Psicologia dell’emergenza - Anpas Veneto · Psicologia dell’emergenza Cornice di riferimento...
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Psicologia dell’emergenza
Cornice di riferimento
Nata a partire dai contributi della psicologia militare, della psichiatria d'urgenza e dalla Disaster Mental Health, si è
progressivamente sviluppata come insieme di tecniche d'intervento e, soprattutto, di modelli di "inquadramento
concettuale" degli eventi cognitivi, emotivi, relazionali e psicosociali tipici dell'emergenza. Mentre i modelli
anglosassoni prediligono l'approccio cognitivo-comportamentale, altamente protocollizzato e funzionalizzato
(soprattutto attraverso il paradigma del CISM di Mitchell, del 1983 - e l'uso massiccio della tecnica del Debriefing - a
volte in maniera un po' acritica), i modelli europei (francesi in primis) propongono una visione integrata dell'intervento
in emergenza, spesso anche su basi psicodinamiche (si vedano in proposito i fondamentali contributi di Francǫis
Lebigot, Louis Crocq, Michel DeClercq, della cosiddetta "Scuola di Val-de-Grace").
Sempre nello sviluppo della psicologia dell’emergenza vengono costruiti i PIES, acronimo di: Proximity, Immediacy,
Expectancy, Simplicity, ovvero i quattro elementi che secondo l’esperienza degli psichiatri e degli psicologi militari
americani, maturata in seguito alla guerra del Vietnam, devono essere implementati nella prassi per massimizzare
l’efficacia dell’intervento e ridurre il rischio di sviluppare patologie post-traumatiche.
Il PIES nasce in ambito militare per il trattamento delle Combat Stress Reactions (C S R ) e rappresenta la filosofia che
ispira gli interventi e fornisce le Linee Guida dei trattamenti.
a) PROXIMITY: significa che l’intervento deve essere eseguito nelle vicinanze del luogo dov’è avvenuto l’evento;
b) IMMEDIACY: indica la necessità di intervenire al più presto;
c) EXPECTANCY: esprime il fatto che l’operatore deve mostrare al paziente che “ci si aspetta” da lui che sia in
grado di tornare alla sua operatività quotidiana pienamente e in tempi brevi;
d) SIMPLICITY: indica che l’intervento deve avvalersi di tecniche “poche e semplici “, ad es. aiutare dei parenti
dispersi a ritrovarsi è molto più utile che condurre un debriefing per sedare l’angoscia .
Nel 1980 la diffusione dei criteri del PIES vengono esportati anche agli interventi in ambito civile con (J. Mitchell
,1983; Meichenbaum 1983 ).
Ciò nonostante è solo con la definizione dei “Criteri di massima per l’organizzazione dei soccorsi sanitari nelle
catastrofi“ (Gazzetta Ufficiale del 12-5-2001 n.116) dove si parla per la prima volta dell’aspetto psicologico “Il piano
d’emergenza, è lo strumento che consente alle autorità competenti di predisporre e coordinare gli interventi di
soccorso e di garantire con ogni mezzo il mantenimento del livello di vita “civile”messo in crisi da una situazione che
comporta gravi disagi fisici e psicologici.” Ancora, “il sostegno psicologico alle popolazioni sinistrate”…
Così sommariamente può essere riassunta la nascita della psicologia dell’emergenza che oggi si propone come finalità
lo studio, la prevenzione e il trattamento dei processi psichici, delle emozioni e dei comportamenti che si determinano
prima, durante e dopo gli eventi critici. Oggetto di studio e di intervento di questa disciplina sono tanto il singolo
individuo di cui tende a ripristinare e a tutelare l’assetto cognitivo ed emozionale per preservarlo dall’azione
destabilizzante dell’angoscia traumatica, quanto la comunità nel suo complesso, per la prevenzione o il superamento
di questi fenomeni psichici che si determinano nei gruppi umani.
