Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi...

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Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e accadimenti sono prodotti dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in maniera fittizia. Ogni somiglianza a eventi, luoghi o persone reali, vive o morte, è del tutto casuale. Copyright © 2015 Multiplayer Edizioni. All rights reserved.

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Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e accadimenti sono

prodotti dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in maniera fittizia. Ogni

somiglianza a eventi, luoghi o persone reali, vive o morte, è del tutto casuale.

Copyright © 2015 Multiplayer Edizioni. All rights reserved.

Multiplayer Edizioni è un marchio di NetAddiction S.r.l.

http://edizioni.multiplayer.it

Titolo: I Cavalieri del Nord

Pubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag. Milano.

Autore: Matteo Strukul

Coordinamento: Francesco Giannotta, Alessandro Cardinali

Editor: Alessandra Di Dio

Impaginazione: Andrea Turrini

Cover Art: Valeria Brevigliero

ISBN-13: 9788863553666

INDICE

PRIMA PARTE AUTUNNO 1240

CAPITOLO UNO

CAPITOLO DUE

CAPITOLO TRE

CAPITOLO QUATTRO

CAPITOLO CINQUE

CAPITOLO SEI

CAPITOLO SETTE

CAPITOLO OTTO

CAPITOLO NOVE

CAPITOLO DIECI

CAPITOLO UNDICI

CAPITOLO DODICI

CAPITOLO TREDICI

CAPITOLO QUATTORDICI

CAPITOLO QUINDICI

CAPITOLO SEDICI

CAPITOLO DICIASSETTE

CAPITOLO DICIOTTO

CAPITOLO DICIANNOVE

CAPITOLO VENTI

CAPITOLO VENTUNO

CAPITOLO VENTIDUE

SECONDA PARTE INVERNO 1240

CAPITOLO VENTITRÉ

CAPITOLO VENTIQUATTRO

CAPITOLO VENTICINQUE

CAPITOLO VENTISEI

CAPITOLO VENTISETTE

CAPITOLO VENTOTTO

CAPITOLO VENTINOVE

CAPITOLO TRENTA

CAPITOLO TRENTUNO

CAPITOLO TRENTADUE

CAPITOLO TRENTATRÉ

CAPITOLO TRENTAQUATTRO

CAPITOLO TRENTACINQUE

CAPITOLO TRENTASEI

CAPITOLO TRENTASETTE

CAPITOLO TRENTOTTO

CAPITOLO TRENTANOVE

CAPITOLO QUARANTA

CAPITOLO QUARANTUNO

CAPITOLO QUARANTADUE

CAPITOLO QUARANTATRÉ

CAPITOLO QUARANTAQUATTRO

CAPITOLO QUARANTACINQUE

CAPITOLO QUARANTASEI

CAPITOLO QUARANTASETTE

CAPITOLO QUARANTOTTO

CAPITOLO QUARANTANOVE

CAPITOLO CINQUANTA

CAPITOLO CINQUANTUNO

CAPITOLO CINQUANTADUE

CAPITOLO CINQUANTATRÉ

CAPITOLO CINQUANTAQUATTRO

CAPITOLO CINQUANTACINQUE

CAPITOLO CINQUANTASEI

CAPITOLO CINQUANTASETTE

CAPITOLO CINQUANTOTTO

CAPITOLO CINQUANTANOVE

CAPITOLO SESSANTA

CAPITOLO SESSANTUNO

CAPITOLO SESSANTADUE

CAPITOLO SESSANTATRÉ

CAPITOLO SESSANTAQUATTRO

EPILOGO

NOTE DELL’AUTORE

RINGRAZIAMENTI

PRIMA PARTE

AUTUNNO 1240

CAPITOLO UNO

Il sacco di Izborsk

Wolf sentì il sapore dolce e denso del sangue che gli allagava la bocca. Era riuscito

a proteggersi con lo scudo. La lama della spada era calata su di lui, rapida e

scintillante, come l’ala nera della morte. Il suo avversario pareva incarnare la furia.

Allo stato puro.

Ma, malgrado avesse parato il colpo, Wolf non aveva potuto evitare che lo scudo

gli andasse a sbattere sul naso, aprendogli un lungo taglio scarlatto. Il dolore si

propagò in onde sferzanti, quasi accecandolo.

Eppure, quel colpo formidabile lo aveva risvegliato dal senso di smarrimento e di

paura che lo aveva attanagliato con denti affilati, rendendolo rigido nei movimenti

quasi fosse, d’improvviso, diventato una bambola di stracci.

Così, la sua reazione non si fece attendere. Ruotò su se stesso di trecentosessanta

gradi, mentre la spada, quasi un prolungamento del suo stesso braccio, fischiava

bianca e perfetta, disegnando un arco nel cielo arrossato di scintille. Si trattò di un

istante, pura poesia primordiale: e poi la lama andò a falciare il Russo, che finì per

terra in mezzo alla neve.

Un guerriero nemico, proprio di fronte a Wolf, roteò l’ascia nell’aria, facendola

calare sull’elmo di un Cavaliere Teutonico. Il guerriero crociato crollò al suolo

senza vita. Il tempo di scalciare con la gamba il cadavere e l’infedele gli si fece

sotto. Occhi gialli da belva brillavano ai lati del nasale dell’elmo, la striscia di

metallo lucente spaccava in due il volto in una maschera di guerra. L’uomo lanciò

un urlo roco e gutturale che parve rompere il manto color piombo del cielo. Wolf,

ancora una volta, alzò lo scudo mentre l’ascia dell’altro vi si schiantava con il

rombo di un tuono.

Questa volta resistette in modo perfetto al colpo, ma l’imponente lama

dell’avversario impattò in modo talmente devastante da affondare nel legno,

rompendo la croce nera dipinta sullo scudo e riducendola a una fontana di schegge.

Mentre lapilli di polpa bianca turbinavano tutto intorno e l’uomo davanti a lui

spalancava gli occhi per lo sforzo del colpo portato, Wolf fu rapido a individuare la

guardia abbassata e, in quella via aerea, rimasta libera e priva di difesa, affondò la

lama della propria spada con precisione chirurgica, andando a colpire l’altro giusto

sotto l’ascella, in quel punto in cui la cotta di maglia era tradizionalmente più

cedevole e peggio lavorata. Un arco vermiglio schizzò tutto attorno mentre il

Russo lanciava un grido di dolore e il ferro faceva strame di lui.

Nell’istante esatto in cui l’uomo cominciò a urlare come un demone, per via della

ferita subita, Wolf strattonò lo scudo, strappando in quel modo dalle mani

dell’avversario la stessa ascia che vi si era incastrata. Poi si liberò di quella massa

di legno e metallo ormai informe e snudò la spada corta immergendola, con un

movimento fluido e rapidissimo, nella gola del nemico.

Il Russo lo fissò con gli occhi sbarrati. Stringeva le mani coperte dai guanti

contro la gola, nel disperato tentativo di fermare il fiume che ne usciva. E in quel

fiume c’erano i suoi ultimi soffi di vita.

Scie rosse arabescarono la neve mentre, intorno, la battaglia infuriava.

Wolf vide i corpi degli uomini che lottavano intorno a lui, alzando schizzi di

ghiaccio e fango. Vide Thorsten finire con la gola tagliata e accasciarsi senza vita

mentre gli occhi gli divenivano di vetro, vide Benno con la sopravveste bianca

ormai lacera e strappata, raggiunto da una lama. Vide infine Gernot che abbatteva a

colpi di martello un Russo.

Tutto girava intorno a lui in una giostra impazzita: le punte di lancia, irte come

denti selvaggi e contro cui gli uomini andavano a infilzarsi nell’impeto

dell’assalto, i cadaveri coperti di frecce quasi un diavolo li avesse usati come

puntaspilli, l’orrore dello scempio.

Tutto quell’inutile spreco di vite, quella furia cieca e selvaggia che andava ad

attorcigliarsi ai corpi, rubandone l’anima. Rami ribelli di un’edera maligna, in

grado di arrampicarsi ovunque per risucchiare il flusso salvifico dell’esistenza.

Scintille rosse di fuoco galleggiavano come lucciole infernali nell’aria greve del

tanfo dei morti.

Qualcuno lanciò un grido spezzato.

Wolf alzò lo sguardo verso le mura in legno della città, ormai annerite dalle

fiamme e simili a denti scuri stagliati contro il cielo. Il candido tappeto di neve era

imbrattato da un lago carminio che si allargava fino a sommergere il bianco.

Izborsk era ormai caduta. I Fratelli avanzavano come la mano di un dio guerriero.

Fu uno sterminio. In nome di Dio e della Croce.

“Avanti, avanti”, gridò Kaspar von Feuchtwangen.

Wolf vide il suo maestro avanzare a falcate rapide, gli occhi attenti, i denti serrati,

quasi digrignati per la rabbia. La sopravveste bianca, al cui centro stava la croce

nera emblema dei Cavalieri Teutonici, pareva diffondere un’aura sovrannaturale

intorno a lui, proteggendolo da qualsiasi assalto nemico. Dietro Kaspar veniva il

resto del suo gruppo. Avanzava come un cuneo compatto, annientando le ultime

sacche di resistenza. Wolf si unì al manipolo dei Teutoni perché quel grido, non

appena l’aveva udito, gli aveva incendiato l’animo. Si gettò in avanti, al fianco dei

suoi Fratelli. Dopo qualche istante si ritrovò davanti un Russo e lo colpì in pieno

volto con il gomito, schiantandolo lungo la strada innevata che portava ormai al

cuore di Izborsk, al centro della città pulsante di fiamme e gelo infernale.

