RACCONTI DI VIAGGI IN ASIA · consumismo si sbaglia di grosso. I più nuovi gadgets elettronici si...

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RACCONTI DI VIAGGI IN ASIA Franco Pizzi e Kristin Blancke

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RACCONTI DI VIAGGI IN ASIA

Franco Pizzi e Kristin Blancke

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RACCONTI DI VIAGGIO

di Franco Pizzi e Kristin Blancke

Una raccolta di resoconti di viaggio scritti da Kristin Blancke e Franco Pizzi in seguito alle loro esperienze come accompagnatori di viaggi di gruppo con turisti italiani .

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Franco Pizzi, 1948, e Kristin Blancke, 1950, entrambi studiosi e praticanti del buddhismo tibetano, vivono in India da oltre 20 anni, dove organizzano viaggi, accompagnano gruppi turistici in Asia, e traducono testi dal tibetano. http://www.viaggiinasia.com Stampato in India, marzo 2011 Proprietà letteraria Franco Pizzi e Kristin Blancke Email: [email protected];[email protected]

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“Alzati, vieni, affrettati: lasciamo la città ai mercanti, agli avvocati,

ai prosseneti, agli usurai....agli imbroglioni, agli incantatori, agli adulteri,

ai parassiti, ai fannulloni...Lasciali fare: non appartengono alla nostra razza.

Lascia che i ricchi contino i loro denari servendosi in questo dell’aiuto

della matematica. Invero, le ricchezze che vorrebbero eterne se ne andranno.

Tutto ciò che li rende oggetto di ammirazione al volgo, svanirà in un momento.

Vivono sotto il dominio della fortuna: quand’anche questa li avrà risparmiati,

non li risparmierà la morte”

Francesco Petrarca, “De vita solitaria.”.

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INDICE INDIA ............................................................................ 7

Beato te che vivi in India... ................................... 8

I Potenti del Kumba Mela a Ujjain ................. 14

Dharamshala : festeggiamenti per Diwali 21

Feste invernali in Ladakh .................................. 25

Fuga d' amore nella valle di Nubra ............... 31

Kerala, "God's own country"- la terra di Dio: una breve vacanza "benessere" al mare, con massaggi ayurvedici ............................................. 36

Arunachal Pradesh e Nagaland: Il Tirap, il paese di bambù... ............................. 45

Angoli d’India: Mathura-Vrindavan-Goverdhan in Uttar Pradesh;Deeg e Alwar in Rajasthan ............. 54

Alcuni commenti sul viaggio Orissa Chhattisgarh ............................................................. 62

BHUTAN .................................................................... 67

Il Bhutan in occasione della Festa di Paro ......................................................................................... 68

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NEPAL ......................................................................... 75

Una Gita nel Mustang Inferiore ...................... 76

TIBET ......................................................................... 86

Incontro con Drupön Dechen ................................ 87

Namtso: un luogo di potere. ............................. 92

Navigando sullo Tsangpo: Nuovo viaggio in Tibet, nuovo viaggio sulle gowa.............................................................................. 97

Di passagio nel Kham: sei cose che mi hanno colpita . .......................................................107

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INDIA

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Beato te che vivi in India... F.Pizzi, 2004

Con queste poche righe voglio rispondere a coloro che mi scrivono dicendomi che stanchi dell’occidente in preda al consumismo, guerre, corruzione etc preferirebbero lasciare tutto e trasferirisi in India; in India, dove la vita scorre lenta come le acque del Gange, dove tutto è facile e la gente sorride sempre. Non posso negare che anche io pensavo di trovare in India le stesse cose vent'anni addietro, ma usando un po’ di retorica “con la vecchiaia molti ideali lasciano un terreno fertile alla visione cruda della realtà”. In effetti si parte per l’India con una mente in subbuglio piena di aspettative, e quando si arriva il subbuglio diventa tempesta di emozioni e di pensieri, e alle volte la mente vacilla. Il "welcome" in questo fantastico, poliedrico paese è dato dal caos, dai profumi, dalle puzze, dal colore dei sari delle donne indiane; insomma da una quantità di stimoli uditivi, olfattivi e visivi che non reggono il

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paragone con il nostro mondo troppo ordinato e quasi “grigio” al cospetto. Ma dopo qualche giorno ci si accorge che non tutto è poi cosi gioioso come si pensava. Prendiamo ad esempio il caos. Questa sensazione di novità-divertimento di trovarsi in “mezzo a loro” si attenua lasciandoci un tantino perplessi e preoccupati quando dobbiamo attraversare la strada: non è chiaro quando e dove attraversare senza essere travolti, non necessariamente da una macchina, potrebbe anche essere da una semplice bicicletta. Gli spostamenti in auto sono affascinanti: si vedono villaggi immersi in freschi boschetti ai lati della strada dove dignitose donne nei loro eleganti sari portano pesanti contenitori pieni d’acqua in equilibrio sulla testa; si costeggiano campi dove la gente lavora ancora con mezzi primitivi. Ma a un certo punto dirigiamo lo sguardo davanti e sulla nostra corsia ci sta venendo contro un carro trainato da un cammello o dai buoi o, peggio ancora, un camion il cui autista ha deciso di viaggiare contro mano nel nome del “caos”. Certo, una volta scampato il pericolo si sorride a questa anarchia del traffico! Poi decidiamo di fermarci a mangiare in un “dhaba” - ristorantino locale lungo la strada-. Sono affascinanti!

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Caratteristici! All’ombra di una tettoia, una fila di "charpoi", -sorta di letto fatto di corde intrecciate per il riposo dei camionisti-. Siamo tentati di mangiare i cibi colorati e profumati esposti sul bancone. L’aspirante “voglio vivere in India” si ricordi che questo cibo gustoso alle volte è molto, molto speziato e gli può procurare lunghe soste nel bagno, con un aumentato consumo di antidiarroici. “Senti che bella musica che viene da li dentro”. Si, la musica classica indiana è rilassante, dolce, bella. Ma oramai rara. La musica più frequentemente sentita è tutt'altra. Spesso, nelle celebrazioni di festività religiose o di un matrimonio, (ahimè quanti ce ne sono in India!) la musica è messa a tutto volume, in più amplificata dagli altoparlanti, per essere comunicata anche a chi non la vuole sentire. Dove abito io alcune volte sono costretto ad ascoltare scadente musica moderna per giorni e notti senza interruzione. Un giorno chiesi a un amico indiano se questo rumore, -più che musica-, non lo disturbava. Mi rispose: “Si, mi disturba, ma che fare?”. Gli chiesi: “Se si chiama la polizia, intervengono?”. La risposta fu: “Si, ma sai, poi gli dicono che il matrimonio si fa una volta nella vita e

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quindi...” . E siccome anche il poliziotto si è sposato e ha fatto lo stesso baccano, se ne va. Consiglierei vivamente a colui/colei che sogna di stabilirsi in India di venirci a vivere qualche tempo e valutare se riesce ad adattarsi in questo paese che sebbene stupendo e così "diverso", non è certo privo di "peccatucci", come d'altronde tutti i paesi del mondo. Chi viene sperando di trovare un paese dove non esistono differenze fra ceti sociali e religioni, dove tutti vivono come una “grande famiglia”, si sbaglia di grosso. Guardandosi un po’ intorno scopre che esistono le “caste”, incostituzionali ma pur sempre un concetto vivo e attivo che spesso porta a massacri di gente innocente. Le caste sono giustificate dal “karma”, concetto finemente manipolato dalle classi dirigenti. Chi viene in India sperando di trovare un oasi di non-consumismo si sbaglia di grosso. I più nuovi gadgets elettronici si trovano pure in India e suscitano lo stesso o forse maggiore desiderio che da noi. Chi viene in India sperando di trovare un paese in pace dove tutti sorridono si sbaglia. Non bisogna dimenticarsi

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delle migliaia di morti in Kashmir, di una guerra dimenticata sul ghiacciaio del Siachen, di frequenti conflitti tra indù e musulmani, di schermaglie con i cinesi nelle frontiere orientali e terrorismo, che come in ogni parte del mondo insanguina le strade con la morte di vittime innocenti. Chi viene in India perché spera di trovare il paese senza corruzione e brighe politiche si sbaglia. In India il mondo politico si guerreggia come da noi. Quindi, niente di nuovo. Ma qualcosa di nuovo c’è! In India vige una simpatica noncuranza del futuro e quindi una mancanza totale di responsabilità nel portare a termine i più elementari progetti. Per esempio, il mio telefono non funziona mai. Un simpatico signore della telecom indiana viene ogni 15 giorni dicendomi che lo metterà a posto, da mesi, ma tutto continua come al solito. Dopo le prime arrabbiature ci si “arrende” e si sorride. Oggi non funziona. Ci sono le passeggiate in profumate pinete dove si incontrano i pastori che cercano di difendere il loro gregge dal mio pastore tedesco che è un giocherellone. Alla fine della discussione, io in inglese e lui/lei in hindi,

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ci si siede e si parla tranquillamente di altro, senza capirsi. Con pochi gesti si accenna al cielo per il monsone imminente. La mia casa si trasforma in una voliera quando il cane lascia un po’ di riso nella sua ciotola; gli uccelli senza paura entrano, si servono ed escono. Gli animali non hanno paura dell’uomo perché non li si caccia. C’è la visita giornaliera al bazar per fare la spesa, dove si possono passare ore a parlare con i negozianti del più e del meno e poi, senza comperare nulla, ci si dice “namaste”. Bastano questi pochi e semplici esempi per dirvi che tante piccole cose del vivere quotidiano che da noi sono dimenticate qui continuano tuttora ad esistere e permettono di vivere una vita lenta e piacevole. Certo, siamo occidentali e siamo trattati in maniera “particolare”, perché abbiamo i “soldi” ! Ma questo non toglie un’umanità giornaliera che non riuscirei a trovare da nessuna altra parte, e le differenze culturali vengono superate nella semplicità della comunicazione quotidiana. Un vecchio slogan in India dice “Love it or Leave it”. Io la amo e rimango!

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I Potenti del Kumba Mela a Ujjain F. Pizzi, Aprile 2004

Prima di raccontare la mia recente esperienza al Kumbh Mela di Ujjain, mi sembra doverosa una brevissima introduzione circa il suo significato. Il kumbh [vaso] mela [festival, festa] trae la sua origine dalla mitologia induista; si rifà all'episodio in cui dèi e demoni si allearono momentaneamente nel tentativo di estrarre il nettare dell’immortalità dall'oceano, zangolando le sue acque. Quando Dhanwantari, un avatar di Vishnu, uscì dall’oceano con un vaso di amrita, fu necessario trovare qualcuno che distribuisse il prezioso nettare; per questo Vishnu assunse la forma di una bellissima donna e con un piccolo trucco diede ai demoni il “varuni”- una sorta di liquore- e agli dèi il vero nettare dell’immortalità. Ma i demoni non cascarono nell’imbroglio e cercarono di strapparle il vaso. Durante la lotta alcune gocce di nettare caddero sulla terra e nella confusione il figlio di Indra, Jayant, si impossessò del vaso e corse via. Egli sostò in quattro differenti luoghi dell’India per riposarsi. Ogni qualvolta si fermava beveva il nettare e nel posare il vaso per terra alcune gocce caddero al suolo. Queste

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gocce diedero origine ai quattro luoghi sacri dove ancora oggi viene celebrato il Kumbh Mela: Haridwar, Allahabad, Nasik e Ujjain. Quest’anno è la volta di Ujjain a ospitare la grande festa; nel primo giorno di luna piena, il 5 aprile, -una delle cinque date sacre per il bagno nel fiume-, il mio gruppo e io ci siamo uniti alle 200.000 persone sul Rama ghat che scende verso il fiume Kshipra. Il fiume era in secca qualche mese fa, ma per dare la possibilità ai sadhu e ai pellegrini di fare il loro bagno sacro le autorità hanno deciso di dirottare il fiume e quindi l’acqua non mancava. Eravamo arrivati il giorno prima, e già l’ingresso in città con le nostre macchine era stato un avventura. Sotto un sole che regalava una temperatura di 40 gradi la polizia ci ha fermati impedendoci di proseguire verso la città. I servizi di sicurezza erano imponenti ed efficaci, 15.000 poliziotti e 10.000 uomini delle forze antisommossa, e il nostro posto di blocco comandato da un gentile ma fermo ufficiale ci ha fatto perdere un bel po’ di tempo e di sudore. Finalmente eravamo riusciti a raggiungere lo stupendo campeggio fisso, di proprietà del maharaja di Jodhpur. Servizio coloniale!

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Nel tardo pomeriggio ci siamo avventurati con un tuc-tuc locale verso il centro della città dove si svolgevano i preparativi per la festa. La prima impressione era quella di camminare in una fiera: musica, bancarelle che vendevano di tutto, e gente, tanta gente, che camminava nella nostra direzione, verso il Rama ghat. Il vialone sul lato destro era cosparso di campi tendati che ospitavano sadhu di varie sette, ognuna con il suo spazio, vale a dire: una tenda e un fuoco. Tutti fumavano grandi cylum; l’odore di hashish aleggiava nei campeggi. Qualcuno mi indicò una tenda; entrai e vidi un famoso santone che sta sempre su una gamba mentre appoggia l’altra su una corda che pende da una struttura di legno. Gli chiesi di fotografarlo e mi sorrise per dimostrare il suo consenso. Clik. Ho trovato poca sacralità e molta voglia di apparire fra questi sadhu vestiti in arancione, ma mi ripresi dal mio senso di delusione nonappena scorsi , seduto per conto suo, un sadhu della setta degli Aghori, con una tradizione di alcuni millenni alle spalle. I loro posti preferiti sono i luoghi di cremazione; si adornano con ossa umane e si rotolano nelle ceneri dei morti; mangiano carne, - al contrario dei sadhu

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precedentemente visti che sono strettamente vegetariani -, si cibano di carne umana e di escrementi e sono convinti che andando contro le regole sociali dimostrano equanimità verso ogni cosa, in un mondo dove non esiste nè puro nè impuro, nè buono nè cattivo. Me lo fece notare la guida. Lui stava li, immobile; non sembrava curarsi molto di quello che gli succedeva intorno, anche se minacciò con il suo bastone noi invadenti occidentali che provavamo a fotografarlo. Ripresa la nostra camminata in discesa, la strada si faceva più stretta, i campi organizzati lasciavano il posto a semplici tende o rifugi a ridosso di muri e case. Stavamo entrando nel territorio dei Naga Baba. I Naga, l’attrazione della festa per gli occidentali, appartengono a una setta shivaita e sono conosciuti come persone molto combattive; infatti il loro gruppo è organizzato in una sorta di reggimento. Qui si percepiva qualcosa di diverso dai campi visitati prima. Un clima di austerità circondava questi eremiti nudi, coperti di cenere, quasi spettrali; i loro unici beni erano un tridente e la pelle sulla quale sedevano. Davanti a noi trovammo la figura tipica dell’antico asceta induista Quando mi avvicinai per fotografarne

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uno i suoi occhi arrossati fissavano dritti i miei; non si capiva bene se era un "si", un "no", o un “chi se ne frega”. Non un sorriso, ma il viso sereno li distingueva dagli altri molto più giocherelloni. Nella tenda una figura magrissima sedeva in meditazione, nuda e bianca a causa delle ceneri; mi richiamò alla mente gli asceti tibetani e indiani che sono stati oggetto dei miei studi. Il Naga baba mi chiamò vicino a lui; dopo che lo ebbi fotografato mi disse qualcosa guardando la mia povera e rumorosa macchina fotografica. Non capii ma ero intimorito dalla sua serietà; per un attimo pensai che voleva sfasciarla; poi si appoggiò al muro e perse ogni interesse per me. Era in un’altro luogo. In un Kumbh Mela precedente c'erano stati disordini e morti a causa della ricerca di priorità per fare il bagno sacro. La disputa era fra i Naga e i Sadhu di altre sette: si azzuffarono e morirono in onore dell’idea della pace. Questa volta la suddivisione era severa; su una sponda i Naga, che avevano la precedenza, sull’altra, dove eravamo anche noi, gli altri sadhu. Arrivammo sui ghat alle sei del mattino, il momento in cui i Naga stavano cominciando la loro discesa verso il Rama ghat. Non li vedevamo bene, erano lontani. Poi mi

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venne un’idea... Tirai fuori la press-card e la polizia ci dette il permesso di andare dove nessun’altro poteva avvicinarsi. Eravamo in otto, con una sola press-card! La scalinata di fronte a noi era affollata di Naga, l’acqua era zeppa di corpi nudi che ballavano, saltavano, giocavano. Erano felici! Le figure austere del pomeriggio prima per un attimo erano sparite, ora erano bambini gioiosi che si divertivano e vivevano un momento particolarmente sacro. Ma durò poco. Subito si ritirarono in buon ordine. La polizia non permetteva assembramenti e soste prolungate nell’acqua sacra. Stavamo per andare via quando sul ghat udimmo un vociare felice, e vedemmo un corri-corri. Stava arrivando il primo di una lunga lista di “potenti” sadhu! Una carozza argentata trasportava un santone veneratissimo, che indossava degli occhiali. Appena scese, chi poteva gli si avvicinava per toccargli i piedi, per offrire corone di fiori intorno al suo collo. Lui si avviò maestosamente verso il fiume con il suo seguito, si bagnò, e mentre ritornava un’altra processione era in arrivo. Questa volta scendeva verso il ghat un sadhu vecchio, con il volto sorridente, sorretto da alcuni discepoli. Aveva 151 anni. Cosi mi fu detto...

