QUADERNO DI APPUNTI DI FILOSOFIA POLITICA DI... · DI FILOSOFIA POLITICA PRODUZIONE E RIPRODUZIONE....

89
1 QUADERNO DI APPUNTI DI FILOSOFIA POLITICA PRODUZIONE E RIPRODUZIONE. GENEALOGIE E TEORIE FEDERICA GIARDINI GEA PICCARDI

Transcript of QUADERNO DI APPUNTI DI FILOSOFIA POLITICA DI... · DI FILOSOFIA POLITICA PRODUZIONE E RIPRODUZIONE....

1

QUADERNO DI APPUNTI DI FILOSOFIA POLITICA

PRODUZIONE E RIPRODUZIONE. GENEALOGIE E TEORIE

FEDERICA GIARDINI GEA PICCARDI

2

INDICE

INTRODUZIONE

I. GENEALOGIE

I.1 VITA POLITICA E ATTIVITA’ UMANE Aristotele, Arendt I.2 LAVORO E CITTADINANZA Locke, Pateman I.3 PRODUZIONE E SOCIETA’ Marx, Weber, Polanyi

II. LE SOCIETA’ CONTEMPORANEE II.1 LA SVOLTA LINGUISTICA Rossi Landi, Marazzi II.2 L’IMMMATERIALE E IL COGNITIVO Gorz, Virno II.3 POLITICHE DEI CORPI E DELLA VITA Foucault II.4 IL RITORNO DELL’ECONOMIA MORALE Foucault, Lazzarato

III. LA RIPRODUZIONE COME PARADIGMA

III.1 IL DIVENIRE DELLA RIPRODUZIONE Marx, Althusser III.2 L’INVISIBILE DELLA PRODUZIONE Del Re III.3 MORALE E POLITICA: LA CURA Gilligan, Tronto, Morini III.4 LA VITA MESSA A VALORE Cooper-Waldby, Duden III.5 ECONOMIA E CITTADINANZA Fraser, Pateman III.6 LA RIPRODUZIONE COME PARADIGMA Federici, Simone-Giardini

3

INTRODUZIONE In che termini concepire le trasformazioni delle relazioni e delle attività che costituiscono la posizione che ci individua? E’ indubbio che questa epoca sia caratterizzata - a livello infrasociale e planetario - da una drastica riconfigurazione dell’organizzazione sociale e produttiva. Un cambiamento che fa sentire i propri effetti ancora di più per quegli ordinamenti politici che, nella seconda metà del XX secolo, hanno fondato la cittadinanza sul principio del lavoro. Il primo passo consiste nello storicizzare questi cambiamenti. Ciò che oggi viene evocato sotto il titolo di “società della conoscenza”, va infatti considerato non come un fenomeno inedito da esaminare in modo statico, autoreferenziale: un presente che troverebbe i termini dell’analisi solo dal proprio interno. Al contrario, la messa in prospettiva, la scoperta di categorie pertinenti, si rende disponibile nel momento in cui questi cambiamenti sono inseriti in un quadro di più ampia portata: la questione cioè dei modi in cui gli esseri umani hanno provveduto a rappresentare e ordinare le attività necessarie alla vita associata, in relazione, e al vivere in generale. E’ così che, in un secondo momento, può emergere come le differenti forme secondo cui si danno attività e relazioni siano tutt’altro che avvicendamenti pacifici e “naturali”. Che siano i “barbari”, le donne, i poveri, gli operai, gli stranieri o, oggi, i “migranti”, attraverso i secoli si rivela come l’ordine costituito e legittimato risulti da una serie di operazioni, teoriche, politiche ed economiche, che selezionano quali attività e quali relazioni siano degne di entrare nel conto della vita associata. Il taglio adottato in questa rassegna di teorie filosofiche e politiche è di natura genealogica: è a partire dalle contraddizioni del presente che altre epoche diventano significative per l’analisi e l’apertura di prospettive. Più precisamente, la tensione che si manifesta nella tarda modernità attraverso la coppia “produzione-riproduzione”, sembra particolarmente adatta per cogliere le operazioni di selezione, di inclusione ed esclusione rispetto a ciò che è considerato necessario per la vita associata e ciò che non lo è, tra ciò cui viene attribuito un valore e ciò che non arriva alla soglia della considerazione, in breve, tra ciò che viene riconosciuto come umano e ciò che invece rimane nel limbo del disponibile (che siano le risorse naturali, il lavoro femminile, le prestazioni sottopagate o svolte in regime di mancata cittadinanza). Una economia politica in senso proprio, dunque. Se per economia assumiamo il campo degli scambi che costituiscono la vita associata e per politica intendiamo le forme con cui, di volta in volta, l’economia si rappresenta, si delinea, include ed esclude i soggetti e recepisce e orienta le relazioni tra loro, ci collochiamo in un punto di avvistamento sul presente che già mette in questione le rappresentazioni correnti. Non si tratterebbe infatti di uno scontro tra due dimensioni contrapposte - l’economia e la politica - bensì delle diverse configurazioni che possono assumere nella loro ineliminabile compresenza. Dotarsi di strumenti per considerare in modo appropriato le attività e relazioni con cui siamo confrontati, in definitiva significa aprire a una prospettiva più ampia rispetto alla narrazione presente che individua ciascuno e ciascuna come un homo oeconomicus, naturalmente incline alla massimizzazione del proprio utile, attraverso relazioni di calcolo, concorrenza e competizione.

4

GENEALOGIE

I.1 VITA POLITICA E ATTIVITA’ UMANE ARISTOTELE. L’ordine delle attività

La questione della produzione e riproduzione trova nella Politica di Aristotele un’ articolazione canonica, per

gli elementi che circoscrive e nomina, e una sistemazione che può essere storicizzata. In effetti, mentre le

articolazioni concettuali ricorreranno nei secoli successivi – dalla generazione alla famiglia, dalla vita

materiale e la sussistenza alla vita qualificata, dalle relazioni di scambio alle relazioni di proprietà e potere -

la ripartizione delle attività conoscerà una profonda trasformazione in epoca moderna.

Tra gli elementi concettuali, va innanzitutto segnalata la dimensione collettiva: qualsiasi attività umana va

sempre considerata come iscritta in un gruppo umano, che sia la famiglia, il villaggio come insieme di

famiglie o la città. Non si tratta di attività, dunque, imputabili a un individuo, ma di aspetti di una funzione

generale che viene in ultimo svolta da quella comunità politica che è la città. È proprio per questa

caratterizzazione - dichiarata e posta come principio di analisi all'inizio del Primo libro - che le attività

considerate sono insieme economiche e sociali: il generare, il fare, l'agire sono attività strettamente

connesse al loro governo, al comando e alla decisione in merito all'orientamento, al loro fine e alla loro

esecuzione.

E’ da questa prima caratterizzazione che discende l’oggetto primario della trattazione, l’oikosnomia. La

famiglia è un gruppo composto da schiavi e liberi, legati da rapporti di generazione e di produzione. Il

cittadino greco vi compare infatti come marito, padre e padrone ed è preposto a diversi tipi di comando:

quello tra pari con la moglie nel comando delle attività dell’oikos, quello “regio” nei confronti dei figli e, infine,

quello dispotico nei confronti degli schiavi.

L’oikosnomia individua dunque una sfera costituita al contempo da attività e da relazioni.

Le attività che si svolgono in questa sfera si dispongono lungo una distinzione che ha conosciuto una ripresa

nei dibattiti contemporanei: la generazione e produzione è volta a “rendere possibile la vita (zoé)” per

produrre le condizioni di una buona esistenza (bios), di quella vita che “è azione e non produzione” (1253b).

Vengono così suddivise le attività di sussistenza, quelle relative alla vita fisiologica e materiale – la

generazione (o riproduzione biologica) e la produzione di beni - e le attività legate alla vita associata – l’agire

e il discutere in vista di una decisione.

E’ lungo questa distinzione tra sussistenza e vita associata, che si colloca la distinzione tra oikos e polis, che

non sancisce tuttavia una mutua esclusione, bensì una complementarietà: la prima, pur essendo la sede di

ciò che rende possibile la seconda, contempla attività e figure che non fanno, non possono fare, parte della

seconda: “la politica non fa gli uomini ma ne fa uso” (1258a, 10) ed è preposta ad orientarne il fine.

La ripartizione aristotelica di attività e relazioni viene radicata nella vita fisiologica e materiale – il villaggio

quale insieme di famiglie è la “comunità che si costituisce per la vita di tutti i giorni” (1252b) e si poggia sulle

disposizioni naturali al comando e all’obbedienza, anche in virtù della presenza della facoltà dirimente per la

vita associata umana, la capacità di deliberare, di discutere in vista di una decisione, ovvero il “principio del

comando”. Tuttavia non è la zoé il fine della comunità, bensì il bios così come si svolge nelle relazioni tra chi

dispone di questa capacità, unico titolare e partecipe della vita associata propriamente detta, della politica.

Alle forme della relazione si aggiunge così quella della proprietà, quell’”insieme di strumenti” che sono mezzi

per conseguire la sussistenza necessaria al vivere bene (1253b 4). Gli strumenti – inanimati come gli attrezzi

e animati come gli schiavi – hanno una finalità produttiva, cioè portano a un risultato che aggiunge qualcosa

5

alle condizioni iniziali, il bene; la proprietà, di contro, come relazione è uno “strumento d’uso” (ivi), che non

produce nulla se non per l'appunto l’uso dello strumento stesso. E’ così che Aristotele può ulteriormente

distinguere la vita come azione e non produzione di beni, da una parte, e distinguere le sfere dell’oikos e

della polis. Una distinzione che, in questa veste, ritroveremo nei secoli successivi tra le arti servili e le arti

liberali.

Nell’approccio organicistico di Aristotele la proprietà, come relazione rispetto ai beni e al loro uso, è parte di

un ulteriore ambito, che viene definito crematistica, ovvero l’ambito dell’uso della ricchezza, intesa come

“insieme degli strumenti della famiglia e della città” (1258 a 8). Se si intende il termine uso quale fine delle

attività, ecco che si delinea l’ambito di intersezione e di primazia della politica sull’oikosnomia: mentre la

seconda si limita alla produzione e al consumo dei beni prodotti, la seconda è preposta alla deliberazione

sullo scambio di tali beni, lo scambio non essendo presente nell’oikos. Lo scambio che, strettamente inteso,

avviene solo con la mediazione della moneta (1258 a 9), ha la finalità di estendere illimitatamente la

proprietà di mezzi, vale a dire la ricchezza, che si acquisisce in ambiti quali il commercio, il prestito a

interesse e il lavoro salariato. In altri termini, le specifiche competenze della politica e dell’attività che la

caratterizza in quanto tale, l’azione non produttrice di beni, è simile ed eccedente alle attività di scambio, in

quanto preposta all’esercizio della decisione tramite deliberazione, all’orientamento delle attività generative,

produttive, improduttive e riproduttive delle relazioni.

6

Aristotele, La politica (IV secolo a.C.) – INFRATESTO TUTTO IL CAPITOLO

Poiché sono evidenti gli elementi dei quali consiste la città, è necessario parlare in primo luogo

dell’amministrazione della famiglia, dal momento che la città è costituita da famiglie (1253b).

Poiché ogni oggetto deve essere indagato dapprima nei suoi elementi minimi, e poiché le parti prime e

minime della famiglia sono il padrone e lo schiavo, il marito e la moglie, il padre e i figli, bisogna indagare su

questi tre elementi per vedere quale sia la natura di ciascuno di essi e la qualità che deve possedere. Questi

tre elementi danno luogo ai rapporti di padronanza, di coniugalità (...) e in terzo luogo di paternità (...). Siano

dunque questi i tre elementi dì cui dicevamo. Ma ce n’è un quarto che ad alcuni sembra esaurire in sé tutta

l’amministrazione domestica, ad altri pare costituire la parte più importante di essa: bisogna indagare come

stanno le cose. Intendo alludere alla cosiddetta crematistica (...).

4. Poiché dunque la proprietà è parte della famiglia e l’arte di acquistare proprietà è parte dell’arte

dell’amministrazione domestica (perché senza il necessario è impossibile vivere e vivere bene), come le

tecniche definite per scopi particolari hanno bisogno di strumenti appropriati, se vogliono portare a

compimento il loro compito, così anche le tecniche concernenti l’amministrazione della famiglia hanno

bisogno di strumenti alcuni dei quali sono animati e altri inanimati: per esempio il pilota di una nave si serve

di uno strumento inanimato, come il timone, e di uno animato come la vedetta (perché l’aiutante nelle attività

tecniche rientra nella categoria degli strumenti). Così anche le proprietà sono strumenti per la vita e la

proprietà in quanto tale è l’insieme degli strumenti, lo schiavo è una proprietà animata e ogni aiutante è

come uno strumento che precede e condiziona gli altri strumenti. (…) Gli strumenti in senso proprio sono

strumenti produttivi, mentre la proprietà è uno strumento d’uso: cioè dalla spola si ottiene qualcos’altro oltre

l’uso della spola, mentre dalla veste e dal letto deriva soltanto l’uso di essi.

Indaghiamo ora in generale la proprietà intesa complessivamente e la crematistica (...). Innanzitutto

qualcuno potrebbe porre il problema se la crematistica sia identica con l’amministrazione domestica o se ne

sia una parte o se le sia subordinata (...). Che l’amministrazione domestica e la crematistica non siano

identiche è chiaro: infatti all’una spetta procurare beni, all’altra usarli; e quale arte se non l’amministrazione

domestica sovraintenderà all’uso delle proprietà familiari? E si discute se la crematistica sia una parte

dell’amministrazione domestica o un’altra specie di attività rispetto ad essa. Infatti spetta alla crematistica

considerare le fonti delle ricchezze e della proprietà, e la proprietà e le ricchezze comprendono molte parti

(...).

Una sola specie di acquisto è una parte naturale dell’amministrazione domestica: quella che si deve

praticare o che ci si deve mettere in condizione di poter praticare per raccogliere i mezzi necessari alla vita e

utili alla comunità politica e familiare. Ed è ragionevole affermare che la vera ricchezza consiste in questi

mezzi. La quantità di simili mezzi sufficiente per una vita buona non è infinita (...).

Infatti un confine è stabilito in questo caso come per tutte le altre arti, dal momento che nessuno strumento

di nessuna arte è illimitato per numero e per grandezza, e la ricchezza è l’insieme degli strumenti della

famiglia e della città. È allora chiaro che c’è un’arte naturale di acquisto propria degli amministratori

domestici e dei politici; per quale ragione essa ci sia, è altrettanto chiaro.

9. C’è un altro modo di acquistare ricchezza, che giustamente è stato chiamato crematistica nel senso

pregnante del termine: in virtù di essa pare che non ci sia nessun limite alla ricchezza e all’acquisto della

proprietà. Molti credono che sia assolutamente identica con quella di cui abbiamo parlato prima, per la sua

affinità con essa: in realtà, se non è identica con quella, non ne è neppure troppo lontana. La prima è un

modo naturale per acquistare beni, la seconda no, ma deriva piuttosto dall’esperienza e dall’arte.

Cominciamo di qui a trattarne. Di ogni proprietà è possibile un doppio uso, l’uno e l’altro inerente dell’oggetto

di per sé, ma non nello stesso modo, in quanto uno è proprio e l’altro improprio rispetto alla cosa usata, per

esempio una calzatura può essere calzata o scambiata con altri prodotti. L’uno e l’altro sono usi della

7

calzatura, perché chi la scambia con chi ne ha bisogno, traendone denaro o nutrimento, usa la calzatura in

quanto calzatura, ma non ne fa uso proprio, dal momento che essa non è stata fatta per essere scambiata.

La stessa cosa accade anche per le altre proprietà. Lo scambio viene esercitato con tutti i tipi di proprietà, a

cominciare dal fatto naturale che alcuni hanno più, altri meno di quel che occorre. Dal che è chiaro che il

commercio al minuto non è una parte naturale della crematistica, perché in esso era necessario esercitare lo

scambio di quanto bastava a ciascuno.

Nella prima forma di comunità (che è la famiglia) non sussiste evidentemente la funzione propria dello

scambio, che invece c’è nelle forme di comunità già più estese. I membri della famiglia infatti hanno tutte le

cose in comune, quelli delle altre forme di comunità invece, vivendo separati, posseggono molte cose

diverse gli uni dagli altri; e proprio di esse è necessario fare scambi secondo i bisogni, come ancora fanno

molti popoli barbari servendosi del baratto. Essi danno cose utili in cambio di cose utili, non andando oltre

questa forma di commercio, limitandosi per esempio allo scambio di vino contro grano o altre cose del

genere. Questa forma di scambio non è innaturale e non appartiene neppure alla crematistica, in quanto è

volta a soddisfare le condizioni naturali dell’autosufficienza, ma logicamente da questo tipo di scambio è

derivata la crematistica (...).

Procurato il denaro, dallo scambio praticato per necessità sorse un’altra specie di crematistica, il commercio al minuto che,dapprima forse rudimentale, in seguito con l’esperienza apprese l’arte di riconoscere da dove e come aumentare di molto il guadagno. Perciò pare che la crematistica concerna soprattutto il denaro e che suo compito sia il poter indagare d’onde sia possibile acquistare abbondanza di ricchezza, perché è essa stessa produttrice di ricchezza e denaro. E spesso si afferma la coincidenza della ricchezza con l’abbondanza di denaro, appunto perché al denaro mirano la crematistica e il commercio. Talvolta, al contrario, il denaro pare una cosa vana e puro frutto di convenzione, senza un fondamento naturale, perché, se quelli che lo usano preferiscono una moneta ad un’altra, la prima perde valore e non serve più a soddisfare nessuna delle necessità della vita, e chi è ricco di denaro potrà spesso mancare del nutrimento necessario.

(...)

Che sono naturali, e appartengono all'amministrazione domestica, mentre la crematistica che si fonda sul commercio è produttrice di ricchezze non in senso assoluto, ma solo attraverso lo scambio di ricchezze. E pare che concerna il denaro, elemento e fine dello scambio. E questo tipo di ricchezza, che deriva da questa forma di crematistica, non ha limiti: infatti come la medicina persegue il risanamento senza porsi un limite e ciascuna arte cerca indefinitamente di raggiungere il suo scopo (in quanto ognuna vuole soddisfarlo nella misura più alta possibile), e tuttavia i mezzi per il raggiungimento del fine non sono infiniti (in quanto il fine agisce esso stesso da limite), così anche in questo tipo di crematistica non c’è confine al raggiungimento dello scopo, e lo scopo è il raggiungimento di questo tipo di ricchezza e l’acquisto di beni. Ma se non ce l’ha la crematistica, un limite ce l’ha l’amministrazione domestica, che non si pone lo stesso scopo che è proprio della prima. Perciò da una parte sembra necessario che ogni tipo di ricchezza abbia un limite, mentre in realtà avviene il contrario: infatti tutti quelli che si preoccupano di arricchire aumentano illimitatamente il loro denaro. La causa di ciò risiede nell’affinità di queste arti: infatti si passa dall’una all’altra, in quanto a entrambe appartiene l’uso della proprietà, sebbene dall’una e dall'altra essa non venga usata allo stesso modo, in quanto l’una si propone un fine che è estraneo alla proprietà stessa e l’altra si propone solo il suo accrescimento. Perciò ad alcuni sembra che questo sia il compito dell'amministrazione domestica e si continua a credere che essa debba salvaguardare o aumentare all’infinito la consistenza del patrimonio pecuniario. La causa di questo atteggiamento è l’affaticarsi intorno a quelle cose che permettono di vivere, senza preoccuparsi di vivere bene, e poiché il desiderio di quelle cose non ha limiti si desiderano mezzi produttivi illimitati. Ma quanti aspirano anche al vivere bene, cercano quanto può soddisfare i piaceri corporali e, poiché questo pare risiedere nella proprietà, si industriano in ogni modo nell’acquisto della ricchezza, dando così vita ad un’altra specie di crematistica. E poiché il piacere consiste in una sovrabbondanza, essi cercano i mezzi con cui produrre la sovrabbondanza che dà il piacere.

(Aristotele, La politica, Libro I, 1253b-1257b)

FINE INFRATESTO

8

HANNAH ARENDT. Una ripresa per il Novecento La classificazione aristotelica delle attività umane accomuna le attività produttive e riproduttive nell’ambito dell’oikos, distinguendo da queste la sfera degli scambi a mezzo denaro, da una parte, e la sfera del discorso volto alla decisione, come ambito propriamente politico. Arendt intende riprendere questa distinzione, nel suo ultimo versante, quello cioè che riconosce una specificità e dignità precisa a quelle “attività improduttive”, cioè né riproduttive né produttive, che sono le relazioni tra soggetti parlanti in una sfera pubblica. Non è inutile sottolineare un aspetto a prima vista ovvio: la ripresa di Aristotele non avviene in condizioni e urgenze immutate. Quali sono i mutamenti che spingono Arendt a questo “ritorno al futuro”? La risposta più breve suona “in nome della politica”. Per salvaguardare l’ambito del politico come condizione primariamente umana e che, per giunta, qualifica l’umano in quanto tale. E che cosa, secondo l’autrice, costituisce una minaccia a questa dimensione primariamente umana? Non deve sorprendere che la diagnosi negativa delle cause del male politico e dunque umano – il totalitarismo – che ha aggredito il XX secolo sia trattato sotto il doppio nome di Locke e di Marx. Per Arendt infatti, la piena umanità si sviluppa in relazioni e attività che non hanno nulla a che vedere né con la sussistenza – la risposta ai bisogni e le forme di organizzazione, l’amministrazione, di tali risposte – né con la produzione, le attività cioè che hanno per esito beni scambiabili. E’ necessaria un’avvertenza lessicale: nei testi arendtiani, lavoro designa le attività necessarie alla sussistenza, mentre opera include tutto ciò che produce un bene. Con questa distinzione vengono così incluse nella sfera che successivamente sarà definita produttiva, sia le attività legate alla vita fisiologica sia le attività legate alle relazioni di scambio dei beni. Il destino del polo riproduttivo è così segnato. Se in Locke è assunto come capacità di provvedere alla sussistenza del corpo da parte di individui già indipendenti e autonomi nel soddisfare i propri bisogni, in Marx la riproduzione della forza lavoro sarà evocata solo per la parte che insiste sul salario, cioè per la parte della retribuzione che copre non solo l’attività produttiva ma anche la possibilità che quella forza sia disponibile giorno dopo giorno. In Arendt, la riproduzione è condannata sotto diversi aspetti: come lavoro per la sussistenza, si tratta di attività ripetitive, senza significato, di competenza della specie umana come specie tra le specie (da cui l’espressione animal laborans); come oikosnomia, cioè come attività di organizzazione e gestione delle attività volte alla sussistenza e alla produzione di beni, in quanto agire utilitaristico, che non fa nessuna distinzione tra vita fisiologica (zoé) e vita qualificata dalla parola condivisa (bios); come sociale che, sulla scorta dei fenomeni del XX secolo che conducono alla Shoah, aggrega le individualità in una massa deprivata di capacità di valutazione e giudizio. La vita umana vera e propria, la vita politica, se è distante dalle attività di scambio, è ancor più distante da tutte quelle attività in cui è implicata la materialità dei corpi e dei beni.

9

Hannah Arendt, Vita activa (1958) – infratesto La distinzione che propongo tra lavoro e opera è insolita. L’evidenza fenomenica che la giustifica è troppo lampante per essere ignorata, e tuttavia storicamente è un fatto che, a parte qualche osservazione sparsa e oltretutto non sviluppata nelle teorie dei rispettivi autori, non c’è quasi niente né nella tradizione del pensiero politico premoderno, né nell’abbondante corpus delle moderne teorie del lavoro che permetta di convalidarla (...). La ragione per cui questa distinzione è stata trascurata nei tempi e il suo significato rimane così inesplorato, è abbastanza evidente. Il disprezzo per il lavoro originariamente scaturito da un impulso alla libertà dalla necessità, e da una insofferenza per ogni sforzo che non lasciasse alcuna traccia, alcun monumento, alcuna opera degna di rimembranza, si diffuse con le crescenti esigenze della vita della polis sul tempo dei cittadini e con la sua insistenza sulla loro astensione (skholé) da tutto ciò che non fosse attività politica, finché finì per riguardare qualsiasi cosa che richiedesse uno sforzo (...). Non deve sorprendere il fatto che la distinzione tra lavoro e opera fosse ignorata nell’antichità classica. La differenziazione tra la sfera domestica privata e la sfera pubblica e politica, tra il servo domestico che era uno schiavo e il capofamiglia che era un cittadino, tra le attività che dovevano essere tenute nascoste nell’ambito privato e quelle che meritavano di essere viste, sentite e ricordate, adombrava e predeterminava tutte le altre distinzioni, fino ad ammettere un solo criterio: la maggior parte di tempo e di energia è spesa in privato o in pubblico? (...) Con il sorgere della teoria politica i filosofi respinsero anche queste distinzioni, che avevano almeno tenute separate le attività, opponendo a tutti indistintamente i generi di attività la contemplazione. Con loro, anche l’attività politica fu ridotta al livello della necessità, che da allora divenne il denominatore comune di tutte le articolazioni della vita activa (...). È sorprendente a prima vista, tuttavia, che l’età moderna (...) non abbia prodotto una sola teoria in cui animal laborans e homo faber, “il lavoro del nostro corpo” e “l’opera delle nostre mani”, siano chiaramente distinti. Troviamo invece dapprima la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, poi più avanti la differenziazione tra lavoro specializzato e non specializzato, e infine la divisione, più importante delle precedenti perché di significato più elementare, di tutte le attività in lavoro intellettuale e manuale. Delle tre, tuttavia, solo la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo coglie il nocciolo della questione, e non è accidentale il fatto che i due maggiori teorici in questo campo, Adam Smith e Karl Marx, vi abbiano basato l’intera struttura della loro argomentazione. La vera ragione dell’elevazione del lavoro nell’età moderna fu la sua “produttività” (...). Distinti da entrambi, sia dai beni di consumo che dagli oggetti d’uso, esistono infine i “prodotti” dell’azione del discorso, che insieme costituiscono il tessuto delle relazioni e degli affari umani. Considerati isolatamente, essi mancano non solo delle altre cose, ma sono anche meno durevoli e più futili di ciò che diciamo per il consumo. La loro realtà si fonda interamente sulla pluralità umana, sulla presenza costante di altri uomini che possono vederli e sentirli e quindi testimoniare della loro esistenza. Agire e parlare sono inoltre manifestazioni esterne della vita umana, la quale conosce solo un’attività che, benché connessa in esterno, non si manifesta necessariamente in esso e non ha bisogno di essere vista, né sentita, né usata, né consumata per essere reale: l’attività del pensiero. Vita activa, Bompiani, Milano 1999, pp. 58-67. FINE INFRATESTO

10

I.2 LAVORO E CITTADINANZA JOHN LOCKE. Le capacità del corpo Anche in questo caso, come già per Aristotele, l’approccio scientifico vuole che si parli delle cose così come si danno. Se nel caso del primo era l’“essenza umana” a determinare l’attribuzione delle diverse attività, nel caso di Locke, la descrizione si attesta sullo “stato di natura”, stato originario dell’umanità, da cui tutto discende e si legittima. La priorità delle azioni è quella della sussistenza – che potremmo parafrasare come capacità e diritto di generare e rigenerare il proprio corpo, le sue capacità e il proprio benessere (Trattato del governo, V., 26). L’orizzonte in cui questa attività ciclica avviene è il Creato, ovvero le risorse naturali, in cui la specie umana è immersa. La questione tuttavia, si pone in termini squisitamente moderni: a chi spetta di godere di ciò che si dà? Se nell’antichità era questione prioritaria l’individuazione e la distribuzione dei compiti, qui invece è la titolarità dei beni prodotti a venire in primo piano. Mantenendo ancora per pochi passaggi l’ambiente dove si trova l’umano, Locke viene a dire che il creato è dato in modo indiscriminato (è comune) e tuttavia questa non è la sua autentica finalità, poiché si offre per l’utilità della rigenerazione del corpo umano. Con un salto argomentativo – che vedremo esaminato da Pateman – l’utilità è immediatamente connessa all’appropriazione da parte del singolo. Emerge così la questione principale del Trattato: come giustificare questa appropriazione? E’ così che entra in scena – e in effetti si tratta di una fictio, quella della scena precontrattuale – il corpo, definito come “lavoro e opera delle mani” (27), che non è soltanto una forza ma un’ulteriore risorsa, un bene, su cui l’individuo esercita il titolo di proprietà, di cui dispone come volontà ultima (questa una possibile definizione di proprietà). Raccogliere frutti, cacciare animali, in quanto opera delle mani, sono atti che “aggiungono” qualcosa al dato naturale, estendono e incorporano questa titolarità alla materia con cui vengono in contatto. Detto in altri termini, entrano a far parte, appartengono al corpo e dunque al proprietario del corpo. La forma di relazione che viene prospettata come primaria è dunque una relazione tra poli ben distinti per caratteristiche – attivo-passivo, proprio-disponibile - e che rimanda non all’attività e alle sue articolazioni, bensì ai suoi effetti: quella di reindividuare il titolare del godimento di quel bene. In altri termini, il lavoro compare come un sottoinsieme della relazione proprietaria: essendo il corpo la prima proprietà dell’individuo, date le capacità di trasformazione di questo corpo, ne discende che tutto ciò che viene trasformato rientra nella sfera di proprietà che viene esercitata sul corpo (35). La capacità del corpo – di questo corpo definito come produttivo – procede secondo un doppio vettore: da una parte prende dentro di sé la risorsa lavorata, il bene, la incorpora nella sfera proprietaria, dall’altra vi aggiunge qualcosa, il valore – “è il lavoro che crea in ogni cosa la differenza del valore” (40). Tutto ciò avviene in modo conseguente alla natura delle cose, tra le quali il corpo umano, senza che debba intervenire alcun accordo o decisione condivisa – altrimenti un padre dovrebbe chiedere permesso a tutti i membri della comunità per poter sfamare i propri figli (29). Invece, attraverso la mediazione del corpo individuale, l’appropriazione si autolegittima, secondo “legge naturale” (28-35). E’ il primo livello di legittimazione sostanziale, naturale, della proprietà. Questa si configura come individuale, come si è visto, ma anche esclusiva, in virtù della discernibilità dei corpi – dove può uno non può l’altro (34). In altri termini, l’appropriazione originaria non richiede consenso, essendo questo un momento dell’ordine convenzionale – risultante da un accordo e dunque non naturale - della politica. Quanto può questa capacità del corpo? Può estendersi indefinitamente fin dove permette la sua specifica forza fisica, o dove può estendersi attraverso l’ingegno e l’astuzia, oppure si dà un limite all’incorporazione delle risorse? Il limite, in prima istanza, è dato dalle risorse stesse: essendo deperibili a poco vale accumularle oltre all’uso che se ne può realisticamente e fisiologicamente fare (31). Nello stato di natura, dunque, le attività umane per quanto si articolino a partire dal principio dell’appropriazione individuale, prevedono tuttavia una distribuzione equilibrata tra sfere proprietarie, in quanto ciascuna è limitata: la risorsa per via della sua deperibilità, e il corpoper via della determinatezza dell’uso che può faredella risorsa stessa. Il limite intrinseco all’accumulazione è però superato, sottratto al campo della legislazione naturale, in virtù di tre principi: soggettivo, il corpo tende a più di quanto gli sia necessario, a più che la mera sussistenza (37); oggettivo, il corpo può estendere le proprie capacità, anche nell’uso delle risorse, dotandosi di strumenti

11

(43); e infine, semiotico o convenzionale, inventando una risorsa che non abbia il limite della deperibilità, il denaro (48). Contrariamente a quanto generalmente considerato, nel pensiero lockiano è la possibilità che si viene ad aprire un’accumulazione illimitata a rendere “necessario il consenso tra comproprietari” (35). La politica compare dunque come momento secondo e regolativo dell’instabilità determinata dall’espansione delle capacità produttive del corpo e delle relazioni di scambio che conseguono all’introduzione di una “merce speciale”, il denaro. Va infine sottolineato come questa blanda funzione equilibratrice del politico comporti una concezione dell’economico, che assumerà una rilevanza sempre più significativa, quale estensione e sviluppo della stessa natura umana, in breve una concezione naturalizzata dell’economico.

12

John Locke, Trattato sul governo (1690) - INFRATESTO 25. Gli uomini, una volta nati, hanno diritto alla sopravvivenza, e dunque a cibo, bevanda e a tutto ciò che natura offre per la loro sussistenza; (...) 26. Dio, che ha dato la terra in comune agli uomini, ha dato loro anche la ragione, onde se ne servissero nel modo più vantaggioso per la vita e il benessere loro. La terra, e tutto ciò che essa contiene, viene data agli uomini per la sussistenza e il piacere di vivere (...) dato che tutto ciò è inteso all’utilità degli uomini, dev’esserci di necessità un mezzo di appropriarselo in un modo o nell’altro, prima che possa essere d’un qualche vantaggio o beneficio a un singolo individuo. Il frutto o la preda di cui si nutre il selvaggio indiano, che non conosce recinzioni e possiede ancora in comune la terra, se deve in qualche modo giovargli per la sussistenza, deve appartenergli, e appartenergli (essere cioè parte di lui) in modo che nessun altro possa avervi più diritto (...). 27. Benché la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, ciascuno ha tuttavia la proprietà della sua persona: su questa nessuno ha diritto alcuno all’infuori di lui. II lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi. Qualunque cosa dunque egli tolga allo stato in cui natura l’ha creata e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli appartiene, e con ciò se l’appropria. Togliendo quell’oggetto dalla condizione comune in cui la natura Io ha posto, vi ha aggiunto col suo lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini (...). 31. A ciò si obietterà forse che, se la raccolta delle bacche o di altri frutti della terra costituisce un diritto sopra di essi, allora chiunque può accumularne a suo piacimento. Al che rispondo no. La stessa legge di natura, che in questo modo ci conferisce la proprietà, vi pone pure dei limiti (...). 36. La natura ha ben fissato la misura della proprietà in proporzione al lavoro degli uomini e ai beni d’uso della vita. Nessuno col suo lavoro può sottomettersi o appropriarsi di tutto; né col consumo può fruire più che d’una piccola parte. Era dunque impossibile che qualcuno usurpasse il diritto d’un altro o acquistasse una proprietà a scapito del vicino (...). 37. Una cosa è certa, che all’inizio, prima che il desiderio di possedere più del necessario avesse alterato l’intrinseco valore delle cose, che dipende solo dalla loro utilità per la vita dell’uomo prima che si fosse convenuto che un pezzetto di metallo giallo, che si poteva conservare senza che si deteriorasse o andasse perduto, valeva un grande pezzo di carne o un mucchio intero di frumento, per quanto gli uomini avessero diritto di appropriarsi, col loro lavoro, ciascuno per sé, tanto quanto potevano usare degli oggetti della natura, pure ciò non poteva esser mai troppo, né recare pregiudizio ad altri, poiché pari ricchezza avanzava tuttavia per coloro che fossero altrettanto industriosi.(...) Si vede fino a che punto il lavoro costituisca la parte di gran lunga maggiore del valore delle cose di cui fruiamo in questo mondo (...) 46. La maggior parte delle cose realmente utili alla vita dell’uomo, tali che la stessa necessità della sussistenza indusse i primi abitanti del mondo a cercarle, come fanno oggi gli americani, sono in generale cose di breve durata; cose che, non consumate, spontaneamente si guastano e perdono, mentre oro, argento, diamanti, sono cose alle quali per arbitrio e convenzione, più che per un’utilità reale e per la necessità della sussistenza, è stato attribuito un valore (...). Se poi cedeva le sue noci in cambio d’un pezzo di metallo di cui gli piaceva il colore, se barattava pecore per conchiglie, se dava lana in cambio d’un sassolino luccicante, o d’un diamante, e si teneva quegli oggetti per tutta la vita, non usurpava i diritti altrui, poteva ammucchiare questi oggetti non deteriorabili a suo piacimento, dato che non era l’ampiezza del possesso ma il deteriorarsi di una sua parte rimasta inutilizzata a costituire eccesso rispetto ai limiti della proprietà legittima. 47. Così nacque l’uso del denaro, qualcosa di durevole che gli uomini potevano conservare senza che si deteriorasse, e che per comune consenso poteva essere preso in cambio dei veri e propri, ma deteriorabili, beni di sussistenza. John Locke, Trattato sul governo, capitolo V. La proprietà, Editori Riuniti, Roma 2006. FINE INFRATESTO

13

14

CAROLE PATEMAN. L’invisibile del contratto Nella scena originaria e influente – e oggi egemonica – della tradizione anglosassone, ciò che emerge è che il contratto è un patto tra comproprietari: l’ambito politico si delinea a partire da un patto tra individui che, in quanto proprietari di un corpo produttivo, sono dotati dei diritti inalienabili (naturali) che ne discendono. Il contratto prevede dunque lo scambio tra le capacità di cui ciascun corpo è dotato e dei beni e valori che da tali capacità vengono prodotti. Il modello “individuale-appropriativo”, dopo aver prodotto la prima forma relazionale in natura - la relazione appropriativa - produce la forma relazionale per eccellenza del contratto e, a scendere, rende ogni relazione un contratto, cioè un accordo che massimizza l’utilità dello scambio tra capacità appropriative-produttive, stabilendone regole e limitazioni. Tuttavia, le attività contemplate in questo quadro descrittivo sono decisamente ridotte rispetto alle tassonomie di epoca classica, soprattutto perché viene lasciato in ombra tutto ciò che rende possibile a quel corpo di diventare ciò che è, capace e produttivo. L’analisi di Pateman – che in Il contratto sessuale si concentra sulle tesi dei due classici del contrattualismo, Hobbes e Locke – si rivela pertinente all’indagine sulla produzione e riproduzione non tanto perché si concentra sul tema della riproduzione e dei corpi riproduttivi, come hanno fatto altre autrici (vedi infra III.2) quanto perché esamina come la dottrina liberale prospetti un ordinamento di uguaglianza e libertà del tutto peculiare e, così facendo, determini un regime di dominio, dispotico o servile, per i soggetti portatori di attività diverse da quelle appropriative e produttive. In altri termini, Pateman rivela il portato politico di una descrizione naturalistico-economica, su cui avremo modo di tornare più avanti (infra, II.4). Nell’ordine politico liberale il patto tra proprietari comprende la possibilità di rendere disponibile la capacità del proprio corpo, e i beni che da questa derivano: la subordinazione è – ed in quanto tale è distinta dalla schiavitù: “il contratto è un elemento centrale del lavoro libero” (85) - volontaria, consensuale, a tempo determinato, cioè revocabile. In questo consiste la libertà, mentre l’uguaglianza è data dalla pari disponibilità del corpo produttivo per ogni “individuo”. Tuttavia esiste un gruppo di soggetti che, pur nominati, non arrivano ad essere riconosciuti come individui e dunque come parti contraenti, le donne (70-71). Diversamente da Hobbes, queste non sono titolari del proprio corpo nemmeno nello stato di natura, anzi, nella versione offerta da Locke, fanno già parte dell’estensione del “proprio” di ciascun individuo maschio (68-69) – la famiglia sarebbe dunque una delle prime estensioni della proprietà. E tuttavia ciò comporta alcune contraddizioni che nella sola dottrina lockiana non arrivano a soluzione: in primo luogo, nello stato di natura esiste la possibilità di un rapporto di dominio assoluto, di subordinazione non revocabile, là dove questo invece è inammissibile nella sfera politica del contratto; si avrebbe allora un rapporto non fondativo ma correttivo tra naturale e politico. In secondo luogo, l’esistenza del contratto matrimoniale configura una relazione tra due titolarità proprietarie, là dove la titolarità politica della donna non è né contemplata né costruita da Locke, anzi, in taluni casi è addirittura negata a favore di una presunta “subordinazione naturale” (69). In questa fase della ricognizione, ci limitiamo a sottolineare, nella figura della “moglie”, la contraddittoria condizione di un soggetto che in quanto parte contrattuale è dotato di obblighi, ma che, non essendo stato designato come rispondente alle caratteristiche di “individuo”, non è dotato dei corrispettivi diritti, non arriva alla titolarità di cittadinanza. L’analisi di Pateman ci conduce dunque a mettere in questione la presunta naturalità ed evidenza della descrizione e della giustificazione di un ordine fondato sul corpo individuale appropriativo e produttivo e sulla conseguente definizione di libertà.

