quaderno di storia contemporanea 44

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QUADERNO DI STORIA CONTEMPORANEA QSC 44 2008 Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria www.isral.it Barberis, Bergaglio, Borioli, Carrara Sutour, Carcione, Carrega, Della Porta, Livraghi, Nespolo,Piazza, Quaglia, Quirico

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Rivista dell'Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea in provincia di Alessandria

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QUADERNODI STORIA

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QSC442008

Istituto per la storia della resistenza e della società contemporaneain provincia di Alessandria

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Barberis, Bergaglio, Borioli, Carrara Sutour, Carcione,

Carrega, Della Porta, Livraghi, Nespolo,Piazza,

Quaglia, Quirico

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RedazioneGiorgio Barberis, Giorgio Canestri, Franco Castelli, Graziella Gaballo,Cesare Manganelli, Fabrizio Meni, Daniela Muraca, Renzo Ronconi

Federico Trocini, Luciana Ziruolo

Quaderno di storia contemporaneasemestrale dell’Istituto per la storia della resistenza e

della società contemporanea in provincia di Alessandria

Direttore Laurana LajoloDirettore responsabile Maurilio GuascoSegretario di redazione Cesare Panizza

Anno XXXI, numero 44 della nuova serieRegistrazione del Tribunale di AlessandriaVia dei Guasco 49, 15100 Alessandriatel. 0131.44.38.61, fax 0131.44.46.07

e-mail: [email protected]

Abbonamento a due numeri € 18,00ccp: 26200998 intestato a Istituto per la storia della resistenzae della società contemporanea in provincia di Alessandria

Per informazioni ISRAL: tel. 0131.44.38.61, e-mail: [email protected]

Realizzato con il contributodella Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria

© Edizioni Falsopiano - 2008via Baggiolini, 3

15100 - ALESSANDRIAhttp://www.falsopiano.com

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Laurana Lajolo, Questo numero

STUDI E RICERCHE

Mosè Carrara Sutour, Multicultura, antiziganismo e rappresentati-vità dei mondi rom

Fabrizio Quaglia, Le “Rane” nel Tempio. Vita quotidiana e contrastireligiosi nella Comunità Israelitica di Alessandria nell’etàdell’Emancipazione

Stefano Quirico, Il modello organizzativo delle Brigate rosse in unaprospettiva comparata

NOTE E DISCUSSIONI

A cura di Cesare Panizza, Grandi opere e protesta: sindrome diNimby o riappropriazione della politica? Intervista a Donatella DellaPorta e Gianni Piazza

Daniele Borioli, Alessandria provincia logistica

Paolo Carrega,Gli archivi di fronte alle trasformazioni di internet:alcune riflessioni

PREMIO “CARLO GILARDENGHI”

Cecilia Bergaglio, A scuola nel PCI: dottrina comunista e mitodell’Unione Sovietica. Il caso di Novi Ligure nelle carte di FrancoInverardi

ARCHIVI, FONTI E DOCUMENTI

Roberto Livraghi, Biblioteca civica e sistema museale: le riaperture delbiennio 2006-2007

Guido Barberis, Massimo Carcione, La costituzione dell’IstitutoStorico della Resistenza di Alessandria (1975-77) nei documenti dell’ar-chivio provinciale

IN MEMORIA

Carla Nespolo, Per Guido Barberis

Guido Barberis, Vittorio Guido

RECENSIONI E SEGNALAZIONI -JUDAICA

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Laurana Lajolo

I due saggi che aprono la rivista offrono, attraverso lo studiodi tematiche diverse come i rom e la comunità ebraica alessan-drina, indicazioni molto interessanti per valutare i nostri sistemidi convivenza con le minoranze e il rispetto delle differenze cul-turali ed etniche, così rilevanti oggi, quando qualche forza poli-tica vuole rinchiuderci in gretti schemi identitari ormai superatidai processi migratori, mentre le elezioni democratiche hannoportato alla Casa bianca una personalità come Barak HusseinObama a riconoscimento che l’incontro tra etnie e culture diver-se ricompone l’unità di un Paese vitale al livello rappresentativopiù alto.

Il primo saggio, Multicultura, antiziganismo e rappresentatività deimondi rom di Mosè Carrara Soutur propone, partendo dal caso del-l’antiziganismo, un’interessante e originale riflessione sulle logi-che che informano la creazione dei soggetti giuridici portatori didiritti, al di fuori di pregiudizi e stereotipi. Gli zingari sono, infat-ti, storicamente “fuori luogo” rispetto alle nostre classificazioni edelaborazioni teoriche, in quanto costituiscono il paradosso di unanazione senza territorio e cosmopolita. Soutur arriva alla conclu-sione che la tradizionale considerazione dei popoli nomadi è, inultima istanza, una giustificazione ideologica di meri rapporti diforza tra i nomadi e gli stanziali (“gage”). Rovescia, cioè, l’anticovizio etnocentrico considerandolo una trappola in cui talvoltasono incorse anche le scienze sociali e che ispira ancora le poli-tiche con cui alcuni stati europei promuovono imperfettamente erigidamente l’integrazione sociale dei rom, senza rispettare la lorostoria e la loro visione del mondo.

Fabrizio Quaglia, nel saggio Le “Rane” nel Tempio. Vita quotidiana econtrasti religiosi nella Comunità Israelitica di Alessandria nell’età

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dell’Emancipazione, rimanda a un momento storicamente critico nellastoria dell’ebraismo piemontese e anche italiano, ossia i decenniimmediatamente successivi all’emanazione dello Statuto alberti-no, che ha proclamato l’emancipazione degli ebrei. Quaglia rico-struisce i contrasti relativi alla nuova Sinagoga di Alessandria e levicende della lunga vacanza della sede rabbinica alessandrinacome segnali eloquenti di un conflitto all’interno della Comunitàebraica tra chi considerava l’emancipazione come un riscattodalla ghettizzazione, accettando la trasformazione della societàpiemontese e aderendo ai nuovi valori nazionali, e chi si trince-rava su posizioni isolazioniste e conservatrici, giudicando l’inte-grazione come una minaccia all’integrità e all’identità dellacomunità.

Il terzo saggio, Il modello organizzativo delle Brigate rosse in una pro-spettiva comparata di Stefano Quirico, continua la riflessione che ilQuaderno ha avviato sugli anni Settanta e Ottanta nei numeri pre-cedenti, il n. 40, Storie di genere, sui femminismi e il n. 42, DalMillenovecdento77, sui movimenti politici. Quirico concentra la suaattenzione sulle strutture organizzative del movimento terrorista,comparandole con altri gruppi armati dell’estrema sinistra.Traccia un’accurata descrizione dell’organizzazione e, pur colle-gando l’ideologia brigatista alla tradizione marxista-leninista,mette in evidenza gli elementi di eterogeneità rispetto alla strate-gia politica della sinistra, alle gerarchie interne e soprattutto allafunzione insurrezionale della violenza. Quirico, inoltre, confron-ta l’esperienza brigatista con altre esperienze di lotta armata pre-cedenti o contemporanee: dalla Resistenza italiana ai gruppiguerriglieri dell’America Latina alla RAF tedesca, e arriva alla con-clusione che l’esperienza delle BR è caratterizzata dall’irrigidimen-to ideologico e dal parossismo burocratico, assai più pronunciatirispetto ad altri gruppi armati come Prima Linea, dove veniva alcontrario enfatizzato un approccio libertario e spontaneistico. E ilruolo subordinato delle donne nelle BR, proprio negli anni in cuisi sviluppano i movimenti femministi, può divenire uno degliindicatori per comprendere il loro progressivo isolamento dalcorpo sociale.

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Nella sezione NOTE E DISCUSSIONI vengono affrontati i temi del-l’ambiente, delle infrastrutture e delle piattaforme logistiche, cheinteressano l’intera nostra regione. Cesare Panizza ha intervistatoDonatella Della Porta e Gianni Piazza, studiosi dei movimentiambientalisti e autori di una ricerca sulla protesta contro la TAV inValle Susa e contro il Ponte sullo Stretto di Messina. I due studiosinel dare la complessità sociale di questi movimenti, sottolineanola loro struttura reticolare, composta da comitati spontanei di cit-tadini, da associazioni e gruppi di interesse, da centri sociali, maanche da amministrazioni locali e sindacati. Quei movimenti sonotroppo spesso etichettati con modalità superficiali e approssima-tive che non riescono a cogliere la grande novità del metodo con-sensuale della democrazia deliberativa (cosa diversa dal metodoassembleare degli anni passati).

L’assessore regionale ai Trasporti Daniele Borioli presenta lagrande e articolata piattaforma della logistica in provincia diAlessandria come retroporto di Genova e nodo di scambio traMediterraneo e Europa, evidenziando che la scelta del territorioalessandrino è stata dettata dalla sua collocazione geografica bari-centrica rispetto ai principali e tradizionali poli di sviluppo eco-nomico e finanziario. Lo scopo è quello di far emergere la pro-vincia, dopo la de-industrializzazione, la delocalizzazione e lapost-industrializzazione, da una condizione economica periferica.Il punto di forza è la rete di infrastrutture già esistente con poten-zialità capace di grande sviluppo. L’assessore non si nascondel’impatto ambientale del progetto del grande centro logistico, masottolinea come il progetto del cosiddetto Terzo valico possaattuare l’ammodernamento delle linee ferroviarie, proiettando inuna dimensione europea l’intera provincia.

I due contributi offrono, dunque, un’occasione di confrontotra concezioni e prospettive di modernizzazione e di sviluppoche interessano direttamente non solo il territorio provinciale, maquello regionale e nazionale.

La sezione si chiude con una riflessione di Paolo Carrega,archivista-bibliotecario dell’Istituto, che prospetta le attuali lineeevolutive della consultazione degli archivi storici direttamente on-

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line con l’applicazione di tecnologie informatiche sempre piùavanzate. Inoltre, affaccia in modo problematico alcune riflessio-ni sui nuovi compiti a cui è chiamato l’archivio di un istituto distoria contemporanea di fronte all’emergere di un’inedita doman-da da parte di singoli cittadini, che consultano gli archivi per rico-struire la propria storia famigliare secondo un bisogno di identitàdi singole soggettività e di piccoli nuclei.

In FONTI, ARCHIVI E DOCUMENTI, viene pubblicata la sintesi del-l’iter amministrativo della nascita dell’ISRAL ricostruita da GuidoBarberis e da Massimo Carcione in occasione del trentennaledell’Istituto.

Roberto Livraghi riflette sulla recente stagione di rilancio delleistituzioni culturali della città: dalla riapertura della Bibliotecacivica e delle nuove Sale d’arte alla Pinacoteca al riallestimentodel Museo del cappello Borsalino e del Teatro delle Scienze.

Cecilia Bergaglio ha vinto l’edizione di quest’anno del PremioGilardenghi con un lavoro condotto sulle carte personali diFranco Inverardi, partigiano, dirigente del PCI e amministratorecomunale di Novi Ligure. Ne ricostruisce la biografia politica con-nessa ad aspetti della vita locale del partito. Assume la persisten-za del mito dell’Unione Sovietica come connotante dell’identitàideologica comunista e addirittura come chiave di lettura dell’ar-ticolazione delle vicende politiche e amministrative.

Per il 2009 la redazione della rivista ha deciso di modificare lanatura del premio Gilardenghi, trasformandolo in incarichi diret-ti a giovani ricercatori per indagini finalizzate ad approfondire lastoria del movimento operaio e sindacale alessandrino.

In conclusione abbiamo voluto ricordare Guido Barberis, unapersonalità che è stata preziosa per l’Istituto, pubblicando il suoultimo scritto, il profilo biografico di Vittorio Guido e l’orazionedi commiato di Carla Nespolo.

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Multicultura, antiziganismoe rappresentatività dei mondi rom

Mosè Carrara Sutour

Le riflessioni che seguono nascono da alcuni interrogativi ine-renti la presenza zingara in Europa e le logiche che informano lacreazione di soggetti giuridici collettivi a base comunitaria.Parlare dei rom significa confrontare rappresentazioni “etiche”,ossia i modi in cui essi sono stati e sono pensati, con aspetti dellaloro realtà sociale, talvolta – e non a caso – poco visibili. La pro-spettiva adottata si propone come una rilettura critica di certeposizioni ideologiche, inerenti al dibattito sul multiculturalismo,alla luce dell’affermazione dei rom nella società dei “gage” (ossiatutti coloro che i rom non riconoscono come tali). In un clima dipersistente antiziganismo, è necessario domandarsi quali sono lecause profonde della distanza che separa le dinamiche della loroesperienza da una effettiva rappresentatività nell’esercizio di queifondamentali diritti che appositi strumenti di diritto internaziona-le vorrebbero (o dovrebbero) loro assicurare. A tal fine, l’espe-rienza “romaní” costituirà un prisma di lettura idoneo a rivelarele faglie delle politiche sociali che disciplinano su piani separatila vita dei rom e dei “gage”.

Gli strateghi della società plurale e la ratio della squadra.

Un punto fermo della presente analisi consiste nel criticarequelle visioni del reale che, basate sulla volontà di conferire almondo un ordine geometrico, servono da schermo agli effettivi

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rapporti di forza strutturanti il contesto entro il quale si muovonogli attori sociali.

Da circa quattro decenni (la parola “multiculturalismo” com-pare in Canada a metà degli anni Sessanta ma, ancora all’iniziodegli anni Ottanta, il suo utilizzo non conosce la fortuna incon-trata in seguito) sono poste le premesse per un dibattito sul plu-ralismo culturale, sul carattere “a mosaico” delle società contem-poranee: popolate da gruppi eterogenei, esse sono teatro di par-ticolarismi, immigrazioni, diaspore... La messa in scena dellediversità fa della cultura un dispositivo aperto alle rivendicazionidi appartenenza a insiemi “altri” in base alla lingua, alla religio-ne, alla regione di provenienza, all’origine nazionale o etnica, algenere, all’attività esercitata (criteri eventualmente cumulativi).Ciò ha determinato nelle scienze sociali, specie in Nordamerica ea metà degli anni Ottanta, un proliferare di specializzazioni desti-nate ognuna ad occuparsi di un “frammento” di quella proteifor-mità culturale (pensiamo agli Indian-, Black-, Women- studies e allaallora corrente tendenza a tradurre i rapporti di assoggettamentoin traumi della psiche).

Queste tendenze, all’incontro con le letture globalizzanti del-l’universo sociale, producono l’idea dell’ingresso in un’epoca sto-rica ulteriore e assolutamente nuova: ci si scopre multiculturalinella misura in cui, cadute le frontiere, si attraversa in temporeale una miriade di frammenti, le ceneri del vecchio ordine. La“rivoluzione” globale sarebbe allora l’effetto (ultimo, nei casi incui si parla del futuro in termini apocalittici) del disgregarsi di cul-ture un tempo stabili e fondate su tradizioni oggi estinte o in attodi subire i traumi dello shock tecnologico. L’insistenza, diffusa invari ambiti di pensiero e a varie latitudini, sulla scomparsa delleunità tradizionali a base comunitaria che, nel passato recente,costellavano il corpo sociale (le costellazioni si vedono in quan-to hanno un tracciato compiuto), pare dimenticare la mobilità deigruppi, il loro farsi e disfarsi. Storicamente (quindi sempre entroi contesti specifici di osservazione e per periodi) sarà possibileseguirne il cammino, la loro natura processuale e permeabile allerelazioni 1. Queste provocano un effetto di addensamento tale da

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creare microuniversi di significati: solo in coerenza con essi i mar-catori dell’identità possono acquisire un senso, il quale si pie-gherà a continui slittamenti semantici. Come tali, queste retimutano incessantemente, spostando i confini dei vari campi dirapporti in cui gli individui sono inseriti. L’impiego di macrosca-le storico-geografiche è essenziale per lo studio della costruzioneidentitaria e delle dinamiche dei gruppi, in quanto rivela la loromobilità durante le fasi storiche di compressione/dispersione lacui periodicità non può essere ridotta a leggi meccaniche 2. Sipossono studiare i cambiamenti sociali prodottisi in Egitto enell’Asia Minore durante l’ellenismo, le conseguenze della finedella Guerra fredda ed i fenomeni di decolonizzazione, l’espan-sione dell’Impero romano, così come le trasformazioni identitarieprovocate dalla diffusione dell’Islam nell’Africa del secolo X...Tutti questi fenomeni furono, in forma propria, globalizzazioni 3.

I rom 4 sono “globali” non perché, etichettati come “zingari”, sitrovino in quasi tutte le contrade del mondo, ma in quanto cono-scono e hanno vissuto, per secolare esperienza diretta, realtàquali la schiavitù, l’emarginazione, gli spostamenti coatti e le reta-te, i passaggi di frontiera e di stato civile, il diniego di cittadi-nanza, la deportazione, lo sterminio (il Samudaripen 5 costato circamezzo milione di vite). Ad esempio, alcuni di loro si sono trova-ti a varcare, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, i confinidei territori nei quali per cinque secoli erano stati asserviti e aemigrare verso l’Europa, la Russia, le Americhe. All’elevata mobi-lità fisica, a dimensione transnazionale, corrisponde quella deireferenti identitari tra un gruppo e l’altro: la frequenza storica concui essi cambieranno nome è atta a confutare ogni tentativo diuna loro essenzializzazione (ad esempio, l’ergonimo “kalderash”non ha più di un secolo e mezzo e i rom toscani non si chiama-no più da tempo šinte rosengre) 6. Se i rom non sentono la necessitàdi constatare le dinamiche pluraliste è perché esse appartengonoalla loro esperienza vissuta. Lasciamo il gusto della “scoperta” agliimpresari della cultura.

Invero, è la natura di ciò che si trasforma a porre problemi, inquanto l’aprioristica entificazione delle unità sociali avviene in

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base a uno o più referenti coesivi, come la comune discendenza,il vincolo territoriale, la diversità fisica o psichica. L’attitudine aerigere confini deriva dalle modalità di conoscenza proprie di unsoggetto politico: l’atto del discernere che lo connota è alla basedei tentativi di ordinamento del mondo. Questo aspira al con-trollo della realtà empirica riducendola a un quadro normativo,ossia formulando regole che la ri-producano. Chiameremo que-sta attitudine “ratio della squadra”. Ricorriamo a tale metafora inquanto la squadra (che il latino medievale traduceva con norma,anche per indicare la costellazione del Regolo), identifica queldispositivo che consente al potere di ordinare creando gerarchiee, in uno, semplificare i contesti reali entro i quali opera e di cui èparte. È la logica delle superpotenze che, assistite dalla ragioneetnografica 7, si spartirono le colonie africane e che oggi impon-gono a quegli stessi paesi condizioni nuove, dettate dall’ideolo-gia della crescita economica, per uscire dal sottosviluppo e daldebito con i paesi ricchi, situazioni di cui i “riformatori” sonodiretti responsabili; è, ancora, la logica del principio di naziona-lità, dei quartieri-ghetto, dei “campi” (per raggruppare i nomadi,per confinare gli stranieri, per eliminare i criminali e gli apolidi).Così come avvenne per l’ideologia dello stato-nazione nel XIXsecolo 8, le tessere policrome del multiculturalismo si sono rivela-te quando erano storicamente buone da pensare.

Il pluralismo secante delle politiche governative anglosassonie la cittadinanza astratta propugnata dall’universalismo dellaFrance toucouleur sono, entrambi, prodotti “manichei” dell’etica dellasquadra, ancorché si presentino come tentativi (falliti) di vincerela sfida democratica della libertà tra eguali. Le azioni positive (oaffirmative actions), istituite a tutela delle minoranze, sono state det-tate da esigenze equitative di uguaglianza sostanziale, ma i lorocriteri giuridici di ascrizione hanno sollevato questioni di legitti-mità costituzionale 9 e favorito la formazione, entro un sistemaclassista e culturalmente separatista come quello statunitense –ma non solo – , di una minoranza afroamericana privilegiatarispetto alla popolazione maggioritaria di quella comunità. InFrancia 10 sopravvive, come attestano anche i recentissimi fatti di

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cronaca 11, il nazional-populismo proprio del modello repubblica-no d’integrazione, il quale costituisce “una forma transitoria diconciliazione immaginaria della cultura e dello sviluppo […]. Essoreca la promessa di un ravvicinamento del popolo e del potere,autorizza l’inverosimile: la speranza di incarnare il passato, la tra-dizione, la nazione partecipando pienamente […] a una moder-nizzazione tesa verso l’avvenire” 12. M. Wieviorka lo include tra iprocessi di “fusione del senso”, risultanti dall’amalgama di signi-ficati eterogenei e contraddittori 13. Si tratta, in altre parole, di stra-tegie del linguaggio politico in grado di giocare con le rappre-sentazioni, quindi di influenzare le logiche sociali di appartenen-za. La carica psicologica di attrazione esercitata sui governati,all’incontro con le loro aspirazioni (e le frustrazioni) identitarie,può produrre quell’efficacia simbolica capace di legittimareun’autorità con il suo ordinamento giuridico e la libertà d’azioneche ne deriva. È difficile che un discorso centrato su un giocoemotivo e astratto di immagini arrivi a vedere nel pluralismo ilsegno della cultura; pertanto, le politiche sociali che ne derivanosi muoveranno (e, di fatto, si muovono) al di fuori di un realeconfronto, di un compromesso fondato sulla conoscenza, neldeserto dell’ignoranza e della peggiore discriminazione.Fenomeni come l’autoctonia e le sue derive strumentali (pensia-mo ai fatti del Rwanda), la balcanizzazione, le rivendicazioni “diceppo” sono esempi di reificazioni “a distanza”, incommensura-bili nel nascere e suscettibili di appropriazione da parte dei grup-pi che le subirono.

Con la loro storia, i rom sono rivelatori delle “politiche dellasquadra”, essendosi mossi contro di esse – lo vedremo – secon-do strategie alternative rispetto a quelle suaccennate e ciò, spes-so, a costo della vita. Se anch’essi avessero adottato le stesse logi-che dei paesi che li perseguitarono, difficilmente esisterebbe oggiuna “dimensione romaní” (limitatamente ai rapporti esterni con icentri di potere dei “gage”, potrebbe parlarsi di una lezione dianarchia politica). I discorsi sui popoli e le minoranze a rischiotoccano anche i rom, etnicizzati, e fanno pensare alle campagneanimaliste contro l’estinzione di specie protette in quanto rare,

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benché le politiche di esclusione agiscano in modo più sottile.Diremo che il “rischio” è proporzionale alla mancanza di elementistabili atti a inquadrare il gruppo sociale, mancanza che i romhanno dimostrato di saper gestire e “riempire”, in quanto pietraangolare delle loro resistenze pacifiche.

Gli stati dell’Europa moderna, che oggi dimorano i fonda-mentali soggetti del diritto internazionale, hanno operato, da unlato, una costrizione spaziale sui soggetti rientranti sotto la lorogiurisdizione: entro i confini i membri e fuori gli stranieri di pas-saggio (per antonomasia, gli zingari); dall’altro, un dominio sullepopolazioni asservite spogliandole del proprio passato (è lo “zerostorico” della ragione etnografica coloniale). Se è vero che i miti,reali strumenti di controllo che iscrivono gli uomini in uno spa-zio atemporale, possono essere fonti del diritto 14, allora le logi-che di cui si discute sono portatrici dei miti sull’alterità che con-notarono (e, mutatis mutandis, seguitano a farlo) l’esperienza giuri-dica delle nostre società. Occuparsi degli “altri” a partire dall’im-magine che ci si costruisce di loro è un atto squisitamente politi-co e a ciò dovrebbero prestare maggior attenzione tutti coloroche propugnano l’obbiettività delle scienze sociali: la presenzadell’osservatore sul campo non ha nulla di neutro.

I miti di conquista e quelli, più recenti, degli “aiuti” allo svi-luppo sono stati i generatori di “isolati esotici a storia degenera-tiva” 15 (per contatto e deculturazione). Se oggi l’antropologiadimostra una maggior consapevolezza verso i costrutti della“squadra”, così non è per l’elaborazione giuridica delle soggetti-vità, che incide sulle capacità rappresentative dei gruppi. Il dirit-to all’autodeterminazione rimane fortemente ancorato ai legami“originari” con la terra. Tale discriminante, se corrobora le istan-ze dei “popoli autoctoni” è, nondimeno, un’arma a doppio taglioatta a radicare l’esclusione. Quei legami che, una volta sussuntidal principio di territorialità, fanno difetto ai rom (e ad altri grup-pi minoritari e/o girovaghi che, transitoriamente – sul lungoperiodo –, ne condividono le sorti), rimangono la causa profon-da della desocializzazione da essi subita nei secoli dell’età moder-na. Criminalizzati o dotati, anche in ambito accademico (i Gypsy

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Studies sono un ramo a parte delle scienze sociali), di uno statutospeciale, seguono a essere eticamente “tagliati” come “zingari”,stranieri in uno stato anche quando suoi legittimi cittadini. Poichésenza territorio, non possono essere autoctoni… Saranno, al più,una minoranza.

Minoranze minorate e antiziganismo.

In questa sede (per contingenti ragioni di spazio) non parle-remo dell’esperienza dei popoli autoctoni 16. Tuttavia, la questionedelle minoranze riveste, rispetto a quella, un’importanza comple-mentare, trattandosi di riconoscere e garantire giuridicamente, tra-mite sistemi di regole provvisti ad hoc, soggetti collettivi distintidagli stati (i quali – lo ripetiamo – conservano la piena sovranitànell’ordinamento internazionale), conferendo loro maggior peso evisibilità. Il dibattito interessa, a ben vedere, tutti i gruppi socialiorganizzati che avanzino rivendicazioni identitarie e/o istanzeautonomistiche fondate su elementi di coesione interna. Ciò valea meno che si ignori il carattere problematico delle stesse defini-zioni di “stato”, “autoctonia”, “minoranza”: si tratta di concetti “sfu-mati” che il diritto internazionale ha rinunciato a definire unitaria-mente 17. L’invito a un successivo lavoro sulle difficoltà incontratedagli ordinamenti a spingere i rom entro i confini giuridici dellenuove soggettività (fatto che indica la permanenza delle xenotti-che 18 interne al rapporto), prenderebbe l’avvio dal rilievo dellalabilità costitutiva di quei confini. Sarà utile allora ritenere che “Ledifferenza culturale e la situazione di dominazione sono criteri comuni agliautoctoni e alle minoranze. La continuità storica e l’auto-identificazionespecificano invece maggiormente i primi” 19. Da subito, le mino-ranze appaiono così più integrate allo stato-nazione rispetto agliautoctoni.

Nel precedente paragrafo si parlava di miti e logiche “isolan-ti”, proprie a modi di conoscenza funzionali a instaurare e man-tenere situazioni di dominio. Perché queste abbiano successo,occorre che sia chiaro il gioco delle parti: da chi, per conto di chi

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e su chi è esercitato il controllo? Il problema dell’ “utilità” dellascienza sta in questo interrogativo, croce e delizia dell’antropolo-gia applicata (ma l’advocacy 20 interessa tutte gli ambiti scientifici,sociali e non). Per fare un esempio, quando, recentemente, deci-demmo di aderire a Survival France scrivendo articoli su paesi dovecerte libertà fondamentali sono negate ai soggetti (nel caso dispecie, i diritti di libera associazione, assistenza sanitaria e pro-prietà intellettuale in Madagascar), ci sentimmo rispondere che“deve trattarsi” di popoli autoctoni: un po’ come dire che è l’iso-lato a fare la situazione e non il contrario. Non potemmo soddi-sfare la condizione nemmeno con una seconda proposta (gli abi-tanti sfrattati di una regione mineraria del Ghana non erano abba-stanza “esemplari”)... Finché non ci cadde l’occhio su un nume-ro di “Ethnies” (la rivista dell’Organizzazione) interamente dedi-cato... ai rom, cui fanno difetto tanto le tassonomie quanto un ter-ritorio nazionale (la remota patria indiana è evocata – specie dagliintellettuali – allo scopo concreto di rafforzare la coesione tra igruppi)! Certo, l’ascrizione negativa del referente geografico,unita alla riconoscibilità di certi aspetti – non sempre presenti odefiniti, ma dotati di forza descrittiva: il nomadismo, la lingua, icostumi – , sono sufficienti a chiudere gli tsiganes entro uno spa-zio simbolico. L’indeterminatezza su indici fattuali che siano “tipi-ci” dei rom nel loro insieme (che nel mondo superano in nume-ro diversi stati-nazione) è, paradossalmente, efficace. Dubitiamoperaltro che quello spazio identificativo, quel “fuori-luogo” delleONG (che, in ciò, seguono i governi) sia il romanó them. Traducibilecome il “mondo – o paese – dei rom”, esso è “lo” spazio identi-tario, designa i luoghi – questi sì – reali e degradati che i rom, inun’attività reiterata di ri-localizzazione, caricano di significatiprofondi 21. Se tale attività può destare le coscienze sull’intimosenso della parola “abitare” – e si può dire che i rom lo faccianocon arte – , ciò non giustifica un ribaltamento perverso del prin-cipio “a ciascuno secondo le sue capacità”, che la legislazionefrancese sulle aree di stazionamento dimostra chiaramente 22. Ilrapporto del 2005 sull’antiziganismo in Francia, pubblicato dalloEuropean Roma Rights Centre 23, dove si definiscono i rom “cittadini di

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seconda classe”, è sufficiente a far sbiancare chi ancora vede inquel paese l’espressione dell’ideale repubblicano e il baluardodell’Europa di tradizione socialista. Gli tsiganes et voyageurs 24 devonopossedere documenti di circolazione speciali, alcuni dei quali (inmancanza di una professione o di un reddito regolari) da esibireogni tre mesi per la convalida a un commissariato di polizia. Ildiritto di voto è esercitabile da questi soggetti solo dopo tre annidi “annessione” a un comune, mentre gli altri cittadini potrannofarlo a distanza di sei mesi. Mentre questi risiedono “normalmen-te”, i primi sono rattachés e non possono superare in numero il 3per cento della popolazione del comune, con pregiudizio allaloro rappresentanza in seno all’amministrazione locale e a organiconsultivi di facciata 25. Oltre alle discriminazioni subite nell’eser-cizio della mobilità sul territorio nazionale, che provocano lasegregazione in condizioni di vita miserabili, il rapporto riferiscedi condotte abusive e trattamenti discriminatori da parte dei magi-strati e dell’autorità giudiziaria, dell’accesso negato ai luoghi pub-blici, ai servizi sociali, al mercato del lavoro. Seguono le viola-zioni del diritto all’educazione (con autorità locali attive nell’im-pedire l’iscrizione scolastica dei bambini rom) e, in chiusura, itrattamenti inumani e degradanti subiti dagli emigrati (espulsionimassive, diniego dei diritti d’asilo, alla salute, all’educazione).

I diritti dei rom, tutelati dall’ordinamento internazionale,dall’Unione Europea e, in misura sensibilmente minore, dallalegislazione di alcuni stati, sono oggetto di violazioni frequenti econtinuate. La discriminazione è diffusa nei diversi paesi convarie sfumature e “non è un caso – scrive L. Piasere – che neldopoguerra i primi riconoscimenti a favore degli zingari sianosempre venuti da organismi sovranazionali o organismi infrana-zionali privi di forze di coercizione” 26.

Cominciando dai casi sporadici, diremo che esistono, attual-mente, due leggi di rango statale favorevoli ai rom: quella bri-tannica sui campi sosta 27 e la legge ungherese LXXVII, adottata,al 96% dei suffragi, il 7 luglio del 1993 28 (fra i voti contrari, quel-lo del solo parlamentare rom, Aladar Horvath). Essa istituisce deiconsigli o “governi autonomi” eletti, ai vari livelli territoriali, dai

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membri delle rispettive minoranze individuate (dodici nazionali euna etnica, i rom, che rappresentano un ventesimo dei 10 milio-ni di ungheresi) e titolari della gestione di bilanci specifici. Adessi è affiancato un ufficio statale per le minoranze nazionali edetniche. Nonostante la partecipazione alla vita pubblica e il rap-porto con le istituzioni siano aumentati a metà degli anniNovanta, l’azione dei consigli è stata limitata dalle frizioni con leautorità municipali e le sovvenzioni scarseggiano (specie neidistretti della capitale). Parallelamente, la rappresentanza zingaraal parlamento e nei consigli comunali si è azzerata, senza conta-re l’effetto – indotto – della drastica scomparsa dell’associazioni-smo rom. A prescindere dalle singole opinioni nei confronti dellalegge, lavoratori, attivisti, studenti e altri membri della minoranzaetnica denunciano la scolarizzazione insufficiente, la discrimina-zione negli ambienti di lavoro (nel 1997, il 70% dei rom – pro-letarizzati come forza-lavoro a partire dal secondo dopoguerra –è disoccupato rispetto a una media nazionale dell’11%), l’insalu-brità dei villaggi (divenuti terreni di scarico di materiali tossicidopo lo smantellamento, dal 1989, dell’industria pesante), idiscorsi mediatici che fanno dei rom un oggetto di folclore. Se,dal punto di vista normativo, la legge del 1993 segna un fonda-mentale mutamento di indirizzo in un paese tradizionalmenteanti-zingaro (ma allora ci chiediamo quale paese oggi non discri-mini i rom), la realizzazione di un diritto alla differenza esige unmutamento dell’insieme delle strutture interne a una società che,una volta di più, ha chiamato i rom a partecipare come “etnia”,negando loro la dignità di “nazione”.

Il principio di oggettivazione guida le dinamiche istituzionali:permea il discorso di coloro che rappresentano i gruppi minori-tari, il logos delle leggi (anche di quelle garantiste) e dei trattatiinternazionali, le motivazioni delle sentenze quando la ratio deci-dendi faccia valere elementi di pluralismo sociale 29, fino alla reto-rica più informale degli osservatori (che non per questo è meno“istituzionale”) 30. A questo punto, vediamo più da vicino in basea quali dispositivi giuridici i rom figurano come una minoranza 31

Le “minoranze” sono una creazione incompleta del diritto inter-

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nazionale, che non è mai arrivato a definirle, tale mancanzaessendo connaturata ai fondamenti stessi di quell’ordinamento. Iltermine ha senso solo se calato all’interno del sistema di prote-zione dei diritti umani, i cui testi di riferimento si muovono lungol’asse dei principi di uguaglianza e di non-discriminazione. Già aquesto primo livello, la titolarità in capo a soggetti non-indivi-duali e il riconoscimento giuridico delle identità minoritarie,implicanti speciali statuti collettivi, imponevano le cautele neces-sarie atte a garantire l’integrità degli stati-nazione attraverso ilrispetto dei due principi. Nel 1977, F. Capotorti, presidente della“Sotto-commissione – interna alla Commissione per i diritti umani– per la lotta contro le misure discriminatorie e la protezionedelle minoranze” alle Nazioni Unite, indica in tali cautele le “con-dizioni indispensabili all’unità politica e spirituale degli Statimembri a creare un clima di comprensione e di relazioni armo-niose tra le differenti componenti della società” 32. Capotorti èl’autore della sola definizione della nozione di minoranza formu-lata nell’ambito dell’ONU: essa costituisce “un gruppo numerica-mente inferiore al resto della popolazione di uno Stato, in posi-zione non dominante, i cui membri, cittadini di quello Stato, pos-siedono, dal punto di vista etnico, religioso o linguistico, dellecaratteristiche che differiscono da quelle del resto della popola-zione e manifestano, anche in maniera implicita, un sentimentodi soldarietà, al fine di preservare la loro cultura, le loro tradizio-ni, la loro religione o la loro lingua” 33. Tale definizione, che haispirato l’attività del Consiglio d’Europa 34, fu oggetto di disaccor-di in seno alle Nazioni Unite e (benché possa avere carattere con-suetudinario) non si trova in nessun testo ufficialedell’Organizzazione. Ciò premesso, il sistema ONU di protezionedelle minoranze si fonda:

sull’art. 27 del “Patto internazionale sui diritti civili e politici” del1966, l’ “unica norma universale a carattere vincolante nel campo dellaprotezione delle minoranze” 35, che tutela l’esercizio dei diritti inerentialla cultura, alla religione, alla lingua; tuttavia, in sede di ratifica, unostato può ricorrere all’istituto della riserva, vanificando la portata della

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disposizione (è quanto ha fatto, ad esempio, la Francia); inoltre, il Pattoattribuisce il riconoscimento dello status di minoranza alla sovranità dellostato interessato;

sulla “Dichiarazione dei diritti delle persone appartenenti a minoran-ze nazionali o etniche, religiose e linguistiche” del 1992 che, a tuteladelle minoranze presenti sul territorio statale, sancisce i diritti a goderedella propria cultura, all’uso pubblico e privato della propria lingua, aprender parte attiva alle decisioni che le riguardano, a creare e dirigereproprie associazioni, ad instaurare e mantenere, senza discriminazionealcuna, contatti liberi e pacifici con altri membri del loro gruppo (artt. 2.1– 2.5).

Come fa notare A. Fenet, nel Patto prevale l’idea della titola-rità giuridica individuale: “Non si vuole proteggere il gruppo, masi è obbligati a menzionarlo” 36. La copertura ideologica indivi-dualista sta a significare quanto gli stati tenessero alle “condizio-ni indispensabili” cui poco sopra si accennava, richiamate inseguito da Capotorti. In merito al secondo testo, è evidente lanegligenza degli stati che, con le loro legislazioni, combattono la“piaga” del nomadismo (quest’ultimo, peraltro, “in nessun caso ècontrario agli standards internazionali”) 37. Naturalmente, laDichiarazione non è vincolante.

Nel 1992, la Commissione per i diritti umani ha adottato unarisoluzione espressamente in favore della “comunità rom” 38.Benché appartenente alla soft law, essa dimostra l’interesse che ilcaso dei rom ha suscitato a livello internazionale, invitando glistati a prendere tutte le misure necessarie al fine di eliminare lediscriminazioni di cui essi sono oggetto e a fare appello ad hoc aiservizi del Centro per i diritti umani delle Nazioni Unite.

Nell’ambito del Consiglio d’Europa 39, è fondamentale la por-tata dell’art. 14 della CEDU del 1950, che estende per la primavolta il campo applicativo del principio di eguaglianza all’appar-tenenza ad una minoranza nazionale. Citeremo due documenti.

La “Raccomandazione 1203 (1993) relativa agli Zingari in

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Europa” 40, adottata dall’Assemblea parlamentare e ritenuta il piùimportante strumento del Consiglio sui diritti minoritari dei rom,ha ripreso la definizione di Capotorti insistendo sui seguenti indi-ci: la cittadinanza di uno stato e l’esistenza effettiva di legami risa-lenti, solidi e durevoli con esso, la specificità culturale, un quan-tum numerico sufficientemente rappresentativo e l’importanzadell’elemento soggettivo (ossia il voler conservare un’identitàdistinta); tuttavia, il Comitato dei Ministri ha rifiutato di accorda-re efficacia vincolante al documento. È interessante notare cheesso rifiuta per i rom la definizione di “minoranza nazionale”,ritenendoli sprovvisti di territorio e, perciò, meritevoli di una“protezione particolare” – non segue un chiarimento di questadefinizione “in negativo”.

La “Convenzione-quadro per la protezione delle minoranzenazionali” (che non vi sono definite), adottata nel 1994 dalComitato dei ministri e aperta nel 1995 alla ratifica degli stati.Ispirandosi alla cd “Carta europea delle minoranze” 41, essa preci-sa – in particolare – i diritti inerenti: al mantenimento del nomed’origine e all’uso della lingua minoritaria; alla creazione e gestio-ne di proprie strutture private d’insegnamento e formazione;all’effettiva partecipazione pubblica (specie per le relative que-stioni minoritarie), culturale e politica; alla creazione e all’utilizzodi propri media; all’informativa riguardante i diritti processualidell’imputato, da rendere celermente in una lingua comprensibi-le; a comunicare oltre frontiera con persone della stessa mino-ranza. Resta fermo il fatto che la Convenzione riconosce dirittiesclusivamente individuali, benché esercitabili in comune da piùpersone. Alla sua entrata in vigore (nel 1998) sono seguite pro-cedure di ratifica il più delle volte sottoposte a riserva. Non tuttigli stati hanno qualificato i rom “minoranza nazionale” (lo hafatto, ad esempio, la Macedonia).

Alla designazione di un Comitato di esperti sulle questionirelative alle minoranze nazionali, si affiancano iniziative pratiche,come la promozione di “misure di fiducia” finalizzate a instaura-re un clima di tolleranza e di migliore comprensione tra le comu-

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nità suscettibili di entrare in conflitto.

Nel XX secolo, i rom hanno dato vita a diversi importantimovimenti. Il primo congresso zingaro è del 1905 e si riunisce aSofia per contestare l’incostituzionalità di un emendamento – diquattro anni anteriore – alla legge elettorale bulgara soppressivodel diritto di voto per gli zingari non cristiani; l’emendamento èabrogato e ha inizio un fermento intellettuale (che durerà tredecenni) che vede i rom protagonisti. Questo per dire che giàalmeno un secolo fa i rom “prendevano in mano”, come si amadire, il proprio destino... E che i rom non sono “per natura” anti-statali, a-politici o contrari alle logiche istituzionali.

Tra le due guerre, in Romania, mentre i trattati di pace nomi-navano le minoranze senza riconoscerle come soggetti giuridici,fiorivano e convivevano associazioni culturali e politiche fondatesul genere, la professione, la comunità di origine, il credo. I rom,già a partire dal 1919, eleggevano propri leaders unendosi ad altrigruppi per costituire la Grande Romania e, negli anni Trenta,nascevano le loro associazioni nazionali 42. Si sa, il nostro è ilsecolo dei paradossi. Ventidue anni prima che Himmler firmasse,il 16 dicembre 1942, la “soluzione finale della questione zingara”,in Russia i rom diventavano una “minoranza nazionale”, denomi-nazione che oggi, de jure condito, dovrebbe loro assicurare la tutelapiù ampia 43 (e che l’Ungheria, lo abbiamo visto, ha preferito nonimpiegare). Nel 1925 nasceva l’Unione panrussa degli zingari, acarattere più spiccatamente politico, intorno alla quale si formò,fino all’ascesa di Stalin, un notevole cenacolo intellettuale.

Lungi dal voler essere esaustivi, citiamo altre due organizza-zioni: l’Associazione panellenica culturale degli zingari greci, fon-data nel 1939 da due donne e sorta, malgrado la sua vita breve,in un momento di decompressione e apertura nel rapportorom/gage; l’International Romani Union (IRU), che vide la luce nel1978, a Ginevra, in occasione del secondo Congresso mondialerom (il primo si tenne a Londra nel 1971). Le scelte nazionaliz-zanti operate dall’ IRU e la sua struttura di istituzione di verticehanno in parte pregiudicato le ambizioni di efficacia rappresen-

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tativa dell’intera società romaní, cui l’organizzazione aspira. La suacomposizione ha mantenuto, nei decenni, uno squilibrio teso afavorire un’élite di intellettuali rom, in maggioranza dell’Est euro-peo, che hanno legittimato l’ IRU in ambito internazionale, anzi-tutto mediante atti a forte efficacia simbolica (adozione di unabandiera, di un inno, di un “giorno dei rom” – l’8 aprile – ; rico-noscimento, in presenza delle autorità diplomatiche, dell’Indiacome antica patria comune). Nel 1979, l’ IRU ottiene dall’ONU lostatuto consultivo e i suoi leader saranno in seguito protagonistidi rapporti privilegiati con altre istanze internazionali (il Consigliod’Europa, l’UNESCO) ed enti pubblici e privati, contribuendo acreare un capitale sociale dal quale rimarrà esclusa la maggio-ranza dei rom, specie di quelli dei paesi occidentali. La recentestandardizzazione della lingua dei rom (o romanès), non ha incon-trato i consensi sperati. Nel 2000, il V congresso mondiale, riuni-tosi a Praga, ha chiesto all’ONU e all’Unione Europea di esserericonosciuto quale “nazione senza stato”, dichiarando la costitu-zione, in uno con la riforma dei suoi statuti, di un Parlamento rome di un Tribunale dei saggi con funzioni di massima autoritàmorale. Alle prerogative soggettive, l’ IRU affiancava la denunciadella situazione dei rom profughi dal Kosovo, che si vedonocostretti alla clandestinità per non essere rinviati nei paesi di ori-gine: il rifiuto dei permessi di soggiorno e la violazione del dirit-to di asilo sono pratiche diffuse in tutti i paesi europei.

Le fratture tra l’impronta ideologica assunta dall’ IRU ed i grup-pi dissidenti si spiega con la diversa esperienza storica dei grup-pi: all’associazionismo precoce e alla sua vitalità intellettuale inEuropa orientale (che, non dimentichiamolo, sono stati feroce-mente repressi o strumentalizzati dai regimi successivamenteinstauratisi in quei paesi), fanno riscontro, in occidente, il con-trollo della mobilità sui territori degli stati, l’esclusione, il buconero del Samudaripen; poi, il lento fiorire di un associazionismo “insordina” – non sempre a sola componente rom – , le nuove emi-grazioni (pensiamo ai profughi dell’ex-Yugoslavia) e le politichegovernative discriminatorie.

È importante, in questa sede, rilevare la rivendicazione da

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parte dell’IRU di un’identità “transnazionale” che sia capace diconnettere le comunità viventi nei singoli stati e di tutelarle difronte a essi, nelle necessità imposte dai diversi contesti locali. N.Gheorghe, il leader che ha formulato il concetto, vede – e noi conlui – la minoranza nazionale come secondario riflesso dello stato-nazione, del quale rafforzerebbe la costruzione 44. Diversamente,una nazione dispersa e senza un territorio e uno stato che l’i-dentifichino, aspirerà a una rappresentanza sovrastatale, scardi-nando la nota triade autorità-nazione-territorio. Tuttavia, non tuttii rom sono d’accordo con l’idea di non-appartenenza a un terri-torio, specie laddove le nicchie economiche occupate tendono astabilizzarsi in relazioni durevoli. Inoltre, la “minoranza transna-zionale” (un vero ossimoro demografico!) giace sprovvista di tute-la formale, non figurando in alcun documento avente valore giu-ridico.

Per quanto la configurazione degli strumenti internazionalipermetta di ravvisare nelle “minoranze nazionali” la fattispeciepiù garantista per i rom (rispetto a “ minoranza religiosa”, “etni-ca”, “linguistica”, “non-territoriale”), riteniamo più che giustificatele aspirazioni alla “transnazionalità”. Tuttavia, ci domandiamocosa, nel carattere di “nazionalità”, faccia problema: perché la“nazione” è così irrimediabilmente compromessa con il referenteterritoriale? Al pari dell’“etnia” (che altro non è se non una nazio-ne, ma più “selvaggia”) 45, essa dovrebbe designare un gruppoumano i cui membri partecipano deliberatamente (elemento sog-gettivo) di valori comuni (elemento culturale o oggettivo). Il ter-ritorio, in questa accezione, deriva dal gruppo, in quanto loproietta nello spazio (concezione dinamica del territorio); all’op-posto il diritto di matrice europea vede in esso l’“elemento tipicoe costitutivo dello Stato, rappresentato dallo spazio geograficoentro il quale esso esercita la sua potestà e le sue attività” 46.Questo concetto esercita un’attrazione tale da poter affermare cheil territorio ha “naturalizzato” la nazione, la quale implicitamente(e quasi automaticamente) vi fa rinvio. Qual è, ci si chiede, l’ori-gine di quest’ambiguità? Un’altra domanda conduce alla stessaquestione, che – si sarà capito – non è meramente terminologica:

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qual è il “principio di minorazione” delle minoranze?Nel suo contributo storico, S. Pierré-Caps 47 individua un filo

rosso tra la Riforma e la Rivoluzione del 1789 nella consacrazio-ne della libertà individuale: la libertà religiosa sancita dalla primacontiene già i germi di quella libertà di coscienza inerente “pernatura” all’individuo e che farà di lui un “cittadino” di fronte alla“nazione”. Questa diviene l’entità-simbolo delle nuove libertàconquistate e della lotta contro l’ordine dinastico di diritto divino.La Costituzione francese del 1793 parla del compito messianicodi cui il suo popolo è investito: portare la libertà ai popoli sotto-messi. All’epoca, “liberarsi” significava dotarsi di uno stato, impe-rativo che le guerre napoleoniche avrebbero rapidamente tradot-to in pratica. Questa aspirazione, che vede connettersi lo statoalla nazione, è tradotta dal “principio delle nazionalità”. Nel XIXsecolo, all’isolamento politico dei monarchi si sostituisce un’in-tensa azione concertata da parte delle grandi potenze, che avver-tono il bisogno di rappresentarsi in una comunità portatrice diprincipi sovrastatali sui quali far valere interessi comuni. Sarà lasede dei Congressi a fare da banco di prova per tali strategie, chericorrevano al criterio “minoritario”: l’annessione di un territorionon avrebbe dovuto toccare la libertà (e la coscienza) di credodei suoi abitanti. Il Congresso di Berlino del 1878 è un esempioemblematico di limitazione della sovranità, imposta dalle poten-ze europee alla Russia e all’Impero ottomano al fine di tutelare emantenere un controllo sui gruppi religiosi minoritari presentientro i confini tracciati dalla Pace di S. Stefano. L’esistenza deinuovi stati era sottoposta all’obbligo di assicurare quella prote-zione e l’esercizio della libertà del culto veniva sancito per tuttele comunità (ebraica, musulmana, cristiana), anticipando la ratiodel futuro diritto internazionale delle minoranze.

Il “principio delle nazionalità” si affermò come la decisivalegittimazione del sistema politico fondato sugli stati-nazione: lasquadra della divisione territoriale stabiliva tra questi due terminiun rapporto di 1 a 1 e la geometria di Cartesio andava applicataallo scacchiere sociale. Forte dell’“equazione metafisicastato=popolo=libertà” 48, l’ideologia nazionalista servirà a mante-

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nere le strutture di potere proprie degli stati alla fine del ’700,nella perpetuazione del vecchio ordine. Se la massima esigenzaè di salvare l’ordine dei rapporti tra potenze, non è difficile capi-re perché, un secolo più tardi, il diritto internazionale negherà lasecessione a quei popoli integrati a uno stato e titolari dellalibertà di autodeterminarsi. Questa logica, oltre a scalzare i pic-coli gruppi, avrà la meglio anche sugli imperi europei a base plu-rinazionale (con l’eccezione della Russia). Tuttavia, nel primocaso, l’arbitrio della squadra riposa sulla scissione dei due costrut-ti giuridici che le erano storicamente serviti a legittimarsi: il dirit-to a esistere come nazione e quello all’indipendenza politica. Quistanno le chiavi per capire il fenomeno delle minoranze nazionalied è perciò che esse nacquero già “minorate”.

Se occorre vedere le categorie politiche (e il disaccordo sulleloro definizioni giuridiche) alla luce di questa pesante eredità sto-rica, sarebbe forse più opportuno pensare la “nazione” rom al difuori di essa.

Conclusioni (ovvero passare dalla squadra al chiaroscuro).

La “legge sulla nazionalità”, adottata dal Consiglio nazionaledella Repubblica Ceca il 29 dicembre 1992, in seguito alla sepa-razione dalla Slovacchia, ha dettato le condizioni della nuovanazionalità, tra le quali ricordiamo: un giustificativo di residenzasul territorio di due anni, la mancanza di precedenti penali daalmeno cinque anni e la buona conoscenza della lingua ceca. Lamaggioranza dei rom, che oggi abitano i ghetti urbani e ruralidella Repubblica, non poté soddisfare i requisiti imposti, nono-stante vivessero e praticassero la mobilità sul territorio dell’ex-stato da diverse generazioni.

Malgrado questi effetti perversi, il “territorio” assume, nellasua dimensione sociale, diverse sfumature di senso legate a par-ticolari modi di abitare il mondo. I rom, consapevoli per espe-rienza diretta delle frammentazioni imposte dai gage, ricostrui-scono quei mondi spaccati facendoli propri: la decisione di colti-

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vare o meno le relazioni (con i gage, con altri rom), influenzeràle loro strategie di mobilità e visibilità 49. Talvolta, vivere lungo iconfini di uno stato può rivelarsi vantaggioso o addirittura essen-ziale alla sopravvivenza di un gruppo, essendo più agevole sot-trarsi ai controlli di polizia; talaltra, si creano realtà molteplici “diquartiere”, legandosi per alleanza matrimoniale ad altre famiglie(le “reti” di cui si parlava nel primo paragrafo) e occupando nic-chie economiche “libere”.

Nel Principio dialogico, M. Buber parla di “duplicità del mondo” 50.Nel mondo dell’ “esperienza”, il soggetto si pone di fronte all’og-getto ai fini di conoscerlo o utilizzarlo. È un rapporto strumenta-le e impersonale, di totale fagocitazione dell’Altro: “Chi fa espe-rienza non partecipa del mondo, poiché l’esperienza è in lui enon tra lui e il mondo” 51. Nel mondo della “relazione”, l’Io si apreall’Altro, in un rapporto vivo e personale, che vede il secondo esi-stere autonomamente al di fuori del primo. “La vera storia si svol-ge nella zona intermedia” 52.

Ogni volta che si riscrive la carta politica di una regione, gliambiti relazionali in essa esistenti subiscono un trauma. La prio-rità accordata all’ordine pubblico rivela le sue distanze rispettoalle determinazioni della “cultura”, nella quale è respinto – esegregato – quanto sia ritenuto idoneo a contrastare con quel-l’ordine. A ben vedere, le discipline repressive degli stati fannorientrare i rom automaticamente nella sfera dei “popoli contra ordi-nem”, con buona pace delle istanze di cambiamento sociale.Come dimostra la realtà delle associazioni e il rafforzarsi dellesoggettività a livello internazionale, i rom non sono, “in quantorom”, restii a far valere pubblicamente i propri diritti, nonostanteil clima repressivo che li circonda spinga molti di loro ad adotta-re strategie informali. Queste non dovranno leggersi come un“tratto culturale”, ma come un sintomo legato alle circostanze sto-riche.

Non si tratterà allora di negare il carattere positivo (nel sensodi positum) del diritto, bensì di augurarsi che la sua creazioneavvenga nella consapevolezza dei rischi reali dati dal rovescia-mento prospettico di cui si è parlato. Ciò è possibile solo tramite

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una maggior flessibilità degli strumenti a disposizione, ovverocostruendo categorie giuridiche specifiche, sì, ma anche il piùpossibile rappresentative delle realtà che disciplinano e sensibilial cambiamento sociale.

In conclusione, l’obiettivo della rappresentatività, fondatosulla ricerca del compromesso o impossibile da immaginaresenza un ravvicinamento:

tra disciplina internazionale (universale e comunitaria) e nor-mative dei singoli stati: troppo spesso la prima risulta, a misuradel suo garantismo di forma, priva di efficacia vincolante e restalettera morta;

tra i diversi operatori che si interessano alla causa dei rom(educatori, etnologi, storici, sociologi, governanti, amministratori,forze dell’ordine, attivisti, rappresentanti dei gruppi, soggetti dirapporti di vicinato); le loro analisi, anziché scontrarsi sull’esclu-siva dell’ “approccio legittimo”, dovrebbero formare uno spaziocomune e fungibile di conoscenze, applicabili in quanto situa-zionali;

spaziale, anzitutto trasformando (ed è un processo radicale) icampi nomadi o i quartieri emarginati in luoghi abitabili (elimi-nando le ragioni del “campo” e del ghetto) e, soprattutto, di con-fronto (ossia di risposta a esigenze comuni, senza le quali un’om-bra di convivenza non è realizzabile);

tra determinazioni politiche e culturali, rispetto ai diritti adesse inerenti.

A ciò dovrebbe far eco una graduale dissolvenza della dimen-sione elitaria (moltiplicatrice di “buchi strutturali”) 53 delle sferedecisionali, effetto cui si aspira promuovendo la presenza attiva(equitativamente garantita alle donne) di rom di diversa estrazio-ne sociale entro contesti di adeguata rilevanza politica. Inoltre, sisegnala l’importanza, per i soggetti di un ordinamento, di godere

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di un ampio diritto all’informazione ai fini del pieno eserciziodelle proprie libertà (senza il consueto abisso tra libertà civili epolitiche e libertà “culturali”), tanto come individui che comemembri di collettività distinte. In quest’ultimo caso, se le propo-ste de jure condendo sono molteplici ed essenziali alle finalità indica-te, queste dovranno svolgersi con la partecipazione maggioritariae diretta dei destinatari della futura normativa.

Dal punto di vista epistemologico, propendiamo per un ragio-nevole abbattimento di quei confini disciplinari che vietano allescienze sociali un’applicabilità “propria” anziché di secondogrado, la neutralità scientifica valendo più che mai come attopolitico. Sceglieremo allora un’antropologia giuridica dell’azioneche operi nel solco della “relazione” indicata da Buber.

