Quando a farsi male LO STUDIO DEL RISCHIO … · Gli infortuni legati al lavoro nelle professioni...

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FOCUS ON 9 Dottor Zanella, si può affermare che quella del fisioterapista è una professione rischiosa? In un certo senso sì, anche se ritengo sia necessario specificare in quali termi- ni. Parlando di rischio lavora- tivo spesso viene da asso- ciare il rischio legato alla possibilità di eventi trau- matici o, nel caso di perso- nale sanitario che lavora quotidianamente a contat- to con agenti patogeni, rischio biologico. Nel caso dei fisioterapisti la questione è sensibilmen- te diversa, in quanto il rischio è prevalentemente correlato all’insorgenza di problematiche muscolo- scheletriche da overuse, a valenza solitamente croni- ca. Mi riferisco in partico- lar modo alle rachialgie, che vedono proprio nella popolazione dei fisioterapi- sti tra le maggiori inciden- ze, e alle patologie artico- lari da sovraccarico, spe- cialmente degli arti supe- riori. C’è una sufficiente consapevolezza tra i fisioterapisti del rischio del loro lavoro? Non sempre, purtroppo. Da diverse indagini effet- tuate è infatti emerso che una percentuale non tra- scurabile di fisioterapisti non aveva seguito di recente un corso di mobi- lizzazione manuale dei carichi aggiornato, e una porzione ancora maggiore, pur possedendo le adeguate competenze di ergonomia posturale, non le applica- va. Purtroppo però, la situazio- ne che più frequentemente si presentava sul lavoro era quella in cui il fisioterapi- sta, pur possedendo le ade- guate conoscenze in termi- ni di rischi lavorativi ed ergonomia posturale, non aveva la possibilità di applicarle. E questa è, sfor- tunatamente, una questio- ne abbastanza delicata, su cui però vorrei sollevare l’attenzione: in alcuni casi, infatti, non era il fisiotera- pista a “muoversi male”, per dirla in termini sempli- ci, ma erano le carenze strutturali del reparto in cui operava a metterlo in condizione di non poter fare altrimenti. Mi riferisco soprattutto a casi in cui non vi erano lettini ad altezza regolabile, o la ristrettezza degli spazi lavo- rativi non permetteva un’adeguata mobilità. In altri casi, invece, la limi- tante era il fattore tempo: ad esempio un trasferimen- to ausiliato richiede più tempo di uno fatto manualmente, e alcuni operatori dovevano lavora- re con i minuti contati. Non pochi fisioterapisti si trovavano nella sgradevole e ricattatoria condizione del “o ti sta bene così, o puoi trovare un altro lavo- ro”, in quanto adattamenti strutturali e ausili moderni costituiscono, chiaramen- te, una spesa per l’azienda. Quanto varia il rischio in funzione dell’approccio individuale nell’esercitare la fisioterapia? Dallo studio che abbiamo effettuato e dalla mia per- sonale esperienza, appros- simativamente per il 25%. Il rischio, nel lavoro del fisioterapista, fondamen- talmente è legato a due fat- tori: i fattori individuali e quelli strutturali del repar- to. Entrambi i fattori si possono distinguere in ele- menti modificabili e non modificabili. Per quanto riguarda i fatto- ri individuali, gli elementi non modificabili sono chiaramente l’età e l’altez- za del fisioterapista: fisiote- rapisti più anziani e di sta- tura più elevata sono mag- giormente soggetti a incor- rere in problematiche muscolo-scheletriche. Gli elementi modificabili sono invece le posture adottate, la competenza in termini di mobilizzazione manuale e ausiliata dei carichi. Un aspetto estremamente interessante emerso dallo studio è il fatto che, al variare delle condizioni lavorative, il livello di rischio legato alle posture assunte dallo stesso fisiote- rapista variava davvero di poco. È come se ciascun fisioterapista avesse un “imprinting” posturale pro- prio che, entro certi limiti, ripropone anche al variare delle situazioni. Non di minor importanza infine, tra i fattori modificabili, è anche la conoscenza nel- l’utilizzo di tecniche di autotrattamento: un esem- pio tipico sono gli esercizi della scuola McKenzie, che ha fatto delle posture pre- ventive e di autotratta- mento il proprio cavallo di battaglia. Per quanto riguarda invece i fattori strutturali, gli elementi modificabili sono quelli concernenti l’ausiliazione (lettini ad altezza regolabi- le, sollevatori, strumenti di trasferimento), mentre quelli non modificabili sono quelli dettati dagli spazi: ad esempio più sono angusti o con dislivelli e più costituiscono un sovraccarico funzionale per il lavoratore. È possibile standardizzare certi interventi in modo da minimizzare i rischi professionali? Difficile in effetti, ma vi sono comunque numerose accortezze che devono essere messe in atto per limitare i rischi. In primo luogo, è importante sotto- lineare che qualunque forma di mobilizzazione dei carichi deve sempre essere ausiliata, e solo in casi eccezionali