Qualcuno gridò, un nugolo di frecce guizzò nell’aria scura, ma Wolf aveva fatto

in tempo a recuperare uno scudo triangolare lungo la via e si protesse come meglio

poté. Proseguì in quella folle corsa, ubriaco e ormai completamente fuori controllo.

I Teutoni erano arrivati ad annientare l’ultimo pugno di Russi. In un intreccio

rabbioso di corazze ed elmi, Wolf menava fendenti, parava colpi, infilzava nemici.

La testa gli pulsava in modo insopportabile, sembrava quasi che il cervello si stesse

schiacciando contro la scatola cranica nel disperato tentativo di uscire e riversarsi

fuori. Era un dolore insopportabile, mentre la nausea saliva come un tormento

infinito. Vide, davanti a sé, un altro avversario.

Si gettò in avanti nel tentativo di anticiparne le mosse. Si tuffò letteralmente su di

lui. Rovinarono a terra, ma mentre l’altro tentava ancora di riprendersi, rotolandosi

fra neve e fango, Wolf fu più veloce e, estratto il pugnale, lo piantò con un unico

movimento nella gola del Russo.

Poi, ormai esausto, allargò le braccia e si abbandonò stremato su quel pezzo di

terra, sullo scudo bianco di neve e rosso del sangue dei nemici, mentre i suoi occhi

grigi s’incavicchiavano nel piombo del cielo.

Guardò i corvi che sbattevano le ali lucide, gracchiando una cantilena di morte

che pareva celebrare la fine di quella giornata terribile.

Il cuore sembrava uscirgli dal petto. Sentiva il respiro mozzarsi dentro di lui. E

alla fine giunse il silenzio.

Allora chiuse gli occhi.

E pianse.

Tutte le lacrime che gli erano rimaste.

CAPITOLO DUE

Cielo coperto di sangue

Quello sopra di lui era un cielo coperto di sangue.

Ora.

Wolf rimase a guardare il piombo arrossato che lo fissava dall’alto mentre le

nuvole morivano come agnelli al macello.

Strinse le mani ripensando a tutte le vite che aveva spezzato. Sentiva la croce nera

al centro della sopravveste bruciare come un cuore estraneo, un cuore a lui alieno.

Sentiva il dubbio penetrargli nell’animo come avrebbe fatto un serpente viscido e

insinuante.

Tutto quel sangue, tutti quei morti... era dunque quella la misericordia di Dio?

Sentiva le convinzioni e le certezze vacillare mentre i fiocchi bianchi di neve

andavano a posarsi dolci sul viso, quasi fossero coriandoli.

Rimase steso, finalmente arreso al cielo, al fresco di quella mattina che ora lo

avvolgeva nelle sue spire azzurrine e di cui non aveva goduto nemmeno un istante,

sfinito com’era dal combattimento e dal succhiar via la vita ai suoi nemici.

Pregò, lasciò che la mente invocasse il nome di Dio affinché potesse intercedere

per lui, perché si sentiva sporco, si sentiva un assassino e null’altro e se quello era

il compito riservato ai Fratelli guerrieri dell’Ordine, beh lui non ne era certo

orgoglioso. Proprio per nulla.

Diciassette anni.

E si sentiva sporco.

Poi, un po’ alla volta, si mise a sedere spostando la schiena contro le pietre del

pozzo. I suoi occhi andarono dal cielo all’anima spezzata di Izborsk, o meglio, a

quel che ne rimaneva ancora in piedi.

Vide le izbe carbonizzate, sventrate dal fuoco, vide le cataste di morti,

ammonticchiati come ramoscelli di vita strappata, pronti per essere infilati in un

camino infernale. Sentì la nausea salirgli fin quasi a esplodere fuori.

Si trattenne.

Grattò con gli stivali quella prima neve che aveva coperto i prati e i pascoli e il

ventre della città.

Si tolse i guanti e infilò le unghie in mezzo ai denti, fra gli incisivi e i canini, in

un moto di rabbiosa angoscia, quasi quel futile gesto potesse avere un qualche

effetto su tutto ciò che era calato, come l’Apocalisse, sulla città.

Ma non accadde nulla.

Già, non era certo possibile, non dopo tutto quello che aveva compiuto. Aveva

tolto la vita a un gran numero di uomini, e ora che cosa pretendeva? Che tutto

tornasse a essere come prima? Beh, se quella era la speranza, non ci sarebbe mai

riuscito. Non dopo quanto aveva fatto. Il dolore metallico che si era impadronito

del suo stomaco continuava a salire quasi a sommergerlo, e guardare i corpi dei

Fratelli che giacevano, senza alcuna pietà, in mezzo a pozze di neve purpurea, non

lo aiutava di certo.

Pensò di essere un carnefice.

Il peggiore di tutti.

Poi guardò le mani lorde di sangue. Per la prima volta da quando tutto si era

interrotto, si chiese se fosse stato ferito. Provò a toccarsi il viso, il petto sotto la

cotta di maglia.

Integro. Era perfettamente integro. Come se nulla fosse accaduto. Come se fosse

rimasto a dormire in un letto caldo dalle lenzuola bianche.

Eppure sopra di lui i corvi continuavano a roteare in un corteo funebre. Planavano

neri e irridenti, gracchiando tutto il loro scherno nell’aria fredda di quel luogo

dimenticato da Dio, beccando le pupille delle vittime e cibandosi degli occhi dei

morti.

Le teste dei Russi piantate sulle picche sembravano sorridere, accusandolo di aver

sterminato la gente della città.

Le scintille rosse di fuoco portate del vento erano ormai diventate fiocchi

affumicati di cenere che si confondevano con il candore della neve. Vide le croci

nere dei Teutoni ballargli davanti agli occhi, mentre i Fratelli riunivano i

sopravvissuti al centro della piazza.

Poco distante da lui.

I mercenari danesi sghignazzavano.

Era un riso, il loro, che gelava i precordi del cuore. Wolf scorgeva le sagome dei

guerrieri perlustrare le izbe. Depredavano tutto. Arraffavano quello che trovavano.

Spicchi di pelle bianca gli lampeggiavano negli occhi stanchi, carne violata e poi

lasciata a morire in mezzo alla birra fredda di un tavolo in legno. I Teutoni

condannavano quei gesti ma li tolleravano perché, dopo tutto, i Danesi erano

alleati.

Un’alleanza sancita dal Papa.

Nientemeno.

Chissà cos’avrebbe detto Gregorio IX se avesse visto quelle scene.

Era stato lui a concedere l’Estonia a Valdemaro, re dei Danesi, giusto? Perciò

molto probabilmente avrebbe lasciato stare.

Avrebbe tollerato.

In nome della Croce.

Wolf sentì la colazione salire finalmente in gola.

Si piegò in avanti rigettando un fiotto di liquido bruno e caldo che andò ad

abbeverare la neve bianca, disperdendosi in rivoli marroni, giù per i gradini di

pietra. Appoggiò sfinito un braccio sul bordo del pozzo e rimase lì aspettando, no

anzi, implorando che la morte venisse a prenderlo.

Ma non accadde nulla.

“Oggi è stata la prima volta, non è vero figlio mio?”

Conosceva quella voce calda e dolce, forte eppure piena di velluto e di affetto.

Era la voce di Kaspar von Feuchtwangen, uno dei più grandi Cavalieri Teutonici. Il

migliore fra i Crociati.

Voltò lo sguardo verso di lui, rimanendo steso contro le pietre del pozzo. Al

centro di quella maledetta piazza. Un pallido raggio di sole filtrò da dietro la coltre

di nubi grigie e andò a illuminare la scena.

Wolf non rispose. Si limitò a passare il dorso della mano sulla bocca impiastrata

di avanzi di cibo e sapore acido.

Kaspar si stagliava davanti a lui contro il cielo, contro quella città spezzata. I

capelli color argento spettinati dal vento. Gli occhi grigi piantati nei suoi. La barba

chiara, a sottolineare un viso segnato dalle cicatrici e dalla saggezza. Gli zigomi

sottili e alti che si muovevano insieme alle parole, quasi volessero accarezzarle

mentre si liberavano nell’aria.

Kaspar strinse l’elmo che teneva fra le mani.

Poi parlò.

“Consolati. Non c’è niente di peggio della prima volta. Perciò prenditi tutto il

tempo che serve. Non c’è fretta”.

“Ho avuto paura”, disse Wolf.

“Mi meraviglierei del contrario. Ognuno di noi ha avuto paura”.

“Temevo di esserne sopraffatto”.

“Ma non è successo”.

“Fortuna”.

“Certo, e anche determinazione e disciplina. Ho visto come combattevi”.

“Non ne sarei così fiero, se fossi in te”.

“Non si tratta di essere fieri, Wolf: è la guerra”.

“Se credi che questo basterà a placare la mia coscienza...”

“Non c’è la coscienza, ragazzo mio. C’è solo quello che facciamo”.