15

Carole Pateman, Il contratto sessuale (1988) - infratesto Comincerò da Hobbes, il primo contrattualista radicale, e dalla sua rappresentazione della guerra egoistica di tutti contro tutti. Hobbes si colloca su uno degli estremi teorici della dottrina del contratto, e il suo individualismo radicale esercita una forte attrazione sui contrattualisti contemporanei. Eppure, per poter costruire la teoria patriarcale moderna, è stato necessario respingere alcune delle principali argomentazioni di Hobbes. Hobbes riteneva che ogni potere politico fosse un potere assoluto, e che non ci fosse alcuna differenza tra conquista e contratto. I contrattualisti venuti dopo di lui hanno tracciato una netta distinzione tra libero accordo e sottomissione coatta, e hanno sostenuto che il potere politico civile fosse limitato, sottoposto al vincolo dei termini del contratto originario, anche se lo Stato deteneva il potere di vita e di morte sui cittadini. Anche Hobbes considerava politiche tutte le relazioni contrattuali, comprese le relazioni sessuali, ma un assunto fondamentale della teoria politica moderna è che le relazioni sessuali non siano politiche (...). Hobbes si discosta dagli altri contrattualisti classici in quanto assume che nello stato di natura non vi sia alcun dominio naturale, neppure degli uomini sulle donne (...). Lo statuto delle donne in quanto «individui» viene così indebolito già nello stato di natura. Esseri umani che debbano sempre accettare per contratto di subordinarsi ad altri che godono di una superiorità naturale, non possono porsi come liberi ed eguali, e perciò non possono diventare individui civili al momento del passaggio alla società civile. La questione è più chiara nello stato di natura descritto da Locke. Nella condizione naturale, le donne sono escluse dallo statuto di “individui”. Locke assume che nello stato di natura il matrimonio e la famiglia siano presenti, e afferma anche che gli attributi degli individui sono sessualmente differenziati; soltanto gli uomini hanno per natura le caratteristiche di esseri liberi ed eguali. Le donne sono per natura subordinate agli uomini, e l’ordine della natura si riflette nella struttura delle relazioni coniugali. (...) Il fondamento nella natura che assicura che prevarrà la volontà del marito, e non quella della moglie, è che il marito “è più capace e più forte” (...). Ma la dottrina del contratto è a doppio taglio. Da una parte, la naturale libertà e uguaglianza degli uomini può essere usata per denunciare l’immoralità, la violenza e l’ingiustizia della schiavitù, (...) d’altra parte, come “individui” gli uomini possono legittimamente cedere per contratto le proprie prestazioni, la proprietà che detengono nella propria persona. Se l’individuo detiene la proprietà della propria persona, allora sta a lui, e soltanto a lui, decidere in che modo quella proprietà debba essere usata. Soltanto l’individuo proprietario può decidere se sia o no a suo vantaggio stipulare un contratto particolare, e potrebbe decidere che i suoi interessi siano soddisfatti meglio cedendo per contratto le proprie prestazioni a vita in cambio della protezione (sussistenza) che tale contratto offre. L’assunto che l’individuo sia in relazione con la proprietà della sua persona, con le sue capacità o prestazioni, così come qualsiasi proprietario è in relazione con la sua proprietà materiale, fa sparire l’opposizione tra libertà e schiavitù. La schiavitù civile diventa nient’altro che un esempio di contratto legittimo. Carole Pateman, Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 52-86. Fine infratesto

16

I.3 PRODUZIONE E SOCIETA’ In epoca moderna comincia a delinearsi la centralità del lavoro, delle attività umane in quanto produttrici di beni. E’ una centralità che arriva ad essere un principio vero e proprio, anche nel concepire gli stessi soggetti che vivono insieme; in effetti un tratto saliente dell’epoca moderna è che le relazioni - e dunque la vita associata - tendano a farsi seconde rispetto alle attività. Queste ultime, negli ulteriori sviluppi, vengono compendiate nella categoria economica di produzione, quale prestazione di lavoro. Gli autori, che vengono ora presi in esame, dispiegano ciascuno un peculiare nesso tra la dimensione della vita associata e la dimensione delle attività produttive. Dal grado estremo della derivazione della prima dalla seconda (Marx) all’interazione tra le due (Weber) si arriva alla rivendicazione di un’autonomia della vita associata rispetto al modello dello scambio di merci a mezzo denaro (Polanyi). Come avremo modo di vedere più avanti (infra III.1) l’interesse di queste posizioni sta nelle diverse configurazioni secondo cui articolano la coppia produzione-riproduzione, in un momento della storia occidentale e dello sviluppo teorico che dispiega il termine “riproduzione” in massimo grado, quale indice delle relazioni che costituiscono la vita associata.

KARL MARX. Il primum della produzione

I passi qui proposti, tratti da alcuni dei testi principali di Marx – e selezionati per la rilevanza che hanno avuto

fino ai nostri giorni – mirano a individuare lo statuto e l’articolazione del concetto di produzione, in particolare

nella sua analisi critica della società borghese basata sull’economia di tipo capitalistico.

La produzione viene definita “presupposto reale” (wirkliche Voraussetzung) dello sviluppo storico, è

quell’attività che vede l’uomo in un continuo «ricambio organico» con la natura al fine di produrre i suoi

mezzi di sussistenza.

INFRATESTO

Essi [gli uomini] cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro

mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica.

Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita

materiale. Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto

dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre (Ideologia

tedesca, 1846, cap. II). fine

Personale e collettiva, la produzione coincide con il sociale: è quell’attività, potremmo dire, transindividuale,

in cui si presenta la natura specificamente umana, l’uomo in quanto zoon politikon. Da qui la tesi esposta nei

Manoscritti economico-filosofici del ’44, per cui l’intera attività lavorativa è manifestamente sociale. Non può

esistere infatti un individuo contrapposto alla società, proprio perché la relazione è sempre e

contemporaneamente dell’uomo con se stesso, con la natura - in quanto «corpo inorganico» dell’uomo - e

con gli altri uomini.

INFRATESTO

La creazione pratica d’un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica, è la

riprova che l’uomo è un essere appartenente ad una specie e dotato di coscienza. (...) Sia il

materiale del lavoro sia l’uomo come soggetto sono nella stessa misura tanto il risultato quanto

il punto di partenza del movimento (…). Quindi il carattere sociale è il carattere universale di

tutto il movimento: come la società stessa produce l’uomo in quanto uomo, così l’uomo produce

la società (Manoscritti economico-filosofici, 1844, p. 75-109). fine

Risulta chiara, quindi, l’indistinzione marxiana tra poiesis e praxis, tra attività produttrice di merci e azione: il

lavoro, come specifica «attività vitale» o «vita produttiva» (Manoscritti, p. 74), risponde all’urgenza dei

bisogni della sopravvivenza ma contemporaneamente è attività creativa e libera con cui l’uomo trasforma se

17

stesso (la propria natura) e insieme la natura che lo circonda. Sebbene teorizzi ancora un rapporto di

ambigua gerarchia e di necessità di superamento – come accade nella distinzione tra produzione e

riproduzione, laddove la seconda, come rigenerazione della forza fisica, produttiva, umana, rimanda a una

naturalità più genericamente animale che umana –, Marx colloca la manifestazione dei bisogni degli uomini

su un piano sociale e storico.

INFRATESTO

Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza

fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell'attività di questi individui, un

modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui

esternano la loro vita, così essi sono (Ideologia tedesca, 1846, cap. II). fine

Secondo quanto scritto è facile capire il carattere generale della produzione, come presupposto o «base

reale della storia» e come rapporto tra uomo e natura, che restituisce l’elemento comune a tutte le epoche.

E tuttavia per Marx è altrettanto importante mostrarne l’imprescindibile particolarità; da una parte, questa si

manifesta nel come della produzione, nei mezzi di produzione che gli uomini ricevono in eredità dalla storia,

quali condizioni materiali e determinate della loro sussistenza, dall’altra nei rapporti sociali che

corrispondono alle forze produttive, che mutano continuamente al variare storico-sociale dei bisogni umani e

degli scopi della produzione. Si può dire che nel concetto marxiano di produzione siano già incluse le

condizioni materiali, fisiche, tecnologiche, sociali (e quindi storiche): l’espressione modo di produzione

esprime la compresenza di particolare e generale, ovvero la produzione si presenta come struttura di ogni

società, mentre il modo di produzione ne costituisce il carattere irriducibilmente storico.

L’economia politica classica manca di cogliere la dimensione storica della produzione facendo della

produzione borghese capitalistica un punto di partenza naturale, «inquadrata in leggi di natura estranee e

indipendenti dalla storia» (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1859, p. 9 ), e

attribuendo il carattere sociale-storico alle sole relazioni di scambio e di distribuzione. Marx al contrario

rintraccia nelle condizioni materiali della produzione - nella relazione tra forze produttive e rapporti sociali di

produzione - le determinazioni storiche che caratterizzano in maniera particolare il modo di produzione di

ogni epoca - tanto la struttura economica quanto la sovrastruttura ideologica, giuridico-politica, che di quella

è espressione. Così nella prefazione a Per la critica dell’economia politica Marx scrive:

INFRATESTO

nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari,

indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato

grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione

costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una

sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza

sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale,

politico e spirituale della vita (Introduzione a Per la critica dell’economia politica, 1859). fine

Per Marx lo specifico modo di produzione capitalistico è caratterizzato dalla separazione tra i lavoratori e i

loro mezzi di sussistenza e dal “libero” incontro tra l’operaio portatore della propria forza-lavoro e il

capitalista, proprietario dei mezzi di produzione.

Di seguito vengono riportati dei passi che possono fare da definizione dei principali elementi del complesso

che va sotto il termine di produzione.

Modi di produzione

18

Il modo di produzione è un concetto generico che viene utilizzato da Marx per definire un determinato

sistema di organizzazione sociale e produttiva, tenendo conto dello sviluppo delle forze produttive, dei

rapporti tra le persone e i gruppi sociali e dell'organizzazione del lavoro.

Per sviluppo delle forze produttive si intende il risultato di determinate conoscenze scientifiche e della

tecnologia connessa, come anche il prodotto di relazioni storicamente determinate, dunque quale risultato di

una particolare organizzazione sociale e produttiva.

Marx individua, nel corso della storia, vari modi di produzione: dal cosiddetto "comunismo primitivo", con la

proprietà comune della terra, si passa al sistema schiavistico, con l'appropriazione privatistica della terra e il

rapporto di lavoro schiavo-padrone, tipico delle società antiche, per passare al modo di produzione feudale

fino allo sviluppo e all'affermazione del modo di produzione capitalistico in cui si sviluppa il capitale, il lavoro

salariato, la proprietà mobiliare e immobiliare, l'industria, il commercio, la finanza. La «natura» acquista così

dinamicità, essa è legata inscindibilmente con i processi dell'industria e i rapporti umani. La storia umana

non è più la storia dell'essenza umana generale ma lo sviluppo delle forme di produzione e

dell'organizzazione sociale.

Il modo di produzione capitalistico poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a

disposizione dei capitalisti sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è

soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza-lavoro.

Il concetto del modo di produzione è strettamente connesso a quello dei mezzi di produzione. Questi «non

servono soltanto a misurare il grado dello sviluppo della forza lavorativa umana, ma sono anche indici dei

rapporti sociali nel cui quadro viene compiuto il lavoro» (Il Capitale, Libro I, p. 198). L’unità uomo-natura, la

cui variabilità è espressa proprio dai mezzi di produzione, spiega quindi sia i modi della relazione uomo-

natura, ma anche i rapporti sociali in cui si realizza la produzione.

Forze produttive

Condizioni materiali del processo di produzione, le forze produttive sono costituite da tutti gli elementi

necessari a tale processo: i mezzi di produzione, la ricerca scientifica e l'avanzamento tecnologico,

l'organizzazione del lavoro in fabbrica e nei singoli settori produttivi, e naturalmente la forza-lavoro senza la

quale non si avrebbe alcuna produzione.

Tra le forze di produzione e i rapporti di produzione esistono reciproche interferenze di grande complessità e

di importanza decisiva; infatti le prime, nel corso del loro sviluppo, determinano nuove situazioni all'esterno

del loro campo specifico che possono riguardare in larga misura i rapporti di produzione fino al punto di

disporsi in modo antagonistico nei confronti di questi.

L'importanza delle forze di produzione è già sottolineata nell'Ideologia tedesca: il loro livello di sviluppo, dice

Marx, «condiziona la situazione sociale». Dunque uno studio scientifico – non ideologico – della storia deve

essere costantemente «in relazione con la storia dell'industria e dello scambio» dove si può osservare

l'insorgere delle contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti sociali nei vari periodi storici. Ancora, nel

Manifesto del partito comunista, scritto dieci anni dopo, il passaggio dal modo di produzione feudale a quello

capitalistico è descritto nei termini di contraddizione tra le forze e i rapporti di produzione.

Rapporti sociali di produzione

Corrispondono alle condizioni sociali del processo di produzione e tuttavia non sono riducibili ai semplici

rapporti tra persone, ma si combinano con le condizioni materiali della produzione. Si tratta quindi di quelle

configurazioni storiche che intercorrono tra mezzi di produzione e agenti della produzione (proprietari e

lavoratori).

INFRATESTO I cosiddetti rapporti di distribuzione corrispondono, quindi, a forme storicamente determinate,

specificamente sociali, del processo di produzione e dei rapporti in cui gli uomini entrano nel processo di

riproduzione della loro vita e derivano da queste forme. Il carattere storico di questi rapporti di distribuzione è

il carattere storico dei rapporti di produzione, dei quali essi esprimono soltanto un aspetto. La distribuzione

capitalistica è distinta dalle forme di distribuzione che derivano da altri modi di produzione, ed ogni forma di

distribuzione scompare insieme con la forma di produzione determinata a cui essa corrisponde e da cui

deriva (Il Capitale, libro III, p. 1001). fine

19

I rapporti di produzione trovano la loro espressione giuridica nei rapporti di proprietà; ad esempio, ai rapporti

capitalistici di produzione corrisponde la proprietà privata dei mezzi di produzione e delle condizioni di

lavoro. Tuttavia i rapporti di produzione, essendo essenzialmente rapporti sociali, da un lato condizionano

tutta la società in cui sono rapporti dominanti, e dall'altro, sono a loro volta influenzati dalle altre

manifestazioni della vita sociale, ivi comprese quelle che Marx chiama le sovrastrutture giuridiche, politiche,

morali, ecc. Quindi, sebbene i rapporti di produzione descrivano una buona parte della struttura della

società, non la esauriscono, poiché un certo tipo di dominio e di sottomissione sono indispensabili per

mantenere la disuguaglianza nei rapporti di proprietà.

Struttura – sovrastruttura

INFRATESTO In tutte le forme di società vi è una determinata produzione che decide del rango e

dell’influenza di tutte le altre, e i cui rapporti decidono perciò del rango e dell’influenza di tutti gli altri. È una

luce generale (Beleuchtung) che si effonde su tutti gli altri colori modificandoli nella loro particolarità. È

un’atmosfera particolare che determina il peso specifico di tutto quanto essa avvolge (Per la critica

dell’economia politica, 1959, p. 189). FINE

La struttura è l’insieme dei rapporti di produzione, materiali e sociali, che sono la base reale di una società e

che delineano la regione dell’economico. Per questo Marx scrive che «tanto i rapporti giuridici quanto le

forme dello Stato» non possono essere compresi né per sé stessi, né mediante «la cosiddetta evoluzione

generale dello spirito umano», bensì mediante la materialità dell’esistenza e le relazioni che storicamente la

descrivono. Tuttavia il rapporto tra struttura e sovrastruttura (giuridica, politica, morale, ecc.) non può essere

pensato nella forma di una causalità transitiva, piuttosto va definita come qualcosa la cui esistenza è

immanente ai suoi effetti, cioè come qualcosa che non può essere pensata indipendentemente da essi.

Ideologia

INFRATESTO La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo

direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale.

Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione

diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa

si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc., di un

popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, cosi

come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi

corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso

dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli

uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal

processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro

immediato processo fisico ( Ideologia tedesca, cap. II).FINE

L’ideologia è dunque una «falsa coscienza», una rappresentazione del mondo dal punto di vista delle classi

dominanti, che legittima i rapporti di dominio, subordinazione e sfruttamento. In particolare, l’illusione

ideologica fondamentale, propria della tradizione filosofica ereditata, è quella di ritenere che le idee siano

indipendenti dai rapporti sociali e dai relativi rapporti di produzione.

Forza-lavoro

La forza-lavoro, all’interno dei rapporti capitalistici di produzione, si presenta come forza fisica che diventa

merce quando l’operaio è costretto a venderla al capitalista in cambio di un salario con cui garantirsi la

sussistenza e la riproduzione della propria forza fisica. Tuttavia Marx la definisce «merce speciale» perché

non può essere separata dal corpo del lavoratore: la forza-lavoro è «l’insieme delle attitudini fisiche e

intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in

movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere» (Il Capitale, Libro I, p. 184). Essendo

una merce, come tutte le altre possiede un valore e, come accade per le altre merci, tale valore coincide con

il tempo di lavoro impiegato per la sua produzione:

20

infratesto Il tempo di lavoro necessario per la produzione della forza-lavoro si risolve nel tempo di lavoro

necessario per la produzione dei suoi mezzi di sussistenza; ossia, il valore della forza-lavoro è il valore dei

mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro (Il Capitale, Libro I, p.

188). FINE

Valore e plusvalore

Marx distingue il valore d’uso di una merce dal suo valore di scambio: se il primo descrive l’utilità di una

merce che si realizza nel consumo e costituisce «il contenuto materiale della ricchezza», il secondo invece si

realizza quando i valori d’uso sono scambiati e quindi tra essi si dà un rapporto quantitativo. In quanto valori

d’uso, le merci sono cose qualitativamente differenti; in quanto valori di scambio – che corrispondono al

prezzo – sono solo quantitativamente differenti.

Il valore di scambio è definito «forma fenomenica» del valore contenuto nella merce, che corrisponde al

tempo di lavoro impiegato per la sua produzione. La forza-lavoro, essendo una merce come tutte le altre,

possiede un valore che coincide con il tempo di lavoro impiegato per la sua produzione.

Il plusvalore si ottiene durante il processo lavorativo che coincide, scrive Marx, in processo di valorizzazione.

INFRATESTO Il processo di consumo della forza lavoro è allo stesso tempo processo di produzione di

merce e di plusvalore. Il consumo della forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si compie fuori del

mercato ossia della sfera della circolazione. Quindi assieme al possessore di denaro e al possessore di

forza lavoro, lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile a tutti gli sguardi, per

seguire l’uno e l’altro nel segreto laboratorio della produzione, sulla cui soglia sta scritto: No admittance

except on business. Qui si vedrà non solo come produce il capitale, ma anche come lo si produce, il

capitale. Finalmente ci si dovrà svelare l’arcano della fattura del plusvalore (Il Capitale, Primo Libro, p.

193).FINE

Nel processo lavorativo proprio del modo di produzione capitalistico, quindi, la forza-lavoro è quella merce

particolare il cui valore d'uso ha la proprietà di costituire la fonte di valore di scambio; ossia è la merce che,

una volta acquistata da chi possiede il denaro necessario per farlo e una volta messa al lavoro, produce una

quantità di denaro superiore a quella spesa per il suo acquisto. È quindi nell’uso della forza-lavoro all’interno

del processo lavorativo che si spiega la produzione del plusvalore, ossia la trasformazione del denaro in

capitale. Il suo valore di scambio, il salario, è infatti quello strumento con cui il capitalista nasconde la parte

non retribuita di lavoro: il salario dell’operaio contiene in sé la divisione della giornata lavorativa in lavoro

necessario (quello retribuito che corrisponde al costo di riproduzione dell’operaio) e in plus-lavoro, quel

lavoro non retribuito che produce valore eccedente di cui si appropria il capitalista, il plusvalore.

Il plusvalore è quindi la matrice dell’accumulazione capitalistica e descrive, nel suo concetto, il rapporto di

produzione tra l’operaio e il proprietario dei mezzi di produzione: relazione che perpetua, continuamente, lo

sfruttamento del primo da parte del secondo. È un esercizio di violenza indispensabile all’accumulazione di

ricchezza. Come scrive infatti Marx:

INFRATESTO La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa

una potenza economica (Il Capitale, Libro I, p. 779).fine

21

MAX WEBER. Economia e società Pur concentrandosi sulla forma capitalistica dell’economia, il sociologo tedesco non considera l’economia una sfera né indipendente né fondativa. Piuttosto il fuoco delle sue indagini si concentra sui rapporti e comportamenti che costituiscono le società, rapporti che sono essenzialmente della natura dell’agire – i rapporti vengono presentati come attività e comportamenti – e che stanno in relazione biunivoca con l’agire economico. Da una parte, esistono i fenomeni economicamente rilevanti, le istituzioni religiose e politiche, ad esempio, che influenzano l’economico; dall’altra, vengono studiati i fenomeni socialmente rilevanti, cioè le forme dell’agire economico, che influenzano le altre attività e i rapporti sociali. Un approccio dunque che si distanzia sia dal ruolo fondativo che Marx ha potuto attribuire alla produzione, come condizione umana e sociale, che determinerebbe gli altri rapporti e attività, sia dall’idea che le attività umane si configurino secondo un’antropologia data e le sue leggi - lo “stato di natura” dei primi teorici del moderno, e gli “scienziati” della società, che mirano a individuare leggi oggettive. Piuttosto, rapporti sociali ed economici mutano a seconda delle civiltà e delle epoche storiche – come esemplificato nel saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905). Delle categorie fondamentali secondo cui sono articolate le attività umane – che già possiamo intuire, data la stretta connessione tra produzione e rapporti sociali, non si possono suddividere tra attività di generazione e rigenerazione fisiologica e attività di produzione di beni – la classificazione weberiana mantiene però quella di “sussistenza”, individuando come prima dimensione dell’attività economica quella del soddisfacimento dei bisogni. Si torna infatti all’oikosnomia, all’ “economia domestica”, in cui avviene sì la produzione di beni, ma per l’autoconsumo, dotati dunque di un valore di uso. E’ nel subentro di attività regolate dallo scambio di beni – e dunque dalla mediazione del denaro – e finalizzate al mercato, che la forma capitalistica dell’economia e della società comincia ad emergere. Una prima caratterizzazione generale viene individuata nel calcolo e contabilità, unitamente a specifiche configurazioni dell’organizzazione delle attività produttive. Non ultimo, questa organizzazione insiste su un lavoro formalmente libero. In effetti, la caratteristica delle società capitalistiche moderne, che le differenzia da quelle precedenti – di tipo predatorio o politico - consiste nel ruolo centrale svolto dalla forza lavoro resa disponibile per il mercato secondo specifiche forme di “organizzazione razionale”. Con tale riarticolazione delle attività umane, assistiamo alla nascita di una sistemazione della coppia produzione e riproduzione che diventerà egemonica per tutto il XX secolo e che, ancora nei dibattiti attuali, impedisce di cogliere la riunificazione delle due sfere della riproduzione bio-fisiologica e della riproduzione sociale. Con Weber infatti, la produzione non è un rapporto e attività che si limita alla produzione di beni e allo scambio di merci, da cui discenderebbero anche i rapporti sociali relativi. Al contrario, attraverso l’accento messo sull’organizzazione, le attività produttive sono già di per se stesse attività che riproducono e sviluppano le condizioni della propria esistenza. In altri termini, l’approccio sociologico di Weber, che conseguentemente assume la società come orizzonte primario, fa sì che anche i rapporti di produzione siano ipso facto rapporti che producono società, sono “istituzioni sociali”. Un altro cambio di prospettiva, rispetto al canone occidentale, che possiamo rintracciare in queste indagini, è la fine della coppia, oppositiva o complementare, tra privato-familiare e pubblico-statuale, inaugurato dalla peculiare lettura che i primi teorici moderni avevano dato delle tesi aristoteliche. Come vedremo successivamente, nella forma dell’”ordoliberalismo” di matrice tedesca, l’amministrazione restituisce una continuità del governo, dell’organizzazione, del comando sulle attività e relazioni umane, tra famiglia e società. Max Weber, Storia economica (1923) - INFRATESTO 1. Concetti fondamentali A. Chiamiamo economico un agire, in quanto orientato ad ottenere prestazioni d’utilità desiderate o possibilità di disporre di esse. Ogni tipo di agire può essere orientato economicamente, anche per esempio quello dell’artista, anche la conduzione della guerra, quest’ultima nella misura in cui si considerano gli scopi

22

e i mezzi economici per la conduzione e la preparazione della guerra. Ma in senso proprio «economia» è solo l’esercizio pacifico del potere di disporre di certe prestazioni, che è in modo primario orientato in senso economico. (...) Importante è inoltre il fatto che l’agire economico è condizionato costantemente dalla scarsità dei mezzi ed è orientato ad essa: per poter soddisfare il desiderio con prestazioni d’utilità, i mezzi presenti in quantità limitata debbono essere «economizzati». Di qui la tendenza (che non interviene sempre) alla razionalizzazione dell’agire economico. Con il temine economia intendiamo quindi, da ultimo, un agire guidato in modo unitario in virtù della propria forza di disporre, in quanto è determinato dall’orientamento a ottenere prestazioni di utilità e le loro chances. (...) B. Un agire economico può tendere: 1. alla ripartizione sistematica delle prestazioni d’utilità disponibili a) tra presente e futuro; b) tra vari modi possibili di applicarle nel presente; 2. a fornire e lavorare in modo sistematico beni disponibili ma non ancora utilizzabili (produzione) che potranno essere consumati dopo un intervento tecnico; 3. ad acquisire il potere di disporre o codisporre di prestazioni di utilità dove queste ultime — e nel caso di beni siano essi disponibili al consumo o meno — si trovino in un potere di disposizione di altri. Il gruppo regolativo dell’economia può essere: 1. un gruppo amministrativo («economia di piano»). L’espressione sta a significare una conduzione unitaria dell’economia, un gruppo di unità economiche guidate in modo pianificato (...); 2. un gruppo regolativo. Il gruppo rinuncia sì a dirigere in modo unitario tutte le singole azioni, limitandosi piuttosto a regolamentare le singole economie autonome, ma esclude la concorrenza reciproca regolamentando l’amministrazione dei singoli gruppi economici aggregati (…). Lo scambio può essere: 1. scambio occasionale. Come tale è antichissimo. Le eccedenze vengono occasionalmente scambiate, ma il centro di gravità dell’approvvigionamento poggia sulla produzione propria; 2. scambio di mercato, orientato sul fatto che da ogni parte ha luogo in modo massiccio e continuo un’offerta per lo scambio e una pari domanda, cioè sulla presenza di opportunità di smercio (...). Lo scambio può essere: a) regolato in modo giuridico-formale (libero scambio come nell’economia capitalistica); b) regolato materialmente (scambio regolato nel senso letterale del termine) attraverso gilde, corporazioni, imprenditori monopolisti, principi, autorità competenti (...). Lo scambio può essere scambio naturale o monetario. Solo nell’ultimo caso è tecnicamente possibile un orientamento pieno dell’agire verso “opportunità di mercato” nel senso dell’economia di commercio (...). Chiamiamo economia naturale un’economia che non fa uso di denaro, economia monetaria un’economia che ne fa uso. Economia naturale può essere un’economia il cui fabbisogno può essere soddisfatto senza scambio, come fa ad esempio il signore fondiario ripartendo il suo fabbisogno tra le singole unità economiche contadine, oppure I’oikos, l’economia domestica chiusa, eppure nella sua forma pura è rimasta sempre una rara eccezione. Oppure può essere economia naturale di scambio, che conosce bensì lo scambio economico, ma non il denaro. Questa forma di economia non si presenta mai in modo compiuto, ma sempre approssimato. (...) Una economia monetaria rende possibile la separazione personale e temporale di vendita e di acquisto, di svincolare i mezzi oggettivi di scambio l’uno dall’altro, e con ciò soltanto si crea la possibilità di allargare il mercato, cioè le opportunità di mercato; emancipazione dell’agire economico dalla situazione momentanea, in quanto a partire da questo momento si possono prendere in considerazione anche mercati futuri: il mercato viene ampliato anche dal punto di vista temporale, ciò che, di nuovo, è reso possibile solo valutando in denaro (con un calcolo monetario) sia le modalità di vendita sia quelle dì acquisto. Questa funzione del denaro di rendere possibile il calcolo, di istituire un comune denominatore a cui possono essere riferiti tutti i beni, è della massima importanza; perché solo così è dato il presupposto della razionalità calcolatrice dell’agire economico, è diventata pensabile la «calcolabilità». Essa consente all’”economla acquisitiva” di orientarsi esclusivamente verso le opportunità di mercato, così come consente all’”amministrazione domestica” di fare un «piano economico» per utilizzare le somme di denaro disponibili secondo l’”utilità marginale” di tali somme. D. I due tipi fondamentali di ogni economia sono amministrazione domestica ed economia acquisitiva, che sono bensì connessi tra loro attraverso livelli di transizione, ma nella loro forma pura costituiscono opposizioni concettuali. Amministrazione domestica significa un esercizio dell’economia orientato a soddisfare il proprio fabbisogno, si tratti del fabbisogno di uno stato, di un individuo o di una cooperativa di

23

consumo. Economia di acquisizione invece significa orientamento a opportunità di guadagno, cioè a opportunità di guadagno attraverso lo scambio. Max Weber, Storia economica. Linee di una storia universale dell’economia e della società, Donzelli, Roma 1993, Nozioni preliminari, pp. 3-16. Fine infratesto

24

KARL POLANYI. Economia e mercato La grande trasformazione (1944) è, in prima istanza, testo di interesse per un motivo che non è inerente alle tesi esposte e all’epoca storica di riferimento: Polany torna infatti a pensare il nesso tra comportamenti economici e rapporti sociali nel quadro della crisi economica-finanziaria del 1929. La tesi –considerare la sfera economica come una dimensione che eccede la forma specifica dello scambio mercantile – è il portato della crisi che spinge a storicizzare il modello liberale, per il quale lo scambio mercantile ha assunto la veste della naturalità ultima dell’umano: non tutte le relazioni possono essere iscritte nella forma del contratto, dello scambio o messa a disposizione di prestazioni a mezzo denaro, in vista della massimizzazione dell’utile individuale. Si tratta di una tesi composita. Innanzitutto, implica la ridefinizione del termine “economia”. Le attività e relazioni contemplate in questa sfera – diversamente da Adam Smith, che la considerava lo spazio di indagine sulla genesi e sulle condizioni di mantenimento e sviluppo della ricchezza – sono immediatamente, come già per Weber, attività sociali ma, diversamente da Weber, le attività sociali sono parimenti attività economiche. Questo spostamento può avvenire principalmente attraverso una risemantizzazione del lemma “scambio”. Tuttavia Polanyi procede anche attraverso un primo procedimento critico. Nella parte che ricostruisce la nascita dell’economia politica, l’utile – così come teorizzato da un Jeremy Bentham – non è primariamente il fine di uno scambio a mezzo denaro. Piuttosto, ancora influenzato dall’idea che l’economia politica (vd. il suo Manual of Political Economy) sia ambito della trattazione della ricchezza, disloca la questione dell’utile nell’ambito del governo della società. “Arte pratica basata sulla conoscenza empirica”, l’utile è categoria sociale e morale e principio ispiratore per eccellenza per il governo e la decisione. Amministrare, con Bentham, è attività che si estende ben oltre il soddisfacimento dei bisogni e non è solo tecnica di gestione delle relazioni e attività sociali. E’ un’attività che letteralmente costruisce i rapporti sociali, una vera e propria “invenzione [del] sociale” (151). E’ dunque con la lettura critica dell’utilitarismo, con l’uso esteso che fa della categoria di utile, che l’economico si rivela essere un ambito eccedente gli scambi mercantili e le attività che producono ricchezza. La parte costruttiva della tesi di Polanyi – che pure rimane una fonte nascosta di molti autori del secondo Novecento, come ad esempio Foucault o, per certi versi, di alcune versioni dello strutturalismo – consiste dunque nel considerare l’economico una dimensione che riguarda in toto le relazioni e le attività umane. Gli esseri umani scambiano continuamente, lo scambio li mette in relazione - quando non arriva a costituirli in quanto tali - e dunque non si limitano a scambiare merci a mezzo denaro. A cominciare dal fatto che materia dello scambio possono essere quelle “merci fittizie” che sono il lavoro, la terra e la moneta (p. 88 e ss.). La qualificazione di “fittizio” rimanda proprio alla tesi maggiore di Polanyi: nessuna di queste tre merci può essere esaurita quanto al suo funzionamento nello scambio – e sul (la forza) lavoro Marx lo aveva già dettagliamente dimostrato – come cessione di un bene per il proprio equivalente concordato in denaro. Se Weber, per un verso, e i contrattualismi liberali, per un altro verso, ci permettono di mantenere una continuità tra attività produttive di beni e attività riproduttrici delle relazioni (sociali), Polanyi aggiunge un altro elemento che si rivela dirimente per la lettura del contemporaneo. Secondo l’autore, il valore economico è criterio che regola le attività umane, siano essere produttive o riproduttive, ma non si limita allo scambio mercantile nella forma del “prezzo” e del “salario”. Come già Bentham che aveva esteso il principio dell’”utile” all’ambito morale e mercantile, , Polanyi estende la relazione di scambio e il valore che vi si forma al di là dell’ambito strettamente commerciale, per restituire all’agire economico una “complessità” che eccede il valore monetizzabile.

