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ISSN: 2039-7224 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% Roma aut. n. C/RM/14/2011 LASPRO rivista di lette ratura, Arti & Mestieri Anno VII - Numero 32 - Aprile/Maggio 2015 - Gratis I l trAdIzIoNAle coNcerto del prIMo MAGGIo Alessandro Pera - A MArGINe del corteo. dIzIoNArIo AutocrItIco dellA MIlItANzA Redazione di Laspro AbuelA Maria Giuseppina Ottaviana Piras - I l cAMMINo dI KobANe Patrizia Fiocchetti - GlI AlberI All' INferNo Alessandra Amitrano Stavolta è stato per amore. Questo numero di Laspro nasce dal bisogno di distruggere quello che ci rappresenta. Ci spazziamo via da soli. Disintegriamo le certezze. Abban- doniamo i posti di combattimento per andare un secolo a guardare quello che c’è dall’altra parte. E torniamo indietro, perché quello che c’è dall’altra parte non fa ridere per niente. Un amore che mortifica gli occhi, s’infila nelle cellule e si sca- rica sui polpastrelli. A, B, C, D, E fino alla fine, senza che dav- vero c’importi della semantica. Le parole sono i nostri sassi. E trapassano la pelle, l’acciaio, il cranio, le mascelle dei cani da guardia, volano giù dalle fine- stre come vasi scivolati dalle mani. Come potevamo raccontarci senza provare almeno una volta a ridere di noi? A prenderci seriamente per i fondelli. Che di- gnità! Siamo e siete - per una volta - messi al microscopio. Per vedere le imperfezioni della pelle, l’inesorabile turbinio di un’irrisione bibliografica. Quello che fa ridere (seriamente) siamo noi che escludiamo (per fortuna) la possibilità di resa. Questo implica responsabilità. Se il mondo così com’è non vi piace e fate qualcosa per cambiarlo, a modo vostro, dovete essere disposti a morire dal ridere. Anche quando non fate altro che serrare i pugni pronti alla battaglia. Anche sotto i lacrimogeni e di corsa via, giù per la strada quando si scappa dalla marea vestita di blu e nero, con i caschi abbaglianti e il potere fallico in mano. Se c’è un senso è questo: ridere di quello che siamo e soprat- tutto di quello che non abbiamo mai pensato di essere. Ognuno col suo passato, con la sua dose di endorfina narrativa. Ognuno col suo testamento idiota fatto di paragrafi, dittonghi e aggettivi. Le lettere. Prese una a una sono frustranti, hanno qualcosa di intollerabile, sono come un conato di vomito rimandato giù. Le mettiamo insieme per necessità. E allora eccolo qua: il dizionario autocritico della militanza. Legate assieme le lettere formano qualcosa che somiglia al cosmo, a un sistema colmo di grazia. La rabbia della resistenza e la neces- sità di trovare alla fine della frase quel punto che ci lascia confusi. Voi che leggete sorridete perché sapete che dalla A alla Z c’è un pezzo di voi. C’è quello che vi rende parte di un assem- blaggio difettoso e magnifico. Buona lettura, quindi, e non l’abbiate a male se vi riconosce- rete in una lettera o in più d’una. Vorrà dire che siete andati dall’altra parte e poi in un attimo, coi denti scintillanti, siete tornati a casa. Dizionario autocritico della militanza | di Alessandro Bernardini | Murale di Aladin Hussein Al Baraduni al Csoa Scurìa di Foggia - foto di Federica Frisoli

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ISSN: 2039-7224 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% Roma aut. n. C/RM/14/2011

L A S P R Or i v i s t a d i l e t t e r a t u r a , A r t i & M e s t i e r i

A n n o V I I - N u m e r o 3 2 - A p r i l e / M a g g i o 2 0 1 5 - G r a t i sIl trAdIzIoNAle coNcerto del prIMo MAGGIo Alessandro Pera - A MArGINe del corteo. dIzIoNArIo AutocrItIco dellA MIlItANzA Redazione di Laspro

AbuelA Maria Giuseppina Ottaviana Piras - Il cAMMINo dI KobANe Patrizia Fiocchetti - GlI AlberI All'INferNo Alessandra Amitrano

Stavolta è stato per amore.Questo numero di Laspro nasce dal bisogno di distruggerequello che ci rappresenta. Ci spazziamo via da soli. Disintegriamo le certezze. Abban-doniamo i posti di combattimento per andare un secolo aguardare quello che c’è dall’altra parte. E torniamo indietro,perché quello che c’è dall’altra parte non fa ridere per niente. Un amore che mortifica gli occhi, s’infila nelle cellule e si sca-rica sui polpastrelli. A, B, C, D, E fino alla fine, senza che dav-vero c’importi della semantica.Le parole sono i nostri sassi. E trapassano la pelle, l’acciaio, ilcranio, le mascelle dei cani da guardia, volano giù dalle fine-stre come vasi scivolati dalle mani. Come potevamo raccontarci senza provare almeno una voltaa ridere di noi? A prenderci seriamente per i fondelli. Che di-

gnità! Siamo e siete - per una volta - messi al microscopio. Pervedere le imperfezioni della pelle, l’inesorabile turbinio diun’irrisione bibliografica. Quello che fa ridere (seriamente) siamo noi che escludiamo (perfortuna) la possibilità di resa. Questo implica responsabilità. Seil mondo così com’è non vi piace e fate qualcosa per cambiarlo,a modo vostro, dovete essere disposti a morire dal ridere. Anche quando non fate altro che serrare i pugni pronti allabattaglia. Anche sotto i lacrimogeni e di corsa via, giù per lastrada quando si scappa dalla marea vestita di blu e nero, coni caschi abbaglianti e il potere fallico in mano. Se c’è un senso è questo: ridere di quello che siamo e soprat-tutto di quello che non abbiamo mai pensato di essere. Ognuno col suo passato, con la sua dose di endorfina narrativa. Ognuno col suo testamento idiota fatto di paragrafi, dittonghi

e aggettivi. Le lettere. Prese una a una sono frustranti, hanno qualcosa diintollerabile, sono come un conato di vomito rimandato giù. Le mettiamo insieme per necessità. E allora eccolo qua: il dizionario autocritico della militanza.Legate assieme le lettere formano qualcosa che somiglia al cosmo,a un sistema colmo di grazia. La rabbia della resistenza e la neces-sità di trovare alla fine della frase quel punto che ci lascia confusi. Voi che leggete sorridete perché sapete che dalla A alla Z c’èun pezzo di voi. C’è quello che vi rende parte di un assem-blaggio difettoso e magnifico. Buona lettura, quindi, e non l’abbiate a male se vi riconosce-rete in una lettera o in più d’una. Vorrà dire che siete andati dall’altra parte e poi in un attimo,coi denti scintillanti, siete tornati a casa.

Dizionario autocritico della militanza

| di Alessandro Bernardini |

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L A S P R O | p a g i n a 2 p a g i n a 3 | L A S P R O

diario di bordo

In questo numero 32 di Laspro c'è unpiccolo primato: è forse il primo nu-mero in cui non c'è nessun articolo oracconto, tranne l'editoriale di Alessan-dro Bernardini e le recensioni, a firmadi qualcuno o qualcuna della redazionedella rivista. Perché per due mesi siamostati impegnati nella stesura di quel Di-zionario che trovate alle pagine 4 e 5,che all'inizio è stato solo un alfabetovuoto che ci rimbalzavamo nelle maildel gruppo, poi pian piano si è riem-pito, lettera dopo lettera, e sapendo cheavremmo potuto andare avanti permolto, e molto ci sarebbe ancora dadire. Per questo il Dizionario andrà an-che sul nostro blog, a poco a poco, emagari si arricchirà di altre voci, ma-gari non scritte da noi, magari su qual-cuna avrete proprio voi qualcosa dadire, una presa in giro da fare o un sas-solino nella scarpa da levare. Abbiamolasciato le voci senza indicare chi fossel'autore di ognuna di esse, perché allafine non importava: è un testo collet-tivo, abbiamo stili diversi e tutte in-sieme queste lettere sono quello chesiamo noi, il nostro modo di scrivere epresentarci come banda.A proposito di blog: se non l'avetemai fatto, dategli un'occhiata. Sta sulaspro.wordpress.com, ci trovate unpo' di contenuti presenti qui sulla ri-vista, ma anche, anzi soprattutto, ar-ticoli scritti specificamente, magaripiù legati all'attualità. Ultimamentestiamo un po' virando verso l'inter-nazionale, Kurdistan, Palestina, e citrovate anche i reportages scritti daun personaggio che si fa chiamareCaptain Tom No, che si è messo in te-sta di raggiungere la Palestina in bi-cicletta, partendo da Roma, per giuntacon due bandiere palestinesi in bellavista. La sua impresa si chiama Cy-cling for Palestine, e ne parla sul blogdi Laspro, tappa dopo tappa. Al mo-mento in cui scriviamo ha passatol'Albania (dove è stato sulla tv nazio-nale ed è diventato una piccola cele-brità) ed è ora ad Atene. Per inciso,sul blog potete sostenere Cycling forPalestine e allo stesso tempo Laspro,con un abbonamento speciale da 20euro (10 a lui, 10 a noi).Per finire, da qui all'estate stiamo pre-parando una serie di reading e inizia-tive in giro per la città. Tenetevi ag-giornati, su Facebook, sul blog, ochiamateci a casa. Se non ci trovatevoi, vi troviamo noi.

Buona lettura.

L A S P R Orivista di Letteratura, Arti & Mestieri

n.32 - Aprile/Maggio 2015

DIRETTORE RESPONSABILE Ilario GalatiIDEAZIONE Cristian Giodice

REDAZIONE Alessandro Bernardini,Renato Berretta, Emanuele Boccianti,

Cristian Giodice, Luigi Lorusso, Giusi Palomba, Luca Palumbo,

Sabrina Ramacci.

GRAFICA Alessandra Meneghello

HANNO COLLABORATOAladin Hussein Al Baraduni, Alessandra Amitrano, Duka,

Patrizia Fiocchetti, Federica Frisoli, Alex Lupei, Alessandro Pera,

Maria Giuseppina Ottaviana Piras,Nicola Rotiroti. 

Tutte le collaborazioni con Laspro sono atitolo gratuito. La proprietà intellettuale

di ciò che è pubblicato è dei rispettiviautori e autrici. Per il loro utilizzo

rivolgersi alla redazione.

