e degli aeromobili della Città del Vaticano.

Art. 7 – Nel territorio intorno alla Città del Vaticano il Governo italiano si impegna a non permettere nuove costruzioni, che costituiscano introspetto, ed a provvedere, per lo stesso fine, alla parziale demolizione di quelle già esi-stenti da Porta Cavalleggeri e lungo la via Aurelia ed il viale Vaticano.

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498 Lo Sguardo Lungo

In conformità alle norme del diritto internazionale, è vietato agli aeromo-bili di qualsiasi specie di trasvolare sul territorio del Vaticano.

Nella Piazza Rusticucci e nelle zone adiacenti al colonnato, ove non si estende la extraterritorialità di cui all’Art. 15, qualsiasi mutamento edilizio o stradale, che possa interessare la Città del Vaticano, si farà di comune accordo.

Art. 8 – L’Italia, considerando sacra ed inviolabile la persona del Som-mo Pontefice, dichiara punibili l’attentato contro di Essa e la provocazione a commetterlo con le stesse pene stabilite per l’attentato e la provocazione a commetterlo contro la persona del Re.

Le offese e le ingiurie pubbliche commesse nel territorio italiano contro la persona del Sommo Pontefice con discorsi, con fatti e con scritti sono punite come le offese e le ingiurie alla persona del Re.

Art. 9 – In conformità alle norme del diritto internazionale sono soggette alla sovranità della Santa Sede tutte le persone aventi stabile residenza nella Città del Vaticano. Tale residenza non si perde per il semplice fatto di una temporanea dimora altrove, non accompagnata dalla perdita dell’abitazione nella Città stessa o da altre circostanze comprovanti l’abbandono di detta re-sidenza.

Cessando di essere soggette alla sovranità della Santa Sede, le persone menzionate nel comma precedente, ove a termini della legge italiana, indi-pendentemente dalle circostanze di fatto, sopra previste, non siano da ritenere munite di altra cittadinanza, saranno in Italia considerate senz’altro cittadini italiani.

Alle persone stesse, mentre sono soggette alla sovranità della Santa Sede, saranno applicabili nel territorio del Regno d’Italia, anche nelle materie in cui deve essere osservata la legge personale (quando non siano regolate da norme emanate dalla Santa Sede), quelle della legislazione italiana, e ove si tratti di persona che sia da ritenere munita di altra cittadinanza, quelle dello Stato cui essa appartiene.

Art. 10  –  I dignitari della Chiesa e le persone appartenenti alla Corte Pontificia, che verranno indicati in un elenco da concordarsi fra le Alte Parti contraenti, anche quando non fossero cittadini del Vaticano, saranno sempre ed in ogni caso rispetto all’Italia esenti dal servizio militare, dalla giuria e da ogni prestazione di carattere personale.

Questa disposizione si applica pure ai funzionari di ruolo dichiarati dalla Santa Sede indispensabili, addetti in modo stabile e con stipendio fisso agli uffici della Santa Sede, nonché ai dicasteri ed agli uffici indicati appresso negli articoli 13, 14, 15 e 16, esistenti fuori della Città del Vaticano. Tali funzionari saranno indicati in altro elenco, da concordarsi come sopra è detto e che an-nualmente sarà aggiornato dalla Santa Sede.

Gli ecclesiastici che, per ragione di ufficio, partecipano fuori della città del Vaticano all’emanazione degli atti della Santa Sede, non sono soggetti per cagione di essi a nessun impedimento, investigazione o molestia da parte delle autorità italiane.

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499Parte IV – Documenti storici

Ogni persona straniera investita di ufficio ecclesiastico in Roma gode del-le garanzie personali competenti ai cittadini italiani in virtù delle leggi del Regno.

Art. 11 – Gli enti centrali della Chiesa Cattolica sono esenti da ogni in-gerenza da parte dello Stato italiano (salvo le disposizioni delle leggi italiane concernenti gli acquisti dei corpi morali), nonché dalla conversione nei ri-guardi dei beni immobili.

Art. 12 – L’Italia riconosce alla Santa Sede il diritto di legazione attivo e passivo secondo le regole generali del diritto internazionale.

Gli inviati dei Governi esteri presso la Santa Sede continuano a godere nel Regno di tutte le prerogative ed immunità, che spettano agli agenti diplo-matici secondo il diritto internazionale, e le loro sedi potranno continuare a rimanere nel territorio Italiano godendo delle immunità loro dovute a norma del diritto internazionale, anche se i loro Stati non abbiano rapporti diploma-tici con l’Italia.

Resta inteso che l’Italia si impegna a lasciare sempre ed in ogni caso libera la corrispondenza da tutti gli Stati, compresi i belligeranti, alla Santa Sede e viceversa, nonché il libero accesso dei Vescovi di tutto il mondo alla Sede Apostolica.

Le Alte Parti contraenti si impegnano a stabilire fra loro normali rapporti diplomatici, mediante accreditamento di un Ambasciatore italiano presso la Santa Sede e di un Nunzio pontificio presso l’Italia, il quale sarà il Decano del Corpo Diplomatico, a termini del diritto consuetudinario riconosciuto dal Congresso di Vienna con atto del 9 giugno 1815.

Per effetto della riconosciuta sovranità e senza pregiudizio di quanto è disposto nel successivo Art. 19, i diplomatici della Santa Sede ed i corrieri spediti in nome del Sommo Pontefice godono nel territorio italiano, anche in tempo di guerra, dello stesso trattamento dovuto ai diplomatici ed ai corrieri di gabinetto degli altri Governi esteri, secondo le norme del diritto interna-zionale.

Art. 13 – L’Italia riconosce alla Santa Sede la piena proprietà delle Basili-che patriarcali di San Giovanni in Laterano, di Santa Maria Maggiore e di San Paolo, cogli edifici annessi (Alleg. II, 1, 2 e 3).

Lo Stato trasferisce alla Santa Sede la libera gestione ed amministrazione della detta Basilica di San Paolo e dell’annesso Monastero, versando altresì alla Santa Sede i capitali corrispondenti alle somme stanziate annualmente nel bilancio del Ministero della Pubblica Istruzione per la detta Basilica.

Resta del pari inteso che la Santa Sede è libera proprietaria del dipendente edificio di S. Callisto presso S. Maria in Trastevere (Alleg. II, 9).

Art. 14 – L’Italia riconosce alla Santa Sede la piena proprietà del palazzo pontificio di Castel Gandolfo con tutte le dotazioni, attinenze e dipendenze (Alleg. II, 4), quali ora si trovano già in possesso della Santa Sede medesima, nonché si obbliga a cederLe, parimenti in piena proprietà, effettuandone la

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500 Lo Sguardo Lungo

consegna entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente Trattato, la Villa Barberini in Castel Gandolfo con tutte le dotazioni, attinenze e dipendenze (Alleg. II, 5).

Per integrare la proprietà degli immobili siti nel lato nord del Colle Giani-colense appartenenti alla Sacra Congregazione di Propaganda Fide e ad altri Istituti ecclesiastici e prospicienti verso i palazzi vaticani, lo Stato s’impegna a trasferire alla Santa Sede od agli enti che saranno da Essa indicati gli immobili di proprietà dello Stato o di terzi esistenti in detta zona. Gli immobili appar-tenenti alla detta Congregazione e ad altri Istituti e quelli da trasferire sono indicati nell’allegata Pianta (Alleg. II, 12).

L’Italia, infine, trasferisce alla Santa Sede in piena e libera proprietà gli edifici ex-conventuali in Roma annessi alla Basilica dei Santi XII Apostoli ed alle chiese di Sant’Andrea della Valle e di San Carlo ai Catinari, con tutti gli annessi e dipendenze (Alleg. III, 3, 4 e 5), e da consegnarsi liberi da occupatori entro un anno dall’entrata in vigore del presente Trattato.

Art. 15 – Gli immobili indicati nell’Art. 13 e negli alinea primo e secondo dell’Art. 14, nonché i palazzi della Datarìa, della Cancelleria, di Propaganda Fide in Piazza di Spagna, il palazzo del Sant’Offizio ed adiacenze, quello dei Convertendi (ora Congregazione per la Chiesa Orientale) in piazza Scossa-cavalli, il palazzo del Vicariato (Alleg. II, 6, 7, 8, 10 e 11), e gli altri edifici nei quali la Santa Sede in avvenire crederà di sistemare altri suoi Dicasteri, benché facenti parte del territorio dello Stato italiano, godranno delle immu-nità riconosciute dal diritto internazionale alle sedi degli agenti diplomatici di Stati esteri.

Le stesse immunità si applicano pure nei riguardi delle altre Chiese, anche fuori di Roma, durante il tempo in cui vengano nelle medesime, senza essere aperte al pubblico, celebrate funzioni coll’intervento del Sommo Pontefice.

Art. 16 – Gli immobili indicati nei tre articoli precedenti, nonché quelli adibiti a sedi dei seguenti istituti pontifici: Università Gregoriana, Istituto Bi-blico, Orientale, Archeologico, Seminario Russo, Collegio Lombardo, i due palazzi di Sant’Apollinare e la Casa degli esercizi per il Clero di San Giovanni e Paolo (Alleg. III, 1, 1 bis, 2, 6, 7, 8), non saranno mai assoggettati a vincoli o ad espropriazioni per causa di pubblica utilità, se non previo accordo con la Santa Sede, e saranno esenti da tributi sia ordinari che straordinari tanto verso lo Stato quanto verso qualsiasi altro ente.

È in facoltà della Santa Sede di dare a tutti i suddetti immobili, indicati nel presente articolo e nei tre articoli precedenti, l’assetto che creda, senza bi-sogno di autorizzazioni o consensi da parte di autorità governative, provinciali o comunali italiane, le quali possono all’uopo fare sicuro assegnamento sulle nobili tradizioni artistiche che vanta la Chiesa Cattolica.

Art. 17 – Le retribuzioni, di qualsiasi natura, dovute dalla Santa Sede, dagli altri enti centrali della Chiesa Cattolica e dagli enti gestiti direttamente dalla Santa Sede anche fuori di Roma, a dignitari, impiegati e salariati, anche non stabili, saranno nel territorio italiano esenti, a decorrere dal 1° gennaio

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501Parte IV – Documenti storici

1929, da qualsiasi tributo tanto verso lo Stato quanto verso ogni altro ente.

Art. 18 – I tesori d’arte e di scienza esistenti nella Città del Vaticano e nel Palazzo Lateranense rimarranno visibili agli studiosi ed ai visitatori, pur es-sendo riservata alla Santa Sede piena libertà di regolare l’accesso del pubblico.

Art. 19 – I diplomatici e gli inviati della Santa Sede, i diplomatici e gli inviati dei Governi esteri presso la Santa Sede e i dignitari della Chiesa pro-venienti dall’estero diretti alla Città del Vaticano e muniti di passaporti degli Stati di provenienza, vistati dai rappresentanti pontifici all’estero, potranno senz’altra formalità accedere alla medesima attraverso il territorio italiano. Altrettanto dicasi per le suddette persone, le quali munite cli regolare passa-porto pontificio si recheranno dalla Città del Vaticano all’estero.

Art. 20 – Le merci provenienti dall’estero e dirette alla Città del Vaticano, o, fuori della medesima, ad istituzioni od uffici della Santa Sede, saranno sem-pre ammesse da qualunque punto del confine italiano ed in qualunque porto del Regno al transito per il territorio italiano con piena esenzione dai diritti doganali e daziari.

Art. 21 – Tutti i Cardinali godono in Italia degli onori dovuti ai Principi del sangue; quelli residenti in Roma, anche fuori della Città del Vaticano, sono a tutti gli effetti cittadini della medesima.

Durante la vacanza della Sede Pontificia, l’Italia provvede in modo spe-ciale a che non sia ostacolato il libero transito ed accesso dei Cardinali at-traverso il territorio italiano al Vaticano, e che non si ponga impedimento o limitazione alla libertà personale dei medesimi.

Cura, inoltre, l’Italia che nel suo territorio all’intorno della Città del Vati-cano non vengano commessi atti, che comunque possano turbare le adunanze del Conclave.

Le dette norme valgono anche per i Conclavi che si tenessero fuori della Città del Vaticano, nonché per i Concilii presieduti dal Sommo Pontefice o dai suoi Legati e nei riguardi dei Vescovi chiamati a parteciparvi.

Art. 22 – A richiesta della Santa Sede e per delegazione che potrà essere data dalla medesima o nei singoli casi o in modo permanente, l’Italia provve-derà nel suo territorio alla punizione dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel terri-torio italiano, nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle leggi italiane.

La Santa Sede consegnerà allo Stato italiano le persone, che si fossero rifugiate nella Città del Vaticano, imputate di atti, commessi nel territorio italiano, che siano ritenuti delittuosi dalle leggi di ambedue gli Stati.

Analogamente si provvederà per le persone imputate di delitti, che si fossero rifugiate negli immobili dichiarati immuni nell’Art. 15, a meno che i preposti ai detti immobili preferiscano invitare gli agenti italiani ad entrarvi per arrestarle.

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502 Lo Sguardo Lungo

Art. 23 – Per l’esecuzione nel Regno delle sentenze emanate dai tribunali della Città del Vaticano si applicheranno le norme del diritto internazionale.

Avranno invece senz’altro piena efficacia giuridica, anche a tutti gli effetti civili, in Italia le sentenze ed i provvedimenti emanati da autorità ecclesiasti-che ed ufficialmente comunicati alle autorità civili, circa persone ecclesiasti-che o religiose e concernenti materie spirituali o disciplinari.

Art. 24 – La Santa Sede, in relazione alla sovranità che le compete anche nel campo internazionale, dichiara che Essa vuole rimanere e rimarrà estra-nea alle competizioni temporali fra gli altri Stati ed ai Congressi internazionali indetti per tale oggetto, a meno che le parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace, riservandosi in ogni caso di far valere la sua potestà morale e spirituale.

In conseguenza di ciò la Città del Vaticano sarà sempre ed in ogni caso considerata territorio neutrale ed inviolabile.

Art. 25 – Con speciale convenzione sottoscritta unitamente al presente Trattato, la quale costituisce l’Allegato IV al medesimo e ne forma parte inte-grante, si provvede alla liquidazione dei crediti della Santa Sede verso l’Italia

Art. 26 – La Santa Sede ritiene che con gli accordi, i quali sono oggi sotto-scritti, Le viene assicurato adeguatamente quanto Le occorre per provvedere con la dovuta libertà ed indipendenza al governo pastorale della Diocesi di Roma e della Chiesa Cattolica in Italia e nel mondo; dichiara definitivamente ed irrevocabilmente composta e quindi eliminata la « questione romana » e riconosce il Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia con Roma capitale dello Stato italiano.

Alla sua volta l’Italia riconosce lo Stato della Città del Vaticano sotto la sovranità del Sommo Pontefice.

È abrogata la legge 13 maggio 1871 n. 214 e qualunque altra disposizione contraria al presente Trattato.

Art. 27 – Il presente Trattato, non oltre quattro mesi dalla firma, sarà sot-toposto alla ratifica del Sommo Pontefice e del Re d’Italia ed entrerà in vigore all’atto stesso dello scambio delle ratifiche.

Roma, undici febbraio millenovecentoventinove.

* * *

Convenzione FinanziariaSi premette:Che la Santa Sede e l’Italia, a seguito della stipulazione del Trattato, col

quale è stata definitivamente composta la « questione romana », hanno rite-

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503Parte IV – Documenti storici

nuto necessario regolare con una convenzione distinta, ma formante parte integrante del medesimo, i loro rapporti finanziari;

Che il Sommo Pontefice, considerando da un lato i danni ingenti subìti dalla Sede Apostolica per la perdita del patrimonio di San Pietro, costituito dagli antichi Stati Pontifici, e dei beni degli enti ecclesiastici, e dall’altro i bi-sogni sempre crescenti della Chiesa pur soltanto nella Città di Roma, e tutta-via avendo anche presente la situazione finanziaria dello Stato e le condizioni economiche del popolo italiano specialmente dopo la guerra, ha ritenuto di limitare allo stretto necessario la richiesta di indennizzo, domandando una somma, parte in contanti e parte in consolidato, la quale è in valore di mol-to inferiore a quella che a tutt’oggi lo Stato avrebbe dovuto sborsare alla S. Sede medesima anche solo in esecuzione dell’impegno assunto con la legge 13 maggio 1871;

Che lo Stato italiano, apprezzando i paterni sentimenti del Sommo Ponte-fice, ha creduto doveroso aderire alla richiesta del pagamento di detta somma;

Le due Alte Parti, rappresentate dai medesimi Plenipotenziari, hanno convenuto:

Art. 1 – L’Italia si obbliga a versare, allo scambio delle ratifiche del Tratta-to, alla Santa Sede la somma di lire italiane 750.000.000 (settecento cinquanta milioni) ed a consegnare contemporaneamente alla medesima tanto Consoli-dato italiano 5% al portatore (col cupone scadente al 30 giugno p.v.) del valore nominale di lire italiane 1.000.000.000 (un miliardo).

Art. 2 – La Santa Sede dichiara di accettare quanto sopra a definitiva si-stemazione dei suoi rapporti finanziari con l’Italia in dipendenza degli avve-nimenti del 1870.

Art. 3 – Tutti gli atti da compiere per l’esecuzione del Trattato, della pre-sente Convenzione e del Concordato, saranno esenti da ogni tributo.

Roma, undici febbraio millenovecentoventinove.

* * *

Alla ratifica definitiva dei Patti Lateranensi venne premesso questo Processo Verbale

Processo VerbaleI sottoscritti, debitamente autorizzati, si sono riuniti oggi per procedere allo

scambio delle Ratifiche di Sua Santità il Sommo Pontefice e di Sua Maestà il Re d’Italia relative ai seguenti Atti stipulati fra la Santa Sede e l’Italia l’11 Febbraio 1929:

a) TRATTATO con quattro allegati: (1. Territorio dello Stato della Città

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504 Lo Sguardo Lungo

del Vaticano. 2. Immobili con privilegio di extraterritorialità e con esenzione da espropriazioni e da tributi. 3. Immobili esenti da espropriazioni e da tributi. 4. Convenzione finanziaria);

b) CONCORDATO. Gli istrumenti di queste Ratifiche essendo stati trovati esatti e concordanti, lo scambio è stato eseguito.

Le Alte Parti contraenti, nell’atto di procedere allo scambio delle Ratifiche dei patti lateranensi, hanno riaffermato la loro volontà di osservare lealmente, nella parola e nello spirito, non solo il Trattato, negli irrevocabili reciproci rico-noscimenti di sovranità, e nella definitiva eliminazione della questione romana, ma anche il Concordato, nelle sue alte finalità tendenti a regolare le condizioni della Religione e della Chiesa in Italia.

In fede di che, i sottoscritti hanno redatto il presente Processo-Verbale e vi hanno apposto il loro sigillo.

Fatto in doppio originale, nel Palazzo Apostolico Vaticano il sette Giugno millenovecentoventinove.

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505Parte IV – Documenti storici

D

Patti Lateranensi – Concordato fra la Santa Sede e l’Italia

IN NOME DELLA SANTISSIMA TRINITÀPremesso:Che fin dall’inizio delle trattative tra la Santa Sede e l’Italia per risolvere la

« questione romana » la Santa Sede stessa ha proposto che il Trattato relativo a detta questione fosse accompagnato, per necessario complemento, da un Con-cordato, inteso a regolare le condizioni della Religione e della Chiesa in Italia;

Che è stato concluso e firmato oggi stesso il Trattato per la soluzione della « questione romana »;

Sua Santità il Sommo Pontefice Pio XI e Sua Maestà Vittorio Emanue-le III, Re d’Italia, hanno risoluto di fare un Concordato, ed all’uopo hanno nominato gli stessi Plenipotenziarii, delegati per la stipulazione del Trattato, cioè per parte di Sua Santità, Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardi-nale Pietro Gasparri, Suo Segretario di Stato, e per parte di Sua Maestà, Sua Eccellenza il Signor Cavaliere Benito Mussolini, Primo Ministro e Capo del Governo, i quali, scambiati i loro Pieni Poteri e trovatili in buona e dovuta forma, hanno convenuto negli Articoli seguenti:

Art. 1 – L’Italia, ai sensi dell’Art. 1 del Trattato, assicura alla Chiesa Cat-tolica il libero esercizio del potere spirituale, il libero e pubblico esercizio del culto, nonché della sua giurisdizione in materia ecclesiastica in conformità alle norme del presente Concordato; ove occorra, accorda agli ecclesiastici per gli atti del loro ministero spirituale la difesa da parte delle sue autorità.

In considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e méta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto col detto carattere.

Art. 2 – La Santa Sede comunica e corrisponde liberamente con i Vescovi, col clero e con tutto il mondo cattolico senza alcuna ingerenza del Governo italiano.

Parimenti, per tutto quanto si riferisce al ministero pastorale, i Vescovi comunicano e corrispondono liberamente col loro clero e con tutti i fedeli.

Tanto la Santa Sede quanto i Vescovi possono pubblicare liberamente ed anche affiggere nell’interno ed alle porte esterne degli edifici destinati al culto o ad uffici del loro ministero le istruzioni, ordinanze, lettere pastorali, bol-lettini diocesani ed altri atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli, che crederanno di emanare nell’ambito della loro competenza. Tali pubblicazioni ed affissioni ed in genere tutti gli atti e documenti relativi al governo spirituale dei fedeli non sono soggetti ad oneri fiscali.

Le dette pubblicazioni, per quanto riguarda la Santa Sede, possono essere

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506 Lo Sguardo Lungo

fatte in qualunque lingua; quelle dei Vescovi sono fatte in lingua italiana o latina; ma, accanto al testo italiano, l’autorità ecclesiastica può aggiungere la traduzione in altre lingue.

Le autorità ecclesiastiche possono senza alcuna ingerenza delle autorità civili eseguire collette nell’interno ed all’ingresso delle chiese nonché negli edifici di loro proprietà.

Art. 3 – Gli studenti di teologia, quelli degli ultimi due anni di propedeu-tica alla teologia avviati al sacerdozio ed i novizi degli istituti religiosi posso-no, a loro richiesta, rinviare, di anno in anno, fino al ventesimosesto anno di età l’adempimento degli obblighi del servizio militare.

I chierici ordinati in sacris ed i religiosi, che hanno emesso i voti, sono esenti dal servizio militare, salvo il caso di mobilitazione generale. In tale caso, i sacerdoti passano nelle forze armate dello Stato, ma è loro conservato l’abito ecclesiastico, affinché esercitino fra le truppe il sacro ministero sotto la giurisdizione ecclesiastica dell’Ordinario militare ai sensi dell’Art. 14. Gli altri chierici o religiosi sono di preferenza destinati ai servizi sanitari.

Tuttavia, anche se siasi disposta la mobilitazione generale, sono dispensati dal presentarsi alla chiamata i sacerdoti con cura di anime. Si considerano tali gli Ordinari, i parroci, i vice parroci o coadiutori, i vicari ed i sacerdoti stabilmente preposti a rettorie di chiese aperte al culto.

Art. 4 – Gli ecclesiastici ed i religiosi sono esenti dall’ufficio di giurato.

Art. 5 – Nessun ecclesiastico può essere assunto o rimanere in un impiego od ufficio dello Stato italiano o di enti pubblici dipendenti dal medesimo sen-za il nulla osta dell’Ordinario diocesano.

La revoca del nulla osta priva l’ecclesiastico della capacità di continuare ad esercitare l’impiego o l’ufficio assunto.

In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico.

Art. 6 – Gli stipendi e gli altri assegni, di cui godono gli ecclesiastici in ragione del loro ufficio, sono esenti da pignorabilità nella stessa misura in cui lo sono gli stipendi e gli assegni degl’impiegati dello Stato.

Art. 7 – Gli ecclesiastici non possono essere richiesti da magistrati o da altra autorità a dare informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del sacro ministero.

Art. 8 – Nel caso di deferimento al magistrato penale di un ecclesiastico o di un religioso per delitto, il Procuratore del Re deve informarne immediata-mente l’Ordinario della diocesi, nel cui territorio egli esercita giurisdizione; e deve sollecitamente trasmettere di ufficio al medesimo la decisione istruttoria e, ove abbia luogo, la sentenza terminativa del giudizio tanto in primo grado quanto in appello.

In caso di arresto, l’ecclesiastico o il religioso è trattato col riguardo dovu-

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507Parte IV – Documenti storici

to al suo stato ed al suo grado gerarchico.Nel caso di condanna di un ecclesiastico o di un religioso, la pena è scon-

tata possibilmente in locali separati da quelli destinati ai laici, a meno che l’Ordinario competente non abbia ridotto il condannato allo stato laicale.

Art. 9 – Di regola, gli edifici aperti al culto sono esenti da requisizioni od occupazioni.

Occorrendo per gravi necessità pubbliche occupare un edificio aperto al culto, l’autorità che procede all’occupazione deve prendere previamente ac-cordi con l’Ordinario, a meno che ragioni di assoluta urgenza a ciò si oppon-gano. In tale ipotesi, l’autorità procedente deve informare immediatamente il medesimo.

Salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non può entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica.

Art. 10 – Non si potrà per qualsiasi causa procedere alla demolizione di edifizi aperti al culto, se non previo accordo colla competente autorità eccle-siastica.

