Pruvost Pierre - Il Rovescio Dello Sputnik

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P I E R R E P R U VO S T

I L R O V E S C I O DELLO SPUTNIK(L'envers du Spoutnik)

E D I Z I O N I D I V I T A

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PRESENTAZIONE

Pierre Pruvost, un avvocato parigino, ha trascorso in Russia le vacanze estive. Accompagnato dalla moglie e dalla inevitabile guida-interprete, ha percorso in automobile il territorio sovietico dalla frontiera con la Polonia alla Crimea. Non è stato un viaggio a itinerario e a tappe prestabiliti. I due coniugi hanno viaggiato di giorno e di notte, fermandosi quando volevano, parlando con operai, contadini, professionisti, osservando da vicino il loro modo di vivere e di lavorare e ricevendo spesso interessanti confidenze.

Tornato a Parigi, Pierre Pruvost ha scritto questo libro che in Francia ha avuto un immediato successo.

E' un'analisi della Russia presentata in modo brillante, ma non per questo meno efficace. La fine ironia dell'autore dà ai tipi, agli episodi e ai fatti il senso della verità e spesso quello dell'amarezza.

CAPITOLO I

DOVE ANDARE?

Salvo rare eccezioni, il francese medio ha un'idea geniale al giorno, di solito mentre si fa la barba. Io non sfuggo alla regola.

Quel mattino di primavera, mi radevo allegramente pensando alla piacevolissima prospettiva delle prossime vacanze. Eravamo incerti tra la Corsica, l'Alvernia, la Norvegia e l'isola d'Oleron. L'annunciatore della radio, che tuonava nella stanza vicina, fece mutare corso alle mie idee, ricordando che Krusciov aveva garantito che i nipotini di Eisenhower saranno comunisti.

A tutti gli occidentali capita di pensare che il successore di Stalin ha una

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parola e basta e che quindi noi siamo ineluttabilmente votati all'abbraccio del mondo comunista. Mi sforzai perciò di immaginare come sarà questo famoso abbraccio.

Ma come immaginarlo, se a dispetto del telefono, della televisione e degli aerei a reazione, non riusciamo a renderci conto di cosa sono oggi i Paesi dell'Est? Stiamo per arrivare alla Luna e non sappiamo nemmeno ciò che succede a mille chilometri da Strasburgo.

Fu allora che nel mio subcosciente nacque la geniale idea quotidiana. Perché, in occasione delle vacanze, non andare sui luoghi per conoscere almeno superficialmente la realtà?

Fui immediatamente conquistato da questo progetto, che oltre al suo interesse documentario, mi avrebbe permesso di compiere uno di quei grandi e avventurosi viaggi che avevo platonicamente sognato da anni, senza avere però l'indispensabile autorità per imporlo ad una sposa irresistibilmente preoccupata del riposo e della tranquillità.

Mi resi subito conto che la mia trovata, malgrado le eccitanti prospettive, poteva turbare l'armonia coniugale, se io non avessi preso certe cautele.

Per guadagnar tempo cominciai a preoccuparmi di avere ragguagli su come praticamente effettuare la spedizione.

Come ottenere questi ragguagli?Perché non domandare, confidenzialmente, aiuto e protezione al mio amico

e collega Marcello, comunista notoriamente iscritto al partito e ala sinistra della squadra di calcio per la quale io mi spolmono tutte le domeniche mattine? Marcello accolse il mio progetto con uno straordinario entusiasmo.

« Tu vedrai, là è tutto formidabile. Ci sono andato l'anno scorso. I russi ci adorano... Noi due abbiamo già su certi punti le stesse idee, ma dopo questo viaggio tu penserai esattamente e definitivamente come me ».

Marcello aggiunse che per la domanda del visto mi avrebbe potuto presentare ad un certo signor Boritzof al consolato di Russia.

Io mi precipitai immediatamente in piazza Malesherbes e penetrai con gioiosa sicurezza nel consolato russo. L'atmosfera era allegra come quella di un tempio battista.

Con sufficienza dissi all'usciere che avrei desiderato vedere il signor Boritzof per presentargli una richiesta di visto. Senza alzare la testa, l'usciere mi domandò con una voce oltre-cortina-di-ferro: « Turista? ». Mi limitai a scuotere la testa affermativamente per costringerlo a guardarmi.

La mia risposta dovette essere captata da un gioco di specchi, perché, senza uno sguardo né una parola, l'usciere mi tese una carta con l'indirizzo di una

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agenzia turistica in via dell'Opéra.Questa accoglienza assolutamente impersonale servì a farmi presentire il

meraviglioso disprezzo del mondo collettivista per l'individuo e le sue aspirazioni anarchiche.

Deciso a non voler più conoscere il signor Boritzof, mi diressi disciplinatamente verso l'agenzia di via dell'Opéra. L'impiegato specializzato per i viaggi in Russia era visibilmente stanchissimo di dare la millesima volta le stesse informazioni.

In quaranta secondi tutto mi era completamente chiaro: noi potevamo andare in Russia in macchina privata; bisognava predisporre un posto per la guida-interprete che ci sarebbe stata fornita graziosamente e obbligatoriamente dall'Inturist; esisteva un solo itinerario: Brestlitovsk-Minsk-Mosca, con la possibilità di prolungarlo fino a Leningrado o a Yalta, e ritorno per la stessa strada; v'erano differenti tipi di viaggio con tre o quattro pasti per giorno, secondo la classe che si sceglieva; scegliendo l'ultima classe, e senza tener conto delle spese della benzina e del viaggio, bisognava affrontare una spesa di 100 franchi pesanti per giorno e per coppia; bisognava infine fornire molte settimane prima sette fotografie e riempire otto questionari per persona.

Con la testa un po' confusa, e un pieghevole tra le mani, mi congedai soddisfattissimo di tutte queste precisazioni; un po' deluso però dal fatto che la mia spedizione sembrava prendere le proporzioni di un viaggio alle Baleari.

Non mi restava che mettere al corrente mia moglie. I giorni passavano e non riuscivo a trovare un'occasione favorevole. Una mattina, mi decisi.

Nell'istante che mi sembrò il più propizio dissi improvvisamente con tono d'innocenza : « Perché non andiamo a passare le nostre vacanze in Russia? ». Curvai mentalmente il dorso, attendendo, con timore e con aria assente, una reazione certamente violenta.

Con mia grande meraviglia, mia moglie, che nella proposta non aveva visto che una delle mie solite spacconate, mi fece osservare, con tono assolutamente normale, che io ero completamente pazzo.

Le cose si guastarono sul serio tre settimane dopo, quando con il mio carattere sornione, scoprii completamente le mie batterie : « Sei settimane nella nostra macchina e da soli, da Berlino a Yalta, passando per Varsavia, Mosca e Karkhov ».

Davanti allo sgomento di colei che la religione dei miei avi e la legge del mio Paese m'impongono di proteggere, barcollai un istante.

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Mia moglie approfittò subito della mia esitazione e cominciò ferocemente a far valere le sue ragioni, dimostrandomi che noi non avremmo provato nessun piacere a contemplare un popolo che vive sotto una schiavitù faraonico-bolscevica e che non avremmo potuto aspettarci nulla di buono da dirigenti senza fede né leggi, il cui modo di passare il tempo è di massacrare periodicamente polacchi, ungheresi o capi politici in disgrazia.

Un po' anche per spirito di contraddizione, risposi che io pensavo, come alcuni milioni di francesi, che ciò erano frottole sparse nel mondo da « Selection Reader's Digest », che i russi si limitano a difendersi dai loro nemici e, a proposito di schiavi arretrati, ricordai che essi lanciano regolarmente dei cani nello spazio e mettono in circolazione migliaia di scienziati, di atleti e di rompighiaccio atomici, ecc.

Nient'affatto convinta, mia moglie replicò che questo viaggio era inutilmente pericoloso, che non avremmo visto niente; che non c'era nulla da vedere, che avremmo trascorso delle vacanze in un continuo stato d'ansia, che una volta entrati, non saremmo potuti più uscire da quella galera e che nella migliore delle ipotesi io avrei finito i miei giorni in una miniera di sale.

Indispettito dalla impertinenza dei suoi argomenti, risposi senza garbo che, per male che fosse andata, avrei contribuito con il mio lavoro alla prosperità della miniera di sale.

Fu allora che la conversazione deviò dal suo tema principale. Giustamente addolorata dalla mia mala fede, mia moglie decise d'avvertire i parenti.

Questo nuovo ostacolo mi mise in grande agitazione. E a torto.I nostri genitori sono nati negli anni intorno al 1900. Hanno conosciuto la

vettura a cavalli e la DS 19; l'acciarino da fuoco e l'accendigas automatico; il prestito russo e lo Sputnik; la polka e il rock and roll. Come volete che conservino ancora una riserva di emozioni che permetta loro di stupirsi per un viaggio in Russia della loro prole?

Smarrita, e senza appoggio, la mia infelice compagna decise irrevocabilmente che questo stupido viaggio l'avrei fatto da solo, mentre lei si sarebbe riposata sulla Costa Azzurra.

Con il viso perfidamente sereno, io finsi di accettare: fortunatamente l'infelice non potè sopportare più di un quarto d'ora la prospettiva di sapere il suo ingenuo marito imbarcato da solo in una simile avventura e capitolò senza condizioni. Generosamente insinuai che Yalta non è molto lontana da Astrakan e dalle sue pellicce e così riuscii a rasserenare l'atmosfera.

Ma conobbi ancora dei momenti difficili.Per facilitare il mio progetto, avevo lasciato, a bella posta, in ombra alcuni

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dettagli del viaggio.Avendo letto troppo rapidamente il pieghevole pubblicitario, Mirella era

convinta che il forfait previsto per una persona coprisse le spese per due.Per non urtare il suo senso d'economia, che io sempre elogiavo, favorii

questo salutare errore.Ma la mia precauzione non fu che una nuova imprudenza, perché la mia

sposa considerando questo mezzo forfait già proibitivo, decise, con mio grande terrore, d'andare a discutere con l'impiegato dell'agenzia.

Solo a forza di straordinari stratagemmi, riuscii ad evitare questa catastrofica eventualità... fino all'ante-vigilia della partenza.

Dovetti anche pensare a sistemare l'automobile, in vista della coabitazione per un mese continuo con la guida interprete obbligatoria.

Questa fu la goccia che fece quasi traboccare il calice.Malgrado tutti i miei sforzi per presentare quest'attenzione dell'Inturist

come una raffinata manifestazione dell'eccezionale e tradizionale ospitalità russa, Mirella, con un ironico sorriso, affermò che le nostre pretese vacanze sarebbero state particolarmente allietate dalla presenza diuturna al nostro fianco di uno sbirro fanatico, che avrebbe passato i suoi giorni a spiarci e le sue notti a stendere rapporti per la Ghepeu.

Con dei bagliori inquietanti nello sguardo, ella precisò che questo individuo si sarebbe subito reso conto d'essere stato smascherato e che comunque la sua presenza era perlomeno inopportuna.

Più agitato di quanto non volessi far vedere, cominciai a riflettere sulla insensatezza della mia avventura.

E pensai che, in qualche parte della lontana steppa, un povero diavolo russo, segnato dal destino a dividere le nostre tribolazioni, in quel momento non dubitava lontanamente della sorte crudele che lo aspettava.

* * *Il gran giorno è arrivato.Non ci mancava nemmeno un bottone alle ghette.Mirella non sera dimenticata nulla.Un'indescrivibile quantità di vestiti, di scarpe e di cappelli ci permetteva

d'affrontare le situazioni più diverse, dagli orrori del grande Nord ai bagni della Crimea, dalle serate alle ambasciate, alle riparazioni sotto l'automobile.

Una batteria completa di lenzuola e coperte per il letto, dei vettovagliamenti per quindici giorni, un enorme ferro da stiro e degli aggeggi di tutti i generi ci avrebbero dato un'autonomia veramente apprezzabile.

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Il tutto ostruiva le due più grandi stanze dell'appartamento.Da parte mia, per evitare d'impressionare Mirella, scelsi la cantina per

accatastarvi le riserve di carburante e di olio, parecchi pneumatici con le loro camere d'aria, una collezione complicata e pesante di pezzi di ricambio, di cui generalmente ignoro i nomi e l'uso, una cassetta di vetrerie per gli indigeni delle regioni deserte, una corda da rimorchio, un thermos, delle carte, un verificatore di pressione per le ruote e una bussola.

L'ultimo problema era quello di poter introdurre all'alba questo carico nella macchina, rispettando prima di tutto il posto previsto per l'interprete che avremmo dovuto caricare a Brestlitovsk.

Ci riuscii, non senza pena e dopo essermi schiacciato tre dita e aver svegliato tutto il quartiere con rumori e moccoli diversi.

Dopo l'ultima colazione alla francese, all'ombra delle valigie, la macchina pericolosamente stracarica... fece rotta verso l'Est.

CAPITOLO II

PRIME ESPERIENZE

Il nostro primo obiettivo era Colonia, via Liegi. A Cambrai, mi venne in mente che i bambini russi sono ghiotti di monetine straniere. Il cassiere della Banca di Francia guardò senza comprendere quell'individuo in sandali e camicetta che domandava trecento pezzi da venti soldi...

Ci avvicimamo alla frontiera e ai doganieri. L'avventura comincia.Possiamo esportare legalmente ventimila franchi vecchi per persona, e

rischiamo di trovarci in situazioni veramente imbarazzanti affrontando un viaggio di dodicimila chilometri e di un mese e mezzo con quarantamila franchi leggeri.

Per evitare spiacevoli sospetti, penso che sia meglio non dir parola sulla mèta del nostro viaggio, di nascondere il nostro passaporto, visto che una carta d'identità è sufficiente, e d'intrufolarci con franchezza nella fila di macchine che si dirigono verso il Belgio per compiere una breve gita.

Per fare apparire le cose il più possibile vere, a qualche chilometro dalla frontiera, mi levo il casco coloniale e sotto una pioggia torrenziale tolgo la seconda ruota di scorta ed il bidone, faticosamente issati sul tetto. Installo

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questi scomodi e ingombranti oggetti nel fondo della macchina tra i bagagli e i vestiti sparsi... sotto il fuoco delle più assennate riflessioni della mia sposa.

Ecco la frontiera. Un doganiere dalle sopracciglia cispose s'avvicina, m'interroga e assapora il disagio che provoca. Un po' incredulo, sfoglia il contenuto del mio portafoglio, guardando di traverso sospettosamente l'eterogeneo carico che strabocca dietro di me.

Siamo alle strette. Stiamo per essere perquisiti, scoperti, disonorati, respinti e sequestrati? No, la pioggia torrenziale tempera lo zelo dell'irriducibile funzionario, che ci ordina bruscamente di circolare.

Frenando il mio impeto di schiacciare a tavoletta l'acceleratore, levo l'àncora con molta calma e con l'aria inespressiva di colui che non ha niente da rimproverarsi. Reprimendo tutta la nostra gioia,

superiamo senza perder tempo la dogana belga; nessuno ci nota.

* * *Siamo in vista di Namur. L'atmosfera appare favorevole. La nostra vecchia

203 romba magnificamente.Faccio osservare a Mirella quanto io sia stato giudizioso spendendo i soldi

per una completa revisione della macchina. Ho appena fatto l'imprudente osservazione che un lugubre cri-cri si fa sentire nel motore.

Fortunatamente Namur ha l'orgoglio d'aver un concessionario Peugeot. Delego Mirella a cercare un ristorante degno dei nostri stomaci francesi e vado a far auscultare la malata. Il garagista fa una diagnosi relativamente confortante. L'età del motore, e, oltretutto, il carico sono la causa dell'irregolarità.

Non c'è nulla da fare, il rumore si amplificherà sempre di più, ma il motore forse terrà duro ancora per diecimila chilometri, a condizione d'essere trattato con riguardo. Risalgo con molta precauzione nella macchina, come un malato che si scopre un infarto del miocardio, e metto in moto con dolcezza, senza osare di sbattere la portiera. Ritrovo Mirella nascosta dietro un enorme boccale di birra che ha ordinato per farmi piacere.

Rinvigorito da questa bevanda che mi riporta ai tempi della giovinezza, trovo una spiegazione molto confortante per il rumore del motore, e, allo scopo di poter fare un abbondante pasto, dichiaro alla mia sposa sorpresa, ma fiduciosa, che più quello tintinnerà meglio andrà.

DAL NEMICO EREDITARIO

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Spiamo l'avvicinarsi della frontiera belgo-tedesca. Ormai, in territorio straniero, siamo in regola; e, sicuro dell'impunità, procedo superbo, pronto a esibire passaporto, danari e bagagli. Poco disposto a fare brutte figure, il funzionario, belga o tedesco, m'impone bruscamente di passare, ed eccoci nella Germania federale.

Ben protetti nella macchina, contempliamo tranquillamente il covo dei feroci guerrieri teutonici. La campagna germanica, pittoresca e boscosa, sembra del tutto inoffensiva. Attraversiamo rapidamente Aix-la-Chapelle, metodicamente devastata e anarchicamente ricostruita. Quello che si vede dei resti dell'antica città attenua il rimpianto. La nostra prima tappa, Colonia, è in vista.

Tra la confusione delle strade, delle autostrade, delle linee dei tram, di quelle dei treni, delle piste per i ciclisti, dei canali, che si accavallano ai limiti della città, abbiamo la netta impressione che mai potremmo trovare l'albergo dove siamo aspettati.

Un vecchio ciclista di bassa statura ha immediatamente riconosciuto, dalla nostra aria inebetita, dei turisti abbrutiti da seicento chilometri di strada. Gli mostriamo il biglietto col nome dell'albergo fornitoci dall'agenzia. Il suo viso si illumina. Urla qualche cosa, che deve significare: « ho capito » o « seguitemi », salta sulla sua bicicletta, e parte di scatto, facendo, col braccio, un gesto come quello che dovevano fare gli imperatori romani per mettere in marcia le loro legioni.

Facciamo un'entrata trionfale in Colonia, preceduti dal nostro araldo in bicicletta, che pedala ventre a terra, si volta ogni momento, col rischio di rompersi l'osso del collo, insulta i passanti che non si scostano abbastanza in fretta, ignora le invettive, taglia i semafori col giallo (e noi col rosso), manifesta viva impazienza e leva gli occhi al cielo ad ogni arresto di circolazione. Lo seguiamo a fatica. Più volte evitiamo per un capello di massacrare intere famiglie di nemici ereditari.

Eccoci ai piedi della più grande cattedrale gotica del mondo. Il nostro pazzo pedalatore si degna di rallentare, e, a colpi di pedale maestosi, ci fa fare il giro dell'edificio. D'improvviso, s'ingolfa così rapidamente in una stradina adiacente che dobbiamo rifare il giro della cattedrale prima di poter imboccare la stessa strada e poter trovare il nostro mèntore, lo sguardo fisso, davanti alla porta dell'albergo.

Il nostro primo contatto coll'industria alberghiera tedesca è sconfortante. L'albergo è sinistramente situato in mezzo ad un mare di rovine corrose dal tempo. I bombardieri alleati hanno superato se stessi: meglio che ad Aix-la-

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Chapelle. Nelle vicinanze, dietro qualche palazzo nuovo fiammante, la cattedrale si profila dritta come una sfida, testimone di un passato così anacronistico come un'arca di Noè piantata sulla torre Eiffel.

Eppure gli artiglieri dell'aria si sono presi il lusso di distrarre, dal diluvio di ferro e di fuoco che destinavano alle popolazioni, qualche bomba di grosso calibro: e sono stati ricompensati dai molti colpi messi a segno. Avvicinandosi, si scorgono ancora le ferite aperte. Davanti a questo accavallarsi di merletti in pietra, di statue in equilibrio, di squisiti colonnati che sembrano non poter resistere ad uno sternuto un po' consistente, non si può pensare che ad un miracolo per spiegare come un così fragile edificio abbia potuto resistere ad un simile trattamento.

* * *

La lista dei cibi dell'albergo è così abominevole che, con tacito accordo, apertamente decidiamo di fare lo sciopero della fame. Non riusciamo nemmeno a incuriosirci di un austriaco che, ad una tavola vicina, rassomiglia spudoratamente a Hitler e che non mostra di esserne affatto lusingato.

I crampi della fame non riescono a moderare l'implacabile lucidità femminile. Mirella fa apposta a ricordarmi che io avevo annunciato sistemazioni di prima classe in cambio delle esorbitanti richieste dell'agenzia. Ammetto, sconsideratamente, che effettivamente non sapevo di che si trattasse, il che provoca spiacevoli discussioni.

Il morale si affloscia nelle stesse proporzioni delle pareti del nostro stomaco. Constato, con malinconia, che un francese mal nutrito non vale gran che.

Obbedendo però ad un residuo di probità turistica, accettiamo di fare a Colonia-by-night ». Girovaghiamo tristemente lungo l'enorme Reno. Con occhio mesto ed inespressivo, contempliamo a sazietà le acque nerastre e gorgoglianti di questo fiume tre volte più largo della Senna. Rientriamo senza entusiasmo all'albergo « Lenz » e sperimentiamo i letti germanico-russi che saranno per un mese e mezzo il nostro destino.

Per ragioni che non ci sono mai state chiaramente spiegate, questo tipo di letto ha di sotto un lenzuolo, ma al posto del lenzuolo superiore vi è una specie di traversino più o meno spesso, la cui superficie, accuratamente calcolata, è così limitata da rendere impossibile rincalzare il letto. Questo tipo di biancheria sconcerta il francese, che ama dormire col corpo completamente abbandonato ai misteri della notte. Con un po' di allenamento e molta

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destrezza, si può soddisfare questa debolezza nazionale, accartocciandosi con sapienza senza lasciare mai la posizione che si è con molta fatica conquistata. Non sembra però che ai nostri giorni esista ancora un procedimento che possa evitare l'obbligo, senz'altro

igenico, di svegliarsi di colpo con il dorso scoperto.

* * *Oggi, obiettivo: Berlino. Cinquecento chilometri d'autostrada. I cinquanta

chilometri di autostrada francese non soddisfano il desiderio dell'automobilista ed è con vera gioia che mi lancio su questa impeccabile autovia. Le automobili si raggruppano da sole in piccoli convogli che vanno a velocità variabili da ottanta a centosessanta chilometri all'ora.

Il mio istintivo patriottismo si eccita per la presenza degli osservatori stranieri che ci precedono, ci seguono e ci sorpassano, con insolenti schioppettii. Decisissimo a mettere in mostra la supremazia della vettura francese, disprezzando ogni prudenza, filo alla rompicollo e riesco, nelle discese, a portare la nostra vecchia 203 a centoquindici l'ora.

Capisco subito che a questo regime la macchina stracarica consuma tanto olio e tanta acqua quanta benzina e, rodendo il freno, mi accodo ad un convoglio di vecchi carrettoni che volano a quota massima 70. A questa andatura, la marcia sull'autostrada diventa eccitante come una passeggiata a piedi in novembre. Dopo centosessanta chilometri senza mai cambiare velocità, il mio piede destro, stanco di non muoversi, fa conoscenza con il pernicioso crampo del guidatore. Fortunatamente, la prospettiva, piacevolmente inquietante, del prossimo passaggio della cortina di ferro occupa i nostri pensieri.

A poco a poco le macchine si fanno più rare; nell'altra corsia dell'autostrada c'è il deserto. Sono le 18; il sole comincia a tramontare; il paesaggio diventa più aspro. Costeggiamo una fitta foresta che ci appare sinistra. La frontiera tra le due Germanie deve essere vicinissima.

Turbata, quasi come il suo signore e padrone, la mia sposa mi si avvicina e con convinzione mormora: « Saremmo stati così tranquilli sulla Costa Azzurra! ».Bruscamente ci arrestiamo dietro un'immensa fila di macchine ferme. E' la frontiera.

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CAPITOLO III

FINALMENTE UNA VERA FRONTIERA

La scena non fa molto « cortina di ferro ». Vado a raccogliere notizie. La coda è lunga quasi due chilometri. Dato il ritmo del passaggio, bisogna prevedere cinque ore di attesa, cioè l'arrivo a Berlino alle due del mattino e, verosimilmente, porte chiuse all'albergo.

Congenitamente ardita, Mirella mi esorta con energia ad oltrepassare di colpo la fila allineata germanicamente.

Ho l'orrore di affrontare apertamente grossi rischi, ma dopo un quarto d'ora di tergiversazioni, cedo, sotto l'impeto della necessità. Dicendo mentalmente: «Alea jacta est», mi raggomitolo ignobilmente il più possibile sul mio sedile. Incomincio ad oltrepassare centinaia di veicoli, mentre Mirella, trionfante e sdegnosa, affronta lo sguardo di disapprovazione degli equipaggi fermi.

In qualche decina di secondi arriviamo al posto di dogana, che consiste in una serie di baraccamenti, ai quali vengono ammesse quindici macchine alla volta. Da una parte e dall'altra della dogana ferri spinati s'affondano nella foresta. Dalle macchine che ci circondano, alcuni tedeschi scendono precipitosamente e corrono a fare la coda davanti a vari sportelli. Faccio altrettanto, ostento i miei documenti di dogana e mi ritrovo naso a naso con un doganiere che non capisce una parola né di francese né d'inglese. Che fare? Osservo con invidia attorno a me i tedeschi che saltano abilmente da una coda all'altra mostrando documenti e facendo mettere timbri su degli altri. Non un doganiere che mi capisca e viceversa. Non ne uscirò mai.

Dopo mezz'ora di vane mimiche, decido di affrontare le autorità. Dopo interminabili su e giù, riesco a fare interessare della mia sorte un personaggio probabilmente importante che capisce come io non riesca a farmi capire e che accondiscende a sfogliare i miei due passaporti. Mi fa sedere e, per aiutarmi a passare il tempo, mi fa segno che posso leggere degli opuscoli di propaganda che sono ammonticchiati su di un tavolo vicino.

Passo una prima mezz'ora a leggere un opuscolo intitolato « Berlino-Ovest, baluardo della reazione, anticamera del pericolo di guerra », e una seconda nella lettura di un'opera che dimostra come il teatro e la musica hanno

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cominciato veramente a vivere solo nella Repubblica Democratica Tedesca e dal 1945.

Dopo un'ora buona d'attesa, un doganiere giudicato capace di parlare inglese è distaccato presso di me. Non comprendiamo una parola di ciò che ci raccontiamo, ma, grazie alla tenacità d'entrambi, dopo un'altra ora, riusciamo a sbrigare la metà delle formalità. Ma, chiaramente esausto, il mio amico a questo punto mi lascia ed io mi ritrovo più solo che mai. Abbranco con forza un suo collega, non giudicato capace di parlare inglese e che non trova difficoltà maggiori dell'altro a comprendermi. Gli è necessaria appena mezz'ora per spiegarmi che bisogna ch'io trovi dieci marchi della Germania-Est per pagare il passaggio sull'autostrada.

Un terzo funzionario mi fa capire che la mia dichiarazione circa il denaro francese che porto è insufficiente e che io nascondo certamente dei soldi nell'automobile. Forte della mia innocenza, protesto con indignazione e propongo una visita ai bagagli. La proposta è accettata immediatamente.

Per più di tre ore, sempre più esasperata, Mirella ha visto sfilare tutte le macchine che abbiamo, con grande rischio, sorpassate.

I sospetti della dogana mettono fuoco alle polveri.Angosciato, presagisco degli incidenti spiacevoli.Per evitare il peggio, con una mimica veramente espressiva, tento di

incitare il rispettabile doganiere alla moderazione.Il mio interlocutore sembra più turbato che convinto delle mie smorfie.