EDITORELuigi Lorusso

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Laspro c/o Lorusso EditoreVia di Settecamini, 99 00131 Roma

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Registrazione Tribunale di Roman. 104/2009 del 30 marzo 2009

Stampato presso Arti Grafiche La Moderna snc

Via Enrico Fermi - Guidonia Montecelio (RM)

bASSA fedeltà di Ilario Galati

Di tuffatori, ufficialini e fisici scomparsi: il ritorno di Flavio Giurato

Se costretto con le spalle al muro dovessi fare ilnome di un cantautore e uno solo – e non si ca-pisce davvero chi dovrebbe mettermi al muro erivolgermi una domanda così, ma in cuor mioso che prima o poi accadrà – io direi flavioGiurato. Non il più bravo, il più poetico, il piùintonato. No. Ma di sicuro il più irregolare, il piùsottovalutato, il più misconosciuto. Insomma,uno diverso da tutti gli altri, che quasi ti ver-rebbe di mandarlo affanculo per come abbiacentellinato le sue canzoni in un arco temporaledi quasi quarant'anni. Ma dico, sai scrivere unaroba come “Tu sei nel mio cuore dal torneo diOrbetello/quando è libecciato e non si è giocato"– per me il più bell’incipit della storia della can-zone italiana – e mi/ci regali tre dischi dal 1978a oggi? Peraltro mai ristampati?Ho detto tre dischi? No, in realtà sono di piùperché c’è anche Il Manuale del Cantautore, pre-sentato in silenzio nel 2002, che ha il grande me-rito di aver riportato l’attenzione su un artistapressoché dimenticato. E soprattutto c’è LaScomparsa di Majorana, una nuovissima raccoltadi canzoni appena pubblicata, che ci riconsegnaun songwriter ancora profondamente diversoperché a se stante rispetto sia alla canzone d’au-tore di ieri che a quella contemporanea.Ma facciamo un passo indietro, che per Giuratoè quanto mai necessario affinché sia possibilecoglierne le peculiarità non solo strettamente ar-tistiche della sua produzione (e magari per ac-costarsi al meglio al suo nuovo, bellissimo manon facile lavoro). Architetto, tennista, fratellodi quel Giurato giornalista che è quasi una bar-zelletta nazionale tanto ci sa fare poco con le pa-role, Flavio esordisce nel ‘78 con Per FutiliMotivi, concept-album che narra le vicende diun giovane nel periodo del regime fascista. Lavoce particolare e poco incline al bel canto, lospleen narrativo che mescola scrittura alta ebassa (dialetto compreso), il porsi in maniera ra-dicalmente differente rispetto alla Scuola Ro-mana, catalizzano l’attenzione su questo alienoapprodato alla canzone. La notorietà arriva peròquattro anni dopo, quando la CGD pubblica IlTuffatore, disco tra i più significativi del periodo.Anche in questo caso siamo di fronte a un con-cept, che racconta una storia d’amore nata aibordi di un campo da tennis. A colpire ancoraoggi di queste 12 canzoni è inevitabilmente lascrittura: Giurato imbandisce una narrazione dafilm, con fatti, nomi e luoghi talmente reali dapoterseli immaginare. Riferimenti colti e popo-lari si inseguono, così come intuizioni poetichemica da poco – il tuffatore che rinasce “ognivolta dall’acqua all’aria”, ad esempio, ma anchel’incipit già citato di Orbetello – convivono coninvenzioni lessicali, reiterazioni spigolose e iro-nia di prim’ordine. Insomma, Giurato con Il Tuf-fatore fa esattamente quello che un grandeautore è chiamato a fare quando si misura conla canzone: creare mondi. E le citazioni, dav-vero, potrebbero essere molteplici e, anzi, qual-cuna concediamocela: “una donna alta non è

mai banale, sarà per lo sguardo necessariamentesuperiore” (Orbetello); “figliola non andare coicantautori (…) che poi finisci nelle canzoni” (In-troduzione); “e mentre la luce è indecisa se ral-lentare o far presto, ti ritrovo mai stanca esempre perfetta tra le isole e il sale” (Valter-chiari); “e se dobbiamo essere tutti americani, iospero che saremo i nuovi indiani, una mino-ranza classica ed elegante” (La Scuola di Congas);“e per quanto ti ho visto e per quanto ti ho sen-tito, tu sei una giornata di riposo dove si com-prano i giornali” (Orbetello Ali e Nomi).Il Tuffatore ottiene un buon successo: le radio,anche quelle commerciali, passano la title-track,e Giurato diviene una specie di presenza fissa inMister Fantasy, il bel programma televisivo delmai troppo lodato carlo Massarini (a propo-sito, cercatevi le clip, anche per cogliere la pecu-liare fisicità del nostro, capace di concerti“partecipativi” a dispetto di un certo intimismocantautorale molto di maniera).Due anni dopo è la volta di Marco Polo, un con-cept-album incentrato sull’epico viaggio del ce-lebre veneziano, decisamente lontano tantodall’idea classica di musica d’autore quanto daidue lavori che lo precedono. Il disco non piace edè un peccato perché è molto ben suonato, graziealla presenza di musicisti internazionali come ilpercussionista ray cooper, e contiene in fin deiconti alcune delle più belle canzoni scritte da Giu-rato, come ad esempio Marco e Monica, che de-scrive in maniera decisamente esplicita unamplesso, o come L’Oriente, Il Gran Khan, Nel De-serto Armeno. Un disco decisamente ambizioso,probabilmente l’opera più lontana e stridente chesi potesse mai concepire nell’Italia edonista e cra-xiana della metà degli anni ’80. Insomma, undisco che solo un vero outsider poteva concepire,con conseguenze decisamente immaginabili: laCGD lo scarica e Giurato, invece di provare asfruttare la fama costruita grazie a Il Tuffatore, cimette del suo, diradando sempre di più le appa-rizioni. In realtà continua a scrivere, ma si lasciatrascinare in progetti extramusicali, che eviden-temente lo appagano di più.Il lungo silenzio viene interrotto solo nel 2002,

con la pubblicazione de Il Manuale del Cantau-tore, disco poi ristampato con l’aggiunta dinuovi brani nel 2007. Un lavoro ancora ispiratoe personale, per quanto i pezzi che lo compon-gono sembrino mutare non di poco la narra-zione di Giurato. Canzoni come Ustica, La GiuliaBianca (sulla morte di Pasolini), L’Ufficialino, Sil-via Baraldini, Il Caso Nesta, Praga, mostrano unautore maggiormente politico, più intento adanalizzare l’attualità e la storia recente. A noncambiare è la cifra stilistica, sempre peculiare ericonoscibile, poiché permangono alcune carat-teristiche tipiche della sua scrittura, come le rei-terazioni e l’uso dell’inglese accanto all’italiano.In ogni caso, anche se lontanissimo dall’industriadiscografica (che nel frattempo in Italia ha comin-ciato a fare i fatturati di un negozietto di periferia)e dalla routine del cantautore, che prevede lapubblicazione del disco, la promozione e poi iltour, Flavio Giurato mantiene insospettabilmenteun posto di rilievo nel panorama della musica in-dipendente. A riprova di ciò si consideri la pub-blicazione, nel 2004, di un disco live dal titolo IlTuffatore – Racconti e Opinioni su Flavio Giurato, alquale è accluso un libro di racconti ispirati allesue canzoni. Tra gli autori, gente come AldoNove, paolo Nori, tiziano Scarpa, fulvioAbbate e altri, mentre la prefazione è lasciataalla penna di Carlo Massarini, che tanto fece perspingere Giurato ai tempi de Il Tuffatore. E siamo all’oggi. Per quel che vale, sui social hosempre registrato estremo interesse per la suamusica: chi non l’ha mai ascoltato, è sinceramentecolpito dalle sue canzoni; chi lo conosce, oltre asperare che qualche buon santo ristampi i primitre lavori, fino a qualche tempo fa pregava cheFlavio si decidesse a pubblicare un nuovo disco.E il nuovo disco è finalmente arrivato: si intitolaLa Scomparsa di Majorana, come la canzone chechiude i dieci brani del lotto, ed è un’opera densae impegnativa, nella quale confluiscono narra-zione e poesia, storia e attualità, sperimentazionee melodia. Di sicuro, siamo più vicini a Marco Poloche a Il Manuale del Cantautore poiché è un lavoroche richiede attenzione e impegno. Ma ripaga ab-bondantemente dello sforzo che necessita. Ecco,del nuovo disco preferisco non aggiungere altro,se non che tra i temi trattati emergono con pre-potenza tematiche quali il suicidio, la follia, ilconsumismo. Sullo sfondo, mirabilmente raccon-tata attraverso le istantanee che ispirarono lostesso Sciascia per la scrittura del romanzo omo-nimo, si erge la vicenda della misteriosa scom-parsa del fisico ettore Majorana. Concludo dunque con un auspicio: da compo-nente della giuria della Targa Tenco, sarei moltosoddisfatto che quella platea – a ben vedere l’unicain Italia in grado di tributargli un giusto riconosci-mento – sia finalmente pronta per accogliere Fla-vio tra i grandi autori della nostra canzone.Così come spero sinceramente che queste miepoche parole abbiano sufficientemente incurio-sito gli incauti lettori. Già questa sarebbe unabella vittoria.

CyCling for PalestineSeimila chilometri in bicicletta contro l'occupazione e l'islamofobia.