25

Karl Polanyi, La grande trasformazione (1944) - INFRATESTO [si dà] un cambiamento nelle motivazioni all’azione da parte dei membri della società: al motivo della sussistenza deve essere sostituito quello del guadagno.Tutte le transazioni devono essere trasformate in transazioni monetarie e queste a loro volta richiedono che un mezzo di scambio venga introdotto in ogni articolazione della vita industriale. Tutti i redditi debbono derivare dalla vendita di qualcosa e qualunque sia la fonte del reddito di una persona esso deve essere considerato come risultante da una vendita. Niente di meno di tutto questo è implicato dal semplice terminee «sistema di mercato» con il quale designano la struttura istituzionale descritta. (...) La trasformazione dalla precedente economia a questo sistema è così completa che assomiglia più alla metamorfosi del bruco che non a qualunque altra alterazione. (...) L’eccezionale scoperta delle recenti ricerche storiche ed antropologiche è che l’economia dell’uomo, di regola, è immersa nei suoi rapporti sociali. L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali. Egli valuta i beni materiali soltanto nella misura in cui essi servono a questo fine. Né il processo di produzione né quello di distribuzione sono legati a specifici interessi economici legati al possesso dei beni; tuttavia ogni passo di questo processo è collegato ad una molteplicità di interessi sociali che alla fine assicurano che il passo necessario venga compiuto. (...) Le passioni umane, buone o cattive, sono semplicemente dirette verso fini non economici, l’ostentazione cerimoniale serve a spronare al massimo l’emulazione e la consuetudine del lavoro comune tende a spingere gli standards quantitativi e qualitativi ai valori più alti. La prestazione di tutti gli atti di scambio come doni spontanei che ci si attende che vengano ricambiati anche se non necessariamente da parte dello stesso individuo, una procedura minutamente articolata e perfettamente salvaguardata da elaborati metodi di pubblicità, da riti magici e dell’istituzione di «dualità» nelle quali i gruppi sono legati da obblighi reciproci, dovrebbe da sola spiegare l’assenza della nozione del guadagno o anche della ricchezza tranne che per quegli oggetti che tradizionalmente elevano il prestigio sociale (...) [quanto all’esempio di] una comunità della Melanesia occidentale (...) su questo punto negativo che si trovano d’accordo gli etnografi moderni: l’assenza del motivo del guadagno, l’assenza del principio del lavoro per una remunerazione, l’assenza del principio deI minimo sforzo ed in particolare, l’assenza di qualunque istituzione separata e distinta basata su motivi economici. Ma come è dunque assicurato l’ordine nella produzione e nella distribuzione? La risposta è data soprattutto da due principi del comportamento non primariamente associati all’economia: la reciprocità e la redistribuzione. (...) Il sostentamento della famiglia, cioè della donna e dei bambini, è obbligo dei parenti matrilinei. Il maschio, che provvede a sua sorella e alla sua famiglia consegnando i prodotti migliori del suo raccolto, guadagnerà soprattutto credito per il suo buon comportamento ma mieterà in cambio pochi vantaggi materiali; se egli è fiacco sarà in primo luogo la sua reputazione a soffrirne. È infatti a beneficio di sua moglie e dei suoi bambini che opererà il principio di reciprocità compensandolo quindi economicamente per i suoi atti di virtù civica. L’esposizione cerimoniale di cibo nel suo stesso orto e di fronte alla casa del destinatario assicurerà che l’elevata qualità della sua coltivazione sia nota a tutti. È evidente che l’economia dell’orto e della casa costituisce qui parte dei rapporti sociali collegati con la buona coltivazione della terra e con la buona cittadinanza Un ampio principio di reciprocità contribuisce a salvaguardare tanto la produzione che il mantenimento della famiglia. Il principio della redistribuzione non è meno efficace Una grossa parte della produzione dell’isola viene consegnata dai capi del villaggio al capo che la tiene in serbo. La straordinaria importanza del sistema dell’immagazzinamento diviene evidente poiché tutta l’attività comunitaria ha il suo centro nelle feste, nelle danze e nelle altre occasioni durante le quali gli isolani si intrattengono gli uni con gli altri ed anche con i loro vicini di altre isole e gli oggetti dei commerci di lunga distanza vengono consegnati e i doni vengono dati e scambiati secondo le regole dell’etichetta ed il capo distribuisce i doni consueti. (...) Noi lo descriviamo come commercio anche se non vi è alcuna implicazione di profitto, né in moneta, né in natura, nessun bene viene accumulato e neanche posseduto permanentemente. (...) Dare e ricevere organizzato e sistematico di oggetti di valore trasportati per lunghe distanze è giustamente descritto come commercio, tuttavia questo complesso insieme di rapporti è condotto esclusivamente sulle linee della reciprocità. Un intricato sistema tempo-spazio-persona che copre centinaia di miglia e diversi decenni, che collega molte centinaia di persone in relazione a migliaia di oggetti strettamente individuali, viene condotto qui senza registrazioni e senza amministrazione ma anche senza alcun motivo di baratto o di commercio. Né ciò che domina è la propensione al baratto, bensì la reciprocità nel comportamento sociale. Nondimeno il risultato è uno stupendo fatto organizzativo nel campo economico. (...) Il terzo principio che era destinato a svolgere un grande ruolo nella storia e che chiameremo il principio dello householding consiste nella produzione per uso proprio. I greci lo chiamavano oikonomia, l’etimo della

26

parola «economia». Stando alla documentazione etnografica non dovremmo assumere che la produzione nell’interesse di una persona o di un gruppo è più antica della reciprocità o della redistribuzione; (...) la natura del nucleo istituzionale è indifferente: può essere il sesso, come nel caso della famiglia patriarcale, la località come nello stanziamento del villaggio (...) né ha importanza l’organizzazione del gruppo. (...) La necessità di commercio o di mercati non è maggiore che nel caso della reciprocità o della redistribuzione. (...) Generalmente è corretto dire che tutti i sistemi economici che ci sono noti, fino alla fine del feudalesimo neIl’Europa occidentale, erano organizzati alternativamente sui principi della reciprocità o della ridistribuzione o dell’economia domestica o di una combinazione dei tre. Questi principi furono istituzionalizzati con l’aiuto di un’organizzazione sociale che inter alia faceva uso dei modelli della simmetria, della centricità e dell’autarchia. In questo quadro la produzione ordinata e la distribuzione dei beni era assicurata da una grande varietà di motivi individuali disciplinati da principi generali del comportamento. Tra questi motivi, quello del guadagno non era preminente, la consuetudine e la legge, la magia e la religione cooperavano nell’indurre l’individuo a seguire regole di comportamento che alla fine assicuravano il suo funzionamento entro il sistema economico. Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 2000, pp. 57-72. Fine infratesto

27

II. LE SOCIETA’ CONTEMPORANEE II.1 LA SVOLTA LINGUISTICA FERRUCCIO ROSSI LANDI. Il linguaggio come lavoro A fronte delle decise trasformazioni delle società occidentali della seconda metà del XX secolo, le analisi centrate sulla produzione, sull’economia delle merci e sui rapporti e le relative forme di organizzazione sociale, segnano il passo. Viene avvertita l’esigenza di rinnovare la strumentazione di analisi, individuando nuove categorie. Un caso esemplare è costituito da Rossi Landi che coniuga il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche con alcune delle principali tesi marxiane, per aggiornare l’approccio ai “rapporti tra struttura e sovrastruttura” (1968, p. 9), cioè la trattazione dei rapporti tra economia e società o, in altri termini, tra modi di produzione e rapporti di produzione. Come vedremo anche per il caso di Althusser (Infra III.1) viene avvertita l’insufficienza di uno schema teorico che tende a ridurre processi e agenti sociali a un’emanazione dell’organizzazione produttiva. Si tratta dell’inizio di un’epoca in cui sarà sempre più difficile presupporre un’omogeneità e distinzione rispettiva tra gli ambiti dell’economico e della società, della tecnica e della cultura. La preoccupazione maggiore che spinge Rossi Landi a distinguere tra “lavoro linguistico” e “lavoro non linguistico” – cioè tra un lavoro che consiste nello scambio comunicativo e un lavoro che produce merci, una coppia che alcuni decenni dopo sarà definita come “produzione immateriale e produzione materiale” - è l’aggiornamento della categoria di “alienazione”. Riprendendone i tratti fondamentali, l’alienazione della proprietà e della finalità dei beni prodotti dal lavoratore, come anche del senso della propria attività, Rossi Landi la ricolloca nella sfera della comunicazione. Questa viene scientemente definita come “lavoro”, come produzione di parole, al fine di individuare i processi di sfruttamento e, per l'appunto, di alienazione. L’urgenza dell’epoca è quella di ridefinire in termini più sistematici, quel che Antonio Gramsci aveva intuito con i termini di “subalternità” della classe dominata ed “egemonia” delle classi dominanti. Come è possibile infatti che un gruppo sociale, sottoposto a processi di sfruttamento possa identificarsi culturalmente e tendere socialmente ai valori e alla posizione della classe dominante? Estendere il conflitto, al di là dell’ambito strettamente economico della produzione di merci, è l’approccio che permette di individuare e trattare i nuovi fenomeni del consenso ottenuto attraverso la costruzione e diffusione dell’”ideologia”. Ai fini di questo percorso è di estremo rilievo l’estensione dell’ambito semantico cui fa riferimento il nuovo termine di “lavoro linguistico” (Il linguaggio come lavoro e come mercato, p. 61 e ss.). Si tratta di lavoro, da intendere come produzione, perché ne ha alcune precise caratteristiche: genera valore, aggiunge cioè qualcosa che non è dato in natura – “le parole non esistono in natura”, sono cioè propriamente umane; non è un’attività, in senso aristotelico e arendtiano, cioè non è fine a se stessa ma effettivamente ha per esito dei “prodotti”; infine non è un comportamento, che apparterrebbe cioè alla dimensione naturale dell’essere umano, come la digestione e la respirazione, oppure alla sua dimensione spirituale, trascendente il rapporto con l’ambiente e la natura. La comunicazione è propriamente un “lavoro linguistico” in quanto trasforma l’ambiente ed ha per esito dei prodotti, in primo e ultimo luogo, il “sociale”. E’ qui che incontriamo una ulteriore specificazione di rilievo, il lavoro linguistico è antropogenico, è produzione dell’umano a mezzo dell’intervento umano. Possiamo dunque concludere segnalando lo spostamento dei processi che vanno sotto il termine di riproduzione. Nel quadro marxiano si trattava dei processi di rigenerazione fisiologica, di ripetizione ed estensione delle condizioni di produzione – i mezzi e la forza lavoro necessari alla produzione di merci – nonché della conservazione e aggiornamento dei rapporti tra classi sociali. Con la nuova categoria del “lavoro linguistico” il paradigma della produzione ingloba tali processi attraverso la sua funzione antropogenica, lasciando fuori – ma non per molto – la riproduzione biologica e fisiologica dell’essere umano.

28

Ferruccio Rossi Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato (1968) INFRATESTO Il lavoro umano linguistico Le parole, come unità della lingua, sono prodotti del lavoro linguistico; di tali prodotti ci si serve come di materiali e strumenti nel corso di ulteriore lavoro linguistico, con cui si producono messaggi. Questo gruppo di proposizioni ci porta nel cuore dell’argomento. Per mezzo d’un procedimento non dissimile da quello che ha permesso all’economia classica di raggiungere la nozione generalizzata di lavoro non-linguistico, è possibile raggiungere una nozione generalizzata di lavoro linguistico. Qui mi limiterò a ricordare come per es. Marx, in una pagina giovanile, osservasse che i fisiocratici, quando consideravano l’agricoltura come unico lavoro produttivo, non coglievano ancora il lavoro nella sua generalità e astrazione: lo legavano ancora «a un particolare elemento naturale come sua materia» e intendevano ancora il suo prodotto «quale una determinata ricchezza, pertinente più alla natura che al lavoro stesso». Essenza della ricchezza, generatore del valore, è invece il lavoro in generale (...) Il punto essenziale è il seguente: se non vogliamo ammettere che qualcosa di umano esista per l’uomo senza intervento dell’uomo stesso, dobbiamo attenerci al principio che ogni ricchezza o valore, comunque intesi, sono il risultato di un lavoro che l’uomo ha compiuto e può ricompiere. Generalizzando, fra un qualsiasi prodotto o risultato umano in quanto assente, e lo stesso prodotto o risultato in quanto presente, c’è una differenza che si può spiegare (di cui si può dar ragione) solo nei termini del lavoro espletato dagli uomini per conseguirlo. La categoria più generale di questi prodotti è l’uomo stesso, risultato storico del suo proprio lavoro. Dalla constatazione che le parole e i messaggi non esistono in natura, perché vengono prodotti dagli uomini, si ricava immediatamente che sono anch’essi prodotti di lavoro. È questo il senso in cui si può cominciare a parlare di lavoro umano linguistico. L’espressione ha il pregio di porre questo tipo di lavoro sullo stesso piano del lavoro “manipolativo” o “trasformativo” con cui si producono oggetti fisici. (...) Il lavoro linguistico e quello non-linguistico vengono ricondotti, quali specie di solito arbitrariamente separate, al genere cui a pari titolo appartengono. Si vuol rendere unitaria la definizione dell’uomo quale animale lavorante e parlante, che si distingue da tutti gli altri in quanto produce attrezzi e parole e con tale produzione, che è “il sociale”, forma storicamente se stesso. Parlo espressamente di lavoro anziché di attività perché le parole e i messaggi, che sono dei prodotti, costituiscono la concreta realtà sociale da cui dobbiamo partire. Perderemmo contatto con tale realtà se considerassimo il linguaggio soltanto come un’attività, il cui fine stia nell’attività stessa anziché distinguersene secondo la nota e sempre valida distinzione aristotelica (...) l’attività che soddisfa il bisogno in maniera immediata è preumana. Perché l’uomo si formi, occorre che l’immediatezza si rompa: che fra bisogno e soddisfazione s’inserisca il lavoro. È soltanto col lavoro che sorge nell’uomo qualcosa di universale. (...) Tutte queste fantasie si tolgono di mezzo ricordando con Marx ed Engels che il linguaggio, come la coscienza, sorge dal bisogno dalla necessità di rapporti con altri uomini. E’ chiaro che qui la parola ‘uomo’ viene usata dialetticamente, con l’occhio volto al formarsi del suo singnificato. Quando si parla del bisogno di rapporti di un uomo con altri uomini, non per ciò si vuol dire che tutti questi uomini siano già formati. Essi si formano invece proprio nel processo dell’istituzione di quei rapporti. Quando diciamo che l’uomo ha fra gli altri bisogni anche quello di esprimersi e comunicare, descriviamo un dato di fatto riferito alla situazione presente, o comunque a una situazione già evoluta, nella quale gli uomini già esistono con quella misura di compiutezza che l’evoluzione ha concesso. (...) Oltrepassata la fase delle prime torme, animalesche e istintive, di appropriazione immediata di oggetti esistenti in natura, soltanto il lavoro umano può soddisfare un bisogno umano; soltanto un lavoro complesso come quello linguistico può soddisfare il complesso bisogno umano di esprimersi e comunicare. La complessità del lavoro è determinata dalla complessità del bisogno e a sua volta la determina — esattamente come avviene col lavoro manipolativo o trasformativo. Il linguaggio, e le lingue come suoi prodotti, si formano nella dialettica del soddisfacimento dei bisogni, cioè dentro al processo di istituzione dei rapporti di lavoro e di produzione; anche il linguaggio è lavoro umano, e le lingue ne sono l’obiettivazione necessaria. Si tratta dunque in primo luogo di un’attività sociale, che richiede l’uso di tecniche collettive e comunitarie. Si deve dire ‘collettive’ o ‘comunitarie’ anziché ‘intersoggettive’, perché quest’ultimo termine farebbe pensare a una compresenza di soggetti indipendenti che giungano poi a svolgere un lavoro e ad applicare una tecnica. (...) Lavoro, prodotto e uso del prodotto. È comune l’osservazione che il lavoro linguistico, malgrado la sua immensa complessità, viene di solito svolto da tutti i parlanti e ascoltatori senza affatto badare alle tecniche messe in opera. Tutt’al più, si osserva, parlanti e ascoltatori hanno in mente il fine della conversazione, lo scopo per cui stanno comunicando: cioè un qualche effetto quasi sempre extra-linguistico che essi vogliono ottenere o che dovranno subire. Ma spesso un fine non ce l’hanno; e semplicemente, parlando, esprimono se stessi e si

29

tengono in contatto comunicativo. L’uso del linguaggio si presenta come naturale: di primo acchito, sembra quasi che l’uomo parli come l’uccello vola e il pesce nuota. In tali osservazioni si può annidare qualche equivoco. La naturalità del parlare è una socialità, ed il frutto di un esercizio assai lungo dell’individuo e di una tradizione assai lunga del vivere sociale. Si tratta di una pseudonaturalità. Ferruccio Rossi Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, Milano 1973, pp. 60-72. FINE INFRATESTO

30

CHRISTIAN MARAZZI. Il lavoro come linguaggio L’autore analizza l’epoca postfordista dal punto di vista delle sue trasformazioni economiche e individua un

nuovo «paradigma produttivo», riassunto nell’espressione «svolta linguistica dell’economia». Tale paradigma

mostra la rottura con il modo tradizionale di produzione, quello della fabbrica fordista, in cui la produzione

coincideva con la produzione di merci a mezzo di forza lavoro (capitale variabile) e di macchine (capitale

fisso), e in cui il valore era misurato dal tempo di lavoro.

Si tratta di una trasformazione tecnologica della produzione e di una trasformazione sostanziale del lavoro

produttivo: da una parte, subentrano «tecnologie sempre più mentali, simboliche e comunicative»

(telecomunicazioni, servizi, ecc.), che sostituiscono i macchinari tradizionali con la «macchina linguistica» e

quindi con mezzi di produzione sempre più immateriali; dall’altra è il lavoro stesso che si presenta sempre di

più come lavoro comunicativo, relazionale e linguistico. Il lavoro, cioè, è lavoro vivo, in cui il prodotto è

inseparabile dal produttore: la sostanza del lavoro sono le facoltà cognitive e interpretative della persona e la

produttività del lavoro non corrisponde più alla quantità di prodotto per ora lavorativa bensì a «un insieme di

fattori (…) che trascendono il singolo lavoratore, permettendo a questo di essere creatore di ricchezza in

quanto membro di una collettività» (Il posto dei calzini, p. 78).

E’ l’interazione sociale linguistica e comunicativa, come sostanza del lavoro, assieme all’uso delle tecnologie

immateriali, che rende difficile separare lo spazio della produzione. La produttività, in quanto misura

dell’aumento del valore economico, accompagna qualsiasi momento della giornata perché in ogni momento

si esercitano capacità linguistiche che interpretano il contesto culturale e lo rielaborano in forme relazionali e

comunicative, poi catturate e appropriate dalle imprese economiche e tradotte in capitale umano.

La produzione, quindi, esce dagli steccati del processo lavorativo e produttivo di merci e raggiunge quegli

spazi e tempi di vita tradizionalmente appartenenti alla sfera riproduttiva. Di più, il rapporto tra produzione e

riproduzione può essere non solo di integrazione, ma persino di ridefinizione della prima attraverso le

caratteristiche della seconda. Marazzi infatti individua nel lavoro riproduttivo e domestico una chiave

paradigmatica per leggere le trasformazioni della produzione postfordista. Si tratta di un lavoro che - in

quanto integralmente costituito dalla relazione affettiva e di cura (nonché di subordinazione) della donna

all’uomo - risulta impossibile da misurare attraverso il parametro classico della quantità di ore di lavoro. Le

capacità che la donna mette al lavoro sono quelle cognitive, affettive, comunicative che le permettono di

rispondere ai bisogni relazionali del marito, traducendoli e interpretandoli continuamente a partire dal

contesto socio-culturale in cui è inserito. Qui il lavoro, sebbene non smetta mai di essere attività faticosa, è

lavoro vivo in cui il capitale costante, il macchinario, ha molta meno importanza di quello personale.

31

Christian Marazzi, Il posto dei calzini (1999) - INFRATESTO Il dibattito sul lavoro domestico, il lavoro riproduttivo “storicamente” svolto dalle donne, fornisce elementi essenziali per proseguire nella ricerca delle regole, e dell’unità di misura (...) Qui non si mette in discussione la necessità di avere una qual che unità di misura per tentare di definire nel modo più equo possibile scambio tra l’uomo e la donna all’interno del nucleo familiare (...) Ciò che invece si vuole discutere è la natura dell’unità di misura. L’unità di misura economica che riproduce nella sfera familiare il principio giuridico della parità uomo-donna rivela una rottura nella possibilità stessa di poter confrontare il lavoro dell’uomo con quello della donna (...). Il problema della misura, com’è noto, si pone a diversi livelli. In primo luogo si tratta di fare astrazione dalle diversità dei lavori concreti: c’è chi stira e chi si occupa dei bambini, o chi lavora fuori casa e chi a casa. Questa astrazione, nel caso del lavoro in ambito domestico, si effettua normalmente comparando il lavoro dell’uno e dell’altra in termini di quantità di tempo (...). Ma in questa astrazione (...) irrompe la «storia vissuta» delle donne che problematicizza la riduzione all’unità di tempo, la misurazione del lavoro effettivamente prestato. A parità di tempo di lavoro, quello delle donne è un lavoro assai più intensivo di quello dell’uomo. Questa intensità non è riducibile alla sola dimensione quantitativa, come se fosse l’effetto di una specializzazione acquisita dalla donna nel tempo (dall’infanzia in poi), ma attiene alla divisione sessuale dei ruoli. Dietro c’è tutta la storia dell’asimmetria nei rapporti di potere. E’ il potere sulle donne che mette in crisi la possibilità stessa di misurare quantità di tempo di lavoro utilizzando la medesima unità di misura. (...) Nella stessa unità di misura ci sono vissuti soggettivi e storici totalmente differenti. Si potrebbe dire che nell’Uno, nell’unità di misura, si nasconde la differenza (in questo caso tra uomo e donna), si annida il molteplice (...). Ma il «posto dei calzini» e la crisi della misura in esso riflessa, dimostrano due altre cose ugualmente centrali dell’attuale paradigma della trasformazione. Nella sfera del lavoro domestico si ha a che fare con un tipo particolare di lavoro che, come già visto in precedenza, sta diventando centrale all’interno deI regime postfordista. Si tratta di lavoro vivo in cui «il prodotto è inseparabile dal produttore». Questo lavoro, che trova in se stesso il proprio compimento, caratterizza tutti i servizi alle persone, e sempre più va estendendosi all’interno della sfera direttamente produttiva nella forma di attività relazionali. Si tratta prevalentemente di lavoro vivo perché, come evidente nella sfera domestica, il macchinario (capitale costante) svolge un ruolo meno importante del lavoro personale (...). II lavoro vivo, in virtù deI suo essere parte ed effetto di un contesto socioculturale, ha inglobato in sé una serie di caratteristiche che attengono sempre più a un tipo di lavoro comunicativo e relazionale: lavando e stirando camicie una volta ogni due giorni, invece di una volta ogni dieci giorni (quando gli standard di pulizia erano meno esigenti), la donna reinterpreta col suo lavoro i bisogni relazionali del marito e dei figli fuori della famiglia, al lavoro o a scuola. (...) La quantità di lavoro vivo non diminuisce, è anzi aumentata, contraddicendo tutte le teorie dello sviluppo tecnologico che stabiliscono un rapporto lineare di causa ed effetto tra innovazione tecnologica e lavoro necessario. La scienza incorporata nei macchinari, nel capitale fisso, permette di eliminare la parte industriale del lavoro, la parte cioè del lavoro materiale, esecutivo e meccanico. Parallelamente alla riduzione del lavoro di tipo industriale aumenta il lavoro comunicativo-relazionale che fa appello alle qualità cognitive e interpretative di chi lavora in un determinato contesto. Il lavoro, per così dire, si «intellettualizza», si «mentalizza», pur rimanendo lavoro vivo faticoso. Il valore nell’economia dell’informazione Una caratteristica fondamentale che va colta delle nuove tecniche e tecnologie, e che permette di analizzare le strategie d’investimento e i loro effetti sul volume occupazionale, è la progressiva perdita di importanza de l capitale fisso, del macchinario, nella determinazione del valore economico. (...) Ciò che conta non sono gli immobili o le macchine dell’azienda, ma i contatti e le potenzialità della sua struttura di marketing, della sua forza di vendita, la capacità organizzativa del suo management e la forza-invenzione del suo personale. Si tratta dei cosiddetti beni o attivi «intangibili», veri e propri simboli, per i quali non esiste ancora uno strumento di misurazione statistica e contabile. Dato che un titolo azionario è un simbolo di proprietà (di una parte dell’utile dell’impresa), e dato che il capitale che l’azione rappresenta è a sua volta un insieme dì simboli di «capacità di produrre» ricchezza, si assiste a una proliferazione di simboli che si rimandano l’un l’altro come specchi, allontanandosi all’infinito. Il capitale sta rapidamente diventando, come sostiene Alvin Toffier, «supersimbolico» (...).

32

Innanzi tutto, il valore viene estratto in tutto il processo di produzione/fornitura di un prodotto/servizio. L’economia postfordista non è caratterizzata dal fatto che la gente ha improvvisamente cominciato ad appagare i propri bisogni attraverso consumi immateriali, ma dal fatto che le attività appartenenti alla sfera economica sono sempre più integrate. Gli assunti fondamentali del nuovo paradigma di produzione sono la connessione in luogo della separazione, l’integrazione in luogo della segmentazione, la simultaneità in tempo reale in luogo delle fasi sequenziali. In altre parole, la produzione non inizia e non finisce in fabbrica. Si può quindi affermare che la produttività, in quanto misura dell’aumento del valore economico, comincia ancor prima che il lavoratore arrivi in ufficio. Nella valutazione/misurazione del capitale intellettuale delle imprese, infatti, l’idea centrale è che il sapere è al contempo materiale intellettuale e relazionale, contenuto e cultura. (...) L’attività lavorativa puntuale lungo il processo produttivo non è quindi misurabile con i criteri tradizionali. La definizione classica della produttività, vale a dire il valore dei prodotti finiti rapportato al costo dei fattori di produzione (lavoro e/o capitale investito) non ha più alcun significato operativo. E’ un criterio di misurazione che aveva un senso in un’epoca in cui le telecomunicazioni, i servizi e le tecnologie immateriali non erano né diffusi né decisivi. Oggi si assiste invece alla nascita del «cognitariato», una classe di produttori che viene «comandata», per usare la terminologia di Adam Smith, non più da macchine esterne al lavoro vivo, ma da tecnologie sempre più mentali, simboliche, comunicative. Il nuovo capitale fisso, la nuova macchina che comanda lavoro vivo, che fa produrre l’operaio, perde la sua caratteristica tradizionale di strumento di lavoro fisicamente individuabile e ubicabile, per essere tendenzialmente sempre più dentro il lavoratore stesso, dentro il suo cervello e la sua anima. Come dire che il nuovo capitale fisso è costituito dall’insieme dei rapporti sociali e di vita, dalle modalità di produzione e di acquisizione delle informazioni che sedimentandosi nella forza lavoro, vengono poi attivate lungo il processo di produzione. (...) Di fatto, la risorsa umana intellettuale è la vera origine del valore, ma essa è nulla se non viene catturata, trasformata in proprietà dall’impresa. Ciò richiede l’elaborazione di strutture intellettuali, quali i sistemi d’informazione, i canali di conoscenza e di rapporti con la clientela, in base ai quali viene in qualche modo riprodotta la «cartografia» delle interazioni tra i saperi (...) La produttività non è misurabile sulla base della quantità di prodotto per ora lavorata, non è neppure riferibile a una azienda o a un settore specifici. Essa misura invece un insieme di fattori caratterizzanti lo spazio sociale-regionale che trascendono il singolo lavoratore, permettendo a questo di essere creatore di ricchezza in quanto membro di una collettività. (...) La vera valutazione consiste nella «validazione sociale» del capitale intellettuale così sviluppato, ossia nel tasso di soddisfazione della clientela che sì traduce in volume di vendita. Come normale, è nell’atto della vendita che le risorse umane attivate lungo il processo produttivo sono finalmente monetizzate, dunque misurabili. Il denaro, forma astratta del valore per eccellenza, sancisce il valore del capitale umano, lo «riduce a merce», ne rivela l’adeguatezza di mercato, e fornisce le informazioni (alla stessa stregua delle scorte accumulate) su dove e come intervenire per meglio adattare la produzione alla domanda proveniente dal mercato. Christian Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 60-79. FINE INFRATESTO

33

II. 2 L’IMMMATERIALE E IL COGNITIVO ANDRE’ GORZ. La produzione in quanto immateriale Nelle cosiddette società del tardo capitalismo, del capitalismo postindustriale, in cui subentra peraltro un’economia non delle merci bensì dei servizi, l’intersezione tra produzione di merci e produzione comunicativa e d’informazione conosce nuovi sviluppi, ma secondo traiettorie parzialmente impreviste. A una prima considerazione è il vettore dell’intersezione che sembra mutare di direzione: se in precedenza è la produzione di merci a fare da modello alla produzione linguistica, permettendo di trasporre le analisi dell’alienazione e dello sfruttamento dalla prima alla seconda, a cavallo tra XX e XXI secolo pare emergere una egemonia teorica e sociale della seconda sulla prima, a spiegare la nascita di espressioni quali knowledge society, knowledge economy, ma anche capitale umano. E’ sul versante della dimensione antropogenica della produzione che si colloca infatti André Gorz, ma con tonalità e sottolineature del tutto diverse dalle analisi che hanno inaugurato il campo della produzione linguistica e comunicativa. In effetti, a una seconda considerazione, emerge come non si tratti più di una intersezione tra ambiti distinti della produzione, quella di merci e quella di socialità. Come specifica Gorz, non si tratta di assumere la tesi della scomparsa della produzione di merci, ma di registrare come questa sia affatto marginale e periferica, rispetto al lavoro immateriale. Quali sono gli elementi implicati in questa specifica formulazione, che si distingue, ad esempio, dal “lavoro cognitivo” o “capitale cognitivo”, come anche dall’incorporazione di processi informativi e comunicativi nella produzione stessa delle merci e dei servizi (vd. Marazzi)? La caratteristica principale della proposta di Gorz sta nella centralità data proprio dal carattere antropogenico della produzione. Il capitale umano, vale a dire l’umano come forza lavoro non solo come qualità fisica ma soprattutto in quanto forza derivante dalle “competenze” - si costituisce e ricostituisce in ambiti diversi ma in stretta continuità: l’ambiente familiare e sociale, la formazione scolastica e, non da ultimo, l’esperienza lavorativa. Si tratta di ambiti eminentemente relazionali e dunque comunicativi per definizione. Ritroviamo qui infatti la definizione dell’essere umano come essere al contempo linguistico e sociale, unitamente alle coordinate marxiane della produzione e riproduzione dell’umano individuato come forza lavoro. In Gorz, il cuore dell’analisi condotta secondo il paradigma del lavoro immateriale si concentra sulla autoproduzione dei soggetti che lavorano: in un call center, nella programmazione informatica, nella raccolta di dati sui comportamenti di consumo, il lavoratore produce continuamente se stesso in quanto “gestore dei flussi di informazione” (2003,p.12). Tuttavia, questa “produzione di sé” non può essere confinata al solo ambito del lavoro salariato. Innanzitutto perché la capacità di gestire informazioni non è una competenza specifica che si attiva e rigenera nello svolgimento della mansione lavorativa – le capacità di “giudizio, discernimento, apertura mentale e attitudine ad apprendere” si sono formate e si rigenerano in ambiti relazionali isomorfi eppure distinti dall’ambito lavorativo in senso stretto, dai rapporti di prossimità come quelli familiari e amicali a quelli sociali, dai momenti di apprendimento istituzionalizzato, quali la scuola e il percorso educativo, ai processi di formazione continua, formali e informali. E’ tutta la vita sociale dell’individuo, passata e presente, che concorre a determinare la sua capacità come forza lavoro, tanto più che per Gorz l’”intelligenza” messa al lavoro è una composizione di conoscenze formalizzate e di sapere, di quelle “credenze incorporate” (vd. Bourdieu), che risultano dalle abitudini, dalle disposizioni maturate e sviluppate nel corso della vita e dell’elaborazione della propria appartenenza sociale. Siamo in presenza di una tesi che preannuncia la concezione del “tutto sociale” in quanto colonizzato dalle dinamiche economiche, intese queste come dinamiche non tanto produttive bensì riproduttive, che però mantengono le caratteristiche produttive dell’alienazione e dello sfruttamento.

34

André Gorz, L’immateriale (2003) - INFRATESTO Il lavoro immateriale 1. Il «capitale umano» Stiamo attraversando un periodo nel quale più modi di produzione coesistono. Il capitalismo moderno, centrato sulla valorizzazione di grandi masse di capitale fisso materiale, è sostituito sempre più rapidamente da un capitalismo postmoderno centrato sulla valorizzazione di capitale detto immateriale, qualificato anche come «capitale umano», «capitale conoscenza» o «capitale intelligenza». Questa mutazione si accompagna a nuove metamorfosi del lavoro. Il lavoro astratto semplice che, dai tempi di Adam Smith, era considerato come la fonte dei valore, è sostituito dal lavoro complesso. Il lavoro di produzione materiale, misurabile in unità di prodotto per unità di tempo, è sostituito da lavoro detto immateriale, al quale non sono più applicabili le unità di misura classiche. Gli anglosassoni parlano della nascita di una knowledge economy e di una knowledge society, i tedeschi di una Wissensgesellschaft, gli autori francesi di un capitalisme cognitif e di una société de la connaissance (...) [Una terminologia analoga si trova] nei testi economici e manageriali attuali: l’«economia dell’immateriale», il «capitalismo cognitivo», la «conoscenza, principale forza produttiva», la «scienza, motore dell’economia»: di che cosa si parla esattamente parlando di conoscenza e di scienza? (...) Il valore trova oggi la sua fonte nell’intelligenza e nella immaginazione. Il sapere dell’individuo conta più del tempo della macchina. L’uomo, portando il proprio capitale, porta una parte del capitale dell’impresa (...). Quel che colpisce immediatamente è che non si parla né di conoscenze né di qualifica professionale. Quel che conta nei «collaboratori» di uno dei maggiori gruppi industriali del mondo, sono le qualità di comportamento, le qualità espressive e immaginative, il coinvolgimento personale nel compito da svolgere. Tutte queste qualità e queste facoltà sono di solito caratteristiche di chi presta servizi personali, di chi fornisce un lavoro immateriale che non è possibile quantificare, immagazzinare, omologare, formalizzare, insomma oggettivare. 2. Lavorare è prodursi Il fatto è che l’informatizzazione dell’industria tende a trasformare il lavoro in gestione di un flusso continuo di informazioni. L’operatore deve «dedicarsi» in continuazione a questa gestione dei flussi, a prodursi come soggetto per assumerla. La comunicazione e la cooperazione tra operatori son parte integrante della natura del lavoro. (...) Le qualità non ordinabili che ci si aspettano da lui sono il discernimento, la capacità di far fronte all’imprevisto, di individuare e risolvere i problemi. «L’idea del tempo come base del valore non funziona più. Quel che conta è la qualità del coordinamento». (Veltz, La nouvelle revolution industrielle, p. 68). L’impossibilità di misurare la prestazione individuale e di prescrivere i mezzi e le procedure per giungere a un risultato porta i dirigenti d’impresa a ricorrere alla «gestione per obiettivi» essi «fissano degli obiettivi ai salariati sta a loro sbrogliarsela per realizzarli. E’ il ritorno del lavoro come prestazione di servizi», (Ivi, p. 69) il ritorno del servicium, obsequium dovuto alla persona del signore nella società tradizionale. Si capisce allora l’assenza di ogni riferimento al lavoro materiale nella comunicazione del direttore delle risorse umane di Daimler-Chrysler. La fornitura di servizi, il lavoro immateriale diventa la forma egemonica del lavoro; il lavoro materiale è respinto alla periferia del processo di produzione, dov’è senz’altro esternalizzato. Diventa un «momento subalterno» di questo processo, benché resti indispensabile e anzi determinante dal punto di vista quantitativo. Il cuore della creazione del valore è il lavoro immateriale. Era importante mostrare che questo lavoro immateriale non si basa principalmente sulle conoscenze dei suoi prestatari. Si basa innanzi tutto su capacità espressive e cooperative che non si possono insegnare, su una vivacità nella messa in opera dei saperi che fa parte della cultura quotidiana. (...) I lavoratori postfordisti, al contrario, devono entrare nel processo di produzione con tutto il bagaglio culturale che hanno acquisito con i giochi, gli sport di squadra, le lotte, le dispute, teatrali, ecc. E in queste attività extralavorative che si sono sviluppate la loro vivacità, la capacità d’improvvisazione, di cooperazione. È il loro sapere vernacolare che l’impresa postfordista mette al lavoro e sfrutta. (...) 3. La «mobilitazione totale» L’importante per il momento è che l’attività di produzione di sé è una dimensione necessaria di ogni lavoro immateriale e che questo tende a fare appello alle stesse capacità e alle stesse disposizioni personali delle attività libere al di fuori del lavoro. (...) 4. Avvento dell’imprenditore di se stesso

35

La sussunzione totale della produzione di sé da parte del capitale incontra dunque dei limiti insuperabili, almeno fino a quando sussiste tra l’individuo e l’impresa, tra la forza-lavoro e il capitale una eterogeneità che permette alla prima di sottrarsi al gioco, di rifiutarsi alla messa al lavoro totale. Basta enunciare questo ostacolo alla sussunzione totale perché balzi agli occhi il mezzo per aggirarlo: la differenza tra il soggetto e l’impresa, tra la forza-lavoro e il capitale dev’essere soppressa. La persona deve diventare in se stessa una impresa, deve diventare in se stessa, in quanto forza-lavoro, un capitale fisso che richiede di essere continuamente riprodotto, modernizzato, ampliato, valorizzato. Nessun vincolo gli deve essere imposto dall’esterno, essa dev’essere il proprio produttore, il proprio datore di lavoro e il proprio venditore, costringendosi a imporsi i vincoli necessari per assicurare la vitalità e la competitività dell’impresa che essa è. Insomma, il salariato dev’essere abolito. (...) 5. La vita è business Con l’imprenditoria di se stessi, è finalmente possibile realizzare la messa al lavoro e la messa in valore di tutta la vita e di tutta la persona. La vita diventa «il capitale più prezioso». La frontiera tra lavoro e non lavoro si cancella, non perché le attività lavorative e quelle non lavorative mobilitano le stesse competenze, ma perché il tempo della vita ricade interamente sotto il dominio del calcolo economico, sotto il dominio del valore. Ogni attività deve poter diventare un business e, come scrive Dominique Méda, «il rapporto con se stessi e il rapporto con gli altri saranno concepiti esclusivamente nella modalità finanziaria » (Qu ‘est-ce que la richesse? p. 136). (...) Tutto diventa merce, la vendita di sé si estende a tutti gli aspetti della vita, tutto è misurato in denaro. La logica del capitale, della vita diventata capitale assoggetta tutte le attività e tutti gli spazi nei quali all’origine si pensava che la produzione di sé si sviluppasse come dispendio gratuito di energia senza altro scopo che portare le capacità umane al loro più alto grado di sviluppo. André Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 9-23.

