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1 QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA 15.3.2015 1. SACRA PAGINA Dal secondo libro delle Cronache 36,14-16.19-23 In quei giorni, 14 tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. 15 Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. 16 Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. 19 Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi. 20 Il re [dei Caldei] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento de l regno persiano, 21 attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremia: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». 22 Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: 23 «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”». Parola di Dio Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia. Sal 136 Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Perché là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, allegre canzoni, i nostri oppressori: «Cantateci canti di Sion!». Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra. Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.

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QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA 15.3.2015

1. SACRA PAGINA

Dal secondo libro delle Cronache 36,14-16.19-23

In quei giorni, 14tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro

infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio,

che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. 15Il Signore, Dio dei loro padri,

mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli,

perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. 16Ma essi si

beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi

profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine,

senza più rimedio. 19Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore,

demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e

distrussero tutti i suoi oggetti preziosi. 20Il re [dei Caldei] deportò a Babilonia gli

scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento de l

regno persiano, 21attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremia:

«Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo

della desolazione fino al compiersi di settanta anni». 22Nell’anno primo di Ciro, re

di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di

Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per

tutto il suo regno, anche per iscritto: 23«Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio

del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli

un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo

popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”». Parola di Dio

Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia. Sal 136

Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion.

Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre.

Perché là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato,

allegre canzoni, i nostri oppressori: «Cantateci canti di Sion!».

Come cantare i canti del Signore in terra straniera?

Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra.

Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo,

se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.

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Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini 2,4-10

Fratelli, 4Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato,

5da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete

salvati. 6Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo

Gesù, 7per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia

mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. 8Per grazia infatti siete salvati

mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; 9né viene dalle opere,

perché nessuno possa vantarsene. 10Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù

per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo. Parola

di Dio

Lode e onore a te, Signore Gesù! (Gv 3,16)

Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito;

chiunque crede in lui ha la vita eterna.

Dal Vangelo secondo Giovanni 3,14-21

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: 14«Come Mosè innalzò il serpente nel

deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque

crede in lui abbia la vita eterna. 16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il

Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita

eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo,

ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è

condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel

nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel

mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro

opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla

luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene

verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in

Dio». Parola del Signore

2. LECTIO

Ci sono molte risposte alla perenne domanda: “Chi è l’uomo? Cos’è

l’uomo?”. Le letture bibliche di oggi sembrano attardarsi sul mistero-uomo, con

l’impiego di marcate antitesi. La storia di Israele (1a lettura) - che è la storia del

perenne popolo di Dio - è segnata dal peccato (infedeltà, profanazione, rifiuto

della Parola di Dio pronunciata dai profeti), dalla morte (distruzione della casa di

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Dio e delle case degli uomini, deportazione, schiavitù, desolazione), dal ritorno e

dalla vita. La 2a lettura riproduce le dimensioni storiche del dramma di Israele su

“scala-uomo”: morti per i peccati, fatti rivivere, salvati, fatti sedere nei cieli.

Il brano evangelico delinea il dramma-uomo con le seguenti antitesi:

giudizio-salvezza, luce-tenebre, fare il male-fare la verità. E la soluzione positiva

delle antitesi e del dramma è sempre una sola, la stessa: Dio che amava Israele e

fu lui a “suscitare lo spirito di Ciro”, il liberatore (1a lettura, v. 22); «Dio, ricco di

misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati» (2a lettura, v. 41); «Dio

ha tanto amato il mondo da dare (= “consegnare” e “donare”) il suo Figlio

unigenito» (3a lettura, v. 17).

a/ PECCATO, SCHIAVITÙ E LIBERAZIONE DI ISRAELE

Il brano del cosiddetto Cronista (1a lettura) sintetizza e interpreta quasi un

secolo della storia di Israele: un secolo emblematico della storia di sempre. Invano

il re Giosia (640-609 a.C.) aveva promosso una riforma religiosa e cultuale, con

l’appoggio determinante del profeta Geremia. Ma poi re, sacerdoti e tutto il

popolo “moltiplicarono le loro infedeltà”, sprofondando nell’”idolatria” più

sfrenata (v. 14; cf Ez c. 8). Inutilmente si levò la voce dei profeti, disprezzati e

beffeggiati (v. 16): “Sì, la parola del Signore è diventata motivo di obbrobrio e di

scherno, ogni giorno”, grida il profeta Geremia nelle sue “Confessioni” (Ger

20,8).

Così venne la catastrofe: morte, distruzione, deportazione ed esilio furono

l’epilogo ineluttabile. La gelosia-ira di Dio (v. 16) mise in luce il deterrente di

morte insito nel peccato, che finì per inghiottire tutto il popolo, anche gli

innocenti, in quella indiscriminata distruzione che ogni guerra ha sempre

procurato (vv. 19-20) e che anche noi conosciamo.

I “settanta anni della desolazione” (v. 21) furono, per la terra devastata

d’Israele, gli anni del silenzio di Dio, che nella Bibbia è pur sempre l’anticamera

della sua Parola e della sua Presenza purificatrici. Fu Dio a suscitare “Ciro il

liberatore”, il quale con il suo editto (538 a.C.) rimise in moto la storia di Israele:

“Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!” (v. 23).

Così Israele si sarà ricordato delle parole rivoltegli da Geremia nel momento

stesso della partenza per l’esilio: «Pianta dei cippi, metti pioli indicatori, sta bene

attenta alla strada, alla via che hai percorso. Ritorna, vergine di Israele, ritorna alle

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tue città!” (Ger 31,21).

b/ IL SERPENTE INNALZATO E IL CRISTO CROCIFISSO

Il dialogo serrato di Gesù con Nicodemo (3a lettura) cede il posto ad un

lungo monologo di tipo kerigmatico e in terza persona, sul mistero dell’amore di

Dio che dona il Figlio per la salvezza del mondo.

L’evento-simbolo del serpente di bronzo (v. 14a) richiama la storia di

Israele nel deserto (cf. Nm 21,4-9), anch’essa storia di peccato - morte-salvezza

(vedi 1a lettura). Israele si lamenta con Dio e con Mosè, perché lo hanno fatto

uscire dall’Egitto!

Un’invasione di serpenti velenosi seminò la morte nell’accampamento; il

popolo implorò l’intercessione di Mosè, al quale Dio ordinò di fondere un

serpente di bronzo e di issarlo su un’asta: chiunque, morso da un serpente, lo

avesse guardato, non sarebbe morto. E non si trattava di un segno magico né di

una salvezza magica. Il serpente di bronzo voluto da Dio voleva essere un segno

della sua presenza, e il guardarlo descriveva un itinerario di conversione e di fede.

«Chi si volgeva a guardare il serpente di bronzo era salvato non da quello che

vedeva, ma solo da te, o Dio, salvatore di tutti», commenterà più tardi la Sapienza

(Sap 16,7); anzi: “Non li guarì né un’erba né un emolliente, ma la tua parola, o

Signore, che tutto risana” (Sap 16,12).

Ora si capisce meglio il richiamo di Giovanni: Gesù Cristo, il Salvatore, è

la Parola di Dio discesa dal cielo, fatta carne-uomo debole e mortale (Gv 1,14);

ma era necessario che «il Figlio dell’uomo fosse innalzato» da terra, “affinché

chiunque crede in lui ottenga la vita eterna” (vv. 14b-15). Giovanni scrive quando

ormai dopo la risurrezione - la morte di Gesù, oltre ad essere “elevazione-

innalzamento” sulla croce, è soprattutto «elevazione-esaltazione» nella gloria: le

parole a doppio senso (qui, il verbo greco hypsóo = innalzare e glorificare) sono

tipiche del IV vangelo. La fede che salva e dona la vita eterna (v. 15) viene

descritta da Giovanni, proprio sotto la croce, come uno sguardo di conversione e

di fede: «Volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto” (Gv 19,37).

c/ DIO HA CONSEGNATO E DONATO IL SUO FIGLIO

Ancora una parola a doppio senso: Il verbo greco dìdomi del v. 16, “Dio

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ha tanto amato il mondo da “consegnare” e “donare” il Figlio unigenito”. Il Padre

celeste ha veramente “sacrificato” il suo Figlio per noi; e il Figlio sacrificato è il

dono incommensurabile offerto da Dio per la salvezza di tutti gli uomini. Di tutti:

per ben quattro volte, nei vv. 16-17, “il mondo” risuona come ambito

dell’universale salvezza di Dio, che raggiunge tutti e ciascuno in Cristo Gesù. È

questa la storia inaudita che l’avventura di Abramo, chiamato da Dio a sacrificare

il figlio unico Isacco, aveva adombrato (vedi 2a domenica di Quaresima) e che la

fantasia dell’amore di Dio ha realmente vissuto per noi.

“È un grande segno di amore dare la propria vita per chi si ama; però è

un gesto ancora più grande dare la vita del proprio figlio per chi si ama. Tanti

sarebbero disposti a dare la propria vita, ma nessuno oserebbe sacrificare e

dare la vita del proprio figlio per la persona che si ama” (E. Menichelli).

d/ ANCHE NOI, INVIATI PER LA SALVEZZA

L’amore di Dio, rivelato e attuato in Gesù Cristo, ha soltanto propositi di

salvezza: «Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo a giudicare il mondo, ma a

salvarlo per mezzo di lui” (v. 7).

Questo vale anche per la chiesa, essa pure costantemente protesa alla

salvezza di se stessa e di tutti gli uomini, piegando il suo irrinunciabile aspetto

giuridico istituzionale e il suo ruolo di «giudizio del mondo» (cf. Gv 16,8-11) alla

missione carismatico-salvifica che Cristo le ha affidato.

Tuttavia - e anche qui non c’è posto per equivoci “chi non crede è già

stato giudicato, perché non ha creduto nella persona del Figlio unigenito di Dio”

(v. 18b). La Parola di Dio - Gesù Cristo - la quale in una maniera o nell’altra (cf.

“illumina ogni uomo” di Gv 1,7) raggiunge ogni persona, obbliga tutti e ciascuno

a mostrare senza compromessi il proprio volto di credente o miscredente (= il non

credente colpevole). È questo il giudizio, di cui parla il vangelo (v. 19a). Qui si

gioca la libertà autentica di ogni uomo, che consiste nell’accogliere e attuare la

verità conosciuta, fosse anche parziale e imperfetta. Non è Dio a condannare

l’incredulità colpevole. È l’uomo stesso che si autocondanna.

e/ O LUCE O TENEBRE

Non c’è alternativa tra luce e tenebre, fede e non fede, scelta fondamentale

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pro o contro la verità (vv. 19.21). Esiste invece un intimo legame tra

l’orientamento e l’atteggiamento esistenziale, e l’accoglimento o meno della

verità.