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DAVID GRAEBERfrAMMeNtI dI ANtropoloGIAANArchIcAEleuthera, 2006103 pagine, 9 euro

Ci sono molti buoni motivi per leggere Frammenti diantropologia anarchica. Forse il primo vero motivo èche l’antropologia offre un punto di osservazionepiuttosto facile per accostarsi a una teoria politicamolto spesso fraintesa o misconosciuta come l’anar-chismo, coinvolgendo il lettore con discorsi che sannopoco di teoria e molto di racconti sul mondo e sullastraordinaria varietà dell’inventiva umana. «Compitodi un intellettuale radicale è guardare chi sta creandoalternative percorribili, cercare di immaginare qualipotrebbero essere le più vaste implicazioni di quelloche si sta già facendo e quindi riportare queste ideenon come disposizioni ma come contributi e possibilità,come doni». Un antropologo anarchico è soprattuttoun esploratore e un raccontatore di quanto ha espe-rito. Si cambiano le coordinate spaziali, temporali eculturali, e si osserva. Scoprendo un sacco di cose. Peresempio, che non sono mai esistite economie non mo-netarie fondate sul baratto: erano tutte economie deldono. Non si basavano sull’ignoranza del calcolo odel concetto di profitto, ma sul loro rifiuto, conside-rando offensiva l’idea che lo scopo di una transazioneeconomica fosse conseguire il maggiore utile possi-bile. Oppure si scopre che le società senza stato e fon-date sul consenso non sono meno evolute di quellestatuali. Si tratta di popoli che sono consapevolidell’esistenza di forme di potere statale o delle istitu-zioni da esso derivate, contrariamente a quantospesso pensato; le rifiutano per il semplice motivo checonsiderano discutibili su un piano morale i presuppostidella nostra scienza politica. Si scopre, insomma, l’esi-stenza di etiche alternative, di architetture socialistrutturate in modo da evitare che alcuni individuidotati di particolare iniziativa possano creare disu-guaglianze di ricchezza permanente: il cosiddettocontropotere, che Graeber ci mostra essere in realtàpiù di un insieme di pratiche, affondando le sue ra-dici nell’immaginario, nel fantasmatico e nel patri-monio simbolico condiviso. Utopie, si potràcommentare, ma l’autore ha qualcosa da osservareanche in merito alla fortuna negativa di questo ter-mine, spesso ingiustamente messa in conto ai pensa-tori anarchici. Però almeno in questo caso taleetichetta negativa è formalmente inadeguata. Un’uto-pia esiste in nessun luogo. Invece i posti di cui ci rac-conta Graeber possono essere distanti, nel tempo enello spazio, ma sono certamente reali.

emanuele boccianti

PAOLA STACCIOLIcon una testimonianza di Silvia BaraldiniSebbeN che SIAMo doNNeStorIe dI rIVoluzIoNArIeDeriveApprodi, 2015 256 pagine, 16 euro

L'ultimo libro di Paola Staccioli, con uno scritto ine-dito di Silvia Baraldini, ha in comune con i suoi pre-cedenti (Non per odio ma per amore – Storie di donneinternazionaliste e le raccolte da lei curate In ordinepubblico e Per sempre ragazzo) l'attenzione a restituirele storie, in questo caso quelle di donne rivoluzio-narie senza infingimenti, a debita distanza dal sen-sazionalismo ipertrofico dei media e da equilibripolitici da mantenere. L'attenzione parte dal linguaggio: dalla preposi-zione "anche", che secondo Staccioli sta a significareun pregiudizio. "Anche" («nel commando c'eraanche una donna») è la preposizione che esclude lascelta per le donne, come se la scelta della lotta ar-mata fosse sempre determinata o da un legameamoroso o da cattive conoscenze, e non fosse maiuna decisione autonoma. Un libro sincero e complesso, che prima attraverso lestorie delle protagoniste, poi con le schede sulle varieorganizzazioni politiche di cui facevano parte, inqua-dra un clima, disegna l'atmosfera, rende il peso spe-cifico dell'Italia negli anni che si raccontano.Nel libro, infine, una testimonianza inedita di SilviaBaraldini, che stimolata a scrivere la sua storia faemergere una chiara posizione. Spesso si è parlatodi Baraldini come accusata di reati d'opinione e vit-tima di questo, mentre lei stessa esprime la respon-sabilità di essersi battuta consapevolmente control'egemonia imperialista statunitense. Questo noncambia. Ciò che cambia, come l'autrice stessa scrive,è la lettura del passato «in costante evoluzione».

Giusi palomba

tIrAturA lIMItAtA

Monologo tratto dallo spettacolo ehi tu!

Il lato cattivo di ernesto Guevara di Antonio Sinisi e Alessandro Pera

Io veramente non posso soffrire l’espres-sione il tradizionale concerto del primomaggio. Però sopporto, non dico niente.tradizionale de che? per me il primomaggio è bandiere rosse, cortei,rivendicazioni… una volta ci carica-rono, a piazza del Popolo, anni fa, era ilprimo maggio… Il primo maggio era dilotta, con i comizi, Bella ciao e Bandierarossa, e poi, certo, si andava anche a fare lagita fuori porta, con le fave, il pecorino, ilvino… però c’era sempre un vecchio com-pagno che ti raccontava la storia vera,quella degli anarchici impiccati, il bill delleotto ore, e poi Portella delle Ginestre etutto il resto. Ma ti dicono e basta con que-ste cose vecchie, bisogna stare con lagggente, ascoltare i gggiovani e tutte questeG alla fine ti assediano. Allora io ci sono andato, al tradizio-nale concerto del primo maggio. dasolo perché certe cose bisogna farleda soli, per mimetizzare il disagio…Ci sono andato al tradizionale concerto,per stare con la gggente, per ascoltare igggiovani, e ci stavano i giovani, erapieno, ma mi sa che pochi lavoravano lì,e c’era una ragazza sul palco che aveva ilnome di un fiore, che so, Viola, Rosa,Fiordaliso, e cantava una canzone… no,non era Bandiera rossa, era una canzoneche parlava di un ragazzo, forse si eranolasciati, cioè lei c’era rimasta male, cioèquesta Fiordaliso, Rosa o che ne so, e tuttii ragazzi la cantavano insieme, tuttimeno me, era ovvio che ero fuori posto,lo sapevo, allora mi dico vado a fare ungiro, comincio a camminare tra la follae… l’ho visto, lui c’era.che Guevara c’era, c’era al tradizio-nale concerto, cioè era una maglietta, mabella, grande, XXXLLL, appesa in alto, chesventolava sopra una bancarella. Il Che c’è!Allora mi avvicino, penso forse hannoanche le opere scelte, la vecchia edizione,con la copertina verde, le spillette, e poi…ma quello con la barba, chi è Ho Chi Min?Camilo Cienfuegos? No! No! È padre Pio,lì vicino al Che, c’è la maglietta di padrePio, e dall’altra parte Totti… No, per caritàè un grande campione, ma quello è unaltro sport, è proprio un altro campionato,non è lo stesso del Che e padre Pio, percarità, brava persona eh, però mi sa che erauno di quelli che considerava Nenni unpericoloso sovversivo… Allora sonoandato via e non sono più tornato al tradi-zionale concerto …Alcuni anni dopo ho visto un manifestoelettorale. Era di uno un sacco di sinistra.E c’era il Che Guevara. Insieme ad altri.Sai quelle cose che fanno adesso, qualisono i tuoi riferimenti, e loro mettonotutti i santini, avete visto alle primariedel centro sinistra, erano santini vera-mente, c’era papa Giovanni, cardinalMartini e via via tutti gli altri, mancavasoltanto san Gaspare del Bufalo. Lui, nonso perché non lo hanno voluto.E in quel manifesto, c’erano tutte le fotine,a cui il candidato faceva riferimento, era uncandidato un sacco di sinistra … C’eraGramsci, e ci sta, vicino al Che, niente dadire. Ma c’era anche Gandhi, cioè comedire il suo opposto, con la nonviolenza, ma

non era il più strano, c’erano anche JohnLennon, Madre Teresa di Calcutta, no dicoMadre Teresa di Calcutta, e Marilyn Mon-roe. A parte tutto, li vedo poco insieme perstili di vita diciamo, e poi non è che CheGuevara e Marilyn Monroe avevano lostesso rapporto con Kennedy, per dire, luinon è stato neanche invitato al suo comple-anno… E allora mi sembrava che il Chefosse molto a disagio, in quella compagnia,mi guardava, e sembrava che lui mi dicesselì dal manifesto: ehi tu! parla male dime per favore.Ho preso allora l’impegno di parlare maledel Che, di restituirlo alla sua dimensionescomoda e ingombrante, ai suoi pensieri,alle sue vere parole, alle sue azioni. Adessotutti vogliono piacere a tutti, essere simpa-tici, perché hanno qualcosa da vendere ovogliono il voto. Ma se tu vuoi cam-biare il mondo non puoi piacere atutti, se parlano bene di te ti deviinsospettire, che stai sbagliandoqualcosa. A volte ti odiano, a volte cer-cano di stravolgerti. Anche a Mandela èsuccesso. A parte Feltri, che non si batte,che ha titolato “Muore l'eroe dell'apar-theid”, cioè tutto al contrario! Hanno trasformato Mandela in un eroedella non violenza, è non è giusto, perchélui non lo era. Pochi ricordano che a uncerto punto, aveva già scontato quindicianni di carcere, e allora gli dicono se vuoiuscire, basta che fai una dichiarazione,due righe e sei fuori. E mica doveva direche i bianchi sono meglio dei neri o

cose simili, che l’apartheid è giusta,no, doveva solo dire che rinunciavaalla lotta armata come metodo dilotta, solo quello. e lui ha detto no.Non ha firmato. Non ha firmato e siè fatto altri dieci anni di carcere. Peròquesto pochi lo hanno ricordato, perché aquesto punto bisogna farne un santo egiocarselo contro i violenti. E lo stessohanno fatto in molti con il Che. Anche quello lì, che è sempre giovane,come si chiama giovanotto, Lorenzo, Che-rubino, lui crede in una grande chiesa, cheva da Che Guevara e Madre Teresa. Ma cosìnon si fa un buon servizio alla verità,diventa tutta una melassa e non riesci a sce-gliere, puoi cambiare maglietta conrapidità. Lui invece, Guevara, è rimastocoerente, ha mollato tutto, non come certiun sacco di sinistra, attaccati alla poltrona ealla poltroncina; lui firmava le banco-note, era stato ministro, ma ha mollatotutto, per andare a combattere incongo e in bolivia, in prima persona,mettendo il suo corpo, come amavadire, in ogni luogo del mondo, controogni sfruttamento, con ogni mezzonecessario. Questo è il Che che invecevoglio raccontare, urticante e spiacevole,intransigente, testardo, rivoluzionario. Seraccontiamo chi è stato veramente il Che, ilsuo lato cattivo, quello che ha veramentedetto e quello che ha realmente fatto, chivuole potrà strapparsi la maglietta dalpetto, perché non gli corrisponde, e altriindossarla con una diversa consapevolezza.