Purtuttavia, comprensivo o prudente, disdegna i bagagli e si limita simbolicamente ad aprire la scatola dei guanti.

Catastrofe! E' là precisamente ch'io ho ammucchiato i trecento pezzi di monetine da un franco destinate ai bambini russi.

Il brusco gesto del funzionario ha rotto l'instabile equilibrio e le monetine piombano con gran spettacolo a flutti sulle ginocchia inorridite di Mirella.

Sbalordito come un pescatore che riesce ad agganciare un luccio di cinque chili, il doganiere è persuaso d'aver smascherato dei terribili trafficanti internazionali.

Parlando e gesticolando, noi tentiamo disperatamente di spiegare che un franco non è che un franco.

Per farsi capire meglio, Mirella getta esplicitamente un pugno di monete nella campagna.

Questo gesto sventurato non fa che inasprire l'esaltazione del doganiere, sicuro ormai che noi vogliamo cancellare le tracce del nostro misfatto.

Aggrappato alla portiera per prevenire ogni tentativo di fuga, richiede

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rumorosamente dei rinforzi.Molti soldati, arma in pugno, sopraggiungono immediatamente a passo di

corsa.Uno stuolo di curiosi, attirati dal baccano, s'aduna, senza alcun

divertimento, attorno a noi.Chiamo la folla a testimonio della mia buona fede.Esibisco un pezzo da un franco, facendo notare, con una espressione di

disgusto non simulata, il suo poco valore.In questo preciso momento il cielo stima senza dubbio che le nostre prove

sono durate abbastanza.Un conducente di autotreno, che ha assistito alla scena senza dire una

parola, esce dai ranghi come San Giorgio, e comincia a spiegare ai nostri torturatori che un franco è un franco.

Con nostro gran sollievo, in una mezz'oretta di chiarificazioni, riesce a rimettere le cose a posto.

Dopo esserci congratulati calorosamente col nostro salvatore, valichiamo alfine questa diabolica « cortina di ferro ».

Sono le dieci di sera. La notte è caduta, e noi abbiamo ancora due ore di strada per Berlino. Percorriamo sempre la stessa autostrada. Anche se si paga, l'autostrada è molto meno curata che all'Ovest. Una sola delle due corsie è generalmente usata.

Un sistema di giri e rigiri mal segnalati incanala la circolazione ora a destra, ora a sinistra, ora su tutti e due i lati. E noi non siamo mai sicuri d'essere dalla parte giusta, il che è veramente contrario alla prudenza, perché questo modo di procedere può farvi trovare sulla traiettoria d'una Mercedes di due tonnellate che circola a 180 all'ora.

IL « BERLINER RING»

A una ventina di chilometri da Berlino, entriamo senza troppe difficoltà nel « Berliner Ring », cioè nell'isolato territorio di Berlino-Ovest.

Siamo dunque un'altra volta nella Germania Occidentale. Ne siamo un po' delusi.

Il primo contatto con la Germania-Est ci ha lasciati a bocca asciutta.Questo lungo percorso notturno sull'autostrada è stato istruttivo quasi

come l'attraversare un tunnel.E' quasi mezzanotte quando arriviamo a Berlino, illuminata come in pieno

giorno da una vera moltitudine d'insegne luminose.

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Al primo incrocio, domandiamo la strada dell'albergo ad un giovane motociclista che sembra non saper che fare della sua scintillante motocicletta.

Come in una scena che si ripete regolarmente, con una strizzatina d'occhio, ci fa segno che si occupa di noi, si butta sul suo ordigno e ci invita a seguirlo, come il ciclista di Colonia.

Attraversiamo Berlino a 100 chilometri all'ora, al seguito del nostro centauro visibilmente entusiasmato di scoppiettare utilmente.

Questo giovane bullo, bardato da capo a piedi di cuoio luccicante, evoca irresistibilmente il « motociclista » di Edith Piaf.

Egli monta la sua cavalcatura con lo stesso ardore che dovevano manifestare i prodi cavalieri caracollanti sui loro destrieri schiumeggianti.

Ogni epoca, ogni età ha i suoi piaceri, ed è un gran bene.Qualche minuto ci basta per raggiungere il nostro alloggio, dove, malgrado

l'ora tarda, siamo accolti benissimo.Dopo un sonno ristoratore, evitiamo la solita discussione del mattino, che

ha per scopo il decidere chi farà la sua toilette per primo, perché la nostra camera, dove tutto è previsto per la pace familiare, dispone di un ingegnoso doppio lavabo, che permette di lavarsi, pettinarsi, ecc. l'uno di fronte all'altro.

L'albergo è assai comodo, ma deserto.Berlino-Ovest è un angiporto assai prospero, ma privo d'interesse per il

turista medio preoccupato di dover fare un'andata e ritorno di mille chilometri per visitare una metà della città, senza un retroterra.

Il Führer aveva promesso che, come i suoi predecessori, si sarebbe limitato a portare la guerra « fresca e lieta » in territorio nemico.

Berlino non sapeva cos'era la guerra. L'iniziazione è stata terribile. Non un casamento è stato risparmiato.

I berlinesi hanno compiuto uno sforzo gigantesco per cancellare le tracce del cataclisma.

Ci sono riusciti solo a metà.I soli testimoni della guerra sono degli spazi sinistramente vuoti: ma, tra gli

immobili restaurati, i palazzi troppo nuovi rassomigliano a delle cicatrici.I negozi rigurgitano di merci, ma l'antica capitale per ora non ha più

l'anima.L'ambiente, dall'aria americana e insolita, non è più nemmeno tedesco.Un po' disorientati, cerchiamo il settore d'occupazione francese.In verità, la divisione di Berlino-Ovest in settori è del tutto simbolica.Finiamo per scovare, alle porte di Berlino, una caserma francese. Parliamo

con dei compatrioti che assicurano di annoiarsi proprio come a Mourmelon.

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Facciamo invano venticinque chilometri alla ricerca del giardino botanico, una vera meraviglia che non conosceremo mai.

Comperando un rullino per film, facciamo amicizia con un fotografo che è convinto di conoscere un eccellente ristorante, dove ci facciamo condurre da lui per consumare il nostro ultimo pasto in territorio occidentale.

Il l mangiare è mediocre, tanto più che commettiamo l'imprudenza d'accettar di innaffiarlo con della birra champagnizzata.

Il nostro fotografo aveva quattordici anni alla fine della guerra. Ha vissuto un anno in una cantina e non ama riparlare di quell'epoca.

E' molto più loquace sui rapporti Est-Ovest.Ogni giorno duemila tedeschi fuggono dalla Germania-Est.Berlino-Ovest è diventata una vera stazione di smistamento, da dove i

fuggiaschi sono spediti in aereo nella Germania-Ovest.Per i tedeschi dell'Est è sempre più difficile poter partire.Le sentinelle hanno l'ordine di tirare a vista su tutti quelli che vogliono

forzare la frontiera.In più, coloro che amano il modo di vivere occidentale devono

abbandonare tutto, soprattutto debbono lasciare quelli che non possono arrischiare fisicamente una tale impresa.

Domando se qualche tedesco dell'Ovest ha mai tentato di fare il viaggio inverso.

Il fotografo mi guarda come se fossi completamente pazzo.Lui, personalmente, non ha mai visitato il settore Est, anche se si trova a

duecento metri dal suo negozio, per la paura di non poterne più tornare.Al mio atteggiamento un po' incredulo, risponde semplicemente: «

Vedrete! ».

COLPO D'OCCHIO SUL PARADISO

E qualche ora dopo, vediamo.Penetriamo nel settore Est attraverso la famosa porta di Brandeburgo.

Poche o niente formalità.Il soldato russo di guardia è rassicurato dalla marca francese della

macchina e dall'assenza di bagagli e di passeggeri.Abbiamo l'impressione di fare un cattivo sogno, di attraversare la

caricatura di una città. Siamo a Boulogne-Billancourt nel 1944, qualche settimana dopo i bombardamenti.

Poi tutto cambia. Ecco delle intere strade perfettamente intatte. Sono le sole

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sfuggite ai bombardamenti. I russi hanno scelto bene il loro settore.Giriamo a caso.Gli immobili sono incredibilmente in cattivo stato e mal tenuti; le botteghe

chiuse o moribonde. Per dei chilometri pare non sia stato dato da anni un colpo di pittura. I passanti hanno un aspetto fosco, stanco, rassegnato. Badano alle loro occupazioni con lo stesso entusiasmo che metterebbero nel fare il giro dei cimiteri nel giorno di Ognissanti. Immense effigi di Lenin contemplano con aria soddisfatta questo spettacolo di desolazione.

Bastano cento o cinquanta metri di settore Est, per capire perché, ogni giorno, centinaia d'individui abbandonano tutto, rischiando la vita per ritrovare le nostre turpitudini occidentali.

Come delle farfalle attirate dalla luce, ci ritroviamo nel men che non si dica davanti alla porta di Brandeburgo, che ci sembra di colpo l'entrata di una miracolosa oasi d'abbondanza.

Raggiungiamo subito l'albergo.In questo piacevole ambiente ci sentiamo mordere la coscienza al pensiero

delle spaventose condizioni di vita che abbiamo intraviste a qualche centinaio di metri da qui.

Mirella mi domanda se ciò che ho già visto non mi basta e mi supplica, ancora una volta, di rinunciare a questo stupido viaggio.

L'arrivo di due automobili francesi crea un utilissimo svago e mi evita di dover rispondere.

Sono un medico e un garagista, che viaggiano l'uno con sua moglie, in una 403, e l'altro solo in una rombante Simca-Sport.

Hanno i nostri stessi progetti e provano un po' di pietà di noi, quando diciamo che il nostro viaggio è organizzato fino a Yalta.

Per ciò che li concerne, hanno combinato tutto fino a Mosca, che è obbligatorio. Di là, pensano d'andare a Yalta o nel Caucaso coi loro propri mezzi, in auto o in aereo, ritornando per la Finlandia e la Danimarca.

Sono ancora più pazzi di noi.Davanti alla nostra aria stupefatta e ammirata, accennano al loro vantaggio,

spiegandoci come le agenzie parigine sono degli intermediari costosi, tanto più inutili in quanto in Russia si può viaggiare liberamente e comodamente come in Francia: basta arrivare a Mosca.

Non nascondono d'essere progressisti e di avere un concetto favorevolissimo dell'U.R.S.S. e delle sue realizzazioni.

Dentro di me sghignazzo quando il medico racconta indignato che, nel pomeriggio, a Berlino, un algerino ha sputato sul suo parabrezza, quando lui

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è di tutto cuore per l'indipendenza dell'Algeria.Ci rivedremo sicuramente, perché il loro itinerario fino a Mosca è come il

nostro, con un intervallo di ventiquattro ore.

LE VACANZE COMINCIANO

Lasciamo Berlino molto presto, nella speranza, che si rivelerà insensata, di far colazione a Poznan.

Ritroviamo la porta di Brandeburgo e Berlino-Est più desolati che mai. Pare ci sia un'autostrada per andare a Poznan.

Dalla mia carta risulta che dovremo passare per Kustrin e Schwerin.Non c'è un solo cartello d'indicazione e domandiamo la strada ai poliziotti.Incontriamo finalmente un cartello che segnala, tra le altre città, Schwerin.L'autostrada diventa sempre più cattiva, ma siccome vediamo sempre

l'indicazione: Schwerin, continuiamo.I nomi delle città che accompagnano sui cartelli Schwerin mi sembrano

sospetti quanto lo stato della strada: domando a Mirella di verificare sulla carta a quanti chilometri questa città si trova da Berlino.

Mirella mi risponde: settanta chilometri, il che corrisponde perfettamente alle indicazioni dei cartelli.

La strada è così cattiva che ci mettiamo due ore per fare cinquanta chilometri.

Domandiamo in continuazione la strada, precisando: Schwerin, Poznan, Varsavia e mostrando a tutti la carta.

Gli indigeni, sempre più laceri, mi fanno ineluttabilmente segno: « sempre dritto », con un'aria abbrutita che non promette nulla di buono.

Approfitto di una stazione di rifornimento di benzina per fermarmi ed esigere delle precisazioni.

La stazione funziona all'incirca come una casa cantoniera abbandonata da cinque anni.

Il pompista mi fa segno che non c'è benzina: ciò è naturale.Miracolo! L'impiegato — Dio sa come, poiché non c'è tracciané di benzina, né d'automobili — parla francese.Questo infelice, con l'aria di un vagabondo, è completamente pazzo. Io gli

parlo di Poznan e lui mi risponde: « Montmartre... », con un ghigno che vorrebbe essere vizioso.

Dove ha potuto onesto povero essere imparare il francese e come mai è finito qui?

Entro di prepotenza nella capanna. Su di un muro è inchiodata una vecchia

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carta bisunta.Spiego ai curiosi accorsi che voglio andare a Poznan, Varsavia, ecc...Immediatamente risuona uno scoppio di risa omeriche. Il pompista,

picchiandosi sulle cosce, mi spiega che ci sono due Schwerin, situate l'una e l'altra a ottanta chilometri da Berlino. Ma quella alla quale noi ci stiamo avvicinando è a trenta chilometri dalla Danimarca e dal mare del Nord. Non bisogna d'altronde passare per l'altra Schwerin, ma per Francoforte, che è a trenta chilometri da Berlino e a cento da qui.

Ripartiamo alla ricerca di Francoforte. La regione che attraversiamo sembra essere ripiombata nel Medio Evo. Se avremo un qualsiasi guasto, non ne usciremo più. Nella macchina regna un silenzio pieno di rimproveri.

Dopo tre ore di brancolamenti, di manovre e contromanovre, raggiungiamo Francoforte, completamente esauriti.

LA TREDICESIMA FATICA D'ERCOLE

E' mezzogiorno. Siamo partiti verso le sei del mattino: ci restano duecento chilometri da fare, una frontiera da attraversare, per arrivare a Poznan, e cinquecento chilometri, per essere a Varsavia, dove dobbiamo passare la notte.

All'uscita da Francoforte, come sempre, nessuna indicazione stradale. A fatica scopriamo l'autostrada che attraversiamo molte volte prima di poterci introdurre nella parte giusta.

Dopo un'ora, arriviamo alla frontiera tedesco-polacca.La dogana tedesca è su di un ponte che scavalca delle paludi. Il posto è

davvero sinistro.Dall'altra parte della barriera chiusa, i doganieri rovistano nel contenuto di

una 15 CV francese targata Pas-de-Calais, che esce dalla Polonia. Tutti i bagagli sono sparsi per terra. Una perquisizione che non è una burla.

Dopo tre quarti d'ora, decido di preparare le mie valute, una parte delle quali è dissimulata in un blocco di carta da scrivere.

Sciagura! Il blocco non è nella valigia! L'ho dimenticato all'albergo.La somma è troppo importante per lasciarla. Bisogna ritornare a Berlino.Sotto lo sguardo meravigliato dei doganieri, facciamo dietro-front.Berlino è a cento chilometri. Mirella non dice quasi niente, è questo che mi

inquieta.Al ventunesimo chilometro, uno sguardo furtivo mi rivela che sorride,

trionfante.

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Ho capito.Dopo queste prime prove e queste prime paure, se raggiungiamo Berlino,

lei non accetterà mai più di riprendere la strada dell'Est.Costretto dalla necessità, tento di ricostruire il « curriculum vitae » di

questo diabolico bloc-notes. Non sarà in un'altra valigia?Mi fermo per scrupolo di coscienza. Comincio le ricerche aprendo senza

convinzione la mia borsa. Vi scopro istantaneamente il famoso blocco.Senza lasciare alla mia sposa il tempo di reagire, approfitto della completa

mancanza di traffico per fare mezzo giro su me stesso, superando il balzo che separa le due vie.

Sono passate le due quando arriviamo di nuovo davanti al posto di frontiera.

I doganieri perquisiscono sempre la vettura di prima.E' finalmente il nostro turno.Un doganiere prende i nostri passaporti e ci fa entrare in una baracca

composta da una sala d'attesa con ai lati due uffici.Sotto le tavole bollenti dal sole, il caldo è intollerabile: andiamo ad

aspettare fuori.Questo punto domina dall'alto una curiosa valle desolata, dove s'alternano

le paludi ed i ferri spinati.Sembra che i doganieri ci abbiano completamente dimenticati.Mirella, che sente ora più che mai la stravaganza della nostra presenza in

questi luoghi inospitali, mette su un broncio sempre più provocatore.Bisogna assolutamente ch'io rallegri l'atmosfera.Ho trovato: farò qualche fotografia. Mirella adora essere fotografata. Ciò

farà un po' vacanze.Non appena ho tirato fuori la macchina dall'automobile, un doganiere

furibondo balza fuori dalla casupola bollente e mi fa rapidamente capire che bisogna essere assolutamente guasti in testa per voler fare delle fotografie in un posto così strategico.

E' circa un'ora che ho consegnato i passaporti.Sono le quindici. Mi decido ad attirare l'attenzione delle autorità sulla fame

che ci tormenta.L'impiegato che interpello brandisce i passaporti e mi dice: « Nix good ».Tento di parlamentare, ma il doganiere mi fa intendere che un interprete

sta venendo apposta per noi da Francoforte.Vengo preso dall'inquietudine.Una vecchia motocicletta arriva finalmente, portando a fatica un interprete

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rosso come un pomodoro.Beninteso, non sa una sola parola di francese, ma cianciuglia l'inglese.Mi spiega che il visto tedesco sul passaporto scade il 28, che siamo al 29 e

che bisogna ritornare a Berlino per regolarizzare la nostra situazione.Sono annientato, non ne usciremo mai.Mirella, che ha tanta voglia di passare questa sinistra frontiera, come di

buttarsi col paracadute, mal dissimula la sua soddisfazione.M'accorgo allora di una cosa straordinaria: all'entrata in Germania-Est i

doganieri hanno messo la data d'ingresso « 27 luglio », senza mettere, beninteso, la data d'uscita e questa data d'uscita è stata scritta ora, pochi minuti prima, al 28, a tal punto che l'inchiostro è ancora fresco.

Questo è troppo. Faccio appello a tutto il mio inglese per protestare.Davanti alla mia indignazione, l'interprete cambia argomento e per

mezz'ora mi pone una questione apparentemente importante, ma io non gli posso rispondere perchè non capisco ciò che domanda né dove vuole arrivare.

Il sole picchia sulla capanna dove discutiamo, e ci esauriamo senza poterci capire.

Ormai disperato, faccio appello a Mirella che riesce a comprendere finalmente l'argomento della discussione ed il motivo di tutti questi contrattempi : l'amministrazione vuol sapere ciò che siamo andati a fare allorquando abbiamo fatto dietro-front.

Perché la cosa sia più plausibile, sussurro alla mia sposa di dare una spiegazione più naturale della vera.

Senza ascoltarmi, Mirella comincia machiavellicamente a dire tutta la verità.

Il fatto più straordinario è che la nostra spiegazione è considerata valida.Tutto pare appianato.L'interprete mi chiede il certificato di dichiarazione di valuta che viene

consegnato all'entrata in Germania-Est.Per colmo di sfortuna, al momento della difficoltosa entrata in Germania-

Est, questo documento non c'è stato dato.L'interprete mi fa notare che oltrepasso ogni limite e che lui mi fa ritornare

non a Berlino, ma alla frontiera della Germania-Ovest.Questa volta, tutto è finito. L'interprete tenta di spingermi fuori della

capanna, e Mirella mi tira dall'altra parte, cantando sull'aria dei lampionai della Rivoluzione : « viva la libertà... ».

In un istante, vedo crollare tutti i miei progetti.

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Se bisogna riandare a Duisbourg, Mirella non ritornerà mai più, e, in tutti i casi, i visti e le prenotazioni non coincideranno più.

La situazione è senza uscita.Grondo di sudore: mi sento solo, abbandonato, su questo maledetto

angolino di terra tedesco-polacca.I doganieri, Mirella, l'interprete, il sole spietato, i documenti incompleti,

tutto e tutti sono contro di me.Per un vecchio fondo di tenacità gallica, ora sono spinto al cimento. E

decido di fare un ultimo tentativo.Fingo di accettare di tornare indietro.Mi dirigo verso la macchina, nella quale Mirella si precipita, chiudo lei

dentro e riparto solo all'attacco del posto di dogana.Interdetti, i doganieri mi lasciano rientrare.Mi piazzo faccia faccia all'interprete, sotto lo sguardo ostile del capo-posto.L'orologio a muro fa le sedici.Incomincio allora, in un dialetto mezzo francese e mezzo inglese, la più

difficile e la più assurda arringa di tutta la mia carriera.C'è di tutto: il mio desiderio di informarmi obiettivamente sulle

realizzazioni sovietiche, la nostra lontana colazione alle cinque del mattino, la mia ammirazione per Lenin, l'incompatibilità tra la carriera dell'avvocato e quella della spia, l'estrema stanchezza della mia sposa, la necessità di una pace universale fra tutti gli uomini.

Al punto giusto, esibisco, di volta in volta, il foglio di via dell'Inturist, la fotografia di mia madre e la tessera di membro attivo del circolo delle bocce di Bougival.

L'interprete replica a botta e risposta e finisce per mostrarmi la fotografia dei suoi ragazzi.

A prezzo di sforzi sovrumani, comprendiamo una parte di ciò che ci diciamo.

Non sappiamo più molto esattamente a che punto siamo arrivati.Viso contro viso, ci appoggiamo pressoché l'uno all'altro, come due

boxeurs affranti e grondanti al quindicesimo round d'un match per il titolo.Il capo della dogana è molto giovane, assomiglia al Pierre Fresnay della «

Grande illusione ». Brucia una sigaretta dietro l'altra. Si domanda se sono un pazzo, una spia, un imbecille o un povero diavolo in difficoltà. Sono quasi le cinque quando si decide per l'ultima definizione.

Lo sento con riconoscenza dare l'ordine di perquisire la vettura.Seguito dall'interprete e da un doganiere, mi dirigo verso la macchina dove

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Mirella si crogiola a fuoco lento.Per vendetta, il doganiere esige di rovistare nella borsa di Mirella.Estenuata da quattro ore d'attesa e di discussione sotto 40° all'ombra,

Mirella rifiuta fermamente di dare la borsa, che stringe al suo cuore.Non ho via di scelta. Di sorpresa m'impadronisco della borsa e vado a

portare la mia preda all'interno del posto di dogana.Il comandante, che ha visto la scena, mi domanda ciò che mia moglie

nasconde di tanto prezioso.Giuro sull'anima mia che non c'è niente. Spargo dimostrativamente il

contenuto della borsa sul tavolo dell'ufficio, pregando tutti i santi del cielo che non ci sia nulla di equivoco.

Assisto quindi a ciò che vien chiamata una perquisizione scientifica. Il minimo oggetto, ivi comprese le sigarette e il rossetto pelle labbra, è soppesato, fiutato, sondato, e tutto questo, per l'intera borsa, fa perdere tre quarti d'ora.

Applico mentalmente la regola del tre per calcolare la somma di tempo che sarà loro necessaria per usare la stessa tattica con le mie sette valigie.

Per fortuna il posto di dogana, unanime, ne ha d'improvviso fin sopra i capelli di questi francesi scappati Dio sa da dove.

Bruscamente ci viene dato l'ordine di levare le tende in direzione della Polonia.

Non me lo faccio dire due volte.Abbandonando senza dispiacere i due chili che ho perso nella baracca, mi

slancio verso la Polonia.

CAPITOLO IV

P O L O N I A

La dogana polacca è miseramente installata sotto una tenda, all'altra estremità del ponte.

I polacchi sono incantevoli. Basta mezz'ora per espletare le formalità.Sono quasi le 19. Abbiamo impiegato cinque ore e mezza per passare la

frontiera.Siamo sfiniti e senza energia alcuna, ma i nostri affanni sono terminati.

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La strada, fino alla fine del ponte, sembra buona. Prendiamo un'autostrada.Dopo poche centinaia di metri, l'autostrada si divide in due tronconi, senza

che alcun cartello precisi quale conduce a Poznan e quale a Varsavia.Non un'anima viva in vista. La saggezza vorrebbe che tornassi indietro per

domandare ai doganieri la strada.Ma è talmente tardi ed abbiamo un tal ricordo del ponte che, di comune

accordo, a caso, imbocchiamo il troncone di destra.La strada è sempre deserta. Ad ogni chilometro diventa sempre più cattiva.Infine scorgiamo, dopo una ventina di chilometri, un contadino.Rallentiamo. L'uomo è in uno stato di sporcizia repugnante, potrebbe

essere un modello ridotto dell' « abominevole uomo delle nevi ».I capelli e la barba gli escono dappertutto; si prende la briga d'assomigliare

al suo personaggio al punto tale da rispondere alla mia domanda con un grugnito.

Questo incontro ha terrorizzato Mirella. Ne approfittiamo per riconciliarci.Qualche chilometro più avanti, incrociamo una piccola vecchia auto

polacca, che si trascina con fatica sulla strada.Facciamo delle domande e crediamo di capire di non essere nella direzione

giusta, ma che prendendo la prima a sinistra raggiungeremo la via per Poznan.

La strada in questione è un sentiero di terra battuta. Vi scopro però delle tracce di pneumatici e ci buttiamo.

Marciamo a 25 l'ora, senza troppe difficoltà. Ogni tanto scopriamo una catapecchia.

Se dovessimo avere un guasto in questa zona, vi finiremo i nostri giorni.Raggiungiamo la strada per Poznan in piena notte.Arriveremo nella celebre città polacca verso la mezzanotte e vi dovremo

mangiare.Ciò che abbiamo visto della campagna polacca non ci lascia presagire per

questa tappa, non prevista, nulla di buono.Pieni d'apprensione, ci dirigiamo verso l'albergo « Bazar », il cui nome

figura sul buono per i pasti.Con nostra grande sorpresa, l'albergo è estremamente confortevole.L'albergatrice parla un francese impeccabile. Non ci fa alcuna difficoltà per

ospitarci.Malgrado l'ora tarda, mangiamo molto bene e saliamo subito nella

magnifica camera da letto di settanta metri quadrati che ci è assegnata.Ad onta della fatica, ci addormentiamo con difficoltà, perché con l'aiuto

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d'un vecchio tram e di qualche carretto, i polacchi trovano la maniera di fare tanto rumore quanto quello che c'è in una capitale occidentale.

* * *

Facciamo la prima colazione in una sala arredata elegantemente.A un tavolo vicino un grosso prete tedesco scandalizza gli astanti con il suo

plutocratico appetito.Questo formidabile personaggio deve misurare due metri d'altezza ed

altrettanti di circonferenza.Con gran fracasso, beve e mangia contemporaneamente carne, uova, birra,

vino, caffè e latte e acqua minerale. Non sa più, evidentemente, dove mettere la bocca davanti alla quantità inverosimile di recipienti che gli si offrono.

* * *Ci dirigiamo verso Varsavia per una strada piuttosto nuova e

convenientemente asfaltata.I bambini sono tutti a piedi nudi.Imbevuti della tradizionale amicizia franco-polacca, ci adoperiamo a far

loro dei segni amichevoli.Durante la traversata di Zasutawa, vicino a Poznan, un bimbo sputa verso

la nostra macchina. Con nostra grande meraviglia, la stessa scena si ripete una decina di volte: altri bambini ci gettano dei sassi.