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L’altoparlante annunciava ogni Sadhu in arrivo con il nome proprio. Era l’apoteosi: chi arrivava con elefanti, chi su camion riccamente addobbati, chi su macchine in mezzo a una folla che solo l’India può produrre. Noi eravamo li, in mezzo ai colori, alla gioia dei partecipanti, ai fiori; non sapevamo più cosa guardare e cosa no: era tutto degno di attenzione, meraviglia, affascinato stupore di cosa può succedere in un festival religioso indiano. La differenza con l’altra sponda era notevole; mentre i Naga arrivavano a piedi, nudi e senza alcun mezzo di trasporto, da questa parte vi era uno sfoggio di ricchezza o almeno agio, vi erano sadhu con un seguito di molti discepoli, e bastoni in argento battevano il selciato per fare strada ai “potenti del Kumbh Mela”. Alle dieci, con 38 gradi di temperatura, decidemmo di ritornare al campeggio, a bere una coca. Eravamo soddisfatti, contenti di avere avuto la possibilità di immergerci in questa folla e in un certo qual modo di essere stati protagonisti di questo eccezionale avvenimento nel paese dove tutto può succedere: “l’India”...

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Dharamshala : festeggiamenti per Diwali F. Pizzi, 2004

Oggi si festeggia il diwali. Una festa dedicata a Rama, protagonista del Ramayana; mandato in esilio per 14 anni dal padre -il re di Ayodhya- sotto pressione della matrigna -la regina Kaikeyi-, Rama ritorna a occupare il suo legittimo trono, dopo le vicissitudini per salvare la sposa Sita rapita dal demone Ravana che l'aveva condotta a Ceylon. Quando finalmente rientra ad Ayodhya, la popolazione lo aspetta giubilante, e tutta la città risplende di luci. Qui a Dharamsala sono due giorni che si prepara la festa; ieri, davanti al municipio, erano allineate bancarelle che vendevano fuochi d’artificio -costosi per essere in India! E nella via centrale del bazar altre bancarelle vendevano candele. Due aspetti della "festa della luce". Stamane, andando a spasso con Jampa, nei villaggi che attraversavamo si notava un’ attività fervida, semplice e bella, conforme alla natura che circonda questa valle: ognuno raccoglieva fiori di tagete e componeva belle corone arancioni e gialle per adornare le porte e le

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finestre della propria dimora. Nell'aria svolazzava allegria e anticipazione per la festa. Anche io volevo festeggiare... e vidi che il signore con i capelli rossi, tinti con l’hennè, proprietario di una botteguccia come tante altre che vendono tutte le stesse cose, aveva i “botti”. Ho comperato botti e bastoncini di stelle filanti, felice al pensiero che stasera potevo partecipare alla gioia della popolazione locale. Verso le 18.00 è iniziato il festeggiamento vero e proprio; con tanti “botti”, una sorta di bombardamento che una volta consideravo noioso, assordante e privo di significato. Esco in giardino con Jampa, che innervosito abbaia contro ogni fuoco che schizza nel cielo prima di esplodere in variegati colori, e mi soffermo a guardare lo spettacolo. Rientro a prendere il mio piccolo arsenale, esco nuovamente, e con Kristin e i servitori della casa accendiamo le nostre girandole e i fuochi che invece di esplodere formano cascate di luce, tra le risate di tutti e gli abbai di Jampa che non capisce questo passatempo umano. Ma non è finito! I rumori dei petardi aumentano con il passar del tempo e così, dopo cena, saliamo sul tetto della casa a goderci lo spettacolo. Davvero bello! Nella valle sottostante, verso la catena del Dhauladar e

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dietro di noi, dovunque decine e decine di fuochi d’artificio s’intrecciano, esplodono, illuminano il cielo con piogge di stelline colorate. Naturalmente nell’anarchia più completa, perché ognuno spara cosa vuole, dove vuole, e nella direzione che vuole. Eh già, qui non esiste la rigidità municipale delle nostre città dove i fuochi d’artificio sono regolamentati. Qui ognuno fa cosa vuole! Il generale in pensione che abita nella casa vicino alla mia è quello che ha offerto lo spettacolo più bello e più costoso. Fuochi che salivano alti nel cielo per trasformarsi in fiori di luce, uno dopo l’altro in rapida successione; e noi a gridare : “Sei grande, generale!”. Da una casa poco distante si elevavano fuochi più poveri, tipo bengala, ma anche essi belli perché dal nostro tetto vedevamo la felicità di chi li accendeva e trepidante aspettava il risultato. L’aria si faceva sempre più satura di polvere pirica, gli occhi incominciavano a bruciare anche stando in casa...botti ininterrotti e soltanto verso la mezzanotte il rumore è andato diminuendo, per terminare completamente verso l’una. Questo succedeva in Dharamshala, ma sicuramente in tutta l’India ci sarà stata la stessa “esplosione” di gioia. Su uno dei quotidiani indiani leggevo di un signore di

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Bangalore che dichiarava di aver speso un lakh di rupie per i fuochi; su un’altro veniva riportata la notizia della vendita della bomba “Osama” e la bomba “Bush” che venivano vendute a più di 1000 rupie. Sembra che la bomba “Osama” era in netta vincita nelle vendite; e così migliaia e migliaia di rupie sono volate nel cielo per ricadere sotto forma di stelle e di fiori sui 460 milioni di indiani che vivono al di sotto del livello di povertà...

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Feste invernali in Ladakh K. Blancke , 2005

L'anno scorso sono stata invitata a guidare un gruppo di turisti per assistere ai festival invernali in Ladakh. Era fine febbraio, periodo delle feste annuali nei monasteri di Stok e Mathro, famosi per i loro oracoli. “Chissà che freddo!”, mi dicevo. Devo proprio farlo? Ma dài, fatti coraggio, ti metterai vestiti caldi, e vai… Avevo gia fatto questo viaggio alcuni anni prima. Ma allora ero con mio marito, mi sentivo più forte e più sicura. Eccoci in aereo, sorvolando l'Himalaya innevata, in una splendida giornata di sole. I primi 'Jule' non appena atterriamo a Leh. Fa sempre piacere ritrovare gli amici Ladakhi già dall'aeroporto....Wangchuk e Lobsang sono ad attenderci per portarci in albergo. Hoi, ora ci sono stanze con riscaldamento centrale! Grande miglioramento dalle stufe a kerosene della volta precedente. Come sempre invito i clienti ad andarsi a riposare, per acclimatarsi all'altitudine; ci vediamo nel

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pomeriggio, per una breve passeggiata a Samkar Gompa. Fa freddo, ma non troppo. Le strade sono libere, le macchine circolano normalmente. Dal piazzale sotto lo Shanti Stupa vediamo la prima panoramica della valle. Cielo terso, di un azzurro che si trova solo a queste altitudini. Montagne incappucciate di neve. E grandi spazi. La catena dello Stok davanti a noi, il Kardung-La e la via verso la valle di Nubra dietro, il Tsemo-La con le sue bandierine, gli stupa lungo il percorso: tutto al suo posto. I campi coperti di neve, i ruscelletti secchi, alberi nudi, gente sorridente, come sempre. Pochi turisti: saremo in tutto una quarantina di stranieri, e altrettanti turisti indiani. I negozi per turisti sono chiusi, mancano all'appello i venditori kashmiri e tibetani. Insomma: il Ladakh dei ladakhi e dell'esercito indiano, ovviamente. Anche in inverno le donnine vendono verdure lungo la strada; ma la scelta è ridotta: cavoli, patate, qualche radice. Però negli ultimi anni vengono portate provviste via aereo. Adesso frutta e carne sono disponibili anche in inverno. Dopo un primo giro di riconoscimento della città torniamo a rintanarci in albergo, con le faccie arrossate per il freddo. E intorno all'aperitivo - il solito

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rum con succo d'ananas- preparo i clienti per domani, il festival di Stok. Partiamo in jeep. C'è molto traffico, tanti pulmini si dirigono a Stok, stracarichi di persone. Il monastero si trova a un chilometro circa al di sopra del palazzo reale, circondato da bianche montagne. Quanta gente... persone anziane, uomini e donne con i cappellini con le punte girate insù, il rosario in mano, il viso raggrinzito, gli occhi coperti di cataratta; facce forti ma bonarie. Bimbi con le guance paffutelle, l'immancabile moccolo al naso, nastrini rossi nei capelli. Giovani anche, ragazzi in jeans e giubotto di pelle, ragazze con il salwar kameez indiano e sciarpe coloratissime. Siamo stipati gli uni sugli altri, in attesa dell'inizio delle danze rituali. Noto che i costumi dei danzatori sono nuovi splendenti, il chè da un tocco di ricchezza allo spettacolo. Non vi descrivo le danze, sono simili ai chams visti anche in estate, in vari monasteri. Si susseguono a ritmo spedito, e in un battibaleno sono passate due ore! Tempo per la pausa-pranzo; ci dirigiamo sul tetto di una casa vicina, dove il nostro staff ha preparato il pranzo caldo che consumiamo seduti al sole, in mezzo allo spettacolo magnifico di queste montagne. Ma non fermiamoci

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tanto, che già c'invitano le trombe! E non vogliamo mancare all'arrivo degli oracoli. La loro apparizione è spettacolare: sono in due, vestiti di bianco, uno con una parrucca rossa in testa, l'altro nera, scalzi, con un'enorme spada in mano. Corrono avanti e indietro, entrano nelle varie sale del tempio, ri-escono tenendosi in equilibrio lungo i cornicioni stretti del tetto del monastero. Ogni tanto si fermano, aguzzano la lama della spada sui corniccioni e la passano sulla lingua e sulle braccia, il tutto accompagnato da urla e grida, mentre un brivido di paura corre tra i presenti. Si dice infatti che l'oracolo si taglia quando è offeso dagli astanti, dai monaci o dai musicisti. Qualche devoto li ferma per porgli una domanda, gli lega una sciarpa bianca addosso in segno di rispetto, e l'oracolo proclama la sua risposta ad alta voce; poi riprende la corsa. Quando arriva vicino alla gente passa la spada sopra alle teste chinate in segno di benedizione. Questa corsa dura più o meno un'ora, poi i due oracoli entrano in una stanza ed escono dalla trance. Lo stato d'animo della folla è festoso e allegro, e soddisfatti da questa prima giornata tutti tornano a casa. L'indomani ci ritroviamo allo stesso posto. Non ci sono danze; gli oracoli hanno fatto il giro del villaggio, a

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benedire case e persone e a fare profezie; fanno una breve apparizione al monastero, poi ripartono a benedire il palazzo reale di Stok. Nel frattempo lo spettacolo si sposta in una specie di anfiteatro naturale, un grande spiazzo fuori dal monastero. È meraviglioso osservare tutta la gente, disposti a grappoli sulla collina, mentre al centro dello spiazzo l'astrologo prepara e consacra lo 'tsogs'. Ecco gli oracoli di ritorno.....ora sono decisamente allegri; tagliano lo tsogs a pezzi e lanciano generose porzioni tra la gente, con altre grida e profezie. Dopo un ulteriore breve discorso di buon augurio rientrano nel monastero dove escono dalla trance. E noi andiamo a mangiare, nella stessa casa di ieri. Poi torniamo nello spiazzo. Ora lo scenario è cambiato: arriva una processione di monaci, con i cappelli gialli delle cerimonie, e tutti gli strumenti musicali rituali. Al centro dello spiazzo è stata preparata una catasta di legna, e sopra viene posata la torma. I monaci si dispongono intorno, in semicerchio, e fanno una puja del fuoco per bruciare tutti gli ostacoli e le interferenze. Mentre eseguono i canti e le preghiere viene acceso un enorme falò, e la torma viene bruciata. Tutta la gente assiste con gioia allo svolgimento di questo spettacolo grandioso, un po’ impazienti per l'atto

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finale: quando le musiche finiscono e tacciono i canti , quando la torma è bruciata, ecco che arrivano i ragazzini e una pioggia selvaggia di sassi viene lanciata nel fuoco, affinchè anche l'ultimo demone rimasto non possa sfuggire... Tutti a casa, ora! Con ancora l'allegria nel cuore, scendiamo a piedi per un tratto; il silenzio della montagna, il vento che ci accarezza il viso: quale contrasto con il trambusto della festa appena lasciata.... È piaciuto a tutti, lo spettacolo. A cena se ne discute allegramente, e diventa un occasione per spiegare alcuni aspetti del buddhismo tibetano. Adesso ci aspettano tre giorni d'intermezzo. Andiamo a visitare alcuni monasteri fuori Leh: Alci, Lamayuru, Likir. Con due notti in guest-house riscaldata da stufe a legna. Ma la semplice forza di questa natura maestosa e dei suoi devoti abitanti ci dà una carica talmente forte che questi piccoli inconvenienti vengono facilmente superati.

