Questione di stile

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QUESTIONE DI STILE Giuseppe Campagnoli

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QUESTIONE DI STILE Giuseppe Campagnoli

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QUESTIONE DI STILE

Un viaggio dentro l’architettura contemporanea ed una idea di architettura culturale

A Cinzia, Emilio, Franci, Cleo, Nina e Coco

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Copyright giuseppecampagnoli 2014

ISBN 978-1-291-82733-0

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E’ da molto tempo che non scrivo di architettura contemporanea. Ho trattato prevalentemente di architettura scolastica nella mia duplice veste di architetto e dirigente scolastico. Già nel corpus dei miei saggi specialistici si osservano cenni ad una teoria dell’architettura che mette severamente in discussione ciò che sta avvenendo oggi e che ha fatto scivolare quella che un tempo era un’arte ad un fenomeno di mercato, di tecnologia e di superstar della moda progettuale. Per capire quei miei scritti sull’architettura per la scuola era ora necessaria questa postilla letteraria. Ricordo il mio maestro Aldo Rossi (ai tempi ahimé sottovalutati e trascurati della “Libera Facoltà di architettura di Pescara” alla fine degli anni ’60) che non mi stancherò mai di citare quando tentò tra feroci contrasti e l’opposizione dell’estabilishement accademico e professionale funzionalista, soprattutto italiano, di tracciare una guida intellettuale per una architettura contemporanea storicamente riconoscibile ed identificabile.

Rileggendo i suoi scritti e i suoi disegni ho rinnovato la convinzione che vi sia più che mai bisogno di rifondare l’architettura della città affinchè non si dica in futuro che dal razionalismo in poi non vi è più stato uno stile in architettura e forse anche nelle altre arti. Da tempo ho rinunciato alla professione abbandonando l’ordine professionale italiano con una lettera in cui lamentavo la situazione di un mestiere un tempo nobile ridotto ormai, in Italia, più che nel resto del mondo, ad un venale mercato dove l’arte e la cultura hanno un ruolo spesso subalterno quando non assenti del tutto. Il territorio è nelle mani degli endemici geometri e di troppi architetti e ingegneri ormai rassegnati a fare di tutto assecondando committenze pubbliche o private, imprese o speculatori protervi ed ignoranti di storia, di compatibilità vera e finanche di economia! Rara è l’architettura che rifiuta di essere corpo estraneo per moda o per tensione esibizionista all’originalità ed al “Fanta building”. La cultura del trasformare correttamente la realtà per vivere e lavorare deve essere prima radicata nella gente, nei cittadini e nella committenza oltre che nella politica e nella professione. La società non ha bisogno delle archistars. Sono loro che ne hanno avuto bisogno e l’hanno sfruttata e turlupinata ad usum delphini. Ma tant’è, in qualche paese, si diventa senatori anche per questo e si capisce allora anche l’antica provocazione di Caligola!

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Liegi. La stazione ferrioviaria di Calatrava

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Liegi. Casa medievale reticolata.

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1-La classe non è acqua

Tempo fa trovai in una libreria a Béziers, nel sud della Francia. un divertente libercolo della collana disimpegnata “Juste assez de…” edizioni Dunod intitolato “Juste assez d’architecture pour briller en société” di Philip Wilkinson cioè “Quanto basta di architettura per non sfigurare in società”: sottotitolo: i 50 grandi stili che dovete conoscere. Art déco, Costruttivismo, Bauhaus, Le Corbusier, Mies Van der Rohe, Wright….gli stili diventano evanescenti, emergono architetti isolati e l’unico tentativo di ricreare uno stile contemporaneo, cui molti avrebbero potuto aderire, sembra essere quello della cosiddetta “tendenza” maldestramente chiamato anche “neo-razionalismo” teso alla costruzione di una idea di architettura rispettosa della forma urbana e del paesaggio. Il resto dell’architettura non aspirava alla costruzione di uno stile ma alla tecnologia e al mercato ad una improbabile ecologia urbana, ad un eclettismo senza le forme dell’arte ma con le funzioni della tecnologia esasperate e padrone. L’architettura dei mezzi e delle funzioni si sostituisce a quella delle forme, dell’arte e della poesia con effetti devastanti per i paesaggi urbani e non. Tornando alla mia passione che è la scuola e i suoi luoghi, ci sono pochi edifici che possono rappresentare “l’architettura” come le scuole o i municipi, le chiese, le biblioteche, i musei, i civici “monumenti” insomma. Da questi e intorno a questi, nella storia, si sono aggregate le case d’abitazione configurando un proprio stile peculiare in ogni epoca e in ogni paese.

A me pare che oggi questo non esista più. E’ un po’ come nelle altre arti, dove il mercato decide quali forme siano buone e quali cattive,quali valgano e quali no generando fratture nette col passato, revival, neocorrenti e grandi bluff a seconda dei casi. L’architettura ahimè in tale contesto è la più visibile ed è insieme anche la più sociale e fruibile, poicè ci si vive e ci si muore, ci si cura, ci si apprende, ci si lavora, ci si diverte, ci si comunica. Che allora, oggi non meriti uno stile o degli stili è un vero peccato.

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A dire la verità degli para-stili si possono individuare e possono essere così classificati:

Quelli dei geometri

Quelli degli ingegneri

Quelli dei giovani e anziani architetti epigoni di grandi o solo famosi maestri della storia o della contemporaneità

Quelli delle archistar che una volta realizzato un bestseller spinto da media e riviste specializzate e non, si ripetono all’infinito in tutto il mondo globalizzato accompagnati da fama, onori e soprattutto danaro.

Quelli dei pochi onesti che ancora tentano di costruire uno stile ma vengono pervicacemente tenuti lontani sia dal mercato di moda che dalla fama e dal danaro.

C’è poi, quanto agli architetti, un altro aspetto non trascurabile in Italia ma vedo anche nel mondo: la mediocre formazione storico artistica, l’interesse per una tecnologia sopravvalutata e per il pernicioso luogo comune dell’ecologico e del sostenibile che rende molto spesso le forme meccaniche e anestetiche in tribute all’ormai omnipresente ed abusato “green”. Basterebbbe tornare semplicemente al concetto di uso dei materiali della tradizione costruttiva abbinandoli a quelli dell’innovazione rigorosamente considerati come compatibili. L’idea di riciclare oggetti e pezzi altrimenti da discarica è quella giusta. Del resto è stata utilizzata nelle architetture di tutti i secoli che spesso erano il risultato di sagge stratificazioni di stili, di sistemi costruttivi e anche di materiali. Quando invece dell’idea di architettura è il mercato che guida avviene il disastro che appare oggi sotto gli occhi di tutti. La gara a produrre le forme pù strane, a dare un segno strabiliante di sé, alla copia del vip dell’architettura di turno, la corsa all’eco a tutti i costi, alle, spero effimere, mode dell’autocostruzione individuale e collettiva ai progetti degli edifici di verzure, degli auditorium mirabolanti e dei musei-circo pare non siano che all’inizio. Ma non è troppo tardi per fermarsi e ricominciare onestamente a fare

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architettura. Quella vera. Innanzitutto dalla formazione degli architetti, dalla liberazione dalle troppe figure che progettano, soprattutto in Italia. E’ urgente che ognuno faccia il proprio lavoro, che questo lavoro si ben identificato e limitato e che per poterlo praticare si abbia la formazione appropriata fin dalla scuole superiori.