può essere effettuata manualmente, e comunque in questi casi con l’aiuto di un’altra per- sona. Non devono assolutamen- te essere permesse forme di “ricatto” aziendale: la tute- la della salute dei lavorato- ri è una priorità fondamen- tale di qualunque paese civile, pertanto trovo sconcertante che in molti reparti si vedano ancora lettini ad altezza fissa, con terapisti totalmente flessi sul letto per fare terapia, e trasferimenti dei pazienti fatti “a spalla”. Nel caso di ambienti limitati, è chiaro che risulta molto difficile, se non impossibile, effet- tuare cambiamenti struttu- rali, ma è senz’altro vero che dev’essere applicata una logica di ottimizzazio- ne di utilizzo degli spazi. Per quanto concerne inve- ce il lavoratore, è fonda- mentale agire su tre fattori: informazione dei rischi, continuo aggiornamento in termini di mobilizzazio- ne manuale ed ergonomia posturale, tecniche di autotrattamento. In tal caso si può essere sicuri di aver fatto tutto per limita- re i potenziali rischi. Vi è da dire che, nella nostra professione, esiste purtroppo un “rischio di fondo” ineliminabile. Alcune manovre terapeu- tiche, specialmente l’assi- stenza e l’esecuzione di tec- niche di rieducazione neu- romotoria in pazienti affet- ti da ictus, esercitano comunque sollecitazioni sull’apparato muscolo- scheletrico di livelli non trascurabili. In questi casi, non è possibile eliminare il rischio implicito nell’eser- Quando a farsi male è il fisioterapista Necessaria un’attenzione maggiore alle patologie professionali, spesso originate da carenze delle strutturali dei reparti in cui si lavora. Ecco come valutarle e come prevenirle Filippo Zanella, fisioterapista libero professionista, docente di Mobilizzazione Manuale Carichi e moderatore nella sezione Ortopedia per il sito Fisionline.org, ha recentemente pubblicato uno studio che affronta il tema dei rischi nella professione del fisioterapista e propone uno strumento specifico per la valutazione del rischio da postura e da movimentazione carichi. È l’occasione per parlare di un problema sottovalutato. LO STUDIO DEL RISCHIO PROFESSIONALE Gli infortuni legati al lavoro nelle professioni sanitarie colpiscono circa 35.000 lavoratori all’anno (Fonte: Inail, Rapporto Annuale 2006) e il problema che più di frequente interessa questa categoria di lavoratori è la lombalgia. Tuttavia le problematiche non si riducono solo al rachide, ma interessano un ampio spettro di disturbi muscolo- scheletrici in generale, in particolar modo al cingolo scapolare e all’articolazione del ginocchio. Uno studio specifico sulla professione del fisioterapista Firmato da Filippo Zanella, Alessandra Amici e Paola Foschi - tre dottori fisioterapisti che svolgono la loro attività clinica e didattica prevalentemente in Emilia Romagna - lo studio si è posto l’obiettivo di elaborare la proposta di un nuovo metodo di valutazione del rischio lavorativo che sia specifico per la professione del fisioterapista e che tenga conto di tutti i parametri necessari non evidenziati dai metodi preesistenti. Nove fisioterapisti appartenenti a tre differenti reparti di degenza sono stati seguiti per un periodo di tre settimane, nelle quali è stata svolta un’indagine fotografica atta a individuare le posture assunte durante il lavoro. Dallo studio delle fotografie è stata creata una legenda di classificazione del rischio posturale. I fisioterapisti sono stati seguiti per ulteriori tre settimane, durante le quali, attraverso un’apposita scheda di valutazione, chiamata "Scheda RPM", sono stati misurati i livelli di rischio delle posture assunte. È stato inoltre effettuato uno studio interoperatore per una preliminare stima dell’affidabilità del metodo. Dall’analisi dei risultati è emerso che il rischio nella professione del fisioterapista è fortemente legato alla specificità del reparto, allo stile individuale di lavoro e alla formazione del lavoratore in merito al rischio e alla prevenzione dello stesso. Il confronto dei dati con quelli ottenuti dall’applicazione dell’indice MAPO ha prodotto risultati parzialmente diversi. Lo studio inter- operatore ha evidenziato una buona affidabilità del metodo di rilevazione. Lo studio, anche se limitato in termini quantitativi, ha permesso di sviluppare uno strumento di valutazione applicabile in modo specifico alla professione del fisioterapista. L’applicazione del nuovo metodo ha consentito di individuare alcuni punti di intervento per la riduzione dei livelli di rischio lavorativo. Inoltre, ha permesso di integrare e confrontare i dati con quelli ottenuti dall’applicazione dell’indice MAPO. Filippo Zanella, Alessandra Amici, Paola Foschi. Studio di uno strumento specifico per la valutazione del rischio da postura e da movimentazione carichi nella professione del fisioterapista. Scienza Riabilitativa Vol. 11 n° 1, pagg. 15-24.