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Fuga d' amore nella valle di Nubra F. Pizzi, 2005

Di ritorno da un tour in Ladakh, anche dopo anni che viaggio in questa magnifica regione dell’India, porto con me soltanto bei ricordi, dei paesaggi, della gente incontrata, di tutto ... A giugno abbiamo fatto un breve viaggio in occasione del festival di Hemis, notoriamente molto turistico. Gli spettatori erano quasi tutti occidentali. Tanti! I ladakhi forse avranno preferito andarci in un giorno di minore affluenza turistica. Qualche disappunto per la mancanza di folklore locale è stato comunque ricompensato dai bei costumi dei monaci che eseguivano le danze e da un magnifico, caldo, sole. Il giorno successivo eravamo pronti dal mattino presto per un' escursione di due giorni nella valle di Nubra - ma siamo stati fermati a causa di una love-story ... A Leh ero stato avvertito di un problema nella valle creato da una storia d’amore, ma avevo deciso di tentare lo stesso. La mia guida non mi aveva ancora spiegato il cuore del problema; aveva fatto un vago

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accenno a una vedova e a un musulmano. Mah, chissà? La strada che conduce a Nubra è una strada militare (si valica un passo di 5330 metri, per giungere in una valle che arriva al ghiacciao del Siachen, dove da anni, a più di 5000 metri, si affrontano l’esercito indiano e quello pakistano ) ed è quindi mantenuta dall’esercito. Arrivati al primo posto di blocco i militari ci dicono: “Si, ci sono dei problemucci, ma tentate ugualmente.” E così facciamo. Una donna ha tre bambini. Muore il marito, un funzionario dell’esercito, e il governo decide di donarle 3 lakhs di rupie [circa 6.000 euro]. Pochi giorni prima del nostro arrivo la vedova fa una fuga d’amore con un musulmano; i due scappano a Srinagar, abbandonando i figlioletti. La gente del villaggio si ribella e, siccome la popolazione indiana è molto sensibile ai problemi di cuore, gli altri villaggi si uniscono alla ribellione: alla polizia viene chiesto di riportare la donna a casa. Ma sembra che le forze dell’ordine, indaffarate con problemi più seri, trascurino il caso. I rivoltosi sono preoccupati per il risvolto economico della faccenda: se la donna scappa, a chi vanno tutti quei soldi, chi li gestice?

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Quest’anno c'era tanta, tanta neve: ai bordi della strada alti muri di neve fungevano da guardia-rail. Superiamo il colle e scendiamo dall’altro versante in una stupenda valle. Arrivati al villaggio di Khalsar, ci fermiamo al posto di blocco. Un rapido sguardo intorno mi fa temere il peggio. Tante macchine ferme e turisti che passeggiano fra i campi e l’unica strada del villaggio -a dire la verità un po’ squallido. I poliziotti di guardia m'informano che dobbiamo aspettare un paio di ore per sapere com’è la situazione più avanti sulla strada. Finalmente la mia guida si decide a spiegare cosa sta succedendo. Ecco la decisione presa sul filo delle emozioni: si creano blocchi stradali e si minaccia di tirare pietre contro tutte le macchine che osano passare. Indipendentemente dall'impressione negativa che una tale azione potrà lasciare ai visitatori stranieri, le macchine dei turisti vengono incluse nel divieto. Dopo qualche ora di attesa un funzionario della polizia ritorna dal fronte e ci dice che i rivoltosi sono proprio decisi. E quindi noi torniamo a Leh (6 ore in macchina....). Ritentiamo dopo alcuni giorni, questa volta con successo. Il punto interrogativo della gestione dei soldi nel frattempo è stato risolto, e con questo anche il problema della strada chiusa.

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Il Ladakh rimane sempre affascinante! Nel secondo tentativo l’escursione a Hundar è stata piacevolmente movimentata dai cammelli bactriani. Nubra era stata per secoli una delle principali ramificazioni della via della seta seguita dalle carovane provenienti dal Rajasthan e dirette verso il Pakistan o il Tibet. Durante l’ultima guerra con il Pakistan i carovanieri si sono visti costretti ad abbandonare i loro cammelli e fuggire altrove. Il tempo passò, la guerra finì e i cammelli oramai abituati alla valle si moltiplicarono e vissero tranquillamente fra le dune e la savana di Hundar. Naturalmente alcuni locali hanno pensato ad uno sfruttamento economico dei cammelli. Al nostro arrivo non si vede un cammello in giro; la nostra guida si addentra un attimino in una macchia di verde ed esce con due locali che ne portano due . Alcuni clienti fanno un giretto fra le dune a dorso di cammello, altri scattano fotografie. Le foto non costano nulla, il piccolo safari costa un filino. Ma è stata una bella esperienza per tutti noi incontrare queste bestie simpatiche ma un po’ imprevedibili fra le dune di Hundar.

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È stupefacente pensare come in India un’intera valle venga chiusa per una storia d’amore, e le forze dell’ordine non si prendono la cura di intervenire in alcun modo.

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Kerala, "God's own country"- la terra di Dio una breve vacanza "benessere" al mare, con

massaggi ayurvedici F. Pizzi, 2004

Prima di atterrare all’aeroporto di Trivandrum il pilota aveva annunciato una temperatura di 34 gradi, e quando scendo, ancora vestito da Dharamsala 1350 m, mi sembra di entrare in un forno. Ma sono già troppo impegnato a guardare le palme che circondano l’aeroporto e a sentire il profumo della salsedine. L’albergo non è molto distante dall’aeroporto; un albergo moderno e bello. La mia camera è a 50 m dal mare e la stanza, situata poco distante dalla piscina, dà su una verandina coperta da un bel porticato stile coloniale; i prati del grande parco che circonda il complesso sono tenuti in maniera sorprendentemente ordinata per essere in India. Mi siedo sulla veranda e ascolto il rumore o meglio il frastuono delle onde gigantesche dell’oceano. Sono 26 anni che manco da Kovalam. Il mio programma di vacanza è molto semplice: colazione, spiaggia, un paio di ore al giorno dedicate ai massaggi ayurvedici, cena con rum finale.

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I massaggi sono stati prenotati presso un resort ayurvedico di proprietà del dottor Franklin, nome che mi ha fatto venire in mente le idee più balzane su questo signore probabilmente cristiano. Il giorno dopo il mio arrivo usufruisco di un servizio di trasporto in macchina messo a disposizione dalla clinica. Mi ritrovo in un bellissimo ambiente. Estremamente pulito, funzionale, e con tante, tante piante e verde tutto intorno. La prassi vuole che conosca il dott. Franklin, nel suo studio piccolo ma curato fin nei dettagli. Presentazioni. Mi spiega che viene spesso in Italia per convegni ayurvedici. La mia prenotazione prevede una settimana di “Panchakarma”. Dopo la consueta visita e obbligatoria spiegazione di che cos’è la medicina ayurvedica, chiedo al dottore in cosa consiste questo “Panchakarma”. Mi spiega che si tratta di una cura di purificazione a base di erbe, clisteri e altri trattamenti, con il fine di purificare tutto il corpo. Perplessità... La nota anche lui e mi dice che forse è meglio che faccia una settimana di ringiovanimento. E mi spiega tutto il programma. Questo mi piace. Mi saluta e mi affida nelle mani di un giovane massaggiatore che dice di chiamarsi Gigi, molto gentile e

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molto preparato; mi invita a spogliarmi. Rimango in mutandine. "Anche quelle", mi dice, e nota la mia reticenza; ubbidisco. Mi fa accomodare su uno sgabello e comincia ad ungermi i capelli con olio di cocco, poi massaggia le braccia e velocemente anche la schiena. Mi fa sdraiare su un lettino, e noto la pulizia dell’ambiente... strano in India! Mentre mi massaggia la parte posteriore del corpo vedo sulla destra una corda che pende da una trave del soffitto. La stanza non ha un tetto vero e proprio, ma si trova sotto una sorta di cupola fatta con foglie di palma, divisa da altri vani simili da pareti. Dunque guardo questa corda e il materasso sotto di essa e comincio a pensare al nome Franklin e a torture di vario genere. Finita la parte posteriore Gigi mi fa voltare e comincia con l’altra parte del corpo; oramai sono unto e bisunto, e rimarrò in questo stato per tutta la settimana. Sopra di me vi è una specie di tenda della stessa lunghezza e larghezza del lettino e capisco il motivo guardando in alto. Li abita una coppia di corvi che non si preoccupano dove fanno i loro bisogni; la tenda è un riparo da eventuali docce non volute. Gigi termina il suo primo intervento con un massaggio al viso e alle orecchie.

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Mi fa scendere e mi fa cenno di sdraiarmi sul materassino sotto la corda; ubbidisco silenziosamente. Sono disteso sulla pancia e lui si attacca alla corda, che ha vari nodi a differenti altezze, e dopo avermi chiesto se la pressione va bene comincia a massaggiarmi con i piedi. Prima la parte destra, poi la sinistra, in seguito il davanti. È velocissimo e leggerissimo, talmente abile che sembra mi stia massaggiando con le mani. La prima parte del trattamento, che si ripeterà per sette giorni, è finita. Sono tutto olio di cocco. Gigi mi mette addosso un camicione verde e pulito e mi fa passare nell’altra camera consegnandomi nelle mani di due graziose e gentili signore. Anche questa stanza è pulita come la prima. Su un lato vi è un magnifico tavolo di legno antico e sopra di esso è sospeso un contenitore di terracotta con un beccuccio dal quale gocciolerà olio tiepido. Il massaggio si chiama “dhara”, è magnifico. Una delle signore spegne la luce e parla sottovoce con la sua collega, poi applica una sorta di benda sulla parte inferiore della fronte per non far gocciolare l’olio sul viso e comincia dolcemente a far dondolare il contenitore, da una tempia all’altra, facendolo passare sopra la fronte. Vi giuro che nel giro

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di cinque minuti dormite. Il massaggio dhara dura 20 minuti. Infine mi salutano gentilmente, io con i miei capelli unti e il corpo completamente oleoso. Due giorni dopo il massaggio di Gigi rimane lo stesso ma cambia la seconda sessione. Oggi ho l’oil bath “pizhichil”. Gentilmente vengo passato dalle mani di Gigi in quelle delle due signore, e anche queste mi dicono che devo stare nudo. Sono imbarazzato! Mi fanno sdraiare sul solito tavolo e mi versano addosso litri di olio di cocco tiepido. Massaggiano tutto il corpo, portano via l’olio e ne versano dell’altro. Il difficile viene quando mi dicono di girarmi. Sono sul tavolo, totalmente unto, con il corpo tutto oleoso; quindi voltarmi diventa un’impresa notevole. Scivolo in giù ma le signore mi afferrano prontamente, cerco di girarmi ma non riesco a fare un movimento e se non fosse per l’aiuto delle signore mi ritroverei per terra. Due giorno dopo è la volta del “gnavarakizhi”. Ancora vengo fatto sdraiare sul bel lettino e le signore mi si presentano con una sorta di fagottino di stoffa

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contenente del riso bollito e una mistura di erbe, il tutto tiepido. Sistemate da un lato e dall’altro del mio corpo, le due signore mi palpettano dalla testa ai piedi con questo impiastro, e appena raffreddatosi il primo, una terza fanciulla è pronta a passare altri due fagotti tiepidi. Non sono scivoloso come il giorno prima ma l’amido mi rende i movimenti difficili. Alla fine di questo trattamento, come anche del “pizhichil”, puliscono il corpo con foglie di palma asportando via tutto ciò che è rimasto di superfluo. Ultimo giorno. Solito massaggio di Gigi ed entrata delle due signore. Oggi è il turno di una maschera sul viso e sul corpo. Il viso viene cosparso con un impiastro di banana, papaia e altre erbe, il corpo con argilla e polvere di sandalo. Vengo lasciato li per 20 minuti e poi è il momento della sauna. Immagino un tipo di locale conosciuto, e invece no. Mi trovo in una stanzetta con un cubo abbastanza grande da poter contenere un corpo. Le pareti laterali sono di vetro, dentro vi è uno sgabello girevole per poter regolare l’altezza in modo che la testa possa uscire e essere tenuta ferma fra due tavole. Immettono del vapore caldo informandosi se la

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temperatura è piacevole, e mi lasciano a sudare per 20 minuti. Finito! Prima di uscire incontro di nuovo il dottor Franklin che si informa come è andata la settimana. Gli spiego che vengo da un India dove difficilmente si trova tanta pulizia e organizzazione, il chè mi ha lasciato piacevolmente sorpreso, come sono anche piacevolmente sorpreso della perfetta organizzazione e della preparazione tecnica, la cortesia e la discrezione del personale. Mi porta a visitare i bungalow del suo centro, anche questi eccezionalmente puliti e belli, con giardini intorno, ma manca qualcosa...la spiaggia. Franklin, vecchio volpone, mi capisce e mi dice che la spiaggia è distante solo 10 minuti e che una macchina della clinica ti ci porta quando vuoi e ti viene a prendere quando lo desideri! Passo il pomeriggio sulla spiaggia riservata per i turisti. Non per un atteggiamento di “neo-colonialismo”, ma gli indiani hanno l’abitudine di usare la spiaggia come toilette e quindi per evitare di inciamparsi in depositi indesiderati ci vogliono le spiagge private. La mia è

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gestita da Khan, un simpatico musulmano che ha lavorato in un ristorante in Italia e se la cava molto bene con la nostra lingua. Affitta sdraio e ombrellone per 200 rupie al giorno e ti porta tutto quello che vuoi da bere o da mangiare. Il mare non permette di nuotare: l’oceano sembra sempre adirato e cavalloni simili a muri d’acqua si rovesciano continuamente sulla spiaggia; non rimane che giocare tuffandosi e facendosi trascinare sul bagnasciuga. Ricordo una delle prime immagini della spiaggia di Kovalam: 26 anni fa, 5 cadaveri di persone annegate per poca cautela giacevano sulla spiaggia... Su una collinetta a ridosso della spiaggia vi sono due ristorantini molto semplici e belli: il Lobster e il Saljemini. Sono puliti, con i tavolini coperti con tovaglie a quadretti bianchi e rossi, e la sera sono illuminati da candele in contenitori di vetro per ripararle dal vento. Passo li ogni sera, a mangiare gamberoni e aragoste, a bere birra e rum, e a guardare i cavalloni che non hanno nessuna intenzione di calmarsi. Anche se semplici i ristorantini sono costosini per lo standard indiano: un Kg di gamberoni alla griglia 1000 rupie, l’equivalente di 20 euro.

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È arrivato il giorno della partenza, mi guardo intorno; davanti, onde sulla spiaggia, e un muro di palme di cocco alle spalle. Me ne vado rilassato e felice e dall’aereo guardo ancora in giù; vedendo il mare pulito, le distese di cocco, ricordando la gentilezza della gente del sud si fa strada in me l’idea di venire a vivere in questo paradiso.

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Arunachal Pradesh e Nagaland Il Tirap, il paese di bambù...