Kaspar lo guardò con quella maledetta luce negli occhi. Qualcosa che Wolf non

era in grado di spiegare ma che ammantava le parole del maestro con la regale

bellezza di un gioiello. Non che poi tutto questo cambiasse nulla. Proprio per

niente. I morti c’erano e sarebbero rimasti.

Luce o non luce.

Eppure, qualcosa di magico albergava in quegli occhi. Qualcosa che rassicurava e

allo stesso tempo ti faceva sentire amato e vivo. Ecco come si sentiva alla fine.

Amato e vivo.

Per non essere stato abbandonato.

Quella notte. Quella notte fra i lupi.

***

Kaspar von Feuchtwangen guardò il ragazzo. Wolf si era comportato bene. Se ne

stava con la schiena contro le pietre del pozzo e provava a fare i conti con l’orrore

che aveva appena vissuto.

Era la guerra.

Una guerra di religione, in nome della Croce. Eppure, per quanto nobile, era la

cosa più sporca e subdola che un uomo dovesse affrontare. Ti restava addosso per

sempre. E non riuscivi più a liberartene, dell’odore di morte. Puzzava anche quel

giorno. Di morte.

Guardò Izborsk e la vide sprofondata nel baratro. Un unico borgo fumigante e

nero, che gli girava attorno come un’arena urlante. Le voci dei contadini, spezzate

dal dolore, riempivano le vie coperte di neve e fango. Il mugolio delle vittime che

cresceva in un coro di sofferenza e sconfitta. E quella piazza d’armi, in cui i

Fratelli dell’Ordine stavano radunando i sopravvissuti, aveva l’aspetto di un campo

grigio popolato di profughi che chiedevano pietà.

Vide donne dai volti coperti di cenere, lacrime e muco, i bimbi tenuti per mano

che trotterellavano in colonna a fianco alle madri in un unico corteo di dolenti.

Poppo Von Osterna, Landmeister di Prussia dei Cavalieri Teutonici, abbaiava

ordini ai suoi affinché dessero almeno l’idea di un limite ai Danesi, mercenari

spietati e affamati di preda e bottino.

E con loro, con i Teutoni, a benedire quello scempio, c’era l’abate Anton

Bederke.

Kaspar guardò ancora una volta Wolf e capì che cosa pensava il ragazzo: che

tutto quel massacro fosse un unico spreco di vite.

E aveva ragione.

Ma il Papa insisteva per usare – perché quella era la parola esatta, “usare” – i

Teutoni come arma per evangelizzare e sottomettere alla Croce gli infedeli del

Nord. Dopo i successi del Gran Maestro Hermann von Salza in Transilvania,

Prussia e Livonia, il suo successore, Conrad von Thüringen, aveva fatto ben poco,

e ora il Gran Maestro Gerhard von Mahlberg, che se ne stava protetto e ben

rimpannucciato nei Palazzi romani al fianco del Pontefice, era più che mai

desideroso di ribadire, e se possibile superare, i successi di Von Salza.

I Teutoni avevano un ruolo fondamentale in quelle terre inesplorate e figlie del

caos, in cui il freddo era talmente crudele e spietato da trasformare in un’unica

landa desolata e coperta di gelo l’immensa pianura che si estendeva da Marienburg

a Novgorod.

Un territorio sterminato, inospitale e crudele come crudeli erano quelle

popolazioni che i Teutoni da anni si ostinavano a combattere in nome della Croce.

Eppure imporre il credo con il ferro, la neve e il sangue non poteva essere l’unica

strada possibile. D’altra parte, la fedeltà a Dio e alla religione cattolica non era

certo in dubbio. Dopotutto chi era lui, Kaspar von Feuchtwangen, per gettare

l’ombra dell’incertezza su mille e più anni di storia e battaglie, di guerre e onore?

Nessuno.

E poi la Regola era la salvezza. Quel vivere di rigore, ordine e disciplina lo aveva

aiutato così tante volte e in modo talmente efficace nella vita, da cancellare d’un

sol colpo ogni esitazione.

Ripensò a parecchi anni prima, quando da San Giovanni D’Acri era finito nelle

piane della Prussia, a combattere un nemico disorganizzato e sfuggente, intere tribù

di barbari coriacei, asserragliati in bizzarri tuguri. Tornò con la mente alle battaglie

in Pomesania sotto la guida rapace di Hermann Balk, e alla costruzione della

fortezza di Marienwerder, e poi al massacro di uomini inermi perpetrato sul letto

ghiacciato del fiume Sigurne.

La Regola vissuta fino in fondo, fra fede e draconiana intransigenza, lo aveva

salvato. Sempre. Anche quando aveva vissuto l’inferno estivo nelle paludi e nella

boscaglia sotto le frecce infide dei Prussi, che tentavano con la guerriglia di

resistere all’avanzata sul versante orientale oltre Chelmno. Era sopravvissuto.

Insieme ai suoi Fratelli aveva scoperto quanto la cavalleria pesante teutonica fosse

non solo più efficace e devastante in campo aperto, ma addirittura letale se

specializzata nella guerra invernale.

Ma tutto, solo e soltanto in nome e con la grazia della fede in Cristo.

Naturalmente non era una cosa semplice da accettare. Era la vita di un monaco e

di un guerriero: che sceglieva di pregare, combattere e diffondere la parola della

Croce. E null’altro. Ma, accogliendo un simile sacrificio, l’esistenza poteva forse

avere un senso e diventare l’immagine quasi perfetta di un sogno più grande e

vasto, e magnifico.

Scosse la testa, incredulo, e tornò con gli occhi su Wolf. Per un attimo lasciò che

le sue iridi indugiassero in quelle del ragazzo. Erano passati dieci anni eppure, da

un certo punto di vista, non era cambiato nulla.

Immutato.

Quello sguardo sincero e generoso era ancora quello di una notte di freddo e lupi.

CAPITOLO TRE

I lupi e il bambino

Dieci anni prima

Kaspar aveva sentito l’ululato: quel suono cupo, inquietante, intriso d’angoscia.

Era rimasto in silenzio facendo ben attenzione a muoversi con cautela, spostando i

rami bruni e secchi che formavano un intrico, una rete di sottili stecchi color

marrone nel bosco morto.

Prima di quello, gli era parso di aver udito qualcos’altro. Magari era

semplicemente un’impressione, una suggestione legata al luogo e ai rumori dei pini

spazzati dalla brezza notturna. Nondimeno, era abbastanza certo di voler andare a

vedere di cosa si trattasse.

Aveva lasciato il cavallo più indietro. Gli aveva carezzato il muso, consegnando

le briglie a un paio di Fratelli dell’Ordine. Stava rientrando al castello dopo un

lungo viaggio, di ritorno da una visita al Vescovo di Brema.

Un incontro in cui la politica aveva di rado ceduto il passo alla Regola, alla

disciplina e ai princìpi. Si annunciavano giorni bui per l’Ordine dei Cavalieri

Teutonici. Sua Eminenza aveva ribadito, senza peraltro che ve ne fosse bisogno

alcuno, la necessità di ultimare l’opera di evangelizzazione della Livonia. Si era

detto favorevole, anzi entusiasta, nell’appoggiare una richiesta di scioglimento dei

Cavalieri Portaspada per favorirne l’ingresso come sezione autonoma nell’Ordine

dei Teutoni.

Ma quello era un falso problema. Non si trattava di un appoggio ma di

un’esortazione implicita a Kaspar al fine di conseguire un obiettivo strategico. I

Portaspada erano ridotti allo stremo, compressi fra i Danesi di Valdemaro che

puntavano a impossessarsi dell’Estonia da un lato, e dall’altro i Teutoni, rafforzati

dalle recenti vittorie, che erano riusciti a trovare una qualche forma di governo o

perlomeno di egemonia sulla Prussia.

Insomma i soliti calcoli politici, questioni che Kaspar doveva affrontare, riferire e

con cui alfine fare i conti, ma che di certo non aveva intenzione di coltivare, in

quel momento, per un secondo di più.

Sbuffò.

Si strinse nelle falde del mantello e alzò lo sguardo per vedere i raggi pallidi della

luna che filtravano come mercurio liquido attraverso le geometrie sghembe degli

aghi verdi. L’odore acre dei pini si fondeva con quello compatto della neve e con

un sentore di paura e presagio che sprofondava in una cappa di attesa quel

paesaggio invernale.

Udì di nuovo il lupo.

Questa volta l’aria recò l’eco di un ringhio. Era più vicino, ora. A giudicare dal

suono, gli stava giusto andando incontro. E dove ce n’era uno, potevano essercene

altri. Subito dopo, a conferma della sensazione di qualche minuto prima, mentre la

sua mano stringeva l’elsa della spada così forte da far sbiancare le nocche, sentì

qualcos’altro.

Un urlo.

Quello di un essere umano.

La voce era sottile, al punto che sarebbe potuta appartenere a un bambino. Kaspar

aumentò il ritmo dei passi e, incurante dei rami spezzati e dei rumori che

produceva, si ritrovò ben presto a correre, gettandosi a rotta di collo in direzione di

quel che aveva appena udito.

I rami sottili gli ferivano il viso, spine e aghi e nuvole bianche di neve. Un freddo

tagliente gli sferzava i capelli, mentre gli stivali affondavano nel manto candido

sotto di lui. Il respiro si fece affannato e il fiato mozzo, mentre sbuffi chiari di

vapore gli uscivano dalla bocca per poi salire come colonne impalpabili verso le

chiome dei sempreverdi.