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2-Architetti si nasce?

Per fare l’architetto (o l’urbanista che non dovrebbe esistere perchè sarebbe la stessa cosa ad una scala diversa) occorre ineluttabilmente essere prima di tutto umanisti, filosofi e storici, poi artisti e quindi tecnici. Tutto il resto lo fanno altre figure, preparate altrimenti ed altrove. Ma l’Italia permane il coacervo dell’eclettismo professionale e di quello progettuale: cento figure che possono “fare” architettura, cento modi di concepirla partendo da cento formazioni diverse, spesso più che mediocri e senza vera vocazione. Non ci si meravigli della cementificazione e della distruzione del paesaggio urbano, rurale, montano, marino e archeologico! Ormai da un po’ fuori dal coro ufficiale degli architetti italiani (uscita di corsa dall’anacronistico ordine professionale) ad ogni viaggio ho provato a fare un censimento del panorama edilizio incontrato. Sia nelle grandi città che nei piccoli borghi, in campagna come al mare e in montagna non sono riuscito a distinguere un manufatto che si potesse definire per forma ed elementi costruttivi, e decorative un esemplare dell’architettura contemporanea. Quanto ai cosiddetti monumenti civili, non mi è parso più possibile stabilire, per forma, se a prima vista ci si trovasse difronte a una chiesa, una fabbrica, una scuola, un municipio. La residenza e il terziario sono terreno di caccia del qualunquismo architettonico. Le campagne, le montagne e le coste mostrano un’edilizia turistica d’assalto (falsi agriturismi, false baite , residences a go go, e lunghe teorie di stabilimenti balneari, chioschi e chioschetti, campings e villaggi senza soluzione di continuità)

Poche rare eccezioni nelle aree storicamente più evolute e illuminate. Più che in una trasformazione della sensibilità di operatori ed utenti, sempre più obnubilati anche dalla pletora di realities del tipo “compro casa” “la mia seconda casa”, “cambio vita”, condotti da improbabili anfitrioni del gusto architettonico, da architettti cicisbei e da furbastre agenzie immobiliari si può puntare sull’educazione, sulla revision di normative colabrodo, sulla unicità delle figure che progettano e sulla loro rigorosa preparazione storico artistica oltre che tecnica e tecnologica. E’ necessario

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restituire agli organismi comunali di controllo la funzione di giudizio estetico e trasformare l’urbanistica in disegno urbano perchè le ciittà ed il territorio debbono essere disegnati e progettatati come una casa, un monument, un opificio.

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3-Il male dell’architettura

Se il male dell’architettura è diffuso in tutto il mondo in Italia si ha il picco del contagio. Le figure più o meno abilitate storicamente alla progettazione dei manufatti e del territorio sono più di sei! Negli ultimi tempi vi è stato un assalto alla laurea in architettura anche da parte di diplomati geometri, periti, ingegneri di varie specie. Una moda drammatica! Si pensi che in una piccola regione come le Marche nel 1981 erano iscritti all’Ordine degli Architetti (allora regionale) non più di 500 professionisti su una popolazione di poco più di 1 milione e 400 mila abitanti. Oggi gli architetti (nelle varie sezioni) sono più che quadruplicati a fronte di una popolazione incrementata di poco più di 100.000 unità. Poi ci sono gli ingegneri, i geometri, i periti edili ed agrari e altri pseudoabusivi. Allargando l’ottica all’Europa, dove in molti paesi la qualità del costruito e del conservato è decisamente migliore che non in Italia si possono citare, solo per inciso e senza commenti alcuni dati significativi :

Italia 147.000 architetti su 60 milioni di abitanti: 1 ogni 400

Germania 101.000 su 82 milioni: 1 ogni 800 circa

Spagna 51.000 su 47 milioni: 1 ogni 921

Regno Unito 33.500 su 61 milioni: 1 ogni 1800

Francia 30.000 su 65 milioni: 1 ogni 2200

I dati risalgono al rapporto 2012 del Consiglio degli Architetti d’Europa.

Il paesaggio urbano e rurale italiano così come si è trasformato negli ultimi cinquant’anni è il prodotto dell’azione di tutte le figure “progettuali” tra architetti e altri, nonchè dell’analfabetismo culturale ed economico della committenza pubblica e privata. Quando fequentavo l’università e seguivo i miei maestri Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Uberto Siola, Roberto Pane, Salvatore di Pasquale

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(in una classe universitaria di non più di 30 studenti!) si era convinti, in scienza e coscienza, che non si dovesse più costruire per un po’ dato che in Italia c’erano ancora 30 milioni di vani residenziali vuoti e non utilizzati. Oggi si rabbrividerebbe.

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4-Le illusioni dell’architettura

Il tempo, si diceva all’università negli anni ’70, si sarebbe dovuto spendere, almeno per un ventennio, nella ricerca urbana e architettonica per costruire uno stile contemporaneo sia per la città che per la campagna, per gli edifici pubblici che per quelli privati e residenziali. Niente di tutto ciò in realtà è stato davvero fatto. Basta osservare il territorio : dell’architettura non c’è traccia. Lo stile contemporaneo è un desolante eclettismo informe, un’accozzaglia di manufatti che non hanno nulla di estetico e sovente nemmeno nulla di funzionale. Se si glissa sul comprensibile ma non accettabile analfabetismo estetico e architettonico di figure come geometri e ingegneri non si può trascurare il penoso vuoto culturale della maggior parte degli architetti sul mercato e la loro vocazione prevalente e comune anche ad altre categorie di professionisti ed imprenditori al mero profitto o alla elucubrazione stilistica fine a se stessa. Non si capisce nemmeno il gran successo delle nostre archistars nel mondo se non con un degrado culturale che si è globalizzzato e che giudica l’architettura prevalentemente dai falsi miti della tecnologia e dalla ecologia. Non ci sarebbe bisogno di tante elucubrazioni tecno-ecologiche se solo si conoscesse la storia e ci si comportasse di conseguenza senza eccesive fratture e con la continuità che un organismo come la città e il suo intorno richiedono, attraverso interventi innovativi ma non completamente estranei. E’ indispensabile garantire una sorta di biocompatibilità con un organismo che è vivente e mal sopporta corpi estranei o trapianti innaturali. Persino oggetti tanto declamati come il Beaubourg, gli l’high-tech, spesso solo high di Renzo Piano, Santiago Calatrava, Massimiliano Fuksass & Co. temo restino una estraneità nel contesto urbano in cui si collocano. Si fatica a immaginare che possano, nel tempo, integrarsi mirabilmente con i loro intorni urbani come è accaduto per le architetture civili ed emergenti costruite prima degli anni ’50.

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5-Paesaggi dell’architettura di oggi

Tempo fa provai a compilare una specie di catalogo di quelle che ritenevo brutte costruzioni sia in Italia che in Europa. Cominciai i sopralluoghi dalla mia regione e da quelle limitrofe e constatai che solo per dare un’idea approssimativa della quantità e della qualità in Italia avrei dovuto scrivere non meno di 10-12 volumi!