F. Pizzi, 2008

Per accedere all’ Arunachal Pradesh, un magnifico stato nell’estremo est dell’India anche se lacerato dalla guerra civile, il mezzo più comodo è l’aereo per Dibrugarh [Assam], una città polverosa, affollata e calda I pochi chilometri di strada asfaltata vengono divorati dall’auto che si ferma poco dopo al “tempio delle campane” dedicato al dio Shiva: i devoti che hanno avuto un desiderio esaudito offrono campane al dio. Sono tante e di tutte le misure; ciondolano dagli alberi, sono appese ai muri, sono un po’ dovunque. In Assam il sole tramonta presto come presto sorge; la gente torna a casa dopo un giornata di lavoro nei campi, con ceste di bambù piene di ortaggi. Poi l’asfalto finisce, e si entra nell’Arunachal Pradesh. Il cambiamento del fondo stradale non passa inosservato. Il viaggio diventa sempre più disagiato; buche e salite al buio verso Khonsa, dove si arriva dopo cinque ore di sofferenza. La ricompensa per le fatiche è una guest-house già

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parzialmente occupata da VIP indiani. Le poche camere rimaste (tre per l'esattezza...) sono da spartire fra eventuali altri ospiti in arrivo. I pranzi e le cene, consistenti in riso e pollo, vengono preparati in una cucina incredibilmente sporca. Riso e pollo sono le uniche voci disponibili sul menu! Le camere sono prive d’acqua; su richiesta viene portato un secchio, quando se ne ricordano. Fa freddo. Khonsa, un paesone di diecimila anime, è situato a un altezza di 792 m., ed è la porta d’ingresso per il villaggio di Tutse dove risiedono le tribù olo o tutsa, e per altri villaggi con etnie nocte e wangcho. È una zona poco visitata dal turismo a causa della mancanza di infrastrutture, della difficoltà per ottenere i permessi e soprattutto perché la regione del Tirap [Arunachal Pradesh] è tenuta sotto stretto controllo dai militari; confina con la Birmania e il movimento naxalita è molto forte. Qui, a quanto pare, i militari hanno mano libera nelle loro azioni e non devono rendere conto neanche al governo centrale. Infatti ci si imbatte subito in un posto di blocco militare; in assetto di guerra fanno aspettare un tempo interminabile prima di alzare la sbarra: devono comunicare i dati dei turisti ad altri posti di blocco e assicurarsi che i permessi siano originali. Le

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strade, in pessime condizioni, sono orlate di foreste di bambù; aldilà del bambù, foreste che sembrano un muro verde e impenetrabile rivestono le colline. Il bambù è il materiale preferito per le costruzioni, anche perché è l’unico disponibile. Le case a palafitta hanno un pavimento di bambù intrecciato; al centro della casa si trova un focolare, per cucinare e per scaldarsi; le pareti, ovviamente in bambù, sono decorate all’esterno con teste di mithun (specie di enorme bue). Il villaggio non si può definire proprio igienicamente-sicuro ed è affollato di cagnolini che finiranno in padella. L’acqua viene erogata da una fontana al centro del paese e gli abitanti ci si recano con un contenitore in bambù per farne scorta. Colpiscono alcune piccole paraboliche sui tetti delle capanne! Non lontano dal villaggio si trova il cimitero. Le tombe, -gli abitanti sono cristiani per cui seppelliscono i loro morti-, hanno una cinta di canne che si alzano verso il cielo chiudendosi a cupola; dalle canne pendono gli oggetti del defunto -una radio, una valigia, delle bottiglie e altro-, che devono accompagnarlo nel viaggio nell'aldilà... una sfumatura di animismo integrata nel cristianesimo locale. Proseguendo, ai bordi della strada si incontrano alte torri di bambù con un ombrello in cima che indicano un

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altro tipo di tomba; il giorno del trapasso insieme alle piccole proprietà del defunto vi viene appeso un gatto o un gallo; secondo la credenza popolare l’animale, seguendo il defunto, deve portare i suoi oggetti nell’aldilà. Ecco anche la tomba di un ricco signore ucciso dai terroristi, con al fianco la sua automobile, con le ruote cementate. I nocte e i wangcho, personaggi amichevoli e ridanciani, s'incontrano facilmente mentre si recano al lavoro scalzi sul poco asfalto di queste povere strade, camminando in mezzo ai camion militari. Come abito non hanno che un perizoma; torso nudo, una cesta di bambù a tracolla, e l’immancabile dao in mano. Il dao , una sorta di macete inseparabile da ogni uomo, può avere differenti forme, e può essere abbellito con diversi ornamenti: alcuni hanno il fodero rivestito con pelli d’animale, -linci,orsi etc-, ma alle volte il fodero è solo di bambù. Il dao viene utilizzato per la difesa, per l'attacco, e anche per il taglio dell’erba. I villaggi sono tuttora governati da un re; il "palazzo reale" di Nimu è una grande casa di bambù, con vasti spazi, molte camere, il tutto senza nemmeno un piccolo mobile. La regina di Nimu appartiene all'etnia wangcho; si chiama Fenu, è piccolina e gracile; ha 39 anni ed è la

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prescelta fra le quindici mogli del re, che in totale gli hanno dato ventinove figli. Il “palazzo” del re di Ponchau non è molto differente. Il re indossa abiti moderni e siede con amici intorno al fuoco. In tutti i villaggi vi sono delle costruzioni chiamate "murun", dormitori dove una volta alloggiavano i giovani; sono disposti in posizioni strategiche in modo da potere avvistare il nemico e avvertire il villaggio. All’interno vi è un enorme tamburo ricavato da un tronco, che serviva per dare l’allarme in caso d’attacco, per richiamare al raduno per un consiglio del villaggio, o semplicemente per un rituale. In un villaggio wangcho, vicino a uno di questi murun è situata una struttura che contiene quarantasette teschi: il teschio del re nemico è posato su un piano più elevato, più in basso sono disposti i teschi dei nemici "comuni". Fino al 1970 qui esistevano ancora i tagliatori di teste! I missionari cristiani hanno costretto gli abitanti a seppellire i resti dei nemici in molti altri posti, per cui trovare testimonianze di questa usanza è difficile.

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Gli apatani Un’ora e mezza con un ferry ben organizzato e si arriva sull’altra sponda del Brahmaputra, non lontano dai villaggi delle etnie apatani, più moderni di quelli nel Tirap: un misto di case in cemento e bambù, e strade abbastanza ben tenute, anche se non asfaltate. I giovani hanno abbandonato gli abiti tradizionali, ma tra gli anziani si incontrano ancora personaggi straordinari. Le donne portano due cerchi di legno nero inseriti nelle narici come ornamento e il loro viso è tatuato come quello delle donne gallong. I cerchi inizialmente erano piccoli, e man mano si introducevano quelli più grandi, fino a provocare una sorta di spacco fra le narici. Questa usanza è stata abbandonata venti anni fa, soltanto le donne più anziane ne portano ancora i segni . Un'altra tradizione, non ancora abbandonata per il momento, è lo sciamanismo. Per esempio, finita la costruzione di una nuova casa, come buon auspicio vengono fatte offerte rituali. Si costruisce un piccolo totem di bambù, -tanto per restare nel paese del bambù-, e lo sciamano lega un gallo dalle zampe, con la testa in giù. Cantando strappa alcune penne che conficca nella parte superiore del totem e poi con disinvoltura afferra il dao e decapita il pollo, lo slega

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dalla sua posizione originaria e strofina il collo sanguinante sulla parte inferiore del totem; subito dopo taglia il pollo a metà ed estrae il fegato che consegna al padrone di casa. Sul fegato si possono trovare presagi buoni o cattivi. Subito dopo, accompagnato dalla famiglia, lo sciamano entra in casa e, intorno al solito focolare centrale, il gallo viene cucinato mentre tutti sorseggiano una bevanda alcolica ottenuta dal riso. Non soltanto nei villaggi apatani si corre verso la modernizzazione; anche nei villaggi nel Tirap descritti sopra i giovani sono quasi del tutto assenti: si sono trasferiti nelle grandi città in cerca di lavoro; i ragazzi indossano abiti moderni, e le ragazze sono disinvolte come mai lo sarebbero in nessun altro posto dell’India. Solo gli anziani siedono ancora sulla piccola veranda della casa in bambù ad intrecciare panieri o ceste con le canne, e vestono ancora gli abiti tradizionali; ancora le donne portano collane fatte con monete risalenti al 1904, l’epoca Britannica. Il Nagaland: il Hornbill festival a Kohima Il Nagaland, ancora primitivo nelle strutture e meno controllato dall’esercito, ha una popolazione oramai

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moderna. Ma esiste la possibilità di vedere le etnie nei loro costumi tradizionali durante le feste nei villaggi, e soprattutto al “Hornbill” festival dove eseguono danze in costume. Sedici maggiori tribù compongono lo stato del Nagaland, differenti nelle tradizioni e nei dialetti, ma nonostante le diversità sono tutte congiunte sotto il simbolo della piuma dell’uccello "bucero bicorno". Durante il festival le etnie si danno appuntamento in un villaggio appositamente costruito fuori Kohima, la capitale del Nagaland, -una città costruita disordinatamente sui pendii delle colline ad un altezza di 1500 m. L’organizzazione del festival è meticolosa; sono stati costruiti bagni in cemento e un’arena con una gradinata semicircolare di fronte alla tribuna dei VIP, occupata da soldati onnipresenti con mitra spianati ma sorridenti. Una sorta di piccolo villaggio viene costruito per ogni singola etnia, con una capanna caratteristica della tribù, un ristorante con piatti tipici e, naturalmente, i componenti della tribù che sotto il controllo di un maestro si esercitano nelle danze o nei giochi che in seguito eseguiranno nell’arena. Gli ospiti stranieri sono benvenuti al festival, e non c'è nessun problema per fotografare.

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Il festival si svolge con puntualità. I membri delle etnie che partecipano allo show attendono il loro turno sulla scalinata avvolti nei loro scialli di lana rossi e neri tipici del Nagaland, ancora tessuti a mano; quando entrano in campo vengono introdotti con una spiegazione particolareggiata del simbolismo della danza o della lotta o del gioco. È uno spettacolo di colori, suoni di tamburi, urla selvagge, canti e risate che si svolge in un cerchio di colline verdi, fra filari di stelle di natale gigantesche, di colore rosso o bianco. Al tramonto, finito lo spettacolo, molti componenti delle etnie tolgono i loro costumi: ri-indossano i jeans e poco dopo li si incontra nel bazar di Kohima; qualcuno comunque dorme nello stand della sua etnia.

Il Nagaland, nonostante una guerra civile in corso, strade dissestate, mancanza di elettricità, strutture alberghiere povere, è già cambiato: qui non si incontrano più i personaggi del Tirap. Quanto tempo rimane ancora al Tirap di oggi?

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Angoli d’India

Mathura-Vrindavan-Goverdhan in Uttar Pradesh Deeg e Alwar in Rajasthan

K.Blancke, 2010.

Mathura, Vrindavan e Goverdhan sono località connesse al culto del dio Krishna. La leggenda ci racconta che Krishna nacque a Mathura, passò [una spensierata?] la giovinezza allegramente con le fanciulle-pastorelle di Vrindavan fra le quali la sua preferita era Radha e sconfisse il dio Indra a Goverdhan quando quest’ultimo, per punizione, aveva fatto piovere per sette giorni accusando la popolazione di dare più importanza ai lavori piuttosto che dedicarsi ai sacrifici per il dio Indra. A quel punto, per salvare gli esseri umani e gli animali, Krishna sollevò la collina di Goverdhan sul suo mignolo, radunò i suoi protetti sotto la collina come fosse un ombrello, e aspettò finchè Indra, stanco, cedette di interferire e smise di piovere. Questi sono posti di pellegrinaggio molto venerati dai seguaci di Krishna in [di] tutto il mondo. Il culto di

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Krishna è basato principalmente sulla devozione e sul canto del nome di Krishna e di Radha, e quindi in questi luoghi si avverte un notevole fervore religioso. Mathura conta un grande numero di templi di tutte le dimensioni, in ognuno dei quali si sente cantare, dal vivo oppure da una audio-cassetta; per strada una banda musicale, quelle di solito riservate per i matrimoni, canta il nome Radhe-Radhe a suon di tamburi e tromboni. Alla sera i devoti scendono verso i ghat sullo Yamuna affollandoli per assistere alla cerimonia dell’aarti; il Vishram Ghat è quello che richiama più devoti in assoluto. Un sadhu spinge un carrettino pieno di kulfi [il gelato indiano] e per renderlo più visibile accende le lampadine intermittenti che illuminano la scritta sul suo mezzo –Radhe Radhe. La città di Mathura è disgustosa: mucche, cani randagi, scimmie e maiali lasciano in giro i loro escrementi; fogne a cielo aperto, buche nelle strade, sporcizia e polvere, e per coronare il tutto uno smog nell’aria che rende difficile respirare. Ma in mezzo a tutto questo caos c’è un via-vai di persone e l’atmosfera allegra e vivace fa dimenticare quello che c’è intorno. Mathura vanta anche un museo governativo di primo ordine, con bellissime statue buddhiste e induiste in

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arenaria ritrovate nei dintorni, molte delle quali risalenti al periodo dell’impero Kushan (1/2 secolo D.C). Ma a visitare il museo ero sola…. Vrindavan, il cui nome significa ‘boschetto di basilico’, ora è diventato una cittadina, con un bazaar, stradine strette, pavimenti sconnessi, e anche qui un grande affollamento di esseri umani e animali. Per visitare i templi più noti – tra cui il Govind Deva Temple costruito in arenaria rossa in occasione della visita di Akbar al maestro Hari Das, il guru del suo musicista Tansen – il mezzo migliore è il rickshaw a pedali, dalla cui altezza si riesce a osservare tutto senza essere importunati. Questa cittadina è molto frequentata dai seguaci occidentali di Krishna, che si vedono in giro, le ragazze vestite con il sari, i ragazzi con il dhoti e il codino dei Hare Krishna. Mi racconta la guida che questi ragazzi passano parecchio tempo a Vrindavan, vivendo negli ashram della cittadina, e la maggior parte di loro parla correntemente l’hindi. Molti si dedicano ai progetti di beneficenza dell’organizzazione Iskcon (International Society for Krishna Consciousness).Tra questi: distribuzione cibo e abiti, scuole, ospedale, piantare alberi, pulire l’ambiente, ma anche il progetto “cura per le mucche”. Il tempio Iskcon è decisamente interessante

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da visitare. É una struttura relativamente nuova e pulita, piena di gente. C’è chi canta, chi balla, chi suona gli strumenti musicali, chi pulisce gli oggetti in ottone del tempio, e chi in questa allegra atmosfera rende semplicemente omaggio a Krishna e Radha.