Ancora pochi passi, ancora il lupo, fino a quando quell’intrico di rami, spine, rovi

e sterpi non lasciò il passo a una radura.

Attorno ad essa gli alberi formavano una corona e al centro di quel cerchio

naturale, Kaspar si ritrovò spettatore della scena più incredibile che mai si sarebbe

aspettato di vedere.

Esattamente in mezzo alla radura stava un piccolo ragazzino: magro, coperto di

pochi e laceri stracci consunti. Gli occhi azzurri guizzavano come gemme nel suo

piccolo volto, scavato dalla fame e dalle privazioni.

Stringeva nella manina un grosso coltello dalla lama lucente.

Ai suoi piedi un lupo, ormai morente, uggiolava, guaiva di dolore, in una lenta

agonia per una ferita che gli aveva aperto il petto.

Una ferita mortale.

Di fronte al bimbo, un altro grande lupo grigio stava ringhiando, indeciso se

attaccarlo o meno: digrignava le zanne e aveva le labbra alte sulle gengive viola.

Il rauco lamento di morte della fiera non sembrava conoscere fine.

Il bambino era allo stremo delle forze e, a dire il vero, il fatto che fosse ancora

vivo aveva, agli occhi di Kaspar, qualcosa di miracoloso.

Perfino di divino.

A suo modo.

La luce della luna piena somigliava a quella di una gigantesca lanterna, in grado

di illuminare perfettamente la scena dall’alto.

Fu quando il lupo si avvide del suo arrivo che la situazione cambiò

repentinamente. La belva parve sorridere agli occhi di Kaspar. L’uomo non aspettò

oltre, estrasse la spada dal fodero gettandosi contro la bestia con tutta la rabbia che

il senso di meraviglia gli aveva infuso. Ma lo scontro non iniziò nemmeno, perché

il lupo scartò di lato ben prima di ritrovarsi a dover affrontare l’uomo che, con

tanta determinazione, si era scagliato contro di lui.

Scomparve invece, inoltrandosi nel fitto del bosco e lasciando Kaspar senza più

nulla da combattere. L’uomo si ritrovò di fronte al bambino che, giunto allo stremo

delle forze, cadde nella neve.

Si accoccolò sfinito, come se qualsiasi energia lo avesse abbandonato, come se

tutto quel resistere lo avesse prosciugato, rendendolo improvvisamente senza peso

e privo di volontà.

Kaspar abbandonò la spada, che scivolò al suolo, e si avvicinò a lui.

Lo prese fra le braccia.

Lo fece con delicatezza, perché quelle ossa sottili sotto gli stracci consunti

parevano doversi sbriciolare da un momento all’altro. Sentì il bimbo che gli si

aggrappava con le poche forze rimaste. Lui rimase lì, sorridendo, nel bianco-

azzurro di quella radura bagnata dalla luna.

Guardò il ragazzino, ormai incosciente e spento.

Poi fissò il lupo ai suoi piedi.

Lo avrebbe chiamato Wolf, pensò.

CAPITOLO QUATTRO

La piazza

La piazza di Izborsk risuonava di voci e armi.

Wolf si era alzato in piedi e aveva abbandonato il pozzo, raggiungendo i Fratelli

dell’Ordine.

“Non è possibile”, tuonava Kaspar, “dobbiamo fermarli o ci penserò io a costo di

farli a pezzi uno dopo l’altro. Stanno radendo al suolo questa città! Stanno

umiliando coloro che si sono arresi, e stuprando le loro donne”.

Poi girò uno sguardo carico di fuoco verso un luogotenente dei Danesi.

“Questo massacro deve terminare ora! Dite ai vostri uomini di riunire i vinti. Non

deve essere torto un altro capello o altrimenti dovrete misurarvi con la mia ira. E

giuro fin d’ora che impiccherò chiunque verrà riconosciuto colpevole di

saccheggio, stupro o furto. Sono stato chiaro?”

Il soldato si lasciò andare a un sorriso sghembo.

“Avete sentito? E aggiungo che tutto questo avverrà per ordine mio, difensore

supremo della fede in Cristo!”, rincarò Poppo, Landmeister prussiano dei Teutoni.

Il Danese rise sguaiatamente, e sputò sulla neve ai suoi piedi.

Kaspar non attese oltre. Wolf lo vide sguainare la spada e, roteandola nell’aria,

puntarla dritta alla gola dell’uomo.

Quello ruggì fiele.

“Va bene”, ringhiò in un tedesco mal masticato.

Dopo di che, sgranando imprecazioni e alzando nuvole di nevischio a ogni passo,

intimò ai suoi di passar parola.

Che si fermasse il saccheggio.

“Già”, disse l’abate Bederke, “ma dobbiamo fare meglio di così, non trovate, mio

Landmeister?”

Poppo si grattò la barba rossastra, lunga una spanna. Non si fece pregare.

“Certo, Abate!”

Si grattò la gola, con un colpo di tosse che terminò in un raschiare crudo di

catarro ribollente.

“Harlan, Franz! Rainar, Eberhard!”

Nell’udire i propri nomi, quattro cavalieri emersero dalle schiere di Teutoni che si

stavano ricomponendo al centro della piazza.

“Sì, Landmeister”, risposero quasi all’unisono.

“Prendete due uomini ciascuno e rastrellate il villaggio. Portate con voi almeno

un Danese. Verificate che cessi il saccheggio e rammentate a chi dovesse opporsi

che dovrà vedersela con l’Ordine Teutonico e con me in persona!”

“Molto bene”, rispose Harlan von Franken, uno dei cavalieri più attenti e zelanti

dell’intero contingente.

“Ora andate e riferitemi quanto prima. Il lavoro qui è appena cominciato”.

I quattro partirono con tre compagni ciascuno. Un Danese ogni tre Teutonici. Fu

una diaspora. Ogni squadra s’incamminò, rapida e celere, in una direzione diversa.

Nord.

Sud.

Ovest.

Est.

L’abate Anton Bederke prese la parola.

“Molto bene, signori, Izborsk è caduta”, sottolineò. “Ora dovremo trovare il

modo di farla risorgere sotto il segno della Croce e di Dio”.

Nel dire questo, l’Abate raggiunse, senza ulteriore indugio, il centro della piazza.

Poi, con voce forte e ben modulata, impensabile a prima vista in un uomo magro e

delicato com’era lui, formulò un discorso.

“Siate benedetti difensori di Dio! Siate benedetti guerrieri della Croce! Siate

benedetti Cavalieri Teutonici e Portaspada. Scenda sulla vostra impresa di oggi la

Parola di nostro Signore Gesù Cristo”.

E mentre così parlava, i cavalieri nella piazza misero il ginocchio al suolo e,

togliendosi gli elmi normanni, chinarono il capo.

Wolf fece proprio come tutti gli altri, rimanendo in silenzio nella piazza coperta

dalla neve che aveva ricominciato a cadere in fiocchi grandi e spessi. Ascoltò con

attenzione le parole dell’Abate.

“Pentitevi ora dei vostri peccati, guerrieri di Cristo. Ma ricordate: Deus vult!

Questa missione nel Nord, alla fine del mondo, ha uno scopo ben preciso ed è

benedetta da Dio, nostro Signore. Poiché oggi noi non combattiamo in nome

dell’avidità o del saccheggio, della conquista o delle ricchezze terrene. Noi

vogliamo restituire a questi popoli la voce e il credo di Dio. Noi vogliamo un

mondo migliore, costruito nel segno della Sua infinita bontà. Celebriamo dunque la

vittoria di oggi, ma facciamolo con la disciplina e la gratitudine, con il valore e la

preghiera. Poiché è solo nella povertà e nel rigore, nell’impegno e nella dedizione

che Dio si manifesta e, così facendo, rende l’uomo che lo serve ancor più glorioso

e nobile”.

La voce dell’Abate era forte e netta.

Si arrampicava alta e tesa sui fiocchi bianchi che roteavano nel cielo. Dominava

quel silenzio assoluto in cui i cavalieri erano sprofondati.

Wolf la ascoltava, mandando a memoria ogni parola. Eppure faceva fatica a

capire. Guardava di sottecchi le espressioni dei Teutoni. Li spiava fra le ciglia

come faceva da bimbo nella grande cappella del castello dell’Ordine, nel nord della

Prussia, a Chelmno. Ascoltava le parole del sacerdote e rimaneva in attesa che

terminasse l’Eucarestia e venisse il momento di poter avere il corpo di Cristo.

Quell’abitudine, gli era dunque rimasta.

Vide i volti concentrati. Gli occhi chiusi. Assaporò il silenzio in cui l’Abate aveva

lasciato i cavalieri.

Poi Bederke concluse il suo discorso.

“Grande è dunque la gloria di Dio e grande il premio per tutti coloro che ne

difendono la parola con la propria vita. E ora in piedi, Fratelli. Sorgete come un sol

uomo e trovate riposo, prima di ripartire all’indomani per portare il verbo di Cristo

in queste terre del Nord! Sia fatta la volontà di Dio”.

I cavalieri tornarono in piedi.

“Dio lo vuole”, risposero in un’unica, grande, potente voce.