FINE INFRATESTO

36

PAOLO VIRNO. Il lavoro come general intellect La «svolta linguistica» delle trasformazioni economiche introdotte dal postfordismo è anche oggetto della

riflessione di Virno. Attingendo dal pensiero di Arendt, Aristotele, ma soprattutto di Marx, il linguaggio diventa

la base materiale per eccellenza della produzione capitalistica di ricchezza. Tuttavia, la tesi si differenzia da

quella relativa al lavoro immateriale. Non si tratta infatti di individuare il modello egemonico delle attuali

forme di lavoro (per Gorz, quello immateriale), ma al contrario di intercettare la trasformazione del modo di

produzione tenendo conto della sincronia tra differenti e molteplici modelli produttivi. Nel parlare di intelletto

generale Virno si riferisce a «lo sfondo e il presupposto di questa proliferazione di differenze» (Grammatica

della moltitudine, p. 75), a ciò che emerge, come base della produzione contemporanea: la generica facoltà

linguistica che accomuna «il tecnico di software all’operaio della Fiat, o al lavoratore precario» (ibidem).

A monte della riflessione del filosofo sta la distinzione aristotelica tra atto e potenza e la definizione marxiana

della forza-lavoro, in quanto capacità-potenza generica, «insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che

esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente dell’uomo, e che egli mette in movimento ogni volta

che produce valori d’uso di qualsiasi genere» (Marx, Il Capitale, Libro I, p. 184). Grazie a questi strumenti

Virno mostra che solamente con il postfordismo emergono in primo piano le capacità specie-specifiche o

genericamente umane, in quanto base dei processi produttivi. Secondo la definizione marxiana di forza

lavoro, le capacità messe al lavoro includono anche le facoltà intellettuali, non lasciando più niente fuori di

sé. Nel postfordismo si svela la generica potenza intellettuale-linguistica umana - una «rivelazione senza

messia (…) dei tratti fondamentali della nostra specie» (Forza Lavoro, in Lessico marxiano, p. 112) - come

base materiale della produzione, messa ora in atto durante il processo produttivo.

Virno recupera le pagine del Frammento sulle macchine di Marx (contenuto nei Lineamenti ) in cui l’autore

delinea come tendenza del capitale la progressiva incorporazione, nelle macchine, della scienza e del

sapere collettivo degli individui. Come scrive nella Tesi 2, è solo oggi che la cooperazione sociale, come

modalità storica della messa al lavoro capitalistica, diventa correlato e condizione materiale dell’emersione

delle facoltà generiche, linguistico-relazionali, della specie. A questo nuovo «epicentro della produzione

sociale» già Marx dava il nome di general intellect (intelletto generale), da intendere non come facoltà

individuale e riservata, ma «come qualcosa di esteriore e di collettivo, come un bene pubblico»,

transindividuale, che preordina tutti gli ambiti vitali. E ancora, seguendo Marx: se la produzione si fonda

sull’intelletto generale – e quindi sull’interazione, sulle relazioni sociali e sul sapere collettivamente prodotto

– allora il lavoro erogato dal singolo assume una posizione residuale. Il tempo di lavoro necessario diventa

parte sempre più inconsistente del tempo di produzione sociale.

A partire da qui Virno propone una serie di tesi che interrogano la trasformazione del modello fordista - cioè

dell’organizzazione del lavoro secondo il modello concetrato della fabbrica, in epoca industriale - quanto ai

rapporti tra lavoro (tempo di lavoro), produzione e valore (misura). Le analisi classiche sulla produzione

vengono nettamente riformulate: la produzione raggiunge la sua massima socializzazione con l’emergere

dell’«intellettualità di massa» e quindi con la messa al lavoro delle capacità specifiche dell’umano, in quanto

animale linguistico e politico. Le relazioni e il «mondo della vita» diventano, così, lo spazio-tempo della

produzione che si sgancia da quello misurato e circoscritto del processo produttivo circoscritto allo spazio-

tempo della fabbrica. In altre parole, si compie la contraddizione - già individuata da Marx e ripresa anche da

Marazzi - tra la misura del valore, legata alla quantità di tempo di lavoro incorporata nel prodotto, e il

processo di produzione che oggi ingloba vita retribuita e vita non retribuita (tempo di lavoro e tempo di non

lavoro).

Processo produttivo e processo lavorativo non coincidono più. O meglio, se il general intellect non è – come

voleva Marx – solo incorporato nel capitale fisso (nelle macchine), ma diventa anche «attributo del lavoro

vivo», allora, sostiene Virno analogamente a Marazzi, la produzione s’innesta su ogni aspetto e momento

dell’esperienza, perché in ogni momento, in quanto umani, facciamo esperienza di relazioni, adoperiamo la

37

parola, compiamo esercizi di memoria e di traduzione del vissuto. E contemporaneamente la cifra della

produttività del lavoro (e della sua non misurabilità in termini quantitativi) diventa la sua componente

cooperativa, interattiva, relazionale, in breve la sua natura linguistica e comunicativa.

38

Paolo Virno, Grammatica della moltitudine (2001) INFRATESTO Tesi 2 Il postfordismo è la realizzazione empirica del “Frammento sulle macchine” di Marx. Scrive Marx: “Il furto del tempo di lavoro altrui su cui poggia la ricchezza odierna si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base [il sistema automatizzato di macchine] che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato dl essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso” (Marx, Lineamenti, II, 401). NeI “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, da cui ho tratto la citazione, Marx sostiene una tesi ben poco marxista: il sapere astratto - quello scientifico in primo luogo, ma non solo esso - si avvia a diventare niente di meno che la principale forza produttiva, relegando il lavoro parcellizzato e ripetitivo in una posizione residuale. Sappiamo che Marx ricorre a un’immagine assai suggestiva per indicare l’insieme di conoscenze che costituiscono l’epicentro della produzione sociale e, insieme, preordinano tutti gli ambiti vitali: general intellect, intelletto generale. (...) Tesi 3 La moltitudine riflette in sé la crisi della società del lavoro. La crisi della società del lavoro non coincide certo con un lineare contrarsi del tempo lavorativo. Quest’ultimo, anzi, mostra oggi una inaudita pervasività. Le posizioni di Gorz e Rifkin sulla “fine del lavoro” sono sbagliate; seminano equivoci di ogni sorta; quel che è peggio, impediscono di mettere a fuoco la questione che pure evocano. La crisi della società del lavoro consiste piuttosto nel fatto (di cui alla tesi 2) che la ricchezza sociale è prodotta dalla scienza, dal general intellect, anziché dal lavoro erogato dai singoli.(...) La scienza, l’informazione, il sapere in genere, la cooperazione si presentano come un pilastro della produzione. Essi, non più il tempo di lavoro. Tuttavia questo tempo continua a valere quale parametro dello sviluppo e della ricchezza sociali. La fuoriuscita dalla società deI lavoro costituisce quindi un processo contraddittorio, teatro di furiose antinomie e di paradossi sconcertanti. Il tempo di lavoro è l’unità di misura vigente, ma non più vera. Tesi 4 Per la moltitudine postfordista viene meno ogni differenza qualitativa tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. Lavoro e non-lavoro sviluppano una identica produttività, basata sull’esercizio di generiche facoltà umane: linguaggio, memoria, socialità, inclinazioni etiche ed estetiche, capacità di astrazione e di apprendimento. Dal punto di vista del che cosa si fa e del “come” lo si fa, non v’è alcuna differenza sostanziale tra occupazione e disoccupazione. (...) La cooperazione produttiva cui la forza-lavoro partecipa è sempre più ampia e più ricca di quella messa in campo dal processo lavorativo. Comprende anche il non-lavoro, le esperienze e le conoscenze maturate al di fuori della fabbrica e dell’ufficio (...). Tesi 5 Nel postfordismo sussiste uno scarto permanente tra “tempo di lavoro” e un più ampio “tempo di produzione”. (...) Nel postfordismo, il “tempo di produzione” comprende il tempo di non-lavoro, la cooperazione sociale che in esso si radica (cfr. tesi 4). Chiamo quindi “tempo di produzione” l’unità indissolubile di vita retribuita e vita non retribuita, lavoro e non-lavoro, cooperazione sociale emersa e cooperazione sociale sommersa. Il “tempo di lavoro” è solo una componente, e non necessariamente la più rilevante, del “tempo di produzione” così Inteso. (...) Tesi 8 L’insieme della forza-lavoro postfordista, anche la più dequalificata, è forza-lavoro intellettuale, “intellettualità di massa”. Chiamo “intellettualità di massa” l’insieme del lavoro vivo postfordista (non già, si badi qualche settore particolarmente qualificato del terziario) in quanto esso è depositario di competenze cognitive e comunicative non oggettivabili nel sistema di macchine. L’intellettualità di massa è la forma preminente con cui si dà a vedere, oggi, il general intellect (...). Inutile dire che non mi riferisco in alcun modo a una fantomatica erudizione del lavoro dipendente; non penso certo che gli operai odierni siano esperti in fatto di biologia molecolare o di filologia classica. Come già detto nelle giornate precedenti ciò che viene in risalto è

39

piuttosto l’intelletto in generale, ossia le più generiche attitudini della mente: facoltà di linguaggio, disposizione all’apprendimento, memoria, capacità di astrarre e correlare, inclinazione all’autoriflessione. L’intellettualità di massa non ha a che fare con le opere del pensiero (libri, formule algebriche ecc.), ma con la semplice facoltà di pensare e di parlare. La lingua (come l’intelletto o la memoria) è quanto di più diffuso e di meno “specializzato” sia dato concepire. Non lo scienziato, ma il semplice parlante è un buon esempio di intellettualità di massa. (...) Gli aspetti caratteristici dell’intellettualità di massa, diciamo la sua identità, non possono essere reperiti in relazione al lavoro, ma prima di tutto sul piano delle forme di vita, del consumo culturale, degli usi linguistici. Tuttavia, e questa è l’altra faccia della medaglia, proprio quando la produzione non è più in alcun modo lo specifico luogo di formazione dell’identità, proprio allora essa si proietta su ogni aspetto dell’esperienza, sussumendo sotto di sé le competenze linguistiche, le inclinazioni etiche, le sfumature della soggettività. Paolo Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, Rubettino, Soveria Mannelli 2001, pp. 69-78. Fine infratesto

40

II.3 MICHEL FOUCAULT. Politiche dei corpi e della vita Il concetto di biopolitica introdotto da Foucault ha fornito una chiave di lettura dei moderni apparati di

governo e soprattutto una differente prospettiva di analisi della produzione, non più dal punto di vista

dell’organizzazione del lavoro, ma di tutti gli ambiti che della produzione e del lavoro costituiscono le

condizioni di possibilità.

La produzione (intesa come spazio circoscritto della produzione di merci) non è più luogo determinante il

sociale, ma si ridefinisce come uno dei campi del sociale attraversato da quelle tecnologie di potere che

costruiscono le condizioni della produttività dei corpi e delle loro forze; inoltre, la riproduzione - intesa come

riproduzione sessuale-biologica - smette di essere terreno invisibile ed estraneo ai rapporti sociali, per

essere colta nelle relazioni di dominio, quale campo d’enunciazione e terreno di gestione-controllo da parte

di dispositivi medici, normativi, giuridici, ecc.

Nei due saggi qui proposti, Foucault sostiene che in Occidente, a partire dall’età classica, sia avvenuto un

passaggio epocale dall’esercizio di un potere sovrano di vita e di morte al governo della vita, a «un potere»,

cioè, «destinato a produrre delle forze, a farle crescere, (…) un potere che gestisce la vita» (La volontà di

sapere, p. 120). Da ora il governo - ridefinito quale attività che potenzia, gestisce e controlla le forze del

corpo - viene ascritto al campo della regolazione economica connessa alla nascita dell’economia politica

moderna intesa come razionalità di governo.

Tale regolazione avviene quindi per l’effetto congiunto di saperi e poteri: le «tecnologie» sono dispositivi di

potere che operano con i nuovi saperi di un’epoca e contemporaneamente ne condizionano la nascita. E’ tra

il XVII e XVIII secolo, in particolare, che nascono due forme di potere sulla vita. La prima ha a che fare con il

dressage, il potenziamento e il disciplinamento dei corpi a fini utili alla produzione – la cosiddetta «tecnologia

disciplinare del lavoro» (Bisogna difendere la società, p. 208) - mentre la seconda si esplica attraverso

interventi di controllo, prevenzione e governo del corpo-specie, in quanto complesso delle funzioni biologiche

(dalla procreazione alle patologie).

La biopolitica consiste dunque in una pluralità di tecnologie anatomico-biologiche che si esercitano sia

attraverso l’istituzione di apparati per il disciplinamento del corpo (scuola, caserme, prigioni, ecc.) sia

attraverso un insieme di saperi teorici e tecnici che hanno di mira il rapporto tra le ricchezze, la loro

circolazione e la crescita di una popolazione (tassi di natalità e mortalità, di malattia e salute, di ambiente e

di mobilità), cioè del corpo-specie. Le istituzioni che riproducono i rapporti di produzione si estendono

dunque alle tecniche di potere presenti a tutti i livelli del sociale. La valorizzazione del corpo vivente, come

fonte della ricchezza economica e sociale, è infatti condizione fondamentale dell’instaurazione e dello

sviluppo del capitalismo (La société punitive, 1972).

Per biopolitica Foucault intende quindi la nascita congiunta di una serie di saperi teorico-tecnici – quali la

biologia, la statistica o la demografia – attraverso cui il potere individua e governa i processi biologici della

specie e della salute del corpo sociale, attraverso le tecnologie regolative, preventive e normative proprie di

ogni istituzione. L’essere vivente dell’animale umano non è dunque più distinto dal suo essere politico, ma,

anzi, diventa centrale per l’arte del governo. Si tratta di quella «soglia di modernità biologica» (La volontà di

sapere, p. 127) cui va incontro una società nella propria conservazione e riproduzione: la vita smette di

essere l’al di qua della storia e del politico. Di conseguenza, l’economico, inteso come tecnica di governo

fondata sul calcolo dell’utile e sulla massimizzazione del profitto, diventa principio regolatore di ogni aspetto

della vita della popolazione.

41

Michel Foucault, La volontà di sapere (1976) INFRATESTO L’Occidente ha conosciuto a partire dall’età classica una trasformazione molto profonda di questi meccanismi del potere. (...) un potere destinato a produrre delle forze, a farle crescere e a ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle o a distruggerle. Il diritto di morte tenderà da questo momento in poi a spostarsi, o almeno ad appoggiarsi sulle esigenze di un potere che gestisce la vita ed a finalizzarsi a ciò che queste domandano. Questa morte, che si fondava sul diritto del sovrano di difendersi o di chiedere che lo si difenda, apparirà come l’altra faccia del diritto che ha il corpo sociale di assicurare la sua vita, di mantenerla o di svilupparla. Mai le guerre sono state tuttavia piti più sanguinose che dal XIX secolo in poi e, anche fatte le debite proporzioni, mai i regimi avevano praticato fino a quel momento sulle loro popolazioni simili olocausti. Ma questo formidabile potere di morte — ed è forse questo che gli dà una parte della sua forza e del cinismo con il quale ha portato così lontano i propri limiti — si presenta ora come il complemento di un potere che si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme. Le guerre non si fanno più in nome del sovrano che bisogna difendere; si fanno in nome dell’esistenza di tutti; si spingono intere popolazioni ad uccidersi reciprocamente in nome della loro necessità di vivere. (...) Concretamente, questo potere sulla vita si è sviluppato in due forme principali a partire dal XVII secolo; esse non sono antitetiche; costituiscono piuttosto due poli di sviluppo legati da tutto un fascio intermedio di relazioni. Uno dei poli, il primo sembra ad essersi formato, è stato centrato sul corpo in quanto macchina: il suo dressage, il potenziamento delle sue attitudini, l’estorsione delle sue forze, la crescita parallela della sua utilità e della sua docilità, la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci ed economici, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di potere che caratterizzano le discipline: anatomo-politica del corpo umano. Il secondo, che si è formato un po’ più tardi, verso la metà del XVIII secolo, è centrato sul corpo-specie, sul corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che serve da supporto ai processi biologici: la proliferazione, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata di vita, la longevità con tutte le condizioni che possono farle variare; la loro assunzione si opera attraverso tutta una serie d’interventi e di controlli regolatori: una biopolitica della popolazione. (...) Questo bio-potere è stato, senza dubbio, uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo; questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione, e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici. Ma ha richiesto di più: gli è stata necessaria la crescita degli uni e degli altri, il loro rafforzamento così come la loro utilizzabilità e la loro docilità gli sono stati necessari metodi di potere suscettibili di maggiorare le forze, le attitudini, la vita in generale, senza pertanto renderle più difficili da assoggettare; se lo sviluppo dei grandi apparati di Stato, come istituzioni di potere, ha assicurato il mantenimento dei rapporti di produzione, i rudimenti di anatomo- e di bio-politica, inventati nel XVIII secolo come tecniche di potere presenti a tutti i livelli del corpo sociale ed usati da istituzioni molto diverse (la famiglia come l’esercito, la scuola o la polizia, la medicina individuale o l’amministrazione delle collettività), hanno agito a livello dei processi economici, del loro sviluppo, delle forze che vi sono all’opera e li sostengono; hanno operato anche come fattori di segregazione e di gerarchizzazione sociale, agendo sulle forze rispettive degli uni e degli altri, garantendo rapporti di dominazione ed effetti di egemonia; l’adeguarsi dell’accumulazione degli uomini a quella del capitale, l’articolazione della crescita dei gruppi umani con l’espansione delle forze produttive e la ripartizione differenziale del profitto, sono stati resi possibili in parte dall’esercizio del bio-potere, nelle sue forme e con i suoi procedimenti svariati. L’investimento del corpo vivente, la sua valorizzazione e la gestione distributiva delle sue forze sono stati in quel momento indispensabili. Si sa quante volte è stata posta la questione del ruolo che ha potuto avere, nella primissima fase di formazione del capitalismo, una morale ascetica; ma ciò che è accaduto nel XVIII secolo in certi paesi dell’Occidente, e che è stato messo insieme dallo sviluppo del capitalismo, è un fenomeno diverso e forse di una ampiezza maggiore di questa nuova morale, che sembrava screditare il corpo; fu nientemeno che l’ingresso della vita nella storia — voglio dire l’ingresso dei fenomeni, propri alla vita della specie umana nell’ordine del sapere e del potere —, nel campo delle tecniche politiche. Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 120-127.

42

Michel Foucault, Bisogna difendere la società (1997) INFRATESTO Ma quel che si potrebbe chiamare la “soglia di modernità biologica” di una società si colloca nel momento in cui la specie entra come posta in gioco nelle sue strategie politiche. Per millenni l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente (...). Ma di che cosa si tratta in questa nuova tecnologia di potere, nella biopolitica, nel bio-potere che sta per installarsi? Ve lo dicevo, anche se un po’ sbrigativamente, poco fa: ad avere costiuito i primo oggetti di sapere e i primi obiettivi di controllo della biopolitica, sono stati quei processi, quell’insieme di processi - come la proporzione delle nascite e dei decessi, il tasso di riproduzione, la fecondità di una popolazione e così via - che, nella seconda metà del XVIII secolo, erano, come è noto, in connessione con tutto un insieme di problemi economici e politici (...). Oggetti di sapere e obiettivi di controllo della biopolitica erano dunque, in generale, i problemi della natalità, della mortalità, della longevità. E in ogni caso a quest’epoca, con le prime demografie, che viene messa in funzione la misurazione statistica di tutti questi fenomeni. Si tratta dell’osservazione di procedimenti, più o meno spontanei o più o meno concentrati, messi in atto dalla popolazione in relazione alla natalità; si tratta, in breve, dell’individuazione dei fenomeni di controllo delle nascite così come era praticato nel XVIII secolo. Tutto ciò ha rappresentato l’abbozzo di una politica di incremento demografico. (...) La biopolitica ha a che fare con la popolazione. Più precisamente: ha a che fare con la popolazione in quanto problema al contempo scientifico e politico, come problema biologico e come problema di potere. (...) Consideriamo ora un ambito su di un altro asse del tutto — o meglio solo parzialmente — diverso, quello della sessualità e chiediamoci perché, in fondo, la sessualità è diventata nel XIX secolo, un campo la cui importanza strategica è stata fondamentale? Credo che la sessualità sia stata così importante per numerose ragioni, ma in particolare perché da un lato, in quanto portamento esattamente corporeo, la sessualità dipende da controllo disciplinare, individualizzante, condotto in forma di sorveglianza permanente (i famosi controlli della masturbazione, esercitati sui bambini dalla fine del XVIII secolo fino al XX secolo, sia nell’ambito familiare sia in quello scolastico, ad esempio, rappresentano nella maniera più evidente questa dimensione di controllo disciplinare della sessualità); da un altro lato, però, attraverso i suoi effetti di procreazione, la sessualità si iscrive e acquista efficacia all’interno di processi biologici più ampi, che guardano più il corpo dell’individuo, ma riguardano quell’elemento, quell’unità molteplice costituita dalla popolazione. La sessualità si colloca dunque proprio nel punto in cui si intersecano il corpo e la popolazione. Pertanto dipende dalla disciplina, ma dipende anche dalla regolazione. L’estrema valorizzazione medica della sessualità nel XIX secolo credo tragga li suo principio proprio dalla posizione privilegiata della sessualità,che sta appunto tra organismo e popolazione, tra corpo e fenomeni globali. Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 209-217.

Fine infratesto

43

II. 4 IL RITORNO DELL’ECONOMIA MORALE Nei rapporti tra produzione e riproduzione, abbiamo visto fin qui come la tensione si sia data tra la dimensione economica e la dimensione della vita associata. Abbiamo anche visto che la riproduzione, quando considerata nei suoi tratti biologici tende, almeno nelle teorie classiche, ad essere occultata in una sfera che non è né economica né propriamente sociale e politica, nella sfera privata familiare. Tuttavia, rileggendo i testi moderni, in particolare quelli che inaugurano l’epoca dell’homo oeconomicus, è possibile individuare - proprio attraverso la naturalizzazione dell’economico - un rimando diretto tra morale individuale privata e sfera dei rapporti appropriativi e di scambio. E’ il caso di Adam Smith, autore di Teoria dei sentimenti morali (1759) e di Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776). La ricchezza, oggetto specifico che costituisce il campo dell’economia, si sovrappone e finalizza la vita della nazione, dell’individuo e della loro morale – la ricchezza è un portato delle naturali inclinazioni umane, e dunque appartiene a pieno titolo al suo funzionamento, come voleva Locke. Di conseguenza, gli obblighi politici e morali non intervengono come elementi esterni, trascendenti, sono iscritti nelle stesse disposizioni fisio-piscologiche, naturali, dell’essere umano: l’interesse personale è il movente che produce ricchezza per se stessi e, secondariamente, per altri. Come voleva Mandeville, nella sua Favola delle api (1705), dove viene enunciata la famosa formula “vizi privati, pubbliche virtù”: la morale dell’interesse privato e individuale - appropriativa e avida – sulla scala dei rapporti sempre più estesi, che vanno dalla famiglia alla società e alla nazione, si trasformano in benefici per tutti. Il riferimento a Max Weber e alla sovrapposizione che individua tra etica religiosa e tipologia dell’economia capitalista in particolare in Etica protestante e spirito del capitalismo (1904-1905), ci permette di cogliere come il paradigma liberale vada ben al di là del dualismo etico, tra privato e pubblico – vizi che diventano virtù. In realtà, il valore delle attività e dei comportamenti viene individuato attraverso criteri che sono al contempo naturali sociali ed economici, riproduttivi e produttivi – forse è solo la dimensione bio-fisiologica che viene esclusa concordemente da tutti gli autori. Weber ci assiste per un altro verso, quando offre gli strumenti per cogliere la pretesa universalistica e totalizzante del modello liberale: si tratterebbe della natura umana e delle relative leggi naturali che esprime e non di un modello specifico e storico dell’organizzazione e rappresentazione delle relazioni e attività umane. Secondo questo approccio storico - sebbene la ricerca del profitto non sia tipica della società capitalistica, essendo l’avidità, l’impulso acquisitivo presenti in altre epoche e civiltà - tuttavia questa si distingue per il valore positivo che riconosce al profitto, al punto da sollecitarlo e da leggerlo come segno di una grazia divina che sancisce la virtuosità del comportamento individuale. Infatti, l’idea calvinista della predestinazione – per cui ogni credente è destinato fin dalla nascita alla grazia o alla perdizione, un destino su cui non può intercedere (questa la mossa dogmatica del protestantesimo contro il traffico delle indulgenze invalso nella Chiesa romana) – poteva generare angoscia, che veniva così contenuta attraverso un impegno rigoroso nel lavoro alla ricerca dei segni che, a partire dalle proprie attività e dal loro successo, designassero l’individuo come meritevole della grazia. In effetti, va sottolineato come il profitto che viene incoraggiato non è finalizzato al benessere individuale – da cui l’accento sul comportamento ascetico, che nega ogni “godimento spensierato” – bensì al reinvestimento in attività produttive, alla produzione di ricchezza. Il passaggio di Weber, pur contribuendo al quadro generale di un’“economia morale” si differenzia dall’esame dei primi contrattualisti, sotto un primo importante aspetto. Mentre per questi ultimi è la stessa natura umana che configura i rapporti, anche quelli economici – il dato primario dell’individualità, la ricerca del benessere, la disposizione alla proprietà e all’appropriazione, la massimizzazione della propria utilità – per il sociologo l’etica economica emerge dall’interazione di sfere di attività diverse ma tutte subito relazionali e sociali. L’etica economica è dunque uno spazio di transizione che coniuga dimensioni sociali e produttive come anche procedimenti culturali diversi: premio e punizione, virtù e peccato, per parte religiosa, successo e fallimento, efficacia e dissipazione, per parte economica. MICHEL FOUCAULT. Un equivoco economico-etico È interessante osservare come, a metà del XX secolo, Foucault analizzi le teorie economiche - dal

mercantilismo al neoliberalismo contemporaneo - non per definire l’economico stesso ma per mostrare come

specifici comportamenti umani, relazioni, spazi e tempi di vita della società, siano diventati oggetto

d’enunciazione, ispirazione e regolamentazione economica. Le teorie contemporanee delle “società di

44

mercato” e dell’”economia di mercato” sono state il correlato di pratiche di assicurazione, di investimento e di

organizzazione istituzionale che hanno incentivato la razionalizzazione economica del sociale.

Nei passi scelti Foucault analizza, in particolare, il discorso dell’ordoliberalismo tedesco, promotore del

modello-impresa, e del neoliberalismo americano con la sua teoria del capitale umano. In entrambi i casi

l’obiettivo è l’integrazione e la contaminazione del meccanismo «freddo» delle relazioni concorrenziali di

mercato con quello «caldo» dell’interazione sociale e affettiva, in cui germogliano valori condivisi e una

morale comune. Se, da una parte, il fine è di «demoltiplicare il modello economico» in tutti gli ambiti della

vita degli individui, dall’altra parte, il fine delle politiche economiche è di far sopravvivere e incentivare

meccanismi di cooperazione e integrazione, per riaggregare un tessuto sociale che altrimenti verrebbe

distrutto dalla guerra di mercato.

Nel primo esempio, il modello tedesco, il modello dell’impresa viene esteso a tutte le unità che compongono

il sociale, dagli individui alle famiglie; viene impiantato il calcolo investimenti-costi-benefici non tanto

attraverso il meccanismo della concorrenza quanto come principio regolativo dei rapporti che l’individuo o

l’impresa intrattengono con il tempo, lo spazio e la comunità. L’«equivoco economico-etico» designa dunque

la sovrapposizione tra i principi dell’impresa e quelli di conduzione della vita individuale, in cui i primi

riorienterebbero i secondi: in una società di mercato gli spazi di vita, famigliari, amicali, ecc, devono

riarticolarsi, essere studiati e pensare se stessi attraverso il modello dell’impresa.

Nel paradigma americano prevale l’«analisi economicista del non-economico» (p. 198). Il comportamento

umano, lavorativo ed extra-lavorativo, è inteso come una serie continua di investimenti sul capitale umano

proprio o altrui – come nel caso di una madre che si prende cura della salute e della formazione del figlio.

Secondo l’analisi neoliberale, in ogni relazione abbiamo a che fare con un investimento, in termini di tempo e

risorse, volto a garantire una produzione futura di reddito. E in effetti, nella teoria del capitale umano, torna

l’espressione «economia domestica», o modello domestico dell’economia: la casa e le relazioni che la

abitano, lungi dall’essere contrapposte a una razionalità di mercato, sono invece intese dagli economisti

secondo il modello della relazione contrattuale, che viene stabilita sulla base del calcolo costi-benefici, in

vista della massimizzazione dell’interesse individuale dei contraenti, includendo anche tutto ciò che passa

per canali affettivi e di cura in vista dell’aumento del proprio capitale umano.

45

Michel Foucault, Nascita della biopolitica (1978-1979) INFRATESTO Nell’idea di Gesellschaftspolitzk c’e qualcosa che chiamerei un equivoco economico-etico intorno alla stessa nozione di impresa. Che cosa significa, infatti, fare una Gesellschaftspolitik (...)? Significa, da un lato, generalizzare la forma “impresa”, all’interno del corpo del tessuto sociale; ma, dall’altro, vuole anche dire riprendere il tessuto sociale e fare in modo che possa scomporsi, suddividersi, frazionarsi, non secondo la grazia degli individui, bensì secondo quella dell’impresa. Bisogna che la vita dell’individuo non si inscriva come vita individuale nel quadro di una grande impresa costituita dall’azienda o, al limite, dallo stato, ma piuttosto che possa inscriversi nel quadro di una molteplicità di imprese diverse, concatenate e intrecciate tra loro; imprese che, in un certo senso, siano a portata di mano per l’individuo, molto limitate nella loro dimensione, affinché l’azione dell’individuo, le sue decisioni, le sue scelte, possano avere su di esse degli effetti significativi e percepibili, ma anche abbastanza numerose perché [l’individuo] non dipenda da una soltanto. Infine, bisogna che la vita stessa dell’individuo — ad esempio, il suo rapporto con la proprietà privata, con la famiglia, con la sua conduzione, con i sistemi assicurativi e con la pensione — faccia di lui e della sua vita una sorta di impresa permanente e multipla. E’ dunque questo nuovo modo di dare forma alla società secondo il modello dell’impresa, o delle imprese, fin nella sua trama più minuta, a costituire un aspetto della Gesellschaftspolitik degli ordoliberali tedeschi. Ma che funzione ha una simile generalizzazione della forma «impresa»? Da un lato, si tratta di demoltiplicare il modello economico, il modello della domanda e dell’offerta, il modello investimento-costo-profitto, per farne un modello dei rapporti sociali e dell’esistenza stessa, una forma di rapporto dell’individuo con se stesso, con il tempo, con il suo ambiente, con il futuro, con il gruppo e con la famiglia. Demoltiplicare, dunque, questo modello economico. Dall’altro, l’idea degli ordoliberali di fare dell’impresa il modello sociale universalmente generalizzato serve da supporto, nella loro analisi o nella loro programmazione, a ciò che essi designano come la ricostituzione di tutta una serie di valori morali e culturali che si potrebbero chiamare valori “caldi”, e che si presentano come antitetici rispetto al meccanismo “freddo”della concorrenza. Questo perché, con lo schema dell’impresa, si tratta di fare in modo che l’individuo — per utilizzare il vocabolario abituale e di moda all’epoca dei neoliberali — non sia più alienato rispetto al suo ambiente di lavoro e al tempo della sua vita, alla sua casa, alla sua famiglia, al suo ambiente naturale. (...) Il ritorno all’impresa rappresenta, dunque, una politica economica o una politica di estensione dell’economia all’intero campo sociale, ma al tempo stesso anche una politica che si presenta o si vuole, come una Vitalpolitik che avrà la funzione di compensare quanto c’è di freddo, di impassibile, di calcolatore, di razionale, di meccanico nel gioco della concorrenza propriamente economica. (...) Dunque oltre ad attuare una politica che possa far funzionare la concorrenza sul piano economico, bisogna organizzare “un quadro politico e morale”(...) In primo luogo, uno stato che sia capace di mantenersi al di sopra dei diversi gruppi concorrenziali e delle diverse imprese in concorrenza tra loro. E’ necessario che questo quadro politico e morale assicuri “una comunità non disgregata”, e infine che garantisca una cooperazione tra gli uomini “naturalmente radicati e socialmente integrati” (...) Rispetto a questa ambiguità — come potremmo chiamarla — dell’ordoliberalismo tedesco, il neoliberalismo americano si presenta con una radicalità diversamente rigorosa o diversamente completa ed esaustiva. Anche nel neoliberalismo americano, infatti, si tratta di generalizzare la forma economica del mercato (...) ln primo luogo, la generalizzazione della forma economica del mercato, anche al di là degli scambi monetari, funziona, nel neoliberalismo americano come principio di intelligibilità e di decifrazione dei rapporti sociali e dei comportamenti individuali. Ciò vuol dire che l’analisi in termini di economia di mercato, dunque in termini di domanda e di offerta, servirà da schema applicabile ad ambiti di carattere non economico. E grazie a questo schema di analisi, a questa griglia di intelligibilità, si potranno far apparire all’interno dei processi non economici, delle relazioni non economiche, dei comportamenti non economici, un certo numero di relazioni intelligibili che non apparivano come tali — una sorta di analisi economicista del non-economico. Ed è appunto ciò che faranno [i neoliberali] in determinati ambiti. La volta scorsa, a proposito dell’investimento nel capitale umano, ho evocato alcuni di questi problemi. Come ricorderete, nell’analisi che fanno del capitale umano, i neoliberali cercano di spiegare, ad esempio, in che modo la relazione madre-figlio è caratterizzata concretamente dal tempo che la madre trascorre col suo bambino, dalla qualità delle cure che gli dedica, dall’affetto che gli mostra, dall’attenzione con cui segue il suo sviluppo, la sua educazione, i suoi progressi non solo scolastici, ma anche fisici, dal modo non solo in cui lo alimenta, ma anche determina lo stile dell’alimentazione e del rapporto alimentare che ha con lui. Tutto questo, dunque, per i neoliberali costituisce un investimento misurabile in termini di tempo, un investimento destinato a costituire un capitale umano, vale a dire il capitale umano deI bambino, un capitale, che produrrà un reddito. (...)