L’evangelista Giovanni scopre all’origine dell’odio-rifiuto della luce-

verità l’oscuro e colpevole back-grownd della malignità dell’uomo, il quale fugge

dalla luce-verità per paura di essere smascherato nelle sue opere cattive (v. 20), o

in quelle opere che sono oneste e buone soltanto in apparenza o agli occhi degli

altri. Tutti (non solo gli psicanalisti) conosciamo bene queste dinamiche di paura e

di fuga dalla luce-verità.

A fronte di questo colpevole compromesso di fondo dell’uomo con il

male, sta la libera e consapevole disponibilità di fondo per la verità e l’onestà,

propria di “colui che pratica la verità e cammina verso la luce” (v. 21a). “Praticare

la verità” significa condurre una vita coerente con la verità conosciuta e creduta,

per limitata che sia. E al momento della fede-conversione, diventa anche

manifesto che in tutto questo cammino Dio era presente, e che le opere della fede

conosciuta e attuata sono l’esatta antitesi dell’umana autosufficienza (v. 21b).

f/ DALLA MORTE ALLA VITA MEDIANTE LA FEDE

Paolo (nella 2a lettura) pone in testa allo “spartito” dell’avventura della

nostra salvezza l’unica “chiave” possibile: “Dio, ricco di misericordia, per il

grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha

fatti rivivere con Cristo” (vv. 4-5).

Tutto è “dono” di Dio, tutto è “grazia” (vv. 5.7.8). Nessuno può

vantarsene (v. 9). E tuttavia, tutto (salvezza-vita-risurrezione-glorificazione) ha

bisogno della fede, che è impresa libera e consapevole dell’uomo. Il rischio di Dio

con noi e per noi appella il rischio della fede di noi, con Dio e per Iddio. Ma la

fede vuole anche essere espressa nelle opere buone (v. 10): “Le opere non sono il

principio, ma il fine dell’esistenza cristiana” (H. Schlier). Se la fede induce alla

passività, non è fede. La salvezza-vita nella quale ci immette la fede è dinamica, è

un dinamismo vitale che attinge di continuo alla stessa vita di Dio.

Possiamo davvero pregare con la “colletta” della messa, che riassume

molto bene il messaggio biblico di oggi: «Dio buono e fedele, che mai ti stanchi di

richiamare gli erranti a vera conversione nel tuo Figlio innalzato sulla croce e ci

guarisci dai morsi del maligno, donaci la ricchezza della tua grazia, perché

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rinnovati nello spirito possiamo corrispondere al tuo eterno e sconfinato amore”.

3. MEDITATIO

Nelle culture contemporanee sono presenti vari e contrastanti umanesimi,

che il più delle volte risultano essere riduttivi e frammentari. La parola di Dio,

proclamata nella liturgia odierna, mettendo a fuoco il mistero di Gesù di Nazaret

crocifisso e risorto, ci illumina proprio sul mistero-uomo. In particolare la pagina

evangelica ci invita ad elevare il nostro sguardo verso colui che è stato “trafitto” e

“innalzato”. Il volgere lo sguardo a Cristo trafitto e innalzato sulla croce,

nell’economia giovannea, significa credere in lui come realizzatore e datore della

salvezza di Dio agli uomini. Questo ci aiuta, nello stesso tempo, a guardare

profondamente dentro quell’uomo che il Padre ha tanto amato da inviare sulla

terra il proprio Figlio per liberarlo dal peccato.

Le letture bibliche odierne presentano i grandi temi della storia della

salvezza: la ricorrente infedeltà dell’antico popolo di Israele e la fedeltà assoluta

di Dio, il peccato degli uomini e il «grande amore» di Dio “ricco di misericordia”

rivelato e donato in Gesù morto e risorto.

La comunità cristiana, interpellata dalla parola di Dio, chiede la grazia di

“poter corrispondere all’eterno e sconfinato amore del Padre” («colletta»).

a/ LA STORIA DEL PASSATO: UNA LEZIONE PROFETICA

Il brano del libro delle Cronache (la lettura) interpreta e sintetizza quasi un

secolo della storia del popolo di Israele, un secolo emblematico per la storia di

sempre. L’autore vi presenta la sua meditazione teologica dell’intera storia di

Israele ed esprime il senso profondo che lui stesso ha letto nelle pieghe della storia

dolorosa del suo popolo. Il giudizio ivi espresso indica una costante della storia

della salvezza: le infedeltà di Israele, a iniziare dai suoi capi e dai suoi sacerdoti,

hanno contaminato il tempio-dimora di Dio e hanno portato alla distruzione del

santuario, delle mura di Gerusalemme e dell’intera città.

“Si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e

schernirono i suoi profeti” (v. 16). Possiamo parlare di «durezza di cuore» del

popolo di Israele. La ripetuta infedeltà del popolo, sordo e sprezzante dinanzi agli

ammonimenti di Dio attraverso i profeti, ha determinato il castigo di Dio. Culmine

del castigo è stata la deportazione nell’esilio di Babilonia; il salmo 136 costituisce

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un completamento della meditazione teologica offerta dai libri delle Cronache:

«Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di

quella terra appendemmo le nostre cetre [...]. Come cantare i canti del Signore in

terra straniera? Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra”.

Il castigo, tuttavia, non è per la distruzione del popolo, ma per la sua

conversione e il suo ravvedimento: Dio, attraverso l’opera del re Ciro, vincitore

dell’impero babilonese, ridona la liberazione al popolo di Israele; la desolazione

durata circa “settant’anni” (v. 21) ha avuto, nel piano di Dio, uno scopo salvifico e

redentivo.

L’amore di Dio rimette, per così dire, in moto tutta la storia di Israele.

L’amore di Dio è capace di trasformare la vita di tutto un popolo, liberandolo non

solo dall’esilio, ma soprattutto da quella schiavitù che si chiama “durezza del

cuore”.

La storia di Israele deve essere accolta come un messaggio profetico nel

suo aspetto di severo giudizio sull’infedeltà del popolo e nel suo aspetto di

accorato invito al pentimento fondato sulla fedeltà incondizionata di Dio.

b/ IL MISTERO DELL’AMORE DI DIO

Il brano dell’evangelista Giovanni (3a lettura) ci dà la chiave adatta per

leggere in profondità il senso dell’agire di Dio nella storia, per comprendere

l’intenzione originaria di Dio che si rivela e viene verso l’uomo, e per conoscere

lo scopo ultimo dell’Incarnazione del Figlio. La pagina evangelica di questa

domenica rappresenta uno dei momenti più stimolanti e più intensi della

cristologia del IV vangelo.

Cristo stesso interpreta l’innalzamento del serpente come un simbolo della

propria passione e morte (v. 14), quando egli sarebbe stato elevato sulla croce e

poi glorificato. “Credere” non è altro che l’atto del “guardare” al Cristo crocifisso,

riconoscendo in lui il Figlio di Dio.

Gregorio di Nissa afferma: “L’elemento principale contenuto nel mistero

della fede è appunto il guardare verso la passione di colui che ha accettato di

soffrire per noi. E passione vuol dire croce; [...] rivolgersi verso la croce vuol

dire rendere tutta la propria vita morta al mondo e crocifissa (cf Gal 6,14),

tanto da essere invulnerabili a ogni peccato” (Vita di Mosè, n. 269).

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Credere significa essere certi che la croce di Cristo è gloria, è vittoria sul

peccato.

La frase di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare e consegnare

il suo figlio unigenito” (v. 17) riassume l’intero messaggio cristiano della

redenzione. Se è già grande cosa dare la vita per i propri amici (Gv 15,13), è

ancora più misterioso sacrificare il proprio figlio per la salvezza degli uomini

peccatori. Orbene Cristo, morto e risorto, è il dono definitivo del Padre. Si tratta in

assoluto del primato dell’amore di Dio, su cui si fonda la speranza cristiana.

c/ IL GIUDIZIO DI DIO

La presenza del “dono di Dio” determina una crisi nella storia degli

uomini: tale dono può essere accolto o rifiutato. Siamo di fronte non tanto ad un

fatto futuro rimandato alla fine della storia, quanto ad una realtà attuale già

presente e operante dentro la storia umana.

Il difficile tema del “giudizio” va letto nelle stesse parole di rivelazione

dell’amore di Dio: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per “giudicare” il

mondo, ma perché si salvi per mezzo di lui” (v. 17).

Il “giudizio” sta nella possibilità che il dono di Dio - Cristo - venga

accettato o rifiutato. Con il rifiuto o con l’accoglienza di Cristo - dono definitivo

del Padre - l’uomo costruisce dentro di sé la condanna o la salvezza, si costituisce

tenebra o luce. Non è Dio, dunque, a condannare l’incredulità colpevole, ma è

l’uomo stesso che con la sua incredulità si autocondanna: “Chi non crede è già

stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” (v.

18).

L’apostolo Giovanni definisce gli increduli come coloro che non

accettano Cristo e che “amano” le tenebre (v. 19): il verbo “amare” indica un

atteggiamento preferenziale, una scelta consapevole, attaccamento: non si tratta

solo di fare il male, ma di amarlo, di farne oggetto di scelta consapevole, di

preferirlo.

La “luce” (vv. 19-20) è la persona stessa di Cristo. I credenti sono coloro

che accolgono la “luce”, che riconoscono cioè Gesù di Nazaret come il Figlio

unigenito del Padre.

Chi opera il male finisce poi per odiare necessariamente la luce e fugge la

verità-luce per paura di essere smascherato nelle sue opere malvage.

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L’agire condiziona il comprendere. Libertà interiore, amore alla verità e

alla giustizia sono quindi condizioni indispensabili per “vedere”; l’agire corretto

non è solo un fatto di coerenza, ma è la condizione necessaria perché il mistero di

Dio possa svelarsi in tutta la sua forza.

La “verità” (v. 21), secondo il messaggio giovanneo, è la rivelazione di

Gesù, anzi è Gesù stesso. Il pensiero dell’apostolo si distacca nettamente dal

concetto greco di verità come idea o cosa esatta. Cristo ci invita a “fare la verità”

(v. 21), cioè ad accogliere nella vita la sua rivelazione e la sua stessa persona,

senza fermarci ad un atteggiamento di semplice conoscenza intellettuale.

d/ “DONACI LA RICCHEZZA DELLA TUA GRAZIA”

Nei brani biblici della liturgia odierna la vita dell’uomo e del popolo di

Dio viene presentata con le antitesi: giudizio-salvezza, luce-tenebre, fare il male-

fare la verità. Si parla da una parte di infedeltà, di morte e di distruzione, e

dall’altra di fedeltà di Dio, di “Dio ricco di misericordia”, di ritorno e di

liberazione.