NOTE

1. Sull’approccio continuista, si veda J.-L. Amselle, Les Logiques métisses,Paris, Payot, 1990 e, dello stesso autore, Branchements, Flammarion, Paris,2001.2. Per ciò che riguarda i fattori ambientali e le determinazioni sociali aessi legati, citiamo il saggio sull’ineguaglianza tra le società umane delgeografo J. Diamond: Guns, Germs and Steel. The Fates of Human Societies, NewYork, WW Norton & Company, 1997.3. Per un’antropologia dei sistemi mondiali, rinviamo ampiamente all’o-pera di J. Friedman (di cui citiamo Cultural Identities and Global Process,London, Sage, 1994 e la recente raccolta, curata da F. La Cecla e P.Zanini, La quotidianità del sistema globale, Milano, Mondadori, 2005).4. Utilizziamo “rom” a titolo onnicomprensivo dei numerosi etnonimicon i quali i cosiddetti “zingari” usano identificarsi, secondo l’accezioneintrodotta da L. Piasere, che indica il peso assunto da una comunanza diprospettive (la cosiddetta “dimensione romanì”, di cui il linguaggio è rive-latore) fondata sull’unità di esperienza storica e prevalente sulle recipro-che gradazioni discretive tra i gruppi. Ciò è visibile per i paesi occiden-tali nei casi di presenza secolare dei rom. Si veda L. Piasere I rom d’Europa.Una storia moderna, Bari, Laterza, 2004, pp. 24 – 29. A quest’opera si faampio rinvio per le considerazioni storico-antropologiche in essa conte-

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nute, che riteniamo essenziali alla comprensione dell’esperienza romanì edelle sue determinazioni sociali.5. “Il” genocidio è quello consumatosi negli anni 1939 - 1945, perpetra-to dalla Germania nazista. Il termine, in lingua romanì, deriva dal verbomudarel, “uccidere” (si tratta della stessa radice indoeuropea del francesemeurtre e dell’inglese murder), sostantivato con aggiunta del prefisso sa,“tutto”. Claire Auzias fa notare che il designatum della parola, lo “sterminiototale”, non equivale propriamente a “genocidio”, ma tocca la totalità deigruppi (come a dire “i rom e gli altri”: la scelta è significativa!). Si vedaC. Auzias, Samudaripen. Le genocide des Tsiganes, Paris, L’esprit frappeur, 2000.Si vedano, a titolo di esempi, il classico D. Kenrick - G. Puxon, Il destinodegli Zingari, Milano, Rizzoli, 1975 (ed. or.: London, 1972) e F. Müller-Hill,Scienza di morte. L’eliminazione degli ebrei, degli zingari e dei malati di mente, Pisa,ETS,1989 (ed. or.: Hamburg, 1984).6. Si veda il capitolo intitolato “Politiche rom” in L. Piasere, I rom d’Europa.Una storia moderna, cit.; pp. 62 – 88.7. Si veda J.-L. Amselle, Les Logiques métisses, cit., e dello stesso autore,Maurice Delafosse. Entre orientalisme et ethnographie: l’itineraire d’un africaniste (1870– 1926), Paris, Maisonneuve et Larose, 1998.8. Si veda il successivo paragrafo.9. La letteratura sul tema è ricchissima. A mero titolo di esempio, citia-mo Affirmative Action in the United States and India: a Comparative Perspective,London – New York, Oxford Un. Press, 2004.10. Per quanto concerne le nostre osservazioni sui rom, l’esperienza fran-cese ha rappresentato il punto di partenza (si veda Teorie pluraliste del dirit-to e antropologia delle culture zingare: possibilità e limiti di un campo in espansione, tesidi laurea ined., Università di Genova, 2003).11. Potremmo mettere “in fila” l’art. 4 della legge n. 2005 - 258 del23/02/2005 sul “ruolo positivo della presenza francese oltremare, in par-ticolare nel Nordafrica”, il “NO” alla Costituzione europea, le misure d’ur-genza “riesumate” dall’arsenale giuridico ancora vigente durante la crisidelle banlieues, le disposizioni inerenti al contrat de première embauche.12. M. Wieviorka, Culture, société et démocratie, in M. Wieviorka (a cura), Unesociété fragmentée? Le multiculturalisme en debat, Paris, La Découverte, 1996; p. 45(t. n.).13. Ibidem14. Si veda sul tema N. Rouland, Antropologie juridique, Paris, PUF, 1988.

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15. L’espressione è di B. Albert. Si veda B. Albert, Antropologie appliquée ou“antropologie impliquée ? Ethnographie, minorités et développement, in J. F. Baré (acura di), Les applications de l’anthropologie, Paris, Karthala, 1995 ; pp. 87 - 118.16. L’interesse e la letteratura sul tema sono aumentati nell’ultimo decen-nio. Si segnalano due opere referenziali: N. Rouland - S. Pierré-Caps - J.Poumarède (a cura di), Droit des minorités et des peuples autochtones, Paris, PUF,1996 e J.C. Fritz - F. Déroche - G. Fritz - R. Porteilla (a cura di), La nou-velle question indigène. Peuples autochtones et ordre mondial, Paris, L’Harmattan,2005.17. La questione (per quanto riguarda le minoranze e i popoli autocto-ni) è ampiamente dibattuta in N. Rouland, Droit des minorités et des peuples auto-chtones, cit.; pp. 218-219, 233-238, 428-443.18. La “xenottica” designa qui una disposizione cognitiva ad un rappor-to di estraneità.19. N. Rouland, Droit des minorités et des peuples autochtones, cit.; p. 439.20. Sull’anthropological advocacy, fondata su un intervento dei ricercatoriemancipato dalle politiche governative, in opposizione a quanto dinorma avvenne fino alla fine degli anni Sessanta, si veda B. Albert,Antropologie appliquée ou “antropologie impliquée ? Ethnographie, minorités et développe-ment, in J. F. Baré (a cura di), Les applications de l’anthropologie; pp. 110 e ss.21. Si veda M. Revelli, Fuori luogo. Cronaca da un campo rom, BollatiBoringhieri, Torino, 1999 e le conclusioni di L. Piasere in I rom d’Europa.Una storia moderna, cit; p. 126.22. Emblematico della nutrita disciplina repressiva prevista al riguardo,l’art. 53, legge 18 marzo 2003 per la Sicurezza interna voluta dall’alloraministro dell’Interno Sarkozy, rubrica come delitto la sosta su un terrenoprivato o appartenente allo Stato, a una regione o a un dipartimento inassenza di prova di un’autorizzazione di stazionamento o di un permes-so accordato dalla persona titolare del diritto d’uso del terreno; alla multadi euro 3750 (e alla patente di guida sospesa per tre mesi) si aggiungo-no sei mesi di reclusione. La “legge Borloo” del 1 agosto 2003, sul rin-novo delle aree urbane, stila una lista di 28 comuni di meno di 20 000abitanti, nei quali la sosta di “tsiganes et voyageurs” è totalmente vieta-ta.23. ERRC, Hors d’ici! Antitsiganisme en France, Budapest, novembre 2005.24. La denominazione comprende gruppi eterogenei, che non condivi-dono necessariamente una stessa origine o storia, accorda la priorità al

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modo di vita nomade o seminomade (nel senso assunto da questi ter-mini nei nostri paesi) rispetto a referenti etnici.25. Le Commissioni consultive di dipartimento hanno un ruolo di filtro,figurando come soggetti intermediari “esperti” in questioni relative a tsi-ganes e voyageurs, i quali vi partecipano in infimo numero e non hanno pra-ticamente alcun peso decisionale.26. L. Piasere, Un mondo di mondi, Napoli, L’Ancora, 1999, p. 18.27. Per un’analisi sulle vicende del Caravan Sites Act del 1968, si veda A.Simoni, Il giurista e gli zingari: lezioni dalla common law, Politica del diritto, a.XXX, n. 4, dicembre 1999, Bologna, Il Mulino; p. 629. Nell’ambito deldibattito sul pluralismo giuridico e i “diritti sommersi”, l’autore comparadiversi contesti geografici (Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia), ponendo inprimo piano le differenze tra l’approccio etnologico al diritto consuetu-dinario “degli” zingari e la lezione legislativa (“per” gli zingari) offerta daldiritto inglese.28. Si veda l’articolo di O. Meer I rom d’Ungheria fra legge e realtà, Le mondediplomatique, novembre 1999 (rilevabile dal sito www.ilmanifesto.it).29. Per il caso dei minori argati e la rappresentazione della relativa con-dotta criminosa (la “riduzione in stato di schiavitù”) come di un reato“da zingari”, si veda la sentenza della Cassazione di cui in “Foro It.”,1990, II; c. 369 ss.30. Rinvio generale a M. Douglas, How Institutions Think, Syracuse, N.Y.,Syracuse University Press, 1986.31. Per una trattazione esauriente della genesi e della tutela giuridicadelle minoranze, si fa un ampio rinvio a due opere di riferimento: N.Rouland, Droit des minorités et des peuples autochtones, cit.; e A. Marchand, Laprotection des droits des Tsiganes dans l’Europe d’aujourd’hui, Paris, L’Harmattan,2001.32. F. Capotorti, Studio dei diritti delle persone appartenenti alle minoranze etniche,religiose e linguistiche, E/CN4/sub.2/384/1977/Add.1, 24 giugno; p. 51.33. Ivi, E/CN4/Sub.2/1979/384/Rev.1; p. 102.34. Ci riferiamo alla proposta di Convenzione per la protezione delleminoranze (Commissione di Venezia, 9 febbraio 1991) e allaRaccomandazione 1201 (1993), inerente a un protocollo addizionale allaConvenzione europea dei diritti dell’uomo (1 febbraio 1993).35. A. Marchand, La protection des droits des Tsiganes dans l’Europe d’aujourd’hui,cit.; p. 175.

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36. A. Fenet, Mutations internationales et protection des minorités, in C. Huy Thuanet A. Fenet (a cura di), Mutations internationales et évolution des normes, Paris,PUF, 1994; p. 53.37. A. Marchand, La protection des droits des Tsiganes dans l’Europe d’aujourd’hui,cit.; p. 178.38. Risoluzione 1992/65: “Protezione dei Roms (zingari)”, 4 marzo 1992,UN Doc. E/CN4/Sub.2/1992/L.11/Add.5.39. La produzione è, in questa sede, più ricca di confronti e implicazio-ni: si vedano N. Rouland, Droit des minorités et des peuples autochtones, cit.; e A.Marchand, La protection des droits des Tsiganes dans l’Europe d’aujourd’hui, cit.40. Cfr. nota 3441. Si tratta del “Documento di Copenhaghen” dell’OCSE (1990), nel qualeil rispetto dei diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionaliè considerato “un fattore essenziale alla pace, alla giustizia, alla stabilitàe alla democrazia” degli stati partecipanti (IV s.30). Nella stessa sede, èstato istituito un “Alto Commissario per le minoranze nazionali”, nomi-nato dal Consiglio ministeriale ogni tre anni, con funzioni preventive deiconflitti che minerebbero la pace, la stabilità o i rapporti tra gli Stati.42. Sui movimenti rom d’anteguerra e sul tema della visibilità politica, siveda L. Piasere, I rom d’Europa. Una storia moderna, cit.; pp. 112-123.43. Si leggano le considerazioni di A. Marchand, La protection des droits desTsiganes dans l’Europe d’aujourd’hui, cit.; pp. 142-158.44. Si veda N. Gheorghe, The Social Construction of Romani Identity, in T. Acton(a cura di), Gypsy Politics and Traveller Identity, Hertfordshire, University ofHertfordshire Press, vol. 58, n. 4, 1994; pp. 5 e ss.45. Si veda J-L.Amselle – E. M’Bokolo, Au coeur de l’ethnie. Ethnie, tribalisme etétat en Afrique, Paris, La Découverte, 1985.46. La definizione è tratta dall’Enciclopedia Universale, Rizzoli - Larousse,Milano, 1971, vol. XV; p. 8.47. S. Pierré-Caps, in N. Rouland - S. Pierré-Caps - J. Poumarède (a curadi), Droit des minorités et des peuples autochtones, alla nota 15; pp. 157-346, di cuiriprendiamo in sintesi la periodizzazione iniziale.48. Ivi; p. 169.49. Sulle concezioni del territorio, rinviamo a L. Piasere, Un mondo dimondi, pp. 85-94.50. M. Buber, Il principio dialogico, Milano, Comunità, 1958; pp. 59. (e.t.).51. Ivi, p. 11.

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52. Ivi; p. 6053. Nel senso precisato da R. Burt all’inizio degli anni Novanta, nell’af-frontare lo studio delle relazioni di potere: se vi è assenza di relazioni(lo structural hole) tra due persone (two individuals with complementary resources orinformations) ed esse stesse sono legate a una terza, questa si troverà aoccupare un posto strategico. Si veda R.S. Burt, Structural Holes. The socialstructure of competition, Cambridge, Massachusset, Harvard UniversityPress,1992.

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Le “Rane” nel Tempio

Vita quotidiana e contrasti religiosi

nella Comunità Israelitica di Alessandria nell’età

dell’Emancipazione

Fabrizio Quaglia

Il trentennio apertosi con la legge del 19 giugno 1848, chesanciva la completa eguaglianza giuridica per gli ebrei piemonte-si mediante la concessione dei diritti civili e politici e l’ammissio-ne alle cariche civili e militari al di là del culto professato, e con-clusosi con la scomparsa del rabbino Elia Levi Levi De Veali il 30dicembre 1880 avrebbe visto l’Università Israelitica di Alessandriasubire profonde trasformazioni che, non senza gravi controversieinterne, avrebbero mutato per sempre il suo volto. Fra questedate, una di riconosciuta importanza storica e l’altra decisamentedi portata più simbolica e locale, giacché chiudeva la lunga sagarabbinica dei Levi De Veali, si dipanerà questo breve lavoro espo-sitivo basato ove possibile su fonti d’epoca; soprattutto gli artico-li dell’avvocato alessandrino Felice Giacomo Vitale 1 e alcuni opu-scoli di Donato Ottolenghi 2 che restituiscono il vivace sapore diun’epoca tramontata.

L’Emancipazione, pur concessa a malincuore da Carlo Alberto,cambiò completamente il modo di vivere e di pensare degli ebreiincerti tra lealtà al Giudaismo e vantaggi dell’assimilazione, orgo-glio per la propria tradizione e incapacità a trovare un equilibriofra vita pubblica e privata. Inoltre non è che i rapporti con i cri-

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stiani fossero improvvisamente mutati e i vecchi pregiudizi venis-sero di colpo cancellati con un tratto di penna; infatti, come dasempre accadeva nel periodo di Pasqua, festività fin dalMedioevo legata al ricordo della Passione di Cristo di cui, com’ènoto, eran incolpati gli ebrei:

“S’era costretti a dar la stanga all’uscio appena vespro esi viveva rannicchiati in casa a leggendare oziosamente,mentre sulle strade gracidavano orribilmente schernitrici lerane, certi ordigni di legno mossi da una manovella, i qualimandavano aspre e noiose voci di rana. Armati di questerane e di bastoni, i ragazzi e non pochi adolescenti cristia-ni correvano pel ghetto levando un fracasso d’inferno,martellando le porte, lanciando sassi alle finestre conminaccie, che pur essendo di sole parole ci empivano l’a-nimo di spavento, di odio e rammentavano fantasiosa-mente la tragedia sociale romana della morte di Gesù” 3.

Anche qualche cronista clericale del luogo si fece scappare ildisappunto per questo mutamento: quando il 1 aprile 1848 gliebrei vollero festeggiare il loro riscatto al Teatro municipale nonmancò di far notare che la serata passò freddamente, “perchécerte esosità non si cancellano per legge” 4. Solo col ritorno deiPiemontesi alla fine della guerra di Crimea quest’ atteggiamentocessò, dice Vitale, sebbene certe vecchie mentalità paiano riscon-trabili pure nella stampa liberale come dimostra la querelle scop-piata nell’“Eco del Tanaro” tra l’ingegnere poi assessore GiulioLeale (1828-1903) e Ottolenghi nel 1864. Nel marzo di quell’annoOttolenghi aveva pubblicato nel locale trisettimanale “LaProvincia” Protesta ed osservazioni intorno ad alcune parole dell’Eco del Tanaroche si riferiva all’articolo a puntate (in particolare quella del 28febbraio 1864) di Leale La perequazione riguardante la nuova leggesulla libertà d’usura che avrebbe danneggiato i proprietari e arric-chito “gli usurieri, gli strozzini, gli ebrei”; Ottolenghi rispose chegli ebrei erano stati dichiarati “redenti” da Carlo Alberto e, fuoridel Tempio, cittadini come gli altri; il giornalismo, tanto più se

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democratico come “L’Eco” avrebbe dovuto dissipare gli errori e ipregiudizi del passato, non far categorie di persone tra lorodistinte, altrimenti si potrebbe dire, in base agli atti giudiziari, chei cristiani sono nella più parte ladri o altro giacché i loro nomiricorrono più di tutti tra quelli dei malfattori. Leale sempre da“L’Eco” ribattè che la sua intenzione non era offensiva, ma “unmodo di dire proverbiale, improprio se vorrà, ma che si applicanel nostro paese a chiunque” se pratica l’usura; come fanno igiornalisti Leale utilizzerebbe allora il termine “israelita” quandoparla degli ebrei come classe di cittadini. Ottolenghi reiterò laprotesta in numeri successivi de “La Provincia” e l’“Eco” a questopunto l’accusò addirittura, “co’ suoi appunti futili, ignobili e scon-venienti”, di voler seminare discordia tra cattolici e israeliti. Lapolemica finì di fronte a un giurì d’onore composto da militari edistinti borghesi, ma tutto si risolse con le scuse del direttore chedisse di non aver voluto offendere né gli ebrei né Ottolenghi inparticolare 5.

Al di là di questi ambigui episodi non vi è dubbio comunqueche la nuova libertà abbia consentito agli ebrei alessandrini unarapida ascesa socio-economica 6, politica 7 e accademica 8.Apparentemente le stesse statistiche demografiche sembrano suf-fragare questo sviluppo: nel triennio 1864-1866 in città si arrivò acontare 800 ebrei su circa 30000 abitanti (per fare un confronto aCasale erano 700 e a Genova solo 250) 9. Come nelle altreUniversità israelitiche italiane, anche ad Alessandria, però, sel’Emancipazione offrì queste libertà e possibilità sociali ed eco-nomiche, soprattutto alle oligarchie dirigenziali della Comunità,parimenti causò una forte deriva identitaria, e, almeno comeintensità religiosa, una perdita del corpo sociale ebraico tradizio-nale. La Comunità era un’istituzione storica degli ebrei della dia-spora, che, soprattutto in Italia, godeva dovunque di una certaautonomia; già prima dell’instaurazione dei ghetti essa aveva lar-ghi poteri giuridici e amministrativi. L’Emancipazione tolse moltadi quest’autonomia, che comunque non cancellò certe caratteri-stiche comunitarie anche quando si tendeva a ridurre il tutto amansioni puramente “religiose” 10. A questo proposito nel 1857 fu

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emanata una legge, presentata proprio dall’alessandrino UrbanoRattazzi, sulla riorganizzazione delle collettività israelitiche rima-sta in vigore fino all’emanazione dei Regi Decreti del 1930. Lecomunità, a cui ci si iscriveva volontariamente e a pagamento,furono considerate corporazioni autonome e territoriali a caratte-re religioso con al vertice un consiglio eletto ogni tre anni e com-poste da chi risiedeva da più di un anno nelle località in cui essaera stata costituita, con un forte controllo dello Stato che abolivaanche la distinzione tra Università maggiori e minori. Era unalegge a cui si era lavorato già dal 1848 e che nacque come untentativo di riordinamento delle comunità del Regno di Sardegnamirante a ottenere un centro direttivo, fatto che incontrò l’oppo-sizione di Casale, Alessandria e Nizza Monferrato, anche per iltemuto laicismo in materia religiosa; altri progetti erano ugual-mente falliti, sempre per la loro resistenza 11.

Il contrasto tra la tendenza a un aggiornamento delle struttu-re comunitarie e quella di rinchiudersi in se stessi, si ripeté nelcaso di Alessandria all’atto della sua mancata adesione al primoimportante congresso ebraico nazionale tenutosi a Ferrara nelmaggio 1863, in cui si intendeva riorganizzare l’intero sistemacomunitario; ciò provocò le dimissioni di Donato Ottolenghi, cheinvece era favorevole all’unione, mentre il Consiglio temeva perla tradizionale autonomia della Comunità e per le spese occor-renti 12. Ottolenghi, d’altronde, già nel 1856 aveva pubblicato adAlessandria l’eloquente L’israelitismo piemontese e le proposte per un proget-to di legge sulla riorganizzazione delle comunità israelitiche dei regj Stati chemirava a realizzare un Consorzio delle varie Università ebraichee l’anno dopo Un nuovo appello alle comunità israelitiche, in cui egli rim-piangeva la mancanza di una rappresentanza comune che aiutas-se le Università più povere, o almeno la possibilità di associarsivolontariamente convocando un Comitato. Avrebbe ripreso que-sta sua idea di sussidio in Un atto di associazione, recensione del librodel condirettore dell’ “Educatore Israelita” Giuseppe Levi (1814-1874) l’Israelitismo Piemontese, in cui questi aveva lodato lo scritto diOttolenghi 13.

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li oscuri gli ebrei alessandrini seppero farsi ascoltare fuori daglistretti ambiti cittadini: lo testimonia il “caso Mortara” scoppiatonel giugno 1858 allorché il bimbo bolognese Edgardo Mortara(1851-1940) fu prelevato dai carabinieri pontifici, perché segreta-mente battezzato dalla giovane serva cattolica analfabeta. Di fron-te al rifiuto di Pio IX di restituirlo, nell’agosto dello stesso annole comunità israelitiche piemontesi si riunirono proprio adAlessandria, mandando richieste d’aiuto a quelle francesi e ingle-si; ne nacque un celebre caso internazionale che coinvolse stam-pa europea ed americana, suscitando pubbliche proteste, matutto fu inutile 14. Nel dettaglio un Indirizzo delle Comunità israelitiche diPiemonte ai concistori di Francia e d’Inghilterra fu firmato dai membridella Commissione amministrativa degli Israeliti d’ AlessandriaLelio Gherson Pacifico Torre (capo della comunità), SalomonPugliese, Moise Salvador Pugliese e Salomon Torre Ortona 15.

Sul “fronte” interno l’atteggiamento di chiusura ai cambia-menti tornò a farsi notare negli anni 1867-1871 in cui fu inaugu-rata la nuova sinagoga, fatto che avrebbe provocato una sorta discisma tra le fazioni dei conservatori e dei modernisti. Il proget-to era stato presentato una prima volta nel 1858 a nome dell’ing.Giacomo Della Torre (1834-1863) 16, ma per disaccordi internicirca i costi da sostenere se non per piccoli rifacimenti 17 non sene fece nulla fino al 1867 quando partirono i lavori diretti dal-l’architetto non israelita Gianni Roveda, dopo che in un primotempo il progetto del restauro era stato affidato allo stimato archi-tetto vercellese Marco Treves (1814-1898) 18. Il Tempio Israeliticosarebbe stato inaugurato ufficialmente il 30 giugno 1871 alla pre-senza delle autorità cittadine, del rabbino di Torino SalomoneOlper (1811-1877) chiamato appositamente, di Alessandro Foa (n.1815) rabbino di Trino, di cattolici di alta posizione sociale, inse-gnanti superiori, autorità militari e distinti cittadini. L’interno,migliore dell’esterno, presentava un soffitto ornato a stucco egrandi lampadari

“Le Bibbie che erano state collocate provvisoriamente

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in una stanza attigua al nuovo Tempio appositamenteaddobbato, vennero portate nell’Arca Santa dai pubbliciofficianti e dai membri del Consiglio Amministrativo alume di torchie che erano tenute dai maggiorenti dellaComunione, e fra i concerti di musica sacra scritta apposi-tamente per la circostanza dal valente maestro sig. Rollandche nel breve volgere di pochi mesi instruì un coro com-posto di quindici a venti giovanotti appartenenti alla nostraComunione.”

Dopo l’orazione di Olper, che durò quasi un’ora nel silenzioemozionato degli astanti, la festa si chiuse con la Benedizione alRe e ai presenti secondo il rito ebraico. Una cantica fu anchescritta all’uopo dall’allora studente in legge F. G. Vitale e stampa-ta da una società di amici 19. Tutto ciò, però, non sanò la spacca-tura della Comunità alessandrina tanto che si arrivò perfino aduna vacanza del seggio rabbinico durata quasi un decennio.Esiste una sentenza depositata a Casale presso la Corte d’Appelloriguardante il Consiglio d’Amministrazione dell’UniversitàIsraelitica di Alessandria che mostra i contrasti emersi tra il suoPresidente Moise Salvador Pugliese – coadiuvato dai ConsiglieriElia Levi De Veali (1794-1876) figlio del defunto rabbinoMaggiore Moise Zecut, il banchiere cav. Bonaiut Vitale, DavidDebenedetti e Leon Pugliese – e l’avvocato Marco Levi De Veali(1834-1896), Abram Samuel Levi, Elia Bonaiut Levi De Veali (n.1815), il banchiere Matassia Torre, Zecut Levi De Veali fratello diElia ed il barone Giuseppe Montel (1830-1919), residente a Pisa.Questi ultimi a causa delle divergenze riguardanti le antichecostumanze della Comunità fin dal 1869 avevano deciso di for-mare un’ associazione religiosa fuori dell’Università Israelitica e aessa non più tributaria, perché gli appellati contestavano che nelrito l’Università avrebbe trasformato l’oratorio delle donne in unaspecie di galleria teatrale e quindi non ci sarebbe più stata la“gelosia” che fino ad allora consentiva a queste di presenziarealle cerimonie senza esser viste dagli uomini. Il Consigliod’Amministrazione dell’Università ribatté di aver sospeso le dete-

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state riforme e di aspettare la decisione dell’ Assemblea dellacomunità, unica competente sulla questione anche secondo gliappellanti, e che comunque il nuovo Tempio era stato edificatosenza opposizione di costoro e anzi migliorato come loro vole-vano con l’elevazione del parapetto delle donne che toglieva lavisione degli uomini, in più il Consiglio non aveva mai pensatod’istituire organi e cori musicali o innovazioni circa le luci e lepreghiere, cose queste ultime che tuttavia i “dissidenti” non ave-vano contestato. Essendo stato ripristinato nel frattempo il ritualecome d’uso prima dell’edificazione del nuovo Tempio la Cortedichiarò intempestiva la domanda di separazione proposta; solodopo la decisione dell’Assemblea i dissidenti avrebbero potutocontestarla e andarsene dall’Università. Con ciò il Consiglio venneassolto, a meno che gli appellati non intendessero chiedere unnuovo processo qualora l’Assemblea dei fedeli volesse approva-re le riforme suddette 20. La frattura, però, si era ormai aperta.

Per capire meglio la diatriba, va ricordato che dopo il 1848 lesinagoghe italiane furono modificate attraverso la costruzione diuna facciata esterna con ingresso dalla strada, pur se prima del-l’entrata spesso, come ad Alessandria, c’è una grossa e robustainferriata. Anche l’interno cambiò: non più il leggio centrale coibanchi intorno, come quando il Tempio era anche il luogo in cuisi trattavano i problemi della comunità; “leggio” (tevah) e “Arcasanta” (l’Aron ha-Qodeš che contiene le Tavole della Legge) sono aun’estremità e i banchi disposti davanti in file parallele, comenelle chiese 21. Anche ad Alessandria la nuova sinagoga è a pian-ta longitudinale con tevah subito davanti l’Aron e un pulpito in ori-gine assente. Tutto ciò ha un’importanza capitale per compren-dere la trasformazione avvenuta in quegli anni all’interno dellacomunione alessandrina, che non agì più dentro le fragili peròovattate mura del ghetto, ma si dovette confrontare con unasocietà in divenire che in Italia stava conoscendo per la primavolta, almeno a livello di borghesia, una diffusa realtà laica.Dietro i richiesti cambiamenti del rituale allora sembra evidentel’eco flebile di una fede non più salda perché deve essere senti-ta dall’individuo e non semplicemente tramandata dall’ambiente

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circostante, in cui la stessa figura del rabbino, quantunque nellaseconda metà dell’Ottocento Alessandria continui a essere unimportante centro di studi ebraici, non rappresenta più il “collan-te” della comunità e colui col quale i correligionari interagivanoanche per ogni evenienza pratica, ma sempre più solo un offi-ciante di riti 22. D’altronde lo stesso termine usato per indicarequella che fino al 1848 veniva chiamata “Scola” per designare lasinagoga in quanto luogo di raccolta per pregare, studiare la Torahe discutere di fatti quotidiani, è sostituito da “Tempio”, perché ilnuovo o restaurato edificio è ormai soltanto casa di preghiera. Unriflesso di questa situazione è che in Italia le sinagoghe, che unavolta erano aperte per i servizi religiosi due volte al giorno, dopol’Emancipazione ebbero difficoltà a raggiungere il quorum neces-sario persino per una volta sola alla settimana 23.

La stessa educazione ebraica era di solito trascurata. Infatti,detto che dagli archivi consultati risulta che assai pochi erano glianalfabeti all’interno della Comunità 24 (dalla calligrafia si direbbeche comunque le donne fossero meno versate degli uomini nellascrittura latina), diversa era la situazione riguardo alla conoscen-za dell’ebraico: un segno della diminuita padronanza della linguasacra è data da alcuni contratti matrimoniali (le artistiche ketubbot)coevi. In genere, a parte ovviamente i rabbini, la familiarità conl’ebraico dello sposo e dei testimoni sembra complessivamentepiuttosto scarsa e così in uno vergato ad Alessandria nel 1859 losposo, il ventenne Abram Jacob Vitale, si firmò direttamente initaliano 25. Altro segno di un adattamento ai tempi nuovi il fattoche una volta in Piemonte firmava, come presso gli aškenaziti,solo lo sposo; ora, a dimostrazione di un influsso della normati-va civile, sempre più spesso lo farà anche la donna (sempre initaliano), poiché essendo un documento per il suo valore giuri-dico da conservarsi solamente presso la sposa, non ci sarebbestata necessità di farlo 26.

Per reagire a questa situazione di abbandono o comunque tra-scuratezza della tradizione avita Vitale “il brioso, arguto pubblici-sta”, come lo definì il direttore del “Vessillo” Flaminio Servi (1841-1904), scrisse le Confessioni Israelitiche, giacché considerava un para-

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dosso in tempi di libertà e una sventura per l’umanità la scom-parsa del giudaismo, per lui maestro di civiltà. Le Confessioni, pub-blicate a puntate su “Il Vessillo Israelitico” nel biennio 1879-1880,raccontano la vita dalle parti di via Milano venticinque anniprima, quando il cancello che delimitava il ghetto solamente dapoco era stato finalmente aperto, anche se ciò che gli interessa-va esporre non era comunque la sua giovinezza quanto ammae-strare sulla trascurata storia dell’israelitismo italiano durantel’Emancipazione.

Il suo primo ricordo lo riconduce a un bel mattino d’invernoquando entrò nello stanzone semibuio della scuola Foa sullebraccia della vecchia Teresa che lo lasciò tutto solo “sotto unafinestrucola dai vetri piccini impiombati, incerottati di carta”.Prima passava il tempo nel “cortiletto sucido della casa affollatosempre di marmocchi e perpetuamente sonante di allegri chias-si.” Nell’aula si stava pigiati una quarantina

“sotto i tetti del vecchio ghetto alessandrino, uno stan-zone col soffitto di travi istoriate color cioccolatte collemuraglie grommose, untose fin dove giungevan le maninee le teste dei piccini e più in su d’un bianco scialbo fulig-ginoso, uno stanzone cui davan aria e luce due finestric-ciole su un ballatoio di legno ingiallito, scricchiolante,gemebondo, e una porticina smilza coll’uscio greve, fode-rato di lamine, col fessolino a maniglia d’ottone e il gros-so battente dietro in un batuffolo di tela che lo spingevacontro i pilastrini con gran fracasso” 27.

I mobili scolastici erano un lungo tavolo nero colle gambecurve e “un tavolone sciancato, noccoluto, inverniciato dai gomi-ti, ricamato dalle unghie e dai temperini con delle sinuosità seco-lari agli angoli e delle ampie barbare ferite in ogni punto”; c’era-no poi panchette e panchettine zoppe, alcune sedie rotte e unmisero tavolino usato per raccogliere i quaderni degli scolari. Ilpavimento era costituito da vecchi mattoni rossicci e su tutto alle-gria, cantilene, pianti, botte e baci fra gli alunni, in mezzo a un

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lezzo piuttosto acre. Ci si entrava al mattino e si veniva ripresi altramonto; si iniziava cantando lo Scemangh e, i più grandi, borbot-tando la Tefilà, dopo la seconda colazione c’era poi la lezione d’italiano, a mezzogiorno arrivavano Teresa e Margherita per ilpranzo più o meno ghiotto a seconda delle possibilità economi-che dei bambini, i poveri chiedendo dai ricchi cibo migliore delpane bigio e della sola zuppa. Il peggio giungeva al pomeriggio:le ore di ebraico del vecchio maestro Foa da Fossano, dottissimo,buono, arguto e di costumi integri, ma a causa del suo monoto-no suono da macchinetta automatica assolutamente negato perl’insegnamento 28, che contribuiva, come altri d’altronde, a rende-re odiosa la lingua più antica e superba dell’uomo e ad allonta-nare dalla fede ebraica i giovani. La noia che procurava a lui eagli altri bambini Foa, col suo insistere sull’insegnamento di voca-li e consonanti senza alcuna spiegazione della sintassi della frase,ricorda Vitale all’inizio del capitolo intitolato L’HHeder (la tradizio-nale scuola elementare ebraica), lo faceva cinquenne evaderedalla monotonia biascicante delle preghiere e tuffarsi nel mondodella fantasia, “fuori dalla topaia buia tutta polvere e tanfo delghetto alessandrino”. Egli era al tempo una specie di miscreden-te tormentato da un Dio vendicatore e spione che doveva esserepregato tre volte al giorno per almeno un’ora, cioè quando ci silavava, prima e dopo essersi cibati, nell’entrare in casa, nell’u-scirvi; si doveva inoltre benedire sempre ogni ora l’“asciugamano,il tovagliolo, la Mezuzà, dappertutto”. Così, per puro gusto d’eva-sione un venerdì sera lanciò un grosso sasso dentro la sukkahmessa in piedi da suoi “complici”, rovesciando pericolosamentela lampada contenutavi: “se ne diede, come era logico allora,tutta la colpa ai Goim e io rimasi zitto” 29.

Nell’auletta c’era anche la buona e paziente signora Rosinauna zitella dall’aspetto già di donna matura, che viveva in fun-zione del vecchio padre e del fratello. Sgridava i bambini, masenza dar loro pizzicotti alle braccia come faceva Foa quandocostui non riusciva a mantenere l’ordine, picchiando con le mollesul graticcio del braciere o con la riga sulla tavola. Bimbi e bimbestavano tutti insieme, in un’epoca, aggiunge l’autore, in cui

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mostrare un braccio era peccato mortale, tanto a ogni evenienzaci pensava la signora Rosina a suon di ceffoni a insegnare ladecenza, anche se Vitale non capiva il mistero che si celava die-tro a tutto ciò, ma stava zitto perché in casa Foa non se ne pote-va parlare; questo però gli era servito (bonta sua!) a venir sucastigato negli atti e nelle parole. Quand’era Sabato il bidello delcollegio correva di bottega in bottega a fare auguri per questogiorno di festa, mentre padri e figli si vestivano bene con lescarpe lucidate di fresco per andare al Tempio e i ragazzetticome lui si radunavano presso il rabbino Levi che li benedicevacon le mani sul capo, aspettando poi la cena illuminata dallalampada benedetta. Il giorno dopo tutti andavano a passeggiarein campagna con la merenda in tasca dopo un pranzo abbon-dante e quindi “l’Avdalà, la breve cena e la partitona alla tombo-lina colle vicine di casa, incuffiate ghettaiole, gazzette vive, ine-sauribili di fatti varii con tanto di appendici, facezie e giochettidi parole” 30. Alla domenica quanti mal di denti e di ventre perfar durare il Sabato fino al lunedì ed evitare la scuola! Che tutta-via permetteva almeno di tornare a sognare insieme a un suoamichetto d’esser enormemente ricchi, signori di regni infiniti,palazzi fantastici, carrozze e vagoni di ferrovie d’oro in cui fareviaggi meravigliosi.

Un’altra distrazione era sentir parlare dei cristiani (i suddettiGoim), ancora odiati e temuti in quel 1855: “In quei primi anni divita noi eravamo ancora accolti ad urli selvaggi di scherno e dabusse. Non si poteva uscir soli senza udir grida rabbiose d’ol-traggio, non si era sicuri mai a traversare soli una strada fuori delghetto” 31. Gli adulti raccontavano i soprusi passati ed erano sem-pre diffidenti della società esterna. Un giorno, però, ritornò nelghetto, reduce dalla Crimea, il mitico tamburino Angelo Vitale(1834-1879), primo soldato israelita piemontese, e per mesi siparlò solo di lui; ciò indirizzò i sogni dell’autore verso impresecoraggiose perché, inaudita novità, un ebreo in armi potevadimostrarsi un vero uomo 32. Questo

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molta quiete a Teresa, che si vide minacciata seria-mente nelle scope e nei setacci da me trasformatiostinatamente in fucili e tamburri, coi quali fracassa-va i vetri e rompeva le orecchie di tutti nel sucido,buio, pantanoso vicolo del Fiore, così chiamato certoper felice ironia.”

Si mise perfino a far disegni guerreschi sui quaderni, sui murie sulla lavagna del maestro Foa 33.

Sfortunatamente per contrasti con Servi Vitale non proseguìper diversi anni la sua collaborazione col “Vessillo” 34 e in ognicaso non tornò più alle sue reminiscenze d’infanzia. Restanocomunque alcuni suoi articoli sul “Vessillo” in cui riflettè amara-mente sul tema della crisi religiosa interna alle comunità italiane.In Esami all’Istituto Internazionale Italiano in Torino, scrivendo dellascuola diretta da Agostino De Grossi, dove si trovò a dover esa-minare gli studenti israeliti (italiani e stranieri) sulla conoscenzadella lingua e religione ebraica, ripensò a ciò che un mese primagli aveva detto Donato Ottolenghi, mentre erano nella scuola diAlessandria, circa il fatto che al sabato non ci fosse al Tempionemmeno un ragazzino; Vitale ne diede la colpa agli studi “nor-mali”, che sottraevano tempo alla sua frequentazione, e alla “stu-pida vanità moderna” cui anch’egli un tempo cedette 35.Concludeva il suo scritto lamentando la dimenticanza della tradi-zione giudaica da parte dei figli, come se fosse un inutile fardel-lo (mentre all’estero era patrimonio importante nella vita delloscienziato e del cittadino) e felicitandosi invece per le preghiererecitate e le storie e le feste raccontate dagli studenti ebrei di fron-te a professori cristiani, arabi, buddisti, protestanti di tutti i conti-nenti che li applaudirono con ciò marcando il progresso fatto daitempi del ghetto, giacché ora un direttore cristiano obbligava adun serio esame lo studio dell’Ebraismo, che Vitale vedeva in tantisuoi correligionari trascurato se non disprezzato.

Se Vitale nei suoi articoli sottolineava con orgoglio un passa-to da non dimenticare senza però offrire soluzioni pratiche allacrisi del suo tempo (forse perché i suoi interessi lavorativi erano

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ormai fuori Alessandria), Ottolenghi fu invece un dinamico “fore-stiero” 36 intenzionato ad agire sul presente senza ritenere gli usidei tempi antichi qualcosa di inalterabile. Questo lo si nota inparticolare nel suo Un colpo d’occhio sulla Comunità israeliticad’Alessandria, del giugno 1858, dove partendo dalla considerazio-ne che l’espressione più evidente della fede israelitica èl’Oratorio, cioè la sinagoga, sostiene fosse allora sbagliato che cifosse gente che passasse lì il tempo “a guatare, a spiare quà [!] elà ove si chiacchiera e si cinguetta, acciò intervenire ciascuno allasua volta in quei crocchi, o formarne altri per esilararvisi”. E lostesso più o meno accadeva durante i riti principali e nei giornifestivi. Non doveva così sorprendere se pure i ragazzi facevanochiasso tale essendo l’esempio degli adulti 37. Egli ne individuò lacausa nello stato di prostrazione in cui era ridotta la pubblicaistruzione prima del 1848 e l’ educazione religiosa (oltre tutto noncollegate fra loro né adatte alla cultura moderna) anche neglianni successivi; secondo lui per colpa delle interdizioni civili esociali che colpivano gli ebrei piemontesi e per l’apatia deglianimi e l’ incuria di chi doveva istruire. Per ciò nel 1855, grazieal Consesso Amministrativo e al Rabbino Maggiore (e al suo stes-so contributo), venne eretta in Alessandria una scuola elementa-re e superiore israelitica che vi rimediasse. Il Pastore (ossia il rab-bino) si assunse la parte superiore dell’insegnamento e ne fu pre-side su incarico del Comitato d’ispezione, a cui Ottolenghi appar-teneva; non mancavano poi diversi maestri preposti all’ insegna-mento primario 38.

Nel Colpo d’occhio affermò che ciò però non era sufficiente senzaun migliore esempio religioso generale e la riforma di una litur-gia fatta di preghiere oramai inutili e troppo lunghe, e miglioricantori rispetto agli attuali che spesso stonavano, anche se questinon erano difetti ristretti alla sua nuova comunità 39. Servirebberoun coro di giovinetti istruiti nell’arte vocale e un organo o stru-mento simile, come già si era fatto a Asti e Vercelli, mentre aTorino, dove vi era un efficiente Comitato di beneficenza, l’orga-no aveva sostituito l’armonium. Inoltre, per evitare la decennaleconfusione nel Tempio di cui egli fu testimone sarebbero utili

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discreti vigilanti, più solerti di quelli che pure un tempo forse esi-stevano. Tutti questi cambiamenti erano tuttavia inutili se non siampliava e migliorava l’Oratorio, finanziando la sua ristruttura-zione con un contributo volontario collettivo e forse anche lacreazione di un Comitato eletto appositamente di quattro o cin-que persone, di un “Imprestito Pubblico” che emetta un numeroprestabilito di azioni e pure l’utilizzo di parte dei fondi delle varieconfraternite benefiche. Esistendo già una scuola elementare esuperiore, si faccia pure un asilo infantile misto 40, come a Torino,Casale e Saluzzo, con la gestione del Consiglio e l’aiuto dei pri-vati: servirebbe a dirozzare e far svolgere attività ginnica in salecomode e salubri, non come nelle attuali scuole private troppopiccole e dove i bimbi vegetavano e si dimenavano per ore inluoghi poco igienici; invece così uscirebbero dall’asilo pronti edisciplinati per la Scuola Pubblica e ci sarebbe anche vantaggioper le ragazze agiate o povere che apprenderebbero al di là del-l’età infantile le nozioni essenziali per procacciarsi in futuro unonesto mestiere. Notando poi che anche le donne disertavanoabbastanza i culti, a parte qualche grande solennità, perdendosipresto in frivoli intrattenimenti, egli suggerì loro di associarsi nelpromuovere, per esempio, la privata e pubblica istruzione e apatrocinare gli interessi dei sofferenti.

Al tema dell’israelitismo muliebre Ottolenghi anni prima avevainteramente dedicato il suo Progetto di patronato a favore delle povere figlieisraelite. Partendo dalla considerazione che le zitelle povere eranoridotte all’ abbandono spesso per colpa delle loro stesse famigliee quindi difficilmente potevano schivare “gli scogli dell’indolen-za, le tentazioni del vizio, le insanie delle passioni, la demoraliz-zazione della miseria e dell’ignoranza” 41 e che non sussistevanoin Piemonte ospizi per le ragazze indigenti pensò dovesserooccuparsene le donne, che sono più misericordiose dell’uomoessendo (zeitgeist!) gentili per loro natura, riunite in un’appositaAssociazione di Patronato. Dovrebbe essere un Ricovero o unaCasa di educazione e lavoro dagli otto anni ai 18/20, da cui usci-ranno buone israelite e utili cittadine, corredate di una “missioneconiugale e materna”, con “regolare istruzione dei più necessari

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e facili elementi dell’umano sapere”, quali imparare “lavori don-neschi”, e ricevere sussidi annuali o periodici, premi a sorte perle più abili e di buona condotta (naturalmente però la somma fis-sata al riguardo dovrà “unicamente servire pel caso d’unionecerta e determinata in legittimo e religioso matrimonio”) 42. La pre-detta associazione doveva essere costituita in ogni Universitàisraelitica ed essere una Società femminile con oblazioni o con-tributi mensili annuali a favore delle figlie povere in modo da farloro apprendere un mestiere, avere un’educazione e facilitare unaloro appropriata sistemazione; questo porterebbe a un Comitatodi Patronato stabile e fatto di donne amministranti l’anzidettaSocietà. Esse aggregheranno le figlie bisognose e le classifiche-ranno secondo attitudini e disposizioni fisiche e morali che per-metteranno d’inserirle nella scuola delle maestre più capaci onelle botteghe ove applicarsi; età, durata e uscita dal patronatosarebbero state decise da un regolamento da stabilirsi. Si preve-devano premi come la distribuzione di libri di morale e di edu-cazione, indennità alle famiglie e alle stesse figlie premiate; lesomme potrebbero essere trattenute in deposito dalla Società finoalla conclusione del loro apprendistato. In certi giorni le ragazzeavrebbero anche potuto seguire corsi di religione, italiano, arit-metica e altre eventuali discipline elementari, come già previstoper le israelite in Inghilterra e Francia 43; possibili esami potreb-bero essere svolti nell’anniversario della fondazione dell’ istitutoo durante una ricorrenza religiosa.

Un altro impegno che Ottolenghi assunse fu quello dell’ini-ziazione religiosa per la gioventù di ambo i sessi, che in pocheComunità piemontesi era praticata 44. Pochi anni dopo fu lietodi annunciare che, dietro suo suggerimento, ad Alessandria siera adottato un modo più dignitoso per celebrare il Bar mi ṣvahe che suo figlio era stato tra coloro che inaugurarono la nuovasolennità 45. Soprattutto egli era convinto che, grazie a chi istruìi partecipanti, essa non fosse stata un semplice sforzo mnemo-nico che nascondesse in realtà ignoranza religiosa e negligen-za morale 46.

L’attività per cui si ricorda Ottolenghi è tuttavia quella assi-

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stenziale, in particolare di riorganizzatore delle sue forme istitu-zionali, essendo per lui la beneficenza un principio stesso delGiudaismo. Il Colpo d’occhio, in effetti, includeva una veloce disa-mina degli istituti di beneficenza israelitica presenti nell’Universitàisraelitica alessandrina a partire dalle due Confraternite principa-li: quella della Misericordia e quella della Buona Morte; a parte siparlava poi delle due opere Pie Pugliese (dal nome di coloro chele costituirono) 47 per dotare i poveri di vesti, biancheria e dena-ro liquido, rette l’una privatamente per volontà del testatore e l’al-tra da un comitato presieduto dal rabbino. Sopravviveva la seco-lare associazione religiosa detta dell’Amante della pace, che s’oc-cupava di pratiche ascetiche e rituali consistenti nell’andare ognigiorno a turno a pregare in casa dei confratelli e assistere i dise-redati; anche se ogni anno celebrava la sua festa nel giorno dellasua fondazione aveva tuttavia perso affiliati e avrebbe avuto forsebisogno di essere riorganizzata. Nel dettaglio, la Confraternitadella Buona Morte da due anni non riuniva i soci e da tre prati-camente non si riscuotevano quote e offerte; mentre per quelladella Misericordia Ottolenghi non disponeva dei documentinecessari alla sua storia e vicende attuali, in ogni caso gli risulta-va che erano almeno dieci anni che non veniva reso pubblico unsunto della situazione e non si rilasciava nemmeno un resocontofinanziario, quantunque la sua condizione apparisse favorevole ele rendite fossero sufficienti a coprire gli oneri di gestione e alsoccorso di vedove, anziani cagionevoli di salute e lungodegen-ti. Sarebbe stato importante rendere la situazione dellaCompagnia della misericordia di dominio pubblico in modo dacreare uno spirito di imitazione e immettervi nuova linfa, purchévenisse abolita la permanenza in carica “a vita” degli stessi Priori,estratti da un Comitato che li nominava come da una ristrettafamiglia; certamente altri filantropi entrerebbero volentieri a farneparte se potessero.

Stesse tematiche Ottolenghi affrontò nel 1862 sulle colonne de“L’Educatore Israelita”, in cui si annunciava che con appositoopuscolo egli progettava un Comitato centrale di beneficenza adAlessandria e su “L’Eco del Tanaro” del 28 gennaio 1864 dove

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compariva invece la sua proposta di un comitato invernale dibeneficenza, che lo vedranno attivo ancora l’anno successivo 48.Di nuovo, nel 1877 un suo articolo al “Vessillo” è Sulle Confraterniteche sono in decadenza; peggio, in Alessandria la cattedra rabbi-nica è vacante, “la predicazione silenziosa”, l’istruzione religiosadepressa, c’erano una perdurante separazione e un dualismo reli-gioso esiziali agli istituti caritatevoli; così bisognava riorganizzarela Confraternita di beneficenza, anche perché molti avevano pro-messo soldi in suo favore, ma non li avevano dati, compresi lasci-ti testamentari e retribuzioni per commemorazioni funebri anchedi 10 o 15 o perfino 30 anni prima. Per questo già da due anniaveva mandato una lettera al titubante Consiglio di amministra-zione nella persona di Moise Salvador Pugliese, a cui non furisposto: in essa chiedeva di sapere l’esatto ammontare dei cari-chi regressi, anche verso il Pubblico erario, migliaia di lire chedovevano andare ai poveri 49. Infine in Spirito e scopo delle confraterniteIsraelitiche (1879), un estratto della relazione manoscritta che stilòcome schema riorganizzativo della Compagnia di misericordiad’Alessandria, Ottolenghi propugnò un assetto e uno svolgimen-to economico più razionali, pur salvaguardando il valore dellacarità israelitica 50.

Come si vede si ha l’impressione che le iniziative diOttolenghi abbiano avuto un effetto solo effimero e che dopopoco tempo gli stessi problemi si siano riproposti, perchéanche quando istituzionalizzate esse erano legate alla volontàdi un uomo. Intanto negli stessi anni, “dopo le tempeste” 51 sitornò a intravedere il sereno quando sulla cattedra rabbinicaalessandrina risalì l’ortodosso Elia Levi Levi De Veali, valenteoratore ed esperto in lettere sacre, la comunità non essendosifatta “abbindolare dalle mene di qualche intrigante (nond’Alessandria), il quale, siccome vorrebbe ficcare il naso dap-pertutto, così s’era fitto nel cervello di imporre esso adAlessandria un suo protetto!!” 52.

Furono le esequie di Vittorio Emanuele II celebrate il 6 feb-braio 1878 a ricondurre nel Tempio di Alessandria il rabbino mag-

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giore e insieme a lui quelli della sua fazione; ancora due anniprima, invece, in un articolo panoramico sulle varie comunitàEmilio Donato Bachi (1815-1885), rabbino maggiore di Saluzzo,si dispiaceva che ad Alessandria ci fosse un facente funzione dirabbino (che non conoscendo di persona non nominò), nono-stante la presenza di un personaggio del valore di Elia Levi DeVeali 53. Alla fine fu bandito un concorso per colmare il seggiorabbinico vacante che prevedeva uno stipendio di 2000 lire “tuttocompreso” (testuali parole) e l’obbligo di praticare la circoncisio-ne e suonare lo šofar, ma quasi nessuno concorse (molti rabbinineppure videro il programma inviato invece come di solito aiConsigli d’ Amministrazione); forse, come altrove, le cose eranogià state fatte in famiglia 54. Dalle pagine della sua rivista il diret-tore Servi non esitò a dire che la comunità di Alessandria era“tutta rinchiusa in sé stessa”. Il rabbino fu scelto secondo unaprocedura decisamente scorretta: non venne interpellata la comu-nità come pure voleva la legge e fu eletto non l’unico parteci-pante (un livornese), ma chi non concorse, avendo avvisato cheper l’età avanzata non avrebbe potuto esercitare, ossia Elia LeviLevi De Veali. D’altra parte le cose qui andavano avanti, proseguìServi, “con quella svogliatezza con quell’ indifferenza glaciale chenon la fa più riconoscere da qualche lustro addietro” 55, questo,proseguiva, nonostante la presenza dei due bravi maestri, Foa eVitale, che meriterebbero qualche titolo più di quelli dati ad altrimeno meritevoli. In ogni caso, scrisse in una delle puntate delsuo articolo, Impressioni di viaggio, pur essendo stato nominato il rab-bino, le cose, almeno ai primi di febbraio del 1879, non eranoancora state appianate 56. Il mese seguente però il vice-rabbinoEmanuele Foa annunciò che era stato festeggiato l’anniversariodell’Emancipazione insieme all’installazione del riconfermatoRabbino Levi De Veali in un Tempio illuminato come nei riti mag-giori, accompagnato dai membri del Consiglio d’amministrazionedell’Università israelitica e dai maestri officianti e che il giornodopo il rabbino fece un forbito discorso in cui parlò della ricor-renza delle Reali Franchigie per gli Ebrei. Ora, assicurava Foa, perlo spirito di conciliazione del rabbino e di tutti gli israeliti di

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Alessandria dopo anni erano tornate nella Comunità pace e con-cordia 57.

Figlio del rabbino Matassia (1781-1835) il settantenne rielettonon rimase a lungo in carica, morì infatti alla fine del 1880 e le“splendide onoranze funebri” 58 che ricevette il mese seguente e acui parteciparono, tra gli altri, il rabbino di Acqui, LazzaroOttolenghi (1820-1890) 59, il vice-rabbino di Vercelli GiacobbeCarmi 60 e il deputato locale l’avv. Giovanni Battista Oddone(1826-1911), non poterono cancellare i segni della decadenza cul-turale dell’israelitismo alessandrino, come simboleggia la disper-sione della sua ricca biblioteca che non era solo cartacea testi-monianza di una saga familiare cominciata nella Palestina deltardo XVI secolo, svoltasi poi in Emilia e infine dal 1738 inAlessandria, ma parte della storia di una comunità che stava ini-ziando a dimenticare il suo prestigioso passato 61.

Successore di Elia sarà il moncalvese Salvatore Momigliano(1856-1890), il primo rabbino non alessandrino dopo quasinovantanni, fatto di una certa rilevanza simbolica alla luce diquanto scritto. Durante il suo breve incarico anch’egli si troveràad affrontare i problemi della cosiddetta assimilazione a cui cer-cherà di porre rimedio coi suoi scritti e la sua predicazione reli-giosa, ma ormai la comunione alessandrina andava sempre piùperdendo rilevanza e diversi suoi membri si spostavano in centripiù vivaci dal punto di vista economico e culturale (Milano,Genova, Torino e Firenze). Restava quasi soltanto, come nei cita-ti ricordi di Vitale, un’ironica nostalgia del tempo andato e qual-che vecchia polemica.