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FOCUS ON9

Dottor Zanella, si puòaffermare che quella delfisioterapista è unaprofessione rischiosa?

In un certo senso sì, anchese ritengo sia necessariospecificare in quali termi-ni. Parlando di rischio lavora-tivo spesso viene da asso-ciare il rischio legato allapossibilità di eventi trau-matici o, nel caso di perso-nale sanitario che lavoraquotidianamente a contat-to con agenti patogeni,rischio biologico. Nel caso dei fisioterapistila questione è sensibilmen-te diversa, in quanto ilrischio è prevalentementecorrelato all’insorgenza diproblematiche muscolo-scheletriche da overuse, avalenza solitamente croni-ca. Mi riferisco in partico-lar modo alle rachialgie,che vedono proprio nellapopolazione dei fisioterapi-sti tra le maggiori inciden-ze, e alle patologie artico-lari da sovraccarico, spe-cialmente degli arti supe-riori.

C’è una sufficienteconsapevolezza tra ifisioterapisti del rischiodel loro lavoro?

Non sempre, purtroppo.Da diverse indagini effet-

tuate è infatti emerso cheuna percentuale non tra-scurabile di fisioterapistinon aveva seguito direcente un corso di mobi-lizzazione manuale deicarichi aggiornato, e unaporzione ancora maggiore,pur possedendo le adeguatecompetenze di ergonomiaposturale, non le applica-va. Purtroppo però, la situazio-ne che più frequentementesi presentava sul lavoro eraquella in cui il fisioterapi-sta, pur possedendo le ade-guate conoscenze in termi-ni di rischi lavorativi edergonomia posturale, nonaveva la possibilità diapplicarle. E questa è, sfor-tunatamente, una questio-ne abbastanza delicata, sucui però vorrei sollevarel’attenzione: in alcuni casi,infatti, non era il fisiotera-pista a “muoversi male”,per dirla in termini sempli-ci, ma erano le carenzestrutturali del reparto incui operava a metterlo incondizione di non poterfare altrimenti. Mi riferiscosoprattutto a casi in cuinon vi erano lettini adaltezza regolabile, o laristrettezza degli spazi lavo-rativi non permettevaun’adeguata mobilità. Inaltri casi, invece, la limi-tante era il fattore tempo:ad esempio un trasferimen-to ausiliato richiede più

tempo di uno fattomanualmente, e alcunioperatori dovevano lavora-re con i minuti contati.Non pochi fisioterapisti sitrovavano nella sgradevolee ricattatoria condizionedel “o ti sta bene così, opuoi trovare un altro lavo-ro”, in quanto adattamentistrutturali e ausili modernicostituiscono, chiaramen-te, una spesa per l’azienda.