La storia di Israele, come del resto la nostra storia, si colora, dunque, di

tenebre e di luce, di morte e di vita; ne consegue che tutta l’esistenza è lotta tra

luce e tenebre, tra fedeltà e infedeltà, tra morte e vita. La nostra vita, personale,

comunitaria e universale, è davvero un’avventura; per questo dobbiamo chiedere

al Padre dei cieli che la fedeltà prevalga sempre sull’infedeltà, la salvezza sulla

condanna e che la luce la spunti sulle tenebre.

“Eravamo morti per i peccati, ma Dio per il grande amore con cui ci ha

amati ci ha fatto rivivere con Cristo” (2a lettura, v. 5). In Cristo, dunque, l’uomo

ritrova la sua salvezza; e anche la storia umana ha il suo punto di riferimento e

trova la sua profonda significazione in Cristo, dono del Padre. Questo messaggio

si trova sintetizzato nella lettera agli Efesini. In essa Paolo presenta una specie di

sviluppo salvifico che si svolge nella storia umana, nella quale Dio dà prova del

suo immenso amore e della gratuità del suo amore, associandoci allo stesso

destino di Cristo. Il Padre da “un prima” collocato nel passato di schiavitù e di

morte, ci ha fatti passare, attraverso la morte e la risurrezione di Gesù, ad un

presente di vita e di liberazione che prosegue verso il futuro.

La rottura tra queste due fasi è costituita dall’azione di Dio motivata

unicamente dal suo amore.

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La nuova condizione dei salvati, dunque, è opera di Dio, il quale ci ha

“con-vivificati”, “con-risuscitati” e “con-intronizzati” in forza della solidarietà di

Cristo con noi.

L’accento sull’iniziativa divina, la quale esclude ogni pretesa di vanto da

parte dell’uomo, non vuole tuttavia promuovere il disimpegno da parte del

credente. Mentre viene rimarcata l’iniziativa assoluta di Dio, nello stesso tempo

viene sottolineato l’orientamento operativo dell’esistenza cristiana: la fede, infatti,

non induce alla passività, ma esige l’impegno delle buone opere.

CONCLUSIONE

La parola di Dio, dunque, ci illumina profondamente sul mistero-uomo,

non attraverso un discorso teorico, ma interpretando gli eventi che formano la

storia della salvezza, nella quale la storia di Dio e la storia dell’uomo si

intrecciano continuamente, con particolare riferimento all’evento pasquale di

Gesù, “nuovo Adamo che svela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima

vocazione” (Vaticano II, Gaudium et spes, n. 22).

La parola di Dio ci offre alcune puntualizzazioni che devono essere tenute

in seria considerazione per evitare ogni forma riduzionistica e unilaterale nella

concezione dell’uomo, della sua vita e della sua vocazione. Viene sottolineata la

presenza del peccato come infedeltà dell’uomo nei confronti di Dio, e nello stesso

tempo viene messa in risalto una reale responsabilità dell’uomo stesso e la sua

incapacità a risollevarsi da solo. Emerge in modo prepotente l’opera liberatrice di

Dio come frutto del suo singolare amore, soprattutto attraverso l’evento centrale di

tutta la storia della salvezza, cioè l’evento pasquale.

La conclusione è che non si può comprendere l’uomo, la sua dignità e la

sua vocazione, senza collocarlo nella luce di Dio presente nella storia umana

attraverso il suo Figlio morto e risorto, definitivo liberatore dell’uomo dalla

schiavitù del peccato. L’intima divisione dell’uomo è superabile soltanto

attraverso Cristo, perché solo Cristo può vincere il peccato e fare dell’uomo una

nuova creatura.

COLLATIO

1/ Non possiamo comprendere profondamente il mistero-uomo e di

conseguenza la nostra storia se non si tiene conto del processo dialettico tra fede e

12

incredulità, tra accoglienza e rifiuto dell’amore infinito di Dio manifestatosi in

Cristo. Invece, alla luce dell’evento pasquale, è possibile penetrare il mistero-

uomo nei suoi aspetti di peccato, di redenzione e liberazione.

Di fronte a tante concezioni disparate sull’uomo la fede cristiana ne ha

una sua originale derivante dal mistero di Cristo; l’umanesimo cristiano - senza

essere né ottimistico né pessimistico - coglie l’uomo nelle sue responsabilità e nel

suo peccato di infedeltà nei confronti di Dio e quindi bisognoso di perdono e di

conversione. Solo attraverso la liberazione dal peccato operata da Cristo morto e

risorto, l’uomo può ritrovare la propria dignità e la propria altissima vocazione.

2/ La “verità”, evangelica non si riduce a qualcosa di nozionale da

imparare e sapere. La “verità” è la rivelazione divina, è Cristo stesso e il suo

evento pasquale.

Ora “fare la verità” - tipica espressione giovannea - non indica uno sforzo

intellettuale né si riduce a una conoscenza intellettuale. Significa, invece,

accogliere il progetto di Dio così come ci viene offerto in Cristo nell’evento della

Pasqua. “Fare la verità” è morire al peccato per risorgere con Cristo in una

dinamica prettamente pasquale.

La “verità” in senso cristiano non è quindi una conoscenza, che noi

dovremmo conquistare con uno sforzo di pensiero, ma è la parola rivelata del

Padre, presente in Gesù e illuminata dallo Spirito, che noi dobbiamo accogliere

nella fede perché trasformi la nostra esistenza.

3/ Dio è “ricco di misericordia” e ci ama con un amore unico e singolare;

Dio, inoltre, è sempre fedele al suo progetto salvifico: la conferma più vera viene

dalla Pasqua di Gesù e dalla presenza di Cristo attraverso lo Spirito.

È certo che Dio non castiga e non condanna nessuno; tutt’al più egli

corregge come un padre i propri figli e li chiama a conversione. È l’uomo

colpevolmente incredulo che si autocondanna.

4/ Il “giudizio” si realizza fin dal momento in cui il Padre manda il

Figlio nel mondo. Cristo non è mandato “per giudicare il mondo”, ma viene per

salvarlo (cf Gv 3,17; 8,15ss). Il giudizio si compie subito: “Chi non crede è già

giudicato” perché ha rifiutato la luce (v. 18). Il giudizio non è tanto una sentenza

divina quanto una rivelazione del segreto del cuore umano chi sfugge alla luce di

Cristo diventa cieco e appartiene al dominio delle tenebre.

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4. ORATIO

Delle letture bibliche di questa domenica la lectio e la meditatio hanno

colto il grande tema dell’uomo considerato nella sua storia di peccato e di morte,

di redenzione e di vita e, strettamente correlato a questo, il tema di Gesù Cristo, il

rivelatore del grande amore di Dio per il mondo e il liberatore autentico da ogni

schiavitù e compromesso.

La preghiera, contemplando questo grandioso mistero che unisce Dio e

l’uomo, si ispira alla “colletta” della messa che costituisce la sintesi di tutto il

messaggio e chiede la grazia di “poter corrispondere all’eterno e sconfinato amore

del Padre”.

a/ DUREZZA DI CUORE

È questa la causa di tante rovine nel corso della storia. Chiuso nel suo

egoismo, l’uomo non è in grado di accogliere l’appello alla conversione come

risuona nelle parole di testimoni autentici (i profeti) o negli eventi della vita. Di

qui provengono ingiustizie, soprusi, attentati alla dignità dell’essere umano.

La preghiera diventa confessione delle proprie colpe e insieme richiesta

della grazia di un cuore rinnovato. - Perché ci siano rimessi i nostri peccati e

delitti, perché siamo liberati da ogni tribolazione, collera, pericolo e angustia,

preghiamo:

Signore, abbi pietà di noi.

- Perché il nostro cuore, purificato dallo Spirito, sia l’offerta gradita a

Dio che a noi non chiede altri doni preziosi, preghiamo...

- Perché lo Spirito addolcisca il nostro cuore di pietra, ci doni la

compunzione e la contrizione sincera, ci conceda di camminare per il retto

sentiero della pace e della giustizia, preghiamo...

- Perché ci siano donati occhi spirituali che vedano Dio in ogni istante,

e orecchie aperte per ascoltare lui solo, preghiamo...

Rimani, o Cristo, nei cuori che hai redento, e dona alle nostre voci un

pentimento sincero. Per il santo segno della croce, per il tuo corpo offeso,

perdonaci le colpe commesse, difendici per sempre come tua proprietà.

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b/ VOLGERE LO SGUARDO A CRISTO

Il cuore contrito e umiliato può comprendere allora la profondità del

mistero del Crocifisso, mistero di amore senza limiti. Volgendo il suo sguardo a

Cristo, l’orante è illuminato dalla rivelazione della croce: amare è essere pronti a

donare non il superfluo ma quanto di più prezioso si possiede. Come Dio,

appunto, che ha dato il suo Figlio, l’unico, l’amato.

Come gli occhi di un figlio verso il padre, così i miei occhi, Signore, verso te.

Presso di te la mia delizia e il mio amore; non allontanare da me la tua

misericordia, non distogliere da me la tua dolcezza.

Porgimi, Signore, in ogni tempo la tua destra e guidami sino alla fine.

Esaudisci, Signore, le nostre preghiere perché niente è impossibile a te.

Abbi pietà di noi, figlio di Dio, agisci con noi secondo la tua bontà.

Strappaci dai vincoli delle tenebre, aprici la porta perché ci ripariamo in te: tu

che non sei toccato dalla morte. Con te anche noi saremo salvi, perché sei il

nostro liberatore. (Dalle Odi di Salomone)

O Dio, amore che ci hai amati fino al dono totale del tuo Figlio unigenito,

concedici di amarti con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze;

concedici di amare i fratelli come li ami tu.

Grazie a te, Signore, figlio dell’uomo! Assumendo la nostra carne, ci fai dono

della tua divinità, in un misterioso scambio dove non entra l’interesse ma solo

l’amore. Hai svuotato te stesso per riempire noi, con la tua umiliazione hai

elevato noi alla tua stessa divinità!

c/ LUCE O TENEBRA

Accettare o rifiutare questa rivelazione dell’amore divino significa per noi

vivere nella luce o nelle tenebre. La decisione spetta a noi, così che il “giudizio”

altro non è che la nostra volontà a vivere conforme l’amore o allontanarsi da esso.

Questa decisione coraggiosa, che cambia la vita, comporta lotta e perfino martirio,

ma è anche grazia che viene dall’alto e, come tale, ha bisogno della preghiera per

essere accolta e vissuta con perseveranza.