Vrindavan è anche nota come “la città delle vedove”. La città è piena di donne che vengono qui a concludere il loro percorso terreno, per mancanza di alternative. Ho

visto anche i “Bhajan Ashram” dove le donne si riuniscono per cantare bhajan (canti religiosi) tutto il giorno in cambio di poche rupie. Vietato fotografare…. Goverdhan è stata la sorpresa maggiore per me. Non avevo mai sentito parlare di questa località situata ad una ventina di km da Mathura. Già all’ingresso della cittadina notai un grande affollamento di pellegrini che avevano costruito alcuni campi tendati dove pernottare. Vengono qui a fare il parikrama (il percorso sacro) intorno alla collinetta sollevata da Krishna per salvare la gente dall’inondazione provocata dal dio Indra. Un percorso di più di 20 km, fatto per lo più scalzi. Si vedono intere famigliole intraprendere questo cammino purificatorio. La prima parte si svolge lungo la strada, poi ci s’inoltra nel bazaar di Goverdhan, e qui inizia il parikrama vero e proprio, in mezzo a tempietti e vasche

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sacre. Molte persone percorrono questo cammino prosternandosi. In ogni punto sacro i brahmini sono pronti a spiegare il significato di ciò che s’incontra, qualche episodio della vita di Krishna e di Radha. Verso la fine del percorso si incontra il Kusum Sarovar, un luogo incantevole, una vasca sacra con i ghat che scendono nell’acqua. La leggenda narra che Radha ci veniva a raccogliere fiori da offrire a Krishna. Nel 18imo secolo vi furono costruiti dei chhatri meravigliosi da Jawahar Singh, un Maharaja Jat di Bharatpur, in onore di suo padre, Suraj Mal. Gli stessi regnanti di Bharatpur furono i costruttori del meraviglioso “palazzo delle fontane” a Deeg, situato 20 km oltre Goverdhan. Questo palazzo, concepito come residenza estiva per i Jat di Bharatpur, aveva un sistema di fontane e corsi d’acqua sotterranei che davano refrigerio durante l’estate torrida in questa regione. I palazzi sono collegati l’uno con l’altro da viali bellissimi pieni di fontane, che vengono messe in funzione soltanto in due occasioni all’anno. Mi fu raccontato che questi regnanti di Bharatpur aggredirono i Moghul ad Agra e a Delhi e razziarono un intero palazzo che fu ridotto in pezzi, questi furono numerati e usati dopo per ricostruirlo identico a Deeg, dove divenne noto come il

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Suraj Mal. Dagli intarsi in pietra dura sulle pareti, e quelli in pietra semi-dura visti su una pedana sotto un arco nel giardino, è evidente la provvenienza di queste costruzioni…. Seguo la stessa strada, per circa 75 km, in direzione di Alwar. Cammelli per strada, casupole tipiche ricoperte con sterco di mucca, vivaci colori di sari: sono arrivata in Rajasthan. Niente più smog adesso, il cielo è tornato azzurro. La Alwar del presente è una cittadina anonima, tranquilla ma poco attraente. A dargli colore c’è la Alwar del passato. Alwar era uno degli stati Rajput, ed era eminente nel 18imo secolo, sotto il Maharaja Pratap Singh. Egli fece costruire uno splendido palazzo di città, che attualmente ospita edifici governativi. Quando arrivo ci sono ragazzini che giocano a cricket nel cortile, e per visitare il palazzo e salire ai piani superiori non incontro nessuno che mi indica la via dove andare. Dai piani superiori si gode di un panorama magnifico, con le colline degli Aravalli sullo sfondo. Il palazzo ospita un museo molto bello, con oggetti d’arte, abiti in broccato, strumenti musicali tradizionali, un’armeria, e una splendida collezione di pitture in miniatura e di manoscritti magnificamente illuminati, sia di ispirazione indù che musulmana. Fuori dal palazzo si trova un

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laghetto, è una vasca magnifica con degli scalini che portano fino in fondo. Di fianco è stato costruito il bellissimo cenotafio del Maharaja Bakthawar Singh, conosciuto con il nome “Moosi Maharani ki Chhatri” perchè una delle mogli di Bakthawar Singh, la Rani Moosi, vi commise sati immolandosi sulla pira funeraria del marito. Alwar era una città fortificata, cinta con 5 km di mura coronate con un forte situato 300 metri al di sopra della cittadina. Per arrivarci si sale su una collinetta, passando in mezzo ai boschi. Purtroppo il forte Bala Quila è in uno stato molto trasandato, anche se sono in atto lavori di restauro. Per poterlo visitare, e ciò vale veramente la pena – se non altro dal punto di vista panoramico-, si deve richiedere un permesso alla polizia locale, perchè al forte è stata installata una stazione radio-trasmittente. A circa 35 km da Alwar si trova il parco nazionale di Sariska - ufficialmente si chiama ‘Tiger Riserve”, ma non illudetevi….difficilmente si vede una tigre!- A Sariska i Maharaja di Alwar avevano costruito un ‘hunting lodge’, un bel palazzo dove si può anche soggiornare e da dove vengono gestiti i safari nel parco. E da qui si arriva nelle

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zone più conosciute del Rajasthan: Jaipur, Pushkar, Ajmer.

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Alcuni commenti sul viaggio Orissa Chhattisgarh

Kristin Blancke, 2007 Premessa: Personalmente mi sento un pochino a disagio a fare un viaggio del tipo "etnico" dove si entra nei villaggi appositamente per 'osservare' le persone diverse. Mi sembra un'intrusione maggiore rispetto alla visita di altre zone indiane, il Rajasthan per esempio, in cui s'incontrano persone e situazioni con particolari curiosi o scioccanti lungo la strada. Inoltre la fascia tribale dell'Orissa e di Chhattisgarh è un India più India degli altri luoghi normalmente visitati, e anche se vivo in questo paese da quasi vent'anni mi rattristo nel vedere persone che vivono in condizioni cosi miserabili e, soprattutto, nel constatare che nessuno si adopera perchè qualcosa possa cambiare. Tantissimi di loro sono malati, soprattutto tra i bambini. A volte non hanno nulla da mangiare, così in alcuni casi si nutrono dei noccioli di mango che sono velenosi, e ogni anno si sente di qualche morte per inedia o per avvelenamento. Si notano anche tanti abusi da parte di persone appartenenti alle classi appena appena fuori dalla struttura tribale che prendono vantaggio del fatto di

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sapersi destreggiare un tantino meglio degli sfortunati appartenenti alle etnie.

* * * Comunque il viaggio è stata una bella esperienza. Da Raipur, la capitale dello stato di Chhattisgarh, siamo andati al palazzo di Kanker - dove gli ex-reali, in questo caso giovani e simpatici, hanno adibito il loro "palazzo" (per la verità piccolino e piuttosto semplice, tenuto un pò cosi cosi) a hotel per turisti. Loro, i padroni, hanno tutti i diritti sui loro 'sudditi', e questo ci ha permesso di visitare un villaggio nel loro territorio dell'etnia 'Muria dal corno di cervo', molto autentico, e di assistere ad uno spettacolo di danze, con la possibilità di vederne anche tutti i preparativi. In seguito abbiamo visitato un mercato dove si stava svolgendo un combattimento di galletti, e un altro villaggio dei "Maria dal corno di buffalo". Era interessante vedere le etnie nei propri villaggi.

* * * Da Chhattisgarh siamo passati in Orissa. Ogni giorno un mercato diverso, un altra etnia, un altro villaggio. Il paesaggio nella zona tribale è molto affascinante, foreste con alberi enormi, risaie, colline. Avrete visto qualche foto dei Bonda e delle altre etnie; a distanza di

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poche decine di chilometri si trovano etnie completamente differenti fra di loro. Per questo il viaggio in Orissa è molto ricco: rispetto alle poche altre zone indiane dove vi sono rimaste etnie da visitare, qui se ne trovano davvero una grande varietà. E non so per quanti anni ancora resisteranno: i Dongria Kondh per esempio stanno per scomparire perchè una ditta inglese, la "Vedanta Cie", ha comperato le colline ricche di bauxite dove vivono, da sfruttare per una fabbrica di alluminio. Distruggeranno la foresta, togliendo all'etnia il suo habitat e obbligandoli a cambiare stile di vita. La popolazione delle etnie vive interamente alla giornata: ogni mattina portano un casco di banane, un pacco di foglie di sal, oppure qualche litro d'alcool di mahua ad un mercato; vendono la loro merce, molte volte prima di arrivare al mercato, ai mediatori fuori-casta che li stanno aspettando lungo la strada; quasi gli strappano via le loro poche cose. In cambio gli danno qualche soldino che finisce per essere speso prima di tornare a casa per l'acquisto di alcool! Dopo mezzogiorno sono tutti ubriachi. Uomini, donne, e bambini - danno l'alcool anche ai bambini. Non sanno leggere, non sanno scrivere, non sanno nemmeno quando sono nati nè quanti anni hanno i propri figli.

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Sono per la maggior parte animisti. Abbiamo assistito ad un rito di passaggio alla pubertà di una bambina, con un sacrificio animale eseguito da uno sciamano che entrava in trance. Via via che ci si avvicina alla strada, si nota di più l'influenza della 'civiltà'; qui molti villaggi sono stati convertiti - principalmente al cristianesimo. Abbiamo assistito alla festa di San Giuseppe in un villaggio Desia Kondh, con tanto di sacerdote arrivato per celebrare. Dopo la zona tribale si raggiunge l'aria più 'civilizzata' dell'Orissa. Usciti fuori dalla foresta, la vita cambia drasticamente: villaggi e coltivazioni di riso, pescatori, artigiani; un livello di vita simile ad altre zone indiane.

* * * Una chicca del viaggio è stata la festa al tempio di Taratarini, una delle manifestazioni della dea Parvati. La festa è una ricorrenza annuale: ogni martedì tra il 14 marzo e il 14 aprile i devoti di Taratarini si recano al tempio in cima alla collina per chiedere la benedizione alla dea. Come spesso accade in India, vi arrivano coppie che desiderano un figlio, e quando il figlio o la figlia compie il primo anno di vita la famigliola viene al tempio, e al piccolo o la piccola vengono tagliati i

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capelli, che vengono offerti alla dea come ringraziamento. C'era aria di festa, allegria. Una fiumana di gente saliva in cima alla collina, sotto il sole cocente. Arrivati sopra, una coda "a serpente" di circa mezz'ora era l'ultimo ostacolo da superare prima di ricevere il "darshan" della dea. C'erano squadre di soccorso che spruzzavano acqua sulla gente da un innaffiatoio per rinfrescarli durante l'attesa...Dopo il darshan la discesa in un pianoro dove ogni familiglia si preparava il pasto "sacrificale" con un capretto portato vivo da casa, macellato sul posto. Una volta si faceva il sacrificio animale rituale, ma ora che il rito è vietato la gente ricorre a questo espediente per mantenere viva la tradizione.

* * * L'ultima tappa del viaggio erano le cittadine ricche di cultura: i meravigliosi templi a Bhubaneshwar e a Konarak, e Puri, affascinante luogo di pellegrinaggio indù. Un viaggio senz'altro molto interessante, nonostante i lunghi trasferimenti, le alzatacce e le strade brutte...

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BHUTAN

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Il Bhutan in occasione della Festa di Paro F. Pizzi, Aprile 2005

Che bel paese, il Bhutan! Erano due anni che mancavo da questa terra con la sua natura stupenda che riserva una sorpresa naturalistica dietro a ogni curva; ma con gente un po’ strana... Prima di partire avevo letto sul Kuensel, il giornale nazionale bhutanese, che in tutto il paese è entrata in vigore la legge anti-fumo. Qualche giorno prima, in un’intervista rilasciata a giornalisti indiani, il re del Bhutan aveva ammesso di fumare, e anche molto, ma aveva dichiarato di aver imposto questo divieto per il bene delle generazioni future. Paese democratico, il Bhutan! Nella nuova normativa risulta che ogni turista può portare con sè una stecca di sigarette gratis, con il divieto di venderle nel paese. Ma... ci hanno dato una bella stangata all’arrivo! Eravamo otto persone, sette magnifiche e gentili signore e io. Su otto eravamo cinque fumatori, per cui in valigia ognuno portava le sigarette che dovevano coprire il fabbisogno per i nove giorni di permanenza in Bhutan, visto che è vietata la vendita delle sigarette. Riempiti i moduli e pagati venti dollari per il visto, due signori in abito tradizionale ,-il

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“gho”, una veste con i tipici colori bhutanesi che scende fino alle ginocchia e calzettoni che salgono fino alle ginocchia-, labbra e denti rossi per la continua masticazione di betel [famoso per i suoi effetti cancerogeni...]- si avvicinano con il viso alterato dalla cupidigia, con il sorrisetto furbo tipo: “Ora vi freghiamo!”. Sono gli ufficiali di dogana. Si avventano sulle valigie delle mie clienti e con immenso piacere tirano fuori sigarette dicendo: “Bisogna pagare ventotto dollari per ogni stecca. Non è permessa l’importazione di una sola sigaretta; nel nostro paese non si fuma.”. Mi permetto, ad alta voce, di protestare, ma fanno orecchie da mercante: incassano e danno ricevute. Questo era il nostro “welcome to Bhutan”. All’occhio, fumatori! Siamo perseguitati anche nei paesi buddhisti... Nel nostro giro la prima sosta era Paro, dove si svolgeva il festival annuale. Benchè i festival siano interessanti, per noi organizzatori diventano un incubo a causa della poca ricettività alberghiera. Infatti sembra che tutto il mondo si concentra in questo piccolo paese occupando tutte le stanze di tutti gli alberghi, e chi prima arriva meglio alloggia. Le agenzie bhutanesi, che fanno pagare una quota fissa di duecento dollari al giorno, ti danno comunque gli alberghi che vogliono, senza tener conto

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delle richieste fatte in precedenza. Avevo giurato che non ci sarei mai più andato.... L’inaugurazione del festival di Paro avviene in un posto magnifico, anche se è un po’ faticosetto arrivarci: non arrivano le macchine e bisogna camminare trenta minuti, su per un sentiero che si inerpica sotto un costone roccioso in cima al quale è arroccato lo dzong di Dzongdhaka, il cui monastero data del XIII sec. L’atmosfera è simpatica; le danze si svolgono nel cortile dello dzong, e intorno vi sono ogni sorta di bancarella, dove si vende di tutto. Gente felice sale con il suo picnic per passare la giornata sotto il sole, -una delle poche con il sole!- L'indomani andiamo ad assistere all’inizio del festival vero e proprio nello dzong di Paro. All’entrata un poliziotto obbliga i partecipanti a togliere il cappello, in segno di rispetto, nonostante il sole e il caldo feroce. Faccio notare che una signora del gruppo soffre di un malattia alla testa e non può togliere il cappellino. Risposta: “O lo toglie o se ne va.”. Lo toglie! Anche qui una folla ordinata è accucciata intorno ai lati del cortile. I buffoni, gli azzara, sorvegliano simpaticamente che non si occupi tutto lo spiazzo dove devono avvenire le danze. Lo spettacolo dura a lungo, e pochi stranieri sono in grado di resistere fino alla fine;

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dopo aver visto i primi danzatori con bellissimi abiti di broccato e ascoltato le musiche di tamburi e radung, si è soddisfatti e si va via.. Mentre gironzolo fra le bancarelle vedo una tenda verde e sorpresa ...una grande scritta invita i visitatori a procurarsi dei profilattici gratuitamente. Il Bhutan è famoso per gli dzong, imponenti fortezze-monasteri sorti nei luoghi di importanza strategica per difendersi da eventuali invasioni tibetane, tutti costruiti intorno al XVII sec dallo Shabdrung Ngawang Namghiel. In effetti sono maestosi e incutono timore; gli interni [quel poco che ti fanno visitare] danno una sensazione di calore, perché tutto è costruito in legno. Negli dzong vi sono uffici governativi/amministrativi e monasteri, quindi dentro si vedono impiegati rigorosamente in abiti tradizionali che vanno a casa a fine lavoro, qualche bella sala del monastero con affreschi stupendi, e monachelli che giocano nei cortili. Da Jakar, capoluogo del Bumthang con diversi templi e monasteri, siamo andati a visitare il piccolo villaggio di Ura. Il paesaggio è cambiato: le foreste tropicali lasciano il posto a campi verdi e ben coltivati. Il Bumthang è costituito di cinque ampie vallate costellate con le

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casette tipiche del Bhutan che ricordano gli chalet svizzeri. In genere il popolo bhutanese è cortese e sorridente, le persone sono disposte a farsi fotografare e a parlare, -quando ci si capisce-. Thimphu, la capitale del Bhutan, ci riporta verso il nostro mondo. È cambiata molto dall’ultima volta che l'ho visitata; dovunque supermercati ben forniti e discoteche. Ma il mercato settimanale del sabato è rimasto carino. Le bancarelle spesso altro non sono che un tappeto steso per terra; odore di pesce secco, noci moscate fresche utilizzate per la composizione del betel , verdure e oggetti vari per l'uso quotidiano della gente locale. A Thimphu mancano ancora i semafori, e il vigile al centro dell’unico incrocio importante danza quando avverte gli automobilisti, -pochi-, che possono proseguire o fermarsi. La natura, che varia da una vegetazione tropicale a quella presente nel freddo himalayano, è ciò che colpisce di più in questo paese. Lungo la strada centrale verso il Bumthang che poi prosegue fino al confine con l’Assam, -area in questo periodo vietata ai turisti-, è un susseguirsi di foreste lussureggianti, scimmie che vengono fino al bordo della strada quasi per far ammirare la loro bellezza, piccoli cervi che camminano

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tranquillamente al bordo della strada. E i fiori! Quanti fiori ci sono! La foresta è punteggiata di immensi rododendri in fiore; magnolie gigantesche sorgono un po’ dovunque quasi a formare un bosco nel bosco. Ogni istante c’è qualcosa di bello da vedere e fotografare. Per arrivare nel Bumthang si valicano tre passi fra i 3000 m e i 3400 m. Sul valico del Dochu-la sono stati eretti 108 stupa, sugli altri si gode un ottima panoramica delle montagne intorno. La sera faceva freddo ma eravamo riscaldati dalle stufe a legna sistemate nella sala da pranzo. Un peccato lasciarla, perché in camera è freddo. Puntsoling, la città di confine che non offre molto, ci aspetta con un clima umido e piovoso. Una popolazione mista fra indiani, bhutanesi e nepalesi passeggia fra le stradine non molto pulite o fa acquisti in supermercati ben riforniti. Uscendo dall’albergo si può facilemente varcare l’arco che segnala il confine fra il Bhutan e l’India. Lo faccio spesso perché in India si può telefonare a un costo meno elevato del Bhutan. Lo faccio perché rientro nel caos caldo e amichevole indiano che contrasta con il paesaggio ordinato e lindo, quasi svizzero del Bhutan. Domani varcheremo tutti insieme il confine per infilarci nella piccola casetta

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dell’immigration e per continuare il nostro viaggio sulle strade affollate con i clacson rombanti e la confusione dell’India.