Quanto varia il rischioin funzionedell’approccioindividualenell’esercitare lafisioterapia?

Dallo studio che abbiamoeffettuato e dalla mia per-sonale esperienza, appros-simativamente per il 25%. Il rischio, nel lavoro delfisioterapista, fondamen-talmente è legato a due fat-tori: i fattori individuali equelli strutturali del repar-to. Entrambi i fattori sipossono distinguere in ele-menti modificabili e nonmodificabili.Per quanto riguarda i fatto-ri individuali, gli elementinon modificabili sonochiaramente l’età e l’altez-za del fisioterapista: fisiote-rapisti più anziani e di sta-tura più elevata sono mag-giormente soggetti a incor-rere in problematichemuscolo-scheletriche. Glielementi modificabili sonoinvece le posture adottate,la competenza in terminidi mobilizzazione manualee ausiliata dei carichi. Un aspetto estremamenteinteressante emerso dallostudio è il fatto che, alvariare delle condizionilavorative, il livello dirischio legato alle postureassunte dallo stesso fisiote-rapista variava davvero dipoco. È come se ciascunfisioterapista avesse un“imprinting” posturale pro-prio che, entro certi limiti,ripropone anche al variaredelle situazioni. Non diminor importanza infine,tra i fattori modificabili, èanche la conoscenza nel-l’utilizzo di tecniche diautotrattamento: un esem-pio tipico sono gli esercizidella scuola McKenzie, cheha fatto delle posture pre-ventive e di autotratta-mento il proprio cavallo dibattaglia. Per quantoriguarda invece i fattoristrutturali, gli elementimodificabili sono quelliconcernenti l’ausiliazione(lettini ad altezza regolabi-le, sollevatori, strumenti di

trasferimento), mentrequelli non modificabilisono quelli dettati daglispazi: ad esempio più sonoangusti o con dislivelli epiù costituiscono unsovraccarico funzionale peril lavoratore.

È possibilestandardizzare certiinterventi in modo daminimizzare i rischiprofessionali?

Difficile in effetti, ma visono comunque numeroseaccortezze che devonoessere messe in atto perlimitare i rischi. In primoluogo, è importante sotto-lineare che qualunqueforma di mobilizzazione deicarichi deve sempre essereausiliata, e solo in casieccezionali può essereeffettuata manualmente, ecomunque in questi casicon l’aiuto di un’altra per-sona. Non devono assolutamen-te essere permesse forme di“ricatto” aziendale: la tute-la della salute dei lavorato-ri è una priorità fondamen-tale di qualunque paesecivile, pertanto trovosconcertante che in moltireparti si vedano ancoralettini ad altezza fissa, conterapisti totalmente flessisul letto per fare terapia, etrasferimenti dei pazientifatti “a spalla”. Nel caso diambienti limitati, è chiaroche risulta molto difficile,se non impossibile, effet-tuare cambiamenti struttu-rali, ma è senz’altro veroche dev’essere applicatauna logica di ottimizzazio-ne di utilizzo degli spazi. Per quanto concerne inve-ce il lavoratore, è fonda-mentale agire su tre fattori:informazione dei rischi,continuo aggiornamentoin termini di mobilizzazio-ne manuale ed ergonomiaposturale, tecniche diautotrattamento. In talcaso si può essere sicuri diaver fatto tutto per limita-re i potenziali rischi. Vi è da dire che, nellanostra professione, esistepurtroppo un “rischio difondo” ineliminabile.Alcune manovre terapeu-tiche, specialmente l’assi-stenza e l’esecuzione di tec-niche di rieducazione neu-romotoria in pazienti affet-ti da ictus, esercitanocomunque sollecitazionisull’apparato muscolo-scheletrico di livelli nontrascurabili. In questi casi,non è possibile eliminare ilrischio implicito nell’eser-