O Signore, che sei la luce per la quale la luce fu fatta, che sei la via, la verità

e la vita, in cui non sono tenebre né errore né vanità né morte, luce senza la

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quale non vi sono che tenebre, via fuori della quale non vi è che errore, verità

senza la quale non vi è che vanità, vita senza la quale non vi è che morte: di’

una parola, di’, o Signore, «sia fatta la luce», perché io veda la luce ed eviti le

tenebre, veda la via ed eviti ogni deviazione, veda la verità ed eviti la vanità,

veda la vita ed eviti la morte. Illuminami, Signore, mia luce, mio splendore e

salvezza. Illumina, o luce, questo tuo cieco che siede nelle tenebre e

nell’ombra di morte, e dirigi i suoi passi sulla via della pace, per la quale

entrerò nel tabernacolo ammirabile fino alla casa del Signore con canti di

esultanza e di lode. (S. Agostino, Soliloqui, 4)

5. OPERATIO

a/ “FARE LA VERITÀ”

La misericordia rimane sempre il grande annuncio e il grande dono; ma la

misericordia non è Dio che chiude gli occhi o che sorvola sul nostro peccato. Il

medico che non riconosce la malattia non può guarirmi. Eppure noi tendiamo a

sottrarci alla luce di Dio come Adamo tenta di nascondersi dallo sguardo di Dio

dopo il peccato.

Il peccato è sempre tenebra, ma raggiunge il suo culmine quando amiamo

più le tenebre che la luce. È un mistero il fatto che noi possiamo abusare fino a

questo punto della nostra libertà!

Noi amiamo il peccato e non “facciamo la verità” (3a lettura, v. 21)

quando facciamo sì che le creature siano, anziché un cammino verso la luce, un

ostacolo in quanto ci fermano e ci imprigionano. Questa osservazione vale per

tutto: per la terra e ciò che contiene che noi sfruttiamo malamente. Vale per le

opere del nostro intelletto: la scienza, l’arte, l’organizzazione politica. Vale

soprattutto per gli esseri umani - uomini e donne eguali a noi - che tendiamo a

dominare.

Accogliere “la luce” vuol dire mettere le cose al loro posto: nessuna è più

grande dell’uomo. Vuol dire vedere ogni essere umano per quello che è per Dio

che ha dato per lui il suo Unigenito, soprattutto quando lo vediamo non

considerato, non valutato, non amato nella storia di ogni giorno (3a lettura, v. 19).

Ma come possiamo giungere a odiare la luce e a preferirle le tenebre?

Possiamo fare qualche esempio che aiuti a capire. Dopo una malattia agli occhi

16

vissuta nell’oscurità più completa, il primo timido apparire della luce fa male.

Ancora: un amico ci rimprovera un atteggiamento o una parola: anche se ci

accorgiamo che ha ragione, facilmente ci sentiamo colpiti e soffriamo e cerchiamo

tutte le scuse possibili. Tutte le volte che l’idolo ingombrante che è il nostro “io”

viene minacciato, corriamo ai ripari senza troppo guardare ai mezzi.

Preghiamo per imparare ad accogliere la parola di Dio che, insieme, ci

giudica e ci salva. Domandiamoci: certe resistenze alla confessione dei nostri

peccati nel sacramento non nascondono un “odio alla luce”? (v. 20). E anche certe

insofferenze di certi insegnamenti della chiesa in campo morale non contengono

una preferenza delle tenebre solo perché queste sono apparentemente più facili?

b/ “VENIRE ALLA LUCE”

In ultimo: Dio si rivolge a noi non solo attraverso le Scritture nella chiesa,

ma anche attraverso gli avvenimenti che, pure, possono essere giudizio che salva.

Non è facile leggere la storia attraverso la luce di Dio e della sua parola. Proprio

nel campo della storia siamo capaci di adulterare la verità perché non la vogliamo

«fare», perché rifuggiamo dal guardare al “segno” (la croce) e vedere in essa non

solo uno che soffre e che muore, ma un eterno dono di sé in cui si trova la vita.

È così facile inseguire una libertà che è una schiavitù. Identifichiamo

qualche esempio di questo errore e cerchiamo di smascherarlo, ma senza

dimenticare che Dio è ricco in misericordia.

E COME MOSÉ INNALZÒ IL SERPENTE (3,14-21)

14 E come Mosè innalzò il serpente nel deserto,

così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo,

15 affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna.

16 Dio infatti tanto amò il mondo da dare il Figlio Unigenito,

affinché chiunque crede in lui non si perda, ma abbia vita eterna.

17 Dio infatti inviò il Figlio nel mondo non per giudicare il mondo,

ma perché il mondo sia salvato attraverso di lui.

18 Chi crede in lui non è giudicato;

chi invece non crede è già stato giudicato,

poiché non ha creduto nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio.

17

19 Ora questo è il giudizio: la luce è venuta nel mondo

e gli uomini amarono piuttosto la tenebra che la luce;

erano infatti cattive le loro opere.

20 Infatti chiunque fa il male odia la luce

e non viene alla luce,

affinché non siano denunciate le sue opere.

21 Chi invece fa la verità viene alla luce,

affinché si manifestino le sue opere, che in Dio sono state fatte.

1. Messaggio nel contesto

Credere in Gesù è accogliere il Figlio e nascere alla propria verità di figli.

Come il serpente di bronzo, innalzato da Mosè nel deserto, guariva chi era morso

dai serpenti (Nm 21,8s), così il Figlio dell’uomo innalzato ci guarisce dal veleno

dell’antica menzogna che ci ha allontanati da Dio, facendoci ritenere invidioso,

antagonista e vendicativo colui che invece è sorgente di vita e libertà (cf. Gen

3,1ss).

Il c. 3 di Giovanni, composito e con sviluppi a sorpresa, è un progressivo

venire alla luce, un uscire dalla notte al giorno, dalla legge al Vangelo, dalla

condizione servile alla libertà di figli. Sono numerose le allusioni battesimali

(credere, essere generati dall’alto, dall’acqua e dallo spirito, dalla morte di Cristo,

diventare figli, avere vita eterna, ecc.).

Il capitolo si articola in due parti principali (2,23-3,21 e 3,22-36), tra loro

simmetriche, ciascuna con un racconto (2,23-3,2a e 3,22-26a), un dialogo (3,2b-12

e 3,26b-30) e infine un monologo (3,13-21 e 3,31-36). La prima parte è un

confronto con Nicodemo, dove si dibatte il problema principale della salvezza:

essa non viene dalla legge, ma è dono del Messia crocifisso. La seconda parte

contiene, sulla bocca del Battista, la professione di fede, che nella prima parte era

rimasta in sospeso.

Il tema centrale del brano è l’origine della vita. Non è la legge, ma

l’adesione al Figlio, che ci fa vivere da figli e compiere ogni legge. Le parole di

Gesù a Nicodemo hanno l’intento di operare in noi quel passaggio al cuore nuovo,

richiesto dalla legge e promesso dai profeti, che vediamo così ben descritto in Fil

3, dove Paolo racconta la sua esperienza di uomo della legge che incontra il

Signore. Nei vv. 12-21, escono i temi fondamentali del Vangelo: il Figlio

dell’uomo innalzato, credere/non credere, vita eterna, l’amore di Dio, il dono del

18

Figlio Unigenito, salvezza/perdizione, non-giudizio/giudizio, luce/tenebre,

amore/odio, fare la verità/fare il male.

Al centro del brano sta la persona di Gesù, che Nicodemo, fariseo ben

disposto, riconosce come Messia. Ma chi è il Messia che viene a rinnovare

l’alleanza e il tempio? Qual è il «flagello» con il quale trionfa sul male? Gesù è sì

il Messia, ma non corrisponde all’attesa di chi sogna un Messia potente che

stermina i malvagi e premia i buoni (e chi si salverebbe?). È invece l’agnello di

Dio che toglie il peccato del mondo (1,29), il Figlio dell’uomo innalzato, il Figlio

di Dio crocifisso, che ci dona l’amore del Padre e ci rende figli, capaci di amare

come siamo amati.

Gli attori del c. 3 sono Gesù, da una parte, e Nicodemo con il Battista,

dall’altra: è il dialogo della Parola con la legge e i profeti, che fa comprendere il

mistero del Figlio dell’uomo.

Gesù è il Messia che, in quanto crocifisso, ci dà la vita, quella vita che la

legge dice ma non dà e che i profeti solo promettono. La legge infatti prescrive ciò

che bisogna fare; la profezia a sua volta denuncia ciò che non facciamo e annuncia

ciò che Dio farà per noi. Legge e profezia sono, rispettivamente, richiesta

implicita e promessa esplicita dello Spirito del Figlio.

Gesù non è venuto per abolire la legge e i profeti, ma per portarli a

compimento (cf. Mt 5,17). Il comando che ci darà, sarà insieme nuovo e antico

(1Gv 2,7-11). La novità sta nel fatto che ciò che è antico come il desiderio

dell’uomo, finalmente si realizza. Per questo ci lascerà il comando dell’amore

reciproco (13,1ss), pieno compimento della legge (Rm 13,10).

Lo stile del brano, con un metodo caratteristico di Giovanni, è una

progressione a salti, dove le incomprensioni e i fraintendimenti, vie interrotte e

senza sbocco, servono alla Parola per condurre l’interlocutore a un livello

superiore. Le note di questo dialogo, che si svolge nell’oscurità della notte, sono

molteplici e sfumate, quasi incantate, come in un notturno. Sembrano eterogenee,

con continui cambi di registro: sono i vari gradini che, uno sopra l’altro, portano a

un orizzonte sempre più ampio, sino ad aprire, nel Figlio dell’uomo innalzato, la

finestra sul mistero insondabile di Dio e dell’uomo, suo figlio nel Figlio. Come al

solito i discorsi di Giovanni rivelano ciò che avviene nel cuore di chi legge: il

lettore si accorge di essere letto da ciò che legge, perché la Parola, nel

manifestarsi, con la sua luce risveglia la verità che già è in lui, come in tutti gli

19

uomini.

Gesù, il Figlio dell’uomo innalzato, è la luce che ci fa venire alla luce, il Figlio

che ama i fratelli come è amato dal Padre. Egli è il compimento della legge, amore

pienamente realizzato di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio.

La Chiesa, guardando il Figlio dell’uomo innalzato, nella contemplazione della

passione del suo Signore per lei, nasce come sua sposa. Eva fu tratta dal fianco di

Adamo addormentato: la Chiesa è generata dalla ferita d’amore del suo Signore.

2. Lettura del testo

v. 14: come Mosè innalzò il serpente nel deserto. Al popolo, morso dai

serpenti, Mosè mostrò, elevato come stendardo, un serpente di bronzo (Nm 21,8):

«Chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te,

salvatore di tutti» (Sap 16,7). Chi levava in alto lo sguardo, era guarito dal veleno

mortale. Se Eva, alla suggestione del serpente, avesse «levato» lo sguardo a Dio,

invece di fuggire e nascondersi da lui, certamente la storia sua e nostra sarebbe

stata diversa.

così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo. «Bisogna» che noi

nasciamo dall’alto: per questo «bisogna» che il Figlio dell’uomo sia «innalzato».

«Innalzato» significa anche «glorificato» (in Is 52,13 i due termini sono accostati).

Gesù è sì il Messia, come Nicodemo pensa, ma non è come lui pensa: lo è in

quanto elevato sulla croce, come il serpente di bronzo sull’asta.

