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Lo studio delle sovrapposizioni e delle interruzioni dialogiche ha catturato l’interesse di numerosi ricercatori sin dagli anni settanta.

Il dibattito sul tema può ad oggi dirsi caratterizzato per: la considerazione di tali eventi nei termini di

anomalie rispetto al regolare procedere delle conversazioni;

la valutazione delle interruzioni come fenomeni completamente ascrivibili all’interlocutore;

l’accettazione della dicotomia interventi supportivi vs competitivi.

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Trascorriamo, da parlanti nativi di una lingua, gran parte del nostro tempo conversando con qualcuno, spesso infrangendo le regole del turn-taking (Sacks et al., 1974) che, oltre a

descrivere il procedere ideale, ordinato e regolare delle conversazioni, fungono, altresì, da norme prescrittive per gli interlocutori, invitandoli

idealmente (nel rispetto della cortesia conversazionale) a parlare l’uno di seguito all’altro.

I parlanti reali di reali conversazioni, tuttavia, esitano, parlano l’uno sulle parole altrui, si interrompono, si ripetono, tentennano, ripartono, ecc.

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Sebbene molti ricercatori di CA abbiano in passato sostenuto che, mediamente, solo il 5% del totale flusso dialogico di ogni conversazione viene pronunciato in modo non-lineare (ossia contravvenendo alla regola dell’ “uno alla volta” di cui ho appena detto), i risultati della mia ricerca, come già precedentemente i risultati delle ricerche condotte da Bazzanella (1995), mostrano, al contrario, che tale percentuale è, non di rado, notevolmente più elevata.

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Nelle conversazioni ordinarie audioregistrate e trascritte secondo il sistema convenzionale Jefferson, si alternano, infatti, a periodi - più o meno estesi - di fluidità conversazionale:

silenzi, ripetizioni, confusione conversazionale

che seguono, o si danno congiuntamente al darsi di inserimenti che ho denominato pre termine (o IPT).

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= una vasta ed eterogenea classe di azioni linguistiche che hanno in comune le seguenti due caratteristiche:

eseguite dal destinatario di turno o di semplice uditore [ruolo definito]

compiute precedentemente alla conclusione del turno del parante corrente [questione di timing]

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sovrapposizione degli interlocutori (il parlante corrente, P1, e il sovrapponente, P2, finiscono per parlare l’uno sulle parole dell’altro per un tempo considerevole, o meglio sufficientemente esteso da permettere a se stessi e a possibili altri uditori ed analisti di operare un riconoscimento in tal senso);

interruzione di P1; interruzione di P2; interruzione di entrambi i partecipanti.

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- Per IPT con effetto interrompente = sottoclasse specifica di IPT il cui esito, in termini conversazionali, è rappresentato da una interruzione, ossia da una palese rottura rispetto al precedente fluire dialogico

(1) 1F: Mi stai mettendo in, ma manco in secondo, in quarto

piano.2M: Non è in secondo piano.3F: Eh, sì [ inv+4M: [ È il fatto che se io voglio fare carriera devo segui’,

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IPT con effetto sovrapponente = categoria descrittiva e, certamente, meno interpretativa rispetto alla precedente. In questo caso, P2 (ossia il soggetto che agisce l’IPT) e P1:

parlano per un tempo determinato – più o meno esteso- l’uno sulle parole dell’altro;

mantengono distinti, almeno inizialmente, i rispettivi ruoli di parlante legittimo, da un lato, e di intrusore, dall’altro;

concludono, il più delle volte, l’enunciato o gli enunciati intenzionati (cfr. toni conclusivi)

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Dopo un periodo di lunghezza variabile entrambi gli interlocutori arrestano il proprio dire: simultaneamente o in tempi diversi:

(3) F: Sì ma un conto è tua madre che tanto è consapevole [che

prima o poi andrai fuori casaM: [E apposta un conto mia madre che mi ha scelto

(4)B: E::, ha detto Elisa, cioè, praticamente sempre con quell’aria sua del cazzo, (..) che praticamente facea come se fosse casa sua [quando casa sua non

è.M: [Ma che vole? Cioè +, che c’entra il padre in casa::?

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In molte delle conversazioni di litigio esaminate, conversazioni che, insieme a quelle conviviali e a quelle di lamentela, sono risultate essere le più segnate dagli IPT, gli interlocutori arrivano a pronunciare percentuali di parlato non lineare decisamente superiori al 5%, giungendo, in taluni casi, a toccare, addirittura, punte prossime al 30%.

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Le regole di turnificazione vengono, al contrario, più spesso rispettate nei :

contesti in cui le stesse sono rigidamente imposte per convenzione sociale (es. funzioni religiose, tribunale ecc.)

nelle situazioni in cui la competenza, il desiderio o l’interesse nei confronti della conversazione in atto non sono elevati.