NOTE

1. Nato ad Alessandria il 20 luglio 1851, nel periodo in questione scrive-va sul “Risorgimento”, il “Fanfulla” (col nome di Iacopo), l’“IllustrazioneItaliana” e l’“Eco delle Industrie”, oltre che essere autore delle Rimembranzedi Londra, del volume di versi Le Primavere e di tre racconti al tempo di uncerto successo intitolati di Battaglie di cuore. Angelo De Gubernatis(Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, Firenze, coi tipi dei successori

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Le Monnier, 1879; p. 1050) lo definì verista in letteratura, “quasi asceticoin religione, conservatore in politica”.2. Nato ad Acqui Terme il 7 novembre 1820, morì ad Alessandria il 5ottobre 1883. Ardente patriota, corrispose con i fratelli D’Azeglio, AurelioBianchi-Giovini, Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti; molto ricco e mem-bro di varie associazioni, si dedicò assiduamente ai poveri, non neces-sariamente israeliti, di Alessandria come mostrano i suoi articoli su quo-tidiani locali e riviste e vari suoi opuscoli. Sovvenzionò l’Alliance IsraéliteUniverselle, cfr. “L’Educatore Israelita”, IX, 1861, 1; p. 29 e il “Bulletin del’Alliance Israélite Universelle”, VIII, 1867; p. 184.3. Cfr. Felice Giacomo Vitale, Confessioni Israelitiche, in “Il VessilloIsraelitico”, a. XXVIII, 1880; p. 41.4. Giovanni Berta, Cenni di cronistoria alessandrina dall’anno 1168 al 1900,Alessandria, Jacquemod, 1903; p. 132.5. Cfr. “L’Educatore Israelita”, a. XII, 1864, n. 5; p. 120.6. Mi limito qui al caso del ciabattino Michele Vitale (1831-1907) chenello stesso 1848 poté aprire un negozio poi, in società col fratelloAngelo (1835-1919), trasformato nel Premiato Calzaturificio Vitale deditoal commercio di scarpe e pellami in Piemonte, Lombardia e Liguria. Cfr.F. Gasparolo, Raccolta di iscrizioni alessandrine, Alessandria, Società di Storia,Arte e Archeologia per la Provincia di Alessandria, 1935; pp. 419-420.7. Nel 1866, divenne consigliere comunale il barone Donato Montel (m.1868) (cfr. “L’Educatore Israelita”, a. XV), così come anni dopo il cav.Emilio Ottolenghi (acquese, 1830-1908), già membro della Cassa diRisparmio (cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XXVII, 1877; p. 330). SalvatoreFoa in Gli Ebrei in Alessandria (Città di Castello, Unione Arti Grafiche, 1959;p. 64), segnala che il primo consigliere comunale israelita fu il banchie-re Raffaele Vitale nel 1850.8. De Gubernatis (Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, cit.; pp. 632-633, 1050) nomina Marco Vita Levi, di famiglia vercellese ma nato adAlessandria nel 1853, che studiò legge a Torino dove si laureò nel 1874con una tesi sulla comproprietà; suoi scritti furono editi a Barletta, Pisae Torino. Non sbocciò purtroppo la carriera di Michele Torre, studentein medicina morto ventenne ad Alessandria il 23 ottobre 1858, che avevastudiato quattro anni medicina all’Università di Torino (cfr. “L’EducatoreIsraelita”, a.VI, 1858, n. 11; pp. 340-341).9. Cfr. “L’Educatore Israelita”, a. XII, 1864, n. 12; pp. 358-359; e a. XIV,

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1866, n.12; p. 363. Nel 1880 il loro numero era sceso a 650 e continuò adiminuire (cfr. Statistica degli ebrei, in “Il Vessillo Israelitico”, a. XXVIII,1880; p. 330) a causa di decessi superiori alle nascite.10. Amos Luzzatto, La comunità in Italia durante il fascismo, in Gli ebrei in Italiadurante il fascismo, Sala Bolognese, Forni, 1981; pp. 15-17.11. Ester Capuzzo, Gli ebrei nella società italiana. Comunità e istituzioni traOttocento e Novecento, Roma, Carocci, 1999; pp. 94-96.12. Cfr. “L’Educatore Israelita”, a. XI, 1863, n. 12; pp. 393 e 397-398. LaDirezione del periodico, riferendosi ad Alessandria, ritenne che “l’idea dimunicipalismo non possa aspirare a molta lode”. Ottolenghi pubblicòanche uno scritto in cui espose i suoi vani tentativi d’associare la suacomunità alle altre intervenute a Ferrara. Lo si veda sempre in“L’Educatore Israelita”, XII, 1864, 2; p. 25.13. Cfr. “L’Educatore Israelita”, a. VI, 1858, n. 2; pp. 52-54.14. Cfr. Riccardo Calimani, Storia dell’ebreo errante, Milano, Rusconi, 1995;pp. 485-490.15. Cfr. Roma e la opinione pubblica d’Europa nel fatto Mortara. Atti, documenti, con-futazioni, Torino, Unione tipografico-editrice, 1859; pp. 75-76. Anche lastampa alessandrina partecipò all’affaire: Gemma Volli, II caso Mortara nel-l’opinione pubblica e nella politica del tempo, in “Bollettino del Museo delRisorgimento” (a. V, 1960 p. 1095), ricorda come “Il Riscatto” fu tra i gior-nali favorevoli ai Mortara.16. Fu anche consigliere comunale; cfr. “L’Educatore Israelita”, a. XI,1863, n. 10; p. 323.17. Cfr. Donato Ottolenghi, Ai confratelli della Comunità israelitica d’Alessandria, Alessandria, Barnabè e Borsalino, 1859; p. 15.18. Cfr. “L’Educatore Israelita”, a. XII, 1864, n. 12; p. 346. Treves è notosoprattutto per il rifacimento del Tempio di Pisa e la costruzione di quel-lo di Firenze.19. Cfr. Isacco Pugliese, Inaugurazione del nuovo tempio israelitico di Alessandria,in “L’Educatore Israelita”, a. XIX, 1871; pp. 215-219 (la citazione è a p.217). Pugliese (n. 1846) si augurava che il coro potesse essere mantenu-to. Dopo il 1848 era abbastanza comune la presenza di cattolici tra i fre-quentatori delle sinagoghe, soprattutto quando c’erano festività impor-tanti o celebrazioni istituzionali, anche se si temeva che questo celassein realtà la volontà di vigilare sulla liturgia ebraica (cfr. FrancescoSpagnolo, La stampa periodica ebraica come fonte per la ricostruzione della vita sinago-

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gale nell’Italia dell’ emancipazione, in “Materia Giudaica”, a. IX, 2004, n.1-2; p.271). Pugliese fu anche relatore della Commissione per la Riforma delCulto Esteriore, cfr. la sua Relazione. Presentata il 22 Ottobre 1868 al ConsiglioAmministrativo Israelitico di Alessandria ivi stampata nel marzo 1869.20. Cfr. Sentenza del 28 maggio 1872, in “L’Educatore Israelita”, a. XX,1872; pp. 231 -236. Nonostante quanto appena affermato, in questi anniad Alessandria è attestata la presenza nel tempio di un coro femminileattivo nel rito di Kippur, (cfr. F. Spagnolo, La stampa periodica ebraica come fonteper la ricostruzione della vita sinagogale nell’Italia dell’ emancipazione, cit.; p. 269).21. Cfr. Celso Bertola, Notizie storico illustrative e guida bibliografica -Mostra didat-tica itinerante vita e cultura ebraica. Documentazione fotografica sulla presenza ebraica inPiemonte nei secoli XVIII e XIX, a cura di Giorgio Avigdor, Torino, Archiviodelle tradizioni e del costume ebraici ‘Benvenuto e Alessandro Terracini’,1983; pp. 29-30.22. Sull’“ecclesiasticizzazione” rabbinica in Italia cfr. Elia Richetti, La rea-zione del rabbinato italiano alle leggi razziali, in “Qualestoria”, a. XVII, 1989,n.1; p. 76.23. Cristina Bettin, Identity and Identification: Jewish Youth in Italy 1870-1938, in“Journal of Modern Jewish Studies”, a. IV, 2005, n.3; p. 326; spesso ci sirivolgeva a speciali confraternite che garantissero il quorum di dieci adul-ti (l’ebraico minyan) o a individui scelti fra i meno abbienti della comu-nità e per ciò retribuiti, cfr. F. Spagnolo, La stampa periodica ebraica come fonteper la ricostruzione della vita sinagogale nell’Italia dell’ emancipazione, cit.; pp. 270-271.24. Su scala nazionale Attilio Milano (Storia degli Ebrei in Italia, Torino,Einaudi, 1963; p. 382), rileva che gli analfabeti nel 1861 erano il 64,5%della popolazione, ma appena il 6% fra gli ebrei.25. Cfr. Micaela Vitale, Il matrimonio ebraico. Le ketubbot dell’Archivio Terracini,Torino, Zamorani, 1997; pp. 52, 115; e Archivio Storico del Comune diAlessandria, Serie II, 744, Alessandria, Università israelitica. Atti di matrimonio(1842-1865). [da qui solo ASCAl]26. Lo provano un paio di ketubbot alessandrine novecentesche; cfr.Micaela Vitale, Il matrimonio ebraico. Le ketubbot dell’Archivio Terracini, cit.; p.115.27. Cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XXVII, 1879; p. 369.28. Ivi; pp. 370-371. La preghiera che inizia con la parola šema, cioè“Ascolta” (qui Scemang) è l’incipit dell’atto di fede ebraico che proclama

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l’assoluta unicità del Divino; la tefillah è la preghiera pubblica.29. “Il Vessillo Israelitico”, a.XXVIII, 1880; pp. 12-14. La mezuzah è il roto-lino pergamenaceo fissato allo stipite di ogni casa ebraica e di ogni suastanza; simbolizza la santità del focolare ebraico e contiene due versettidel Deuteronomio. La sukkah è la capanna di frasche eretta all’aperto duran-te la Festa dei Tabernacoli che si svolge intorno a settembre-ottobre.30. Ivi; pp. 37-40.31. Ivi; p. 40.32. Negli stessi anni Lazzaro Vitale di Alessandria non fu tuttavia ammes-so all’Accademia Militare di Torino perché non cattolico (cfr.“L’Educatore Israelita”, a. VII, 1859, n. 6; p. 219); nella Guardia Nazionaledi Alessandria furono invece nominati il capitano Moisè Torre, il tenen-te Aron Ottolenghi e il sottotenente Moise Debenedetti (cfr. “L’EducatoreIsraelita”, a. VI, 1858, n. 10; p. 316). L’anno dopo Torre fu promossocapitano della guardia nazionale di Alessandria (cfr. “L’EducatoreIsraelita”, a.. VIII, 1860, n. 7; p. 219).33. Cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XXVIII, 1880; p.42. L’Havdalah è la cortacerimonia che segna attraverso l’omonima preghiera la separazione fra ilSabato uscente e gli altri giorni della settimana. Il vicolo del Fiore con-fluiva in via S. Lucia (ora via Chenna) (cfr. F. Gasparolo, Case di nobili, odistinte famiglie, in “Rivista di Storia Arte e Archeologia per la Provincia diAlessandria”, a. XXXVII, 1928, n.3; pp. 232-234), corrispondendo quindiall’incirca all’odierna via Bissati.34. Cfr. F. G. Vitale, Intagli ebraici e fregi latini, in “Il Vessillo Israelitico”,XXXVII, 1889; p. 121.35. Cfr. F. G. Vitale, Esami all’Istituto Internazionale Italiano in Torino, in “IlVessillo Israelitico”, a. XXVI, 1878; pp. 259-261. A Ottolenghi Vitalededicò il libretto di racconti Battaglie di cuori, (ivi; p. 333).36. Marco Dolermo, Tra Restaurazione e aspirazioni separatiste: le ComunitàEbraiche di Acqui e Nizza Monferrato (“Quaderni dell’Èrca”, a.V, 1998, n. 10;p. 53), ricorda che Nathan Donato Ottolenghi, già membro della com-missione generale del Monferrato, fu tra i tanti acquesi che si trasferiro-no ad Alessandria dopo l’assalto al locale ghetto nel 1848; cfr. id., Lacostruzione dell’odio. Ebrei, contadini e diocesi di Acqui dall’istituzione del ghetto del 1731alle violenze del 1799 e del 1848, Torino, Zamorani, 2005; p. 111.37. Anche in altri scritti si lamenterà degli schiamazzi nel Tempio causa-ti dai bimbi; a loro difesa va però detto ch’essi erano solitamente pre-

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senti nelle sinagoghe solo per le annuali cerimonie dei premi dati aglistudenti migliori o quando facevano da coristi; cfr. F. Spagnolo, La stam-pa periodica ebraica come fonte per la ricostruzione della vita sinagogale nell’Italia dell’emancipazione, cit.; p. 270.38. Ottolenghi ne parlò nel suo discorso in occasione della Distribuzionedei Premi agli allievi della Scuola Israelitica di Alessandria che festeggiatasi nel giorno 29Agosto 1857 (cfr. “L’Educatore Israelita”, a. V, 1857, n. 7; pp. 273-276).Riguardo agli insegnanti, si trattava probabilmente del precettore e offi-ciante Michele fu Michel Jacob Vitale di Alessandria (n. 1807, autoreanche di versi sacri; cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XXIII, 1875; pp. 311-312 e 378), e di Emanuele Raffaele di Elia Foa (1827-1908?), che superòanche gli esami di maestro elementare a Genova (cfr. “L’EducatoreIsraelita”, X, 1862, 9; p. 284), e che fu rabbino di Alessandria al volgeredel nuovo secolo (la sua traccia più antica negli archivi cittadini consul-tati risale al 1852, cfr. ASCAl, Serie II, 744, cit.). In un registro del 1850ho visto anche la firma del maestro Isach Sanson Vitale (n. 1785), cfr.ASCAl, Serie II, 742, Università israelitica. Atti di nascita (1842-1853).39. Al proposito segnalo che Ottolenghi in fondo a questo libellolamentò il gretto campanilismo e il meschino senso di superiorità controchi veniva da fuori, quando l’importante doveva essere la comune appar-tenenza all’ Israelitismo se si voleva che l’Università alessandrina pro-gredisse. Quanto ai cantori si sa che Felice Finzi (1814-1896) diCorreggio fu “funzionario Casan” in Alessandria dal 1835 fino al 1850 (poiper 40 anni rabbino di Genova) (cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XLIV, 1896,n.10; pp. 350-351); ad Alessandria gli subentrò il suddetto Michele Vitale(cfr. ASCAl, Serie II, 744, cit.), in seguito anche vice-rabbino, in “IlVessillo Israelitico”, a.XXVII, 1877; p. 359). Il hazan era un professionistaretribuito, talvolta il vice-rabbino, un istruttore religioso nella scuolaebraica (come in entrambi i casi Finzi) o il macellaio rituale, cfr. F.Spagnolo, La stampa periodica ebraica come fonte per la ricostruzione della vita sinago-gale nell’Italia dell’ emancipazione, cit.; p. 269.40. Cosa già da lui auspicata, cfr. il suo Progetto di patronato a favore delle pove-re figlie israelite, Alessandria, Astuti e Provenzale, 1854; p. 4.41. cfr. D. Ottolenghi, Progetto, cit.; p. 6.42. ivi, pp. 8-9.43. Quest’idea seppur in nuce era anche nel Colpo d’occhio, cit.; pp. 28 e 30.44. cfr. D. Ottolenghi, Progetto, cit.; p. 5.

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45. Cfr. “L’Educatore Israelita”, a. VI, 1858, n. 4; pp. 121-122.46. Cfr. D. Ottolenghi, L’iniziazione religiosa nella comunità d’Alessandria in,“L’Educatore Israelita”, a. VI, 1858, 5; pp. 143-145 (venne pubblicata solola prima parte dell’articolo, in cui è descritta la cerimonia).47. Nel 1786 era nata quella intitolata a Giuseppe Vita Pugliese e diecianni dopo quella a nome di Raffaele Pugliese (cfr. S. Foa, Gli Ebrei inAlessandria, cit.; p. 48). La Compagnia della Buona Morte fu fondata dalR. Levi De Veali nel 1853 (Ivi, p. 63).48. Cfr. “L’Educatore Israelita”, a. XIII, 1865, n.1; p. 26.49. Cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XXV, 1877; pp. 68-71.50. Cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XXVII, 1879, pp. 43-45; non sono ripor-tate le parti in cui trattò delle origini e della storia di questa Compagnia,della questione se fosse giusto o meno erigerla a “Corpo Morale”, delleproposte favorevoli alla creazione di un sussidio per gli ebrei poveri edella fusione con il sodalizio separato della Buona morte in un’unica Piacompagnia.51. Cfr. “Mosè. Antologia Israelitica”, a.I, 1878; p. 235 e anche “Il VessilloIsraelitico”, a. XXVI, 1878; pp. 101-102; su quest’ultima rivista, alle pp.87-88, apparve ne Le com. israelitiche italiane e il lutto nazionale una relazionein cui Emanuele Foa descriveva l’avvenimento.52. Cfr. “Mosè. Antologia Israelitica”, a. I, 1878; p. 396.53. Cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XXIV, 1876; p. 47. Anch’egli rabbino,era zio di Elia Levi Levi De Veali.54. Cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XXVI, 1878; p. 200; lo šofar è il corno dimontone che s’usa nelle solennità autunnali.55. Ivi; p. 295.56. Cfr. “Il Vessillo Israelitico”, a. XXVII, 1879, p. 44.57. Ivi; p. 114.58. Cfr. il necrologio che il Rabbino di Corfù e direttore del “Mosè”Giuseppe Emanuele Levi (1823-1887) fece sul suo periodico (a. IV, 1881;pp. 61-63).59. L. Ottolenghi pubblicò lo stesso anno in Alessandria il discorso chetenne quel giorno.60. Carmi compose un’elegia ebraica che fu cantata da Foa (cfr. dellostesso Foa la Commemorazione funebre in Alessandria, in “Il Vessillo Israelitico”,a. XXIX, 1881; pp. 55-57). Organizzata dal Presidente della ComunitàJacob Abram Pugliese, durante la cerimonia il maestro Michele Vitale

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cantò il salmo 49.61. F. Servi ne scrisse il necrologio (ivi; pp. 22-23), ricordando i mano-scritti, l’importante corrispondenza e i “libri tutti postillati” oggi conser-vati, almeno in parte, presso la Stadt- und Universitaetsbibliothek diFrancoforte e la Magyar Tudományos Akadémia di Budapest (cfr. HirschPerez Chajes, Una lettera del Nassi Sintzheim al Rabb. Moise Zecut Levi, in “RivistaIsraelitica”, a. V, 1908; pp. 140-142).

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Il modello organizzativo delle Brigaterosse in una prospettiva comparata

Stefano Quirico

Un’analisi organizzativa dell’esperienza brigatista

La traiettoria descritta dalle Brigate rosse (d’ora in poi: BR) tragli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso è stata esa-minata dalla letteratura specialistica attraverso i tradizionali stru-menti storiografici, con l’obiettivo di ricostruire gli episodi e imomenti più significativi della stagione del terrorismo italiano 1.Questo saggio muove dall’idea di integrare tale approccio con l’a-nalisi del modello organizzativo brigatista, tanto nella sua struttu-ra, quanto nelle strategie e tattiche d’azione utilizzate 2. L’analisi ècondotta anche attraverso la comparazione fra il fenomeno delleBR e quelli di altri soggetti e formazioni che hanno fatto ricorsoalla violenza e alla lotta armata per il perseguimento di obiettivipolitici. Dopo aver illustrato sinteticamente i tratti che hanno carat-terizzato l’organizzazione delle BR, saranno dunque approfonditele esperienze di alcuni gruppi armati apparsi nel corso delNovecento, privilegiando quelli che sono in qualche misura ricon-ducibili all’area eterogenea della sinistra rivoluzionaria.

Per quanto attiene specificamente al caso delle BR, occorrepreliminarmente osservare che l’organizzazione ha subito nelcorso del tempo mutamenti che ne hanno ridisegnato l’assettocomplessivo. Per esigenze analitiche, è necessario operare alcu-ne semplificazioni, assumendo come termine di paragone, per isuccessivi confronti, la struttura brigatista nel periodo di massimaespansione ed efficienza. In tal senso, l’esame non prende in con-siderazione la fase precedente al 1972, anno nel quale fu com-

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piuto il passo definitivo verso la clandestinità e furono create lecondizioni per la nascita di un’organizzazione formalizzata, emer-sa plasticamente nel 1974-75 e ricostruita in sede processuale,anche attraverso il recupero di documenti elaborati dalle stesseBR 3, a cui si aggiungono gli ormai numerosi scritti di memoriali-stica.

L’opera di costruzione fu articolata secondo due direzioni. Daun lato, si trattava di rinforzare la presenza sul territorio, neidiversi poli di interesse strategico: l’obiettivo fu raggiunto attra-verso l’edificazione di colonne, autonome nella propria attività ordi-naria, soprattutto nei primissimi mesi 4. Inizialmente, infatti, lesedi di colonna erano solo due (Milano e Torino) e le esigenzedi coordinamento non ancora avvertite. Ciascuna colonna eraulteriormente suddivisa in brigate, che riunivano a loro volta le cel-lule e non superavano i dieci militanti 5. Tutti e tre i livelli rispon-devano a una logica di tipo verticale, volta cioè a garantire un’effi-ciente distribuzione territoriale. Per altro verso, dominava un’im-postazione di tipo orizzontale, incarnatasi nella nascita dei fronti,che inizialmente erano due: quello massa o delle grandi fabbriche,orientato a curare le iniziative presso il mondo industriale e ilcontesto sociale di riferimento; quello logistico, investito delle fun-zioni di pianificazione delle azioni, di falsificazione dei docu-menti, di reperimento delle armi, ecc. Essi agivano in modo tra-sversale rispetto alle colonne. Secondo un complesso meccani-smo di raccordo, ciascuna colonna era rappresentata nell’ambitodei due fronti e, parallelamente, la suddivisione dei compitisecondo la bipartizione in fronti era riprodotta all’interno dellecolonne: ognuna di esse ospitava un responsabile logistico e unaddetto ai contatti con la fabbrica 6.

La compartimentazione tra le colonne si presumeva totale.Quanto meno in linea teorica, i militanti dell’una non avrebberodovuto conoscere l’identità di quelli affiliati all’altra (da cui laprassi di ricorrere ai nomi di battaglia). Tale imposizione era giu-stificata da esigenze di sicurezza, tra cui la volontà di evitare chela scoperta di una colonna pregiudicasse il futuro dell’intera orga-nizzazione. Nel dettaglio, furono teorizzate una compartimenta-

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zione orizzontale (quella appena descritta) e una verticale, volta aseparare i destini dei diversi livelli dell’emergente gerarchia 7. Alivello pratico, tuttavia, la situazione fu assai meno lineare.L’appello alla “reale discrezione dei militanti” cui si fa riferimen-to nei testi 8 è la prova della difficoltà di passare dai proclami aifatti. Le modalità dell’arresto di Renato Curcio e AlbertoFranceschini 9, nel settembre del 1974, furono emblematiche del-l’inadeguatezza del livello di compartimentazione raggiunto:all’infiltrato Silvano Girotto furono sufficienti pochi incontri peressere messo in contatto con l’intero gruppo dirigente brigatista,che fino ad allora aveva dimostrato in varie occasioni di inter-pretare con flessibilità l’impegno alla riservatezza 10.

Le perdite subite, accanto alla crescente esigenza di consenti-re una ragionevole circolazione delle informazioni e di fornirel’indispensabile coordinamento a fronti e colonne, indussero acorreggere parzialmente l’impianto organizzativo. Nel corso deglianni, infatti, le BR avrebbero posto le premesse per l’approdo “perpartenogenesi” 11 in Veneto, a Genova, a Roma e a Napoli e isti-tuito gli inediti fronti della controrivoluzione e delle carceri. In que-st’ottica vide la luce il Comitato Esecutivo, che costituiva l’espressio-ne più palpabile della tendenza verticistica che l’organizzazioneandava assumendo. Il nuovo organismo rimpiazzava il Nazionale,che aveva garantito l’unitarietà dell’azione nei primi anni, grazieal carisma dei leader che ne avevano fatto parte più che a mec-canismi formalizzati 12. A delineare le strategie di fondo della lottaarmata sarebbe stata invece la Direzione Strategica (DS), composta daimembri dell’Esecutivo e da altri militanti, in tutto una quindicinadi persone 13. In particolare, essa deteneva il potere di emanaresanzioni disciplinari, gestire le risorse finanziarie, apportare modi-fiche alla struttura organizzativa e nominare i membridell’Esecutivo per la gestione quotidiana 14.

Tra l’Esecutivo e la DS si è instaurato un rapporto peculiare,nell’ambito del quale l’uno era chiamato a dare attuazione aquanto stabilito dall’altra negli orientamenti generali e ad assu-mere le decisioni concrete in occasione delle azioni più signifi-cative, come il sequestro di Aldo Moro nel 1978, concedendo

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invece una relativa autonomia a colonne e brigate per le opera-zione ordinarie. La riflessione svolta, tuttavia, deve confrontarsicon il piano del funzionamento effettivo: è probabile, infatti, cheil complicato intreccio che scaturiva dall’impianto organizzativoadottato si risolvesse di fatto nella concentrazione di ampie quotedi potere nelle mani di quattro-cinque persone, contemporanea-mente al vertice di una colonna e membri di un fronte,dell’Esecutivo e della DS. Questa osservazione pare contraddire ilprincipio di radicale uguaglianza in base al quale i brigatistisostengono di aver edificato il proprio gruppo armato.Espressione di tale convinzione fu certamente la decisione di evi-tare ogni distinzione tra funzioni politiche e militari. Ammessa lanecessità di creare ambiti specializzati in talune mansioni (es.distinguere tra logistica e massa, anche se non erano rari i casi dibrigatisti chiamati, nel corso della propria esperienza, a ricoprirediversi ruoli), l’organizzazione rifiutò di separare i compiti di ela-borazione teorica da quelli dell’esecuzione delle azioni. Tutti imilitanti, infatti, dovevano dimostrarsi abili nell’uso delle armi edisposti ad agire in prima persona anche nelle circostanze piùpericolose o meno nobili, come le rapine di autofinanziamento,circostanza che caratterizzava le BR rispetto a quanto accadeva neigruppi extraparlamentari dell’epoca, dotati di uno specifico “ser-vizio d’ordine” 15. In realtà, uno studio meno superficiale suggeri-sce considerazioni differenti. Una forma – seppur velata – digerarchia era rappresentata dalla distinzione fra militanti regolari,impegnati a tempo pieno, clandestini e stipendiati dall’organizza-zione, e irregolari, che mantenevano la propria posizione nellasocietà. Agli uni erano affidate le mansioni (organizzative e mili-tari) direttamente inerenti la lotta armata; gli altri, invece, eranochiamati a curare i rapporti con l’esterno, svolgendo opera di pro-paganda e fornendo supporto alle azioni 16.

Conclusioni analoghe si possono trarre adottando una lente digenere. Le posizioni di uomini e donne che aderivano al gruppoerano nominalmente parificate 17, ma le visioni del maschile e delfemminile dominanti fra i membri (in maggioranza maschi) delle BR

erano di tipo tradizionale. Il linguaggio brigatista, soprattutto

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nella scelta delle metafore e delle immagini più evocative, deno-ta un’impronta maschilista che non sembrava imbarazzare gliautori dei proclami 18. Numerosi militanti, inoltre, furono sedottidal fascino delle armi, della violenza e della prospettiva bellica insenso lato, elementi caratteristici del rafforzamento dell’identitàmaschile in senso virilista operato nei primi decenni delNovecento dalla propaganda di destra, in tutte le sue declinazio-ni (nazionalista, futurista, dannunziana, fascista) 19. Su un pianopiù eminentemente operativo, occorre prendere atto della persi-stenza di pregiudizi di genere a danno della componente femmi-nile. L’aneddotica testimonia dello scetticismo nutrito nei con-fronti delle abilità militari delle militanti, attribuito non all’inespe-rienza, ma all’essere donna 20. Per di più, alle brigatiste era affida-to – come se si trattasse di una scelta naturale – in misura presso-ché esclusiva il lavoro di cura, come conferma la ricostruzionedella quotidianità del sequestro Moro fornita da Anna LauraBraghetti, unica donna fra i carcerieri del Presidente democristia-no 21. Le BR, dunque, apparivano ostaggio forse inconsapevole distereotipi di genere tipici della società borghese che intendevanorovesciare.

L’insieme delle dinamiche descritte restituisce l’immagine diun’organizzazione che nel corso del tempo ha accentuato il pro-prio verticismo, rifugiandosi a tratti in logiche autoreferenziali ecentralistiche che hanno privilegiato l’oliatura degli ingranaggiinterni e progressivamente svuotato lo spirito di iniziativa e latendenziale autonomia dei militanti e delle brigate, sfilacciando erecidendo infine il legame con l’area sociale di riferimento. Ladecisione di procedere all’uccisione di Moro è stata da più partipresentata come l’unica soluzione praticabile da parte dei gesto-ri della vicenda dopo la pronuncia in tal senso dell’Esecutivo,secondo una lettura ottusamente burocratica della questione 22.L’opinione prevalente è che il ripiegamento delle BR su se stesseabbia rappresentato l’effetto di lungo periodo della scelta inizialein favore della clandestinità e della compartimentazione 23, ma haprobabilmente inciso anche l’ossessione per il monolitismo pro-pria della leadership emersa dopo la liquidazione della maggior

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parte del gruppo storico 24.Anche la strategia brigatista ha subito un’evoluzione nel corso

del tempo: nate come formazione armata attiva nel contesto ope-raio del nord Italia e impegnate in azioni che dal sabotaggio sonorapidamente cresciute fino al rapimento-lampo di dirigenti indu-striali, le BR hanno gradualmente virato verso bersagli esterniall’ambiente della fabbrica, portando l’attacco al “cuore dellostato”. L’organizzazione ha colpito politici, giornalisti, magistrati,esponenti delle forze dell’ordine, in un crescendo che l’ha con-dotta ad abbandonare il proprio alveo originario e a perdere icontatti e le simpatie che inizialmente aveva saputo suscitare inuna fase storica di radicale conflitto di classe.

In questa sede non è possibile ripercorre tutti gli aggiorna-menti strategici che hanno interessato l’azione brigatista.L’attenzione si focalizzerà sugli elementi principali dell’elabora-zione teorica, che fin dai primi anni ha concepito il progetto diabbattere lo stato capitalistico-borghese attraverso una lotta arti-colata in due tempi. Nel breve termine (fase tattica), in opposizio-ne alla presunta opera di repressione autoritaria e “terroristica”attribuita alle autorità statali, il proletariato avrebbe dovuto rac-cogliere le proprie forze attraverso la mobilitazione delle masseper mano di un’avanguardia rivoluzionaria – composta dalle BR ein generale dai gruppi armati – che avrebbe portato a termineuna serie di azioni dimostrative violente, volte a instillare nellaclasse operaia la coscienza rivoluzionaria: in tali termini è defini-ta la propaganda armata. Nel lungo termine (fase strategica), una voltaraggiunto l’obiettivo della costruzione di un contropotere prole-tario, si sarebbe potuto dare inizio alla rivoluzione vera e propriacontro il regime 25. In un quadro così delineato, scarsa autonomiaera accordata alle rivendicazioni del movimento femminista,potenziale alleato nella denuncia dei rapporti sociali borghesi. Sulpunto, le BR si attenevano alla classica posizione di Engels, secon-do il quale l’asimmetria tra i sessi sarebbe stata automaticamentesuperata una volta distrutto l’impianto capitalistico-borghese, cheaffidava agli uomini il possesso esclusivo dei beni materiali 26. Ilsovvertimento dell’oppressione di classe risultava quindi priorita-

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rio rispetto a ogni altra istanza 27.L’impostazione di fondo fu confermata dai documenti della

fase matura, che accennarono allo scopo finale della guerra civileguerreggiata o dispiegata 28, preceduto tuttavia da un periodo transi-torio – congiuntura o guerra civile strisciante, nei diversi testi – nel qualela propaganda armata avrebbe lasciato sempre più spazio a ope-razioni embrionalmente rivoluzionarie. L’aspetto saliente intro-dotto nel 1975 è però costituito dalla nozione di Stato imperiali-sta delle multinazionali (SIM), che con tutta probabilità spiega icambiamenti nella scelta dei bersagli. Nell’analisi condotta dalleBR, infatti, la responsabilità dello sfruttamento della classe operaianon era più semplicemente addossata ai gruppi industriali, di cuilo stato borghese ratificava le decisioni, bensì ricondotta a unsistema internazionale di dominio messo in atto dal capitale, cheaveva al proprio centro le multinazionali protette dagli Stati Unitie finanziate attraverso il contributo fornito da ciascun governoappartenente al blocco occidentale. In questo scenario, lo statoitaliano era dipinto come la banca di cui si serviva la borghesiaimperialista, sottraendo risorse agli strati sociali più deboli (ver-sione brigatista della teoria marxiana del “plusvalore”). La conse-guenza più immediata, sul piano operativo, era rappresentatadalla decisione di colpire quel sistema nel suo “anello debole” –l’Italia – e in particolare nelle sue istituzioni e articolazioni (clas-se politica democristiana, magistratura, carceri, stampa, ecc.),senza limitarsi all’ambito della fabbrica. L’elevato livello di vio-lenza raggiunto con la pratica ormai frequente di assassini e feri-menti, unito agli scarsi risultati politici ottenuti e alla reazionedello stato, condusse le BR a un punto di non ritorno, che tra-sformò lo scontro in una lotta per la sopravvivenza dell’organiz-zazione, emersa come obiettivo fondamentale del dopo Moro,perseguito anche attraverso la neutralizzazione dei sempre piùnumerosi collaboratori di giustizia.

Tra il 1981 e il 1982, non più in grado di governare la com-plessità al loro interno e preda di una manifesta impotenza all’e-sterno, le BR si scomposero in almeno tre tronconi ormai indi-pendenti, ponendo fine alla storia unitaria del gruppo e, di con-

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seguenza, alla nostra analisi. Si tratta ora di ricorrere allo stru-mento della comparazione con altre esperienze di lotta armatarivoluzionaria per cercare di individuare le effettive specificità diquella brigatista.

La tradizione marxista-leninista

Il confronto non può che prendere il via dal riferimento alfilone della storia del pensiero e dei movimenti politici che si èsviluppato a partire dalla figura e dalle opere di Karl Marx e cheha trovato nel leninismo la sua versione dominante nelNovecento. L’appartenenza ideale delle BR all’“album di famiglia”della sinistra rivoluzionaria non può essere messa seriamente indiscussione 29; il punto realmente dirimente è la compatibilità dellavisione brigatista con la teoria dell’insurrezione codificata dai clas-sici dell’ortodossia terzinternazionalista 30. A prima vista, è palese ilrichiamo a quella tradizione nei testi delle BR, che discettano di“plusvalore”, “esercito industriale di riserva”, “avanguardia”, “anel-lo debole”, “imperialismo”, adattando tali espressioni al mutatocontesto politico-sociale. L’impressione complessiva che si ricavadalla lettura, tuttavia, va in direzione opposta. L’avanguardia, inparticolare, era concepita da Lenin come la “decina di teste forti” 31

che, dall’alto della propria superiore consapevolezza, preparavapoliticamente le masse alla rivoluzione; solo in un secondo momen-to, le istituzioni borghesi sarebbero state travolte dalla violenza e,se necessario, dal terrore proletario. Queste armi, che tanto Leninquanto Trockij contemplavano apertamente nell’ambito di un pro-cesso rivoluzionario avviato o per lo meno della guerra partigiana,erano condannate senza esitazioni se intese come scorciatoie perla creazione artificiale e prematura delle condizioni necessarie perl’insurrezione 32, Tali premesse inducevano Lenin a sconfessare lacondotta dei gruppi anarchici a lui contemporanei, che praticava-no l’omicidio politico e l’attentato incendiario in luogo della piùefficace propaganda politica, rischiando di compromettere l’interoprogetto rivoluzionario.

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La scomunica leninista in termini di “spontaneismo” e “avven-turismo” – che scaturiva da una valutazione di opportunità piùche da un giudizio di ordine morale sull’uso della violenza 33 – ètanto netta da spingere i brigatisti stessi a confrontarvisi critica-mente, benché le loro azioni ricadessero solo parzialmente nellanozione di terrorismo individuata dal pensatore russo 34. Il supe-ramento del modello insurrezionale terzinternazionalistico èdiventato ben presto uno dei punti fermi dell’elaborazione delleBR, che non ne accettavano il rinvio della lotta armata al momen-to della rivoluzione e la divisione netta tra compiti politici e mili-tari 35. La lezione leniniana era dunque volutamente distorta,anche in elementi di dettaglio (es. l’atteggiamento nei confrontidei proletari schierati dalla parte del nemico) 36.

Da quanto detto si può concludere che le BR abbiano condi-viso con la tradizione comunista in senso lato (e, nello specifico,con il PCI) buona parte delle premesse della propria analisi socio-economica: la denuncia delle tentazioni autoritarie della DC, deisuoi legami atlantici, della ristrutturazione industriale, dell’ameri-canizzazione dell’Europa 37. Tuttavia, i terroristi ricorsero a strate-gie d’azione eterodosse rispetto alla cultura politica del mondo dacui genuinamente provenivano e che li rendono dunque irriduci-bili al filone marxista-leninista in senso stretto 38.

I Gruppi d’Azione Patriottica – GAP

I rapporti tra il terrorismo di sinistra degli anni Settanta e laResistenza è stato oggetto di ipotesi di studio, ma anche di pole-miche. È opportuno pertanto distinguere i diversi piani su cui simuove il discorso. Non si può ignorare il risalto che la memoriadella guerra di liberazione dal nazifascismo ha avuto nella for-mazione umana, politica e intellettuale dei protagonisti della lottaarmata, come emerge diffusamente dalle testimonianze. Anche idocumenti brigatisti condividono il più generale richiamo al mitodella “Resistenza tradita” 39. Senza tregua, titolo dell’opera dell’excomandante partigiano Giovanni Pesce, è la denominazione di

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un gruppo e di una rivista che avrebbero contribuito a fondare laformazione terroristica di Prima linea 40. Altri e più inquietanti sce-nari hanno evocato le indagini giudiziare sulla collaborazione trareduci della Resistenza e le organizzazioni terroristiche: oltre allaconsegna di armi occultate dopo la liberazione, è stata per qual-che tempo sostenuta la tesi secondo cui l’avvocato ed ex capopartigiano Giovan Battista Lazagna sarebbe stato il vero leaderdelle BR 41.

Ad assumere rilevanza dal nostro punto di vista, però, è lapossibilità che l’esperienza della lotta armata del 1943-45 abbiainfluenzato in qualche modo il modello organizzativo brigatista.In questo senso, il caso da analizzare è quello dei GAP, attivi inaree metropolitane paragonabili a quelle in cui avrebbero opera-to le BR, benché il contesto politico sia profondamente diverso. Ilregime al potere nell’Italia settentrionale dopo l’occupazionetedesca non è neppure accostabile alla giovane, contestata e percerti versi precaria democrazia nata dalle ceneri del fascismo.Tuttavia, il collegamento pare lecito se si pensa che le BR si richia-marono a opzioni gappiste in alcune scelte organizzative, tra cuila clandestinità e la compartimentazione, assurte a principi fon-dativi 42, oltre all’affidamento dell’incarico di costruzione (o rico-struzione) delle cellule a militanti maturati sul campo 43. Inoltre,nelle BR riapparvero tratti tipici delle forze partigiane, come inomi di battaglia o il lessico guerrigliero, (“base”, “brigata”, ecc.),

L’approccio rivendicato dalla memorialistica resistenziale –rispondere con il “terrore” a quello indiscriminato del nemico –ha probabilmente contribuito a fugare i residui scrupoli brigatistisul ricorso alla violenza 44. In effetti, alcune tattiche d’azione deiGAP, come gli attentati incendiari, la cui preparazione era descrit-ta nei dettagli, e gli agguati mirati a danno di singole personalità,preceduti da sommarie indagini, possono aver influenzato opera-zioni compiute dalle BR in diverse fasi. Più in generale, sembracomune alle due esperienze l’idea che attendere passivamente ilmomento dell’insurrezione sia un errore: la lotta armata apparival’unica soluzione immediatamente praticabile 45. L’ultima conside-razione, se presa alla lettera, costituirebbe una sconfessione della

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consolidata tradizione leninista e, contemporaneamente, una vali-da base teorica per l’approccio brigatista. In realtà, non devonoessere sottovalutate le condizioni in cui la Resistenza si svolse. Leazioni partigiane – che alcuni non hanno esitato a definire terrori-stiche – erano inserite in un contesto bellico vero e proprio. Loscontro con le forze della RSI era in atto e non un obiettivo da rag-giungere.

Al di là di ogni valutazione morale, l’invito partigiano a pren-dere le armi rappresentava un appello assai differente dalla pro-paganda armata esercitata dalle BR. Nell’un caso, si trattava dicombattere per non morire e liberare il proprio Paese dall’inva-sore che braccava i resistenti, premessa che rendeva meno accet-tabili (in quanto potenzialmente letali) l’inerzia e l’attendismo.Nell’altro, i militanti delle BR dovevano mettere in conto l’even-tualità di perdere la vita, ma tale ipotesi era legata a scontri afuoco circostanziati e, nella maggior parte dei casi, provocati dainiziative o reazioni brigatiste. Diversamente da quanto avvenutoaltrove, lo Stato italiano – che pure, a causa della complicità dialcuni suoi apparati, non è stato del tutto estraneo a episodi oscu-ri o sanguinosi di quel periodo (i progetti di colpo di stato, le stra-gi, ecc.) – si è costantemente sforzato di combattere il terrorismonel rispetto dei principi e degli strumenti contemplati dallo statodi diritto, anche quando tale scelta ha imposto ritardi e battute diarresto nei procedimenti giudiziari.

La guerriglia latinoamericana

La seconda metà del XX secolo ha visto sorgere fermenti rivo-luzionari in numerosi paesi dell’America Latina, da cui sonoemerse figure leggendarie come Ernesto “Che” Guevara, al cuifascino gli aspiranti guerriglieri italiani non sono sfuggiti, anchegrazie al prezioso tramite fornito dall’attività editoriale e militan-te di Giangiacomo Feltrinelli. In realtà, come si vedrà, non tuttele esperienze hanno esercitato il medesimo grado di influenzasulle BR.

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Il modello di riferimento più noto, quello guevarista, presen-ta scarse affinità con la vicenda brigatista. È incontestabile che leBR abbiano ereditato la prassi della clandestinità e della compar-timentazione, il ricorso alla propaganda armata e la fusione diattività politica e militare di cui si può leggere in numerosi pas-saggi dei resoconti di Guevara e dei più raffinati scritti teorici diRegis Debray 46. Tuttavia, la strategia complessiva che da essi sca-turisce era strettamente connessa all’ambiente rurale entro cui eracollocata. I guevaristi privilegiavano infatti il fochismo, concezionein base alla quale l’avanguardia militare aveva il compito diaccendere un “fuoco” rivoluzionario e concentrare la propriaazione nelle campagne. Con il passare del tempo, il nucleo ori-ginario si sarebbe arricchito di nuovi elementi reclutati durante glispostamenti, costringendo l’esercito governativo ad arretrare,occupando un’area sempre più estesa di territorio e producendoin tal modo la liberazione nazionale. Si trattava, dunque, di unaguerra tra due apparati militari strutturati, dei quali, tuttavia, quel-lo rivoluzionario – in quanto consapevolmente inferiore pernumero di elementi e risorse – ricorreva a un repertorio d’azione“irregolare”: la guerriglia 47. Dal canto loro, le BR erano immerse inun contesto socio-economico industriale, nel quale concentraro-no la propria attività, astenendosi da ogni velleità di controllo ter-ritoriale, decisamente più praticabile per chi si muove negli ampispazi rurali.

In una situazione paragonabile a quella guevariana si trovò adagire in Colombia il sacerdote-guerrigliero Camilo Torres, checome altri esponenti dei gruppi cristiani locali sposò il fochismoed è stato indicato tra gli ispiratori della componente cattolicadelle BR emiliane 48. Sul piano operativo vale nella sostanza il ragio-namento sviluppato a proposito di Guevara, nonostante Torres sidistinguesse dalla quasi totalità dei gruppi armati, che hanno dinorma ignorato la pars construens della lotta, per il suo riferimento auna piattaforma programmatica 49. Ciò non toglie che, a propositodi singoli punti, il sacerdote colombiano esprimesse valutazioni inlinea con quelle brigatiste. Un caso particolarmente interessante èrappresentato dall’idea per cui la lotta per l’emancipazione fem-

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minile dovesse essere logicamente subordinata alla lotta di libera-zione nazionale, secondo uno schema su cui le BR dimostraronodi convergere (sostituendo però la riconquista del territorio con ilribaltamento dei rapporti di produzione) 50.

Globalmente più fecondo pare il raffronto con il filone“metropolitano” della guerriglia latinoamericana. Il Piccolo manualedella guerriglia urbana di Carlos Marighella 51, leader di un gruppoarmato brasiliano, è ripetutamente citato nei documenti e nellamemorialistica brigatista. Mutuandone l’impianto organizzativo,sono stati i brigatisti stessi a celebrare l’inclinazione di Marighellaa pensare l’avanguardia come un nucleo di veri combattenti anzi-ché come il gruppo di individui intellettualmente più dotatidescritto da Lenin 52. La peculiarità del Manuale risiede di fattonella decisione di fronteggiare il nemico prescindendo dallacostruzione di un esercito di liberazione a partire da un’avan-guardia militare e ricorrendo, invece, a piccoli gruppi armati 53.Marighella abbandonava così un tratto distintivo del guevarismo,di cui peraltro conservava la tattica incentrata sull’attacco improv-viso e sulla rapida ritirata 54. A questo elemento strategico, crucia-le per comprendere il comportamento delle BR, fanno da contor-no prassi condivise nel repertorio delle azioni, improntate allanozione già illustrata di propaganda armata 55. Per come si è svi-luppata nell’ultima fase la storia del terrorismo italiano, delmanuale marighelliano colpisce soprattutto la determinazione apunire, eventualmente con l’eliminazione fisica, eventuali tradito-ri, spie, delatori 56.

Sarebbe tuttavia improprio ridurre il fenomeno brigatista amera riproposizione dei principi marighelliani. Tale precisazionevale per alcune questioni tattiche, a partire dal grado di autono-mia concesso alle squadre d’azione, che nelle BR era decisamen-te inferiore. Tuttavia, essa acquista significato soprattutto in rife-rimento a scelte di principio, come lo spazio destinato all’analisidi tempi, modi e profili teorici della rivoluzione, che occupavaampie sezioni dei documenti brigatisti e che Marighella si limita-va invece a tratteggiare. D’altra parte, i guerriglieri brasiliani nonesitavano a rivendicare gli atti che potevano assimilarli alla crimi-

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nalità comune (come le rapine di autofinanziamento) e a etichet-tare come terroristiche alcune delle tattiche adottate 57, punti suiquali i brigatisti dimostrarono di non concordare, giudicandoliimprescindibili per definire correttamente i confini della propriaidentità politica.

La panoramica latinoamericana si conclude con il caso deiTupamaros uruguayani 58. Al pari di quanto osservato perMarighella, l’ambiente urbano rappresenta il principale trait d’unioncon le BR, che trassero anche da questo modello alcuni criteriorganizzativi e strategici 59 e buona parte delle tattiche. Anche inquesto caso, per altro, i brigatisti si sono rivelati innovatori, comerivela in particolare la concezione del sequestro, inteso daiTupamaros come arma di ricatto 60 e dalle BR – prevalentemente –come strumento per la raccolta di informazioni riservate di cui l’o-staggio sarebbe stato a conoscenza (emblematica è la presenta-zione iniziale del caso Moro, solo in un secondo momento ege-monizzato dalla trattativa sullo scambio di prigionieri).

L’impressione generale, che suggerisce di accostare le dueesperienze, è ulteriormente rafforzata dalla visione del ruolo rive-stito dalle donne, cui anche i Tupamaros richiedevano di mostrar-si in pubblico pienamente integrate negli standard borghesi, age-volando così l’opera di mimetizzazione di tutti i militanti. Quantoai rapporti interni, occorre prendere atto della tendenza – comu-ne anche a Guevara e Marighella 61 – a ricadere in un luogo comu-ne che a parole si intendeva superare. Della donna, che purecondivideva formalmente con la componente maschile tutte lefunzioni, comprese quelle militari, veniva esaltato il contributo dicura per cui sembrava versata, alla luce di un preteso surplus didolcezza femminile (assistenza ai compagni, approvvigionamen-to e conservazione delle vivande, ecc.) 62.

Formazioni terroristiche europee

La comparazione qui presentata si chiude con lo studio di duegruppi che hanno praticato la lotta armata in Europa quasi in

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contemporanea con le BR, con la comune aspirazione a porre lepremesse per una società più equa. Per questa ragione, sono stativolutamente scartati gli esempi di IRA ed ETA, per i quali era pre-minente la dimensione delle rivendicazioni nazionali.

Il primo caso in esame è quello della Rote Armee Fraktion(d’ora in poi: RAF), sigla che ha rivendicato le principali azioni ter-roristiche in Germania tra gli anni Settanta e Ottanta 63. La sinto-nia con le BR poggia innanzi tutto su alcuni pilastri culturali comu-ni, dall’antifascismo alla formazione cattolica di vari militanti, daiclassici del marxismo-leninismo (che nei documenti della RAF

paiono essere indicati con maggior precisione bibliografica)all’individuazione del manuale di Marighella come modello perl’impianto organizzativo. Le analogie divengono addiritturaimpressionanti grazie all’accostamento di talune operazioni: l’o-micidio del Procuratore Buback ricorda per molti versi quello diFrancesco Coco, avvenuto a Genova nel 1976; il rapimento e l’uc-cisione del Presidente degli industriali tedeschi Schleyer hanno dipoco anticipato la vicenda Moro, secondo una simmetria cosìmarcata da far ipotizzare una collaborazione fra le due organiz-zazioni. In realtà, non sussistono elementi sufficienti per retroda-tare agli anni Settanta contatti che, in effetti, paiono essere statiavviati nella fase crepuscolare della lotta armata 64. Per quantoattiene al periodo qui considerato, insomma, i rapporti fra i duegruppi sembrano essersi limitati alla solidarietà espressa dai bri-gatisti ai compagni tedeschi detenuti 65, sentimento condiviso dauna larga porzione dell’opinione pubblica progressista.

Il fatto di aver vissuto un’educazione politica simile, segnatada una relativa condivisione delle letture ma anche di un approc-cio forzatamente autodidatta e poco accademico, non ha impedi-to il radicamento di divergenti interpretazioni del clima e degliavvenimenti di fine anni Sessanta. Se per i brigatisti il soggettosociale da mobilitare era il proletariato metropolitano, in un’otti-ca prevalentemente operaista 66, nel caso tedesco la visuale eradecisamente più ampia e considerava forze propulsive anche igiovani, gli studenti, i disoccupati, in quanto vittime di forme divessazione – in famiglia, a scuola, nella Chiesa – che esulavano

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dal ristretto ambito della lotta di classe sostenuta nelle fabbri-che 67. Sul piano dell’organizzazione interna, questa tendenza sirifletteva nel rifiuto del rigido modello che le BR avevano trattodal partito leninista e nell’enfatizzazione di un approccio liberta-rio e incline allo spontaneismo, preludio a una struttura flessibi-le e non formalizzata, esito di una originale commistione fra sug-gestioni provenienti da autori dall’estrazione politico-culturalevariegata (Lenin, Luxemburg, Blanqui, Guevara, Horkheimer,Fanon, Gramsci e soprattutto Mao), tra i quali, rispetto ai brigati-sti, la RAF ha probabilmente valorizzato i più eterodossi 68.

Tale impostazione è stata gravida di conseguenze anche intermini strategici. Il costante richiamo alle condizioni in cui ver-savano le popolazioni del Terzo mondo, presente in alcuni degliintellettuali citati, ha determinato il consolidamento di una lettu-ra fortemente internazionalistica, che presupponeva la costruzio-ne di un progetto comune con le avanguardie rivoluzionarie atti-ve nei paesi in via di sviluppo, descritto attraverso l’immaginedell’organizzazione “orizzontale” (fra pari) rispetto a quella “ver-ticale” (l’avanguardia che guida la massa) delle BR 69. Nell’analisiterzomondista della RAF, dunque, i costi del sistema imperialisticosarebbero stati sopportati dai “dannati della terra”; per i brigatisti,viceversa, erano cruciali le conseguenze patite dalla classe ope-raia europea e italiana in particolare.

L’analisi del rapporto di genere si rivela ancora una volta unbuon indicatore per la nostra comparazione. La RAF ha senza dub-bio stabilito un nesso tra la lotta per l’emancipazione femminilee il felice compimento della rivoluzione di classe, scelta che rical-cava la soluzione adottata dalle BR. Tuttavia, il gruppo tedesco siè segnalato per l’ampio spazio concesso nel proprio organico alledonne, anche in ruoli di responsabilità. Nella formazione tedescala componente femminile ha sfiorato in certe fasi il 50% del tota-le, contrapposto al 25% raggiunto nelle BR 70. Troverebbe così con-ferma l’ipotesi secondo cui la più significativa distanza tra le dueformazioni sarebbe da ricercare nella differente ricezione deglistimoli provenienti da quei settori della società (studenti, donne,ecc.) che ne contestavano il carattere autoritario e repressivo, ma

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non potevano essere inquadrati nella tradizionale dialettica fon-data sull’appartenenza di classe.

Il secondo termine di paragone in questa sezione è Primalinea (PL), organizzazione armata dalla vita breve (1976-1980), maseconda solo alle BR per il numero di vittime prodotte 71.Nonostante la comune appartenenza al cosiddetto “partito arma-to” italiano, i militanti piellini hanno voluto costantemente rimar-care, talvolta polemicamente, la propria differenza rispetto ai bri-gatisti. La divergenza riguardava valutazioni strategiche e si espri-meva nella derisione della teoria dell’“anello debole”, al centro dicorposi documenti teorici delle BR – ai quali PL era costitutiva-mente allergica – ma che appariva del tutto improduttiva sulpiano pratico 72. L’insofferenza piellina era soprattutto figlia di unavisione del mondo che respingeva l’etica del sacrificio e la con-dotta quasi ascetica invocate dai brigatisti, a favore della ricercadei piaceri e dei divertimenti che la vita offriva ai giovani dell’e-poca post-sessantottina. A livello organizzativo, pur in presenzadi una struttura delineata nei dettagli (con cellule, Comando ter-ritoriale e nazionale, Conferenza di organizzazione) e in certi ele-menti analoga a quella brigatista (il termine bipolarità esprimeva lasovrapposizione di mansioni politiche e militari), l’obiettivo di farconvivere la spinta libertaria e le necessità organizzative si tradu-ceva nel rispetto approssimativo dei doveri, delle precauzioni edelle incombenze derivanti dalla lotta armata 73. Il risultato fu l’as-sunzione delle milizie anarchiche della guerra civile spagnolacome modello ideale cui ispirarsi, opposto allo schema brigatistadell’avanguardia iperorganizzata che si poneva alla testa dellemasse. Nell’impostazione piellina, il gruppo armato era chiamatoa porsi sul piano delle masse, in una posizione sfumata tra avan-guardia e Movimento, raccogliendo l’eredità di quanto teorizzatoin precedenza da Lotta Continua, da cui numerosi militanti pro-venivano 74.

Come ulteriore riscontro, sulla scia di quanto già registrato nelconfronto con la RAF, occorre segnalare che PL ha incarnato unavisione dei rapporti con il mondo femminile alquanto distante daquella propria delle BR. Susanna Ronconi, che ha fatto parte di

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entrambi i gruppi, si è sentita maggiormente valorizzata dopo ilpassaggio con i piellini 75. Non pare un caso, dunque, che questiultimi avessero dato vita a un commando composto di soledonne, che – non esattamente nel rispetto della solidarietà digenere – ferì nel febbraio 1979 Raffaella Napolitano, sorvegliantedel carcere Le Nuove di Torino e prima vittima femminile del ter-rorismo di sinistra 76.

Conclusione

In sede di bilancio, è opportuno sintetizzare i risultati ottenu-ti attraverso l’analisi comparata qui presentata, che ha preso inesame sia i principi organizzativi dei gruppi esaminati, sia alcunevalutazioni di ordine strategico.

Per quanto riguarda la struttura delle BR, affiora nitidamente lacondivisione di alcuni dei presupposti irrinunciabili per qualsiasiformazione clandestina. Le misure di sicurezza – su tutte la rigi-da compartimentazione – sono state espressamente mutuate daesperienze, come quella brasiliana di Marighella, che si eranopresentate come esempi accessibili negli anni immediatamenteprecedenti all’avvio della parabola brigatista. Alcune specifichedecisioni, a partire dall’abolizione delle distinzioni fra funzionipolitiche e militari, sono state condivise con altri gruppi armati,al punto da costituire uno degli aspetti caratteristici dell’interagalassia terroristica degli anni Settanta e Ottanta, in Europa e inAmerica Latina. Ciò che realmente distingue le BR dal resto del“partito armato” è la formalizzazione quasi ossessiva dei rapportifra i militanti e le diverse aree dell’organizzazione, che, spinta alparossismo, ha aperto la strada a una deriva burocratica deleteriaper il perseguimento degli obiettivi della lotta. In questo elemen-to risiede parte dell’eredità del modello leninista, nei confrontidel quale i brigatisti sono senza dubbio debitori.

Se trasferita sul piano propriamente strategico, come si è visto,tale affinità presenta tratti di ambivalenza. In linea con la tradi-zione leninista e differenziandosi dalle altre formazioni armate

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contemporanee, le BR profusero ingenti energie nell’elaborazioneteorica, al di là delle accuse di rozzezza intellettuale loro indiriz-zate. Nei documenti brigatisti, per lo meno dal 1975 in avanti, hatrovato ampio spazio un’approfondita, talvolta verbosa e negliultimi anni criptica valutazione delle condizioni in cui la lottaarmata si svolgeva, che passava pazientemente in rassegna l’at-teggiamento dello Stato, la posizione della sinistra parlamentare,le dinamiche economiche internazionali, le divergenze nelMovimento e su queste basi delineava tempi e modi di interven-to. Questo tratto riflessivo sembra dunque caratterizzare le BR

rispetto ai gruppi sudamericani, immersi nella prospettiva dellaguerriglia quotidiana, ma anche a PL, la cui venatura spontaneistane accentuava il carattere ribellistico e meno meditato della lotta.A un livello intermedio si colloca la RAF, che ha prodotto testi diun certo spessore teorico, ma connotati da un linguaggio piùdiscorsivo e meno concettoso, a tratti irriverente 77. Se per i briga-tisti l’azione doveva scaturire dal pensiero, inteso come analisipreliminare della situazione, tipica dell’esperienza leninista, pergli altri gruppi era soprattutto il gesto o l’atto violento ad acqui-sire significato.