La sorpresa più grande fu anche quella di dover amaramente osservare che gli autori di tali plateali nefandezze spesso erano architettti senza nessuna scusante a parte una pregressa presunta formazione da geometra o una laurea acquisita per l’unico valore che il più delle volte ha in Italia: il titolo! Il confronto con città e borghi dell’Europa che ho potuto visitare è impietoso. Forse è dovuto al fatto che la figura di geometra che progetta è una prerogative solo nostrana? Ho analizzato Parigi, Berlino Strasburgo, Lione, Brussells, Salisburgo, Vienna, Montecarlo, Barcellona e Valencia, Budapest e Dublino tra le grandi città. Ho visitato Montpellier, Nizza, Innsbruk, Liegi, Ostenda e Anversa, Perpignan e Carcassonne, Dusseldorf e Colonia. Il comune denominatore ai miei occhi, a parte rare eccezioni, è costituito dall’intenzione a non far fare alle città e ai borghi quei salti che la natura non fa. Quel poco di storicamente rilevante (difronte all’Italia) presente in molte città europee pare ben conservato, ben integrato e spesso ben dialogante con un nuovo discreto anche quando estremamente innovativo. Eccezioni che confermano la regola, a mio modo di vedere, sopravvalutati da critica e pubblico : il Beaubourg e la piramide del Louvre, la nuova stazione ferroviaria di Liegi e la città della scienza a Valencia. I motivi sono gli stessi che rendono discutibile la maggior parte delle architetture contemporanee in Italia e in parte anche in Europa. Indifferenza al contesto urbano e ipertecnologia. Tante tours Eiffel senza la misteriosa acquisita iconografia di oggetto accettato dalla città come una scultura. La sua funzione infatti era un’altra : quella di un elemento strutturale squisitamente ingegneristico!

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Come mettere una Colonna ionica (ed è già successo!) al centro di un rondo o di una piazza!

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6-Appunti sulla vecchia Europa

Il mio pamphlet ha come scenario la vecchia Europa Centrale e Mediterranea proprio per la delicatezza della sua storia e del patrimonio architettonico ed artistico stratificatosi mirabilmente nel tempo almeno fino ai primi del ‘900. L’Italia si pone, ahimè, come avanguardia protesa nel Mediterraneo dell’eclettismo becero e del disastro urbanistico e architettonico. Neppure la Spagna e la Grecia sono riuscite a fare tanto! Neppure le architetture socialiste dell’ex blocco sovietico! Ecco una rassegna iconografica tratta dal diario di un viaggiatore architetto disilluso. Gli esempi sono architetture di forma contemporanea in contesto storico, in contesto “moderno” e “mimetiche”. Dal primo viaggio da adulto a Parigi nel 1977 all’ultimo viaggio a Berlino nel 2013, siano stati per turismo o per lavoro, ho sempre portato con me l’impressione di qualche architettura contemporanea spuria ma emblematica. Una carrellata di aforisimi testuali ed iconografici che più di qualsiasi saggio possono far comprendere il panorama “artistico” visto con lo sguardo non profano. Alla fine di questo viaggio e di questo racconto mi è venuta in mente una frase di un giovane scrittore triestino (Mauro Covacich “Trieste sottosopra” Editori Laterza 2006) a proposito della case ex ICAM (Istituto Comunale per le abitazioni minime” ndr: ricordate l’ “existenz minimum”?) di Ludovico Braidotti: “A guardarle ancora adesso da fuori si capisce subito che non si può che vivere bene in un posto così.” e ho ricordato, al contempo, quella che dissero degli studenti e dei docenti a proposito di una scuola media che realizzai tempo fa a Recanati (MC) con dei colleghi architetti: “questa scuola fa venire voglia di venirci e lavorarci!”

Sono per caso delle definizioni implicite di architettura come la famosa frase di Adolf Loos? Secondo me è mancata la cultura diffusa nei cittadini dell’architettura ed è mancata una scuola dell’architettura, una scuola come la intendeva Aldo Rossi e come la intendeva, in parte, anche la Bauhaus. Di conseguenza sono mancati gli stili e la poesia dell’architettura un po’ a livello globale. Quando sostenevo che oggi difronte ad un edificio non si saprebbe più dire se si tratti di una scuola, una chiesa, un municipio, una stazione,

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addirittura una casa, non è solo un esercizio linguistico è un sintomo di mancanza dei segni fondamentali di un’arte che non è solo tale perchè non è indifferente alla parte di vita che vi si svolge dentro e intorno. Occorre riformulare una idea di architettura che corrisponda poi ad una idea contemporanea di casa, di scuola, di piazza non equivoche e non eclettiche ma soprattutto non effimere. Quell’analfabetismo funzionale che pervade l’Italia, l’Europa e ahimè il mondo intero, a causa della poca cultura e della iperspecializzazione ha contagiato anche l’arte e l’architettura che era, fino a prova contraria e per lo meno fino ai primi anni del novecento, una delle sue espressioni più “tangibili” e umane. La globalizzazione formale si è estesa perniciosamente anche alle fisionomie delle città e del territorio, agli edifici pubblici e privati, ad ogni trasformazione fisica del reale. Si immaginano, viaggiando, tanti giovani rampanti epigoni dei “capaci e meritevoli” Calatrava, Piano, Fuksas, Cucinella, Foster, Libeskind, Hadid, Botta e altre stelle del firmamento di vetro e acciaio e non ci si meraviglierà se verrà fuori un talent show anche per gli architetti. Per i musicisti, i cuochi e gli scrittori (orrore!) già c’è.

Quando ai tempi della scuola la nostra “tendenza” veniva ferocemente avversata come socialista e velleitaria dai tecnicisti e dai tecnocrati funzionalisti oggi si capisce perchè. Il neocapitalismo e il mercato hanno permeato anche l’architettura. I suoi profeti sono proprio le ineffabili stars della progettazione che indifferentemente servono la finanza occidentale come quella orientale, la vecchia Europa e la sempre nuova America come le rampanti e non proprio eque economie cinesi, indiane ed arabe. Non è l’architettura per l’uomo, come la storia insegna, ma appare di più come l’architettura per i nuovi poteri senza che vi si possa riconoscere un filo di arte e di stile, di cultura. I sogni della nostra gioventù di studenti che trapelano dalle tesi di laurea, dagli appunti e dai progetti, sono stati drammaticamente distrutti nel tempo da una realtà in cui anche l’architettura, come l’arte la musica e tutte le nobili arti sono diventate mercimonio spesso spacciato da media-mercanti e dalle lobbies e dei critici-mercanti per innovazione, poetica e creatività.

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Ricordo delle frasi significative sul futuro che noi studenti formati prima nei licei (!) e poi all’università ci saremmo aspettati in un virtuoso mix di politica, cultura e arte del costruire.