Gli adulti stessi ci lanciano sguardi ostili e si voltano al nostro passaggio.Entrando a Konine, un operaio cantoniere ci mostra il pugno. Esacerbati, ci

perdiamo in congetture.A Varsavia veniamo a sapere che queste manifestazioni di amicizia sono

dovute al fatto che la nostra 203 grigia rassomiglia, al punto d'esserne confusa, ad una Pobieda sovietica.

La strada è piena di vecchi carretti. Si potrebbe credere che è occupata per girare delle scene di «Michele Strogoff».

Per uno strano fenomeno di mimetizzazione, i convogli di fieno cominciano a prendere la forma di bulbi.

Faccio osservare a Mirella che il numero di quelli che manifestano la loro ostilità pare dimostri che lo si può fare impunemente.

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Scorgiamo da lontano un ciclista, che disegna delle S con notevole virtuosismo, usando tutta la larghezza della strada.

Infatti è ubriaco, come tutti i polacchi. Lo evitiamo per un filo, facendo degli otto in senso inverso.

Vicino a Kowitz incontriamo una Dauphine, vittima di una foratura.I suoi occupanti sono tre giovani parigini, tra cui una ragazza, che si sono

arrischiati a partire per Mosca con dei pneumatici usati.Questa loro imprudenza è stata fatale sulle strade polacche, dove i carretti

traballanti lasciano cadere i loro chiodi con la naturalezza con cui i cavalli il loro sterco.

Sono alla loro quinta foratura in cento chilometri. Le loro due ruote di scorta sono sventrate. I pneumatici bucati possono essere vulcanizzati solo a prezzo d'oro. Il responsabile della spedizione malcela la sua inquietudine.

Forte delle mie due ruote di scorta, propongo loro fraternamente di procedere in fila serrata. Accettano la mia offerta con effusione e partiamo di conserva.

Senza riguardo alcuno per i loro pneumatici stanchi e la strada deformata, i nostri giovani compatrioti forzano a 115 l'ora in una tempesta di polvere.

Aggrappato al volante, tento di conservare il contatto.Accecato dalla polvere, assordito dalla voce della coscienza e da quella di

Mirella, ci rinuncio e lascio con nostalgia la « giovane Francia » lanciarsi verso il suo destino.

VA R S AV I A

Arriviamo alle porte di Varsavia.Entrando nei sobborghi della città, vengo ancora assalito dallo stesso

rimorso di coscienza che provai molto tempo fa, quando varcai senza necessità la soglia di una camera dove agonizzava un moribondo che non conoscevo.

Cosa può restare di questa città sfigurata da tanti supplizi?Per ragioni oscure, o meglio senza ragione alcuna, le armate di tutta

Europa, e per lo più quella dello Zar, hanno periodicamente massacrato questi poveri diavoli colpevoli solo d'occupare una sciagurata posizione geografica tra la romantica Germania e la santa Russia.

Siamo quasi sorpresi di constatare che, in questo che fu così spesso un inferno, sopravvivono uomini, donne, bambini, alberi, fiori, chiese.

Mirella mi legge, dal « Baedeker » del 1893, le pagine consacrate alla

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Varsavia dell'epoca:« Gli uomini impressionano quasi sempre per la loro alta statura e per la

loro forza fisica...« Gli ebrei sono circa l'ottava parte della popolazione. Con la vita, l'attività,

l'importanza del commercio di cui Varsavia è il centro, si dimenticano i tristi avvenimenti dei nostri giorni in questa città... » (1).

Il perpetuo ripetersi della storia non è un mito.Non ci sono tuttavia più ebrei e non più polacchi di alta statura.Alla conclusione delle guerre napoleoniche, la media misura dei francesi

era diminuita di otto centimetri. Qui la diminuzione sembra arrivare ad un quarto di metro.

Il centro di Varsavia è completamente e fedelmente ricostruito.Prima di cena, domandiamo al portiere dell'albergo l'indirizzo d'un caffè

tipicamente polacco.Vi troviamo le cameriere in costume nazionale.Un avventore, solo ad un tavolo vicino, ha notato, per le nostre tenute da

turisti, che siamo stranieri.Ci rivolge la parola in tedesco.Lo disinganniamo con l'aria indignata. Si scusa in francese.Di colpo, il pianista cessa di suonare e degli applausi frenetici scoppiano da

ogni dove; dietro di noi, un tavolo di donne sole urla il suo entusiasmo.I camerieri e le cameriere partecipano all'esaltazione generale.Il lnostro vicino ci sussurra nel cavo delle orecchie: « Sono arie di Lwow ».Non vedendo reazione alcuna da parte nostra, completa: «Lwow, grande

città polacca occupata dai russi ».Il suo sguardo brilla di uno splendore insostenibile.In questo caffè nel cuore di Varsavia, abbiamo la violenta rivelazione della

meravigliosa anima polacca, indomabile ed appassionata.Non siamo più sorpresi del folle eroismo di questi soldati, che — uno

contro venti — si sono battuti senza speranza d'aiuto di fronte ai tedeschi ed ai sovietici coalizzati.

Ci sentiamo lietissimi d'appartenere ad un paese amico e stimato da questo popolo che assai spesso vien definito : « i francesi dell'Est ».

Riusciamo a fare più ampia conoscenza col nostro vicino. Ci propone di visitare Varsavia. Accettiamo con entusiasmo e partiamo nella nostra macchina.

Abbiamo un'appassionante discussione.

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Il nostro nuovo amico si chiama Stanislao. E' favorevole a Gomulka, senza nascondere che, in un certo senso, è un privilegiato del nuovo regime. Ciò non gli impedisce di detestare la Russia, come il 98% della popolazione, secondo i suoi discorsi.

E' persuaso che Gomulka fa del suo meglio, nel limite dei suoi poveri mezzi, per addolcire la sorte del suo Paese.

Paragona il suo destino a quello del nostro Pétain.Osservo che l'odissea di Pétain non ha nulla di allettante.Stanislao, lo sguardo lontano, approva:« So bene ciò che ci aspetta. I russi non hanno torto a stare in guardia

perchè alla prima occasione, al primo sintomo di debolezza, il risveglio polacco sarà terribile: saremo le prime vittime: ci considerano, sicuramente, di già dei traditori. Per ora, noi facciamo il meglio possibile... ».

Una specie di deformazione professionale mi riprende e subito mi chiedo s'egli si fida di noi, cosa nasconde il suo profilo alla Kosciusko, la sua nuca forte e corta? E' un eroe, un traditore o semplicemente un chiacchierone?

Davanti alle rovine del ghetto, Stanislao elenca con tranquillità cifre e dettagli allucinanti.

Senza interruzione alcuna, visitiamo l'inevitabile stadio da centomila posti, che è il sogno di tutti i dittatori.

Cammin facendo, attraversiamo la lugubre Vistola.Stanislao ci dice, mostrandoci la riva Est:« E' là che nel 1945 i russi si sono fermati e sono restati, le armi in sicura,

mentre dall'altra parte gli abitanti di Varsavia si sollevavano e si facevano massacrare dal primo all'ultimo ».

Gli domando per quale ragione i russi si sono fermati. Stanislao fa una pausa. Si vede che si sforza per rispondere con obiettività :

« Ero a Varsavia a quell'epoca: l'Armata Rossa volava di vittoria in vittoria; avanzava di cento chilometri alla volta.

« Degli emissari ci hanno incitato a sollevarci. Con un indescrivibile entusiasmo, abbiamo occupato parecchi quartieri.

« L'armata sovietica è arrivata sulla Vistola, poi s'è inspiegabilmente fermata.

« Ogni notte nuotatori polacchi attraversavano il fiume per implorare soccorsi. Invano. Ciò è durato più giorni.

« I tedeschi hanno ripreso coraggio. Hanno riconquistato la città quartiere per quartiere. Quasi tutti i nostri sono stati sterminati.

« Mi domando ancora perchè i russi si sono arrestati; non lo so veramente:

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nessuno lo sa con esattezza. Mi tormenta l'idea di credere alla volontà machiavellica di lasciar massacrare i migliori dei nostri.

« Ciò che è sicuro e importante è la persuasione della grande maggioranza del popolo polacco: che essi hanno voluto questo massacro ».

Stanislao si lascia, di botto, trascinare dal discorso:« Cosa volete che facessimo? Da una parte avevamo i tedeschi che

aspettavano solo un'occasione favorevole per riprendersi i nostri nuovi territori; dall'altra i russi che hanno per lo meno il merito di volere e potere ora garantire le nostre frontiere con l'Ovest.

« Cinque milioni dei nostri si sono fatti massacrare. Non trovate che è abbastanza?

« Cosa avete fatto voi per gli ungheresi nel 1956 ? Discorsi. E' facile criticare Gomulka, ma s'egli avesse fatto una qualsiasi cosa, chi veniva in nostro aiuto? ».

Un po' sconcertato per questo repentino sfogo, vorrei replicare che noi abbiamo dichiarato la guerra nel '39 per rispondere all'aggressione tedesca alla Polonia, ma mi ricordo a tempo che abbiamo fatto scoppiare il più gran conflitto di tutti i tempi per evitare che qualche migliaio di polacchi divenissero tedeschi e che, dopo la vittoria, non abbiamo detto nulla quando molti milioni sono diventati russi.

Arriviamo davanti alla più alta costruzione della nuova Varsavia. Questo immenso grattacielo è il palazzo della Cultura. Pare sia un regalo dell'U.R.S.S. alla capitale polacca.

Mi piacerebbe molto visitare questa prima testimonianza della cultura sovietica, ma Stanislao dichiara così autorevolmente che non è per nulla interessante, che non insisto.

Per tre volte, rincontriamo la « giovane Francia » che attraversa in continuazione Varsavia alla ricerca di un pneumatico.

Dopo che se ne sarà occupato l'ambasciatore di Francia ed al prezzo di 300 NF, finiranno per scoprire un pneumatico dal diametro di 10 centimetri più grande di quello d'origine.

Dopo pranzo, ritroviamo Stanislao con sua moglie, ma l'incanto è rotto.Cerchiamo di paragonare il livello di vita francese col polacco: la maggior

parte degli oggetti necessari e specialmente il vestiario e le scarpe hanno prezzi allucinanti. Ci domandiamo per qual prodigio i polacchi e le polacche riescono ad essere vestiti così correttamente.

Un importante mercato nero è alimentato essenzialmente da pacchi postali provenienti dall'Europa e dall'America. Per vivere decentemente, il polacco

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medio deve fare quasi sempre due giornate di lavoro al giorno.Stanislao è funzionario durante il giorno e artigiano-pittore la sera ed i

giorni festivi.Il giorno dopo lasciamo Varsavia assai presto per arrivare, come previsto, a

mezzogiorno, alla frontiera russa.Da Bruxelles, ho mandato una cartolina all'Inturist per avvertire la nostra

guida che saremo a Brestlitovsk a mezzogiorno.La strada è buona e il cigolio del motore si sente appena; per una volta

saremo puntuali.Incontriamo delle interminabili file di carretti carichi di paglia.A Uredzyrzec, novanta chilometri dalla frontiera, di colpo mi accorgo che

la direzione dell'albergo Bristol non ci ha ridato i passaporti.Con la prospettiva di cento chilometri in più ed un pasto in meno, faccio

rabbiosamente dietro-front, mentre Mirella si lascia scappare una eccellente occasione per mostrarsi magnanima.

Raggiungiamo Varsavia, senza uno sguardo alla Vistola, che attraversiamo per la quarta volta.

Alla direzione dell'albergo, mi lamento ingiustamente con una impiegata, che fortunatamente ha ben altre gatte da pelare.

Per tagliar corto alle mie geremiadi, mi incoraggia: « Non lagnatevi, in confronto della Russia, questo è un paradiso ».

Mi guardo bene dal riferire questo apprezzamento a Mirella, che è fuori della grazia di Dio, e con aria disinvolta, i passaporti nella tasca, riparto per l'Est.

Con un intervallo di tre ore, rincontriamo i convogli di prima che vanno verso Varsavia. Durante la mia andata e ritorno, hanno percorso non più di venti chilometri.

FRATERNIZZAZIONE

Lungo la strada carichiamo un autostoppista, che va a Siedlice. Sembra un uccello spennacchiato, non capisce una parola di francese e non fa alcun sforzo per capire.

Ci deve prendere per russi.Impazzita a questa idea, Mirella s'inginocchia sul suo sedile e, voltando le

spalle al parabrezza, tenta di spiegargli a furia di «Nix russici», che siamo degli inoffensivi turisti «franzuski».

Nel suo appassionato desiderio di convincere, Mirella non si rende conto di essere minacciosa; nello specchietto, scorgo il viso terrorizzato del povero diavolo che si sprofonda nella macchina.

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Per rompere l'equivoco, mi viene un'idea: intono una vibrante « Marsigliese » che Mirella riprende immediatamente.

Senza lasciarci finire, il nostro passeggero mi allunga molti biglietti di banca e mi fa segno che è arrivato. Siamo in aperta campagna a 10 chilometri da Siedlice. A mia volta, faccio finta di non capire. In un silenzio pieno di costernazione, continuo fino alla piazza grande del paese e mi fermo.

Nel momento di scendere, il nostro poliglotta vuole ancora darmi per forza qualche zlotj: al mio rifiuto, quest'uomo, dall'aria di un vagabondo, prende la mano di Mirella e gliela bacia con una delicatezza veramente sconcertante.

Ripartiamo inteneriti.Da Siedlice a Terespol, centocinquanta chilometri, ci divertiamo a contare i

veicoli motorizzati che incontriamo. Il bilancio è magro: due vecchi trattori e una camionetta.

Invece, incontriamo ancora una quantità di carri e carretti pittoreschi. La Polonia è ancora all'era del cavallo.

Alle 15,30, siamo in vista della frontiera polacca-russa. Come dall'altra parte della Polonia, le due frontiere sono alle estremità di un ponte.

Nessuna difficoltà alla dogana polacca; ed eccoci davanti all'ultima barriera che ci separa dall'U.R.S.S.

(1) Vedi Baedeker russo, edizione 1893, pag. 12. A quell'epoca la Polonia era già totalmente occupata dalle armate dello Zar.

CAPITOLO V

INGRESSO NEL MONDO DEGLI OGGETTI

Un soldato ci fa segno d'aspettare. La dogana è un po' più lontana, alla fine del ponte.

Il caldo è torrido. Il luogo sarebbe bucolico, ma l'atmosfera è rotta da colpi di fucile sparati ad intervalli irregolari. Dovrebbe esserci una scuola di tiro nei paraggi, a meno che questo continuo schioppettare non abbia lo scopo di far riflettere i mal intenzionati.

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Esco dalla macchina per prendere aria. Sotto l'occhio sfottente della sentinella, rientro precipitosamente, inseguito da una nuvola di vespe.

Dopo un'ora d'attesa, il caldo dell'auto diventa insopportabile.Non posso aprire il finestrino per far entrare un po' d'aria e fare un cenno

al funzionario: le vespe ci stanno spiando attraverso i vetri e Mirella ne ha una paura folle.

Siamo in trappola: per il caldo i nostri visi si congestionano e i nostri occhi escono dalle orbite.

Dovremo perire oscuramente, fritti come patate, su questo ponte del diavolo?

Con una repentina ispirazione, Mirella si getta sul volante e suona furiosamente il claxon.

Il soldato sussulta bruscamente: il fatto non deve essere previsto nei regolamenti. Alza con decisione un telefono e chiede istruzioni.

Vittoria! Deve avere avuto la parola d'ordine. Un altro soldato arriva di corsa, apre la barriera e ci chiede di seguirlo fino al posto di dogana.

Ci precipitiamo fuori della macchina per avere un po' di fresco e caschiamo fra le braccia della « giovane Francia » che è là da più di due ore.

Un pezzo di marcantonio russo, col sorriso sulle labbra, si avvicina e ci dice con semplicità: « Il signore e la signora Pruvost? Sono la loro guida ».

L'avevamo completamente dimenticato, nella gioia dell'incontro coi ragazzi francesi. La prima impressione è buona: è alto, magro, e col cranio rasato; vaga in un vestito tre volte più grande della sua misura. Ha una trentina d'anni e pare ne abbia di più.

Ci piace subito.Fino a Mosca ha l'incarico d'occuparsi anche della « giovane Francia » il cui

interprete è malato.Alla dogana siamo ricevuti benissimo, ma perdiamo ancora più di un'ora

per comprare dei « buoni » di benzina, d'olio, di lavaggio, senza dimenticare i buoni « per i guasti » che — in verità — danno diritto a una revisione del motore.

Sono le 18 quando abbiamo finito tutte le formalità.Nessuno ha ancora mangiato.

BRESTLITOVSK

Una Ziss enorme e luccicante ci attende. Ci porterà a Brestlitovsk, dove decidiamo di fare un pasto pantagruelico.

La sala del ristorante, immensa e decorata di velluto verde (le ritroveremo

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così fino a Yalta) assomiglia a quella delle feste di un patronato di beneficenza.

Con nostra grande gioia un'orchestra paesana suona, nel modo più convenzionale, delle arie di prima del 1900.

Gregorio, impeccabile uomo di mondo, ci propone d'andare alle toilettes. Ci precipitiamo senza falsi pudori. Subito, uno dopo l'altro, battiamo in ritirata, terrorizzati dall'odore soffocante che, per un raggio di trenta metri, evita la necessità di porre frecce indicative. Gregorio non lascia trapelare la sorpresa di essersi trovato laggiù improvvisamente solo.

Ordiniamo il nostro primo pasto russo: borsch, caviale e vodka, facendo in sei, per la fretta, più rumore che se fossimo in cinquanta.

La sala è quasi deserta. Ad una tavola vicina due russi bevono vodka in quantità veramente impressionante. Uno di essi, con la sua blusa e la sua immensa barba, è veramente tipico. Il suo dirimpettaio, eccitato dalla vodka e dalla musica, diventa sempre più euforico.

Giampiero, il giovane che guida la Dauphine, commette l'imprudenza di parlargli in russo e di dirgli che siamo francesi e per di più parigini.

A queste parole, l'amabile ubriacone non riesce a contenere il torrente di simpatia che bolle in lui. E' forte come un turco, e con enorme pena, dobbiamo impedirgli di baciare Giampiero sulla bocca.

Non si considera vinto e lo supplica d'accettare 200 grammi di vodka, che, per un povero uomo di qui, è una piccola fortuna.

Quando leviamo le mense, è notte. Vorremmo dormire a Brestlitovsk, ma non ci sono alberghi per turisti e la tappa è prevista per Minsk.

Rianimati da tutte le calorie che abbiamo assorbito, partiamo allegramente per quest'altro viaggio di 800 chilometri in piena notte.

Guidare di notte non sarebbe più sgradevole che altrove se non si rischiasse sempre d'andare a finire contro gli ostacoli più diversi, sempre a causa della completa assenza di illuminazione.

Vetture a cavalli, interruzioni, lavori in corso, cavalli soli, pedoni, vacche, ciclisti, autotreni fermi, niente è illuminato.

Una strana nebbia plana al livello del suolo e rende il guidare assai sportivo, perché, senza preavviso, la strada asfaltata cede il posto, delle volte per qualche centinaio di metri, a quella di terra.

Probabilmente per mettere alla prova l'abilità del guidatore, dei mattoni, delle tavole, dei rami d'albero, dei mucchietti di sabbia sono sparsi qua e là nel bel mezzo della strada.

Prima ancora di essermene accorto, attraversiamo una foresta fatta di

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cespugli e d'alberi di alto fusto. Deve essere quella famosa dove, se bisogna credere alle notizie del pieghevole pubblicitario, ci dovrebbero essere ancora lupi ed orsi.

Per galvanizzare l'equipaggio che sonnecchia, reclamo — facendo fìnta di parlare a caso — le bestie feroci promesse. Gregorio mi fa osservare che noi abbiamo scelto il viaggio « ultima classe » e che solamente i viaggiatori del gruppo « lusso » hanno diritto ai lupi : l'ultimo orso è stato riservato ai personaggi di alto lignaggio.

La nostra piccola carovana arriva, senza incidenti, a Minsk alle tre del mattino.

M I N S K

La stanza che ci è stata assegnata è in effetti un appartamento di 120 metri quadri e comprende un'entrata, una camera da letto, una sala da pranzo col pianoforte, due toilettes, un bagno.

L'arredamento è assolutamente « piccolo borghese ». Gli impianti igienici, come quasi ovunque, salvo talvolta a Mosca, sono in uno stato di consumazione e di sporcizia pari all'odore pauroso che emanano. Questa insopportabile puzza, che si ritrova nella maggior parte dei luoghi pubblici, deve essere quella d'un disinfettante adoperato con profusione da per tutto.

Mentre mi lavo le mani con dell'acqua giallastra e ghiacciata che cola con esagerata parsimonia dal rubinetto, penso allo spaventoso risentimento contro il regime che doveva animare il criminale che ha stabilito d'imporre a tutto un così vasto paese l'uso d'un disinfettante talmente nauseabondo.

Il portiere d'albergo è un solerte vecchietto. La sua superba barba gli potrebbe servire da parananza. Ogni volta che tento di fotografarlo, si schermisce con delle mossette da piccola fanciulla sgomenta.

In attesa di visitare ufficialmente Minsk, passeggio nei pressi dell'albergo. Entro in un grande spaccio alimentare e ne vengo immediatamente respinto da un odore insopportabile proveniente da non so che cosa. Questa città è pressappoco la capitale della Bielorussia. Vanta parecchie centinaia di migliaia di abitanti. Il contenuto delle vetrine e dei negozi farebbe arrossire di vergogna il droghiere di un villaggio di centocinquanta abitanti.

IL PULLMAN OLANDESE

Un piccolo pullman olandese, luccicante e colorato come una bomboniera, si ferma davanti all'albergo.

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Un grande assembramento di persone attornia il veicolo che sembra arrivato dritto dritto da un altro pianeta. Si apre la porta. Ne discende, molto dignitosamente, un'intera partita di vecchie zitelle curiosamente agghindate.

I minskoviti restano a bocca aperta davanti al lusso, per loro incredibile, dei bagagli e dei particolari degli abbigliamenti. Le

zitellone, che in Olanda sono delle insegnanti vicine alla pensione, abbandonano per un istante i loro complessi.

Come delle dive all'uscita dalla prima di un gran film, fendono la folla con mossettine civettuole. Illudendosi sui bagliori di stupore che brillano negli occhi di quelli che la circondano, una di esse s'azzarda a dondolare le anche.

L'entusiasmo è al colmo. Ancora un po' e la folla applaudirebbe.La guida ufficiale che deve farci visitare Minsk finalmente arriva. Sale nella

vettura della « giovane Francia ». Noi partiamo al loro seguito.La guida s'accanisce soprattutto a mettere in evidenza il visibile sforzo per

la ricostruzione, che, in verità, non è riuscita nemmeno ad assicurare il livellamento delle strade.

Per delle ragioni forse strategiche, la rete stradale della città è invariabilmente quasi impraticabile.

Alle mie osservazioni, Gregorio risponde che una via piena di buche è il mezzo più comodo per limitare la velocità.

Questa visita organizzata non presenta alcun interesse. Passiamo davanti ad un mercato kolkosiano, ch'io vorrei vedere. Impossibile fermarsi, la macchina-guida continua a correre in un torrente di polvere. Approfitto del fatto che Gregorio è immerso nella lettura di un opuscolo per perdere il contatto.

Non ci resta che di ritornare verso l'albergo.

MERCATO KOLKOSIANO

Rivediamo il mercato kolkosiano: Gregorio non si oppone a che noi lo visitiamo. Visto da lontano, sembra quasi un nostro mercato di provincia.

Da vicino l'illusione permane a patto di non notare il taciturno e tetro comportamento degli acquirenti, il misero aspetto dei kolkosiani e l'irrisoria povertà delle loro bancarelle.

Una vecchia donna è accoccolata dietro ad un secchio arrugginito pieno a metà di ribes. Ha in mano un vecchio mestolo di ferro che le serve da misura. Con le palpebre avvizzite e mezze chiuse è rassegnata a non attirare l'attenzione di nessuno.

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Con sua grande emozione noi ci fermiamo a comprare del ribes. La povera vecchia è talmente sconvolta nel vedersi interpellata da signori stranieri che se non la trattenessimo, verserebbe la metà del suo secchio nel cono di carta sporca che ha confezionato. Rifiuta il nostro denaro: le diamo un ricordo di Parigi, che essa accetta con le lacrime agli occhi.

Ci allontaniamo. Un po' più avanti mi volto! La vecchia venditrice è circondata da una muta di comari eccitate, vociferanti.

Gregorio ci rassicura: la vecchia è l'eroina del momento del mercato. L'episodio alimenterà tutte le chiacchiere del suo villaggio per più giorni.

* * *Ritroviamo la « giovane Francia » davanti al palazzo della Posta.Mentre tutti gli altri vanno a comprare cartoline e francobolli, resto solo di

guardia alle due automobili. Un milite si sforza di disperdere i passanti che attorniano le vetture e impediscono il traffico dei tram.

Sadicamente, alzo il cofano della 203: ciò raddoppia di colpo il numero dei bighelloni. Perfeziono la mia opera aprendo il cofano della Dauphine e rivelo agli sguardi attoniti della folla il motore posteriore.

Con un'aria di grande importanza, metto alternativamente le mani ora su uno, ora sull'altro dei motori.

Il milite si è arreso. Ad ogni mia andata e ritorno, i curiosi mi lasciano rispettosamente il passo. I visi si attaccano ad ogni vetro delle automobili, guardando dettagliatamente e con ammirazione il loro contenuto.

Perdo il mio prestigio di colpo, a causa di un improvviso incidente di cui sono l'eroe involontario.

Mentre cammino con gravità tra i cofani aperti delle due macchine, casco lungo disteso per terra. Qualcuno mi ha fatto uno sgambetto.

Mi rialzo fra le risate di tutti. Furioso, cerco il colpevole.Lo scopro subito: è un operaio che per meglio vedere la Dauphine, si è

disteso sotto la macchina. Solo i piedi escono fuori e sono la causa della mia caduta.

Rido anche io. Il ghiaccio è rotto. Ci battiamo tutti fraternamente le mani sulle spalle. La folla è scossa da grandi risate. Sono spinto, schiacciato da tutte le parti; sarò forse portato in trionfo?

No. Coi piedi maciullati, sono costretto a rifugiarmi in màcchina. Delusione generale, ma breve.

Metto con vigore in azione la capotta apribile e, come Plutone sorgeva dall'oceano, emergo nel mezzo del tetto.

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Una vera ovazione m'accoglie: i ragazzi russi saltellano dalla gioia. Sto lì lì per fare un discorso. Distribuisco qualche moneta e qualche francobollo francese e ciò fa aumentare il chiasso.

Dei bambini vengono all'assalto della macchina e tentano di giungere fino a me. A loro volta questi bravi bimbi vogliono a qualsiasi costo offrirmi dei ricordi e dei soldini sovietici.

Scorgo di botto Gregorio che esce dalla posta! Sembra impazzito vedendo la moltitudine che mi circonda. Pallidissimo, accorre a gran passi.

Fatico l'impossibile per impedirgli di chiamare la Polizia.

* * *Rientriamo rapidamente per mangiare, poiché nel pomeriggio abbiamo più

di trecento chilometri da fare.Su di un tavolo vicino delle cameriere fanno i conti con l'aiuto di un

pallottoliere. Giampiero, divertito dalla scena, decide di fare una fotografia. Il lampo del magnesio agghiaccia le servette. E' facile capire che non apprezzano questa pubblicità. La capocameriera si affretta a far mettere al sicuro i preziosi pallottolieri.