Il contenuto della strategia brigatista, tuttavia, ha tracciato unsolco incolmabile nei confronti della teoria rivoluzionaria classi-ca. Al pari di numerosi altri gruppi armati, le BR si distaccaronodal modello bolscevico per la decisione di ricorrere alla violenzacome detonatore del processo rivoluzionario, anziché limitarsialla propaganda politica e rinviare l’offensiva militare al momen-to dell’insurrezione. Pur in presenza di un evidente anacronismo,non sarebbe velleitario sostenere che la ferma condanna espres-sa da Lenin nei confronti degli attentatori anarchici del suo tempopossa essere estesa all’operato delle BR, che – peraltro – nonapparivano granché intimorite dalla prospettiva di una tanto auto-revole censura. Quanto alle specifiche tattiche, è stata messa inluce la sovrapposizione parziale fra alcuni metodi brigatisti e ilrepertorio cui hanno attinto, in tempi e luoghi diversi, i GAP, partedella guerriglia sudamericana, la RAF e PL.

Trasversale rispetto agli aspetti organizzativi e strategici è la

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valutazione del rapporto tra le BR e il mondo femminile. Il con-fronto condotto nei paragrafi precedenti ha illustrato come rara-mente la questione dell’emancipazione femminile abbia costitui-to un obiettivo prioritario per i gruppi armati, che – sposando l’at-teggiamento egemone nella sinistra marxista, istituzionale e non,che affondava le radici nel pensiero engelsiano – l’hanno consi-derata variabile dipendente dalla lotta per l’abbattimento delmodo di produzione capitalistico.

Dal raffronto sono invece emerse distinzioni a proposito delladignità dei ruoli femminili nella struttura organizzativa. I brigati-sti (e, in linea di massima, i loro omologhi latinoamericani) nontradussero in pratica la formale rivendicazione del principio diuguaglianza fra i militanti, che avrebbe imposto di affidare lemansioni indipendentemente dalle caratteristiche del singolo edunque anche dell’appartenenza di genere. Nell’esperienza quo-tidiana, infatti, si affacciava la tendenza a interpretare il contribu-to femminile alla luce di stereotipi tipici della società borghese.Ciò valeva per l’immagine esterna delle militanti, che si sarebbedovuta adeguare a quella delle coetanee integrate nel tessutosociale dell’epoca, per fugare sospetti sull’attività realmente svol-ta. La prudenza può anche giustificare tale scelta. È significativo,però, che la proiezione di antichi pregiudizi di genere abbia inte-ressato il funzionamento interno dell’organizzazione, posto alriparo da sguardi indiscreti. Nelle BR, raccontate con gli occhi deireduci che si sono soffermati sui particolari della convivenza,sugli usi domestici, sulle consuetudini consolidate, ricadevanoquasi esclusivamente sulle donne gli oneri legati al lavoro di cura(spesa, cucina, pulizia, ecc.). Al contrario, nella RAF e in PL l’ap-porto delle donne era numericamente e qualitativamente supe-riore, anche in virtù di una minore diffidenza circa le loro abilitàmilitari.

Al termine della comparazione, l’immagine delle BR appareper certi versi ibrida. Sotto alcuni profili, esse restarono legate alla“famiglia” d’origine: è il caso dell’ampio spazio offerto alla rifles-sione teorica e alla ponderazione dell’azione, del ricorso a un lin-guaggio ancora immerso nelle categorie marxiste-leniniste e –

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principalmente – della costruzione di una struttura organizzativapachidermica e poco flessibile, che ha pregiudicato la capacità diadattamento alle diverse circostanze che si presentavano. Perconverso, la rottura con quella tradizione fu sancita dalla deci-sione di ricorrere fin dall’inizio alle armi come strumento di pro-paganda, che accomunava le BR ai principali gruppi rivoluziona-ri del secondo Novecento, a molti dei quali tuttavia i brigatistirimproveravano la leggerezza e l’improvvisazione.

Si è determinata così una situazione in cui le BR rifiutavano ilriformismo, interpretato come resa al nemico di classe, ma ancheil terzinternazionalismo, in quanto sintomo di attendismo, e ilribellismo contestatario, giudicato estemporaneo, mirando piutto-sto a una sintesi originale fra le diverse anime della sinistra rivo-luzionaria. La difficoltà di dare attuazione a questo precario equi-librio culturale ha prodotto un’incomunicabilità di fondo sia conchi da tempo avevano optato per la legalità (la sinistra parla-mentare), sia con chi viveva l’impegno politico come assenza dimediazione e superamento di macchinosi riti (la maggior partedella sinistra extraparlamentare), e ha contribuito, con ogni pro-babilità, a condannare le BR all’isolamento.

NOTE

1. In quest’ottica, si vedano G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lottaarmata in Italia dal 1970 ad oggi, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004 e M.Clementi, Storia delle Brigate rosse, Roma, Odradek, 2007, che costituisconoin questa sede il punto di riferimento per la contestualizzazione dei sin-goli fatti che verranno citati. Il volume di Clementi, in particolare, pre-senta un’utile e dettagliata panoramica della vicenda brigatista, benchéappaia discutibile l’interpretazione complessiva deducibile dalla scansio-ne cronologica adottata, che colloca nel 1977 l’avvio della vera offensi-va portata dalle BR, a fronte di avvenimenti – su tutti l’omicidio delProcuratore Generale di Genova Francesco Coco e della sua scorta nelgiugno del 1976 – che indurrebbero a retrodatare l’inizio di tale fase.2. Su questo punto seguo l’impostazione di G. C. Caselli e D. Della Porta,

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La storia delle Brigate rosse: strutture organizzative e strategie d’azione, in D. DellaPorta (a cura di), Terrorismi in Italia, Bologna, Il Mulino, 1984; pp. 153-221.3. Si veda in particolare Brigate rosse, Risoluzione della Direzione Strategica n.2, novembre 1975 (disponibile sul sito: www.bibliotecamarxista.org), cheriprende i contenuti del precedente Alcune questioni per la discussione sull’orga-nizzazione, estate 1974 (fonte: www.brigaterosse.it).4. Cfr. M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, intervista di C. Mosca eR. Rossanda, Milano, Anabasi, 1994; p. 58.5. L’ex brigatista Raffaele Fiore, da parte sua, utilizza brigate e cellulecome sinonimi, cfr. A. Grandi, L’ultimo brigatista, Milano, BUR, 2007; p. 69.6. Si vedano Caselli e Della Porta, La storia delle Brigate rosse: strutture organiz-zative e strategie d’azione, cit.; p. 160 e P. Peci, Io, l’infame, Milano, Mondadori,1983; p. 57.7. Cfr. Brigate rosse, Risoluzione della Direzione Strategica n. 2, cit.8. Ivi9. Per la biografia dei due leader storici si vedano R. Curcio, A viso aperto,intervista di M. Scialoja, Milano, Mondadori, 1993 e A. Franceschini, Checosa sono le Br, intervista di G. Fasanella, Milano, BUR, 2004.10. Cfr. M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, cit.; pp. 74-76.11. Con tale termine, mutuato dalla biologia, si intende la riproduzionedelle colonne per sdoppiamento, affidata a militanti esperti che si muo-vono sul territorio. Anche su questo si veda Brigate rosse, Risoluzione dellaDirezione Strategica n. 2, cit. Nelle aree non metropolitane (Marche, Toscana,ecc.) l’organizzazione era rappresentata da comitati territoriali, cfr. A.Grandi, L’ultimo brigatista, cit.; p. 94.12. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, cit.; p. 58, che indica i compo-nenti in se stesso, Curcio e Franceschini. Clementi, Storia delle Brigate Rosse,cit.; p. 55 menziona anche Margherita Cagol e Pietro Morlacchi.13. P. Peci, Io, l’infame, cit.; p. 58.14. Brigate rosse, Risoluzione della Direzione Strategica n. 2, cit.15. Cfr. Brigate rosse, Opuscolo, aprile 1971 (www.brigaterosse.it).16. In un secondo momento, lo scenario fu arricchito dalla figura ibridadel regolare legale, inserito a pieno titolo nell’organizzazione ma noncostretto alla clandestinità integrale. Cfr. G.C. Caselli e D. Della Porta, Lastoria delle Brigate rosse strutture organizzative e strategie d’azione, cit.; p. 185.17. Cfr. P. Peci, Io, l’infame, cit.; p. 85 e la testimonianza resa da PaolaBesuschio a S. Zavoli, La notte della Repubblica (1992), Roma-Milano, Rai Eri-

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Mondadori, 1995; p. 106.18. Si veda in particolare Brigate rosse, Comunicato nº 5, 5 febbraio 1971(www.brigaterosse.it).19. Su questo processo culturale si veda S. Bellassai, La mascolinità contem-poranea, Roma, Carocci, 2004; pp. 54-98.20. Si veda l’episodio narrato da Adriana Faranda in S. Mazzocchi,Nell’anno della tigre. Storia di Adriana Faranda, Milano, Baldini&Castoldi, 1994;pp. 81-82.21. Cfr. A.L. Braghetti e P. Tavella, Il prigioniero (1998), Milano, Feltrinelli,2003. Pur ponendone evidenti premesse, il volume non si avventura ininterpretazioni di genere. La consuetudine tra le brigatiste e il lavoro dicura è ribadito da B. Balzerani, Compagna luna, Milano, Feltrinelli, 1998; p.60. In argomento si vedano anche A. T. Iaccheo, Donne armate: resistenza eterrorismo: testimoni dalla storia, Milano, Mursia, 1994, I. Faré e F. Spirito, Marae le altre. Le donne e la lotta armata: storie interviste riflessioni, Milano, Feltrinelli,1979 e P. Casamassima, Donne di piombo, Milano, Bevivino, 2005.22. Su questo ha attirato criticamente l’attenzione Adriana Faranda nel-l’audizione al cospetto della Commissione Stragi presieduta dal senatorePellegrino. Cfr. Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sullamancata individuazione dei responsabili delle stragi, seduta dell’11 febbraio 1998.In proposito si veda anche A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubbli-cana, Bologna, Il Mulino, 2005; p. 243.23. G.C. Caselli e D. Della Porta, La storia delle Brigate rosse strutture organizza-tive e strategie d’azione, cit.; p. 174 e pp. 184-186.24. Il riferimento è soprattutto a Mario Moretti, guida delle BR dal 1975(anno della morte di Margherita Cagol, sulla cui figura si veda P. Agostini,Margherita Cagol. Una donna nelle Brigate Rosse, Venezia-Trento, Marsilio-Temi,1980) fino all’arresto del 1981. Cfr. M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia ita-liana, cit.; p. 63.25. Si vedano in particolare i primi documenti teorici delle BR: Prima inter-vista a se stessi, settembre 1971 e Un destino perfido, novembre 1971, entram-bi reperibili sul sito www.brigaterosse.it. In sede memorialistica, alcunibrigatisti hanno sostenuto che l’orizzonte rivoluzionario non era maistato veramente giudicato raggiungibile (cfr. R. Curcio, A viso aperto, cit.;p. 126 e V. Morucci, La peggio gioventù, Milano, Rizzoli; 2004; pp. 286-292).Tale ipotesi sembra in realtà dovuta a un disincanto successivo; in casocontrario, occorrerebbe ammettere l’esistenza nelle BR di una contraddi-

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zione latente e gramsciana fra un ottimismo della volontà, che propu-gnava la causa della rivoluzione, e un pessimismo della ragione, chesmorzava gli entusiasmi.26. Si veda F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato.In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan (1884), Roma, Editori Riuniti, 2005;pp. 93-110 in particolare.27. Brigate Rosse, Risoluzione della Direzione Strategica n. 3, cit.; p. 101.28. Le dizioni sono contenute rispettivamente in Brigate rosse, Risoluzionedella Direzione Strategica n. 1, aprile 1975 e Eaed., Risoluzione della DirezioneStrategica n. 3, febbraio 1978, entrambe riportate in Progetto Memoria, Leparole scritte, Roma, Sensibili alle foglie, 1996; pp. 45-58 e pp. 60-110.29. La formula citata è stata resa celebre da R. Rossanda, L’album di fami-glia, in «il manifesto», 2 aprile 1978; pp. 1-2.30. Si veda in proposito A. Neuberg, L’insurrezione armata (1928), Milano,Feltrinelli, 1970, manuale redatto dai vertici del comunismo internazio-nale, fra cui Palmiro Togliatti, e attribuito a un autore fittizio.31. V.I. Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento (1902), in Id., Operecomplete, Roma, Editori Riuniti, 1955-1970, vol. V; p. 426. D’ora in poi indi-cherò questa raccolta di scritti con la sigla OC. Un’antologia degli inter-venti leniniani sul terrorismo è contenuta in M. Massara (a cura di), Marx-Engels-Lenin. Terrorismo e movimento operaio, Milano, Teti, 1978.32. Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, cit.; pp. 386-388 e p.439-440 e Id., La guerra partigiana (1906), in Id., OC, vol. XI; pp. 194-204.Cfr. anche L. Trockij, Terrorismo e comunismo (1920), Milano, SugarCo, 1977,in particolare pp. 57-58 e pp. 98-105. Sul rapporto tra questa tradizionedi pensiero e la violenza, si veda M. Revelli, Marxismo, violenza e nonviolen-za, in Id., F. Bertinotti e L. Menapace, Nonviolenza. Le ragioni del pacifismo,Roma, Fazi, 2004; pp. 94-99.33. Cfr. V. I. Lenin, L’“estremismo” malattia infantile del comunismo (1920), in Id.,OC, vol. XXI; pp. 23-24.34. Cfr. V. I. Lenin, Il Congresso del POSDR (1903), in Id., OC, vol. VI; p. 438.35. Brigate rosse, Prima intervista a se stessi, cit.36. Si noti il divario fra Neuberg, L’insurrezione armata, cit.; pp. 159-180, dacui traspare un approccio tutto sommato conciliante verso i soldati zari-sti, e Brigate Rosse, La campagna di primavera, marzo 1979, in ProgettoMemoria, Le parole scritte, cit.; p. 142, che giustifica la strage dei giovanidella scorta di Moro alla luce della libera scelta da essi compiuta a favo-

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re del potere costituito.37. Rossanda, L’album di famiglia, cit.38. Sul punto convergono nella sostanza N. Dalla Chiesa, Il terrorismo disinistra, in Della Porta (a cura di), Terrorismi in Italia, cit.; p. 318, L.Manconi, The Political Ideology of the Red Brigades, in Catanzaro (a cura di), TheRed Brigades and the Left-Wing Terrorism in Italy, London, Pinter, 1991; p. 119,che riconduce l’ideologia brigatista alla “vulgata” marxista-leninista e C.Marletti, Immagini pubbliche e ideologia del terrorismo, in Bonanate (a cura di),Dimensioni del terrorismo politico, Milano, Angeli, 1979; pp. 230-236. Di marxi-smo-leninismo delle BR parla invece D. Della Porta, Il terrorismo di sinistra,Bologna, Il Mulino, 1990; pp. 220.39. Brigate Rosse, Un destino perfido, cit.40. Cfr. G. Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP (1967), Milano, Feltrinelli,2005. Sulla confluenza del gruppo omonimo in Prima linea si veda G.Boraso, Mucchio selvaggio. Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima linea,Roma, Castelvecchi, 2006; pp. 80-90.41. La ricostruzione è stata smentita in sede processuale, con l’assolu-zione dell’imputato. Sulla vicenda si veda G. B. Lazagna, A. Natoli e L.Saraceni, Antifascismo e partito armato, Genova, Ghiron, 1979.42. G..Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, cit.; pp. 22-23, p. 46, p. 165 ep. 170.43. Il Pesce che si sposta da Torino a Milano, stupito dall’impreparazio-ne dei nuovi compagni, ricorda il Moretti calato a Roma dopo anni dilotta armata nelle regioni settentrionali. Cfr. Pesce, Senza tregua. La guerradei GAP, cit.; pp. 153-165.44. Ivi; p. 32, p. 39 e p. 237, concetto che riecheggia in Brigate Rosse,Un destino perfido, cit.45. Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, cit.; pp. 168-169.46. Si vedano E. Guevara, Guerra per bande (1961), Milano, Mondadori,2005, Id., Diario del Che in Bolivia (1968), Milano, Feltrinelli, 2005 e R.Debray, Rivoluzione nella rivoluzione? America Latina: alcuni problemi di strategiarivoluzionaria, Milano, Feltrinelli, 1967, che raccoglie testi apparsi separa-tamente tra il 1965 ed il 1967.47. Cfr. E. Guevara, Guerra per bande, cit.; p. 13, p. 24, pp. 67-68, pp. 76-88 e pp. 132-135.48. A. Franceschini, Che cosa sono le Br, cit.; pp. 34-35.49. Cfr. Piattaforma programmatica e C. Torres, Editoriale, 14 ottobre 1965,

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entrambi in Id., Liberazione o morte. Antologia degli scritti (1967), Milano,Feltrinelli, 1968; pp. 23-27 e pp. 59-62 rispettivamente.50. Cfr. C. Torres, Messaggio alle donne, ottobre 1965, in Id., Liberazione o morte.Antologia degli scritti, cit.; pp. 57-59.51. C. Marighella, Piccolo manuale della guerriglia urbana (1969), Milano,Autoproduzioni, 2004, disponibile sul sito: www.bibliotecamarxista.org.52. Ivi; pp. 32-33.53. Ivi; p. 10.54. Ivi; p. 11, p. 14 e p. 33, dove si discute della necessità di adattare ilmodello di Guevara alle caratteristiche della guerriglia brasiliana.55. Ivi; pp. 15-26.56. Ivi; pp. 14-15.57. Ivi; pp. 2-3 e p. 25.58. Per la storia del gruppo armato, cfr. A. Labrousse, I Tupamaros. La guer-riglia urbana in Uruguay (1971), Milano, Feltrinelli, 1971. Dal punto di vistaorganizzativo, è più significativo AAVV, I Tupamaros in azione. Testimonianzedirette dei guerriglieri, Milano, Feltrinelli, 1971.59. Brigate Rosse, Risoluzione della Direzione Strategica n. 1, cit., che recuperaesplicitamente concetti espressi in AAVV, I Tupamaros in azione. Testimonianzedirette dei guerriglieri, cit.; p. 9 e pp. 221-226.60. Ivi; pp. 14-18.61. Guevara, Guerra per bande, cit.; pp. 108-109 e Marighella, Piccolo manualedella guerriglia urbana, cit.; pp. 33-34.62. AAVV, I Tupamaros in azione. Testimonianze dirette dei guerriglieri, cit.; pp. 19-25.63. Per la ricostruzione degli eventi, cfr. E. Nassi, La banda Meinhoff,Milano, Fratelli Fabbri, 1974, M. Krebs, Vita e morte di Ulrike Meinhof (1988),Milano, Kaos, 1991 e soprattutto A. Steiner e L. Debray, La Fraction ArméeRouge. Guérrilla urbaine en Europe occidentale, Paris, Meridiens Klincksieck, 1987.I testi diffusi dalla RAF sono invece disponibili in diversi volumi: RoteArmee Fraktion, “Formare l’armata rossa”. I “tupamaros” d’Europa...? (1971),Verona, Bertani, 1972; Ead., La guerriglia nella metropoli (1977), 2 voll.,Verona, Bertani, 1979-1980.64. Cfr. Brigate Rosse, Incontri con la RAF, 1988, ed Eaed. e Rote ArmeeFraktion, Testo comune RAF-BR, settembre 1988 (www.bibliotecamarxista.com).65. Si vedano le testimonianze di Fiore in A. Grandi, L’ultimo brigatista, cit.;pp. 96-98 e P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, Milano, Bompiani, 2006;p. 171.

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66. Significativo è l’episodio narrato da Fenzi, Armi e bagagli, Genova,Costa & Nolan, 1987; p. 41, a proposito del disgusto brigatista nei con-fronti della supposta indolenza studentesca. In ogni caso, contrariamen-te a quanto sostenuto da alcuni studiosi (es. A. Ventura, Il problema delle ori-gini del terrorismo di sinistra, in Della Porta (a cura di), Terrorismi in Italia, cit.;pp. 75-149), le BR differenziavano dal pensiero operista puro – di cui ècapostipite M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966 – per una seriedi elementi, a partire dal burocratismo dell’organizzazione.67. Rote Armee Fraktion, “Formare l’armata rossa”. I “tupamaros” d’Europa...?,cit.; pp. 127-138. La RAF comunque menziona rispettosamente gli studioperaisti (Ead., Guerriglia nella metropoli, cit., vol. 1; pp. 81-87).68. Ead., Guerriglia nella metropoli, cit., vol. 1; pp. 218-219, p. 244 e p. 263,ed Ead., “Formare l’armata rossa”. I “tupamaros” d’Europa...?, cit.; p. 65, pp. 87-107, pp. 140-142, p. 181. Per il rapporto con gli esponenti della scuoladi Francoforte, cfr. V. Ruggiero, La violenza politica. Un’analisi criminologica,Roma-Bari, Laterza, 2006; pp. 141-143.69. Rote Armee Fraktion, La guerriglia nella metropoli, cit., vol. 1; pp. 212-215, e Ruggiero, La violenza politica. Un’analisi criminologica, cit.; pp. 153-157.70. Per i dati sulla RAF si veda Stenier e Debray, La Fraction Armée Rouge.Guérrilla urbaine en Europe occidentale, cit.; pp. 82-85 e p. 106, per quelli sulleBR cfr. Della Porta, Il terrorismo di sinistra, in Della Porta (a cura di), Terrorismiin Italia, cit.; p. 138.71. Per ripercorre i fatti, si vedano Boraso, Mucchio selvaggio. Ascesa apoteosicaduta dell’organizzazione Prima linea, cit. e, in chiave memorialistica, S. Segio,Miccia corta. Una storia di Prima linea, Roma, DeriveApprodi, 2005 e Id., Unavita in prima linea. Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima linea, Milano,Rizzoli, 2006.72. Prima linea, Il dibattito che l’operazione compiuta contro Alessandrini…(1979),in Progetto Memoria, Le parole scritte, cit.; p. 270.73. Ead., L’antagonismo totale tra il sistema dei bisogni… (1977), in ProgettoMemoria, Le parole scritte, cit.; pp. 263-269 e Boraso, Mucchio selvaggio. Ascesaapoteosi caduta dell’organizzazione Prima linea, cit.; pp. 138-148.74. Id., Mucchio selvaggio. Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima linea, cit.;p. 30 e p. 13575. Iaccheo, Donne armate: resistenza e terrorismo: testimoni dalla storia, cit.; p. 85.76. S. Zavoli, La notte della Repubblica cit.; p. 376 e Boraso, Mucchio selvaggio.Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima linea, cit.; p. 186.

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77. Si vedano Rote Armee Fraktion, Il piano della guerriglia urbana ed Ead.,Guerriglia urbana e lotta di classe, entrambi in Ead., La guerriglia nella metropoli,cit., vol. 2; pp. 108-135 e pp. 136-179.

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Grandi opere e protesta:sindrome di NIMBY o riappropriazionedella politica?

Intervista a Donatella Della Porta e Gianni Piazza

A cura di Cesare Panizza

Rivolgiamo alcune domande a Donatella Della Porta e GianniPiazza, sociologi, autori del volume Le ragioni del No. Le campagne con-tro la TAV in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto (Feltrinelli, Milano, 2008),attenti studiosi dei movimenti sociali di protesta, legati a temati-che ambientali.

Negli ultimi anni, anche in Italia, abbiamo assistito al moltiplicarsi deimovimenti di protesta legati a problematiche ambientali più o meno locali. Quantoin questo ciclo di proteste si deve alle mobilitazioni globali che a partire da Seattlehanno preso a contestare le scelte dei governi e delle organizzazioni economiche inter-nazionali in un nome di un’altra globalizzazione, e quanto invece a motivi tuttiinterni alla società italiana?

Anche se è difficile quantificare i fattori causali delle mobilita-zioni in questione, nella nostra ricerca abbiamo cercato di descri-vere e spiegare il peso che le diverse aree (o anime) hanno neidiversi momenti della protesta. Le due campagne, soprattuttoquella in Val di Susa, hanno origine negli anni Novanta, quindiprima dell’esplodere del Movimento per la Giustizia Globale. Inentrambi i casi, alle origini della protesta ci sono sia le sezionilocali di associazioni ambientaliste influenti a livello nazionale

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(Legambiente, Italia Nostra, WWF ecc.), che gruppi di cittadini giàsensibilizzati ai temi della difesa dell’ambiente in precedenti cam-pagne di mobilitazione (ad esempio, contro l’elettrodotto in Valdi Susa, contro l’attraversamento della città da parte dei mezzipesanti sbarcati dai traghetti a Messina). Questi gruppi svolgonoun ruolo molto importante, in particolare nelle prime fasi dellemobilitazioni: raccogliendo e diffondendo informazioni sui pro-getti di costruzione delle grandi infrastrutture, sensibilizzando icittadini ai danni che da esse possono venire, e costruendo unsapere (e proposte) alternativi. È innegabile poi che mobilitazio-ni territoriali e movimenti globali si siano intrecciati nella primametà di questo decennio, sia come interscambio di attivisti checome contaminazione delle tematiche affrontate. In particolare,l’ingresso nei reticoli delle proteste No Ponte e No TAV da partedi attivisti impegnati nei movimenti globali – soprattutto centrisociali e sindacati di base – ha contribuito non poco ad allargareil fronte delle mobilitazioni e il livello di generalità dei discorsidella protesta, con l’inserimento di altre tematiche, oltre a quelleambientali, e delle lotte contro le grandi opere nel quadro piùcomplessivo della battaglia contro la globalizzazione neoliberista.

Da questo punto di vista la protesta contro la TAV in Val di Susa e in misuraminore quella contro l’ipotesi di un ponte sullo Stretto sono certo gli esempi più ecla-tanti di una serie però ben più lunga di mobilitazioni. Perché hanno richiamato ilvostro interesse? Si tratta peraltro di due realtà, come ben descrivete, non solo geo-graficamente lontane ma anche socialmente molto diverse. Il tratto in comune nonsarà rappresentato dalla marginalità sociale e politica delle due aree rispetto aigrandi centri metropolitani, dove si assumono le decisioni e in nome dello sviluppodei quali queste vengono giustificate?

Il nostro interesse per questo studio comparato è nato propriodall’aver intuito e ipotizzato caratteristiche, dinamiche e percorsicomuni in due casi così apparentemente diversi per collocazioneterritoriale, tradizioni politiche, forme di associazionismo locale,struttura economico-sociale ecc. Più che dalla marginalità socio-politica dei due territori coinvolti (sulla quale ci sarebbe da discu-

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tere), la nostra scelta è stata determinata dalla loro centralità sim-bolica nell’immaginario collettivo del “movimento dei movimen-ti” in Italia. I due casi sono apparsi quindi come paradigmaticiper analizzare forme di mobilitazione a radicamento locale, maad aspirazione globale: due casi in cui, ricostruendo il processodi mobilitazione, volevamo coglierne le trasformazioni interne,che sono in parte legate all’azione collettiva stessa. In questa rico-struzione ci interessava infatti il processo (incluso sfide e limiti)dell’andare “oltre il locale”. Mentre spesso alla protesta si pensain termini causali (cioè di pre-condizioni sociali e politiche chefavoriscono l’azione collettiva), a noi interessava combinare quel-la prospettiva con l’attenzione alle dinamiche processuali, ai mec-canismi cioè (di costruzione di rete, comunicazione, trasforma-zione simbolica) che la protesta produce. Ci è sembrato poi par-ticolarmente interessante il fatto che le due mobilitazioni, ai politerritoriali estremi, si fossero collegate tra loro attraverso ungemellaggio, che ha poi spianato la strada ad altri gemellaggi ealla rete nazionale che ha dato vita al Patto di Mutuo Soccorso(insieme ai No dal Molin, No Mose, No discarica, ecc.).Certamente poi, il fatto che non si tratti di grandi città (più stu-diate normalmente nella letteratura sui movimenti sociali) aggiun-ge interesse alla ricerca, permettendo di osservare dinamiche spe-cifiche del conflitto centro-periferia.

L’elemento di novità che le campagne di protesta della Val di Susa e delloStretto mettono in luce è la pluralità delle componenti che alimentano il movimen-to e la loro capacità di condividere le proprie risorse, materiali e non, superando lepossibili frizioni e le reciproche diffidenze. Voi ne distinguete ben cinque: i comita-ti di cittadini, le associazioni ambientaliste, gli amministratori locali, i sinda-cati e i centri sociali. La presenza più interessante è forse quella dei centri sociali.Qui il fatto più notevole è come nel corso della protesta, soprattutto nei momenti altidella lotta,come voi scrivete, siano venuti meno i tanti motivi di diffidenza esisten-ti fra i militanti dei centri sociali e il resto del movimento. E questo nonostante lapresenza dei centri sociali sia spesso strumentalizzata dai mass media e dalle forzepolitiche favorevoli alle grandi opere per dipingere come estremistico e tendenzial-mente violento il movimento. Vi chiedo quanto questa esperienza – che mi pare si

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stia replicando anche in altri casi – a vostro modo di vedere sia in grado di modi-ficare durevolmente da un lato la percezione che gli altri attori hanno dei centrisociali e dall’altro forse la rappresentazione che del mondo circostante hanno glistessi centri sociali?

La presenza degli attivisti dei centri sociali è ormai una costan-te in tutte o quasi le mobilitazioni No LULU (Locally Unwanted LandUse – uso del territorio localmente non voluto) emerse in Italianegli ultimi anni (vedi le proteste contro la base statunitense aVicenza e la discarica a Chiaiano). Se guardiamo alla lunga storiadi questa area di movimento, possiamo osservare che la parteci-pazione dei centri sociali a campagne più ampie deriva sia daloro caratteristiche tradizionali (come la forte territorialità e il radi-camento territoriale; combinazione di attenzione alla costruzionedi culture alternative, ma anche attività concrete) che da un per-corso, già avviato, di crescente coinvolgimento nella politica sulterritorio (in particolare, ma non solo, per l’area dei centri socia-li del Nord-Est). Esperienze di collaborazione tra centri sociali ealtre organizzazioni di movimento sociale (incluso associazioniformali, partiti e sindacati) si sono moltiplicate nel corso dellemobilitazioni del movimento per una giustizia globale, dagliIncontri Intergalattici ai Global Days of Action, dalle Marce europeecontro la disoccupazione alle mobilitazioni contro la guerra. Neiconflitti di cui si occupa il nostro volume, il loro impegno nellamobilitazione, ma anche nelle pratiche consensuali di decisione,le loro esperienze nell’utilizzazione di alcune forme di azionediretta, una affidabilità nel rispetto delle decisioni prese, unadisponibilità a “contaminarsi” nell’incontro con gli altri sono statericonosciute da parte dei loro alleati, contribuendo a creare lega-mi di reciproca fiducia. Questo ha certamente anche contribuitoa modificare la percezione che di essi avevano i cittadini “comu-ni”, coinvolti nella protesta, una percezione precedentementeinfluenzata negativamente dai mass-media e dai partiti. Per moltidi essi, soprattutto per i comitati di cittadini, scoprire che non sitrattava di “estremisti violenti”, quasi contigui ai terroristi, ma digiovani attivisti con una forte carica ideale e una grande deter-

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minazione è stata una (inaspettata e positiva) sorpresa. Questomutamento di percezione dovuto alla compartecipazione all’azio-ne sembra destinato a durare, anche se solo per quelli che sonoentrati in contatto diretto con loro. Dall’altro lato, i militanti deicentri sociali, o almeno una loro parte, hanno sempre cercato diinteragire con quella parte della società che considerano il loro“referente”, cioè quella più debole dei ceti disagiati (in questi casii cittadini che subiscono delle imposizioni dall’alto). Non sonocerto emersi come totalmente estranei e irriducibili alla società(almeno una gran parte), in quanto essi si percepiscono comeuna componente di quella società che lotta per una trasforma-zione radicale di quella esistente. E in queste mobilitazioni i cen-tri sociali hanno intravisto una possibilità di mutamento dal bassodei rapporti politici e sociali dominanti. Non a caso sono tra iprincipali protagonisti del collegamento e della generalizzazionedelle “lotte di comunità”, come le definiscono, che altrimentiavrebbero caratteristiche particolaristiche e di chiusura verso l’e-sterno.

Un altro elemento di novità e di forza della protesta è la struttura reticolareche essa ha assunto. Una struttura fluida, senza centro, dimostratasi assai reatti-va ed efficace soprattutto nei momenti di maggiore intensità del conflitto.Soprattutto in Val di Susa questa struttura ha avuto come corollario l’adozione diun metodo decisionale di tipo “assembleare” che è stato in grado finora di garanti-re il consenso di tutte le componenti del movimento. Un esempio di democrazia par-tecipata che il movimento ha spesso saputo efficacemente contrapporre all’opacitàinvece delle decisioni assunte dalle istituzioni politiche, ma che esso si è dato inmaniera spontanea, naturale. In che senso esso differisce dalle esperienze precedentie che tipo di militanza sembra profilare? Dalle testimonianze che voi riportate nonemerge poi una leadership: è proprio così?

Quello che tu chiami metodo decisionale assembleare è inrealtà il metodo consensuale tipico della democrazia deliberativa.Questa ci è sembrata una delle principali differenze rispetto alleesperienze passate, quando nei movimenti le decisioni venivanoprese in assemblea attraverso l’aggregazione delle preferenze,

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cioè la conta dei voti e l’emergere di una maggioranza e di unaminoranza. Col metodo consensuale le decisioni vengono presesempre in assemblea, ma attraverso il ragionamento, la discus-sione, l’argomentazione razionale e la trasformazione delle prefe-renze, che portano a una soluzione condivisa da tutti, o quasi. Inqueste assemblee non si vota, ma si discute e si argomenta daposizione differenti per giungere, spesso faticosamente, a unaposizione comune, riconoscendo l’altro come interlocutore legit-timo e non come avversario. Ovviamente ciò è molto difficile eavviene spesso non senza conflitti e tensioni. Tuttavia, crediamoche questa sia proprio la differenza, anche nella concezione dellamilitanza, sempre più lontana dagli stereotipi totalizzanti e sem-pre più aperta alle appartenenze multiple (si può far parte di piùgruppi contemporaneamente senza essere bollati come “tradito-ri”). La formula decisionale si accompagna a una struttura retico-lare e fluida, che può tendere ad adattarsi alle tappe e alle formedel conflitto, con momenti di coordinamento più lasco tanto piùci si muove dal locale al nazionale (vedi il Patto di MutuoSoccorso). Riguardo alla leadership, se è naturale che alcuni atti-visti abbiano maggiori capacità di influenzare i processi decisio-nali interni, grazie alle loro risorse di capitale umano e politico,è anche vero che non esistono leader unici, né tantomeno unaleadership consolidata e immutabile, nonostante i media cerchi-no in tutti i modi di dare un volto alle proteste. Pensa al presi-dente della Comunità Montana valsusina, Ferrentino, che avevaconquistato la sua legittimità partecipando in prima persona alleazioni di protesta e che adesso, dopo l’accordo del giugno diquest’anno, è stato fortemente criticato dai comitati e da chi nonvuole la TAV “senza se e senza ma”. Nelle due campagne, la par-tecipazione è certamente preferita alla delega e quest’ultima èsottoposta a un controllo continuo dal basso.

Altro aspetto interessante su cui soffermarsi: la protesta è fortemente interge-nerazionale. Se un ruolo pionieristico (perché rappresentano soprattutto i militantidi base, diciamo così, delle associazioni ambientaliste) è svolto da persone di mediaetà socializzatisi alla politica negli anni Settanta, in essa sono presenti sia anzia-

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ni sia giovani e molto giovani. Che ruolo ha questa componente giovanile e quan-to è rappresentativa degli orientamenti di fondo di una generazione? Ci autorizzase non a smentire un giudizio sui giovani che si vorrebbero distanti dalla politicae chiusi nel privato, almeno a ridurne l’enfasi con cui viene spesso formulato?

La componente giovanile è sicuramente molto importante e silega soprattutto alla presenza dei centri sociali (i principali porta-tori di risorse generazionali) e di coloro che si sentono coinvoltinei movimenti per la giustizia globale. Se i movimenti degli anniSessanta e Settanta (da quello femminista a quello ecologista)avevano continuato a pescare in quella generazione, con una dif-ficoltà a coinvolgere le nuove generazioni, le proteste di Seattle,o in Europa, di Genova contro il G8, hanno visto il coinvolgi-mento di una nuova generazione, che porta anche caratteristicheculturali specifiche. La presenza dei giovani (e giovanissimi) si èconfermata nelle mobilitazioni contro la guerra in Iraq e nel“biennio rosso” 2002-2003, caratterizzato dalle grandi manifesta-zioni contro il governo Berlusconi “di padri e di figli”, come le hadefinite la stampa (e spesso “di madri e di figlie”). Nelle nostrecampagne, i giovani sono mobilitati attraverso i centri sociali, maanche i collettivi studenteschi, che intrecciano i temi No-Lulu conaltre rivendicazioni sulla scuola.

Giustamente nella vostra analisi avete sottolineato come il conflitto si giochisoprattutto a livello simbolico. A questo proposito, uno degli aspetti più interessan-ti del vostro lavoro è l’aver sottolineato come la protesta rimodelli in un certo sensol’identità stessa dei suoi partecipanti, dando origine a un senso di comunità nuovoche però valorizza selettivamente alcuni elementi del passato (per esempio nel casovalsusino la memoria della Resistenza):è sensato dire che questo nuovo spirito diappartenenza sia destinato a essere duraturo e ricostruisca legami sociali che levicende recenti avevano lacerato?

Normalmente si dice, nella teoria sociologica, che la protestaha bisogno di capitale sociale, cioè della pre-esistenza di asso-ciazioni e valori cooperativi. Noi abbiamo voluto sottolineare chela protesta crea essa stessa reticoli e norme, generando un senso

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di appartenenza al territorio, declinato in maniera non esclusiva.Nei nostri due casi, un senso di appartenenza alla comunità si èri/creato attraverso la lotta, la partecipazione all’azione. La suadurata dipenderà non solo dalla continuazione delle mobilitazio-ni, ma soprattutto dalla solidità dei legami sociali che esse hannocontribuito a ri/creare, costituendo una risorsa per future mobili-tazioni.

Una delle risorse più importanti a disposizione del movimento è stata indub-biamente internet, che ha costituito uno strumento importantissimo di contro-infor-mazione e di mobilitazione (e che si sposa molto bene con la struttura reticolareassunta dal movimento). Su un altro piano, invece, come voi scrivete, è stato assaipiù difficile il rapporto con i mezzi di informazione, specie quelli nazionali, che deimovimenti davano generalmente la stessa lettura offerta dai sostenitori delle gran-di opere, e questo nonostante sui mass media le tematiche ambientali, anche se tal-volta affrontate in forma leggera, abbiano ormai trovato “cittadinanza”, spessoproprio con il ricorso a esponenti del movimento ambientalista in qualità di esper-ti. Come giudicare questa contraddizione?

Bisogna, innanzitutto, ricordare che la stampa locale, moltospesso, non è indipendente dal punto di vista economico. I prin-cipali giornali e tv locali (ma anche nazionali) che promuovonole grandi opere sono spesso di proprietà di coloro che hannointeressi materiali nella realizzazione delle grandi opere: la Fiat,proprietaria de “La Stampa” ha interessi nella realizzazione dellaTAV in Val di Susa, così come “la Sicilia” e “La Gazzetta del Sud”nell’area dello Stretto (basti pensare che l’editore della “Gazzetta”è stato per lungo tempo presidente della società Stretto diMessina s.p.a.). Vi è poi una egemonia culturale sui mass-mediadel discorso “sviluppista” (qualche volta retoricamente collegatoall’ambiente nella definizione di uno sviluppo sostenibile, dovel’attenzione è prevalentemente sul primo termine). Infatti, anchegli altri grandi organi di stampa nazionali, non direttamente coin-volti, come “la Repubblica” hanno sempre stigmatizzato comeconservatori ed egoisti gli oppositori delle grandi opere, sposan-do una linea “sviluppista” basata sulla crescita economica, che

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riflette la posizione dei principali partiti italiani (PDL e PD). L’altroproblema specifico nella comunicazione delle campagne sta nelladifficoltà di uscire dall’ambito locale: la mobilitazione in Val diSusa è stata coperta nelle pagine nazionali solo molto occasio-nalmente e prevalentemente nei momenti di escalation del con-flitto, quindi come questione di ordine pubblico. Della campagnacontro il Ponte sullo Stretto l’opinione pubblica nazionale è anco-ra meno informata. Se Internet è giudicato dagli attivisti come uti-lissimo per rafforzare ed estendere la comunicazione interna, ilpassaggio dai media alternativi ai mass-media è difficile.

Se il movimento non prende in considerazione la violenza come strumento dilotta, nel suo repertorio, assai vasto, sono contemplate azioni di disobbedienza civi-le e resistenza passiva che possono essere qualificate come extralegali e che in alcu-ni casi possono comunque condurre, come è accaduto, a scontri con le forze dell’ordi-ne. È questo un punto centrale, su cui vi chiederei qualche osservazione perché rap-presenta un’arma a doppio taglio per il movimento, soprattutto in rapporto al ruolodei mezzi di informazione. Inoltre, non è possibile non chiedere a Donatella dellaPorta, autrice insieme a H. Reiter di Polizia e protesta. L’ordine pubbli-co dalla Liberazione ai “no global” (Bologna, Il Mulino, 2003) la suavalutazione delle strategie di contenimento (o repressione?) della protesta messe inatto in questo caso dalle forze dell’ordine.

L’utilizzo di forme d’azione radicali a-legali come i blocchistradali e ferroviari e la disobbedienza civile si è ormai diffusaanche ad altre mobilitazioni No LULU (come quelle No Dal Molina Vicenza e quelle No discarica a Chiaiano), anche in questo casograzie all’apporto dell’expertise dei militanti dei centri sociali. Purnon praticando mai forme violente offensive, è certamente veroche gli scontri con le forze dell’ordine (spesso provocati da que-ste ultime) possono portare ad una stigmatizzazione da parte deimass-media come “lotte violente” e quindi a un isolamento rispet-to all’opinione pubblica. Del resto, come abbiamo detto, di que-ste mobilitazioni sui media si parla quasi esclusivamente proprioquando questi scontri si verificano (vedi gli ultimi fatti diChiaiano del 27 settembre) i quali, quindi, hanno l’effetto di tene-

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re desta l’attenzione nazionale sulle proteste che altrimenti pas-serebbero sotto silenzio. Il prezzo, è tuttavia una tendenza, neimass media, a stigmatizzare la protesta come violenta. Gli inter-venti di ordine pubblico in Val di Susa in occasione degli sgom-beri dei presidi e la conseguente militarizzazione della valle (oggil’uso dell’esercito in Campania) fanno parte di una strategia dicontrollo della protesta che viene definita di “escalation dellaforza”, con repressione diffusa, in forme dure e indiscriminate, escarso uso invece del negoziato (con una subordinazione infattidel diritto di manifestare all’ordine pubblico). Questo tipo diinterventi (che si sviluppano spesso su territori contesi) sonoprove di forza, tendenzialmente polarizzanti. L’effetto può essereun isolamento del movimento, ma può essere anche una cresci-ta della solidarietà, se l’intervento di polizia è diffusamente per-cepito come ingiusto e orientato a colpire una intera comunità.Quest’ultimo meccanismo si è messo in moto in Val di Susa, favo-rito, oltre che dal radicamento della protesta, anche dal sostegnoad essa da parte di istituzioni locali (sindaci, ma anche parroci,medici etc.), che hanno legittimato con la loro presenza le formedi azione diretta. A Vicenza, vi è stato invece a lungo una gestio-ne negoziata della protesta, che ha privilegiato il diritto di mani-festare dei cittadini, permettendo gesti di disobbedienza simboli-ca, ma evitando escalation. La strategia sembra essere però cam-biata con il governo di centro-destra.

Rispetto al momento in cui avete terminato la stesura del libro la vicenda TAVè naturalmente proseguita e anzi pare oggi, dopo un periodo di stasi, conoscere dinuovo una accelerazione, favorito anche dal mutare dello scenario politico nazio-nale. Quale situazione ci troveremo di fronte nei prossimi mesi?

Il processo di policy riguardante la TAV ha sicuramente subitoun’accelerazione con il nuovo governo di centro-destra (come delresto anche quello del Ponte sullo Stretto), determinato a portarea compimento l’opera, e con l’accordo di giugno tra rappresen-tanti governativi e amministratori locali (contestato dai comitati).È molto probabile che con il tentativo di riaprire i cantieri in Val

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di Susa si assisterà a una nuova intensificazione delle proteste daparte della popolazione e, forse, anche a una sua radicalizzazio-ne, anche se pensiamo che questa non assumerà mai forme vio-lente; tuttavia è molto probabile che la reazione delle autoritàgovernative assuma le caratteristiche fortemente repressive comequelle manifestatesi a Vicenza e soprattutto a Chiaiano. La pre-visione dunque è quella di un inasprimento del conflitto, di cuiovviamente non è scontato l’esito.

Il vostro libro, mi sembra, dimostri in maniera chiara come la cosiddetta sin-drome di NIMBY non sia una categoria utile per la comprensione della realtà, maun modo, piuttosto sbrigativo, per etichettare delegittimandoli dei movimenti diprotesta che si vogliono esclusivamente portatori di interessi egoistici, preoccupatisolo di allontanare dal proprio territorio la localizzazione di impianti o infra-strutture rifiutati perché ritenuti, per ignoranza o per malafede, dannose per l’am-biente o per la salute. Dunque è il ragionamento di chi ricorre a questa etichettaanche il richiamo a tematiche più generali che caratterizza questi movimenti sareb-be puramente strumentale, ossia sarebbe finalizzato solo a legittimare la protestaagli occhi dell’opinione pubblica. Nel libro voi dimostrate invece come si realizzinella protesta un allargamento dei temi e dei problemi sollevati: il rifiuto delleopere in questione si trasforma in una critica più generale al modello di sviluppoche le ha ispirate mentre la richiesta delle popolazioni locali di essere coinvolte nelprocesso decisionale conduce naturalmente a una critica radicale delle procedure,giudicate poco trasparenti, attraverso le quali scelte così importanti vengono com-piute. La protesta nata a partire da un problema locale investe così la nozione stes-sa di interesse comune. Questa, come voi scrivete, è del resto una, anzi, è la posta ingioco nel conflitto fra fautori e oppositori delle grandi opere.

Ma è sempre così o questo dipende soprattutto dalla maturità raggiunta daimovimenti o da condizioni preesistenti e in qualche caso ad esso esterni? Per esem-plificare se nel caso della protesta contro l’allargamento della base Dal Molin aVicenza mi sembra vi si ripropongano la stessa costellazione di elementi che ritro-viamo in quella valsusina, nel caso di quella campana, legata all’emergenza rifiu-ti, peraltro assai più informale, questa costellazione mi sembra più lontana dalpresentarsi (a parte alcune eccezioni).

E ancora, è possibile in qualche modo misurare la presa di coscienza che la pro-testa porta con sé, gli effetti virtuosi che nel tempo essa è in grado di generare a

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livello di mentalità collettive? Se essa si traduce effettivamente in maniera dura-tura (sarei tentato di dire irreversibile) nella ricerca di uno stile di vita ecologica-mente e socialmente sostenibile?

Prima di studiare No TAV e No Ponte avevamo, insieme ad altristudiosi, analizzato comitati di cittadini e campagne di protesta insei città italiane: in quei casi, le campagne erano rimaste locali,anche se si era avviato un percorso di coordinamento a livello cit-tadino, oggi esteso in alcuni casi al livello regionale. Se dunquele campagne non sempre escono dal livello locale, è anche veroche la protesta di per sé spinge verso visioni più generali. Anchechi inizia da un territorio limitato, nel corso della mobilitazionetende a incontrare altri, impegnati su tematiche simili, su altri ter-ritori, a scambiare idee ed esperienze, e a costruire un discorsopiù generale. Spesso, poi, il discorso si amplia anche nel corso dicampagne su tematiche diverse (dalla pace al lavoro), che poivengono simbolicamente collegate con l’opposizione alle grandiopere. Il processo di allargamento delle tematiche affrontate,della costruzione di una visione alternativa di “bene comune” èin corso non solo a Vicenza ma anche a Chiaiano, nonostante unpregiudizio, diffuso anche a sinistra, lo renda meno visibile.Soprattutto vi è un collegamento in rete delle varie campagne diprotesta che sembra difficilmente reversibile. Lo dimostrano sia ilcaso di Vicenza che quello di Chiaiano, che non a caso sono instretto collegamento (“Chiaiano chiama Vicenza” è un loro slo-gan) in questi mesi anche sulla battaglia contro la militarizzazio-ne del territorio (una nuova questione emersa da queste ultimedue campagne di protesta). Basta leggere i documenti prodottidagli attivisti di queste ultime mobilitazioni per rendersene conto.Quanto duraturi (o irreversibili) siano gli effetti di questi proces-si sugli stili di vita é difficile da prevedere (anche se molta ricer-ca sociologica sottolinea che la socializzazione nei movimenti diprotesta tende infatti a produrre effetti di lunga durata).Certamente, questi processi si sono avviati nel corso della prote-sta. I presidi in Val di Susa o a Vicenza rappresentano anche spazidi sperimentazione di stili di vita alternativi (con impianti a basso

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impatto ambientale, scambi senza denaro ecc.). E una delleforme d’azione dei comitati di Chiaiano è stata quella di effettua-re autonomamente la raccolta differenziata, per poi portarladavanti al Comune di Napoli in segno di protesta, ma anche diproposta; allora questo può anche rappresentare un indicatoredel mutamento della mentalità collettiva.

I movimenti contro le grandi o le piccole opere giudicate dannose per l’ambien-te sono diffusi, pur con radicalità e consenso differente, con densità diversa, un po’su tutto il territorio italiano. Anche in questo caso si potrebbe dire che si sia confi-gurata una vera e propria rete il cui denominatore comune non è rappresentato solodalle tematiche ambientali ma dall’aspirazione più complessiva a un altro model-lo di società. A questa rete avete ormai dedicato molti lavori al punto che in pro-posito si potrebbe parlare di una vera e propria mappatura. Mi chiedo – posto chenon lo si stia già facendo – se non sia il caso di formare archivi pubblici per la con-servazione della memoria di questi movimenti e se questa sensibilità sia avvertitao meno dagli stessi militanti.

Noi stiamo continuando le ricerche su questi movimenti, inparticolare su quelli di Vicenza e di Chiaiano e sul Patto di MutuoSoccorso. Nel nostro percorso di ricerca, pensiamo anche di allar-gare l’attenzione anche a campagne di protesta che tendono arestare locali, proprio per capire meglio le condizioni che favori-scono o ostacolano la “montata in generalità” nel corso della pro-testa. Stiamo anche pensando, insieme alla Fondazione Feltrinelli,di creare un archivio on-line della ricerca sui movimenti sociali inEuropa. I materiali raccolti e che stiamo raccogliendo, su questi ealtri movimenti, potrebbero essere raccolti lì. Questo aiuterebbecertamente la ricerca storica e sociologica sui temi della protestache spesso soffre della mancanza di archivi ufficiali e cumulati-vità delle fonti. Riguardo alla sensibilità dei militanti No LULU, ilriscontro che abbiamo avuto alle presentazioni del nostro libro ingiro per l’Italia è stato sinora molto confortante, in quanto la pre-senza e l‘interesse degli attivisti è stata una piacevole costante.

Qualche anno fa, Donatella Della Porta insieme a M. Diani, dedicava un

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testo all’ambientalismo italiano, divenuto poi un punto di riferimento importantein materia, intitolatoMovimenti senza protesta? Oggi ad imitazione di queltitolo potremmo chiamarli “movimenti senza politica?”, nel senso di rappresentan-za parlamentare? Pur non essendo mai stato l’ambientalismo italiano particolar-mente collaterale ai Verdi, coi quali, mi sembra, in alcuni casi non sono mancati imotivi di conflitto o di reciproca diffidenza, mi chiedo quali conseguenze la crisi,forse irreversibile, che essi stanno conoscendo oggi, avrà sull’ambientalismo italia-no nel suo complesso. Nello stesso tempo, mi chiedo, quali potranno essere invece i rap-porti con il nascente Partito democratico che annovera fra i suoi padri fondatorialcuni esponenti storici dell’ambientalismo. L’impressione diffusa è che per ora nono-stante la volontà di alzare “bandiera verde” l’ambientalismo non sia diventato unadelle culture politiche a fondamento dell’identità del nuovo partito. Mi sembra signi-ficativo che non vi sia all’interno del partito, almeno da quanto si può leggere neigiornali, un dibattito, anche lacerante, sulle questioni ambientali, a dispetto peresempio dello sforzo di sintesi che viene fatto sui temi bioetici fra la componente cat-tolica e quella laica. Cosa ne pensate?

Se per politica si intendesse quella istituzionale e parlamenta-re, allora questi movimenti sarebbero “senza politica”; certamen-te sono movimenti che hanno pochissimi canali di accesso alleistituzioni pubbliche, trovandosi contro un fronte compatto ebipartisan a difesa di un concetto di progresso come crescita eco-nomica. Con il Partito democratico, e prima ancora i DS, le diver-genze e la distanza sono tali da rendere impossibile alcun rap-porto, se non conflittuale; del resto Veltroni ha fatto la sua cam-pagna contro “l’Italia dei No” – e quindi esplicitamente controtutti i movimenti No LULU – più che contro Berlusconi, col qualecondivide l’idea dello sviluppo come crescita economica basatasui grandi investimenti: quanto di più lontano dall’idea di “altrosviluppo” di chi si oppone alle grandi opere e a tutti gli interventipubblici sui territori senza il consenso delle popolazioni. Ancherispetto ai partiti della sinistra cosiddetta radicale e ai Verdi, letensioni venutesi a creare con i movimenti No-LULU nel periododel governo Prodi, sono ancora aperte. Queste mobilitazionisono invece molto politiche, se per politica intendiamo anchecostruzione di spazi pubblici, al di la delle istituzioni. Infatti, que-

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ste mobilitazioni rappresentano un modo di intendere e fare poli-tica, alternativo, partecipativo e “dal basso”. Anche nella ricercasociologica, l’immagine che emerge dalla nostra ricerca contrastauna visione dei movimenti come attori che appartengono esclu-sivamente alla sfera sociale e della politica come ambito esclusi-vo dei politici professionisti nelle istituzioni.

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Alessandria provincia logistica

Daniele Borioli

Logistica, chi era costei

Porti, retroporti, interporti, piattaforme logistiche, scali. Daqualche anno a questa parte il dibattito locale alessandrino si èvenuto via via riempiendo di una terminologia sino a pochi annifa pressoché sconosciuta. Che poi non sempre e non da tutti, ecerto anche da chi scrive, tale terminologia sia usata appropriata-mente, con adeguati nessi di relazione tra significante e significa-to, è problema tutto sommato secondario. Ciò che importasoprattutto registrare è l’irruzione massiccia di un argomentareche fasce crescenti di amministratori, imprenditori e cittadinihanno trasformato in senso comune. Un senso comune che,oltretutto, impregna di sé i materiali di propaganda elettorale, leattività di svariate amministrazioni locali, la penna di opinionistie cronisti, la voce di centinaia di relatori a decine di convegni.

Eppure, logistica è un concetto tutt’altro che nuovo. Le con-fuse e approssimative conoscenze di cui dispongo ne fanno forserisalire l’etimo al mondo militare, e in particolare agli eserciti del-l’antica Roma, che furono maestri del settore e che su di essocostruirono parte significativa dei loro successi sui campi di bat-taglia. Ai nostri tempi, depurato dalle sue origini bellicose, l’ar-mamentario di parole richiamato all’inizio serve a definire unvasto complesso di elementi materiali, di obiettivi strategici e dimodalità organizzative nello scambio delle merci, che trova inalcuni peculiari contesti territoriali le condizioni per assurgere, in

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sé, al ruolo di fattore primario dello sviluppo. Uno di questi pecu-liari contesti è, certamente la provincia di Alessandria.

Perché Alessandria?