“Integrando le letture fondamentali della città e del movimento moderno si arriva ad acquisire gli strumenti essenziali alle nostra disciplina,gli unici strumenti capaci di portare alla costruzione logica di un progetto che non è nient’altro se non di architettura percvhè per essere tale non deve assolutamente sconfinare in campi che non sono di pertinenza dell’architetto e che invece pretendono di risolvere problem di architettura con strumenti che le sono estranei”

“il concetto di funzione preclude l’essenza autonoma dell’oggetto architettonico,facendone una forma concepita per una specializzazione,mistificando la validità di una operazione progettuale che si configure come la costruzione di un manufatto architettonico o di una parte di città che potranno assumere nel tempo diverse funzioni”

“un intervento da architetti nel territorio deve essere solo un progetto di architettura”

“L’architettura è una elaborazione collettiva nella storia in un luogo che è la città, capace di formarsi e trasformarsi rilegenndo continuamente sè stessa”

“E’ solo leggendo e scomponendo la città e il territorio nelle loro parti che può derivare il progetto come costruzione sulll’architettura per ristabilire quell’equilibrio spezzato dalla speculazione edilizia e dagli interventi dissennati sul territorio ”

Da qui ho intrapreso una professione di progettista ed educatore, proprio come i miei maestri mi avevano suggerito perchè essi stessi l’avevano fatto e lo stavano facendo. Lo scopo era divulgare una idea moderna di architettura fondata solidamente sul passato, su quel gigante senza il quale nulla sarebbe stato possibile nelle trasformazioni delle realtà urbane e territoriali. Posso dire che nessuno di noi, ahimè, ci è riuscito fino in fondo. Il mercato e la moda, il gossip architettonico e il funzionalismo tecnocratico hanno avuto la meglio, insieme alle illusioni ecologiche e sostenibili

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ibridate pericolosamente con gli opportunismi delle imprese e della speculazione falsi mecenati del futuro architettonico mondiale.

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Berlino in stile e tecno: I tipi di Aldo Rossi e quelli di Renzo Piano & Co.

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Anversa

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L’Aquila: una città che sarebbe potuta rinascere grazie all’architettura

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Riccione: una città tra cultura e turismo

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Venezia: una città con Rialto e il ponte di Calatrava

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Lione e Vienna: proposte per una architettura polifunzionale in piazza. Giuseppe Campagnoli e Stanislao Biondo 2009

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Trieste: ultima vera architettura in un quartiere popolare del 1912

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Parigi: il quartiere del Beaubourg e il Centre Pompidou. La Piramide del Louvre

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Angoli d’Europa

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7-Un esempio e un prototipo per l’architettura. Un monumento chiave della città. La scuola

Da tanta premessa ideale non può non venire una proposta. Una proposta applicata nel campo dell’architettura collettiva che mi è più familiare e geneticamente affine: la scuola.

Un monumento emblematico per la città e per una intera nazione. Dopo la premessa teorica esposta ne “L’ Architettura della scuola” edito da Franco Angeli nel 2007 che ha suscitato un giusto interesse tanto da essere riferimento per tesi di laurea e dottorati di ricerca in campo pedagogico e architettonico, è tempo di guidare progettisti e gli amministratori ad un esperimento.

Come applicare gli assunti teorici di quel libro? Come interpretare e rendere opertative le premesse sul ruolo e la forma possibile dell’architettura contemporanea?

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Diceva Adolf Loos maestro dell’architettura essenziale e nemico della ridondanza che quando un uomo incontra in un bosco un tumulo di terra che segnala una trasformazione poetica della natura ad opera dell’uomo quella è architettura. Il “locus” è un concetto ben più profondo del luogo. Esso è un concentrato di significati d’uso, di memoria, di racconti, di amore…Anche la scuola dovrebbe essere un luogo come il municipio, la basilica, la moschea, la sinagoga, la sala del regno, l’ospedale, la stazione: luoghi, “dentro” la città, di relazioni, di ricordi, di storie e di passioni. Oggi sovente invece è solo un non-luogo se non può rinascere in uno spazio pieno di storia e di poesia, senza tempo.

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Ricordo con emozione una esperienza vissuta con Pino Parini sui luoghi comuni semantici della casa, della scuola: dei luoghi da amare.

In una rassegna di disegni elaborati da bambini delle elementari, a partire da una immagine stereotipata della scuola, scoprimmo che la fantasia e la creatività avevano preso il sopravvento sul disegno sterile della convenzione e le scuole e le case dei bambini diventavano luoghi fantastici e bellissimi, pieni di natura e di colori, affatto uguali al banale spunto offerto dagli adulti. Da qui la riflessione sugli architetti che non fanno tesoro dell’insegnamento della creatività e dell’amore per i luoghi importanti della nostra vita come quelli dedicati all’educazione.

Il compianto Aldo Rossi fedele ai principi esposti nella sua “Architettura della città” si era cimentato nella poetica scuola-manifesto di Fagnano Olona così come Adolf Loos aveva superato le superficialità e lo stereotipo del neoclassicismo ed aveva ben identificato il concetto di luogo in una sorta di traccia dell’umana trasformazione identificata ed identificabile: la casa, la strada, la piazza, il municipio, il campanile con l’orologio…

Tale è la connotazione umanistica dell’architettura che si contrappone a quella tecnicistica e del funzionalismo ingenuo che elude ogni valenza di natura formale e non soddisfa nemmeno i bisogni di funzionamento, se è vero che l’esigenza di dare significato ai luoghi dell’apprendere è interamente assorbita dalle banali ma ineluttabili questioni di sicurezza. Il luogo sarebbe di per sé sicuro e protettivo se lo si pensasse avendo chiara l’idea di scuola e l’idea di architettura insieme legate dalla voglia di costruire spazi accoglienti, inclusivi e al tempo stesso stimolanti e mai completamente scoperti e spiegati per essere ogni giorno nuovi a chi li abita e li usa. Una storia singolare è quella della scuola rurale della mia infanzia. semplice ed essenziale casa e bottega di genitori maestri elementari anni '50, che mi ha fatto per la prima volta nei discorsi della scuola, sedimentando figurazioni, ricordi e scorci di quel luogo che per me era la casa e la scuola in una identità più unica che rara per pensare ad una speranza di continuità tra gli spazi dell’educazione e dell’istruzione, della famiglia minima e di quella

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allargata della comunità educante. Da questo è nato un debito di riconoscenza verso i maestri, prima ancora dello spirito che della forma, soprattutto dell'insegnamento in quei luoghi sacri alla conoscenza.E’ tempo di una nuova scuola dell’arte e di un’ arte della scuola, quando la mente sarà libera da burocrazie quotidiane e pianificazioni scolastico-aziendali e si riuscirà a pensare che la memoria dei veri maestri del fare poeticamente l'architettura della scuola anch'essa ahimè divenuta preda del mercato, è la stessa del fare scuola. Progettare con la storia, con l’amore per i luoghi e con quell'idea dell'imprevisto prevedibile e poetico, dell'immaginazione e della creatività è l’agire più prossimo alla relazione umana che della scuola deve essere il fondamento. Essa è infatti spazio fisico e intellettuale autonomo culturalmente e giammai asservibile ad una efficienza da macchina: un ambito della scoperta e dell’introspezione, della comunione, del dialogo come della esigenza di solitudine e di riflessione che non è piu’ l’aula e il corridoio ma forse la piazza e la strada, il portico e il cortile. Attraverso l’insegnamento che è di per sé un’arte, non programmabile per definizione, mutante e non anestetico perchè è proiettato in avanti dai sensi, con la spinta della memoria e dei continui momenti di provocazione, si cura l’intelligenza della fantasia e la logica dell’immaginario solo nei luoghi dove dovrebbe essere l’amore a spingere le relazioni e a far crescere insieme adulti maestri e giovani scolari. Si raggiungerebbe così una percezione ed una padronanza libera degli spazi in un linguaggio comprensibile e trasferibile, senza i vincoli preconcetti dei luoghi comuni formali. Oggi gli spazi sembra si siano progressivamente chiusi all’educazione per radicalizzare i soli significati di istruzione e formazione e rinunciare alla vera creatività confinando il fare arte tra le poetiche e i linguaggi accessori e gli spazi al funzionalismo ed al tecnicismo esasperato come se l’aula con un computer su ogni banco trasfigurasse e sublimasse il suo valore banale di spazio fisico e cablato in un vero luogo.