Il tradizionale concertodel primo maggio

| di Alessandro Pera |

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L A S P R O | p a g i n a 4 p a g i n a 5 | L A S P R O

AnarchiciIl sedicente anarchico lo incontri preferibil-mente sull’autobus. Rigorosamente affollato.Ti dice: «Io sono anarchico», spiegandoti lasua scelta con la nemesi storica della destra edella sinistra, con la caduta del muro di Ber-lino e col commosso ricordo di Berlinguer eAlmirante che, quelli sì che erano politicionesti. Ti rovina quel che resta della giornatache si profila già avara di soddisfazioni, rac-contandoti la sua avversione verso lo stato ele istituzioni (non tutte, salva normalmentequelle in divisa), motivata da una cartellaesattoriale o da una multa per divieto disosta. Non sa neanche chi sia Bakunin e noncondividerebbe neanche su Facebook le cita-zioni di De Andrè sul rifiuto dell’obbedienza,considerando comunque il rubare un delittoanche quando si ha fame. Servi e padronirappresentano per lui categorie immaginarie.Eppure si professa anarchico e mentre aspettipazientemente di arrivare alla tua fermatacerchi di riprenderti pensando agli anarchici,quelli veri e non sedicenti. Vestiti general-mente di nero con cane al seguito rigorosa-mente senza guinzaglio e museruola.Preferibilmente squatter e animatori di qual-che movida notturna, messi in mezzo pertutti i peggiori e i migliori misfatti della sto-ria. Dall’attentato di Sarajevo ai tralicci del-l’alta velocità passando per la strage dipiazza Fontana. Indagati con titoloni sui gior-nali, prosciolti con impercettibili trafiletti.Birra e musica hardcore. Belli come er sole.

biciIniziò con un festoso suono di campanelli, aricordarci che le città erano invase da auto, leguerre si facevano per il petrolio e i nostrimuscoli si stavano inflaccidendo come moz-zarelle con gli ormoni. Poi diventarono massecritiche, torpedoni di bici in fila e sbrocchi trachi cominciava il fine settimana con una sanapedalata urbana e chi con l'ultimo ingorgoprima di collassare a casa. All'ultimo stadio,ti immagini armate clandestine in marcia cir-colare su piazza Venezia, col pizzardone inpreda al panico che fischia i rigori per la Juve,autisti dell'Atac in lacrime, slogan urlati alritmo di trombette e la bandiera con dueruote issata sopra il Quirinale. Al culminedell'esaltazione ti svegli e ti accorgi che deviandare da Portonaccio all'Eur, piove e c'èsciopero dei mezzi. Smadonnando, chiedi laPanda a tua sorella, metti 5 euro di diesel spe-rando che basti e dici levati dal cazzo a quellostronzo con la bici.

communia (omnia Sunt)«Aho, il compagno Peppe s’è comprato casa!»«Eh già».«Ma noi l’abbiamo capito il tuo intento, tu saicosa significano comunione e solidarietà».«Che vuoi dire?»«Mica mó credi alla proprietà privata!»«No, però…»«Tu ti sistemi poi noi ti raggiungiamo, io, Salva-tore, Pasquale, Cinzia, Mariuccia, per qualchegiorno, una, due settimane».«Come una, due settimane?»«Stai tranquillo Peppi', ognuno fa qualcosa: chicucina, chi pulisce il cesso, chi fa la spesa, chibutta la munnezza. Poi dovremo pensare alleattività».«Che attività?»«Quelle che abbiamo sempre fatto, Peppi'. Iol’ho vista casa tua, c’ha 'sta facciata tutta bianca...A Cinzia le facciamo fare un murale bello riot,che ne dici? Uno spettacolo».«Be’…»«E poi sul terrazzo un laboratorio di giocoleria,tre volte a settimana».

«Scusa ma io veramente…»«E mó che c’è? Ti sei scordato che diceva Tho-mas Muntzer? Omnia sunt communia».«Vabbe' ma è casa mia».«E casa tua è casa nostra. Casa nostra sarà casatua. Vado a chiamare Salvatore, Pasquale…».

diseguaglianzeLe diseguaglianze sociali ed economichesono un necessario quanto insopprimibilefertilizzante in una società capitalistica. Cosìla pensiamo noi comunisti vetusti o contem-poranei che, tuttavia, usiamo soffermarcisulle diseguaglianze più vistose. Quelle, adesempio, tra chi può mantenersi uno yacht echi non ha nemmeno i soldi per mettere in-sieme il pranzo con la cena. Negli ultimi de-cenni ci hanno abituato ad altrediseguaglianze, ben più sfumate. Tra precarie garantiti, tra italiani e immigrati, tra chi nonmette insieme due pasti il giorno e chi riescea farne almeno uno. Tra chi non pranza e noncena e chi pranza soltanto, tra chi cena e chinon pranza, tutti fieri nemici di chi riescepure a permettersi una colazione. Ci siamocascati con tutte le scarpe tanto che, ormai, la-sciamo perdere il diseguale con lo yacht e cela prendiamo col diseguale che insieme alprimo riesce, di tanto in tanto, ad apparec-chiare anche il secondo. Siamo alla frutta.

elezioniOgni tanto capitano. E anche se fai come il fe-stival di Sanremo, che tutti se lo guardano matu c'hai di meglio da fare («l'importante è lapolitica che fai tutti i giorni, quella nei territori,mica quella nei palazzi»), un'occhiata glieladai. I dati che ti interessano sono tre, in ordinedi importanza: l'astensione, per poter dire:«Siamo il primo partito» (tu insieme a influen-zati, monache di clausura e quelli che «tantoso' tutti ladri»); la percentuale di Forza Nuovae Casa Pound, per prenderli per culo; la per-centuale di Rifondazione, Sinistra Critica, Pclo quello che è, un po' per prenderli per culo,un po' perché, magari qualcuno buono c'è, eun paio di volte l'hai pure votati... «Ma che davero vai a vota'?» «Eh, ma dall'altra parte ci so' i fascisti... e poise vince la destra la cooperativa mia col cazzoche pija l'appalto...».

fraternitéIo che prendo i mezzi lo so. Io capisco. Bangla,zingari, curdi, neri, afgani, palestinesi. In-somma, quelli che hanno visto oceani di merdalì da dove vengono, quelli che qui, nella miacittà, cercano disperatamente la dignità. E la di-gnità è possibile solo attraverso la solidarietà. Ela fratellanza. Voi siete tutti frate', ma propriotutti. Io vi vedo, io capisco. Tu sei frate', pure tu,ma pure quell’altro. Noi manifestiamo pure per

voi, perché siete tutti frate'. Lottiamo, alziamo lavoce, pure per voi, perché noi siamo internazio-nalisti. Noi siamo per la fratellanza tra i popolisfruttati. Soprattutto i bangla. Li pigliano sem-pre in giro perché dicono che so' brutti e passivi.Ecco, io lotto soprattutto per voi, perché sietefrate'. Però, che resti tra di noi, una cosa ve ladevo dire, cari bangla frate'. Perché mi dovetecacare il cazzo al semaforo? Perché mi doveteper forza vendere quelle rose sbriciolate dimerda quando mi sto facendo l’aperitivo al-l’isola pedonale del Pigneto? E poi 'sto cazzo dicurry non riuscite proprio a togliervelo didosso? Scusa frate', ci vediamo alla manifesta-zione. Ciao frate'. Bella frate'.

Genere“Contro ogni discriminazione di genere”Quella volta, sì, è successo quella volta, unacompagna aggredita dal suo ex, sì è vero, un po'più che verbalmente, eh, forse una spintarellagliel'ha data. Ma lui è un bravo compagno, e leiinvece, non sapremmo cosa dire su di lei, ma-gari se l'è un po' cercata? Poteva aspettare qual-che mese prima di rifarsi una vita! Sì, si èsempre spaccata il culo in questo posto, vero,quando qualcuno ha avuto rogne, lei c'è semprestata, ma insomma, questo cosa c'entra? Biso-gnava difendere lo spazio, non possiamo farciattaccare dall'esterno, che facciamo il gioco delsistema? E poi che figura ci avremmo fatto colmovimento? Qui siamo come una famiglia. Unafamiglia, ma non la famiglia tradizionale, un'al-tra. Altra come? Aspetta, fammici pensare...Non possiamo fermarci a parlare oggi. Faccia-molo domani, purché non sia oggi. Certo, par-lare, confrontarsi, ma oggi ci sono cose piùimportanti, la rivoluzione ci aspetta e noi por-tiamo già ritardo! È già domani? Ma insomma,non mettiamoci ansie inutili, questo è uno spazioliberato, al sessismo siamo immuni di default! C'è qualcosa di più importante da difendere,che va oltre noi, sopra di noi, è intorno a noi.Non lo vedi, non lo senti? Non sarà che questagran cosa, innominabile e immateriale, non sichiami alla fin fine, patriarcato?

hotelAlla lettera H abbiamo avuto un tracollo.Raga’ non c’è niente con l’H. Cassiamola. Anzino, scriviamo che non c’è venuto in menteniente. In effetti, ci sarebbe Hacker e quindiHackeraggio, ci sta l’H davanti. Vero. Oggi siusa tanto «Hackerare il sistema» che spessoevolve in «Hackeriamo il sistema da dentro».Da dentro? Ma se non ci riusciamo manco dafuori? Però quelli di Anonymous un po’ ci rie-scono, qualche azione tosta l’hanno fatta no?Boh! Adesso hanno lanciato un crowdfundingper finanziare la guerra totale all’Isis. In effettisarebbe il caso di scrivere qualcosa anche sulcrowdfunding ma la C è già coperta e alla finetutte 'ste parole in inglese possiamo anche evi-tarle. Raga’ ideona! Alla H scriviamo Hotel,così spiazziamo un po’ i lettori, li destabiliz-ziamo. Hotel dai, come in Nomi Cose Fiori eCittà… Hotel lo scrivevamo sempre tutti, losapevamo bene ma ci assicuravamo tutti al-meno 5 punti. Hotel è una parola comunista,nessuno vince, nessuno perde.

IndignatiIn principio erano spagnoli. Accampati intende canadesi, definiti sulle colonne deigiornali indignados, con quella esse finaletanto melodica e tanto pendant. Poi, la storiasi ripete almeno due volte, ed ecco la farsaitaliana. L’indignato tricolore è un leone datastiera, un bulimico somministratore di twe-ets, commenti e like. Scende in piazza anchelui saltuariamente, ma quando lo fa la piazzalo sconcerta e lo travolge. In piazza trova gli

arrabbiati che lui, proprio, non sopporta eche, fiero difensore della legalità qual è, de-nuncerebbe volentieri alla più vicina stazionedei carabinieri. L’indignato, infatti, non sfa-scerebbe mai una vetrina o un bancomat, nonresisterebbe mai a una carica della polizia. Almassimo denuncerebbe il sopruso su un blogo una lettera al direttore chiedendo le dimis-sioni del questore di turno. Critico del si-stema non lo mette realmente in discussione.La macchina funziona, basta dare olio al mo-tore e sostituire gli inetti con i capaci e i rac-comandati con i meritevoli. L’indignato è generalmente italo centrico.Pensa che tutto accada solo nel bel paese chechiunque ci invidia per le sue bellezze. Anchese, al massimo, ha frequentato all’estero qual-che esclusivo resort o villaggio turistico. L’in-dignato è la versione moderna del riformista.Una versione ancor più sbiadita e appannataportatrice dell’illusoria idea che l’onestà sia undono genetico e il merito una qualità che puòprescindere dalle diseguaglianze sociali.

lottaBollette, spesa, macchina, cena fuori ognitanto, bottiglia di vino, condominio, scarpeper l’inverno, vizi, stravizi e di nascosto dagliocchi indiscreti dei compagni e delle compa-gne (giudicanti) quel maledetto Gratta e vinci.Sì proprio lui, quello che «lo prendo, tanto nonvincerò mai, ma se poi vinco?». E non vinceraimai e la rabbia sale. Come Don Chisciotte lotticontro il capitale, contro le forze oscurantistedel male che ti lasciano con gli occhi rossid’odio e di fuoco. «Solo la lotta paga».