Le tre predizioni sull’innalzamento del Figlio dell’uomo, che troviamo in

Giovanni (3,14; 8,28; 12,32), corrispondono alle predizioni della sua morte e

risurrezione, che troviamo negli altri Vangeli. Però in Giovanni la croce è

presentata come gloria sin dall’inizio, mentre nei sinottici lo è solo alla fine (cf.

Mc 15,39p).

Qui si dice che dal Figlio dell’uomo innalzato otteniamo la vita eterna; in

8,28 si dice che conosceremo «Io-Sono»; in 12,32 che tutti saremo attirati a lui.

Contemplando il Crocifisso, siamo «svelenati» dalla menzogna del serpente che ci

ha tolto la conoscenza del Padre e ci ha fatto fuggire da lui. In lui conosciamo la

verità di Dio e nostra: egli ci ama e noi siamo l’amore che lui ha per noi.

Volgendo lo sguardo a colui che abbiamo trafitto (19,37), ai piedi della croce

scopriamo questa verità che ci fa liberi (8,32) e nasciamo dall’alto. Come Eva, la

sposa, nasce dal fianco di Adamo che dorme, così l’umanità nuova, sposa di

20

sangue del suo Signore, nasce dalla ferita d’amore del suo Dio.

Il Crocifisso è paragonato al serpente di bronzo innalzato: in lui vediamo

il male che il serpente ci ha procurato, ma anche il bene che Dio ci vuole. Egli è

infatti l’agnello che porta il male del mondo (1,29), facendosi lui stesso

maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), per manifestarci il suo amore

incondizionato. Vedendolo in croce, non possiamo più dubitarne.

Inoltre «serpente» e «messia» hanno in ebraico lo stesso valore numerico:

la somma delle loro lettere è 358. «Messia» ha però una lettera in più, la più

piccola di tutte, che sta sospesa in alto: la jod, che è l’inizio del «Nome». Nel

Messia elevato l’uomo vede, oltre tutto il male, il sommo bene; in lui il Nome

divino si manifesta al mondo: esce dalle tenebre e viene alla luce della propria

identità, nascosta appunto dal male.

La salvezza di Dio non ignora il male. Sarebbe falsa. Lo assume invece in

modo divino, per amore. E lo vince nel perdono, dove tutti, dal più piccolo al più

grande, conosciamo chi è il Signore (Ger 31,34).

v. 15: affinché chiunque crede in lui. Il fine del suo essere innalzato, che ci fa

conoscere «Io-Sono» (8,28) e ci attira a lui (12,32), è aderire a lui, sorgente della

vita.

abbia vita eterna. La vita eterna, il dono che Dio fa ad ogni uomo nel Figlio

dell’uomo, è lo Spirito, l’amore tra Padre e Figlio, la vita stessa di Dio.

v. 16: Dio infatti tanto amò il mondo. Dio da sempre ama il mondo, anche se il

mondo lo rifiuta. L’amore del Padre è gratuito e senza riserve. Il Figlio, che lo

conosce e ne vive, ce lo testimonia dalla croce. Questo versetto ci presenta il

centro del Vangelo di Giovanni, che vuol portarci a confessare con meraviglia:

«Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi». Infatti «Dio è

amore» (1Gv 4,16). Solo a questa luce possiamo comprendere correttamente tutta

la rivelazione e correggere ogni sua interpretazione.

da dare il Figlio unigenito. Perché il Padre manda il Figlio? Non poteva venire e

farsi carne lui stesso? Ci ha dato il Figlio perché solo in lui, che ama come è

amato, vediamo la nostra identità di figli del Padre.

Gesù, essendo Figlio, ha vissuto ciò che anche noi siamo chiamati a

vivere: la «filialità» e la conseguente fraternità. Egli ci ama dello stesso amore che

il Padre ha per lui (15,9) e ci assicura che il Padre ci ama come lui (17,23), con un

amore che è prima della fondazione del mondo (17,24).

21

chiunque crede in lui, ecc. La salvezza è credere in Gesù crocifisso, il Figlio

dell’uomo innalzato: lui è la Parola, luce e vita di ogni uomo, diventata carne per

narrarci l’amore assoluto del Padre. In lui ci è data la nostra identità di figli e noi

siamo ciò che siamo. Al di fuori di lui, siamo ciò che non siamo, il nulla di noi

stessi. Per questo accogliere lui, il Figlio, è trovare se stessi; rifiutare lui è perdere

se stessi.

v. 17: non per giudicare il mondo. Il Figlio ha lo stesso giudizio del Padre. Egli

viene con il flagello nel tempio non per giudicare o condannare il mondo

peccatore. È venuto a salvarlo proprio «purificando» il tempio, sdemonizzando

con la sua croce l’immagine diabolica che l’uomo ha di Dio e di sé. In lui

«innalzato» abbiamo la conoscenza vera di lui e di noi stessi, che la bocca del

serpente ci aveva sottratta. Il «flagello» che purifica il tempio è la sua croce.

La salvezza o la perdizione non è predestinazione divina. Dio ha creato

tutto per la vita e non c’è veleno di morte nelle sue creature, se non quello che ci

siamo procurati noi, credendo alle nostre paure invece che a lui (cf Sap 1,12s;

2,24). Ma se abbiamo abbandonato lui, sorgente di acqua viva (Ger 2,13), egli non

ci ha abbandonato; ci ha anzi manifestato nel modo più grande e indubitabile il

suo amore, perdendo se stesso per noi. Nell’abbandono del Figlio sulla croce (cf.

Mc 15,34p), nessun abbandono è più abbandonato: in ogni perduto il Padre vede

suo Figlio, che di ogni perdizione ha fatto dimora della Gloria.

v. 18: chi crede in lui non è giudicato. Aderire a lui è la «santità e giustizia»

vera: è vivere del Figlio e da figli, partecipare alla gloria comune del Padre e del

Figlio.

chi invece non crede è già stato giudicato, ecc. Chi non crede all’amore

assoluto offerto dal Figlio dell’uomo innalzato, si esclude dall’amore e dalla vita.

Chi non aderisce al Figlio, nega la propria realtà di figlio.

La decisione di fede nei confronti della «carne» di Gesù ci fa nascere

dall’alto: è la vita eterna. Il prologo non dice che chi lo rifiuta nella testimonianza

dei sapienti e dei profeti è giudicato. Anzi, la Parola si è fatta carne per salvare

questo mondo che non ha accolto la luce e si è condannato alle tenebre. Per questo

ogni uomo, come Nicodemo, pur tra incertezze e difficoltà, va condotto a nascere

dall’alto attraverso la conoscenza del Figlio. Il senso della storia umana è la

rivelazione del Figlio, il suo crescere fino alla sua statura piena (Ef 4,13), perché

Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28). Infatti, se è vero che la rivelazione è storia e

22

carne, è altrettanto vero che la storia e la carne stessa sono rivelazione sempre più

grande di Dio.

v. 19: questo è il giudizio: la luce è venuta nel mondo, ecc. Il giudizio per chi,

pur conoscendola, non accoglie la Parola diventata carne, è quello di preferire le

tenebre alla luce, la morte alla vita. Il giudizio sull’uomo lo fa l’uomo stesso, non

Dio.

Come è possibile il rifiuto della luce, una volta conosciuta? È un mistero!

Certamente l’accoglienza dell’amore è sempre un atto di libertà. Ma può la libertà

rifiutare l’amore, se davvero è «liberata» dalla schiavitù dell’ignoranza e della

paura?

erano infatti cattive le loro opere. Queste «opere cattive» sono indicate, come

causa, non come conseguenza del rifiuto. Può la fede dipendere dalle opere, in

modo che chi è buono è ben disposto e crede, mentre chi è cattivo è maldisposto e

non crede?

È fuori dubbio che siamo giustificati dalla fede, non dalle opere (Gal

2,16). Non può essere diversamente, perché la radice di ogni giustizia è accogliere

l’amore gratuito di Dio per noi. È tuttavia vero che «Dio non fa preferenze di

persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a

lui accetto» (At 10,34s); come è altrettanto vero che l’uomo può tenere la verità

prigioniera dell’ingiustizia (Rm 1,18). In realtà uno crede e ama ciò che ritiene

bene per lui. L’occhio abituato alla tenebra è offeso dalla luce, per la quale è pur

fatto. Finché la nostra intelligenza e la nostra volontà restano schiave della

menzogna e della paura - e del vizio che le alimenta - non possiamo accedere alla

verità e all’amore.

Qui Giovanni intende dire che, prima di ogni nostra opera e della

decisione stessa riguardo alla fede, c’è una malvagità tenebrosa che porta alla

diffidenza e all’incredulità. Egli non intende spiegare il male. Constata

semplicemente che c’è e lo svela. Infatti esso è menzogna e viene alla luce solo

davanti alla verità. Le opere tenebrose di cui l’evangelista parla sono quindi il

peccato di incredulità, opera del malvagio, padre della menzogna e omicida sin dal

principio (8,44), che ci impedisce di essere figli di Abramo, padre dei credenti.

Per Nicodemo, come per tutti, è lento il travaglio che fa venire alla luce.

Giungere alla verità è un cammino di liberazione progressiva, di piccoli passi. E lo

compie la Parola stessa. Infatti solo quando giunge la luce, e non prima, si esce

23

dalla tenebra.

v. 20: chiunque fa il male odia la luce. L’odio della luce, frutto di paura, è

causato dal male che facciamo; questo, a sua volta, manifesta l’odio che lo

precede.

affinché non siano denunciate le sue opere. Il male vuole restare nascosto per

non essere denunciato, come la menzogna per non essere sbugiardata. Da Adamo

in poi c’è una resistenza, ereditaria e ambientale, nel credere all’amore di Dio per

noi. Solamente davanti alla croce cessa l’inganno: conosciamo «Io-Sono» (8,28) e

siamo attratti a lui (12,32). Allora muore l’uomo vecchio e nasce quello nuovo.

Ma l’uomo vecchio è duro a morire! In ciascuno di noi c’è una lotta interiore (cf.

Rm 7,17ss): siamo contesi tra menzogna e verità, paura e fiducia, egoismo e

amore. Siamo però gli arbitri: possiamo, giorno dopo giorno, aggiudicare la

vittoria a chi vogliamo. Il nostro libero arbitrio può esercitarsi, almeno

parzialmente all’inizio e poi sempre di più, solo nella misura in cui conosciamo la

verità dell’amore che ci fa liberi. Per questo è importante levare lo sguardo e

tenerlo sul Figlio dell’uomo innalzato.

v. 21: chi fa la verità viene alla luce. Fare la verità è il contrario del «fare il

male» o «le opere cattive». Ma per fare la verità bisogna prima conoscerla. Per

questo bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato: in lui vediamo l’amore con

cui siamo amati.