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Attività svolte dallo psicologo dell’emergenza
Spesso alla psicologia non viene dato il giusto spazio e la giusta importanza quando si verificano le emergenze, questo
perché esiste una concreta e quanto mai prioritaria importanza nel risolvere prima tutte le problematiche di
immediata gravità che possono compromettere la sopravvivenza delle persone, cosa comprensibile, ma cosa succede
dopo che ciò è stato fatto? Ossia, cosa si verifica nella testa delle persone che hanno subito un trauma?
Ancora, nella testa del soccorritore che deve lavorare a stretto contatto con persone traumatizzate, quali sentimenti si
manifestano, quali sensazioni e vissuti emergono?
Cosa resta del tessuto sociale che definiva quella specifica comunità e la distingueva dalle altre?
Sono proprio queste alcune delle domande a cui deve rispondere lo psicologo quando entra in gioco, quando comincia
il suo lavoro per contribuire al ritorno alla normalità di queste persone che hanno vissuto eventi così terribili.
Una della prime funzioni che viene chiamato a svolgere è il triage, che in emergenza, è una di quelle attività che sono
molto importanti perché definiscono quali interventi sono più urgenti e interventi procrastinabili nel tempo, ma non
dobbiamo dimenticarci che quegli stessi interventi che oggi possiamo procrastinare non debbono essere dimenticati,
altrimenti il rischio potrebbe essere quello che ciò che non era urgente improvvisamente lo diventi e che, perché
inaspettato o dimenticato, ci trovi anche impreparati alla situazione.
Quindi un buon triage psicologico per essere fatto correttamente, necessità di uno spazio e di un tempo, ed è proprio
questo momento che fa la differenza tra un intervento ben fatto ed un intervento mediocre perchè non coglie il tipo
di gravità della problematica della persona esaminata.
Normalmente questa attività viene fatta all’interno del PMA dove si trova la UEP (Unità di Emergenza Psicologica),
suddivisa in due distinti gruppi :
Gruppo 1 = responsabile del triage psicologico: Si compone di psicologi e psichiatri delle U.S.S.L.
Gruppo 2 = responsabile del triage psicosociale: Si compone di figure multiprofessionali (compresi i membri di
associazioni di volontariato accreditate) con precedenti esperienze in ambito di emergenza.
A questo punto si procede con l’assegnazione del codice di priorità, ossia:
Priorità bassa (Psi 1): Soggetti con sintomi psicopatologici lievi che richiedono interventi di supporto psicologico o
trattamenti farmacologici differibili.
Priorità intermedia (Psi 2): Soggetti con sintomi psicopatologici di gravità intermedia che richiedono una valutazione
specialistica per interventi di supporto psicologico e/o trattamento farmacologico, dopo eventuale periodo di
osservazione.
Priorità alta (Psi 3): Soggetti con gravi reazioni peritraumatiche che comportano marcata riduzione dell’autonomia
individuale, ridotta consapevolezza di malattia, compromissione delle funzioni cognitive, pericolosità per sé e per gli
altri e pertanto richiedono interventi immediati o valutazioni specialistiche .
Questa attività una volta svolta darà il quadro delle problematiche che sono presenti in quel momento in quella
specifica circostanza e che permetterà di fare le eventuali segnalazioni ai servizi territoriali per la presa in carico di
soggetti sconosciuti e per fare una prima riflessione sui soggetti conosciuti e sul loro attuale stato di agitazione.
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Un’altra attività importante dello psicologo dell’emergenza, è la gestione delle quattro fasi che si susseguono nella
popolazione sinistrate:
1. Fase Eroica: in questa fase gli individui e la comunità canalizzano livelli straordinari di energia nelle attività di
salvataggio, aiuto, accoglienza e riordino. Questo alto livello di attivazione fisiologica e di attività
comportamentale dura da qualche ora a qualche giorno .