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NEPAL

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Una Gita nel Mustang Inferiore F. Pizzi, 2009

E così…quest’anno niente Tibet. Per qualche strano motivo i miei clienti e io, mentre eravamo a Kathmandu in attesa di volare a Lhasa, ci siamo sentiti dire di no, il permesso per il Tibet questa volta non ce lo davano... Che fare? Guardiamo la mappa del Nepal e decidiamo per il Mustang Inferiore che nessuno di noi aveva visitato: un misto di passeggiate e trasferimenti in macchina, da non stancarci troppo, a differenza del Mustang vero e proprio dove bisogna fare dieci giorni di trekking dormendo in tenda. Saliti sulle Toyota, ci troviamo a Pokhara, punto di partenza per la nostra avventura, e da qui ci spostiamo a Tatopani, portandoci in su verso il Mustang. Il Mustang, il cui nome sembra originarsi dal tibetano Mun Tan *smon thang+ che significa “pianura fertile”, originariamente apparteneva al regno di Lo ma ora fa parte del Nepal. Viene anche definito come “il Tibet fuori dai confini tibetani”, perché il piccolo regno riuscì a sfuggire alla “pacifica invasione cinese” nel ’51. Una volta famoso lungo la via del sale, ora si mantiene con

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l’allevamento di bestiame, il commercio, e, naturalmente, il turismo. Ci troviamo quindi in una regione di religione e cultura a maggioranza buddhista, e in alcune parti anche di lingua tibetana. Tatopani, un piccolo villaggio con un’unica strada pavimentata con lastre di pietra, senza macchine come un isola pedonale, è noto per le sue sorgenti di acqua calda, ma non ci siamo andati preferendo fare un gita a Narchung, un villaggetto distante un’ora di cammino. Gli abitanti –dice la guida- sono di origine mongola, un misto tra buddhisti e induisti, una comunità di 1000 famiglie di agricoltori e di orafi. Narchung si trova a un altezza di 1346 metri e l’unica via di accesso è un ponte sospeso, vertiginoso ma sicuro. L’ingresso al villaggio è contrassegnato da una costruzione in pietra assomigliante a uno stupa -come spesso si trovano nei villaggi tibetani-.. Le case fatte in pietra con tetto in ardesia non hanno nulla a che vedere con le costruzioni poco carine che si trovano nella valle di Kathmandu. Cammino fra queste stradine di pietra e sembra di essere in un villaggio di baite sulle nostre montagne; c’è poca gente –molti sono nei campi a lavorare- e gli incontri si limitano a tre bambini sorridenti e una giovane donna che dà istruzioni al sarto seduto per terra

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con la sua macchina da cucire, a riguardo di un suo vestito. Ci dirigiamo verso Lete dove si entra ufficialmente in Mustang e continuiamo fino al villaggio di Tukuche. Ora siamo davvero entrati in un atmosfera tibetano-buddhista. Poco prima delle case troviamo un muro mani e s’intravedono già dei gompa. I gompa, come dovunque nel Mustang Inferiore, sono relativamente nuovi e quasi tutti appartenenti alla scuola Nyingmapa, con alcune eccezioni della scuola Sakya e Kagyu. All’interno sono semplici ma accoglienti. A Tukuche incontriamo l’abate che sta costruendo una statua nel cortile, e ci intratteniamo con una breve conversazione in tibetano. Mi sento a casa! A Tukuche, 600 abitanti, come in tutti gli altri villaggi, siamo ospitati in un piccolo lodge a conduzione familiare. Nella camera d’entrata noto su un muro una foto del Karmapa e al suo fianco un poster raffigurante Gesù; la proprietaria vede il mio stupore e spiega che suo marito è cristiano mentre lei è buddhista. Bene! Passeggiando per l’unica strada, in un cortiletto scopro un’antica iscrizione che racconta della visita del monaco giapponese Kawaguchi; era passato di qua sulla strada verso il Kailash e poi verso Lhasa. Ekai Kawaguchi era

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stato uno dei pochi viaggiatori che era riuscito a entrare in Tibet e restarci per tre anni senza essere scoperto all’inizio del 1900. Scrisse un libro molto interessante su questo suo viaggio, “Three years in Tibet”. Il paesaggio si fa sempre più arido; la vegetazione lussureggiante delle valli lascia il posto a vastissime vallate dominate dalle maestose catene del Nilgiri e Dhaulagiri coperte di ghiaccio; infatti la sera fa molto freddo e non c’è riscaldamento tranne il sacco a pelo. A un ora di macchina o due ore a piedi, su una strada che oramai si può definire “pista”, si trova il villaggio di Marpha, a 2650 metri, con 300 abitanti. Mi viene detto che in inverno la popolazione scende a 30 abitanti. Il freddo deve essere intenso, già lo si sente ora che siamo in ottobre, e come in altri villaggi la gente scende nelle valli più calde del Nepal, oppure vanno a fare qualche pellegrinaggio in India. Le macchine restano fuori dal villaggio e si entra passando sotto uno stupa. La strada è fatta con lastre di pietra e fiancheggiata da case in pietra e negozi, molti dei quali gestiti da tibetani. Anche qui mi ricordo dei villaggi dei nostri montanari, un ricordo che mi porterò dietro in tutti i villaggi che visiteremo. Il pomeriggio andiamo a visitare un moderno gompa Nyingmapa che ospita 50 monaci. Sopra al gompa una

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casetta sostenuta da pali di legno e aggrappata a una parete rocciosa funge da centro di ritiro e sulla montagna, alla destra, si vede un enorme stupa. Mi chiedo come hanno fatto a costruirlo lì sopra, ma guardando meglio mi accorgo che si tratta di una roccia dipinta come uno stupa. Magnifica la vista del villaggio dal tetto del gompa! Qui le case mi fanno pensare ai villaggi ladakhi. I tetti piatti -dai quali sventolano le bandierine colorate- sono coperti di grossi tronchi di alberi al posto delle pizze di escrementi di yak in Ladakh. Ma non ci sono camini...dove bruceranno la legna, e da dove uscirà il fumo? Il giorno seguente mi avvio a piedi verso Jomson, a 2743 metri. Cammino da solo attraverso una valle deserta, bellissima. Non c’è un suono, rarissimi gli automezzi. Cammino con il naso all’insù, mai stanco di guardare i ghiacciai che mi circondano. Sembra che su quei ghiacciai viva un signore... il signore del vento che ogni giorno, stufo della solitudine, verso le 11 comincia a soffiare sulle valli, e smette di farlo intorno alle 16, lasciando che il freddo scenda dalle montagne. Nonostante questo turbinare di polvere il cielo rimane blu-cartolina e non una nuvola si vede durante la nostra permanenza in Mustang. All’incirca un’ora da Jomson

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vedo sulla mia sinistra un villaggio che se ne sta tutto solo su una collinetta, Syang. Superati i soliti stupa votivi mi trovo fra le casette chiuse con lucchetti, il silenzio e il signore del vento. È deserto! Trovo soltanto una bimba in vena di sorrisi, e in un cortile, una coppia che costruisce una corda di canapa. Mi avvicino per fotografare ma sembra che non gradiscano, quindi proseguo verso il gompa –Sree Tashi Lhakhang della scuola Nyingmapa- costruito più in alto delle case. Scendo dalla parte opposta e mi dirigo verso Jomson attraversando una valle larghissima tagliata da un piccolo fiume; durante il periodo dei monsoni suppongo sarà impraticabile. Jomson è una città, con un aeroporto! Sempre a causa del signore che alle 11 comincia a soffiare gli aerei -piccoli- che collegano Pokhara e Jomson interrompono il lavoro da quell’ora. Anche qui un unica strada molto larga, con un mercatino delle verdure e tanti negozi per turisti, compreso l’immancabile German Bakery. E partiamo per Kagbeni, il penultimo villaggio della nostra gita in Mustang. Siamo a 2870 metri. Dopo la visita al gompa Samphel ling –il fiume sottostante è azzurro e scorre in una sorta di canyon, una visione magnifica- mi faccio una passeggiata nel villaggio che mi porta sotto uno

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stupa il cui soffitto è decorato con molti mandala e raffigurazioni del pantheon buddhista. Proseguendo mi trovo davanti alla statua di un personaggio in piedi che stringe un coltello nella mano destra, con il pene eretto. La guida mi dice che è il protettore dell’entrata al villaggio e che all’uscita si trova la sua compagna. Andiamo a vedere ma, purtroppo, la compagna è soltanto un ammasso di pietre. Camminando per la stradina stretta e pulita mi fermo a un negozio gestito da una ragazza tibetana. Passo un po’ di tempo a parlare con lei e mi racconta subito della visita di una cliente cinese che lei aveva trattato molto male. Infatti Kagbeni sembra essere il punto di ingresso in Nepal per i tibetani che arrivano dal vicino confine nei pressi di Drongpa, sulla strada per il lago Manosarovar: su un muro uno striscione rosso dà un caloroso benvenuto ai tibetani che vi giungono. L’indomani, attraverso un paesaggio arido e stupendo, ci avviciniamo a Muktinath. In lontananza intravediamo prima il villaggio di Jarkot che fa capolino sulla punta di una collina, e dietro di esso spunta Muktinath, circondato dal Dhaulagiri. Ci fermiamo per fotografare Jarkot e scendiamo su un declivio che finisce in un profondo burrone al fondo del quale il fiume scorre tranquillo. Mentre mi guardo

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intorno noto dei fiorellini e un profumo conosciuto. È timo-serpillo… voi direte: “e allora?”. Be’, allora niente! Per me è una piantina con tanti ricordi e ne raccolgo due buste piene. Anche questo particolare mi riporta alle Alpi dove, nella stagione giusta, andavamo a raccogliere il timo-serpillo per farne scorta per l’inverno –è considerato un ottimo rimedio contro i raffreddori-. La casa si riempiva del suo profumo mentre lo facevamo seccare al sole, sul davanzale della finestra. Finalmente arriviamo a Muktinath, un villaggio disordinato e pieno di trekkers; infatti trovare le camere è un problema notevole, ma ci riusciamo. Il nome Muktinath, o anche Muktichhetra, deriva da “Mukti”, e “nath”, e significa “il luogo della Salvezza”. Infatti è uno dei 126 luoghi di pellegrinaggio dedicati a Vishnu che ogni buon induista deve visitare almeno una volta nella vita. Si trova a 3750 metri di altezza. Il tempio dove sto andando, venerato anche dai buddhisti, è situato all’incirca 30 minuti dal “centro città”; la strada per arrivarci è costeggiata da bancarelle di proprietà di giovani donne tibetane molto allegre e con tanta voglia di vendere le loro cianfrusaglie. Mi sembra di essere tornato nel mercato di Shigatse dove con le signore –che conoscevo da anni- scherzavamo a lungo; qui non

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mi conoscono ma parlare la loro lingua mi apre la porta ai loro sorrisi e alle loro spiritosaggini. Entrando nel complesso si notano i tempietti pagodeggianti, e, soprattutto, i sacerdoti, un misto tra sacerdoti indù e suore tibetane. Il tempio principale dedicato a Vishnu è semi-circondato da un muro dal quale sgorga l’acqua santa attraverso 108 fontanelle a forma di testa di toro. I devoti si bagnano sotto di esse o ne bevono l’acqua. Muktinath mi riserva anche la sorpresa di trovarmi in autunno, nel senso che il suolo è cosparso di foglie gialle e croccanti –uno spettacolo che da noi in Himachal Pradesh non vediamo mai!-, gli alberi si sono messi gli abiti autunnali, e sembra che le valli aride che abbiamo passato fino a oggi siano scomparse. Poco distante dal tempio principale si trova il tempio Jwala Mai (Jwala Mukhi) all’interno del quale due fiammelle bruciano continuamente, alimentate da gas sotterranei. Per i credenti è un offerta fatta da Brahma. Quando il signore del vento ha smesso di brontolare e quella enorme palla gialla sospesa nel cielo comincia la sua discesa verso altri luoghi mi incammino verso il villaggio; e non posso fare a meno di fermarmi a bere un tè in un localino che porta il nome di Bob Marley! La sera invece si beve rum per superare il freddo… Il giorno dopo, l’ultimo a Muktinath,

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facciamo un escursione sulla cima di un colle a 4070 metri, il confine con il Mustang Superiore. Attraversando il piccolo villaggio di Jong faccio conoscenza con un signore, seduto al sole in un cortile, che ha appena macellato una capra; la pelle con la testa attaccata è stesa a essicare vicino a lui, e lui riempie le budella con il sangue. Il sentiero sale in una valle deserta, e mi fanno compagnia profumi di erbe e le montagne innevate che fanno da corona. Dalla cima del colle, in lontananza, si può scorgere Lo Manthang –la capitale del Mustang- e il palazzo estivo del re; subito dopo una montagna segna il confine con il Tibet - in 4 giorni di cammino potrei arrivarci… Il nostro viaggio finisce con un rientro veloce a Pokhara dove ci aspetta un albergo di lusso che offre la possibilità di toglierci un po’ di polvere. Devo dire grazie a chi non mi ha permesso di entrare in Tibet; infatti mi ha offerto la possibilità di conoscere una zona himalayana stupenda, abitata da gente ospitale e sorridente. Forse un po’ scomoda come accesso e come sistemazione, forse con un cibo ripetitivo, forse un filino fredda, ma fan-ta-sti-ca!