Quando a farsi male è il fisioterapistaNecessaria un’attenzione maggiore alle patologie professionali, spesso originate da carenze delle strutturali dei reparti in cui si lavora.Ecco come valutarle e come prevenirle

Filippo Zanella, fisioterapista liberoprofessionista, docente di MobilizzazioneManuale Carichi e moderatore nella sezioneOrtopedia per il sito Fisionline.org, harecentemente pubblicato uno studio che affrontail tema dei rischi nella professione delfisioterapista e propone uno strumento specificoper la valutazione del rischio da postura e damovimentazione carichi. È l’occasione perparlare di un problema sottovalutato.

LO STUDIO DEL RISCHIOPROFESSIONALE

Gli infortuni legati al lavoro nelle professionisanitarie colpiscono circa 35.000 lavoratoriall’anno (Fonte: Inail, Rapporto Annuale 2006) e ilproblema che più di frequente interessa questacategoria di lavoratori è la lombalgia. Tuttavia leproblematiche non si riducono solo al rachide, mainteressano un ampio spettro di disturbi muscolo-scheletrici in generale, in particolar modo alcingolo scapolare e all’articolazione delginocchio.

Uno studio specifico sulla professione del fisioterapistaFirmato da Filippo Zanella, Alessandra Amici ePaola Foschi - tre dottori fisioterapisti che svolgonola loro attività clinica e didattica prevalentementein Emilia Romagna - lo studio si è posto l’obiettivodi elaborare la proposta di un nuovo metodo divalutazione del rischio lavorativo che sia specificoper la professione del fisioterapista e che tengaconto di tutti i parametri necessari non evidenziatidai metodi preesistenti.Nove fisioterapisti appartenenti a tre differentireparti di degenza sono stati seguiti per unperiodo di tre settimane, nelle quali è stata svoltaun’indagine fotografica atta a individuare leposture assunte durante il lavoro. Dallo studiodelle fotografie è stata creata una legenda diclassificazione del rischio posturale. I fisioterapistisono stati seguiti per ulteriori tre settimane,durante le quali, attraverso un’apposita scheda divalutazione, chiamata "Scheda RPM", sono statimisurati i livelli di rischio delle posture assunte. Èstato inoltre effettuato uno studio interoperatoreper una preliminare stima dell’affidabilità delmetodo.Dall’analisi dei risultati è emerso che ilrischio nella professione del fisioterapistaè fortemente legato alla specificità delreparto, allo stile individuale di lavoro ealla formazione del lavoratore in meritoal rischio e alla prevenzione dello stesso. Il confronto dei dati con quelli ottenutidall’applicazione dell’indice MAPO ha prodottorisultati parzialmente diversi. Lo studio inter-operatore ha evidenziato una buona affidabilitàdel metodo di rilevazione. Lo studio, anche selimitato in termini quantitativi, ha permesso disviluppare uno strumento di valutazioneapplicabile in modo specifico alla professione delfisioterapista. L’applicazione del nuovo metodo haconsentito di individuare alcuni punti di interventoper la riduzione dei livelli di rischio lavorativo.Inoltre, ha permesso di integrare e confrontare idati con quelli ottenuti dall’applicazionedell’indice MAPO.

Filippo Zanella, Alessandra Amici, Paola Foschi.Studio di uno strumento specifico per lavalutazione del rischio da postura e damovimentazione carichi nella professione delfisioterapista. Scienza Riabilitativa Vol. 11 n° 1,pagg. 15-24.