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Dall’analisi e dal confronto delle conversazioni del nostro corpus è, tuttavia, emersa la difficoltà di individuare con esattezza le variabili responsabili del ricorso agli IPT da parte dei conversanti.

Tuttavia il loro utilizzo si lega a: stile conversazionale (cfr. stile ad alta sollecitudine e

ad alto coinvolgimento) familiarità tra interlocutori argomento-coinvolgimento

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1) Stili conversazionali (che sfuggono, in gran parte, al nostro controllo, poiché di uno stesso interlocutore solo raramente disponiamo di più conversazioni);

2) Familiarità (es. l’uso del pronome di seconda persona singolare “tu” nella lingua italiana viene impiegato per riferirsi a persone con le quali si hanno stretti rapporti affettivi o, comunque, un elevato livello di confidenza.

3) Argomento e grado di coinvolgimento ed interesse dei partecipanti (variabile quest’ultima che, forse più delle altre, subisce l’influenza della particolare situazione emotiva e psicologica vissuta dai singoli interlocutori nel momento dato).

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Attendere, prima di cominciare a dire, che il parlante di turno faccia silenzio, avendo concluso il proprio intervento, non sembra essere la regola conversazionale abitualmente seguita dal destinatario di turno (italiano).

L’analisi dei dati ha convalidato, piuttosto, l’ipotesi inversa circa la frequente violazione delle norme di cortesia conversazionale, specie quando gli interlocutori si sentono direttamente coinvolti dagli argomenti della discussione, quando, in altre parole, entra in gioco, e si manifesta con modalità linguistiche più o meno esplicite, la propria soggettività dialogica (io credo, io penso, io ritengo, ma anche io provo, io sento, io voglio, io desidero ecc.).

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Il principio di cooperazione dialogica (Grice, 1975) ha monopolizzato la scena contemporanea degli studi multidisciplinari sul linguaggio concretamente agito dai parlanti

A Grice e al suo fortunatissimo principio si sono ispirati i lavori di molti filosofi del linguaggio, come pure di psicologi, di linguisti, ma anche di sociolinguisti, pragmalinguisti ecc.

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In seguito all’: introduzione delle massime conversazionali accento posto su quello che sembra essere il

naturale desiderio degli individui di cooperare alla costruzione di ogni singolo scambio conversazionale (scambio che, di norma, si apre, procede e viene concluso secondo modi cooperativamente stabiliti dai partecipanti)

si è, spesso, dimenticato di considerare quello che potrebbe essere definito come un principio complementare al principio cooperativo, ossia il principio di auto-affermazione conversazionale.

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Secondo tale principio, non solo in antitesi rispetto al desiderio cooperativo [che massimamente si manifesta nelle conversazioni di natura conflittuale(in cui uno dei principali obiettivi dei conversanti pare essere quello di affermare le proprie opinioni a discapito di quelle altrui e, non di rado, denigrare persino le altrui identità al fine di aver salva la propria faccia] ma anche contemporaneamente al suo darsi,

gli interlocutori sarebbero costantemente mossi dal desiderio di raggiungere anche scopi di natura prettamente individuale

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In altri termini, accanto al desiderio di cooperare con l’altro, e non sempre in un rapporto di contrapposizione, è opportuno, io credo, riconoscere, come bisogno fondamentale di ogni individuo, il bisogno di imporsi conversazionalmente, cioè il bisogno di perseguire scopi, finalità, obiettivi prettamente individuali

Accanto alla volontà di essere cooperativi si affianca, dunque, una sorta di egocentrismo comunicativo, o narcisismo dell’io che trapela dalle scelte :

di contenuto (esplicitamente o implicitamente comunicate), intonazionali (che molto ci rivelano dell’atteggiamento

emotivo/psicologico del parlante), come pure dalla quantità di parole pronunciate, ma anche dalla quantità di IPT singolarmente agiti dagli interlocutori.

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“Parlare è autorappresentarsi, imporre la propria immagine […]. Lo spazio di parola […] è conteso nel tentativo di strapparsi l’un l’altro il tempo dell’affermazione della propria identità” (Mizzau, 2002: 121)

Parlare o tentare di affermarsi conversazionalmente ricorrendo agli IPT, non sono, dunque, che due facce di un’unica medaglia, ossia due differenti modalità di rivendicare uno spazio conversazionale funzionale all’affermazione di sé.

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Nelle numerose conversazioni analizzate il dato che è emerso in modo chiaro e preponderante, come comune a tutte, è il dato relativo all’imporsi di una relazione inversamente proporzionale tra :

quantità di parole pronunciate, da un lato, e

numero di IPT agiti, dall’altro.