Al momento di partire, una « Ziss » dell'Inturist ci aiuta a scovare una pompa di benzina dissimulata nel cortile di un immobile sito nel fondo di un vicolo chiuso.

Il distributore ha una pompa, un ufficio e quattro persone, di cui tre uomini erculei. Uno dei tre tiene il tubo della pompa, il secondo fa finta di cambiare continuamente posto a tre fogli di carta sul tavolo; il terzo, che non ci ha sentiti arrivare, sonnecchia lentamente. La quarta persona è una fragile ragazza di una ventina di anni, che non sarebbe brutta se il suo modo di vestire non ricordasse quello trasandato d'un operaio da pozzo nero. In pieno sole, nel mezzo del cortile, è occupata a scavare una fossa. Al nostro arrivo posa una pesante zappa e ci guarda attentamente.

Quando paghiamo la benzina per le macchine, il terzo uomo si sveglia e si dirige verso noi, pieno d'energia. Vede la ragazza, che ancora ci guarda. Si precipita su di lei, le fa un violento ed interminabile discorso per stigmatizzare la sua mollezza e la giovanetti riprende docilmente la zappa.

Domando a Gregorio perché in un sistema economico così pianificato i lavori più pesanti sembrano sistematicamente riservati al sesso più fragile. Mi risponde molto ufficialmente che la necessità di manodopera è immensa e che

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molti uomini sono morti in guerra.Faccio osservare che ciò non spiega, nel caso presente, come il compito di

tre giovanotti pieni di salute sia quello di far fare ad una giovinetta un lavoro chiaramente al disopra delle sue forze.

Gregorio non risponde.Più penetreremo in questo paese, più constateremo che mai come qui i forti

usano le loro energie esclusivamente per far tremare i deboli.

IN BIELORUSSIA DA QUALCHE PARTE

Affrontiamo un vero percorso da moto-cross per uscire da Minsk e trovare la strada per Smolensk.

Ora la carta segnala un'autovia ed il fondo diventa sempre più cattivo, viaggiamo tuttavia su di una strada relativamente larga, ma talmente mal pavimentata che non possiamo superare i 25 all'ora.

Un pedone ci conferma che siamo sulla direzione giusta di Smolensk.Dietro, Gregorio sonnecchia, fidente sulla proverbiale cultura geografica

dei francesi. In più, seguiamo la « giovane Francia » che ha l'aria di sapere il fatto suo ed i cui tre membri parlano il russo.

Impieghiamo quattro ore per percorrere 80 chilometri. Siamo sempre sui selciati dello zar. La contrada diventa completamente deserta.

A dieci chilometri d'intervallo tra l'uno e l'altro, interpelliamo due contadini, che dichiarano d'ignorare tutto su Smolensk. Uno ci parla di Vitebsk e ciò ci inquieta moltissimo. Siamo assaliti dal dubbio e rallentiamo l'andatura. Impossibile affidarsi al mio senso d'orientamento.

La pianura lascia il posto ad una foresta, se si può chiamare foresta una macchia senza alberi.

Saltelliamo, sempre meno convinti, sul selciato. La macchina della « giovane Francia » si ferma. Ci consultiamo : che fare?

Miracolo! Da lontano arriva un veicolo.E' un camion pieno di lavoratori. Preghiamo Gregorio di fermare il veicolo

per domandare la strada. Gregorio avanza nel centro della strada, facendo grandi gesti.

Il camion rallenta con prudenza e si ferma a venti passi da Gregorio. Dai finestrini della cabina escono delle teste attonite. Altre emergono dal cassone dove sono ammonticchiati una ventina di operai.

Gregorio, tutto gentile davanti all'enorme camion, domanda la strada per Smolensk.

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La risposta sgorga, unanime, straordinaria: — Non ve lo diremo!Gregorio dichiara che le sue intenzioni sono oneste e, con la mano sul

cuore, esibisce le sue carte.Questi poveri diavoli russi abbrutiti da quarantanni di isolamento,

incontrano, forse per la prima volta nella loro vita, dei perfidi stranieri, la cui sola preoccupazione è di sterminare il placido popolo sovietico. Alle insistenze di Gregorio, gli uomini si si consultano, sempre con viso ostile e chiuso.

Allora Gregorio si arrabbia e, improvvisamente minaccioso, brandisce la sua carta dell'Inturist.

La collera di Gregorio non fa affatto impressione e consideriamo molto scarse le sue possibilità di ottenere la temibile informazione.

La parola « Inturist » ha perlomeno gettato il dubbio sulla dotta assemblea.Che fare?Rischiare di dare delle informazioni a delle spie o rischiare delle noie con

l'Inturist?La discussione è animatissima. Pagherei qualsiasi cosa per registrare questa

disputa che deve assomigliare a quella di ragazzi di cinque anni, decisi a stabilire a tutti i costi se i bambini nascono dai cavoli o dall'insalata.

L'incertezza è completa, perché sono quasi le 18 e continuiamo a non sapere se siamo o no sulla strada di Smolensk.

Finalmente, la discussione si conclude. Un operaio coraggioso è delegato a darci delle informazioni.

Risulta che non siamo sulla strada di Smolensk; che non ci possono dire dove porta la nostra, ma che per Smolensk è meglio fare marcia indietro.

Finito di parlare, l'operaio fa un segno all'autista e il camion parte a tutta velocità, senza che nessuno si volti verso di noi.

Facciamo dietro-front. Giuriamo di obbligare con tutti i mezzi il primo essere vivente che incontriamo a rivelarci il segreto della strada per Smolensk.

Dopo qualche chilometro a senso inverso, arriviamo ad un incrocio e, colmo di fortuna, intravediamo un ciclista in uniforme. L'uniforme non è convincente. Deve essere quella di una guardia qualsiasi, ma è pur sempre un'uniforme.

Per non lasciarlo scappare, lo stringiamo tra le due macchine. Gregorio si rompe quasi il collo per saltare dall'auto in marcia. Assalta così bruscamente l'oggetto della nostra cupidigia, che per poco non lo sbatte a terra.

Afferrando con la mano il manubrio della bicicletta, gli spiega rapidamente

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che è funzionario dell'Inturist e che abbiamo bisogno della strada per Smolensk.

L'uomo, anonimo come la sua uniforme, gratifica Gregorio di un lungo discorso.

E' vero che eravamo sulla strada di Vitebsk. Possiamo scegliere tra il ritorno a Minsk o il tentativo di raggiungere la Minsk-Smolensk all'altezza di Boritsov.

Non vogliamo rifare gli 80 chilometri di strada mal pavimentata e decidiamo di tentare la diagonale.

La strada è peggiore di prima. Tuttavia è selciata ed è un lusso per questo paese. Dalla caduta degli zar, non devono aver speso un solo kopeco in riparazioni.

Dopo un'ora di strada, ci accorgiamo che la Dauphine non ci segue più. Facciamo dietro-front e vediamo, dopo parecchi chilometri, la « giovane Francia » sconsolata intorno alla macchina.

Hanno bucato, ma la ruota di scorta, che avevano comprata a prezzo d'oro a Varsavia, ha il diametro quindici centimetri più lungo degli altri pneumatici.

Non ci sono autorimesse prima di Smolensk, cioè a più di trecento chilometri.

Tentiamo lo stesso di montare la ruota. La macchina è pietosamente inclinata e la ruota tocca il parafango.

Osserviamo però che a condizione di non sterzare troppo stretto, deve essere possibile andare avanti.

Dobbiamo tentare di raggiungere Boritsov, che non è a più di trenta chilometri. Ripartiamo a 15 all'ora, pregando il cielo di non incontrare delle curve difficili.

IL BUON SAMARITANO

Arriviamo a Boritsov. E' una città apparentemente importante che contava nel 1900, « dixit Baedeker», ventimila abitanti.

La « giovane Francia » interpella direttamente gli abitanti. Troviamo subito un garage, nel quale sono in riparazione una ventina di automobili.

Entriamo di prepotenza, tra la viva sorpresa degli operai che stavano per lasciare il lavoro.

Gregorio parlamenta e si fa insultare di santa ragione. Ritorna a noi verde come un prato d'erba normanno.

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« La giovane Francia », che ci serve da contro-interprete, ci spiega come Gregorio sia stato aspramente rimproverato per averci fatto attraversare una zona proibita. Pare che abbiamo costeggiato tutta una serie di campi di aviazione coperti di Mig.

Occupati come eravamo a non perderci di vista, non abbiamo notato assolutamente nulla.

Il capo-garage, sotto la sua apparenza scorbutica, è un brav'uomo. Non ha gli arnesi per smontare le gomme dell'automobile da turismo; ma ciò non ha importanza, egli ordina di forgiarli.

Date le proporzioni che prende la riparazione, capiamo che bisognerà mangiare sul posto. C'è una sola difficoltà: non ci sono ristoranti. Decidiamo di ripiegare su di un caffè; non c'è un solo caffè a Boritsov!

Riusciamo a procurarci del pane e delle salsicce di cavallo, che mangiamo, in piedi, nel deposito di vecchie ferraglie chiamato autorimessa.

La riparazione è finita alla 22.Non solo gli operai non accettano denaro, ma il loro capo mette anche

gratuitamente dieci litri di benzina nel serbatoio della Dauphine.Gregorio ci spiega che gli operai hanno offerto volontariamente di fare la

riparazione fuori orario, senza chiedere alcuna remunerazione.Non ci resta che ringraziare questa brava gente dalle reazioni così

inaspettate.E' ormai notte e siamo sempre a trecento chilometri da Smolensk.Ritroviamo senza difficoltà l'autostrada e marciamo fino alle tre del

mattino. Smolensk è a dieci chilometri, ma quando mancano solo tre chilometri ecco un cartello che indica una deviazione. In Russia, quando vi sono lavori sulle strade, o bisogna superare di forza i lavori stessi, o deviare su piste che attraversano i campi. Qui si è rotto un ponte. Seguendo delle frecce dobbiamo affrontare una specie di sentiero che scende verso un torrente, lo attraversa e risale sull'altra riva.

Quando siamo nei sobborghi di Smolensk, un fascio di luce ci avverte che una macchina sta sbucando da una stradina laterale.

Vediamo apparire, nella luce dei fari, una donna scapigliata e svestita, che corre come una indemoniata ed urla come se chiedesse a pieni polmoni aiuto.

Sorpreso, rallento e mi chiedo cosa devo fare.Gregorio, eccitatissimo, mi dice quasi brutalmente:— Continuate, continuate, è un'ubriaca.Obbedisco macchinalmente, ma senza convinzione. Sono saggio o vile? La

donna sembra terrorizzata non ubriaca. Mi piacerebbe molto, per mia

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tranquillità, essere certo che la macchina sovietica seguiva in piena notte quella donna per aiutarla.

Sono quasi le quattro del mattino quando bussiamo alla porta dell'albergo.Ci addormentiamo subito.

I CATTIVI OCCIDENTALI

Alle sei del mattino, quando stiamo godendo la gioia del primo sonno, siamo svegliati brutalmente da una fanfara che pare suonare nella stanza. E' un altoparlante, messo nella stanza, che diffonde a tutta voce l'inno sovietico. Mi precipito furioso fuori dal letto e chiudo l'interruttore con tale violenza da ridurre al silenzio l'apparecchio per molti mesi.

Cominciamo molto tardi l'abituale giro organizzato della città.Visitiamo un bellissimo parco per bambini. Dei grandi cartelli

propagandistici si sforzano di alterare il paesaggio e i cervelli dei ragazzi.Un tabellone si riferisce all'affare di Suez. Rappresenta degli spaventosi

occidentali armati fino ai denti, che pugnalano dei poveri arabi senza difesa.Gli occidentali sono invariabilmente additati alla vendetta popolare sotto il

solito e trito aspetto: sguardo corrotto, sigaro stretto tra i denti, pancia gonfia del sudore del popolo, revolver o mitra alla cintura, pugnali grondanti sangue tra le mani.

La ragazza incaricata di farci visitare Smolensk vorrebbe che non guardassimo questi cartelli, dicendo:

— Sono senza importanza.Rispondo che al contrario ci interessa molto sapere come siamo raffigurati

ai bambini russi.E con malizia domando, indicando i cartelli:— Desiderate veramente vivere in pace con della gente simile?In verità devo dire che questo genere di propaganda non interessa più né i

bambini né gli adulti, ma capisco benissimo come i sovietici, preoccupati di difendere la propria reputazione, esitino a frequentare ed a dare informazioni a individui ufficialmente così mal visti.

CANNONI IN ESILIO

Un po' più avanti, vediamo la tomba di un generale russo che ha preferito morire con la spada in pugno piuttosto che arrendersi. Napoleone ha reso al suo corpo l'onore delle armi, comportandosi da avversario cavalleresco, e

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dando così un esempio salutare ai suoi generali rammolliti dai troppi successi.

Nascosti da una fila d'alberi, scopro con emozione due cannoni abbandonati dall'armata francese in ritirata.

Lontano dal proprio Paese, si diventa subito straordinariamente sentimentali. Niente dovrebbe essere così poco commovente come i cannoni; tuttavia mi soffermo a lungo accanto a questi due testimoni della favolosa epopea.

MARIA D'OTTOBRE

Visitiamo velocemente un cimitero dove c'è una lapide che rievoca la morte di una eroina sovietica chiamata Maria d'Ottobre. La nostra guida ci racconta commossa l'edificante storia di questa giovinetta.

Nei giorni più tristi dell'ultima guerra, una giovane di Smolensk a cui le glorie di Giovanna d'Arco impedivano di dormire, decise di buttar fuori dalla Russia il nemico tedesco.

Non erano più i tempi di partire per la guerra su di un palafreno, ed allora decise di procurarsi un carro armato.

Venduti dei gioielli, riuscì facilmente ad avere qualche decina di milioni necessari all'acquisto di un tank, poi passò l'ordine al piccolo padre Stalin.

Lui, naturalmente, spedì a giro di posta un carro armato ultimo modello. La bellissima ragazza potè così, senza formalità alcuna, lanciarsi contro il nemico.

Trovò una rapida e gloriosa morte.Come ultimo omaggio, i suoi camerati decisero di portare il carro armato

della defunta fino a Berlino.Salutiamo rispettosamente la sua memoria.

* * *

Subito dopo l'interminabile colazione, riprendiamo il viaggio verso Mosca.Anche questa strada si chiama autovia; comporta una sola carreggiata, il

suo fondo è sempre abbastanza irregolare, ma la sua larghezza è pressappoco come quella delle nostre grandi arterie.

Salvo nelle vicinanze dei gruppi di case, non c'è traffico.Dopo aver discusso per anni sullo scopo di questo lungo nastro di catrame,

i contadini se ne sono in larga misura appropriati per i loro lavori agricoli.

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E' il periodo della mietitura.Per decine di chilometri, il terzo o la metà della strada sono occupati da

kolkosiani coi piedi nudi, che battono il raccolto, stendono il grano per farlo seccare e scopano la strada per metterlo nel mezzo a mucchietti.

Vedremo simili montagnole fino a Yalta. Ci capita di partecipare, involontariamente, alla battaglia del grano.

Nelle vicinanze di Vjazma, per molte centinaia di metri, la strada è quasi interamente sbarrata da un letto di fastelli di paglia, sui quali volteggiano delle grosse donne armate di forche.

Per salvare i raccolti, quasi costeggio il fosso. Con nostra grande sorpresa provoco una minacciosa alzata di forche ed una fanfara di imprecazioni.

Parecchie donne, coi piedi nudi e fazzoletto in testa, mi obbligano a far marcia indietro e poi mi fanno ripartire e mi costringono ad andare sopra il raccolto.

La mia povera 203 non aveva ancora visto tutto. Rimbalza goffamente sullo spesso materasso di cereali.

Uscita di là, i mucchi di paglia che restano incastrati sotto la carrozzeria la fanno sembrare più una scopatrice meccanica municipale che una rispettabile vettura da turismo.

I pedali sono completamente dissestati e il mio « stop » a causa di un contatto resterà acceso fino a Parigi.

Approfitto della fermata obbligata per tentare d'intervistare il gruppo di donne, che pestano nella paglia e manovrano un crivello dei tempi di Ivan il Terribile.

Le donne, che avevano preso la nostra macchina per una Pobieda, si sono accorte del loro errore e si precipitano verso di noi agitatissime.

Mentre prego Gregorio di tradurre una domanda, un enorme spilungone, che era disteso nel fosso, si alza in piedi ed impone con malagrazia alle contadine di riprendere il lavoro.

Con gli stivali, mal rasato, lo sguardo feroce, quest'uomo interpreta a meraviglia il ruolo di guarda-ciurma. Spiega a Gregorio che è per errore che ci hanno fatto partecipare alla battaglia del grano e che le donne hanno creduto di aver a che fare con dei sovietici.

In ginocchio, vicino alla vettura, con le mani piene di paglia, prego Gregorio di rassicurare il sorvegliante che siamo onorati di aver potuto contribuire alla buona riuscita del raccolto agricolo.

Gregorio, sempre prudente, omette di tradurre la mia osservazione.Voltandoci le spalle, il sorvegliante ci fa capire che noi dobbiamo

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riprendere il nostro viaggio e lui le sue meditazioni nel fosso.

CAPITOLO VI

LA FUTURA CAPITALE DEL MONDO

I mucchietti di grano si fanno più rari. Stiamo avvicinandoci a Mosca. I sobborghi moscoviti sono pressoché inesistenti. Praticamente si entra subito nel centro della celebre città.

Siamo immediatamente assaliti dalla sensazione del colossale.Mentre Gregorio telefona da una cabina per prendere delle istruzioni, io

misuro a grandi passi la larghezza della strada: sessanta e un metro con, nel mezzo, il celebre corridoio delimitato da due strisce bianche.

Non si deve per alcuna ragione usare o attraversare questo no man's land, riservato ai gerarchi del regime.

Gregorio dice che l'albergo che ci è stato assegnato è il Métropole, uno dei migliori, secondo lui.

Bisogna tornare indietro. Teoricamente dovrei costeggiare il corridoio centrale fino al prossimo incrocio per girare senza toccare le sacre linee.

Approfitto del fatto che Gregorio è assorto nel suo misterioso libretto nero per fare dietro-front ed attraversare lentamente e tranquillamente il corridoio sacrosanto.

Gregorio non ha notato nulla. La « giovane Francia » mi segue senza reagire.

Quasi istantaneamente risuona un fischio lontano e stridente, che m'aspettavo, ma che pur tuttavia mi agghiaccia il sangue nelle vene. Mi fermo, curioso di vedere cosa sta succedendo.

Lontano, dietro di noi, sull'immensa strada deserta, un milite accorre a grandi passi.

La Dauphine, ferma dietro di noi, subisce il primo attacco. Malgrado le mie suppliche, Gregorio si sprofonda nella macchina.

La mia provocazione termina banalmente in chiacchiere interminabili.Imbocchiamo la celebre Via Gorki per raggiungere l'albergo. Gli edifici

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sono giganteschi, una via di mezzo fra i nostri cinque piani parigini ed i grattacieli americani. Lo stile è tipo carro funebre di prima classe: facciate unite dai bordi rettangolari, sormontate alle estremità da grossi pompons di pietra.

Le abitazioni, i ministeri, gli alberghi sembrano essere stati costruiti tutti dallo stesso architetto.

In confronto a Minsk e a Smolensk, Mosca dà perfettamente l'impressione di una capitale, ma solo la larghezza delle strade, l'altezza degli edifici e la presenza dei filobus ricordano le nostre grandi città europee.

Un moscovita su mille ha l'aria di un cittadino. Niente caffè all'aperto, né bar.

In qualche vetrina un tentativo di esposizione. E' meglio non parlare dell'effetto.

SERATA AL METROPOLE

L'albergo Métropole è anch'esso una costruzione 1900, pomposo, comodo, impersonale.

La sala del ristorante somiglia a un salone per le feste. Grosse colonne, grande palco per l'orchestra e pista centrale che ha nel mezzo una piccola fontana.

I camerieri, in quantità impressionante, sono occupati a far finta di lavorare. Hanno la stessa impassibilità del personale degli alberghi occidentali, con in più un'attitudine consumata a rintanarsi là dove non c'è bisogno di loro.

Siamo a tavola da un'ora e non siamo ancora riusciti ad attirare l'attenzione di uno di questi stakanovisti da parata.

Ne approfitto per osservare la loro maniera di non lavorare. Da cinquanta metri riconoscono l'intruso che desidera qualcosa e scantonano con l'aria più naturale del mondo verso un angolo più tranquillo. Alla lunga, questo andare e venire è faticoso; a intervalli regolari, seguendo un ordine rispettato fraternamente da tutti, vanno a sedersi su delle sedie poste accuratamente negli angoli più nascosti.

Uno di questi rifugi si trova un po' sulla nostra sinistra, tra una colonna e una piattiera. Con una regolarità da orologio, la sedia cambia di sentinella ogni dieci minuti.

Dopo un'ora e mezza di gesti vari, non siamo riusciti che a farci portare una minestra. Non abbiamo fretta, ma fame.

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Decido di opporre astuzia ad astuzia. Facciamo finta di disinteressarci del servizio. Una decina di minuti passa senza risultati. Scorgo improvvisamente, con la coda dell'occhio, un cameriere che evita la vicinanza di un avventore affamato; si dirige verso di noi senza diffidenza, si avvicina, mi sfiora e hop! mentre passa lo afferro solidamente per i lembi della giacca.

Tenendolo sempre, gli faccio intimare da Gregorio l'ordine di levare i piatti sporchi e di portarci il resto, sotto minaccia di un immediato reclamo all'Inturist.

Quest'azione di forza ci permette di restare a tavola solo due ore e mezza invece delle solite tre ore.

Ci accorgeremo nei giorni seguenti che la minaccia dà dei buoni risultati, ma che ci si stanca più presto a minacciare che ad essere minacciati.

Dal terzo giorno, useremo con successo il metodo capitalistico: la mancia.Il risultato sarà sorprendente. Constateremo che basterà una mancia un po'

ragionevole perchè tutta la ganga si snodi e soddisfi definitivamente ogni nostro desiderio. Una volta siamo anche riusciti a consumare un pasto completo in un'ora e un quarto, il che sembrerà incredibile ai competenti.

E' vero però che, per ingannare l'attesa, abbiamo lo spettacolo della sala.Siamo in uno dei ritrovi più eleganti della capitale del mondo

collettivistico.Un pasto di una certa importanza costa dai quaranta ai cinquanta franchi

pesanti. I vestiti dei presenti sono però estremamente modesti e frusti. Gli uomini, generalmente giovani, senza cravatta, portano delle camicie di tessuto ordinario. Le donne sembrano delle serve di campagna vestite a festa.

Alla tavola vicina una ragazza abbastanza carina e meno malvestita delle altre degusta del caviale servendosi della punta del suo coltello a guisa di stuzzicadente.

Da informazioni avute, sono l'elite della gioventù sovietica, figli e figlie d'accademici, di chirurghi, di capi politici.

Uomini e donne trangugiano quantità impressionanti di vodka.Questo ristorante del Métropole è uno dei rarissimi ritrovi moscoviti dove

si possa sentire della musica. L'orchestra, composta da dodici suonatori, è una delle più reputate di tutte le Russie.

Lo strepito equivale alla mediocrità dell'esecuzione.Con un entusiasmo per nulla comunicativo gli orchestrali si sforzano di

scimmiottare i loro colleghi occidentali.Come tutti i sessantenni del mondo, gli uomini di governo sovietici vanno

matti per la musica 1900 e detestano il rock and roll. Cedendo ai gusti della

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loro età, che non sono suscettibili di cambiamenti, hanno messo fuori legge il jazz e rispolverato le sdolcinature 1900 per la delizia del mondo comunista. La gioventù sovietica, con una docilità che fa piacere a vedersi, si dichiara regolarmente affezionata alla mazurca e rinuncia al cha-cha-cha e ai suoi fasti.

Questi bravi ragazzi spingono il loro scrupolo al punto di alzarsi di notte per ascoltare in posti clandestini la musica occidentale e convincersi profondamente del suo carattere decadente.

Krusciov ha da poco allentato provvisoriamente i freni a favore dei tre o quattro ristoranti per stranieri.

L'orchestra, questa sera, ne approfitta per fare un salto in avanti nel tempo. Suona qualche classico del jazz '39-'45.

Disorientati dal ritmo sincopato, la maggior parte dei ballerini lascia la pista. E sono rimpiazzati da giovani coraggiosi che tentano goffamente di seguire la cadenza capitalistica.

La « giovane Francia » si dirige verso la pista; noi la seguiamo. Michèle e Giampiero formano una coppia di una fresca eleganza, veramente francese. Ballano con gioia e grazia una vecchia aria di jazz sul ritmo be-bop.

I sovietici sono annichiliti da questa apparizione del mondo proibito. Pur restando allacciati, si ritirano comicamente su di un angolo della pedana e non osano più muoversi.

Approfittiamo della pista libera e abbandoniamo ogni remora.Contagiata dal nostro esempio, l'orchestra si scatena, i suonatori si alzano

in piedi. Suonano forsennatamente ciascuno per conto suo. Per fortuna quello della grancassa è un ercole e così noi possiamo mantenere il ritmo.

Ci stanchiamo prima noi dell'orchestra che niente sembra poter più fermare.

Liberi alla fine della nostra presenza, i ballerini si precipitano sulla pista e volteggiano energicamente tra le delizie dei ritmi proibiti.

La gioventù è universale; Montirian ha mille volte ragione quando dice che è insensato voler convincere i giovani sovietici con la dialettica. Sin dall'epoca della loro prima sculacciata, questi giovani sono sfiniti, saturati, intossicati dalla propaganda. Non si può aggiungere più nulla nei loro cervelli.

Secondo la tecnica dei lottatori di judo, non ci si deve opporre direttamente all'avversario, che resisterebbe, ma assecondarlo per deviarne l'azione.

Marx ha insegnato ai proletari che erano poveri e che la loro situazione era intollerabile.

Bisogna insegnare ai giovani russi che hanno la testa imbottita della confusione lenin-marxista, cioè l'alibi delle generazioni future, gli artisti

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impiegati dello Stato, le competizioni senza concorrenti, le statistiche falsate e la pace armata.

Un discorso di Foster Dulles fa ancora meno effetto ad un giocane del quartiere Moscova che a uno francese del quartiere di Belleville.

Un buon microsolco di jazz mette invece nelle loro gambe lo stesso formicolio.

Questa inclinazione, alimentata da potenti stazioni radio periferiche, rimetterebbe senz'altro in discussione le predilezioni di Krusciov per i cori da confraternita.

E' molto più facile inviare cinquecentomila deviazionisti nelle terre vergini della Siberia, che impedire alla gioventù di amare il jazz.

La rottura del cerchio che isterilisce la musica porterebbe inevitabilmente alla liberalizzazione di tutti i campi dell'arte.

La libertà è un bacillo la cui virulenza aumenta geometricamente.Quando il cittadino sovietico potrà paragonare la sua assurda posizione a

quella degli occidentali, finirà di chiedersi se i suoi discendenti coltiveranno l'insalata sulla Luna e sognerà invece delle vacanze in Italia.

LA PIAZZA ROSSA

Nella prima sera trascorsa a Mosca decidiamo di fare « Piazza Rossa-by night ».