46

Jean-Luc Migué: “Uno dei grandi contributi recenti del‘analisi economica [si riferisce alle analisi dei neoliberali: M.F.] stato quello di applicare integralmente al settore domestico il quadro analitico tradizionalmente riservato all’azienda e al consumatore. [...] Si tratta di fare del nucleo famigliare un’unità di produzione allo stesso titolo dell’azienda classica. [...] Che cos’è infatti un nucleo famigliare se non l’impegno contrattuale di due parti a fornire degli input specifici e a condividere secondo determinate proporzioni, i benefici dell’output della vita domestica?”. Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2009, pp. 196-200. Fine infratesto MAURIZIO LAZZARATO. Il debito come categoria morale La tesi, articolata attraverso l’approfondimento della vigente «economia del debito», individua nella relazione

debitore-creditore l’espressione del rapporto di forza tra proprietari (di ricchezza e di capitali) e non

proprietari, così come si dà nel sistema finanziario neoliberale. Accanto alla figura dell’individuo-impresa, si

aggiunge la figura del debitore (e la relazione costitutiva con il creditore), a condensare un’etica e un

comportamento economici, riproponendo, sotto nuova luce, l’homo oeconomicus dell’economia politica nata

in epoca liberale.

Il debito è «motore economico e soggettivo dell’economia contemporanea»: da una parte, è una «macchina

di cattura» - cioè un dispositivo di codificazione e di prelievo - e dall’altra, un modo di produzione e di

governo delle soggettività. Il controllo e lo sfruttamento del valore prodotto da individui e collettività non

avviene solo attraverso strumenti repressivi o attraverso il ricatto del lavoro, ma si dispiega in una morale

specifica, quella della promessa e della colpa, che è strettamente pertinente alla relazione debitoria. Tale

relazione, in altre parole, costringe a uno stile di vita entro determinati limiti: non manca la libertà - anzi,

l’individuo è incitato a sentirsi libero di poter fare - ma questa dev’essere compatibile con la restituzione del

prestito.

Come voleva Nietzsche, autore di riferimento e d’ispirazione per Lazzarato, l’archetipo del rapporto sociale

non è lo scambio bensì il debito. E, come in Marx, anche qui l’obiettivo è quello di mostrare la falsità dello

scambio tra “liberi ed uguali” e della moneta come equivalente neutro, per analizzare la relazione da sempre

e da subito differenziale - di dominio - tra chi presta e chi contrae il debito. Tale relazione archetipica

permette di pensare all’economico come campo soggettivo, in cui «il lavoro sia indissociabile da un lavoro su

di sé». Non ha quindi più senso distinguere la struttura economica dalle sovrastrutture morali, poiché siamo

confrontati con la produzione di soggettività e di forme di vita che è “infrastrutturale”: riguarda tanto

l’economico quanto il comportamento e le scelte di ogni singolarità sociale. Infatti, laddove il debito si

istituisce come forma fondamentale della relazione, «l’attività economica» andrà di pari passo con quella

«etico-politica», per cui il soggetto indebitato conformerà e orienterà comportamenti e azioni al fine della

restituzione del denaro.

47

Questa commistione e sovrapposizione di economia e morale risulta chiaramente nel termine tedesco

Schuld che - come scrive Nietzsche nella Genealogia della morale - significa contemporaneamente debito e

colpa. L’economia del debito e la morale della colpa sono le due facce della stessa educazione e

addomesticamento dell’uomo. La relazione creditore-debitore designa quell’incontro originario tra persona e

persona, in cui «per la prima volta si misurò persona a persona», potenza e potenza, attraverso l’attribuzione

differenziale di valori, prezzi e gerarchie. Tuttavia questa misurazione non ha a che fare con la staticità

dell’atto di scambio, ma con lo spazio-tempo della promessa, con il «calcolo delle garanzie del rimborso del

debito», non incide soltanto sul presente ma si estende al futuro, al processo di produzione del senso di sé,

dei propri obblighi e limiti. Si tratta quindi del dispiegamento di un’economia del tempo attraverso cui chi

governa si garantisce la prevedibilità del futuro di chi è governato (indebitato), restringendo nelle maglie

della relazione creditizia il suo campo dei possibili.

Il neoliberismo e l’ingegneria finanziaria si rivelano come un’«economia nietzschana», in cui le tecniche di

potere e di dominio governano la soggettività attraverso la memoria del debito e la promessa futura di

restituzione.

48

Maurizio Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato (2012) INFRATESTO La relazione creditore-debitore non si limita a «influire direttamente sui rapporti sociali», poiché è anch’essa un rapporto di potere, uno dei più importanti e universali del capitalismo contemporaneo. Il credito o debito e la sua relazione di potere creditore-debitore costituiscono un rapporto di potere specifico, che implica modalità specifiche di produzione e di controllo della soggettività (una forma particolare di homo oeconomicus, «l’uomo indebitato»). (...) Il debito secerne una «morale» propria, insieme diversa e complementare a quella del «lavoro». La coppia «sforzo-ricompensa» dell’ideologia del lavoro viene rivestita dalla morale della promessa (di onorare il proprio debito) e dell’errore (di averlo contratto). Come ricorda Nietzsche, il concetto di «Schuld» (errore, colpa), concetto fondamentale della morale, risale al concetto materiale di «Schulden» (debiti). La «morale» del debito induce una moralizzazione tanto del disoccupato, dell’«assistito», dell’utente dello Stato sociale quanto di intere popolazioni. (...) Il neoliberismo governa attraverso una molteplicità di rapporti di potere: creditore-debitore, capitale-lavoro, Welfare-utente, consumatore-impresa, ecc. Ma il debito è un rapporto di potere universale, poiché tutti vi sono inclusi: persino coloro che sono troppo poveri per avere accesso al credito devono pagare degli interessi a dei creditori attraverso il rimborso del debito pubblico; persino i paesi che sono troppo poveri per dotarsi di uno Stato sociale devono rimborsare i loro debiti. (...) Debito e soggettività: il contributo di Nietzsche (...) A questo proposito, Nietzsche aveva già detto l’essenziale. Nella seconda dissertazione della Genealogia della morale, in un solo colpo mette fuori gioco l’insieme delle scienze sociali: la costituzione della società e l’educazione dell’uomo («disciplinare con l’educazione la bestia da preda uomo così da farne un animale mansuefatto e civilizzato, un animale domestico») non risultano né dallo scambio economico (contrariamente alla tesi avanzata da tutta la tradizione dell’economia politica, dai fisiocratici a Marx, passando per Adam Smith), né dallo scambio simbolico (al contrario dalle tradizioni teoriche antropologiche e psicanalitiche), ma dal rapporto tra creditore e debitore. Nietzsche fa del credito il paradigma della relazione sociale, scartandone ogni spiegazione «all’inglese», ossia basata sullo scambio o l’interesse. Cos’è il credito/il debito nel suo significato più immediato? Una promessa di pagamento. Cos’è un titolo finanziario, un’azione o un’obbligazione? La promessa di un valore futuro. «Promessa», «valore» e «futuro» sono anche le parole chiave della seconda dissertazione di Nietzsche. Per Nietzsche, il «più antico e originario rapporto tra persone che esista» è il rapporto tra creditore e debitore. È in questo rapporto che «per la prima volta si misurò persona a persona». Di conseguenza, l’errore della comunità o della società è stato innanzitutto quello di generare un uomo capace di promettere, un uomo in grado di rispondere di sé all’interno della relazione creditore-debitore, ossia in grado di onorare il proprio debito. Fabbricare un uomo capace di mantenere una promessa significa costruirgli una memoria, munirlo di un’interiorità, di una coscienza che possa opporsi all’oblio. È all’interno di questa sfera di obbligazioni del debito che cominciano a fabbricarsi la memoria, la soggettività e la coscienza. (...) Il performativo della promessa implica e presuppone una «mnemotecnica» della crudeltà e una mnemotecnica del dolore che, come la macchina della colonia penale di Kafka, scrivono la promessa di rimborso direttamente sul corpo. «Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare resta nella memoria». Allo stesso modo, la «fiducia» — parola magica di tutte le crisi finanziarie, ripetuta come un incantesimo da tutti i servitori dell’economia del debito (giornalisti, economisti, uomini politici, esperti) — non è garantita dalla semplice enunciazione; necessita di garanzie corporee e incorporee. (...) Dunque, il debito implica una soggettivazione che Nietzsche chiama un «lavoro su se stesso, automartirio». Questo lavoro è quello della produzione del soggetto individuale, responsabile e debitore di fronte al proprio creditore. Quindi, il debito — quale rapporto economico — ha la particolarità che, per potersi dispiegare, richiede un lavoro etico-politico di costituzione del soggetto. ll capitalismo contemporaneo sembra aver scoperto da solo le tecniche nietzschiane per la costruzione di un uomo capace di promettere: il lavoro è al tempo stesso un lavoro su se stesso, un automartirio, un’azione su se stessi. Il debito implica un processo di soggettivazione che segna allo stesso tempo il «corpo» e lo «spirito». Osserviamo che, partendo dalla lettura di Nietzsche, Foucault, Deleuze e Guattari, tutti questi autori formulano un concetto non-economista dell’economia (la produzione economica implica la produzione e il controllo della soggettività e delle sue forme di vita, l’economia presuppone una «eticità dei costumi», il desiderio di far parte dell’«infrastruttura»).

49

Maurizio Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, Deriveapprodi, Roma 2012, pp. 47-58.

50

III LA RIPRODUZIONE COME PARADIGMA III.1 IL DIVENIRE DELLA RIPRODUZIONE KARL MARX. Una questione primariamente economica La riproduzione in Marx indica un processo. Non una relazione né un fatto, ma un ripetersi continuativo

delle relazioni e dei fatti che caratterizzano il modo di produzione capitalistico. Si tratta infatti della

riproduzione nel tempo e nello spazio dell’incontro e del rapporto tra operai e capitalisti e quindi della

produzione di capitale in quanto profitto, ma soprattutto in quanto rapporto sociale dominante.

Questo processo ha un incedere circolare tanto quanto lineare. È contemporaneamente movimento

connaturato alla società capitalistica – e quindi alla realizzazione permanente del plusvalore e al desiderio

di profitto – e sua perpetua condizione d’esistenza: deve, cioè, riprodurre le condizioni di possibilità della

relazione salario-capitale. Il rapporto di dominazione e sfruttamento tra portatori “liberi” di forza lavoro e

proprietari dei mezzi di produzione è quindi il punto di partenza e d’arrivo della riproduzione.

Questa compresenza dell’inizio e della continuazione è resa dalla trattazione che fa Marx a proposito

dell’accumulazione originaria. Accumulazione originaria – espressione che il filosofo usa per sbeffeggiare

gli economisti classici e l’idea idilliaca e pacifica dell’origine del capitalismo – indica quel fenomeno sociale

e politico correlato alla riproduzione allargata dei rapporti capitalistici di produzione: «l’accumulazione»,

scrive infatti Marx, «rappresenta semplicemente come processo continuo ciò che nell’accumulazione

primitiva appare come un processo storico particolare» (Storia delle teorie economiche, 1861-63, p. 295). La

separazione dei produttori dai mezzi di produzione accaduta durante la transizione dal modo di produzione

feudale a quello capitalistico non è data una volta per tutte ma si ripete quotidianamente, in intensità –

creando sempre più miseria nella classe operaia – e in estensione – riproducendo altrove uomini costretti

alla relazione salariale per potersi assicurare la sussistenza.

Per questo i capitoli sull’accumulazione vengono anche letti come una genealogia che Marx propone degli

elementi costitutivi del rapporto capitalistico di produzione, uno studio sulle condizioni dell’esperienza

sociale del capitalismo. Sono questi infatti i capitoli in cui Marx fotografa situazioni concrete delle

condizioni di vita e di lavoro e di organizzazione della vita della classe lavoratrice, dal sistema degradante

d’abitazione nelle workhouse inglesi, alla legge sanguinaria contro la «popolazione nomade», al processo

d’espropriazione originaria delle terre.

È infatti agli effetti sociali e diffusi delle relazioni di dominio e violenza politici che guarda in questi capitoli,

cercando di mostrare il ruolo dello Stato, della legge e del diritto nel determinare le condizioni di esistenza

e di sfruttamento della forza lavoro come merce. Non per altro parla della «genesi extraeconomica della

proprietà» (Lineamenti, p. 113), e quindi dell’esercizio di violenza e di potere che è sempre richiesto per

riprodurre le condizioni sociali del rapporto di sfruttamento capitalistico.

INFRATESTO

Riproduzione semplice

“Qualunque sia la forma sociale del processo di produzione, questo o dev’essere continuativo o deve

sempre tornar a percorrere periodicamente gli stessi stadi. Come una società non può smettere di

51

consumare, così non può smettere di produrre. Quindi ogni processo sociale di produzione, considerato in

un nesso continuo e nel fluire costante del suo rinnovarsi, è insieme processo di riproduzione” (Il Capitale,

Libro I, Sezione VII, p. 9)

“Dunque il processo di produzione capitalistico riproduce col suo stesso andamento la separazione fra

forza-lavoro e condizioni di lavoro. E così riproduce e perpetua le condizioni per lo sfruttamento

dell’operaio. Esso costringe costantemente l’operaio a vendere la sua forza-lavoro, per vivere, e

costantemente mette il capitalista in grado di acquistarla, per arricchirsi. Non è più il caso che pone

capitalista e operaio l’uno di fronte all’altro sul mercato delle merci come compratore e venditore. È il

doppio mulinello del processo stesso che torna sempre a gettare l’operaio sul mercato delle merci come

venditore della propria forza-lavoro e a trasformare il suo prodotto in mezzo d’acquisto del capitalista. (…)

Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come

processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma

produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato.”

(Ivi, p. 21-22)

Riproduzione allargata

“Allo stesso modo che la riproduzione semplice riproduce costantemente lo stesso rapporto capitalistico,

capitalisti da un lato e salariati dall’altro, la riproduzione su scala allargata ossia l’accumulazione riproduce il

rapporto capitalistico su scala allargata (…). La riproduzione della forza-lavoro, che deve necessariamente

incorporarsi al capitale come mezzo di valorizzazione, che non può staccarsi da esso e la cui servitù nei

confronti del capitale viene solo nascosta dall’alternarsi del capitalista individuale in cui essa si vende,

costituisce effettivamente un elemento della riproduzione dello stesso capitale. L’accumulazione del

capitale è quindi l’aumento del proletariato” (Ivi, p.62).

Accumulazione

“Questa è la legge assoluta, generale dell’accumulazione capitalistica. (…) determina una accumulazione di

miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque

al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e

degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come

capitale” (Ivi, p. 96-97). Questo è quello che Marx chiama il «carattere antagonistico dell’accumulazione

capitalistica» (Ibidem).

Accumulazione originaria

Affinché denaro e merce siano trasformati in capitale è necessario che si riproduca costantemente

l’incontro tra proprietari dei mezzi di produzione e i liberi proprietari di forza-lavoro e quindi la separazione

dell’operaio dai mezzi di produzione: «Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i

lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro (…) la produzione capitalistica non solo

mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto

capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione del lavoratore dalla proprietà

delle proprie condizioni di lavoro (…). Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il

processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare «originario» perché

costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente» (Ivi, p. 172-173).

52

53

LOUIS ALTHUSSER. Una questione di ideologia In Louis Althusser è il termine di riproduzione a essere al centro di una ripresa e rinnovamento. In Ideologia e Apparati Ideologici di Stato (1970) la riproduzione insiste sull’ambito sociale, che rimane distinto dall’ambito produttivo e assume una nuova centralità. La critica al riduzionismo economicista – di questo si tratta quando viene invocata una nuova concezione dei rapporti tra struttura e sovrastruttura investe la revisione dei rapporti tra produzione e riproduzione, tra economico, da una parte, e sociale, culturale e politico, dall’altra. La prospettiva althusseriana è quella di una articolazione dei diversi momenti della riproduzione – dei mezzi, della forza produttiva e dei rapporti di produzione -, mostrando che è rispetto a questi ultimi che si mobilita una pluralità di apparati che funzionano “a ideologia”. Lungi dall’essere un fenomeno derivato, l’ideologia è componente fondamentale del funzionamento sociale ai fini della riproduzione dei rapporti tra classi dominate e dominanti e dunque al fine del mantenimento e sviluppo delle condizioni di produzione, di sfruttamento ed estrazione di profitto. L’ideologia, diversamente dalla repressione che ricorre alla violenza fisica, si esercita attraverso l’addestramento degli agenti produttivi e attraverso una pluralità di istituzioni: dalla Chiesa, alla Scuola, alla Famiglia fino al sistema Politico. Ritroviamo qui, ma in una esplicita ripresa dei termini di Marx, le tecnologie del controllo e dell’addestramento che Foucault rintraccia a ogni livello del corpo sociale, come anche l’opera di Pierre Bourdieu e alcune sue innovazioni teoriche: dal concetto di habitus alla nozione di “capitale simbolico”, fino alla riformulazione dell’alienazione-sfruttamento nei termini di una “violenza simbolica”. L’habitus, categoria della trattazione etica di Aristotele (hexis), viene assunto come concetto che designa quel circuito attivo e passivo al contempo, attraverso cui un soggetto – sempre sociale – si costruisce e viene costruito, continuamente. A prima vista sembrerebbe che questo insieme di disposizioni e attitudini concerna il campo morale, quello degli usi e costumi, di cui ciascuno e ciascuna viene dotato per via della propria provenienza e appartenenza e che costituisce anche materia di una rielaborazione personale, singolare. Tuttavia, in linea con gli assunti della seconda metà del Novecento, il campo della morale è immediatamente più che privato e familiare e rimanda, attraverso l’intervento di istituzioni quali il sistema scolastico in primis, ma poi tutti gli ambiti relazionali in cui l’esistenza individuale si trova a essere inserita, alla sfera sociale per intero. L’innovazione che dobbiamo a Bourdieu è la riformulazione di quel che viene dibattuto sotto il termine di “ideologia”, dato che attraverso la nozione di habitus, l’esame critico delle credenze, l’assunzione di fini e valori, la collocazione in una vita qualificata e sociale secondo un orientamento e una griglia di intelligibilità pratica, non è ridotto a “falsa coscienza” soggettiva o a “subalternità” sociale. Viene piuttosto riportata a una serie di saperi incorporati, intesi come campo del simbolico, in cui vengono ad unirsi il fisiologico e il culturale, il materiale e l’immateriale. La riproduzione sembra qui riguadagnare anche il campo della generazione e rigenerazione dei corpi, la stessa subalternità assume la corporeità della violenza subita e introiettata.

54

Louis Althusser, Ideologia ed Apparati Ideologici di Stato (1970)INIZIO INFRATESTO Sulla riproduzione delle condizioni di produzione Devo ora esporre in modo più esaustivo ciò è stato brevemente intravisto nelle mie analisi quando ho parlato della necessità di rinnovare i mezzi di produzione perché la produzione sia possibile. Era stata una indicazione rapida. Ora, però, andrò ad esaminarla in sé. Come disse Marx, ogni bambino sa che una formazione sociale che non riproduca le proprie condizioni di produzione mentre produce, non durerebbe più di un anno. La condizione ultima della produzione è quindi la riproduzione delle condizioni di produzione. Tale riproduzione può essere “semplice” (riproducendo solo le condizioni di produzione precedenti) o “su scala estesa” (espandendole). Ignoriamo questa distinzione per un momento. Cos’è dunque la riproduzione delle condizioni di produzione? Qui stiamo entrando in un ambito che è molto familiare (dal secondo volume del Capitale) e al tempo stesso decisamente tralasciato. Le evidenze (evidences ideologiche di tipo empirista) del punto di vista della sola produzione, o di quello della mera pratica produttiva (essa stessa astratta rispetto al processo di produzione) sono talmente integrate nella nostra “coscienza” quotidiana, che è estremamente difficile, per non dire quasi impossibile, assumere il punto di vista della riproduzione. Tuttavia, tutto ciò che è situato al di fuori di un punto di vista rimane astratto (più che parziale: deformato)- anche al livello della produzione, e, a maggior ragione, della mera pratica. Cerchiamo di esaminare la questione con metodo. Per semplificare la mia esposizione, assumendo che ogni formazione sociale sorga da un modo di produzione dominante, posso dire che il processo di produzione mette in opera le forze produttive esistenti dentro e sotto la specie di rapporti di produzione determinati. Ne consegue che, per esistere, ogni formazione sociale deve, mentre produce e per poter produrre, riprodurre le condizioni della propria produzione. Essa deve pertanto riprodurre: 1. le forze produttive 2. i rapporti di produzione esistenti Riproduzione dei mezzi di produzione Tutti (inclusi gli economisti borghesi che si occupano di contabilità nazionale, o i moderni “teorici della macroeconomia”) ora riconoscono, perché Marx lo ha inconfutabilmente dimostrato nel Secondo volume del Capitale, che non è possibile nessuna produzione senza che sia garantita la riproduzione delle condizioni materiali di produzione: la riproduzione dei mezzi di produzione. L'economista qualunque, che in questo non è diverso dal capitalista qualunque, sa che ogni anno, è essenziale prevedere che è necessario sostituire ciò che è stato consumato o usurato nel processo produttivo: materie prime, impianti fissi (edifici), strumenti di produzione (macchine), ecc. Dico che l'economista qualunque non è diverso dal capitalista qualunque, perché entrambi esprimono il punto di vista dell'impresa, contentandosi di commentare i termini della pratica contabile finanziaria dell'impresa. Ma grazie al genio di Quesnay che per primo ha posto questo “lampante” problema, e grazie al genio di Marx che l’ha risolto, noi sappiamo che la riproduzione delle condizioni materiali di produzione non può essere pensata al livello dell’impresa, perché non è lì che esiste nella sua condizione reale. Quello che accade al livello dell’impresa è un effetto, che ci dà solo un’idea della necessità della riproduzione,ma che non permette affatto di pensarne le condizioni e i meccanismi. Un momento di riflessione è sufficiente per convincersene: il Signor X, un capitalista che produce filati di

55

lana nella sua filanda, deve “riprodurre” la sua materia prima, le sue macchine, ecc, ma non li produce per la propria produzione - altri capitalisti lo fanno: un allevatore di pecore australiano, il Signor Y, un ingegnere produttore di macchine, il Signor Z, ecc., ecc., che devono anche loro, per produrre tali prodotti che sono la condizione della riproduzione delle condizioni di produzione del Signor X, devono anche riprodurre le condizioni della loro propria produzione, e così via all'infinito - il tutto in proporzioni tali che, sul mercato nazionale quando non sul mercato mondiale, la domanda di mezzi di produzione (per la riproduzione) possano essere soddisfatte dall’offerta. (...) Riproduzione della Forza-Lavoro Tuttavia, il lettore non avrà mancato di notare una cosa. Abbiamo parlato della riproduzione dei mezzi di produzione - ma non della riproduzione delle forze produttive. Abbiamo quindi ignorato la riproduzione di ciò che distingue le forze produttive dai mezzi di produzione, cioè la riproduzione della forza lavoro. Dall'osservazione di ciò che avviene nell’impresa, in particolare l'esame della pratica contabile-finanziaria che prevede ammortamenti e investimenti, siamo stati in grado di ottenere un'idea approssimativa dell’esistenza del processo materiale di riproduzione, ora entriamo in un ambito in cui l'osservazione di ciò che accade nell’impresa è in parte, se non del tutto, cieca, e per una buona ragione: la riproduzione della forza-lavoro si svolge essenzialmente al di fuori dell'impresa. Come viene assicurata la riproduzione della forza lavoro? È assicurata dando alla forza-lavoro il mezzo materiale per riprodursi: il salario. I salari figurano nella contabilità di ogni impresa, ma come “capitale della manodopera”[3], non figurano quindi come condizione della riproduzione materiale della forza lavoro. Tuttavia, è proprio così che “funziona”, poiché il salario rappresenta solamente una parte del valore prodotto dal costo della forza lavoro, indispensabile per la sua riproduzione: indispensabile cioè alla ricostituzione della forza-lavoro del salariato (i mezzi per pagare alloggio, vitto e vestiario, in breve per permettere al salariato di presentarsi di nuovo al cancello della fabbrica il giorno successivo - e ogni giorno che Dio manda in terra); e aggiungiamo: indispensabile per allevare ed educare i bambini attraverso cui il proletariato si riproduce (in x esemplari, dove x = 0, 1, 2, ecc.) in quanto forza lavoro.

Ricordiamo che questa quantità di valore (salario) necessaria per la riproduzione della forza-lavoro è determinata non dai soli bisogni di un salario “biologico” minimo garantito (SMIG - Salaire Minimum Interprofessionnel Garanti), ma dalle esigenze di un minimo storico (Marx ha osservato che gli operai inglesi hanno bisogno della birra, mentre i proletari francesi hanno bisogno del vino), dunque un minimo storicamente variabile. Vorrei inoltre sottolineare che questo “minimo” è doppiamente storico in quanto non è definito dai bisogni storici della classe operaia “riconosciuti” da parte della classe capitalista, ma dalle le esigenze storiche imposte dalla lotta di classe proletaria (una doppia lotta di classe: contro il prolungamento della giornata di lavoro e contro la riduzione dei salari). Tuttavia, non è sufficiente assicurare alla forza lavoro le condizioni materiali della propria riproduzione se essa deve essere riprodotta come forza-lavoro. Ho detto infatti che la forza lavoro disponibile deve essere “competente”, cioè adatta a essere messa all’opera nel complesso sistema del processo di produzione. Lo sviluppo delle forze produttive e il tipo di unità storicamente costitutiva delle forze produttive in un determinato momento, producono il risultato che la forza-lavoro deve essere (diversamente) qualificata e quindi riprodotta come tale. Altrimenti detto: a seconda delle esigenze della divisione socio-tecnica del lavoro, dei suoi vari “posti di lavoro” e “impieghi”. Come avviene la riproduzione delle qualifiche (diversificate) della forza-lavoro in un regime capitalistico? Qui, a differenza delle precedenti formazioni sociali caratterizzate da schiavitù o servitù della gleba, questa riproduzione delle qualifiche della forza lavoro tende (si tratta di una legge tendenziale) sempre meno ad avvenire “sul posto” (ad esempio l’apprendistato durante la produzione stessa), ma sempre più al di fuori della produzione: attraverso il sistema di istruzione capitalista, e altre istanze e istituzioni. Che cosa imparano i bambini a Scuola? Si progredisce più o meno negli studi, ma in ogni caso imparano a leggere, scrivere e contare - vale a dire una serie di tecniche, e una serie di altre cose, tra le quali elementi (siano essi rudimentali o approfonditi) “scientifici” o di “cultura letteraria”, che sono direttamente utilizzabili

56

nei diversi ruoli produttivi (un’istruzione per gli operai, un’altra per i tecnici, una terza per gli ingegneri, un’altra ancora per la direzione, ecc). Imparano il cosiddetto “saper fare”. Ma oltre a queste tecniche e conoscenze, ma anche durante il loro apprendimento, a Scuola si imparano le “regole” del comportamento, vale a dire l'atteggiamento conveniente da tenere, qualsiasi sia il posto destinato agli agenti della divisione del lavoro: regole della morale, della coscienza civica e professionale, il che significa, esplicitando, le norme del rispetto della divisione socio-tecnica del lavoro e, in definitiva, le regole dell'ordine costituito dal dominio di classe. Si impara anche a “parlare correttamente il Francese”, a “gestire” i lavoratori correttamente, cioè in realtà (per i futuri capitalisti e i loro dipendenti) a “comandarli” correttamente, vale a dire (idealmente) a “parlare con loro” in modo appropriato, ecc. Per porre la questione in modo scientifico, dirò che la riproduzione della forza lavoro richiede non solo una riproduzione delle proprie competenze, ma anche, al tempo stesso, una riproduzione della propria sottomissione alle regole dell’ordine costituito, cioè una riproduzione della sottomissione all'ideologia dominante per i lavoratori, e una riproduzione della capacità di manipolare correttamente l'ideologia dominante per gli agenti di sfruttamento e repressione, in modo che anche loro garantiscano il dominio della classe dominante “attraverso la parola”. In altre parole, la Scuola (ma anche altre istituzioni dello Stato, come la Chiesa, o altri apparati, come l’Esercito) insegnano il “saper fare”, ma in forme tali da assicurare la sottomissione all’ideologia dominante o la padronanza della sua “pratica”. Tutti gli agenti della produzione, dello sfruttamento e della repressione, per non parlare dei “professionisti dell'ideologia” (Marx), in un modo o nell'altro l'ideologia dominante essere “impregnati” di quest’ideologia, al fine di svolgere i loro compiti “coscienziosamente” - i compiti degli sfruttati (i proletari), degli sfruttatori (i capitalisti), degli “ausiliari” (i dirigenti), o dei sommi sacerdoti dell’ideologia dominante (i suoi “funzionari”), ecc. La riproduzione della forza lavoro rivela così, come sua condizione sine qua non, non solamente la riproduzione delle “competenze”, ma anche la riproduzione della sua sottomissione all'ideologia dominante o della “pratica” di tale ideologia, precisando che non è sufficiente dire “non solo ma anche”, perché è chiaro che è nelle e sotto le forme di sottomissione ideologica che viene assicurata la riproduzione delle competenze della forza lavoro. Ma ciò significa riconoscere effettivamente la presenza di una nuova realtà: l'ideologia. Qui avanzeremo due osservazioni. La prima servirà a fare il punto sulla nostra analisi della riproduzione. Ho appena esaminato rapidamente le forme della riproduzione delle forze produttive, cioè dei mezzi di produzione, da un lato, e della forza-lavoro dall'altra. Ma non ho ancora affrontato la questione della riproduzione dei rapporti di produzione. Questa è una questione cruciale per la teoria marxista del modo di produzione. Trascurare tale passaggio sarebbe un omissione teorica - peggio, un grave errore politico. Dunque ne discuteremo. Ma, per poterne discutere, dovrò fare un’altra digressione. La seconda osservazione consiste nel fatto che per fare questa digressione, sono costretto a riproporre la mia vecchia domanda: che cosa è una società?

Struttura e Sovrastruttura [Infrastructure et superstructure] In diverse occasioni [4] ho insistito sul carattere rivoluzionario della concezione marxista della “totalità sociale” in quanto è distinta dalla “totalità” hegeliana. Ho detto (e questa tesi ripete solo note proposizioni del materialismo storico) che Marx concepisce la struttura di ogni società come costituita da “livelli” o “istanze”, articolate attraverso una specifica determinazione: la struttura, o base economica (l’“unità” delle forze produttive e dei rapporti di produzione) e la sovrastruttura, che a sua volta contiene due “livelli” o “istanze”: quella politico-giuridico (il diritto e lo Stato) e quella ideologica (le diverse ideologie, religiose, etiche, giuridiche, politiche, ecc).

57

Oltre al suo interesse teorico-didattico (che rivela la differenza tra Marx e Hegel), questa rappresentazione ha un vantaggio teorico cruciale: permette di iscrivere nell’apparato teorico dei suoi concetti essenziali, quelli che ho chiamato i loro indici di efficacia rispettiva. Che cosa significa? È facile vedere che questa rappresentazione della struttura di ogni società come un edificio contenente una base (struttura) su cui sono eretti i due “piani” della sovrastruttura, è una metafora, per essere precisi, una metafora spaziale: una topica [5]. Come ogni metafora, questa metafora suggerisce qualcosa, fa intravedere qualcosa. Cosa? Precisamente questo: che i piani superiori non possono “restare sospesi” (in aria) da soli, se non poggiano precisamente sulla loro base. Così lo scopo della metafora dell'edificio è quello di rappresentare soprattutto la “determinazione in ultima istanza” a opera della base economica. L'effetto di questa metafora spaziale è quello di dotare la base di un indice di efficacia conosciuta tramite i famosi termini: la determinazione in ultima istanza di ciò che accade nei “piani superiori” (della sovrastruttura) attraverso ciò che accade nella base economica. (...) Gli Apparati Ideologici Statali Quindi, ciò che va aggiunto alla “Teoria Marxista” dello Stato è qualcos’altro. Dobbiamo avanzare con cautela su un terreno, infatti, in cui i marxisti classici sono avanzati molto prima di noi, ma senza aver sistematizzato in forme teoretiche i decisivi avanzamenti prodotti dalle loro esperienze e pratiche. Queste sono in effetti rimaste sul terreno della pratica politica. Nei fatti, cioè nella pratica politica, i marxisti classici hanno considerato lo Stato come una realtà ben più complessa della definizione data dalla “teoria marxista dello Stato”, anche integrata come ho appena suggerito. Hanno riconosciuto la complessità della questione nella loro pratica, ma non la hanno espressa in una teoria corrispondente. Vorrei tentare di fornire un quadro molto schematico di questa teoria corrispondente. A tal fine, propongo la seguente tesi. Al fine di sviluppare la teoria dello Stato è indispensabile prendere in considerazione non solo la distinzione tra Potere Statale ed Apparato Statale, ma anche un’altra realtà che è chiaramente dalla parte dell'Apparato Statale (repressivo), ma che non deve essere confuso con esso. Chiamerò questa realtà con il suo concetto: gli Apparati Ideologici Statali. Cosa sono gli Apparati Ideologici Statali? (AIS) Non devono essere confusi con l’Apparato Statale (repressivo). Ricordiamo che nella teoria marxista, l’Apparato Statale (AS) prevede: il Governo, l’Amministrazione, l’Esercito, la Polizia, i Tribunali, le Prigioni, ecc., ciò costituisce quello che chiamerò l’Apparato Statale Repressivo. “Repressivo” suggerisce che tale Apparato Statale “funzioni con la violenza” - almeno in ultima analisi (dato che la repressione, per esempio la repressione amministrativa, può assumere forme non fisiche). Chiamerò Apparati di Stato Ideologici un certo numero di realtà che si presentano a loro volta all’osservatore immediato nella forma di istituzione specializzata e distinta. Propongo una lista empirica di tali istituzioni che dovranno ovviamente essere esaminate in dettaglio, testate, corrette e ri-organizzate. Con tutte le riserve necessarie, possiamo considerare per il momento le seguenti istituzioni come Apparati di Stato Ideologici (l’ordine in cui ho elencato tali apparati non ha particolare rilevanza): · AIS religiosi (i sistemi delle varie Chiese) · AIS educativo (i sistemi delle varie “Scuole”, pubbliche e private) · AIS familiare · AIS giuridico

58

· AIS politico (il sistema politico, partiti inclusi) · AIS sindacale; AIS dell’informazione (stampa, radio, televisione, etc.); AIS culturale (lettere, belle arti, sport, ecc.) Ho detto che gli Apparati Ideologici Statali non vanno confusi con l’Apparato Statale (Repressivo). In cosa consiste la differenza? Innanzitutto, è chiaro che mentre vi è un Apparato Statale (repressivo), esiste una pluralità di Apparati Ideologici Statali. Anche supponendo che esista, l’unità di questa pluralità di Apparati Ideologici Statali come corpo non è immediatamente visibile. In secondo luogo, è chiaro che mentre l’Apparato di Stato (repressivo), unificato, appartiene interamente al pubblico, la maggior parte degli Apparati Ideologici Statali (nella loro apparente dispersione) appartengono al privato. Chiese, Partiti, Unioni Commerciali, famiglie, qualche scuola, molti giornali, imprese culturali, ecc., ecc., sono privati. (...) Sulla Riproduzione dei Rapporti di Produzione Ora posso rispondere alla questione centrale che ho lasciato in sospeso per molte pagine: come viene assicurata la riproduzione dei rapporti di produzione? Nel linguaggio della topica (Struttura - Sovrastruttura), posso dire: per gran parte [12], è assicurata dalla sovrastruttura giuridica, politica e ideologica. Ma avendo sostenuto come sia indispensabile superare questo linguaggio ancora descrittivo, dirò: per gran parte, è assicurata dall’esercizio del Potere Statale negli Apparati Statali, da un lato, l’Apparato Statale (repressivo), dall’altro, gli Apparati Ideologici Statali. Va tenuto presente quanto detto sopra, che può essere articolato in tre elementi: 1. Tutti gli Apparati Statali funzionano sia tramite repressione che tramite ideologia, con la differenza che l’Apparato Statale (Repressivo) funziona massicciamente e prevalentemente tramite repressione, mentre gli Apparati Ideologici Statali funzionano massicciamente e prevalentemente tramite ideologia. 2. Mentre l’Apparato Statale (repressivo) costituisce un tutto organizzato, le cui diverse parti sono centralizzate sotto un’unità di comando, quella della politica della lotta di classe applicata dai rappresentanti politici delle classi dirigenti che detengono il potere Statale, - gli Apparati Ideologici Statali risultano molteplici, distinti, “relativamente autonomi” e in grado di fornire un campo oggettivo di contraddizioni che esprimono, in forme che possono essere limitate o estremamente evidenti, gli effetti degli scontri tra la lotta di classe capitalista e la lotta di classe proletaria, così come le loro forme subordinate. 3. Mentre l’unità dell’Apparato Statale (repressivo) è assicurata dalla sua organizzazione unificata e centralizzata sotto il comando dei rappresentanti delle classi al potere che esercitano la politica della lotta di classe della classe dominante, l’unità dei differenti Apparati Ideologici Statali è assicurata, di solito in forma contraddittoria, dall’ideologia dominante, ovvero dall’ideologia della classe dominante. (...) L’ideologia è una “Rappresentazione” del Rapporto Immaginario delle persone con le loro Reali condizioni di Esistenza (...). L’ideologia ha esistenza materiale Dirò pertanto che, dove solamente un soggetto (un certo individuo) sia interessato, l’esistenza delle idee della sua credenza è materiale in quanto le sue idee sono azioni materiali inserite in pratiche materiali governate da rituali materiali i quali sono loro stessi definiti dall’apparato ideologico materiale dal quale derivano le idee di quel soggetto. Naturalmente, le quattro iscrizioni dell’aggettivo “materiale” nella mia frase, possono essere intese in differenti modalità: spostamento materiale per andare a messa, per inginocchiarsi, il gesto del segno della croce, del mea culpa, di una sentenza, di una preghiera, di un atto di contrizione, di

59

una penitenza, di uno sguardo fisso, di una stretta di mano, di un discorso esterno o di un discorso “interno” (nella coscienza), non sono la stessa materialità. Louis Althusser, Idéologie et Appareil Idéologiques d’Etat (Notes pour une recherche), (1970), Editions Sociales, Paris, 1975. FINE INFRATESTO

60

III.2 L’INVISIBILE DELLA PRODUZIONE Il tema della riproduzione, così com’è stato posto dalle teorie femministe a partire dagli anni Sessanta e

Settanta, intreccia in maniera inestricabile il piano della liberazione femminile con quello dell’elaborazione

critica e analitica del ruolo della donna nella società capitalistico-patriarcale. Sebbene il nodo teorico-

politico della naturalizzazione della donna nel compito di madre e riproduttrice biologica sia stato posto da

diverse correnti del movimento delle donne nei termini di una critica all’oppressione e alla produzione di un

ruolo di «genere» nella società, l’analisi dello sfruttamento del lavoro riproduttivo/domestico femminile è

stata affrontata da una parte ristretta e principalmente di matrice anglosassone (ad esempio, Juliet

Mitchell, Selma James).