Art. 11 – Lo Stato riconosce i giorni festivi stabiliti dalla Chiesa, che sono i seguenti:

Tutte le domeniche; Il primo giorno dell’anno; Il giorno dell’Epifania (6 gennaio); Il giorno della festa di S. Giuseppe (19 marzo); Il giorno dell’Ascen-sione; Il giorno del Corpus Domini; Il giorno della festa dei Ss. Apostoli Pie-tro e Paolo (29 giugno); Il giorno dell’Assunzione della B. V. Maria (15 agosto); Il giorno di Ognissanti (1° novembre); Il giorno della festa dell’Immacolata Concezione (8 dicembre); Il giorno di Natale (25 dicembre).

Art. 12 – Nelle domeniche e nelle feste di precetto, nelle chiese in cui officia un Capitolo, il celebrante la Messa Conventuale canterà, secondo le norme della sacra liturgia, una preghiera per la prosperità del Re d’Italia e dello Stato italiano.

Art. 13 – Il Governo italiano comunica alla Santa Sede la tabella organica del personale ecclesiastico di ruolo adibito al servizio dell’assistenza spirituale presso le forze militari dello Stato appena essa sia stata approvata nei modi di legge.

La designazione degli ecclesiastici, cui è commessa l’alta direzione del ser-vizio di assistenza spirituale (Ordinario militare, vicario ed ispettori), è fatta confidenzialmente dalla Santa Sede al Governo italiano. Qualora il Governo italiano abbia ragioni da opporre alla fatta designazione, ne darà comunica-zione alla Santa Sede, la quale procederà ad altra designazione.

L’Ordinario militare sarà rivestito della dignità arcivescovile.La nomina dei cappellani militari è fatta dalla competente autorità dello

Stato italiano su designazione dell’Ordinario militare.

Art. 14 – Le truppe italiane di aria, di terra e di mare godono, nei riguardi

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508 Lo Sguardo Lungo

dei doveri religiosi, dei privilegi e delle esenzioni consentite dal diritto cano-nico.

I cappellani militari hanno, riguardo alle dette truppe, competenze par-rocchiali. Essi esercitano il sacro ministero sotto la giurisdizione dell’Ordina-rio militare, assistito dalla propria Curia.

L’Ordinario militare ha giurisdizione anche sul personale religioso, ma-schile e femminile, addetto agli ospedali militari.

Art. 15  –  L’Arcivescovo ordinario militare è preposto al Capitolo della chiesa del Pantheon in Roma, costituendo con esso il clero, cui è affidato il servizio religioso di detta Basilica.

Tale clero è autorizzato a provvedere a tutte le funzioni religiose, anche fuori di Roma, che in conformità alle regole canoniche siano richieste dallo Stato o dalla Reale Casa.

La Santa Sede consente a conferire a tutti i canonici componenti il capito-lo del Pantheon la dignità di protonotari ad instar, durante munere. La nomina di ciascuno di essi sarà fatta dal Cardinale Vicario di Roma dietro presenta-zione da parte di Sua Maestà il Re d’Italia, previa confidenziale indicazione del presentando.

La S. Sede si riserva di trasferire ad altra chiesa la Diaconia.

Art. 16 – Le Alte Parti contraenti procederanno d’accordo, a mezzo di commissioni miste, ad una revisione della circoscrizione delle diocesi, allo scopo di renderla possibilmente rispondente a quella delle province dello Sta-to.

Resta inteso che la Santa Sede erigerà la diocesi di Zara; che nessuna parte del territorio soggetto alla sovranità del Regno d’Italia dipenderà da un Ve-scovo, la cui sede si trovi in territorio soggetto alla sovranità di altro Stato; e che nessuna diocesi del Regno comprenderà zone di territorio soggette alla sovranità di altro Stato.

Lo stesso principio sarà osservato per tutte le parrocchie esistenti o da costituirsi in territori vicini ai confini dello Stato.

Le modificazioni che, dopo l’assetto innanzi accennato si dovessero in av-venire arrecare alle circoscrizioni delle diocesi, saranno disposte dalla Santa Sede previi accordi col Governo italiano ed in osservanza delle direttive su espresse, salvo le piccole rettifiche di territorio richieste dal bene delle anime.

Art. 17 – La riduzione delle diocesi che risulterà dall’applicazione dell’ar-ticolo precedente, sarà attuata via via che le diocesi medesime si renderanno vacanti.

Resta inteso che la riduzione non importerà soppressione dei titoli delle diocesi né dei capitoli, che saranno conservati, pur raggruppandosi le diocesi in modo che i capoluoghi delle medesime corrispondano a quelli delle pro-vince.

Le riduzioni suddette lasceranno salve tutte le attuali risorse economiche delle diocesi e degli altri enti ecclesiastici esistenti nelle medesime, compresi gli assegni ora corrisposti dallo Stato italiano.

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509Parte IV – Documenti storici

Art. 18 – Dovendosi, per disposizione dell’autorità ecclesiastica, raggrup-pare in via provvisoria o definitiva più parrocchie, sia affidandole ad un solo parroco assistito da uno o più vice-parroci, sia riunendo in un solo presbiterio più sacerdoti, lo Stato manterrà inalterato il trattamento economico dovuto a dette parrocchie.

Art. 19 – La scelta degli Arcivescovi e Vescovi appartiene alla Santa Sede.Prima di procedere alla nomina di un Arcivescovo o di un Vescovo dio-

cesano o di un coadiutore cum iure successionis, la Santa Sede comunicherà il nome della persona prescelta al Governo italiano per assicurarsi che il me-desimo non abbia ragioni di carattere politico da sollevare contro la nomina.

Le pratiche relative si svolgeranno con la maggiore possibile sollecitudine e con ogni riservatezza, in modo che sia mantenuto il segreto sulla persona prescelta, finché non avvenga la nomina della medesima.

Art. 20 – I Vescovi, prima di prendere possesso della loro diocesi, pre-stano nelle mani del Capo dello Stato un giuramento di fedeltà secondo la formula seguente:

«Davanti a Dio e sui Santi Vangeli, io giuro e prometto, siccome si convie-ne ad un Vescovo, fedeltà allo Stato italiano. Io giuro e prometto di rispettare e di far rispettare dal mio clero il Re ed il Governo stabilito secondo le leggi costituzionali dello Stato. Io giuro e prometto inoltre che non parteciperò ad alcun accordo né assisterò ad alcun consiglio che possa recar danno allo Stato italiano ed all’ordine pubblico e che non permetterò al mio clero simili partecipazioni. Preoccupandomi del bene e dell’interesse dello Stato italiano, cercherò di evitare ogni danno che possa minacciarlo ».

Art. 21 – La provvista dei benefìci ecclesiastici appartiene all’autorità ec-clesiastica.

Le nomine degl’investiti dei benefìci parrocchiali sono dall’autorità eccle-siastica competente comunicate riservatamente al Governo italiano e non pos-sono avere corso prima che siano passati trenta giorni dalla comunicazione.

In questo termine, il Governo italiano, ove gravi ragioni si oppongano alla nomina, può manifestarle riservatamente all’autorità ecclesiastica, la quale, permanendo il dissenso, deferirà il caso alla Santa Sede.

Sopraggiungendo gravi ragioni che rendano dannosa la permanenza di un ecclesiastico in un determinato beneficio parrocchiale, il Governo italiano comunicherà tali ragioni all’Ordinario, che d’accordo col Governo prenderà entro tre mesi le misure appropriate. In caso di divergenza tra l’Ordinario ed il Governo, la Santa Sede affiderà la soluzione della questione a due eccle-siastici di sua scelta, i quali d’accordo con due delegati del Governo italiano prenderanno una decisione definitiva.

Art. 22 – Non possono essere investiti di benefìci esistenti in Italia eccle-siastici che non siano cittadini italiani. I titolari delle diocesi e delle parroc-chie devono inoltre parlare la lingua italiana. Occorrendo, dovranno essere loro assegnati coadiutori che, oltre l’italiano, intendano e parlino anche la lingua localmente in uso, allo scopo di prestare l’assistenza religiosa nella lin-

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510 Lo Sguardo Lungo

gua dei fedeli secondo le regole della Chiesa.

Art. 23 – Le disposizioni degli articoli 16, 17, 19, 20, 21 e 22 non riguarda-no Roma e le diocesi suburbicarie.

Resta anche inteso che, qualora la Santa Sede procedesse ad un nuovo as-setto di dette diocesi, rimarrebbero invariati gli assegni oggi corrisposti dallo Stato italiano sia alle mense sia alle altre istituzioni ecclesiastiche.

Art. 24 – Sono aboliti l’exequatur, il regio placet, nonché ogni nomina ce-sarea o regia in materia di provvista di benefìci od uffici ecclesiastici in tutta Italia, salve le eccezioni stabilite nell’Art. 29 lettera g).

Art. 25  –  Lo Stato italiano rinuncia alla prerogativa sovrana del Regio patronato sui benefìci maggiori e minori.

È abolita la regalia sui benefìci maggiori e minori. È abolito anche il terzo pensionabile nelle province dell’ex-regno delle due Sicilie.

Gli oneri relativi cessano di far carico allo Stato ed alle amministrazioni dipendenti.

Art. 26 – La nomina degl’investiti dei benefìci maggiori e minori e di chi rappresenta temporaneamente la sede o il beneficio vacante ha effetto dalla data della provvista ecclesiastica, che sarà ufficialmente partecipata al Go-verno. L’amministrazione ed il godimento delle rendite, durante la vacanza, è disciplinata dalle norme del diritto canonico.

In caso di cattiva gestione, lo Stato italiano, presi accordi con l’autori-tà ecclesiastica, può procedere al sequestro delle temporalità del beneficio, devolvendone il reddito netto a favore dell’investito, o, in sua mancanza, a vantaggio del beneficio.

Art. 27 – Le basiliche della Santa Casa in Loreto, di San Francesco in Assisi e di Sant’Antonio in Padova con gli edifici ed opere annesse, eccettuate quelle di carattere meramente laico, saranno cedute alla Santa Sede e la loro amministrazione spetterà liberamente alla medesima. Saranno parimenti li-beri da ogni ingerenza dello Stato e da conversione gli altri enti di qualsiasi natura gestiti dalla Santa Sede in Italia nonché i Collegi di missioni. Restano, tuttavia, in ogni caso applicabili le leggi italiane concernenti gli acquisti dei corpi morali.

Relativamente ai beni ora appartenenti ai detti Santuari, si procederà alla ripartizione a mezzo di commissione mista, avendo riguardo ai diritti dei terzi ed alle dotazioni necessarie alle dette opere meramente laiche.

Per gli altri Santuari, nei quali esistano amministrazioni civili, subentrerà la libera gestione dell’autorità ecclesiastica, salva, ove del caso, la ripartizione dei beni a norma del precedente capoverso.

Art. 28 – Per tranquillare le coscienze, la Santa Sede accorderà piena con-donazione a tutti coloro che, a seguito delle leggi italiane eversive del patrimo-nio ecclesiastico, si trovino in possesso di beni ecclesiastici.

A tale scopo la Santa Sede darà agli Ordinari le opportune istruzioni.

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511Parte IV – Documenti storici

Art. 29 – Lo Stato italiano rivedrà la sua legislazione in quanto interessa la materia ecclesiastica, al fine di riformarla ed integrarla, per metterla in ar-monia colle direttive, alle quali si ispira il Trattato stipulato colla Santa Sede ed il presente Concordato.

Resta fin da ora convenuto fra le due Alte Parti contraenti quanto appres-so:

a) Ferma restando la personalità giuridica degli enti ecclesiastici finora riconosciuti dalle leggi italiane (Santa Sede, diocesi, capitoli, seminari, par-rocchie, ecc.), tale personalità sarà riconosciuta anche alle chiese pubbliche aperte al culto, che già non l’abbiano, comprese quelle già appartenenti agli enti ecclesiastici soppressi, con assegnazione, nei riguardi di queste ultime, della rendita che attualmente il Fondo per il Culto destina a ciascuna di esse.

Salvo quanto è disposto nel precedente Art. 27, i consigli di amministra-zione, dovunque esistano e qualunque sia la loro denominazione, anche se composti totalmente o in maggioranza di laici, non dovranno ingerirsi nei servizi di culto, e la nomina dei componenti sarà fatta d’intesa con l’autorità ecclesiastica.

b) Sarà riconosciuta la personalità giuridica delle associazioni religiose, con o senza voti, approvate dalla Santa Sede, che abbiano la loro sede princi-pale nel Regno, e siano ivi rappresentate, giuridicamente e di fatto, da persone che abbiano la cittadinanza italiana e siano in Italia domiciliate. Sarà rico-nosciuta, inoltre, la personalità giuridica delle province religiose italiane, nei limiti del territorio dello Stato e sue colonie, delle associazioni aventi la sede principale all’estero, quando concorrano le stesse condizioni. Sarà riconosciu-ta altresì la personalità giuridica delle case, quando dalle regole particolari dei singoli ordini sia attribuita alle medesime la capacità di acquistare e pos-sedere. Sarà riconosciuta infine la personalità giuridica alla Case generalizie ed alle Procure delle associazioni religiose, anche estere. Le associazioni o le case religiose, le quali già abbiano la personalità giuridica, la conserveranno.

Gli atti relativi ai trasferimenti degli immobili, dei quali le associazioni sono già in possesso, dagli attuali intestatari alle associazioni stesse saranno esenti da ogni tributo.

c) Le confraternite aventi scopo esclusivo o prevalente di culto non sono soggette ad ulteriori trasformazioni nei fini, e dipendono dall’autorità eccle-siastica, per quanto riguarda il funzionamento e l’amministrazione.

d) Sono ammesse le fondazioni di culto di qualsiasi specie, purché consti che rispondano alle esigenze religiose della popolazione e non ne derivi alcun onere finanziario allo Stato. Tale disposizione si applica anche alle fondazioni già esistenti di fatto.

e) Nelle amministrazioni civili del patrimonio ecclesiastico proveniente dalle leggi eversive i consigli di amministrazione saranno formati per metà con membri designati dall’autorità ecclesiastica. Altrettanto dicasi per i Fondi di religione delle nuove province.

f) Gli atti compiuti finora da enti ecclesiastici o religiosi senza l’osservanza delle leggi civili potranno essere riconosciuti e regolarizzati dallo Stato italia-

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512 Lo Sguardo Lungo

no, su domanda dell’Ordinario da presentarsi entro tre anni dall’entrata in vigore del presente Concordato.

g) Lo Stato italiano rinunzia ai privilegi di esenzione giurisdizionale eccle-siastica del clero palatino in tutta Italia (salvo per quello addetto alle chiese della Santa Sindone di Torino, di Superga, del Sudario di Roma ed alle cap-pelle annesse ai palazzi di dimora dei Sovrani e dei Principi Reali), rientrando tutte le nomine e provviste di benefìci ed uffici sotto le norme degli articoli precedenti. Un’apposita commissione provvederà all’assegnazione ad ogni ba-silica o chiesa palatina di una congrua dotazione con i criteri indicati per i beni dei santuari nell’Art. 27.

h) Ferme restando le agevolazioni tributarie già stabilite a favore degli enti ecclesiastici dalle leggi italiane fin qui vigenti, il fine di culto o di religione è, a tutti gli effetti tributari, equiparato ai fini di beneficenza e di istruzione.

È abolita la tassa straordinaria del trenta per cento imposta con l’articolo 18 della legge 15 agosto 1867 n. 3848; la quota di concorso di cui agli articoli 31 della legge 7 luglio 1866 n. 3036 e 20 della legge 15 agosto 1867 n. 3848; nonché la tassa sul passaggio di usufrutto dei beni costituenti la dotazione dei benefìci ed altri enti ecclesiastici, stabilita dall’Art. 1° del R. D. 30 dicembre 1923 n.  3270, rimanendo esclusa anche per l’avvenire l’istituzione di qual-siasi tributo speciale a carico dei beni della Chiesa. Non saranno applicate ai ministri del culto per l’esercizio del ministero sacerdotale l’imposta sulle professioni e la tassa di patente, istituite con il R. D. 18 novembre 1923 n. 2538 in luogo della soppressa tassa di esercizio e rivendita, né qualsiasi altro tributo del genere.

i) L’uso dell’abito ecclesiastico o religioso da parte di secolari o da parte di ecclesiastici e di religiosi, ai quali sia stato interdetto con provvedimento definitivo della competente autorità ecclesiastica, che dovrà a questo fine es-sere ufficialmente comunicato al Governo italiano, è vietato e punito colle stesse sanzioni e pene, colle quali è vietato e punito l’uso abusivo della divisa militare.

Art. 30 – La gestione ordinaria e straordinaria dei beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico od associazione religiosa ha luogo sotto la vi-gilanza ed il controllo delle competenti autorità della Chiesa, escluso ogni intervento da parte dello Stato italiano, e senza obbligo di assoggettare a con-versione i beni immobili.

Lo Stato italiano riconosce agli istituti ecclesiastici ed alle associazioni religiose la capacità di acquistare beni, salve le disposizioni delle leggi civili concernenti gli acquisti dai corpi morali.

Lo Stato italiano, finché con nuovi accordi non sarà stabilito diversamen-te, continuerà a supplire alle deficienze dei redditi dei benefìci ecclesiastici con assegni da corrispondere in misura non inferiore al valore reale di quella stabilita dalle leggi attualmente in vigore: in considerazione di ciò, la gestione patrimoniale di detti benefìci, per quanto concerne gli atti e contratti ecce-denti la semplice amministrazione, avrà luogo con intervento da parte dello

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513Parte IV – Documenti storici

Stato italiano, ed in caso di vacanza la consegna dei beni sarà fatta colla pre-senza di un rappresentante del Governo, redigendosi analogo verbale.

Non sono soggetti all’intervento suddetto le mense vescovili delle diocesi suburbicarie ed i patrimoni dei capitoli e delle parrocchie di Roma e delle det-te diocesi. Agli effetti del supplemento di congrua, l’ammontare dei redditi, che su dette mense e patrimoni sono corrisposti ai beneficiati, risulterà da una dichiarazione resa annualmente sotto la propria responsabilità dal Vescovo suburbicario per le diocesi e dal Cardinale Vicario per la città di Roma.

Art. 31 – L’erezione di nuovi enti ecclesiastici od associazioni religiose sarà fatta dall’autorità ecclesiastica secondo le norme del diritto canonico: il loro riconoscimento agli effetti civili sarà fatto dalle autorità civili.

Art. 32 – I riconoscimenti e le autorizzazioni previste nelle disposizioni del presente Concordato e del Trattato avranno luogo con le norme stabilite dalle leggi civili, che dovranno essere poste in armonia con le disposizioni del Concordato medesimo e del Trattato.

Art. 33 – È riservata alla Santa Sede la disponibilità delle catacombe esi-stenti nel suolo di Roma e delle altre parti del territorio del Regno con l’onere conseguente della custodia, della manutenzione e della conservazione.

Essa può quindi, con l’osservanza delle leggi dello Stato e con salvezza degli eventuali diritti di terzi, procedere alle occorrenti escavazioni ed al tra-sferimento dei corpi santi.

Art. 34 – Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto ca-nonico, gli effetti civili.

Le pubblicazioni del matrimonio come sopra saranno effettuate, oltre che nella chiesa parrocchiale, anche nella casa comunale.

Subito dopo la celebrazione il parroco spiegherà ai coniugi gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli del codice civile riguardanti i diritti ed i doveri dei coniugi, e redigerà l’atto di matrimonio, del quale entro cinque giorni trasmetterà copia integrale al Comune, affinché venga trascritto nei registri dello stato civile.

Le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimo-nio rato e non consumato sono riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici.

I provvedimenti e le sentenze relative, quando siano divenute definitive, saranno portate al Supremo Tribunale della Segnatura, il quale controllerà se siano state rispettate le norme del diritto canonico relative alla competenza del giudice, alla citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti.

I detti provvedimenti e sentenze definitive coi relativi decreti del Supre-mo Tribunale della Segnatura saranno trasmessi alla Corte di Appello dello Stato competente per territorio, la quale, con ordinanze emesse in Camera di Consiglio, li renderà esecutivi agli effetti civili ed ordinerà che siano annotati

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514 Lo Sguardo Lungo

nei registri dello stato civile a margine dell’atto di matrimonio.Quanto alle cause di separazione personale, la Santa Sede consente che

siano giudicate dall’autorità giudiziaria civile.

Art. 35 – Per le scuole di istruzione media tenute da enti ecclesiastici o religiosi rimane fermo l’istituto dell’esame di Stato ad effettiva parità di con-dizioni per candidati di istituti governativi e candidati di dette scuole.

Art. 36  –  L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi d’accordo tra la Santa Sede e lo Stato.

Tale insegnamento sarà dato a mezzo di maestri e professori, sacerdoti o religiosi, approvati dall’autorità ecclesiastica, e sussidiariamente a mezzo di maestri e professori laici, che siano a questo fine muniti di un certificato di idoneità da rilasciarsi dall’Ordinario diocesano.

La revoca del certificato da parte dell’Ordinario priva senz’altro l’inse-gnante della capacità di insegnare.

Pel detto insegnamento religioso nelle scuole pubbliche non saranno adottati che i libri di testo approvati dall’autorità ecclesiastica.

Art. 37 – I dirigenti delle associazioni statali per l’educazione fisica, per l’istruzione premilitare, degli Avanguardisti e dei Balilla, per rendere possibi-le l’istruzione e l’assistenza religiosa della gioventù loro affidata, disporranno gli orari in modo da non impedire nelle domeniche e nelle feste di precetto l’adempimento dei doveri religiosi.

Altrettanto disporranno i dirigenti delle scuole pubbliche nelle eventuali adunate degli alunni nei detti giorni festivi.

Art. 38 – Le nomine dei Professori dell’Università Cattolica del S. Cuore e del dipendente Istituto di Magistero Maria Immacolata sono subordinate al nulla osta da parte della Santa Sede, diretto ad assicurare che non vi sia alcunché da eccepire dal punto di vista morale e religioso.

Art. 39 – Le Università, i Seminari maggiori e minori, sia diocesani sia interdiocesani sia regionali, le accademie, i collegi e gli altri istituti cattolici per la formazione e la cultura degli ecclesiastici continueranno a dipendere unicamente dalla Santa Sede, senza alcuna ingerenza delle autorità scolastiche del Regno.

Art. 40 – Le lauree in sacra teologia date dalle Facoltà approvate dalla Santa Sede saranno riconosciute dallo Stato italiano.

Saranno parimenti riconosciuti i diplomi che si conseguono nelle scuole di paleografia, archivistica e diplomatica documentaria erette presso la biblio-teca e l’archivio nella Città del Vaticano.

Art. 41 – L’Italia autorizza l’uso nel Regno e nelle sue colonie delle ono-

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515Parte IV – Documenti storici

rificenze cavalleresche pontificie mediante registrazione del breve di nomina, da farsi su presentazione del breve stesso e domanda scritta dell’interessato.

Art. 42 – L’Italia ammetterà il riconoscimento, mediante Decreto Reale, dei titoli nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici anche dopo il 1870 e di quelli che saranno conferiti in avvenire.

Saranno stabiliti casi nei quali il detto riconoscimento non è soggetto in Italia al pagamento di tassa.

Art. 43  –  Lo Stato italiano riconosce le organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica Italiana, in quanto esse, siccome la Santa Sede ha dispo-sto, svolgano la loro attività al di fuori di ogni partito politico e sotto l’imme-diata dipendenza della gerarchia della Chiesa per la diffusione e l’attuazione dei principî cattolici.

La Santa Sede prende occasione dalla stipulazione del presente Concorda-to per rinnovare a tutti gli ecclesiastici e religiosi d’Italia il divieto di iscriversi e militare in qualsiasi partito politico.

Art. 44 – Se in avvenire sorgesse qualche difficoltà sulla interpretazione del presente Concordato, la Santa Sede e l’Italia procederanno di comune intelligenza ad una amichevole soluzione.

Art. 45 – Il presente Concordato entrerà in vigore allo scambio delle ra-tifiche, contemporaneamente al Trattato, stipulato fra le stesse Alte Parti, che elimina la « questione romana ».

Con l’entrata in vigore del presente Concordato, cesseranno di applicarsi in Italia le disposizioni dei Concordati decaduti degli ex-stati italiani. Le leggi austriache, le leggi, i regolamenti, le ordinanze e i decreti dello Stato italiano attualmente vigenti, in quanto siano in contrasto colle disposizioni del pre-sente Concordato, si intendono abrogati con l’entrata in vigore del medesimo.

Per predisporre la esecuzione del presente Concordato sarà nominata, subito dopo la firma del medesimo, una Commissione composta da persone designate da ambedue le Alte Parti.

Roma, undici febbraio millenovecentoventinove.

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516 Lo Sguardo Lungo

E

Costituzione della Repubblica Italiana

(estratto)

Art. 2 – La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uo-mo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua persona-lità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Art.7 – Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione co-stituzionale.

Art. 8 – Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.

Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organiz-zarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.

I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Art. 19  –  Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.

Art. 20 – Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuri-dica e ogni forma di attività.

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517Parte IV – Documenti storici

F

Il testo dell’accordo, 1984 (Nuovo Concordato)

Tenuto conto del processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi promossi nella Chiesa dal Con-cilio Vaticano II;

avendo presenti, da parte della Repubblica italiana, i principi sanciti dalla sua Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica, nonché la nuova codificazione del diritto canonico;

considerato inoltre che, in forza del secondo comma dell’articolo 7 della Costituzione della Repubblica italiana, i rapporti tra lo Stato e la Chiesa catto-lica sono regolati dai Patti lateranensi, i quali per altro possono essere modi-ficati di comune accordo dalle due Parti senza che ciò richieda procedimenti di revisione costituzionale;

hanno riconosciuto l’opportunità di addivenire alle seguenti modificazio-ni consensuali del Concordato lateranense:

Art. 1 – La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reci-proca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese.