Movimento«Chiedi al ’77 se non sai come si fa». Chiedianche al ’68. «Chiedi alla polvere», scriveva unavolta un pazzo. Chiedi a chi vuoi, ma non chie-derti se ne fai parte, perché non lo saprai. Mai.Come ci dobbiamo muovere per seguire ilmovimento del Movimento? È ondulatorio o sussultorio?Non preoccuparti, tu non sarai soltanto unpezzo in più, due gambe aggiunte ad altrecentomila. Quelli sono i seguaci di padre Pio.

No«Vuoi un po’ d’acqua?»«No».«Ti va un caffè?»«No».«Stasera andiamo al cinema?»«No».«Mi ami?»«No». «Secondo te, io ti amo?»«No». «Ti piace quello che scrivo?»«No».

«Preferiresti essere cremata?»«No».«Ah, quindi vuoi essere seppellita?»«No».«Senti, ma non sai dire altro?»«Sì: NOTav, NOMuos, NOPonte».

occupazioneTutto comincia nella tua camera. Hai 14 annie Che Guevara ti guarda con aria severa dasopra il letto. Accanto a lui c’è Malcolm X cheti fa sentire una merda. Devi fare qualcosa: tibarrichi, la zona è interdetta agli adulti. «Nonmi avrete mai come volete voi!». Loro non ri-conoscono la tua sofferenza. Hai innescato il detonatore. Non tornerai maipiù indietro.

palestinaVa bene mettere lo zaatar pure sulla porchetta.Va bene la kefiah e le foto con le dita a V al ma-trimonio di tua cugina. Sono d'accordo che ladabka mette addosso più energia dello zumba.E sì, alla fine segui giusto un paio di presenta-zioni di libri alla settimana, tagghi tutti gliamici ogni volta che metti una notizia dal talevillaggio in provincia di Tulkarem, invii giustoun po' di mail per firmare le petizioni suchange.org contro la pulizia etnica dei beduinidel Naqab e diventi viola ogni volta che sentiparlare di Erri De Luca. È vero, esistono tanteingiustizie nel mondo ma quella della Pale-stina è troppo evidente, paradigmatica e poialla fine non è che si può seguire pure quelloche avviene in Sud Sudan. Però scusa, quandoti dico che il decreto Lupi toglie l'acqua alle oc-cupazioni non te ne uscire con «vabbe', peròalla fine so' abusivi...».

Quartieri«E di che zona sei tu?»...«Ah... sì, sì la conosco...»...«No, non ci vengo mai nel tuo quartiere enemmeno nel vostro centro sociale...»...«E perché, mi chiedi!?»...«Perché trent'anni fa uno del tuo centro so-ciale ha fatto un'infamata a un altro del miocollettivo, che non ho mai conosciuto perchénel frattempo è morto di vecchiaia. Hai ca-pito adesso perché non frequento il tuo quar-tiere? Siamo in rotta da allora...»... ... ...«Perché ridi?».

redditoA seguire cena sociale. 15 euro menu fisso +10 euro se compri pure il libro appena presen-tato. Facoltativo? Abbastanza obbligatorio.

Sottoscrizione libera 5 euro. Senti ti do 2 euro,con gli altri 3 mi ci prendo una birra. E no, eno, non ci siamo proprio. Ingresso + degusta-zione enogastronomica a chilometro zero, 20euro. Oh, rega', voi andate, tranquilli, io trovoaltro da fare. Il banchetto della sottoscrizioneè una barriera implacabile. «Compa', la vedi la fila dietro di te? Ci aspet-tiamo tremila persone stasera, non è cheposso sta a senti' la vita tua. Che non ci si puòcredere che non ce li hai almeno dieci euro intasca da donare alla causa. Ma che davveronon ce li hai, non ti credo, a' pezzente, a' pur-ciaro!» gli urlarono dietro prima di tornare inpiazza a chiedere il reddito sociale.

Sampietrino«Ammazza come pesa! Ma non ci sono quellipiù piccoli...? Seee, e dovrei arrivare fino lì infondo? Non ce la farò mai... Se va bene arrivoa tre metri da me... Forse è meglio se mi av-vicino un po'... No, no. E se poi mi beccano?Mai sia... Guarda quello come lancia! Chestile... e che mira! Allora faccio come lui: rin-corsa, slancio indietro quasi a toccare terra evia! Scattare come una molla... Vado! Allora...Uno, due, tre... eeeee LANCIO!… … …Ecco... Lo sapevo... Che figura di merda!».

tutte e tutti«È stata proprio una bella serata. Grazie atutt@».«Pasqua’, non s’è capita la vocale finale».«Era 'na chiocciola».«Sì ma quando parli mica te poi magna' 'navocale perché t’immagini 'na chiocciola».«Ho capito. Grazie a tutt*».«E mó che cazzo era?»«L’asterisco, va di moda».«Aho ma che sei imbecille?»«Grazie a tuttx».«Nun se capisce!»«Era 'na icse, è più alternativo».«Pasqua', me stai a pija pe' culo, ve'?»«Ma secondo te che cazzo devo fa', 'na for-mula matematica? Grazie a tutt@+*(x-y)=@*x».«Pasqua', tu stai esaurito. Ma che cazzo tecosta di' grazie a tutte e tutti? Stai a parla' da-vanti alla gente, cristo».«Se vabbe', così ogni frase diventa un teo-rema, un maschile de là, un femminile dequa, pe' fa' un ringraziamento famo mattina».«Te nun stai bene Pasqua', hai rotto er cazzope' mesi co' sta storia de tutte e tutti e mò testai a incarta' de brutto. Mica è difficile, eh!»«Aho ma mó m’avete rotto proprio li cojoni,tutti…e tutte!»«Bravo Pasqua', ce sei riuscito!».

unità«A' compa', qua le contraddizioni del capitalestanno a usci' fuori e il sistema sta a implodedall'interno. Noi come classe dovemo agi' pe'rende sempre più evidente la nostra azione decontrasto sui posti di lavoro, tra i disoccupati,dentro ai quartieri. Ma pe' fa' questo ce voleunità. La classe deve da esse unita, ora che labestia del capitale sta a soffri' e se contorce eproprio per questo se fa sempre più feroce èn'attimo che le forze della repressione ce di-sperdeno. Quando attaccano uno è come se at-taccano tutti. Per questo alla manifestazionenazionale faremo lo spezzone dei Comitati

Unitari Autonomi Popolari. Dovemo pija' latesta del corteo. Dovemo da esse uniti. E sequalcuno se mette in mezzo, specialmente dequei stronzi dei Movimenti Territoriali di BaseAutonomi, je dovemo mena'. Uniti».

VeganoUn altro mondo è possibile, uno slogan che daSeattle 1999 in poi ha unito nella lotta tantetribù di ribelli metropolitani e planetari, verio sedicenti tali. Un altro mondo è possibileanche per i vegani, particolare tribù culinariae degustativa inserita a vario titolo nell’uni-verso movimentista. Tribù che si colloca pre-feribilmente in alternativi locali situati inquartieri da movida notturna (dopo aperi-cena, ovvio), o in centri sociali dalle migliorio peggiori tradizioni da scontro sociale. Te li ritrovi seduti con il loro look ricercata-mente disordinato durante cene di sottoscri-zione per compagne/i processati/e e, tra untrionfo di cannellini e un risotto rigorosamenteverde, ne scruti linguaggi e movenze nel ten-tativo di scoprire i loro bisogni e le loro vere opresunte istanze di lotta. Così capisci che i ve-gani stanno ai vegetariani come il partito co-munista d’Italia stava ai socialisti già corrottidal virus riformista ai tempi del congresso diLivorno del 1921. E, andando ancora più afondo, ti accorgi che questi vegani non rappre-sentano neanche il limite ultimo dell’estremi-smo culinario. Oltre ci sono i crudisti e, ancorpiù oltre, ci sono i fruttariani simbiotici. Perso-naggi, questi ultimi, che mangiano soltantofrutti colti direttamente dagli alberi. Alieni a ogni compromesso sarebbero definitisui poco originali quotidiani nazionali come au-tonomi, antagonisti o anarcoinsurrezionalisti.Poco disposti a qualsiasi trattativa istituzionale,figuriamoci col fruttivendolo di turno che ma-gari vuole mollargli una mela macrobioticaspacciandola come appena caduta da un albero.E mentre perdi quel poco di senno che ti restamandando giù un vino necessariamente biolo-gico, ripensi a quanto avesse ragione quel buon-tempone di Mao quando sosteneva che larivoluzione non è un pranzo di gala.

zineUna volta c’erano le fanzine e sono ancora vivee vegete. Tutto è cominciato negli anni Sessantacon la rivoluzione del DIY. Le prime, quellestoriche, sono le più punk. Il linguaggio e i ma-teriali sono essenziali: carta, collage, penne, co-lori, colla, spillatrici e forbici. Quanto basta percreare, impaginare e distribuire come si può.La controcultura in ogni angolo del pianeta siesprime così e non ha mai smesso di farlo.Controinformazione e creatività, due C, comein Creative Commons, i contenuti e il conteni-tore sono liberi, autoprodotti. Adesso ci sonoanche le e-Zines ma la carta regna, perché haun odore che nessun chip potrà mai sostituire.Anche Laspro è a suo modo una fanzine. Smanettiamo le nostre teste per due mesi, ciscriviamo una media di 30 mail al giorno per as-semblare ogni numero, poi lo finanziamo con ireading e gli abbonamenti, distribuiamo comepossiamo e accogliamo contributi di scrittori, il-lustratori e fotografi. Facciamo quello che pos-siamo con cuore, incoscienza e ironia. Abbiamo finito co' 'sto Dizionario? Possiamoandare in stampa adesso? Daje!