La piazza deserta e illuminata dà una selvaggia impressione di grandezza.Davanti al famoso mausoleo, un ragazzino aspetta i dodici colpi della

mezzanotte per assistere al cambio della guardia. Poco prima vediamo uscire dal Kremlino i due soldati che vanno a sostituire gli altri. Sono accompagnati da un ufficiale che apre la marcia.

I tre uomini fanno uno sforzo sovrumano per apparire disumani. Impietriti dalla punta delle orecchie alle estremità delle dita dei piedi, eseguono un passo d'oca a scatti arroganti. Battono in terra la pianta del piede con l'involontario furore degli invalidi privi del tallone di Achille.

Come tre robots telecomandati, la guardia avanza verso il mausoleo. I tre uomini devono superare la cancellata che circonda il monumento, senza perdere la cadenza.

Da parte loro, le due sentinelle che fanno le statue dall'altra parte della cancellata, devono fingere di ignorare i loro camerati finché essi non abbiano aperto e chiuso il cancello.

Il punto culminante dello spettacolo si avvicina. Un occhio sul trio che avanza, l'altro sulla cancellata, tratteniamo il respiro!

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La supereranno bene?Indietreggiamo per non intralciare la manovra.Dopo un impeccabile quarto di giro, l'ufficiale accelera, triplica la velocità

della sua evoluzione e parte all'assalto della maniglia del cancello.In un lampo, e sempre a scatti, si abbassa, manovra la maniglia, apre la

porta e passa davanti ai due automi immobili nella superba incoscienza che hanno ostentato per un'ora.

Cerchiamo di rimanere anche noi impassibili, pensando che la scena rappresenti per i russi presenti il massimo del patetico.

Ci sbagliamo grossolanamente, perchè gli spettatori moscoviti sono irriverentemente divertiti, e qualcuno scoppia anche a ridere allo spettacolo del passo dell'oca della titubante guardia che si allontana.

LA LIBERTA' DEI CULTI

La nostra prima giornata a Mosca è una domenica.Facciamo colazione al ristorante dell'albergo perchè un cliente ci ha

avvertiti che, per essere serviti, basta un'ora d'attesa, mentre in camera occorrono più di due ore e una decina di telefonate.

Abbiamo chiesto di assistere ad una funzione ortodossa.La maggior parte delle chiese di Mosca è stata saccheggiata o trasformata

in cinema, dancing o musei.Per ragioni inspiegabili, i turisti che domandano di assistere ad un servizio

religioso ortodosso, sono invariabilmente spediti al convento di Novodievichie, che è piuttosto lontano dal centro di Mosca.

Questo convento è sfuggito alla regola solo in parte: la splendida chiesa, che era il suo principale ornamento, è stata trasformata in un museo di non si sa che cosa, e la messa è celebrata in un vasto locale che anticamente serviva da refettorio.

L'affluenza è enorme. Solo perchè siamo dei turisti possiamo penetrare nella navata superaffollata.

Gregorio, dopo averci facilitata l'entrata, resta fuori della porta, ostentando la sua riprovazione per queste esibizioni collettive di superstizione.

L'atmosfera si rivela subito eccezionale.Un pope alto due metri, con una barba stupenda, con in testa una tiara

d'oro, con indosso splendidi paramenti, avanza verso i fedeli.Celebra la messa con voce sepolcrale. Due giovani diaconi con capelli

lunghi lo seguono. Il primo, bellissimo, reca sulle braccia una Bibbia rossa e oro; l'altro porta uno splendido candelabro che sorregge una piramide di

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candele dorate.A sinistra, un altro pope battezza una moltitudine di bambini di tutte le età.La folla canta con fervore. Due cori si formano spontaneamente senza la

minima dissonanza. Le donne si segnano e baciano il pavimento. Una specie di isterismo contagioso s'impadronisce dei presenti.

I russi non fanno mai le cose a metà. Con lo stesso entusiasmo, gli uni saccheggiano, incendiano, profanano le chiese, mentre gli altri ne baciano il suolo.

Gregorio ci aspetta pazientemente per strada. Per dispetto, per tre giorni, lo chiameremo « Joio l'eretico ».

Una sera, mentre Gregorio è andato a fare il suo rapporto quotidiano o a prendere le sue istruzioni all'Inturist, facciamo una piccola passeggiata lungo la Moscova. Sorpresi dalla pioggia, cerchiamo un riparo. Provvidenzialmente, troviamo una chiesa nella quale ci rifugiamo.

La navata è deserta. In una cappella laterale un turista in impermeabile chiede spiegazioni a un uomo vestito di nero.

Cerchiamo di far conoscenza. La cosa si mette male: il turista in impermeabile è un archeologo ungherese; l'uomo in nero è una specie di sagrestano e non parla che russo o tedesco.

Cominciamo insieme la visita della chiesa sotto la direzione del sagrestano. L'archeologo ungherese traduce faticosamente in inglese le spiegazioni del sagrestano.

Ma il sagrestano non è affatto tranquillo.Al termine della visita, tentiamo di avere notizie sulla situazione della

Chiesa a Mosca.Risponde prima con reticenza e con prudenza, poi, non potendone più,

apre il suo cuore.Prima della rivoluzione, c'erano, per usare l'espressione russa, quaranta

quarantine di chiese a Mosca. Nel 1940 ne restavano quattordici.Nel 1941, i tedeschi hanno riaperto con gran clamore tutte le chiese esistenti

nell'immenso territorio che occupavano.In parte per controbattere Hitler, ma soprattutto perchè bisognava non

lasciar nulla di intentato, Stalin si accaparrò insieme nazionalismo russo e sentimento religioso.

Alcuni dei pope sopravvissuti ed opportunisti furono autorizzati ad organizzare pubbliche preghiere per la vittoria. Contemporaneamente erano tollerate le questue destinate all'acquisto di carri armati.

Mosca ritornò la città santa che non poteva essere profanata dagli invasori.

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I pochi vantaggi conquistati dalla Chiesa in quell'epoca sono stati conservati. Oggi esistono una quarantina di chiese in buone condizioni. Evidentemente sono poche in rapporto alle quaranta quarantine, per una popolazione ormai raddoppiata.

Faccio osservare, per mezzo dell'ungherese, che la libertà dei culti figura in tutte lettere nella Costituzione sovietica.

All'espressione « libertà dei culti » il sagrestano leva gli occhi al cielo e ci fa un breve corso di diritto costituzionale:

« Abbiamo il diritto teorico di celebrare il culto, ma tutto è organizzato in modo da sottrarci i fedeli. La Costituzione del 1936 autorizza la propaganda antireligiosa e proibisce la propaganda religiosa e l'apostolato. E' proibito ai pope di dedicarsi a una qualsiasi attività, anche caritatevole, al di fuori delle strette cerimonie religiose.

« Il pastore che si dedica alla carità e alla istruzione religiosa dei bambini è considerato come un favoreggiatore della superstizione del popolo e, come tale, passibile dei lavori forzati.

« Per completare la cosa, lo Stato si riserva il diritto di impedire a chiunque di far parte di una associazione religiosa ».

Domando se ci si può procurare con facilità testi religiosi, la Bibbia, per esempio.

Con un mezzo sorriso, il sagrestano risponde:« Alla fine della guerra pareva che la Bibbia sarebbe stata stampata anche

in Russia. Ho visto turisti stranieri con esemplari editi nella loro lingua. Nessun esemplare è praticamente messo a disposizione dei cittadini sovietici nelle librerie del Paese; sarebbe propaganda religiosa!

« Come Gesù Cristo si disinteressava dei Romani, i russi cristiani si disinteressano completamente della forma temporale e provvisoria del loro governo. Come i primi cristiani, subiscono senza rivolte le persecuzioni, come subirebbero un'epidemia, e si limitano, per arginare la violenza, a pregare per i loro carnefici.

« Perchè preoccuparsi del vano agitarsi di effimeri tiranni, passeggeri, se si ha davanti l'eternità?

« Inoltre, le persecuzioni fisiche sono praticamente cessate; ci si stanca presto di martoriare un essere senza difesa che non protesta né reagisce.

« La lotta antireligiosa non c'è più.« Il cittadino che vuol praticare apertamente deve rinunciare, nel suo

lavoro, alle promozioni, o prepararsi a subire ogni genere di vessazioni.« I membri del partito, ai termini dello statuto, non possono oltrepassare la

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soglia di una chiesa, sotto pena di immediata espulsione.« Dei pope " acquisiti al nuovo regime " sono stati messi in circolazione

dopo molti sforzi. Il loro smacco è vistoso come quello dei preti della Convenzione del 1792.

« Malgrado l'enormità dei mezzi usati e il furore impiegato, resta sempre assurdo battersi contro ciò che non si capisce.

« Questi progressisti da parata fanno del gran chiasso per far tacere la paura che li assale, si sentono in fondo egualmente indifesi come quei spauriti Galli che scoccavano le loro frecce contro il cielo.

« Con duemila anni di ritardo, questi campioni di tutte le libertà si pongono al livello degli imperatori romani, con questa doppia differenza che, contrariamente alle deportazioni in Siberia, i massacri del Circo erano la delizia di una parte della popolazione, e che i Romani non avevano il machiavellismo di scrivere in lettere d'oro sui loro edifici: Paese della libertà dei culti ».

Mi ricordo della sprezzante riflessione di Gregorio davanti alla affluenza constatata a Novodievichie :

— Non sono che donne e vecchi!« Il nuovo regime disdegna i deboli, sottolineando che la loro arma

migliore è proprio la loro debolezza.« Con grande pericolo per la loro tranquillità, queste deboli donne

istruiscono di nascosto i loro bambini nella religione di Cristo.« Nelle chiese rigurgitanti c'è effettivamente una maggioranza di donne,

ma c'è anche un'altra maggioranza non meno rivelatrice: una maggioranza di ragazzi.

« La religione ritorna alle origini. I primi credenti erano degli schiavi. I fedeli della Russia di oggi sono, come si vede subito, gli elementi più diseredati della popolazione.

« Allorquando si manifesta un rilassamento nello spirito religioso in Occidente, si constata in Russia il fenomeno inverso.

« Viene così confermata l'imprudente affermazione marxista: il numero dei credenti è direttamente proporzionale al numero degli sfruttati ».

A un tratto l'uomo in nero si rende conto di essere andato troppo in là. Egli non aspira ancora alla palma del martirio e guarda con inquietudine il nostro trio così singolare.

Ci sforziamo di rassicurarlo e confortarlo. Ci riusciamo solo a metà.

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DIFFIDATE DEGLI AMICI

La pioggia è cessata. Decidiamo di condurre il nostro nuovo amico nelle vicinanze del suo albergo.

Si chiama Laszlo e fa parte di una delegazione venuta qui per partecipare ad un congresso. Si rivela subito imprudente, generoso ed espansivo come Mirella. « Certo, Kadar è un traditore detestato dal 98 % degli ungheresi, e disprezzato dai russi ».

Mirella domanda ingenuamente come mai il regime può sostenersi in queste condizioni.

Laszlo risponde severamente:— Domandate ai francesi come hanno sopportato i tedeschi dal 1940 al

1944.In piena Piazza Rossa comincia a raccontarci l'atroce tragedia ungherese.

Era a Budapest. Ha visto la prima manifestazione provocata dalla carestia, degenerata poi non si sa perchè.

Dapprima i russi sono stati spettatori e hanno anche lasciato la capitale.Egli ha vissuto quelle poche straordinarie giornate di libertà.Poi sono arrivati i carri armati sovietici, innumerevoli, inesorabili, nuovi

fiammanti.Budapest, come un sol uomo, si è sollevata con le mani nude contro i tanks,

resistendo incredibilmente e follemente per giorni e giorni, attendendo degli aiuti che non potevano non arrivare.

In quei giorni il mondo libero progettava di organizzare delle collette. Soltanto alcuni coraggiosi andarono a gettare bottiglie di birra contro sedi senza difesa del partito comunista.

Al ricordo della impari lotta, Laszlo si commuove e si esalta. Rievoca a gesti i combattimenti, imita il « ta-ta-ta » delle mitragliatrici.

Condivido i sentimenti di Laszlo, ma, non avendo il disperato disprezzo degli oppressi per la vita, sento avvicinarsi con inquietudine il momento in cui egli lancerà la nostra piccola comitiva all'attacco del primo soldato sovietico in licenza che incontreremo.

Anche Mirella è inquieta. Con mosse da cospiratrice non cessa di guardarsi attorno.

Davanti all'Opera, vedo, con un sollievo da codardo, avvicinarsi il momento in cui il nostro gruppo si scioglierà.

« SAN LENIN »

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La Russia è istintivamente mistica. E sente la necessità di sostituire le icone con qualsiasi altra cosa.

Sfruttando forse questa necessità, i marxisti sono riusciti nel colossale intento di costruire uno Stato essenzialmente materialista su di una base idealmente astratta.

Questa base è diventata la religione ufficiale del regime, con i suoi dèi ed i suoi vangeli, i suoi bigotti ed i suoi eretici.

Non poterono recuperare Marx, ma si affrettarono a mummificare Lenin e Stalin, costruirono per loro un tempio di marmo ed offrirono ad una folla assetata di devozione queste due nuove divinità.

Il terzo mattino del nostro soggiorno a Mosca siamo stati invitati ad unirci alla lenta processione che giornalmente sfila davanti alle mummie.

Una coda di un chilometro si snoda lungo le mura del Kremlino.Sembra che sia così tutti i giorni che Dio... pardon! che Marx fece.Essendo stranieri, abbiamo la facoltà di entrare nel mausoleo senza fare la

fila. Costeggiando la gente allineata, abbiamo la sorpresa di riconoscere fra essa la figlia del defunto Marcel Cachin. La nostra compatriota e collega, figlia dello scomparso leader comunista francese, ha piamente rifiutato il lasciapassare che le spetterebbe di diritto. Vestita dei panni di circostanza, segue devotamente la processione. Le manca solo un cero in mano.

Per restare nell'atmosfera, nel pomeriggio facciamo la visita, quasi obbligatoria, al museo Lenin.

Ogni minima reliquia è stata pietosamente raccolta. Innumerevoli fotografie, disegni o pitture lo raffigurano a tutte le età e in tutte le pose.

Sui muri di ogni sala, i suoi scritti, come parole del Vangelo, sono ricchissimamente incisi su lastre di marmo incastonate d'oro.

Mirella, probabilmente per fare l'indifferente, parla a voce normale. Si fa richiamare all'ordine discretamente.

La Storia ha definito oscurantismo l'epoca del Medio Evo, assurdo il culto dell'« Essere Supremo ». Come qualificherà queste pratiche?

I PIACERI DELLA PIANIFICAZIONE

La quarta mattina del nostro soggiorno a Mosca domando a Gregorio di indicarmi un'autorimessa per far ingrassare e lavare la macchina.

Durante l'ora presumibilmente necessaria per questa operazione, Mirella resterà in albergo per informare le nostre famiglie che ancora non abbiamo presa la via della Siberia.

Come diretta applicazione dei principi cartesiani che regolano la

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pianificazione burocratica, la sola autorimessa aperta alle vetture occidentali si trova a undici chilometri dal Métropole.

« Jojo-tuttofare » è in piena forma; e ci basta un'ora di su e giù (ventuno chilometri segnati dal contachilometri) ed un po' di fortuna, per scoprire l'autorimessa bellamente situata in una stradina lontana da ogni genere di circolazione.

Ci sono poche macchine, il capo-garage ci assicura che s'occuperanno del lavaggio, quando una vettura inglese, arrivata prima di noi, sarà terminata.

Nell'attesa m'informo se, come mi fu promesso a Parigi, c'è davvero dell'olio occidentale, perché, in base a questa assicurazione, non ne ho nemmeno un litro di riserva.

L'impiegato a cui mi rivolgo mi mostra con fare interrogativo un bidone vuoto marcato « Esso ».

La mia gioia è di breve durata, in quanto l'impiegato, che balbetta il francese, mi dice che non c'è più « Esso ». E soggiunge con filosofia:

— Qui, quando c'è qualcosa di buono, immediatamente non ce n'è più.L'inglese che mi precede dissuggella con mosse furtive un suo enorme

bidone di « Shell ». Allettato, mi avvicino.Con istintivo sadismo, il suddito di Sua Maestà accarezza il bidone con la

mano e giura che per nessuna ragione al mondo userebbe olio sovietico che, dopo dieci chilometri, mette il motore fuori combattimento.

Sono preoccupato per l'enormità della mia imprudenza. La cosa doveva essere di dominio pubblico, perché i turisti che arrivano si trascinano dietro tutti una buona decina di bidoni.

Gregorio, indifferente, sogna la natia Ucraina. Con ingiustificato rancore gli dico che se ha voglia di rivedere Karkhov, farà bene a trovare dell'olio. Senza rispondere, Gregorio si mette in marcia e ritorna dopo poco promettendomi dell'olio per motori d'aviazione. Sono le undici.

I meccanici non finiscono ancora la vettura britannica. Sono sette e non hanno trovato, in due ore, il tempo di fare il lavaggio-ingrassaggio.

Il lavaggio, come tutti i lavori faticosi, è evidentemente riservato alle donne.

Le incaricate sono due ragazze che potrebbero essere graziose. Mentre gli ingrassatori chiacchierano, esse lavorano più veloci e meglio di sette uomini uniti.

La macchina inglese non è finita che alle dodici e mezza. Una mezz'ora dopo gli ingrassatori sono pronti a mettersi all'opera, ma è l'ora della sosta. Con perfetta simultaneità si tolgono gli abiti da lavoro.

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Mi precipito dal capo-garage e manifesto la mia indignazione. Ordino a Gregorio di dirgli che è inammissibile che nella futura capitale del mondo sette uomini non possano in mezza giornata ingrassare un'automobile. Senza lasciarmi finire, il capo ordina a un operaio che stava andandosene di rimettersi la tenuta di lavoro.

Costui obbedisce di malavoglia e si avvicina alla mia macchina con lo sguardo cattivo.

Sono inquieto e pentito per il mio scatto di impazienza.Il meccanico apre brutalmente il cofano. E' certamente deciso a « far fuori »

il mio motore. Gli faccio segno che non ho poi tanta fretta e che può andare a calmare la sua fame.

Mi respinge con un sorriso cattivo.Tento con gentilezza e con riguardo di mostrargli l'impianto

d'ingrassaggio.Per tutta risposta ottengo una smorfia di disprezzo e il lavatore-

ingrassatore si sprofonda ferocemente sotto la vettura.Abbandono la mia povera 203 al suo destino.Penso a Mirella, che deve essere molto preoccupata.Con Gregorio ci alterniamo al telefono. La linea è libera, le suonerie

trillano, ma nessuno risponde.L'amministrazione sovietica delle PP.TT. non rassomiglia a quella di nessun

altro Paese. A Mosca uno straniero può ottenere un piccolo comune francese in dieci minuti. Se invece, e dopo aver superato la difficoltà della totale assenza dell'elenco telefonico, cerca di parlare con un abbonato dello stesso quartiere, deve perdere una buona mezza giornata di sforzi, qualche volta coronati da successo.

Per superare la stessa distanza, le lettere impiegano tre giorni o tre settimane. Quelle spedite da Parigi a Mosca con i « Tupolev » giungono spesso all'aeroporto di Mosca quattro o cinque ore dopo essere state imbucate a Parigi. Mettono invece più giorni e spesso più settimane per fare gli ultimi dieci chilometri.

Mi riavvicino alla mia automobile che trovo abbandonata, col cofano aperto.

Il meccanico ritorna presto recando con molta precauzione un vecchio secchio arrugginito pieno di un liquido nerastro. E' il famoso olio da aviazione.

Vediamo molte vetture della carovana « Francia-U.R.S.S. » con il parabrezza in frantumi. A causa dei rottami di ogni genere che ingombrano le

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strade, questo è un incidente assai frequente, e che, secondo un amatore di statistica, capita nell'URSS a un turista su sei. Faranno ritorno in Francia così, perché non c'è modo di trovare né vetro, né plexiglass e nemmeno mica. Un'altra vettura della carovana ha il radiatore incrinato e deve tornare indietro col treno.

Sono quasi le quindici quando la macchina è pronta. Il mio ingrassatore sembra fiero di sé stesso; sotto la spinta della fame ha battuto tutti i records; ha fatto il suo lavoro d'ingrassaggio in meno di due ore. Mi congratulo con lui, per abbreviare le chiacchiere riguardanti il regolamento dei conti. Ho sbagliato i calcoli. Malgrado la buona volontà di tutto il personale, raddolcito dal pasto, ci urtiamo contro un ostacolo difficile da superare quanto il muro del suono : i buoni di olio che io ho comprato sono per tre litri, il mio carter ha ingurgitato invece la sua razione abituale di quattro litri. Offro due buoni da tre litri, ma il cassiere, che ha solo buoni da tre litri, non è autorizzato né a prenderli né ad accettare la differenza in danaro. Inoltre nessuno ha un'idea del prezzo di questo olio sopraffino.

Un tipo scaltro suggerisce al mio ingrassatore, che comincia a innervosirsi per il digiuno, di riestrarre un litro di olio col sifone. Da un punto di vista amministrativo, questa soluzione è perfettamente ortodossa, ma mi sforzo in tutti i modi per impedirla. Con una acconcia dose di minacce e di suppliche, Gregorio riesce alla fine a farci uscire da questo ginepraio e mi ricorda che siamo in ritardo. Corriamo verso l'albergo dove troviamo la mia sposa in uno stato di profonda agitazione. Sono le sei e da mezzogiorno Mirella era sola e senza notizie. Si era convinta di essere stata abbandonata in una città ostile e che i suoi due uomini, rapiti dai Mongoli, erano ormai in marcia verso una lontana miniera di sale. Senza perder tempo, aveva riunito tutti gli occidentali dell'albergo. Per fortuna, quando volle dare l'allarme all'ambasciata di Francia, urtò contro la mancanza dell'elenco telefonico. Al nostro arrivo è in lacrime, circondata dalla pietà dei turisti. Quando Mirella si rende conto che non abbiamo subito alcuna tortura, subiamo invece, alla presenza di tutti, una scarica di considerazioni la più gentile delle quali sarebbe sufficiente per motivare una sentenza di divorzio.

IL CODICE SEGRETO DELLA STRADA

Questa sera domandiamo a Gregorio di portarci al cinema. « Molto facile, ci risponde Gregorio, Mosca ha sessanta cinematografi e duecento clubs ». Io pretendo un film sui kolkoz o sulla tecnica stakanovista, Mirella esige un film comico. Ci dirigiamo a caso, in macchina. Malgrado le numerose

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trasformazioni di chiese in cinema, vediamo molto poche sale aperte. Rifiutiamo un film jugoslavo che si può vedere anche a Parigi, e scegliamo un film dal titolo oscuro che permette così tutte le supposizioni. Il film è già iniziato e ci proibiscono, senza complimenti, di entrare.

Gregorio suggerisce di andare ad ascoltare della musica al Parco della Cultura. Con un coraggioso slancio di entusiasmo, accettiamo. Non avevamo fatto i conti con le difficoltà della circolazione di Mosca. Le strade sono larghe quasi cento metri e la circolazione è come quella di un villaggio francese la domenica pomeriggio. Per mantenere i guidatori all'erta, le autorità hanno inventato dei regolamenti che solo un cervello slavo poteva immaginare. Le strade hanno sempre nel centro il famoso corridoio riservato ai super-privilegiati del regime. Questa via, segnata da due strisce laterali, costituisce una zona proibita che il semplice cittadino non può usare né attraversare. Questo democratico particolare impedisce i dietro-front qualche volta per dei chilometri.

Mirella fa osservare in amicizia a Gregorio che a Parigi un simile privilegio susciterebbe una rivolta. Gregorio è troppo occupato ad aiutarmi per rispondere. Ad ogni incrocio non si può

girare che da un lato e molto spesso non si può girare affatto. Per aumentare il piacere dell'imprevisto, il divieto è segnato soltanto al centro dell'incrocio da piccole targhe poco appariscenti di giorno ed invisibili di notte. Volendo essere obiettivi, va detto che le automobili che vagano in tutti i sensi alla ricerca della loro strada danno qualche volta una certa illusione di circolazione.

I moscoviti sono legittimamente fieri di questo sistema geniale, che sembra essere un segreto militare, perchè nelle librerie si trovano tanti codici di circolazione quanti capelli ha in testa Krusciov.

Per dimostrare il valore e gli effetti del sistema, dei militi sono distaccati ogni cinquanta metri. Attentamente seguono con lo sguardo l'automobilista straniero, aspettando il momento in cui deve affrontare una curva e che, trepidante, attende il fischio stridente che gli ricorda una volta su due che ha girato dalla parte sbagliata.

La punizione è quella di ascoltare con aria attenta il lungo sproloquio in russo fingendo di capirlo, come se si fosse poliglotti.

La notte, invece, qualunque veicolo può essere parcheggiato o può circolare a cento chilometri all'ora senza fari accesi. Se poi ricoprite una qualsiasi carica nell'amministrazione dei Lavori Pubblici, potete scavare in mezzo alla strada senza bisogno di segnalazioni, incominciare i lavori su tutta la larghezza della

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via senza sbarrarla e senza mettere transenne e indicazioni luminose.Questa sera la fortuna non è con noi. Tutti e tre col naso schiacciato sul

vetro, cerchiamo di scorgere le segnalazioni, giriamo sempre regolarmente nel senso sbagliato. Ogni volta, faccio come Ponzio Pilato, e rispedisco le invettive dei militi a « Jojo-tuttofare », che ne sente di tutti i colori e si nasconde sempre di più nel fondo della macchina.

Voltiamo per via Gorki. Fischio! L'incaricato ai rimproveri si avvicina, lanciando sguardi lampeggianti. A un mio cenno si butta su Gregorio, terrorizzato. Si esprime con tale violenza e rabbia come se volesse staccargli la testa. « Jojo » riesce tuttavia a fargli dire che il Parco della Cultura è alle nostre spalle.

Supplichiamo il milite di farci fare dietro-front almeno una volta. Niente da fare, ripartiamo lungo la strada deserta, voltando le spalle alla nostra meta.

Siccome per dei chilometri non appare possibile fare dietrofront, prendo la prima strada a destra per tornare indietro; è un vicolo chiuso. Prendo la seguente e rischio di fracassare tutto in una frana. Per due volte riusciamo ad avvicinarci al Parco della Cultura. Ad un certo momento lo scorgiamo anche; ma nell'attimo in cui stiamo per voltare verso l'entrata, un colpo di fischio ci rinvia da dove siamo venuti.

E' ormai mezzanotte. Scoraggiati, rinunciamo alla lotta. Riprendiamo l'interminabile via Gorki che porta al Métropole. Dopo dieci chilometri, constatiamo di averla presa nel senso sbagliato. Deciso a tutto, trovo un pezzo di strada senza militi e malgrado il corridoio sacrosanto e le invocazioni di Gregorio, faccio per la seconda volta un dietro-front sacrilego e impunito.

Rientriamo scornati. Davanti all'albergo due ubriachi si baciano sulla bocca. Arrivano degli americani in una enorme Cadillac color fragola schiacciata. Si forma un assembramento attorno alla macchina. Ne scende un'americana del tipo Elisabeth Taylor e discute in francese con un moscovita che le domanda le sue impressioni. Essa dichiara che le camere dell'albergo sono molto grandi.

Negligentemente appoggiata sul suo autobus privato, provoca l'ilarità generale aggiungendo che in America si preferiscono le cose piccole.