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TIBET

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Tratto da “ I TIBETANI” Franco Pizzi ed. Xenia 2000 [pag 31-35]

Incontro con Drupön Dechen A Tsurphu, un’altra figura straordinaria era Drupön Dechen, il maestro di ritiro ora defunto. Drupön Dechen, originario del Ladakh, fu inviato molti anni addietro in Tibet per seguire i lavori di ricostruzione del monastero e per assistere i monaci che intraprendevano il ritiro di tre anni con la sua esperienza. Era un meditatore di professione. Pochi sapevano della sua esistenza ed egli viveva in una piccola casa, sulla sinistra, entrando dal portone principale. L’ interno consisteva di un grande altare e, davanti a esso, d'una sedia di meditazione. Questa era formata da una base e quattro assi in legno; 1'asse frontale era leggermente più bassa delle altre, in modo che si potesse mettere davanti un tavolino su cui poggiare gli strumenti rituali e i testi di lettura; 1'asse posteriore era invece più alta, per potersi appoggiare durante il sonno notturno. Perché, in effetti, egli passava giorno e notte in questa specie di cassa: di giorno meditava e riceveva la gente; di notte vi dormiva. Chiunque volesse andargli a parlare era benvenuto: egli

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non faceva alcuna distinzione fra le persone e si metteva a loro completa disposizione. L'ultima volta che 1'incontrai, mi fece sedere vicino a lui. Mi chiese come stavo e quali fossero le notizie che gli portavo dall'India, del monastero con il quale eravamo entrambi connessi e d'un monaco ladakho suo discepolo, ora in ritiro. Mi diede consigli sulla mia pratica, invitandomi a parlare ad alta voce perché era un po’ sordo, sorridendomi e incoraggiandomi. Mi parlò della giovane reincarnazione del mio maestro e quindi mi congedò, consegnandomi una lettera per il monaco, un laccetto di protezione per me, del duzi e 1'invito a passare qualche tempo in ritiro a Tsurphu. La cosa che ricordo con più piacere, e anche con una certa nostalgia perché mai più si ripeterà, era l'atmosfera in cui tutto questo si svolgeva. Egli stava seduto sulla sua sedia a gambe incrociate e, su di esse, sorridente e tranquillo, teneva un pesante mantello di pelle foderato di pelliccia di yak,. Con il suo sorriso invitava a dire tutto quello che volevo, senza paura o vergogna. La camera era avvolta in un'atmosfera di serenità diffusa dalla sua persona e i suoi occhi, fissi su di me, erano colmi di bontà. Non lo rividi più. Quello che mi rimane, oltre alla memoria, è una tsatsa fatta con le sue ceneri e le sue ossa.

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Verso Namtso

Decidemmo di piazzare la tenda in un prato lontano dal monastero e dal villaggio. Volevo un po’ di tranquillità per pensare a Drupön Dechen. Andai a fare una passeggiata su un colle non molto lontano dall'accampamento e, al mio ritorno, il cielo cominciava a oscurarsi con pesanti nuvole dal sud. All'ora di cena si scatenò un temporale che durò alcune ore. Era già buio quando decisi di tornare nella tenda che trovai completamente allagata. Pensammo di andare a chiedere ospitalità in una casa nel villaggio. La strada era pericolosa perché si era trasformata in un torrente e bisognava attraversare ponti molto stretti e non proprio sicuri, ma alla fine arrivammo. Il villaggio era già immerso nel buio. La gente si era ritirata in casa, al riparo dalla pioggia. *** Bussammo a una porta e l'autista chiese alla famiglia se c'era posto per uno straniero. La risposta fu affermativa e mi condussero nel lhakhang. La stanza era in condizioni tali che, per un momento, decisi di dormire sul sedile del Toyota. La padrona di casa, dalla mia

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espressione, comprese la situazione e mi disse che avrebbe sistemato tutto in cinque minuti. Nel frattempo io aspettavo in cucina, in compagnia dell'autista, del marito e di due piccoli diavoletti: seminudi e con poca intenzione di dormire. Un bel focherello ci riscaldava e ci asciugava dall'umidità della pioggia. Bevendo il loro chang, scoprii che la famiglia era connessa con il monastero di Tsurphu. La signora tornò poco dopo, invitandomi nella mia camera. Alla luce d'una lampada a petrolio vidi che tutto era stato pulito e mi era stato preparato un letto con dei cuscinoni come materasso, un tappeto di lana sopra di essi e delle coperte; la testa era rivolta all'altare e tutta 1'atrnosfera era confortevole e invitava a coricarsi. Al mattino fui svegilato dalle grida del due diavoletti. Feci colazione con la famiglia a base di tè tibetano e tsampa – farina d’orzo tostato, impastata con tè o acqua - un pasto molto nutriente. Offrii qualche yuan ai nostri ospiti, ma essi non li accettarono. Dopo ringraziamenti, saluti e auguri ripartirnmo per il Lago Namtso.

Il mio autista, Dorje, era un giovane tibetano molto discreto e disponibile per ogni cosa di cui avessi bisogno.

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Poco lontano dalla casa fummo fermati da alcuni abitanti del villaggio che ci dissero che un pericoloso yak con 1'abitudine di assalire macchine e autobus era a passeggio sulla strada in cerca d'un bersaglio; conveniva aspettare che desistesse. Chiesi a Dorje cos'era questa storia ed egli, con calma, puntò l’indice su una grossa massa nera davanti a noi: lo yak! In effetti, era enorme e sembrava si guardasse attorno aspettando il momento giusto per assalirci: e noi eravarno gli unici a dargli la possibilità di divertirsi. Intanto, alcune persone si erano avvicinate alla maccchina e, ignare del fatto che conoscevo la loro lingua, cominciarono a descrivere le prodezze di quello yak. Sembravano veramente racconti paurosi ma, conoscendo 1'esagerazione con cui i tibetani colorano gli episodi, non sapevo se ridere o meno. Dorje, comunque, aveva preso la decisione di aspettare e così rimanemmo fermi per una mezz'ora: quando infine il “nemico” si ritirò in un recinto, noi passammo a tutta velocità, con 1'autista che recitava mantra al ritmo del suo motore.

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Namtso: un luogo di potere. F.Pizzi, 2005

La mia meta era Nam Tso, il “lago del cielo”, situato a 4700 m sul livello del mare, uno dei “luoghi di potere” tibetani, con i suoi tashi do, le “rocce del buon auspicio”. Dopo aver visitato altri luoghi di potere nel Tibet meridionale e nel Tibet orientale, ero curioso di vedere com’era. Con “luogo di potere” s’intende un posto dove nel passato hanno meditato illustri e potenti yogin. Per esempio, a Nyalam, quasi sul confine nepalese, aveva meditato il grande Milarepa, e nelle grotte della parete rocciosa (i tashi do) sulle rive del lago Nam Tso, si dice abbiano soggiornato Guru Rimpoce, Reciungpa (discepolo di Milarepa) e altri yogin tibetani. Il lago dista poche centinaia di km da Lhasa, sulla strada che conduce a nord verso Dunhang (famoso crocevia delle antiche vie della seta, luogo di ritrovamento di innumerevoli testi sul buddhismo elegantemente portati via da esploratori occidentali), che poi prosegue per la Mongolia o per Pechino. La pista che conduce al lago è stretta e sconnessa, e si inerpica verso il colle a 5300 m,

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di solito spazzato da un vento che soffia talmente forte da sembrare uno degli innumerevoli protettori del buddhismo himalayano messo a guardia per impedire l’ingresso alla valle a chi non sia degno di scendere lungo l’altro versante, verso l’immensa steppa disseminata di tende nere dei nomadi fatte con pelo di yak, e verso una meravigliosa distesa d’acqua turchese. Infatti il lago è laggiù, lo si vede! Credevo che ci volesse poco ad arrivare, ma a quell’altezza le distanze ingannano: ci misi più di due ore, con il Toyota che cercava la pista nella steppa. Così arrivai al tramonto, e cercai una sistemazione nella guest-house primitiva vicina alle rive del lago e a ridosso dei tashi do. Questo posto, immerso com’è nel silenzio più assoluto e in uno spazio in cui ci si perde quando si entra in rapporto con esso, non richiede la fervida immaginazione tibetana per essere visto come un luogo magico, un luogo di potere, un luogo adatto alla meditazione, dove non si è disturbati da nessun elemento esterno. Mangiai con i proprietari della locanda e mi trattenni con loro a parlare; così venni a conoscenza di alcune grotte trasformate in reliquari a causa di un numero enorme di tsa-tsa,-immaginette votive fatte di fango

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mescolato a resti umani-, e di una monaca eremita che viveva in una grotta giusto dietro la locanda. Mi infilai nel sacco a pelo con il pensiero di andare a trovare la monaca-eremita il mattino dopo. La colazione fu rapida: avevo fretta! Mi avviai per il sentierino e arrivai velocemente alla grotta. Due muri uniti da una porta di latta la chiudevano allo sguardo indiscreto di eventuali curiosi. Sentii delle voci. Chiamai in tibetano: che grande aiuto era conoscere la lingua del posto! Venne a aprirmi una giovane monaca. “Sarà questa l’eremita?”, mi chiesi. Entrai. Davanti a me si apriva una grotta abbastanza spaziosa; sulla sinistra ce n’erano altre due più piccole, di cui una adibita a cucina, e l’altra a dispensa; ai muri erano poggiati sacchi pieni di sterco di yak, combustibile prezioso in Tibet. Dal vano più grande uscì un’altra monaca, più anziana della prima, dal volto gentile, che mi invitò nella grotta spaziosa. Era il suo lhakhang (tempietto). In fondo vi era un altare con varie statue, offerte e foto di lama anche di mia conoscenza; appena vicino alla portaera sistemato il cuscino sul quale dormiva, pregava e meditava. L’austerità dell’ambiente mi fece sorridere al pensiero delle ricercatezze di cui io ho bisogno per un periodo di

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ritiro. Osservai che non vi era né riscaldamento né luce elettrica. La monaca mi fece sedere e mi offrì del pöcha, tè tibetano, che sebbene non mi piaccia bevvi fingendo di trovarlo di mio gusto. Così cominciammo a parlare. Viveva in quella grotta da tre anni, estate e inverno. “Tre anni?”, domandai. Credo che lei intuì che cosa stessi pensando, perché abbozzò un sorriso. Con la sua voce dolce e calma mi disse che la giovane monaca era la sua assistente, che le provviste le venivano procurate da uno zio che viveva a Lhasa, e che il suo tempo era continuamente impegnato in esercizi spirituali. E si vedeva! Scoprimmo di avere connessioni con gli stessi lama, come avevo capito dalle foto, e dopo avermi regalato una piccola pietra mani mi fece capire che era ora di andarmene. Così feci. La sera, ascoltando il suono cristallino della campanella e quello più cupo del damaru provenienti dalla grotta dove la monaca pregava, mi addormentai con il pensiero: “I cinesi non sono riusciti a cambiare proprio tutto in Tibet!”.

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Il mattino dopo ripartii per Lhasa, felice che questo “luogo di potere” desse ancora i suoi frutti.

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Navigando sullo Tsangpo Nuovo viaggio in Tibet, nuovo viaggio sulle gowa

F.Pizzi, 2007. Quest’anno siamo in sei, un gruppetto simpatico già dal primo momento: dopo l'incontro all'aeroporto di Kathmandu, ci avviamo verso il pulmino fra la solita folla di ragazzini che tentano di prendere le valigie o che s'inventano qualche stratagemma per raccimolare un po’ di soldini; quando arriviamo al nostro mezzo di trasporto, il rappresentante dell’agenzia locale offre la tradizionale collana di fiori ai clienti. Uno di essi, seccato, lo respinge con un: “Non voglio nulla!”. Immaginate il viso rabbuiato e offeso dell’agente che mi guarda e mi dice: “Ma non vuole i fiori?”. Immaginate il viso del cliente quando gli spiego che non cercava di vendere fiori ma che si tratta di una cortesia tradizionale. Insomma, dopo i vari “sorry, sorry” ci avviamo verso l’albergo, in una Kathmandu tranquilla e priva di posti di blocco militari onnipresenti fino a poco tempo addietro . L’aereo parte in orario e stranamente il personale di bordo, nei viaggi precedenti silenzioso come una tomba, ora ci comunica che stiamo passando vicino all’Everest.

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Si atterra a Gonkar airport. Quali cambiamenti! Oramai sembra di essere in un aeroporto occidentale: professionalità, velocità e soprattutto pochi controlli -una grande gioia perché questo ci permette di importare la nostra "merce proibita": salumi, formaggi, prosciutto, spaghetti e altre leccornie che ci serviranno durante il viaggio.- Il cambiamento principale a Lhasa riguarda la visita al Potala. A causa dell’enorme afflusso di turisti, -cinesi e occidentali-, il governo locale ha limitato il numero di biglietti d’ingresso per giorno. Bisogna salire la “santa scalinata” a piedi e appena entrati si dispone di “esattamente” un’ora per la visita, pena una sgridata e probabili altre sanzioni per la guida locale. Quindi affannati ci precipitiamo per le sale del Potala; molte sono chiuse [forse per sveltire il percorso], in altre non si può più entrare, si può guardare soltanto dalla porta. Ovviamente così non si riescono ad ammirare i magnifici mandala in oro in tutti i loro particolari. Arriviamo all’uscita giusto in tempo; manca un minuto - siamo salvi! Il giorno dopo inizia la parte più particolare del viaggio, 3 giorni di navigazione sullo Tsangpo sulle barchette di pelle di yak. Prima di partire andiamo a vedere la

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stazione ferroviaria di Lhasa. La guida tergiversa, ci avverte che non possiamo fare foto etc. Ma noi andiamo lo stesso. Edificio futuristico, pulizia incredibile, vetrate, tabellone in lingua inglese, cinese e tibetana che annuncia gli orari dei treni, i costi e il tipo di treno. Facciamo anche qualche foto dall'esterno; d'altronde le stanno facendo anche i tibetani, nonostante ci sia la polizia a due passi che non mostra il minimo interesse in ciò che stiamo fotografando. Il pullman, con la stessa cassetta di musica per due ore, si dirige ora verso Simpori. Il campeggio viene posto sotto gli alberi, sulla riva sinistra del fiume, dove due enormi maiali razzolano non molto lontano dalle tende. Lo staff li allontana con un mirato lancio di pietre e noi siamo tranquilli. Ma è presto e minaccia pioggia. L’autista ci invita a casa sua; tenta di offrirci del tè tibetano, ma questo viene gentilmente rifiutato da tutti, e si scivola su un tè "normale". La casa è grande, anche se ne vediamo soltanto una stanza, e gli ospiti sono gentili come possono esserlo soltanto i tibetani in Tibet. Ci riceve una signora con il viso rugoso, senza denti, che abbraccia una bella bambina dallo sguardo dolce. Le chiedo l’età; 59 anni. Una visita al vicino monastero e

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poi via verso il campeggio, sotto una preoccupante pioggerellina. La notte passa tranquilla e al mattino saliamo sulle barchette. Il mio rematore si chiama Tsering [lunga vita]; benchè non sia molto alto è solido come una roccia, e ha gli occhi come due fessure; ride sempre, anche quando ci troviamo su uno Tsangpo molto arrabbiato. Dietro, verso ovest, scorgiamo nuvole nere e basse; davanti, verso est, una tempesta di sabbia. Pochi minuti dopo ci troviamo proprio nel bel mezzo della tempesta. Lo Tsangpo riceve il vento contro corrente; i rematori, legate le gowa tipo trenino, ridono e sembrano instancabili nonostante la fatica del remare contro vento e lo sballottamento delle barche. E finalmente arriviamo a Dorje Drak, monastero costruito sulla riva del fiume. Mi accorgo subito di una nuova strada che, mi dicono, unisce Lhasa a Samye su questa riva. I cinesi sono incredibili con le loro fisse per le strade, vanno dovunque! Per fortuna non è asfaltata, si confonde con le dune di sabbia e in fondo rende la vita più facile per gli abitanti di questi villaggi che fino a due anni fa non avevano nessun collegamento stradale. Il pullman di linea per Lhasa è pronto davanti al gompa!