La prima, decisiva ragione ha a che fare con la geografia fisi-ca. Alessandria dista circa novanta chilometri da Milano eGenova, e poco meno di cento chilometri da Torino e Piacenza.Si trova, cioè, in una posizione esattamente baricentrica rispettoai principali e tradizionali poli di sviluppo economico e finanzia-rio dell’Italia. La qual cosa, anche in virtù dei processi di indu-strializzazione, delocalizzazione industriale e post-industrializza-zione succedutisi nei decenni del secondo dopoguerra, ha gua-dagnato al capoluogo e alla sua provincia una gamma cangiantedi definizioni: da quella più lusinghiera e ambiziosa di “cuore deltriangolo industriale”, a quella più immaginifica e futuribile di“centro del ge-mi-to”, sino a quella più problematica e, probabil-mente, realistica di “periferia del Nord-Ovest italiano”. La secon-da ragione è, invece, collegata all’esistenza di una consistenterete di infrastrutture di accessibilità, nodi e piattaforme di scam-bio modale e smistamento, la cui presenza è certo derivata inparte significativa dalla forza oggettiva della collocazione territo-riale; arricchita però dalla visione e dalla capacità di progettarefuturi scenari di sviluppo, che si ritrova in talune iniziativeimprenditoriali, addensatesi in particolare nell’area della ValleScrivia, ma non solo.

Appartengono alla prima categoria le linee ferroviarie checonvergono su Alessandria da molteplici direttrici (e particolar-mente le cinque che la collegano con Genova e Savona), treautostrade, uno scalo ferroviario merci di primaria importanza(Alessandria smistamento) e uno di non minori potenzialità (NoviS. Bovo). Mentre nel novero della seconda fattispecie rientranol’interporto di Rivalta Scrivia (inventato da Giacomino Costa alcu-ni decenni fa e oggi, dopo anni difficili, in fase di grande rilan-cio), l’interporto di Arquata Scrivia (significativo polo per le merci

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sfuse), il polo logistico di Pozzolo Formigaro, quello di Coniolonel Casalese, la logistica S. Guglielmo a Tortona e, più di recen-te, gli impianti logistici di Capriata d’Orba.

Su questa cospicua dotazione di infrastrutture, competenze,esperienze imprenditoriali, cui potrebbero essere aggiunti comeelementi di rinforzo la solida tradizione dell’autotrasporto, che sindall’immediato secondo dopoguerra ha connotato lo sviluppo ditalune aeree della provincia, nonché il recente innesto delle realtàuniversitarie (Amedeo Avogadro e Politecnico), molto dinamichenel ritagliarsi, sul terreno della formazione e della ricerca, spazidi iniziativa e radicamento nel tessuto socio-economico locale, siinnerva quella che ormai molti protagonisti della vita pubblicapiemontese e nazionale qualificano come la “vocazione logisticadell’Alessandrino”.

Da Cengio al Limonte

In realtà, questa presunta vocazione, più che della naturalepropensione di un territorio che ha nei decenni seguito con alter-ne fortune altre piste di sviluppo, è frutto di una determinata ecaparbia volontà di costruzione politica, scaturita dall’azione delleamministrazioni locali, e in particolare della Provincia diAlessandria, e solo molto più tardi (a partire dal 2005) approdataall’attenzione delle Regioni e dello stesso Governo nazionale. Èvero che da qualche anno a questa parte pare ormai essere acqui-sito, negli atti della programmazione nazionale e regionale, ilconcetto di “piattaforma logistica del Nord-Ovest”, racchiudentein sintetica formula quel complesso di infrastrutture (esistenti oda realizzare), attività e impianti di servizio o produttivi, flussi direlazioni commerciali e informazioni, situato tra i porti liguri, ilPiemonte e i settori occidentali della Lombardia e dell’Emilia econcepito quale sistema attraverso cui progettare l’organizzazio-ne ottimale del movimento delle merci dai luoghi della produ-zione globale ai mercati finali. Non si può, tuttavia, trascurarecome questo disegno ambizioso, talvolta conclamato persino con

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eccessiva enfasi, costituisca il punto di approdo di un lavoriolungo, che non è inappropriato connotare quale vero e proprioesempio di costruzione dal basso di un’idea di sviluppo territo-riale, cresciuta attraverso un processo partecipato, non esente dacontraddizioni, contrasti e conflitti, ma alla fine consolidatosi inuna sintesi largamente condivisa.

Come dicevo poco sopra, l’embrione di tale processo è da rin-tracciarsi nel nucleo di programma che, intorno alla metà deglianni Novanta, l’amministrazione provinciale di Alessandria presead articolare a partire dagli esiti di uno studio predispostodall’Istituto di ricerche economiche e sociali del Canton Ticino,cui fu affidato l’incarico di formulare una valutazione obiettivacirca le potenzialità di sviluppo del territorio alessandrino, colle-gate alla vicinanza con i porti di Genova e Savona. Sullo sfondodella domanda fondamentale formulata allo studio, stavano alcu-ni elementi di contesto che è bene richiamare: la ripresa del ruolostrategico di Suez e la conseguente, recuperata centralità delMediterraneo nell’ambito dei processi di globalizzazione; i limitifisici posti all’espansione di due porti (in particolare quello diGenova) caratterizzati da un lato da cospicui fondali, in grado diaccogliere le titaniche navi portacontainers di nuova generazione,e dall’altro schiacciati tra la costa e le montagne incombenti.

Fu la suggestione del “porto oltre l’appennino”, per riprende-re il titolo di un progetto recente di cui darò qualche cenno inconclusione, il motore di una ricerca di alleanze attivata verso leistituzioni liguri e costruita con paziente tessitura. Avvicinando viavia i lembi di una faglia profonda tra due mondi che, pur condi-videndo innumerevoli fattori comuni, quali il dialetto quasisovrapponibile tra l’estremo sud alessandrino e la fascia ligure o,sul terreno della storia contemporanea, l’esperienza resistenzialedella Divisione “Pinan Cichero”, apparivano orgogliosamenteconnotati da quel rapporto di diffidente parentela che PaoloConte ha mirabilmente cantato in una sua famosissima canzone.

Naturalmente, a rendere più complicato il percorso di avvici-namento intervenivano alcuni problemi di grande e oggettivorilievo, soprattutto sul versante ligure. La paura di un depaupera-

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mento e, quindi, di una ulteriore regressione economica e occu-pazionale, della gloriosa tradizione portuale genovese e savone-se, già di suo attraversata da pesanti dinamiche di crisi. E, piùancora, la lacerante conflittualità maturata tra comunità liguri epiemontesi intorno alla tragica secolare vicenda dell’Acna diCengio, divenuta nel tempo vero e proprio simbolo di un’appa-rentemente insanabile antinomia tra sviluppo e ambiente, coinci-dente per di più, in questo caso, con lo spartiacque territoriale eil confine amministrativo tra due regioni.

Sarebbe, ora, troppo lungo ripercorrere tutte le tappe di uncammino fatto di infinite riunioni, costituzioni di comitati promo-tori, passi avanti coraggiosi e frettolose retromarce. E culminato,però, con un atto di portata storica: la nascita di SLALA. Con que-sto acronimo fu battezzata, nei primi anni del nuovo secolo laSocietà per la logistica dell’arco ligure-alessandrino. Società aresponsabilità limitata, partecipata da tutte le principali istituzionipubbliche delle Province di Alessandria, Genova, Savona e LaSpezia, autorità portuali comprese. Se qualcuno volesse, in unipotetico futuro, rintracciare le tracce genetiche di un’altrettantoipotetica (almeno per ora) entità, quel “Limonte” con cui diversiorgani di informazione catalogano le molte iniziative comuni, inuna pluralità di settori amministrativi, che con sempre maggioreintensità Liguria e Piemonte promuovono, non c’è dubbio chedovrebbe procedere a ritroso sulla strada che in queste pocherighe è sommariamente raccontata.

Vale la pena?

La domanda non è solo retorica. Il processo partecipato, e perlarghissima parte condiviso dalle comunità locali, ha posto costan-temente di fronte ai suoi protagonisti questioni non banali. Chehanno richiesto sforzo di elaborazione, capacità di ascolto, media-zione e compromesso. Dando luogo a un esito che non ha pacifi-cato del tutto i dissensi, non ha risolto tutti i dubbi, non ha con-vinto tutti coloro che sarebbe stato meglio riuscire a convincere.

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Paradigmatico, in questo senso, è la vicenda che riguarda laprogettata realizzazione del cosiddetto “Terzo Valico dei Giovi”.Una nuova infrastruttura ferroviaria ad “alta capacità” (che si dif-ferenzia dall’“alta velocità” per essere dedicata prevalentementeal trasporto delle merci) e a “doppia canna” (come si definisconole infrastrutture in cui i flussi di traffico nelle due direzioni sonoseparati in due gallerie separate). L’attuale ancoraggio di unaperipezia ben lungi dall’essere conclusa (le difficoltà della finan-za pubblica rendono tuttora molto incerta la concreta realizza-zione della linea) è certamente quello di una solida base di con-senso da parte delle comunità locali, oltretutto in molti casi gui-date da coalizioni in cui sono ricomprese quelle forze politicheche, di solito, manifestano le maggiori opposizioni verso le gran-di opere. Si tratta, cionondimeno, di un ancoraggio che ha modi-ficato radicalmente, in virtù di una robusta spinta dal basso, unadiscutibilissima impostazione iniziale, molto più spinta verso unmodello di alta velocità finalizzato a connettere Genova e Milano,e volgendola verso un disegno totalmente altro: quello di un geo-metrico potenziamento del trasporto ferroviario merci tra Genovae Novi Ligure, finalizzato a decongestionare il nodo del capoluo-go ligure, ad alimentare le attività delle piattaforme logistiche eintermodali dell’alessandrino, a migliorare il saldo ambientaleattraverso un tendenziale riequilibrio tra ferro e gomma.

In questo modo, le fortune del “Terzo Valico” si sono inestri-cabilmente legate, sul terreno del consenso, a quelle più genera-li del progetto del sistema logistico ligure-alessandrino, in forzadi una dinamica oggettiva per quanto non sempre appropriatanel campo delle definizioni problematiche. È accaduto, insomma,schematizzando un po’, che quanti pensano che la logistica possaessere davvero un’opportunità utile di sviluppo del territorio,vedono la realizzazione della nuova ferrovia quale elementonecessitante; mentre al contrario quanti ancora si oppongono allanuova linea, espongono una sostanziale contrarietà al più gene-rale progetto logistico, giudicato troppo invasivo, dequalificate escarsamente incisivo sul piano occupazionale.

Naturalmente, alcune delle risposte alle molte questioni anco-

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ra aperte le scopriremo solo vivendo. Certo, però, che lo sforzodi qualificare un progetto tanto cospicuo come quello del siste-ma logistico del Nord-Ovest, armonizzando i diversi obiettivi stra-tegici che in esso convivono, non può essere banalmente risoltoe va, da parte dei pubblici poteri, accompagnato da un costanteimpegno di governo delle regole e dei processi.

Sul fronte dello sviluppo economico e occupazionale, l’ideache attraverso la logistica si possa recuperare una parte dellacapacità di produrre ricchezza, che si è persa nei settori maturidella manifattura, e che una buona organizzazione sistema logi-stico-infrastrutturale possa concorrere a restituire competitività alnostro tessuto di imprese e ad attrarre investitori, generando lavo-ro buono e stabile, va concretamente tradotta e misurata in pro-getti industriali credibili. Così come l’assunto che sviluppo delleattività logistica e tutela delle risorse ambientali non siano con-cetti tra loro antagonisti ma complementari, rischia di apparirecome una declamazione apodittica; se non la si inquadra in unaserie di misure di politica trasportistica volte a incentivare il tra-sferimento dei traffici dalla strada alla rotaia e a porre vincolisempre più cogenti sull’espansione incontrollata del flusso veico-lare. E allo stesso modo, sarà difficile alla fine presentare unbilancio ambientale soddisfacente, se non si orienterà la politicadegli insediamenti verso il riutilizzo e la rifunzionalizzazione dellearee già compromesse nelle precedenti fasi di sviluppo economi-co, senza occupare nuove porzioni di territorio, al di là di quan-to strettamente indispensabile.

In-conclusioni

La partita è, in qualche modo, ancora aperta. Anche se ormai,dopo lunghi anni di riscaldamento, forse si sta davvero comin-ciando a giocare. Il gruppo Ferrovie dello Stato, attraverso il suonuovo braccio operativo di FS Logistica, si accinge a liberare inve-stimenti consistenti, per decine di milioni di euro, sull’area delloscalo merci di Alessandria, per realizzare una piattaforma logisti-

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ca di poco meno di mezzo milione di metri quadri. Intorno a essasorgerà, sempre nell’area di scalo, una prima base retroportuale,di riferimento per Genova e Savona. Nel contempo, gli importantigruppi imprenditoriali del settore insediati nella realtà di RivaltaScrivia stanno procedendo alla realizzazione di un terminal, chealimenterà ulteriormente le già crescenti attività dell’interporto.Altri impianti di carattere logistico si vanno via via realizzando traPozzolo Formigaro e Capriata d’Orba.

Mentre sul piano infrastrutturale, all’annoso busillis riguar-dante il “Terzo Valico” (si fa, non si fa; ci sono i soldi, non ci sonopiù, ci risono), si aggiunge ora un interessantissimo e innovativoprogetto sviluppato a Torino, che ipotizza la realizzazione di unsistema di trenini automatici a bassa velocità e a ciclo continuo,in grado di trasportare nelle aree retroportuali alessandrine milio-ni di container all’anno, prelevandoli direttamente dalle navi.Detta così, la faccenda può anche assomigliare a una sorta dicatastrofe merceologica destinata ad abbattersi sul territorio ales-sandrino con deflagranti effetti. Ma si può anche guardare il pro-blema da un’altra prospettiva e cercare di governarlo, volgendo irischi inevitabilmente connaturati all’essere, come noi siamo, terradi passaggio, nell’opportunità di rivoltare i nostri obiettivi di cre-scita verso modelli più governabili e meno impattanti.

D’altro canto, quello che oggi abbiamo di fronte tra Genovae il Po, se non è il peggiore dei mondi possibili non è neppureun paradiso terrestre. Basta muoversi ogni tanto lungo la reteautostradale che ci attraversa per constatarlo. E, al tempo stesso,constatare le ancora consistenti potenzialità di una rete ferroviariasottoutilizzata, anche per la totale pluridecennale latitanza di poli-tiche trasportistiche adeguate. E forse oggi, alla luce di quanto staaccadendo sui mercati finanziari mondiali, ci facciamo un po’ tuttimeno illusioni sulle magnifiche sorti e progressive della new eco-nomy, o sulle dimensioni reali delle fertili praterie del turismo,come ambito di sviluppo sostitutivo della gloriosa tradizione mani-fatturiera. Sempre ammesso che il turismo, quando si fa davveroindustria, non comporti guasti ambientali altrettanto rilevanti.

Anche se è evidente che chi scrive ha sull’argomento una

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posizione precisa e, quindi, per ciò stesso discutibile, è inveceoggettivamente fondato dire che il tema della logistica ci restitui-sce spunti di riflessione che vanno ben al di là dello specificoambito disciplinare, o del dibattito politico di breve momento. Eriguardano piuttosto la complessa relazione tra locale e globale,il difficile comporsi delle dinamiche di costruzione del consensotra le prerogative inalienabile dei territori e delle loro rappresen-tanze e le funzioni decisionali dei livelli di governo d’area vasta,il mai risolto ossimoro della crescita sostenibile.

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Gli archivi di fronte alle trasformazionidi internet: alcune riflessioni

Paolo Carrega

Gli archivi stanno cambiando, è una realtà incontrovertibile.Questa trasformazione appare collocata su due direttrici princi-pali, tra loro strettamente correlate.

La prima, più macroscopica e immediatamente evidente, è ilsempre crescente utilizzo di tecnologie web2.0 da parte di alcu-ne istituzioni archivistiche, specialmente in ambito anglosassone.A chi risultasse oscura l’espressione web2.0, la chiarirò con unrichiamo a Wikipedia, l’enciclopedia “libera” che appunto di que-ste tecnologie, che permettono a ogni utente di intervenire suicontenuti e persino sulla struttura del sito, si serve. Ma un altrofenomeno sociale-culturale degli ultimi anni, quello dei Blog, èreso possibile da queste innovazioni. E gli esempi potrebberocontinuare.

La seconda, che è la causa diretta e il più delle volte non visi-bile della prima, è una modificazione sostanziale del tipo di uten-za che si rivolge agli archivi e, conseguentemente, delle motiva-zioni che spingono ad “andare in archivio”, parafrasando il titolodi un famoso saggio di Isabella Zanni Rosiello 1. Fa notare StefanoVitali che sempre meno sono i tradizionali frequentatori delle saledi studio, vale a dire storici e ricercatori professionisti, sostituiti innumero di anno in anno crescente da “gente comune”, che sirivolge agli archivi per lo più per ricerche genealogiche relativealla propria famiglia. È un forte bisogno identitario dunque aspingere le persone a incontrare la “memoria-deposito” (perusare ancora un’espressione di Vitali) custodita negli archivi, che,

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proprio grazie a questo incontro, si trasforma in “memoria-iden-tità” 2. Il dato più interessante di tale trasformazione è la volontàdi questa nuova utenza di attingere in modo diretto alla “memo-ria-deposito”, senza la tradizionale mediazione, cioè, della riela-borazione critica della memoria depositata nelle fonti archivisti-che da parte degli storici. Non è questa la sede per indagare leragioni di questa sfiducia nel ruolo degli storici, ma certamenteuna delle principali è la forbice individualizzazio-ne/globalizzazione che sempre più caratterizza la società con-temporanea, di fronte alla quale la storiografia, nonostante leampie aperture alla soggettività degli ultimi tre decenni, sembranon dare risposte soddisfacenti. La maggior parte delle personecomuni, infatti, associa ancora il concetto di “Storia” alla dimen-sione nazionale da un lato, a quella del potere dall’altro, e non atorto, se consideriamo che in effetti la storiografia italiana, almenofino al secondo dopoguerra, si è strutturata intorno all’asse por-tante Università-Archivi di Stato, entrambe istituzioni sino allorafortemente dipendenti dal potere politico, specialmente i secondi,che erano deputati dalla legge archivistica a raccogliere (oltre aquelli dei cessati Stati preunitari) i documenti prodotti dalle “magi-strature centrali e periferiche dello Stato”. Dunque archivi delpotere, sentiti come lontani ed estranei dalla gente comune, e inpiù archivi strettamente legati all’idea di Stato-Nazione, che i feno-meni di globalizzazione e i flussi migratori degli ultimi decennistanno mettendo radicalmente in discussione.

Qualunque archivista un po’ addentro i “segreti delle carte” sabene che anche gli archivi del potere possono egregiamenterispondere ai bisogni identitari dell’uomo comune, anzi spesso gliarchivi delle tentacolari polizie politiche dei regimi totalitari, perla totale segretezza da cui erano protetti i documenti che li com-ponevano, rappresentano, una volta crollati quei regimi, la risor-sa più preziosa per il ritrovamento delle radici spezzate e per larivendicazione dei diritti delle persone per opprimere e control-lare le quali erano stati creati. Ma l’uomo comune non sa nulla disimili nemesi storiche, dunque è portato, come dicevo prima, aconfrontarsi direttamente con i documenti, diffidando del lavoro

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dello storico, ma anche di quelle istituzioni che sente più legatealla vecchia concezione di potere e di Stato-Nazione come gliArchivi di Stato.

Alle carenze della tradizionale amministrazione archivisticasopperisce in misura crescente Internet: sulla rete si assiste a unastraordinaria proliferazione di siti di ricerca genealogica, il cuicapofila è Ancestry.com, che fornisce moltissimi servizi ancheall’utente più digiuno di ricerca archivistica. Ma sono sorti recen-temente anche siti importanti dedicati alle vittime delle persecu-zioni dei regimi fascisti, il cui esempio più significativo è forsequello dell’ITS (International Tracking Service) che si fonda su unricchissimo database costruito proprio a partire dalle famigerate“liste” dei convogli diretti ai campi di concentramento e stermi-nio, i cui originali cartacei si conservano a Bad Arolsen (ottimoesempio di un archivio del potere che serve al recupero di iden-tità individuali che quello stesso potere intendeva cancellare), eche si propone appunto, come leggiamo nella home page, di rispon-dere alle richieste di “victims of Nazi persecutions and their fami-lies by documenting their fate through the archives it manages” 3.

Di fronte a questi mutamenti così macroscopici nell’approccio,nell’utenza, nella funzione, nella natura stessa degli archivi, che,per usare un’espressione sempre più diffusa, da archivi istituzio-nali (“l’Archivio rispecchia l’istituzione che lo ha prodotto”, reci-ta un dogma ancora fino a poco fa intoccabile della dottrinaarchivistica) si vanno trasformando in “social archives”, gli Istitutistorici della Resistenza non possono restare indifferenti. Tanto piùche, rispetto agli Archivi di Stato e agli altri archivi istituzionali,essi partono fortemente avvantaggiati. Pur essendosi infatti inseguito “istituzionalizzati” per effetto della sanzione normativadata dalla Carta Costituzionale a molti dei valori della Resistenza,essi sorsero proprio per raccogliere e conservare una memoria“altra”, soggettiva, sociale, svolgendo un ruolo propulsivo fonda-mentale per l’elaborazione di nuove declinazioni del concetto di“memoria” molto vicine a quella “memoria-identità” di cui hoprima parlato. Per il tipo di fonti che conservano, gli Istituti dellaResistenza sono stati la naturale fucina di quelle nuove tendenze

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storiografiche che privilegiano la dimensione intersoggettiva, laricostruzione di vicende personali paradigmatiche, gli intrecci tramacrostoria e microstoria. Infatti, la quasi totalità delle fonti pre-senti negli istituti sono costituite da archivi personali, che pernatura hanno una forte valenza identitaria, essendo costituiti pro-prio per tramandare una certa immagine delle personalità che lihanno formati. Archivi dunque, ancora una volta, eccentricirispetto alla tradizionale dottrina archivistica, che vuole gli archi-vi sorti per “scopi pratici” e non “ideologici”, e nella loro presunta“neutralità” vede la garanzia maggiore della loro utilizzabilità ascopi scientifici. Ma ancor più interessanti sono gli archivi delleformazioni partigiane e delle forze politiche che le sorreggevano,“social archives” a tutti gli effetti, formati molto meno per ragio-ni pratico-organizzative che per dare un’identità di gruppo agliindividui che le componevano, e soprattutto per tramandarla allegenerazioni future.

Non a caso col sorgere del revisionismo storico sono stati inprimo luogo questi archivi a essere impegnati in quei “conflitti dimemoria” che oggi sono più che mai vivi e attuali. Conflitti dimemoria del tutto particolari, perché coinvolgono una “memoria-identità” che è servita da base per un ordinamento istituzionale,e dove quindi gli intrecci tra soggettività, identità e potere sonomolto complessi e delicati. Ricorda Antonio Brusa in un bel sag-gio apparso nel volume I luoghi, la storia, la memoria come il concet-to di “memoria collettiva” non corrisponda a una realtà fattuale,ma sia un “costrutto intellettuale”, una “metafora”, un “prodottoraffinato, nato e coltivato negli strati intellettuali delle nostresocietà”. E aggiunge:

[...] numerosi studi empirici hanno mostrato che neigrandi gruppi nazionali è molto difficile trovare conoscen-ze realmente condivise (come accade invece nei piccoligruppi e nelle famiglie). Dal canto loro, le ricerche neuro-psicologiche e filosofiche hanno messo in chiaro che lememorie sono soltanto individuali 4.Questi concetti sono ribaditi più volte nei saggi che compongo-

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no il volume, tutto dedicato ai complessi rapporti tra memoria indi-viduale, elaborazione storiografica e “uso pubblico” della storia.

Mi sembra dunque naturale, alla luce di tutto quanto eviden-ziato sopra, che la rete degli Istituti mostri una particolare sensi-bilità per le problematiche connesse al web2.0 e alla trasforma-zione degli archivi, anche per mezzo di queste nuove tecnologie,in “social archives”. Io penso che questa sia la strada da seguire.Mettere in rete le risorse significa renderle meno “istituzionali”,socialmente condivise, più vicine alla memoria viva degli eredidei protagonisti della vicenda resistenziale e delle vittime dellepersecuzioni nazifasciste, che spesso non si rivolgono agli Istitutiperché li considerano parte di una farraginosa macchina buro-cratica, oppure perché li sospettano troppo ideologicamente con-notati (e quindi anche in questo caso compromessi con il “pote-re”), o anche semplicemente perché ne ignorano l’esistenza. Lasocializzazione attraverso il web2.0 della “memoria-deposito” checustodiscono, secondo la mia opinione, farà aumentare sensibil-mente le richieste dell’utenza, ma renderà anche molto più age-vole trovare le risposte, una volta che questa “memoria-deposito”sia interamente accessibile dal web, “fatta propria” dagli utenti econdivisa. In questo senso, mi azzardo ad affermare che sarannogli utenti stessi a fare “ricerca storica”, accorgendosi magari che illoro “metodo” è sorprendentemente vicino a quello dei ricerca-tori degli Istituti, quindi spingendoli a rivolgersi ai loro lavori conpiù fiducia e interesse. A loro volta, questi ricercatori trarrannosicuramente nuovi spunti di riflessione e metodologia dal mododi fare ricerca degli utenti, privilegiando una visione multicentri-ca in cui la “memoria-deposito” dà vita a molte “memorie-iden-tità”, ricercando i punti di contatto e di divergenza tra esse, comedel resto già da molti anni sono abituati a fare, con l’emergerenella storiografia resistenziale della questione della “scelta” e,soprattutto, delle ragioni di questa scelta, strettamente legate alla“memoria-identità”.

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1. Isabella Zanni Rosiello, Andare in archivio, Bologna, Il Mulino, 1996.2. Stefano Vitali, Memorie, genealogie, identità, in Linda Giuva, Stefano Vitali,Isabella Zanni Rosiello, Il potere degli archivi. Usi del passato e difesa dei diritti nellasocietà contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 2007.3. http://www.its-arolsen.org/en/homepage/index.html4. Antonio Brusa, Conflitti di memoria, dovere di storia, in I luoghi, la storia, lamemoria, a cura di Luciana Ziruolo, Alessandria, Isral, Recco, Le Mani,2008

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A scuola nel PCI: dottrina comunista emito dell’Unione Sovietica

Il caso di Novi Ligure nelle carte di Franco Inverardi

Cecilia Bergaglio

La mia ricerca è nata in seguito al lavoro di riordino e archi-viazione informatica di un fondo privato, attività svolta nel 2006come tirocinio formativo universitario. I documenti su cui hoavuto modo di lavorare, sotto l’esperta guida del personale archi-vistico dell’Istituto per la storia della Resistenza e della societàcontemporanea in Provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi”,giacevano dal 1996 presso la sede dell’Unione comunale deidemocratici di sinistra di Novi Ligure, oggi sede del PartitoDemocratico e un tempo del PCI. Attualmente il fondo è stato tra-sferito all’Istituto alessandrino, dove sarà conservato a disposizio-ne degli studiosi.

Il soggetto produttore dell’archivio è un militante del PCI,Franco Inverardi (1924 - 1996): a Novi tutti lo conoscono comeFranchin, il suo nome di battaglia. Fino alla scomparsa egli è statouna delle personalità più importanti, per influenza e capacitàdecisionali, della sezione novese del Partito comunista italiano epoi del Partito dei democratici di sinistra. Nato nell’aprile del1924, militante a partire dai tempi della clandestinità, fino alloscoppio della guerra svolge il mestiere di calzolaio. Nel 1944entra a far parte del movimento resistenziale, ottenendo due rico-noscimenti, la Croce di guerra e la Stella di bronzo della BrigataGaribaldi. Nel gennaio del 1945 è catturato dalle Brigate nere, mariesce in maniera fortuita a fuggire e ad aggregarsi alla LVIII°

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Brigata garibaldina d’assalto “Oreste”. Dopo la guerra, cominciaper Inverardi una militanza politica attiva, prima come segretariodi sezione e poi come responsabile del Fronte della gioventù,l’organizzazione unitaria dei giovani che hanno operato nellaResistenza. Dal 1956, entra a far parte dell’amministrazione, in unprimo tempo come Consigliere comunale, poi come assessoreall’Informazione e stampa e in seguito all’Urbanistica.Ufficialmente, il suo ritiro dalla vita politica avviene nel 1989, perproblemi di salute, ma, a detta di molti, mantiene voce in capito-lo sulle più importanti scelte politico-istituzionali. Collaboratoredi alcuni periodici locali (“La Squilla”, “Il Progresso”) è statocofondatore e direttore del foglio locale “il novese”. È ricordatodai compagni come un modello per l’impegno politico, ma anchenella sua dimensione umana, più sofferta. Piccolo di statura, fisi-camente gracile, incute soggezione per la serietà con cui vive lamilitanza e per l’abilità con cui si destreggia nel fare politica.

Nel corso della sua vita Franchin ha conservato, in cartelle dicartone da ufficio, molti documenti che riguardano la sua azionedi partigiano combattente, di militante del PCI, di amministratorecomunale, di editore, di giornalista. I fascicoli, insieme con i libri,per la maggior parte editi da “L’Unità”, sono stati consegnati, persua volontà testamentaria, al partito, addirittura trasportati neimobili originali.

Caratteristica peculiare del fondo è la varietà dei contenuti, dalmomento che le carte restituiscono la vita del militante nella suacomplessità e nella sua totalità: attraverso lo studio del materialeriordinato, quindi, è possibile ricostruire non solo la vicendaumana di Franco Inverardi, ma anche alcuni dei passaggi piùimportanti sia delle vita di una sezione locale del Partito comu-nista italiano, sia della storia amministrativa della città dove egliha vissuto e operato. Molti, dunque, sono i temi che si sarebbe-ro prestati a un approfondimento.

La mia scelta è stata quella di prendere in esame l’insiemedelle attività organizzate dalla sezione novese del partito per lacostruzione e la diffusione, tra tutti i militanti, del mitodell’Unione sovietica, nell’arco temporale che va dall’immediato

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dopoguerra agli anni Settanta. La parabola storica, condizionatadalle fonti, è comunque la stessa adottata da Marcello Flores eNicola Gallerano1, i quali individuano nel 1944 e nel 1979 gliestremi del periodo in cui con particolare forza si evidenzia ilradicamento del PCI nella società italiana e il rapporto profondostabilito con la storia del nostro Paese. L’interesse per il mitodell’Unione sovietica deriva dalle suggestioni in me evocate dallalettura della più recente storiografia sul Partito comunista italiano,che ha affrontato per la prima volta in maniera sistematica lo stu-dio dell’identità culturale dei militanti comunisti 2, i quali hannoavuto un peso assai rilevante nella storia del nostro Paese e nelprocesso di democratizzazione avviatosi dopo la conclusione delsecondo conflitto mondiale, ma che per molto tempo sono statiadombrati dall’interesse univoco per l’azione nazionale e interna-zionale dei dirigenti, unica prospettiva da cui in passato si è pre-valentemente guardato alla storia del PCI.

Sono molti gli studiosi che considerano il mito dell’Unionesovietica un elemento fondamentale dell’ideologia comunista 3:essa è la patria del socialismo realizzato, un mondo lontano in cuila classe operaia “proietta” i problemi che la affligge e dove que-sti sono felicemente risolti. È la forza che spinge milioni di italia-ni a lottare, nell’aspro clima della Guerra fredda, per un’Italiamigliore. Nato con la battaglia di Stalingrado, grazie alla qualel’URSS assume il ruolo di baluardo contro il nazifascismo, il lega-me affettivo con il paese socialista si mantiene saldo per tutto ilcorso del dopoguerra ed è ancora oggi un tema molto sentito tragli ex iscritti al PCI, come ho avuto modo di constatare di perso-na, nel corso delle interviste svolte durante la ricerca.

In parte moto spontaneo, il mito è un fenomeno costruito dalvertice per la trasmissione di specifici ideali e valori. Proprio suquest’ultimo aspetto ho voluto incentrare la mia ricerca, seguendodiversi filoni tematici che presenterò qui sommariamente. Un postodi rilievo spetta senza dubbio ai viaggi nella patria del socialismo,organizzati dalla sezione o da qualche organismo a essa vicina 4. Sitratta di un momento fondamentale non solo per la crescita ideo-logica, ma anche per l’elaborazione e la conferma dell’idea mitica

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che ogni comunista ha dell’URSS. I resoconti di chi ha toccato conmano la realtà sovietica confermano l’ideale mitico dei comunisti:è un mondo dove tutto funziona, privo di ingiustizie sociali, daibisogni soddisfatti, dalle inequiparabili bellezze artistiche e archi-tettoniche. Nessuno sembra accorgersi delle limitazioni alla libertàpersonale e del filtro, costituito soprattutto dalle guide, che impe-disce una lettura autonoma e soggettiva del mondo di oltre corti-na. Di grande utilità, per lo studio di questo tema, è stato il setti-manale locale edito dalla sezione comunista, “il novese”, che haospitato, nel corso del tempo, numerosi racconti e resoconti diviaggio, con l’intento, evidente, di diffondere anche tra i non iscrit-ti la conoscenza del mondo sovietico.

In secondo luogo, ho analizzato la costruzione della memoriadi Fiodor Alexander Poletaiev, partigiano sovietico combattente eunico straniero in Italia cui è stata concessa la medaglia d’oro allaResistenza. Si tratta di un processo che contraddistingue, inmaniera del tutto originale, il mito sovietico dei militanti novesi.Caduto in uno scontro a fuoco contro in nazifascisti nel 1944,solo nel 1963 si scopre il suo vero nome e il suo “sacrifico eroi-co”, come viene definito dalla stampa locale e nei discorsi uffi-ciali, è celebrato, ininterrottamente fino a oggi, con un’annualecerimonia di commemorazione. L’amministrazione comunale,non il PCI, si occupa di gestire e diffondere la memoria del parti-giano sovietico: è il tentativo di fare di Poletaiev un eroe “condi-viso”, simbolo della Resistenza e dei valori di libertà e democra-zia a essa connessi. Questo contribuisce alla diffusione dell’im-magine idealizzata dell’Unione sovietica tra i cittadini novesi ealla vicinanza tra Novi e l’URSS.

In questa sede mi è parso opportuno prendere in esame, inmaniera dettagliata, il terzo ambito tematico che ha caratterizzatola mia ricerca, giudicandolo di primaria importanza: l’organizza-zione di una scuola di partito per i militanti, l’attività più specifi-camente pedagogico-ideologica allestita dalla sezione comunistanovese. Prima di affrontare in maniera esaustiva l’argomento, ègiunto il momento di conoscere più da vicino la realtà di Novi edel suo partito.

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Il PCI di Novi Ligure

Novi Ligure, grazie alla favorevole posizione geografica, col-locata com’è nel cuore del triangolo industriale Torino - Genova- Milano, ha avuto, a partire dalla fine dell’Ottocento, una fortevocazione industriale. Conclusasi la stagione delle filande, cheavevano costituito la principale risorsa economica del XIX seco-lo, l’inizio del Novecento vede la maggioranza dei novesi, siauomini che donne, al lavoro in piccole fabbriche di lampadine,vetrerie e ferriere. Nel periodo compreso tra la fine degli anniCinquanta e l’inizio dei Sessanta, Novi vive un imponente pro-cesso di crescita economica, accompagnata da profonde trasfor-mazioni sociali e demografiche: “il miracolo economico” è qui ècaratterizzato da un lato dalla nascita di grandi e medie industrie,fra le prime quella siderurgica ILVA, dall’altro dal nuovo ruoloassunto dalla ferrovia. Lo snodo di San Bovo, stazione logisticaper le merci in entrata e in uscita, occupa in questi anni più diun migliaio di ferrovieri. Il tessuto sociale prevalentemente com-posto da famiglie operaie ha fatto sì che nel corso della storiarepubblicana la città di Novi abbia sempre avuto come sindacoesponenti della sinistra, una caratteristica decisamente peculiare,che ha come conseguenza la difficoltà, per i cittadini, nel distin-guere Consiglio comunale, Giunta e partito: tre diverse istituzio-ni percepite fino a non molto tempo fa come qualcosa di unico.L’osmosi tra partito e amministrazione comunale è evidente nelmodo in cui il comune fa fronte ai cambiamenti rapidi e radicaliconnessi al boom demografico registratosi nel quinquennio 1958-1963. La nascita delle aziende municipalizzate, la costruzione diospedali, scuole, l’organizzazione dei servizi alla persona sonotutti processi che avvengono attraverso la mediazione dei legamistabiliti dal PCI, consolidati ed efficaci. Un esempio ne è la crea-zione dell’azienda municipalizzata per la gestione del gas e degliimpianti idrici. Il sindaco di allora, Armando Pagella, insieme conFranco Inverardi, si reca a Bologna e ne torna con un ingegnereche aveva già prestato la propria opera per la sinistra emiliana 5.

Questo comporta, per quanto riguarda il nostro oggetto di stu-

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dio, il fatto che l’amministrazione comunale possa sostituirsisenza apparenti differenze al partito, attraverso proprie iniziative,nel promuovere e diffondere l’immagine positiva dell’Unionesovietica e nel coltivare rapporti ufficiali con alcuni dei suoi rap-presentanti. Lo sviluppo della città negli anni del miracolo eco-nomico corrisponde alla crescita e a una migliore organizzazionesul territorio del PCI, nel quale, fino a questo momento, il potereè concentrato nelle mani di dirigenti di vecchia data, che pro-vengono dall’esperienza della clandestinità o dell’esilio: fra que-sti vi è Carlo Acquistapace, sindaco dal 1951, rifugiatosi negli USAdurante il regime fascista. Protagonista del processo di costruzio-ne del “partito nuovo”, di massa, è proprio Franco Inverardi.Dopo una breve fase di stallo delle iscrizioni, dovuto all’effettodelle rivelazioni di Kruscev, le adesioni al PCI aumentano veloce-mente. Novi, che in questo periodo ha circa 27.000 abitanti 6, rag-giunge il tetto degli ottocento iscritti. Nasce, per volontà dellaFederazione provinciale, il Comitato di zona, un organismo cheunisce la sezione novese a quelle dei trentun comuni circostanti.In totale, i tesserati sono 1.500. Non dappertutto c’è una vera epropria sezione: in alcuni centri molto piccoli ci sono solo nucleidi iscritti, cinque o sei, cui ci si riferisce comunque con il termi-ne di “sezione”.

Di fronte all’espansione del partito e alle difficoltà di gestioneorganizzativa, i dirigenti del PCI decidono di dotare la sezione diNovi di una segretaria. Per trentacinque anni, dal 1961 al 1996,sarà Elda Ballestrazzi a svolgere questo compito, con precisionee dedizione: è una delle due donne all’interno del partito, dalcarattere forte e determinato, capace di ritagliarsi, in un universoprettamente maschile, una funzione che va al di là di quellaamministrativa, ibrida fra la figura della militante politica concompiti organizzativi e le tradizionali funzioni di cura femminili.La segreteria del PCI, infatti, funziona anche da sindacato, aiutan-do chi non è in grado – spesso perché analfabeta – a scrivere let-tere, a compilare la domanda per le case popolari, le richieste perle esenzioni, i moduli per pagare le tasse. La porta è aperta perchiunque, ognuno porta le proprie esperienze e racconta i suoi

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problemi: la sezione è, a tutti gli effetti, una seconda casa.“Un’azienda vera e propria, dall’alacre attività” 7, Elda definisce

così il PCI di quegli anni, ricordando la mole di lavoro costituitadalla gestione del bilancio, dalla fittissima corrispondenza trasezione del PCI e quelle di altri partiti, amministrazione comuna-le e militanti e dal tesseramento: bisogna provvedere al rinnovoannuale delle iscrizioni, all’aggiornamento sui decessi e sui nuoviarrivi, al bollino mensile da aggiungere per ogni militante.

Nascono ora e si mantengono in vita fino alla fine degli anniSettanta, tre sezioni territoriali e una di fabbrica. Quella territoria-le più grande è la “Testa”, che raccoglie tutti gli iscritti del centrodella città – il discrimine è la linea ferroviaria che taglia in dueNovi – e le cellule di fabbrica. La sede è in Via Girardengo, la viacentrale più frequentata, dove sono concentrate le attività com-merciali. Il locale, ampio ed elegante, era stato la sede del Fascio,occupato subito dopo la Liberazione dalle forze antifasciste e poirimasto al PCI. “C’erano ancora degli armadietti di legno con inci-so ‘me ne frego’” 8 confessa ridendo Elda. Oltre al mobilio, sierano conservati anche dei carteggi del PNF, raccolti in cartellinerosse con scritte nere, oggi andati perduti.

La sezione “Aldo Rossi” si trova invece in Via Verdi e racco-glie gli iscritti che risiedono al di là della ferrovia. Il nome è quel-lo di un compagno “storico”, nel cortile del quale, fino a pocotempo prima, si organizzavano delle piccole Feste de L’Unità.Questa sarà affiancata, per un breve periodo di tempo, dalla“Guido Rossa”, con sede in Via Amendola. Gli operai dell’Ilvafanno riferimento a una sezione di fabbrica, autonoma e moltovivace, con circa 180 iscritti, intitolata alla memoria del già citatoCarlo Acquistapace. Come sede, fa riferimento alla “Testa”.

Ogni sezione è dotata di un proprio segretario, Comitato diret-tivo e Probiviri, cioè le persone più anziane che esercitano fun-zioni di controllo. Questa organizzazione territoriale così capilla-re – la cui unità più elementare è costituita dalle cellule – risultaparticolarmente utile per un efficace svolgimento delle attività delpartito: la propaganda, la “diffusione” de “L’Unità”, la distribuzio-ne del materiale elettorale e l’allestimento dei seggi. “Non un voto

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andava sprecato” 9 ricorda Elda. Si provvede infatti a effettuare,prima di ogni chiamata alle urne, il conto esatto degli iscritti e sicontrolla dove questi andranno a votare: grazie a una macchinaorganizzativa perfettamente funzionante, si è in grado di saperein anticipo l’esito delle consultazioni. In caso di ritardo alle urne,si sollecitano telefonicamente gli iscritti perché adempiano al pro-prio dovere. Nel caso di anziani o persone impossibilitate a muo-versi, si stabiliscono dei turni e i compagni più giovani provve-dono ad accompagnare tutti a votare.

Il coinvolgimento degli iscritti è costante, perché questi sonoimpegnati, oltre che nella vita quotidiana del partito, anche nelleattività finalizzate alla loro crescita culturale, ideologica e civile. Icompagni, per un motivo o per l’altro, sono occupati ogni sera,dopo cena, nei giorni festivi e durante il tempo libero. La vita nonlavorativa è dedicata interamente alla politica.

La nascita della scuola di partito e il mito di Stalin

Tra le diverse attività organizzate dal partito per l’accresci-mento ideologico e culturale dei militanti, un posto di rilievospetta senza dubbio all’istituzione di un vera e propria “scuola”,in cui i funzionari del PCI impartiscono lezioni teoriche agli iscrit-ti. Siamo in grado di ricostruire questo processo formativo graziea una serie di fascicoli conservati nel fondo “Franco Inverardi”,intitolati “Scuola centrale quadri di Roma”. Si tratta di materialeedito dalla direzione centrale del PCI che Inverardi utilizza all’in-terno della sezione locale per un ciclo di corsi che si svolge trala fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta.

Nel 1947 il Comitato direttivo di Novi avverte l’esigenza di for-nire ai compagni una solida formazione ideologica. Si legge infat-ti in un verbale del 24 novembre: “Il Bottazzi Enrico parla dellanecessità di istituire una scuola di Partito la quale avrebbe il com-pito di istruire e migliorare il livello ideologico dei compagni. Sidelibera di ritornare sull’argomento”. Sappiamo con certezza ladata dell’avvio delle lezioni, ancora grazie al verbale di una riu-

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nione del Direttivo svoltasi nell’ottobre 1948. “Sul rafforzamentodell’ideologia del Partito, ha parlato Bottazzi Enrico, dicendo cheper il raggiungimento di questo scopo serve la scuola di Partito,che avrà inizio il 15 ottobre. Essa sarà di due sezioni: una fem-minile per le compagne e una per i compagni (specialmente peri giovani).” Da notare la divisione per sesso, che testimonia del-l’austera moralità propria del PCI. Qualche giorno più tardi lo stes-so Bottazzi, il quale ha evidentemente a cuore l’istruzione degliiscritti, in occasione di un’Assemblea generale, esorta tutti i com-pagni a prendere parte al corso e “in generale, a leggere di più”.

Prima di entrare nel merito dei contenuti, sono opportunealcune osservazioni di carattere generale. La nostra attenzionesarà dedicata al ruolo dell’Unione sovietica nell’ideologia comu-nista, con un occhio di riguardo agli apporti originali, laddoverintracciabili, della sezione novese. Tralasceremo quindi l’analisidella dottrina marxista e la parte riguardante l’organizzazione delPCI.

In secondo luogo, è necessario sottolineare due elementipeculiari delle dispense: il carattere fortemente dottrinale e sche-matico, dovuto alla volontà di permettere ai militanti un appren-dimento più agevole e all’impostazione fortemente disciplinatadel partito; un radicato e diffuso stalinismo, come dimostrano labibliografia, costituita essenzialmente da scritti di Stalin, il ricor-so frequente a citazioni dirette estrapolate dai suoi discorsi, infi-ne l’aurea di mito che circonda la sua persona.

In Tecniche e significati del mito di Stalin 10. Marchetti sottolinea comela visione idealizzata del leader sovietico non derivi né da unapersonalità carismatica, né da spiccate doti oratorie o qualitàintellettuali particolarmente raffinate: egli costituisce piuttosto ilcentro etico del comunismo internazionale. Anche in ambitolocale è stato possibile riscontrare la visione idealizzata di Stalin:Inverardi raccoglie pubblicazioni, ritagli di giornale e opuscoli inun fascicolo apposito, arrecante l’intestazione “Stalin”. Il materia-le, inoltre, reca traccia di una fitta serie di appunti e di frequentisottolineature, che dimostrano con quanta attenzione il militantenovese segua gli avvenimenti che si succedono in Unione sovie-

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tica, in particolare negli anni 1952 -1956.Il momento in cui si rende particolarmente evidente il legame

tra i militanti e il leader dell’Unione sovietica è il 1953, quando icomunisti di tutto il mondo piangono la sua scomparsa, in un’at-mosfera di commozione generale. Inverardi ritaglia con cura leprime pagine dei principali quotidiani nazionali, che riportano lanotizia a caratteri cubitali. I funerali, tra retorica ed enfasi, conse-gnano Stalin alla glorificazione internazionale. La stampa comu-nista si rammarica per il fatto che l’umanità intera abbia subitouna gravissima e irreparabile perdita, dal momento che si è spen-ta “la gloriosa vita del nostro maestro e capo”, “il più grandegenio dell’umanità”. I meriti del compagno Stalin sono talmentegrandi per cui il suo nome “sarà glorificato e vivrà nei secoli”: egliavrebbe donato la sua vita per l’emancipazione di tutti i lavora-tori dall’oppressione e dal giogo degli sfruttatori, per la liberazio-ne dell’umanità dalle guerre devastatrici e per rendere felice lavita degli operai di tutto il mondo. Grande pensatore, inegua-gliabile studioso, fondatore di quell’“unica fraterna famiglia” cheè l’Unione sovietica, grazie al “grande ed eroico condottiero,Generalissimo Stalin”, è stato possibile il potenziamentodell’Armata rossa, la vittoria sul nazifascismo. La sua opera infati-cabile ha consentito l’ingresso dell’URSS in un nuovo ordinamen-to economico che non conosce né crisi né disoccupazione e cheha trasformato il paese in una potenza industriale senza pari. InItalia, come si legge nelle cronache del tempo, migliaia di conta-dini, operai e intellettuali sfilano mesti in corteo, portando ritrat-ti listati a lutto. Ovunque manifesti e scritte. Settemila telegrammie migliaia di lettere giungono all’Ambasciata sovietica. Militantiintervistati parlano della morte “del salvatore del mondo”. Atti difede e di riconoscenza ancora nel 1954 e nel 1955, quando Stalinè assiduamente ricordato all’interno del PCI. Si esaltano soprattut-to le sue doti di garante e difensore della pacifica esistenza tra ipopoli, si rende omaggio a colui che ha consentito la marciaverso la libertà, l’indipendenza e il socialismo.

Pochi anni dopo, Stalin è visto con occhi ben diversi: in segui-to alle rivelazioni di Kruscev, inizia un travaglio lacerante che

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provoca nel PCI l’avvio del processo di destalinizzazione. In Italia,come nel resto del mondo, si accende un lungo e complessodibattito, in cui i dirigenti comunisti, in interviste fiume, cercanodi analizzare, spiegare, capire che cosa stia succedendo e la por-tata delle conseguenze. Si comincia a parlare di una “via nostra”,di “condizioni soggettive del comunismo”. La denuncia mette l’a-nimo, la fede, le convinzioni di ogni comunista di fronte a unaprova terribile, apre quesiti di fondo sul passato e sull’avvenire.

Per molti militanti, tuttavia, come si è potuto riscontrare nelnostro caso di studio, non viene scalfito il mito e il ruolodell’Unione Sovietica, in breve la frattura provocata dal rapportoKruscev si riduce sempre più e vi è una rivalutazione in positivodell’operato di Stalin. Basti ascoltare le parole di ammirazioneancora oggi riservate a quest’ultimo da parte dei militanti.

In un intervento pubblicato nel 1966 su “il novese” emergonole contraddizioni e i limiti del processo di destalinizzazione. Sulfoglio locale si sostiene come neanche il 1956 abbia potuto pro-vocare spaccature all’interno del mondo comunista, perché ilnemico vero da combattere è sempre uno solo: l’imperialismo.

È vero: l’azione dell’avversario di classe non fu univocae giocarono a favore nostro e dei popoli determinate con-dizioni interne della borghesia, ma quelle furono oggettiva-mente le direzioni in cui lo schieramento imperialista simosse; e perciò la posta divenne da subito i rapporti di forzatra campo socialista e campo imperialista: in definitiva, l’as-setto stesso del mondo. Questo fu il punto vero di giudizioe di scelta politica su cui si confrontarono le forze. Nelloscatenarsi della tempesta, noi comunisti dicemmo allora: sista da una parte della barricata, contro l’imperialismo.Scegliemmo. Individuammo quella essenziale discriminante,quella frontiera, che divide – e in certi momenti divide inmodo sanguinoso e drammatico – la parte della reazione ela parte (sia pure travagliata, non tutta compiuta, né “pura”)del progresso e del socialismo 11.

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Da parte del militante novese autore dell’articolo di riflessio-ne politica, si rivendica il coraggio e la lealtà del PCI, che pur nonsottraendosi a una riflessione critica sugli errori, le carenze e ledegenerazioni dello stalinismo, resta pienamente consapevoledell’importanza dell’unità del mondo socialista.

Qualche anno addietro, siamo nel 1963, nel corso di unDirettivo di sezione, si discute della figura di Stalin. I compagninon parlano più degli errori di “un uomo”, ma degli “uomini”. Glisbagli compiuti, in ogni caso, non avrebbero minimamente intac-cato il sistema socialista: al contrario, il XX congresso del PCUS èconsiderato positivamente, dal momento che “ha permessoall’Unione sovietica di raggiungere livelli ancora più alti di pro-duttività e dar modo così al sistema socialista di affermarsi com-piutamente nel mondo”. Secondo il compagno Repetto, ex parti-giano e operaio dell’Ilva, “Stalin, pur criticabile nei suoi errori, èstato l’uomo che ha portato avanti il sistema socialista in Unionesovietica, nel periodo e nelle condizioni specifiche in cui si tro-vava allora immerso il Paese”. Per Fasciolo, militante della vec-chia guardia anch’egli lavoratore presso l’industria siderurgicalocale, non si dovrebbe più discutere e avanzare dubbi sul nomee l’operato di Stalin, ma sarebbe utile spiegare con maggiore chia-rezza a tutti i compagni il contenuto di quel fatidico congresso,su cui si è fatta eccessiva confusione. Egidio Sonsino, ex parti-giano, ferroviere e comunista sensibile al dialogo con il mondocattolico, afferma che è giusto avanzare critiche a Stalin solo semotivate e fondate e che bisognerebbe sempre aver ben presen-te il ruolo che egli ha avuto nell’affermazione del socialismo.Alarici, che interviene successivamente, sostiene la necessità dicredere maggiormente nel centralismo democratico, per evitaredi lasciarsi sviare nelle proprie convinzioni.

A testimoniare che il mito di Stalin non scompare repentina-mente dalla cultura e dall’universo di valori dei comunisti italia-ni, il fatto che le campagne di tesseramento, ancora fino agli anniSessanta, – come dimostrano i volantini rinvenuti nel fondo –siano svolte in onore del compleanno del compagno Stalin.L’attaccamento diffuso alla figura di Stalin, che si riscontra tra i

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militanti della base, fa riflettere circa la natura, i tempi, le moda-lità e l’efficacia del processo di destalinizzazione avviato dal ver-tice del PCI, che si scontra con l’apparato mitico precedentemen-te veicolato attraverso la stampa e le attività di formazione ideo-logica. La visione manichea della politica e del mondo – nondimentichiamo che ci muoviamo in un contesto bipolare – faormai parte dell’identità culturale di ogni militante, costituendoun sostrato assai radicato che ancora oggi ne contraddistingue ilmodo di leggere e percepire le trasformazioni della contempora-neità, come ho avuto modo di riscontrare nelle interviste.

Urss: pace, democrazia e socialismo

È proprio dall’analisi della teoria ideologica impartita ai mili-tanti che abbiamo modo di studiare le ragioni politiche del mitodell’Unione Sovietica, che si possono sintetizzare in tre concettidi base: pace, democrazia e socialismo. Ovviamente di prioritariaimportanza, il concetto di socialismo è intimamente legato allaRivoluzione d’ottobre, considerata il momento in cui l’Unionesovietica inizia a svolgere un ruolo di primo piano nel contestodella politica internazionale. La portata delle conseguenze dellaRivoluzione, come si spiega nelle dispense, è “straordinaria”.Essa, infatti, è una profonda cesura che ha cambiato il corso dellastoria, dal momento che ha permesso la nascita del comunismointernazionale e ha aperto l’era delle rivoluzioni proletarie, deter-minando il processo della lenta, ma inesorabile, decomposizionedell’imperialismo. L’Unione sovietica diviene così il difensore ditutte le nazioni oppresse, con le quali stabilisce una solida allean-za, fondata su una politica contraddistinta da “nessuna pretesa erivendicazione sulle nazionalità non russe; riconoscimento del-l’indipendenza statale a queste nazionalità; unione militare edeconomica di queste con la Russia liberamente accettata; ogniaiuto alle nazionalità arretrate per un rapido sviluppo” 12.L’immagine dell’Unione sovietica che si veicola alla base comu-nista è molto lontana dalla realtà. Non si parla di assoggettamen-

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to, né di coercizione, né di appiattimento delle identità: laRivoluzione, nella propaganda del PCI, conserverebbe le diversitànell’uguaglianza, che consiste nell’eliminazione delle classi socia-li, con l’unico obiettivo di perseguire il bene e gli interessi comu-ni. Nel contesto locale, tale accezione della Rivoluzione è forte-mente radicata: lo stesso Inverardi annota a fondo pagina: “labase granitica della potenza dello Stato socialista è l’uguaglianzadei diritti, sulla base della libera adesione, e la cooperazione sulterreno politico, economico e culturale tra i circa 60 popolidell’Unione sovietica” 13.

La sezione novese, d’altra parte, è molto attiva nel celebrarel’anniversario della Rivoluzione socialista – una delle date piùimportanti del calendario liturgico comunista 14 – come si evincedalla discussione che inevitabilmente si accende ogni anno perl’organizzazione della manifestazione. Nel 1948, ad esempio, c’èchi propone di unire la celebrazione della Rivoluzione con un’i-niziativa comunale, qualcuno propende per una rassegna di filmsovietici da effettuarsi presso il cinema cittadino e altri, infine, sidichiarano favorevoli all’organizzazione di una serie di dibattiti.Ancora nel 1962, a distanza di anni, i compagni non dimenticanola ricorrenza. Uno di questi, nel corso di una riunione della diri-genza comunista novese, afferma: “Dobbiamo far riuscire l’as-semblea che si terrà venerdì sera per celebrare l’anniversariodella Rivoluzione d’ottobre. Dobbiamo impegnarci, tutti noi, perfar partecipare anche i nuovi tesserati e i simpatizzanti” 15.

Pace e democrazia sono invece valori attribuiti all’URSSmediante un’analisi storica che le assegna un ruolo fondamenta-le nella sconfitta del nazifascismo. Con una distorta visione retro-spettiva, si accusano le potenze occidentali francese e inglese diaver spinto la Germania alla guerra contro l’URSS, costretta così,per ragioni strategiche, alla conclusione del Patto Molotov-Ribbentrop, che tanto clamore e delusione aveva suscitato neicomunisti occidentali. L’URSS si ripropone, attraverso l’accordosiglato con la Germania, di dilazionare nel tempo l’attacco hitle-riano contro di essa e di creare, nell’attesa, un clima favorevoleaffinché si realizzi una coalizione anglo-sovietica-americana anti-

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fascista. “Questa coalizione” si ribadisce nel testo “rispondeva agliinteressi di tutti i popoli amanti la libertà” 16. Dopo lo scoppio delconflitto, l’Unione Sovietica svolge la propria azione di guerra allaluce di quattro obiettivi: difendere la patria socialista dagli inva-sori nazisti, aiutare i popoli asserviti al nazismo nella loro lotta diliberazione nazionale, lasciare piena libertà ai popoli liberati diorganizzarsi, estirpare completamente le radici del fascismo e sta-bilire nel mondo una pace duratura attraverso una politica di col-laborazione tra i popoli.