Vi è comunque una speranza di riscatto che passerà attraverso la poesia e l’amore che la mente conserva per i luoghi della propria infanzia e della propria adolescenza e giovinezza ,solo per quelli che hanno dato qualcosa e non hanno levato libertà e creatività: quelli che resteranno per sempre nella nostra memoria. Nella

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scuola come in qualsiasi azione presente fin dall’origine dell’uomo che si è evoluto con l’apprendimento e la relazione non sono indifferenti i segni tangibili dell’ intorno in cui si apprende : poteva essere una foresta o una caverna, una capanna, un portico e un cortile, un chiostro, una basilica o un’ abbazia: oggi può essere, altrettanto significativamente, uno spazio nuovo anche perchè antico e ricolmo dei segni della storia dell’insegnare e dell’imparare a vivere. In Italia si perpetuano i luoghi comuni a partire delle norme che dovrebbero guidare l’idea e il progetto dei luoghi della cultura.Prendiamo il caso emblematico della scuola.

Ecco il testo misterioso delle ultime Linee Guida:

“NORME TECNICHE-QUADRO, CONTENENTI GLI INDICI MINIMI E MASSIMI DI FUNZIONALITA' URBANISTICA, EDILIZIA, ANCHE CON RIFERIMENTO ALLE TECNOLOGIE IN MATERIA DI EFFICIENZA E RISPARMIO ENERGETICO E PRODUZIONE DA FONTI ENERGETICHE RINNOVABILI, E DIDATTICA INDISPENSABILI A GARANTIRE INDIRIZZI PROGETTUALI DI RIFERIMENTO ADEGUATI E OMOGENEI SUL TERRITORIO NAZIONALE”.

Il testo spinge a rimpiangere per qualche verso il caposaldo della normativa sull’edilizia scolastica italiana il DI del 1975 mai superato perché mai di fatto applicato in tutti i suoi aspetti, soprattutto quelli dei principi pedagogici e didattici e delle premesse per una scuola sempre meno “statica”, che erano sicuramente apprezzabili. Avrei voluto chiosare capitolo per capitolo il documento ricorrendo alle idee da me più volte esposte e pubblicate, oltre che condivise da esperti e pedagogisti. Mi sono accorto che seguendo lo stesso percorso sarei di nuovo caduto nella gerarchizzazione di un luogo che, per sua intrinseca natura, non potrebbe essere nemmeno descritto per parti . Riproporrò allora la mia lettura e la mia linea guida ricorrendo alle mie idee. Non ho mai avuto il piacere di essere coinvolto, pur avendo offerto la mia disponibilità, nella ricerca istituzionale sul tema e questo è un peccato non per me ma per il contributo che si sarebbe potuto trarre dalla mia trentennale esperienza sul campo, come architetto e ricercatore, docente,

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amministratore locale e dirigente scolastico per il dibattito sulla costruzione delle Linee Guida veramente innovative per quella che mi ostino a voler chiamare architettura scolastica.

Mi piace citare a tal proposito una nota del Prof. Franco de Anna ad uno dei miei articoli su Education2.0 “La scuola diffusa: provocazione o utopia?” del 25 Gennaio 2012.

“1. La prima idea venne ai Gesuiti alla fine del Cinquecento. Collocare l'istruzione entro una "simulazione" di città quali erano i loro Collegi: il Tempio, le stanze, i loggiati, i cortili, una "vita intera" da contenere e regolare. La "città educante" dei Greci diventava "la scuola come città simulata" nella sua specializzazzione formativa. Era una "città aristocratica" ed elitaria (per quanto gli stessi Gesuiti fecero, con la medesima "intuizione pedagogica", esperienze assai più democratiche in alcuni paesi colonizzati dell'America Latina...). forse sarebbe meglio dire "cittadella". 2. L'istruzione di massa della seconda rivoluzione industriale ha costruito la scuola come "fabbrica" dell'istruzione, con un modello sostanzialmente tayloristico: pensate alla nostre aule in fila, alle scansioni temporali, alle sequenze "disciplinari", alle "tassonomie" che regolano l'attività ed il lavoro scolastico. Non pensate a Taylor come un esperto di produzione industriale: si fece le ossa invece nel settore trasporti. Era un esperto in "logistica" diremmo oggi. Molto più vicino a Max Weber che a Ford... E noi abbiamo trasferito il paradigma "amministrativo" nell'organizzazzione "specializzata" della riproduzione del sapere. Ma abbiamo mandato a scuola "tutti" (almeno come intenzione). 3. Il funzionalismo (cattivi allievi lecourbusieriani: che ne dici Campagnoli?) ha creato spazi più o meno assennati per contenere "funzioni", dimenticandosi che dovevano essere "abitati da uomini" (anzi da "cuccioli " di uomo in crescita) non da funzioni (ma non è così in certa nell'edilizia popolare?). E noi continuiamo ad essere preoccupati (è pure necessario..) di indicatori come i mq per alunno e come dimensionare le "classi" o i "laboratori". La sfida nelle parole di Campagnoli è quella di come si costruisce e struttura la "città dell'istruzione" recuperando i Gesuiti e l'esperienza critica della loro "cittadella", destrutturando la "fabbrica" e recuperandone la vocazione produttiva di massa, immaginando un ambiente (spazi, tempi, abitanti e relazioni) che a sua volta reiterpreti nella nostra postmodernità il classico mito della "città come impresa educativa" di cui parla Tucidide. “

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Le scuole, come tutti i civici e sociali monumenti, a parte le banali considerazioni logistiche e di comfort non debbono essere periferizzate ma debbono essere integrate con le aree residenziali e con quelle culturali e dei servizi principali delle città. Per questo abbiamo parlato di “scuola diffusa” per definire la non obbligata collocazione dei luoghi di una scuola in un unico corpus architettonico e in un unico sito della città.

“Alla fine della storia non sarà il caso di tornare alla scuola “diffusa” nella città e nel territorio come per i musei?

Un sistema già felicemente in uso nell’antichità dove la “schola” era una teoria di luoghi significativi e legati alle diverse attività di apprendimento: la scienza, le lettere, l’arte…

I poteri che oggi definiscono anche urbanisticamente i luoghi dell’apprendere (per lo più locali) dovrebbero aggiornarsi e riflettere.