2. Luna di miele: nonostante le recenti perdite subite durante il disastro, questa fase è caratterizzata
generalmente dall’ottimismo dei singoli superstiti e della comunità. I superstiti assistono all’afflusso delle
risorse, all’attenzione dei media nazionali e di tutto il mondo e alle visite dei “VIP”, che rassicurano che la
comunità si riprenderà, verrà fatta giustizia. I superstiti cominciano a credere che la loro casa, la loro
comunità e la loro vita di prima verranno ripristinate velocemente. I clinici che hanno meno esperienza e che
operano solo in questa fase tendono ad andarsene con la stessa impressione senza preparare i superstiti e gli
amministratori a ciò che li attende a breve.
3. Disillusione: la fatica, le varie esperienze irritanti e la consapevolezza di tutto ciò che è necessario per tornare
ad una vita normale si combinano e danno luogo alla disillusione. I superstiti scoprono che l’assicurazione
sulla casa non è come sembra, che le decisioni sono dettate dai politici più che dai bisogni, che una persona a
cui è crollato il camino riceve più aiuti economici di un altro a cui è crollato il tetto. Ovunque ci sono persone
che si lamentano per il tradimento, l’abbandono, le ingiustizie, le incompetenze, egli intoppi burocratici che
bisogna subire. I sintomi connessi allo stress post –traumatico si intensificano e la speranza diminuisce .
4. Ristabilizzazione: le basi messe nei mesi precedenti cominciano a produrre cambiamenti osservabili, le
richieste di aiuti cominciano ad essere approvate, le pratiche per la concessione di prestiti avanzano e
comincia la ricostruzione. Le attività di assistenza connesse alla calamità vengono istituite, la
maggioranza delle persone torna al livello di funzionamento precedente la calamità, anche se gli anniversari
aggravano i sintomi. I superstiti avvertono una maggiore capacità di gestione delle relazioni e delle difficoltà
in generale ed attribuiscono questa maggiore sicurezza alle lezioni apprese dalla calamità.
Quindi quando si verifica una catastrofe o una maxi-emergenza che comporta la distruzione degli artefatti ne segue lo
sgretolamento di progetti in essi impliciti con conseguente disorientamento personale e crisi culturale, lo smarrimento
dell’ambiente conosciuto e degli oggetti quotidiani si trasforma in smarrimento emotivo e confusione progettuale.
Carenza di linguaggi, conoscenze e valori adeguati ad affrontare la nuova realtà in cui i sopravvissuti precipitano
rapidamente, realtà rappresentata ad esempio dai campi profughi. Le azioni abituali e la normale scansione della
giornata lasciano il posto ad azioni extra-routinarie (Lombardi, 1993) e la normale suddivisione dei ruoli perde il
proprio significato.
Un altro destinatario dell’intervento sono i soccorritori, ovvero coloro che intervengono per dare sostegno ed aiuto
alle popolazioni colpite da eventi sinistranti.
Infatti quando prendiamo in esame la vittimologia ci accorgiamo che una categoria importante è quella di chi
interviene, perché lo stare troppo tempo a contatto con persone traumatizzate, traumatizza. Questo tipo di vittima
viene normalmente classificata come di terzo livello o conosciuto anche come trauma vicario.
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Gli eventi critici collettivi comportano, infatti sempre, molteplici situazioni di vittimizzazione a cui corrispondono
altrettante tipologie di vittime:
primo tipo: rappresentate dalle persone che hanno subito direttamente l’evento critico;
secondo tipo: rappresentate dai parenti delle vittime di primo livello;
terzo tipo: rappresentate dai soccorritori, professionisti e volontari, chiamati ad intervenire sulla scena
dell’evento traumatico, che a loro volta riportano danni psichici per la traumaticità della situazione a cui
devono far fronte;
quarto tipo: la comunità coinvolta e che vivono in aree limitrofe;
quinto tipo: individui il cui equilibrio psichico è tale che anche se non sono coinvolti direttamente nel
disastro, possono reagire con un disturbo emozionale;
sesto tipo: persone che, per un diverso concorso di circostanze, avrebbero potuto essere loro stessi vittime
del primo tipo o che hanno spinto altri nella situazione della calamità o che si sentono coinvolti per altri modi
indiretti.