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Siamo ospitati in uno stanzone con sei letti, pulito, con coperte e lenzuola; e un’altra notte passa tranquilla, dopo 8 lunghe ore di navigazione. La sveglia è pigra... oggi ci aspettano soltanto 4 ore di navigazione per arrivare a Ngadrak, e li ci fermeremo due notti. Il tempo è migliore. Come punto di riferimento per l’arrivo alla meta ci orientiamo su un'enorme roccia nel fiume. Ma la roccia non arriva mai, e quando la raggiungiamo non la superiamo mai, le secche ci bloccano e i barcaioli devono fare lunghi giri. Alla fine approdiamo. Saliamo su un trattore il cui cassone, coperto e con delle panche semi-imbottite, è stato trasformato in "vano passeggeri", e cominciamo a traballare per circa due ore. Passiamo attraverso villaggi ancora “naturali”, yak al pascolo, campi ben coltivati, poca presenza cinese. A un certo punto il trattore-pulmino si ferma e qualcuno lancia sul vano sopra la cabina una pecora con il ventre aperto, poi lo stomaco e le interiora. Il viaggio continua, e dopo un bel po’ si ferma per scaricare la pecora e quello che le apparteneva. Arriviamo nel gompa di Zade che è tardi, e ci sistemiamo nelle nostre camerette. Da anni conosco alcune monache di questo monastero femminile, la cui badessa è sposata; con loro chiacchiero e mi faccio portare al negozietto per comperare delle

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birre. La cena è pronta, e vengono divorate anche le nostre scorte, trafugate alla faccia della dogana! Siamo a 4400 m. Il mattino dopo saliamo molto molto molto adagio per un sentiero ripidissimo, verso le grotte che nel VI sec. hanno ospitato Guru Rimpoche con Yeshe Tsoghiel, la consorte "regalata" al maestro indiano dall’imperatore Trisong Detsen. Passeggiata meravigliosa, che raggiunge i 4900 m. L'indomani, ultima giornata sulle gowa: con 3-4 ore di navigazione raggiungiamo Samye, uno dei più importanti monasteri tibetani, dove il buddhismo fu dichiarato religione di stato. Arrivo, saluti, abbracci e addii ai rematori, e via verso il monastero su un pick-up, in mezzo a dune di sabbia e polvere. Nemmeno stasera abbiamo la possibilità di lavarci; ma che importa, ci fa assomigliare alla gente locale! Tant'è che quando arriviamo in un albergo molto bello a Tsedang, per un attimo ci sentiamo a disagio... Mi trovo sbilanciato quando andiamo a visitare lo Yumbu Lhakhang: vedo file di cinesi affrontare i pochi minuti di salita a cavallo o a cammello. Ne vedo uno accovacciato; una signora tenta in tutti i modi di salirci sopra, scivola, ritenta e alla fine con l’aiuto del cammelliere sale soddisfatta!

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Nei prossimi giorni il nostro viaggio prosegue verso ovest. Saliamo sul Kampala per dare uno sguardo veloce al magnifico lago Yamdrok, fra il vento e il freddo: la strada fino a Nagartse è chiusa perché la devono ri-aggiustare. Provvisoriamente è stata creata una "piazzola panoramica" per una sosta fotografica, dopo di che si riscende per la stessa strada e ci si dirige verso Shigatse. Per arrivare a Gyantse, lasciata la strada principale, ci inoltramo su una pista fra dune e sabbia; sembra di essere in Africa invece che in Tibet! Fortunatamente finora i cinesi hanno tralasciato di asfaltarla...Una pista simile ci aspetta dopo Sakya. Gli autisti sono riluttanti; così pure la guida, che passa il suo tempo a dormire, che sia in macchina oppure sulle barche. Ora che è pronta una meravigliosa strada asfaltata per Shegar, chi gliela fa fare a soffrire in mezzo al nulla, fra dune e deserto? Comunque io insisto e si va. Incontriamo un piccolo villaggio, 4 case, semi sepolto dalla sabbia, con una sorgente d’acqua calda dove le donne lavano; incontriamo vaste aree coperte di una sostanza bianca che io credevo sale, ma gli autisti dicono sapone; incontriamo campi ben coltivati e verdi - da dove prendono l’acqua è un mistero; incontriamo

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carretti tirati da cavalli, che procedono nel vento e nella sabbia. Infine arriviamo a Shegar, cittadina squallida e ventosa, punto di partenza per Rombug e il campo base dell’Everest; nevischia… Il giorno dopo saliamo verso Rombug sotto un cielo nero. Ci fermiamo sul colle, 5200 m, da dove si vede buona parte della catena himalayana; al centro l’Everest, minaccioso e imponente; avvolto dalle nuvole nere, non si degna di mostrarci la sua cima; sembra quasi che ci dica: “Attenti, voi che volete scalarmi!”. Contrariamente a quanto è stato riportato recentemente sui giornali italiani al riguardo di questa strada e di Rombug [la strada è stata asfaltata, con un notevole impatto ambientale; a Rombug ci sono bancarelle che vendono di tutto, e ci sono persino le prostitute; dico a 5000 m??? mah] nulla è vero; l'ho ritrovata come due anni fa, forse spianata un po’ meglio, ma nient'altro! Al campo base fa un freddo incredibile e c’è neve; rimango con le guide in macchina mentre i miei clienti salgono su un piccolo colle per le foto. Al ritorno visitiamo il monasterino che ospita una comunità di monache e monaci; all’interno sentiamo: “ Cu cu” - su

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una colonna è appeso un pendolo svizzzero! Qui si vede la polizia. Da quando l'anno scorso qualcuno ha tentato di far sventolare una bandiera tibetana, ci devono stare anche l’inverno; mi fanno pure pena. La discesa verso Nyalam si prospetta avventurosa perché a causa di “lavori stradali” è aperta solo dalle 19 in poi, di sera. Facciamo al buio il tratto più brutto e più pericoloso per arrivare a Zhangmu, dove ceniamo in un ristorante tipo pub, -peccato che si sono dimenticati di portarci un ordine e Barbara va a letto digiuna! Un freddo, l’attesa in coda per l’apertura della frontiera al mattino... Il sole è alto e non riesce a raggiungerci fra queste strette gole. Gli ufficiali di frontiera sono molto compiti e seri e fanno il possibile per sveltire le pratiche. Peccato che fra un Toyota e l'altro si infila un gregge di capre e pecore che non sembra abbiano voglia di sveltire nulla. S’infilano sotto le macchine; vanno prima avanti e poi indietro, e incuranti dei calci ricevuti fanno quello che vogliono finchè decidono di lasciare spazio alle auto. Si ritorna a Kathmandu, si ritorna a casa in India; chissà cosa troverò in Tibet l’anno venturo, l'anno delle Olimpiadi cinesi, -ammesso che ci facciano entrare? Da Lhasa arriva la notizia che la popolazione tibetana brucia

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incenso in tutta la città per la medaglia d'oro del congresso americano conferita al Dalai Lama; mi dicono che c’è molta polizia che controlla, ma senza intervenire, e che i monaci di Drepung sono confinati nel loro monastero. E il Presidente Hu, intanto, parla di riforme democratiche. Mah! Un bel viaggio....

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Di passagio nel Kham: sei cose che mi hanno colpita .

K.Blancke, Agosto 2006

I paesaggi

A differenza della maggior parte delle altre aree tibetane finora visitate, la parte inferiore del Kham (comunque sempre al di sopra dei tremila metri...) è molto "alpina": molto verde, con tanti tanti fiori, e una preponderanza di prati blu; dolci colline e belle casette, che assomigliano quasi a chalet svizzeri. Ogni villaggio ha le sue proprie caratteristiche architettoniche, con leggere differenze nell'uso di colori e di decorazioni nel legno. Anche quando ci s’innalza al di sopra dei 4000 metri rimane comunque ancora un po’ di vegetazione; qui spariscono i villaggi, e ci si ritrova tra grandi praterie con tende di nomadi. Mentre la vegetazione alle altitudini relativamente più basse è ovviamente bellissima, un'amante degli altopiani come me predilige questi luoghi più elevati, con i loro spazi così vasti costellati da tende di nomadi, greggi di pecore e capre, cavalli e yak; tanti yak....

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I monasteri

Dovunque nel Kham si avverte una gran voglia di ricostruzione. Delle centinaia di vecchi monasteri rimane poco, tutti distrutti dai musulmani oppure durante la rivoluzione culturale. Ma adesso si ricostruisce. Molto lavoro è già stato fatto nell'ultimo decennio, in tanti altri monasteri sembra di essere in un cantiere. Particolare attenzione viene data alla pittura degli affreschi, con colori sgargianti, per i nostri gusti un po’ kitsh.

I monaci

Ma poi che cosa ci fanno in tutti quei monasteri? In alcuni luoghi si avverte un senso di desolazione, di abbandono; più volte ci venne detto che se il Dalai Lama non ritorna i monaci si sentono persi, e tanti, tantissimi, cercano di scappare in India, legalmente oppure illegalmente, dove ritrovano il monastero-madre in esilio. Rimangono i monaci anziani e malati. In altri posti invece, laddove c'è un supporto notevole dei rimpoce che risiedono all'estero, si sente un grande fervore religioso. Un esempio è Dzogchen. Un luogo incantevole: situato a oltre 4000 metri, dal villaggio con

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poche case e negozi si sale fino a un muro-mani, e oltrepassato il muro si entra in un'ampia vallata cosparsa di templi. In fondo alla valle, in un grande tempio con il pavimento di legno, erano in corso insegnamenti di Longchen Nyingthik. Siamo arrivati nel momento della pausa. Centinaia di monaci si rovesciano fuori per un momento di relax. Avevamo notato una fila di motociclette parcheggiate ordinatamente l'una di fianco all'altra. Ed ecco che vediamo i monaci saltarci sopra....Dall'altra parte della valle una bella costruzione ospita uno 'shedra', un istituto per gli studi, e poco più in là, in un tempio grande e nuovo, viene data un'iniziazione tantrica - vietato l'ingresso alle donne. Anche qui tanti monaci; uno di loro è stato in giro per l'Europa, come parte di una troupe di monaci che eseguivano i chams,- le danze rituali dei monaci-. Ha trascorso un periodo di tempo al monastero di Dzogchen nel sud dell'India, e in quel frangente ha fatto il suo viaggio.

Sershul Gompa è un altro luogo di grande ispirazione. Anche questo monastero è situato in un posto sperduto nelle montagne, a una trentina di km dalla capitale della contea, Jumang. Arriviamo di sera, dopo una lunga

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giornata piovosa, e siamo ricevuti nella guest-house del monastero: bella, pulita, semplice ma accogliente, con tanto di ristorante e di sala-soggiorno con una grande vetrata che guarda la valle. Finalmente, dopo tutti gli alberghi cinesi piuttosto "anonimi " finora visitati, troviamo un po’ di "calore umano"! La visita del complesso monastico raggiunto con una piacevole passeggiata in una mattina assolata è una gradevolissima sorpresa: una serie di costruzioni sparse sulle colline circostanti, tra cui uno shedra (istituto di studio per i monaci), un tempio, e alcune "tende-scuola" (sono tende da nomadi piene di ragazzini dei villaggi intorno). Incontriamo una monaca che ha studiato a Dharamshala, e che ora abita a Sershul per aiutare il rimpoce come traduttrice quando arrivano gli ospiti stranieri: taiwanesi, singaporesi, occidentali, che vengono in questo luogo sperduto a seguire qualche corso di meditazione.

I devoti, laici e monaci

Lungo la strada incontriamo un altro luogo molto particolare. I nostri autisti ce ne parlano mentre siamo su un passo di 4600 metri. Ci dicono che poco innanzi si

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trova un luogo dove vivono 10000 monache da un lato del fiume, 10000 monaci dall'altro, al seguito di un grande maestro (sicuramente la cifra sarà esagerata!). Il lama è così famoso perché mostra miracoli sul suo corpo: per chi possiede l'occhio della fede (!) è possibile vedere sul suo torace tutti i maestri che gli hanno dato insegnamenti, con il Dalai Lama sulla sua testa. Basta una deviazione di pochi chilometri per arrivare in questo sito. Impressionante! Subito vediamo una costruzione, tipo hangar, con dentro tanti monaci e monache, che stanno seguendo una funzione religiosa, una puja in occasione del giorno di Yeshe Sogyal (la consorte tibetana di Guru Rimpoce). Ma guardando intorno notiamo un enorme cantiere; un tempio più o meno finito, e tante costruzioni. Centinaia di baracche dove vive la gente venuta qui da ogni parte del Tibet per seguire questo maestro. Dice un monaco, originario di Lhasa: "Noi veniamo qui perché possiamo davvero imparare a meditare, non soltanto a studiare il dibattito, ma a meditare, con l'aiuto di un maestro che mostra i segni della sua realizzazione!".

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Le cittadine e la gente

Pelyul, Derge, Kanze sono cittadine piccole, abbastanza carine, con costruzioni caratteristiche, in legno. Yushu al contrario è una città piuttosto grande, prevalentemente cinese. Gli alberghi sono rigorosamente di proprietà dei cinesi, con personale tibetano. In città un misto di etnie, tra colorati tibetani tipo cowboy del far west con le loro donne magnificamente addobbate, e cinesi che gestiscono tutti i business. Mi ha colpito la totale mancanza della classe 'imprenditoriale' tibetana. Dove sono i negozianti scaltri e simpatici che ritroviamo nelle altre parti del mondo tibetano? Sembra che da queste parti sono rimasti i tibetani contadini e pastori e venditori ambulanti di merci di povera qualità, mentre tutta l'attività commerciale di un certo rilievo è in mano ai cinesi. La lingua franca, in città come nei villaggi, è il cinese, anche tra tibetani di differenti regioni. Buffo trovarsi in una situazione dove per spiegarsi ci vuole una triplice traduzione: dal mio tibetano al tibetano della guida, che essendo di Lhasa non capisce i dialetti locali e deve ricorrere al cinese ...A volte non basta nemmeno questo, e devono intervenire gli autisti d’origine khampa! Ho come l'impressione che in genere tra la

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gente laica vige un clima di tranquilla rassegnazione: questa regione fa parte della Cina da molto tempo. Prova ne è l'apertura della festa dei cavalli a Yushu: parata militare cinese all'inizio, parata militare alla fine; militari a piedi e militari a cavallo; carri con pubblicità cinese. Ma i ritratti del Dalai Lama si ritrovano dovunque, qui non c'è bisogno di nasconderli!

Una curiosità: Cordyceps Sinensis

Passando in un piccolo villaggio in mezzo al nulla, ci fermiamo per una breve sosta. La gente locale ci invita a guardare le mercanzie nei negozi: qualche gioiello locale, alcuni articoli di artigianato tibetano, di scarsa qualità. Un venditore ci prende da parte e apre un pacchetto di carta da giornale; dentro tiene una cosa che a prima vista sembra un'erba. Ci spiega che sono "vermi che d'estate diventano erba, oppure erba che d'inverno diventa verme". Una medicina eccellente, ci dice, ottima per la salute. Noi rimaniamo increduli e perplessi...Ma mentre aspettiamo la partenza dell'aereo da Xining, ecco che nel tax-free-shop ci sono scatole e scatole piene di questi "cordyceps". Si tratta di un "fungo-bruco": un fungo che con le sue spori infetta i

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bruchi invadendone il mecchanismo fino a farli diventare vegetali. I cinesi ne scoprirono le virtù terapeutiche molti secoli addietro, notando che le pecore che brucavano in zone di Cordyceps erano più forti e più sane. Da sperimentazione risulta che il cordyceps sinensis è una specie di panacea: procura energia, previene l'invecchiamento, rafforza il sistema immunitario, e funziona come afrodisiaco per l'uomo. Oggigiorno questo "fungo-bruco" sembra il business per eccellenza della provincia del Qinghai: girando la carta d'imbarco mi accorgo che è addiritura reclamizzato sul retro. Mai più avremmo immaginato tali meraviglie lungo la strada in quel borgo! Cosa non abbiamo scoperto, di passaggio nel Kham…

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