Art. 2 – 1.La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evange-lizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica.

2. È ugualmente assicurata la reciproca libertà di comunicazione e di cor-rispondenza fra la Santa Sede, la Conferenza Episcopale Italiana, le Confe-renze episcopali regionali, i Vescovi, il clero e i fedeli, così come la libertà di pubblicazione e diffusione degli atti e documenti relativi alla missione della Chiesa.

3. È garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. 4. La Repubblica italiana riconosce il par-ticolare significato che Roma, sede vescovile del Sommo Pontefice, ha per la cattolicità.

Art. 3-1. La circoscrizione delle diocesi e delle parrocchie è liberamente determinata dall’autorità ecclesiastica. La Santa Sede si impegna a non inclu-dere alcuna parte del territorio italiano in una diocesi la cui sede vescovile si trovi nel territorio di altro Stato.

2. La nomina dei titolari di uffici ecclesiastici è liberamente effettuata

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518 Lo Sguardo Lungo

dall’autorità ecclesiastica. Quest’ultima dà comunicazione alle competenti autorità civili della nomina degli Arcivescovi e Vescovi diocesani, dei Coadiu-tori, degli Abati e Prelati con giurisdizione territoriale, così come dei Parroci e dei titolari degli altri uffici ecclesiastici rilevanti per l’ordinamento dello Stato.

3. Salvo che per la diocesi di Roma e per quelle suburbicarie, non saran-no nominati agli uffici di cui al presente articolo, ecclesiastici che non siano cittadini italiani.

Art. 4 – 1. I sacerdoti, i diaconi ed i religiosi che hanno emesso i voti han-no facoltà di ottenere, a loro richiesta, di essere esonerati dal servizio militare oppure assegnati al servizio civile sostitutivo.

2. In caso di mobilitazione generale gli ecclesiastici non assegnati alla cura d’anime sono chiamati ad esercitare il ministero religioso fra le truppe, oppu-re, subordinatamente, assegnati ai servizi sanitari.

3. Gli studenti di teologia, quelli degli ultimi due anni di propedeutica alla teologia ed i novizi degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica possono usufruire degli stessi rinvii dal servizio militare accordati agli studenti delle università italiane.

4. Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragio-ne del loro ministero.

Art. 5 – 1. Gli edifici aperti al culto non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con la compe-tente autorità ecclesiastica.

2. Salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non potrà entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica.

3. l’autorità civile terrà conto delle esigenze religiose delle popolazioni, fatte presenti dalla competente autorità ecclesiastica, per quanto concerne la costruzione di nuovi edifici di culto cattolico e delle pertinenti opere parroc-chiali.

Art. 6 – La Repubblica italiana riconosce come giorni festivi tutte le do-meniche e le altre festività religiose determinate d’intesa fra le Parti.

Art. 7 – 1. La Repubblica italiana, richiamandosi al principio enunciato dall’articolo 20 della Costituzione, riafferma che il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.

2. Ferma restando la personalità giuridica degli enti ecclesiastici che ne sono attualmente provvisti, la Repubblica italiana, su domanda dell’autorità ecclesiastica o con il suo assenso, continuerà a riconoscere la personalità giu-ridica degli enti ecclesiastici aventi sede in Italia, eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, i quali abbiano finalità di religione o di culto. Analogamente si procederà per il riconoscimento agli effetti civili di ogni mu-

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519Parte IV – Documenti storici

tamento sostanziale degli enti medesimi.3. Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di cul-

to, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime.

4. Gli edifici aperti al culto, le pubblicazioni di atti, le affissioni all’interno o all’ingresso degli edifici di culto o ecclesiastici, e le collette effettuate nei predetti edifici, continueranno ad essere soggetti al regime vigente.

5. l’amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici è soggetta ai controlli previsti dal diritto canonico. Gli acquisti di questi enti sono però soggetti anche ai controlli previsti dalle leggi italiane per gli acquisti delle persone giuridiche.

6. All’atto della firma del presente Accordo, le Parti istituiscono una Com-missione paritetica per la formulazione delle norme da sottoporre alla loro approvazione per la disciplina di tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici e per la revisione degli impegni finanziari dello Stato italiano e degli inter-venti del medesimo nella gestione patrimoniale degli enti ecclesiastici. In via transitoria e fino all’entrata in vigore della nuova disciplina restano applicabili gli articoli 17, comma terzo, 18, 27, 29 e 30 del precedente testo concordatario.

Art. 8 – 1. Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secon-do le norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale. Subito dopo la celebrazione, il parroco o il suo delegato spiegherà ai contraenti gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli del codice civile ri-guardanti i diritti e i doveri dei coniugi, e redigerà quindi, in doppio originale, l’atto di matrimonio, nel quale potranno essere inserite le dichiarazioni dei coniugi consentite secondo la legge civile.

La Santa Sede prende atto che la trascrizione non potrà avere luogo:a) quando gli sposi non rispondano ai requisiti della legge civile circa l’età

richiesta per la celebrazione;b) quando sussiste fra gli sposi un impedimento che la legge civile consi-

dera inderogabile.La trascrizione è tuttavia ammessa quando, secondo la legge civile, l’azione

di nullità o di annullamento non potrebbe essere più proposta. La richiesta di trascrizione è fatta, per iscritto, dal parroco del luogo dove il matrimonio è stato celebrato, non oltre i cinque giorni dalla celebrazione. l’ufficiale dello stato civile, ove sussistano le condizioni per la trascrizione, la effettua entro ventiquattro ore dal ricevimento dell’atto e ne dà notizia al parroco. Il matri-monio ha effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l’ufficiale dello stato civile, per qualsiasi ragione, abbia effettuato la trascrizione oltre il termi-ne prescritto. La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrotta-

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520 Lo Sguardo Lungo

mente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi.

2. Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesia-stici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo eccle-siastico di controllo, sono, su domanda della parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della corte d’appello compe-tente, quando questa accerti:

a) che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio celebrato in conformità del presente articolo;

b) che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano;

c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere.

La corte d’appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia.

3. Nell’accedere al presente regolamento della materia matrimoniale la Santa Sede sente l’esigenza di riaffermare il valore immutato della dottrina cattolica sul matrimonio e la sollecitudine della Chiesa per la dignità ed i valori della famiglia, fondamento della società.

Art. 9 – 1. La Repubblica italiana, in conformità al principio della libertà della scuola e dell’insegnamento e nei termini previsti dalla propria Costitu-zione, garantisce alla Chiesa cattolica il diritto di istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione. A tali scuole che ottengano la parità è assicurata piena libertà, ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole dello Stato e degli altri enti territoriali, anche per quanto concerne l’esame di Stato.

2. La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscien-za e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il di-ritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richie-sta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione.

Art. 10 – 1. Gli istituti universitari, i seminari, le accademie, i collegi e gli altri istituti per ecclesiastici e religiosi o per la formazione nelle discipline ecclesiastiche, istituiti secondo il diritto canonico, continueranno a dipendere unicamente dall’autorità ecclesiastica.

2. I titoli accademici in teologia e nelle altre discipline ecclesiastiche, de-terminate d’accordo tra le Parti, conferiti dalle Facoltà approvate dalla San-

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521Parte IV – Documenti storici

ta Sede, sono riconosciuti dallo Stato. Sono parimenti riconosciuti i diplomi conseguiti nelle Scuole vaticane di paleografia, diplomatica e archivistica e di biblioteconomia.

3. Le nomine dei docenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dei dipendenti istituti sono subordinate al gradimento, sotto il profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica.

Art. 11 – 1. La Repubblica italiana assicura che l’appartenenza alle forze armate, alla polizia, o ad altri servizi assimilati, la degenza in ospedali, case di cura o di assistenza pubbliche, la permanenza negli istituti di prevenzione e pena non possono dar luogo ad alcun impedimento nell’esercizio della libertà religiosa e nell’adempimento delle pratiche di culto dei cattolici.

2. l’assistenza spirituale ai medesimi è assicurata da ecclesiastici nominati dalle autorità italiane competenti su designazione dell’autorità ecclesiastica e secondo lo stato giuridico, l’organico e le modalità stabiliti d’intesa fra tali autorità.

Art. 12 – 1. La Santa Sede e la Repubblica italiana, nel rispettivo ordine, collaborano per la tutela del patrimonio storico ed artistico. Al fine di armo-nizzare l’applicazione della legge italiana con le esigenze di carattere religioso, gli organi competenti delle due Parti concorderanno opportune disposizioni per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali d’inte-resse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche. La conserva-zione e la consultazione degli archivi d’interesse storico e delle biblioteche dei medesimi enti e istituzioni saranno favorite e agevolate sulla base di intese tra i competenti organi delle due Parti.

2. La Santa Sede conserva la disponibilità delle catacombe cristiane esi-stenti nel suolo di Roma e nelle altre parti del territorio italiano con l’onere conseguente della custodia, della manutenzione e della conservazione, rinun-ciando alla disponibilità delle altre catacombe. Con l’osservanza delle leggi dello Stato e fatti salvi gli eventuali diritti di terzi, la Santa Sede può procede-re agli scavi occorrenti ed al trasferimento delle sacre reliquie.

Art. 13  –  1. Le disposizioni precedenti costituiscono modificazioni del Concordato lateranense accettate dalle due Parti, ed entreranno in vigore alla data dello scambio degli strumenti di ratifica. Salvo quanto previsto dall’arti-colo 7, n. 6, le disposizioni del Concordato stesso non riprodotte nel presente testo sono abrogate.

2. Ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana.

Art. 14 – Se in avvenire sorgessero difficoltà di interpretazione o di appli-cazione delle disposizioni precedenti, la Santa Sede e la Repubblica italiana affideranno la ricerca di un’amichevole soluzione ad una Commissione pari-tetica da loro nominata.

Roma, diciotto febbraio millenovecentottantaquattro.

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522 Lo Sguardo Lungo

Il protocollo addizionaleAl momento della firma dell’Accordo che apporta modificazioni al Con-

cordato lateranense la Santa Sede e la Repubblica italiana, desiderose di as-sicurare con opportune precisazioni la migliore applicazione dei Patti latera-nensi e delle convenute modificazioni, e di evitare ogni difficoltà di interpre-tazione, dichiarano di comune intesa:

1. In relazione all’articolo 1Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato

dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano.

2. In relazione all’articolo 4a) Con riferimento al n. 2, si considerano in cura d’anime gli ordinari, i

parroci, i vicari parrocchiali, i rettori di chiese aperte al culto ed i sacerdoti stabilmente addetti ai servizi di assistenza spirituale di cui all’articolo 11.

b) La Repubblica italiana assicura che l’autorità giudiziaria darà comuni-cazione all’autorità ecclesiastica competente per territorio dei procedimenti penali promossi a carico di ecclesiastici.

c) La Santa Sede prende occasione dalla modificazione del Concordato lateranense per dichiararsi d’accordo, senza pregiudizio dell’ordinamento ca-nonico, con l’interpretazione che lo Stato italiano dà dell’articolo 23, secondo comma, del Trattato lateranense, secondo la quale gli effetti civili delle sen-tenze e dei provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche, previsti da tale disposizione, vanno intesi in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani.

3. In relazione all’articolo 7a) La Repubblica italiana assicura che resterà escluso l’obbligo per gli enti

ecclesiastici di procedere alla conversione di beni immobili, salvo accordi pre-si di volta in volta tra le competenti autorità governative ed di volta in volta tra le competenti autorità governative ed ecclesiastiche, qualora ricorrano parti-colari ragioni.

b) la Commissione paritetica, di cui al n. 6, dovrà terminare i suoi lavori entro e non oltre sei mesi dalla firma del presente Accordo.

4. In relazione all’articolo 8a) Ai fini dell’applicazione del n. 1, lettera b), si intendono come impedi-

menti inderogabili della legge civile:1) l’essere uno dei contraenti interdetto per infermità di mente;2) la sussistenza tra gli sposi di altro matrimonio valido agli effetti civili;3) gli impedimenti derivanti da delitto o da affinità in linea retta.b) Con riferimento al n. 2, ai fini dell’applicazione degli articoli 796 e 797

del codice italiano di procedura civile, si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale e regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine.

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523Parte IV – Documenti storici

In particolare:1) si dovrà tener conto che i richiami fatti dalla legge italiana alla legge del

luogo in cui si è svolto il giudizio si intendono fatti al diritto canonico;2) si considera sentenza passata in giudicato la sentenza che sia divenuta

esecutiva secondo il diritto canonico;3) si intende che in ogni caso non si procederà al riesame del merito.c) Le disposizioni del n. 2 si applicano anche ai matrimoni celebrati, prima

dell’entrata in vigore del presente Accordo, in conformità alle norme dell’ar-ticolo 34 del Concordato lateranense e della legge 27 maggio 1929, n. 847, per i quali non sia stato iniziato il procedimento dinanzi all’autorità giudiziaria civile, previsto dalle norme stesse.

5. In relazione all’articolo 9a) l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole indicate al n. 2 è

impartito  –  in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della li-bertà di coscienza degli alunni – da insegnanti che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati, d’intesa con essa, dall’autorità scolastica. Nelle scuole materne ed elementari detto insegnamento può essere impartito dall’insegnante di classe, riconosciuto idoneo dall’autorità ecclesiastica, che sia disposto a svolgerlo.

b) Con successiva intesa tra le competenti autorità scolastiche e la Confe-renza Episcopale Italiana verranno determinati:

1) i programmi dell’insegnamento della religione cattolica per i diversi ordini e gradi delle scuole pubbliche;

2) le modalità di organizzazione di tale insegnamento, anche in relazione alla collocazione nel quadro degli orari delle lezioni;

3) i criteri per la scelta dei libri di testo;4) i profili della qualificazione professionale degli insegnanti.c) Le disposizioni di tale articolo non pregiudicano il regime vigente nelle

regioni di confine nelle quali la materia è disciplinata da norme particolari.

6. In relazione all’articolo 10 La Repubblica italiana, nell’interpretazio-ne del n.  3  –  che non innova l’articolo 38 del Concordato dell’11 febbraio 1929 – si atterrà alla sentenza 195/1972 della Corte Costituzionale relativa al medesimo articolo.

7. In relazione all’articolo 13, n. 1 Le Parti procederanno ad opportune consultazioni per l’attuazione, nel rispettivo ordine, delle disposizioni del pre-sente Accordo. Il presente Protocollo addizionale fa parte integrante dell’Ac-cordo che apporta modificazioni al Concordato lateranense contestualmente firmato tra la Santa Sede e la Repubblica italiana.

Roma, diciotto febbraio millenovecentottantaquattro.

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524 Lo Sguardo Lungo

G

Intesa tra il Governo della Repubblica e la Tavola Valdese, in attuazione dell’articolo 8, comma terzo, della Costituzione

Art. 1 – Legislazione sui culti ammessiLa Repubblica italiana, nel richiamarsi all’articolo 8 della Costituzione, e

la Tavola valdese, nel considerare la legislazione sui culti ammessi del 1929-1930 non rispettosa della uguale libertà riconosciuta dalla Costituzione a tutte le confessioni religiose e pertanto non idonea a regolare i rapporti tra le chiese da essa rappresentate e lo Stato, convengono che la legge di approvazione, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione, della presente intesa sostituisce ad ogni effetto, nei confronti delle chiese rappresentate dalla Tavola valdese, la suindicata legislazione. Le parti pertanto concordano nel precisare che, a partire dalla data di entrata in vigore della legge predetta, le disposizioni della legge 24 giugno 1929, n. 1159 e del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289, ces-sano di avere efficacia ed applicabilità nei confronti delle chiese rappresentate dalla Tavola valdese, degli istituti ed opere che ne fanno parte e degli organi e persone che le costituiscono.

Art. 2 – Libertà in tema di religioneLa Repubblica italiana dà atto dell’autonomia e della indipendenza

dell’ordinamento valdese. La Repubblica italiana, richiamandosi ai diritti di libertà garantiti dalla Costituzione, riconosce che le nomine dei ministri di culto, la organizzazione ecclesiastica e la giurisdizione in materia ecclesiasti-ca, nell’ambito dell’ordinamento valdese, si svolgono senza alcuna ingerenza statale. La Tavola valdese dichiara che essa, gli organi e gli istituti delle chiese che essa rappresenta continueranno a non fare ricorso, per l’esecuzione di provvedimenti da essi presi in materia disciplinare o spirituale, agli organi dello Stato.

Art. 3 – Oneri di cultoLa Repubblica italiana, accogliendo la richiesta della Tavola valdese, prov-

vede a cancellare dallo stato di previsione della spesa dello Stato il capitolo delle spese fisse relativo all’assegno perpetuo per il mantenimento del culto valdese, previsto, a titolo di risarcimento di danni anteriormente subìti, dal re-gio viglietto 29 aprile 1843, ora corrisposto nella misura di lire 7.754,75 annue.

Art. 4 – Tutela penaleLa Tavola valdese, nella convinzione che la fede non necessita di tutela

penale diretta, riafferma il principio che la tutela penale in materia religiosa deve essere attuata solamente attraverso la protezione dell’esercizio dei diritti di libertà riconosciuti e garantiti dalla Costituzione, e non mediante la tutela specifica del sentimento religioso. La Repubblica italiana prende atto di tale

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525Parte IV – Documenti storici

affermazione.

Art. 5 – Assistenza spirituale ai militari in tempo di paceI militari, aventi parte nelle chiese rappresentate dalla Tavola valdese,

hanno diritto di partecipare, nei giorni e nelle ore fissate, alle attività religiose ed ecclesiastiche evangeliche che si svolgono nelle località dove essi risiedo-no per ragioni del loro servizio militare. Ove nelle predette località non sia in atto alcuna attività di culto evangelico, i ministri iscritti nei ruoli tenuti dalla Tavola valdese e competenti per territorio sono autorizzati a svolgere riunioni di culto, per i militari interessati, nei locali predisposti di intesa con il comando da cui detti militari dipendono. In caso di decesso in servizio di militari aventi parte nelle chiese rappresentate dalla Tavola valdese, il coman-do militare competente adotta le misure per assicurare che il funerale segua secondo la liturgia evangelica. I pastori iscritti nei ruoli tenuti dalla Tavola valdese che prestano servizio militare sono posti in condizione di poter svol-gere, unitamente agli obblighi di servizio, anche il loro ministero di assistenza spirituale nei confronti dei militari che lo richiedono. Gli oneri finanziari per lo svolgimento delle suddette forme di assistenza spirituale sono a carico degli organi ecclesiastici competenti.

Art. 6 – Assistenza spirituale negli istituti di cura e di riposoL’assistenza spirituale dei ricoverati aventi parte nelle chiese rappresen-

tate dalla Tavola valdese o di altri ricoverati che ne facciano richiesta, negli istituti ospedalieri, nelle case di cura o di riposo e nei pensionati, è assicurata tramite ministri iscritti nei ruoli tenuti dalla Tavola valdese. L’accesso di tali ministri ai predetti istituti è a tal fine libero e senza limitazioni di orario. Le direzioni di tali istituti sono tenuti a trasmettere ai suddetti ministri di culto le richieste di assistenza spirituale ricevute dai ricoverati. Gli oneri finanziari per lo svolgimento della predetta assistenza spirituale sono a carico degli or-gani ecclesiastici competenti.

Art. 7 – Assistenza spirituale negli ospedali evangeliciGli ospedali evangelici esistenti in Genova, Napoli, Pomaretto, Torino,

Torre Pellice non sono tenuti a disporre il servizio di assistenza religiosa pre-visto dal decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1969, n. 128. Nel rispetto della libertà di coscienza dei ricoverati e delle loro famiglie, l’assisten-za spirituale ai ricoverati di qualsiasi confessione religiosa è assicurata nei det-ti ospedali, senza limiti di orario, a cura della direzione dell’ospedale, tramite gli organi di ciascuna confessione religiosa e ad esclusivo carico dei medesimi.

Art. 8 – Assistenza spirituale negli istituti penitenziariNegli istituti penitenziari è assicurata l’assistenza spirituale tramite mini-

stri di culto designati dalla Tavola valdese. A tal fine la Tavola valdese notifica all’autorità competente i nominativi dei ministri di culto, iscritti nei ruoli te-nuti dalla Tavola valdese e competenti per territorio, responsabili della assi-stenza spirituale negli istituti penitenziari ricadenti nella circoscrizione delle predette autorità statali competenti. Tali ministri responsabili sono compresi tra i soggetti che possono visitare i medesimi istituti senza particolare auto-

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526 Lo Sguardo Lungo

rizzazione. L’assistenza spirituale è svolta nei suddetti istituti a richiesta dei detenuti o delle loro famiglie o ad iniziativa dei ministri di culto. Il diretto-re dell’istituto informa di ogni richiesta proveniente dai detenuti il ministro di culto responsabile, competente per territorio. Gli oneri finanziari per lo svolgimento della suddetta assistenza spirituale sono a carico degli organi ec-clesiastici.

Art. 9 – Istruzione religiosa nelle scuoleLa Tavola valdese, nella convinzione che l’educazione e la formazione reli-

giosa dei fanciulli e della gioventù sono di specifica competenza delle famiglie e delle chiese, non richiede di svolgere nelle scuole gestite dallo Stato o da altri enti pubblici, per quanti hanno parte nelle chiese da essa rappresenta-te, l’insegnamento di catechesi o di dottrina religiosa o pratiche di culto. La Tavola valdese prende atto tuttavia che la Repubblica italiana, nell’assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, materne, ele-mentari, medie e secondarie superiori, riconosce agli alunni di dette scuole, al fine di garantire la libertà di coscienza di tutti, il diritto di non avvalersi delle pratiche e dell’insegnamento religioso per loro dichiarazione, se maggiorenni, o altrimenti per dichiarazione di uno dei loro genitori o tutori. La Tavola valdese prende altresì atto che, per dare reale efficacia all’attuazione di tale diritto, l’ordinamento scolastico provvede a che l’insegnamento religioso ed ogni eventuale pratica religiosa, nelle classi in cui sono presenti alunni che hanno dichiarato di non avvalersene, non abbiano luogo in occasione dell’in-segnamento di altre materie, né secondo orari che abbiano per i detti alunni effetti comunque discriminanti.

Art. 10 – ScuoleLa Repubblica italiana, allo scopo di garantire che la scuola pubblica sia

centro di promozione culturale, sociale e civile aperto all’apporto di tutte le componenti della società, assicura alle chiese rappresentate dalla Tavola val-dese il diritto di rispondere alle eventuali richieste provenienti dagli alunni, dalle loro famiglie o dagli organi scolastici, in ordine allo studio del fatto religioso e delle sue implicazioni. Le modalità sono concordate con gli organi previsti dall’ordinamento scolastico. Gli oneri finanziari sono a carico degli organi ecclesiastici competenti.

Art. 11 – MatrimonioLa Repubblica italiana, attesa la pluralità dei sistemi di celebrazione cui

si ispira il suo ordinamento, riconosce gli effetti civili ai matrimoni celebrati secondo le norme dell’ordinamento valdese, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni alla casa co-munale. Coloro che intendono celebrare il matrimonio secondo le norme dell’ordinamento valdese debbono comunicare tale intenzione all’ufficiale dello stato civile al quale richiedono le pubblicazioni. L’ufficiale dello stato civile, il quale abbia proceduto alle pubblicazioni richieste dai nubendi, ac-certa che nulla si oppone alla celebrazione del matrimonio secondo le vigenti norme di legge e ne dà attestazione in un nulla osta che rilascia ai nubendi

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527Parte IV – Documenti storici

in duplice originale. Il nulla osta, oltre a precisare che la celebrazione nuzia-le seguirà secondo le norme dell’ordinamento valdese e nel comune indicato dai nubendi, deve altresì attestare che ad essi sono stati spiegati, dal predetto ufficiale, i diritti e i doveri dei coniugi, dando ad essi lettura degli articoli del codice civile al riguardo. Il ministro di culto, davanti al quale ha luogo la celebrazione nuziale, allega il nulla osta rilasciato dall’ufficiale dello stato civile all’atto di matrimonio che egli redige in duplice originale subito dopo la celebrazione. La trasmissione di un originale dell’atto di matrimonio per la trascrizione è fatta dal ministro di culto, davanti al quale è avvenuta la cele-brazione, all’ufficiale dello stato civile del comune del luogo non oltre i cinque giorni dalla celebrazione. L’ufficiale dello stato civile, constatata la regolarità dell’atto e l’autenticità del nulla osta allegatovi, effettua la trascrizione entro le ventiquattro ore dal ricevimento dell’atto e ne dà notizia al ministro di culto. Il matrimonio ha effetti civili dal momento della celebrazione anche se l’ufficiale dello stato civile, che ha ricevuto l’atto, abbia omesso di effettuare la trascrizione nel termine prescritto.