CAPITOLO CINQUE

Burzenland

Kaspar entrò nella tenda del Landmeister. Dopo la conquista di Izborsk, i Teutoni

avrebbero lasciato un piccolo contingente a guardia della città ma se ne sarebbero

ben presto ripartiti alla volta di Pskov. L’arredamento degli alloggi del

Landmeister era quasi inesistente. Un giaciglio per riposare. Una brocca per lavare

il viso al mattino. Un paio di panche attorno a un tavolo in legno, per le riunioni,

che fungeva altresì da altare quando quella stessa ampia tenda semivuota veniva

utilizzata per la celebrazione delle Sante Messe.

Poppo lo aspettava seduto al tavolo. Teneva in mano una caraffa e versava acqua

cristallina nei bicchieri di legno davanti a lui. Con l’altra si torturava nervosamente

la barba rossiccia, talmente lunga da terminare in due punte aguzze. I capelli,

tagliati corti, erano una nuvola infuocata e ribelle che incorniciava un volto dai

tratti marcati. L’energia, in lui, pareva fluire sotto la pelle in fiammeggianti lingue

di metallo fuso.

Mentre Kaspar prendeva posto, Poppo trasse un respiro profondo. Sembrava

angustiato da una preoccupazione cieca e ingovernabile ed era evidente che voleva,

a tutti i costi, liberarsi di quel peso, peggio, di quel tormento che gli increspava il

volto in una mappa di rughe e cicatrici che raccontavano i mille scontri ai quali

aveva partecipato.

Il Landmeister di Prussia guardò Kaspar dritto negli occhi, aspettando che si

sedesse.

Poi parlò.

“Fratello mio, ti voglio ringraziare per la grande giornata che ci hai regalato oggi.

Il tuo valore e la tua abilità ci hanno permesso di conquistare la vittoria”.

Kaspar fece un cenno con la mano quasi a schermirsi, e del resto nessuna vittoria

sarebbe mai stata possibile senza il contributo di tutti. Ma a Poppo non bastava

ancora.

“Quel ragazzo sta diventando un vero Teutone, l’ho visto oggi come si batteva, si

è fatto onore”.

“Impara in fretta”.

“Già”.

“Vieni al punto, Poppo... perché mi hai fatto chiamare? Non certo per dirmi che

Wolf è diventato un ottimo cavaliere, perché ti dico che questo lo so già! E, allo

stesso tempo, non ho intenzione di abboccare a questi tuoi panegirici”.

Il Landmeister sbuffò: era stanco e aveva il cuore grave per lo sconforto che gli

derivava da quanto stava per dire. Perciò si decise: non nascose quel dolore, lo

manifestò apertamente, in modo sincero.

“Fratello mio, mi duole annunciare che sto per chiederti una prova suprema.

D’altra parte, a chi se non a te posso domandare di portare a compimento una

simile missione? A chi se non al migliore fra noi?”

Kaspar l’aveva capito fin dall’inizio che c’era qualcosa che non andava. Provò a

darci un taglio.

“Vieni al punto”, disse, “non farla più lunga di com’è”.

“Hai perfettamente ragione”, rispose il Landmeister di Prussia, “vengo dunque al

punto”.

Afferrò il bicchiere in legno e bevve.

“Hai mai sentito parlare del Burzenland? La terra oltre le foreste? La

Transilvania?”

Kaspar annuì. Non riuscì a evitare di tradire un lampo di preoccupazione negli

occhi. Quel nome gli metteva i brividi. Solo vent’anni prima, grazie all’accordo fra

il Gran Maestro Hermann von Salza e Andrea II re d’Ungheria, i Cavalieri

Teutonici avevano avuto in gestione quelle terre, mettendo in fuga le ostili

popolazioni barbare dei Cumani e costruendo ben quattro castelli attorno alla città

fortificata di Kronštadt. Ma, profittando della partenza di re Andrea II per la

Guerra Santa, i Teutoni avevano poi piegato altre terre, giungendo fin quasi al Mar

Nero. I nobili ungheresi, stremati dai costi della Crociata, non avevano visto di

buon occhio quell’espansione e avevano ancor peggio sopportato che lo Stato

Pontificio avocasse a sé il Burzenland a protezione dei Teutonici. Ne era nata una

guerra sanguinaria che aveva ricacciato indietro i Cavalieri dell’Ordine, ora

asserragliati a Dietrichstein. Perciò quell’unico castello, in legno e pietra, si

trovava in quel momento stretto in una morsa: da un lato i Magiari, dall’altro i

Cumani.

E ora Poppo stava per chiedergli di andare a difendere l’ultimo baluardo della

Cristianità nel Burzenland. Perché era questo il senso dell’incontro, Kaspar lo

sapeva fin troppo bene.

“Come certamente saprai, il Burzenland rappresenta per noi un territorio

strategico, conquistato con le unghie e con i denti, e che permette allo Stato

Pontificio di avere le chiavi della porta del Sud e dell’Oriente”.

“Naturalmente”.

“Ebbene quelle terre selvagge, è il caso di dirlo, si sono improvvisamente

risvegliate dal torpore in cui le aveva sprofondate la nostra evangelizzazione. I

Principi si sono ribellati, hanno stretto patti scellerati con le popolazioni infedeli e,

come se non bastasse, gira voce che un negromante stia guidando un’orda di

Cumani assetati di sangue”.

“Conosco le vicende che hanno portato alla rivolta”.

“Tanto meglio, allora. Inutile dirti che non sono tanto quei quattro nobilastri

ungheresi guidati dall’altrettanto imbelle re Bela a darci fastidio, quanto piuttosto

l’orda infedele”.

I Cumani: il loro nome era leggendario. Tribù barbare e sanguinarie che non

seguivano alcun tipo di legge se non quella della neve e del ferro. Contrari al

Cristianesimo della Croce, stavano devastando il Burzenland almeno quanto l’Orda

d’Oro dei Mongoli, che da nord era scesa come un’Apocalisse a sud. Nomadi,

senza casa, capaci di viaggiare per giorni interi senz’acqua né cibo, erano perfino

in grado di nutrirsi bevendo il sangue del proprio cavallo. Ne incidevano la vena

con la lama di un coltello. Si diceva indossassero maschere terrificanti in battaglia

e adorassero dèi con forme e sembianze di animali mostruosi e deformi.

Ma probabilmente erano solo leggende.

“Il castello di Dietrichstein”, continuò Poppo, “nostra piazzaforte e centro

nevralgico della forza teutonica nel Burzenland, deve essere assolutamente

conservato e risparmiato alla furia del nemico. Dietrichstein è un simbolo, una

croce conficcata nel ventre molle dell’abominio”.

“Vuoi che vada lì?”, Kaspar decise di stringere i tempi, tutte quelle premesse lo

stavano infastidendo.

Poppo lo guardò con i neri occhi fiammeggianti.

“Sì”, disse.

“Posso chiederti perché io e perché proprio noi che ci troviamo così a nord e

lontani dal Burzenland?”

Poppo fece un altro respiro profondo, poi parlò come se dovesse liberarsi

definitivamente di quella confessione, tenuta nella gola per troppi giorni.

“Perché sei il migliore fra noi e anche perché... non saprei chi altri mandare.

Vedi, Kaspar, io devo comandare l’Ordine contro la Rus’. Dobbiamo procedere

senza indugio fino a Pskov e da lì arrivare a Novgorod, la città più potente della

Rus’. Dobbiamo assediarla e farla cadere. Non è una mia scelta: è quel che vuole il

Papa e dunque l’Hochmeister. La Prussia, peraltro, è un calderone pronto a

ribollire da un momento all’altro, e non posso spostare più uomini di quanto non

abbia già fatto. Io stesso l’ho dovuta lasciare nelle mani del Vicario. Perciò, vedi,

ho le mani legate”.

“Lo capisco, Poppo. E accetto l’incarico. Mai per un istante ho pensato di fare il

contrario”.

Poppo lo abbracciò.

“Grazie, Fratello mio, speravo che capissi la gravità della situazione. Non sarai

solo, naturalmente! Verranno con te altri settanta uomini. Con voi avrete l’abate

Bederke. Una guida spirituale vi sarà tanto più preziosa in un viaggio verso

l’ignoto com’è questo”.

“Grazie per l’incoraggiamento: Principi ostili, barbari, infedeli e perfino un

negromante, ci sarà da divertirsi, eh?”, sputò fuori Kaspar. “Sai proprio come

convincermi”.

“Non volevo che le mie parole risultassero minacciose”.

“Beh anche se non volevi, così suonano alle mie orecchie”, e mentre parlava,

Kaspar si lasciò scappare un mezzo sorriso. Tanto valeva prenderla nel migliore

dei modi.

“Bene, dunque, è deciso. Partirete domattina”.

“Porterò con me Wolf”.

“Naturalmente. Dirò a Harald von Hoffman di unirsi a te in questa missione. Ha

un carattere ruvido e nervoso, ma è duro come un lupo grigio e i suoi fedelissimi

hanno spade affilate che sanno maneggiare dannatamente bene”.

“Non chiedo di meglio”.

“Come dicevo, l’abate Anton Bederke verrà con voi. Sa perfettamente badare a se

stesso, non vi sarà di peso e di certo allevierà i tormenti dello spirito”.

“E potrà officiare la Santa Messa. Credo ne avremo bisogno”.