Aspetti legislativi
Spendo poche parole per quel che riguarda la legge e il quadro normativo di riferimento perché spesso si ha la
sensazione che la parte importante del lavoro venga fatta quando si verifica l’emergenza ed invece, senza togliere
nulla ad essa, quello che ha una certa valenza ma che sempre viene dimenticata è il superamento dell’emergenza,
ovvero la mitigazione del rischio per evitare che la traumatizzazione continui “il suo lavoro” rendendo fragile la
comunità colpita. Infatti la legge dove: “La legge 100/2012 accanto alle attività di “previsione e prevenzione dei
rischi” e di “soccorso delle popolazioni” viene meglio specificato il concetto di “superamento dell’emergenza”, cui si
associa ogni altra attività necessaria e indifferibile diretta al “contrasto dell’emergenza” e alla “mitigazione del
rischio” connessa con gli eventi calamitosi. Le attività di prevenzione vengono esplicitate e per la prima volta si
parla chiaramente di allertamento, pianificazione d’emergenza, formazione, diffusione della conoscenza di
protezione civile, informazione alla popolazione, applicazione della normativa tecnica e di esercitazioni.”
Ma cosa vuol dire: mitigazione del rischio? La mitigazione del rischio viene intesa come: “L’insieme delle attività volte
ad evitare o ridurre al minimo la possibilità che si verifichino danni conseguenti agli eventi calamitosi individuati
durante l’attività di previsione.” Questo è molto interessante fino a quando si parla di attività idrauliche, geologiche o
magari, per quelle industriali o chimiche, ma quelle psicologiche? La mitigazione ha ancora lo stesso significato?
Trovo che sia molto più sensato parlare di mitigazione del rischio psicologico provando a mettere a bilancio delle
attività o interventi che siano funzionali alla riduzione della traumatizzazione che eventi calamitosi possono aver
generato. Questo perché persone che hanno vissuto eventi gravi se non adeguatamente gestiti nelle fase successiva
possono sviluppare varie tipi di patologie psichiche e dare vita a molti comportamenti che possono avere delle
ricadute pericolose quali:
1. comportamenti antisociali;
2. atti di vandalismo;
3. incremento di uso di sostanze non meglio specificate;
4. aggressività omo/etero indirizzata.
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La psicologia dell’emergenza si occupa delle situazioni critiche, durante il loro svolgimento e dopo la loro conclusione,
con differenti finalità, nel secondo caso lo scopo basilare del lavoro dello psicologo è quello di ridurre il danno
psicologico causato dalla catastrofe. La finalità degli interventi sulla crisi è di aiutare le persone in pericolo a non fare
degenerare una situazione di stress interno o esterno sostenendole nel riguadagnare un livello di funzionamento e
uno stile di vita per quanto possibile simile a quello precedente la crisi. Quindi, si può dire, che la psicologia
dell’emergenza ha come specifiche finalità la salvaguardia dell’equilibrio psichico di vittime, parenti e soccorritori che
abbiano vissuto eventi traumatici; ripristinarlo se è stato già compromesso; riorganizzare il tessuto sociale e facilitare il
recupero dell’identità e della sicurezza collettiva. Per raggiungere tali scopi si attuano interventi mirati di tipo
individuale o collettivo finalizzati alla prevenzione e al trattamento dei fenomeni psichici e sociali determinati da un
evento traumatico in soggetti o intere comunità. Gli ambiti di applicazione della Psicologia dell’Emergenza sono molto
vasti: gli interventi di Protezione Civile, il soccorso in caso di calamità, la formazione degli operatori, la prevenzione, il
sostegno alle persone e il trattamento del trauma.
Dott. Giulio Alessandro Mazzocco
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