Le amministrazioni responsabili, che si spera finalmente diventino una sola, la più prossima al territorio , non dovranno ragionare i termini di economia ma organizzare i loro servizi scolastici nel territorio in modo integrato, se necessario consorziandosi tra di loro nell’ affidare il disegno delle forme scolastiche a rigorose èquipes multidisciplinari unica garanzia di successo architettonico e funzionale. La partecipazione dell’utenza alla progettazione, poi, per non essere solo demagogia dovrà essere indotta e non banalmente diretta o assembleare come spesso avviene: una partecipazione consapevole e competente che non prevarichi i compiti di chi per mestiere e specializzazione si occupi di concepire e costruire questi spazi, una partecipazione che si concretizzi in una specie di brainstorming di idee da tradurre scientificamente e stilisticamente”

Non più un edificio unico e dedicato ma una rete di luoghi per l’apprendimento. La vera rivoluzione non sarà solo superare virtualmente il concetto gerarchico aule-corridoi-laboratori-uffici-servizi con delle mere pareti mobili (ricordo un nostro progetto di scuola media del 1977 che prevedeva flessibilità degli spazi con pareti mobili che l’amministrazione comunale e scolastica si affrettarono subito a rendere fisse per separare fisicamente gli spazi!) ma superare l’attuale concezione architettonica della scuola per adattarla al fatto che oggi si può apprendere ovunque, anche in

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movimento: una scuola peripatetica. Qui le linee essenziali della proposta vista nell’assetto della città o del territorio che la scuola deve ospitare e accogliere. Oggi non si può più sopportare la scuola in un unico edificio. La scuola non è statica ma quasi etimologicamente dinamica anche nello spazio oltre che nel tempo. Le modalità di fruizione delle informazioni, di apprendimento e di applicazione pratica non sopportano più i muri e i limiti di un unico luogo deputato. L’architettura educativa dovrebbe adeguarsi alle nuove esigenze della conoscenza e della crescita delle persone e non può essere la stessa nei secoli.

Aldo Rossi con i suoi insegnamenti mi convinse che l’architettura disgiunge, nel tempo, la forma dalla funzione: non c’è miglior modo di concepire gli spazi per eccellenza, quelli dell’imparare. Da una idea di architettura e di scuola che coincidono nasce forse una utopia che potrebbe, nel tempo, diventare una splendida realtà. L’esperienza recente di un workshop internazionale mi ha fornito un modello da imitare per prospettare la scuola del futuro. I discenti si muovevano da un luogo all’altro a seconda delle esigenze di apprendimento: una biblioteca, una chiesa, un laboratorio, un auditorium situati i diverse parti della città ( il centro, il mare, il parco..) legate per funzione ai differenti learning objects. Nel caso di studenti adulti non era problematica la mobilità da un luogo all’altro durante la giornata come avviene un po’ solo per l’università. Per le scuole di livello base o intermedio sarebbe sufficiente concepire quotidianamente un orario di prossimità con un sistema di trasporto integrato che consentisse di trasferire gli alunni, anche in continuità verticale, (negli stessi luoghi e laboratori studenti dalle elementari alle superiori, a volte anche insieme!) ogni giorno in un posto diverso a seconda delle necessità di apprendimento e di applicazione.

Naturalmente la scuola dovrebbe essere riorganizzata in modo estremamente flessibile per superare tutte le rigidezze dovute anche ad una normativa disforica sulla sicurezza che assimila tout court i luoghi per l’apprendimento ai luoghi di lavoro con tutte le limitazioni del caso. Riuscendo a concepire un insieme di regole ad hoc e adattando i diversi spazi della città alla frequentazione di classi

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e gruppi di scolari e studenti si muterebbe l’idea di scuola attuale tuttosommato ancora fissa negli spazi e nei tempi.

Ogni luogo pubblico della città (municipio, biblioteca, mediateca, laboratori, università) avrebbe spazi dedicati ed attrezzati per fare scuola consentendo a gruppi di discenti di non fossilizzarsi per ore nello stesso ambito, sempre difronte alla medesima lavagna, allo stesso panorama. Solo un edificio-base, che fungesse da manufatto simbolico, una specie di portale di ridotte dimensioni, ubicato in una parte significativa e centrale della città, con servizi amministrativi e luoghi di riunione non specializzati, potrebbe rappresentare la stazione di partenza verso le aule virtuali e reali sparse nel territorio, un primo luogo di rendez vous all’inizio della giornata di studio. Credo si possa cominciare a ragionare su questa idea e aprire un dibattito tra il popolo della scuola e pedagogisti, amministratori, progettisti.

Si supererebbe forse la rincorsa inutile a mettere a norma edifici scolastici che saranno fuori norma al prossimo aggiornamento di legge, per fruire invece spazi già in regola in cui inserire ambiti adatti all’insegnamento utilizzando tecnologie didattiche compatibili con il nuovo sistema. Si farebbe tesoro delle esperienze dei campus e delle cittadelle scolastiche per gli aspetti virtuosi dei modelli e dei musei diffusi per quella loro preziosa valenza di territorialità e di invito alla ricerca ed alla scoperta. I problemi logistici ovviamente presenti andranno studiati e risolti nella pianificazione della città integrando con l’istruzione tutti i servizi compatibili tra di loro come quelli culturali, della comunicazione, della mobilità integrata delle nuove tecnologie a basso impatto ambientale con una forte economia di scala. Questa prima vera rete culturale con i suoi nodi simbolici potrebbe estendersi oltre la città fino alle altre realtà urbane ed al territorio tutto estendendo il luogo dell’apprendere ad una teoria di luoghi diversi e qualificati. Il tempo scuola dovrebbe ovviamente essere rimodulato con valenza plurisettimanale lungo tutto l’arco dell’anno, per cancellare la mortificante rigida ripetizione di orari e attività giorno dopo giorno, mese dopo mese. L’edificio–scuola, così come oggi concepito lascerebbe il posto ad una costruzione che funge da ingresso ad una sorta di parco della conoscenza, sostituto innovativo delle aule tradizionali e degli spazi

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specializzati che, ahimè, oggi ancora altro non sono se non aule diversamente arredate ed attrezzate.

Dalle premesse urbanistiche discende la libertà degli spazi per insegnare ed apprendere avendo la complicità della città, della natura, della cultura. Via la funzione e via la specializzazione. Avanti la ricerca, la curiosità e la scoperta che sono il sale della conoscenza. Nella mia vita ho appreso di più muovendomi e viaggiando (anche in rete) piuttosto che costretto in un luogo per troppo tempo. L’idea è una evoluzione del campus scolastico in una accezione urbana e territoriale. Progettare una scuola a dimensione di studente e di cittadino è progettare la città e le sue parti in modo coerente e omnicomprensivo. Ogni angolo della città e della campagna può essere un’aula. Ci si ritrova nella piazza principale della scuola e da lì si parte con il proprio insegnante e la propria guida per il viaggio dell’apprendere: dentro o fuori, lontano o vicino. L’investimento si sposta dalla staticità alla mobilità. La flessibilità non è spostare una parete ma iniziare a viaggiare.

E non sarebbe tanto difficile una realizzazione concreta di questa idea.

Gli scuolabus elettrici o a metano che si vedono sempre più spesso trasportare scolaresche in gita, in palestra, in piscina possono essere le navette ecologiche integrate con una metro leggera di superficie e con una rete di percorsi pedonali e ciclabili nella città dell’educazione. Gli spazi si dilatano fisicamente ma anche virtualmente ed il pericoloso tablet o smartphone alla portata di bimbo e adolescente può trasformarsi in prezioso strumento accessorio di conoscenza e ricerca.

“ Alla fine della storia non sarà il caso di tornare alla scuola diffusa nella città e nel territorio come per i musei?

Un sistema già felicemente in uso nell’antichità dove la “schola” era una teoria di luoghi significativi e legati alle diverse attività di apprendimento: la scienza, le lettere, l’arte…I poteri che oggi definiscono anche urbanisticamente i luoghi dell’apprendere (per lo più locali) dovrebbero aggiornarsi e riflettere.