Art. 12 – Enti ecclesiasticiFerma restando la personalità giuridica degli enti ecclesiastici valdesi

aventi fini di culto, istruzione e beneficenza e attualmente riconosciuti per antico possesso di stato, quali la Tavola valdese e i quindici Concistori delle chiese delle Valli valdesi, e salvo quanto previsto dal successivo articolo 13, la Repubblica italiana riconosce la personalità giuridica degli enti ecclesiasti-ci aventi congiuntamente i tre suddetti fini, su richiesta della Tavola valdese che allega, quale documentazione sufficiente a dare titolo al riconoscimento, la delibera sinodale motivata con cui l’ente è stato eretto in istituto autono-mo nell’ambito dell’ordinamento valdese. Sulla base della documentazione ad essi fornita, i competenti organi statali verificano la personalità giuridica, al carattere ecclesiastico ed ai tre predetti fini. Le attività di istruzione o di beneficenza svolte dagli enti ecclesiastici sopra menzionati, sono soggette, nel rispetto dell’autonomia e dei fini degli enti che le svolgono, alle leggi dello Sta-to concernenti le stesse attività svolte da enti non ecclesiastici. Gli acquisti di beni immobili, l’accettazione di donazioni ed eredità ed il conseguimento di legati sono soggetti alla autorizzazione prevista dalle leggi civili per gli acqui-sti delle persone giuridiche. La gestione ordinaria e gli atti di straordinaria amministrazione dei predetti enti ecclesiastici si svolgono sotto il controllo e con l’approvazione della Tavola valdese senza ingerenza da parte dello Stato, delle regioni o altri enti territoriali, stante che non ricorrono oneri di manteni-mento a carico dei medesimi. La notifica dell’avvenuta revoca dell’erezione in istituto autonomo, da parte del Sinodo, determina la cessazione con provvedi-mento statale della personalità giuridica dell’ente ecclesiastico e la devoluzio-ne del suo patrimonio all’ente morale indicato nella medesima delibera sino-dale. Il mutamento dei fini dell’ente comporta la revoca del riconoscimento della personalità giuridica dell’ente. Gli enti di cui al presente articolo sono soggetti al regime tributario previsto dalle leggi dello Stato.

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528 Lo Sguardo Lungo

Art. 13 – Enti particolariCon l’entrata in vigore della legge di approvazione, ai sensi dell’articolo 8

della Costituzione, della presente Intesa, l’Istituto artigianelli valdesi con sede in Torino, ente morale come da statuto approvato con regio decreto 9 giugno 1895, è soppresso ed il relativo patrimonio è devoluto alla Tavola valdese che di tale ente riassume il fine. La Fondazione ospedali valdesi di Torre Pellice e Pomaretto, riconosciuta in ente morale con regio decreto 4 luglio 1858, ed il Rifugio Re Carlo Alberto per gli incurabili con sede in Luserna San Giovan-ni, eretto in ente morale con regio decreto 6 settembre 1902, conservando la personalità giuridica, sono trasformati in istituti autonomi nel quadro dell’or-dinamento valdese ai sensi del precedente articolo 12. Tale trasformazione nulla innova quanto ai loro fini, al loro patrimonio ed all’ordinamento del personale dipendente, anche in ordine al trattamento di previdenza e di quie-scenza. Tali istituti sono regolati dagli statuti per essi emanati dal Sinodo val-dese. In esecuzione del Patto di integrazione tra le chiese valdesi e metodiste, approvato dal Sinodo valdese e dalla Conferenza metodista nelle rispettive sessioni dell’agosto 1975, l’ente Chiesa evangelica metodista d’Italia (CEMI), civilmente riconosciuto con decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1961, n. 602, conservando la personalità giuridica e il proprio patrimonio è trasformato in istituto autonomo nel quadro dell’ordinamento valdese ai sensi del precedente articolo 12, assume il nome di Opera per le chiese evangeliche metodiste in Italia (OPCEMI) ed è regolato dallo statuto per esso emanato dal Sinodo valdese.

Art. 14 – Ospedali evangeliciÈ garantita l’autonomia giuridico-amministrativa degli ospedali evange-

lici di cui al precedente articolo 7, secondo i criteri disposti dall’articolo 1, comma quinto, della legge 12 febbraio 1968, n. 132, e successive modifiche e integrazioni.

Art. 15 – Facoltà di teologiaLe lauree e i diplomi in teologia rilasciati dalla Facoltà valdese di teologia

sono riconosciuti dalla Repubblica italiana. Gli studenti della predetta Fa-coltà possono usufruire degli stessi rinvii dal servizio militare accordati agli studenti delle Università statali. La gestione ed il regolamento della Facoltà, nonché la nomina del personale insegnante, spettano agli organi ecclesiastici competenti ed a loro carico rimangono i relativi oneri finanziari.

Art.16 – Affissioni, colletteNel rispetto delle libertà in tema di religione, le affissioni e la distribuzio-

ne di pubblicazioni e stampati relativi alla vita religiosa e alla missione delle chiese rappresentate dalla Tavola valdese, effettuate all’interno ed all’ingresso dei luoghi di culto e degli edifici ecclesiastici utilizzati dalle suddette chiese, nonché le collette ai fini ecclesiastici, avvengono senza autorizzazione né altra ingerenza da parte degli organi dello Stato.

Art. 17 – Patrimonio culturaleLa Repubblica italiana e la Tavola valdese si impegnano a collaborare per

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529Parte IV – Documenti storici

la tutela e la valorizzazione dei beni culturali afferenti al patrimonio storico, morale e materiale delle chiese rappresentate dalla Tavola valdese, istituendo a tale fine apposite commissioni miste. Tali commissioni hanno tra l’altro il compito della compilazione e dell’aggiornamento dell’inventario dei beni cul-turali suddetti.

Art. 18 – Norme di applicazionePer la formulazione delle norme di applicazione della legge di approva-

zione, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione, della presente Intesa, i com-petenti organi dello Stato e la Tavola valdese procederanno d’accordo alla elaborazione dei testi relativi.

Art. 19 – Disposizioni in contrasto con l’IntesaOgni norma contrastante con la presente Intesa cessa di avere efficacia,

nei confronti delle chiese rappresentate dalla Tavola valdese, degli istituti ed opere che ne fanno parte e degli organi e persone che le costituiscono, dalla data di entrata in vigore della legge di approvazione, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione, dell’Intesa stessa.

Art. 20 – Modificazioni e future inteseLe parti sottoporranno a nuovo esame il contenuto della presente Intesa

al termine del decimo anno dall’entrata in vigore della legge di approvazione, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione, dell’Intesa stessa. Ove, nel frattem-po, una delle due parti ravvisasse la opportunità di modifiche al testo della presente Intesa, le parti torneranno a convocarsi a tale fine. Alle modifiche si procederà con la stipulazione di una nuova intesa e con la conseguente presen-tazione al Parlamento di apposito disegno di legge di approvazione, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione. In occasione di disegni di legge relativi a materie che coinvolgono rapporti delle chiese rappresentate dalla Tavola val-dese con lo Stato, verranno promosse previamente, in conformità all’articolo 8 della Costituzione, le intese del caso.

Art. 21 – Norma finaleIl Governo presenterà al Parlamento apposito disegno di legge di appro-

vazione della presente Intesa, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione.Roma, addì 21 febbraio 1984.

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530 Lo Sguardo Lungo

Integrazione dell’intesa tra il Governo della Repubblica Italiana e la Tavola Valdese,

in attuazione dell’articolo 8, comma terzo, della Costituzione

Art. 1 – Integrazione dell’intesa 1984La Repubblica italiana e la Tavola valdese, considerato che dopo la sti-

pulazione dell’intesa 21 febbraio 1984, approvata con legge 11 agosto 1984, n. 449, ed a seguito delle innovazioni introdotte nei rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose, la Camera dei deputati ha approvato il 17 aprile 1985 l’ordine del giorno n. 9/2337/3, inteso a garantire il pluralismo che informa l’ordinamento giuridico italiano, e considerato che per la sua attuazione è ne-cessario procedere a modificazione della predetta intesa con le forme dell’ar-ticolo 20, secondo comma, della legge di approvazione, convengono di inte-grarla con le seguenti disposizioni.

Art. 2 – Deduzione agli effetti dell’IRPEF1. La Repubblica italiana prende atto che le chiese rappresentate dalla Ta-

vola valdese intendono provvedere al mantenimento del culto ed al sostenta-mento dei ministri unicamente a mezzo di offerte volontarie. 2. Ciò premes-so, a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa, le persone fisiche possono dedurre dal proprio reddito complessivo, agli effetti dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, le erogazioni liberali in denaro, fino all’importo di lire 2.000.000, a favore della Tavola valdese per i fini di culto, istruzione e benefi-cienza che le sono propri e per i medesimi fini delle Chiese e degli enti aventi parte nell’ordinamento valdese. 3. Le relative modalità sono determinate con decreto del Ministro delle finanze previo accordo con la Tavola valdese.

Art. 3 – Ripartizione della quota del gettito dell’IRPEF1. A decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigo-

re della legge di approvazione della presente intesa, la Tavola valdese concorre con lo Stato, con i soggetti di cui agli articoli 47 della legge 20 maggio 1985, n. 222, 30 della legge 22 novembre 1988, n. 516, e 23 della legge 22 novembre 1988, n. 517, e con gli enti che stipuleranno analoghi accordi, alla ripartizione della quota pari all’otto per mille dell’IRPEF, liquidata dagli uffici sulla base delle dichiarazioni annuali. La Tavola valdese utilizzerà le somme devolute a tale titolo dai contribuenti esclusivamente per interventi sociali, assistenziali, umanitari e culturali in Italia e all’estero e ciò sia direttamente, attraverso gli enti aventi parte nell’ordinamento valdese, sia attraverso organismi associativi ed ecumenici a livello nazionale e internazionale. 2. L’attribuzione delle som-me di cui al comma 1 viene effettuata sulla base delle scelte espresse dai con-tribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi, nel cui modulo le chiese rappresentate dalla Tavola valdese verranno indicate con la denominazione “Chiesa evangelica valdese (Unione delle Chiese metodiste e valdesi)”. 3. La Tavola non partecipa ad attribuzione della quota relativa ai contribuenti che non si sono espressi in merito. Gli importi relativi rimangono di pertinenza

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531Parte IV – Documenti storici

dello Stato. 4. A decorrere dal terzo anno successivo a quello di cui al prece-dente comma 1 lo Stato corrisponderà annualmente, entro il mese di giugno, alla Tavola valdese la somma risultante dall’applicazione del comma 1, calco-lata dagli uffici finanziari sulla base delle dichiarazioni annuali relative al ter-zo periodo d’imposta precedente, con destinazione alle Chiese rappresentate dalla Tavola valdese. 5. La Tavola valdese, entro il mese di luglio dell’anno successivo a quello di esercizio, trasmette al Ministro dell’interno un rendi-conto relativo alla utilizzazione delle somme ricevute per fini di cui al comma 1 e ne diffonde adeguata informazione. 6. Tale rendiconto dovrà precisare gli interventi effettuati in Italia e all’estero ed i soggetti attraverso i quali tali interventi siano stati eventualmente operati con specificazione delle somme attribuite a ciascun intervento. 7. Il Ministro dell’interno, entro trenta giorni dal ricevimento del rendiconto di cui ai due commi precedenti, ne trasmette copia, con propria relazione, ai Ministri del tesoro e delle finanze.

Art. 4 – Commissione pariteticaSu richiesta di una delle due parti, al fine di predisporre eventuali modifi-

che, si potrà procedere alla revisione dell’importo deducibile di cui all’artico-lo 2 e dell’aliquota IRPEF di cui all’articolo 3, ad opera di una apposita com-missione paritetica nominata dall’autorità governativa e dalla Tavola valdese.

Art. 5 – Norma finaleIl Governo presenterà al Parlamento apposito disegno di legge di appro-

vazione della presente intesa ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione.

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Intesa tra la Repubblica Italiana e la Tavola Valdese modificativa dell’intesa firmata il 25 gennaio 1993

ed approvata con legge 5 ottobre 1993, n. 409

Art. 1 – Modifica dell’intesa del 25 gennaio 19931. La Repubblica italiana e la Tavola Valdese in rappresentanza della Chie-

sa Evangelica Valdese (Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste), considerata l’opportunità di procedere alla modificazione dell’intesa stipulata in data 25 gennaio 1993 ed approvata con legge 5 ottobre 1993, n. 409, convengono ai sensi dell’articolo 20, comma 2, della legge 11 agosto 1984, n. 449 di modifi-carla con le seguenti disposizioni.

Art. 2 – Ripartizione della quota del gettito dell’IRPEF1. Il comma 3 dell’articolo 3 dell’intesa stipulata in data 25 gennaio 1993

è sostituito dal seguente:

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532 Lo Sguardo Lungo

«3. L’attribuzione alla Tavola Valdese delle somme relative ai contribuenti che non abbiano espresso alcuna preferenza verrà effettuata in proporzione alle scelte espresse».

Art. 3 – Entrata in vigore1. Le modifiche apportate all’intesa stipulata il 25 gennaio 1993 decorro-

no dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa.

Art. 4 – Norma finale1. Il Governo presenterà al Parlamento apposito disegno di legge di ap-

provazione della presente intesa ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione.Roma 4 aprile 2007

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533Parte IV – Documenti storici

H

Intesa tra la Repubblica Italiana e l’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane

Roma, 27 febbraio 1987

PREAMBOLOLa Repubblica italiana e l’Unione delle Comunità israelitiche italia-

ne, considerato che la Costituzione riconosce i diritti fondamentali della per-sona umana e le libertà di pensiero, di coscienza e di religione, considerato che la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, la Dichiarazione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di intolleranza e di discriminazione basate sulla religione o sulle credenze del 25 novembre 1981, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, e successive integrazioni e relative ratifiche, la Dichiarazione sui diritti del fan-ciullo del 20 novembre 1959, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 7 marzo 1966 ratificata con legge 13 ottobre 1975, n. 654, e i Patti internazionali relativi ai diritti economici, sociali e culturali e ai diritti civili e politici del 16 dicembre 1966, ratificati con legge 25 ottobre 1977, n. 881, garantiscono i diritti di libertà di coscienza e di religione senza discriminazione, considerato che tali principi universali sono aspirazione perenne dell’ebraismo nella sua plurimillenaria tradizione, con-siderato che in forza dell’articolo 8, secondo e terzo comma, della Costitu-zione le confessioni religiose hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano, e che i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base d’intese con le relative rappresentanze, riconosciuta l’opportunità di addivenire a tale intesa convengono che le disposizioni seguenti costituiscono intesa tra lo Stato e la confessione ebraica ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione.

Art. 1 – Libertà religiosaIn conformità ai principi della Costituzione, è riconosciuto il diritto di

professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma, indi-viduale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubbli-co il culto e i riti. È garantita agli ebrei, alle loro associazioni e organizzazioni, alle Comunità ebraiche e all’Unione delle Comunità ebraiche italiane la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola e lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Gli atti relativi al magistero rabbinico, l’af-fissione e la distribuzione di pubblicazioni e stampati di carattere religioso all’interno e all’ingresso dei luoghi di culto nonché delle sedi delle Comunità e dell’Unione e le raccolte di fondi ivi eseguite sono liberi e non soggetti ad oneri. È assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazioni tra i cittadini e tra i

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culti. Il disposto dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, si intende riferito anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso.

Art. 2 – Ministri di cultoAi ministri di culto nominati dalle Comunità e dall’Unione a norma dello

Statuto dell’ebraismo italiano è assicurato il libero esercizio del magistero. Essi non sono tenuti a dare a magistrati o altre autorità informazioni su perso-ne o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero. I predetti ministri di culto sono esonerati dal servizio militare su loro richiesta vistata dall’Unione, e, in caso di mobilitazione generale, sono dispensati dalla chiamata alle armi quando svolgano le funzioni di Rabbino Capo; gli altri, se chiamati alle armi, esercitano il loro magistero nelle forze armate. Ai fini dell’applicazione del presente articolo e degli articoli 7, 8, 9, 13 e 30 l’Unione rilascia apposita certificazione delle qualifiche dei ministri di culto.

Art. 3 – SabatoLa Repubblica italiana riconosce agli ebrei il diritto di osservare il riposo

sabbatico che va da mezz’ora prima del tramonto del sole del venerdì ad un’ora dopo il tramonto del sabato. Gli ebrei dipendenti dallo Stato, da enti pubblici o da privati o che esercitano attività autonoma o commerciale, i militari e coloro che siano assegnati al servizio civile sostituivo, hanno diritto di fruire, su loro richiesta, del riposo sabbatico come riposo settimanale. Tale diritto è esercitato nel quadro della flessibilità dell’organizzazione del lavoro. In ogni altro caso le ore lavorative non prestate il sabato sono recuperate la domeni-ca o in altri giorni lavorativi senza diritto ad alcun compenso straordinario. Restano comunque salve le imprescindibili esigenze dei servizi essenziali pre-visti dall’ordinamento giuridico. Nel fissare il diario di prove di concorso le autorità competenti terranno conto dell’esigenza del rispetto del riposo sab-batico. Nel fissare il diario degli esami le autorità scolastiche adotteranno in ogni caso opportuni accorgimenti onde consentire ai candidati ebrei che ne facciano richiesta di sostenere in altro giorno prove di esame fissate in giorno di sabato. Si considerano giustificate le assenze degli alunni ebrei dalla scuola nel giorno di sabato su richiesta dei genitori o dell’alunno se maggiorenne.

Art. 4 – Altre festività religioseAlle seguenti festività religiose ebraiche si applicano le disposizioni re-

lative al riposo sabbatico di cui all’articolo 3: Capodanno (Rosh Hashanà), 1 e 2 giorno; Vigilia e digiuno di espiazione (Kippur); Festa delle Capanne (Succoth) 1 2 7 e 8 giorno; Festa della Legge (Simhat Torà); Pasqua (Pesach), vigilia, 1 e 2 giorno, 7 e 8 giorno; Pentecoste (Shavuoth), 1 e 2 giorno; Digiuno del 9 di Av. Entro il 30 giugno di ogni anno il calendario di dette festività cadenti nell’anno solare successivo è comunicato dall’Unione al Ministero dell’interno il quale ne dispone la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Art. 5 – Prescrizioni religioseAgli ebrei che lo richiedano è consentito prestare a capo coperto il giu-

ramento previsto dalle leggi dello Stato. La macellazione eseguita secondo il rito ebraico continua ad essere regolata dal decreto ministeriale 11 giugno

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1980, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 168 del 20 giugno 1980, in confor-mità alla legge e alla tradizione ebraiche.

Art. 6 – Assistenza religiosaL’appartenenza alle forze armate, alla polizia o ad altri servizi assimilati,

la degenza in ospedali, case di cura o di assistenza pubbliche, la permanenza negli istituti di prevenzione e pena non possono dar luogo ad alcun impedi-mento nell’esercizio della libertà religiosa e nell’adempimento delle pratiche di culto. È riconosciuto agli ebrei che si trovano nelle condizioni di cui al primo comma il diritto di osservare, a loro richiesta e con l’assistenza della Comunità competente, le prescrizioni ebraiche in materia alimentare senza oneri per le istituzioni nelle quali essi si trovano.

Art. 7 – Assistenza religiosa ai militariL’assistenza spirituale ai militari ebrei è assicurata dai ministri di culto

designati a tal fine sulla base di intese tra l’Unione e le autorità governative competenti. I militari ebrei hanno diritto di partecipare, nei giorni e nelle ore fissate alle attività di culto che si svolgono nelle località dove essi si trova-no per ragione del loro servizio militare. Qualora non esistano sinagoghe o comunque non si svolgano attività di culto nel luogo ove prestano il servizio, i militari ebrei potranno comunque ottenere, nel rispetto di esigenze partico-lari di servizio, il permesso di frequentare la sinagoga più vicina. In caso di decesso in servizio di militari ebrei, il comando militare avverte la Comunità competente, onde assicurare, d’intesa con i familiari del defunto, che le ese-quie si svolgano secondo il rito ebraico.

Art. 8 – Assistenza religiosa ai ricoveratiL’assistenza spirituale ai ricoverati ebrei negli istituti ospedalieri, nelle

case di cura o di riposo, è assicurata dai ministri di culto di cui all’articolo 2. L’accesso di tali ministri ai predetti istituti è a tal fine libero e senza limita-zione di orario. Le direzioni degli istituti comunicano alle Comunità compe-tenti per territorio le richieste di assistenza spirituale avanzate dai ricoverati.

Art. 9 – Assistenza religiosa ai detenutiNegli istituti penitenziari è assicurata l’assistenza spirituale dai ministri di

culto designati dall’Unione. A tal fine l’Unione trasmette all’autorità compe-tente l’elenco dei ministri di culto responsabili dell’assistenza spirituale negli istituti penitenziari compresi nella circoscrizione delle singole Comunità. Tali ministri sono compresi tra coloro che possono visitare gli istituti penitenziari senza particolare autorizzazione. L’assistenza spirituale è svolta a richiesta dei detenuti o delle loro famiglie o per iniziativa dei ministri di culto in locali idonei messi a disposizione dell’istituto penitenziario. Il direttore dell’istituto informa di ogni richiesta avanzata dai detenuti la Comunità competente per territorio.

Art. 10 – Istruzione religiosa nelle scuoleNelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado l’insegnamento è impartito

nel rispetto della libertà di coscienza e di religione e della pari dignità dei cit-

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tadini senza distinzione di religione, come pure è esclusa ogni ingerenza sulla educazione e formazione religiosa degli alunni ebrei. La Repubblica italiana, nel garantire la libertà di coscienza di tutti, riconosce agli alunni delle scuole pubbliche non universitarie il diritto di non avvalersi di insegnamenti religio-si. Tale diritto è esercitato dagli alunni, o da coloro cui compete la potestà su di essi ai sensi delle leggi dello Stato. Per dare reale efficacia all’attuazione di tale diritto, l’ordinamento scolastico provvede a che l’insegnamento religioso non abbia luogo secondo orari e modalità che abbiano per gli alunni effetti comunque discriminanti e che non siano previste forme di insegnamento reli-gioso diffuso nello svolgimento dei programmi di altre discipline. In ogni caso non possono essere richieste agli alunni pratiche religiose o atti di culto. La Repubblica italiana, nel garantire il carattere pluralista della scuola, assicura agli incaricati designati dall’Unione o dalle Comunità il diritto di rispondere ad eventuali richieste provenienti dagli alunni, dalle loro famiglie o dagli or-gani scolastici, in ordine allo studio dell’ebraismo. Tali attività si inseriscono nell’ambito delle attività culturali previste dall’ordinamento scolastico. Gli oneri finanziari sono comunque a carico dell’Unione o delle Comunità.

Art. 11 – Scuole ebraicheAlle Comunità, alle associazioni e agli enti ebraici, in conformità al prin-

cipio della libertà della scuola e dell’insegnamento e nei termini previsti dalla Costituzione, è riconosciuto il diritto di istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione. A tali scuole che ottengano la parità è assicurata piena libertà ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipol-lente a quello degli alunni delle scuole dello Stato e degli altri enti territoriali, anche per quanto concerne l’esame di Stato. Alle scuole elementari delle Co-munità resta garantito il trattamento di cui esse attualmente godono ai sensi dell’articolo 24 del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289.

Art. 12 – Istituti rabbiniciSono riconosciuti la laurea rabbinica e il diploma di cultura ebraica rila-

sciati al termine di corsi almeno triennali dal Collegio Rabbinico Italiano di Roma, dalla Scuola Rabbinica Margulies-Disegni di Torino e dalle altre scuo-le rabbiniche approvate dall’Unione, a studenti in possesso del titolo di studio di scuola secondaria superiore. I regolamenti vigenti e le eventuali modifi-cazioni sono comunicati al Ministero della pubblica istruzione. Gli studenti dei suddetti istituti possono usufruire degli stessi rinvii dal servizio militare accordati agli studenti delle università e delle scuole universitarie per i corsi di pari durata.

Art. 13 – MatrimonioSono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni celebrati in Italia secondo

il rito ebraico davanti ad uno dei ministri di culto di cui al precedente arti-colo 2, che abbia la cittadinanza italiana, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comu-nale. Coloro che intendono celebrare il matrimonio ai sensi del precedente comma devono comunicare tale intenzione all’ufficiale di stato civile al quale

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537Parte IV – Documenti storici

richiedono le pubblicazioni. L’ufficiale dello stato civile il quale abbia pro-ceduto alle pubblicazioni accerta che nulla si oppone alla celebrazione del matrimonio secondo le vigenti norme di legge e ne dà attestazione in un nulla osta che rilascia in duplice originale ai nubendi. Subito dopo la celebrazione il ministro di culto spiega ai coniugi gli effetti civili del matrimonio dando lettura degli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi. I coniugi potranno altresì rendere le dichiarazioni che la legge consente siano rese nell’atto di matrimonio. Il ministro di culto davanti al quale ha luogo la celebrazione nuziale allega il nulla osta, rilasciato dall’ufficiale di stato civile, all’atto di matrimonio che egli redige in duplice originale subito dopo la ce-lebrazione. Dall’atto di matrimonio oltre le indicazioni richieste dalla legge civile devono risultare: il nome ed il cognome del ministro di culto dinnan-zi al quale è stato celebrato il matrimonio; la menzione dell’avvenuta lettura degli articoli di codice civile riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi; le dichiarazioni di cui al quarto comma eventualmente rese dai coniugi. Entro cinque giorni da quello della celebrazione, il ministro di culto trasmette per la trascrizione un originale dell’atto di matrimonio insieme al nulla osta all’uf-ficiale di stato civile del comune dove è avvenuta la celebrazione. L’ufficiale dello stato civile, constatata la regolarità dell’atto e l’autenticità del nulla osta allegato, effettua la trascrizione nei registri dello stato civile entro le 24 ore successive al ricevimento, e ne dà notizia al ministro di culto. Il matrimonio ha effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l’ufficiale dello stato civile che ha ricevuto l’atto abbia omesso di effettuarne la trascrizione nel termine prescritto. Resta ferma la facoltà di celebrare e sciogliere matrimoni religiosi, senza alcun effetto o rilevanza civile, secondo la legge e la tradizione ebraiche.