Al margine del corteoDizionario autocritico della militanza

| a cura della redazione di Laspro |

illustrazione di Alex Lupei

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«… y flores, muchas flores: sabe usted, mis abuelos celebran mañanasus bodas de oro… »… La lezione di spagnolo è decisamente simpatica: Pedro or-ganizza una festa per le nozze d’oro dei suoi nonni e ordinafiori su fiori a sbizzarrire di bellezza la sala del ricevimento.Meno la nonna paterna, Clelia, panettiera, vedova con novefigli in vita, donna di tempra e dalla pelle chiara e signorile,Adele sapeva poco o niente dei restanti abuelos. Clelia era mortaquando Adele aveva nove anni (e un sogno glielo anticipò) peruna trombosi. I suoi genitori decisero di risparmiarle il funeralee la affidarono ad amici di famiglia con dei figli della sua età:la loro casa era il posto più adatto a dimenticare ogni angosciainfantile, perché piccoli e piccolissimi spazi si incortilavano aformare un rustico labirinto nel quale risuonava lo strepitodelle oche che i bambini provvedevano a infastidire. E poi c’eracalma, un po’ di quella trasandatezza che piace ai piccoli cuidispiace andare a lavarsi le mani per una merenda di pane eprosciutto e cui piace saltare sui letti. Sì, le era permessa qualchepratica severamente interdetta a casa sua: bello.I suoi rapporti con la matriarca, alta e statuaria, dall’andaturaaristocratica, erano tendenzialmente tesi e se ne preoccupavaora sì e ora no. Le voleva bene ma la temeva, e non capiva per-ché le fossero dovute tante attenzioni: ordinati, eleganti e re-verenti. Tutti i nipoti da lei la domenica pomeriggio:un’interminabile dinastia o almeno così Adele la faceva.Intanto sognava dell’altra nonna (dei nonni si interessava po-chissimo, indecentemente), quella materna, Monica, di cui fa-voleggiava la somiglianza a lei come a sua nipote prediletta,

avviando la lusinga da una sparuta serie di foto. Con un ri-tuale fatto di brevi spedizioni furtive dirette a quel cassettoriservato a sua madre, Adele apriva, con l’impaccio di chi sisente esposto a un prossimo senso di colpa, apriva quei ritrattimuliebri in cui la nonna compariva curatissima, gli occhi dolcie fermi, le sopracciglia alla Greta Garbo, un naso evidente madritto (quello di Adele, da pugile scazzottato, diminuiva esmentiva la volontà di somigliarle), le labbra assottigliate dalrossetto e un viso molto femminile. Indossava cappelli e cap-pellini e (forse) guanti. Aveva un diploma di maestra, amaval’opera e vi ci andava portandosi dietro la madre di Adele e,vedova giovanissima, viveva con decoro per l’intervento diuno zio che insegnava matematica in un liceo cittadino, risol-veva logaritmi in bagno a soluzione di una tignosa stitichezzae perse il suo lavoro perché antifascista. Adele pensava a quanto era bella nonna Monica, distintissimae ... medium. Iniziò i suoi contatti con un aldilà nel quale credeva con ferreafede (per quel che si sa e per quanto a morsi e bocconi Adeleriusciva a mettere insieme), nel solaio della sua casa natale.Nei pomeriggi, la nonna, allora di sei o sette anni, vi godevadel sole (che scendeva a fasci polverosi e presaghi: era un so-laio accogliente e luminoso) e la compagnia di un vecchiononno con cui parlava in dialetto secondo i modi saputi concui un vecchio e un bambino sanno parlare. La sentivano al-legra, lei, ma al dialogo mancava l’interlocutore. Scendeva,dicendo di come il nonno si fosse impigrito e di come fosselieto che la sua sedia a dondolo lo compiacesse nella sua in-

dolenza meridiana. E che diventava sordo. Nessuno ormai lacontrariava e la sua singolarità divenne normale e innocuaper tutti. Poi, andando a vivere altrove perché sposata, sfidò un fanta-sma in pigiama e vestaglia da camera, elegantissimo, semprein compagnia del suo alto cane (figura dannunziana con le-vriero), che, vantando la sua proprietà su quella casa, si osti-nava a sedere sullo stesso divano. Adele carezzava ipotesi sucome Monica se la fosse cavata in quel frangente: il cane erairritabile e si dice che fosse morto sulla tomba di lui, per lan-guore, dopo alcuni giorni (la cosa non sorprende: tanti caniasseriscono la propria fedeltà con il morire subito dopo il pa-drone); e accoglieva, dopo le più bizzarre, la possibilità cheavesse fatto dire una messa e recitato alcune delle sue potentie antiche preghiere.Monica continuò la sua attività di mediatrice andando di casain casa, ovunque la chiamassero, a rendersi conto di personase fosse il caso di fare da sola o chiamare un esorcista. Si risposò e si spostò di nuovo e morì a 38 anni di un cancro alleovaie. La madre di Adele si sentì sola, a 15 anni, con il suo far-dello d’arie d’opera e di ricordi già stanchi, destinati a sbiadire,e volle tornare dove era nata, accolta in un istituto gestito conuna certa apertura all’istruzione e alla formazione delle donne.Adele riaccende il registratore per sentire la risposta del com-pitissimo maestro di cerimonie: «y por sus abuelos serà sin dudauna magnifica fiesta…» e spera che anche solo uno o due diquei tanti fiori ordinati da Pedro siano capitati su una tombain un cimitero ferrarese. Nel 1947.

Victor Gischler, scrittore di romanzi hard-boiled, sceneg-giatore di fumetti per la Marvel (The Punisher, Wolverine, X-Men, Deadpool) e docente di scrittura creativa alla Rogers StateUniversity in Oklahoma, è una delle figure più interessantidella nouvelle vague del crime statunitense. La sua primaopera Gun Monkeys (La gabbia delle Scimmie nell'edizione ita-liana per Meridiano Zero) nominato all'Edgar Award migliorromanzo d'esordio del 2001 va diretto e veloce come un pezzopunk della Bowery e trascina fino all'ultima battuta. SecondoJoe r. lansdale Gischler «prende a calci in culo il concettodi andare al massimo e lo mette a danzare sull'orlo del-l'abisso». E l'incipit di La Gabbia delle Scimmie scalcia con una zampata dimulo il lettore schiantandolo sull'ultima pagina: «Imboccai laFlorida Turnpike con il cadavere decapitato di Rollo Kramernel bagagliaio della Chrysler, continuando a ripetermi mental-mente che avrei dovuto stenderci sotto un telo di plastica». Ma per un borgataro come chi scrive, che sbaglia le doppie,questo attacco spacca, oltre che per la scrittura, perché ci ca-tapulta da subito nella condizione da sfigato di chi, per re-stare sul mercato, deve accettare ogni lavoro, come ilprotagonista. Riuscirà Charlie Swift a farsi pagare un lavoroche pareva regalato se, per la cazzata di un collega, il commit-tente non può – non ha più la testa – identificare il cadavere?Questa è la prima domanda, metafora della odierna condi-zione di vita, che l'autore ci pone. La storia, e l'esistenza coattadi Charlie, va subito in merda.Beggar Johnson, potente boss di Miami, che controlla la cri-minalità di quasi tutta la Florida, vuole impossessarsi di Or-lando, territorio gestito, con una visione degli affari damalavitoso anni '50, dal vecchio Stan. La sua banda viene su-bito decimata. Swift, membro della gang di Orlando, si ritrovafra i pochi superstiti, ma con una borsa contenente i registricontabili dell'impero di Johnson, diventando così la preda diuna caccia scatenata da Fbi e mala di Miami. Il romanzo, forte di un congegno a orologeria, assembla allavelocità di una botta di metanfetamina azione, intreccio nar-rativo, ritmo cinematografico, violenza pulp e uno humor ne-rissimo. La Gabbia delle Scimmie è una storia di mala, diamicizia, di lealtà e tradimenti, di regole non scritte che vanno

ben oltre i sentimenti. La scrittura di Gischler si differenziadalle sceneggiature temporalmente asimmetriche di taran-tino, da cui riprende il gusto per il pulp, per la semplice li-nearità della narrazione. Per questo, non condivido ilparagone, di certa critica, con il regista di Le Iene.Gischler costruisce intrecci non complessi. Come nel caso delfumetto The Punisher di cui dice: «C'è una meravigliosa sem-plicità nel personaggio. Il Punisher individua il ragazzo cat-

tivo. Il Punisher uccide il ragazzo cattivo». Da un punto divista cinematografico, il parallelo più appropriato con il ro-manzo è Chi ucciderà Charley Varrick? Pellicola uscita suglischermi nel 1973 per la regia di don Siegel. Non tanto peruna particolare similitudine della trama, ma per il finale chescardina i meccanismi del genere. La Gabbia delle scimmie sichiude con un tradimento degli ingranaggi narrativi che pre-siedono lo hard-boiled. E come nel film di Siegel, o in Gatewaydi Sam peckinpah, il noir va a braccetto con il lieto fine. I riferimenti letterari che vengono in mente sono Jim thom-pson, elmore leonard, James crumley, Joe Lansdale perla sfrontatezza diretta e senza fronzoli con cui, come questiautori, si rivolge ai lettori. Nel suo ultimo romanzo Notte di sangue a Coyote Crossing, cheha fra i suoi estimatori lo scrittore don Winslow, Gischlershakera il noir al western come un cormac Mccarthy sottospeed. Questa è la trama: in mezzo allo sconfinato nulla del-l'Oklahoma, si erge il tristissimo paese di Coyote Crossing,dove gli abitanti credono di dormire sonni tranquilli. Unanotte i Jordan calano sulla cittadina, per vendicare l'omicidiodi loro fratello Luke, ma il cadavere scompare, quando l'aiutosceriffo Toby Sawyer si allontana per andare a farsi una svel-tina con la sua amante diciassettenne Molly. Toby deve ritro-vare il corpo del morto prima dell'alba ma scoprirà ben prestodi non essere l'unico a cercarlo. Dei sicari chicanos gli distrug-gono la roulotte dove vive a raffiche di mitra, e lui fa appenain tempo a scappare con il figlio in braccio, sotto la pioggia dipiombo. Come se non bastasse la vita del protagonista preci-pita perché la moglie proprio quella notte lo accanna e vadalla sorella in Texas. E lo sceriffo? Dov'è finito il suo capo?Nel tempo di una sola notte, senza potersi fidare di nessuno,il giovane Sawyer è costretto a crescere. A diventare adulto.Quando salta il tappo verranno a galla segreti pericolosi edovrà combattere con il cuore marcio di un intero paese dimerda. Epico lo scontro con i fratelli Jordan, una sfida che ri-manda all'O. K. Corral. Di contorno, i classici e graditi ele-menti: incendi, esplosioni, sparatorie e inseguimentimozzafiato a cavallo di rombanti Harley Davidson o a bordodi Ford Mustang. In poche parole, per gli amanti del genere,Victor Gischler è un autore da non perdere.