“Va bene, dunque. Preservate Dietrichstein e vincete in nome di Dio”.

“Lo faremo”.

“Ne sono felice. A questo proposito, mi sono permesso di inviare esploratori e

messi per annunciare il vostro arrivo alla guarnigione”.

Kaspar alzò un sopracciglio. “Dunque hai proceduto ancora prima di sapere se

avrei accettato?”

Poppo si schiarì la gola con una punta d’imbarazzo.

“Beh, qualcuno avrebbe dovuto andarci comunque, quindi ho preferito accorciare

i tempi”.

Kaspar ci pensò su. E concluse che alla fine era meglio così.

“Va bene”, disse. “Dopotutto... Almeno saremo attesi!”

Così dicendo, bevve l’acqua pura dal bicchiere.

Quindi si alzò.

Era tempo. Il pomeriggio era già del colore dell’inchiostro in quel dannato fine

settembre del Nord, e molti erano i preparativi da fare.

Sarebbero partiti alle prime luci dell’alba, diretti verso un luogo di cui avevano

sentito parlare da alcuni dei Fratelli, ma che non conoscevano affatto. E per

raggiungere quella landa dimenticata da Dio avrebbero dovuto affrontare un

viaggio di centinaia di leghe attraversando i territori della Livonia, poi il Ducato di

Lituania, quindi Masovia, Volinia e Galizia fino a entrare nel Regno d’Ungheria.

Infine, il Burzenland.

Era una follia solo a pensarci. Nessuna garanzia di riuscita e speranze ridotte a

poco più della luce di una candela, ma avrebbe dovuto farsela bastare, quella luce.

Si sarebbe appellato ai cardini della Regola e avrebbe cavalcato con gli altri, ventre

a terra: tanto brevior quanto coactior, pensò fra sé e sé. In fin dei conti, cosa volere

di più? Che altro ci poteva mai essere di altrettanto foriero di gloria rispetto a quel

viaggio impossibile? E per andare ad affrontare un branco di infedeli, per giunta?

Non erano forse la gloria e il sacrificio due di quelle virtù per le quali valeva la

pena vivere, e dunque morire?

Perciò, come era solito rispondersi in quei momenti in cui le missioni parevano di

gran lunga superare qualsiasi ipotesi di buon senso e raziocinio, Kaspar pronunciò

sottovoce le due parole che sempre lo guidavano, financo nella notte più buia e

tenebrosa.

“Deus vult”, disse fra sé e sé.

Dopo di che salutò Poppo.

Uscì e s’incamminò verso la propria tenda.

CAPITOLO SEI

Neve e Luna

“Tutto è pronto, ragazzo mio?”

“Sì”.

“Hai controllato l’equipaggiamento? Hai affilato le lame? Il tuo cavallo è in

salute?”

Wolf annuì. Poi allungò le gambe verso le fiamme del fuoco. Il calore era più

gradito, se pensava al vento crudele che fischiava fra i rami degli alberi.

“Molto bene”, confermò Kaspar, “davvero molto bene. Ci attende un lungo

viaggio ed è giusto essere preparati”.

Ravvivò il fuoco e alcune faville color ambra scintillarono sopra di loro.

Wolf stava meravigliosamente. Aveva mangiato carne rossa, aveva divorato pane

croccante e bevuto birra. Una cena speciale prima di un viaggio speciale.

“Neve e luna”, disse Kaspar.

“Che cosa?”

“Neve e luna”, ripeté il maestro. “Saranno loro le tue guide, oltre a Dio, in questa

trasferta. Ricordalo sempre, Wolf. Pallide, fredde, luminose: saranno le tue luci e

non avrai altre compagne all’infuori di loro. Anche quando penserai di essertene

liberato, torneranno. Sono le due uniche signore di queste terre e sono loro a

dividersi il tempo: lo scandiscono in una diafana danza. Dividono i giorni in due

esatte metà: alla neve il giorno, alla luna la notte. Sono sorelle poiché ciascuna ama

l’altra: la neve riflette i pallidi raggi del disco d’opale nel cielo, li accoglie e li

immilla nei suoi cristalli, la luna si rifiuta di ferire la candida sorella, magari

arroventandola come farebbe il sole. Invece, la coccola con la sua luce di latte.

Perciò, che tu ci creda o meno, l’unica cosa che potrai fare è renderle tue amiche e

alleate”.

“La neve e la luna”, mormorò Wolf.

“Proprio così”, gli fece eco Kaspar. “Prima lo capirai e meglio sarà, non v’è

modo di ingannarle e di fuggir loro, perciò tanto vale assecondarle”.

“Ma in che modo posso davvero farle diventare mie alleate?”

“Anzitutto, non devi combatterle per nessun motivo. Pensa piuttosto che

illuminano il tuo cammino. Di notte, se presti attenzione e rendi acuta la vista,

potranno illuminare i tuoi passi, se sciogli la neve con il calore potrai ottenerne

acqua per lavare il viso o preparare la minestra e se non avrai altra soluzione,

modellando la neve sotto la luce della luna potrai perfino costruirti un riparo”.

“Lo terrò a mente”, disse il ragazzo.

“Vedi Wolf”, continuò Kaspar, “ci sono molte storie che si raccontano a

proposito di Neve e Luna ma una, fra tutte, è la mia preferita. Secondo quanto ho

appreso, tanto tempo fa Neve e Luna erano proprio due sorelle. In principio,

entrambe avevano i capelli color argento e la pelle bianchissima. Gli occhi erano

talmente chiari da essere di un azzurro quasi trasparente. Entrambe amavano

disperatamente Buio, e solo quando Sole decideva di andare a dormire uscivano di

soppiatto dalla porta della loro capanna. Erano felici di lasciarsi abbracciare da

Buio e in cambio brillavano per lui, insieme. Lo adoravano incondizionatamente,

senza pretendere nulla in cambio. Erano talmente affascinate dal suo mantello nero

che si sarebbero fatte uccidere per lui. Inutile dire che Sole ne era profondamente

invidioso: ogni volta che sorgeva, le due sorelle scappavano e lui rimaneva da solo

nel cielo senza avere nessuno con cui parlare. Brillava splendido, certo, ma né

Luna né Neve volevano stare vicino a lui. Proprio per questa ragione Sole non si

dava pace: com’era possibile che due creature tanto belle fossero così ostili proprio

a lui che aveva i capelli biondi come l’oro e che illuminava tutto il mondo con la

sua luce magnifica? Chi diavolo si credevano di essere? Quell’affronto era per lui

intollerabile. Perciò, un bel giorno, all’imbrunire, si fermò dietro l’orizzonte e, non

appena vide che le sorelline stavano per correre fuori dalla capanna, le ghermì con

i suoi lunghi raggi, portandole al suo cospetto”.

Kaspar si fermò un istante e bevve un sorso di idromele dalla tazza di legno che

stringeva nella mano destra.

“E a quel punto che cosa accadde?”, lo incalzò Wolf che voleva a tutti i costi

sapere come sarebbe andata a finire quella storia.

Kaspar si schiarì la gola. Tossicchiò. Poi riprese con la sua voce grave che pareva

uscire dal ventre stesso della terra.

“Il sole guardò le due sorelle dai capelli d’argento. Com’erano belle! E

com’erano dolci e chiare ed eleganti! Nonostante tutto il suo splendore, Sole

faceva una grande fatica a resistere a quel fascino delicato e magnifico. Perciò

chiese loro se, per una volta, fossero disposte a brillare per lui. In fin dei conti, non

gli pareva di chiedere troppo. Invece, non ci fu niente da fare. Il suo calore era così

forte e le due sorelle soffrivano tanto, soprattutto Neve che, oltre a Buio, amava

suo fratello, Freddo. Perciò Luna si rifiutò di brillare per lui e, abbracciando Neve,

così pallida ormai che pareva scomparire, provò a proteggerla dai raggi di

quell’astro prepotente che, da egoista qual era, voleva solo essere omaggiato.

Naturalmente, quel diniego non piacque affatto a Sole. Fu così che decise di

dividere per sempre le due sorelle e fermò Luna in cielo, tenendola imprigionata in

una rete fatta di stelle. Poi, non contento, ordinò che Neve cadesse ogni volta che

lo desiderasse dalla volta celeste per rimanere, però, a terra. Avrebbe potuto vedere

sua sorella, certo, ma non sarebbe mai riuscita a toccarla. Nemmeno una volta. Fu

così che, da quel giorno, Neve e Luna furono sempre divise: una in alto e l’altra in

basso. Luna compare solo la notte quando può incontrare il suo primo amore, Buio,

e Neve è condannata a vivere anche di giorno, quando però un po’ alla volta, se

Sole è troppo forte, sparisce”.

“Ma rimangono pur sempre sorelle”, disse Wolf.

“Proprio così”, concluse Kaspar, “ricordalo sempre, anche durante questo lungo

viaggio. Quando tutto ti sembra perduto, affidati a loro. Non ti tradiranno, ma in

cambio pretenderanno rispetto e devozione, altrimenti la loro vendetta sarà

terribile”.

“Lo farò”, furono le parole del ragazzo.