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Il conversante meno loquace, ossia il conversante che parla quantitativamente di meno, è generalmente anche quello che esegue il maggior numero di IPT

Il conversante che parla di più ricorre, tendenzialmente, in quantità inferiore agli IPT. Il seguente grafico mostra la relazione inversamente proporzionale tra parole pronunciate e numero di IPT agiti dalle interlocutrici di una conversazione appartenente al corpus:

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La regolarità nella comparsa di questa relazione mi ha spinta ad ipotizzare che gli IPT funzionino, in numerose occorrenze, come meccanismi compensativi dello scarto dialogico tra interlocutori, vale a dire come meccanismi impiegati nel tentativo di riequilibrare, in qualche modo, le situazioni quantitativamente impari (cfr. le conversazioni conflittuali)

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In alcune situazioni gli interlocutori più loquaci che eseguono meno IPT

finiscono, tuttavia, in seguito alla elevata differenza nella quantità di parole pronunciate rispetto al proprio interlocutore

per intrudere nel discorso altrui con una frequenza maggiore.

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In una conversazione di parlato spontaneo avvenuta tra una figlia (F), studentessa universitaria e una madre (M), ad esempio:

F parla più di M (270 parole contro 165) e compie meno IPT (6 contro 7),

si inserisce nel discorso della seconda con una frequenza maggiore (1 IPT ogni 28 parole circa pronunciate da M, di contro a 1 IPT agito da M ogni 39 parole circa pronunciate da F).

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In questi casi è possibile parlare dell’uso degli IPT, da parte del soggetto in esame, non come manovre compensative, quanto piuttosto come meccanismi rafforzativi, dal valore fortemente egocentrico, atti a sottolineare, rimarcare, la presenza e la forza dialogica degli interlocutori.

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Espressioni del tipo: “ha interrotto le sue parole”, “non mi interrompere!”, “il suo discorso è stato interrotto”, “mi impedisce di proseguire” ecc., sono espressioni comunemente impiegate, e abitualmente interpretate dai parlanti nativi di una lingua, nei termini di esatte descrizioni di stati di cose: qualcuno è in grado di causare il silenzio di qualcun altro (ossia la sua interruzione).

Secondo tali rappresentazioni – condivise, almeno dal punto di vista terminologico, anche da talune accademiche proposte tassonomiche (tra le quali, Ferguson 1977, Roger et al. 1988) - il P2, o il semplice uditore di una conversazione, che inizia a parlare prima che il P1 abbia concluso il proprio intervento, possiede la capacità, non solo di intrudere nelle parole del secondo, ma anche di interrompere, bloccare, arrestare il loro stesso fluire.

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La paradossalità di una tale spiegazione risiede nell’assegnazione della responsabilità di un esito conversazionale (il silenzio nelle interruzioni) ad un individuo diverso/altro rispetto a colui che pone se stesso in silenzio, e cioè rispetto al soggetto che propriamente si interrompe (interrompe il suo dire).

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Accettare una simile descrizione =

ignorare l’essere e la presenza conversazionale, il ruolo e la forza dialogica del soggetto che indossa le vesti del parlante corrente (che sembra non potere nulla nei confronti delle azioni eseguite nei propri confronti da altri soggetti conversazionali) e, naturalmente, più in generale, gli elementi contestuali che caratterizzano, di volta in volta, la specifica situazione conversazionale.

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Gli altri sarebbero, infatti, in grado di causare il mio silenzio;

Io sarei, parimenti, in grado di determinare il silenzio altrui, ma

Nessuno di noi sarebbe personalmente responsabile della scelta di porre se stesso in silenzio.

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Nella sequenza (1)

1F: Mi stai mettendo in, ma manco in secondo in quarto piano.

2M: Non è in secondo piano.3F: Eh sì [inv+4M: [ È il fatto che se io voglio fa’ carriera devo segui’,

2 turni verbali (3F e 4M) 3 azioni linguistiche chiaramente identificabili,

poiché il silenzio di F, successivo al dire di M, è un silenzio a lei completamente ascrivibile.

In altre parole, non è M ad interrompere F bensì F che, successivamente all’azione (IPT) di M, si interrompe.

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Proprio come le interruzioni, anche le sovrapposizioni possono essere descritte ed interpretate nei termini di esiti conversazionali, vale a dire di effetti determinati dalla co-occorrenza di molteplici fattori (tra i quali, come nel caso delle interruzioni: i ruoli e la forza dialogica degli interlocutori, la modalità dei loro interventi, il livello di coinvolgimento, interesse e competenza per i temi discussi ecc.).

Nel caso delle sovrapposizioni, però, diversamente dalle interruzioni, pur essendo 2 i turni propriamente legati al fenomeno, e comunemente richiamati nella sua descrizione, sono complessivamente 4 le azioni (IPT) coinvolte, poiché ogni sovrapposizione termina sempre con il silenzio di uno o di entrambi gli interlocutori e con la successiva ri-appropriazione del turno (solitamente per auto-selezione) ad opera dell’uno o dell’altro conversante (o di entrambi nel caso si verifichi una successiva partenza simultanea).