La funzione decisiva dell’URSS si esplica non solo attraverso l’a-dozione di efficaci strategie militari, “distruggendo in battaglie diimportanza storica mondiale la mostruosa macchina bellica tede-sca e inferendo un colpo altrettanto decisivo alle forze militari delGiappone” 17, ma anche politiche, “favorendo ed incoraggiando loslancio della lotta di massa di liberazione nazionale dei popoliamanti della libertà contro gli invasori fascisti e i loro complici,attraverso la conseguente condotta antifascista della guerra” 18 ediplomatiche: “realizzando la collaborazione anglo-sovietico-ame-ricana e impegnando le potenze alleate nelle Conferenze di Mosca,Teheran, Yalta, per una conseguente guerra antifascista e per unapolitica di collaborazione del dopoguerra” 19. Senza il contributo delpaese del socialismo realizzato, si spiega ai militanti, non si sareb-be giunti alla sconfitta della Germania, con l’apertura di scenaridrastici e apocalittici per il futuro della storia umana.

Il binomio URSS - pace e democrazia è confermato se nonrinforzato dalla considerazione degli Stati Uniti quali fautori delcapitalismo, dell’antidemocrazia e di una politica estera essen-zialmente incentrata sull’aggressività nei confronti delle altrenazioni. Mito e antimito sono due facce della stessa medaglia chediventano tema di dibattito soprattutto nel corso della Guerrafredda. Questa è presentata ai militanti come lo scontro titanicotra due potenze inconciliabili. Alla politica bellicista degli USA edei suoi alleati si contrappongono le forze antimperialiste, lequali hanno nell’Unione sovietica la propria guida. Il nuovo ordi-ne mondiale non è una bipolarità perfetta, insegna il PCI, in quan-to, tra la forza imperialista e quella democratica, vi è un terzo

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soggetto politico, potremmo dire un “terzo incomodo”: sono inemici di sempre, i socialdemocratici, per i quali la pace puòessere salvata mediante una terza forza “cuscinetto” che impedi-sca l’urto violento tra Unione Sovietica e USA. Si tratta, dicono icomunisti, di una logica estremamente dannosa che finisce con ilcoincidere con quella imperialista: non esiste una via di mezzotra capitalismo e socialismo. Soltanto l’Unione Sovietica, attraver-so la lotta per la difesa e il rafforzamento dell’internazionalismoproletario, costituisce una garanzia per l’affermazione dellademocrazia.

L’analisi comunista attribuisce alla politica estera statunitenseuna finalità di esclusivo interesse economico. Con la fine dellaguerra, infatti, i gruppi monopolisti americani aspirerebbero almantenimento dell’elevato livello dei profitti raggiunto durante ilconflitto. A tal scopo essi attivano una serie di iniziative per con-servare i mercati che assorbono la loro produzione e per con-quistarne di nuovi. Per giungere al dominio del mondo l’Americasi muove attraverso strategie “subdole e diversificate”. Dal puntodi vista militare, gli States adottano una politica sistematica dimilitarizzazione del paese, stanziando oltre il 35% del bilancionazionale al mantenimento delle forze armate. Al tempo stesso,creano in tutte le parti del mondo basi militari e giungono alla sti-pulazione di patti a scopo aggressivo, il più pericoloso dei qualisarebbe il Patto Atlantico. L’America, inoltre, è accusata di rifor-nire di armi i paesi in cui ci sono squilibri politici o conflitti e diintervenire direttamente con l’esercito, come accaduto, ad esem-pio, in Grecia: ultimi, in ordine di tempo, gli atti di guerra controla Corea e la Cina popolare. Il controllo sulle altre nazioni passaanche attraverso impari rapporti economici:

“Sfruttano le difficoltà in cui si dibattono i paesi europeiche hanno maggiormente sofferto della guerra; impongonoil piano Marshall a questi paesi, piano che, sotto il pretestodi fornire degli aiuti, mira in realtà ad assicurare ai gruppimonopolisti americani il pieno controllo dell’economia e ladipendenza politica dei paesi cui sono diretti” 20.

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La dipendenza dagli USA si sviluppa, infine, attraverso la vei-colazione di contenuti ideologici: costante, secondo il PCI, la dif-fusione di calunnie sul conto dell’URSS e dei paesi di nuova demo-crazia. L’America si sostituisce ai nazifascisti, con una sorta di suc-cessione naturale, nella “crociata” anticomunista.

“Eccitano l’isterismo guerrafondaio con tutti i mezzi,dalla letteratura, alla stampa, passando per il cinema e lachiesa. Sul terreno politico, infine, gli USA hanno messo incampo una serie di misure antidemocratiche di tipo fasci-sta contro le organizzazioni e i movimenti democraticidegli Stati Uniti e imponendo tali misure anche ai paesiasserviti. A questo scopo ci si serve dei socialdemocraticidi destra e utilizzando le spie della cricca di Tito” 21.

L’atteggiamento ostile nei confronti dell’America emerge inmaniera evidente anche nel contesto della sezione novese. Il 12gennaio 1948, nel corso di una riunione del Comitato direttivo, siparla della stesura di una relazione segreta, nella quale si dovrebbeprovvedere alla compilazione di una lista con i nominativi di tutti icompagni che ricoprono cariche nel partito, una con quelli degliesponenti avversari e una terza dei parroci. Si intendono indagarecon essa i pericoli contro la pace e l’indipendenza del Paese, in par-ticolare modo si vuole fare chiarezza sul Piano Marshall:

“Il quale nessuno sa che cosa esso sia; sui dubbi del-l’invio da parte dell’America di merci che non sono con-trollate, né le spese né le entrate. La posizione dei fucilie-ri americani, perché Truman mette Marshall come ministrodegli esteri che è un generale? I crediti e i debiti che abbia-mo con l’America” 22.

Nel 1949 la priorità dell’indirizzo politico dei comitati di cellulaè la mobilitazione delle masse contro il Patto Atlantico, definito un“patto di guerra”. L’allora sindaco di Novi Ligure, EugenioCalcagno, indica nell’amministrazione comunale la “principale piat-

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taforma per la lotta contro il Patto” 23. In particolare, l’opposizioneall’accordo militare, secondo il Comitato del PCI di Novi, deve tro-vare attuazione concreta in manifestazioni, propaganda e raccoltedi firme. Alla fine degli anni Sessanta, in un contesto storico com-pletamente diverso, quando all’Unione Sovietica si affiancano laCina e i paesi sudamericani quali nuovi modelli di ispirazione, l’an-tiamericanismo si lega alla causa del Vietnam, al quale i comunistinovesi esprimono la propria solidarietà. Il dibattito sulle posizionidegli USA si accende e la questione diventa all’ordine del giorno siatra i militanti, sia su “il novese”.

“Tra i nodi fondamentali dell’attuale momento politicoè il problema del Vietnam. Si tratta di una lotta di popoloche non potrà che portare alla sconfitta degli USA grazie,anche, alla solidarietà di tutti i popoli del mondo e in par-ticolare, quella dei paesi socialisti” 24.

Sono le parole con cui Inverardi si riferisce allo scontro, cuifanno eco quelle di un altro militante, Marchesotti. “I lavoratori,ovviamente” afferma questi “si rallegrano del fatto che il popolovietnamita stia vincendo contro il colosso americano” 25. Il PCI, inquesto periodo, diffonde un comunicato, tramite la stampa loca-le, in cui si ribadisce la necessità della nascita di un movimentodi solidarietà all’

“Eroica lotta del popolo vietnamita. E’ in gioco la pacenel mondo e il diritto dei popoli di scegliere liberamentela propria strada e il proprio avvenire. Si può comprende-re che la pace non può essere affidata, come vogliono gliUSA, ad un equilibrio fondato sulla conservazione dei pri-vilegi dell’imperialismo oppure ad un sottile gioco diplo-matico appoggiato dalla violenza delle bombe alNapalm” 26.

Toni duri anche dalle pagine de “il novese”, dove si attaccacon violenza il nemico statunitense. Per rendersi conto di ciò, è

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sufficiente scorrere i titoli che si succedono a breve distanza ditempo. “Ferme proteste dei democratici novesi contro i criminiUSA in Vietnam”, “Ogni ora un assassinio. Aumento della crimina-lità in USA”, “Il Consiglio Comunale unanime per la libertà nelVietnam”, “Il gigante USA alle corde”, fino al conclusivo “Noi e ilVietnam”, in cui si fa il bilancio di un decennio di iniziative eprese di posizione favorevoli alla causa degli asiatici.

Se l’America “eccita l’isterismo guerrafondaio”, nella scuola dipartito del 1948 i militanti apprendono che il fenomeno dellaguerra non è inseparabile dalla vita degli uomini, in quanto con-seguenza inevitabile della loro passione o di una presuntavolontà di affermazione e di dominio. Al di sotto della varietà ditipi di conflitto e di cause apparenti, il fenomeno è conseguenzadiretta delle contraddizioni interne della società di classe. InUnione sovietica, dove si sono eliminate le classi sociali, il feno-meno della guerra è scomparso e si ha una tensione naturale perla pace tra i popoli.

“Viene a mancare, in primo luogo, una classe che nellosfruttamento e nell’oppressione dei popoli trovi le condi-zioni della sua esistenza e del suo sviluppo. Inoltre, nellasocietà senza classi lo stimolo alla produzioni dei beniviene dal bisogno e dal desiderio di miglioramento di tuttie non dallo sfruttamento del lavoro umano e dalla con-quista di mercati. Infine, perché, nella società senza classi,le energie umane non saranno più spese in lotte fra classee classe, fra popolo e popolo, ma nella lotta comune con-tro la natura, per dominarla e farne un mezzo di sviluppodi tutta l’umanità” 27.

Tuttavia, si legge poco più avanti, non è ammissibile un atteg-giamento che condanni indistintamente ogni forma di conflitto: è,questa, una concezione anarchica e piccolo-borghese. Secondoquanto scrive Stalin, l’Unione sovietica definisce “giuste” e nonannessionistiche le guerre di liberazione, il cui scopo è la difesa diun popolo dalle aggressioni esterne o dai tentativi per assoggettar-

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lo, l’emancipazione di una nazione dalla “schiavitù capitalistica”, laliberazione delle colonie e dei paesi dipendenti dal giogo degliimperialisti. Sono invece prive di giustificazione, quindi “ingiuste”,le guerre il cui fine è la conquista di altri paesi o popoli. “I comu-nisti italiani”, si ribadisce con forza, “sostengono la guerra giusta,di liberazione del proletariato. In primo luogo, quindi, sostengonol’Unione sovietica.”. Negli appunti scritti da Inverardi a marginedella lezione si insiste su questo concetto.

“D’altra parte la politica estera dell’Unione sovieticanon è e non può essere che una politica di pace data lanatura dell’URSS, ‘governo di classe operaia’, regime di unaclasse che è andata al potere, per liberarsi dalla guerra, percreare il socialismo e il comunismo che esige la pace intutto il mondo. Quindi l’URSS, per realizzare il suo pro-gramma, ha bisogno della pace. Questa sua politica dipace è sostenuta dalla sua potenza economico-militare incontinuo aumento. L’aumento del potenziale industrialedell’URSS è un contributo immenso alla causa della pace.Per questo, dobbiamo sforzarci ad illustrare maggiormentela politica estera dell’URSS, il suo aumento della forza eco-nomica, le sue risorse, i progressi che essa fa: perché tuttiquesti elementi sono decisivi per rafforzare la pace” 28.

“Ci curavamo con le medicine sovietiche”

Merita un capitolo a parte la trattazione di un argomento chetrova poco spazio nella storiografia che si è occupata in manieraspecifica del mito sovietico: si tratta della convinzione diffusa trai comunisti occidentali della superiorità dell’URSS anche in campomedico-sanitario o, più in generale, potremmo dire in quellodella ricerca scientifica.

Una fonte interessante in questo senso è un articolo pubbli-cato su “L’Unità” nel 1971, redatto dal giornalista Carlo DeBenedetti, recatosi in Unione Sovietica, insieme con l’allora segre-

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tario regionale del PCI del Lazio, con l’obiettivo specifico di stu-diare il sistema sanitario. Egli mette in evidenza:

“L’assistenza è generale e gratuita per tutti i cittadini, viè un elevato grado di prevenzione e dell’ambiente e del-l’individuo, la convinzione che la salute non sia solo undiritto delle persone, ma anche un dovere da parte dellostato. Infine, l’ottima organizzazione dei presidi ospedalie-ri, lo sviluppo della ricerca, sostenuta finanziariamentedallo stato, e l’elevato numero di donne medico” 29.

Nel corso si fa spesso menzione alla presunta superiorità scien-tifica dell’URSS, legata a una ricerca d’avanguardia e all’uso di stru-menti molto sofisticati, per le quali la super potenza contende ilprimato mondiale all’America. Proprio nel fondo troviamo traccepiù specifiche di questo tema, che si riferiscono a tre diversi casi.

Il primo riguarda l’esperienza di una cara amica di Elda, lasegretaria della sezione novese:

“Si era ammalata. Erano le prime sclerosi a placche cheerano uscite. Allora i dirigenti del partito si erano messi incontatto con il Ministero della Sanità di Mosca. Avevanomandato giù una cura, delle punture. Anche il figlio di uncompagno, Pilò, quello che ha messo su le cooperative.Non mi ricordo più, esattamente, che malattia avesse que-sto bambino. Dall’Unione sovietica avevano sempre rispo-sto. Avevo tenuto tutta la corrispondenza, ora l’avrannobuttata via” 30.

È molto interessante la vicenda di A.M., uno dei compagni piùstimati all’interno del partito di Novi di cui Franco Inverardi siprende molta cura, aiutandolo, ad esempio, nella compilazione enell’invio delle pratiche necessarie per il riconoscimento dellemarche assicurative rilasciate ai perseguitati politici. Nel 1960,A.M. è colpito da una patologia oftalmica, l’uveite bilaterale.Inverardi si rivolge allora all’Associazione Italia-Urss di Roma e,

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per conoscenza, alla Federazione provinciale del PCI. Nella lette-ra, di cui si conserva copia nel fondo, si chiede se l’Unione sovie-tica disponga dei farmaci adatti per guarire la malattia di cui èaffetto il militante novese. Si chiedono anche indicazioni su comeottenere tali medicamenti. A rispondere alla sezione “Testa” è ilCentro di documentazione sulla scienza e sulla tecnica sovietica.

“Caro compagno,dall’attento esame della letteratura medica sovietica non cirisulta che esista nell’Unione Sovietica un farmaco atto aguarire l’uveite bilaterale. Per maggiore sicurezza, però,consigliamo di inviare la cartella clinica del malato, conuna richiesta di consulto, al Ministero della Sanità dell’URSS,Rakhmanovski per.3, Mosca. Il Ministero della Sanità, siapure con qualche mese di ritardo, provvederà a farvi cono-scere l’opinione di uno specialista sovietico sul caso delcompagno che vi interessa” 31.

In fondo alla lettera, un Post Scriptum informa che la richiestada inviare a Mosca può essere redatta sia in italiano che in ingle-se. Non vi è traccia, nell’archivio, di come sia andata a finire laquestione. Il 28 giugno 1961, Inverardi scrive ancora al Ministerodella Salute sovietico, per un caso molto simile che, questa volta,riguarda il compagno S.D.

“Grazie all’organizzazione Italia-Urss, alla quale già cisiamo rivolti, ci permettiamo di inviarvi copia della cartellaclinica del compagno S.D., affetto da reninite maculare connote di perivasculite, desiderando conoscere se esiste inUnione sovietica un farmaco atto a guarire l’affezione e, arisultato positivo, se è possibile farlo pervenire al compagnomalato. Data la penosa situazione dell’infermo, saremmograti se poteste esplicare questa nostra con la massima sol-lecitudine Certi della Vostra comprensione e attenzione, por-giamo i sensi del nostro ringraziamento” 32.

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Non sappiamo quanti degli appelli rivolti alle autorità medi-che moscovite abbiano ricevuto una risposta, né conosciamo l’ef-ficacia di tali eventuali riscontri. Ma, come in tutte le religioni, ciòche conta è la fiducia che, nessun fatto, nessuna prova contrariae nessuna dimostrazione di scarsa efficacia possono bastare ascalfire. E, come in tutte le religioni, la vox populi relativa a guari-gioni miracolose, o a miglioramenti nel decorso della malattia, èsufficiente, da sola, a confermare in ognuno la convinzione dellasuperiorità scientifica dei metodi di oltrecortina.

NOTE

1. Cfr. M. Flores, N. Gallerano, Sul PCI, un’interpretazione storica, Bologna, IlMulino, 1992.2. Cfr. S. Bellassai, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione delPCI (1947-1956), Roma, Carocci, 2000; F. Andreucci, Falce e martello, identitàe linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda, Bononia, UniversityPress Bologna, 2005; Cfr. M. Fincardi, C’era una volta il mondo nuovo, la metafo-ra sovietica nello sviluppo emiliano, Roma, Carocci, 2007; F. Lussana In Russiaprima del gulag: emigrati italiani a scuola di comunismo, Roma, Carocci, 2007; M.Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945 – 1956),Milano, Feltrinelli, 2007.3. Cfr. P. Spriano, Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano,Garzanti,1986; AA.VV, L’Urss, il mito, le masse, Milano, Franco Angeli, 1991;P. P. D’Attorre, Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contem-poranea,Milano, Franco Angeli, 1991; M. Flores, L’immagine dell’Urss, l’occidentee la Russia di Stalin, Milano, Il Saggiatore, 1990; M Flores, F. Gori (a curadi), Il mito dell’Urss. La cultura occidentale e l’Unione Sovietica, Milano, FrancoAngeli, 1990.4. La sezione di Novi segnala alla Federazione i compagni particolar-mente meritevoli, per il contributo all’organizzazione della Festa del’Unità o per i risultati nella “diffusione”, e Alessandria provvede all’or-ganizzazione del viaggio, completamente gratuito: pochi, tuttavia, sono ifortunati che si vedono riconosciuto questo privilegio. Ogni anno è peròpossibile, in questo caso facendosi carico delle spese a livello indivi-duale, prendere parte ai viaggi organizzati dal PCI a prezzi agevolati.

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Qualche volta è l’ANPI a promuovere l’organizzazione del viaggio, oppu-re sono i militanti stessi a recarsi autonomamente in Unione sovietica.5. Cfr. C. Bergaglio, Armando Pagella, primi appunti per un libro su Novi e il suo sin-daco, Novi Ligure, Sic srl, 20076. 26.972. Il dato si riferisce al censimento del 1961.7. Elda Ballestrazzi, testimonianza resa in data 19 aprile 2007.8. Elda Ballestrazzi, testimonianza resa in data 19 aprile 2007.9. Elda Ballestrazzi, testimonianza resa in data 19 aprile 2007.10. Cfr. G. Marchetti, Tecniche e significati del mito di Stalin, in AA.VV., Urss, ilmito, le masse, cit.11. Non firmato, Quell’indimenticabile 1956, in “il novese”, 1966, numero 61.12. Fondo Franco Inverardi, depositato presso l’Istituto per la storia dellaResistenza e della società contemporanea di Alessandria, FascicoloSCQR16.13. Ibidem14. Cfr. Franco Andreucci, Falce e martello, identità e linguaggi dei comunisti ita-liani fra stalinismo e Guerra Fredda, cit.15. Fondo Franco Inverardi, cit., Fascicolo VP3.16. Fondo Franco Inverardi, cit., Fascicolo SCQR0817. Ibidem.18. Ibidem.19. Ibidem.20. Fondo Franco Inverardi, cit., Fascicolo SCQR17.21. Ibidem.22. Fondo Franco Inverardi, cit., Fascicolo VP01.23. Ibidem24. Fondo Franco Inverardi, cit., Fascicolo VP05.25. Ibidem.26. Ibidem.27. Fondo Franco Inverardi, cit., Fascicolo SCQR18.28. Fondo Franco Inverardi, cit., Fascicolo SCQR18.29. C. Debenedetti, Il boom della salute, in “L’Unità”, 18 luglio 1971.30. E. Ballestrazzi, testimonianza resa in data 19 aprile 2007.31. Fondo Franco Inverardi, cit., Fascicolo B06.32. Fondo Franco Inverardi, cit., Fascicolo I09

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Biblioteca civica e sistema museale:le riaperture del biennio 2006-2007

Roberto Livraghi

Il biennio 2006-2007, in cui si compivano i 200 anni di fonda-zione della Biblioteca civica e i 150 della Borsalino, ha visto perAlessandria il recupero e la valorizzazione di alcuni importanti isti-tuti culturali municipali. Sul piano delle collezioni civiche, e inattesa della realizzazione di un nuovo Museo della città, ilComune – attraverso l’Assessorato alla cultura – ha effettuato quat-tro interventi sul proprio sistema museale (con l’apertura delMuseo del cappello Borsalino, delle Sale d’arte e del Teatro dellescienze, e con il riallestimento di una parte delle sale di PalazzoCuttica), mentre nel mese di febbraio 2007, dopo cinque anni dichiusura per lavori, è stata riaperta la Biblioteca civica completa-mente rinnovata. Si tratta di eventi di rilievo storico che devonoessere descritti dettagliatamente e che hanno inciso con efficaciain un processo, già in atto da qualche tempo, di crescente atten-zione della cittadinanza per i valori della cultura e della storialocale.

Il Museo del cappello Borsalino

Il 28 maggio 2006 è stato aperto e inaugurato il Museo delcappello Borsalino (palazzina di via Cavour 84). La storia del cap-pellificio Borsalino si intreccia strettamente fin dai suoi esordi, nel1857, con quella della città di Alessandria. Il suo trasformarsi daimpresa artigianale a industria del primo Novecento sino ai fastidegli anni Venti e Trenta e ai successi degli anni Sessanta, scan-disce i tempi della metamorfosi di Alessandria verso l’industria-

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lizzazione. Le architetture razionaliste firmate dai Gardella e l’e-mancipazione del personale femminile della fabbrica sono solo irisvolti più evidenti di una trasformazione che, sotto l’egida delmarchio Borsalino, in quel giro di anni, ha coinvolto molti aspet-ti della realtà alessandrina.

Il museo accompagna il visitatore all’interno di un raccontoche segna le tappe del cammino della moda sociale, con il cap-pello Borsalino che diviene specchio del mutare dei tempi. A fineOttocento indumento a esclusivo appannaggio dell’austera bor-ghesia; nel primo Novecento il tipo in feltro flessibile s’imponeper tutte le occasioni e senza distinzione di classe: l’evolversidelle forme e dei colori del cappello femminile e maschile seguee detta la moda, interpretando il mutare del costume sociale.L’obiettivo di fondo è quello di far conoscere e apprezzare lacomplessità e la ricchezza di una storia che ha fatto grande ilnome di Alessandria nel mondo. Il museo è dedicato al cappel-lo, all’azienda Borsalino e alle relazioni tra la città di Alessandriae la fabbrica; il locale in cui è ospitato, al primo piano dell’anti-ca sede dell’azienda, accoglieva un tempo la Sala campioni, uti-lizzata per catalogare ed esporre i prototipi dei modelli creatidalla Borsalino. È stato mantenuto intatto il fascino della sala edel suo contenuto e restaurati gli arredi fissi e mobili: il museocostituisce un monumento al lavoro degli alessandrini e una fine-stra sulla storia di questo territorio.

Il percorso museale è di tipo circolare e si snoda, attraversol’esposizione dei cappelli – circa 2000, scelti fra gli oltre 4000della collezione – in vari approfondimenti legati alla storia dellafabbrica, al processo produttivo, alla storia del cappelloBorsalino, agli sviluppi contemporanei dell’azienda e del prodot-to. Lungo il percorso espositivo sono diversi i temi sui quali ilvisitatore può dirigere la propria attenzione:

La storia della Borsalino e la relazione con la città di Alessandria: è illu-strata da due video, sicronizzati e con un unico commento sono-ro, dedicati alle vicende dell’azienda Borsalino, alla sua espan-sione, agli stabilimenti e alle vicende sociali e di costume che

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legano la città di Alessandria a questo grande marchio.

Il processo produttivo del cappello Borsalino, i materiali, le macchine, le mae-stranze: su due tavoli espositivi, oggetti originali della sala cam-pioni, si trovano informazioni circa la prima fase della lavorazio-ne del cappello con video e materiali contenuti nelle teche a spie-gazione delle tappe salienti della produzione. Sul secondo tavo-lo sono ospitati i materiali e i testi che servono alla spiegazionedella seconda fase del processo produttivo fino al raggiungimen-to del prodotto finito.

Il cappello e la storia del costume: su un tavolo originale della salacampioni, un video narra i fenomeni del costume legati al cap-pello Borsalino.

L’azienda Borsalino oggi: sulla parete di fondo, al termine dell’e-sposizione, è allestita l’area relativa alla “Borsalino contempora-nea”. Anche in questo caso è un video a presentare l’azienda diSpinetta Marengo, i nuovi progetti culturali e le prospettive futu-re e invita il visitatore alla visita dello stabilimento; sul resto dellaparete si possono ammirare i cappelli Borsalino di ultima gene-razione con attenzione particolare alle sperimentazioni, allenuove lavorazioni e alle nuove ricerche di stile.

Area consultazione: attorno a un grande tavolo sono organizzatevarie postazioni multimediali che danno accesso a informazionidi tipo storico e culturale, agli archivi fotografici e una serie dinotizie di approfondimento.

Lo stretto collegamento col territorio restituisce ad Alessandriauna parte preziosa della sua storia e costituisce un vero e propriomonumento al lavoro degli alessandrini. Le collezioni, le testimo-nianze materiali, l’archivio aziendale e le raccolte fotografichesono altresì punto di partenza per varie attività di studio, ricercae approfondimento. In particolare, sono fondamentali i rapporticon l’Università del Piemonte orientale “A. Avogadro”, che ha col-

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laborato nelle ricerche storiche finalizzate alle redazione dei pan-nelli che accompagnano la visita, ma che potrà giocare un ruolofondamentale nell’esplorazione del vasto archivio storico azien-dale (di cui è stato pubblicato l’inventario nel maggio 2007:

L’Archivio Storico della Borsalino. Inventario, Alessandria 2007, nume-ro 6 della collana BCA Studi e Ricerche). Altri partner importantiper la crescita sono il Museo del cinema di Torino (cui è stato affi-dato l’incarico di condurre una ricerca sulla filmografia in cuiappare il cappello Borsalino) e l’Associazione dei musei azienda-li italiani (Museimpresa) a cui il museo alessandrino si è associa-to.

In occasione del 150° anniversario di fondazione dell’aziendasi è poi realizzata la grande mostra fotografica Alessandria eBorsalino. 150 anni di storia della famiglia e della fabbrica attraverso le imma-gini della Fototeca civica (a cura di Pierangelo Cavanna, 20 aprile - 30giugno 2007), che è stata ospitata in parte presso i locali delMuseo (le foto originali), e in parte nelle strade cittadine (gliingrandimenti).

Le Sale d’arte

Il 9 settembre 2006 si sono aperte le nuove Sale d’arte comu-nali (in via Machiavelli, 11). Concepite come un momento di pas-saggio verso la definitiva realizzazione del nuovo Museo civico,esse rappresentano una realtà dotata di grande autonomia conl’obiettivo di valorizzare un patrimonio artistico straordinario.Occupando locali al piano terreno dell’isolato che ospita anche laBiblioteca, le Sale d’arte rappresentano un ideale collegamentocon la tradizione alessandrina che fin dal 1856 aveva concepitola Pinacoteca della città e la Biblioteca inserite in un unico con-testo.

Il percorso museale rinnovato negli arredi e nelle struttureespositive, intende proporre al pubblico alcune delle più impor-tanti opere e oggetti d’arte appartenenti alle collezioni del Museo

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e della Pinacoteca civica. La nuova sede è suddivisa in quattrosezioni espositive che, oltre a proporre una riflessione sull’iden-tità civica della città che vede le sue radici nel Medioevo e nellaciviltà comunale, accolgono lo splendido ciclo di affreschi ispira-ti alle storie di Artù. L’Ottocento rivisitato attraverso il fascinodella pittura di Giovanni Migliara e il Novecento rappresentatoattraverso l’opera dell’alessandrino Alberto Caffassi, anticipano leesposizioni delle opere d’arte contemporanea confluite nelle col-lezioni a partire dagli anni Venti. L’incremento delle collezionimuseali a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, è la testimo-nianza dello stretto legame tra la città e l’istituzione museale ales-sandrina; la nuova sede dunque si pone come centro dell’infor-mazione culturale e come luogo di tutela della memoria del pas-sato e del presente in corso. Le raccolte d’arte e le testimonianzemateriali si propongono come punto di partenza per approfondi-menti, attività di studio, di ricerca e per una maggiore conoscen-za del patrimonio storico artistico della città.

Sala Giovanni Migliara.. L’opera grafica e pittorica del più cono-sciuto artista alessandrino (Alessandria 15 Ottobre 1785 – Milano18 Aprile 1837) viene rivisitata attraverso l’esposizione dell’im-portante nucleo di opere di proprietà civica provenienti dalledonazioni di fine Ottocento. Nel percorso espositivo sono com-prese le opere che mostrano la sua evoluzione artistica di vedu-tista e paesista, caratterizzata dall’inesauribile raccolta di appuntigrafici e da un’indagine della vita urbana nelle varie sfaccettaturesociali e di costume. L’esposizione si articola in sei sezioni tema-tiche: la prima dedicata all’“Iconografia commemorativa” che pre-senta alcuni ritratti e le effigi ufficiali fatte realizzare per volontàdella città di Alessandria. L’esposizione dei disegni rappresentati-vi della prima attività di scenografo, precede la seconda sezioneche raccoglie i “Primi successi” legati alle splendide vedute diluoghi e monumenti milanesi. A partire dal 1815 Migliara intra-prese una serie di viaggi in Italia documentati in alcuni album edipinti caratterizzati dalla minuziosa rappresentazione prospetticadei monumenti urbani ed esposti nella terza sezione intitolata

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“Viaggi e vedute”. Nella quarta sezione, “Interni di chiese e diconventi”, vengono rappresentati ambienti, figure e soggetti divita claustrale così come gli interni più famosi dei grandi monu-menti tra cui San Marco a Venezia e la Certosa di Pavia. L’abilitàtecnica e la notevole varietà tematica che caratterizza la sezione“Scene di genere e paesaggi” è legata anche all’esperienza origi-naria di scenografo, mentre dagli studi di prospettiva architetto-nica deriva la realizzazione pittorica delle ambientazioni. La sestae ultima sezione tematica vuole essere un omaggio alla figliaTeodolinda e al rapporto privilegiato che si venne a creare tra ilmaestro e la sua allieva prediletta. L’omaggio a Giovanni Migliaraè stato completato dalla pubblicazione di un catalogo delle operepossedute dalle collezioni civiche (Giovanni Migliara, Alessandria2006, che ha inaugurato la collana editoriale dei “Quaderni delMuseo e della Pinacoteca civica”) e dalla celebrazione di unagiornata di studi intitolata “Paesaggi e visioni. L’Italie pittoresque diGiovanni Migliara” (24 novembre 2006), a cui hanno partecipatoil prof. Fulvio Cervini dell’Università di Firenze e il prof. Carlo Sisidell’Università di Siena.

Galleria Alberto Caffassi. L’esposizione di una parte della colle-zione del pittore alessandrino Alberto Caffassi (Alessandria, 10maggio 1874 - Alessandria, 3 maggio 1973) è frutto della dona-zione della nuora Letizia Montefusco Caffassi alla Città diAlessandria. La donazione si compone complessivamente di ses-santasei dipinti di notevole valore artistico e di grande interesseper Alessandria. Pittore poco incline alle avanguardie, Caffassi ècomunque considerato a tutti gli effetti un artista del suo tempo:si è interessato al Divisionismo, al movimento del Novecento ita-liano di Margherita Sarfatti e anche al Futurismo. L’esposizionecollocata in una galleria sopraelevata racconta il percorso artisti-co del pittore secondo un ordine cronologico; gli anni Venti conle opere divisioniste, i dipinti tipici del Novecento italiano con-cludendo poi con quadri degli anni Quaranta - Sessanta di stam-po prettamente accademico. La mostra è da considerarsi ancheun omaggio della Città di Alessandria a uno dei pittori più signi-

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ficativi del Novecento piemontese. Anche per questo fondo espo-sitivo è stato realizzato un catalogo ad hoc: Alberto Caffassi fra acca-demia e rinnovamento nella tradizione. La donazione Montefusco-Caffassi,Alessandria 2006, numero 8 della collana “Visioni. I cataloghidelle mostre d’arte dell’Assessorato alla Cultura”.

Le stanze di Artù. Si tratta di un ciclo di affreschi, commissiona-ti alla fine del XIV secolo da Andreino Trotti, condottiero e mem-bro di un’importante famiglia alessandrina per festeggiare la vit-toria ottenuta nel 1391, al fianco di Gian Galeazzo Visconti, con-tro le truppe francesi. Il ciclo, ispirato alle vicende amorose e alleperipezie di Lancillotto, è uno degli esempi più antichi di cameraLanzaloti (così in epoca medievale venivano chiamate le saledecorate con tali soggetti) che si sia conservato ai nostri giorni etestimonia il notevole successo riscosso dall’iconografia arturianain quel periodo. La fonte letteraria degli affreschi è il celebreromanzo Lancelot du Lac, il più famoso dei testi della saga cavalle-resca di Re Artù, tratto dalla Vulgate arthurienne di Chretien DeTroyes. In origine le quindici scene del ciclo decoravano le pare-ti della grande sala di rappresentanza della Torre Pio V diFrugarolo, dove vennero scoperte solo nel 1971. A essi si aggiun-ge un sedicesimo frammento raffigurante una “Madonna in tronocon bambino”. Grazie al recupero e al paziente lavoro di restau-ro degli affreschi si possono ripercorrere con lo sguardo le vicen-de del celebre cavaliere, rivivendo con lui le battaglie, le battutedi caccia, gli amori, i riti cavallereschi, immergendosi nella vitaquotidiana del Medioevo, ricca di simboli e significati allegorici.Gli affreschi sono qui esposti come erano disposti originariamen-te nella grande sala della Torre di Orba. Il ciclo arturiano è statotrasferito in via Machiavelli dalla precedente sede, gli spazi rica-vati all’interno dell’ex-Ospedale militare (in via Cavour, 39), doveè rimasto esposto dal 2000 al 2006.

L’area espositiva. Fa parte delle Sale d’Arte anche un quarto spa-zio riservato a ospitare esposizioni temporanee. Nel corso delperiodo in oggetto sono state realizzate dall’Amministrazione

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comunale due mostre.

La prima, intitolata Antologia del Novecento dalle collezioni dellaPinacoteca civica, ha inteso presentare un primo gruppo di una ven-tina di opere di proprietà comunale pervenute alle raccolte civi-che in occasione di tre decisivi momenti del secolo scorso: leEsposizioni d’Arte (degli anni 1920 e 1921), il Premio Città di Alessandria(dal 1947 al 1957), la Sala Comunale d’Arte Contemporanea (dal 1972).Si tratta, complessivamente, della collezione moderna della pina-coteca alessandrina, con nomi che vanno da Menzio e Casorati aSassu e Purificato, senza trascurare gli alessandrini Morando eBellotti: una collezione particolare, perché strutturata e conserva-ta dall’ente pubblico al fine di costituire un patrimonio comune.

La seconda mostra (31 marzo - 20 maggio 2007) è stata dedi-cata a Agostino Bombelli. Un pittore del Rinascimento tra Genova eAlessandria. Curata dallo specialista Daniele Sanguineti, la rassegnaha presentato per la prima volta in Italia le opere conosciute – eda poco tempo riscoperte – di un pittore cinquecentesco nativodi Valenza e protagonista di una fortunata stagione in terra ligu-re. Bombelli è un pittore che ripropone il tema dei contatti e delleinfluenze tra la cultura pittorica lombarda e l’ambiente ligure, inanni che sono cruciali anche per la storia europea con gli eserci-ti francese e spagnolo che si contendevano gli attuali territori diLombardia e Piemonte. La “fortuna” dell’artista a Genova nonesclude peraltro la sua presenza alessandrina, in quanto unrecente restauro ha restituito una tavola firmata da Bombelli nellachiesa di Santa Maria del Carmine. Sette delle opere note, firma-te o attribuite dalla critica, sono rimaste esposte ai visitatori, cheanche in questa circostanza hanno potuto avvalersi di un catalo-go realizzato ad hoc e intitolato (come la mostra) Agostino Bombelli.Un pittore del Rinascimento tra Genova e Alessandria, Alessandria 2007.

Il deposito. Tra le realizzazioni connesse al nuovo spazio delleSale d’arte merita un cenno, infine, anche l’importante spazio dideposito progettato e messo in funzione al piano terra dell’edifi-cio di via Machiavelli con lo scopo di ricoverare e ospitare in con-

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dizioni di massima sicurezza le opere della Pinacoteca cittadinain attesa di essere esposte o di venire trasferite nella sede finaledel Museo civico. Si tratta di un obiettivo inseguito per molti anni,onde riunire tutte le opere d’arte di proprietà comunale in unasola area di custodia, ponendole in condizioni utili per la con-servazione (misure di sicurezza, controllo della temperatura edell’umidità, verifica della necessità di restauri, ecc.) e, al tempostesso, rendendole disponibili a eventuali necessità di studio daparte degli esperti.

Il Teatro delle scienze

Il 21 settembre 2006 è stato inaugurato il Teatro delle scienze(Museo di scienze naturali) presso i locali di via 1821, al numerocivico 11. Si tratta di un ambiente dalle caratteristiche eminente-mente didattiche e quindi rivolte in prevalenza al mondo dellascuola, nato per presentare in modo moderno e accattivante unaserie di tematiche legate alla cultura scientifica e al mondo dellascienza. All’ingresso del Teatro delle scienze un filmato introdut-tivo offre al visitatore una descrizione dell’origine e dell’evolu-zione del pianeta Terra. Il Museo è costituito da un percorsonaturalistico che inizia con un viaggio all’interno della Terra dovesi possono osservare e toccare campioni di rocce e si possonovedere le più affascinanti e spettacolari eruzioni vulcaniche. Lasezione espositiva comprende collezioni paleontologiche, mine-ralogiche, ornitologiche e entomologiche. Al centro della salanaturalistica si possono ammirare un diorama naturalistico chericostruisce l’ambiente fluviale della provincia di Alessandria e uncilindro trasparente dedicato all’esposizione di esemplari di far-falle di tutto il mondo. Infine, percorrendo la sala naturalistica, sipossono ascoltare i suoni della natura di un ciclo circadiano: taleprogetto eco-acustico è stato registrato e prodotto esclusivamen-te per il Museo di scienze naturali di Alessandria ed è assoluta-mente innovativo. Ogni anno sono attivati laboratori didattici dimicroscopia vegetali, geologia e paleontologia, ornitologia, eco-

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logia e botanica. Il laboratorio di astronomia è rappresentato dal planetario e

dalla sala didattica astronomica. Sotto la cupola con il nuovoproiettore planetario digitale è possibile simulare il camminogiornaliero del sole, il ciclo delle fasi lunari, il moto dei pianeti erestare affascinati da un cielo stellato come una limpida nottataall’aperto. L’attività di visita del planetario è gestita con il Gruppoastrofili Galileo di Alessandria. Nella sala didattica astronomicavengono trattati in dettaglio tutti gli argomenti di astronomia e sipossono eseguire simulazioni e esperimenti sui moti dei pianeti,eclissi e maree.

Sia il Museo di scienze naturali che il laboratorio di astrono-mia hanno a disposizione per gli utenti non vedenti una serie ditavole tattili relative agli argomenti trattati. Il Museo di scienzenaturali e il Laboratorio di astronomia partecipano alle iniziative“La scuola va al Museo” e “Domenica al Museo”.

Palazzo Cuttica

Nella primavera 2007 si è avviato anche un importante rialle-stimento delle sale di palazzo Cuttica che nel 2003 avevano cono-sciuto un primo intervento di grande rilievo con la collocazionein loco delle raccolte denominate I percorsi del Museo Civico. Sorta perdare una consistente anticipazione dei contenuti delle collezionicomunali destinate in futuro a essere ammirate in un Museo cit-tadino, la rassegna dei “Percorsi”, presentava alcune aree temati-che di notevole interesse, dalla sala di Napoleone a quella di PioV, con alcune puntate di eccezionale valore sulla pittura del ter-ritorio (ad esempio con le opere di Gandolfino da Roreto e deglialtri artisti rinascimentali).

La collezione archeologica di Negro-Carpani. Questo straordinariopatrimonio artistico si è arricchito, dal marzo 2007, con l’arrivo diuna collezione archeologica che non era mai stata esposta inte-gralmente, nonostante fosse di proprietà comunale: la collezione

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del cavalier Cesare Di Negro-Carpani. Preparata dalla mostra“Onde nulla si perda” e da un convegno sul collezionismo archeolo-gico svoltisi nel 2006 a Tortona, l’eccezionale esposizione ales-sandrina si è tradotta in sistemazione museale definitiva deireperti più significativi della collezione. L’idea di promuovere unprogetto di ricerca, studio e valorizzazione della collezionearcheologica del cav. Cesare Di Negro-Carpani, alessandrino dinascita e tortonese di adozione, era nata alcuni anni fa dallevolontà delle Amministrazioni comunali di Alessandria e diTortona e dalla stretta collaborazione con la Soprintendenzaarcheologica del Piemonte e del Museo antichità egizie, concre-tizzandosi nel 2005 con la firma di un protocollo di intesa.

La collezione rappresenta un punto di eccellenza per le rac-colte museali cittadine per la quantità di oggetti e per l’importan-za scientifica che essi rappresentano. Tali requisiti hanno resonecessaria una lunga serie di operazioni di restauro, l’ultimo ter-minato nell’agosto 2006, che hanno visto un’azione sinergica traricercatori, restauratori e tecnici specializzati e consentito unrecupero completo dell’intera collezione.

Fin dai primi anni del secolo scorso la collezione archeologi-ca Di Negro Carpani, insieme ai reperti provenienti da Villa delForo, ha avuto un ruolo centrale nelle collezioni, acquisendo gra-dualmente una posizione singolare per lo straordinario valorestorico e scientifico. La ricerca storica intesa modernamente vedequesti oggetti di studio non più come elementi isolati o destinatia una mera fruizione estetica, ma come caratteri di un contesto edell’evoluzione di un territorio. È anche per questa ragione che ilprogetto non poteva che avere come obiettivo la fruizione delpatrimonio archeologico attraverso un’esposizione museale dallechiare intenzioni didattiche. Questi intenti si sono tradotti anchenella realizzazione di un catalogo: “Onde nulla si perda”. La collezionearcheologica di Cesare Di Negro-Carpani, a cura di Alberto Crosetto eMarica Venturino Gambari, Alessandria 2007. Il volume rappre-senta un esemplare unico nel suo genere non solo per l’eccel-lenza e peculiarità degli oggetti rappresentati, ma perché di fon-damentale importanza per la comprensione delle dinamiche del

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popolamento antico che hanno interessato il Piemonte meridio-nale. La pubblicazione del volume e l’esposizione museale,avvincenti e scientificamente ineccepibili, si pongono l’obiettivodi essere un importante strumento di crescita culturale per l’inte-ra comunità alessandrina e di collocarsi nell’ambito di una piùvasta azione di tutela e conservazione di un patrimonio culturaledi grandissimo valore, testimonianza del nostro passato.

Il Gabinetto delle stampe antiche e moderne.

La valorizzazione degli spazi di palazzo Cuttica è inoltre pro-seguita con le rassegne espositive dedicate alla grafica contem-poranea ospitate nell’area che già da qualche anno è stata dedi-cata a sede della ricca collezione civica di stampe antiche emoderne, curata da Gianni Baretta. Fondata su un patrimonioinconsueto e di notevole valore artistico – costituito dalle variedonazioni che il Comune di Alessandria ha ricevuto nel tempo –l’attività del Gabinetto è in grado di presentare una media diquattro appuntamenti espositivi all’anno: tale operatività integra ecompleta, sul versante dell’attenzione al contemporaneo, l’offertaculturale presente all’interno dei “Percorsi” di palazzo Cuttica.

La Biblioteca civica

Dopo cinque anni di lavori (costati circa otto milioni di euro)e una lunga parentesi di riduzione dei servizi al pubblico e di tra-sferimento nei locali di via Abba Cornaglia, il 9 febbraio 2007 hariaperto i battenti la Biblioteca civica di Alessandria. Apre la biblio-teca: entra la cultura diceva lo slogan scelto per la circostanza. Si trat-ta, in effetti, di una grande occasione di crescita culturale e civi-le per la città. Il progetto di allestimento propone, infatti, accan-to alle tradizionali funzioni conservative e di ricerca espletate finoad oggi, anche quelle di pubblica lettura che in tutto il mondosono chiamate a svolgere in primo luogo le biblioteche delle

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comunità locali. Con l’avvio dei servizi al pubblico la Bibliotecacivica ha iniziato un nuovo percorso di vita, ponendosi comepunto di riferimento per soddisfare i bisogni informativi, per ilconfronto e l’arricchimento culturale, l’impiego del tempo liberodi tutta la cittadinanza.

La Civica, infatti, voluta dal maire Giulio Bacciocchi in età fran-cese, svolge la propria attività in Alessandria dal 1 gennaio 1806:come è noto, gli inizi dell’istituzione furono legati alla storia diun’altra biblioteca, quella del seminario, fondata dal vescovo DeRossi nel 1775 e riaperta pochissimi anni fa dal vescovo FernandoCharrier. La prima sede fu collocata nel collegio dei Barnabiti(attuale istituto Da Vinci), poi nel 1820 il primo trasferimento neilocali dell’ex-convento della Margherita (attuale isolato tra viaPontida e via Parma, ove hanno sede la CISL e il Ristorante uni-versitario); infine nel 1858 la realizzazione della sede definitiva(quella odierna) sul sedime del viridarium del convento dellaMargherita, già sede dei Macelli civici, per dare alla città una sedeunica per la pinacoteca, il museo e la biblioteca.

Nata come biblioteca di conservazione, la Civica ha raccoltonel tempo importanti fondi provenienti da tutto il territorio pro-vinciale e, grazie all’azione di direttori esperti e illuminati (LuigiFerrari, Luigi Madaro, Arturo Mensi, Antonio Panizza, solo percitarne alcuni) ha saputo svolgere con assoluta dignità una pro-pria funzione di biblioteca di capoluogo di provincia. A questatradizione occorre oggi richiamarsi, avendo ben chiaro che il con-testo è mutato e che è necessario misurarsi con una società del-l’informazione che costituisce al tempo stesso un concorrente maanche un formidabile cliente di una biblioteca tradizionale. Nontutto ciò che si trova su internet è infatti utilizzabile in modoimmediato. Soprattutto, le biblioteche possono fornire informa-zione filtrata, selezionata, ragionata: come dice Umberto Eco,sono importanti non solo per quello che hanno, ma anche perquello che non hanno.

Ecco dunque aprirsi le porte di una nuova stagione per lanostra Civica. Le condizioni per recuperare un ruolo di centralitànella crescita culturale cittadina sono chiare: cercare il rapporto

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con il territorio; vivere in rete con il resto del sistema biblioteca-rio provinciale, regionale e nazionale; cercare nuovi segmenti diutenza; fornire un servizio di qualità. Il progetto biblioteconomi-co, elaborato con la collaborazione di Paolo Messina, direttoredel Sistema bibliotecario metropolitano di Torino, ha tenutoconto delle caratteristiche fisiche dell’edificio storico in cui hasede la Biblioteca, e prevede una serie di ambienti dedicati aospitare i singoli servizi che devono essere offerti nella realtàattuale.

La zona accoglienza, pensata per facilitare l’accesso ai servizi e iflussi dell’utenza tra i diversi ambienti. Essa ospita inoltre le fon-damentali attività di informazione e assistenza bibliografica, con icataloghi e i principali repertori bibliografici.

L’area di prima consultazione, necessario complemento dell’areaaccoglienza, in cui saranno disponibili le opere di carattere gene-rale e ove si svolgerà una parte rilevante dell’attività di reference.

La sala di lettura a scaffale aperto: è il cuore della funzione di pub-blica lettura, in cui l’utente potrà dirigersi con piena libertà allaricerca diretta da scaffale e in cui saranno presentate le novità let-terarie, la narrativa, la manualistica, ecc.

Le sale dei fondi antichi, di pregio e per gli studi locali, destinate allaconsultazione sorvegliata dei volumi più antichi e di pregio (dicui la Civica alessandrina è ricca) e dei fondi di storia locale. Inparticolare per gli studi napoleonici, è prevista una campagna didigitalizzazione dei libri e dell’altro materiale documentario a essiriferibili, in modo da consentirne una visione unitaria attraversola costituzione di una biblioteca napoleonica virtuale, senzatogliere i singoli libri e documenti dalle loro collocazioni origina-rie nei fondi storici della biblioteca.

Le sale storiche della vecchia biblioteca, che rappresentano unvero e proprio unicum, testimonianza di un’attività di tutela e

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valorizzazione di fondi provenienti da altre collezioni o istituzio-ni, e che anche nella dotazione di arredi lignei originali, accura-tamente restaurati e conservati, manifestano il carattere storicodella biblioteca.

Il laboratorio multimediale, predisposto con le opportune dotazio-ni informatiche e concepito come uno spazio aperto al nuovo,alle diverse attività didattiche, alla fruizione delle più modernetecnologie, che non sostituiscono ma si affiancano al libro stam-pato e ne rendono ancora più importante la funzione.

La sala periodici e riviste, caratterizzata dalla disponibilità di quo-tidiani e altri periodici di informazione generale, oltre che dallapresenza di periodici tematici, prevedendo spazi sia per le testa-te a carattere divulgativo e di interesse per la generalità dell’u-tenza, sia per i periodici destinati allo studio e alla ricerca spe-cialistica.

La sezione audio-video, con una buona dotazione di base di cdmusicali e dvd, collocati in un ampio spazio espositivo adiacen-te all’area attrezzata per l’ascolto e la visione in sede.

La “biblioteca dei bambini”, la sala ragazzi e la sezione giovani adulti: sitratta di una scelta qualificante, determinata dall’esigenza di deli-mitare, per quanto possibile, in tre aree distinte, le funzioni dibiblioteca riservate alle varie età.

La Civica è nata – in piena era dell’informazione – con unadotazione di 80 personal computer, 45 lettori multimediali, alcu-ne postazioni dedicate a ipo-vedenti e portatori di handicap.Saranno possibili il prestito interbibliotecario e la ricerca in SBN.

Tv dal mondo. Nella torre ottagonale da cui si accede all’area cheospita i servizi al pubblico sono collocati alcuni televisori checonsentono di avere in tempo reale, e in contemporanea, notizieda vari paesi del mondo. La dotazione della nuova Biblioteca si

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completa poi con ampi spazi dedicati a depositi librari (collocatial piano terra), con un’area dedicati agli uffici per il personale(mezzanino), e con alcuni spazi in grado di ospitare piccole riu-nioni. In questi ultimi ambienti si prevede di svolgere attività diproposta culturale incentrate sull’invito alla lettura e all’approfon-dimento di tematiche di interesse per i cittadini: piccole mostre,incontri, ecc. In particolare, la Civica (ri)nasce e si sviluppa ela-borando uno stretto collegamento con il sistema museale dellaCittà, così come definito nel corso dell’anno 2006: la vicinanzacon le Sale d’arte comunali rappresenta in questo senso un’op-portunità positiva da cogliere e sviluppare avendo riguardo allavalorizzazione del patrimonio storico-artistico locale.

Le singole aree della Biblioteca sono state contrassegnate dacolori diversi, che vengono ripresi anche nel logo dell’Istituto: l’a-rea blu è lo spazio dedicato alla zona accoglienza, di informa-zione e assistenza bibliografica, con la sale di prima consultazio-ne e la sala di lettura a scaffale aperto. L’area rossa è quella dedi-cata alle tre sezioni bambini, ragazzi e giovani adulti; l’area verdesegnala la zona multimediale e lo spazio riviste e periodici, men-tre l’area gialla è quella delle sale storiche e dei fondi antichi pergli studi locali.

L’inaugurazione ufficiale della nuova Civica è stata accompa-gnata, il 9 febbraio 2007, da una lectio magistralis sul tema La memo-ria vegetale, tenuta dal professor Umberto Eco nella Sala grande delTeatro Comunale affollata da oltre un migliaio di persone, allapresenza, tra gli altri, di Ernesto Ferrero, direttore della Fiera dellibro di Torino, di Rolando Picchioni, presidente dell’associazio-ne Torino capitale mondiale del libro, di Antonia Ida Fontana,direttrice della Biblioteca nazionale centrale di Firenze.

Verso il Museo Civico

Le riaperture di palazzo Cuttica, l’inaugurazione delle Saled’arte, della ristrutturata Biblioteca civica e del Museo del cap-pello Borsalino, del Teatro delle scienze, oltre che la prosecuzio-ne del restauro e del recupero funzionale dell’ex chiesa di San

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Francesco, contribuiscono a rendere meno lontano il traguardo diun Museo civico che si giudica fondamentale per costruire criti-camente un’identità cittadina e coltivarla in termini dinamici.Questo processo deve perciò proseguire in modo organico e con-vinto, con l’obiettivo di approdare alla definizione di un sistemamuseale che sia capace di restituire ad Alessandria la coscienzadella sua storia e di restituirle una visibilità culturale. In questosenso si pronuncia un documento fondamentale – Il Museo Civicodi Alessandria. Nuove linee-guida per la costruzione di un processo – che ilComune ha commissionato a un esperto – il professor FulvioCervini dell’Università di Firenze – e che la Giunta comunale(Mara Scagni sindaco, e l’estensore di queste note Assessore allaCultura) ha fatto proprio con la delibera n. 118 del 27 marzo2007.

Dicono le Linee-guida che il taglio da conferire alla progetta-zione del nuovo Museo debba essere quello di storia della città:“un obiettivo tanto più importante in quanto la città ha subito intempi diversi trasformazioni molto traumatiche (demolizione diBorgoglio e costruzione della Cittadella, distruzione dellaCattedrale, rettifili ottocenteschi, eccetera) che rendono assai dif-ficoltoso leggerne la complessità delle stratificazioni. Dunque ilMuseo può e deve diventare un viatico per vivere consapevol-mente la città, una guida a recuperare i segni del passato che pul-sano tuttora nel nostro presente.

Le raccolte civiche alessandrine hanno il loro punto di forzanella “ragguardevole eterogeneità dei materiali”: è proprio suquesta varietà che occorre insistere, facendo fruttare una tradi-zione critica che ha il suo fulcro nel volume curato nel 1986 daCarlenrica Spantigati e Giovanni Romano per la Cassa diRisparmio (Il museo e la pinacoteca di Alessandria), base di ogni futuraindagine sull’argomento.

I luoghi didattico-espositivi che si sono definiti negli ultimianni e mesi (Antiquarium di Villa del Foro, Teatro delle scienze,Museo del fiume, Museo etnografico della Gambarina, Museo delcappello Borsalino, Sale d’arte, Percorsi di palazzo Cuttica) devo-no perciò essere considerati come elementi di un sistema artico-

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lato, che approfondiscono ciascuno un aspetto di vita del territo-rio. Ora però bisogna pensare al cuore del sistema, quel Museocivico che dovrebbe essere idealmente anche la bussola dell’in-tero sistema, il luogo da visitare per primo per afferrare subito lecoordinate dello sviluppo storico di Alessandria e scegliere i per-corsi di approfondimento. D’intesa con gli organi di tutela, l’am-ministrazione comunale ha individuato da tempo la sede idealedel nuovo museo nel complesso dell’ex-ospedale militare, e inparticolare nell’ex-chiesa di San Francesco. Questa sede, ricavataall’interno di un rilevante complesso che ancora reca le tracce diuna stagione di splendori storico-artistici, potrebbe – secondo leLinee-guida – divenire il cuore di un sistema di forma triangolareavente come altri vertici palazzo Cuttica e le Sale d’arte. SanFrancesco sarà il vertice maggiore del triangolo, la spina dorsaledel sistema, ospitando quel progetto che in parte rilevante è giàstato definito anche per quanto concerne i contenuti, nell’otticadi una storia del territorio che non trascuri nessun momento enessuna presenza. Una sequenza “semplificata” (contenuta in unostudio commissionato al CDS di Roma) prevede uno sviluppo cro-nologico, sia per mantenere un’efficacia didattica sia per meglioevidenziare le stratificazioni culturali che hanno lentamentecostruito il nostro presente. Le Linee-guida del 2007 contengono giàanche alcuni suggerimenti circa una plausibile suddivisione delpercorso museale in una dozzina di sezioni: i luoghi e il primopopolamento; i luoghi nel mondo romano e altomedioevale; lanascita di Alessandria; la città medievale; la città umanistica; PioV; la città spagnola; la città dei lumi; Napoleone; la città romanti-ca; la città dell’industria; la città del Novecento (1915-1945 e dopoil 1945).