BALLO POPOLARE

Questa sera, in occasione di non so quale anniversario, si balla nell'immensa Piazza del Teatro. Come nella maggior parte dei festeggiamenti

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popolari, la musica è assicurata da una fanfara militare in uniforme. Centinaia di giovani approfittano di questa rara fortuna.

Numerose coppie ballano evidentemente per la prima volta nella loro vita. Una indiscrezione mi ha permesso di sapere che l'organizzazione delle orchestre da ballo non è prevista che nella seconda parte del piano quinquennale del 1985, quando cioè il livello della vita dei russi avrà sorpassato di vent'anni quello degli americani.

Per ora, i moscoviti si accontentano di dimostrare che l'eguaglianza dei sessi non è vana parola. La maggior parte delle coppie è formata da ragazze che ballano insieme e da giovanotti che fanno altrettanto. Dall'espressione dei ballerini si capisce che questo sistema li soddisfa relativamente.

A pochi metri da noi si svolge un balletto molto eccitante per i turisti piccolo-borghesi: due erculei militari si avvicinano l'uno all'altro con aria decisa. Vogliono battersi? No! I due terribili soldati si circondano reciprocamente con le braccia. Lo sguardo lontano, la fronte alta, come conviene ai rappresentanti dell'invincibile armata sovietica, cominciano con solennità a dimenarsi. Tutt'intorno si formano altre coppie di militari che altrettanto dignitosamente cominciano a dondolarsi.

All'improvviso, probabilmente sdegnata da questo baccanale, una grossa nuvola rovescia una pioggia torrenziale. Abbandonando ogni ritegno, i ballerini corrono ventre a terra verso i più vicini ripari.

Una cattiva lingua ci dice che il carattere precipitoso di questa fuga è dovuto agli effetti catastrofici dell'acqua sui tessuti sovietici.

FATTI DIVERSI

Visto che i giorni passano inutilmente, ricordo a Gregorio la sua promessa di portarmi nei tribunali moscoviti e di farmi avere dei contatti coi miei colleghi sovietici. Gregorio mi risponde che sta facendo il possibile. Sono sicuro che dice la verità, ma comincio a spazientirmi.

Ci accorgiamo ogni giorno di più che variare qualche cosa ad un programma prestabilito è, in Russia, opera da titani. In questa patria della cultura e del progresso, mal incoglie a colui che vuole uscire dal più modesto, dal più vuoto tran-tran quotidiano.

Questa notte, verso luna, siamo stati svegliati di soprassalto da stridentissimi fischi. Dalla strada si sentono delle urla strazianti di donna. Mi precipito alla finestra. Cinque piani più sotto, sul marciapiede di fronte, degli uomini ne inseguono un altro. Un piccolo gruppo ferma il fuggitivo con

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incredibile brutalità. Il disgraziato è gettato a terra e letteralmente gli viene calpestato il viso a colpi di tacco. Si forma un crocicchio di persone che mi impedisce di vedere la fine della scena. La cosa più strabiliante è questa: una lunga automobile arriva con tutti i fari accesi. Si ferma lungo il marciapiede, all'altezza del gruppo: degli uomini discendono e rimontano nella vettura. In pochi secondi, come in una visione, senza un grido, senza scompiglio, il gruppo d'uomini

si dilegua come neve sul fuoco. Resto con gli occhi sbarrati a contemplare la limousine che scompare nel viale deserto.

In una qualsiasi città del mondo, dopo un qualsiasi incidente un po' fuori dell'ordinario, un gruppo di curiosi sarebbe rimasto a commentare a lungo l'accaduto.

Malgrado le indagini che ho svolto il mattino seguente, non sono riuscito a sapere se sono stato vittima di una allucinazione o se ho assistito all'arresto di un bruto o di un nemico del popolo. L'immagine di quegli uomini, che si sono dispersi precipitosamente, silenziosamente e ordinatamente, mi perseguiterà per lungo tempo.

IL GENIALE RECHETNIKOV

Dei turisti francesi ci scongiurano di evitare la Galleria Petrianov, che ci dipingono come un museo di cattivo gusto. Lo dico a Gregorio che tiene molto a rispettare il suo programma. Discutiamo per cinque minuti. Come sempre, il diabolico Gregorio finisce per averla vinta, facendoci osservare che i quadri esposti sono belli o brutti, ma che piacciono ai russi e che per noi è senz'altro interessante conoscere ciò che a loro piace. Come al solito, il museo non rivela nulla di più indigesto degli altri musei. Campanilisti come siamo, andiamo alla ricerca di opere di maestri francesi. Si vede benissimo che Gregorio soffre di non averne sottomano; e, sempre soffrendo, non può impedirci di vedere lo straordinario quadro di un certo Rechetnikov. Questa notevole opera rappresenta la Parigi d'oggi vista da un pittore russo.

In primo piano due bambini di sette-otto anni, male in arnese, più o meno come i bambini delle campagne russe, con una convinzione degna della loro età, scrivono a lettere cubitali su di un muro in rovina : « Pace ». In secondo piano, delle rovine gigantesche e dantesche, stile Berlino Est. In terzo piano, sempre su un fondo di rovine, dei poliziotti con l'elmetto e con un ghigno feroce percuotono selvaggiamente degli operai affamati che reclamano pane. Dei borghesi rubicondi, in un piano intermedio, eccitano la ferocia della

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soldatesca.In disparte, Gregorio attende stoicamente la mia indignata reazione.

Decido di mettere la sua perspicacia alla prova. Vado verso di lui sorridendo e con tutta serietà dichiaro: — Parigi è così!

C I N E R A M A

Questa sera, spettacolo di cinerama. In virtù dell'articolo 26.843 bis del codice sovietico, i migliori posti sono a disposizione delle delegazioni e dei turisti. In virtù dell'articolo 26.843 ter, i migliori posti sono le prime file. Di conseguenza Gregorio ci installa inesorabilmente nella prima fila, a tre metri dallo schermo gigante.

Prima dello spettacolo, una voce stentorea annuncia che il cinerama è una realizzazione esclusivamente sovietica. Gregorio fa finta di credere a Mirella che. afferma candidamente di conoscere il cinerama da molti anni.

La prima parte dello spettacolo è un inventario del patrimonio artistico, turistico ed economico dell'U.R.S.S. I presenti rimangono allibiti alla visione di kolkoz trasformati in paradiso terrestre; lo sbalordimento di tutti è al colmo.

Dopo l'intervallo, un documentario, sempre in cinerama, sul Carnevale della Pace, che s'era svolto a Mosca l'anno prima. Dei rappresentanti di tutte le nazioni sfilano in costumi il più possibile folkloristici. E' il caso di parlare di insalata russa. Gli organizzatori sono giunti al punto di presentare una banda di cornamuse scozzesi fiancheggiata da negri ricoperti di piume e da acrobati in motocicletta.

GIUDICI E AVVOCATI

Gregorio è trionfante. La visita a un tribunale è per questa mattina. Mosca è giudiziariamente divisa in venti sezioni. Visiteremo il tribunale della sezione « Riviera Mosca » che ha sede in via delle « Orde ». Avremmo preferito andare in un tribunale qualsiasi, all'improvviso, ma non bisogna essere troppo esigenti. Comunque, per una fortunata combinazione, la nostra visita organizzata si rivelerà straordinariamente istruttiva.

Di fronte al tribunale ci attende un piccolo gruppo di gente. Sono due avvocati americani con le loro rispettive guide. Chiacchieriamo un poco. I nostri colleghi hanno incontrato le stesse nostre difficoltà per partecipare a questa visita.

Un solerte cancelliere di sesso femminile ci accompagna in una delle sale

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d'udienza e ci fa sedere. La sala è piccola e miserabile, ma molte delle nostre aule non hanno un aspetto migliore.

Gregorio ci avverte che saremo ricevuti dal giudice di pace e dal procuratore. Qualche istante dopo, siamo introdotti. Il giudice di pace ha una faccia di brav'uomo. Al contrario, in un Paese dove si giudicasse la gente dall'aspetto, il procuratore dovrebbe essere immediatamente spedito al bagno penale.

Bastano trenta secondi per capire che il procuratore è il personaggio centrale ed onnipotente. E' entrato nell'ufficio senza che nessuno l'abbia chiamato e si è piazzato davanti a noi senza nemmeno guardare il giudice.

Questi comincia immediatamente a raccontare la sua vita. Era operaio, la magistratura lo tentava, il sindacato dell'officina lo ha proposto come candidato, è stato eletto. Ama molto il suo nuovo mestiere di giudice. La sua porta è aperta a tutti.

Gregorio traduce e chiede se nessuno ha domande da fare. Gli americani, che non sembrano a loro agio, non dicono una parola.

M'azzardo a porre qualche domanda.— Quando siete stato eletto?— Un anno fa.— Quanti posti erano disponibili?— Uno solo.— Quanti candidati eravate?Un po' pallido, Gregorio traduce la mia domanda. Il giudice è disorientato.

Il procuratore gli dice qualche parola bruscamente. Gli americani fanno l'atto di andarsene.

Cocciuto, insisto: — Quanti candidati per quel solo posto?Gregorio non traduce nemmeno più. Il procuratore sembra intimare al

giudice di rispondere.A disagio come un cavallo che si trovi, solo, alla partenza del Grand Prix,

mi fa segno: « Uno », alzando il pollice della mano destra. Per rasserenare l'atmosfera, Mirella domanda a sua volta i titoli di studio del giudice. Non ha titoli di studio, ma dopo la sua elezione ha seguito dei corsi serali. Di colpo il procuratore si alza e dichiara che è l'ora dell'udienza. La conversazione finisce.

Raggiungiamo la sala del tribunale. La cancelliera, aiutata da Gregorio, ci spiega il processo al quale assisteremo. Si tratta di una baruffa tra due giovani innamorati della stessa ragazza.

L'accusato ha picchiato uno dei suoi amici che metteva in dubbio la serietà

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della ragazza. La causa è già stata discussa una volta davanti allo stesso tribunale e l'accusato è stato assolto. La causa si ridiscute al tribunale su appello del procuratore.

Se abbiamo ben capito le spiegazioni che ci sono state date, in U.R.S.S. non esiste l'appello propriamente detto. Quando una parte non è soddisfatta della sentenza, fa un ricorso alla giurisdizione superiore. Questa sezione non ha il potere di modificare la prima decisione; può solo confermare od annullare la sentenza. Il tribunale di seconda istanza fa dunque le veci della nostra Corte di Cassazione. Lo straordinario è che se la decisione sottoposta al tribunale superiore è annullata, sono i primi giudici che devono riesaminare la causa. E' precisamente il caso di oggi.

L'accusato è un giovane biondo che non ha ancora vent'anni. Molti parenti gli sono vicini.

Il procuratore, che ha proposto l'appello, prende per primo la parola e comincia a dimostrare la colpevolezza dell'imputato.

Il presidente è assistito da due assessori in maniche di camicia che, essendo arrotolate, lasciano intravedere strani tatuaggi.

Il procuratore tende verso l'accusato il suo braccio vendicatore e... tatuato. Mirella, alla quale nulla sfugge, mi dice ad alta voce: — E' una giustizia da tatuati!

Assunte informazioni in proposito: il tatuaggio, in Russia, non è che abbia un significato speciale, vale quanto quello delle altre parti del mondo.

La difesa ha la parola. Il compagno avvocato è in borghese e non ha un'aria migliore del procuratore. Gregorio ci traduce a mano a mano la sua perorazione. Ogni tanto i parenti dell'imputato sospirano rumorosamente. La pretesa vittima è assente Il più curioso è che se le cause della lite non sono state ben accertate, è indubbio che dei pugni sono stati dati sia da una parte che dall'altra. In Francia, i due litiganti si sarebbero visti accomunare da una condanna uguale per reato di percosse e ferite reciproche.

Quando, conclusa l'udienza, il giudice chiede la nostra opinione, gliela diamo.

Il procuratore deve essere stato ben persuasivo, perché, quando ripasseremo per Mosca, qualche settimana più tardi, verremo a sapere che questo stesso giudice, che aveva assolto in prima istanza l'imputato, lo ha irrevocabilmente condannato, il giorno della nostra visita, a due anni di galera.

Come avvocati, rimaniamo veramente stupefatti, tanto più che l'imputato era incensurato. Senza dubbio la vittima doveva essere una persona

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importante.Alla fine del dibattito, Gregorio ci presenta il nostro collega e gli spiega che

siamo avvocati a Parigi. Il collega compagno si anima un po' al nome di Parigi, ma tutto ciò che ne possiamo cavare è: — Sì, sì, Parigi... Yves Montand.

Invito Gregorio a fornirci un altro avvocato. La cancelliera, che ci osserva dall'alto del suo scranno, capisce che qualcosa non va, e viene ad informarsi. Le spiego sgarbatamente che noi cerchiamo avocatzski, sovietzski, che parlino francewski.

Prima che Gregorio abbia avuto il tempo di farle dire che tutti gli avvocati che parlano francese sono in vacanza, la ragazza ci fa capire con una mimica chiarissima che non c'è nulla di più facile. Ci invita a seguirla. Passiamo per una porticina, attraversiamo un corridoio e usciamo dalla facciata posteriore del tribunale.

Gregorio è impressionato, ma ci segue. Attraversiamo un piccolo cortile dove sono accatastate delle ferramenta arrugginite ed entriamo in un curioso padiglione, in confronto al quale il tribunale è un palazzo. Ci troviamo in una stanza abbondantemente occupata da gente. La stanza è di circa cinque metri per tre e cinquanta. A destra di una specie di nicchia di due metri per due lavorano due segretari, uno alla macchina da scrivere e l'altro al telefono. Questa nicchia sembra servire anche da sala d'aspetto, perché parecchie persone attendono in piedi addossate ai segretari.

Il resto della stanza è occupato da sei piccole tavole allineate lungo i muri. Dietro a cinque di esse sono seduti quattro uomini e una donna. Due sembrano dare dei consigli a chi sta loro seduto davanti. Gli altri compulsano delle pratiche.

Il nostro arrivo, malgrado l'affollamento, deve fare impressione, ma tutti fingono di non vederci.

La cancelliera ci fa fermare in mezzo alla stanza e dice qualche cosa ad un uomo di una certa età seduto ad una delle tavole. Questi si dirige subito verso di noi e, in un francese impeccabile, ci dà il benvenuto.

E' avvenuto il miracolo; siamo in uno studio di avvocati e abbiamo davanti a noi un collega che parla francese. La giovane donna che lavorava alla tavola vicina ci raggiunge e domanda, nel francese più puro, se abbiamo fatto un buon viaggio. Siamo stupiti d'avere degli interlocutori che sanno così bene la nostra lingua.

L'uomo anziano era già iscritto all'album degli avvocati ai tempi dello Zar. Anche la giovane donna è una collega. E' meno giovane di quanto credevamo, perché ha imparato il francese sulla Costa Azzurra dove è vissuta

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fino a sei anni prima della rivoluzione.Siamo tutti in piedi in mezzo alla stanza. La conversazione è difficile

perché il chiasso è assordante, per il continuo andirivieni.Malgrado l'ora (le 12,15) si sente continuamente il crepitio della macchina

da scrivere, il telefono suona senza sosta ed è tanto più seccante in quanto, secondo l'abitudine sovietica, nessuno risponde. Soltanto le nostre orecchie occidentali devono rimanere colpite dalla stridente suoneria, perché tre persone sono vicine all'apparecchio e nessuno stende la mano per sollevarne il cornetto.

Per non perdere i frutti di un incontro così provvidenziale, domando inopportunamente se non potremmo chiacchierare in un posto più calmo, la stanza dell'Ordine, per esempio! I nostri colleghi confessano che non c'è altra stanza per gli avvocati.

— Quanti avvocati siete nella sezione « Riviera Mosca »?— Trentotto.— Dove ricevete i vostri clienti?— Qui.— Esclusivamente?— Sì.— Come può servire a trentotto avvocati questo ufficio?— Per ora, siamo solo trentasei, ce ne sono due ammalati. Inoltre, veniamo

qui soltanto due mezze giornate alla settimana, in gruppi di sei!Abbiamo saputo in seguito che effettivamente un avvocato sovietico non

può ricevere un cliente a casa, sotto pena di essere radiato.Gregorio, addossato allo stipite della porta, ostenta un profondo distacco.

Le contrazioni delle sue mani tradiscono però la sua inquietudine. Stiamo commettendo un vero abuso di fiducia, avallato da Gregorio. I nostri colleghi, rassicurati dalla presenza del nostro angelo custode, sono convinti di aver a che fare con una delle innumerevoli delegazioni dei Paesi « progressisti » in visita ufficiale. Il collega anziano, che fa capire di essere il capo dello studio, propone di continuare la conversazione in una sala d'udienza. Accettiamo e ci ritroviamo su un banco di una tranquilla aula, dove una donna cancelliere lavora alla sua scrivania con molto impegno.

Gregorio, molto discreto, ci attende nel corridoio.Il vecchio collega sembra molto stanco. La sua estrema prudenza dà una

falsa impressione di indifferenza, la collega ci studia con lo sguardo.Cattiva, senza volerlo essere, Mirella spiega che ognuno di noi dispone di

uno studio vasto quanto quello riservato ai nostri trentotto colleghi.

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— No, non siamo dei capitalisti.— Abbiamo cominciato senza appoggi in un minuscolo appartamento.— Sì, gli avvocati a Parigi hanno generalmente una macchina.— Certamente, abbiamo dei colleghi comunisti.— Quasi centocinquanta su tremila.— Sì, anche loro hanno delle automobili.I nostri due colleghi capiscono che i loro interlocutori non hanno niente a

che fare con la fauna progressista che si aggira senza badare a spese su tutto il territorio. Le loro facce si rabbuiano. Non sappiamo e non vogliamo sapere che cosa pensano.

Il vecchio collega deve essersi ricordato improvvisamente che è il capo. Si mette a recitare la sua lezione:

— Gli avvocati sono dei lavoratori della giustizia; la ripartizione delle cause è fatta equamente dal capo dello studio in modo che ai giovani avvocati sia garantito un minimo di lavoro. L'avvocato sovietico beneficia di tutti i vantaggi dei lavoratori: assicurazione malattie, ferie pagate, pensione, ecc...

Gregorio, impaziente, appare sulla soglia della porta. Tentiamo di invitare i nostri colleghi a prendere il tè con noi nel pomeriggio o un'altra volta, quando saremo di ritorno.

Urtiamo contro un muro; stretti uno accanto all'altra, si rifiutano e forse è meglio. Noi passiamo. Essi rimangono. Ci congediamo imbarazzati e sentiamo un'improvvisa vergogna per i nostri vestiti, per la nostra macchina, per la nostra libertà di movimento.

Questi primi contatti con la vita dei nostri colleghi compagni ci hanno così sorpresi che pensiamo di averne altri.

Dopo tentativi, più o meno fortunati, abbiamo avvicinato avvocati di Kursk, di Karlchov, di Yalta e, di ritorno a Mosca, abbiamo visitato lo studio della sezione di Kiev, che ci ha confermato che la situazione vista nel primo studio non aveva nulla d'anormale. I locali erano più accoglienti ed avevano due stanze per gli avvocati. Ma questi erano cinquantacinque.

Mosca è, o dovrebbe essere, due volte più importante di Parigi, dal punto di vista economico e demografico. Non ci sono invece che novecento avvocati sui tremila di Parigi. In uno dei suoi discorsi, Krusciov ha dichiarato che gli avvocati sono ancora troppi. Io ho chiesto ad un collega dello studio della sezione di Kiev che cosa ne pensasse. Mi ha risposto subito che Krusciov ha perfettamente ragione.

Se un giorno Krusciov dichiarasse che gli avvocati moscoviti sono dei buoni a nulla, i novecento colleghi ripeteranno in coro: « Sì, non siamo buoni

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a nulla ».Bisogna anche dire che l'avvocato sovietico ha un campo d'azione

estremamente limitato e che la sua autonomia si potrebbe paragonare e quella degli scrutatori di un seggio elettorale.

In materia penale, se c'è un momento in cui l'accusato ha bisogno del concorso di un avvocato, è proprio durante l'istruttoria. Nell'U.R.S.S. l'accusato è abbandonato al giudice istruttore. Ciò facilita le confessioni « spontanee » ed evita discussioni. Il magistrato inquirente sarà poi all'udienza il procuratore generale.

Il povero difensore conosce generalmente gli atti dell'istruttoria la mattina dell'udienza.

Abbiamo interpellato parecchi avvocati sulla procedura dei processi politici. Quasi tutti ci hanno risposto che da molto tempo non se ne celebrano più. Ho fatto allora invariabilmente osservare che ci sarà stato almeno il processo Beria, e ho chiesto in base a quale procedura era stato condannato all'esecuzione capitale.

Davanti al preoccupato silenzio che ne seguiva, io continuavo con candore:— Sarà stato giustiziato senza processo?— No, certamente.— Qual'è la giurisdizione che l'ha condannato a morte?Non ho mai potuto ottenere una risposta a questa domanda. Ho avuto

sempre l'impressione che i miei interlocutori non sapessero nulla e preferissero non saperlo.

Sono passati circa due secoli da quando la rivoluzione francese ha condannato a morte Luigi XVI. La delicatezza non era certo la virtù principale dei rivoluzionari. Hanno però giudicato prima di condannare e la storia ha registrato i nomi degli avvocati che hanno difeso l'illustre accusato a rischio della vita.

Noi non possiamo immaginare che un uomo politico possa essere condannato a morte, giustiziato, sepolto, senza che almeno un avvocato del suo Paese non possa dire perché, come e dove.

E' vero che la completa assenza della stampa giudiziaria facilita il tranquillo svolgimento delle più aberranti procedure.

Più volte ho avuto l'assicurazione che i detenuti politici sono trattati nella stessa maniera dei comuni. Ho ammesso che è già un progresso, ma non ho cercato di spiegare che nel nostro Paese, retrogrado-capitalistico-fascista, i detenuti politici beneficiano di un regime di favore, che sono dispensati da ogni lavoro, e che, usciti di prigione, diventano qualche volta deputati,

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ministro o capi dello Stato, dopo una campagna elettorale fatta contro il governo. Come avrei potuto far capire cose simili quando non sono mai riuscito a convincere un russo che la metropolitana di Parigi ha duecentocinquanta stazioni?

I giuristi stranieri invitati in Russia hanno generalmente la facoltà di visitare la prigione modello di Mosca dove si vedono i detenuti ricamare davanti a un apparecchio radio. Ma qualche confidenza fuori programma mi ha convinto che la rieducazione dei detenuti si effettua sostanzialmente in Siberia.

* * *

Le elezioni al Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Parigi danno luogo a campagne elettorali vivaci e appassionanti. Molti avvocati francesi considerano come un coronamento della loro carriera il fatto d'essere nominati membri del Consiglio dell'Ordine dalla maggioranza dei loro colleghi che votano liberamente a scrutinio segreto.

Anche il partito comunista francese autorizza qualche volta un compagno a sollecitare i suffragi dei suoi colleghi. Ma costui sa benissimo che col libero scrutinio non otterrà mai il numero sufficiente di voti. Talvolta egli insiste, in attesa dell'era comunista, quando il Foro, come il resto del Paese, conoscerà il magnifico sistema elettorale sovietico.

Il Consiglio dell'Ordine degli avvocati francesi si può paragonare in Russia al Presidio degli avvocati. Mi ricorderò sempre la sorpresa dei colleglli dello studio della sezione di Kiev quando dissi loro che a Parigi alle elezioni del giugno 1958 c'erano quasi cinquanta candidati per tre posti. Malgrado cercassero di sviare la conversazione, riuscii a far loro dire che nelle ultime elezioni, nel Presidio degli avvocati di Mosca, c'erano tre candidati per i tre posti da coprire. Nessun candidato si presenta poi spontaneamente. Sono tutti scelti in base a criteri che non mi sono stati spiegati chiaramente. L'elezione avviene pubblicamente per alzata di mano.

«ABBIAMO LO SPUTNIK»

Avere contatti con gli avvocati non è stato facile, come in Russia è sempre difficile, tolte le visite ufficiali, avvicinare un libero professionista.

A Kursk, Karkhov e Yalta, l'accesso allo studio degli avvocati ci è stato

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rifiutato col pretesto di certi restauri. In ognuna di queste tre città, ho potuto verificare, mettendo a rischio la tranquillità di Gregorio, che c'erano tanti restauri da fare quante belle ragazze a spasso per la strada.

Il capo di uno studio d'avvocati ha un ruolo importantissimo. E' lui che distribuisce le cause secondo le competenze. L'imputato è teoricamente libero di scegliersi l'avvocato. Se non ha delle preferenze, il capo dello studio sceglie per lui. Ma il cittadino russo ha la stessa voglia di scegliere il suo avvocato quanto quella di usare la libertà di voto.

Ecco quanto ho potuto notare o farmi spiegare: l'avvocato non può ricevere sotto nessun pretesto i clienti a casa; non può egualmente ricevere nessun onorario dal suo cliente; questi, per conferire con un avvocato, è quindi obbligato a rivolgersi allo studio degli avvocati, dove un incaricato, di solito ad uno sportello, gli domanda che cosa lo preoccupi; saputo il genere della causa, l'impiegato dice al cliente che lo studio suggerisce la scelta del tale avvocato, ma se il cliente non ha fiducia in lui, può scegliere un altro avvocato. Sembra che i clienti si fidano della scelta del capo dello studio in ragione del 99,8 %. . .

L'avvocato più profondamente marxista, o quello più benvisto dal capo, vede naturalmente affluire da lui più clientela.

In uno studio d'avvocati eravamo alla presenza di una mezza dozzina di colleghi. Uno di essi vantava le piacevoli condizioni del loro lavoro. Posi una domanda « esplosiva » : « Perché non potete venire in Francia? ».

Uno rispose immediatamente : « Per due ragioni : la prima è una questione di denaro, la seconda il visto. Siccome non siamo mai riusciti a risolvere la prima, è inutile prendere in esame la seconda! ».

Approfittando delle buone disposizioni dell'areopago, chiesi delle loro condizioni di vita. L'avvocato medio sovietico guadagna novecento rubli al mese. Qualcuno di più, molti di meno. Il che corrisponde a due terzi del potere d'acquisto che in Francia ha un secondino.

— Ma sapete che un avvocato medio francese ha uno standing di vita dieci volte superiore al vostro?

Lo stesso collega rispose subito: — Lo sappiamo, ma noi... noi abbiamo lo Sputnik...

Devo aggiungere che se l'avvocato sovietico ha un tenore di vita dieci volte inferiore a quello dell'avvocato francese, lavora in compenso quattro volte meno.

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LA PRIMA METROPOLITANA DEL MONDO

Prima di lasciare Mosca vogliamo accontentare Gregorio che ci perseguita ogni giorno per farci vedere questa metropolitana che il mondo intero sa che è la più bella, la più grande, la più artistica.

E' il perfetto simbolo del sistema sovietico: un gigantesco bluff a uso interno ed esterno. Voleva essere la prima metropolitana del mondo, ma l'economia collettivistica non poteva e non può ancora permettersi l'impiego dei capitali e della mano d'opera necessari alla costruzione di una rete paragonabile a quella creata dai parigini prima del 1914.

La metropolitana parigina dispone di quattordici linee principali e di circa duecentocinquanta stazioni. Pur facendo le più strette economie, non era possibile a Mosca costruire più di otto linee e centocinquanta stazioni. Un consigliere di Stalin ebbe allora un colpo di genio: — Diminuiamo il numero delle linee e delle stazioni e costruiamo le stazioni più belle del mondo.