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Dall’esame dei dialoghi del corpus sono emersi, quindi, come precedentemente anticipato, specie per i litigi e per le conversazioni conviviali:

1. un considerevole ricorso da parte degli interlocutori agli IPT;

2. una conseguente elevata percentuale di parlato non lineare;

3. un ulteriore singolare aspetto secondo il quale gli IPT (e di conseguenza anche i loro principali esiti, ossia le interruzioni e le sovrapposizioni) non sembrano unicamente legarsi ad azioni e ad intenzioni di natura supportiva o competitiva ma, al contrario, a numerose altre azioni ed intenzioni comunicative.

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ambiguità semantica connaturata alla dicotomia lessicale supportivo-competitivo. I verbi supportare e competere possono, infatti essere utilizzati in riferimento alle

AZIONI LINGUISTICHE DI SUPPORTO O COMPETIZIONE RISPETTO AL CONTENUTO

INTENZIONI DI TENERE PER Sé LA SPEAKERSHIP (COMPETERE) O CEDERLA ALL’INTERLOCUTORE (SUPPORTARLO)

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1. azioni di supporto o, viceversa, di competizione contenutistica del tipo:

“Sono d’accordo con te”, “Bravo!”, “Mi piace quello che stai dicendo” o “Non mi trovo d’accordo con quanto tu dici”, “Ma che stai dicendo?”, “No, no, no!” ecc.; un soggetto, in altri termini, può dirsi - tramite modi più o meno espliciti - in accordo o in disaccordo, totale o parziale, con quanto affermato dal proprio partner conversazionale;

2. intenzioni degli interlocutori di supportare, sostenere la speakership altrui o, al contrario, competere per eleggere la propria

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Gli individui delle conversazioni analizzate fanno, tuttavia, uso di IPT:

non esclusivamente nel tentativo di supportare quanto il proprio partner conversazionale sta dicendo, mostrandogli, per di più, non raramente, tramite specifici marcatori discorsivi, quella che, secondo alcuni Autori rappresenta la propria intenzione di mantenersi in una posizione recettiva di ascolto (Jefferson, 1984) e, quindi, conseguentemente, il proprio desiderio che sia l’altro a conservare la speakership;

non unicamente nel tentativo di competere con quanto il parlante corrente sta dicendo e, spesso, anche cercando di ottenere la speakership a proprio vantaggio, servendosi, come sopra, di specifici segnali linguistici e paralinguistici (interessante a riguardo risulta il contributo sugli aspetti fonetici di French e Local, 1983);

ma, anche, con ulteriori e molteplici altri fini. :

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Qualcuno può, infatti, servirsi di un IPT per chiedere o puntualizzare

(6)1P: Lei potrebbe abbonarsi a Money per ben due

anni. Ciò vorrebbe [di-2D: [Money o Automoney?

(7) 1G: No, non c’era, non c’era niente [c’era solo, 2V: [Cioè, avete aspettato un pochetto?

come pure, per rispondere anticipatamente

(8) 1P: Buonasera [dottore.2M: [Buonasera.

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ma, anche per sollecitare, per invitare, e per compiere altre innumerevoli azioni linguistiche, che nulla, o poco, hanno a che vedere con il supporto e la competizione, su altrettante numerose azioni linguistiche agite ad opera del parlante di turno.

Gli interventi compiuti fuori dal proprio spazio conversazionale sembrano, dunque, non poter essere ridotti a un mero mostrare accordo o disaccordo con quanto sostenuto dal parlante corrente o a semplici indici delle proprie intenzioni di sottrarre il turno o di farlo, invece, mantenere all’altro. Gli IPT sono, al contrario, connotati da una intrinseca polifunzionalità,

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una frequente violazione delle regole del turn-taking; una percentuale di parlato emesso secondo modalità non

lineari spesso notevolmente superiore rispetto al 5% del totale flusso conversazionale, ma anche

il riconoscimento agli IPT, tra le altre, di una funzione compensativa del divario quantitativo che spesso si stabilisce tra interlocutori (sia complessivamente, sia considerando singole sequenze conversazionali);

il riconoscimento, altresì, di un ruolo attivo e decisionale ad ognuno dei partecipanti coinvolti, non solo nelle fasi linearmente produttive (ossia nei periodi di speakership individuale), ma anche nelle scelte di porsi in silenzio o di continuare a dire contemporaneamente al dire di altri e

per finire, il riconoscimento di finalità non unicamente supportive e/o competitive in base alle quali gli stessi IPT verrebbero compiuti.

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