Art. 14 – Edifici di cultoGli edifici destinati all’esercizio pubblico del culto ebraico, anche se ap-

partengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione nep-pure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata con il consenso della Comunità competente o dell’Unione. Tali edifici non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ra-gioni e previo accordo con l’Unione. Salvi i casi di urgente necessità, la forza pubblica non può entrare per l’esercizio delle sue funzioni in tali edifici, senza previo avviso e presi accordi con la Comunità competente.

Art. 15 – CimiteriI piani regolatori cimiteriali prevedono su richiesta della Comunità com-

petente per territorio reparti speciali per la sepoltura di defunti ebrei. Alla Comunità che faccia domanda di aver un reparto proprio è data dal sinda-co in concessione un’area adeguata nel cimitero. Le sepolture nei cimiteri delle Comunità e nei reparti ebraici dei cimiteri comunali sono perpetue in conformità della legge e della tradizione ebraiche. A tal fine, fermi restando gli oneri di legge a carico degli interessati, o in mancanza, della Comunità o dell’Unione, le concessioni di cui all’articolo 91 del decreto del Presidente della Repubblica 21 ottobre 1975, n. 803, sono rinnovate alla scadenza di ogni

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538 Lo Sguardo Lungo

99 anni. L’inumazione nei reparti di cui al secondo comma ha luogo secondo il regolamento emanato dalla Comunità competente. Nei cimiteri ebraici è assicurata l’osservanza delle prestazioni rituali ebraiche.

Art. 16 – Beni culturali e ambientaliLo Stato, l’Unione e le Comunità collaborano per la tutela e la valorizza-

zione dei beni afferenti al patrimonio storico e artistico, culturale, ambien-tale e architettonico, archeologico, archivistico e librario dell’ebraismo ita-liano. Entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa sarà costituita una Commissione mista per le finalità di cui al precedente comma e con lo scopo di agevolare la raccolta, il riordinamento e il godimento dei beni culturali ebraici. La Commissione determina le modalità di partecipazione dell’Unione alla conservazione e alla gestione delle cata-combe ebraiche e le condizioni per il rispetto in esse delle prescrizioni rituali ebraiche. Alla medesima Commissione è data notizia del reperimento di beni di cui al primo comma.

Art. 17 – Comunità ebraicheLe Comunità ebraiche, in quanto istituzioni tradizionali dell’ebraismo

in Italia, sono formazioni sociali originarie che provvedono, ai sensi dello Statuto dell’ebraismo italiano, al soddisfacimento delle esigenze religiose de-gli ebrei, secondo la legge e la tradizione ebraiche. La Repubblica italiana prende atto che le Comunità curano l’esercizio del culto, l’istruzione e l’edu-cazione religiosa, promuovono la cultura ebraica, provvedono a tutelare gli interessi collettivi degli ebrei in sede locale, contribuiscono secondo la legge e la tradizione ebraiche all’assistenza degli appartenenti delle Comunità stes-se. Le Comunità israelitiche di Ancona, Bologna, Casale Monferrato, Ferrara, Firenze, Genova, Livorno, Mantova, Merano, Milano, Modena, Napoli, Pado-va, Parma, Pisa, Roma, Torino, Trieste, Venezia, Vercelli e Verona conservano la personalità giuridica e l’assetto territoriale di cui sono attualmente dotate e assumono la denominazione di Comunità ebraiche. La costituzione di nuo-ve Comunità, nonché la modifica delle rispettive circoscrizioni territoriali, la unificazione o la estinzione di quelle esistenti, sono riconosciute con decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato, su do-manda congiunta della Comunità e dell’Unione.

Art. 18 – Unione delle ComunitàL’Unione delle Comunità israelitiche italiane conserva la personalità giu-

ridica di cui è attualmente dotata e assume la denominazione di Unione delle Comunità ebraiche italiane. L’Unione è l’ente rappresentativo della confes-sione ebraica nei rapporti con lo Stato e per le materie di interesse generale dell’ebraismo. L’Unione cura e tutela gli interessi religiosi degli ebrei in Italia; promuove la conservazione delle tradizioni e dei beni culturali ebraici; coor-dina ed integra l’attività delle Comunità: mantiene i contatti con le collettività e gli enti ebraici degli altri paesi.

Art. 19 – Deposito dello StatutoLo Statuto dell’ebraismo italiano è depositato dall’Unione presso il Mi-

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539Parte IV – Documenti storici

nistero dell’interno subito dopo la sua adozione da parte dell’Unione mede-sima. Le successive modifiche sono depositate a cura dell’Unione presso il Ministero dell’interno entro trenta giorni dalla loro adozione. Presso il Mini-stero dell’interno sono altresì depositati gli statuti degli altri enti ebraici civil-mente riconosciuti e le loro eventuali modifiche. Il Ministero rilascia copia di tali atti attestandone la conformità al testo depositato.

Art. 20 – Enti ebraici civilmente riconosciutiAltre istituzioni ed enti ebraici aventi sede in Italia possono essere rico-

nosciuti come persone giuridiche agli effetti civili, in quanto abbiano fini di religione o di culto ai sensi dell’articolo 25, secondo comma, lettera a), e siano approvati dalla Comunità competente per territorio e dall’Unione. Il loro riconoscimento ha luogo con decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato. Conservano la personalità giuridica i seguenti enti aventi finalità di culto che svolgono altresì attività diverse da quelle di cui all’articolo 25, secondo comma, lettera a): Asili infantili israeliti-ci – Roma; Ospedale israelitico – Roma; Casa di riposo per israeliti poveri ed invalidi – Roma; Orfanotrofio israelitico italiano “G. e V. Pitigliani” – Roma; Deputazione ebraica di assistenza e servizio sociale – Roma; Ospizio israe-litico e ospedale “Settimio Saadun” – Firenze; Società israelitica di miseri-cordia – Siena. Le istituzioni ed enti ebraici che acquistano o conservano la personalità giuridica ai sensi della legge di approvazione della presente intesa assumono la qualifica di enti ebraici civilmente riconosciuti.

Art. 21 – Mutamento degli enti ebraiciOgni mutamento sostanziale nel fine, nella destinazione dei beni e nel

modo di esistenza degli enti ebraici civilmente riconosciuti acquista efficacia civile mediante riconoscimento con decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato. In caso di mutamento che faccia per-dere all’ente uno dei requisiti prescritti per il suo riconoscimento può essere revocato il riconoscimento stesso con decreto del Presidente della Repub-blica, sentita l’Unione e udito il parere del Consiglio di Stato. La estinzione degli enti ebraici civilmente riconosciuti ha efficacia civile mediante l’iscri-zione nel registro delle persone giuridiche del provvedimento dell’organo statutariamente competente che sopprime l’ente o ne dichiara l’avvenuta estinzione. L’Unione o la Comunità interessata trasmette il provvedimento al Ministro dell’interno che, con proprio decreto, dispone l’iscrizione di cui al terzo comma e provvede alla devoluzione dei beni dell’ente soppresso o estinto. Tale devoluzione avviene secondo quanto prevede il provvedimento dell’organo statutariamente competente, salvi in ogni caso la volontà dei di-sponenti, i diritti dei terzi e le disposizioni statutarie, e osservate, in caso di trasferimento ad altro ente, le leggi civili relative agli acquisti da parte delle persone giuridiche.

Art. 22 – Estinzione di enti ebraiciCon l’entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa

sono soppressi i seguenti enti: Pio istituto Trabotti – Mantova; Opere pie isra-

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elitiche – Torino; Compagnia della misericordia israelitica – Vercelli; Asilo infantile “Levi” – Vercelli; Opera pia “Foa” – Vercelli; Pia opera di miseri-cordia israelitica – Verona; Opera pia Moisè Vita Jacur – Verona; Opera pia Carolina Calabi – Verona; Pia scuola israelitica di lavori femminili – Verona; Opera pia beneficenza israelitica – Livorno; Opera pia Moar Abetulot – Li-vorno; Opera del tempio israelitico – Bologna; Opere pie israelitiche unifi-cate – Alessandria; Istituto Infantile ed elementare israelitico “Clava” – Asti; Congregazione israelitica di carità e beneficenza – Asti; Opera di beneficenza israelitica – Casale Monferrato (Alessandria); Ospizio marino israelitico ita-liano “Lazzaro Levi” – Ferrara; Ospizio marino israelitico – Firenze; Opere pie israelitiche – Padova; Fondazione Lelio professor Della Torre – Padova; Istituto per l’assistenza agli israeliti poveri – Merano. La soppressione di altri enti ebraici civilmente riconosciuti può essere disposta mediante delibera dei rispettivi organi amministrativi da adottarsi entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa. Il patrimonio degli enti soppressi a termini del primo e secondo comma è trasferito alle Comunità di appartenenza. I trasferimenti e tutti gli atti ed adempimenti necessari a norma di legge sono esenti da ogni tributo ed onere se effettuati entro il termi-ne di diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa.

Art. 23 – Registro delle persone giuridicheL’Unione delle Comunità, le Comunità e gli altri enti ebraici civilmen-

te riconosciuti devono iscriversi, agli effetti civili, nel registro delle persone giuridiche entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge di appro-vazione della presente intesa. A tal fine l’Unione e le Comunità depositano lo Statuto dell’ebraismo italiano indicando le rispettive sedi, il cognome e nome degli amministratori con la menzione di quelli ai quali è attribuita la rappre-sentanza. Per gli altri enti ebraici civilmente riconosciuti, nel registro delle persone giuridiche devono comunque risultare, con le indicazioni prescritte dagli articoli 33 e 34 del codice civile, le norme di funzionamento e i poteri degli organi di rappresentanza di ciascun ente. All’Unione, alle Comunità, e agli altri enti ebraici civilmente riconosciuti non può essere fatto, ai fini della registrazione, un trattamento diverso da quello previsto per le persone giuridiche private. Decorso il termine di cui al primo comma, l’Unione, le Comunità e gli altri enti ebraici civilmente riconosciuti possono concludere negozi giuridici solo previa iscrizione nel registro delle persone giuridiche.

Art. 24 – Attività degli enti ebraiciL’attività di religione e di culto dell’Unione, delle Comunità e degli altri

enti ebraici civilmente riconosciuti si svolge a norma dello Statuto dell’ebrai-smo italiano e degli statuti dei predetti enti senza ingerenze da parte dello Stato, delle regioni e degli altri enti territoriali. La gestione ordinaria e gli atti di straordinaria amministrazione dell’Unione, delle Comunità e degli altri enti ebraici civilmente riconosciuti si svolgono sotto il controllo degli organi competenti a norma dello Statuto, senza ingerenze da parte dello Stato, delle regioni e degli altri enti territoriali. Per l’acquisto di beni immobili, per l’ac-

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541Parte IV – Documenti storici

cettazione di donazioni ed eredità e per il conseguimento di legati da parte degli enti predetti si applicano le disposizioni delle leggi civili relative alle persone giuridiche.

Art. 25 – Attività di religione e di culto e attività diverseLa Repubblica italiana prende atto che secondo la tradizione ebraica le

esigenze religiose comprendono quelle di culto, assistenziali e culturali. Agli effetti delle leggi civili si considerano peraltro: a) attività di religione o di culto, quelle dirette all’espletamento del magistero rabbinico, all’esercizio del culto, alla prestazione di servizi rituali, alla formazione dei rabbini, allo studio dell’ebraismo e all’educazione ebraica; b) attività diverse da quelle di religione o di culto, quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura, e, comunque, le attività commerciali o a scopo di lucro.

Art. 26 – Regime tributarioAgli effetti tributari l’Unione, le Comunità e gli enti ebraici civilmente ri-

conosciuti aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fini di beneficienza o di istruzione. Tali enti hanno il diritto di svolgere liberamente attività diverse da quelle di reli-gione o di culto che restano, però, soggette alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime.

Art. 27 – Costruzione di edifici di cultoGli impegni finanziari per la costruzione di edifici di culto e delle relative

pertinenze destinate ad attività connesse sono determinati dalle autorità civili competenti secondo le disposizioni delle leggi 22 ottobre 1971, n. 865, e 28 gennaio 1977, n. 10, e successive modificazioni. Gli edifici di culto e le pre-dette pertinenze, costruiti con contributi regionali e comunali, non possono essere sottratti alla loro destinazione, neppure per effetto di alienazione, se non sono decorsi almeno venti anni dalla erogazione del contributo. Il vincolo è trascritto nei registri immobiliari. Tale vincolo può essere estinto prima del compimento del termine, d’intesa tra la Comunità competente e l’autorità ci-vile erogante, previa restituzione delle somme percepite a titolo di contributo, in proporzione alla riduzione del termine, e con rivalutazione determinata in misura pari alla variazione, accertata dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al con-sumo per le famiglie di operai e impiegati. Gli atti e i negozi che comportino violazione del vincolo sono nulli.

Art. 28 – Istituzioni ebraiche di assistenzaL’assistenza da parte delle istituzioni ebraiche che svolgono attività assi-

stenziale e sanitaria non pregiudica per gli ebrei ivi assistiti il godimento dei diritti riconosciuti dalle leggi civili nella specifica materia. Non può comun-que essere fatto alle predette istituzioni ebraiche un trattamento diverso da quello che le leggi civili prevedono per altre istituzioni private che erogano servizi assistenziali e sanitari. Nelle istituzioni ebraiche che svolgono attività assistenziale e sanitaria è garantito il diritto di libertà religiosa ad ogni utente. Gli assistiti e ricoverati di altro credo religioso che ne facciano richiesta han-no diritto all’assistenza religiosa senza limiti di orario, da parte del ministro

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542 Lo Sguardo Lungo

del culto di appartenenza. In ogni caso gli ospedali ebraici non sono tenuti a disporre il servizio di assistenza religiosa previsto dall’articolo 35 del decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1969, n. 128.

Art. 29 – Deducibilità dei contributiLa Repubblica italiana prende atto che le entrate delle Comunità ebraiche

di cui all’articolo 17 sono costituite anche dai contributi annuali dovuti, a nor-ma dello Statuto, dagli appartenenti alle medesime. A decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore della legge di approvazione della intesa integrativa dell’intesa del 27 febbraio 1987, le persone fisiche pos-sono dedurre dal reddito complessivo, agli effetti della imposta sul reddito delle persone fisiche, i predetti contributi annuali versati alle Comunità stesse, relativi al periodo di imposta nel quale sono stati versati, nonché le erogazioni liberali in denaro relative allo stesso periodo, eseguite in favore della Unio-ne delle Comunità ebraiche italiane ovvero delle Comunità di cui all’articolo 18 della legge 8 marzo 1989, n. 101, fino all’importo complessivo di lire due milioni. Le modalità relative sono stabilite con decreto del Ministro delle finanze. Su richiesta di una delle parti, al fine di predisporre eventuali modi-fiche, si potrà procedere alla revisione dell’importo deducibile e dell’aliquota IRPEF ad opera di una apposita commissione paritetica, nominata dalla auto-rità governativa e dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane.

Art. 30 – Dipendenti dell’Unione e delle ComunitàNulla è innovato quanto al regime giuridico e previdenziale dei rapporti

di lavoro dei dipendenti dell’Unione e delle Comunità in atto al momento dell’entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa. I mi-nistri di culto di cui all’articolo 2 possono essere iscritti al Fondo speciale di previdenza e assistenza per i ministri di culto.

Art. 31 – Norme di attuazioneLe autorità competenti, nell’emanare norme di attuazione della legge di

approvazione della presente intesa, terranno conto delle esigenze fatte loro presenti dall’Unione e avvieranno, se richieste, opportune consultazioni.

Art. 32 – Ulteriori inteseLe parti sottoporranno a nuovo esame il contenuto della presente intesa

al termine del decimo anno dalla data dell’entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa stessa. Ove, nel frattempo, una delle parti ravvisasse la opportunità di modifiche al testo della presente intesa, le parti torneran-no a convocarsi a tal fine. Alle modifiche si procederà con la stipulazione di ulteriori intese e con la conseguente presentazione al Parlamento di appositi disegni di legge di approvazione, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione. In occasione della presentazione di disegni di legge relativi a materie che coin-volgono rapporti della confessione ebraica con lo Stato, verranno promosse previamente, in conformità dell’articolo 8 della Costituzione, le intese del caso tra il Governo e l’Unione.

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543Parte IV – Documenti storici

Art. 33 – Entrata in vigoreCon l’entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa,

sono abrogati il regio decreto 30 ottobre 1930, n. 1731, e il regio decreto 19 novembre 1931, n. 1561, sulle Comunità israelitiche e sull’Unione ed ogni altra norma contrastante con la legge stessa. Cessano altresì di avere efficacia nei confronti dell’Unione, delle Comunità nonché degli enti, istituzioni, persone appartenenti all’ebraismo in Italia le disposizioni della legge 24 giugno 1929, n. 1159, e del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289, sui culti ammessi nello Stato. In deroga a quanto previsto dal primo comma restano soggette alle disposizioni dei regi decreti ivi menzionati la formazione e l’approvazione dei bilanci preventivi delle Comunità e dell’Unione deliberati nell’anno dell’en-trata in vigore della legge di approvazione della presente intesa e la riscossione dei relativi contributi. Le disposizioni di cui all’articolo 29 si applicano a par-tire dal primo periodo d’imposta successivo a quello della legge di approva-zione della presente intesa.

Art. 34 – Legge di approvazione dell’intesaIn conformità e in ottemperanza al disposto dell’articolo 8, secondo

comma, della Costituzione, il Congresso straordinario dell’Unione approva il nuovo Statuto dell’ebraismo italiano. Successivamente al deposito di detto Statuto ai sensi dell’articolo 19 della presente intesa il Governo presenterà al Parlamento apposito disegno di legge di approvazione della medesima, alla quale sarà allegato il testo dell’intesa.

Roma, 27 febbraio 1987.

* * *

Intesa tra la Repubblica Italiana e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

integrativa dell’intesa firmata il 27 febbraio 1987 ed approvata con legge 8 marzo 1989, n. 101

Articolo 1 – 1. La Repubblica italiana e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane, considerata l’opportunità di procedere alla integrazione e modifica-zione dell’intesa stipulata il 27 febbraio 1987 ed approvata con legge 8 marzo 1989, n. 101, convengono, ai sensi dell’articolo 33, comma 2, della stessa legge, di modificarla con le seguenti disposizioni.

Articolo 2 – 1. A decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore della legge di approvazione della presente intesa integrativa, l’Unione delle Comunità ebraiche italiane concorre con lo Stato, con i soggetti

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544 Lo Sguardo Lungo

di cui agli articoli 47 della legge 20 maggio 1985, n. 222, 30 della legge 22 novembre 1988, n. 516, 23 della legge 22 novembre 1988, n. 517, 4 della legge 5 ottobre 1993, n. 409, e 27 della legge 29 novembre 1995, n. 520, e con gli enti che stipulano analoghi accordi, alla ripartizione della quota pari all’8 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche liquidata dagli uffici sulla base delle dichiarazioni annuali. L’Unione delle Comunità ebraiche italiane destinerà le somme devolute a tale titolo dallo Stato alle finalità istituzionali dell’ente indicate dall’articolo 19 della legge 8 marzo 1989, n. 101, con parti-colare riguardo alle attività culturali, alla salvaguardia del patrimonio storico, artistico e culturale, nonché ad interventi sociali ed umanitari volti in special modo alla tutela delle minoranze contro il razzismo e l’antisemitismo. 2. La partecipazione alla ripartizione di cui al comma 1 viene stabilita sulla base delle scelte espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei red-diti. In caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la partecipazione stessa si stabilisce in proporzione alle scelte espresse. 3. A decorrere dal terzo anno successivo a quello di cui al comma 1, lo Stato corrisponderà annual-mente alla Unione delle Comunità ebraiche italiane, entro il mese di giugno, le somme di cui ai commi 1 e 2 calcolate dagli uffici finanziari sulla base delle dichiarazioni annuali relative al terzo periodo di imposta precedente con de-stinazione all’Unione medesima.

Articolo 3 – 1. L’Unione delle Comunità ebraiche italiane trasmette an-nualmente al Ministero dell’interno un rendiconto relativo alla effettiva uti-lizzazione delle somme di cui all’articolo 2 e ne diffonde adeguata informa-zione.

Articolo 4 – 1. Il secondo comma dell’articolo 29 dell’intesa stipulata il 27 febbraio 1987 è sostituito dal seguente: “A decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore della legge di approvazione della intesa integrativa dell’intesa del 27 febbraio 1987, le persone fisiche possono dedurre dal reddito complessivo, agli effetti della imposta sul reddito delle persone fisiche, i predetti contributi annuali versati alle Comunità stesse, relativi al periodo di imposta nel quale sono stati versati, nonchè le erogazioni liberali in denaro relative allo stesso periodo, eseguite in favore della Unione delle Comunità ebraiche italiane ovvero delle Comunità di cui all’articolo 18 della legge 8 marzo 1989, n. 101, fino all’importo complessivo di lire due milioni”.

2. Il quarto comma dell’articolo 29 dell’intesa stipulata il 27 febbraio 1987 è sostituito dal seguente: “Su richiesta di una delle parti, al fine di predisporre eventuali modifiche, si potrà procedere alla revisione dell’importo deducibile e dell’aliquota IRPEF ad opera di una apposita commissione paritetica, nomi-nata dalla autorità governativa e dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane”.

Articolo 5 – 1. In conformità all’articolo 33, comma 2, della legge 8 marzo 1989, n. 101, il Governo presenterà al Parlamento apposito disegno di legge di approvazione della presente intesa, al quale sarà allegato il testo della me-desima.

Roma, 6 novembre 1996

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545Parte IV – Documenti storici

I

Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione Decreto Ministero dell’Interno 23 aprile 2007

L’Italia, comunità di persone e di valori. L’Italia è uno dei Paesi più antichi d’Europa che affonda le radici nella

cultura classica della Grecia e di Roma. Essa si è evoluta nell’orizzonte del cri-stianesimo che ha permeato la sua storia e, insieme con l’ebraismo, ha prepa-rato l’apertura verso la modernità e i principi di libertà e di giustizia. I valori su cui si fonda la società italiana sono frutto dell’impegno di generazioni di uomini e di donne di diversi orientamenti, laici e religiosi, e sono scritti nella Costituzione democratica del 1947. La Costituzione rappresenta lo spartiac-que nei confronti del totalitarismo, e dell’antisemitismo che ha avvelenato l’Europa del XX secolo e perseguitato il popolo ebraico e la sua cultura. La Costituzione è fondata sul rispetto della dignità umana ed è ispirata ai princi-pi di libertà ed eguaglianza validi per chiunque si trovi a vivere sul territorio italiano. Partendo dalla Costituzione l’Italia ha partecipato alla costruzione dell’Europa unita e delle sue istituzioni. I Trattati e le Convenzioni europee contribuiscono a realizzare un ordine internazionale basato sui diritti umani e sulla eguaglianza e solidarietà tra i popoli. La posizione geografica dell’Ita-lia, la tradizione ebraico-cristiana, le istituzioni libere e democratiche che la governano, sono alla base del suo atteggiamento di accoglienza verso altre popolazioni. Immersa nel Mediterraneo, l’Italia è stata sempre crocevia di popoli e culture diverse, e la sua popolazione presenta ancora oggi i segni di questa diversità. Tutto ciò che costituisce il patrimonio dell’Italia, le sue bel-lezze artistiche e naturali, le risorse economiche e culturali, le sue istituzioni democratiche sono al servizio degli uomini, delle donne, dei giovani, e delle future generazioni. La nostra Carta costituzionale tutela e promuove i diritti umani inalienabili, per sostenere i più deboli, per garantire lo sviluppo delle capacità e attitudini di lavoro, morali, spirituali, di ogni persona.

Dignità della persona, diritti e doveri.1. L’Italia è impegnata perché ogni persona sin dal primo momento in

cui si trova sul territorio italiano possa fruire dei diritti fondamentali, senza distinzione di sesso, etnia, religione, condizioni sociali. Al tempo stesso, ogni persona che vive in Italia deve rispettare i valori su cui poggia la società, i diritti degli altri, i doveri di solidarietà richiesti dalle leggi. Alle condizioni previste dalla legge, l’Italia offre asilo e protezione a quanti, nei propri paesi, sono perseguitati o impediti nell’esercizio delle libertà fondamentali. 2. Nel prevedere parità di diritti e di doveri per tutti, la legge offre il suo sostegno a chi subisce discriminazioni, o vive in stato di bisogno, in particolare alle donne e ai minori, rimovendo gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo

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546 Lo Sguardo Lungo

della persona. 3. I diritti di libertà, e i diritti sociali, che il nostro ordinamen-to ha maturato nel tempo devono estendersi a tutti gli immigrati. È garantito il diritto alla vita dal suo inizio fino al compimento naturale, e il diritto alla salute con le cure gratuite quando siano necessarie; una protezione speciale è assicurata alla maternità e all’infanzia. Il diritto all’istruzione è riconosciuto quale strumento indispensabile per la crescita personale e l’inserimento nella società. 4. L’uomo e la donna hanno pari dignità e fruiscono degli stessi diritti dentro e fuori la famiglia. Alle donne, agli uomini, ai giovani immigrati l’Italia offre un cammino di integrazione rispettoso delle identità di ciascuno, e che porti coloro che scelgono di stabilirsi nel nostro Paese a partecipare attiva-mente alla vita sociale. 5. L’immigrato può, alle condizioni previste dalla leg-ge, diventare cittadino italiano. Per ottenere la cittadinanza nei tempi previsti dalla legge occorre conoscere la lingua italiana e gli elementi essenziali della storia e della cultura nazionali, e condividere i principi che regolano la nostra società. Vivere sulla stessa terra vuol dire poter essere pienamente cittadini insieme e far propri con lealtà e coerenza valori e responsabilità comuni.