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Le amministrazioni responsabili, che si spera finalmente diventino una sola, la più prossima al territorio , non dovranno ragionare i termini di economia ma organizzare i loro servizi scolastici nel territorio in modo integrato, se necessario consorziandosi tra di loro nell’ affidare il disegno delle forme scolastiche a rigorose èquipes multidisciplinari unica garanzia di successo architettonico e funzionale. La partecipazione dell’utenza alla progettazione, poi, per non essere solo demagogia dovrà essere indotta e non banalmente diretta o assembleare come spesso avviene: una partecipazione consapevole e competente che non prevarichi i compiti di chi per mestiere e specializzazione si occupi di concepire e costruire questi spazi, una partecipazione che si concretizzi in una specie di brainstorming di idee da tradurre scientificamente e stilisticamente.

E’ una follia rincorrere le dispendiose “messe a norma” di contenitori impossibili per la loro vetustà da rendere sicuri e irrimediabilmente inadatti ad una funzione rapidamente mutevole.

Più saggio sarebbe investire sinergicamente a livello statale e locale nell’ambito degli indirizzi di un serio piano nazionale di sostituzione del patrimonio edilizio scolastico esistente utilizzando anche le risorse dei vecchi beni alienati, con tipologie architettoniche innovative, stilisticamente adatte ai contesti urbani, dove solo in casi eccezionali e di pregio si ammetta di procedere al restauro e riuso di edifici con diversa destinazione.

Le linee guida per la progettazione delle scuole potrebbero essere rigorose e omogenee su tutto il territorio nazionale salvaguardando le sole differenze tipologico-architettoniche regionali per non rischiare di omologare un tipo edilizio dell’istruzione nazionale e assecondare sani principi federalisti.

Oggi la scuola è tornata al centro dell’attenzione e non è un caso se anche a livello internazionale fioriscano concorsi, seminari ed un dibattito serrato sull’argomento dell’architettura per l’istruzione del futuro.

Eppure la chiave di volta in ogni ragionamento restano sempre, ahimè, gli investimenti: si tenga presente che, in un triennio di pianificazione, ad esempio, la sola Gran Bretagna investe almeno 5 volte (!) l’Italia per la conservazione, il recupero ed il rinnovo del proprio patrimonio edilizio.

Investimenti e qualità architettonica dunque. A lungo termine quest’ultima rappresenterebbe da sola la garanzia di economie e la fine della

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rincorsa agli interventi palliativi dispendiosi ma effimeri.

La qualità architettonica porterebbe con sé il valore formale dell’identità architettonica e quello funzionale, non disgiunto, della flessibilità rispetto all’uso didattico ed alle inevitabili trasformazioni pedagogiche, senza trascurare le esigenze di innovazione tecnica e tecnologica, di sostenibilità dell’edificio, di durata e versatilità di arredi e sussidi, di confort ambientale ed estetico. Per una visione già pedagogica nella mente degli architetti” (Tratto da: “E se la chiamassimo architettura scolastica?” La Rivista dell’istruzione. Maggioli. Rimini

Nella visione sopra descritta non avrebbe più senso parlare di specializzazione degli spazi e di compartimentazione. La gestione della rete di spazi scolastici diffusi nella città avrebbe un polo unico amministrativo e direzionale. L’integrazione con la città e con gli altri servizi scolastici di ogni ordine e grado facilita la fruizione in rete di tutte le strutture sportive e ricreative della città senza doverne costruire ad hoc per ogni singola scuola. L’uso di pachi, giardini campus sportivi diviene un momento del tempo scuola diffuso ed integrato nel territorio. I servizi, i materiali, la sicurezza, gli arredi sono quelli delle strutture didattiche che ospitano di volta in volta gli allievi in diversi luogi e tempi della città. Luoghi che in altri tempi possono avere funzioni diverse con utenti diversi ma che sono allestiti e configurati in modo da ospitare attività didattiche per bambini, studenti adolescenti, adulti ma anche attività culturali e ricreative per tutti i cittadini.

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8-La scuola diffusa

La scuola si dilata nel tempo e nello spazio , aderisce al concetto di longlife learning e trova luogo in ogni angolo a vocazione culturale della città ma anche del web come sta avvenendo di fatto senza che gli ambiti fisici si siano adeguati rimanendo pervicacemente statici e gerarchizzati come alla fine dell’800. La scuola diffusa sarebbe economica, sostenibile, innovativa, efficiente ed efficace. Trasformiamo ove possibile tutta l’edilizia scolastica esistente in altrettanti poli di questa rete integrata da musei, teatri, biblioteche, parchi, attrezzature sportive, monumenti, municipi. Apriamo gli spazi della scuola verso l’esterno e trasformiamo la città e i territori fisici e virtuali in una unica grande aula-laboratorio. A partire, ad esempio, da un progetto pilota in una piccola città. Per poi ideare, finanziare realizzare in tempi brevi,come è avvenuto in altri paesi, un vero Piano organico Nazionale per l’architettura scolastica con il contributo di Regioni e Comuni insieme. Come si può progettare e realizzare una scuola un museo, una biblioteca, uno spazio per appredere per la città e nella città? Oggi lo si può fare solo concependo una rete di manufatti che denuncino uno stile contemporaneo e il loro scopo non appena li si veda. Il percorso è semplice concettualmente ma un po’ più complesso per arrivare a definire uno stile ed una idea precisa ed inequivocabile degli spazi per l’apprendimento e la cultura. Innanzitutto sgombriamo il campo dall’equivoco secondo cui esistono solo spazi specializzati per l’apprendimento formale o informale.In realtà tutti gli spazi culturali sono destinati all’apprendimento anche istituzionale.

La scuola è uno dei pochi spazi cghe può essere multiforme e diffuso della città così come il museo, l’Opera, etc..

Le prime domande da porsi sono le solite.

Chi?

Che cosa?

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Quando e perchè?

Come?

Dove?

Proviamo a rispondere una alla volta.

Chi?

In primis non l’archistar del mercato globale che fa prevalentemente monumenti a sè medesimo in una specie di hollywood dell’architettura. Non l’architetto in solitaria e nemmeno il solito architetto condotto che progetta di tutto. Serve una personalità di progettista eclettica per formazione, esperto di architettura, storia della città, disegno urbano, arte, educazione e spazi culturali.

Si avrà bisogno certamente di un esperto in trincea nella fruizione e gestione della scuola da almeno 20 anni e della cultura in generale (un docente, un preside, un esparto di pedagogia e didattica ad ogni livello di scolarità, un curatore di biblioteca, di museo..) Infine un amministratore locale e un funzionario del settore, ammesso che nel frattempo le scuole siano assegnate finalmente tutte in carico a un solo ente di prossimità, preferibilmente il comune!

Un mini team di esperti in tecnologie costruttive, strutture, servizi ed infrastrutture sostenibili (veramente sostenibili e compatibili con la stilistica architettonica). In tutto non più di 6 persone per un progetto unitario dove ognuno fa la sua parte a tempo pieno percependo il giusto onorario senza per questo incrementare il costo finale del manufatto o della serie di manufattti. Questo team previsto per legge con tanto di requisiti e di albo ufficiale dovrebbe replicarsi per ogni intervento di edificio pubblico o privato dedicato all’istruzione e alla cultura, ponendo fine così al “tutti fanno tutto” in genere senza alcuna garanzia di competenza e qualità,come vediamo nel panorama dei disastri quotidiani.