In Italia è stato il collettivo di tradizione marxista, Lotta Femminista - composto, tra le altre, da Alisa del Re,

Silvia Federici, Leopoldina Fortunati, Mariarosa e Giovanna Dalla Costa - ad aver esplorato più di tutti il

tema della riproduzione criticando la separazione tra riproduzione biologica e riproduzione sociale, la

riproduzione cioè dei rapporti di sfruttamento capitalistici, mostrandone invece la stretta connessione.

Nonostante le numerose critiche al presunto «economicismo» di questa prospettiva analitica – per cui le

relazioni di potere patriarcali sarebbero ridotte, in ultimo, al rapporto astratto donne-capitale –, tale

indagine ha permesso di individuare una diversa declinazione del concetto di riproduzione. Si tratterebbe,

prima di tutto, di riproduzione di individui, della loro forza lavoro ma, più in generale, della loro persona in

termini sia materiali che affettivi. In questo senso, scrive Leopoldina Fortunati in L’arcano della

riproduzione, la posta in gioco è di “denaturalizzare la riproduzione” e di mostrare le relazioni di potere-

sfruttamento che contribuiscono a farne un mondo a parte, chiuso nello spazio domestico: un non lavoro

contrapposto al lavoro di produzione che invece, secondo l’economia politica e la sua critica marxiana, è il

luogo dove emergono le vere contraddizioni sociali-politiche.

Come mostra Alisa del Re, punto di partenza dell’analisi sono le parole di Marx per cui il modo di

produzione capitalistico si caratterizza dall’incontro tra il portatore di forza lavoro e il proprietario dei mezzi

di produzione. Tuttavia la riproduzione fisica e intellettuale dell’operaio, quella fatica quotidiana di

rigenerazione della “merce speciale” forza lavoro, non è mai stata considerata da Marx. Di fronte a questo

“silenzio assordante”, come lo definisce Del Re, le autrici sostengono che la riproduzione sia a tutti gli

effetti un lavoro, attività storicamente determinata e, per questo, tutt’altro che naturale.

Alla base sta l’idea che la naturalizzazione della riproduzione, separata dal lavoro produttivo maschile, sia

stata e sia tutt’ora necessaria e funzionale a una maggior estrazione di plusvalore: è su questa enorme mole

di lavoro non pagato che si è potuta continuamente ripetere l’accumulazione silenziosa e invisibile di

capitale. Misconoscere la fatica e la produttività proprie del lavoro domestico-riproduttivo delle donne nel

crescere, nutrire e curare forze lavoro disponibili sul mercato significa infatti giustificarne la mancata

retribuzione: se è missione naturale del sesso femminile, perché pensare che debba essere retribuita? È

stata quindi necessaria, scrive Fortunati, “un’orchestrazione ideologica molto più articolata e vasta di quella

costruita per la produzione” che riguarda la sfera delle relazioni di potere e affettive tra uomini e donne,

quel piano simbolico della società dove avviene la svalorizzazione morale e discorsiva dell’attività di

riproduzione in quanto non-lavoro, in quanto fuori dall’ambito del valore di scambio.

Affrontare in questi termini la riproduzione significa innanzitutto decentrare lo sguardo dal lavoro

produttivo a quello legato alle relazioni che permettono la continuazione e riproduzione della vita. Quella

61

sfera delle attività umane che la tradizione filosofica (abbiamo visto, Arendt, Aristotele e a suo modo anche

Marx) ha da sempre relegato nella staticità naturale del biologico/domestico – spazio senza tempo e senza

storia – e che appare adesso come momento fondante del sociale, attraversato da relazioni di dominio e

sfruttamento storicamente determinate. L’individuo produttore, l’operaio del lavoro salariato, è posto in

relazione con se stesso, col suo corpo, con la sua rigenerazione psicofisica e, quindi, con chi la rende

possibile.

Significa, dunque, mettere profondamente in scacco la classica analisi del lavoro e del valore. Alisa del Re

propone infatti una triplice definizione del “lavoro di riproduzione delle persone” – domestico, di

riproduzione e di cura – che ne mostra il carattere incomprimibile e non misurabile/contrattualizzabile. La

dimensione affettiva, relazionale e di dipendenza dall’altro quanto ai propri bisogni richiede una sensibilità,

una disponibilità e una cura che non sono nient’altro che quell’eccedenza di cui parla Marazzi rispetto al

lavoro delle donne: relazione di dominio certamente, ma anche di profondo coinvolgimento emotivo che

rende tale lavoro non-quantificabile nei termini del valore di scambio.

L’attuale “esternalizzazione” di buona parte di questo lavoro dal “privato” della casa al mercato dei “servizi

alla persona” costringe l’autrice a rinterrogarsi sulla relazione tra produzione e riproduzione. La

predominanza del lavoro riproduttivo e di cura oggi, e la sua rilevanza paradigmatica nei processi di

accumulazione e valorizzazione/svalorizzazione capitalistica, disegnano un quadro in cui le linee di razza e

di genere (con cui si ridefinisce continuamente la divisione del lavoro) s’intersecano con una

generalizzazione a tutte le figure sociali e lavorative di capacità “femminili” (“fattori emotivi e socializzanti,

motivazionali e affettivi”) che ridefiniscono il controllo sul lavoro e la sua produttività.

62

Alisa Del Re, Produzione-Riproduzione INIZIO INFRATESTO Ne Il Capitale Marx non affronta mai in modo esplicito il tema della riproduzione della forza lavoro. L’unica

argomentazione è affidata alle parole di un operaio nel capitolo VIII del Libro primo de Il Capitale: «A te

dunque appartiene l’uso della mia forza lavoro quotidiana. Ma, col suo prezzo di vendita quotidiano, io

debbo, quotidianamente poterla riprodurre, per poterla tornare a vendere». Il lavoro quotidiano necessario

alla riproduzione di quella «merce speciale» che è la forza lavoro è dunque ciò che rende possibile il

funzionamento del sistema produttivo. È un momento cruciale dell’intero processo che rimane tuttavia

taciuto in Marx. Un silenzio assordante. Questa almeno è la valutazione critica del pensiero femminista che

si sviluppa a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Muovendo da un produttivo

ripensamento del testo marxiano, il femminismo ha portato al centro del dibattito teorico e politico il tema

della produzione- riproduzione, soffermandosi prevalentemente su due temi. In primo luogo la critica

femminista si è concentrata sul valore negato al lavoro di riproduzione. Nel capitolo VIII del Libro primo de

Il Capitale, Marx precisa che «Il valore della forza lavoro include però anche il valore delle merci necessarie

per la riproduzione dell’operaio», ovvero il valore proprio ai mezzi di sussistenza necessari per la

conservazione e la riproduzione del possessore di forza-lavoro (cibo, vestiario, abitazione). A partire da

questa lettura, la riflessione femminista ha messo a nudo l’esistenza di altri costi e dunque di un altro

valore: il valore del lavoro necessario a trasformare le merci in concreti elementi di sussistenza per

l’operaio. Da qui in avanti il lavoro necessario a riprodurre la giornaliera forza lavoro dell’operaio diventa

lavoro di «produzione-riproduzione», svelando il valore intrinseco di tutto il lavoro affettivo e di cura che va

dalla preparazione dei cibi e del vestiario alla cura della casa così come di anziani e bambini, dalle

prestazioni sessuali alla produzione di affetto e comprensione, fino alla gestione del budget familiare.

L’altro tema al centro della critica femminista riguarda la divisione sessuale del lavoro, fondamento della

produzione capitalistica. Nel capitolo XIII del Libro primo de Il Capitale la divisione sessuale del lavoro segna

il passaggio dalla manifattura alla grande industria: «prima l’operaio vendeva la propria forza-lavoro della

quale disponeva come persona libera formalmente. Ora vende moglie e figli. Diviene mercante di schiavi».

Si instaura dunque un nuovo rapporto giuridico, un rapporto di servitù che lega le nuove figure del lavoro

(donne e bambini) al capitalista attraverso il contratto stipulato dall’operaio in qualità di capo famiglia. Un

contratto che è insieme contratto di lavoro e – per dirla con Carol Pateman – «contratto sessuale»

(contratto di matrimonio, di prostituzione, di maternità surrogata) che dà agli uomini il libero accesso al

corpo delle donne e dei lori figli così come al loro lavoro. (…)

L’analisi esclusiva della produzione e riproduzione della merce forza lavoro nel Libro primo de Il Capitale

consente alcune precisazioni . Se la forza lavoro si incarna nel sangue e nella carne delle persone, queste

persone in qualche maniera devono anche essere prodotte. È un evento naturale, ma non vi è niente di

naturale nel capitalismo; è un evento che dentro il capitalismo diventa una necessità di riproduzione del

capitale stesso, perché nel capitalismo non possiamo separare una parte biologico-naturale da un’altra

costruita socialmente. Il capitale ammaestra tutta la natura, la fa propria, la sussume. Marx dice

esplicitamente che il valore della forza lavoro è determinato dal tempo di lavoro necessario alla produzione

e quindi alla riproduzione di questa merce specifica.

In quanto necessaria alla produzione di merci, in quanto valore, «anche la forza lavoro rappresenta soltanto

una quantità determinata di lavoro sociale medio oggettivato in essa». Viene dunque, anche se molto

rapidamente, affermato che l’operaio deve mangiare, potersi lavare, stare al caldo per poter vendere la

propria forza lavoro sul mercato ogni giorno . Nella forza lavoro viene oggettivata una «quantità

determinata di lavoro», ma il tempo di lavoro necessario alla produzione della forza lavoro si risolve nel

63

tempo di lavoro necessario per la produzione dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del

possessore della forza lavoro. È evidente che questa oggettivazione non riguarda solo il cibo ecc., essa è

una oggettivazione della qualità di vita, cosa che sembra molto generica ma che è determinante per la

riproduzione della forza lavoro. La questione della qualità di vita in generale è ciò che meglio definisce il

lavoro di riproduzione e che Marx non ha visto. Ma non perché la sua fosse un’epoca diversa. Ogni epoca

storica ha infatti suoi parametri di riproduzione che sono sempre parametri complessi. C’è costantemente

una qualità di vita che aggancia il lavoro di riproduzione a quello che noi oggi chiamiamo lavoro

immateriale, che è lavoro legato non solo a capacità cognitive, ma anche a forme di sensibilità, di

comprensione ed empatia che si sviluppano nei rapporti tra persone. (…)

Marx afferma quindi che il valore della forza lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la

conservazione del possessore della forza lavoro. Questa definizione marxiana del valore della forza lavoro

mi sembra discutibile. Infatti quando Marx parla della persona che incarna la forza lavoro e della sua

riproduzione dà l’impressione di parlare di un solo individuo. Non lo sfiora il dubbio che ci sia, nella

riproduzione, una distinzione tra il lavoratore e chi lo riproduce e che questo elemento sia fondamentale.

Se la riproduzione degli individui è analizzata nell’arco della vita delle persone, risulta evidente che ciascuno

di noi è stato prodotto da qualcuno e per parti non irrilevanti della vita è stato o sarà dipendente da

qualcuno che si occupa della sua riproduzione e del suo benessere. Se si assume nell’analisi come

fondamentale la riproduzione della FL si diverge radicalmente da ogni ideologia liberista che veda

l’individuo esclusivamente nell’istante in cui è sano, adulto, vive da solo e basta a se stesso. Il partire dalla

riproduzione degli individui mette in evidenza l’improponibilità scientifica di un’analisi dei rapporti sociali

che si attesti sulle capacità produttive degli individui, escludendo la relazione e la riproduzione.

Alisa Del Re, Produzione Riproduzione in AA.VV., Lessico marxiano, manifestolibri, Roma 2008, pp. 109-111.

64

Alisa Del Re, Nuove riflessioni sul rapporto tra produzione e riproduzione (2012)

Lavoro domestico, lavoro di riproduzione, lavoro di cura nell’attuale fase del processo produttivo e nel

rapporto tra i sessi

Tenterò di dare qualche definizione di quel lavoro che grossolanamente possiamo chiamare lavoro di

riproduzione delle persone in relazione alla collocazione attuale nel processo produttivo e nel rapporto tra i

sessi. L’analisi non sarà esaustiva, ma vorrei rendere l’idea di quanto sia complesso questo tipo di lavoro e

che le differenze degli appellativi con cui lo nominiamo non sono solo semantiche. Una prima distinzione,

alquanto rozza, si può fare tra lavoro domestico, lavoro riproduttivo e lavoro di cura. Il lavoro domestico è il

lavoro elementare (Boeri et al. 2007), quello che serve per sopravvivere, e cioè pulire, lavare, cucinare, fare

la spesa etc.; chiamiamo lavoro di riproduzione il lavoro che serve a riprodurre “la specie”: non è solo fare

figli, è crescerli, è creare le condizioni indispensabili per la continuità della vita, è occuparsi delle persone

dipendenti. Il lavoro di cura ha a che fare con le relazioni, con la continuità dei rapporti, con l’affetto, con il

sesso. Non sono esattamente separabili, s’intersecano e si sovrappongono, anche se hanno caratteristiche

peculiari e sono costituiti da compiti che possono essere attribuiti - prevalentemente - a soggetti diversi. Il

lavoro elementare è il più semplice, il più “socializzabile”, trasferibile e misurabile. Tradizionalmente

attribuito alle donne, sempre tradizionalmente non è mai stato in maniera esclusiva gratuito o “scambiato”

per segno d’amore. Nella storia più recente le classi abbienti, la borghesia, hanno sempre delegato a

“domestiche” il lavoro elementare. Esso si può mercificare, nel mercato o nei servizi sociali (con delle

razionalizzazioni che implicano forme organizzative inedite, si pensi ai Gruppi di acquisto, ai servizi

condominiali etc.), il tempo di questo lavoro è misurabile, il suo costo è quantificabile. É un lavoro

ripetitivo, faticoso, noioso, necessario, ma comprimibile (sostituito in alcune sezioni da macchine, per altre

può essere “diluito” nel tempo, o semplicemente ridotto, cambiando stile di vita). Il lavoro di riproduzione

(oltre a quello basilare di riproduzione fisica e biologica della specie, la maternità) ha a che fare con le

persone dipendenti. Chiaramente ingloba il lavoro elementare, ma è anche un di più: non si rivolge ad un

indistinto universo di soggetti, ma a coloro che “da soli” non ce la farebbero, e non solo per incapacità

fisiche o mentali (fisiche relative all’età, bambini, vecchi; o relative a stati di malattia, handicap

momentanei o perduranti nel tempo; mentali, come le persone down, o le persone affette da Alzheimer, o

da demenza senile, sempre più numerose con l’aumentare della durata della vita), ma anche persone

assolutamente in grado di riprodursi, che non hanno il tempo di farlo sia a causa dell’organizzazione del

lavoro salariato, sia per convenzioni sociali che costruiscono ruoli specifici per la riproduzione degli

individui. Per una parte di questo lavoro si può ricorrere al mercato con forme contrattuali individuali (si

pensi alle badanti) oppure ai servizi del Welfare quando ci sono e offrono una qualche garanzia, e in piccola

parte anche ai servizi di volontariato sociale. Ma la gestione totale dei bisogni delle persone dipendenti,

oltre ad essere costosa, richiede comunque un lavoro di organizzazione, di presenza e di controllo

continuativo, che non si può delegare. In questo caso i soggetti che si attivano sono molteplici, non tutto

può essere “esternalizzato”. Le indagini statistiche ci indicano che per la maggior parte si tratta di donne.

Il lavoro che possiamo chiamare di cura, o affettivo, è, secondo me, quello che sembra meno “lavoro”,

quello che non dovrebbe poter essere “contrattualizzato”. Per quanto riguarda il sesso, mi pare evidente

che una parte viene delegata al mercato (i/le sex workers), per il rimanente il discorso sarebbe lungo e

complicato: analisi femministe a partire dagli anni sessanta l’hanno già abbondantemente analizzato.

Comunque: abbiamo bisogno che una badante sorrida di tanto in tanto a nostra madre, è importante che

organizziamo delle festicciole per i nostri figli, e che vengano gestite delle relazioni al di fuori dell’ambito

lavorativo. Nella nostra vita quotidiana tutti noi abbiamo bisogno di consolazione, di affetto, di vicinanza. È

65

un lavoro che richiede partecipazione emotiva, sensibilità, tatto, devozione. Ed è un lavoro che dalle pieghe

del “privato” è stato travasato anche nel mercato. Nell’organizzazione del lavoro salariato, particolarmente

nei “servizi alla persona”, sempre di più succede infatti che venga richiesto questo tipo di disponibilità: alle

commesse di sorridere, nei call center di modulare la voce, alle badanti e alle tate di mostrare di voler bene

ai nostri vecchi e ai nostri bambini, in moltissimi lavori sempre di più di dimostrare di volere il “bene” del

cliente, del paziente o di chi ci si occupa. Qualità che vengono richieste maggiormente nei settori a

prevalente occupazione femminile, ma che si stanno estendendo a tutte le forme di lavoro che richiedano

relazione. A partire da queste definizioni del lavoro riproduttivo delle persone, per quanto arbitrarie, mi

sembra importante verificare se c’è stato un cambiamento negli ultimi decenni, soprattutto in rapporto alla

produzione di merci. Negli anni ’70, il rapporto produzione riproduzione da un punto di vista di genere

all’interno di un processo di accumulazione capitalistica vedeva la produzione di merce-forza lavoro

articolarsi nell’allungamento smisurato della giornata lavorativa per le donne. Una donna, un salario, due

lavori. La doppia giornata lavorativa delle donne. E quando questo non avveniva, vi era l’esclusione della

parte “pubblica e salariata” (poche donne nel mercato del lavoro). Oggi abbiamo una maggiore inclusione

formale delle donne nello spazio pubblico, particolarmente nel mercato del lavoro. Corrisponde a

un’indistinzione per le donne tra spazio privato e spazio pubblico? Se si rompe il continuum, dove questo

avviene? Si rompe probabilmente in un tempo composito, multiforme, articolato su diversi piani, in cui

comando e subordinazione s’intersecano e si associano a forme organizzative complesse della vita

quotidiana. (…)

Oggi il processo di salarizzazione è in atto, ma in termini diversi e più complessi. Oggi abbiamo due donne,

due lavori, ma un solo salario. La cura delle persone dipendenti si paga, i servizi costano. D’altronde perché

il sistema funzioni bisogna da un lato che l’immissione di nuova forza lavoro nel mercato sia competitiva (e

le donne con il gender pay gap sono i soggetti ideali), dall’altro che chi sostituisce parte del lavoro gratuito

erogato precedentemente nella riproduzione delle persone sia disposto a lavorare con un salario inferiore

ai prezzi di mercato di altri lavori analoghi (lavoro nero, immigrati, lavoro nei servizi quotato meno di altri

lavori). Inoltre nel mercato generale del lavoro, contratti atipici, part-time, assunzioni personalizzate,

sembrano oggi venire incontro sia alle necessità del sistema produttivo che al desiderio (necessità?) di

molte donne di conciliare maternità, cura e lavoro salariato. Un altro elemento riguarda l’aumento

considerevole della domanda di lavoro di riproduzione delle persone. Possiamo misurare la dimensione

quantitativa di questo lavoro (di cura e di riproduzione) nella sintesi del rapporto Istat (28 dicembre 2011),

in cui si legge: « Sono circa 15 milioni 182 mila (il 38,4% della popolazione tra i 15 e i 64 anni) le persone che

nel 2010 dichiarano di prendersi regolarmente cura di figli coabitanti minori di 15 anni, oppure di altri

bambini, di adulti malati, disabili o di anziani ». Finora vi è stata una “conciliazione” senza conflitti tra la

forza lavoro femminile e un sistema produttivo che, pur nel declino, non ha perso i tratti del potere

patriarcale e capitalistico. Probabilmente per la costruzione di un immaginario che nel lavoro di

riproduzione faceva apparire solo la maternità come tempo da dedicare a un figlio, al piacere di vederlo

crescere, nascondendo di fatto la mole di lavoro senza sosta che comporta la vita famigliare nella

quotidianità, fatta di bambini, ma anche di anziani, malati, adulti perfettamente sani ma abituati ad avere

qualcuno che si occupa della loro “buona vita”. E con in più la consapevolezza delle responsabilità delle

condizioni indispensabili per la continuità della vita. Tornare a nominare, come è stato fatto negli anni ’70,

la divisione tra lavoro produttivo e riproduttivo, la quantità di lavoro non pagato e spesso non riconosciuto

come tale dalle donne stesse, sembra un anacronismo, nel momento in cui le case si riempiono di

collaboratrici domestiche e di “badanti” straniere. Ma anche se parte di questo lavoro diventa salariato,

almeno là dove le condizioni sociali lo consentono, non viene sciolto l’intreccio di lavoro e di affetti che

questo comunque comporta. Inoltre resta sempre presente per il capitalismo una riserva gratuita di servizi

66

nella sfera privata da utilizzare con il principio della sussidiarietà, al di fuori del riconoscimento sociale dei

bisogni della vita.

Alisa Del Re, Questioni di genere: alcune riflessioni sul rapporto tra produzione e riproduzione nella definizione del comune, “About Gender”, 1, 2012, pp. 151-170

FINE INFRATESTO

67

III.3 MORALE E POLITICA: LA CURA Il concetto di cura, in particolare nell’originaria versione inglese, care, compare nei dibattiti agli inizi degli anni Ottanta. Di derivazione femminista è oggi adottato come elemento nelle analisi e direttive di organismi transnazionali come l’Unione Europea, ma anche come denominazione di specifiche figure delle politiche pubbliche e del mercato del lavoro alla stregua di caregivers, o di “lavori di cura”. Relativamente alle questioni individuate dalla coppia “produzione-riproduzione”, il termine coglie le trasformazioni delle società nord occidentali, ma non tanto nel verso della deindustrializzazione e del passaggio a una società dei servizi – dunque sul versante della produzione -, quanto in relazione al venir meno dei confini tra sfera pubblica e sfera privata, tra ambito delle attività domestiche e ambito del lavoro di produzione. Detto in breve: ciò che, nella divisione moderna dei compiti sociali, spettava alle donne – assistere al benessere fisico e generalmente soggettivo delle persone non autonome, minori, anziani, malati, creare un ambiente favorevole e affettivamente soddisfacente – è diventato oggi materia economica, relativa ad attività salariate, e materia politico-morale, relativa cioè alle decisioni che vertono sui diritti fondamentali all’assistenza e alla previdenza. In altri termini, la coppia produzione-riproduzione incorre in una drastica riformulazione, non solo per le nuove caratteristiche dei processi di produzione (vedi sezione II), ma anche per il venir meno dei confini tra famiglia e società, della distinzione tra le forme delle rispettive relazioni e attività. CAROL GILLIGAN. La cura tra giustizia e morale Il termine si afferma nel volume Con voce di donna (1982) in un’accezione strettamente etica. Gilligan prende in esame le tesi dello psicologo Lawrence Kohlberg che conclude per una immaturità o incapacità morale del genere femminile. Prendendo in considerazione la “giustizia” e il senso che se ne può avere e i giudizi che si possono formulare, le donne generalmente disattendono a due principi cardinali: l’universalismo dei criteri di giudizio adottati, il fatto cioè che possano valere in ogni circostanza, e conseguentemente l’imparzialità e l’impersonalità del punto di vista adottato. Le donne tendono infatti a regolarsi secondo principi di prossimità e di empatia. Per confutare tali conclusioni, Gilligan si concentra sul paradigma adottato per definire ciò che è “giustizia”, che è debitore delle visioni universalistiche e deontologiche di matrice kantiana: sussisterebbero una serie di principi fondamentali, formalmente definiti, che andrebbero applicati nei giudizi e valutazioni – una concezione ripresa nei dibattiti statunitensi, in particolare da John Rawls e dalla sua Una teoria della giustizia (1971). Entro il quadro delineato da tale paradigma, le donne hanno un habitus, una disposizione incorporata attraverso le attività svolte e l’appartenenza a un determinato campo relazionale e sociale, la famiglia, che le destina a una posizione inadempiente. Ed è proprio allo scopo di trovare un paradigma differente, che non contrapponga relazioni di prossimità, empatia e giustizia, che Gilligan formula la nozione della cura. INIZIO INFRATESTOCarol Gilligan, Con voce di donna Per le donne, dunque, il conflitto morale di fondo è costituito dal conflitto tra sé e l’altro, e la sua risoluzione richiede una riconciliazione tra essere donna e essere individuo adulto. Se tale riconciliazione non avviene il problema morale non può essere risolto. La donna “buona” maschera l’affermazione di sé con l’evasività e nega la propria responsabilità sostenendo di rispondere soltanto ai bisogni altrui, mentre la donna “cattiva” dimentica o rinnega gli impegni che la tengono prigioniera dell’autoinganno e del tradimento di sé. Ed è appunto questo dilemma, il conflitto tra compassione e autonomia, tra virtù e potere, che la voce femminile si sforza di risolvere, nel tentativo di riappropriarsi di sé e insieme di trovare una soluzione al problema morale, tale che nessuno abbia a soffrire. Quando una donna si chiede se portare a termine la gravidanza oppure abortire, si trova di fronte a una decisione che toccherà sia lei sia altri e aggredisce direttamente la questione morale della sofferenza. Poiché la scelta finale spetta a lei, e quindi ne è responsabile, si trova ad affrontare quelle questioni di giudizio che più le risultano problematiche. (…) Kohlberg (1976) distingue tre ulteriori modi di vedere il conflitto e la scelta morali, collegati con l’affermarsi durante l’adolescenza del pensiero riflessivo, e definisce queste tre concezioni della moralità (che rifletterebbero il progredire del giudizio morale da un punto di vista individuale a uno societario e infine a uno universale), preconvenzionale, convenzionale e postconvenzionale. Secondo questo schema, il punto di partenza è sempre la moralità convenzionale, ovvero la coincidenza del giusto e del buono con il mantenimento delle norme e dei valori sociali esistenti. Mentre il giudizio morale preconvenzionale denota

68

l’incapacità di concettualizzare un punto di vista consensuale o societario, il giudizio postconvenzionale trascende questa prospettiva. Il giudizio preconvenzionale è egocentrico e fa discendere i costrutti morali dai bisogni individuali; il giudizio convenzionale si basa su norme e valori condivisi, che regolano e fanno sussistere tutte le forme di rapporto, personali e di gruppi sempre più ampi; il giudizio postconvenzionale, infine, riflette sui valori societari e costruisci principi morali universalmente applicabili. (…) Le tre prospettive morali emerse dal nostro studio connotano una progressione evolutiva dell’etica e della responsabilità. Esse sono state dedotte, insieme alle fasi di transizione dall’una all’altra, dall’analisi dell’uso del linguaggio morale da parte delle donne intervistate (impiego di parole come doveri, dovere, meglio, giusto, bene, male), dalle modificazioni e oscillazioni del pensiero, dal modo in cui riflettevano sul loro pensiero e lo giudicavano. Nella sequenza che ne emerse, all’attenzione sulla cura di sé per garantirsi la sopravvivenza, fa seguito una fase di transizione in cui questo tipo di giudizio è criticato in quanto è considerato egoistico. Questa critica segna il passaggio a una nuova percezione della connessione tra sé e l’altro, articolata nel concetto di responsabilità. L’elaborazione di questo concetto e la sua identificazione con una morale materna, che cerca di garantire la sopravvivenza dell’inerme e dello svantaggiato, caratterizzano la seconda prospettiva. A questo punto il bene viene identificato con il prendersi cura degli altri. Quando, tuttavia, solo l’altro è legittimato come oggetto di cure, l’esclusione di sé fa sorgere problemi di rapporto, creando uno squilibrio che apre la strada alla seconda fase di transizione. La pressione a conformarsi, che è il portato di questa definizione convenzionale di servizio, e l’illogicità della diseguaglianza tra sé e l’altro, inducono a rivedere l’idea di rapporto, nel tentativo di fare chiarezza nella confusione tra sacrificio di sé e servizio, che è inerente alle convenzioni sulla bontà femminile. La terza prospettiva pone al centro dell’attenzione le dinamiche dei rapporti e risolve la tensione tra egoismo e responsabilità in virtù di una nuova percezione dei legami che intercorrono tra sé e gli altri. Il passaggio dalla prima alla seconda prospettiva, dall’egoismo alla responsabilità, rappresenta un movimento in direzione della partecipazione sociale. Mentre secondo il primo punto di vista la moralità è questione di sanzioni imposte da una società di cui si è sudditi più che cittadini, nella seconda prospettiva il giudizio morale poggia su norme e aspettative condivise. La donna a questo punto legittima la pretesa di essere parte del corpo sociale attraverso l’adozione dei valori societari. Ora che la sopravvivenza viene fatta dipendere dall’accettazione da parte degli altri, il consenso su ciò che è bene diventa la preoccupazione preminente. (…) Nel distinguere la propria voce dalla voce degli altri, la donna si chiede se sia possibile essere responsabile verso di sé e contemporaneamente verso gli altri e quindi conciliare l’opposizione tra fare del male e prendersi cura. L’attuazione di questa nuova idea di responsabilità richiede un nuovo tipo di giudizio che a sua volta esige come primo requisito l’onestà. Se si vuole essere responsabili verso se stesse, bisogna prima prendere coscienza di quello che si sta facendo e ammetterlo. Quando la moralità dell’azione è valutata non sulla base di come appare agli occhi degli altri, bensì dal punto di vista delle sue intenzioni e delle sue conseguenze, il criterio del giudizio si sposta dalla bontà alla verità.(…) Carol Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli Milano, 1987, pp. 77-100. FINE INFRATESTO

69

JOAN TRONTO. Una questione politica Nella piena maturazione delle tendenze trasformative delle società, e in particolare nella maturazioni degli effetti economici e sociali dell’esodo delle donne dalla sfera domestica – come processo al contempo infrasociale, all’interno delle singole società, e internazionale, attraverso i flussi migratori e la nuova divisione del lavoro, Tronto ricolloca la nozione di cura in ambito politico. Questa nuova collocazione non va intesa come il passaggio a un livello superiore e socialmente qualificato di attività un tempo relegate nella sfera domestica e dunque non rilevanti per il patto politico e per le attività caratterizzanti gli individui titolari di diritti (Locke e Pateman). Piuttosto, la cura diventa categoria politica, anziché strettamente etico-morale, per il venir meno della sua distinzione con l’ambito politico ed economico (vedi Il ritorno dell’economia morale). E’ così che Tronto può definire la cura come quella “specie di attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, contenere e riparare il nostro mondo, così da poterlo vivere nel miglio modo possibile” (1994, pp. 126-136). La cura è qui assunta come categoria unilateralmente positiva, e individuerebbe modalità relazionali e le relative attività capaci di costruire una società alternativa, in contrapposizione alle società occidentali basate sulle relazioni di sfruttamento, egoismo appropriativo e competizione. Traspare chiaramente che la valenza positiva di alternativa all’ordine dominante, attribuita alla cura, appartiene alla tradizione anglo-americana e al tipo di antropologia politica, economica e morale, che ha individuato fin dall’epoca moderna. Tuttavia, per l’estendersi del modello neoliberale su scala globale, i termini della questione possono trovare applicazioni pertinenti, seppur parziali, nelle società e contesti di tradizione diversa. O meglio, queste tesi possono fare da reagenti per rivelare quanta parte delle ideologie di tradizione liberale sono passati nelle nostre rappresentazioni sociali. La cura sarebbe dunque, secondo Tronto, una categoria politica, che si concentra sull’interdipendenza tra esseri umani e componenti di singole comunità politiche, e che aprirebbe al pluralismo politico e alla democrazia. I tratti salienti che individuano la cura come modalità relazionale e attività sono: la sollecitudine, la responsabilità, la competenza e la retroattività. INIZIO INFRATESTOJoan Tronto, Cura e politica democratica Il concetto di cura è complesso. Berenice Fischer e io ne abbiamo offerto la più ampia definizione nel 1990: Al livello più generale, suggeriamo che la cura venga considerata come una specie di attività che include tutto ciò che noi facciamo per conservare, continuare e riparare il nostro ‘mondo’ in modo da poterci vivere nel miglior modo possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa di sostegno della vita (Fischer, Tronto, Toward a Feminist Theory of Care, 1990, pp. 36-54). (...) 5. Una teoria democratica della cura deve dunque presupporre un’attenta rivisitazione del modo in cui i ‘bisogni’ vengono definiti. 6. Una teoria democratica della cura deve perciò guardare sia alla posizione di coloro che forniscono assistenza sia a quella di coloro che la ricevono, nelle loro complesse interrelazioni al fine di leggere, comprendere, valutare, e in definitiva democratizzare le relazioni di cura. 7. Determinare delle responsabilità è una importante modalità per conoscere le dinamiche e le relazioni interpersonali di cura, ma da sé non è sufficiente per giungere a una piena teoria democratica della cura. La determinazione della responsabilità funziona soltanto quando essa è collocata nel contesto di una più ampia concezione della cura, e la cura in una più ampia cornice democratica. Ciò accade perché la complessità della cura richiede ben più che l’attribuzione di responsabilità. Ho individuato quattro qualità morali che vanno di pari passo con le quattro fasi della cura che io e Berenice Fisher abbiamo individuato nel saggio del 1990. Esse sono: a) interessarsi a (caring about). In questa prima fase della cura qualche persona o qualche gruppo nota bisogni di cura insoddisfatti. Ciò richiede la qualità morale dell’attenzione, una sospensione del proprio interesse, e una capacità di guardare, realmente, dalla prospettiva di qualcuno che ha bisogno (infatti, potremmo essere attenti o disattenti ai nostri stessi bisogni); b) prendersi cura di (taking care of). Una volta individuati i bisogni, qualche persona o qualche gruppo deve assumersi la responsabilità – qualità morale chiave del prendersi cura – per assicurarsi che essi siano soddisfatti; c) prestare cura (care-giving). Assumersi la responsabilità non è ancora la stessa cosa che svolgere il vero lavoro di cura, il che rappresenta la terza fase dell’assistenza, e richiede la qualità morale della competenza.