Diritti sociali. Lavoro e salute. 6. L’Italia tutela e promuove il lavoro in tutte le sue espressioni, condanna

e combatte ogni forma di sfruttamento umano, in modo particolare quello delle donne e dei bambini. Il lavoro favorisce lo sviluppo della persona e la re-alizzazione delle sue attitudini e capacità naturali. 7. L’immigrato, come ogni cittadino italiano, ha diritto ad un compenso adeguato per il lavoro svolto, al versamento dei contributi per la sanità e la previdenza, a vedersi garanti-to il sostentamento nei casi di malattia e infortunio, e nell’età avanzata, alle condizioni previste dalla legge. Ogni lavoro deve svolgersi in condizioni di sicurezza per la salute e l’integrità della persona. 8. Chiunque sia oggetto di molestie, discriminazioni, o sfruttamento, sul luogo di lavoro può rivolgersi alle autorità pubbliche, alle organizzazioni sindacali, sociali e di assistenza, per vedere rispettati i propri diritti e poter adempiere alle proprie mansioni nel rispetto della dignità umana. 9. Cittadini e immigrati hanno diritto ad es-sere curati nelle strutture pubbliche. I trattamenti sanitari sono effettuati nel rispetto della volontà della persona, della sua dignità, e tenendo conto della sensibilità di ciascuno. È punita ogni mutilazione del corpo, non dovuta a esi-genze mediche, da chiunque provocata. 10. L’Italia è impegnata perché tutti possano fruire di una abitazione adeguata ai bisogni della propria famiglia e a costi ragionevoli. Chi si trovi in stato di bisogno, o sia costretto a subire costi eccessivi per la propria abitazione, può rivolgersi alle autorità pubbliche o alle associazioni sindacali per ricevere assistenza e ottenere il rispetto dei propri diritti.

Diritti sociali. Scuola, istruzione, informazione. 11. I bambini e i ragazzi hanno il diritto e il dovere di frequentare la scuola

dell’obbligo, per inserirsi a parità di diritti nella società e divenirne soggetti attivi. È dovere di ogni genitore, italiano o straniero, sostenere i figli negli stu-di, in primo luogo iscrivendoli alla scuola dell’obbligo, che inizia con la scuola primaria fino ai 16 anni. 12. L’insegnamento è diretto alla formazione del-

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547Parte IV – Documenti storici

la persona e promuove la conoscenza dei diritti fondamentali e l’educazione alla legalità, le relazioni amichevoli tra gli uomini, il rispetto e la benevolenza verso ogni forma di vita esistente. Anche per favorire la condivisione degli stessi valori, la scuola prevede programmi per la conoscenza della storia, della cultura, e dei principi delle tradizioni italiana ed europea. Per un insegna-mento adeguato al pluralismo della società è altresì essenziale, in una prospet-tiva interculturale, promuovere la conoscenza della cultura e della religione di appartenenza dei ragazzi e delle loro famiglie. 13. La scuola promuove la conoscenza e l’integrazione tra tutti i ragazzi, il superamento dei pregiudizi, e la crescita comune dei giovani evitando divisioni e discriminazioni. L’inse-gnamento è impartito nel rispetto delle opinioni religiose o ideali dei ragazzi e delle famiglie e, a determinate condizioni, prevede corsi di insegnamento religioso scelti volontariamente dagli alunni o dai loro genitori. 14. Sulla base degli stessi valori, spetta anche ai mezzi d’informazione favorire la conoscenza dell’immigrazione, delle sue componenti culturali e religiose, contrastando pregiudizi e xenofobie. Il loro ruolo è essenziale per diffondere un pluralismo culturale rispettoso delle tradizioni e dei valori basilari della società italiana. 15. È garantito il diritto di enti e privati di istituire scuole o corsi scolastici, purché non discriminino gli alunni per motivi etnici o confessionali, e assi-curino un insegnamento in armonia con i principi generali dell’istruzione, e i diritti umani che spettano alle persone. Ogni tipo di insegnamento, comun-que impartito a livello pubblico o privato, deve rispettare le convinzioni di ciascuno e tendere a unire gli uomini anziché a dividerli.

Famiglia, nuove generazioni.16. L’Italia riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata

sul matrimonio, e considera l’educazione familiare strumento necessario per la crescita delle nuove generazioni. 17. Il matrimonio è fondato sulla egua-glianza di diritti e di responsabilità tra marito e moglie, ed è per questo a struttura monogamica. La monogamia unisce due vite e le rende corresponsa-bili di ciò che realizzano insieme, a cominciare dalla crescita dei figli. L’Italia proibisce la poligamia come contraria ai diritti della donna, in accordo anche con i principi affermati dalle istituzioni europee. 18. L’ordinamento italiano proibisce ogni forma di coercizione e di violenza dentro e fuori la famiglia, e tutela la dignità della donna in tutte le sue manifestazioni e in ogni momento della vita associativa. Base dell’unione coniugale è la libertà matrimoniale che spetta ai giovani, e comporta il divieto di coercizioni e di matrimoni forzati, o tra bambini. 19. L’Italia tutela la libertà dei minori nello sviluppo della propria personalità, che si realizza anche nell’incontro con altri giovani e nella partecipazione alle attività sociali. Il principio di eguaglianza non è conci-liabile con le pretese di separare, a motivo dell’appartenenza confessionale, uomini e donne, ragazzi e ragazze, nei servizi pubblici e nell’espletamento delle attività lavorative.

Laicità e libertà religiosa.20. L’Italia è un Paese laico fondato sul riconoscimento della piena libertà

religiosa individuale e collettiva. La libertà religiosa è riconosciuta ad ogni

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548 Lo Sguardo Lungo

persona, cittadino o straniero, e alle comunità religiose. La religione e la con-vinzione non possono essere motivo di discriminazione nella vita sociale. 21. Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Lo Stato laico riconosce il contributo positivo che le religioni recano alla collet-tività e intende valorizzare il patrimonio morale e spirituale di ciascuna di esse. L’Italia favorisce il dialogo interreligioso e interculturale per far crescere il rispetto della dignità umana, e contribuire al superamento di pregiudizi e intolleranza. La Costituzione prevede accordi tra Stato e confessioni religiose per regolare le loro specifiche condizioni giuridiche. 22. I principi di libertà e i diritti della persona non possono essere violati nel nome di alcuna religione. È esclusa ogni forma di violenza, o istigazione alla violenza, comunque moti-vata dalla religione. La legge, civile e penale, è eguale per tutti, a prescindere dalla religione di ciascuno, ed unica è la giurisdizione dei tribunali per chi si trovi sul territorio italiano. 23. La libertà religiosa e di coscienza comprende il diritto di avere una fede religiosa, o di non averla, di essere praticante o non praticante, di cambiare religione, di diffonderla convincendo gli altri, di unir-si in organizzazioni confessionali. È pienamente garantita la libertà di culto, e ciascuno può adempiere alle prescrizioni religiose purché non contrastino con le norme penali e con i diritti degli altri. 24. L’ordinamento tutela la liber-tà di ricerca, di critica e di discussione, anche in materia religiosa, e proibisce l’offesa verso la religione e il sentimento religioso delle persone. Per la legge dello Stato, la differenza di religione e di convinzione non è di ostacolo alla celebrazione del matrimonio. 25. Movendo dalla propria tradizione religiosa e culturale, l’Italia rispetta i simboli, e i segni, di tutte le religioni. Nessuno può ritenersi offeso dai segni e dai simboli di religioni diverse dalla sua. Come stabilito dalle Carte internazionali, è giusto educare i giovani a rispettare le convinzioni religiose degli altri, senza vedere in esse fattori di divisione degli esseri umani. 26. In Italia non si pongono restrizioni all’abbigliamento della persona, purché liberamente scelto, e non lesivo della sua dignità. Non sono accettabili forme di vestiario che coprono il volto perché ciò impedisce il ri-conoscimento della persona e la ostacola nell’entrare in rapporto con gli altri.

L’impegno internazionale dell’Italia.27. In coerenza con questi principi l’Italia svolge nel mondo una politica

di pace e di rispetto di tutti i popoli, per promuovere la convivenza tra le nazioni, per sconfiggere la guerra e il terrorismo. L’Italia è impegnata in cam-po internazionale per tutelare le ricchezze di vita e di ambiente del pianeta. 28. L’Italia ripudia la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, le armi di distruzione di massa, e ogni forma di tortura o di pene degradanti per la dignità umana. Essa condanna l’antisemitismo, che ha portato al genocidio del popolo ebraico, e ogni tendenza razzista che vuole di-videre gli uomini e umiliare i più deboli. L’Italia rifiuta tutte le manifestazioni di xenofobia che si esprimono di volta in volta nella islamofobia o in pregiu-dizi verso popolazioni che vengono da altre parti del mondo. 29. Insieme agli altri Paesi europei, l’Italia ha abolito la pena di morte e lavora nelle sedi inter-nazionali perché sia abrogata nel resto del mondo. L’abolizione della pena di

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549Parte IV – Documenti storici

morte costituisce un traguardo di civiltà che fa prevalere il rispetto della vita sullo spirito di vendetta. 30. L’Italia è impegnata a risolvere pacificamente le principali crisi internazionali, in particolare il conflitto israelo-palestinese che si trascina da tanto tempo. L’impegno dell’Italia è da sempre a favore di una soluzione che veda vivere insieme i popoli della regione, in primo luogo israeliani e palestinesi nel contesto di due Stati e due democrazie. 31. Insieme agli altri Paesi europei, l’Italia agisce a livello internazionale per promuovere ovunque il rispetto della dignità e dei diritti umani, e per favorire l’afferma-zione della democrazia politica, come forma di Stato che consente la parteci-pazione dei cittadini al governo della cosa pubblica e il rispetto crescente dei diritti della persona.

Roma, 23 aprile 2007

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550 Lo Sguardo Lungo

L

Trattato di Lisbona

(entrato in vigore il 1 dicembre 2009)Il trattato di Lisbona è ad oggi l’ultimo dei trattati che, nel tempo, hanno mo-

dificato i trattati su cui sono state fondate le Comunità e l’Unione europea, quali l’Atto unico europeo (1986), il trattato sull’Unione europea (Maastricht) (1992), il trattato di Amsterdam (1997) e il trattato di Nizza (2001)

Trattato sull’Unione Europea (estratto del Testo che ha modificato il pre-cedente Trattato di Nizza)

PREAMBOLOSua maeStà il re dei Belgi, Sua maeStà la regina di danimarca, il pre-

Sidente della repuBBlica Federale di germania, il preSidente dell’irlan-da, il preSidente della repuBBlica ellenica, Sua maeStà il re di Spagna, il preSidente della repuBBlica FranceSe, il preSidente della repuBBlica italiana, Sua altezza reale il granduca del luSSemBurgo, Sua maeStà la regina dei paeSi BaSSi, il preSidente della repuBBlica portogheSe, Sua maeStà la regina del regno unito di gran Bretagna e irlanda del nord (dopo il Trattato di Nizza e prima del presente Trattato, sono divenuti mem-bri dell’Unione europea la Repubblica di Bulgaria, la Repubblica Ceca, la Repub blica di Estonia, la Repubblica di Cipro, la Repubblica di Lettonia, la Repubblica di Lituania, la Repubblica di Ungheria, la Repubblica di Malta, la Repubblica d’Austria, la Repubblica di Polonia, la Romania, la Repubblica di Slovenia, la Repubblica slovacca, la Repubblica di Finlandia e il Regno di Svezia).

DECISI a segnare una nuova tappa nel processo di integrazione europea intrapreso con l’istituzione delle Comunità europee,

ISPIRANDOSI alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Euro-pa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalie-nabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’ugua glianza e dello Stato di diritto,

RAMMENTANDO l’importanza storica della fine della divisione del continente europeo e la necessità di creare solide basi per l’edificazione dell’Europa futura,

CONFERMANDO il proprio attaccamento ai principi della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché dello Stato di diritto,

CONFERMANDO il proprio attaccamento ai diritti sociali fondamentali quali definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989,

DESIDERANDO intensificare la solidarietà tra i loro popoli rispettando-ne la storia, la cultura e le tradizioni,

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551Parte IV – Documenti storici

DESIDERANDO rafforzare ulteriormente il funzionamento democrati-co ed efficiente delle istituzioni in modo da consentire loro di adempiere in modo più efficace, in un contesto istituzionale unico, i loro affidati,

DECISI a conseguire il rafforzamento e la convergenza delle proprie economie e ad istituire un’Unione economica e monetaria che comporti, in conformità delle disposizioni del presente trattato e del trattato sul funziona-mento dell’Unione europea, una moneta unica e stabile,

DETERMINATI a promuovere il progresso economico e sociale dei loro popoli, tenendo conto del principio dello sviluppo sostenibile nel contesto della realizzazione del mercato interno e del raffor zamento della coesione e della protezione dell’ambiente, nonché ad attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell’integrazione economica si accompagni-no a paralleli progressi in altri settori,

DECISI ad istituire una cittadinanza comune ai cittadini dei loro paesi,DECISI ad attuare una politica estera e di sicurezza comune che preve-

da la definizione progressiva di una politica di difesa comune, che potrebbe condurre ad una difesa comune a norma delle dispo sizioni dell’articolo 42, rafforzando così l’identità dell’Europa e la sua indipendenza al fine di pro-muovere la pace, la sicurezza e il progresso in Europa e nel mondo,

DECISI ad agevolare la libera circolazione delle persone, garantendo nel contempo la sicurezza dei loro popoli, con l’istituzione di uno spazio di liber-tà, sicurezza e giustizia, in conformità alle disposizioni del presente trattato e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea,

DECISI a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Eu ropa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio della sussidiarietà,

IN PREVISIONE degli ulteriori passi da compiere ai fini dello sviluppo dell’integrazione europea,

HANNO DECISO di istituire un’Unione europea e a tal fine hanno desi-gnato come plenipotenziari: (Elenco dei plenipotenziari non riprodotto)

I QUALI, dopo aver scambiato i loro pieni poteri, riconosciuti in buona e debita forma, hanno convenuto le disposizioni che seguono: (omissis)

Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea(estratto)Articolo 10 – Nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azio-

ni, l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.

Articolo 17 – 1. L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale.

2. L’Unione rispetta ugualmente lo status di cui godono, in virtù del dirit-to nazionale, le organizzazioni filosofiche e non confessionali.

3. Riconoscendone l’identità e il contributo specifico, l’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni.

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AAbete, Luigi 150aborto 116, 118, 122, 123, 124, 126,

127, 170, 171, 183, 184, 194, 197, 210, 216, 219, 221, 225, 241, 243, 244, 246, 247, 290, 364, 401, 452, 456

Acerbo, Giacomo 28, 260ACLI 101, 113, 130Acquaviva, Gennaro 130, 135, 148Adenauer, Konrad 41Adornato, Ferdinando 157Agenzia del Farmaco 247, 263, 269,

401Agnelli, Gianni 117, 150agnostici, fautori conoscenza speri-

mentata 171, 338, 351, 352, 353, 354, 366, 438

Ago, Roberto 122Ainis, Michele 269Albani, Gian Mario 101, 104Alberigo, Giuseppe 237Alfano, Angelino 256, 267Ali Agcà, Mehmet 128Allam, Magdi Cristiano 235Alleanza Atlantica, alleanza milita-

re 40, 41, 50, 69, 80, 82, 186Alleanza dei Progressisti, alleanza

elettorale 164, 166, 167, 168Alleanza Democratica, movimento po-

litico 157, 161, 164, 167, 168Alleanza Democratica Nazionale, mo-

vimento politico 45

Alleanza Nazionale, movimento poli-tico 161, 166, 167, 169, 186, 191, 194, 216, 232, 234, 246, 258, 277

Almirante, Giorgio 108Altissimo, Renato 161Amato, Giuliano 149, 153, 155, 156,

157, 158, 159, 187, 188, 193, 197, 215, 228, 229, 235, 239, 248, 272, 362

Amendola, Giorgio 107, 125Andreatta, Beniamino 129Andreotti, Giulio 63, 107, 108, 110,

111, 122, 125, 126, 129, 140, 143, 146, 147, 149, 153, 191, 238, 455

Annunziata, Lucia 471Anonima Banchieri 64anticlericali 19, 20, 30, 35, 36, 39, 41,

42, 56, 57, 59, 68, 69, 76, 91, 96, 97, 101, 105, 114, 116, 123, 143, 151, 184, 215, 219, 240, 254, 282, 313, 320, 338, 366, 367, 387, 418, 462, 471

Antinori, Severino 257Antonelli, cardinale Giacomo 237,

425Apollinaire, Guillaume, alias Wilhelm

Apollinaris de 189Arnaldo da Brescia 485Artom, Isacco 13Assemblea Costituente 33, 34, 36, 50,

51, 63, 66, 87, 96, 133, 437, 438, 475Assemblee di Dio in Italia, organizza-

zione religiosa 136

indice delle perSone, dei concetti e dei termini

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554 Lo Sguardo Lungo

Associazione nazionale della Stam-pa 67

atei, chi non ammette l’esistenza divi-na 12, 20, 44, 54, 75, 84, 88, 142, 162, 171, 178, 253, 338, 351, 352, 353, 354, 355, 366, 419

atei devoti 202, 221, 223, 246, 253, 286, 306, 319, 340, 349, 398, 421, 422, 434, 435, 463

Audinot, Rodolfo 477, 479, 485, 487Avanti, quotidiano 85, 86, 90Avvenire, quotidiano 115, 151, 237,

247, 251, 263, 264, 265Avvocatura dello Stato 51, 65, 118,

123, 140, 209Azione Cattolica, associazione laicale

religioso culturale 21, 32, 38, 43, 91, 97, 102, 109, 113, 166

BBachelet, Vittorio 97Bad Godesberg, Congresso SPD 72,

73Badoglio, Pietro 50Bagnasco, cardinale Angelo 241, 265,

266, 268, 300, 468Balducci, Ernesto 99Ballardini, Renato 104Balzamo, Vincenzo 124Banco Ambrosiano 129, 140Banco di Roma 28Barbera, Augusto 260, 382Barzini, Luigi j. 49, 52Baslini, Antonio 96, 100, 101, 103,

104, 105, 166Bassanini, Franco 260Basso, Lelio 35, 98, 104Bassolino, Antonio 173Bellone, Enrico 190bene comune 171, 203, 261, 265, 296,

323, 324, 408, 409, 412, 413, 454, 473

Benedetto XV, Papa, al secolo Giaco-mo Della Chiesa 24, 25

Benedetto XVI, Papa, al secolo Joseph Ratzinger 216, 220, 223, 227, 229, 230, 231, 232, 233, 236, 237, 243, 249, 252, 253, 254, 265, 269, 270, 296, 329, 356, 390, 391, 421, 468

Berchet, liceo milanese 206Berlinguer, Enrico 104, 107, 110,

120, 125, 129Berlinguer, Luigi 180, 181, 186, 393Berlusconi, Silvio 146, 150, 165, 166,

167, 168, 169, 170, 173, 185, 188, 191, 196, 201, 206, 212, 214, 216, 217, 224, 226, 234, 246, 247, 248, 254, 255, 256, 260, 261, 262, 264, 265, 270, 271, 272, 305, 360, 455, 461

Bernardini, Carlo 212Bersani, Pier Luigi 241, 267Bertinotti, Fausto 207, 226, 227, 242Bertone, cardinale Tarcisio 241, 265,

266, 268, 270, 272, 302, 414, 415, 416, 438, 469

Betori, monsignor Giuseppe 236, 264

Bianco, Enzo 190Biasini, Oddo 91Bibbia, la, libro 92, 308, 388, 397Biffi, cardinale Giacomo 194Bignardi, Agostino 117Bindi, Rosy 237Binetti, Paola 251, 386Biondi, Alfredo 166Bismarck, Otto von 16Bissolati, Leonida 19, 24Blair, Tony 205Blocco del Popolo, lista elettorale 43Blocco Nazionale liberale, lista eletto-

rale 39Boato, Marco 232Bobba, Luigi 251Bobbio, Norberto 149, 184, 337, 367

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555Indice delle persone, dei concetti e dei termini

Boffo, Dino 264, 265, 270Bogi, Giorgio 161Bonaiuti, Ernesto 37, 90Boncinelli, Edoardo 190, 212Bon-Compagni, Carlo di Mombel-

lo 487, 488Bonetti, Paolo 400, 441Bonifacio VIII, Papa, al secolo Bene-

detto Caetani 288Bonomi, Ivanoe 24, 28, 50Bordon, Willer 193Borghi, Lamberto 392, 395Borrelli, Saverio 161Boselli, Paolo 25Bosetti, Giancarlo 439Bossi, Umberto 138, 145, 152, 169,

178, 191, 196, 212, 259, 260, 266, 272

Bouchard, Giorgio 134Bozzi, Aldo 34, 92, 120, 124, 134Brenelli, Gianmarco 218Brigate Rosse 112Brunetta, Renato 250, 403Buemi, Enrico 223Bufalini, Paolo 107, 131, 132burqa 242, 251, 373, 376, 377Bush, George W. 205Busi, Aldo 367Buttiglione, Rocco 194, 212, 214, 215,

217

CCacciari, Massimo 192Cadorna, Raffaele 15CAF, formula politica 146Calabresi, Luigi 106Calamandrei, Piero 36, 56, 131Calderoli, Roberto 223, 224, 251,

267, 268, 371Calgaro, Marco 251

Caligaris, Luigi 165Callisto II, Papa, al secolo Guido Con-

te di Borgogna 418Calvino, al secolo Jean Cauvin 288,

289, 489Cambursano, Renato 190Campeis, Giuseppe 255Capotosti, Piero Alberto 256Cappato, Marco 210Cardia, Carlo 239, 379Carettoni, Tullia 107Carlo V, imperatore, al secolo Carlo

d’Asburgo 486Carta dei Valori 239, 251Casa delle Libertà, coalizione eletto-

rale 191, 193, 194, 198, 209, 216, 217, 224, 225, 226

Casaroli, cardinale Agostino 122, 134

Casa Savoia 24, 25, 27, 28Casavola, Francesco Paolo 140, 147Casini, Carlo 117, 118, 127Casini, Pierferdinando 161, 166, 167,

200, 201, 202, 217, 218, 219, 246, 266

Casiraghi, Nicoletta 258Cassa Ecclesiastica 15Cassazione, Corte di 111, 118, 120,

124, 138, 152, 183, 192, 199, 215, 242, 249, 251, 256, 261, 349, 370, 377, 385, 454

Castellacci, Carla 429, 433Castelli, Roberto 197Catechismo della Chiesa Cattolica 191,

297Cattaneo, Carlo 275cattolici chiusi 281, 284, 302, 303,

310, 313, 319, 321, 324, 325, 329, 332, 333, 337, 342, 354, 355, 358, 360, 366, 367, 370, 378, 379, 381, 382, 383, 384, 386, 387, 390, 394, 398, 401, 402, 434, 436, 438, 439,

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556 Lo Sguardo Lungo

440, 441, 447, 448, 449, 450, 462, 465, 466, 467, 469, 472, 474

Cavallari, Alberto 93Cavalli Sforza. Luigi Luca 212Cavour, Camillo Benso, Conte di 9,

11, 12, 13, 14, 16, 18, 35, 105, 139, 275, 276, 278, 289, 328, 336, 389, 392, 425, 438, 451, 460, 469, 475, 477, 487, 488, 490

CCD, movimento politico 161, 166, 167

Ceccanti, Stefano 381CEI 75, 77, 80, 109, 112, 135, 146,

148, 151, 168, 170, 171, 175, 187, 189, 194, 199, 201, 204, 211, 215, 218, 220, 227, 236, 237, 241, 243, 244, 247, 259, 261, 264, 265, 266, 268, 329, 371, 395, 421, 458, 468

Cento, Paolo 190Centro culturale Lepanto, associazio-

ne teocon 434centro destra, formula politica 166,

167, 168, 170, 174, 187, 188, 198, 204, 205, 206, 208, 211, 212, 213, 215, 216, 220, 223, 227, 229, 232, 237, 239, 242, 243, 246, 247, 249, 250, 256, 257, 259, 260, 265, 270, 273, 277, 371, 381, 385, 396, 401, 413, 445, 464

centro, formula politica 38, 43, 51, 83, 100, 107, 108, 461

Centro, formula politica 39, 45, 48, 58, 59, 60, 73, 80

Centro Italiano Sterilizzazione e Abor-to 117, 118

centro sinistra, formula politica 62, 70, 71, 74, 79, 80, 81, 82, 83, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 95, 100, 101, 103, 105, 106, 108, 111, 120, 124, 134, 174, 187, 189, 197, 198, 204, 206, 208, 211, 212, 213, 216, 219, 220, 236, 238, 239, 242, 250, 251, 253, 256, 257, 270, 273, 371, 381, 385, 386, 387, 396, 413, 445, 461, 464