In questo contesto, la dislocazione delle sedi potrebbe diven-tare un punto di forza (e di caratterizzazione dell’istituzione),rafforzando il dialogo con la città, mentre la centralizzazionedelle collezioni dovrebbe funzionare nel San Francesco, perchélo stesso complesso francescano è un paradigma di storia dellacittà. Il complesso percorso di avvicinamento di Alessandria alsuo museo ha quindi compiuto alcuni passi importanti: sta ora

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alla comunità farsene carico e decidere se intende continuare ainvestire sulla propria identità.

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La costituzione dell’Istituto per la storia della Resistenza di Alessandria nei documenti dell’archivio provinciale*

Guido Barberis e Massimo Carcione

La ricostruzione del percorso ideale, politico e scientifico, maanche istituzionale che ha portato alla creazione dell’Istituto perla storia della Resistenza e della società contemporanea diAlessandria non è soltanto un’interessante esercitazione di dirittopubblico e di storia amministrativa locale: dalla lettura degli attiche hanno costellato i due anni di iter procedurale, oggi conser-vati nell’archivio provinciale 1, emerge infatti un quadro animatoe composito della vita politica e culturale alessandrina di trent’an-ni fa. Tutti i documenti concordano sulla circostanza che la primaproposta di costituzione dell’Istituto si deve all’ANPI provinciale –all’epoca presieduta dal senatore Carlo Boccassi, mentre il segre-tario era William Valsesia – ma non ne esiste agli atti documen-tazione diretta; la proposta sarebbe stata formulata alla Provinciadi Alessandria, già alla fine del 1974 2 in vista del trentennale dellaLiberazione 3 ma per trovare il primo documento ufficialedell’Associazione nazionale partigiani d’Italia in merito alla costi-tuzione dell’ISRAL occorre arrivare alla data del 3 maggio 1975:una scarna lettera a firma del presidente Sen. Carlo Boccassi, checonferma in modo solenne l’adesione all’iniziativa, proponendo icandidati rappresentanti dell’ANPI in seno al costituendo Istituto 4.Il ruolo esercitato dall’ANPI è stato sempre esaltato negli atti uffi-ciali, restando però su un piano squisitamente teorico, alla luce

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della successiva decisione di limitare l’adesione al Consorzio aisoli enti pubblici: dunque l’Associazione dei Partigiani è stata pro-motrice, ma non fondatrice dell’Istituto 5. [...]

Va comunque ricordato che accanto alla spinta ideale dei par-tigiani ci fu indubbiamente anche quella più specificamente poli-tico-culturale, che già prima dell’aprile 1975 venne espressa infor-malmente da un “tavolo” di studio e di elaborazione del proget-to, composto da diverse personalità della Resistenza, della politi-ca e della cultura alessandrina; qualcuno di loro, come CarloGilardenghi, assunse in seguito un ruolo di primo piano nellanuova istituzione mentre altri, come ad esempio Delmo Maestri,si limitarono a mettere a disposizione il proprio importante con-tributo di idee e proposte, pur ricoprendo all’epoca altri incarichipubblici 6.

L’iter costitutivo

Il primo documento relativo alla fondazione dell’Istituto, afirma del Presidente Armando Devecchi 7, venne indirizzato aiSindaci dei Comuni centri-zona, ai Capi-gruppo provinciali e aiPresidenti del Comitato difesa valori della Resistenza e della stes-sa ANPI provinciale. Già questa primissima comunicazione si aprecon l’esplicita menzione della proposta dell’ANPI, che viene defi-nita “meritevole del massimo appoggio” nell’intento di “dare vitaanche nella nostra provincia a un Istituto Storico della Resistenzache, raccogliendo e classificando con rigore scientifico e dovero-sa obiettività le numerose testimonianze […] costituisca occasio-ne di ricordo, di verifica e di vigile controllo perché l’infaustaminaccia fascista non turbi nuovamente il nostro Paese”. In que-sta ottica si ribadisce la volontà – espressa nel corso di un pre-cedente incontro non meglio definito – di costituire un Comitatopromotore, richiedendo agli enti in indirizzo di formalizzare astretto giro di posta la propria adesione di massima 8.

Nel frattempo, data l’ormai imminente ricorrenza del 30° anni-versario della Liberazione, venne senz’altro convocata per il 3

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aprile seguente, allo scopo di “concertare le iniziative da assu-mersi per addivenire quanto prima alla costituzione formaledell’Istituto”, una ulteriore riunione preparatoria a PalazzoGhilini. L’eco delle stragi di matrice fascista di pochi mesi prima 9.con l’incombente rischio delle connesse “trame nere”, fanno dun-que da sfondo all’iniziativa così concretamente assunta dalPresidente della Provincia, che pochi giorni dopo, a conclusionedell’orazione ufficiale del 25 aprile 1975, vi faceva ancora riferi-mento: “A questo impegno sono chiamate tutte le forze antifasci-ste cui si richiede una coerenza ideale con le lotte che storica-mente ne hanno definito le caratteristiche politiche. Sono chia-mati specialmente i giovani, che devono essere responsabilmen-te indirizzati in questo senso. Essi non hanno vissuto direttamen-te l’esperienza resistenziale, devono però apprendere ed acquisi-re ciò che di essenziale essa produsse nella storia politica e civi-le del nostro Paese. Anche per questo occorre diffondere in tuttele scuole testimonianze sui fatti più significativi della Resistenza.Non si tratta di ricordare i soli fatti storici, bensì i valori morali,politici, civili, che hanno ispirato la battaglia antifascista e la lottadi liberazione” 10. È però singolare il fatto che Devecchi avesseomesso di citare, in modo esplicito o almeno indirettamente, l’i-niziativa appena assunta d’intesa con l’ANPI di promuovere eavviare la fondazione dell’Istituto storico della Resistenza. Sulleali dell’entusiasmo per le celebrazioni, il 29 aprile lo stessoDevecchi si affrettò nondimeno a scrivere al Presidente naziona-le dell’INSMLI (Istituto nazionale per la storia del Movimento diLiberazione in Italia), chiedendogli “tutti i chiarimenti e le indica-zioni utili al fine di assumere gli atti necessari per addivenire allaformale costituzione” dell’Istituto storico 11.

Pochissimi giorni dopo, facendo esplicito riferimento alla“prima stesura” di uno statuto già inviato il giorno precedente agliEnti fondatori, la Provincia di Alessandria approvava 12 l’adesione“in linea di massima” al progetto. [...] Non è da trascurare il datodell’assenza di dibattito in Consiglio e il voto unanime dei consi-glieri provinciali, che segnarono certamente un punto a favoredella limitata politicizzazione dell’iniziativa, testimoniata anche

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dal ruolo di riferimento e di stimolo assunto sin dall’inizio dal-l’ANPI.

Solo a luglio dello stesso 1975 arrivò da Milano la risposta del-l’INSMLI, il cui presidente Guido Quazza si premurava di dare utiliindicazioni procedurali, di legittimità e corretta impostazionedello statuto, non mancando di sottolineare la sollecitazione(sempre attuale) a che “gli Istituti provinciali si costituiscano edoperino entro un quadro di programmazione regionale chegarantisca contro possibili fenomeni di non coordinamento oframmentazione dell’attività” raccomandando a tal fine di pren-dere contatto con Giorgio Agosti, all’epoca Presidente dell’Istitutotorinese che oggi è a lui dedicato, “in modo da valutare di comu-ne accordo l’inserimento della nostra (sic) iniziativa nel contestoregionale” 13.

Criterio e struttura organizzativa

Tra dicembre 1975 e gennaio 1976 iniziarono invece le “gran-di manovre” per l’allestimento di quella che avrebbe dovuto esse-re la struttura operativa del nuovo istituto, affidata sin dai primipassi a una delle figure chiave dell’intera vicenda, WilliamValsesia, che sino a quel momento aveva agito in qualità di segre-tario dell’ANPI. Gli venne infatti conferito 14 l’incarico di compiere“gli adempimenti necessari onde addivenire alla costituzione”dell’istituto. Le funzioni individuate erano intese a “creare solle-citamente le premesse per usufruire del cospicuo contributo cheverrebbe messo a disposizione dalla Regione”, così come previ-sto dalla legge regionale 15.

La pur giusta attenzione e sensibilità alla problematica dellasostenibilità finanziaria [...] trovava un equo bilanciamento nel-l’altrettanto chiara definizione dei primi obiettivi della ricerca affi-data a William Valsesia; secondo il quale infatti, lo scopodell’Istituto avrebbe dovuto essere quello di “raccogliere e classi-ficare con rigore scientifico le numerose testimonianze, fatte didocumenti, atti, giornali, scritti, memorie varie riferentesi agli anni

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della Resistenza clandestina e della lotta di Liberazione dellanostra Provincia, al fine di organizzare materiale per ricerche estudi”, nell’intento dichiarato di conservare viva la memoria maanche di mantenere desta l’attenzione dell’opinione pubblica“contro la minaccia della violenza fascista, affinché non torni asconvolgere il regime democratico”. [...]

Valsesia, nella relazione da lui stesa e poi allegata allaDelibera costitutiva del Consorzio, partiva dal presupposto dicostituire e far funzionare “attorno all’Istituto” dei gruppi di stu-diosi e di ricercatori 16, il cui lavoro avrebbe dovuto essere orga-nizzato “per temi specifici” tenendo conto dell’indispensabileobiettivo strategico – per ottenere risultati positivi – del “raggiun-gimento della massima collaborazione degli Enti e delle persone”.Seguiva una sommaria elencazione dei “problemi indispensabili”da risolvere: dalla classificazione e custodia della documentazio-ne, alla sua organizzazione permettendo “la massima accessibilitàagli studiosi”, alla possibilità di riunioni e incontri di lavoro, senzatrascurare la Biblioteca “che possa raggruppare l’essenziale suResistenza e Antifascismo” e anche l’arredamento della sede. [...]A dimostrazione di un certo realismo pragmatico, o comunquedella consapevolezza dei limiti connaturati a questo genere distrutture di ricerca, sin dalla prima ipotesi di preventivo finanzia-rio dell’ente le voci relative alle attività scientifiche non arrivava-no al 15% del bilancio complessivo, escluso l’emolumento deldirettore cui peraltro lo statuto attribuiva compiti e responsabilitàeminentemente amministrative, ai fini di assicurare “l’ordinatofunzionamento” dell’Istituto. [...]

La costituzione del Consorzio

Gli atti istitutivi non furono adottati da tutti i soggetti parteci-panti al Comitato promotore, ma soltanto dagli Enti pubblici, edunque la Provincia e i sette Comuni “centri-zona”, in un perio-do che va dalla fine di aprile alla fine di luglio del 1976: la solle-citazione ad adottare lo statuto predisposto dal Comitato era

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venuta da una lettera del 20 marzo 1976 del Presidente dellaProvincia che invitava i sindaci a “portare al più presto all’esamedei rispettivi Consigli comunali”, ribadendo poi per l’ennesimavolta la raccomandazione della “massima sollecitudine nell’as-sunzione del provvedimento onde poter addivenire al più prestoalla costituzione dell’Istituto”, essendo trascorso già quasi unanno dal primo atto adottato in occasione del 30° anniversariodella Liberazione.

La Provincia di Alessandria, peraltro, diede prova di scarsatempestività, formalizzando la propria adesione al Consorzioquasi due mesi dopo 17, il cui dispositivo si caratterizza ancora unavolta per lo stile essenzialmente amministrativo, con un brevissi-mo richiamo agli scopi statutari. [...] I Comuni centri-zona adotta-rono lo Statuto con deliberazioni dei rispettivi ConsigliComunali 18. [...]

Se si vuole fissare una data unica per la definitiva fondazio-ne dell’Istituto – in considerazione della pluralità di provvedi-menti e delle relative date di adozione – si deve fare riferimen-to al Decreto prefettizio di approvazione 19 dal quale risultaanche che la sede legale del Consorzio era stata fissata pressola Provincia di Alessandria, dove peraltro – essendo PalazzoGuasco, come noto, una sede istituzionale dell’amministrazione– si trova tutt’ora. Il Presidente e i sette sindaci vennero “incari-cati dell’esecuzione” del decreto, il che stava a significare cheera finalmente possibile dare il via all’attività istituzionale escientifica del nuovo ente 20.

La composizione degli organi

Con tempestività davvero rara, e comunque dando prova diun rinnovato impulso verso la felice conclusione di questo lungoe faticoso cammino costitutivo, il Presidente della Provincia avevagià scritto in data 22 ottobre alle “Associazioni partigiane” perchiedere loro di designare concordemente il loro rappresentante(ai sensi degli articoli 2 e 19 dello Statuto), che sarebbe stato

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nominato nella già convocata seduta del Consiglio provinciale del29 ottobre seguente. Meno rapidi risultarono invece i Comuni, giàinterpellati una prima volta il 13 ottobre: evidentemente l’analo-ga procedura di consultazione dei partigiani dovette risultare dif-ficoltosa, tanto che l’11 novembre la Provincia dovette sollecitareformalmente i sindaci – nel trasmettere loro la copia del decretoprefettizio – all’adempimento delle nomine di loro competenza.

La prima assemblea si poté dunque svolgere a Palazzo Ghilinisolo il 22 dicembre 1976, per procedere all’elezione degli organi-smi dirigenti: il primo Presidente fu Lorenzo Demicheli, nella suaveste di Presidente della Provincia; il Consiglio Direttivo era com-posto da Carlo Pagella, Angelo Caprioglio, Mario Carniglia, PietroMinetti e Mario Fossati, oltre a Carlo Gilardenghi e Giovanni Sisto,che su esplicito impulso della stessa assemblea vennero elettiVicepresidenti nella prima riunione del Direttivo stesso, tenutasipochi giorni dopo. Primo Segretario del Consorzio e Direttoredell’Istituto fu nominato, come già detto, William Valsesia, men-tre si rimandò a una successiva occasione (per la quale si dovet-te però aspettare ancora quasi un anno) la nomina del Comitatotecnico consultivo, i cui criteri di composizione e designazione,come pure le competenze – in alcuni casi assurte a pareri obbli-gatori e vincolanti – erano comunque ben definiti dallo Statuto 21.Il Comitato era composto dal Presidente e dai due Vicepresidenti,da due studiosi di storia residenti in provincia di Alessandria(scelti e nominati dal Direttivo) e da tre rappresentanti designatida ciascuna delle organizzazioni provinciali rappresentative deiPartigiani: ANPI, FIVL, ANPPIA e Comitato difesa valori dellaResistenza. Sulla base delle designazioni 22 vennero nominatiFerruccio Bianchi, Giorgio Canestri, Franco Castelli, GianfrancoContorbia, Aurelio Ferrando (“Scrivia”), Maurilio Guasco, BiancaDonatella Migliora, Pietro Minetti, Agostino Pietrasanta, FrancescoPoggio, Pier Paolo Poggio, Giuseppe Recuperati e Guido Ratti,oltre a Lorenzo Demicheli, Carlo Gilardenghi e Giovanni Sistomembri di diritto in quanto rispettivamente Presidente eVicepresidenti dell’Istituto 23.

La prima riunione si tenne solo il 4 ottobre 1977, a Palazzo

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Ghilini, e fu aperta dalle proposte di Carlo Gilardenghi che mira-vano a “dotare la città di un agile strumento di lavoro per tutticoloro che intendono dedicarsi allo studio della storia contem-poranea locale, istituendo un archivio di documentazione, unabiblioteca ed emeroteca specializzata, promuovendo convegni eseminari, favorendo la ricerca con borse di studio, infine curan-do la pubblicazione degli atti dell’attività svolta”. A partire dalmaggio 1978 24 il quadro venne infine a completarsi con l’assun-zione del ruolo di Direttore responsabile della rivista da parte diMaurilio Guasco.

La presentazione al pubblico

Non si può certo dire che la conclusione dell’iter fondativodell’Istituto sia passata inosservata in città; se può essere definitopiuttosto scarno l’articoletto redazionale pubblicato nel n. 3 (otto-bre-dicembre 1976) de “La provincia di Alessandria” sotto il tito-lo “L’Istituto storico della Resistenza muove i suoi primi passi”,ben maggiore rilievo e impatto comunicativo dovette avere inve-ce l’articolo apparso sulla prima pagina de “Il Piccolo” di sabato30 dicembre 25. Entrambi gli articoli riportavano un ampio stralciodell’intervento introduttivo del Presidente Lorenzo Demicheli, [...]solamente “Il Piccolo”, però, riportava l’ultimo passaggio piùprettamente “politico”, con il quale Lorenzo Demicheli conclude-va la sua introduzione: “gli obiettivi e gli impegni che abbiamointeso dare all’Istituto sono certamente grandi ma sono soprattut-to importanti. Tocca ora a noi riempire di contenuto le parole cheabbiamo sinora espresso. La situazione generale del Paese, in unclima di crescenti tensioni, di infiltrarsi di trame nere, di tentativieversivi, richiede questo impegno”.

La prima riunione del Comitato Scientifico (allora “Comitatotecnico consultivo”) ebbe maggiore spazio e attenzione da partedella “Rivista” della Provincia26, che non si limitò a dare notiziadell’insediamento e della composizione del nuovo organismo mafornì, anzi, un assai dettagliato resoconto del dibattito, avvalo-

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rando l’impressione che fosse proprio questo “tavolo” la verasede di discussione e definizione delle linee di politica culturalee quindi di attività del nuovo istituto.

Tuttavia l’autonoma attività di comunicazione dell’Istituto nonera ancora iniziata, tant’è che Valsesia prevedeva 27 di “pubblicareentro l’anno un primo numero di una pubblicazione la cui appa-rizione dovrà coincidere con la presentazione ufficialedell’Istituto, nell’ambito di una tavola rotonda dedicata al rappor-to tra storia contemporanea, la storia della Resistenza e la storialocale”. A dimostrazione del clima di grande attenzione ai temidella Resistenza 28 [...] stanno nelle prime pagine della stessa“Rivista” le recensioni – curate personalmente da Carla Nespolo –di due ben noti volumi che erano stati appena diffusi nelle scuo-le a cura dell’amministrazione provinciale: Una brigata di pianura diOsvaldo Mussio e appunto La Resistenza in provincia di Alessandria diW. Valsesia e F. Gambera 29.

Da quelle pagine, a mo’ di chiusura, è interessante estrapola-re la citazione che già Carla Nespolo traeva – singolare “scambiodi idee” tra futuri presidenti dello stesso ISRAL – dalla prefazioneall’opera di Osvaldo Mussio di Carlo Gilardenghi: “pubblichiamoquesti ricordi delle battaglie di ieri, come contributo concreto perle battaglie di oggi”. Ci permettiamo di fare nostra questa frase diGilardenghi, pensando anche alla quotidiana “battaglia” per man-tenere l’Istituto al livello di coloro che l’hanno così fortementevoluto.

NOTE

* Questo testo è un estratto di quello pubblicato in ISRAL 30. Pubblicazionerealizzata in occasione del trentennale dell’Istituto per la storia della resistenza e dellasocietà contemporanea in provincia di Alessandria, ISRAL-Provincia di Alessandria,Alessandria, 2007.

1. Fascicolo n. 758/1-8 “Istituto Storico della Resistenza - dal 1975”.Ringraziamo Ivana Aime, responsabile del Servizio archivio e protocollodella Provincia di Alessandria, che ha prontamente messo a disposizio-

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ne la documentazione; è il caso di segnalare che il fascicolo consultatorisulta essere l’unico disponibile in merito, dal momento che non esisteun dossier sulla fondazione dell’ISRAL all’interno del suo archivio.2. Nella nota redazionale Una carta storico-geografica della Resistenza nellaProvincia di Alessandria, in “La Provincia di Alessandria”, 2-XXII, marzo-apri-le 1975; pp. 36-39, si riportano alcuni risultati di un’indagine promossa –evidentemente qualche mese prima – dal Vicepresidente della ProvinciaRolandi, nell’intento di acquisire dati sulla Resistenza in provincia e suisuoi monumenti, proprio al fine di dare “una prima concreta risposta allaproposta dell’ANPI, alla quale la Provincia ha già dato la sua adesione, dicostituire un Istituto Storico della Resistenza della Provincia diAlessandria”.3. È probabile che l’idea fosse stata esplicitata ufficialmente in occasio-ne di una riunione o di un incontro preparatorio delle manifestazionicelebrative del 25 aprile 1975, del quale non è stato certamente fatto unverbale.4. Il segretario provinciale William Valsesia, Andrea Bolognini e lo stes-so Boccassi.5. Che la questione sia stata oggetto di un dibattito risulta evidente anchedal fatto che all’art. 5 della prima bozza di Statuto, inviata dalla Provinciaal Comitato promotore in vista della riunione del 16 febbraio 1976, tuttele diverse istituzioni rappresentative dei partigiani erano state inseritequali soci fondatori. La presenza di rappresentanti dell’ANPI negli organiè stata prevista solo nella prima formulazione statutaria – e comunque“su designazione concordata” con le altre associazioni e previa nominada parte dei Comuni – mentre in seguito (e sino ad oggi) la partecipa-zione di soci dell’ANPI agli organismi dell’Istituto è da ritenersi a titolopersonale o comunque non istituzionale.6. Per completare il quadro istituzionale, è giusto ricordare chel’Assessore provinciale con delega alla Pubblica Istruzione e Cultura, erastata fino al giugno 1975 Adelina Martino Cosola, ma dopo le elezioniamministrative del 1975 l’incarico venne assunto da Carla Nespolo, chelo mantenne per tutto il periodo oggetto di questo studio.7. Lettera del 27 marzo 1975, prot. N. 53738. Nel documento c’è anche un breve cenno alla legge del 30 dicembre1974 con cui la Regione Piemonte aveva appena “stanziato significativicontributi per il funzionamento degli Istituti storici formalmente costitui-

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ti ed operanti”, come a sottolineare che non si trattava di un progettovelleitario e sprovvisto di basi finanziarie.9. In particolare la strage di Brescia (Piazza della Loggia, 28 maggio1974) e l’attentato al treno Italicus (4 agosto 1974).10. “La Provincia di Alessandria”, a. XXII, n. 2, marzo-aprile 1975; pp. 8-9.11. Oltre a ricordare ancora una volta l’impegno dell’ANPI, si esplicitavaperò da parte dell’Amministrazione Provinciale “l’impegno di curare l’i-struttoria della pratica per la costituzione”, da subito affidato alle cure delVice Segretario Generale della Provincia Lucio Bassi.12. DCP n. 192/7357 del 30.4.1975, che doveva però essere stata, comedi prassi, già approvata come proposta dalla Giunta provinciale nei gior-ni precedenti; la delibera consiliare era davvero scarna ed essenziale,quasi al limite della superficialità: il che potrebbe testimoniare tanto lagenerale e incondizionata condivisione – quasi che non fosse neppure ilcaso di spendere troppe parole per motivare un atto del tutto ovvio escontato – quanto invece una certa fretta.13. A riprova dei numerosi e frequenti rapporti tra la provincia diAlessandria e l’ambiente degli istituti sta il fatto che lo stesso GuidoQuazza faceva parte, insieme a Geo Pistarino, della commissione giudi-catrice del premio per un saggio inedito sulla Resistenza.14. DGP n.1595/18122 del 2.12.1975; la motivazione della scelta, esplici-tata nel provvedimento, stava nel fatto che “chi ha seguito finora, neisuoi successivi momenti, l’iniziativa, stimolandola con passione e curan-done la realizzazione con competenza e intelligente attenzione, in forzaanche delle personali particolari esperienze, della conoscenza dellamateria, delle relazioni in campo regionale e nazionale” era appuntoWilliam Valsesia, nella sua veste di segretario provinciale dell’ANPI, maanche ex comandante partigiano. L’incarico professionale doveva averela durata di un anno, salva la specificazione che il rapporto sarebbe ter-minato “non appena si sarà conclusa la pratica per la costituzionedell’Istituto”.15. L.R. n.44 del 30 dicembre 1974, la cui approvazione – a memoria diqualcuno dei protagonisti – aveva costituito uno dei principali stimoliall’avvio dell’iter costitutivo dell’Istituto; si trattava di un contributoannuo quantificato in cinque milioni di lire, che avrebbe potuto anche“essere ulteriormente integrato sulla base delle attività di ricerca e studio

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effettuate nel corso dell’anno”.16. Manca qualsiasi riferimento all’organigramma amministrativo e scien-tifico dell’Istituto, salvo nel preventivo finanziario in cui è prevista lafigura del Segretario-Direttore dell’Istituto, ruolo che fu poi ricopertodallo stesso William Valsesia. 17. DCP n. 127/5712 del 10.5.1976, assunta come le precedenti sotto lapresidenza di Lorenzo Demicheli.18. Gli estremi delle Deliberazioni sono i seguenti:Alessandria, DCC n. 610 del 24.5.1976Acqui Terme, DCC n. 335 del 2.7.1976 (ratifica n.111 del 30.7.1976)Casale Monferrato, DCC n. 250 dell’8.7.1976Novi Ligure, DCC n. 230 del 9.7.1976Ovada, DCC n. 78 del 13.7.1976Tortona, DCC n. 140 del 6.5.1976Valenza, DCC n. 288 del 22.4.1976 (ratifica n. 213 del 14.5.1976).19. Decreto del Prefetto Chialant n. 895/1.28 del 20 ottobre 1976.20. Per la precisione a decorrere dal 25 ottobre 1976, data ufficiale diricevimento del decreto.21. Articoli 19 e 20.22. “La Provincia di Alessandria”, n. 3, luglio-settembre 1977; p. 40.23. Nell’articolo della “Provincia” era citato solo come “presente”, manon come facente parte del Comitato, anche Franco Livorsi: poiché peròin base allo statuto il Comitato doveva includere solo quattordici esper-ti e studiosi, oltre ai tre componenti della Presidenza, se ne deve forsededurre che Livorsi fu invitato ad assistere ai lavori e solo in un secon-do momento formalmente designato o cooptato, giacché compare poi inun documento del 3 novembre nel quale si citano anche Adriano Bianchie Pietro Minetti, mentre non c’era più menzione del Presidente LorenzoDemicheli e di Pierino Guerci, che era stato invece citato nel primo elen-co pubblicato dalla rivista.24. Data di pubblicazione del primo numero del “Quaderno”, che venneedito inizialmente come supplemento della “Rivista della Provincia diAlessandria”, allora diretta da Lucio Bassi.25. L’articolo – pressoché uguale al precedente, essendo stata quasi cer-tamente utilizzata la stessa “velina” proveniente dall’ufficio stampa diPalazzo Ghilini – è stato cortesemente segnalato da Alberto Ballerino,che ringraziamo per la collaborazione; per la scansione si ringrazia la

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Biblioteca Civica di Alessandria.26. “La Provincia di Alessandria” n. 3, luglio-settembre 1977; p. 40.27. Cfr. nota 20; nel programma di lavoro del 19 dicembre 1977, l’attivitàdi informazione sull’istituto è inserita dal Direttore alla voce“Programmazione a breve termine”.28. Appare opportuno sottolineare in proposito che l’intero numero 2, a.XXII, della “Rivista della Provincia di Alessandria”, edito in occasione del30° della Liberazione (marzo-aprile 1975) è stato dedicato ai temi dellaResistenza e della deportazione, in stretta connessione con gli episodi dineofascismo di attualità.29. Se teniamo presente quanto già detto in precedenza, non deve stu-pire il giudizio di Carla Nespolo: “il libro di Valsesia, già programmati-camente, si presenta come un’opera incompiuta. L’autore si propone,infatti, di sollecitare con il suo scritto tutti coloro che lo possono a com-pletare o correggere l’opera. Una occasione, per l’organizzatoredell’Istituto Storico della Resistenza di Alessandria, di dialogo con i gio-vani, con i compagni di lotta, con tutti i sinceri democratici”.

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Nelle pagine che seguono ricordiamo la figura di GuidoBarberis, recentemente scomparso. Ci piace farlo ospitando,insieme all’intervento pronunciato dalla Presidente del nostro isti-tuto, Carla Nespolo, in occasione delle esequie, (senza dimenti-care il testo scritto con Massimo Carcione per il trentennale del-l’ISRAL che compare in altra sezione), anche il suo ultimo scritto,che Barberis aveva completato poco prima di morire pensandoproprio al “Quaderno di storia contemporanea” come sua possi-bile destinazione. Si tratta di un breve profilo biografico diVittorio Guido, industriale, uomo politico e amministratore, stori-co Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio diAlessandria, una personalità cui Barberis era molto legato.

Dal 2005 Segretario Generale dell’ISRAL, Guido Barberis hasempre accompagnato la sua carriera di tecnico dell’amministra-zione (è stato Ragioniere Generale presso i comuni diAlessandria, Aosta, Genova e Milano e dal 2005 Direttore deldipartimento risorse della Provincia di Alessandria, ma ancheAssessore al Bilancio del Comune di Alessandria nel 2002-2003)all’attività scientifica. Non solo nel campo della scienze dell’am-ministrazione (è stato Docente a contratto di Economia dei servi-zi presso la cattedra di Economia Politica della Facoltà diGiurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova, e ha svoltostudi e realizzato pubblicazioni in materia di ordinamento conta-bile degli enti locali) ma anche in ambito storico, occupandosicon passione e rigore di storia economica e sociale (ha collabo-rato a lungo con Valerio Castronovo, suo maestro, con cui hapubblicato un saggio su Le strutture economiche dell’Italia industrialeapparso nel sesto volume della Storia d’Italia di Einaudi, nel 1976).Il suo principale oggetto di interesse nel tempo è stata infatti lastoria dell’industria alessandrina, a partire da La famiglia industrialealessandrina: lo sviluppo industriale alessandrino attraverso la storia delle impre-se (Ovada, Edizioni Amnesia, 1986), – di cui Guido Barberis hadato poco prima della morte una seconda edizione, apparsa perle edizioni Le Mani-ISRAL, che sarebbe un errore considerare unsemplice aggiornamento – un volume che, per l’ampiezza delladocumentazione raccolta e delle vicende analizzate, abbraccianti

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più di un secolo di storia, testimonia da solo delle qualità di sto-rico di Guido Barberis.

All’interno di questo ambito d’indagine, la storia economicalocale, Guido Barberis ha poi sopra ogni altra cosa privilegiato levicende della Borsalino cui ha dedicato diversi interventi: percitare solo i principali ricordiamo il volume Alessandria e Borsalino:città, architettura e industria da lui curato insieme a Vera Comolli eValerio Castronovo (Alessandria, Cassa di Risparmio, 2000) eOmaggio al cappello: la Borsalino di Teresio Usuelli (AA. VV., Milano,Scheiwiller, 1989).

In questa sua attività di storico, non una semplice passionecoltivata a latere, ma un complemento necessario del suo lavorocome tecnico, Guido Barberis ha spesso naturalmente incontratoil nostro istituto, collaborando al “Quaderno di storia contempo-ranea” (cfr. La “Borsalino” in Europa negli anni Venti. Le relazioni diGiovanni Ronza, in “Quaderno”, a. VI, n. 12, 1983; pp.163-192; econ G.Subbrero, Produzione e commercializzazione dell’industria del cappelloalessandrino: la “Borsalino” (fine ‘800-1939), in “Quaderno”, a. VII, n.14, 1984; pp. 163-192).

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Per Guido

Carla Nespolo

Siamo qui per salutare Guido Barberis, per accompagnarloall’inizio di questo viaggio a noi sconosciuto, che un giorno toc-cherà a ciascuno di noi e che egli ha affrontato con una serenitàe una forza d’animo che più di ogni altro suo impegno (eppuresono stati tanti e importanti) ci dà il senso e la misura di qualeuomo straordinario Guido sia stato. In questo momento di lui misovvengono tanti ricordi e penso che ciascuno dei presenti neabbia altrettanti. Ne rievoco perciò solo due: lo studente appas-sionato, col quale io – giovane insegnante – parlavo per ore –mentre esplodeva il ‘68 – del rapporto tra scienza e filosofia e l’a-mico incontrato in una calda estate di tre anni fa’ e al quale espo-si alcune difficoltà gestionali dell’ISRAL.

Ero certa mi avrebbe dato qualche buon suggerimento, maegli fece di più e assunse personalmente (con nostra grandegioia) l’incarico di Segretario Generale dell’ Istituto Storico.

In questi tre anni, nonostante i suoi numerosi impegni, non hamai mancato una riunione e non ci ha mai detto: non ho tempo.Anzi, ha contribuito all’attività dell’ISRAL con il suo impegno d’in-tellettuale e di studioso. Per serietà personale, certamente, maanche perché per Guido la Resistenza era una pietra miliare delnostro oggi, da cui non si può prescindere e da far conoscere allegiovani generazioni. Anche questo era Guido: un uomo che cre-deva nei valori democratici, nei giovani e nelle loro possibilità dimigliorare il mondo in cui viviamo. Samantha, Massimo, Andrea,Marco (per citare solo quelli che conosco io) in questo momen-to, ne sono certa, piangono l’amico ma anche il maestro.

Di un giovane, Guido era particolarmente fiero: di suo figlio

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Alessandro. Lo era nel suo modo sobrio e discreto, ma fermissi-mo. Ed auguro ad Alessandro, nella sua vita privata e professio-nale, di avere la forza e il coraggio del suo papà. Conoscendolo,sono certa che sarà degno di tanta eredità.

Poche persone hanno avuto, come Guido, il dono di associa-re un grande impegno a una grande umanità e chi lo ha cono-sciuto sa, che non sono parole retoriche. Il suo curriculum pro-fessionale è così ampio, che risulta impossibile ricordarlo com-pletamente. A cominciare dalle due lauree, in giurisprudenza e inscienze politiche, a indirizzo economico.

E poi, via via, incarichi sempre più importanti nei comuni diAlessandria, Aosta, Genova e Milano. In tutti questi Comuni hasvolto l’incarico apicale di Direttore centrale finanza. Ma a benscorrere la vita professionale di Guido, del tecnico per eccellen-za, si scorge sempre una sicura bussola: l’amore per la sua fami-glia e per la sua terra. Per questo, dopo Genova, tornò adAlessandria e accettò l’incarico di Assessore al bilancio del comu-ne di Alessandria, dal giugno 2002 all’agosto 2003. Conclusa quel-la esperienza, egli divenne – come ricordato – RagioniereGenerale del comune di Milano. Incarico nel quale raccolse gene-rale stima e consenso.

Dopo quasi due anni, però, fu forte il richiamo della sua pro-vincia e, su richiesta del presidente Filippi, accettò l’incarico diDirettore del Dipartimento risorse della Provincia di Alessandria.Nel grande bilancio dell’ente provincia, come nel piccolodell’Istituto storico della resistenza Guido Barberis portò il suorigore, il suo rispetto per i cittadini, la sua capacità di progettaree lavorare per un mondo più giusto, aperto e rispettoso dellediverse culture. Così come nel suo impegno di sindaco effettivodella Cassa di Risparmio di Alessandria, di revisore contabile e direvisore dei conti di enti pubblici ma anche di docente diEconomia dei servizi presso la Facoltà di Giurisprudenza dellaUniversità di Genova

Quando la malattia lo colse, egli continuò a lavorare e a pen-sare al futuro. A una giovane collaboratrice alla quale aveva con-fidato il suo stato di salute e che se ne rammaricava, Guido disse:

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ognuno di noi nasce con una valigia. E il contenuto non si puòcambiare, ma solo portare con dignità.

E lui lo ha fatto sino all’ultimo. Dando alle stampe, proprio nelmaggio scorso, il suo ultimo lavoro: La famiglia economica alessandri-na edito dal nostro istituto. Nelle ultime settimane stava lavoran-do a una breve biografia di Vittorio Guido, di cui serbava grandericordo e stima. Pochi giorni fa’, ancora mi chiese quando avreiconvocato l’Assemblea dell’istituto.

Questo era Guido Barberis: vivere come se non si dovessemorire e accettare la morte serenamente.

A fianco ha avuto la fortuna di una compagna straordinariacome sua moglie Laura. Che è stata forte sino all’ultimo e corag-giosa come lui. Il loro amore, la loro vita insieme, sono stati unprivilegio che sono certa aiuteranno Laura a sopportare questogrande dolore. Sapendo che quella di Guido non è un’assenza,ma una presenza sotto altra forma. Per Lei, per Alessandro, suofuturo e suo orgoglio. Per la mamma Rosa che amava ricordarlobambino ed egli fingeva di schermirsi, ma ne era contento. PerMariella, la cognata, la sorella che gli leggeva i giornali e scrive-va per lui. Per la fida Dana e la sua famiglia.

Ora Guido ha raggiunto il suo papà tanto amato. Noi, chedovremo proseguire senza di lui, mai lo dimenticheremo.

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Vittorio Guido

Guido Barberis

Vittorio Guido nacque il 26 novembre 1918 a Bosio di ParodiLigure, in provincia di Alessandria da Pietro ed Ester Ghio (chemorirà nel 1923). Il nonno paterno Francesco si era dedicato allaproduzione vinicola e al commercio dei vini, attività che fu svi-luppata dal figlio Pietro, specialmente sul mercato genovese, dap-prima con l’impiego di carri, quindi di camion attraverso il passodei Giovi. La commercializzazione del vino spinse comunquePietro in altre contrade e ad esempio fu fornitore per i cantieri delFrejus. In ogni caso la famiglia Guido conservò anche a Bosio ilforno e il negozio di commestibili, che assicuravano una discretafonte di reddito a una famiglia che secondo le gerarchie econo-miche del tempo si poteva classificare tra quelle benestanti.

Vittorio frequentò le prime classi elementari a Bosio, comple-tando gli studi elementari a Gavi con la quarta e la quinta. Quindifrequentò le scuole medie all’Istituto San Giorgio di Novi, doveiniziò gli studi di ragioneria, fino alla terza. Trasferitosi a GenovaSampierdarena, conseguì il diploma di ragioneria nel rinomatoIstituto Vittorio Emanuele. Si iscrisse a Economia e commercio,ma fu chiamato alle armi nel Nizza Cavalleria di Pinerolo, nelreparto cavalleggeri di Montebello. Ufficiale con il grado di sottotenente, nel novembre del 1943 tornò a casa.

Sposatosi nel 1944 con Noemi Divano (il 1944 è l’anno del-l’eccidio della Benedicta, a un tiro di schioppo da Bosio, doveerano sfollati), Vittorio prese parte al movimento partigiano confunzioni di contatto e di coordinamento. All’indomani della guer-ra operò presso il Tribunale di Serravalle Scrivia, portando mode-razione e prudenza, in una congiuntura particolarmente critica e

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convulsa. Vittorio Guido iniziò a lavorare alla Fidass di SerravalleScrivia, la Fabbrica Italiana Dolci Affini Serravalle Scrivia, fonda-ta nel 1925 da Angelo Divano, zio di Noemi. La ditta, specializ-zata nella produzione di cioccolato, uova di cioccolato, caramel-le, torrone e creme, giunse a occupare 500 addetti. Il boom furegistrato nell’immediato dopoguerra, grazie anche a un marke-ting innovativo; in particolare la Fidass, sull’esempio dellaPerugina (con il concorso dei tre Moschettieri), lanciò il concor-so delle figurine dei calciatori, mettendo in palio palloni da cal-cio. Ad Angelo Divano, subentrarono i nipoti Dante e Aldo (fra-telli di Noemi), e Ezio (cugino). Vittorio fu rappresentante per laLiguria e ispettore per i grossisti di Torino e di Cuneo.

La grande passione per il ciclismo ed il mito di Fausto Coppi

Vittorio Guido ebbe una straordinaria passione per il ciclismoe fu grande tifoso di Fausto Coppi che incontrava sulle stradedella Liguria, durante gli allenamenti del campione (con il tradi-zionale lancio di caramelle) e che seguiva anche nelle manifesta-zioni all’estero. Egli si commuoveva al ricordo della mitica frasedel telecronista Ferretti relativa a “un solo uomo al comando”.

L’esperienza amministrativa

Vittorio Guido venne eletto nel 1952 sindaco di Bosio, caricache conservò fino al 1956. Venne quindi eletto consigliere pro-vinciale, nella circoscrizione di Gavi, alla consultazione del 27maggio 1956, nelle file della Democrazia Cristiana con il numerocomplessivo di 6.901 voti, come attestava il verbale dell’Ufficioelettorale del 29 maggio 1956, presieduto dal dottor LucianoCanoria. Si trattava della seconda amministrazione, dopo quelladel 1951, eletta a suffragio popolare, come ricordò nell’interven-to di apertura del Consiglio del 23 giugno 1956 il Presidenteuscente, prof. Giovanni Sisto (che era subentrato al comm.

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Giraudi, in carica dall’aprile del 1948 al febbraio del 1956), chevenne riconfermato con 16 voti, a fronte di 6 schede bianche e 7astenuti. Nella stessa seduta furono eletti assessori effettivi, con16 voti, Vittorio Guido, Pietro Borgarelli (assessore anziano),Paolo Desana, Antonio Goggi, Arnaldo Sommovigo e GiovanniTambutto, supplenti Francesco Rolandi e Nicolò Ruggeri. Quindila Giunta, nella seduta del 26 giugno 1956, provvide alla distri-buzione degli incarichi agli assessori; e a Vittorio Guido toccò ladelega all’istruzione e vigili del fuoco.

Alle elezioni del 6 e 7 novembre 1960 Vittorio Guido vennerieletto in Consiglio provinciale. Presidente fu confermato nellaseduta del 20 dicembre 1960 il prof. Giovanni Sisto con 16 votifavorevoli (contro 13 schede bianche). Vittorio Guido fece anco-ra parte della Giunta, con deleghe alla Montagna e al Turismo(seduta di giunta del 28 dicembre 1960) insieme a Luigi Buzio(assessore anziano), Antonio Goggi, Armando Pianese, ArnaldoSommovigo e Armando Gerini, supplenti Armando Devecchi eFrancesco Rolandi.

Alle elezioni del 22 novembre 1964 Vittorio Guido rientrò inConsiglio provinciale. Nella seduta del Consiglio provinciale del29 dicembre 1964 viene eletto Presidente il prof. Giovanni Sisto,con 16 voti su 28 votanti. Nella stessa seduta vennero eletti gliassessori. Vittorio Guido è confermato assessore effettivo, con 16voti, insieme a Luigi Buzio (assessore anziano), Paolo Desana,Armando Devecchi, Luciano Magrassi e Francesco Rolandi, asses-sori supplenti Giovanni Giuso e Carlo Mussa. Mancano le dele-ghe. L’avv. Armella era diventato Presidente della Provincia, aseguito della elezione del prof. Sisto alla camera, alle elezioni del1968.

Il 7 giugno 1970 si tornò alle urne per eleggere il nuovoConsiglio provinciale e nella seduta consiliare del 10 settembre1970 si ebbe la convalida degli eletti. Vittorio Guido tornò in con-siglio, che nella seduta del 10 settembre 1970 elesse PresidenteArmando Devecchi. La Giunta risultò composta da Luigi Buzio(assessore anziano), Lorenzo Demicheli, Vittorio Guido (condeleghe alla Montagna, Turismo, Sport e Viabilità minore),

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Adelina Martino Cosola, Giuseppe Pilotti e Francesco Rolandi,assessori supplenti Alfonso Borello e Franco Provera. La tornatafu breve per Vittorio Guido. La Giunta, nella seduta straordinariadel 23 luglio 1971, prese atto, con delibera immediatamente ese-cutiva, delle sue dimissioni dal mandato di consigliere e conse-guentemente dall’incarico di assessore. Peraltro fin dall’1 luglioGuido aveva rassegnato al presidente Devecchi le dimissioni daconsigliere, in quanto “tale incarico comporta una incompatibilitànon derogabile con la nomina a Presidente della Cassa diRisparmio di Alessandria, per la quale è stato dato il nulla ostadal Comitato Interministeriale del Credito e del Risparmio”. Siriservava di attendere il decreto di nomina per autorizzare ilPresidente a dare comunicazione delle dimissioni al ConsiglioProvinciale; cosa che puntualmente avvenne con nota del 21luglio.

Le espressioni di tutti i gruppi consiliari (Gerini, Caneva,Peverati, Rolandi, Rossa, Demicheli e Carpignano) all’indirizzo diVittorio Guido furono cordiali e di apprezzamento; nel riconosce-re “il prezioso ed intelligente apporto dell’amico Guido, pur attra-verso alle diverse interpretazioni ideologiche, per il benesseredelle popolazioni amministrate, riconoscimento peraltro espressodalle popolazioni stesse, (sia) attraverso i risultati elettorali. In essil’interessato ha visto rivalutata e premiata tutta la sua appassiona-ta azione politica ed amministrativa, tutto il dinamismo della suapersona trasfuso in questa sua azione tesa al miglioramento dellecondizioni sociali ed economiche degli amministrati”.

L’esperienza politica

Vittorio Guido fu esponente della Democrazia cristiana, edebbe diverse cariche, in particolare fu componente del Direttivoprovinciale del partito. Tuttavia alla vita di partito preferiva l’im-pegno amministrativo e il contatto con i cittadini, come testi-monia il largo consenso che ebbe sempre nelle consultazionielettorali, nel feudo del gaviese.

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La Cassa di Risparmio di Alessandria

Vittorio Guido, che nel 1970 si sentiva Presidente in pectoredella Provincia dopo il lungo e importante cursus honorum maa cui venne preferito Armando Devecchi, nel 1971, sponsoriz-zato dal notabile democristiano cuneese Adolfo Sarti, si trovòproiettato nel mondo bancario alla Presidenza della Cassa diRisparmio di Alessandria 1, dopo la Presidenza del socialistaavvocato Giovanni Taverna (che ricevette la lettera di encomioda parte del Ministro del Tesoro Mario Ferrari Aggradi).

Non si spiega il passaggio della Presidenza della Cassa diRisparmio di Alessandria da un socialista a un democristianosenza far riferimento alla lotteria delle nomine, escludendoscambi diretti tra i due partiti. Inoltre la scelta di Vittorio Guidopremiava una figura di medio livello, che non infastidiva i capicorrente e i notabili locali. Vittorio Guido mai avrebbe utilizza-to la banca per comandare nella Democrazia cristiana, ma piut-tosto la utilizzava come strumento di crescita economica esociale e di promozione della beneficenza. Rimane da chiarireil ruolo di Adolfo Sarti nel risiko delle banche piemontesi lega-te alla DC.

Vittorio Guido mantenne la carica fino al 1987, avendo comeVice Presidente Gianfranco Pittatore, dottore commercialista inValenza 2, nominato con decreto del Ministro del Tesoro in data9 ottobre 1971 (l’onorevole Bellato Vice Presidente in carica ras-segnò le dimissioni), che sarebbe poi diventato Presidente dellaCassa di Risparmio e della Fondazione Cassa di Risparmio, verae propria anima del gruppo bancario alessandrino.

Nel 1971 la Cassa di Risparmio di Alessandria superò i centomiliardi di lire in depositi 3 (rispetto ai 41 miliardi del 1965,documentando così la forte crescita e il sensibile radicamentodell’Istituto). Il denaro raccolto era impiegato per 23 miliardi dilire in mutui, per 14 miliardi di lire in cassa e disponibilità e per42 miliardi di lire in titoli e partecipazioni. Alla fine dell’eserci-zio 1971 i depositi fiduciari raggiunsero la cifra di 112 miliardidi lire. Vittorio Guido tra l’altro inaugurò nel novembre del 1972

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la rinnovata filiale di Bosio 4, costituita nel lontano 1956 (ultimoanno come sindaco di Bosio) per facilitare le operazioni ban-carie della popolazione del luogo. Inoltre nel 1972 la Cassaottenne la qualifica di Banca Agente 5 con la possibilità di ope-rare con banche straniere e con i principali istituti italiani.

Nell’ambito della collaudata tradizione di beneficenza dellaCassa di Risparmio di Alessandria, l’istituto nel 1972 realizzò lascuola materna prefabbricata in zona Europa 6 ad Alessandria.Inoltre Vittorio Guido inaugurò la collana dei libri strenna dellaCassa di Risparmio di Alessandria con l’opera sui Tesori diPalazzo Ghilini; sarà Gianfranco Pittatore a realizzare unabiblioteca organica delle opere della banca. Sotto la presidenzadi Vittorio Guido si alternarono tre Direttori Generali, UmbertoAlbini, Angelo Ponasso e Renzo Zaio.

Vittorio Guido fu Presidente della Cassa nella fase di trasfor-mazione della stessa da Cassa-istituzione a Banca-impresa. Iltradizionale legame della Cassa con la clientela locale e con glienti pubblici e il sistema della Tesoreria risultava da solo ina-deguato in un mondo dinamico e con un sistema bancario voltoalla concorrenza. I tradizionali finanziamenti e l’erogazione deimutui erano ormai insufficienti a garantire sviluppo e innova-zione. Il sistema delle Casse reagì a questa situazione e varò unprogramma per la trasformazione in vere e proprie banche alservizio dell’intera comunità locale e con possibilità di espan-sione territoriale venendo progressivamente meno i vincoli delpiano sportelli.

Vittorio Guido diresse la Cassa, con Gianfranco Pittatore inquesta congiuntura che avrebbe prodotto con la legislazionedegli anni Ottanta e la conseguente trasformazione definitivadella Cassa in Banca. Nel 1987 venne nominato Revisore uffi-ciale dei conti (II sessione 1987 con D.M. del Ministero di Graziae Giustizia in data 13 marzo 1991).

Per effetto della Presidenza della Cassa di Risparmio diAlessandria, Vittorio Guido ricoprì numerose cariche: fu infattiConsigliere dell’Istituto di Credito fondiario del Piemonte e dellaValle d’Aosta dal 1971 al 1974; fu inoltre vice Presidente

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dell’Ente dal 1974 al 1987. Fu anche consigliere dell’Istitutofederale di credito agrario per il Piemonte , la Liguria e la ValleD’Aosta dal 1971 al marzo 1988. Inoltre ricoprì la prestigiosacarica di revisore dei conti dell’ ACRI – Associazione Casse diRisparmio Italiane – dal 1985 al 1987, e per un breve periodo fuPresidente dell’ACRI. Fu consigliere della SIL S.p.A. – SocietàItaliana Leasing – dal 1986 al 1988. Fu sindaco effettivo dellaForestali S.p.A. in Assago, Milano dal 1972 al 1989.

Fu inoltre consigliere della Carispo S.p.A. (Casse di Risparmiodel Piemonte Orientale). Sul ceppo della Carispo si svilupparo-no i servizi comuni per le banche (leasing, factoring e informa-tica); inoltre sarebbe poi sorta ACROPOLI per la integrazione delleCasse Piemontesi di Alessandria, Asti, Novara e Vercelli, e dellaCassa di Savona poi seguita da quella di Genova. Il progettonon andò in porto e vennero studiate altre strade.

Vittorio Guido fu sindaco della Cassa di Risparmio diAlessandria su designazione della Federazione fra le Casse diRisparmio del Piemonte, dal 17 maggio 1988 al 24 dicembre1991. Componente del Collegio dei Revisori dei Conti dellaFondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, fu sindaco sup-plente della Cassa di Risparmio di Alessandria S.p.A. e sindacoeffettivo dal 1988 al 2004. È stato inoltre consigliere delConsiglio Generale del Mediocredito Centrale e sindaco dellasocietà BIC Piemonte e insignito delle onorificenze di GrandeUfficiale della Repubblica e di Cavaliere dell’Ordine di SanSilvestro da Giovanni Paolo II°. Morì il 7 marzo 2005 aSerravalle Scrivia

I ricordi personali

Ero stato appena nominato revisore dei conti della Cassa diRisparmio di Alessandria dal Consiglio Comunale di Alessandria.Incontrai Vittorio Guido nel 1986 a Biella, alle celebrazioni delcentenario della fondazione della Banca Sella di Biella, allaquale avevo preso parte in qualità di componente del gruppo di

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ricerca storica coordinato dal professor Valerio Castronovo peruna monumentale opera sulla storia dell’emigrazione biellesenel mondo che la Banca aveva voluto donare alla comunitàlocale e al consesso scientifico. Nell’occasione di uno scambiodi saluto con il dottor Lodovico Sella, presidente dellaFondazione Sella, Vittorio Guido ebbe parole molto generosenei miei confronti, e con soddisfazione disse al dottor Lodovicoche si onorava di avermi nell’organo di controllo della Cassa.Nei mesi successivi ricordo l’interesse e la disponibilità a soste-nere le iniziative di studio e di ricerca economica a livello loca-le.

Ho ritrovato Vittorio Guido dopo alcuni anni, quando funominato sindaco effettivo della Cassa di Risparmio diAlessandria, a comporre il collegio che vedeva la mia presenzae quella del professor Chiaffredo Astori come presidente. Al dilà dell’attività professionale, della partecipazione alle riunionidegli organi societari e delle azioni di verifica e di controllo, mipiace ricordare il modo con il quale quel collegio sindacaleveniva accolto nelle verifiche presso le agenzie e le filialidell’Istituto. Infatti Vittorio Guido era rimasto il “Presidente”,l’uomo buono e sempre disponibile amato dai dipendenti, men-tre del professor Astori molti impiegati ricordavano gli anni discuola all’Istituto per ragionieri oppure il concorso per entrarein banca, con Astori nelle veste di commissario d’esame.

NOTE

1. Cambio di Presidenza alla Cassa di Risparmio di Alessandria, in “Il Piccolo”, 25settembre 1971.2. Nuovo Vice presidente alla Cassa di Risparmio, in “Il Piccolo”, 3 novembre1971.3. La Cassa di Risparmio di Alessandria ha superato i 100 miliardi di depositi, in “IlPiccolo”, 3 luglio 1971.4. Inaugurata la nuova sede della filiale di Bosio della Cassa di Risparmio, in “IlPiccolo”, 29 novembre 1972.

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5. Dal primo luglio la Cassa di Risparmio sarà Banca Agente, in “Il Piccolo”, 24 giu-gno 1972.6. Solenne inaugurazione della Scuola materna della Cassa di Risparmio, in “IlPiccolo”, 3 novembre 1972.

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Vittorio Rapetti, Memoria della Resistenza, resistenza della memorianell’Acquese. Testimonianze e riflessioni storiche, materiali e strumenti didattici diun percorso dalla Resistenza alla Costituzione, Acqui, Edizioni ImpressioniGrafiche, 2007; pp. 256, con allegato doppio DVD curato daAlberto Cavanna e Vittorio Rapetti, con testi, materiali audiovisi-vi, filmati.