Credere in Gesù è «fare la verità» su di sé e su Dio. A chi chiede: «Cosa

dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?», Gesù risponderà che l’opera di

Dio, che piace a Dio e lui stesso compie, è credere nel Figlio, inviato dal Padre

(6,28s).

affinché si manifestino le sue opere, ecc. Le opere «fatte in Dio» sono quelle

di chi si unisce al Figlio e aderisce alla Parola. Sono le opere del padre Abramo,

che vide il suo giorno e gioì (8,56). L’opera di Abramo infatti è quella che piace a

Dio: credette a lui e gli fu accreditato a giustizia (Gen 15,6). Egli compie il

contrario di quanto fece Adamo, che diffidò di Dio. L’incredulità è la più grave

ingiustizia: nega l’essenza di Dio e dell’uomo, la sua paternità e la nostra filialità.

Chi crede nel Figlio è nato dall’alto, dall’acqua e dallo Spirito, ed è

passato dalle opere che la legge condanna alla vita nuova da figlio di Dio (cf. Gal

5,18-23). Il dialogo, laborioso, di Gesù con Nicodemo è una progressiva

illuminazione della Parola per farlo venire alla luce, partendo da ciò che già sa per

24

condurlo a ciò che ignora, eppure desidera. Nicodemo però non è ancora in grado

di giungere alla fede. Dovrà vedere il Figlio dell’uomo innalzato prima di poterlo

accogliere.

3. Pregare il testo

a. Entro in preghiera.

b. Mi raccolgo immaginando la notte in cui Nicodemo viene da Gesù.

c. Chiedo ciò che voglio: comprendere e accogliere il mistero del Figlio

dell’uomo innalzato come segno indubitabile dell’amore di Dio per me.

d. Traendone frutto, ascolto ogni parola di Gesù a Nicodemo.

Da notare:

• molti credettero nel suo nome; Gesù però non si fidava di loro

• Nicodemo, fariseo e capo dei giudei, viene a Gesù di notte

• lo riconosce come maestro, venuto da Dio: è il Messia, Dio è con lui

• se uno non è generato dall’alto, non può vedere il regno di Dio

• la differenza tra nascere di nuovo ed essere generati dall’alto

• essere generati dallo Spirito è la promessa dei profeti

• nessuno è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo

• il serpente di bronzo innalzato e il Figlio dell’uomo innalzato

• chi crede in lui ha la vita eterna

• Dio tanto amò il mondo da dare il Figlio unigenito

• il Figlio non è venuto per condannare il mondo

• chi crede nel Figlio innalzato non è giudicato

• il giudizio è non accogliere l’amore che si conosce

• le difficoltà per giungere alla libertà di credere

• l’odio e l’amore della luce.

4. Testi utili Sal 27; 131; Sap 9; Mc 10,17-31; 10,13-16; Gal 5,1ss; Fil 3.

Il Messia levato in alto

Davanti all’aspettativa messianica che ha interpretato erroneamente Gesù,

Gv espone la vera realtà del Messia. Com’era avvenuto nella dichiarazione

centrale di Giovanni Battista (1,29-34), sebbene la sezione tratti della figura di

Gesù come Messia, tale titolo, soggetto a diverse interpretazioni, non viene

25

pronunciato. In entrambi i passi vi è una tematica comune: lo Spirito (1,32s; 3,3-8)

e il Figlio di Dio (1,34; 3,18), definizione del Messia data da Giovanni a partire

dalla sua visione dello Spirito.

Le due funzioni che la scuola farisaica attribuiva alla Legge: essere fonte

di vita e norma di condotta, vengono ormai sostituite dalla persona di Gesù,

l’Uomo levato in alto (cfr. l,17); solo da lui procede la vita (3,13-18) e, come la

luce, rivela la bontà o malvagità dell’azione dell’uomo (3,19-21). Manifestando

l’amore di Dio, si trasforma in norma di condotta.

La risposta umana alla visione dell’Uomo innalzato viene descritta in due

modi: prima come un «dargli la propria adesione» (3,15.18); questo contatto è

necessario per ricevere la vita; poi come un avvicinamento a lui (3,20.21), punto

fisso da cui sgorga la luce, centro della zona illuminata opposta alla tenebra.

L’uomo deve fare il passaggio, uscendo dalla tenebra per entrare nella zona della

luce, dov’è Gesù. Questo passaggio si identifica con il suo esodo, che consiste

nell’uscire dal «mondo», lo stato di cose ingiusto (8,23; 15,19; 17,6.14.16).

In contrapposizione all’adesione ricevuta a Gerusalemme (2,23), che Gesù

non accettò perché supponeva una concezione errata della sua messianicità, qui

viene presentato il vero termine dell’adesione: l’Uomo innalzato, e l’autentica

concezione del Messia: il Figlio di Dio, prova del suo amore.

Dato che Gesù aveva esplicitato con le sue affermazioni (3,3.5),

Nicodemo e, in generale, il movimento suscitato a Gerusalemme, si attendevano

dal Messia l’instaurazione del regno di Dio. La qualità del re messianico, che

Gesù sta per manifestare, non corrisponde all’aspettativa giudaica. In questo passo

egli associa la propria regalità con la propria morte (3,13ss), come apparirà dal

titolo della croce (19,19). Il suo regno, che sarà quello di Dio, non si inaugurerà

con una manifestazione di potere, ma con quella dell’amore di Dio manifestato

nella croce, negazione del potere (cfr. 18,36).

a) Fonte della vita

13 Nessuno sale definitivamente al cielo se non colui che scese dal cielo, l’Uomo:

«Ascendere in cielo» significa il trionfo, la vittoria definitiva del Messia e,

pertanto, lo stadio finale del regno di Dio. La risposta all’aspettativa messianica

26

comincia enunciando chi è il vero Messia, colui che otterrà tale trionfo.

È stato già spiegato che le espressioni di Gv riguardo al «cielo» non

devono essere intese in senso spaziale. Significa la sfera divina, caratterizzata in

quanto eccellente (superiorità) e invisibile, anche se non inaccessibile

all’esperienza dell’uomo. Così, in 14,23, Gesù può affermare che il Padre e lui

andranno dal discepolo e vivranno con lui. Non si dice con questo che il Padre

abbandoni il «cielo», ma che questo termine manca in Gv della sua connotazione

locale. Già a partire dalla discesa dello Spirito su Gesù, il linguaggio è figurato

(1,32). Quando Gesù, pertanto, descrive se stesso come «colui che scese dal

cielo», intende dire che la sua origine non è semplicemente umana, ma che egli

procede da Dio (8,23).

La frase: colui che scese dal cielo, è in parallelo con l,32: lo Spirito che

scendeva come colomba dal cielo. «Essere sceso dal cielo» equivale ad avere

ricevuto la pienezza dello Spirito, che ha fatto di Gesù il nuovo santuario

(2,19.21), il luogo della presenza divina (1,14). Il regno di Dio è situato nella sfera

divina (8,23: ciò che è in alto) e conduce ad esso soltanto chi proviene da questa:

Gesù, l’Uomo che realizza il progetto divino (1,1c) ed è il prototipo di Uomo.

Nicodemo aveva ammesso che la missione di Gesù era divina (3,2: sei

venuto da parte di Dio); tale però non è soltanto la sua missione, ma anche la sua

origine (colui che scese dal cielo).

Non bisogna attendere un altro genere di Messia se non l’Uomo in cui si è

manifestato tutto l’amore contenuto nel progetto di Dio (1,14). Il Messia è colui

che, per il fatto di essere l’Uomo, è capace di amare fino al dono di se stesso,

rivelando così la gloria-amore del Padre. Soltanto lui può ottenere e assicurare il

trionfo definitivo, instaurare il regno di Dio, la società umana che si accorda col

progetto creatore (3,3.5).

14-15 come nel deserto Mosè levò in alto il serpente, così dev’essere levato l’Uomo,

affinché chiunque ne fa l’oggetto della sua adesione abbia vita definitiva.

La missione del Messia consisterà nel conferire all’uomo l’amore e la

lealtà (1,17), la vita peculiare del regno. Pertanto, il suo trionfo è la croce,

dimostrazione suprema dell’amore cui conduce il dinamismo dello Spirito. «Salire

definitivamente al cielo» si identifica con l’essere levato in alto, in quanto la croce

27

non sarà per Gesù uno stato passeggero, ma l’inizio dell’effusione di amore e di

vita destinata a durare per sempre (19,34; 20,25.27: il costato aperto). «Il cielo» o

sfera divina è situato nella croce, in cui il Padre è presente in Gesù e manifesta il

suo amore. Da questo consegue che «essere levato» indichi al tempo stesso la

morte e l’esaltazione definitiva di Gesù, la manifestazione perenne della sua

gloria, che è quella stessa del Padre (17,1).

Questo fatto si spiega con un episodio dell’esodo, nel quale Mosè non

appare come il maestro di Israele, ma come colui che, con la propria azione, dà

vita a un tipo del Messia (5,46: di me egli scrisse). II testo si riferisce a Nm 21,9,

dove si narra che dinanzi alla piaga dei serpenti velenosi, Mosè su indicazione di

Dio costruisce un serpente di bronzo e lo innalza su di un palo. Chi veniva morso,

guardando il serpente innalzato guariva o, secondo l’espressione ebraica, viveva.

Su quest’antico episodio si costruisce un parallelo, che si sviluppa in un paragone

(3,14: come... così) dei fatti e dei loro risultati. Nel caso di Mosè, la vita che si

otteneva era transitoria, qui invece definitiva.

La prima particella (come) annuncia la somiglianza di ciò che deve

avvenire con il fatto già avvenuto. Di quest’ultimo si menziona la persona

operante, Mosè; e si conoscono il tempo e il luogo: nel deserto. Nel secondo

membro (così) non vi è agente, tempo, né luogo definito; si esprime soltanto una

necessità (deve) che si dovrà verificare in un futuro non precisato. Tuttavia il

parallelismo è chiaro: al serpente del primo membro corrisponde «l’Uomo» del

secondo; al «levare», l’«essere levato in alto». Nel terzo membro (3,15: perché),

la vita definitiva corrisponde al «viveva» di Nm 21,9. II fatto di «levare/essere

levato» (3,14) indica un segno visibile, destinato a essere visto e guardato, la

localizzazione di una forza di salvezza. L’Uomo levato in alto sarà la presenza

salvatrice di Dio, il punto di confluenza di tutti quelli che guardano, il luogo da

cui sgorga la vita divina.

Viene così spiegato in che modo si nasce dall’alto (3,3.7). Questa

localizzazione (alto) è determinata dall’immagine del serpente innalzato che liberò

dalla morte. Anche l’Uomo dev’essere innalzato, e chiunque aderisca a lui in tale

sua situazione, accettando il suo amore e il dono del suo amore, otterrà vita

definitiva, cioè nascerà dall’alto, ricevendo lo Spirito che sgorga dal suo costato

(19,34).