Ceremigna, Enzo 190

CGIL, settore Nuovi Diritti 339CGIL, sindacato 90, 205chador 373Chiesa Apostolica in Italia, organizza-

zione religiosa 239Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli

ultimi giorni (mormoni), organiz-zazione religiosa 239

Chiesa e Stato, libro 55Chiesa evangelica luterana, organizza-

zone religiosa 159Chiese Evangeliche, organizzazione

religiosa 33, 37, 180Chiti, Vannino 190, 381Ciampi, Carlo Azeglio 160, 163, 190,

201, 208, 209, 378Cirillo, Ciro 128Civiltà Cattolica, rivista 47, 67, 83Civiltà Italica, movimento politi-

co 43Clemente VlI, Papa, al secolo Giulio

de’ Medici 486, 489Cocco-Ortu, Francesco 98Codex iuris canonici 136Codice Rocco 42, 117, 120, 124Codignola, Tristano 45Colletti, Lucio 462Colombo, Emilio 103, 105, 108, 191Colombo, Furio 200Colonna, Francesco 117Comino, Domenico 191Comitati Civici 38, 39Comitato Batti il Referendum Eletto-

rale 260Comitato di Liberazione Naziona-

le 35Comitato nazionale per la bioeti-

ca 184Comitato per l’Islam italiano 271,

272Commissione Bicamerale per le Rifor-

me Costituzionali 182, 185

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557Indice delle persone, dei concetti e dei termini

Commissione Bicamerale per le Rifor-me Istituzionali 134

Commissione dei 75 33, 34Commissione Stasi 374Compagna, Luigi 209, 211Compagnia delle Opere 213compromesso storico, formula politi-

ca 119, 123, 124, 125, 129, 155Comunione e Liberazione, movimento

ecclesiale cattolico 53, 113, 140, 145, 206, 221, 244, 394, 440

Comunisti Italiani, movimento politi-co 182, 190

Comunità Economica Europea 55, 82, 90

Conciani, Giorgio 117, 118, 127Concilio di Trento 289, 294Concilio Vaticano I 15, 94, 294Concilio Vaticano II 64, 76, 81, 82,

84, 85, 88, 89, 91, 92, 93, 94, 95, 98, 99, 102, 104, 109, 133, 179, 253, 294, 295, 297, 303, 327, 339, 355, 356, 357, 358, 419, 431, 467, 468

Concordato 1929 28, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 38, 39, 40, 41, 51, 56, 58, 59, 68, 69, 76, 83, 90, 91, 96, 97, 98, 99, 101, 103, 104, 105, 106, 109, 110, 111, 112, 116, 117, 120, 122, 124, 125, 126, 129, 130, 131, 132, 134, 239, 387, 437, 450, 461, 471

Concordato 1984 128, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 138, 141, 142, 147, 148, 157, 172, 182, 188, 192, 198, 202, 219, 221, 222, 223, 225, 231, 237, 239, 241, 242, 250, 263, 284, 292, 349, 362, 368, 370, 372, 387, 396, 407, 410, 417, 422, 429, 434, 437, 452, 459, 460, 461, 464, 465, 467, 468, 469, 471, 472, 474

Confederazione dei Lavoratori cristia-ni, sindacato 50

Conferenza Intergovernativa, organo dell’Unione Europea 206, 213, 243

confessionali 41, 67, 73, 78, 96, 98, 103, 105, 112, 140, 142, 147, 169, 183, 188, 198, 207, 213, 220, 224, 225, 227, 235, 240, 243, 244, 248, 249, 253, 258, 259, 275, 284, 296, 318, 320, 338, 343, 349, 366, 367, 368, 372, 382, 394, 395, 421, 422, 433, 436, 441, 449, 451, 462, 464, 465, 467, 468, 482

Congregazione per la dottrina della fede 136

Consalvi, cardinale Ercole 481Consiglio di Europa 41, 206, 243, 267Consiglio di Stato 137, 140, 273, 372,

377, 396Consulta per l’Islam italiano 222,

225, 228, 229, 232, 235, 239, 248, 251

Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni 235, 471

Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni 396

Contratti di Unione Solidale 240Convegno Ecclesiale di Loreto 136,

328Convegno Ecclesiale di Palermo 171,

179, 329Convegno Ecclesiale di Verona 232Convenzione Europea dei Diritti

dell’Uomo 41, 249, 267, 268Convenzione Finanziaria, parte dei

Patti Lateranensi 28Convergenze parallele, formula politi-

ca 74, 79Coraggio Laico 2007 239, 240Corbino, Epicarmo 45Corriere della Sera, quotidiano 24,

49, 51, 52, 93, 112, 144, 161, 189, 205, 206, 207, 217, 218, 225, 227, 235, 246, 390

Corte Costituzionale 51, 55, 64, 65, 90, 91, 105, 106, 111, 118, 122, 124, 126, 127, 128, 131, 139, 140, 141, 142, 143, 147, 160, 181, 191, 199,

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558 Lo Sguardo Lungo

211, 215, 217, 251, 262, 267, 273, 282, 292, 312, 313, 366, 377, 379, 382, 399, 400, 407, 429, 454

Cortese, Guido 45Corvino, Michele 190cosa 2, progetto politico 185Cossiga, Francesco 126, 137, 147,

149, 152, 153, 155, 182, 186, 238Cossutta, Armando 182Costa, Raffaele 161, 166Costituzione Apostolica Sacrosanctum

Concilium 85Costituzione conciliare Dei Ver-

bum 92, 303, 428Costituzione conciliare Gaudium et

Spes 93, 97, 295, 296, 419, 422, 429, 467

Costituzione conciliare Lumen Gen-tium 89, 91, 295, 301, 302

Costituzione degli Stati Uniti 11, 305Costituzione della Repubblica 33, 34,

36, 37, 46, 51, 55, 61, 64, 65, 87, 90, 91, 96, 98, 101, 102, 104, 105, 106, 122, 126, 129, 132, 133, 139, 141, 142, 147, 149, 150, 159, 160, 161, 180, 182, 184, 186, 188, 194, 199, 203, 209, 213, 222, 225, 226, 229, 237, 238, 248, 250, 251, 256, 260, 262, 267, 268, 270, 271, 350, 361, 362, 366, 372, 376, 378, 385, 394, 400, 403, 404, 412, 413, 414, 417, 428, 437, 438, 455, 459, 460, 461, 463, 464, 475

Costituzione della Repubblica Roma-na 11, 12, 18

Costituzione Europea 196, 205, 213, 217, 226, 243, 360

Cota, Roberto 251, 263Cotta, Sergio 113, 182Covelli, Alfredo 61Craxi, Bettino 121, 122, 129, 130,

131, 134, 135, 137, 140, 146, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 160, 188, 461

Craxi, Bobo 221Crema, Giovanni 190Crispi, Francesco 18Cristiano Sociali, movimento politi-

co 164, 167Critica Liberale, rivista 183, 222, 226,

238, 339, 413Croce, Benedetto 30, 32, 35, 36, 132,

208, 252, 293, 294, 422, 437crocifisso, simbolo religioso 198,

200, 207, 208, 209, 222, 261, 267, 268, 276, 358, 378, 379, 380, 381, 382, 421, 471

Crostoni, Paolo 190

DDahrendorf, Ralf 144D’Alema, Massimo 144, 181, 182,

185, 186, 187, 229, 238, 261, 266Dalla Costa, cardinale Elia 33Dallapiccola, Bruno 212D’Amico, Natale 242D’Annunzio, Gabriele 24Dante, al secolo Durante Alighie-

ri 425, 485D’Antoni, Sergio 191Darwin, Charles 388, 389DC, movimento politico 34, 35, 38,

39, 40, 41, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 50, 51, 53, 54, 56, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 78, 79, 80, 81, 83, 84, 86, 87, 88, 92, 95, 97, 98, 99, 100, 103, 104, 107, 108, 109, 110, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 119, 120, 121, 123, 125, 127, 128, 129, 131, 132, 137, 138, 139, 140, 145, 147, 148, 149, 150, 152, 153, 157, 158, 159, 161, 165, 167, 169, 228, 462

De Amicis, Edmondo 15De Benedetti, Carlo 146Debenedetti, Franco 199

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559Indice delle persone, dei concetti e dei termini

De Bortoli, Ferruccio 205Decreto Conciliare Christus Domi-

nus 92Decreto Conciliare Inter mirifica 85De Gasperi, Alcide 34, 38, 39, 40, 41,

43, 44, 47, 48, 50, 66, 249, 331, 359De Gaulle, Charles 82, 90Degli Occhi, Cesare 71Dell’Acqua, cardinale Angelo 470Della Giovanna, Ettore 189Del Pennino, Antonio 198, 209, 211Del Turco, Ottaviano 164De Luca, Athos 190De Martino, Francesco 85, 104, 120De Mauro, Tullio 106De Michelis, Gianni 153, 154, 221De Mita, Ciriaco 129, 137, 138, 140,

143, 149, 242Democratici per l’Ulivo, movimento

politico 186, 191Democrazia e libertà, movimento po-

litico 191Democrazia Europea, movimento po-

litico 191, 193De Monarchia, libro 425De Monticelli, Roberta 473De Strobel, Pellegrino 138Dichiarazione Conciliare Dignitatis

Humanae 92, 295Dichiarazione dei diritti dell’uo-

mo 266Dichiarazione Dominus Jesus 302Dichiarazione Universale dei Diritti

Umani 1948 366DICO 237, 238, 240Di Donato, Giulio 150Di Mauro, Ernesto 212Dini, Lamberto 170, 171, 173, 242,

246, 258Diotallevi, Luca 297, 470Di Pietro, Antonio 228

disubbidienza civile 365, 408Divina Commedia, libro 425divorzio 83, 96, 100, 101, 102, 103,

104, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 116, 117, 127, 128, 136, 197, 210, 240, 364, 401, 403, 452, 456, 471

Dizionario della politica, libro 337dizionario De Mauro 337dizionario Devoto Oli 337dizionario Gabrielli 337dizionario Garzanti 337dizionario Giunti 337Dizionario Italiano 337dizionario Zanichelli 337dizionario Zingarelli 337documento Instrumentum Labo-

ris 421Donati, Giuseppe 24Dorigo, Wladimiro 91Dossetti, Giuseppe, poi don 34, 36,

40, 66, 96, 413, 475DP, movimento politico 122Dreyfus, Alfred 418DS, movimento politico 185, 190,

199, 207, 211, 215, 217, 220, 221, 223, 234, 235, 253

Dulbecco, Renato 190, 212DyalogUE, associazione culturale gio-

vani 260

EEco, Umberto 106Einaudi, Luigi 34, 39, 47, 78, 430ELDR, gruppo parlamento euroe-

peo 193Elia, Leopoldo 128Elzir, imam Izzedin 362embrione 170, 197, 198, 209, 225,

227, 228, 248, 398, 400Emergency, associazione 206

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560 Lo Sguardo Lungo

Enciclica:1871 Ubi Nos 16, 3021885 Immortale Dei 17, 3021891 Rerum Novarum 20, 76, 4341905 Il fermo proposito 211906 Vehementer Nos 22, 4181924 Maximam gravissi-

mamque 337, 4181925 Quas primas 4181931 Non abbiamo bisogno 321950 Humani generis 421961 Mater et Magistra 76, 2941963 Pacem in terris 82, 2941964 Ecclesiam suam 88, 89, 3521967 Populorum Progressio 971968 Humanae vitae 1001991 Centesimus Annus 151, 327,

434, 4671995 Evangelium Vitae 170, 2901995 Ut unum sint 1701998 Fides et Ratio 181, 296, 3032005 Deus caritas est 2232007 Spe salvi 243, 244, 308, 309,

310, 4322009 Caritas in veritate 261, 297,

345, 415, 465Englaro, Beppe 254, 255Englaro, Eluana 242, 249, 251, 253,

254, 255, 256, 257, 349, 385Enrico V di Franconia, imperatore del

Sacro Romano Impero 418Enriques Agnoletti, Enzo 131Erasmo da Rotterdam, al secolo Geert

Geertsz 441Escobar, Roberto 431esenzione fiscale enti ecclesiasti-

ci 372esenzione ICI 241, 370Espresso, settimanale 118, 120, 121,

152, 189etsi Deus non daretur 171, 470

Europa, quotidiano 228Europeo, rivista 70eutanasia 170, 189, 197, 215, 216, 223,

225, 227, 232, 236, 253, 353, 385, 386

FFabbri, Fabio 131Facciamo Breccia, associazione liber-

taria 320Faccio, Adele 117, 118Facta, Luigi 28Falcone, Giovanni 153Falcucci, Franca 137, 139Famiglia Cristiana, settimanale 240Family Day 2007 239Fanfani, Amintore 47, 48, 58, 60, 62,

63, 66, 69, 71, 74, 80, 81, 84, 110, 111, 112, 114, 119, 129, 137, 138

Fare Futuro, fondazione politica 266Farinella, don Paolo 252, 253Fassino, Piero 154, 211Federazione dei Liberali, movimento

politico 166, 173, 174, 183, 184, 185, 189, 191, 193, 195, 205, 206, 208, 210, 211, 214, 217, 218, 222, 225, 226, 238, 240, 246, 249, 256, 258, 260, 262, 267, 269, 385, 413

Federazione dell’Islam italiano 248, 251, 271

Fellini, Federico 70Feltri, Vittorio 157, 264Fera, Saverio 20Ferrara, Giuliano 246, 247Ferrari, Ettore 19Fini, Gianfranco 159, 161, 165, 196,

212, 214, 216, 221, 255, 258, 259, 263, 268, 271, 272, 273, 277

Finocchiaro, Anna 247Fioroni, Giuseppe 238, 240, 263, 273Fisichella, monsignor Rino 388

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561Indice delle persone, dei concetti e dei termini

Flamigni, Carlo 175, 197fondamentalismi, uso politico delle

religioni 195, 196, 220, 222, 318, 320, 342, 358, 359, 363, 375, 381, 382, 401, 436, 440, 451, 455, 462, 468, 474, 475

Fondo per il Culto 15, 28Forlani, Arnaldo 128, 129, 140, 146,

153, 155Formica, Rino 129, 155Formigoni, Roberto 271Fortuna, Loris 96, 97, 100, 101, 103,

105, 106Forza Italia, movimento politico 165,

166, 167, 169, 186, 198, 209, 212, 221, 234, 244, 246

Fracanzani, Carlo 147Franceschini, Dario 244, 258Franzoni, don Giovanni 109Frattini, Franco 214, 360, 379Friedman, Milton 410Fronte Popolare, formula politica 36Fronte Popolare, lista elettorale 39Futuro e Libertà, gruppo parlamenta-

re 277

GGalantara, Gabriele 19Galilei, Galileo 159, 180Galli della Loggia, Ernesto 182, 448,

449Galli, suor Maria 114Gandhi, Mohandas detto Mahat-

ma 408Garattini, Silvio 190Gardini, Elisabetta 381Garibaldi, Giuseppe 14, 275Gasparri, cardinale Enrico 28, 31Gasparri, Maurizio 255, 264Gava, Antonio 140Gawronski, Jas 162

Gedda, Luigi 38, 42, 43, 48Gelmini, Mariastella 263, 267, 268,

269, 273, 397genoma 197Gentiloni, Vincenzo, Conte 22, 23,

293Giacco, Luigi 190Giannone, Pietro 485Gioja, Pietro 490Giolitti, Giovanni 19, 22, 23, 24, 26,

27, 28, 56, 289Giordano, cardinale Michele 182,

185Giorello, Giulio 300, 426, 427, 428,

430, 440Giovanardi, Carlo 246, 250Giovanni Paolo I, Papa, al secolo Albi-

no Luciani 125Giovanni Paolo II, Papa, al secolo Ka-

rol Wojtyla 125, 136, 145, 146, 151, 162, 163, 171, 179, 180, 190, 200, 203, 206, 216, 235, 328, 344, 421, 433, 467

Giovanni XXIII, Papa, al secolo Ange-lo Roncalli 64, 76, 80, 81, 82, 84, 93, 94, 95, 100, 104, 294, 471

Gioventù Studentesca, movimento promosso in area cattolica 53

Giscard d’Estaing, Valery 206Giubileo 2000 186, 187, 188, 189,

190, 274Giubileo dei Politici 190Giuffré, Giovanni Battista 63Giulio Cesare, imperatore 290Giussani, don Luigi 53, 440Gnutti, Vito 191Gobetti, Piero 131, 144Gonella, Guido 43, 47, 98, 101, 122,

125, 128Gorbaciov, Michail 144Goria, Giovanni 138, 139Gozzini, Mario 123

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562 Lo Sguardo Lungo

Gramsci, Antonio 36, 131, 146Gran Consiglio del Fascismo 29Granduca di Toscana 191Grocholewski, cardinale Zenon 395Groer, cardinale Hans Hermann 355Gronchi, Giovanni 48, 50, 51, 60, 67,

68, 69, 70, 71Gruppo Monti, editore 228Gualtieri, Libero 131Gui, Luigi 95Gullo, Fausto 101Guzzetta, Giovanni 248, 259, 260

HHack, Margherita 212hijab 373Hochhuth, Rolf 57Honsell, Furio 255Hume, David 427

IIannuzzi, Raffaele 198i Democratici, gruppo parlamenta-

re 190, 193idratazione ed alimentazione forza-

te 242, 249, 254, 256, 258, 386IDV, movimento politico 220, 246,

260Il fallimento dei laici furiosi, libro 439Il Foglio, quotidiano 214, 243, 244,

246Il Giornale, quotidiano 264il Manifesto, movimento politi-

co 106, 108Il Mondo, settimanale 44, 45, 47, 49,

56, 57, 58, 59, 68il Mulino, rivista 57, 78, 439Il Ponte, rivista 41il Regno, rivista 114il Sultanato, libro 261

Il Tempo, quotidiano 67il Vicario, opera teatrale 57Indipendente, quotidiano 157insegnamento della religione cattoli-

ca 136Internazionale Socialista 155, 156Intesa, alleanza militare 23, 24, 25Intese tra lo Stato e organizzazioni re-

ligiose 37, 65, 130, 134, 135, 136, 147, 159, 199, 239, 271, 314, 369, 371

i Progressisti, lista elettorale 174Isaia 59Istituti per il sostentamento del cle-

ro 134Istituto per le Opere di Religio-

ne 128, 129, 138, 140Italia Laica.it, rivista on line 190, 372

JJemolo, Carlo Arturo 33, 36, 55, 68,

70, 122Jervolino, Rosa in Russo 157Jotti, Nilde 104, 107, 137, 153

KKant, Emmanuel 252, 351, 473Kennedy, John F. 441Keynes, John Maynard 410King, Martin Luther jr. 408Kruscev, Nikita 60Kung, Hans 179, 356, 357

LLabor, Livio 108, 130La Democrazia in America, libro 336La dolce vita, film 70Laghi, cardinale Pio 166laici, filone politico culturale 37, 39,

40, 41, 43, 44, 46, 47, 48, 50, 53, 54,

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563Indice delle persone, dei concetti e dei termini

56, 57, 58, 61, 62, 67, 68, 69, 73, 74, 75, 76, 84, 95, 97, 98, 101, 105, 106, 107, 108, 110, 112, 113, 115, 116, 119, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 130, 132, 136, 138, 140, 141, 143, 146, 148, 157, 159, 166, 170, 174, 175, 176, 177, 178, 180, 181, 184, 185, 187, 189, 190, 191, 194, 195, 196, 198, 200, 201, 202, 204, 205, 206, 207, 209, 210, 211, 213, 214, 215, 217, 219, 220, 227, 233, 234, 236, 237, 238, 244, 245, 247, 252, 257, 259, 260, 264, 267, 271, 282, 284, 288, 295, 301, 302, 303, 305, 312, 313, 319, 320, 324, 327, 328, 335, 336, 337, 341, 344, 352, 357, 358, 365, 372, 374, 375, 379, 388, 390, 391, 393, 394, 395, 398, 400, 401, 402, 409, 414, 417, 419, 421, 422, 427, 431, 433, 435, 438, 439, 441, 442, 443, 445, 448, 449, 450, 451, 452, 460, 462, 464, 467, 469, 471, 474

laicità, metodo politico culturale 9, 20, 34, 42, 50, 53, 58, 73, 74, 75, 102, 106, 140, 141, 142, 143, 151, 159, 173, 181, 185, 198, 199, 201, 202, 208, 210, 216, 219, 220, 222, 223, 238, 239, 240, 241, 245, 247, 249, 259, 261, 263, 264, 268, 275, 277, 282, 284, 293, 296, 297, 301, 304, 306, 307, 308, 310, 312, 313, 317, 319, 320, 321, 322, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 333, 335, 336, 337, 338, 339, 342, 348, 351, 352, 353, 354, 355, 363, 364, 365, 367, 372, 374, 376, 377, 380, 382, 387, 388, 390, 393, 394, 396, 398, 400, 401, 407, 409, 416, 418, 419, 429, 441, 443, 448, 450, 452, 453, 463, 466, 468, 470, 471, 472, 473, 474

La Malfa, Giorgio 161, 191, 217La Malfa, Ugo 70, 99, 115, 117La Nazione, quotidiano 84la Padania, quotidiano 263, 269La Pira, Giorgio 34, 448

Laplace, Pierre Simon, marchese di 306

Laporta, Raffaele 396La Quiete, casa di riposo 255la Rete, movimento politico 152, 153,

158, 164, 167, 168Lariccia, Sergio 50, 372L’Armonia 13, 482L’Asino, settimanale satirico 19La Stampa, quotidiano 74, 162, 230,

248Lauro, Achielle 61La Valle, Raniero 123, 131, 132, 237Lazzati, Giuseppe 112Le chiavi di San Pietro, libro 61Lega 13 maggio 120, 121Lega Italiana per il Divorzio 101,

104, 106, 113Lega Musulmana Mondiale 272Lega Nord, movimento politico 152,

160, 166, 167, 169, 174, 186, 191, 198, 207, 209, 212, 216, 224, 228, 232, 242, 246, 249, 250, 251, 255, 259, 260, 263, 265, 266, 269, 273, 275, 277, 377

Lega per i Diritti Civili 13 mag-gio 118

Legge delle Guarentigie 16, 18, 19, 22, 23, 24, 28, 29, 30, 460

legge sui culti ammessi 37, 64, 181, 270

Lener, padre Salvatore 122Lento, Federico 190Lenzi, don Lenzo 380Leone, Giovanni 84, 88, 90, 100, 107,

125Leone XIII, Papa, al secolo Vincenzo

Pecci 17, 302Letta, Gianni 254, 360Lettera ad un bambino mai nato, li-

bro 471

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564 Lo Sguardo Lungo

Lettera Pastorale all’Arcidiocesi am-brosiana per la Quaresima 53, 313

Levi Montalcini, Rita 197, 212LIAC 105Libera Chiesa in Libero Stato 11, 18,

25, 132, 133, 139, 276, 278, 307, 417, 425, 449, 460, 469, 471

Liberaldemocratici diniani, movimen-to politico 246

libertà di coscienza 114, 198, 215, 276, 313, 314, 348, 379, 384, 401, 421, 422, 473, 491

Libro Aperto, trimestrale 158lista Pannella, lista elettorale 167lista Per la Vita, lista elettorale 246,

247Locke, John 11, 12, 252, 301, 351, 435Lombardi, Gabrio 103, 109, 113Lombardi, Giancarlo 190Lombardi, Riccardo 85Lombardo, Raffaele 246, 247Lotta Continua, movimento politi-

co 106Lotte del lavoro, libro 430Lucà, Domenico 190Lumia, Giuseppe 190

MMaggi, Rocco 190Magli, Ida 339Magris, Claudio 338Malagodi, Giovanni 59, 60, 64, 84,

98, 103, 104, 105, 115, 132, 133, 138, 289

Mammì, Oscar 124, 146, 149Mancini, Pasquale 16Mancino, Nicola 181, 201, 226Manifesto dell’Islam d’Italia 225,

228

Manifesto di Bioetica Laica 175, 176, 177, 397

Manifesto Laico 183, 184Mani Pulite, operazione giudizia-

ria 158, 161Mannino, Calogero 147Mantovano, Alfredo 271Manuele II Paleologo, imperato-

re 229Manzella, Andrea 190Manzoni, Alessandro 30Marchesi, Concetto 35Marchetto, monsignor Agostino 263Marcinkus, Paul 138Margherita, movimento politico 198,

216, 220, 221, 223, 228, 234, 371Margherita, simbolo politico 191Margiotta Broglio, Francesco 130Marinetti, Filippo Tommaso 24Marocco, fra’ Giacomo da Poiri-

no 13, 14Maroni, Roberto 248, 251, 266, 271,

272, 362Marsilio da Padova 288Martelli, Claudio 140, 153, 155, 157,

158Martinazzoli, Mino 147, 157, 165Martini, cardinale Carlo Maria 287,

304Martini, Claudio 190, 253Martin Lutero, al secolo Martin Lu-

ther 50, 288, 289, 489Martino, Antonio 165Martino, Gaetano 55Martino, Renato 266Maselli, Domenico 198, 270Massarenti, Armando 175massoneria 19, 24, 30, 136, 180, 213,

353, 471Mastella, Clemente 161, 167, 245, 246Mattarella, Bernardo 97

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565Indice delle persone, dei concetti e dei termini