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FOCUS ON 10

cizio terapeutico, perchésignificherebbe limitarnela sua efficacia; la soluzio-ne migliore è pertantoquella di alternare i carichidi lavoro con dei sufficien-ti tempi di recupero. Anche per la tutela delpaziente, non è ammissibi-le una mentalità lavorativaa “catena di montaggio”.

A suo avviso, c’èabbastanza attenzione aquesto tipo diproblematiche neiprogrammi diformazioneprofessionale? Cosa sipotrebbe fare inproposito?

No, purtroppo. A volte percolpa del fisioterapistastesso, che in certi casi haperso lo stimolo e lavolontà di migliorare lapropria professionalità, manella maggior parte dei casisi tratta di una scelta azien-dale: è risaputo che l’infor-mazione e la conoscenzacreano problemi. Le sem-brerà incredibile, ma unavolta, nel preparare uncorso di formazione sullasicurezza nel lavoro in unastruttura privata, mi erastato chiesto, in modonemmeno tanto velato, diomettere alcune informa-zioni che avrebbero potuto“sollevare problemi”.Pazzesco, non trova? L’informazione è la chiavefondamentale: purtroppoun fisioterapista disinfor-mato e da solo può fare benpoco, ma un gruppo di ope-ratori unito e informato hadavvero il potere di miglio-rare la qualità del propriolavoro.

Cos’altro si può fare perridurre questi rischi?

Adeguata tutela dei dirittidei lavoratori, informazioneaggiornata sulla legislazio-ne, formazione professiona-le continua con corsi eworkshop, periodici gruppidi confronto tra gli operato-ri: queste sono le chiavi perl’abbattimento dei rischi.Quando parlo di formazio-ne continua, intendo direcostante e, soprattutto,aggiornata, non il sempliceminimo sindacale per l’ot-

tenimento dei crediti.Sembra incredibile, ma visono ancora tanti “formato-ri”, o presunti tali, che con-tinuano a riproporre, cometecniche di autotrattamen-to per la lombalgia, esercizidi rinforzo addominale. Emi riferisco a medici docen-ti, non semplici diplomatiIsef di 20 anni fa. Infine, è necessario adotta-re un adeguato indice divalutazione dei rischi, eche sia specifico per la pro-fessione del fisioterapista.Prima del presente studio,non esistevano infatti stru-menti validi per determi-nare i livelli di rischio, masi utilizzavano altri sistemidi valutazione, indubbia-mente efficaci, ma inappli-cabili a un lavoro comequello del fisioterapista.

Lo studio ha prodottodelle conseguenzespecifiche - riscontri daparte degli studiosi ecambiamenti nei metodidi lavoro?

Fortunatamente sì. Oltreall’interessamento da partedel gruppo di ErgonomiaPostura e Movimento diMilano e all’applicazionedell’indice per una tesidiscussa da una collega diGenova, fattori tutt’altroche trascurabili, la soddi-sfazione maggiore è stataproprio quella di osservaredei tangibili cambiamentinelle strutture in cui èstata svolta l’indagine.Sembra banale, ma i lavo-ratori hanno acquisito unamaggiore consapevolezza,anche e soprattutto deipropri diritti, ed è statofatto dalle aziende quantonecessario per abbattere irischi inutili. Vorrei ricordare infatti cherischi minori significanoanche minori spese eassenze per malattia, e unmiglioramento della qua-lità del lavoro. Non è uncaso che, nei reparti esami-nati, i lettini ad altezzafissa siano stati sostituiticon quelli ad altezza rego-labile, e i sollevatori abbia-no smesso di essere deisemplici occupa-spazionella stanza a fondo cor-sia…

Renato Torlaschi

Dottor Cavuoto, su qualiprincipi si basal'idrokinesiterapia?