E così le quaranta stazioni delle quattro linee moscovite sono le più lussuose, in una delle più corte reti metropolitane del mondo. La maggior parte della popolazione continua perciò a circolare a piedi. Non tentate, noi ne abbiamo l'esperienza, di dire ad un moscovita che la metropolitana di Parigi dispone di duecentocinquanta stazioni: non vi crederebbe. E se mostrate una pianta della metropolitana di Parigi, vi sentirete rispondere che è un documento falso, edito dal nostro ministero per la Propaganda.

Invano ho tentato di convincere i miei giovani interlocutori che il nostro ministero per la Propaganda è molto meno abile di quanto essi non immaginino, e che perciò la maggioranza dei francesi continuerà ad ignorare per lungo tempo che la prima metropolitana del mondo ha solo quaranta stazioni.

IL PARCO AGRICOLO

Consacriamo il nostro ultimo pomeriggio a Mosca alla visita del Parco Agricolo. Si tratta di un'esposizione permanente della produzione di tutte le Repubbliche Sovietiche.

Gregorio attira la nostra attenzione sul fatto che il Parco supera l'esposizione di Bruxelles per la sua superficie. E' esatto, e bisogna aggiungere che gli edifici che rappresentano le repubbliche hanno un aspetto sontuoso. Sono esposti i prodotti più svariati: enormi camions, trattori, automobili, motociclette. Domando il prezzo di una motoretta: 8.000 rubli! Quasi un anno di salario d'un avvocato!

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Mirella trova il prezzo esorbitante. Un tale le spiega in inglese: « E' una cosa senza importanza, tanto non se ne trovano ». Infatti, non vedremo praticamente mai dei russi in motocicletta. Domando a Gregorio: — Da quanto tempo avete inventato lo scooter?

— Da circa sei mesi, risponde tranquillissimo.Frutti magnifici sono esposti in quasi tutti i padiglioni. Le mele sono

superbe per la grossezza e la lucentezza. Non ne vedremo mai più di così belle per tutto il nostro viaggio. Sia nelle vetrine dei negozi più importanti, sia sulle nostre tavole di turisti privilegiati, non vedremo più che delle miserabili piccole mele grigie, raramente mangiabili. Qualche mese fa in Francia, visitai una mostra dell'agricoltura. Avevo fatto la riflessione inversa, rendendomi conto che le mele esposte erano molto meno appariscenti di quelle offerte dai negozi ben forniti.

La lotta è decisamente troppo ineguale. Bluff da un lato, bluff opposto dall'altro.

ALLO STADIO DINAMO

Visto che siamo stati tanto bravi al Parco, Gregorio, che conosce la mia piccola debolezza, ci conduce subito allo Stadio Dinamo dove si gioca una partita di calcio alle 18, tra la squadra del ministero dell'Interno ed una squadra ucraina. Il gioco è pesante, ma di ottima qualità. Gli ucraini, che sono generalmente chiamati i « francesi della Russia », godono del favore del pubblico. I loro avversari poliziotti hanno una solida fama di brutalità. Gli ucraini possono permettersi tutto, mentre la più piccola carica all'uomo da parte della Ghepeù scatena delle urla forsennate.

Mi guardo bene dal trarre delle conclusioni, perché i nostri tranquilli agenti di polizia ricevono la stessa accoglienza a Parigi al Pare des Princes, quando circondano pacificamente il campo nell'intervallo di una importante partita di calcio. Cosa succederebbe se giocassero e si permettessero di sfiorare un giocatore di Reims!

Nell'intervallo gli spettatori possono ingozzarsi di gelati e non se ne privano. E' questo, si può dire, il solo lusso ammesso nelle grandi città sovietiche. I russi che sono attorno a noi hanno capito che siamo francesi. Uno di loro, più intraprendente, ci chiede, tramite Gregorio: — Perchè avete venduto Kopa ai fascisti spagnoli?

Punto sul vivo, rispondo: — Potete darmi notizie di Strelzov?Il mio interlocutore sa che il miglior centroavanti che la Russia abbia mai

avuto è al bagno penale per quindici anni, e trova la cosa molto giusta. E' vero

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che Strelzov, ubriaco, aveva dato noia, in un locale pubblico, ad una cameriera, lasciando anche capire che si preoccupava dell'ideale socialista come dei tacchetti delle sue prime scarpe da giocatore.

Tutto questo merita certamente quindici anni di lavori forzati! Ma con questo sistema quei terribili ragazzi che sono i nostri campioni si sarebbero già fatta tagliare la testa più volte.

Nell'U.R.S.S., tutto deve concorrere all'educazione del popolo e all'edificazione del regime marxista. Guai alla donna di casa o al calciatore che distrae il più piccolo dito delle mani o dei piedi da questo luminoso obbiettivo.

GIORNALISMO D'EFFETTO

Di ritorno all'albergo, mentre aspettiamo Gregorio nella hall, parlo con un pilota della flotta aerea civile. Mi assicura che l'aviazione commerciale sovietica non ha mai registrato nessun incidente. E' vero che la stampa e la radio russe non hanno mai annunciato alcun disastro aereo. I giornali sovietici non riportano mai incidenti o catastrofi di nessun genere. Cinquecento minatori russi possono scomparire in uno scoppio di grisou e il giornale regionale, che è pubblicato a cinquanta chilometri di distanza, non ne accennerà nemmeno. Invece i duecento milioni di cittadini sovietici sapranno in ventiquattrore che una contadina mongola è riuscita a raddoppiare la produzione delle sue chiocce applicando i prodigiosi metodi Mitchourino-lenin-marxistici.

Le poche notizie che provengono invece dai paesi capitalistici si riferiscono invariabilmente a deragliamenti, terremoti, figli di papà deviati, dive libertine, operai in sciopero, negri linciati. E sono proprio i giornalisti occidentali ad aiutare involontariamente i colleghi sovietici. Nei paesi di libera concorrenza l'assassinio si vende meglio delle ricette per i prodotti agricoli. Seguendo i gusti dei loro lettori, i nostri lavoratori della penna sono ossessionati dall'idea di essere i primi a lanciare i particolari di una calamità estremamente sanguinosa e per controbattere le esagerazioni dei concorrenti elevano la cifra delle vittime raddoppiandola.

La tiratura aumenta nelle stesse proporzioni.I giornalisti sovietici hanno il vantaggio di poter ignorare i gusti dei lettori

e di infischiarsene completamente della tiratura del loro giornale. Non sono informatori, sono educatori.

Se si parla con loro della libertà di stampa, hanno risposte già pronte: « E'

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esatto: da noi non c'è la libertà di fare della propaganda fascista».Di conseguenza, il solo giornale francese venduto saltuariamente a Mosca è

« L'Humanité », essendo chiaro che « Le populaire », « L'Express », « Le Figaro », « Match » e « La Croix » sono organi di propaganda fascista.

I sovietici, che non sono tutti così ingenui come si potrebbe credere, ripetono sottovoce questo gioco di parole: Non ci sono notizie sulla « Pravda » (che vuol dire « Verità »), né verità sulle « Isvetzia » (che vuol dire « Notizie »).

Gregorio, da parte sua, non sapeva che gli israeliani avevano battuto gli egiziani nella battaglia del Sinai e non ha voluto credere alle nostre parole.

Un professore di francese che ho incontrato a Yalta, e che quasi commiseravo perchè non aveva modo di procurarsi notizie obiettive, mi ha dato una lezione di buon senso che non dimentico.

— Vi ricordate, mi ha detto, della guerra di Corea?— Certamente— Noi l'abbiamo saputo in questo modo: il mattino, la radio e la stampa

annunciavano senza commenti : « I fascisti coreani del sud, appoggiati dagli americani, hanno attaccato i pacifici coreani del nord ». A mezzogiorno, la radio annunciava: « Il proditorio attacco dei fascisti coreani del sud non ha sorpreso la vigilanza dei combattenti popolari della Corea del nord. Un folgorante contrattacco è in corso ». La sera stessa, la stampa e la radio annunciarono : « Il contrattacco degli eroici combattenti popolari li ha portati di 200 chilometri nell'interno delle linee nemiche ».

Il mio professore scosse la testa e concluse sorridendo: — Credete che abbia bisogno di leggere « Le Figaro » per sapere chi ha fatto scoppiare questa guerra?

Ma quanti, nella grande massa dei russi, hanno la capacità di fare certe deduzioni? Apparentemente molto pochi. E' comodo per le autorità. Ma cosa accadrà quel giorno, che si avvicina inesorabilmente, in cui duecento milioni di individui si accorgeranno che invece di raggiungere gli americani, non hanno nemmeno lo standard di vita, né la stretta libertà degli spagnoli?

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CAPITOLO VII

VERSO IL MAR NERO

IL CLIENTE RE

Il 31 luglio lasciamo Mosca, direzione Yalta. Prevediamo di dover affrontare un certo traffico, perchè il mese di agosto è un mese di vacanze, qui come in Francia. La strada è deserta. Incontriamo una macchina ogni cinquanta chilometri. I rarissimi gitanti motorizzati che incrociamo o sorpassiamo mostrano chiaramente la soddisfazione per l'eccezionale privilegio di cui possono godere. Ma non sono da invidiare questi alti dignitari del regime.

Le loro macchine fuori moda e traballanti sono sommerse da un carico di roba che ricorda più un esodo che una partenza per le ferie. A giudicare dalla quantità di bidoni che penzolano da tutte le parti, il carburante deve essere un problema preoccupante.

Tutta la loro bardatura non è affatto inutile, perché se noi, che siamo dei superprivilegiati, possiamo servirci delle due o tre pompe di benzina e di altrettanti alberghi che sorgono sui mille e cinquecento chilometri che dividono Mosca dal Mar Nero, questi privilegiati di tipo minore sanno che debbono praticamente contare sul contenuto dei loro carrettoni per alimentare motori ed esseri umani.

Tolte le soste prestabilite, abbiamo fatto, da Brestlitovsk a Yalta, quasi tremila chilometri, senza incontrare la più piccola osteria. Gregorio soffre meno di noi di questa scarsezza, perché, quando passiamo per località importanti, io fermo diplomaticamente la macchina vicino a certe specie di cisterne che vendono del « kwass » e che rimpiazzano i caffè. Secondo Gregorio, il « kwass » migliore è quello di Mosca. (Il « kwass » è un liquido scuro dovuto alla lenta fermentazione di croste di pane nell'acqua).

Sul tracciato di marcia che ci è stato consegnato (ancora non esistono carte turistiche della Russia) il primo distributore di benzina è segnato a Mtsensk, a trecentosettantasette chilometri da Mosca. Una fila di venti automobili e dieci

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camions stazionano tranquillamente davanti a un garage. Gregorio ci avverte che i turisti non devono far la coda. Sorpassiamo la fila e ci fermiamo davanti alle pompe. Ci sono parecchi tipi di benzina: per camion, per auto sovietiche e tipo « AZ 74 », per le macchine occidentali. I nostri buoni danno diritto a quest'ultimo tipo di benzina, di discreta qualità, ma difficilissima a trovarsi.

Alla mia richiesta, il direttore del garage mi informa che non ha più benzina per le vetture dei turisti. Ha però benzina da camion e quella per aereo. Mi domanda quale preferisco. Chiedo di riflettere un po'. Gregorio, che non se ne intende, suggerisce di chiedere consiglio ai camionisti.

Si formano subito due partiti e s'ingaggia un'appassionante discussione. La maggioranza sostiene che la benzina per camion mi guasterà il motore entro dieci chilometri. Gli oppositori sostengono invece che quella per aereo è una vera dinamite liquida che lo distruggerà più rapidamente dell'acido solforico. Il direttore del garage si isola in un neutralismo prudente e inquietante.

Dopo un quarto d'ora di chiacchiere, malgrado le preghiere della minoranza, decido per la benzina d'aereo. Un impiegato, sostenitore di quella da camion, mi indica con un gesto da fatalista la pompa della benzina d'aereo. Accosto la macchina davanti al distributore e aspetto.

Dopo qualche minuto non vedo succedere niente, domando al capo garage cosa aspetta per servirmi.

— La pompa non funziona.— E le altre pompe?— Sono tutte rotte.— Quando saranno riparate?— Immediatamente.Sono le diciassette; vengo a sapere dai camionisti che le quattro pompe

sono guaste da tempo indeterminato. Il primo camion della fila è là dalle nove del mattino. A quell'ora l'operaio che doveva riparare la pompa doveva arrivare immediatamente. Gli automobilisti sovietici offrono un bell'esempio di rassegnazione slava. Filosoficamente si organizzano per passare la notte nelle loro macchine. Qui o altrove, la scomodità sarà la stessa e loro sapevano già che non sarebbero riusciti a fare il loro viaggio in una giornata. L'apatia dei camionisti è più evidente. Essi, pare, vengono pagati a cottimo, così che le spese della forzata sosta sono a loro carico. Forse non se ne rendono conto, perché, al di là dell'Oder, il tempo ha un valore relativo. Io, invece, come succede ai turisti occidentali, divento sempre più nervoso tra l'indifferenza generale.

Il garage dispone di quattro pompe, di tre posti d'ingrassaggio e di venti

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operai: nessuna pompa funziona, un solo posto d'ingrassaggio sui tre è in servizio. Due soli operai lavorano sui venti, sotto lo sguardo incuriosito dei loro diciotto compagni e dei venti camionisti immobilizzati. Guardo anche io questi due operai fenomeno, sui quali pesa la responsabilità di rispettare e superare il rendimento imposto al garage che è il meglio organizzato nel raggio di trecento chilometri.

Nei garages avviene quello che avviene negli alberghi, nei trasporti, nei kolkoz, nell'industria: un disordine che si ripete in milioni di casi. Ma questo non impedisce che un cartello a lettere cubitali, posto al margine della strada, a qualche chilometro da Mtsensk, affermi: « Nel 1965 avremo raggiunto l'America ».

Perduta la speranza di rifornire l'automobile, consulto il tracciato per vedere dov'è il prossimo distributore di benzina. Miracolo! C'è una pompa vicinissima, a Verkhinz, a centoquaranta chilometri. Ho ancora carburante per duecento chilometri: tutto va bene.

Dopo centotrenta chilometri, una targa segnala che siamo vicini al distributore di Verkhinz. Apriamo gli occhi e percorriamo venti chilometri senza trovare nulla. Torniamo indietro. La benzina cala paurosamente. Fidandoci delle assicurazioni dell'agenzia che ci aveva garantito che avremmo trovato dovunque benzina e olio « Esso » a profusione, non ho portato con me che un bidone di riserva di cinque litri. Dopo aver scrutato bene in giro, torniamo verso la targa piena di promesse. Il livello della benzina è a zero: ognuno di noi sorveglia un lato della strada. Dopo altri dieci chilometri, Gregorio emette un rauco ruggito di esultanza: il suo occhio esercitato ha scoperto il distributore nascosto dietro un folto gruppo di alberi a cento metri dalla strada.

Siamo ben lontani dagli scintillanti distributori occidentali dove gli addetti, specializzati e premurosi, si slanciano verso il cliente e si adoperano in tutti i modi per attirarlo e contentarlo. Dico a Gregorio, incredulo, che noi abbiamo ogni venti chilometri stazioni di rifornimento. Cinque o sei macchine, che erano anch'esse nascoste dagli alberi, sono davanti alle pompe. Mi affretto a domandare al direttore : « Funzionano le vostre pompe? » ; « Certamente, Gospodine » ; « Allora fatemi il pieno di A.Z. 74 ».

Gregorio traduce e si volta verso di me disperato : « Le pompe funzionano, ma non c'è benzina ».

Divento nero, con molta sorpresa del direttore, abituato più a rifiutare che a distribuire benzina.

Con la mia riserva di cinque litri, sono preso alla gola e decido di ricorrere

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ai grandi mezzi. Pretendo il « quaderno dei reclami ».Qui devo aprire una parentesi su questi famosi quaderni, l'uso dei quali mi

è stato spiegato da alcuni connazionali incontrati a Mosca. I negozi al minuto in Russia sono, naturalmente, tutti di Stato, diretti da gerenti responsabili solo davanti all'Amministrazione centrale, il che consente loro una assoluta indifferenza verso i desideri dei clienti. Indifferenza che si manifesta con la mancanza dei prodotti che il magazzino è tenuto a vendere, con la loro mediocre qualità, con imballaggi primitivi, con orari di vendita inimmaginabili, con l'assenza completa di senso estetico all'interno ed all'esterno dei negozi, ed infine col disprezzo più assoluto verso quei seccatori dei clienti. Il cliente re è diventato il cliente accattone.

Per avere un'idea di come vanno le cose, bisogna pensare ai paesi occidentali, durante la guerra: mercato nero, danaro sottobanco, prodotti scarsi, interventi politici. Le autorità lottano invano contro questo sistema, inevitabile quando non c'è concorrenza e c'è penuria. Sulle strade, ogni cinquanta chilometri, delle pattuglie fermano i veicoli, specialmente i camions, per verificare se effettuano trasporti illegali.

Se pur male approvvigionati, i negozi moscoviti sono il regno dell'abbondanza a confronto di quelli delle piccole città di provincia, nei quali, per settimane e spesso per mesi, mancano i prodotti più necessari. Particolarmente i kolkosiani soffrono di questa situazione. I più scaltri affrontano ogni tanto l'avventura di recarsi a Mosca o in un'altra grande città che ha negozi relativamente riforniti. Se riescono a sfuggire al controllo, rientrano nel loro villaggio, per esempio, con una ventina di paia di scarpe introvabili nella regione. La merce è rivenduta ad un prezzo molto superiore al suo valore. E' logico, perché il rischio è grande. Bisognerebbe fare in proposito uno speciale studio per capire come i kolkosiani, i cui redditi ufficiali sono incredibilmente bassi, riescano a procurarsi rubli necessari per pagare prezzi così esorbitanti.

La clientela ordinaria, d'altra parte, ha una valvola di sicurezza: il « libro dei reclami » sul quale i malcontenti possono scrivere richieste, proteste, propositi vendicatori... o felicitazioni. Un rappresentante dell'amministrazione competente verifica regolarmente il libro e vista ogni annotazione. Se il gerente del negozio è ben visto dal Partito, può permettersi, senza rischio, di provocare decine di proteste scritte. Se è in disgrazia, l'amministrazione da cui dipende trova sempre sufficienti reclami nel libro per giustificare il suo licenziamento. La maggior parte dei clienti evita di far ricorso al famoso libro. Sia perché considera questo mezzo un'illusione, sia

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perché vuole evitare di attirarsi l'ira del gerente. Qualche volta, tuttavia, un imprudente, un eccitato o un cliente di passaggio annota sul libro: « Sono da un mercante di pale da carbone, voglio comperare una pala da carbone; non ci sono pale da carbone. E' inammissibile che un mercante di pale da carbone non abbia pale da carbone! ».

Il gerente del negozio, anche se è nelle grazie del Partito, teme sempre i reclami anche i più anodini, perché non può mai sapere cosa gli riservi l'avvenire. Perciò ottenere il libro dei reclami non è semplice. Il gerente, il personale, tutto il negozio si alleano per convincere il richiedente a rinunciare alla sua pretesa.

Al ristorante dell'Inturist a Karkhov assistemmo ad una scena tipica. A una tavola vicina, un graduato, di non so quale arma, esigeva a gran voce il libro dei reclami per annotarvi che la carne era andata a male. Quasi per un'ora la cameriera e poi il maitre d'hotel, ed infine la gerente intervennero per dissuadere il focoso rappresentante dell'Armata Rossa. Quando, essendo in ritardo, lasciammo il ristorante, un vero e proprio Soviet parlottava intorno al tavolo dell'ufficiale che non era riuscito ad ottenere il libro.

Capita questo anche a me, quando a Verkhinz, per l'assenza del carburante, chiedo il libro dei reclami per incidervi una solenne vibrata protesta. Il compagno direttore nota che nell'intonazione della mia voce non affiorano tracce della rassegnazione slava. Mi fa un segno d'intesa e scompare dietro il garage. Gregorio mi assicura che tutto sta per accomodarsi e ci sistemiamo, armati di pazienza, nella macchina. Gli automobilisti russi, che attendono come noi, si interessano molto dell'aspetto della 203: 8 CV fiscali, 120 chilometri l'ora, 9 litri per 100 Km., scopribile, i sedili ribaltabili, posto per la radio. Le vetture sovietiche dello stesso tipo sono tre volte più care e per di più introvabili. Al contrario di altri prodotti, il cui prezzo diminuisce ogni tanto clamorosamente, rimanendo sempre più alto di quello dell'Occidente, il prezzo di certe automobili aumenta gradatamente ma rapidamente.

Quando dico che una 203 la si può avere otto giorni dopo d'averla ordinata, mi accorgo di aver superato i limiti di quanto la forma mentis dei miei interlocutori può permetter loro d'intendere. La loro incredulità è comprensibile.

In questo paese, in cui tutto va meglio che altrove, omissione fatta provvisoriamente per l'America, il privato senza-partito, tanto fortunato da poter riunire 25 o 30.000 rubli, ha la facoltà teorica di acquistare una macchina, alla condizione di passare l'ordine all'ufficio competente, confermare la sua domanda ogni settimana ed attendere il suo turno.

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L'automobilista sovietico che mi ha informato ha precisato che la mancata conferma settimanale annulla l'ordinazione. Al momento della consegna, venditore ad acquirente sono diventati buoni amici, perché il periodo d'attesa è indeterminato e mai inferiore a tre o quattr'anni. Il fatto è giustificabile, perchè, in un paese di duecento milioni di abitanti, la produzione di automobili è stata nel 1958 di centotrentamila. Nello stesso periodo, le officine Renault hanno prodotto più di cinquecentomila « Dauphine ». Tolti i contingenti per le amministrazioni, per gli ufficiali e per i contadini georgiani, resta da ripartire, tra i non privilegiati, un numero di macchine equivalente a quello dei primi premi della Lotteria Nazionale. I compagni automobilisti, convinti che io sia un agente stipendiato dall'imperialismo internazionale, sono ritornati alle loro automobili.

Dopo un quarto d'ora d'attesa, il direttore riappare, curvo sotto il peso di un annaffiatoio e di un bidone pieni di benzina. Il libro dei reclami è veramente utile. Felice di poter finalmente ripartire, mi guardo bene dal chiedere a chi era destinata questa meravigliosa benzina. Durante il travaso, gli automobilisti sovietici si avvicinano.

Uno di loro prende la parola. Gregorio è preso di mira. S'ingaggia una violenta discussione. Gli automobilisti, che sono arrivati molte ore o giorni prima di noi, sono legittimamente furiosi di veder servire, in barba loro e prima di loro, questi stranieri dei quali sentono ripetere ogni giorno che vogliono sgozzare, atomizzare i pacifici russi.

Gregorio cerca di fronteggiare la situazione. Davanti al numero degli avversari, indietreggia passo passo. Io gli grido: « Dite loro di fabbricare più benzina e meno Sputnik! ». Gregorio non traduce, ma la parola Sputnik li ha colpiti. Non saprò mai se hanno colto il senso della mia battuta, ma il fatto è che la discussione finisce repentinamente. Questi poveri diavoli mi fanno un po' pena. Come possono in verità indignarsi se non trovano la benzina, quando sanno che per mesi non possono procurarsi un ferro da stiro o delle spille da balia?

Lasciamo così l'atmosfera ostile del garage di Verkhinz abbandonando alla loro sorte i compagni automobilisti.

A K U R S K

Arriviamo senza inconvenienti a Kursk, tappa fissata nel nostro itinerario. Dappertutto degli slogans esaltano la marcia del comunismo. Se la città di Kursk avesse tanti cantonieri quanti imbrattacartelli, tutto andrebbe meglio.

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La pavimentazione delle strade è indescrivibile : carreggiate profonde ottanta centimetri, rotaie di tram che sorpassano il livello stradale di venti centimetri, i detriti più impensati. D'inverno, soltanto i carri armati potranno passarvi.

Ritroviamo il solito albergo stile bar da stazione 1900. Camera con bagno. Come sempre, il rubinetto dell'acqua calda non funziona. D'altra parte è meglio così, perché la sola volta in tutto il viaggio in cui potremo aprire un rubinetto d'acqua calda, non potremo, di notte, più richiuderlo e ancora meno far tacere il rumore che ne esce.

Nel programma della mattina, visita a Kursk, con l'assistenza complementare di una giovane donna del posto. Cominciamo dal mercato, molto comune. Malgrado l'ora mattutina, delle donne fanno la fila al banco delle calzature, perché è stata annunciata una consegna di sandali. L'acquisto delle calzature si svolge con ritmo molto rapido, perché è proibito provare le scarpe che si vogliono acquistare. Le autorità sono riuscite a convincere la gente che è per misura d'igiene. Il motivo può essere valido per quanto riguarda donne e bambini, che per una buona metà camminano a piedi nudi. E' un fenomeno che abbiamo cominciato a constatare nella Germania dell'Est, che si è accentuato in Polonia, per trovare il suo punto culminante in Russia. Qualche donna e qualche bambino recano le scarpe in mano.

A questo stato di cose, come a quello di riservare alle donne i lavori pesanti, si possono dare due spiegazioni: quella di Gregorio e dei sostenitori del regime, e cioè che i bambini preferiscono camminare a piedi nudi e che le donne hanno male ai piedi tanto è vero che spesso tengono le scarpe in mano, e quella, non ufficiale, e cioè il potere d'acquisto incredibilmente basso delle popolazioni e il prezzo incredibilmente alto delle calzature. Se è incomprensibile uno spirito di economia che vi fa portare in mano ciò che dovreste portare ai piedi, è ancora più difficile ammettere una così diffusa epidemia di male ai piedi.

Fa un caldo torrido. Pensiamo al fresco della cattedrale che dobbiamo visitare. La ragazza ci fa osservare che il comune ha fatto ricostruire quel venerabile monumento che era stato danneggiato dai barbari fascisti. Nell'entrare nella cattedrale nasce un violento incidente tra Mirella e la ragazza-guida. Stupefatti e scandalizzati, vediamo che la chiesa è stata trasformata in una sala da ballo. La nostra giovane interprete ci fa notare, con ingenuità o con cinismo, che l'orchestra suona sul luogo dell'antico altare. Questo Mirella non lo sopporta. Dice vivacemente al nostro cicerone che quando si è così stupidamente settari da commettere un tale atto di vandalismo, non c'è da vantarsene. Abbandona la cattedrale-dancing,

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esclamando che l'ultimo degli operai francesi non prenderà sul serio il totem di una popolazione negra, ma che lo rispetterà. Gregorio segue diplomaticamente Mirella che è andata a rifugiarsi su di una panchina in pieno sole.

Sono un po' contrariato dell'incidente perché mi sarebbe piaciuto approfondire la psicologia delle guide di Kursk. Resto nella cattedrale, deciso ad ascoltare la lezione fino in fondo. E' fatica sprecata, la giovane atea si è ormai messa in guardia e si rifugia in una impersonale esposizione sulla tecnica del costruire e del ricostruire.