Questo segno, dal quale scaturisce la vita, è l’espressione dell’amore di

28

Dio per l’umanità (3,16), ed è innalzato in modo che il mondo intero possa

vederlo. Prende il posto della Legge, che prometteva falsamente la vita (cfr. l,17).

16 Perché Dio manifestò il suo amore per il mondo in modo tale, da giungere a

dare il suo Figlio unico, affinché tutti coloro che gli danno la loro adesione abbiano

vita definitiva e nessuno perisca.

Si offre la spiegazione ultima della realtà del Messia. Nel passo

precedente (3,14-15) lo si è descritto partendo dall’uomo, come il segno visibile,

l’Uomo levato in alto; ora, partendo da Dio, che prende l’iniziativa inserendo la

propria azione nella storia. È la stessa realtà espressa in precedenza con la frase

colui che scese dal cielo. Gesù è il dono dell’amore di Dio per l’umanità. L’Uomo

levato alla vista di tutti è al tempo stesso il Figlio unico di Dio (cfr. 1,34); questa è

la sua realtà nascosta, che si rivela con il suo essere levato in alto, dimostrando

così l’amore di Dio per il mondo.

La frase non esplicita il destinatario del dono; ci si sarebbe attesi «il

mondo», l’umanità. Questa missione, unita alla menzione del «Figlio unico»,

allude a Gn 22,2. Dio si comporta come Abramo, che fu capace di privarsi del

proprio figlio.

L’allusione ad Abramo, inoltre, mette il passo in relazione con l’esodo, in

quanto, secondo tradizioni giudaiche, il sacrificio di Isacco ebbe luogo nell’ora in

cui più tardi sarebbero stati sacrificati gli agnelli nel tempio, e la liturgia di Pasqua

univa il gesto di Abramo al sacrificio dell’agnello. 4 Si vede così la connessione di

tutto l’episodio con quello del tempio e con l’aspettativa messianica.

Il dono è avvenuto nel passato (manifestò) e si va realizzando nel corso

della vita di Gesù, che culminerà al momento di essere levato in alto, «la sua ora»

(2,4), con la manifestazione piena dell’amore di Dio, il dono totale di sé al fine di

comunicare la vita.

Il disegno di Dio non opera discriminazioni, offre la vita a tutti senza

eccezione. Se qualcuno non l’ottiene è perché respinge la sua offerta, negando

l’adesione a Gesù.

17 Perché Dio non mandò il Figlio nel mondo perché egli emetta sentenza contro il

mondo, ma perché il mondo si salvi tramite lui.

29

La duplice formulazione, positiva e negativa, che appariva in 3,16:

perché... abbiano vita definitiva e nessuno perisca, si incontra nuovamente qui,

venendo a formare un chiasma: non... perché egli emetta sentenza... ma perché...

si salvi. Ma la manifestazione dell’amore di Dio e il dono del Figlio unico (3,16)

sono ora descritti in termini di missione (mandò... nel mondo). In entrambi i casi

c’è uno stesso soggetto, Dio, e uno stesso destinatario, il mondo, l’umanità.

L’amore di Dio fu il movente dell’invio del Figlio e la sua finalità era salvare ogni

uomo; rimane esclusa ogni intenzione negativa: il proposito divino è interamente

positivo e universale (il mondo). Il Messia non ha un compito giudiziario e non

esclude nessuno dalla salvezza: nel Figlio, dono e prova dell’amore di Dio,

splende unicamente la sua gloria, il suo amore e la sua lealtà verso l’uomo. Non

viene a operare discriminazione all’interno di Israele, ma neppure fra Israele e gli

altri popoli. È finito il privilegio del popolo eletto. 5 La salvezza è destinata

all’umanità intera.

Salvarsi è passare dalla morte alla vita definitiva, e questo è possibile

attraverso Gesù, il datore dello Spirito.

Per la prima volta appare la denominazione «il Figlio» applicata a Gesù.

Questa riassume le due precedenti: «l’Uomo, (il Figlio dell’uomo; 3,13.14) e «il

Figlio unico di Dio» (3,16.18; cfr. l,18: l’unico Dio generato). Gesù è «il Figlio»,

in cui si uniscono l’origine umana e la «processione» divina, il massimo

esponente dell’umanità che rende presente la pienezza di Dio.

18 Chi gli dà la sua adesione non è soggetto a sentenza; chi si rifiuta ha già la sua

sentenza, rifiutando di dargli la sua adesione come a Figlio unico di Dio.

La responsabilità ricade così sull’uomo, non su Dio, che nel suo amore

non fa eccezioni. Si comincia pertanto a descrivere l’atteggiamento dell’uomo,

che diventa il soggetto grammaticale. O si è a favore di Gesù o si è contro di lui;

non esiste possibilità di indifferenza. Dinanzi all’offerta dell’amore non si può che

dire sì o rifiutarsi di accettarlo.

Nicodemo aveva obiettato che non è possibile nascere di nuovo (3,4).

Tuttavia, da parte di Dio tutto è fattibile; spetta all’uomo prendere una decisione.

Se di fatto vi sono degli esclusi dalla salvezza, lo si deve al rifiuto dell’offerta che

30

Dio compie in Gesù. Chi dà la sua adesione a Gesù, assecondando il piano di Dio,

non è sottoposto a giudizio, perché Dio non agisce come un giudice, ma come

datore di vita. Chi si rifiuta, si condanna da sé. Al rifiuto radicale e definitivo di

dare adesione a Gesù corrisponde la definitività dell’esclusione.

La Legge stabiliva con Dio il rapporto Signore-servi. Tra i due termini si

interponevano i maestri (3,2: maestro, 3,10: il maestro di Israele) e la gerarchia

dei capi (3,1: capo). Il contatto con Dio aveva bisogno di intermediari.

L’uomo levato in alto, al contrario, rende presente l’amore di Dio per il

mondo. Ormai non bisogna essere fedeli che all’amore di Dio, incarnato nel Figlio

unico (3,15.16.18). La relazione con il Padre presente in Gesù è immediata; non è

quella dei servi, ma dei figli.

La vera adesione a Gesù vede in lui il Figlio unico di Dio. Dando suo

Figlio, Dio offre all’umanità la pienezza di vita che è in lui: così, attraverso il

Figlio unico, egli avrà altri figli (1,12; 14,2s Lett.), tramite l’identificazione con

quello unico. Il Figlio li fa nascere mediante lo Spirito, dando loro la capacità di

diventare figli tramite una pratica dell’amore simile alla sua.

Non bastava l’adesione a Gesù come Messia riformatore, manifestatasi a

Gerusalemme subito dopo la sua attività nel tempio (2,23). Non è al riformatore

delle istituzioni che va data, ma al datore di vita; la società nuova sarà il frutto e

l’espressione dell’uomo nuovo, figlio di Dio. Dare la propria adesione a Gesù

come al Figlio unico di Dio, è credere nelle possibilità dell’uomo, nell’orizzonte

che gli apre l’amore di Dio, perché è lui il modello dei figli che nascono per

mezzo suo.

b) Norma di condotta

I tre versetti che concludono la pericope sono separati da quanto li precede

(ebbene) e utilizzano un vocabolario diverso. Si torna a fare uso dell’opposizione

luce-tenebre incontrata nel prologo. II passaggio al tema della luce è giustificato.

Nel prologo, la vita è stata identificata con la luce (1,4: e la vita era la luce

dell’uomo): questa non .è altro che la vita stessa in quanto splendente e visibile. La

tenebra, per opposizione, evoca morte: è un potere attivo e mortifero che produce

la notte e domina in essa (3,2).

Presentando Gesù levato in alto come la localizzazione della vita che

31

sgorga da lui (3,15), e come segno visibile a tutti (3,14), unendo la visibilità alla

vita, era normale che, coerentemente con la sua teologia, Gv passasse al tema

della luce. Questa, ancora una volta, non è la dottrina che Gesù espone, ma lui

stesso come forza di vita, in quanto visibile e percettibile da tutti. La luce della

vita è al tempo stesso la gloria (splendore) dell’amore di Dio che si manifesta in

Gesù.

Nel prologo, coloro che contemplano la sua gloria/amore leale (1,14)

hanno ricevuto dalla sua pienezza un amore che risponde al suo amore (1,16);

parallelamente, coloro che guardano/aderiscono al segno levato in alto (3,14-15,

parallelo serpente/uomo) e vi leggono la manifestazione e la prova suprema

dell’amore/gloria di Dio (3,16) ricevono vita definitiva (ibid.), che equivale allo

Spirito-amore.

La luce splendeva in mezzo alla tenebra (1,5), giungeva fino al mondo,

illuminando ogni uomo (1,9); ora è venuta (1,11) ed è nel mondo (3,19: L’Uomo

levato in alto, manifestazione della gloria/amore di Dio), e alcuni le si avvicinano

abbandonando la tenebra (3,21).

Nel prologo si poneva l’accento più sulla natura della Parola e sulla sua

missione che non sull’attività dell’uomo. Si contemplava la gloria (1,14), che era

la vita nel suo splendore di luce (1,4.5), che illuminava (1,9). In questa pericope si

mette l’accento sul ruolo dell’uomo e sulla sua iniziativa. Accettare, non

accogliere (1,12.11), diventano amare o odiare (3,19) e, di conseguenza,

avvicinarsi o meno alla luce (3,20.21).

L’amore o l’odio per la luce hanno la loro radice nel modo d’agire. La vita

che si manifesta come luce divide così i campi. Chi opera in opposizione alla vita

non si avvicina a essa per evitare il contrasto rivelatore. Chi favorisce la vita non

teme di avvicinarsi a essa.

Nel prologo la luce-vita appare come una realtà che si comunica e, in

termini di luce, come illuminatrice. Qui invece il suo ruolo è penetrare la tenebra e

discriminare atteggiamenti. Avvicinarsi alla luce è abbandonare la tenebra.

Nicodemo, che andò da Gesù di notte, era identificato con la tenebra.

19 Ebbene, proprio in questo sta la sentenza: che la luce è giunta nel mondo e gli

uomini hanno preferito le tenepre alla luce, perché il loro modo di operare era

perverso.

32

Gv sta per sviluppare quanto ha detto in precedenza: la causa

dell’esclusione di molti (3,18). La luce che è venuta nel mondo di per sé illumina

tutto. La luce è il Figlio, nella sua funzione salvifica di dare vita, come prova

dell’amore di Dio per l’umanità (3,16s); è Gesù come Messia (cfr. 8,12: io sono la

luce del mondo; 12,35). Si conferma così ancora una volta la relazione di tutta

questa pericope con la scena del tempio (2,13ss). È venuto ed è rimasto nel

mondo: presenza duratura di portata universale.