70

Essere competente nella cura, data la propria responsabilità di assistenza, non è semplicemente una questione tecnica, ma morale; d) ricevere cura (care-receiving). Una volta che il lavoro di cura è svolto, ci dovrà essere una risposta dalla persona, dalla cosa, dal gruppo, dall’animale o dalla pianta, o dall’ambiente, del quale ci si è presi cura. Osservare quella risposta, e valutarla (per esempio, la cura fornita era sufficiente? Efficace? Completa?), richiede la qualità morale della responsiveness. La responsabilità, pertanto, è un’importante dimensione della moralità della cura, ma è solo una parte del tutto. (...) 11. Nessuno di questi punti contribuisce all’assunto che il mercato non abbia una sua giusta collocazione nella cura, ma implica che tale spazio per il mercato giunga molto più tardi di quanto i neoliberisti ammettano. I meccanismi del mercato che consentono la flessibilità delle preferenze della cura permettono l’espressione dei valori pluralistici della cura, ma possono essere democratici solo se tali espressioni si manifestano in una più ampia cornice sociale entro la quale i bisogni più fondamentali di tutti coloro che ricevono assistenza sono qualcosa di già garantito. (...) A partire dalla metà del secolo XX, la più ricorrente fra le caratteristiche della cittadinanza nelle democrazie moderne è stata, seguendo Thomas H. Marshall, la capacità di lavorare per percepire uno stipendio (Reflections on Power, 1981, pp. 137-153). Il fatto che questo ‘principio attivo’ sia stato declinato al maschile aiuta in parte a spiegare la ragione per la quale la questione della cura è rimasta così periferica nel contesto della teoria democratica. Ciò è vero se questa attività viene intesa come «deliberazione razionale» (J. S. Mill, Rawls, Habermas), come «lotta agonistica» (Connolly, Rorty, Honig), come «produzione» (Marx), come «disvelamento della propria unicità agli altri in un mondo pluralistico» (Arendt), come «scelta dell’autenticità sopra l’immanenza» (Sartre, de Beauvoir), o anche come «accontentarsi della ‘felicità’ e del suo rovescio: il ‘risentimento’» (Nietzsche). (...) Il lavoro di Foucault si presta a venir letto come un approccio dal punto di vista di chi riceve cura – per esempio – come il sé è prodotto attraverso le tecnologie di disciplina. Verso la fine della sua vita, così come è tornato all’«etico», egli allo stesso modo si è ritirato nella più attiva cornice della «cura di sé» piuttosto che osservare il fatto che la cura è spesso fornita, anche nei modi in cui noi costruiamo eticamente la nostra vita, da altri. Freud riconobbe che il ‘principio attivo’ è codificato come maschile nelle sue prime considerazioni sul significato della libido. Ma se la mascolinità maschera la qualità non-universale del principio attivo, questo rende più virulente tutte le sue difese e proteste di universalità. Come hanno compreso diversi pensatori nei secoli XIX e XX, vedere una connessione tra l’attivo e il maschile oscura la condizione umana. Alcune qualità, infatti, sono associate al femminile. J. Tronto, Some Premises of Caring Democratic Politics, 2010, inedito. Traduzioni sui siti di Società Italiana di Filosofia Politica e di IAPh Italia. FINE INFRATESTO

71

CRISTINA MORINI. L’estensione dello sfruttamento Nel 2010 i tempi sono maturi, in particolare per lo specifico dibattito italiano sulla trasformazione cognitiva del capitalismo, per convalidare l’espressione di “femminilizzazione del lavoro”. Quel che viene registrato è che le nuove forme del lavoro, le nuove attività produttive, non richiedono soltanto un’analisi più articolata di ciò che viene inteso con “forza lavoro” – non soltanto la capacità lavorativa fisica e le relative ed eventuali competenze tecniche, ma soprattutto capacità relazionali, comunicative e affettive. Per femminilizzazione si intende dunque la trasformazione delle caratteristiche della produzione, che assume sempre più le caratteristiche delle attività riproduttive, un tempo relegate nel domestico e di competenza delle donne. I lavori cognitivi o immateriali – che siano nell’ambito editoriale, della comunicazione, dell’informazione o nell’ambito dell’assistenza – per quanto svolti oramai da soggetti a prescindere dal genere di appartenenza, hanno assunto le caratteristiche tradizionali del lavoro femminile. Nella prospettiva di Morini, che assume il carattere antropogenico, sai sociale sia individuale, delle nuove forme di produzione, la cura diventa allora la nuova ideologia incorporata, che estrae valore attraverso la collaborazione attiva dei soggetti coinvolti nelle attività cognitive, immateriali, affettive e relazionali, sul mercato del lavoro. INIZIO INFRATESTO Cristina Morini, Per amore o per forza Da diversi anni, il concetto di femminilizzazione del lavoro è entrato, in modo sempre più consistente, a far parte delle analisi dei processi prodotti dalle trasformazioni del mercato del lavoro collegate ai nuovi percorsi dell’economia globale. Con esso si intende definire, in generale, non solo l’aumento quantitativo della popolazione attiva femminile a livello globale, ma anche e soprattutto la qualità del lavoro contemporaneo, ovvero le caratteristiche che l’attuale economia informazionale, come la definisce Manuel Castells, o meglio ancora ciò che altri preferiscono chiamare “capitalismo cognitivo”, mette a valore, in senso capitalistico, all’interno dei nuovi contesti di produzione. In altri termini, quando si parla di femminilizzazione del lavoro si intende sottolineare non solo il ruolo che le donne svolgono all’interno dell’economia globale, ma anche il suo carattere paradigmatico (...). In senso generale, il processo di femminilizzazione del lavoro cui si fa riferimento segnala, da un lato, un’implementazione esponenziale del lavoro a basso costo sui mercati globali, dall’altro, in Occidente, una tendenza verso il progressivo inserimento delle donne nel mercato del lavoro laddove la produzione terziaria (l’economia dei servizi) assume un peso tendenzialmente sempre più rilevante e si sviluppano forme di contrattazione sempre più individuali (...). Il modello della cura. Chiariamo, a questo punto, un aspetto importante: è evidente che di tutto questo c’è stata traccia e nozione in tutto il lavoro nel corso dei secoli. È evidente che nel lavoro di tutti i tempi si possano trovare coinvolgimento o passione, tanto più nel caso di professioni rubricate sotto la voce “lavoro emozionale” nel capitolo quarto (insegnanti, infermieri, medici, operatori sociali...). Allo stesso modo è evidente che non riteniamo che il lavoro di fabbrica sia mai stato povero di elementi cognitivi, anzi. La necessità di guardare alla tendenza ci induce a sottolineare la questione centrale: ovvero il passaggio dall’era della misura (fabbrichista, rigida, stabile, maschile) a quella della qualità (cognitiva, relazionale, precaria, femminile). Questo è il punto: diventa difficile separare il gesto materiale del lavoro dalla questione affettiva, anche per chi lavora in un call center o sta alla cassa di un supermercato. Ed è questo che rende indispensabile analizzare l’inserzione dell’affetto nel lavoro. Qui si gioca interamente la femminilizzazione del maschile imposta dalla produzione contemporanea. Siamo completamente immersi in quella che possiamo chiamare una dimensione biopolitica, realtà dove sono saltate tutte le dicotomie, tutte le categorie, tutti gli assunti. Dove è necessario ripartire da capo per ridefinire i concetto lavoro e di attività. L’affermarsi devastante della logica sovrana del valore di scambio, di cui dicevamo nel capitolo precedente, che pretende di introdurre l’etica nell’ambito produttivo, fa leva proprio sul concetto di “cura”. Il modello della cura diventa allora una strategia di governo della complessità e insieme di depotenziamento delle conflittualità. Il mondo di significati che il termine cura suggerisce, e che ho cercato di enucleare in questi due ultimi capitoli, costituisce un vero e proprio modello comportamentale, un’etica, appunto, che si pretende di trasferire nella produzione. Il modello del lavoro di cura è il più forte tra quelli a disposizione per “ottenere l’anima”, dunque il più efficace da richiamare quando gli elementi relazionali o linguistici — che insieme coniugano razionalità, affettività e corporeità — diventano assolutamente fondamentali per il nuovo paradigma produttivo. Cosicché si assiste alla generalizzazione del codice della cura, la cui sintassi può uscire dalle case e proporsi al mondo, si può applicare al lavoro cosiddetto “produttivo”, alla politica, al governo delle cose.

72

Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre corte, Verona 2010, pp. 49-129. FINE INFRATESTO

73

III.4 LA VITA MESSA A VALORE BARBARA DUDEN. La riproduzione, la biologia e il sacro

La ricostruzione della storia del corpo della donna e delle trasformazioni nei modi di percezione di sé

permette di ripercorrere le tappe che nella modernità hanno visto la riduzione del corpo femminile a corpo

biologico, funzionale alla riproduzione della specie. Si tratta di un corpo creato e plasmato da istituzioni

mediche, economiche, giuridiche e religiose che sono via via intervenute su di esso stabilendo il valore in sé

di un oggetto invisibile di cui sarebbe portatore: la vita.

La ricerca di Duden s’incentra proprio sull’analisi dell’emersione di questo nuovo oggetto del sapere,

prodotto dalla biologia, ma sacralizzato tanto dalla religione quanto dall’economia. È in nome de “la vita”

infatti che è stato possibile rendere i corpi riproduttivi campo d’intervento pubblico e politico; investiti,

gestiti, controllati, plasmati da apparati preventivi, sistemi statistici e tecnologie mediche. Fino ad arrivare

all’oggi, in cui, come mostreranno Cooper e Waldby, la riproduzione biologica diventa un vero e proprio

mercato, un sistema di produzione e di scambio.

Il lavoro di Duden mostra in maniera lampante come l’enunciazione di una presunta sfera riproduttiva e

biologica, quale sezione separata delle capacità dei corpi, sia tutto sommato recente. Si tratta di una

creazione storica che ha reso il corpo femminile terreno politico di valorizzazione economica e gestione

medica, servendosi contemporaneamente del discorso patriarcale per cui la donna sarebbe naturalmente

inclinata alla maternità, alla vita familiare e domestica e così destinata alla “sfera privata”. Questa

domesticazione nel privato è il correlato del divenire pubblico dell’uso del suo corpo: quella “vita” che

richiede le cure materne è la stessa che legittima la gestione e la valorizzazione delle sue presunte funzioni

riproduttive.

La nozione di vita, nell’accezione moderna, in quanto oggetto trascendente e metafisico, è emerso, spiega

Duden, con la scienza biologica da Lamarck in poi. La necessità di scoprire l’organizzazione interna dei corpi

organici (contrapposti, per la prima volta nella storia, a quelli inorganici) permette al sapere biologico di

individuare i caratteri generali di organizzazione del vivente e delle sue funzioni vitali riconducibili a

processi che non rientrano nell'ambito della descrizione e della rappresentazione classiche, ma

dell'invisibile. La vita diventa l'oggetto nascosto che permette di riferire il visibile all'invisibile quale sua

ragione profonda. Per questo, la vita, è un sacrum particolare, che non ha bisogno di essere mostrato, ma

che si indica piuttosto nel feto in quanto idolo, in quanto «malinteso della scienza popolare innalzato a

ruolo di feticcio» (Il corpo della donna come luogo pubblico, p. 124).

È così, spiega Duden, che la donna diventa riproduttrice di “una vita”; e la vita è un oggetto-soggetto, di cui

il corpo gravido è portatore sacrificale e responsabile. La vita ipostatizzata è l’emblema della biopolitica

foucaultiana, in quanto politica che ruota attorno al generico bios, ma il cui valore ultimo è la vita in sé. Di

fronte alla concretezza vissuta e percepita del corpo di donna, quest’ultima, scrive Duden, «è costretta a

decidere tra due forme di esistenza […] Il suo essere viva e “la vita” che può essere conteggiata e gestita,

appartengono a due mondi diversi. Sono fatti di una materia diversa» (p. 61).

74

INIZIO INFRATESTOBarbara Duden, Il corpo come luogo pubblico (1991)

Da alcuni anni, il discorso sulla donna incinta si sta inesorabilmente spostando in una nuova direzione: la

donna incinta quale condizione per la riproduzione della vita umana (...). Nel caso della «vita», infatti, non si

tratta più, come nel caso del feto, di un cambiamento radicale dell’esperienza del corpo, bensì di un

processo nel quale questa esperienza viene cancellata. Quella «vita» che con la sua tirannia etica domina il

discorso contemporaneo appartiene alla storia dell’illusione e dell’inganno — o forse della religione —, non

alla storia del corpo. La «vita» di cui parlo è un soggetto grammaticale: nelle comunicazioni del Bundestag,

della fondazione che gestisce i convalescenziari per madri, dell’arcivescovo di Fulda, ma anche nel discorso

di medici, giuristi e filosofi, la «vita» viene ipostatizzata. La parola «vita» viene impiegata come sostantivo

per designare una forma biologicamente specifica di esistenza materiale. Tale termine non designa altro

che stadi di organizzazione di tessuti e cromosomi verificabili solo in laboratorio, che ciò nonostante in

ambito costituzionale diventano un criterio determinante dell’esistenza giuridica di «una vita». (...)

Così come per Aristotele non esiste il «nero», ma solo cose nere, non esiste neppure la vita, bensì un

dettagliato sapere dell’essere vivente. La vita come concetto sostantivo appare duemila anni più tardi,

insieme alla scienza che pretende di studiarla. Il concetto corrispondente di «biologia» fu coniato all’inizio

del secolo XIX da Jean-Baptiste Lamarck. Lamarck si rivoltò contro la botanica e la zoologia barocche,

ridotte ormai a un mero esercizio di classificazione. Lamarck creò e definì la vita, servendosi del termine per

denominare il proprio campo di ricerca. (...) Lamarck postulò l’esistenza di una vita che distingue gli esseri

animati dalla materia inorganica, non per la loro struttura visibile, bensì per la loro «organizzazione». Da

Lamarck in poi, la biologia ha cercato il motivo di tale organizzazione, tentando di insediarlo in tessuti,

cellule, protoplasma, nel codice genetico o perfino in campi morfogenetici. (...)

Il feto, vissuto da Joanne come un neoplasma nel proprio ventre, è l’enfatica incarnazione di un fatto creato

dalla scienza. Per Joanne l’esperienza naturale non è più quella di una matrix viva, che la colpisce

dall’interno con qualcosa di vivo. La natura è diventata piuttosto una costruzione mediata dalla tecnica che

lei attribuisce a. se I stessa. Per Joanne la fotografia è un emblema, una raffigurazione che vuole suggerire

qualcosa e che lei interpreta come un ritratto. La silhouette suscita in lei l’idea di un’esperienza concreta.

Per Carol, è la rivelazione di qualcosa di trascendente: «una vita», che le si manifesta nell’immagine

dell’ecografia sul tavolino di Joanne, sui manifesti, nel pallone sospeso su Washington.

Ciò che appare a Carol è una prova, il risultato di un test. Ciò che Joanne ha incorporato come un

neoplasma è per Carol, con una definizione esatta, un sintomo della realizzazione di un nuovo programma.

L’esame a cui Joanne si è sottoposta ha indicato che ha avuto inizio in lei un processo biochimico, il cui

decorso è regolato da un programma proprio, diverso dalla madre. Nel «sistema» madre si è annidato un

sistema differente dalla «madre». Un feto si «organizza» nel terreno materno. Non è una cellula uovo né

uno zigote, non è un embrione né un bambino, ma in primo luogo uno stato cibernetico. E questo che Carol

ha imparato alla lezione di biologia programmata con l’ausilio di mezzi audiovisivi. Ma Carol non può

accontentarsi di quest’astratta teoria sistemica e trasforma l’equilibrio in cui il programma genetico riceve il

processo organico in un «qualcosa»; tenta di dare alla riduzione teorica senso e significato. Chiama il

processo informativo «una vita». E dov’è questa vita? Nilsson potrebbe rappresentarla ancora, in modo

romantico e immaginifico, come una «nicchia uterina». La riduzione del processo a sistema e della madre a

campo di informazioni ha estinto ogni percezione sensoria‘le. E in questo deserto che è diventato l’interno

della donna, Carol percepisce un processo cibernetico che le si rivela come «vita». Qui la funzione del feto

pubblico non è più quella di emblema, bensì di idolo. Come emblema, il feto dà a Joanne un’interpretazione

75

normativa di ciò che avviene in lei. Come idolo, è un malinteso della scienza popolare innalzato al ruolo di

feticcio. (...)

Fino a questo momento, il sacrum era sempre stato un oggetto visibile, una cosa, che poteva essere vista

senza bisogno di apparire o di essere rappresentata. Quest’oggetto reale costituiva la soglia dell’ontofania,

dell’apparizione dell’essere. Il feto pubblico non è così reale. Il feto pubblico viene mostrato: già per questo

è un sacrum insolito. Altrettanto insolito è il luogo in cui questo sacrum si trova: la donna. La donna è

diventata non solo il life support system del feto, ma anche il teatro della ierofania di quell’idolo che non

solo si è incarnato in un’esperienza di fede, ma anche socialmente è stato trasferito dentro di lei. Si

pretende un timore reverenziale nei confronti di quest’idolo; si inscenano manifestazioni di meraviglia; in

lui si venera un «miracolo». E un idolo in cui un nulla si rivela quale valore più alto: la «vita » quale assoluto

capovolgimento del «vivente», a cui tutto dev’essere sacrificato. Per riassumere storicamente: dopo la

morte di Madre Natura e del Dio vivente, il corpo della donna è diventato la scena irreale di una bestemmia

possibile solo nella nostra tradizione.

Barbara Duden, Il corpo come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita, Bollati Boringhieri, Torino

1994, pp. 114-125.

FINE INFRATESTO

76

MELINDA COOPER, CATHERINE WALDBY. La vita come fonte di plusvalore (2014)

Attraverso il concetto foucaultiano di biopolitica e attingendo dall’analisi femminista attorno al lavoro di

riproduzione, Cooper e Waldby studiano la relazione tra la trasformazione delle tecnologie della

produzione in epoca postfordista e l’emergere del corpo biologico come campo del sapere scientifico e

dell’intervento sperimentale, a partire dal XIX secolo. Come mostra il filosofo francese, a cavallo tra il XVIII e

XIX secolo si è data una contemporaneità e una correlazione tra le politiche di aumento demografico,

l’analisi della produzione di ricchezze e l’emersione, in biologia, di quell’oggetto, “vita”, di cui Duden e

Foucault parlano in termini analoghi.

La possibilità di separare l’organico dall’inorganico intercettando le strutture d’organizzazione del vivente

aveva permesso la distinzione di funzioni differenti dei corpi che potevano così essere presi in gestione al

fine di migliorarne la produttività. Questa gestione, col passaggio al postfordismo e con la fine del

paradigma industriale, da biopolitica del corpo-specie diventa, secondo le autrici, bioeconomia:

l’inserimento di quella materia biologica del corpo dentro al processo lavorativo stesso. Da una tecnologia

che seziona, esplora e sfrutta i corpi viventi riproduttivi a una “tecnologia vivente” che entra a far parte del

capitale produttivo in quanto lavoro vivo.

Così, registrare le trasformazioni tra produzione e riproduzione non significa solo mostrare

l’esternalizzazione al settore dei servizi-pagati-alla-persona del lavoro di cura e domestico, ma anche la

conversione delle scienze della vita, applicate ai corpi riproduttivi, in motori di ricerca di nuovi campi

d’investimento, di estrazione di risorse e d’accumulazione di capitale. Si tratta, scrivono le autrici, di una

«esternalizzazione orizzontale» che rompe la divisione verticale tra produzione e riproduzione e apre a

contratti privati basati sulla messa al lavoro della fertilità.

Sistemi di valutazione-retribuzione e di divisione sessuale/razziale del lavoro propri di un’economia

finanziaria ridisegnano un panorama in cui il corpo riproduttivo da risorsa per la produzione diventa

direttamente mezzo di produzione vivente la cui organizzazione viene definita “lavoro clinico” (p. 32). Ma,

come nell’analisi del capitale linguistico e del capitalismo cognitivo (vd. Marazzi, Virno) era evidente lo

scarto tra un nuovo paradigma produttivo basato sulle generiche capacità linguistico-affettive-comunicative

e la teoria classica del valore-lavoro, anche nello studio della “produzione in vivo” (dalla vendita di

spermatozoi e ovociti, all’acquisto di maternità surrogata, al lavoro legato alla sperimentazione

farmaceutica) l’accumulazione di plusvalore appare sconnessa da qualsiasi misurazione del lavoro concreto

dei corpi. Al contrario, la materia biologica vivente di cui si servono le scienze sperimentali è considerata

risorsa naturalmente e perennemente disponibile, sganciata dal lavoro corporeo compiuto degli esseri

umani in carne ed ossa.

77

INFRATESTOMelinda Cooper, Catherine Waldby, Biolavoro globale (2014)

Come forma organizzativa emersa in risposta alle crisi petrolifere e alle recessioni della metà degli anni

Settanta, il post-fordismo succede al collasso delle categorie politiche ed economiche che strutturano

l’epoca keynesiana della metà del XX secolo. L’economia post-fordista varca e ridisegna i confini tra la sfera

riproduttiva e quella produttiva, e lo fa per rispondere all’accesso delle donne alla sfera della forza-lavoro

retribuita e alla conseguente disintegrazione dei modelli del capofamiglia lavoratore e della casa lmga non

pagata tendenze in aumento dalla fine degli anni Sessanta. Le faccende domestiche, le prestazioni sessuali,

la cura e, come vedremo, il processo di riproduzione biologica in sé fuoriescono dallo spazio privato della

famiglia per estendersi al mercato del lavoro e sono oggi centrali per le strategie postindustriali di

accumulazione.

La «nuova economia domestica», sviluppata dall’economista della Scuola di Chicago Gary Becker,

rappresenta uno dei primi tentativi di teorizzare questo processo all’interno del limitato contesto

dell’economia ortodossa e neoclassica: non a caso i suoi esponenti sono stati tra i più accaniti difensori deI

libero mercato di sangue, organi e tessuti riproduttivi, come di tutte le altre forme di capitale umano (...).

Come hanno osservato sia i teorici della «nuova economia domestica» sia i loro critici, l’economia post-

fordista internalizza i confini che lo stato sociale della metà del XX secolo aveva imposto alla mercificazione,

riconducendoli ai limiti tra produzione e riproduzione sociale, tra produzione e consumo, tra produzione e

circolazione, per trasformare anche le più intime funzioni corporee in le servizi commerciabili (...).

I teorici riconducibili alla tradizione dell’autonomia italiana o al marxismo post-operaista sostengono che la

transizione al post-fordismo ha destabilizzato i confini teorici e pratici tra di lavoro e il tempo di vita,

inaugurando il passaggio dal «capitale lavoro» al «capitale vita» (...). Più recentemente Andrea Fumagalli ha

proposto l’espressione di «biocapitalismo cognitivo» per radicalizzare la critica post-operaista

dell’economia politica. (...) Il capitalismo post-fordista mette al lavoro la vita in sé, «superando la

distinzione tra produzione e riproduzione» fino a costituire una nuova forma di «biolavoro» (ibid). In queste

condizioni, ogni «teoria del valore-lavoro» deve intendersi come «una teoria del valore della vita» (ibid.).

L’estrema generalità di questa letteratura, seppur affascinante, ci indica però una sua aporia. Essa

dimentica di porre gli interrogativi più urgenti: cosa si intendeva esattamente per vita in sé ai tempi del

regime fordista della riproduzione? In altre parole, cosa ha comportato la divisione sessuale e razziale del

lavoro? In che senso oggi la produzione di valore bioeconomico nel settore delle scienze della vita riflette e

interagisce con i cambiamenti nel modo in cui la scena della riproduzione è organizzata? Tutto questo in

che modo riguarda la produzione di conoscenza nel capitalismo avanzato? Accanto a questa letteratura

critica, l’ordine del discorso pubblico ha individuato nella «bioeconomia» il luogo principale di investimento

strategico, il momento decisivo per il superamento del recente disavanzo competitivo tra le economie

postindustriali «avanzate» e le economie emergenti di Cina e India. L’Organizzazione per la cooperazione

economica e lo sviluppo, l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno pubblicato direttive che favoriscono

l’emergere di una nuova onda lunga della crescita economica postindustriale basata sulla «bioeconomia»

integrata di scienze agricole, mediche, industriali e della vita (...). Nonostante l’abuso concettuale e pratico

del termine «bioeconomia» nella politica contemporanea e nel discorso teorico, in pochi hanno indagato i

meccanismi materiali che iscrivono la biologia in vivo dei corpi umani nei processi del lavoro post-fordista,

sia attraverso la produzione di dati sperimentali che il trasferimento di tessuti. Forme di lavoro che, a

78

nostro parere, stanno divenendo sempre più centrali per il processo di valorizzazione economica post-

fordista. (...)

Con la diffusione delle tecnologie di riproduzione assistita, la vendita di tessuti come ovociti e spermatozoi,

o di servizi riproduttivi come la maternità surrogata, appare sempre più come un fiorente mercato del

lavoro, in cui la manodopera viene prodotta e selezionata secondo linee di classe e di razza. Il risultato, per

noi, si chiama lavoro clinico. (...)

I venditori e le venditrici di spermatozoi e ovociti e le madri surrogate forniscono i tessuti viventi e i servizi

in vivo alla base della fiorente economia trainata dalla medicina riproduttiva pubblico-privata e dalla ricerca

sulle cellule staminali, Queste forme di compravendita, tuttavia, non figurano tra le analisi economiche del

lavoro nelle scienze della vita. Quasi sempre tali indagini riguardano le divisioni professionali del lavoro

all’interno del laboratorio clinico, non si spingono a esaminare l’attività fisica in vivo che sorregge il

processo di innovazione (...). Questa omissione è tanto più significativa se si osserva che il modello di

mercato delle scienze della vita si è strutturato a partire dalla teoria classica del valore-lavoro (lockiana),

che considera il lavoro cognitivo dello scienziato come elemento tecnico necessario alla compressione della

materia vivente nelle maglie della proprietà intellettuale, La capacità inventiva dello scienziato di isolare il

Dna odi creare una linea cellulare da ex tessuti vivi, ai tempi dell’economia dell’innovazione e delle

normative sui brevetti, è intesa come elemento fondante dei diritti di proprietà e del valore commerciale

stimabile a partire da materiali biologici muti (...). In questo modo, l’attività corporea delle/i fornitrici/ori di

tessuti e degli esseri umani coinvolti nella ricerca appare come una risorsa biologica sempre disponibile,

come res nullius, materia di dominio pubblico, anche se in pratica la loro mobilitazione rappresenta un

problema logistico in crescita per le industrie delle scienze della vita (...).

Tuttavia a nostro avviso le categorie strutturali della teoria del valore di Marx non possono essere così

facilmente astratte dalle condizioni tecnologiche del lavoro caratterizzanti la metà del XIX secolo (...). I

primi sviluppi del XX secolo nel campo della biomedicina mettono radicalmente in discussione queste

categorie, grazie alle innovazioni che Hannah Landecker (2007) ha chiamato «tecnologie viventi» — tessuti

in vitro e linee cellulari al contempo vivi e macchinici poiché posso no essere coltivati fuori dal corpo ed

entrare a far parte della composizione tecnica della scienza. Il Novecento immette nel corpo il processo

produttivo, fa circolare organi, sangue e linee cellulari al di fuori del corpo stesso, invalidando così la

distinzione marxista classica tra il vivente e l’inerte (...).

Non stiamo proponendo una teoria «biologica» del valore-lavoro, come in una classica tradizione

premarxista, come se il valore d’uso finale e la fonte di ogni ricchezza potessero essere rinvenuti

nell’intrinseca generatività della biologia vivente. Al contrario, con l’espressione lavoro clinico intendiamo il

processo di astrazione materiale attraverso il quale gli imperativi astratti e contingenti dell’accumulazione

vengono messi al lavoro a livello del corpo (...).

Nel sottolineare l’importanza della dimensione materiale e sperimentale della bioproduzione non

intendiamo tuttavia suggerire che la creazione del mercato della manodopera clinica sia riconducibile tout

court alle sue condizioni tecniche (...), le innovazioni giuridiche rappresentate dal concetto di illecito e dal

consenso informato dell’inizio del XX secolo, la contrattualizzazione del diritto di famiglia della fine del XX

secolo, hanno svolto un ruolo fondamentale nel determinare quando e come queste possibilità

biotecnologiche potevano essere trasformate in lavoro .

79

Melinda Cooper, Kathrin Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, Deriveapprodi, Roma

2015, pp. 27-39.

FINE INFRATESTO

III.5 ECONOMIA E CITTADINANZA Le tendenze delle analisi più recenti – quella di accentuare il carattere antropogenico della produzione - portano a focalizzarsi sulle relazioni, comunicative e discorsive e, in quanto tali, performative, che producono i soggetti e la loro collocazione sociale. Negli anni Ottanta e Novanta del XX secolo, autrici come le filosofe della comunità di Diotima, autrici del “pensiero della differenza” o come Judith Butler, cui si deve la ripresa e affermazione del pensiero queer, partono da una concezione della società che la intende come “ordine simbolico”. Sullo sfondo di queste tesi troviamo la rielaborazione del lavoro sul linguaggio di un Ferdinand De Saussure e la concezione del sociale di un Michel Foucault: le rappresentazioni e percezioni soggettive e collettive sono la risultante di una produzione discorsiva che stabilisce le coordinate del vero-falso, giusto-erroneo, lecito-illecito, ecc. Giunti a questo punto del percorso, siamo in grado di cogliere come la produzione si è ridefinita come produzione sociale e soggettiva, mentre la produzione di merci, strettamente intesa, rimane sullo sfondo. Comunque la si voglia caratterizzare, come produzione immateriale, linguistica o cognitiva, la produzione pare inglobare i tratti di ciò che nella tradizione era attribuito al polo riproduttivo – la dimensione relazionale, affettiva, linguistica. Tuttavia, considerato che la produzione dell’umano (la riproduzione della forza lavoro) non è quantificabile come la prestazione di forza lavoro, sembra svanire progressivamente la dimensione economica di queste rinnovate attività produttive: il concetto-perno del pensiero critico diventa il dominio, anziché lo sfruttamento. NANCY FRASER. Riconoscimento o redistribuzione E’ nella forma di una critica alle “politiche del riconoscimento” che si manifesta, agli inizi del XXI secolo, un bilancio di questa che potremmo chiamare svolta antropogenica della produzione. Fraser parte infatti dalla constatazione di come la nuova fase di “globalizzazione” abbia concentrato il senso di ingiustizia, e le lotte di emancipazione da uno stato di svantaggio, sulla dimensione culturale e soggettiva, sintetizzando questa valutazione nella formulazione del “riconoscimento della differenza”. L’ingiustizia, agli inizi del XXI secolo, non ha luogo nello sfruttamento della forza lavoro prestata, nella disparità salariale, bensì consiste nella collocazione sociale svantaggiata o negata che insiste su un soggetto o su un gruppo sociale. In un’epoca di globalizzazione, tra accelerazioni sociali e interculturali, le cosiddette minoranze – i gruppi che, nella prospettiva della democrazia liberale, non godono ancora dello statuto di una piena cittadinanza, formale e sostanziale – tendono a considerare la giustizia nei termini di una piena assunzione giuridica (che diventa campo per eccellenza, non più relegato come nelle analisi marxiane alla secondarietà della sovrastruttura) e simbolica dei tratti che li caratterizzano, della loro “differenza”. Va sottolineato che la coppia oppositiva riconoscimento-redistribuzione sembra veicolare un andamento retrogrado, che da Marx torna a Hegel – nella dialettica tra servo-padrone, tra operai e capitale, la posta in gioco dell’affrontamento torna a porsi come alternativa tra rapporti di produzione ed emergere di una soggettività piena. Infratesto Nancy Fraser, Fortune del femminismo (2013) Integrare redistribuzione e riconoscimento nella politica femminista Come abbiamo visto, una politica femminista per il presente deve essere bidimensionale, deve cioè combinare una politica del riconoscimento con una politica della redistribuzione. Solo una politica di questo tipo può evitare di indebolire l’agenda femminista e portarla a colludere con il neoliberismo. (...) Le lotte femministe per la redistribuzione non possono avere successo se non si uniscono alle lotte per il cambiamento culturale finalizzate a dare nuovo valore al lavoro di cura e alle associazioni femministe che lo codificano. In breve: nessuna redistribuzione senza riconoscimento. (...) Consideriamo, innanzitutto, che le rivendicazioni femministe per la redistribuzione incidono sul riconoscimento. Le politiche redistributive finalizzate a mitigare la povertà delle donne, per esempio, hanno implicazioni di status che possono danneggiare i beneficiari designati. (...) Il contrario è però altrettanto vero, perché le rivendicazioni femministe del riconoscimento incidono sulla distribuzione. Le proposte per correggere i modelli valutativi androcentrici hanno implicazioni economiche che possono funzionare a

80

scapito di alcune donne. Per esempio, le campagne dall’alto per sopprimere la mutilazione genitale femminile possono avere effetti negativi sulla posizione economica delle donne colpite, poiché le rendono “non adatte al matrimonio”, e non sono, nello stesso tempo, in grado di assicurare mezzi di sostegno alternativi. (...) In Giustizia incompiuta ho analizzato l’attuale separazione della cosiddetta politica dell’identità dalla politica di classe, e della sinistra culturale dalla sinistra sociale (...). Cercando di superare queste divisioni, ho proposto un quadro teorico che eviti le distinzioni ortodosse tra “base” e “sovrastruttura”, oppressione “primaria” e “secondaria” e che contesti il primato dell’economico(...). Nel mio schema concettuale è centrale la distinzione normativa tra ingiustizie distributiva e ingiustizie di riconoscimento. Lungi dallo sminuire queste ultime come “meramente culturali”, si tratta di concettualizzare due tipi altrettanto primari, seri e reali di danno, che ogni ordinamento sociale moralmente difendibile deve sradicare. (...) Nella mia esposizione, dunque, le ingiustizie di mancato riconoscimento sono gravi quanto le ingiustizie distributive. E non possono essere ridotte a queste ultime. Così, lungi dall’affermare che i danni culturali sono riflessi sovrastrutturali di danni economici, ho proposto un’analisi in cui i due tipi di danno sono entrambi fondamentali e concettualmente irriducibili l’uno all’altro. (...) Se i danni che nascono dal mancato riconoscimento possono così essere materiali, possono essere anche economici? (...) Il problema è come interpretarli. Una possibilità è vedere i danni economici come espressioni dirette della struttura economica della società, proprio come i marxisti vedono lo sfruttamento dei lavoratori. Sulla base di questa interpretazione, che Butleir sembra fare propria, gli ostacoli economici che pesano sulle persone omosessuali sarebbero strettamente collegati ai rapporti di produzione. Per rimediarvi bisognerebbe trasformare quei rapporti. Un’altra possibilità, che io preferisco, è vedere i danni economici dell’eterosessismo come indirette conseguenze (mal) distributive della più fondamentale ingiustizia legata al mancato riconoscimento. Sulla base di questa interpretazione, che io sostengo in Giustizia incompiuta, le radici dell’eterosessismo economico sarebbero le “relazioni di riconoscimento”: un modello istituzionalizzato di interpretazione e di valutazione che costruisce l’eterosessualità come norma e l’omosessualità come devianza, per cui si può negare la parità partecipativa a gay e lesbiche. Cambiando i rapporti di riconoscimento, la cattiva distribuzione scomparirà. Questo conflitto di interpretazioni solleva questioni profonde e difficili. E necessario trasformare la struttura economica del capitalismo contemporaneo per poter rimediare alle disposizioni economiche che pesano sugli omosessuali? Che cosa si intende precisamente per “struttura economica”? In che modo la regolazione eteronormativa della sessualità appartiene direttamente all’economia capitalistica? Oppure non è meglio vederla come qualcosa che appartiene a un ordinamento di status che è differente dalla struttura economica ed è in una relazione complessa con essa? Più in generale, i rapporti di riconoscimento nella società tardo-capitalista coincidono con le relazioni economiche? Oppure le differenziazioni istituzionali del capitalismo moderno introducono dei salti tra status e classe? (...) Nancy Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Ombre corte, Verona 2013, pp. 202-217. FINE INFRATESTO

81

CAROLE PATEMAN. Oltre la “società” commerciale Se il XX secolo è stato dominato dalle analisi che componevano in diversi modi l’ambito produttivo e riproduttivo, l’economico e il sociale-politico, se agli inizi del XXI secolo si assiste alla fine della distinzione tra questi due campi, Pateman, in modo analogo a Fraser, seppure in una diversa prospettiva, torna a indagare un’apparente indistinzione. In effetti, nella tradizione moderna e liberale, la società coincide con il complesso delle relazioni proprietarie e di scambio (vedi Locke, Polanyi e Smith), il sociale consiste in relazioni che sono intese come relazioni economiche e, in un’epoca generalmente definita neoliberale, fenomeni come la preminenza del privato sul pubblico, dell’economia sulla politica, del mercato sul diritto, sembra che questo modello sia diventato un paradigma applicato su scala planetaria. Il contributo di Pateman, al di là della proposta politica e teorica - che conduce all’idea di riconsiderare la società fuori dal paradigma produttivo, più precisamente, fuori dalla moneta come misura delle attività e relazioni, l’autrice aderisce all’idea del basic income, un reddito svincolato dalla forma salariale quale compenso per la forza lavoro prestata – consiste primariamente nell’analisi che disvelano l’inadeguatezza, quando non l’ingiustizia, del paradigma contrattualista che applica alle attività e alle relazioni il modello del contratto liberale-proprietarista. Prendendo a esempio paradigmatico le attività e relazioni che un tempo erano di competenza femminile, le attività e relazioni della sfera riproduttiva-domestica, Pateman svela come le misure delle relazioni contrattuali – prezzi, valori, diritti – non solo non sono appropriate, ma arrivano persino a generare una situazione inevitabilmente destinata sia allo sfruttamento sia al dominio. INFRATESTO Carole Pateman, Il contratto sessuale venticinque anni dopo (2007) La frase forse più spesso citata di questo libro è: «Un ordine sociale libero non può essere un ordine contrattuale». Ci si è chiesti come vada interpretata. Riporto qui il brano successivo: Ci sono altre forme di libero accordo attraverso le quali donne e uomini possono istituire relazioni politiche, anche se, in un periodo in cui i socialisti sono occupati a rivestirsi di panni contrattualisti, poca creatività politica è dedicata allo sviluppo di nuove e necessarie forme (Pateman, Il contratto sessuale, p. 301). Il primo dei due assunti contenuti in queste righe è che la teoria del contratto ha fagocitato altre e diverse concezioni della libertà e dell’accordo volontario. I sostenitori ufficiali della democrazia parlano molto di libertà, ma è da troppo tempo che il mercato viene controllato dalla concezione contrattualista. In questi strani inizi del XXI secolo è decisamente necessario un discorso sulla libertà alternativo (…). Il contratto è un dispositivo commerciale importante e ammirevole, ma va tenuto al suo posto. Il secondo assunto, che riguarda un libero ordine contrattuale, è che contratto e mercati non possono fare da modello per un intero ordine sociale. Quando si intraprende questa strada, il contratto finisce presto per rimuovere le condizioni della sua stessa esistenza, cosa non proprio originale. Le basi non contrattuali del contratto – il fatto che il contratto presupponga l’esistenza di pratiche e relazioni sociali (non contrattuali) – sono state evidenziate da molti autori di rilievo: è la lezione di Hobbes, che ricorre anche in Durkheim, Parsons e Polanyi, ad esempio. (...) La tesi contemporanea, che deriva dai classici del contratto originario, ingloba il contratto sessuale e razziale – il contratto sociale essendo solo una delle dimensioni del contratto originario – e questo ingombrante retaggio non si può semplicemente liquidare, portando alla luce un contratto neutro, perché viene costruito attraverso la stessa struttura del ragionamento. (...) L’istituto dell’impiego Quando una giovane donna acconsente (o rifiuta) di sottoscrivere un matrimonio combinato, acconsente (o rifiuta) di intraprendere questa forma di istituto matrimoniale. Prendere parte a un contratto matrimoniale crea una nuova relazione coniugale. Questo è un esempio della differenza tra contratto e consenso, di cui ho trattato nel mio studio sull’obbligazione politica (ho finito per scrivere più sul contratto che sul consenso). Quando si acconsente, l’oggetto del consenso è preesistente; si acconsente a qualcosa. Il contratto porta in essere nuove relazioni – replicando così il contratto originario che crea, o si dice che crei, lo Stato moderno e le sue istituzioni; il contratto relativo alla «proprietà sulla persona» (Pateman, The tale of two concepts, 2002) è il veicolo tramite cui vengono riprodotti i rapporti di subordinazione nelle principali istituzioni della società moderna.