“Lo so che quello che ti ho detto può sembrare niente di più che una favola”,

insistette Kaspar, “tanto più alla luce del fatto che sei un Teutone, un guerriero di

Dio e della Croce, ma dobbiamo portare grande rispetto verso la natura, la terra e le

stagioni, poiché sono loro la legge, qui. Non comportarti mai con l’arroganza di

colui che crede di essere più grande di quelle due signore, o non risponderò della

tua vita”.

Wolf provò un brivido freddo lungo la schiena. Capiva il senso di quelle parole.

Ciò che il suo maestro gli aveva raccontato non era una fiaba qualunque ma

l’essenza stessa di quelle lande, perché Luna e Neve ne erano le regine

incontrastate, e accettando quel fatto con umiltà avrebbe potuto di certo ottenere

dei vantaggi.

CAPITOLO SETTE

Gelo

La colonna di cavalieri sfilava ordinata alle prime luci dell’alba. Raggi d’argento di

un pallido sole filtravano attraverso la coltre di nubi, facendo scintillare la neve e il

verde carico dei pini. I cavalli possenti erano coperti dalle bianche gualdrappe con

gli stemmi dell’ordine: croci patenti nere. Wolf cavalcava Eisen, un magnifico

sauro dal manto lucido del colore del ferro fuso. Lo aveva ricevuto in regalo

qualche anno prima da Kaspar e ora era diventato il suo migliore amico. C’era, con

quell’animale di straordinaria intelligenza, un’intesa naturale, inspiegabile e che

riempiva ogni giorno Wolf di orgoglio e soddisfazione.

Con Eisen non era necessaria la frusta o la ferrea disciplina, obbediva al più

piccolo segnale, sembrava quasi che cavallo e cavaliere costituissero un’unione

rara e perfetta. Wolf amava il proprio cavallo sopra ogni altra cosa: per la fedeltà

che in tante occasioni gli aveva dimostrato, per quel carattere docile e per niente

bizzarro eppure pieno di fuoco e coraggio, alla bisogna. Quando lo lanciava al

galoppo gli sembrava di volare. Nulla avrebbe potuto fermarlo. Sentiva l’aria

fredda e sferzante sul viso e quella corsa gli dava un profondo senso di liberazione

e di bellezza selvaggia e incorrotta. Cavalcare Eisen era un privilegio e i momenti

con lui erano i più belli e dolci della giornata.

La colonna procedette con un’andatura regolare.

Harald von Hoffman sorrise da sotto i lunghi capelli rossi. Cavalcava al fianco di

Wolf. Gli occhi azzurri scintillavano fra i lunghi ciuffi color del rame. Harald si

ostinava a portarli lunghi, malgrado la Regola prevedesse che i Fratelli li

tagliassero corti. Per la verità anche Wolf teneva lunghi i suoi capelli neri: l’unico

gingillo di vanità che si concedeva. E, comunque, nessuno si sarebbe mai sognato

di dire ad Harald di cambiare taglio di capelli: quasi tutti lo temevano abbastanza

da sapere che un’osservazione del genere sarebbe potuta costare molto cara. A

Wolf, Harald piaceva molto per quella sua aria ribalda e fuori dalle righe. In un

mondo fatto di disciplina e obblighi costanti, lui era forse l’unico che provava a

cambiare qualcosa, senza per questo essere un cavaliere men che temerario e

coraggioso.

Il suo valore sul campo era indiscusso, anche se fiorivano attorno a lui strane

storie, dicerie a proposito di tranelli e stratagemmi. Più di qualcuno, fra i

compagni, non gli aveva risparmiato critiche, specie riguardo al modo in cui

fossero maturate alcune delle sue vittorie.

Ad ogni modo, a Wolf importava poco, sapeva quanto quell’uomo fosse

pericoloso, e se al valore doveva aggiungersi l’astuzia tanto meglio per lui e peggio

per i suoi nemici.

Harald montava un morello imponente e aveva la corta barba incrostata di piccole

gocce gelate. Somigliavano a brillanti perle di cristallo.

Un po’ per provocarlo e un po’ per passare il tempo, Harald gli rivolse la parola.

“Allora, Wolf, ho sentito dire che ti sei fatto onore nella giornata di ieri”, e nel

dirlo mantenne quel sorriso sghembo che conferiva alle sue parole un sospetto di

doppiezza, al punto che era quasi impossibile capire se parlasse sul serio o,

piuttosto, per prendersi gioco del proprio interlocutore.

Ma, qualunque fosse l’intento di Harald, Wolf decise di considerare

quell’affermazione per quello che era.

“Ho fatto solo il mio dovere”.

“Io ho sentito dire che hai fatto molto più di questo. Non fare il modesto!”

“Non è, la modestia, una virtù cui ognuno di noi deve fare appello?”

Harald sbuffò.

“Ma quanto sei saggio! Sei proprio un cavaliere da manuale. Ad ogni modo, hai

idea di dove stiamo andando?”

“Nel Burzenland!”, Wolf lo disse con un entusiasmo quasi infantile. In verità, per

lui sarebbe stato come dire Novgorod, per quel che sapeva della destinazione del

viaggio. I preparativi erano stati febbrili e Kaspar non gli aveva raccontato granché

di quella terra.

“Già”, parve fargli eco Harald. Poi aggiunse: “Una terra maledetta e nera,

popolata da mostri che calpestano la Croce”.

“Ma davvero?”, la domanda di Wolf era ironica e intrisa di spavalderia.

“Sorridi ora Feuchtwangen, ci sarà poco da ridere quando faremo la conoscenza

dei Cumani”.

“I Cumani?”

“Proprio così, i Cumani. Si dice che adorino il Demonio e che leghino i nemici

uccisi agli alberi, utilizzandone gli intestini come corde”.

“Basta ora!”

La voce dura e secca dell’abate Anton Bederke risuonò come una eco di frusta

nell’aria gelida.

“E perché, buon Abate?”

Harald non pareva certo intenzionato a rinunciare al proprio divertimento

semplicemente perché un uomo di Chiesa alzava la voce.

“Perché non ha senso spargere al vento parole di blasfemia e paura”.

“Mi limito a riportare quello che ho sentito”.

“Sia come sia”, continuò Bederke, “la volontà e la forza di Dio saranno con noi,

ci guideranno anche nell’ora più buia e nulla avremo da temere fino a quando

saranno al nostro fianco”.

“Naturalmente, naturalmente”, adesso Harald sembrava rendersi conto che la

discussione stava prendendo una brutta piega e che non valeva la pena portarla

oltre.

“Comunque”, osservò Wolf, “non sono così sprovveduto da credere a leggende

del genere”.

“Ho sentito dire che di leggendario c’è ben poco”, rimbeccò Harald.

“Ad ogni modo, fosse anche vero, non c’è nulla che la mia spada e la mia fede

non possano sconfiggere. Sono un soldato di Cristo”.

“Ben detto, giovane Feuchtwangen”, fece eco Bederke.

“Già, ben detto! Peccato che quando l’orda di Cumani ci verrà addosso, la fede

potrebbe non bastare”.

“Questa è blasfemia, von Hoffman!”

“No, Abate, semplice e umano dubbio”.

E nel dire così, Harald diede leggermente di sprone al cavallo, avanzando nella

colonna e chiudendo quella conversazione.

Ma quelle parole, tranciate in modo amaro e violento, parvero lasciare una scia

dietro di loro.

Il seme dell’incertezza albergò almeno per un istante nell’aria, portato come la

gramigna a infestare le messi di un campo.

L’abate Bederke scosse la testa. Poi si rivolse a Wolf.

“Ricorda la Regola, giovane Feuchtwangen. Ricorda i princìpi dell’Ordine.

Ricorda la professione che hai reso davanti a Dio quando hai abbracciato i Fratelli.

Fai attenzione a non barattare tutto questo con i dubbi della ragione o rischierai di

perderti nelle secche della paura e dell’incertezza. E non è di questo che abbiamo

bisogno durante il viaggio: paura e incertezza”.

Terminata che ebbe quella sua ultima riflessione, Bederke lasciò sfilare la

colonna, ponendosi nella parte finale, vicino alla retroguardia.

Wolf lasciò rotolare dentro di sé le parole dell’Abate.

Sentì che in quel che diceva c’era del vero, ma come sempre avvertì anche un

eccesso di zelo nelle sue parole. Non era la prima volta che percepiva nella voce

dell’Abate una convinzione ai limiti del fanatismo.

Naturalmente a quell’uomo era affidata la guida spirituale della spedizione, Wolf

lo sapeva bene, e non avrebbe mai fatto nulla per metterla in discussione.

Tante volte Kaspar gli aveva raccontato, in quei giorni, di quanto l’abate Bederke

fosse un uomo dalle convinzioni profonde e radicate, attento però a discernere la

verità dall’errore con una sensibilità rara. Wolf non avrebbe dovuto lasciarsi

ingannare da quel suo tono enfatico, poiché dietro quella tempra si nascondeva

invece la parola di un uomo di grande misericordia, forgiato dai digiuni e dalle

penitenze, che aveva rinunciato a privilegi e rendite per mettersi al seguito dei

monaci-guerrieri dell’Ordine Teutonico.

Wolf non aveva motivo per dubitare delle parole del suo maestro, ma non era

nemmeno convinto, de plano, di tutto quello che gli veniva detto e tentava perciò

di formarsi una propria idea.