Abuela| di Maria Giuseppina Ottaviana Piras |

pop-corNer di Duka

Lo humor nero di Victor Gischlerla new wave del noir americano

«No, ti ripeto, questa volta sbobini poi le interviste». «Ma ne ho raccoltotanto di materiale tra Suruç e Kobane, e lo sai che ho bisogno di averequelle testimonianze per poter scrivere l’articolo». «Tira fuori i ricordi,le intuizioni impresse sui tuoi sensi. E non essere sempre così maledet-tamente didascalica». «Ah, grazie tante, mi mancava la criticacostruttiva».Siedo su una panchina del parco dell’Aniene alle spalle della via doveabito. Mi godo il sole di metà marzo mentre tento di trovare un com-promesso tra la ragione reportistica di quanto visto e sentito nel mioultimo viaggio nel Kurdistan turco-siriano, e l’istinto che viene dalleforti emozioni provate. Sono lacerata, forse perché il problema non melo ero mai posto e, comunque, non in tali termini. La scrittura come nar-razione, dunque. Qualcuno mi ha ricordato che molto spesso i fatti perquanto correttamente riportati non fanno arrivare a chi legge il sensovero e profondo di ciò che si è vissuto. Io non sono una giornalista. Sonouna testimone.

Kobane 5 marzo 2015 - Camminiamo una dietro l’altra tra lemacerie del centro di Kobane. La mente tace mentre osservo lerovine degli edifici bombardati o fatti saltare in aria dalle forzedell’Isis, Daesh come i combattenti curdi spregiativamentechiamano il califfato. C’è un silenzio definitivo, nessuna voceumana, neanche la nostra, nessun cinguettare di uccelli né abba-iare di cane. Attente a dove mettiamo i piedi con le amiche dellastaffetta donne del rojava calling seguiamo la nostra guida,la giovane Siam, curda-turca che parla perfettamente l’italianoavendo speso un anno della sua vita nel nostro paese. Saliamo su calcinacci, pezzi di vetro, infissi rimasti intatti unoaddirittura con la chiave inserita. Sono vere e proprie collineimprobabili da cui di tanto in tanto affiorano gli involucri vuotidi bombe sparate dai blindati degli assalitori. Nelle abitazioninon è permesso entrare, se non in alcune considerate bonificateda ordigni inesplosi e molto spesso “accesi” proprio dai civilifrettolosamente rientrati nelle proprie case. «un bel macabroregalo lasciatoci dal daesh mentre piegava in ritirata».Le logiche di guerra rimangono immutabili.Le finestre non esistono più. I palazzi sono squarciati ma dentronon c’è proprio nulla da vedere poiché nulla si è salvato. Anzino: in un paio di appartamenti scopriamo intatti e appesi al sof-fitto dei lampadari; in un altro su una parete il disegno di unadonna che suona un flauto.Siam ci guida all’interno di un edificio. La scena che si apre aimiei occhi è curiosa: le pareti che dividono le stanze sono stateabbattute nella parte superiore. Anche sul muro esterno appareun buco enorme sempre in alto. «Si è combattuto stanza perstanza, non solo casa per casa. chi faceva crollare primail muro attaccava e sconfiggeva il nemico occupandonepoi la postazione». D’istinto mi viene da chiederle quanti sono

stati i caduti tra le file dello Ypg (le forze di difesa popolare) e loYpj (le brigate di donne) nelle azioni di guerriglia urbana. Mifreno: questa domanda non ha alcun senso, solo un ennesimonumero da aggiungere a una serie di altri già comunicati. E men-tre guardo girando la testa a destra e sinistra tutto questopaesaggio di distruzione, rifletto su quanto la morbosa attitudinedi quantificare i morti abbia rubato l’anima a noi occidentaliliberi dalle guerre nei nostri paesi. Dovremmo chiedere i nomi,invece, e l’età per capire il reale prezzo pagato per la loro e lanostra libertà; e le loro storie, soprattutto.Riprendiamo a camminare e mentre ci avventuriamo in una dellezone più colpite in prossimità di piazza della Pace, incontriamodegli uomini che stanno svuotando la loro abitazione. Il più gio-vane si ferma a parlare con Siam. L’appella come “quella delgoverno” poiché lavora nell’amministrazione del cantone diKobane. Le chiede informazioni, lamenta qualcosa. Poi sorride,ed è incredibile quel sorriso in mezzo alle macerie della sua vita.È un cantante figlio di un altro famoso cantante. Ci indica lapalazzina da cui stanno asportando alcuni oggetti, al pian terrenoavevano un ampio negozio di strumenti musicali, a quello supe-riore c’era l’abitazione di famiglia. Tutto distrutto, ma sono salvifatta eccezione per un’anziana parente che abitava nel palazzo difronte al loro e di cui proprio lui una volta rientrato in città ha rin-venuto il corpo. Uccisa da un’esplosione, morta in solitudine.Ci avviamo verso quella che era la zona commerciale. Lastrada che l’attraversa è stata in parte ripulita pur rimanendoa interrompere la fluidità del passo montagnole di vetri emacerie. Le serrande sono divelte e la maggior parte deinegozi distrutti. Ma qua e là alcuni temerari hanno riapertodei piccoli spacci. Il loro sguardo è sereno e domandano daquale paese veniamo. Sono seduti su sedie che si reggono amalapena, distanti l’uno dall’altro. Il più giovane ci spiega cheha la famiglia sfollata nella regione di urfa, dove si trova lacittadina di Suruç. Lui è rientrato con la volontà di riprovarea mettere insieme la sua vita qui a Kobane anche se la casa èandata perduta e quindi si arrangia a dormire nel suo angustoemporio. Per ora ha impedito ai suoi cari di raggiungerlo maè evidente che ne sente la mancanza.Salutandolo ci allontaniamo in quello che si è trasformatosenza che ce ne rendessimo conto, in una sorta di pellegrinag-gio fatto di stazioni dove sostiamo quasi rendendo omaggioa ogni angolo di questa città ferita gravemente ma da cuiemana una forza e una vitalità che entra nel cuore in manieranaturale. Già, perché Kobane non è deserta e ce se ne rendeconto mano a mano che si prosegue nel cammino. «Sono 30mila i profughi riparati in territorio turco rientrati. lametà sono tornati nei villaggi vicini, quelli liberati dalnemico. Gli altri sono tutti qui ed è un’emergenza

seria cui il governo del cantone deve fare fronte intempi brevi. Insieme alla ricostruzione».Siamo ferme a discutere in prossimità di un crocevia dove unafamigliola sta accovacciata sui calcagni intenta a cercare qualcosatra frammenti di vetro e calcinacci. La madre con accanto i tre figli,due femmine e un maschio, ferma il lavoro e ci guarda incuriositamentre le chiediamo di poter fotografare i bambini. Il padre un po’più distante sorride – ebbene sì, anche lui – e dà l’assenso a essereimmortalato. Indica il negozio privo di masserizie a cui siede difronte e spiega che lui è un elettricista e con la famiglia sta cer-cando di recuperare la merce che le bombe e i combattimentihanno disperso. Quindi eccoli lì, piegati tutti e cinque a raccogliereviti, stopper di plastica e qualsiasi altro minuscolo oggetto valgala pena essere rimesso in vendita. La moglie parla della loro abi-tazione andata distrutta, ne hanno occupata un’altra, libera eintatta nella zona ovest della città, la meno colpita dalla guerra.«Se e quando i proprietari torneranno vedremo cosa fare».A piazza della Pace mentre Siam è impegnata a spiegarci dadove sono entrati i blindati del Daesh, veniamo raggiunte daun gruppo di bambini tra i 5 e gli 8 anni di età che ci circon-dano e ridono guardandoci. Tra loro Mustafa, che da un po’ci segue a distanza di sicurezza e quando si avvicina si passala mano tra i lisci capelli scuri ma non spiccica una parola. Lasua dolcezza è contagiosa, si affianca e poi ci mostra la meda-glietta che porta al collo con l’immagine di ocalan. Gli altripiccoli giocano tra loro, dandosi spintoni e poi montando deitricicli polverosi dalle ruote un po’ disarticolate con cui per-corrono l’unico troncone di strada liberato definitivamentedalle macerie. Strappano il diritto di vivere la propria infanziaall’orrore della morte e della guerra e sono bellissime le lororisate mentre si abbracciano.Vagando con lo sguardo tutt’intorno mi chiedo quanto tempo civorrà perché tutte quelle macerie vengano sgomberate. Quantodovrà passare perché inizino le opere di ricostruzione, semprepiù urgenti vista la pressione dei profughi al confine. I canalid’ingresso sono chiusi perché la turchia fa ostruzionismo. Ilconfederalismo democratico del rojava, di cui Kobanè èdivenuta il simbolo, non gli piace, anzi trattandosi della creaturapolitica nata dal pensiero ideologico di Ocalan lo osteggia e apensar male, si potrebbe anche sostenere che il Daesh attaccan-dolo gli abbia fatto quasi un favore. Ma Kobane è viva e più forte così come il messaggiodi libertà e autodeterminazione che incarna per ilpopolo curdo e per il mondo intero. Le radici del suoprogetto sono ben radicate in questa terra e per noi attivistioccidentali valga l’avvertimento: non innamoriamoci diKobane, del Rojava per poi dimenticarcene alla prima nuovaemergenza. Saremmo noi a perdere.