Negli Stati uniti e in Inghilterra i mariti hanno perso il loro potere giuridico, ma l’istituto dell’impiego è rimasto più o meno invariato dai tempi in cui scrivevo Partecipazione e teoria della democrazia. La mia tesi in merito al contratto di lavoro, in Il contratto sessuale, è stata spesso intesa come un’ordinaria discussione in merito

82

alla partecipazione involontaria e coatta. Ma, a meno che sottoscrivere un contratto sia un atto volontario, questa tesi non implica affatto ritenere - come invece fanno tanta filosofia politica e molte politiche pubbliche - che il contratto coincida con la libertà. Il mio ragionamento riguardava piuttosto le conseguenze di quel libero atto. Quando degli individui decidono volontariamente di sottoscrivere un contratto hanno esercitato una loro libertà, ma la conseguenza, nel caso dei lavoratori e del contratto di impiego, è la loro incorporazione alla stregua di subordinati. Concentrarsi sull’atto del sottoscrivere, lasciandone in ombra le conseguenze, permette di separare senza ambiguità il lavoro salariato dal lavoro servile e di iscrivere senza problemi l’istituto dell’impiego in un ordinamento democratico. Si può forse obiettare che gli individui acconsentono a un accordo non democratico quando sottoscrivono un contratto d’impiego. Il contratto sottoscritto da un particolare lavoratore crea un nuovo rapporto che è parte di una più ampia struttura di potere e subordinazione sul luogo di lavoro. Una partecipazione continuativa a tale struttura autoritaria e l’accettazione degli ordini del datore di lavoro potrebbero essere considerati un consenso a tale patto. Ma così diventa difficile evitare i ben noti problemi relativi al consenso: ad esempio, come si può rifiutare di dare il proprio consenso? cosa rimane del consenso quando i lavoratori vengono “unilateralmente” ridimensionati? Si potrebbe anche sostenere che l’individuo, più che dare il proprio consenso, accetta o aderisce alla struttura di potere, ma anche qui sorgono altre e note difficoltà sul consenso tacito. Raramente i teorici della democrazia criticano l’istituto dell’impiego, a meno che non si presenti un qualche aspetto antidemocratico. Anzi, oggi, nel quadro di una cittadinanza democratica, la partecipazione al lavoro salariato è considerata necessaria, non ultimo da parte di alcuni dei principali teorici della democrazia deliberativa. Un libero mercato, nella sua forma deregolata e privatizzata, è parte integrante delle concezioni ufficiali di “democrazia”, là dove il mercato del lavoro riveste un ruolo centrale. L’impiego viene istituito in tutto il mondo, di più, la riforma del Welfare viene orientata dalla convinzione che tutti gli adulti nelle loro piene capacità debbano essere impiegati – vale a dire, l’impiego deve essere universale. Il fatto che i teorici della democrazia manchino di riconoscere la pertinenza di una discussione dell’istituto dell’impiego rappresenta un ostacolo notevole per concepire i processi di democratizzazione, tanto più là dove vengono toccate anche questioni relative alla differenza sessuale e alle attività femminili non retribuite. La tesi che l’impiego sia componente necessario della “democrazia” si basa sulla funzione politica attribuita alla proprietà sulla persona, un’astrazione incapace di rendere conto della concreta corporeità umana. Tuttavia questa concretezza, insieme al fatto umano che le donne, diversamente dagli uomini, possono rimanere incinte e dare la vita, si situa al cuore della differenza sessuale. Ciò non significa, voglio sottolinearlo, che le diverse concezioni dei differenti ruoli sociali tra uomini e donne discendano direttamente dalla biologia. Tutt’altro, derivano dai significati attribuiti a tale fatto umano dalle culture e dalle strutture istituzionali del potere, ivi incluso il potere maschile. Rimane il fatto che sono le donne a dare la vita. Il paradigma dell’economia neoclassica [viene utilizzato] per mostrare come il lavoro domestico femminile non retribuito sia peculiare e non abbia sostituti di mercato. Il lavoro delle donne in quanto madri è fondamentale nel definire tale peculiarità e va anche tenuto presente quanto la maternità sia stata centrale per il Welfare State. Gli Stati uniti si distinguono da altri paesi ricchi nel ritenere che le madri (i genitori), per prendersi cura dei figli, abbiano un bisogno minimo di sostegno pubblico e che si tratti soprattutto di una questione privata, per quale compete alle madri trovare risorse e tempo necessario. Ma la concezione universalistica dell’impiego, l’insistenza sulla privatizzazione e le ingiunzioni a procedere a riforme strutturali, contribuiscono a negare tanto la specificità della maternità quanto il contributo sociale e politico che ne discende. Detto altrimenti, il dilemma di Wollstonecraft viene accentuato mano a mano che i mercati si espandono e che la vita viene mercificata. Nel mondo intero i carichi che ricadono sulle madri sono aumentati a causa delle politiche economiche internazionali. La produzione e la ricerca del profitto hanno subito un’accelerazione, non così è per il tempo e le risorse necessarie alla riproduzione umana e sociale, che vanno dunque tagliate. Carole Pateman, Il Contratto sessuale venticinque anni dopo, in Burchi, De Martino, Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, Jacobelli, Roma 2013, pp. 23-27. Fin infratesto

83

III. 6 LA RIPRODUZIONE COME PARADIGMA

Possiamo ora distribuire nuovamente gli elementi che compongono il lemma “riproduzione” per un aggiornamento di analisi appropriato alle società coinvolte in mutazioni su scala globale e planetaria. La risposta ai bisogni della vita fisiologica non è concepibile come una sfera separata da bisogni sociali più articolati, la fisiologia non è separabile dalla dimensione culturale e linguistica (riproduzione come sussistenza). Le attività e relazioni volte al polo naturale – che siano i corpi umani o le risorse naturali – non possono essere subordinate o distinte rispetto alle attività volte al polo artificiale (i beni, i prodotti delle attività umane, le merci). Da una parte, infatti, assistiamo a una progressiva denaturalizzazione del corpo umano, che diventa complesso biologico, tecnologico, culturale e sociale; dall’altra assistiamo a una progressiva antropizzazione della “natura”, questa cioè diventa risorsa per lo scambio a mezzo denaro, anche per quanto riguarda la biologia umana, si presenta come composto naturale-tecnico e, infine, la forma proprietaria nella relazione a tali risorse si estende a ciò che prima era considerato ambito non politico e non economico (riproduzione come sussistenza immediata). Le attività volte a rispondere ai bisogni dei corpi non possono essere distinte dalle attività volte alla produzione di beni. Il venire meno di questa distinzione può essere esaminata nei suoi diversi aspetti. Queste attività sono entrate nella sfera delle attività salariate, che tradizionalmente riguardava solo le attività di produzione dei beni – determinando una riconfigurazione delle seconde sulle prime e non viceversa (riproduzione come componente della produzione). La dimensione politica, tradizionalmente distinta dalle attività economico-produttive, e dai comportamenti etici, ha assunto le forme dell’amministrazione di relazioni e attività, facendo di fatto saltare la distinzione tra economia, etica e politica, inglobando così le caratteristiche della produzione sotto il paradigma delle attività di amministrazione, la gestione e l’organizzazione (riproduzione come conservazione e aggiornamento dei rapporti sociali). Le relazioni intese come risposta e scambio tra soggetti non si distinguono dalle relazioni intese come relazioni commerciali, di scambio cioè di beni a mezzo denaro. Il fenomeno è colto sia con il titolo di mercificazione - la trasformazione di ambiti come quello dei diritti di cittadinanza che diventano ambito di “prestazioni”, ad esempio, come anche sotto quello della preminenza dell’economico sul politico, o ancora con il titolo di femminilizzazione del lavoro, cogliendo cioè l’avanzare della gratuità, o della non misurabilità in denaro, di attività che in passato erano specificate come attività salariate (riproduzione come attività domestiche e come ambito dell’amministrazione e organizzazione pubblico-statale). Le attività diverse dalla produzione di beni sono diventate il modello maggioritario nelle società postindustriali. Le economie dei servizi, della conoscenza, dell’informazione si svolgono secondo caratteristiche che appartengono alle attività tradizionalmente identificate come riproduttive (riproduzione come sfera di attività relazionali improduttive). Le trasformazioni cui assistiamo modificano, come noto, i rapporti tra le sfere della politica e dell’economia ed è in questo senso che l’esito del percorso si apre sulla necessità di una nuova concezione dell’economia politica. Si tratta cioè di articolare nuovamente le componenti di un campo che ha conosciuto diverse configurazioni attraverso i secoli. In particolare sono gli elementi della misura e del valore che richiedono nuove descrizioni e sviluppi. Concetti economici entrambi – la misurazione della produzione secondo quantità temporali (forza lavoro) e quantità monetarie (salario, prezzo, profitto) – oggi si ripropongono come questioni politiche, quali operatori nelle relazioni non quantificabili che implicano questioni relative alla giustizia e all’etica. Considerato che l’ordine neoliberale tende a unificare questi due poli, sotto la preminenza del primo, inteso come scambio quantificabile e monetizzabile, il percorso si conclude con una proposta che insiste sullo stesso terreno ma invertendone il vettore: pensare l’economico come ambito delle relazioni e attività che eccedono il regno del calcolo delle quantità. E, soprattutto, collocarsi

84

all’intersezione tra economia e politica, per individuare le operazioni di inclusione ed esclusione rispetto a ciò che viene considerato come vita degna, come umano. INFRATESTO SILVIA FEDERICI. Riproduzione ed economia globale Voglio anche difendere, a dispetto delle tendenze postmoderne, la mia scelta di continuare a mantenere separate produzione e riproduzione. Sicuramente la differenza tra le due è divenuta in un certo senso superflua. Le lotte degli anni Sessanta, in Europa e negli Stati uniti, in particolare i movimenti studenteschi e femministi, hanno insegnato alla classe capitalista che investire nella riproduzione della generazione futura di lavoratori “non paga”. Non garantisce l’aumento della produttività del lavoro. Per questo, non solo gli investimenti pubblici nella forza lavoro sono drasticamente diminuiti, ma le attività produttive sono state riorganizzate come servizi producenti valore,che i lavoratori devono acquistare e pagare. In questo modo, il valor prodotto dalle attività riproduttive viene realizzato immediatamente, invece di dipendere dalla produttività delle prestazioni dei lavoratori che esse riproducono. Tuttavia, l’espansione del settore dei servizi non ha in alcun modo eliminato il lavoro riproduttivo non retribuito in casa, né ha abolito la divisione sessuale del lavoro che continua a separare produzione e riproduzione e i rispettivi soggetti di queste attività attraverso la funzione discriminante del salario o della mancanza di esso. Infine, parlo di lavoro “riproduttivo”, piuttosto che di lavoro “affettivo”, perché nelle descrizioni dominanti, il secondo descrive solo una parte limitata del lavoro richiesto dalla riproduzione degli esseri umani, e cancella il potenziale sovversivo del concetto femminista di lavoro riproduttivo. Tale concetto, invece, evidenziando il suo ruolo nella produzione della forza lavoro, e svelando le contraddizioni che la caratterizzano, riconosce la possibilità di alleanze cruciali e nuove forme di cooperazione tra produttori e riprodotti: madri e figli, insegnanti e studenti, infermieri e pazienti. Tenendo presente il carattere particolare del lavoro riproduttivo, chiediamoci allora come la globalizzazione economica hi ristrutturato la riproduzione della forza lavoro (...). Questo tipo di sviluppo ha colpito, secondo modalità differenti, tutte la popolazioni del pianeta. Tuttavia, il Nuovo Ordine Mondiale può essere meglio descritto come un processo di ricolonizzazione Lungi dall’aver livellato il mondo in una rete di circuiti interdipendenti, ha piuttosto ricostruito una struttura piramidale aumentando le disuguaglianze e la polarizzazione economica e sociale, approfondendo le gerarchie che hanno storicamente caratterizzato la divisione sessuale e internazionale del lavoro che le lotte anticoloniali e il movimento di liberazione delle donne avevano messo in discussione (...). Anche in questo caso è necessario assumere una posizione critica nei confronti dei discorsi dominanti, che insistono sull’effetto emancipatorio dell’aumentato impiego delle donne in molte parti del mondo. Dobbiamo anche riconsiderare la tesi secondo cui l’aumento dell’occupazione femminile e la simultanea precarizzazione dei lavori tipicamente maschili hanno livellato le gerarchie che storicamente hanno caratterizzato la divisione sessuale del lavoro. Queste tesi, infatti, non trovano conferma nei processi di ristrutturazione del lavoro domestico prodotti dalla globalizzazione. Va sottolineato, anzitutto, che l’aumento nel numero di donne impiegate nel lavoro salariato non è in alcun modo un dato uniforme a livello mondiale. Anzi, è possibile che l’impiego femminile, su scala mondiale, sia diminuito nelle ultime quattro decadi, se si considera il crollo dell’impiego femminile nell’industria e nel settore pubblico, nei paesi ex-socialisti e nelle aree soggette ai programmi di “aggiustamento strutturale” (Africa, Asia, America Latina), che non è stato compensato dal loro impiego nelle Zone di Libero Commercio. Gran parte, inoltre, della crescita dell’impiego femminile, dalla fine anni Settanta al presente, è avvenuta nell’economia “informale”, cioè in attività non soggette ad alcuna regolamentazione, con salari molto spesso sotto il livello di sussistenza e in condizioni di lavoro spesso coercitive. Anche in Europa e negli Stati uniti, le donne sono generalmente impiegate in lavori monotoni, sottopagati, in condizioni di isolamento, che lasciano molto poco tempo per rapporti familiari o attività “autovalorizzanti”. Bisogna anche sfatare il mito che l’impiego nel lavoro salariato abbia liberato le donne dal lavoro domestico o che il peso di questo lavoro sia stato significativamente ridotto dalla sua commercializzazione, la “globalizzazione della cura”, e dall’introduzione nella casa di nuove tecnologie. Il primo dato che emerge è che mentre nel processo di produzione si è avuto un salto tecnologico che ha rivoluzionato settori chiave dell’economia mondiale, nessun salto tecnologico è intervenuto nella riproduzione della forza lavoro, nonostante il massiccio aumento nel numero delle donne occupate fuori casa. (...) Questo è dovuto, soprattutto, al fatto che a differenza di altri lavori, la cura degli esseri umani è in gran parte irriducibile alla meccanizzazione, poiché richiede un elevato grado di interazione umana e la soddisfazione di bisogni complessi, in cui gli elementi fisici e affettivi sono indissolubilmente uniti. Che il lavoro riproduttivo sia essenzialmente “lavoro vivo” e lavoro intensivo è evidente soprattutto nella cura dei bambini e degli anziani non auto-sufficienti, che anche nei suoi aspetti più fisici, ha una forte componente emotiva, dovendo

85

fornire un senso di sicurezza, consolare, anticipare paure e desideri. Nessuna di queste attività è puramente “materiale” o “immateriale”, né può essere frammentata, in modo da renderne possibile la meccanizzazione, o sostituita da un flusso virtuale di comunicazione on-line (...). Analoghe considerazioni valgono per quella che è stata definita la “globalizzazione” del lavoro di cura, che ha trasferito sulle spalle di donne immigrate provenienti dal Sud molta assistenza ai bambini, agli anziani e la riproduzione sessuale dei lavoratori maschi. E mentre ciò ha permesso ai governi di ridurre l’investimento nella riproduzione, è chiaro che questa “soluzione” ha avuto un enorme costo sociale per le donne immigrate e le comunità da cui provengono.(...) Tre fattori hanno allungato la giornata lavorativa domestica delle donne e riportato il lavoro domestico a casa. In primo luogo, le donne sono state gli ammortizzatori della globalizzazione economica, dovendo compensare con il loro lavoro il deterioramento delle condizioni economiche prodotte dalla liberalizzazione dell’economia mondiale e il disinvestimento degli stati nella riproduzione della forza lavoro. Questo è stato particolarmente vero nei paesi sottoposti a programmi di aggiustamento strutturale in cui lo stato ha completamente tagliato la spesa per l’assistenza sanitaria, l’istruzione e i beni di prima necessità. A seguito di questi tagli, in gran parte dell’Africa e del Sud America, le donne spendono ora più tempo per prendere l’acqua, procurarsi e preparare il cibo e per curare le malattie, che sono molto più frequenti da quando la privatizzazione della sanità ha reso inaccessibili a molti la cura nelle cliniche, mentre la malnutrizione e la distruzione dell’ambiente hanno aumento la vulnerabilità alle malattie (...). Da questa analisi si possono trarre diverse conclusioni. In primo luogo, la lotta per il lavoro salariato o, come piaceva dire ad alcune femministe marxiste, la lotta per “unirsi alla classe lavoratrice sul posto di lavoro” non può essere un percorso di liberazione. Il lavoro salariato può essere una necessità ma non può essere una strategia politica. Finché il lavoro riproduttivo sarà svalorizzato, finché sarà considerato una questione privata e una responsabilità delle donne, le donne si rapporteranno sempre al capitale e allo stato con meno potere degli uomini e in condizioni di estrema vulnerabilità sociale ed economica. Nello stesso tempo, è anche importante riconoscere che esistono seri limiti alla riorganizzazione del lavoro riproduttivo su base di mercato. Come possiamo, per esempio, ridurre o commercializzare la cura per i bambini, gli anziani, i malati, senza imporre loro un grande costo? E istruttivo in questo senso il modo in cui la mercificazione della produzione alimentare ha contribuito al deterioramento della nostra salute, comportando, come già accennato, l’aumento dell’obesità anche tra i bambini. Quello di cui necessitiamo è una lotta collettiva sulla riproduzione, che reclami il controllo sulle sue condizioni materiali e crei forme di lavoro riproduttivo più cooperative e meno soggette alla logica del mercato. Questa non è un’utopia ma un processo già in atto in molte parti del mondo. I governi tentano di usare la crisi per imporci un regime di austerità per molti anni a venire. Ma con le occupazioni (di terre, case, aree urbane), l’agricoltura su base comunitaria e varie forme di mutuo aiuto, istruzione e assistenza sanitaria alternative — per nominare alcuni dei terreni in cui la riorganizzazione della riproduzione sta procedendo — sta emergendo una nuova economia capace di trasformare il lavoro riproduttivo da attività soffocante e discriminante in un terreno di liberazione, creatività e sperimentazione di nuovi rapporti umani. Come ho detto, questa non è un utopia. Le conseguenze della ristrutturazione dell’economia globale sarebbero state indubbiamente molto più nefaste se milioni di donne non avessero riprodotto le loro famiglie, indipendentemente dal loro valore sui mercato del lavoro capitalistico. Attraverso le loro attività di sussistenza e diverse forme di azione diretta (dall’occupazione di terreno pubblico all’agricoltura urbana), le donne hanno aiutato le loro comunità a evitare la spoliazione totale, a far crescere i bilanci familiari e a mettere altro cibo nelle pentole. Tra guerre, crisi economiche e svalutazioni monetarie, mentre il mondo intorno a loro cadeva a pezzi, hanno piantato mais sui terreni urbani abbandonati, cucinato cibo da vendere al lato delle strade, hanno creato cucine comunitarie — ola comunes, come in Cile e Perù — resistendo alla mercificazione totale della vita e iniziando un processo di riappropriazione e ricollettivizzazione della riproduzione indispensabile se vogliamo riprendere il controllo sulle nostre vite. Le piazze festose e i movimenti Occupy del 2011 sono in qualche modo una continuazione di questo processo. Le “moltitudini” hanno capito che nessun movimento è possibile se non pone al centro la riproduzione di coloro che vi partecipano, trasformando anche la manifestazioni di protesta in momenti di riproduzione collettiva e cooperazione. Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre corte, Verona 2012, pp. 92-107.

86

FEDERICA GIARDINI, ANNA SIMONE, A partire dalla riproduzione Sulla riproduzione 1. Assumiamo le attività di riproduzione come il paradigma dei tempi in cui viviamo. Per riproduzione non intendiamo la sola rigenerazione biologica, eterosessuale, della specie, bensì tutto il ciclo di attività che mettono e rimettono al mondo, e sul mercato, l’umano. Consideriamo dunque conclusa la fase della contrapposizione tra femminismo marxista o materialista e femminismo del simbolico. Il paradigma riproduttivo può dunque interpellare tutti i soggetti che si collocano al di fuori del quadro eterosessuale o che non assumono la prospettiva di genere. Il soggetto queer, come tutte noi, abita, dipende dalle relazioni, necessita delle condizioni materiali e dei mezzi per dire una vita degna, quando voglia nominare materialmente la sua esperienza. 2. Il paradigma riproduttivo si afferma in un’epoca postpatriarcale, nella sovversione delle categorie che hanno regolato il vivere umano in epoca moderna: natura-cultura, attività domestiche-lavoro, privato-pubblico, etica-politica, economico-sociale, inclusione-esclusione. Per riproduzione intendiamo dunque la generazione e rigenerazione fisica e mentale dell’umano nella sua primaria dimensione relazionale, tra famiglia e società, tra condotte individuali e collettive, tra attività necessarie incomprimibili e attività relazionalmente libere. Dai comitati di bioetica al telelavoro, dal ritorno del volontariato, fino alla società dei servizi, tutto ci parla della fine di quei confini. 3. Il paradigma riproduttivo non è né in alternativa, né complementare alla produzione, ne registra le metamorfosi e ne è un polo ineliminabile. Consideriamo la riproduzione il punto cieco della tradizione economica e politica della modernità occidentale. E’ su questo impensato che si sta ricostituendo la presa del capitalismo, ovvero la sperequazione, lo sfruttamento e l’ingiustizia. Il pensiero femminista ha strumenti ben collaudati per collocarsi su questo terreno e sviluppare un conflitto all’altezza delle trasformazioni del presente. Il paradigma riproduttivo svela come, di epoca in epoca, il confine tra produzione di beni e riproduzione dell’umano si sposti e ridefinisca quali sono le attività non qualificate (lavoro semplice), quali le attività necessarie alla sopravvivenza (lavoro necessario), quali le attività qualificate e dunque valorizzate, ricollocando così le aree di esercizio dello sfruttamento e dell’oppressione. Com’è possibile che oggi un’ora di traduzione dall’inglese sia pagata meno di un’ora di pulizie in casa altrui? Sui dibattiti in corso 4. Il paradigma riproduttivo evidenzia come i dibattiti nordoccidentali sulla cura, non affrontando gli effetti economici su grande scala prodotti dal neoliberismo, non si confrontano con i criteri della valorizzazione e svalorizzazione di queste attività. “Prendersi cura del mondo” va preso alla lettera. Significa assumersi la cruda materialità della manutenzione del vivere; posizionarsi sulla grande scala nella quale viviamo; riappropriarsi delle misure per non automercificarci e per non mercificare l’altra, “la colf e la badante”; significa dunque generare e orientare le pratiche conflittuali volte a riappropriarsi delle misure del valore del vivere. Mi basta l’apprezzamento, una eventuale gratitudine, il riconoscimento e la fantasia di una promessa per il futuro prossimo, in ritorno di quel che ho fatto, quando nessuno si preoccupa di come pago l’affitto? 5. Il paradigma riproduttivo non coincide con la diagnosi della femminilizzazione della società, del mercato, del lavoro. E’ un paradigma che - oltre a indicare l’estensione a tutti i soggetti del carico delle attività di generazione continua dei corpi relazionali che siamo e in cui consistiamo - intende individuare, tra produzione e riproduzione, lo spostamento della linea del valore che di volta in volta ridefinisce cosa è lavoro non qualificato, lavoro necessario e lavoro valorizzato. Le retoriche sulla femminilizzazione del lavoro e della società sono solo la forma “gestionale”, antropologica, del neoliberismo, che ha già stabilito in altre sedi - da chi costruisce gli indicatori statistici o da chi elabora i criteri di valutazione nei rating o nell’erogazione di fondi comunitari e nazionali... - il quadro generale di criteri, priorità e finalità. Per il desiderio di chi sto svolgendo lavoro gratuito o mal pagato? 6. Il paradigma riproduttivo aumenta la capacità descrittiva di quel che è stato messo sotto il titolo di “lavoro cognitivo” o “lavoro immateriale”. Accogliamo positivamente il terreno comune creato dalla diagnosi dell’”egemonia del lavoro immateriale” e dalla diffusione del paradigma biopolitico, ma vogliamo una maggiore presa sulla materialità delle vite. Oltre alla formula della “messa a valore delle capacità

87

linguistiche, relazionali, affettive”, ci dotiamo di strumenti più affilati per descrivere le attività non viste eppure necessarie e dunque lasciate ad altre, ad altri. Il paradigma riproduttivo, mantenendo la tensione con le attività di produzione di beni, permette di far cadere la distinzione tra lavoro materiale e lavoro immateriale e di ritrovarla come distinzione tra attività rinaturalizzate, rese cioè invisibili e indicibili, e attività valorizzate, salariate, svalorizzate. Accogliere – lavoro complesso ma rinaturalizzato - è lasciato all’invisibile al pari dell’ovvietà del respiro, è richiesto come sovrappiù nella prestazione professionale o è già politica? Sul valore 7. Nel venire meno della partizione tra attività domestiche e attività produttive, il paradigma riproduttivo ridefinisce tutto quel che andava sotto il titolo “lavoro”. Misura, valore, salario, tempo di vita, tempo produttivo, bisogno e consumo, virtù pubbliche e private, si sono disposte in una precisa organizzazione sociale, che non esiste più. Consideriamo il paradigma critico della “mercificazione” – il valore inteso come valore monetario attribuito a uno scambio ed esteso a relazioni che prima monetarie non erano - insufficiente per descrivere le trasformazioni del contemporaneo. L’attribuzione di valore e disvalore non si limita alla sola misura monetaria, al prezzo o al salario, ma implica una vasta gamma di tecniche di comunicazione e del sé che plasmano la nostra stessa percezione di cosa vale. Dal tremore all’incredulità di fronte alle procedure di selezione (concorsi, contest, colloquio di lavoro, valutazione permanente). 8. Contro l’eccesso soggettivo nel concepire lo sfruttamento e l’eccesso oggettivo-scientista dell’economico, contro la sussunzione del monetario nel sociale o viceversa, il paradigma riproduttivo richiede una nuova teoria del valore, che sia in grado di descrivere sia gli effetti di dominio, che distribuiscono degni e indegni, meritevoli e immeritevoli, sia la traduzione delle attività sociali in prezzi e salari. I valori delle nostre attività non riguardano solo il senso di sé e di quel che si fa, sono individuati da una dinamica retroattiva tra domanda-offerta e il più ampio andamento discorsivo e virtuale che la ricostituisce. Differenza, nel paradigma riproduttivo, è il nome del campo su cui si esercita la messa a valore, come anche la sua riappropriazione. Il voto, il rating non sono solo numeri, ma sono più dei loro effetti sui soggetti. 9. Che differenza corre tra una donna che cucina e uno chef? In questa differenza il paradigma riproduttivo individua le attività naturalizzate e dunque senza valore e le attività messe a mercato, anche simbolico e comunicativo, e dunque dotate di valore. Che differenza c’è tra una donna che cucina e una donna che va a servizio in casa altrui? In questa differenza, il paradigma riproduttivo individua l’intreccio tra valorizzazione e svalorizzazione, discorsiva e monetaria, dunque simbolica. Donna che cucina sta a precario come chef sta a opinionista, oppure donna di servizio sta a ricercatore a contratto o a dirigente di pubblica amministrazione come chef sta a procuratore finanziario. 10. Al salario e alla gratitudine preferiamo la restituzione. Il reddito garantito prevede un provvedimento monetario che è condizione necessaria ma non sufficiente. La restituzione – rendere – è un circuito simbolico-materiale, un circuito di riproduzione della vita degna, che non può esaurirsi nella possibilità di pagarsi quel che serve per sopravvivere. Essere parte di un circuito di reddito significa accedere, utilizzare e moltiplicare le condizioni del vivere. Voglio un salario o tutto quel che serve per un’esistenza gioiosa? 11. “La casalinga somiglia all’artigiano e quindi è meno suscettibile di rivoltarsi alla sua condizione”. Assumere il paradigma riproduttivo permette di portare a parola i soggetti che fanno corpo con le loro attività e dunque più suscettibili di aderire a criteri di valorizzazione eterodiretti; permette di individuare il crinale tra valorizzazione per il profitto altrui e pratiche e istituzioni di autovalorizzazione. Dalla finanza “etica” al reddito incondizionato, la posta in gioco è riappropriarsi non del valore, bensì dei criteri, e delle misure, di attribuzione del valore. Chi decide in cosa consiste sentirsi bene? Sulle relazioni e le loro forme 12. Il paradigma riproduttivo rimette in questione la stessa libertà. Il neoliberismo si serve ma nasconde la dimensione necessaria e ineliminabile della interdipendenza, del legame, della cooperazione. Rende visibili solo le libertà che generano e rigenerano “individui” indipendenti, dotati di libero arbitrio, di libertà di scelta. L’occultamento avviene su almeno due piani: la libera scelta si esercita entro un quadro di opzioni stabilite altrove, che a loro volta non sono materia di scelta; la libertà di competere si esercita nella dipendenza estrema dal mercato, dalla sola dinamica domanda-offerta. Individui consumatori del segmento finale di produzione e individui competitivi ricattati dalla paura di cadere fuori, nello status abissale del bisognoso. Il

88

paradigma riproduttivo punta alla riappropriazione della dipendenza, della interdipendenza e della relazione quale condizione della libertà. Dal mutualismo alla solidarietà autodeterminata. 13. Consideriamo l’estendersi degli “espulsi” e dei “bisognosi” come l’effetto della dinamica di valorizzazione-svalorizzazione di attività umane fondamentali. Gli effetti di questo respingimento nella sfera del quasi-politico, nella naturalità muta del bisogno, possono essere contenuti e/o governati solo con la violenza. Nel paradigma riproduttivo, che non separa fisico e mentale, violenza epistemologica e violenza poliziesca sono due aspetti di uno stesso processo di ridefinizione e ri(de)legittimazione di quel che si può considerare umano, dotato di diritti, politico. L’ottantenne sfrattata per fine locazione, è un soggetto abbietto, pericoloso, o soggetto di una nuova economia politica? 14. Se le attività riproduttive delle relazioni sono l’atmosfera che respiriamo e che ci viene sottratta, perché si discute della “fine della società”? Le attività riproduttive, quando portate a coincidenza con le attività monetizzate e sottoposte al valore di scambio, riformulano il legame sociale in rapporti individuali contrattualizzati e i diritti in contratti assicurativi sul rischio. Consideriamo una conferma la rilevanza strategica attribuita alla liberalizzazione dei servizi prevista dal TTIP (Transatlantic Trade Investment Partnership) e dal TISA (Trade in Services Agreement). Domani, curarsi corrisponderebbe a questa sequenza di atti: ricognizione dei centri sanitari aperti o chiusi a seguito di valutazione della loro virtuosità di bilancio, calcolo costi-benefici, valutazione rapporto qualità-prezzo. 15. Il paradigma riproduttivo interroga la cittadinanza e i suoi istituti, oggi che non è più fondata sul patto costituzionale e sulla divisione sessuale e nazionale del lavoro. In questo senso leggiamo le teorie della governamentalità: generazione e rigenerazione delle relazioni e delle risorse necessarie alle relazioni, in un quadro di finalità che non è nelle mani degli agenti delle attività riproduttive. Il passaggio dal cittadino-lavoratore al cittadino-consumatore-cliente indica il passaggio da un regime di Welfare, di esigibilità dei diritti sociali e fondamentali, a politiche sociali quale sistema di “gestione” del disagio sociale in cui, quali “clienti” subalterni e/o “bisognosi”, siamo privati della piena soggettività e autodeterminazione. Non le relazioni che prevedono la bellezza e l’uso del luogo in cui si vive insieme, ma il criterio della sicurezza e la stipula di un contratto assicurativo in caso di incidente. 16. Nel venire meno della partizione tra pubblico e privato, il paradigma riproduttivo si manifesta nell’estendersi della dimensione amministrativa in cui si inscrivono e a cui sono sottoposte le nostre vite. Le progressive riforme della Pubblica amministrazione vanno intese come estensione delle attività riproduttive a tutti e ciascuno. Nel paradigma riproduttivo-amministrativo i diritti sociali si trasformano in servizi, in prestazioni, in prodotto di attività che devono essere costantemente ripetute, individualmente e ben oltre le istituzioni pubblico-statuali: dalla previdenza e assistenza, all’istruzione, alle risorse sociali primarie. La scelta delle tariffe di acqua, luce, gas, comunicazione, come anche la ricerca, valutazione e accesso a casa, scuola… 17. Tra le principali attività della riproduzione includiamo il sistema dell’istruzione, della formazione e dell’educazione, quale ambito nuovamente strategico nella costruzione e orientamento del “capitale umano”. Troviamo conferma di questo nella priorità ed effettualità della riforma a livello europeo e nazionale dei diversi cicli di istruzione, che si nutrono di nuovi apparati di valutazione e selettività e che investono il “mercato” del lavoro tanto quanto la formazione. Ritorno al Giudizio universale e per giunta senza giustizia. 18. Tra i sintomi dell’instaurarsi di un regime amministrativo-gestionale-riproduttivo registriamo le espressioni “capitale umano”, “risorse umane”, “capitale sociale”, “knowledge economy”, “knowledge society”, ma anche “smart city” e “green economy”. Nell’epoca della “rigenerazione urbana”, il paradigma riproduttivo individua l’umano nel suo ciclo di attività vitali, tutte già politiche ma, diversamente dalla nozione di “biopolitica”, permette di cogliere le dinamiche di valorizzazione della dimensione non umana, evitando l’ipostatizzazione della natura o dell’ambiente in materia inerte offerta alla produzione, materiale o immateriale che sia. Abbiamo visto una politica capace di dare significato all’espressione “democrazia dell’acqua”.

89