“Perché sono morti?” si chiede il protagonista del romanzo La casa incollina, l’opera in cui Cesare Pavese affronta il significato storicoed etico della guerra partigiana. Questa domanda, rimasta attua-le, costituisce la premessa implicita al volume curato da VittorioRapetti, orientandone la tensione ideale: dalla capacità di rispon-dervi dipende infatti la possibilità di costruire e rielaborare unamemoria civile condivisa, che veda nella Resistenza una base diriferimento generale per tutti gli Italiani.Il progetto da cui nasce il volume è stato impostato in occasionedel 60° anniversario della Liberazione: per la prima voltanell’Acquese amministrazioni comunali, scuole, associazioni edenti culturali hanno lavorato insieme affinché la celebrazione uffi-ciale si trasformasse in un impegno di ricerca, in cui un rinnova-to sforzo di indagine storica si affiancasse al coinvolgimento dei“testimoni” degli avvenimenti e del mondo della scuola.Questo percorso civile e didattico, proseguito dal 2004 al 2006, èstato ricco di iniziative, di convegni, di attività scolastiche, il cuivalore intrinseco, dal punto di vista storiografico, educativo e civi-le, è stato rilevante; tuttavia si correva il rischio che i risultati diquesto prezioso lavoro rimanessero dispersi e poco conosciuti.Proprio l’esigenza di raccogliere e rendere fruibili, anche dallescuole, i materiali prodotti ha spinto Vittorio Rapetti a curare l’e-dizione del volume, dopo aver coordinato il lavoro dellaCommissione distrettuale dei docenti di storia che aveva seguitol’aspetto didattico del progetto.In realtà l’opera presenta una struttura articolata, essendo com-posta dai testi scritti contenuti nel volume e dai materiali e filma-ti inseriti nel doppio DVD, che non hanno semplicemente uno

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scopo illustrativo, ma si integrano profondamente con i saggi,rafforzandone il valore scientifico e comunicativo.La prima sezione del volume propone una domanda: “Perché farememoria della Resistenza oggi?”. Autorità politiche, religiose escolastiche, rappresentanti delle associazioni culturali tentano dirispondere, ciascuno nella prospettiva della realtà in cui operano:ne scaturisce una riflessione a più voci, in cui si colgono la diver-sità delle esperienze e delle problematiche, ma che assume ancheuna dimensione corale, dal momento che emerge la consapevo-lezza generale che “la Resistenza appartiene a tutti” e che questo“patrimonio comune” dovrà fondare sempre più la coscienza civi-le degli Italiani, soprattutto dei futuri cittadini.La seconda sezione è dedicata alla “memoria della Resistenza trastoriografia generale e ricerca locale”: in essa vengono raccoltisignificativi interventi, in cui si riprendono gli aspetti problemati-ci della memoria della Resistenza, dal punto di vista educativo edidattico, ma anche politico, culturale e civile; ampio spazio è poidato alla presentazione sintetica delle opere, saggi e atti di con-vegni, che hanno affrontato la storia del periodo resistenziale edi quello immediatamente successivo nell’Acquese; in alcuni casil’indagine ha toccato anche gli aspetti sociali, come quello delrapporto tra contadini e partigiani, inquadrandoli in un contestoterritoriale più ampio, che si estende alle province di Alessandriae di Asti.Nella stessa sezione sono poi presentati alcuni episodi particolar-mente significativi della lotta partigiana nell’Acquese (Malvicino,Olbicella, Piancastagna), ma anche relativi alla partecipazionedell’esercito alla Resistenza (il 9 settembre del ‘43 nella casermadi Acqui e la Divisione Acqui a Cefalonia), all’eccidio dellaBenedica e al processo Engel, alla Shoah e alla deportazione degliebrei acquesi.Segue un ampio apparato di strumenti, che comprendono sche-de cronologiche, musicali, teatrali, multimediali, elenchi di for-mazioni, bibliografie ragionate, informazioni su archivi e biblio-teche, indicazioni sui testimoni, sui percorsi e sui luoghi della

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Resistenza. Questo materiale risulta prezioso per chi vogliaapprofondire lo studio sulla Resistenza, per interessi personali oper effettuare ricerche storiche e didattiche, sia per l’abbondanzae la qualità dei riferimenti sia perché i dati e le notizie sono par-ticolarmente aggiornati e precisi.La terza sezione raccoglie – in parole e immagini – le testimo-nianze di alcuni protagonisti della Resistenza, ma anche di mili-tari, di internati e di deportati; inoltre si affronta il tema dell’at-tualità della Costituzione, attraverso un intervento di RaimondoRicci e la commemorazione delle figure di Umberto Terracini e diLuigi Merlo. Si tratta senza dubbio di contributi storici importan-ti, che era necessario conservare e valorizzare, ma non solo: lastoria, rivissuta attraverso la rievocazione dei testimoni o raccon-tata direttamente dalla loro voce, acquista uno spessore umanostraordinario ed è capace di affascinare anche i più giovani. Del resto, proprio l’esigenza di avvicinare in modo efficace alun-ni e studenti al periodo della Resistenza ispira la quarta sezione,in cui vengono presentate alcune mostre, curate dall’ANPI provin-ciale, dall’Ufficio storico dell’Esercito Italiano e dal Circolo “A.Galliano” di Acqui Terme. Anche in questo caso, il rimando alDVD permette di disporre di materiale iconografico validissimo dalpunto di vista didattico; altrettanto utile si rivela la presentazionedidattica in Power Point curata da Vittorio Rapetti, che offre unapresentazione delle vicende locali della guerra partigiana, collo-candole nel contesto generale della Resistenza.La parte conclusiva della sezione è dedicata a due luoghi di altovalore simbolico per la storia della Resistenza nella provincia diAlessandria: i Sacrari della Benedicta e di Piancastagna. Attraversola presentazione dei progetti “La memoria delle Alpi”, i “Sentieridella Libertà” e “Benedicta: scuola di pace”, vengono affrontate leprospettive educative che si aprono, non soltanto rapportabili alladimensione storica, ma connesse anche alla conoscenza del con-testo fisico, naturale ed etnografico, grazie al supporto dei Centridi documentazione e dei percorsi segnalati e provvisti di appara-ti didattici (segnalazioni, mappe, cartelli informativi…).

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Nella quinta e ultima sezione viene offerta una sintesi delle ini-ziative didattiche e culturali proposte ad Acqui Terme sui temidella memoria, della Resistenza, della Costituzione e della“Giornata della Memoria”: accanto ai convegni e alle mostre, unposto di rilievo occupa il concorso scolastico bandito per il 60°della Liberazione.In effetti gran parte della sezione è dedicata alla presentazionedelle ricerche svolte dalle scuole che hanno aderito al concorso:le scuole materne ed elementari di Visone, Rivalta, Acqui eCanelli; le scuole medie di Acqui, Cassine e Rivalta; gli Istitutisuperiori di Acqui (ITIS, IPSIA Fermi, Liceo classico e scientifico) el’ITIS di Ovada. Concludono la sezione le schede relative a duetesi di laurea.Si tratta di una consistente mole di lavori, che utilizzano tecnicheespositive diverse e di cui si fornisce una presentazione essen-ziale nel volume, mentre i materiali integrali sono inseriti nel DVD.In tutte le ricerche si manifestano l’impegno e l’entusiasmo deglialunni e alcune di esse si distinguono per la serietà metodologi-ca dell’impostazione, per l’interesse storiografico del materialeraccolto e per l’efficacia comunicativa; in alcuni casi, poi, vengo-no fornite informazioni su personaggi e avvenimenti poco cono-sciuti, dando un contributo originale alla stessa ricerca storica.In conclusione, il volume e il DVD curati da Vittorio Rapetti pos-sono offrire spunti preziosi per l’attività didattica nelle scuole, maanche stimoli alla riflessione storiografica; nell’opera si delinea,infatti, una puntuale attenzione verso le problematiche affrontatedagli storici specialisti nel più recente dibattito sulla Resistenza: laconsiderazione verso le diverse forme di Resistenza; il rapportotra memoria della Resistenza e politica; i nessi che legano antifa-scismo, Resistenza e Costituzione; l’articolazione del movimentoresistenziale; la realtà quotidiana delle guerra partigiana; le preoc-cupazioni deontologiche degli insegnanti, che devono affrontareil difficile nodo dei rapporti tra metodo storico, didattica e com-piti educativi.Un testo che si segnala quindi per la completezza e la profondità

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dei materiali forniti, che risultano comunque facilmente consulta-bili e fruibili, e per l’apporto che può offrire alla conoscenza delterritorio. Ma soprattutto perché rappresenta il punto di arrivo diun percorso unitario di ricerca e di riflessione sulla Resistenza eal tempo stesso un solido punto di partenza per l’impegno futu-ro di storici, insegnanti, amministratori e cittadini.

Angelo Arata

Gianni Toscani, Con i partigiani. In Valle Bormida Valle Belbo ValleUzzone. Interviste. Documenti fotografie Cairo M.Te, Magema Edizioni,2007; pp. 334.

Gianni Toscani, Divisione Fumagalli. Brigata “Savona” - Brigata “ValBormida” - Brigata “Montenotte” - Brigata “Valle Uzzone” Cairo M.te,Magema Edizioni, 2008; pp. 254.

Nel recente panorama della storia locale sulla Seconda guerramondiale e la Resistenza, i due volumi di Toscani offrono unimportante contributo di conoscenza, portando alla luce testimo-nianze sovente inedite della vita partigiana e della resistenza civi-le nell’area tra Piemonte e Liguria, dal retroterra savonese allelanghe astigiane e monregalesi. I due testi, più che saggi storio-grafici, si collocano nel filone della raccolta di documenti (effica-cemente resi dall’impaginazione), giovandosi in primo luogo deirisultati delle interviste a ben 36 testimoni diretti dei fatti, che pro-cedono dalla primavera del 1943 al maggio 1945. Ai racconti diprima mano si affiancano poi foto e riproduzione di dispacci, cir-colari, lettere, ecc…. L’autore, all’epoca ragazzo “appena sfiorato dalle vicende dellaguerra” , ha ricordi nitidi dei mesi dell’occupazione nazista, ma sitratta di frammenti, in quanto “non eravamo in grado di renderciconto e di valutare con coscienza gli avvenimenti che quotidia-

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namente caratterizzavano la nostra vita” (p.6). Proprio l’esigenzadi ricostruire un quadro più chiaro degli avvenimenti l’ha spintoper diversi anni a raccogliere documentazione sulle vicende loca-li, a collegare episodi ripresi dalla bibliografia locale (proposta inappendice), portando alla luce persone e fatti, che permettono diarricchire la conoscenza non solo dei fatti d’arme, ma delle con-dizioni concrete, materiali e psicologiche, di quanti vissero queimesi concitati e drammatici. Toscani, che ha già al suo attivo altre pubblicazioni di storia con-temporanea locale (tra cui un saggio sulla guerra d’Etiopia, DaAltare a Tambien, la raccolta di testimonianze sugli anni 1935-1945,Io c’ero, la biografia del partigiano Narciso Vignola), sceglie un cri-terio prevalentemente cronologico per presentare i dati raccolti,alternando spezzoni di interviste e documenti scritti. Pur condiversi ritorni e anticipazioni, i testi e i documenti sono legati dabrani di raccordo che valgono a inquadrare brevemente il rac-conto dei testimoni, assai diversi tra loro, ma accomunati dalricordo dei problemi che i protagonisti dovettero affrontare,primo fra tutti quello della scelta tra adesione alla RSI, alla resi-stenza o semplicemente cercare di fuggire. Al centro della prima sezione vi è il ricordo dell’8 settembre e lavicenda dei nostri militari dislocati sui vari fronti, alle prese conla resistenza ai tedeschi e la speranza di tornare a casa, dove siritrovano a dover decidere quale sentiero imboccare. Così i rac-conti emblematici di Pietro Recagno e Mario Ferraro. L’attenzionesi sposta quindi sulla zona savonese nell’autunno ‘43, con lanascita dei primi nuclei partigiani nell’entroterra intorno a Cairoe poi nelle alte langhe intorno a Mombarcaro, cui si intreccianoi ricordi di esperienze di territori vicini (come quella di AlbinoCazzola partigiano nelle zona tra Nizza e Agliano). I primi spun-ti della lotta partigiana trovano una immediata reazione da partedi tedeschi e repubblichini che hanno nel frattempo assunto ilcontrollo del territorio: nel libro sono in breve riportati diversicasi di partigiani catturati, torturati e fucilati nell’inverno ’43-’44. Tra il febbraio e l’aprile ’44 si organizza la prima formazione strut-

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turata dell’entroterra savonese: il distaccamento “Calcagno”, chediventa in breve la XX Brigata, comandata da un ufficiale polac-co disertore dell’esercito nazista. Essa si trova a dover affrontarenon solo i nazifascisti, ma anche una banda di malviventi che sispacciano per partigiani taglieggiando i contadini; sulla vicendafanno luce le testimonianze di Faustina Vassallo, DanteBianchino, Alfredo Vignola. Il volume considera quindi l’organizzazione dello schieramentonazifascita, con particolare riferimento alla Divisione San Marco,in base a documenti d’archivio e a ricordi di partigiani, comeGiuseppe Rinaldi. Scontri, azioni di sabotaggio, diserzioni, rap-porti con la popolazione, ruolo dei parroci, cattura e detenzioniaffiorano nei diversi episodi che costellano i mesi tra l’estate el’autunno ’44, quando la resistenza in alta Valbormida diventa piùrobusta (si contano circa 750 attivi nelle formazioni) ma impe-gnata a fronteggiare reparti nazifascisti numerosi, addestrati e benarmati. Questi ultimi, tra ottobre e dicembre, sono impiegati inuna serie di massicci rastrellamenti, che costringono molti parti-giani a ripiegare verso il Piemonte, lasciando sul terreno nume-rosi morti e feriti (ma in genere “i rastrellatori non facevano pri-gionieri”). Accanto alle testimonianze di Giuseppe Bellini, MarioGenta, Pietro Alisei, l’autore riporta documentate informazioni suidistaccamenti partigiani, comprese alcune schede sulle armi piùusate nel conflitto. Un ampio capitolo è poi dedicato alle formazioni autonome di“Mauri” che operavano sulle Langhe, a ridosso delle formazionidi origine savonese; le testimonianze di Gildo Milano, AugustoPregliasco, Mario Ferraro, le schede che riassumono caratteristi-che e movimenti dei distaccamenti degli “azzurri”, sono interval-late da passi dei diari di “Mauri”, con notizie sui rapporti con glialleati e documenti relativi all’organizzazione e ai rapporti tra idiversi gruppi partigiani. È ad esempio interessante la riprodu-zione del documento dell’ottobre ’44, con cui la Brigata Savonaentra a far parte delle formazioni autonome alle dipendenze di“Mauri”, ricevendo l’incarico di attestarsi nella zona tra

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Mombarcaro e Saliceto e l’obiettivo di liberare in futuro la città diSavona. Le vicende dell’autunno-inverno ’44 occupano molte pagine, siacon riferimento all’esperienza della repubblica libera di Alba siariguardo ai pesanti rastrellamenti nazifascisti che – impiegandocirca 20.000 tra tedeschi e fascisti – mettono in seria difficoltà ilfronte partigiano; si riportano le testimonianze di Giuseppe Ferro,Mario Ferraro, Bruno Viano, Maria Lerma, Pierino Servetto Si intrecciano le vicende delle brigate di provenienza ligure conquelle costituite dai piemontesi, rapporti non sempre facili sia permotivi di strategia e condotta militare sia per il diverso orienta-mento politico, ma anche il continuo modificarsi della situazionesul terreno: 1° e 2° divisione “Langhe”, 1° e 6° divisioneGaribaldi, brigata Giustizia e Libertà, con i loro ormai numerosidistaccamenti. Non mancano le testimonianze (Dilani, Astesianoe Colombo) relative alla vicenda del “Biondino” e della sua squa-dra volante, che il comando partigiano ha ordinato di fermare eprocessare. Altre testimonianze (come quelle di Cruciali, Levratto,Giocosa, Longoni, Rizzo, Bellini) riguardano le azioni partigianecontro la divisione San Marco e il trattamento dei prigionieri, letorture e fucilazioni, l’azione delle cosiddette “controbande” (for-mate da fascisti che si presentavano come partigiani), il recluta-mento partigiano di disertori della San Marco, la partecipazionedi soldati stranieri (russi, polacchi, iugoslavi, …), il recupero deilanci alleati, l’attività dell’aeroporto di Vesime.L’ultima e più ampia sezione del libro è dedicata alla fase finaledella lotta dal gennaio all’aprile ’45; vengono fornite informazio-ni dettagliate sull’articolazione e la collocazione delle brigate par-tigiane tra la Valle Bormida e la Valle Belbo fino alla langa mon-regalese; la formazione della Divisione “Martiri di Alessandria” e“Fumagalli”; i dettagli dell’operazione “Marder” con cui i nazifa-scisti nel marzo ’45 mirano a distruggere il comando degli auto-nomi, alcuni esempi dei tanti episodi di rappresaglie e scambi, levicende della liberazione di Alba, i movimenti in vista dell’insur-rezione finale, i provvedimenti contro i franchi tiratori fascisti che

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continuano a colpire dopo il 25 aprile. Anche su questo periodosono proposte specifiche testimonianze (Giovanni Maggi, VannaArtioli, Paolo Pesce, Mario Ferraro, Sergio Curetti, Guido Pera,Antonio Transito, Emidio Dessì, Ilario Pollero, Giorgio Rodino)insieme a numerosi documenti scritti e fotografie. Nel volumededicato alla Divisione Fumagalli sono riportate ulteriori 23 testi-monianze, centrate sull’organizzazione delle diverse brigate dellaformazione partigiana che combattè lungo la Val Bormida e nel-l’entroterra savonese, con una ricca documentazione corredata danumerose fotografie dei protagonisti e dei luoghi. In diversi passaggi dei due volumi si riportano notizie circa ilruolo del clero, tra cui la tragica vicenda di don Minetti, parrocodella Maddalena di Sassello, o di Silvio Ravera, giovane di AC epoi seminarista che partecipa alla resistenza prima di essere ordi-nato sacerdote. Testimonianze che offrono punti di vista ed espe-rienze specifiche sono quelle di donne che hanno partecipatodirettamente alla lotta partigiana, come Vanna Vaccani e TersiliaFenoglio, Emilia Pastorino e Lucia Botto, Maria Lerma e JoseGarello, o di operai come Olindo Pirrotto. Numerose le notiziesulle fucilazioni di antifascisti, con alcuni brevi profili biografici,tra cui quello dell’acquese Giuseppe Maruffi. Non mancano noti-zie su aspetti particolari e poco conosciuti, come l’attività degliospedali partigiani, l’azione della polizia partigiana nei confrontidelle azioni di banditismo; le comunicazioni tra i comandi parti-giani e quelli tedeschi. Dalle quasi 600 pagine dei due volumi emerge un quadro fram-mentario, quasi in presa diretta con la varietà (e anche la confu-sione) di vicende e rapporti nei convulsi mesi che dall’8 settem-bre ’43 conducono al 25 aprile ’45. Il filo del racconto si diramain tanti sentieri, volti, vicende particolari, che a ogni passaggiosfuggono al tentativo di inquadrarli in rigide fasi cronologiche onella ricostruzione della storia delle singole formazioni. Ne risul-ta così una lettura assai varia, che privilegia la narrazione di fattie la presentazione dei protagonisti, la descrizione dei luoghi, ilrichiamo visivo dei volti e dei segni di memoria. Ed è proprio lo

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sforzo di documentare, di riprodurre i testi originali, di mantene-re il linguaggio diretto nelle testimonianze a costituire forse ilmaggior pregio di questi testi, perché ben ci rappresenta la com-plessità ed eterogeneità del movimento partigiano locale, i suoipunti di fragilità e di forza. Certo si tratta di un’opera di docu-mentazione e memoria locale che offre molto materiale alla inter-pretazione sistematica degli storici, ma che non rinuncia ad unariflessione più generale sul senso del fenomeno resistenziale edinsieme sul dovere di fare memoria di quanti hanno rischiato esovente dato la vita per la libertà di tutti.

Vittorio Rapetti

Natale Pia, La storia di Natale. Da soldato in Russia a prigioniero nel Lager,a cura di Primarosa Pia, prefazione di Lucio Monaco EdizioniJoker, Novi Ligure, 2006, (III Ed., 4500 copie); pp.182, Euro 13.

La presentazione ad Acqui, nei mesi scorsi, di questo volume, ciha dato la possibilità di incontrare direttamente l’autore di questoimportante e particolare libro di memoria. Classe 1922, portabene i suoi anni, anche se il fisico robusto registra ancora le con-seguenze di quella storia. Mani da lavoro, parole poche. Certonon un intellettuale di mestiere e forse anche un po’a disagio inuna situazione “ufficiale”, perché son cose non tanto belle da rac-contare, certo non idonee per “far salotto”. E poi sembra che sisenta in dovere di giustificare e spiegare: ancora adesso c’è genteincredula, come quelli che al ritorno dalla prigionia lo guardava-no scrollando la testa, tanto sembrava tremendo e incredibile ciòche gli era accaduto. Così uno finiva per non aver voglia di rac-contare, di metterci una pietra sopra. Eppure è storia vera, cosesuccesse davvero, che uno non dimentica per tutta la vita e tor-nano a turbare il sonno ed il ricordo. “L’avevo tutta in mente, ma solo pochi anni fa mi sono deciso a

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scriverla – mi racconta mentre aspettiamo l’inizio dell’incontro.L’ho scritta a mano, tutta di fila, su un blocco di appunti”. È unacircostanza che ci conferma la figlia Primarosa, curatrice del libroe quotidianamente impegnata per l’ANED, l’associazione deideportati, mentre ci mostra il manoscritto, steso da un “Natalino”alle soglie degli 80 anni con nitida grafia. Pia ha incontrato spes-so gli studenti a scuola e molti ne ha accompagnati alla visita alCampo di Mauthausen, ma solo nel 2002 ha seguito l’invito a fis-sare sulla carta la sua vicenda, perché questa memoria non sfug-ga, anzi possa circolare presso un più vasto numero di persone.Da qui è nata la pubblicazione, giunta ora alla III edizione. Iltesto si articola in due parti, la prima dedicata alla campagna diRussia, al ritorno e all’arresto fino al trasferimento a Bolzano; laseconda alla prigionia nel Lager fino al rientro al paese. Seguonoquindi alcuni interventi brevi e significativi: una nota dell’autoresul ritorno al Lager, la nota della curatrice che illustra la genesidel libro, un racconto sempre di Primarosa in ricordo di Vittorio,il fratello della mamma che a Gusen è morto a diciott’anni, leschede sui lager di Bolzano e Mauthausen e sui sottocampiGusen I, II, III. Infine alcune lettere e riconoscimenti al lavoro diPia (premiato tra l’altro come primo classificato al concorso lette-rario di Brugherio).Dicevamo: un libro importante e particolare. Importante comeogni storia personale che intende raccontare di sé e del mondosenza troppe maschere, per lasciare una traccia di memoria, capa-ce di offrire una conoscenza e un insegnamento; infatti, si tratta diun lungo racconto biografico, attraverso cui filtra la “grande sto-ria” e un sommesso giudizio su di essa. Il libro narra di una vicen-da tragica come è quella dei soldati italiani nella campagna diRussia e poi di una breve collaborazione alla resistenza che pre-lude alla deportazione nel Lager. Qui sta una particolarità, perchéla concentrazione di queste esperienze nell’arco di 36 mesi, nellavita di un giovane appena ventenne sembra davvero troppo: dallatranquilla dimensione di un paese come Montegrosso d’Asti, lavo-rando in famiglia, a un viaggio all’inferno.

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Questo racconto e il suo protagonista hanno un motivo ulterioredi interesse per i nostri lettori: infatti nei tre anni di lunghe edrammatiche peripezie dell’autore, viaggi di andata e ritorno,Acqui riveste un ruolo significativo. Il “viaggio” di Natale comin-cia nel gennaio 1942 proprio dalla nostra città, allievo presso lacaserma di artiglieria. Siamo nel pieno della guerra, nell’anno incui le sorti del conflitto cominciano a cambiare di segno: nono-stante la propaganda, si è capito che la guerra non finirà presto,e il normale addestramento di una recluta assume certo un altroorizzonte. A maggio 1942, infatti, Pia è destinato al fronte russo:non ha ancora compiuto 20 anni e come i suoi giovani commili-toni sa poco della guerra e di cosa l’aspetta. L’emozione del viag-gio, via via che si addentra in Germania, Cecoslovacchia ePolonia, si colora di dubbi nell’intuire più che vedere le incom-prensibili violenze verso gli ebrei: affiora in lui la diffidenza versogli “alleati tedeschi”. Il racconto si snoda quindi lungo i mesi chevedono l’insediamento dei reparti italiani sul fronte russo, l’im-patto con il freddo e la guerra, la vita trascorsa nei servizi (Pia èaddetto al trasporto e guida un camion). Dopo il terribile inver-no e l’accerchiamento russo, la ritirata dall’ansa del Don apre ilcapitolo di una tragica marcia culminata ma non conclusa con labattaglia di Nikolajewka. Natale è uno dei pochi scampati del suo reparto (partiti 144, tor-nati 9) e rientra ad Acqui nel luglio del 1943. Ma la guerra non èfinita, deve tornare in servizio, e ai primi di settembre è inviato aSiena. Dopo l’armistizio e lo sbandamento dell’esercito, grazie adun fortunoso rientro, raggiunge la nativa Montegrosso. Subito sidedica ad aiutare la famiglia, poi torna in Acqui come poliziottonella stazione ferroviaria, per sfuggire all’arruolamento nellaRepubblica di Salò, ma decide presto di ritornare al paese ad aiu-tare il padre malato nel suo lavoro. Si unisce ad amici vicini allaresistenza e nell’autunno del 1944 è nuovamente ad Acqui peraiutare una nuova banda di partigiani, quella di Davide Layolo, aprocurarsi qualche arma. Pur non svolgendo una diretta azionenella resistenza viene catturato, gli viene attribuito il possesso di

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un tesserino partigiano trovato nel rifugio, che in realtà appartie-ne a un compagno che lui non denuncia. Viene trasferito alle car-ceri di Torino. Da qui è destinato al Campo di Bolzano, che lointroduce nel girone di Mauthausen, dove arriva ai primi di gen-naio del 1945. È destinato a uno dei sottocampi più terribili, quel-lo di Gusen. Qui scorrono le pagine più dure della narrazione: illavoro schiavistico prima all’aperto, nel gelido inverno austriaco,poi nella fabbrica di armi celata nelle gallerie scavate nelle colli-ne dagli stessi prigionieri come lui, il freddo e la fame, il tratta-mento disumano e talora sadico delle guardie e dei kapò, la vio-lenza quotidiana. Giornate senza tempo, col “pensiero fisso dellafuga”, che – insieme al ricordo della mamma, morta nel 1938 eche lui si sente sempre accanto nei momenti più difficili – servea tener viva la voglia di resistere e alimenta la speranza della libe-razione, avvenuta finalmente il 5 maggio del 1945. E poi il ritorno, quando il sollievo per la vita e la libertà ritrova-te si mescolano con il dolore per i tanti compagni passati per ilcamino, l’imbarazzo e il rincrescimento per l’incontro coi loroparenti. Un dolore che resta: “non passa giorno che il mio pen-siero non torni alle troppe persone che non ce l’hanno fatta”(p.134). Un dolore che è una delle eredità più tremende per isopravvissuti, il segno che in realtà le guerre e le violenze getta-no per lungo tempo la loro ombra di morte nell’intimo delle per-sone che ne sono coinvolte.“La storia di Natale” è un libro particolare e significativo ancheper il linguaggio: non il testo di un letterato o di uno storico, mail ricordo, la riflessione e il passaggio di memoria ai più giovanida parte di un ottantenne, che racconta dei suoi vent’anni, delletribolazioni e della voglia di vivere. Ciò che colpisce è il linguaggio privo di retorica, diretto, di unracconto che si snoda attraverso episodi narrati con semplicità,visti direttamente con gli occhi del protagonista. Tanto il tonopacato quanto ciò che viene raccontato non muove chi leggeall’odio o al risentimento, ma fa ben capire ciò che è giusto e ciòche è sbagliato. È una memoria che preferisce tacere, laddove

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non si può dir bene, mentre evidenzia i gesti di solidarietà e diaiuto, specie da parte di chi ha molto da temere o da rischiarenell’aiutare il soldato in fuga o il deportato affamato.Un libro che descrive con chiarezza violenze terribili, l’assurditàdella guerra e dell’abisso del Lager, ma non suscita violenza, négronda sangue come a volte oggi va di moda. Attraverso il per-corso dell’autore, chi legge è come invitato a prendere coscienzadi questa vicenda personale e collettiva, ma anche a considerar-la con distacco, quasi a voler uscire dalla spirale di distruzione edi annientamento che l’esperienza del Lager gli ha come inocu-lato. È qui il passaggio più difficile: prender distacco, senzarimuovere, non cedere al richiamo dell’abisso ma senza smetteredi farne memoria.Sappiamo che tanti non sono riusciti a uscire da tale spirale,anche quando sono fisicamente sopravvissuti. Sappiamo che ladomanda che anche Natale Pia si pone: “perché noi ci siamo sal-vati e gli altri no?” è una domanda che non passa.Anche per questo è doveroso entrare in punta di piedi, in atteg-giamento di ascolto di fronte a questo racconto: non per fare undibattito su qualche argomento più o meno raffinato, ma per met-terci in relazione con una storia che in qualche modo ci coinvol-ge e ci chiama in causa direttamente.

Vittorio Rapetti

Giovanni Chiappino, Ricordi di vita partigiana, Comune di Silvanod’Orba; pp. 216, s.i.p..

Sul massacro della Benedicta hanno scritto soprattutto uominiche ricoprirono un ruolo di direzione nelle formazioni dellaResistenza. Poche invece sono le testimonianze dei partigiani dibase di cui poco conosciamo per quanto riguarda le paure, leaspettative, il quotidiano o i rapporti con i superiori. Già questo

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potrebbe bastare per sottolineare l’interesse del libro di GiovanniChiappino, che in realtà non si limita ad affrontare il celebre epi-sodio della Benedicta. Il volume infatti parte dall’8 settembre earriva fino alla Liberazione, mostrando il cammino di uno di queitanti giovani soldati che, scampati alla deportazione in Germania,scelsero di combattere nelle fila dei partigiani. Inoltre è vero chel’autore non ebbe particolari posizioni di comando ma la costan-za nel darsi una formazione autodidatta rendono anomala la suatestimonianza, priva di quel carattere di subalternità sul pianoculturale che caratterizza la memorialistica di questo tipo.L’8 settembre Chiappino era con gli alpini della compagnia Ivreadella Divisione Taurinense nei pressi di Romito, piccolo paesinoai confini tra Liguria e Toscana. Grazie anche all’aiuto che rice-vette sul territorio riuscì a sfuggire alla deportazione in Germaniae a tornare al suo paese, Silvano d’Orba. Sia pure malvolentieriin un primo tempo rispose alla chiamata alle armi dellaRepubblica sociale. Venne mandato alla sede del Quarto Alpiniad Aosta ma dopo breve tempo con uno stratagemma ritornò acasa. Ormai a Silvano la grande maggioranza dei giovani nonintendeva entrare nelle forze armate di Salò, i vecchi antifascistidel paese si facevano avanti e svolgevano ora una funzioneimportante di consiglio e indirizzo. Quasi inevitabile, infine, lascelta di unirsi ai primi gruppi di ribelli che si stavano raggrup-pando nella zona del monte Tobbio. Chiappino diventò “Caio” einsieme ad altri silvanesi entrò nel sesto distaccamento dellaTerza Brigata Liguria. Il suo primo comandante fu una figura leg-gendaria della Resistenza, Walter Fillak che nel febbraio 1945venne impiccato col filo di ferro dai fascisti a Courgné.ll legame con il paese è dimostrato anche dalla decisione di riu-nire tutti i giovani di Silvano della Terza Brigata Liguria in un’u-nica formazione. Questo rapporto con il territorio è uno degliaspetti che più colpisce anche nella parte riguardante laBenedicta: solo grazie all’aiuto della popolazione Caio e i suoiamici riuscirono a sfuggire alle maglie del rastrellamento messoin atto da tedeschi e fascisti. Dalla testimonianza di Chiappino

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emerge ancora una volta la totale impreparazione dei comandipartigiani di fronte all’attacco nazista. Quando iniziò il rastrella-mento, Caio venne mandato alla Benedicta per avvertire i capidella Terza Brigata Liguria che il suo distaccamento era sottoattacco ai laghi della Lavagnina. La situazione però venne sotto-valutata, si pensò di poter rimediare con una squadra di gappisti.Fino all’ultimo non si ebbe idea di quanto in realtà stava avve-nendo. Dopo il disastro, Caio torna a casa ma riprende la lottapoco dopo. Effettivo della Brigata Macchi, Chiappino combattéfino alla Liberazione.

Alberto Ballerino

Manlio Callegari, Il valore aggiunto. Le “Valli Unite” e la ricerca del mondomigliore possibile, Editrice Impressioni Grafiche, pp. 128, Euro 7,00.

Questo libro, attraverso una lunga serie di interviste, è dedicatoall’esperienza della cooperativa Valli Unite, che si trova aMontesoro, borgo di Montale, una frazione di Costa Vescovato.Coniugando mercato e solidarietà, questa esperienza costituisceoggi l’unica che dà occupazione nella zona. Oltre a essa sonorimaste solo una ventina di piccole aziende familiari, la maggiorparte delle quali stanno andando ad esaurimento.L’area ha subito lo spopolamento che ha caratterizzato nellaseconda metà del Novecento gran parte delle nostre campagne.Gli abitanti, dai 7- 8 mila del dopoguerra sono scesi ai poco piùdi 300 di oggi. Negli anni Trenta le vigne coprivano ogni lembodi terreno, fino quasi alle abitazioni. Oggi sulle colline gli spazivuoti sono sempre maggiori.Nel 1977, quando tutti i giovani in età da lavoro avevano lascia-to Monale, tre ragazzi decisero di provare a tentare la fortuna pro-prio lì. Tentarono di convincere altri contadini della zona a fon-dare una cooperativa con loro ma, incontrando diffidenza, deci-

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sero di provare da soli.Il tempo ha dato loro ragione. Oggi il nome Cooperativa ValliUnite ha superato il confine delle colline ed è più conosciuto delpaese stesso. Qui, anno dopo anno, sono passati uomini prove-nienti da diverse regioni o addirittura da altre nazioni. LaCooperativa costituisce veramente un angolo di società globaliz-zata trapiantata sulle colline tortonesi. È diventata meta di moltistranieri, alcuni dei quali hanno scelto di rimanervi, assumendo avolte ruoli di responsabilità. I soci oggi sono undici e altrettanti i dipendenti. Attorno al cucuz-zolo dove era stata costruita la prima stalla ora ci sono i ricoveridi materiali e attrezzi, la cascina dell’agriturismo con il ristoran-te, il macello, la cantina, un negozio, gli appartamenti per gliospiti, parte delle abitazioni di soci e salariati, l’amministrazione.Inizialmente si era puntato principalmente sull’allevamento bovi-no. Ora si pratica anche quello dei maiali e, oltre alle carni, siproducono farine alimentari, insaccati suini, latte, yogurt, for-maggi e, naturalmente, vino. Più della metà del fatturato oggiruota attorno alla cantina e allo spaccio.La paga è uguale per tutti: soci e non soci, lavoratori ormai esper-ti e novizi. Le Tre Valli sono una scelta di vita. Qualcuno primadi venire qui in altre zone guadagnava molto di più ma a Monaleha trovato un valore aggiunto: una diversa libertà, maggioriresponsabilità, il legame con il luogo, la forza di un gruppo.

Alberto Ballerino

Marcella Serpa, Ella Tambussi Grasso da figlia di emigranti a prima donnaGovernatore di uno Stato americano, Acqui Terme, Editrice ImpressioniGrafiche; pp. 176, Euro 10,00.

Una storia di emigrati che parte dalla nostra provincia e arriva finoalle più importanti stanze del potere d’oltreoceano. È la vicenda

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di Ella Tambussi Grasso, raccontata per la prima volta in Italia daMarcella Serpa in questo volume pubblicato dalla EditriceImpressioni Grafiche. Il libro si avvale della prefazione della pre-sidente della Regione Mercedes Bresso e dell’assessore al Welfare,lavoro, immigrazione ed emigrazione Teresa Angela Migliasso. Lapubblicazione è stata promossa dalla Regione e dal Comune diCarezzano con il sostegno di Provincia di Alessandria, Comune diVoghera, Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona e associazio-ne culturale Comunica. Il volume parte da Perleto, frazione del comune di Carezzano neltortonese, dove fin dal Seicento si hanno notizie della famigliaTambussi. Nel 1904 il giovane Giacomo, seguendo l’esempio ditanti altri italiani, lasciò il proprio paese per andare a Genova,dove si imbarcò per gli Stati Uniti. Voleva raggiungere il padre,emigrato precedentemente. Mentre il figlio rimase in America, ilgenitore tornò in Italia. Alla sua morte, Giacomo tornò a Perletoper portare con sé negli Stati Uniti la madre e i fratelli. In America,fin dall’epoca del suo primo viaggio, si era stabilito a WindsorLocks dove conobbe e sposò Maria Oliva, originaria di Medassino,un borgo alle porte di Voghera. Ella fu la loro unica figlia.Windsor Locks era una città operaia, anche Giacomo e Marialavorarono in fabbrica.I temi relativi al miglioramento delle condizioni dei lavoratorifurono al centro delle riflessioni di Ella fin dagli anni del college.Il suo primo successo in politica fu nel 1953 l’accesso, nelle filedei Democratici, al Parlamento del Connecticut, dove dal 1958 al1970 fu segretario di stato. Ella fu la prima donna a essere eletta governatore di uno statoamericano, vincendo le elezioni del 1974, sempre nelConnecticut. Rieletta nel 1978, fu costretta a dimettersi per moti-vi di salute alla fine del 1980. Morì poche settimane dopo, nelfebbraio 1981. Nel 1976 e nel 1980 il suo nome figurò tra i pos-sibili candidati alla vicepresidenza degli Stati Uniti.

Alberto Ballerino

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Aida Ribero (a cura di), Glossario. Lessico della differenza, RegionePiemonte, Commissione Regionale per la realizzazione delle pariOpportunità tra Uomo e Donna, 2007; pp. 312, s.i.p..

Si tratta di un utile e importante strumento di consultazione e dilavoro, voluto dalla Commissione Regionale per la realizzazionedelle pari Opportunità tra Uomo e Donna (CRPO) del Piemonte erealizzato a cura del Centro studi e documentazione “Pensierofemminile”, con il contributo di parecchie studiose, non solo tori-nesi.In effetti, ormai il discorso femminile e femminista si è costruitointorno a un lessico ben preciso e sempre più ricco e complesso,con molti termini sedimentati e divenuti patrimonio comune ealtri ancora in evoluzione e suscettibili di ridefinizioni ed amplia-menti concettuali: l’idea di raccogliere questi termini e di redarreper ognuna delle voci individuate una spiegazione chiara, maanche scientificamente fondata, permette di renderne fruibile laterminologia anche per un pubblico sempre più ampio, quale adesempio quello delle nuove generazioni, quelle degli studenti estudentesse che affrontano temi di studio che incrociano questetematiche, ma anche quello di chi opera nell’ambito delle pariopportunità, nel mondo della comunicazione e nelle sedi politi-che e istituzionali.Certamente (e ce ne dà conto la curatrice Aida Ribero nell’Introduzione) non deve essere stato facile selezionare le quaran-tacinque voci da trattare e individuare le autrici cui affidare que-sto compito, soprattutto tenendo presente la necessità di dar vitaa un lavoro che mantenesse al suo interno omogeneità di lin-guaggio e riferimenti culturali condivisi. Per quanto riguarda ilprimo aspetto, cioè l’individuazione delle voci, necessariamentearbitraria e non esaustiva, la scelta fatta è stata quella di privile-giare da un lato le più diffuse, e dall’altro quelle ritenute essen-ziali, in un quadro di coerenza dell’opera e avendo come sce-nario di riferimento soprattutto quello italiano, pur con i neces-sari e imprescindibili rimandi a pensatrici ed eventi anche di altri

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paesi; una linea di fondo condivisa è stata, poi, quella di privile-giare un linguaggio divulgativo e chiaro, senza però scadere nénella banalizzazione né nella rinuncia a un’impostazione lessical-mente e concettualmente corretta.Le voci individuate possono essere raggruppate, grosso modo, indue grandi aree tematiche: quella che riguarda le pari opportu-nità e quella più teorica, di impianto del pensiero femminile efemminista. Accanto a queste, ne troviamo poi anche altre, cherispondono forse di più a istanze sociali, a questioni “socialmen-te rilevanti”, quali ad esempio, lavoro, mutilazioni genitali, violenza. Male varie voci sono spesso correlate tra loro, in un gioco, talvoltaesplicitato e talvolta no, di rimandi, anche interdisciplinari, secon-do una caratteristica tipica della storia di genere che si pone,appunto, come “storia di confine”, a cavallo tra più discipline.Il risultato restituisce nella sua interezza e complessità l’interoquadro teorico che siamo soliti designare con il termine “genere”e la caratteristica più significativa di questo lavoro rimane quelladi affrontare i lemmi con piccole monografie, approfondite ecomplete anche nella ricostruzione storica e semantica, e altempo stesso di coniugare la complessità con la chiarezza: dueobiettivi importanti e difficili da conseguire e che qui, invece,sono stati, entrambi, felicemente raggiunti.

Graziella Gaballo

Lucia Motti (a cura di), Donne nella Cgil: una storia lunga un secolo. 100anni di lotte per la dignità, i diritti e la libertà femminile, Ediesse, Roma2006, pp. 564, Euro 35,00.

Il volume è il frutto di una ricerca e di una mostra svoltasi inoccasione del centenario della CGIL e racconta, a partire dagli ulti-mi anni dell’Ottocento, anche attraverso una ricca serie di foto-grafie (sono più di 300) la storia della presenza femminile in quel-

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lo che è il più rappresentativo sindacato italiano.Il termine “raccontare”, riferito alle fotografie, non è casuale,perché le immagini recuperate con lunga e paziente ricerca neivari archivi sparsi sul territorio, e a cui si affiancano i vari saggi,qui non sono usate semplicemente come illustrazioni o fonti, macreano veri e propri percorsi strutturati di lettura, che si muovo-no intorno a due assi, uno cronologico e uno tematico, in cui ciguida Lucia Motti, responsabile dell’archivio storico delle donne“Camilla Ravera” e curatrice del libro, con un saggio che ne seguee commenta le varie fasi, a partire dalla lotta nelle campagne perfinire con una foto del 1994, che ritrae le donne dei sindacatipensionati, protagoniste di una protesta anche ironica e provoca-toria, mentre offrono, davanti a Montecitorio una gigantesca tortaall’allora presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, per il suocompleanno. Ed è indubbiamente felice questa scelta di costrui-re il libro su ricche sezioni fotografiche, perché, in effetti, la visi-bilità delle donne nelle foto è il modo più immediato e più diret-to per contrapporre la composizione di genere di un sindacato,fatto di uomini e di donne, al linguaggio dei documenti scritti cheinvece, col loro essere declinati al maschile, questa realtà occul-tano e nascondono: così come restituiscono visibilità e concre-tezza ad alcune tra le principali protagoniste delle lotte sindacali(da Anna Maria Mozzoni a Donatella Turturra, da AlessandrinaRavizza a Nella Marcellino, da Anna Kuliscioff a Rina Picolato) leschede biografiche a loro dedicate. Accanto alle foto, ma con un percorso autonomo e parallelo, tro-viamo poi i saggi delle varie studiose, che indagano le diverseforme di presenza femminile nel sindacato, legate alle diverse fasistoriche: se Anna Scattigno e Barbara Imbergamo analizzano lapartecipazione femminile all’interno del movimento operaio dalsuo nascere fino all’avvento del fascismo e ne sottolineano laricerca di un ruolo autonomo, Simona Lunadei studia invece trediversi livelli di partecipazione delle donne al movimento operaionel ventennio fascista: quello costituito dalle lavoratrici dei setto-ri tradizionalmente femminili e organizzati (tabacchine, mondine,

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tessili); quello delle lavoratrici a domicilio e delle massaie ruralie, infine, quello delle intellettuali.Il saggio che si occupa della ricostruzione post bellica del sinda-cato (ne è autrice Luisa Righi) fa fuoco, invece, soprattutto sullecontraddizioni di genere che persistono anche all’interno delmondo sindacale, dalla difficile presenza delle donne all’internodegli organismi dirigenti alla difficoltà incontrata per far emerge-re temi quali la parità salariale, per troppo tempo etichettati dallostesso sindacato come “demagogici”. Infine, Maria GraziaRuggerini e Nadia Caiti affrontano le tematiche della stretta con-nessione tra diritto del lavoro e diritto di cittadinanza, mentre èFrancesca Koch a chiudere il testo con un’interessante riflessionesul ruolo sempre più attivo esercitato dalle pensionate all’internodello SPI e dell’intero sindacato: la loro autopercezione come sog-getti attivi e risorsa per l’intera società è una rasserenante nota diottimismo con cui rileggere in positivo tutto il complesso e arti-colato percorso che il volume ci restituisce.

Graziella Gaballo

Andrea Guiso, La colomba e la spada. “Lotta per la pace” e antiamericanismonella politica del Partito comunista italiano (1949-1954), Soveria Mannelli,Rubbettino, 2007; pp. XXVIII-686, 38.

In questi ultimi anni, dopo il riesplodere di imponenti manifesta-zioni pacifiste nel nostro paese in occasione dell’impegno militaredelle Forze armate italiane in Iraq, e soprattutto dopo che similimanifestazioni giocarono un ruolo di primo piano nella rivitalizza-zione dell’opinione pubblica di sinistra dopo la sconfitta elettoraledel 2001, si sente il bisogno di una riflessione storica sulle espe-rienze pacifiste di massa vissute nell’opinione pubblica italiana apartire dal dopoguerra, così da inserire questi ultimi episodi in unpiù ampio contesto che ne spieghi origini e aspetti peculiari.

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In particolare, dopo che il tema ha conosciuto un ventennio diquasi totale disinteresse, appare necessaria una ricostruzionepuntuale e precisa delle grandi manifestazioni antibelliciste orga-nizzate nel periodo tra la firma del Patto atlantico e la guerra diCorea dalla grande organizzazione internazionale dei “Partigianidella pace”. Il volume di Guiso, qui presentato, costituisce daquesto punto di vista un contributo essenziale. Frutto di unaricerca scrupolosa portata avanti per diversi anni nelle principalisedi archivistiche italiane per la storia politica, dall’Archivio cen-trale dello Stato a quello dell’Istituto Gramsci, il saggio offre unaricostruzione completa delle grandi campagne di “lotta per lapace” presentate all’opinione pubblica dal Comitato italiano deiPartigiani, come le raccolte di firme contro la ratifica del Pattoatlantico, per la “petizione di Stoccolma” sull’interdizione dell’ar-ma atomica effettuata nel 1950 e per il “patto di pace” tra le cin-que grandi potenze mondiali proposto nel 1951.Nella ricostruzione dell’autore, la vita del movimento deiPartigiani della pace in Italia si confonde con la vita interna delPartito comunista italiano: in effetti il movimento era composto ingran parte da quadri del PCI e del PSI, e l’impegno nelle campa-gne delle capillari strutture organizzative e propagandistiche delPCI fu la chiave per il loro successo nel nostro paese. Attraversola sensibilizzazione dell’opinione pubblica contro la guerra, i par-titi della sinistra marxista poterono ricominciare un dialogo conla società italiana dopo la bruciante sconfitta del 18 aprile 1948,e riuscirono a suscitare interesse anche in ambienti culturalmen-te molto distanti da loro, come il mondo cattolico e i settorinazionalisti di destra contrari alla dipendenza militare daWashington.Nella sua analisi, però, Guiso affianca a queste considerazionianche le altre facce dello stretto rapporto tra Partito comunista ePartigiani della pace. In primo luogo, l’orientamento delle cam-pagne antibelliciste subì l’influenza dell’elaborazione ideologicadel comunismo internazionale sulla pace e sulla guerra. Nel corsodel primo conflitto mondiale, le meditazioni di Lenin avevano

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elaborato una concezione in base alla quale la guerra era direttaconseguenza delle tensioni generate del capitalismo “maturo”; sutali basi, negli anni dello stalinismo la concezione di lotta anti-bellicista del comunismo internazionale aveva poi finito per svi-lupparsi in senso sempre più chiaramente filosovietico, dalmomento che un effetto del capitalismo non avrebbe potuto esse-re eliminato se non con il sostegno al paese del socialismo, in cuisi sperimentava un’alternativa alla società dello sfruttamento.Nella visione di Guiso, il favore incondizionato dei Partigianidella pace (italiani e stranieri) per una simile impostazione ideo-logica finisce per trasformare il loro movimento in una sorta distrumento della politica internazionale del regime di Mosca, chelo finanziava e lo sosteneva sul piano internazionale.Alimentando le mobilitazioni pacifiste il governo sovietico avreb-be pensato di poter indebolire il fronte antisovietico nell’opinio-ne pubblica dei paesi occidentali, e in alcuni casi avrebbe anchetentato (con risultati meno soddisfacenti) di ostacolare concreta-mente le prime operazioni di riarmo italiane, per mezzo di ini-ziative come il boicottaggio degli sbarchi di armi americane ten-tate dalle associazioni dei portuali di sinistra tra il 1950 e il 1951.Insistendo (peraltro con un costante e preciso richiamo alla docu-mentazione più adeguata) su questi aspetti indubbiamente assairilevanti nella vicenda del movimento per la pace degli anniCinquanta, Guiso finisce spesso per sottovalutare un altro ele-mento la cui comprensione è indispensabile per capire il sostan-ziale successo delle campagne antibelliciste della sinistra italiana:il fatto che le mobilitazioni dei Partigiani fossero in grado di inter-cettare il diffuso sentimento di paura per le possibili sorti dell’u-manità di fronte alle tensioni della guerra fredda e al rischio ato-mico. Sarebbe sicuramente utile approfondire l’analisi inserendole iniziative dei Partigiani nel contesto nazionale italiano, dovemolte altre forze politiche e gruppi culturali si occuparono delrischio di un terzo conflitto mondiale. Un altro appunto che sipuò muovere all’opera riguarda proprio il riferimento continuo,forse sovrabbondante, alle fonti archivistiche esaminate: in molti

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casi lo studio degli sviluppi e dei meccanismi organizzativi dellediverse mobilitazioni pacifiste è appesantito dalla descrizionedelle varie iniziative locali o individuali, che spesso aggiungonopoco al discorso principale ma rischiano invece di appesantire erendere farraginosa la lettura.A parte questi aspetti discutibili, il giudizio sul lavoro di Guiso èpositivo: il suo studio costituirà sicuramente un punto di riferi-mento per la conoscenza di un momento della storia delNovecento italiano, che per troppi anni non ha trovato l’atten-zione che la sua importanza meritava.

Andrea Mariuzzo

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a cura di Aldo Perosino

Eisenstein B., Sono figlia dell’Olocausto, Milano, Guanda, 2007; pp.191, Euro 17.

Il libro ripercorre con parole e disegni la storia della sua famiglia.Una famiglia di ebrei polacchi che, paradossalmente, si formapartendo da un luogo di sterminio come Birkenau, dove la gio-vane che diventerà sua madre, rovistando fra oggetti accatastati,trova un anello maschile. Lo regalerà a suo marito, anch’egliscampato ad Auschwitz, nel giorno del matrimonio e si trasferi-ranno in Canada. Significativa una illustrazione nella quale l’au-trice rappresenta se stessa seduta in cima ad una pila di libri sullaShoah intenta a pensare: “Se solo i miei genitori mi avessero lettodei libri prima di andare a letto..”.

De Bonis M., L’immagine della memoria - La Shoah tra cinema e fotografia,2007, Roma, Ed. Onix; pp. 186, Euro 20.

Il cinema e la fotografia possono utilmente rappresentare il dram-ma della Shoah? Scopo di questo libro è “di fornire strumenti vali-di per interpretare questa complicata materia, di dare spunti diriflessione che servano ad alimentare il dibattito culturale?. Unsaggio molto chiaro, scritto con grande competenza.

Gutman I., Gutterman B., Pezzetti M., (a cura di), Album Auschwitz,Torino, Einaudi, 2008; pp. 255, Euro 35.

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È la riproduzione del servizio fotografico realizzato dalle SS perdocumentare l’arrivo dei treni ad Auschwitz e la selezione deideportati. Le persone riprese sono ebrei ungheresi. Lili Jacob,sopravvissuta alla Shoah trovò l’album alcuni giorni dopo la finedella guerra e lo donò successivamente alla Yad Vashem che siimpegnò a dare un nome alle persone ritratte.

Laskier R., La testimonianza ritrovata di una ragazza quattordicenne deporta-ta ad Auschwitz, Milano, Bompiani, 2007; pp. 173, Euro 12.

È il diario ritrovato di una ragazzina quattordicenne rinchiusa nelghetto di Bedzin costretta a lavorare fino al momento del traspor-to per Auschwitz, dove morirà un mese dopo.

Luzzato A., Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra, Milano,Mursia, 2008; pp. 280, Euro 17.

Ottanta anni di vita e una autobiografia. Testimonianze non solodel suo privato, ma anche un pezzo di storia dell’ebraismo italia-no e della sinistra del dopoguerra. Un’esperienza di vita, dall’im-pegno culturale a quello professionale che lo porteranno ad affer-marsi come chirurgo in vari ospedali italiani. Il testo è una paginainedita di come un intellettuale, ebreo di sinistra, come lui si defi-nisce, diventi uomo delle istituzioni, quando nel 1998 sostituiràTullia Zevi a capo dell’Unione delle comunità ebraiche italiane.Molto interessante la parte che narra la decisione – la scelta piùdifficile – di accompagnare Fini in Israele, pur sapendo delle pole-miche che avrebbe suscitato dentro la comunità ebraica italiana.Scrittura piacevole, diretta, senza peli sulla lingua.

Salerno E., Uccideteli tutti. Libia 1943: nel campo di concentramento fascista diGiado. Una storia italiana, Milano, Il Saggiatore, 2008; pp. 239, Euro 17.

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L’autore ricostruisce quanto avvenne agli ebrei libici, allorchéfurono rinchiusi nel campo di concentramento di Giado, a sud diTripoli. Molti di loro morirono di stenti, maltrattamenti, epidemie.Il loro destino doveva essere la morte, ma l’arrivo degli alleatiinterruppe l’orrendo progetto.

Vaglio G., Le parole e la memoria La memorialistica della deportazionedall’Italia 1993-2007, Torino, editore EGA, 2007; pp. 176, Euro 20.

A distanza di 14 anni dall’uscita del volume di Anna Bravo eDaniele Jalla Una misura onesta, che era un censimento di tutte leopere scritte da protagonisti e testimoni della deportazione neilager nazisti, Guido Vaglio, direttore del Museo Diffuso dellaResistenza di Torino, ne ha curato un aggiornamento prendendoin esame i volumi stampati dal 1993 al 2007. Con rigorosa dili-genza Vaglio ha composto l’elenco di tutti i volumi apparsi nelperiodo citato, facendo seguire all’indicazione bibliografica di cia-scuna opera (autore, titolo, editore, data, pagine, prezzo) unbreve resoconto del suo contenuto. Un lavoro utilissimo, neces-sario per ulteriori studi e ricerche, un valido strumento di docu-mentazione e consultazione.

Valori G.E., Mediterraneo tra pace e terrorismo, Milano, Rizzoli, 2008, pp.310, Euro 19.50.

Culla delle civiltà, crogiuolo di popoli, di religioni e di culture, ilMediterraneo è il mare delle origini nel senso più autentico del-l’espressione, una grande madre a cui ricondurre la nostra storia.Nel suo nuovo saggio, Giancarlo Elia Valori ripercorre gli oltreduemila anni di storia – dalle guerre puniche all’odierno jihad –che hanno visto il “Mare Nostrum” al centro delle dinamiche geo-politiche mondiali: prima da protagonista, quando le grandipotenze si affacciavano alle sue sponde e le sue acque erano la

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principale via di trasporto di uomini e merci, poi da attore mino-re, quando il suo bacino fu messo in disparte dalla scoperta dinuove rotte, nuove terre e nuove risorse e i paesi rivieraschi vide-ro il declino della loro influenza politico-militare. Oggi, però, lecose sono cambiate. In un mondo in cui la religione è tornata adavere un ruolo predominante, il mare sulle cui sponde si sonosviluppati i tre più grandi monoteismi è di nuovo centrale. Perquesto, Valori dà risalto, fin dal titolo, all’antinomia tra pace e ter-rorismo, e con una serrata argomentazione individua in Israele ilpunto di riferimento dell’Occidente. Il volume è introdotto da unaprefazione del Presidente dello Stato di Israele Shimon Peres.

Sarfatti M., (a cura di), La Repubblica sociale italiana a Desenzano:Giovanni Preziosi e l’Ispettorato generale per la razza, Firenze, Giuntina,2007; pp. 220, Euro 20.

L’Ispettorato generale per la razza venne creato da BenitoMussolini nel marzo 1944, durante la Repubblica sociale italiana,col compito di intensificare le campagne antiebraica, razzista ingenere, antimassonica. Il dittatore nominò Ispettore generale perla razza Giovanni Preziosi, decano degli antisemiti italiani.L’Ispettorato ebbe sede nel comune di Desenzano del Garda e fuattivo fino all’aprile1945. Questo volume contiene le relazionipresentate all’omonimo Convegno di studi, tenutosi a Desenzanoil 24 gennaio 2007 in occasione del “Giorno della memoria” eorganizzato dal comune di Desenzano del Garda e dallaFondazione centro di documentazione ebraica contemporaneaCDEC di Milano, entrambi mossi dal desiderio di conservarememoria e sviluppare le conoscenze sull’Ispettorato e su Preziosi.Si tratta del primo convegno in assoluto sul tema. Il volume con-tiene saggi di studiosi qualificati, quali Gaetano Agnini, FrancescoCassata, Francesco Germinario, Liliana Picciotto, Mauro Raspanti,Marino Ruzzenenti e Michele Sarfatti, che mettono a fuoco temiquali la politica antiebraica della Repubblica sociale italiana, la

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sua attuazione in provincia di Brescia, l’attività dell’Ispettoratogenerale per la razza nel 1944-1945, il pensiero e gli scritti anti-semiti di Preziosi, la sua collocazione nel contesto dell’antisemi-tismo italiano. Per oltre dodici mesi Preziosi e l’Ispettorato incre-mentarono la propaganda e l’elaborazione antiebraica dellaRepubblica sociale italiana, fornendo un retroterra importante enecessario alle parallele azioni di arresto, internamento e depor-tazione degli ebrei. Questo volume ricostruisce cosa effettiva-mente fecero e quali erano i loro obiettivi.

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