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Disegni per il concorso internazionale di Architecture for Humanity: an artistic classroom. Giuseppe Campagnoli e Stanislao Biondo 2009

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Che cosa?

Non più un edificio monofunzione. Torniamo alla rete dei tempi delle “scholae” ad una concezione di scuole e cultura diffuse nella città e nel paese ma conness tra loro da una rete di percorsi reali e virtuali. L’unico nuovo edificio da progettare e costruire è il cuore e il cervello di questo nuovo organismo .

Un cuore e un cervello per ogni città e paese. Una fisionomia riconoscibile e visibile dovunque come la cupola di San Pietro,la Tour Eiffel, la Mole Antonelliana. Una bussola per chi cerchi la cultura, per chi cerchi la scuola. Una stazione centrale del sapere, una porta maestra.

Quando?

Non certo in risposta alle emergenze. La città cresce e si trasforma e i suoi monumenti, compresi i luoghi deputati alla cultura ed alla istruzione, la seguono e si evolvono o vengono sostituiti se necessario. Sempre con stile e con una integrazione poetica tra forma e funzione. Il ricambio dei pezzi di città, compresi i luoghi deputati alla cultura ed all’apprendimento debbono nascere ed evolversi in modo fisiologico. Chiunque vi operi deve avere la stessa visione formale e possedere un linguaggio proprio di uno stile riconoscibile per l’epoca in cui viene usato e per il futuro quando si potrà dire: questa è una delle architetture del XXII secolo!

Come?

L’edificio scolastico dovrebbe essere il paradigma dell’architettura formalmente e funzionalmente sostenibile. In coerenza con quanto da me sostenuto l’edificio scolastico oggi in una città diventerebbe la porta di accesso a tanti luoghi dell’apprendere per tutti i cittadini in fase di formazione formale o informale. Dalla scuola dell’infanzia all’università, all’apprendimento permanente, in continuità orizzontale e verticale, in rete. Si impara nei luoghi-chiave della città e percorrendo le strade che li collegano a partire dalla porta simbolica di accesso che conterrebbe anche i servizi amministrativi e quelli non decentrabili. Ci si avvia a costruire la scuola diffusa.

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Dove?

Ogni città, in un luogo centrale avrebbe il suo monumento che conduce ai diversi spazi della cultura. La città stessa, in base alla collocazione dei suoi manufatti civili suggerisce dove costruire la sua Scuola. L’iter progettuale e costruttivo di un sistema complesso per la cultura nella città: “Non scholae sed vitae discimus” Le funzioni fondamentali saranno: la scuola, le biblioteche, i laboratori, il teatro, i musei, gli auditorium, le strade, le piazze, i civici monumenti. Tutte in un unico organismo disteso nella città e oltre. L’edificio di accesso dovrà avere una forma stilisticamente riconoscibile e summa della storia della città rivisitata in chiave moderna. Avrà degli ambiti collettivi (l’aula magna, l’auditorium) i servizi amministrativi, il provider telematico centralizzato, la biblioteca centrale polifunzionale.

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Da “Docenti senza frontiere”

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L’idea di una scuola diffusa nella città

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Così potrebbe finire l’odissea dell’architettura scolastica italiana. Recuperiamo il recuperabile, perchè ancora valido come spazio didattico aperto e funzionale ad un insegnare e apprendere diversi, usiamo ambiti dedicati alla cultura, all’arte ed alla storia per fare scuola. Aboliamo le scuole ad hoc: terribili opifici dove tenere fermi e chiusi tra quattro mura per ore bambini, adolescenti e giovani. Un po’ di rinnovamento e soprattutto di fantasia. Mettete alla prova i sindaci, gli architetti, i pedagogisti, i docenti i presidi e le famiglie più coraggiosi!

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L’autore

Nato a Recanati nel 1949 in una scuola rurale. Diplomato al Liceo Classico Giacomo Leopardi nel 1968 . Laureato in Architettura nella sessione straordinaria dell’A.A. 1973-74 e abilitato all’Università di Napoli nel 1974. Abilitato all’insegnamento di discipline geometriche e architettoniche nel 1975. Architetto e docente di discipline geometriche e architettoniche presso gli Istituti d’Arte dal 1986 al 1991. Dirigente scolastico di Istituti di istruzione artistica dal 1991 al 2001.Responsabile dell’Ufficio Studi presso la Direzione Scolastica Regionale per le Marche del Ministero dell’Istruzione dal 2001 al 2006. Architetto, ricercatore e saggista dal 2006 al 2010. Ricercatore e saggista dal 2010 ad oggi. Dal 2006 al 2012 consulente in campo educativo e per l’e-learning del Dipartimento di Protezione civile della Regione Marche. Titolare dell’Atelier di Architetturaescuola e della Rete ARTNETWORK ITALIA fino al 2013.Presidente prima,.socio e membro del Comitato scientifico poi dell’Associazione Culturale Safety Education and Training Agency di Matelica. Membro del Comitato di valutazione dell’Accademia privata Poliarte di Ancona e nella lista degli esperti disponibili per progetti sulla creatività e il design dell’ EACEA presso la Commissione Europea. Fondatore nel 2013 e amministratore della rete RESEART su tematiche artistiche che fa capo all’omonimo blog. Numerose le pubblicazioni e i progetti in campo educativo, dell’architettura e dello sviluppo sostenibile.

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Bibliografia essenziale

Aldo Rossi. “L’architettura delòla città” Quodlibet 2011 Milano

Adolf Loos. Ornament und Verbrechen (Ornamento e Delitto) Vienna 1910

Giuseppe Campagnoli. “L’architettura della scuola” Franco Angeli editore 2007 Milano

In Educationdue.0 Edizioni RCS libri:

“La scuola: luogo o non luogo?” 22/4/2011

“La scuola diffusa. Provocazione o utopia” 25/1/2012

“Linee guida per l’edilizia scolastica.Un passo avanti?” 12/6/2013

In La Stampa:

“Costruire scuole” 12/10/2010

“L’ascensore leopardiano” 31/8/2013

Ministero dell’Istruzione.Ufficio scolastico regionale per le Marche. Dal “Secondo manifesto della scuola marchigiana”: “Un luogo da amare” Ancona 2010.

In “La rivista dell’istruzione” N° 5/2012 Maggioli Editore Rimini. “E se la chiamassimo architettura scolastica?”

In “Voci della scuola” 2010 Tecnodid Napoli. “Edilizia scolastica”

Giorgio Grassi. “La costruzione logica dell’Architettura” Edizione 2008. Franco Angeli editore Milano

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Uberto Siola. “Lezioni di architettura urbana” CLEAN 2011. a cura di Visconti F.; Capozzi R.

Philip Wilkinson “Juste assez d’architecture pour briller en société Dunod Editeur Paris 2011

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INDICE

QUESTIONE DI STILE

Un viaggio per un’ idea di architettura e di edilizia scolastica

1. La classe non è acqua

2. Architetti si nasce?

3. Il male dell’architettura

4. Le illusioni dell’architettura

5. Paesaggi dell’architettura di oggi

6. Appunti sulla vecchia Europa

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7. Un esempio e un prototipo per l’architettura. Un monumento chiave della città. La scuola

8. La scuola diffusa

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Copyright giuseppecampagnoli Maggio 2014

ISBN 978-1-291-82733-0

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