I l cammino di Kobane| di Patrizia Fiocchetti |

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Quando sono in macchina, ma anche quando cammino in città, se sono nervosa, alzo la testae guardo gli alberi e nella mente mi dico: guarda gli alberi, guarda gli alberi, guarda gli alberi.Finché non li vedo: sono vivi e silenziosi. Mettono pace.Lo faccio spesso da quando sono madre. Il quartiere in cui vivo, sciatto malconcio maltrattato,mi fa male. Mi fa male vedere i miei figli camminare accanto a mucchi di spazzatura, mi famale scansare con loro le siringhe nei parchi, cercare delle risposte quando mio figlio piùgrande mi chiede perché delle persone gridano, bestemmiano, vomitano, barcollano. Mi fannomolto più male queste cose, da quando sono la madre di due persone.Allora guardo gli alberi e li faccio guardare anche a loro. Gli dico guarda, glielodico una volta sola, tanto loro li vedono subito.Ne stavamo guardando uno ieri, quando Diego mi ha detto: «Mamma, puoi smettere di parlareche non sento?» mentre un amico, Luca, ci mostrava i semi della catalpa e ci diceva che hannole piumine per farsi portare via dal vento, oppure per attaccarsi ai manti degli animali per es-sere portati in giro da loro.È vero, mentre Luca parlava, in quel momento, stavo chiacchierando con un’altra persona, masentivo tutto e questa cosa dei semi con le piumine che li aiutano a farsi portare via dal ventomi ha dedicato un momento di tenerezza. Per un attimo, per gli attimi di tutti gli alberi che ab-biamo guardato, per gli attimi delle bambine e dei bambini che ascoltavano le parole dellaguida, mi sono dimenticata Torpignattara. Anzi, non me la sono dimenticata, l’ho sentita in unaltro modo. Torpignattara ieri era anche amabile, stranamente rasserenante come il rumoredelle foglie nel bosco, come il sole che scende sotto il mare.Grazie ai platani di via torpignattara, agli olmi e ai tigli di via filarete, alle catalpedella casilina, torpignattara, ieri, non era solo un posto ostile.Delle persone sconosciute si sono via via unite a noi per fare dei tratti di strada insieme, adascoltare le storie degli alberi. Una signora si è affacciata dalla finestra, ci sentiva benissimo,poi ci ha chiesto come si chiamavano gli alberi alti, quelli in mezzo a via Filarete. «Ah sì, gliolmi!» ci ha detto prima di salutarci «ci stanno anche a casa mia, in Abruzzo».Poi siamo arrivati dall’albero che sembra una madre con tante appartenenze: la quercia delpratino del costone della Certosa. Il costone che di notte si riempie di buchi e disperazione.Le siringhe erano dappertutto, sbucavano come i fili di un prato umiliato, abbattuto, deriso. Edi fronte alla quercia che da un tempo troppo lungo osserva tutto in silenzio, abbiamo guardatol’albero con il cane di pelouche attaccato, quello sotto al quale è morto un ragazzo poco tempofa. Stava con una ragazza, dormivano. Lui era pieno di roba cattiva.e allora mi ricordo. Mi ricordo dove sono, dove vivo, dove sto crescendo i mieifigli. Mi ricordo che, paradossalmente, più delle siringhe, più del cane di pelouche, della robacattiva, più dei morti, più persino del morto che abbiamo trovato una mattina di qualche annofa, sciancato, grottesco nel suo essere svestito dal suo travestimento, più delle armi che, sempredalle parti della quercia, abbiamo scovato, più dell’avvocato che rappresenta quella proprietàche, durante un primo maggio di anni fa, dopo che avevamo pulito, tagliato l’erba e curato lepiante, mentre i bambini giocavano e noi grandi festeggiavamo, ci disse che preferiva il degradoe i tossici alla nostra presenza lì. Più del comandante dei vigili urbani del quinto municipioche, durante una giunta che abbiamo chiesto un paio d’anni fa, ci disse che la Zona 30 alla Cer-tosa ce la potevamo scordare perché, nonostante le nostre case stiano sulla strada, nonostantela Certosa sia piena di bambini che giocano per strada, nonostante le macchine sfreccino a tuttavelocità soprattutto da quando è chiusa via Filarete mettendo a serio rischio la vita di tutti gliabitanti, nonostante il sottosuolo sia vuoto e i geologi abbiano detto che il passaggio di mezzipesanti mette quotidianamente a repentaglio la sicurezza nostra e delle nostre case, ebbene,nonostante tutte queste cose, il signor comandante disse che ce li potevamo scordare i dossi ei cartelli tondi con il cerchio nero e dentro scritto “30”, ce li potevamo scordare perché tantonoi non eravamo quartiere residenziale.Ma c’è ancora di più, c’è stata una cosa che, più di tutto questo, mi ha fatto ancora più male.Sono state delle parole, come quelle della signora che rappresentava i proprietari durante quelprimo maggio, come quelle del comandante dei vigili urbani, ma queste parole qui sono statepeggio, perché a dirle è stata una donna dalla quale mi aspettavo comprensione, compassione,empatia. Si tratta di una donna che presiede a un assessorato significativo per le sorti del co-stone, l’assessore all’ambiente e al decoro che, giorni fa, non più di due, forse tre settimane fa,ho incontrato sotto la quercia, di fronte all’albero col pupazzo di pelouche, quello del ragazzomorto di overdose. Era lì con i rappresentanti di una cooperativa che si occupa di riduzionedel danno, raccoglievano le siringhe e mi avevano assicurato che, da quel momento in poi, sa-rebbero tornati due volte la settimana.Ho approfittato della presenza dell’assessore per rivelarle l’idea che, come comitato di quar-tiere, abbiamo maturato: il Municipio poteva affittare una ruspa per spianare il terrenoe poi noi ci avremmo fatto un campo di calcetto, uno di bocce e una palestra all’ariaaperta. Con il comitato avevamo pensato di farlo come quartiere, autotassandoci, come ab-biamo fatto in molte altre occasioni. Ma, in questo caso, la spesa sarebbe stata alta, la ruspa dif-ficile da trovare, inoltre, trattandosi di proprietà privata ci avrebbe fatto gioco l’avallo delMunicipio.A spese del Municipio soltanto la ruspa, il resto, il campetto di calcio, il campo bocce e gli at-trezzi sarebbero stati a carico e manovalanza nostra! E, rispetto alla proprietà, non si sarebbetrattato di edificare niente, quindi sarebbe stato tutto in regola. La ruspa avrebbe significatosoltanto un intervento di pulizia straordinaria di un terreno troppo compromesso che, al di làdel campetto di calcio, andrebbe comunque, assolutamente, sistemato e pulito a fondo.In questo modo, le bambine e i bambini della Certosa avrebbero avuto un bel posto dove gio-care, gli anziani avrebbero avuto un’alternativa al bar e alla piazza, un posto per socializzaree giocare, un posto dove magari insegnare ai giovani un gioco antico e insieme avvincentecome le bocce. E le madri, i padri, i ragazzi e le ragazze, le donne e gli uomini del quartiereavrebbero potuto fare ginnastica all’aria aperta! E tutti, tutti i cittadini e le cittadine della Cer-tosa e non solo, chiunque avesse percorso le scalette o portato i cani a passeggiare, non avrebbepiù visto donne e uomini accasciati sui gradini a chiudere gli occhi piano piano, rapiti da unacosa nera e pesante. Tutti i cittadini e le cittadine che fossero passati dalle parti della quercia non avrebbero più

visto donne e uomini rovistare tra gli anfratti dell’albero alla ricerca dei loro appizzi, a scaldarel’eroina, a scrutarsi le braccia a vicenda alla ricerca delle vene ancora buone. In questo modo,nessun ragazzo che avesse usato le scalette per scendere a Torpignattara, in pieno giorno,avrebbe più subito la minaccia di essere trafitto dalla spada infetta se non pagava il pizzo delpedaggio. In questo modo, nei negozi lì sotto, quelli su via Filarete, non sarebbero più entratidei ragazzi con i cappucci e gli sguardi abbassati per terra per prendersi le birre e andare viasenza dire nulla, senza salutare, senza guardare, soprattutto senza pagare.In questo modo, forse, i ragazzi e le ragazze dei buchi, le donne e gli uomini delle spade e degliacchitti appizzati dietro la quercia, ci avrebbero guardati e può darsi che ci avrebbero chiestodi unirsi a noi. forse avrebbero portato i loro figli, perché molti di loro sono madri epadri di bambini e di bambine. In questo modo, forse, le ragazze e i ragazzi belli, snellied eleganti che ho visto salire lungo le scalette per poi fermarsi sotto la quercia a cercare levene, in questo modo, forse, si sarebbero appesi alla sbarra per tonificare i bicipiti, avrebberofatto su e giù sulle gambe per rinforzare i quadricipiti! E l’endorfina, come la gnugna, sarebbesalita, per mettere un poco, almeno un pochetto, in pace l’anima. Ridete, sì, perché guardo lon-tano, così lontano da far ridere, ma è perché sono fermamente convinta che in ciascuna e inciascuno di noi risieda una profonda bellezza che, se scorta, se osservata, se accolta, germoglia.E poi fiorisce.Parlavo all’assessore di questa cosa della ruspa e mi sentivo come una bambina, una bambinache sta parlando dell’idea bellissima che ha avuto insieme ai suoi amici. Con quel candore,quel trasporto e quella fiducia lì.poi sono caduta per terra e mi è andato tutto giù, gli occhi, le sopracciglia, le spalle,la bocca, la nuca. Il cuore, mi è caduto per terra pure il cuore. Perché lei ha detto delle coseche sapevano di ghiaccio e di lame. Sì, in un contesto come quello, davanti a uno scenario comequello, solo una persona con il ghiaccio e le lame avrebbe potuto dichiarare una cosa del genere:che-adesso-dovevamo-vedere-come-dovevamo-fare-perché-non-c’erano-soldi-e-quello-che-come-assessore-aveva-intenzione-di-fare-da-quel-momento-era-rivedere-le-carte-dell’accordo-tra-il-municipio-e-i-proprietari-del-costone-per-rivederlo.In buona sostanza per fare definitivamente a meno di adempiere ai loro oneri. Ovvero per nondover essere più costretti a pulire il costone nemmeno quelle due volte l’anno che sanciva l’ac-cordo. Ri-ovvero per abbandonarci definitivamente. Questo dopo aver pulito il costone unavolta soltanto, in tanti anni, come a dirci: ora vi abbiamo accontentati ma voi non siete nessuno,non valete un cavolo, nemmeno come elettorato, e tra l’altro rompete sempre i coglioni. Oramarcite oppure cavatevela da soli che tanto lo sapete fare.Quelle dell’ultimo capoverso sono deduzioni mie, ma, assennatamente, mi chiedo perché, as-sessore, mi chiedo con che cuore, assessore, ha pensato di rivedere gli accordi per declinarel’unico compito che avete, ovvero quello di pulire questo asfissiante e demente scempio sola-mente due volte l’anno. Mi chiedo, al di là della penuria economica raggirabile con azioni vir-tuose come l’esproprio che chiediamo da anni, costoso anche quello ma stiamo parlando diuna situazione raggirabile perché straordinaria, di emergenza sanitaria, etica, civile, mi chiedodove stia il senno, dove la bontà, il buonsenso, mi chiedo dove stiano la compren-sione e la sensibilità.Perché quel posto è un girone dell’inferno dantesco, assessore.Lo sappiamo tutti.Lo sa anche lei, assessore.Con che cuore, assessore.Me lo sono chiesta quel giorno e me lo chiedo ancora di più oggi, dopo aver guardato gli alberi.Tutti gli alberi del nostro percorso da ultimi dei boyscout.

Gli alberi al l ’ inferno

| di Alessandra Amitrano |

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