L’idrokinesiterapia preve-de la conoscenza delleleggi fisiche dell’acqua, deiprincipi neuromotori chepossono rapportarsiall’ambiente microgravita-rio e alle caratteristichebiomeccaniche e neuro-muscolari patologiche deicorpi in immersione.Occorre conoscere lecaratteristiche del movi-mento sotto l’effetto dellaspinta idrostatica, frenatodalla resistenza idrodina-mica, facilitato dall’inerziache si produce sulla super-ficie, oppure sotto l’effettodelle turbolenze e pertur-bazioni che tendono adestabilizzare alcune posi-zioni assunte in acqua. In particolare, ricordo cheè perfettamente inutile farlavorare i pazienti con pesi(poiché in acqua è possibi-le ridurre la gravità) oriprodurre semplicementeschemi o esercizi di meto-diche che vengono nor-malmente seguite a secco.

Quali vantaggi puòoffrire rispetto ad altriapprocci riabilitativi?

Per le patologie che com-portano una forte invali-dità (emiplegia, lesionimidollari, sclerosi multi-pla, tetraparesi e diparesispastiche, distrofie musco-lari, ecc.) lavorare inacqua significa superaremolte barriere psicologi-che, mentali e architetto-

niche, poiché tutti primadi entrare in vasca dovran-no confrontarsi con l’am-biente esterno, fatto dispogliatoi, vestizione, pas-saggi posturali, cura dellapersona, tutto ciò che defi-nisco “logistica in relazio-ne alle persone e agliambienti”. In traumatologia o negliesiti di intervento chirur-gico (protrusioni discali,interventi a colonna, spal-la, ginocchio, caviglia,etc.) si riducono notevol-mente i tempi di recuperofunzionale, viene ben tol-lerato il dolore articolare emuscolare, anche se spessol’idrokinesiterapia va inte-grata con le tecniche usatea secco, come verifica dirisultati o di potenzialimotori.Un altro aspetto di note-vole importanza, riguardal’idrokinesiterapia comestrumento di supporto perla riconquista delle auto-nomie, argomento chetutte le persone con diver-sa abilità condividono.

Ci spieghi meglioquesto concetto

La rieducazione in acqua,in particolare il MetodoASP, non conosce la “ria-bilitazione che perpetua sestessa”, poiché ha comeprimario obiettivo quellodi rinforzare le autonomieresidue, di abbattere ogniforma di assistenzialismoche toglie dignità a qual-siasi persona in grado dipoter sfruttare al meglio leproprie capacità.

La valida opzionedell'idrokinesiterapia Attraverso gli esperti dell’Associazione Anik vi presentiamoi numerosi vantaggi di questo approccio riabilitativo

L’Associazione Nazionale Idrokinesiterapisti(Anik) da 14 anni collabora con molti entipubblici e privati, proponendo il proprio metododetto ASP (Approccio Sequenziale ePropedeutico) ideato dai fisioterapisti FulvioCavuoto e Marco Antonio Mangiarotti, in gradodi affrontare con competenza tutti i principaliesiti di patologie di origine neurologica,psicomotoria, ortopedico-traumatologica evascolare. Per conoscere meglio le specificità di questametodica riabilitativa, ci siamo rivoltidirettamente al dottor Cavuoto, Presidentedell’Associazione. "L’idrokinesiterapia, ossia lariabilitazione in acqua, è trasversale - è unsetting terapeutico - e quasi tutte le patologiepossono trarne beneficio, da quelle dell’adultocon problemi neurologici, ortopedici otraumatologici, a quelle che si manifestanonell’anziano, nello sportivo, nel bambino - ci haspiegato Cavuto -. La riabilitazione in acqua,nell’ambito delle indicazioni terapeutiche, èsempre più spesso considerata grazie alrinnovato interesse da parte degli operatori dellariabilitazione e alla reale possibilità diottimizzare potenzialità motorie residue oraggiungere risultati altrimenti inaspettati".

Qui sopra, il dottor Fulvio Cavuoto impegnatoin una sessione di riabilitazione in acqua.Sul sito dell’Associazione NazionaleIdrokinesiterapisti (Anik) www.anik.it, numerosi contributi scientifici sulle tecniche riabilitative e anche un programma di corsi, già frequentato da oltre 1.400 fisioterapisti sparsi su tutto il territorio nazionale e operanti sia in ambito pubblico che privato.