La frase: la luce è giunta nel mondo, è in parallelo e in opposizione a

quella di Nicodemo: tu sei venuto da parte di Dio come maestro (3,2), a servizio

della Legge. Secondo la tradizione rabbinica, la Legge era vita e luce 6 La sua

osservanza dava vita all’uomo e al popolo, rivelava Dio e la sua volontà e serviva

di guida alla condotta.

Gesù levato in alto prende il suo posto: la condotta dell’uomo è guidata e

giudicata da questa luce, splendore del suo amore per l’uomo. Essa è l’unica

norma e scopre la bontà o malvagità delle azioni.

La presenza della luce-vita nel mondo pone l’uomo di fronte all’esigenza

di accettare la vita-luce o rifiutarla. La sentenza di esclusione si identifica con

un’opzione in malafede: vedendo la luce, splendore della vita, che è venuta nel

mondo (1,4), gli uomini (allusione a 2,24s; 3,1) hanno preferito la tenebra, cioè la

morte.

La tenebra, come si è visto nel prologo (1,5), rappresenta l’ideologia

oppressiva che soffoca la vita dell’uomo, qui oggettivata nell’istituzione giudaica

denunciata da Gesù (2,14ss). Gli uomini (3,19) sono un’altra espressione per

indicare il mondo (3,16). La frase è iperbolica: la totalità indicata dagli uomini

significa l’immensa maggioranza e include i molti che gli diedero la loro adesione

durante le feste (2, 23), dei quali Gesù non si fidava (2,24); fra loro ci sono anche

quelli rappresentati da Nicodemo (3,2: sappiamo). Ma l’universalità del rifiuto

contrasta con quella dell’amore di Dio (3,16: Dio manifestò il suo amore per il

mondo in modo tale), ed è stata espressa nel prologo con un’iperbole equivalente

(1,10: il mondo non la riconobbe; l,11: i suoi non l’accolsero).

Prima della venuta della luce l’umanità giaceva nelle tenebre. La

maggioranza degli uomini preferisce restare nella morte, rinunciando alla pienezza

di vita: questo è il peccato dell’umanità (1,29). Disprezzano l’amore di Dio,

33

optano per la tenebra. Tale scelta costituisce la loro sentenza. Sono gli stessi

uomini a pronunciarla.

La scelta ha però una motivazione: perché il loro modo di operare era

perverso, in consonanza con l’attività malvagia della tenebra, che cerca di

soffocare la luce (1,5), e con le opere malvage del mondo o con uno stato di cose

ingiusto che Gesù denuncerà (7,7). Il modo di operare perverso consiste nell’uso

della menzogna e della violenza come mezzi di oppressione (8,44: menzognero e

omicida). L’imperfetto (era) indica una condotta precedente che non si vuole

rettificare (cfr. 2,18, il rifiuto dei dirigenti davanti alla denuncia di Gesù). Gv

spiega perché i suoi non lo accolsero (1,11). Quelli che preferiscono la tenebra

alla luce, dirigenti o incondizionatamente ligi al regime ingiusto (= giudei), sono

complici della tenebra. Essi trovano in questo sistema il loro campo d’azione; gli

oppressori dell’uomo a qualunque livello non accettano la luce-vita. I fautori di

morte respingono l’offerta dell’amore di Dio:

20a Chiunque agisce in modo perverso, odia la luce.

Questo principio generale estende l’enunciato al di là delle frontiere di

Israele e del tempo di Gesù. La luce, splendore della vita, denuncia per

comparazione la bassezza di condotta che si oppone alla vita. Già nel suo

significato primario, la luce espone e denuncia la malvagità occulta. Per questo

esiste una risposta d’odio all’amore di Dio. L’opzione per la tenebra non si

compie in base al valore che questa abbia in sé, ma per odio verso la luce, e questo

nasce dal timore di venire smascherati. Qui non si sceglie in modo imparziale fra

termini equiparabili: vi è un rigetto della vita in colui che è complice della morte.

Si odia la bontà della luce. La malvagità non può sopportarne la vista e cerca di

soffocarla. I fautori di ingiustizia e morte non possono sopportare la sua denuncia

(l,5; 11,53; 12,l0; 19,15).

20b e non si avvicina alla luce, perché non gli venga rinfacciato il suo modo di

operare.

Non sono le dottrine a separare da Dio, ma i comportamenti, così come

Dio non offre dottrine, ma vita. Avvicinarsi alla luce equivale avvicinarsi a Gesù

34

(6,37: chi si avvicina a me io non lo caccio fuori) e indica adesione, fede in lui. In

questo testo, pertanto, avvicinarsi alla luce significa dare la propria adesione alla

vita che Dio offre in Gesù. Egli stesso è la luce (8,12) e la vita (11,25; 14,6); chi

danneggia l’uomo con il suo modo di operare, odia Gesù e gli nega la propria

adesione, perché teme che si metta in luce la sua bassezza. Ha paura della

pubblicità e dell’inevitabile confronto col modo di agire di Gesù. Riconoscere la

luce sarebbe uscire allo scoperto. Rifiutandola, si pensa di poter continuare a fare

il male senza essere scoperto. Non si può, pertanto, essere oppressore dell’uomo e

prestare adesione a Gesù; non si poteva essere a favore del sistema giudaico, come

Nicodemo, e accettare quanto Gesù proponeva:

21 Invece, chi pratica la lealtà si avvicina, e così si manifesta il suo modo di

operare, realizzato in unione con Dio.

L’autore continua a mescolare i due significati di luce, quello fisico e

quello metaforico. Chi agisce in modo perverso e chi pratica la lealtà si

definiscono entrambi attraverso la loro condotta. L’uomo si definisce attraverso le

sue opere.

Torna a comparire «la lealtà» del prologo (1,14.17), qualità dell’amore

del Padre e di Gesù Messia e, pertanto, dell’amore ricevuto dalla pienezza di lui

(1,14.16.17). La lealtà dimostra l’amore. L’espressione praticare la lealtà è in

parallelo con praticare il bene (5,29), in opposizione ad agire in modo perverso

(cfr. ibid.). Equivale quindi a fare ciò che è buono per l’uomo. Utilizzando il

termine «lealtà» anziché quello di «amore», Gv indica che l’amore non è teoria,

ma pratica, che non esiste amore se non si traduce in opere. L’amore può

chiamarsi tale nella misura in cui realizza il bene dell’uomo, comunicandogli la

vita.

E così si manifesta il suo modo di operare. La manifestazione è

conseguenza dell’avvicinamento; il modo di agire è pertanto precedente

all’adesione a Gesù, la luce. Di fatto, fin dal principio della creazione, la vita sì è

manifestata nel mondo, non è stata soffocata dalla tenebra. La dialettica morte-vita

è precedente alla manifestazione piena della vita. in Gesù. Gli uomini per i quali la

vita è la luce (1,4). cioè, coloro che rispondono alla chiamata del progetto creatore

e sono a favore della creazione e della vita, sono quelli che si avvicinano a Gesù,

35

la luce.

Lo stesso principio sarà enunciato in 7,17: chi vuole realizzare il disegno

di Dio valuterà se questa dottrina è da Dio o se io parlo per conto mio. Vi sono

una disposizione e una prassi che precedono l’adesione a Gesù: la lealtà verso la

vita e l’uomo; così anche in 8,47: chi procede da Dio ascolta le esigenze di Dio;

per questo voi non ascoltate, perché non procedete da Dio. Procedere da Dio

significa imitarne il modo di agire (cfr. 5,19) e precede l’adesione a Gesù. In

modo simile in 6,45: chiunque ascolta il Padre e impara si avvicina a me. Vi è

pertanto una docilità a Dio precedente alla fede in Gesù e che permette di giungere

ad essa. Il Padre è il Dio creatore, fonte di vita e amore. Colui che con la sua

condotta ha assecondato l’opera creatrice di Dio, l’attività del suo amore per

l’uomo, riconoscerà la luce e le si avvicinerà senza timore; allora apparirà che le

sue opere rispondevano al disegno di Dio, pienamente rivelato in Gesù, e che non

erano soltanto dell’uomo, ma di Dio assieme a lui (cfr. nota).

I paralleli fra il prologo e questa pericope sono numerosi. In primo luogo,

l’uso del verbo nascere (1,13: nacquero da Dio; 3,3: nascere di nuovo/dall’alto;

3,5: nascere da acqua e Spirito; 3,6: nascere dallo Spirito).

Per identificare altri paralleli bisogna tener conto delle equivalenze:

«Spirito/amore/vita definitiva» e «accettare/dare la propria adesione/avvicinarsi».

Così, coloro che ricevono la Parola-luce sono quelli che nascono da Dio (1,12s);

parallelamente, coloro che danno la loro adesione all’Uomo levato in alto

ottengono vita definitiva (3,14s) o nascono dall’alto (3,3.7), dall’acqua-Spirito

(3,5.6.8).

SINTESI

Dopo la manifestazione messianica di Gesù nel tempio, in cui ha

denunciato l’oppressione e annunciato la sostituzione del santuario con la sua

propria persona, Gv espone la reazione al fatto: dapprima in modo generico,

quindi quella degli uomini di governo e di legge. Essi sono rappresentati da un

personaggio appartenente alle alte sfere del potere, giudeo osservante e maestro

della Legge. Egli non attende il Messia della forza, ma il Messia dell’ordine, il

maestro capace di spiegare la Legge e inculcarne la pratica, per giungere così a

costruire l’uomo e la società. Il problema si incentra sulla validità della Legge

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religiosa come norma di condotta e fonte dì vita, come mezzo per impiantare la

società umana che Dio desidera e promette. Gesù abbatte il presupposto di

Nicodemo: l’uomo non può giungere a ottenere pienezza e vita tramite

l’osservanza della Legge, ma attraverso la capacità di amare. Tale capacità, che lo

Spirito dà, gli viene da Dio e completa l’essere umano. I due aspetti della Legge si

concentrano in Gesù stesso levato in alto: egli è fonte della vita definitiva, lo

Spirito, e - mostrando il suo amore nel dono della propria vita - la norma che

l’uomo deve seguire per raggiungere la pienezza. Solo con uomini disposti ad

amare fino alla morte si può costruire la vera società umana: sono gli uomini

liberi, che rompono con un passato per cominciare di nuovo, non più rinchiusi in

una tradizione, nazionalità né cultura. La loro vita sarà la pratica dell’amore, il

dono di se stessi, con l’universalità con cui Dio ama l’umanità intera.

Dio, in Gesù, offre così a tutti la vita piena. L’uomo deve scegliere tra la

vita e la morte. Chi è in qualche modo nemico dell’uomo e della vita, la rifiuta e si

condanna da se stesso a morire. Chi è per l’uomo e per la vita, aderisce a Gesù.

Ogni impresa che si basi sull’uomo incompiuto, l’uomo senza amore, è

condannata al fallimento.