Mattarella, Sergio 147, 161Mattei, Enrico 74Matteucci, Nicola 337Maugeri, Francesco 50Mazzini, Giuseppe 275, 307Mazzucca, Carla 190Meda, Filippo 25Mellini, Mauro 101, 131, 132Mennini, Luigi 138Mereu, Italo 158Merkel, Angela 391Merzagora, Cesare 51Messori, Vittorio 264Michelini, Arturo 61Mieli, Paolo 106, 225Milazzo, Silvio 64Militia Christi, associazione teo-

con 471Mill, Stuart 427minareti 269, 383Minghetti, Marco 484Mirabelli, Cesare 256Misasi, Riccardo 147modello chiuso 284, 286, 332, 334,

450, 466, 475Modigliani, Franco 163Montale, Eugenio 104, 122Montanelli, Indro 51, 70Montezemolo, Luca di 248Montini, Giovanbattista, vedi anche

Paolo VI 53, 71, 74, 77, 84, 313, 440

Moratti, Letizia 194, 196, 204, 393Morelli, Raffaello 117, 158, 166, 184,

195, 208, 210, 214, 217, 218, 220, 228, 234

Mori, Maurizio 175Moro, Aldo 33, 34, 66, 69, 71, 74, 77,

79, 80, 81, 82, 83, 85, 86, 87, 88, 96, 98, 101, 111, 117, 120, 124, 125, 332

Mortati, Costantino 142

Mostra del Cinema, Venezia 50Movimento Laureati Cattolici 103Movimento Liberazione della Don-

na 123Movimento per l’Autonomia Sud, mo-

vimento politico 246Movimento per la Vita 127Movimento Popolare Lavoratori, mo-

vimento politico 108Movimento repubblicani europei, mo-

vimento politico 223, 260MSI, movimento politico 43, 45, 47,

61, 62, 64, 66, 71, 74, 83, 87, 100, 108, 109, 113, 118, 120, 121, 123, 127, 130, 149, 158, 161, 162

muro di Berlino 461Murri, don Romolo 20, 21, 50Mussi, Fabio 227Mussolini, Alessandra 209Mussolini, Benito 24, 27, 28, 30, 31,

32, 50, 203musulmani, credenti religiosi 194,

195, 196, 205, 206, 207, 209, 213, 214, 215, 220, 221, 222, 224, 229, 230, 232, 235, 236, 242, 248, 250, 251, 253, 255, 259, 265, 266, 268, 270, 271, 272, 311, 320, 342, 359, 360, 361, 362, 363, 373, 374, 380, 381, 383, 387, 397, 455

NNapoleone I, imperatore, al secolo Na-

poleone Bonaparte 306, 418Napoleone III, imperatore, al secolo

Carlo Napoleone Bonaparte 15Napoletano, Pasqualina 190Napolitano, Giorgio 154, 155, 226,

256, 267, 268, 272, 275, 276, 277, 438, 439, 471

Natoli, Aldo 68, 69, 98, 106Natta, Alessandro 122, 124, 144Nazioni Unite 40, 297

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566 Lo Sguardo Lungo

Nenni, Pietro 35, 36, 53, 60, 74, 85, 86, 90, 96, 97, 100, 115

Nieddu, Giovanni 190niqab 373, 376, 377Nitti, Saverio 27, 43Noi Siamo Chiesa, credenti del dissen-

so 355, 356, 357, 358Non abusare di Dio, libro 443non expedit 15, 16, 21, 23, 469non ho bisogno dell’ipotesi dell’azione

del Creatore 306, 345, 426, 448, 465, 470

Norme sulla libertà religiosa e abro-gazione della legislazione sui culti ammessi 181, 198, 224, 232

Nota Dottrinale 2002 296, 323, 468Novelli, Giuseppe 212Nuova Dc, movimento politico 246Nuove Cronache, corrente DC 69Nuovo PLI, movimento politico 246,

260Nuovo PSI, movimento politico 217

OObama, Barak 374obiezione di coscienza 170, 364, 365,

457Occhetto, Achille 139, 144, 145, 154,

155, 157, 161Odifreddi, Pier Giorgio 442OGM 190Omodeo, Adolfo 16Onfray, Michel 366Onida, Valerio 256Opera dei Congressi, associazione cat-

tolica 17, 20, 21Opera Nazionale Balilla 32Operazione Sturzo 43, 45Opus Dei 147, 200ora di religione 266, 273, 313, 395,

396, 397, 456

Orlando, Leo Luca 152Orlando, Vittorio Emanuele 26, 27,

28Orwell, George 458Osservatore Romano, quotidiano 31,

50, 67, 86, 121, 145, 254, 265, 270, 458

Osservatorio della laicità 339Ostellino, Piero 189, 246, 405otto per mille 135, 198, 220, 353, 368,

369, 383, 416

PPacciardi, Randolfo 50, 70Pacini, Franco 212Pajer, Fulvio 397Pajetta, Giancarlo 46Palazzo Barberini 36, 45, 72Palazzo Giustiniani 110Pannella, Giacinto detto Marco 101,

105, 106, 113, 118, 127, 153, 165, 166, 168, 210

Pannunzio, Mario 44Paolo V, Papa, al secolo Camillo Bor-

ghese 489Paolo VI, Papa, al secolo Giovanbat-

tista Montini 84, 86, 88, 89, 90, 93, 97, 100, 104, 112, 120, 122, 125, 294, 295, 352, 440

parametro tempo 10, 18, 279, 284, 285, 286, 291, 301, 302, 305, 306, 307, 309, 310, 314, 316, 330, 331, 334, 342, 347, 349, 363, 367, 389, 409, 410, 411, 414, 415, 427, 428, 431, 432, 433, 435, 443, 446, 450, 453, 465, 475, 476

Paratore, Giuseppe 64, 71Parisi, Arturo 248Parri, Ferruccio 45, 50, 115Partito Nazionale Fascista 32, 461Partito Popolare, movimento politi-

co 25, 26, 27, 28, 50

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567Indice delle persone, dei concetti e dei termini

Partito Sardo d’Azione, movimento politico 45

Pasquino, Gianfranco 337Patti civili solidarietà, PACS 221, 223Patti Lateranensi 28, 29, 30, 31, 32,

33, 34, 35, 36, 37, 46, 50, 58, 76, 98, 105, 106, 132, 138, 208, 274, 281, 410, 459, 461, 468

Patto Gentiloni 23Patto Internazionale sui Diritti

1966 366Patto per l’Italia, movimento politi-

co 161Patto Segni, movimento politico 161,

167, 168Patuelli, Antonio 134PCI, movimento politico 35, 36, 38,

39, 40, 46, 51, 52, 53, 55, 56, 59, 60, 62, 63, 64, 66, 68, 69, 71, 72, 73, 74, 75, 79, 83, 84, 87, 88, 98, 100, 101, 103, 105, 106, 107, 108, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 117, 119, 120, 121, 122, 123, 125, 127, 129, 130, 131, 133, 134, 137, 138, 139, 140, 144, 145, 146, 155, 157, 173, 228, 452

PDIUM, movimento politico 83, 84, 100

PD, movimento politico 165, 228, 235, 242, 244, 246, 247, 250, 251, 257, 258, 260, 263, 267, 273, 277, 314, 349, 381, 385, 452, 463, 464

PDS, movimento politico 144, 145, 146, 147, 148, 149, 152, 153, 154, 155, 156, 158, 160, 161, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 173, 180, 181, 185, 186, 200

Pecoraro Scanio, Alfonso 190Pella, Giuseppe 47, 69Pellegrino, Giovanni 190pena di morte 190, 191, 244pentapartito, formula politica 128,

129, 130, 137, 138, 140, 149, 153, 166

Pera, Marcello 200, 201, 202, 213, 217, 218, 221, 224, 230, 248, 252, 253, 390, 391

Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica, li-bro 252

Perché non possiamo non dirci cristiani, libro 208, 293

Perna, Edoardo 91Persone e Reti, corrente del PD 251Pertini, Sandro 125, 137Petroni, Angelo 175Pettoello-Mantovani, Massimo 212Peyrefitte, Roger 61Pezzoni, Marco 190Pezzotta, Savino 246piano Solo 147Piazza, Alberto 212Piccardo, Roberto Hamza 224Piccoli, Flaminio 101, 111, 120, 129Pievani, Telmo 429, 433Pignatti, Pier Franco 212Pinin Farina, Sergio 150Pio IX, Papa, al secolo Giovanni Maria

Mastai Ferretti 13, 14, 15, 16, 64, 237, 425, 469, 471, 487

Pio X, Papa, al secolo Giuseppe Sar-to 20, 24

Pio XI, Papa, al secolo Ambrogio Rat-ti 25, 30, 31, 32, 203

Pio XII, Papa, al secolo Eugenio Pacel-li 43, 49, 57, 64, 203, 269, 338

Pisanu, Beppe 222, 225, 362, 377PLI, movimento politico 34, 38, 39,

44, 45, 48, 49, 60, 61, 62, 66, 69, 70, 73, 74, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 87, 91, 95, 96, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 105, 108, 110, 112, 114, 115, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 126, 128, 129, 132, 133, 134, 138, 139, 143, 149, 152, 157, 158, 161, 165, 166

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568 Lo Sguardo Lungo

PMP, movimento politico 61, 62, 66, 69

PNM, movimento politico 45, 47, 61, 62, 66, 69

Podrecca, Guido 19Polacco, Gadiele 194, 245, 262Poletti, cardinale Ugo 137, 139Poletto, cardinale Ugo 237Pollastrini, Barbara 237Polo per le Libertà, coalizione elettora-

le 173, 174, 182Polverini, Renata 271, 272Ponzio Pilato 341, 374Popolari Liberali, movimento politi-

co 246Popolo della Libertà, movimento poli-

tico 246, 247, 248, 249, 250, 251, 254, 255, 258, 259, 260, 263, 264, 268, 271, 272, 273, 274, 277, 314, 349, 463, 464

Popper, Karl 252, 427Porta Pia 13, 15, 16, 18, 28, 31, 460,

470, 471Possenti, Vittorio 438, 448Poupard, cardinale Paul 236Pozza Tasca, Emilia 190PPE, movimento politico euro-

peo 277PPI, movimento politico 161, 167,

168, 181, 182, 186, 191, 206Presenza Liberale, corrente del

PLI 103, 105Prestigiacomo, Stefania 255Preti, Luigi 63, 124Prezzolini, Giusseppe 19PRI, movimento politico 38, 39, 44,

45, 60, 62, 70, 74, 79, 80, 83, 98, 100, 108, 112, 128, 129, 130, 131, 138, 149, 152, 161, 165, 166, 173, 185, 190, 191, 198, 217, 260

PR, movimento politico 113, 118, 123, 124, 125, 126, 127, 130, 131, 138, 152, 153, 165, 166, 169, 186,

199, 210, 211, 216, 221, 235, 246, 254, 260

procreazione medicalmente assisti-ta 181, 197, 198, 207, 209, 210, 216, 217, 219, 245, 248, 258, 365, 398, 400, 401, 456

Prodi, Romano 173, 174, 178, 181, 182, 186, 193, 196, 204, 206, 207, 212, 221, 223, 225, 226, 227, 234, 238, 240, 245, 246, 250, 262, 265, 455

Prodomo, Raffaele 399Propaganda Fide 273, 274Prosperi, Fabrizio 189, 422Proudhon, Pierre 125PSDI, movimento politico 38, 44,

45, 48, 53, 62, 63, 70, 74, 80, 83, 91, 108, 121, 128, 131, 149, 165, 166

PSI, movimento politico 19, 35, 38, 40, 45, 47, 53, 59, 60, 62, 63, 65, 66, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 90, 91, 95, 100, 104, 107, 108, 110, 120, 121, 122, 125, 128, 129, 131, 132, 135, 138, 139, 147, 148, 150, 152, 154, 155, 156, 157, 164, 165, 167, 168, 190

PSIUP, movimento politico 86, 98, 100, 106, 108

PSLI, movimento politico, vedi anche PSDI 38

PSU, movimento politico 91, 98, 99, 100, 101

QQuagliarello, Gaetano 259, 264Questione Romana 16, 24, 27, 28, 29,

31, 203, 281, 289, 302, 387, 477, 490Questitalia, rivista 91

RRabbini italiani, mondo dei 245

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569Indice delle persone, dei concetti e dei termini

radici cristiane, identità religioso cul-turale 197, 203, 205, 206, 209, 213, 233, 235, 239, 243, 357, 359, 463, 464

Radio Inblu, rete radiofonica vatica-na 264

Radio Vaticana 53, 83, 175, 193RAI-TV 49, 113, 147, 149, 169, 186,

196, 200, 458Ratzinger, cardinale Joseph, vedi an-

che Benedetto XVI 136, 151, 180, 205, 213, 216, 296, 302, 323, 468

Reale, Giovanni 345Reale, Oronzo 44, 70, 96Regge, Tullio 190Regno di Sardegna 275, 425Regno d’Italia 13, 14, 15, 16, 17, 25,

26, 29, 275, 305, 387, 425, 460Repubblica, quotidiano 152, 161, 183,

260, 261Reset, rivista 439Riccio, Mario 235Rifondazione, movimento politi-

co 149, 153, 158, 164, 167, 168, 173, 174, 182, 186, 193, 207, 208, 220

Rinascita, mensile 68Rinnovamento italiano, movimento

italiano 191Roccella, Eugenia 123, 254, 263, 268Roma Capitale 11, 16, 276, 477, 478,

479, 480, 488Romiti, Cesare 150Roncalli, Angelo, vedi anche Giovanni

XXIII 53, 64Ronca, monsignor Roberto 43Ronchey, Alberto 187Rosa Bianca, movimento politico 246Rosa nel Pugno, alleanza politi-

ca 221, 223, 228, 236Rossi, Enrico 253Rossi, Ernesto 45, 56, 91

Rossi, Fernando 238Rossi, Paolo 36Rossi, Pellegrino 481Rotondi, Gianfranco 246, 250, 403Rousseau, Jean Jacques 12, 321Ru486, farmaco abortivo 194, 221,

247, 263, 268, 269, 400, 401Ruffini, Francesco 30, 131Ruggiero, Renato 196Ruini, don Camillo, poi Cardina-

le 148, 151, 172, 179, 195, 196, 208, 233, 241, 264, 265, 329

Rumor, Mariano 69, 86, 101, 111Rusconi, Gian Enrico 230, 428, 443,

448, 449Russell, Bertrand 393Rutelli, Francesco 165, 186, 190, 193,

198, 204, 223, 251, 258, 268

SSacconi, Maurizio 254, 255, 263, 268,

269Sacra Arcidiocesi d’Italia greco or-

todossa, organizzazione religio-sa 239

Saddam, Hussein 145, 205Saja, Francesco 140Salandra, Antonio 23, 24Salman, Rushdie 144Salvarani, Brunetto 397Salvatorelli, Luigi 56Salvemini, Gaetano 45, 56, 57Salvi, Cesare 240San Francesco di Assisi, al secolo Fran-

cesco di Bernardone 434Sanna Randaccio, Raffaele 45Santa Sede, vedi anche Stato Pontifi-

cio 15, 20, 26, 33, 55, 128, 162, 180, 196, 197, 203, 205, 215, 270, 442

Sante Ragioni, libro 433

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570 Lo Sguardo Lungo

Santo Uffizio 17, 32, 39, 71Saragat, Giuseppe 36, 44, 45, 53, 88,

90, 115Sarkozy, Nicolas 374Sarpi, fra Paolo 485Sartori, Giovanni 261, 451Savonarola, fra Girolamo 485Sbai, Souad 271Sbarbati, Luciana 223Scalfari, Eugenio 106Scalfaro, Oscar Luigi 153, 158, 165,

166, 167, 170, 182, 186, 225, 272Scelba, Mario 44, 48, 86Schietroma, Dante 131Schifani, Renato 259, 267Schönborn, cardinale Cristoph Ma-

ria 388Schuman, Robert 41Scialoja, Mario 272Scola, cardinale Angelo 298, 299Scoppola, Pietro 107, 131, 132, 237,

438scuola 13, 17, 19, 61, 69, 75, 82, 88,

126, 137, 140, 141, 147, 166, 169, 170, 171, 172, 180, 181, 183, 184, 185, 186, 191, 194, 197, 198, 203, 204, 206, 207, 208, 210, 212, 213, 216, 219, 220, 221, 225, 228, 232, 240, 242, 266, 267, 269, 273, 312, 313, 339, 353, 374, 375, 378, 379, 381, 382, 391, 392, 393, 394, 395, 396, 397, 419, 441, 455, 456

SDI, movimento politico 220, 221, 223, 246

Sechi, Salvatore 209Segni, Antonio 51, 66, 68, 69, 70, 81,

88, 147Segni, Mario 147, 149, 150, 152, 158,

161, 168, 186, 248, 259, 260Senza Radici, libro 213Sepe, cardinale Crescenzio 274Settimane Sociali 148Severino, Emanuele 234, 344

Siccardi, Giuseppe 12, 28Sillabo, appendice dell’Enciclica

Quanta Cura 15Silvestrini, cardinale Achille 122simul stabunt oppure simul cadent 31,

203, 468Siniscalchi, Vincenzo 190Siniscalco, Domenico 212Sinistra Arcobaleno, movimento poli-

tico 246Sinistra Democratica, gruppo parla-

mentare 240Sinistra Indipendente, gruppo parla-

mentare 101, 107, 115, 123, 131, 132, 152

Siri, cardinale Giuseppe 61, 77, 80SME 125Socialdemocrazia per le Libertà, lista

elettorale 166, 167Società delle Nazioni 26Sodano, cardinale Angelo 187, 192Sole 24 ore, quotidiano 175solidarietà nazionale, formula politi-

ca 119, 125Sonnino, Sidney 24Spadaccia, Gianfranco 118Spadolini, Giovanni 49, 126, 128,

129, 153spazio pubblico 321, 322, 323, 324,

325, 327, 341, 376, 409Spedizione dei Mille 14, 18Spini, Valdo 135, 232, 270spirito critico 183, 195, 291, 302, 303,

316, 375, 388, 392, 433, 444, 450, 451, 453, 456, 475

Squitieri, Pasquale 106Stalin, al secolo Iosif Dzugasvili 52Stasi, Bernard 374Stato Pontificio 15, 26, 28, 201, 231,

328Statuto dei Lavoratori 102Stay Behind, rete militare coperta 147

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571Indice delle persone, dei concetti e dei termini

Storace, Francesco 188, 194Sturzo, don Luigi 24, 25, 27, 28, 33,

43, 131Sudtiroler Volkspartei, movimento po-

litico 45, 84, 167, 168, 174Sulla Libertà, libro 427Sullo, Fiorentino 99

TTabacci, Bruno 246Tajani, Antonio 165Tambroni, Fernando 70, 71, 74Taviani, Paolo Emilio 69Tavola Valdese, organizzazione religio-

sa 33, 130, 134, 135, 159teo-con 123, 259, 263, 286, 293, 306,

319, 340, 349, 359, 390, 391, 398, 400, 403, 421, 422, 434, 435, 439, 463

teo-dem 212, 225, 234, 236, 237, 286, 306, 319, 340, 349, 398, 421, 422, 434, 439, 463

Teodori, Massimo 462teoria dei Due Soli 425Testa, Lucio 190testamento biologico 235, 257, 258,

261, 268, 349, 353, 384, 385, 386, 456

Testimonianze, rivista 99, 114Testimoni di Geova, organizzazione

religiosa 239Tettamanzi, cardinale Dionigi 216,

232, 264, 269Thoreau, Henry David 408Tocqueville, Alexis de 11, 12, 144,

252, 304, 335, 336Togliatti, Palmiro 35, 36, 49, 52, 55,

56, 58, 83, 84, 85, 87, 94, 131, 139, 438, 450

tolleranza 11, 12, 20, 57, 58, 131, 189, 196, 221, 293, 302, 303, 304, 305,

306, 351, 426, 427, 431, 441, 442, 448, 457

Tondo, Renzo 254Tonini, Ersiliio 213Torri Gemelle 195Tortora, Enzo 129Tortorella, Aldo 104Tosti, Luigi 222, 261, 378Trabucchi, Giuseppe 91, 92Trattati di Roma, atto di nascita

dell’Europa 55, 56, 214, 241Trattati Europei 370Trattati Europei Roma 2004 217Trattato di Lisbona 243, 248, 266,

357, 359, 381, 459Trattato di Versailles 26Trattato, parte dei Patti Lateranen-

si 28, 30, 31, 35, 76, 96, 132, 138, 203, 274, 351, 459

Trattato per la Costituzione Euro-pea 206, 213, 214, 243

Trattato sul Funzionamento dell’Unio-ne Europea 243

Trattato sull’Unione Europea 243Tremonti, Giulio 168, 212Triplice Alleanza, alleanza milita-

re 23, 24Turco, Livia 209, 386, 401Turigliatto, Franco 238Turoldo, don Davide Maria 285, 286Turroni, Sauro 190, 199TV2000, gruppo tv vaticano 264

UUAAR 353, 355, 367, 442UCOII, organizzazione di fedeli mu-

sulmani 213, 214, 222, 224, 225, 228, 229, 232, 235, 271, 362, 377

UDC, movimento politico 191, 212, 216, 217, 234, 235, 246, 247, 249, 254, 259, 260, 265, 463, 464

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572 Lo Sguardo Lungo

UDEUR, movimento politico 191, 220, 223, 236, 237, 245, 246, 371

UDI, donne del PCI 121UDR, movimento politico 182UECI, associazione politica cattoli-

ca 21, 22Ulivo, coalizione elettorale 173, 174,

175, 180, 182, 185, 191, 193, 199, 207

Ulivo indistinto, progetto politi-co 174, 180, 186, 193, 201, 204, 221, 226

Unione Buddista, organizzazione reli-giosa 239

Unione, coalizione elettorale 217, 220, 221, 222, 223, 225, 226, 227, 236, 238, 242

Unione cristiana evangelica battista, organizzazione religiosa 159

Unione delle chiese cristiane avventi-ste del 7° giorno, organizzazione religiosa 136

Unione delle Comunità Ebraiche 136Unione Europea 55, 162, 196, 206,

243, 249, 269, 357, 358, 359, 370, 371, 429, 462

Unione Induista, organizzazione reli-giosa 239

Unità Cattolica, quotidiano 16Unità d’Italia 13, 76, 178, 275, 276,

278, 468, 469, 476Unità, quotidiano 52, 104, 144, 201Uniti nell’Ulivo, lista alle euro-

pee 212Università Cattolica 112Università di Pisa 442Università di Ratisbona 229, 230,

231, 232, 434Urso, Adolfo 266

VValducci, Mario 165

Valerio, Nico 454Valiani, Leo 149Valitutti, Salvatore 132, 133, 136Vaticano 20, 21, 24, 26, 27, 28, 29, 30,

31, 35, 39, 43, 47, 48, 57, 71, 73, 75, 76, 77, 79, 80, 90, 91, 97, 101, 104, 105, 109, 110, 113, 117, 122, 126, 128, 133, 134, 135, 139, 146, 147, 166, 170, 173, 180, 182, 183, 184, 186, 187, 193, 196, 198, 206, 223, 225, 228, 239, 241, 244, 254, 265, 269, 272, 273, 274, 297, 302, 350, 351, 355, 356, 357, 358, 366, 370, 389, 414, 418, 455, 458, 470, 486, 487

Vattimo, Gianni 180Vegliò, monsignor Antonio Ma-

ria 266velo islamico 373, 374, 376Veltri, Massimo 190Veltroni, Walter 190, 235, 242, 244,

246, 247, 248, 258Velut si Christus daretur 435, 436, 437Verdi, movimento politico 138, 152,

153, 164, 165, 167, 168, 190, 220Veronesi, Umberto 189, 192, 197,

257, 387Vescovi toscani 191Vescovo di Prato 53, 56, 61Vescovo di Trento 114Vespa, Bruno 149Vian, Gian Maria 270Viano, Carlo Augusto 439Villabruna, Bruno 44Villari, Pasquale 17Violante, Luciano 201Visco, Vincenzo 241Vittorio Emanuele II, Re d’Italia 13,

15, 16, 469 Vittorio Emanuele III, Re d’Italia 24Vizzini, Carlo 149Volonté, Luca 259

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573Indice delle persone, dei concetti e dei termini

WWalzer, Michael 205Weber, Maximilian 423Welby, Piergiorgio 232, 234, 235Westerwelle, Guido 391Wodan, divinità germanica 293World Gay Pride 2000 187, 189

XXX Congresso del PCUS 52, 60XX settembre 18, 31, 41, 99, 455, 471

ZZaccagnini, Benigno 119, 129Zanone, Valerio 134, 184, 210Zecchino, Ortensio 191Zincone, Giuliano 144Zincone, Vittorio 67Zola, Émile 366Zoli, Adone 58Zwinglio, Uldrich Zwingli 489

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Il disegno è tratto dal Forum EPPSP (Piattaforma Parlamentare Europea per il Secolarismo in Europa) che riunisce membri del Parlamento ed associazio-ni della società civile nella prospettiva di costituire “la via alla secolarizza-zione nell’Unione Europea).Il lavoro dell’EPPSP è diretto da cinque parlamentari: una presidente – la liberale olandese Sophie in ‘t veld, del gruppo ALDE – e quattro vice: la esponente della sinistra polacca Joanna SenySzyn, del gruppo S&D; il centri-sta francese Jean M. cavada, del PPE; il francese del Fronte di Sinistra Jean-Luc mélenchon, del GUE; e la austriaca Franziska Brantner, dei Verdi.

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Finito di stampare nel mese di marzo 2011