A conti fatti di una cosa era certo: tutti provavano a propinargli una verità. E

nessuna di quelle lo convinceva davvero. Ripeté a se stesso che avrebbe voluto

cercare la sua, a tutti i costi.

La vita era troppo bella per dover essere vissuta sempre e solo secondo le visioni

degli altri.

CAPITOLO OTTO

Kira

Dopo giorni a cavallo, attraversando foreste ammantate di neve, con il gelo

spietato a tagliare la faccia, le membra intorpidite dalle infinite leghe percorse e il

seme maligno del dubbio istillato dalle parole venefiche di Hoffman, il contingente

teutone giunse in vista delle palizzate di legno del piccolo villaggio di Bayemburg.

Erano state giornate che avevano messo a dura prova i Fratelli. Kaspar aveva

scelto la via più lunga ma sicura. Aveva spiegato a Wolf come intendesse

raggiungere prima la città di Kokenhausen, presso il castello teutonico protetto

dall’ala onnisciente del vescovo Nikolaus von Nauen, che era succeduto ad

Albrecht von Buxthoeven, già fondatore dei Cavalieri Portaspada. Lì avrebbero

arruolato un’altra schiera di uomini e poi cavalcato, ventre a terra, fino a Wizna,

attraversando la Lituania e giungendo nel Ducato di Masovia.

L’intento di Kaspar era semplice: proteggere l’avanzata dei suoi, nel tentativo di

arrivare nelle migliori condizioni possibili a Dietrichstein. Il viaggio sarebbe stato

ai limiti dell’eternità, perlomeno sessanta giorni di foreste, ghiaccio, neve e fiumi

gelati. Perciò, una tappa come quella di Kokenhausen risultava fondamentale per

far rifiatare i cavalli e dare ai Fratelli un minimo di sollievo.

Il fatto di aver incontrato lungo la via quel piccolo villaggio poteva offrirgli

un’occasione più unica che rara per spezzare, almeno per un istante, quel primo

tratto fino a Kokenhausen.

Ne avevano bisogno.

La palizzata di tronchi scuri che proteggeva il piccolo villaggio era quanto di più

dimesso ci si potesse immaginare: sarebbe potuta cadere al primo refolo di vento.

Due sgangherate torri di garitta, con altrettante sentinelle, servivano a malapena a

dare la sensazione che vi fosse qualcuno a guardia della via. Ad ogni modo, nel

giro di qualche minuto il contingente di Teutoni fece il proprio ingresso nel

villaggio.

Quest’ultimo, in verità, non era altro che un modesto pugno di izbe, aggrovigliate

attorno a un paio di vie sterrate. Tuttavia i camini fumanti, l’odore di letame e di

urina di cavallo e uno straccio di terreno riservato a un pulcioso mercato erano i

primi segni di umanità avvertiti dai Teutoni negli ultimi cinque giorni.

E mai furono più benvenuti.

Dopo le ore della preghiera, del digiuno e del freddo, forse con un po’ di fortuna

qualcuno avrebbe potuto meritarsi un boccale di birra.

Ad ogni buon conto, entrando nel villaggio, sia Kaspar che Wolf ebbero fin

dall’inizio la sensazione che qualcosa di straordinario vi si stesse celebrando. Non

avrebbero saputo dire esattamente di cosa si trattasse, tanto più considerando che

quei contadini parlavano a malapena la loro lingua e rappresentavano il frutto di

una tanto immediata, quanto sommaria, influenza cristiana mal vista e ancor

peggio recepita. Pochi erano invero gli ausiliari dei Teutonici posti a presidio di

quel borgo sperduto, e la familiarità che quel pugno di agricoltori aveva con i

monaci-guerrieri doveva essere tanto rara da rivaleggiare con l’esperienza che

avrebbe potuto avere un Saraceno con le Terre del Nord.

D’altra parte, il mistero di tutto quel brulicante fermento non pareva trovare

soluzione dal momento che i contadini, pur sbarrando gli occhi alla vista dei

cavalieri, parevano essere in tutt’altre faccende affaccendati.

E difatti un buon numero di loro si stava dirigendo in gran fretta verso la piazza al

centro del villaggio. La stessa era facilmente individuabile per via della chiesa in

legno il cui tetto, sormontato da una croce, svettava fra gli spioventi delle izbe.

Mentre alcuni cavalieri smontavano d’arcione per dedicare la propria attenzione a

una qualche taverna o spaccio di bevande, Kaspar e Wolf, seguiti da vicino

dall’abate Bederke, proseguirono a cavallo fino alla piazza che si apriva al centro,

coronata dalle izbe attorno.

Ciò che si parò innanzi ai loro occhi li lasciò senza fiato.

Wolf, in particolare, rimase privo di parole, quasi le stesse gli si fossero mozzate

nella gola o rimbalzassero contro i denti senza peraltro riuscire a liberarsi. Dopo

quel senso d’impotenza e gelido stupore, sentì per un attimo il cuore fermarsi.

Al centro della piazza era stato allestito un palco e su quel palco una forca,

attorno alla quale si stavano assiepando piccoli sparuti gruppi di contadini.

Proprio sopra la forca, corvi dalle piume nere e lucide artigliavano il legno,

appollaiandosi come poeti del malaugurio e cantilenando in una teoria di risate

gracchianti una filastrocca storta e malevola.

Sotto quello spettacolo macabro e irridente a un tempo, un uomo incappucciato,

un boia a tutta evidenza, stava facendo fischiare una frusta nell’aria, mentre un

frate dagli occhi iniettati di sangue e lo sguardo lucido di follia declamava con aria

febbrile una litania in latino.

Con le mani legate attorno a un palo e la schiena esposta ai morsi della frusta,

Wolf vide in quel momento la creatura più bella e straordinaria su cui i suoi occhi

avessero mai posato lo sguardo. Strani segni blu correvano sulle sue spalle e le

ferite inflitte dalla sferza costellavano il disco d’opale che era la sua schiena.

Ne fu schiantato, era proprio quello il termine corretto, poiché non aveva mai

veduto in tutti quegli anni un’avvenenza nemmeno lontanamente paragonabile:

semplicemente, non era preparato a qualcosa del genere.

Rimase incantato e muto, annegando nella meraviglia di quei grandi occhi blu.

Gli zigomi alti e la pelle d’alabastro spiccavano in un volto talmente perfetto che

se l’amore ne avesse avuto uno avrebbe senz’altro scelto quello. Su quel viso

cesellato una cascata di riccioli neri, impiastrata di sudore e sangue secco, ricadeva

selvaggia e lucida proprio come l’ala di uno dei tanti corvi che popolavano il legno

della forca.

Ma, oltre alla meraviglia, qualcosa d’inconfessabile e indefinibile parve rompere

gli argini del cuore di Wolf. Qualcosa che non aveva mai provato e su cui si rese

conto, ben presto, di non avere controllo alcuno. Perché rimanere a fissare quella

bellezza significava al contempo essere testimone inerte di come la stessa venisse

corrotta dalla becera violenza e dalla vergogna ottusa che ne stavano facendo

strame: la bellezza era una colpa, dunque, un marchio d’infamia che andava

cancellato al suono della frusta.

Fu un istante.

Perché, immediatamente dopo, l’incanto iniziale si tramutò in rabbia e

disperazione. Non ci poté fare niente, fu qualcosa di troppo forte. E intenso.

Perfino per lui.

Non attese un attimo di più e, senza rendersi conto di cosa stesse facendo, diede

di sprone a Eisen. Il sauro s’imbizzarrì, sfoderando un nitrito che scosse il mare

degli astanti come il rombo di un’onda gigantesca. Poi avanzò al trotto, mentre la

folla si apriva in due ali al suo passaggio.

Ritto in sella a Eisen, Wolf sfoderò la spada, rivolgendola al cielo, la punta

scintillante nella luce del mattino.

“Fermi!”, urlò.

Kaspar non si era ancora mosso.

Tutto era avvenuto nell’arco di pochi istanti e il Maestro dei Teutoni era stato

preso completamente alla sprovvista. Non era pronto a una simile eventualità, ma

era fin troppo chiaro ciò che intendesse compiere il ragazzo. E immaginare quello

che ne sarebbe seguito non prometteva niente di buono. Non solo, come suo

maestro e modello Kaspar non poteva consentire una simile linea di condotta: era

evidente che, se non da lussuria, Wolf era mosso da sentimenti che sarebbero

dovuto rimanere sconosciuti al cuore di un Teutone, mentre invece il ragazzo

pareva non solo assecondarli, ma perfino corrervi incontro.

Per non parlare del fatto che i cavalieri crociati non potevano piombare in un

villaggio e, semplicemente, impedire un’esecuzione sulla base di un capriccio.

Insomma, Kaspar doveva da un lato salvare la faccia, dall’altro impedire che

scoppiasse una carneficina.

Il ragazzo aveva rotto ogni indugio e lui era rimasto a guardare.

Perciò fece l’unica cosa possibile in quel momento.

“Wolf!”, urlò nel disperato tentativo di fermarlo.

Ma, se quello era lo scopo del comando, Wolf non vi obbedì affatto. E procedette

in avanti fino a quando Eisen non salì con un balzo sul palco della forca, mentre i

contadini cominciavano a gridare in un rincorrersi di urla strozzate e cariche di

terrore.

Fine dell'estratto Kindle.

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