Va detto che l'U.R.S.S. ha fatto un gigantesco sforzo di ricostruzione. Il nostro viaggio si svolge nella zona devastata dalla guerra. Non soltanto gli edifici, ma la maggior parte dei monumenti e degli antichi palazzi sono stati fedelmente ricostruiti. Le tracce della guerra sono scomparse dappertutto. L'effetto è particolarmente notevole a Leningrado, che noi abbiamo dovuto rinunciare a visitare. Se il regime si è comportato da maestro nell'arte di ricostruire i tesori del passato, utilizzando persino le tecniche più antiche, si è rivelato incapace di suscitare in qualsiasi campo la creazione artistica. Anche gli zar più autocrati avevano capito che un minimo di libertà era necessaria agli artisti per produrre opere fuori del comune. Krusciov non ha ancora riscoperto questo elementare assioma. Gli scrittori, gli architetti, i musicisti, gli scultori che non aderivano alla linea del partito sono stati assassinati, deportati o ridotti in silenzio. Il sistema ha dato risultati che hanno superato ogni previsione: in quarantanni, l'U.R.S.S. è praticamente scomparsa dal mondo delle arti.

I poeti cantano la coltura della patata, i pittori ritraggono il riposo dei trattoristi, gli scultori plasmano Lenin, i giornalisti scrivono sui progressi del « piano », gli architetti progettano in stile da pompiere, i direttori d'orchestra dirigono canti da inno scolastico.

E' più comodo recitare la parte del rettile adulato che quella del martire ignorato!

Gregorio vuol rifarsi dell'impressione lasciata in noi dalla cattedrale-dancing. Alla mia prima richiesta, ottiene l'autorizzazione di visitare uno studio di avvocati di Kursk. Il tribunale è situato in una via non carrozzabile e dobbiamo lasciare la macchina nelle vicinanze. Non potremo vedere, però, lo studio degli avvocati. Siamo ricevuti dal capo, uomo cortese e dall'aspetto dignitoso. E' presidente del Praesidium degli avvocati della regione di. Kursk, che comprende un presidente e sette membri.

Il nostro soggiorno a Kursk termina con la visita di una adorabile

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chiesetta, conservata perfettamente. Incontriamo là una divertente famiglia americana, formata da una coppia di sposi, da due ragazzine e da un pastore molto dinamico, che inizia la visita cadendo, pancia a terra, nel fossato che circonda la chiesa.

Il buon umore diventa generale e, quando ci separiamo, Mirella e la ragazza guida sono diventate grandi amiche.

DA CARIDDI A SCILLA

Dopo colazione, ripartiamo, diretti a Karkhov. La strada è sempre costeggiata da monticelli di grano che secca nella polvere.

Arriviamo a Karkhov prima di notte. Per la prima volta dopo il nostro ingresso nell'U.R.S.S., ci troviamo in una città gaia, simpatica ed anche fiorita. E' pur vero che siamo nella capitale dell'Ucraina. La popolazione è più sorridente; ci sono molti parchi ben tenuti. L'albergo dell'Inturist è situato nella città bassa, che è la meno ordinata. La strada davanti all'albergo è tutta per aria a causa di certi lavori, che troviamo allo stesso punto, al nostro ritorno, quindici giorni dopo.

Mentre Mirella e Gregorio s'installano nelle rispettive stanze, io porto la macchina in garage.

E' il cortile dell'albergo che funge da garage ed io giro intorno a un groviglio di case prima di entrarvi. Il solo posto vacante è vicino alle cucine. Un aiuto cuoco esce e mi rivolge la parola:

— Fransuz?— Sì?Senza preamboli, attacca:— In Francia, ricchi non lavorare molto, molto mangiare. Operai molto

lavorare, non molto mangiare.Con sua grande meraviglia, mi felicito per la sua perspicacia.Esco dal cortile per entrare nell'albergo rifacendo la stessa strada ed ho

l'incontro più imprevisto che potessi immaginare nel cuore della Russia. Due uomini bruni, di piccola statura, sembra che mi stiano aspettando nella strada. Sono impacciati. La strada che fiancheggia la facciata posteriore dell'albergo è deserta ed io non mi sento molto tranquillo.

In un francese stentato, il più piccolo dei due mi domanda: « Siete francese, posso parlarvi? ».

Allettato dalla prospettiva di una conversazione fuori programma, conduco i due uomini in un minuscolo giardino pubblico che sta all'angolo

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della strada, e ci sediamo su di una panchina. I due uomini non hanno nulla di particolare da dirmi, ma sono visibilmente felici di essere con un rappresentante di quel mondo che fu il loro. Sono dei rifugiati spagnoli. Il più piccolo mi racconta la loro storia in un francese approssimativo, ma comprensibile.

« Siamo fuggiti dal regime di Franco nel 1936. Siamo stati dapprima ospitati in Francia, in un campo provvisorio, e là ho imparato il francese. Malgrado gli sforzi delle autorità, le nostre condizioni di vita erano diventate pessime. Sia per questo motivo che per le nostre idee, in parecchi abbiamo chiesto di recarci in Russia. Dopo una lunga attesa la nostra domanda è stata accolta e siamo arrivati, in parecchie famiglie, nella regione di Karkhov. Siamo stati accolti estremamente bene. Una piccola casa è stata messa a disposizione di ogni famiglia, cosa che, in quel periodo, rappresentava un lusso inaudito. Da parte sua la popolazione si è adoperata a facilitarci le cose. Fin dal primo inverno, abbiamo però enormemente sofferto per il clima e abbiamo vissuto allo stesso livello di vita della popolazione, che è estremamente basso. Dopo la guerra 1939- 1945, abbiamo domandato tutti di essere rimpatriati in Spagna, dicendo che non riuscivamo ad acclimatarci. Contrariamente a quanto temevamo, la nostra richiesta di rimpatrio è stata accolta dalle autorità dei due paesi. In Spagna la gioia del ritorno fu di breve durata. Il nostro lungo soggiorno in U.R.S.S. provocava l'ostilità dei nostri compatrioti e il sospetto delle autorità. Costantemente spiati e sorvegliati, ci siamo ben presto trovati in una situazione insostenibile. E allora, dopo molte esitazioni, io con la mia famiglia e il mio compagno con la sua, abbiamo deciso di ritornare in U.R.S.S. Abbiamo ritrovato un tenore di vita un po' inferiore a quello che avevamo in Spagna, ma qui almeno ci lasciano tranquilli ».

* * *Passando davanti alla sala del ristorante, notiamo che vi è un'orchestra che

suona. Delle coppie ballano. Molti ballerini sono dei bei ragazzi, dal portamento fiero, malgrado i loro vestiti di cattivo taglio. Le dame sono tutte in uno stato dimesso ed uniforme. Tutti recano i segni profondi dei lavori pesanti e del servizio alle impastatrici di bitume.

CATTEDRALE-SILOS

Oggi, domenica, diciamo a Gregorio che vogliamo andare a Messa.

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Gregorio va ad informarsi. Ritorna trionfante. Potremo ascoltare la Messa nella cattedrale della città. Fiero di poterci dare una prova della libertà dei culti del suo paese, ci precede. Dei grossi camions stazionano a fianco della cattedrale, la cui entrata è stranamente ingombra di mucchi di ceste vuote. Entriamo e ci troviamo in mezzo a grossi cumuli di cavoli e di patate. Ci viene da ridere vedendo l'espressione di Gregorio.

Dopo poco tutto si spiega: solo la parte superiore della chiesa è stata riservata al culto. La cripta, che è al livello della strada, serve come deposito di patate.

Saliamo al piano di sopra. Si sta celebrando la Messa. « Jojo l'eretico » resta prudentemente sulla soglia. Come ci farà osservare più tardi, la maggior parte dei presenti sono dei vecchi e di modeste condizioni. Le donne sono tutte vestite come serve di campagna nei giorni di lavoro.

Qui, per poter praticare il culto, bisogna non solo rinunciare a Satana ed alle sue pompe, ma anche alla maggior parte dei beni del mondo. E' nell'umana natura accettare più facilmente queste rinunzie nell'età avanzata quando l'Eternità appare più concreta che le gioie della vita. Per un logico ritorno delle cose, tra una cinquantina d'anni, solo dei vegliardi paralitici osanneranno il marxismo.

* * *Prima di lasciare Karkhov, facciamo il pieno di benzina in un garage che,

come al solito, sembra un immenso deposito di roba abbandonata. La benzina non promette nulla di buono. Ne ho la prova molti chilometri più avanti; senza dubbio il pompista, in cambio dei miei buoni di supercarburante, mi ha dato benzina ordinaria, in modo da poter fare il suo piccolo mercato nero personale. Il motore va sempre peggio, devo fare in prima la salita meno ripida, ogni cinquanta chilometri devo pulire le candele di una crosta scura provocata dall'impurità del combustibile. In verità non posso pretendere in ogni garage il libro dei reclami.

UN BAGNO CALDOArriviamo alla tappa della sera alle 22. Siamo a Zeljonyjgaj, una specie di

baracca-garage, situata in mezzo ai campi, in un isolotto di verzura. Visto da lontano, l'albergo sembra un'oasi paradisiaca. Avvicinandoci cambiamo d'avviso: l'albergo è circondato da una trentina di automobili, nelle quali campeggiano famiglie di turisti, piccoli dignitari del Partito. Le camere sono

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riservate ai turisti veri, alle delegazioni estere e ai papaveri della politica.Compiangiamo per poco i viaggiatori sovietici, che dispongono per la loro

toilette di un solo rubinetto all'aperto, poiché siamo sistemati quasi come loro. Tutto l'albergo dispone d'un solo lavabo nel corridoio del W. C. del primo piano. Nella fila che aspetta nel corridoio del W. C., ritroviamo la famiglia americana che abbiamo incontrata a Kursk. Il pastore è riuscito, chi sa come, a procurarsi un'enorme anguria, che ci dividiamo, sul posto, tra l'allegria delle ragazze.

Una cameriera domanda a Mirella se vuole fare il bagno. Mirella accetta con entusiasmo e la donna le fa segno di non muoversi. Dove sarà la sala da bagno? Dopo qualche minuto, arrivano in fila indiana molte donne cariche di fascine. Seguendole, scopriamo la bagnarola, che è riscaldata da una grossa caldaia a legna e che è circondata da un sipario di pezzi di tubo arrugginiti. Mentre le donne si danno da fare, una nuvola di fumo invade il corridoio, il che fa ridere gli americani. Le donne rimangono male, ma continuano a soffiare sui tizzoni.

Dopo il pranzo, l'acqua è calda e non ci resta che aprire i rubinetti. Mirella entra nella stanza da bagno, ma appena ha chiuso la porta, la sento urlare. Mi precipito in suo aiuto e la vedo appollaiata su uno sgabello, mentre con gli occhi sbarrati mi indica un'armata di scarafaggi che girano sui bordi della bagnarola, come dei motociclisti sul muro della morte. Proteggo la ritirata di Mirella.

Io non ho gli stessi pregiudizi di mia moglie contro quelle piccole bestie; allontano gli scarafaggi più invadenti ed entro nella bagnarola. Apro i rubinetti. Il mio gesto sembra aver aperte le cateratte del cielo; acqua fumante zampilla da tutte le saldature dei tubi, trasformando la stanza da bagno in una doccia. Gli scarafaggi, impressionati, fuggono da tutte le parti. L'acqua è a temperatura giusta e io mi godo questa improvvisata ed eccezionale doccia. Quando esco, gli americani, disorientati dai rumori che hanno sentito, si sono chiusi nelle loro camere.

Un motore, che fornisce l'elettricità all'albergo, romba sotto le finestre e dormiamo male. Alle sei del mattino, siamo svegliati dalla radio dell'albergo, che la direttrice ha aperto per incitare il personale al lavoro. Approfittiamo del risveglio mattutino per anticipare l'ora della partenza; abbiamo una lunga tappa da coprire.

Anche qui, come a Mosca, è impossibile avere la colazione alle nove. Requisisco Gregorio e vado a parlamentare con la direttrice della cucina, alla quale dico che se non vuole nutrire i clienti prima delle nove, bisogna che non

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li svegli alle sei del mattino.La direttrice è una grossa donna che sembra la caricatura di una

affittacamere. Ascolta le lamentele con molto interesse e promette di servirci la colazione immediatamente. Difatti impartisce una serie di ordini gutturali mentre noi ci sediamo fiduciosi nella sala del ristorante. Il mio orologio segna le sette e mezza. Quando siamo serviti, sono le nove meno un quarto. Efficace esempio delle conseguenze della ripartizione delle mansioni e delle responsabilità.

Siamo in piena campagna, nell'Ucrania che si chiamò il granaio d'Europa, e la direttrice non può servirci nemmeno una goccia di latte. Ripieghiamo sul caffè.

Durante la guerra, abbiamo assaggiato ogni specie di surrogati, ma questo che beviamo non è nemmeno infuso di orzo, ed emana un odore sgradevolissimo. Chiedo il libro dei reclami. La capessa arriva, tutta gentile, con il libro. Ci assicura che il caffè è eccellente, tanto è vero che dei francesi hanno rilasciato delle dichiarazioni compiaciute. Leggiamo quanto segue: « Ringraziamo la graziosa patronessa che ci ha servito il più sensazionale caffè che abbiamo bevuto dal nostro arrivo in URSS ». Sorridiamo e leviamo le tende, mentre la « graziosa patronessa » getta sguardi perplessi sul suo prezioso libro.

LA RAGIONE DEL PIÙ' FORTE

All'avvicinarsi del Mar Nero, la pianura è sempre più piatta e spoglia d'alberi, e cambiano le colture. Attraversiamo immensi campi di angurie. Sulla pianuria sorgono delle garitte nelle quali vegliano guardiani armati. Il compito è di impedire ai kolkosiani poco rispettosi della proprietà collettiva di saccheggiare i raccolti. La funzione di guardiano è una sinecura molto ambita e seguendo l'adagio socialista : « ciascuno secondo le sue capacità », i più robusti kolkosiani spendono tutte le loro energie per ottenere questo incarico. Così ogni tanto vediamo degli ercoli in canottiera passeggiare lungo la strada o attraverso i campi, senza far niente, con un archibugio a tracolla.

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CAPITOLO VIII

LA COSTA AZZURRA SOVIETICA

Arriviamo rapidamente in vista del Mar Nero. Il primo contatto è deludente: costa piatta, saline, uno strano tanfo. Il terreno diventa sempre più accidentato. Ci fermiamo a Simferopol per il pranzo.

Le strade sono accidentate come nelle altre località. Una conduttura d'acqua rotta ha trasformato una delle principali vie in un ruscello. Gli ultimi cinquanta chilometri che ci separano da Yalta attraversano un paesaggio montagnoso ed estremamente pittoresco. Mi gusto a lenta andatura questi cinquanta chilometri veramente meritati dopo i cinquemila privi di ogni interesse.

La Crimea ha diritto di essere considerata la Costa Azzurra sovietica. Quando dalla sommità di un colle scopriamo il Mar Nero, tratteniamo a stento un grido d'ammirazione. E' una Costa Azzurra con montagne più alte, più verdeggianti ed un mare più blu. Yalta ci sorprende gradevolmente. La prima impressione è quella di una città di mare francese. E' la prima volta, dopo il passaggio della cortina di ferro, che entriamo in una città dall'aspetto normale. La folla è enorme e ci dispiace che l'albergo Yujnaja, che ci è assegnato, non si trovi in riva al mare.

Scortata da Gregorio, Mirella va a comperare del dentifricio e della crema antisolare. Nella sesta farmacia dove l'impiegata dichiara di non avere nessuno dei due prodotti, Mirella domanda il libro dei reclami ed ottiene ciò che ha chiesto.

Yalta è una città di centomila abitanti che in maggioranza sono villeggianti. All'infuori degli ombrelli di carta, che costerebbero 5 franchi nei nostri supermercati e che qui valgono 100 rubli (una settimana di salario) e dei cappelli da sole in feltro, anch'essi di un prezzo esorbitante, i villeggianti non hanno nessun'altra occasione per spendere i loro eventuali rubli. Avranno tuttavia la consolazione, durante il nostro soggiorno, di veder passare lo Sputnik II. Non si può avere tutto.

Prendiamo il primo bagno sulla spiaggia di Yalta. Ogni cento metri, un piccolo capanno senza tetto, e alto un metro e mezzo, ripara i due terzi inferiori dei bagnanti che vogliono cambiarsi. Dopo il bagno prendiamo un

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po' di sole su di una terrazza a picco sulla spiaggia.Dall'alto, si vedono dei villeggianti in fila davanti ad un capanno senza

tetto. Di fianco a noi dei ragazzini, sui dieci anni, contemplano un'imponente naiade in costume da bagno. Un po' più avanti, una vecchia scheletrica fa il bagno coperta solo da uno slip troppo grande. Il quadro è disgustoso. Rientriamo per la strada che costeggia la spiaggia. Mirella, in pantaloncini e camicetta, è fermata da un milite. Gregorio con diplomazia traduce: « Il milite teme che prendiate un colpo di sole ». « Non ho paura del sole ». « Il milite dice che non si deve circolare con le spalle nude ». « Perché? ». « E' proibito dalla legge ». « Quale legge? ». « Il milite dice che gli si può credere.sulla parola ». « Domandategli qual è l'articolo della legge ».

Il milite, incerto sulla condotta da tenere, decide di allontanarsi. Faccio notare a Gregorio che abbiamo avuto lo stesso incidente in Spagna. Chi avrebbe pensato che i rivoluzionari di Ottobre ed i reazionari spagnoli avessero un giorno gli stessi pudori!

CRISI DI ALLOGGI

Di ritorno all'albergo, mentre aspettiamo di mangiare, faccio un piccolo giro nelle vicinanze. Parecchie persone sono ferme davanti ad un cartellone riservato alle inserzioni. Sono annunci che riguardano gli appartamenti da affittare. La media delle superfici offerte è da 15 a 18 metri quadrati. Uno degli annunci dice: « Cambio appartamento 8 mq. con cucina comune sito... contro... ».

Malgrado gli immensi programmi di costruzione annunciati, l'U.R.S.S. in materia d'alloggi è di parecchie decine di anni in ritardo, perfino sulla Francia. Gli edifici attualmente costruiti alla periferia di Mosca hanno, per la maggior parte, la cucina in comune per ogni tre appartamenti. Gli affitti ufficiali sono bassi, ma la penuria di case fa salire enormemente il prezzo delle stanze in subaffitto. Come in Francia. Ma nelle grandi città russe il subaffitto si riduce spesso ad un angolo di stanza o ad un corridoio. A Mosca abbiamo incontrato uno studente che subaffittava un quarto di stanza per duecento rubli al mese. Sono cose conosciute e tollerate dalle autorità.

La situazione dei locatari è d'altra parte quasi sempre precaria come quella dei sublocatari. Lo Stato è proprietario degli immobili e se, per una ragione qualunque, il locatario è sfrattato, non ha nessun modo per tentare di ottenere una proroga. Abbiano o non abbiano un nuovo alloggio, gli sfrattati sono messi in ventiquattrore in mezzo alla strada, grazie alla sollecitudine della

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polizia.Non è consigliabile, per coloro che vogliono vivere sotto un tetto,

arrischiare d'essere dichiarati nemici del popolo, rifiutandosi, per esempio, di spostarsi in occasione della commedia delle elezioni.

LA VERA CORTINA DI FERRO

Le spiagge vicine a Yalta sono meno frequentate, e nel secondo giorno della nostra sosta, decidiamo di andarci, usando un battello che fa servizio da una spiaggia all'altra.

Il viaggio è comodo, poco costoso e molto piacevole. Il servizio è ottimo.Oggi abbiamo scelto la spiaggia più lontana, dal promettente nome « Le

sabbie d'oro ». Il tragitto dura un'ora e mezzo. Ben sistemati, ammiriamo la magnifica costa di Crimea che sfila davanti ai nostri occhi. Una mezza dozzina di spiagge si susseguono su una ventina di chilometri. Vediamo le dacie degli alti dignitari del regime, con spiagge private e deserte. Queste ville sono di gran lusso. Pergolati fioriti e baldacchini multicolori permettono alle « eccellenze » di andare fino alla riva senza essere infastidite dal sole.

Numerosi sanatori sono nei luoghi meglio esposti. La maggior parte sono antichi palazzi dello Zar o dei suoi principi.

Facciamo un bel bagno su una spiaggia sassosa. L'acqua è fresca e gradevole. Mi allontano dalla spiaggia qualche centinaio di metri. Disteso sul dorso, mi lascio mollemente cullare dalle onde cantando liberamente: « Come si sta bene tra le braccia... ». Una voce stentorea tuona a qualche metro dietro di me: «Tra le braccia di chi? ».

Mi rivolto e vedo vicino a me un nuotatore.« Siete francese? ». « No, sono russo ». « Ma parlate un francese perfetto».

«Tento...». «Siete in vacanza?». «No, sono medico sulla costa di Crimea ». « Siete fortunato ad abitare in un cosi magnifico paese! ». Per tutta risposta noto una smorfia agrodolce.

« Fate il bagno molto spesso? ». « E' la seconda volta quest'anno. Ho troppo lavoro ». « Vuol dire che avete successo nella vostra professione! ». Nuova mimica agrodolce.

« Esercitate da molto? ». « Da quindici anni ». « Avete l'automobile? ». A questa domanda il mio interlocutore scoppia in una risata e per poco si annega. Quando si calma, dice : « Guadagno novecento rubli al mese ».

Siccome si sta avvicinando un terzo nuotatore, senza dir nulla ci riavviciniamo alla spiaggia.

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Vicino alla riva la folla dei nuotatori si fa più densa. Il mio nuovo amico mi ignora e si dirige verso un piccolo gruppo d'amici che lo attendono sotto un ombrellone. Io raggiungo Gregorio e Mirella. Mi piacerebbe avere una conversazione col mio simpatico nuotatore. Se non lo avvicino immediatamente, non ho alcuna possibilità di rivederlo. Faccio segno a Gregorio che ritorno subito e mi dirigo verso il piccolo gruppo, dove è seduto il medico. Penso di invitarlo a prendere il tè nel pomeriggio o in un qualsiasi altro momento. Mi avvicino.

Il mio compagno di nuoto mi guarda un istante, ma quando sono a tre metri da lui, volta ostentatamente la testa. Proseguo a camminare, poi torno indietro in modo da passare proprio sotto i suoi occhi. Ad una certa distanza, azzardo un gesto amichevole; il dottore mi ignora, come se non mi avesse mai rivolto la parola.

Abbandono la mia idea. I pericoli di una aperta conversazione con un rappresentante del mondo occidentale inchiodano quest'uomo sulla sabbia più saldamente di una catena di parecchie tonnellate. Ritorno da Gregorio. Mi sembra di aver visitato un campo di concentramento.

Il giorno dopo, avrò la fortuna di raccogliere una documentazione eccezionale.

I VA N

Questa mattina andiamo a fare il bagno sulla spiaggia di Simeié. All'ora della partenza, Mirella non è pronta. Decidiamo che ci, raggiungerà e partiamo in avanscoperta. Un'ora dopo il nostro arrivo sulla spiaggia, Mirella non ci ha ancora raggiunti. Gregorio è inquieto. Si chiede evidentemente se non si tratta di un trucco per liberare uno di noi dalla sua protezione. Solo, su questa spiaggia, non posso nuocere e Gregorio decide di partire alla ricerca di Mirella. Per tutta la mattinata non vedrò né l'una né l'altro.

Mirella, che cercava un battello in partenza per Simeié, si è trovata per errore fra un gruppo di viaggiatori imbarcati per Alupka. Rientrerà giusto in tempo per mangiare.

Quando Gregorio mi lascia, un cittadino sovietico mi rivolge la parola in tedesco. Gli rispondo che io sono francese. Il mio interlocutore si scusa in un francese incerto ma abbastanza corretto. Ha immediatamente notato che ero un turista occidentale, ma il mio aspetto gli ha fatto pensare che ero d'origine germanica.

Reprimo il mio desiderio di spiegargli che un francese non è mai molto lusingato di essere preso per un tedesco e faccio molto bene a non dirlo

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perché ho con lui una conversazione che non avrei mai creduto di poter avere durante il mio soggiorno in Russia. Per motivi, abbastanza evidenti, che egli apprezzerà per primo, riferisco il più fedelmente possibile l'essenziale delle sue confidenze, omettendo o trasformando i dettagli che permetterebbero di identificarlo.

Supponiamo che si chiami Ivan. Ivan s'informa dapprima con cautela delle ragioni che mi hanno condotto in Russia. Stenta a credere che non faccio parte di una delle innumerevoli delegazioni che vengono qui a pavoneggiarsi alle spese del governo sovietico. Egli è un professore in vacanza.

Dopo dieci minuti di conversazione, riconosce coraggiosamente che io non sono né comunista né progressista.

A sua volta mi apre il cuore ed assisto ad un vero sfogo che si placa a tratti per riprendere con più forza,

Lo prevengo che sto scrivendo un diario con l'intenzione, al mio ritorno in Francia, di farlo pubblicare.

Ivan mi risponde testualmente : « Vi supplico di dire al vostro ritorno tutto ciò che qui avete visto, tutto ciò che vi dico. Vi domando solamente di fare in modo che io non possa essere identificato ».

LA PUNIZIONE DEI TARTARI

Da buon professore, Ivan comincia con un piccolo corso di storia moderna sulla Crimea. La Crimea si chiamava anticamente Tartaria. Fino al 1945, era quasi esclusivamente abitata dai tartari. I tartari non sono mai stati assimilati dal nuovo regime.

Questi discendenti di intrepidi guerrieri erano diventati pacifici e si erano lasciati un po' prendere dallo stato di relativa indolenza che regna nel bacino del Mediterraneo. Minacce, promesse, dialettica, nulla ha potuto intaccare l'inappetenza di questo popolo per il marxismo. Il solo risultato delle misure di costrizione usate dal 1930 al 1940 fu quello di creare uno stato d'animo passivamente ostile.

Durante l'ultima guerra, la Crimea fu occupata. Come in Ucraina, i tedeschi furono generalmente accolti come liberatori. Un modesto numero di tartari si arruolarono anche nell'armata costituita dai tedeschi per combattere contro le truppe comuniste. E non è stato certo senza ansietà che la popolazione tartara si vide liberare nel 1945 dall'Armata Rossa.

Durante i primi giorni della liberazione, nessuna angheria fu commessa. I tartari cominciarono a respirare. Una settimana dopo, un'armata sovietica

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invase la penisola e, in una notte, la totalità della popolazione tartara fu deportata nelle nuove terre della Siberia. I bagagli di ogni deportato erano quelli che poteva trasportare personalmente. Bambini, donne, vecchi, avversari e sostenitori del regime, nessuno fu risparmiato. I beni di migliaia e migliaia di deportati furono immediatamente ripartiti tra i russi più rossi.

Nel 1954, in occasione del tricentenario del trattato che annetteva l'Ucraina alla Russia, il governo sovietico ha solennemente regalato la Crimea alla Repubblica Ucraina. Gli Ucraini, al corrente della sorte subita dai tartari, hanno accettato il dono a malincuore. Quando si entra in Crimea, un immenso pannello ricorda lo storico avvenimento.

Questo genocidio, che avrebbe suscitato l'ammirazione di Hitler, è stato poi attribuito ai «crimini di Stalin». Di fronte a questa affermazione, i tartari sopravvissuti, che non apprezzano affatto il freddo della Siberia, chiesero di rientrare nella loro terra natale di Crimea. Krusciov aderì all'idea del ritorno, ma negò ai tartari il diritto di riavere i loro beni, e i poveretti continuano a battere i denti nelle steppe glaciali.

Alla vigilia della nostra partenza da Yalta, avremo la conferma delle dichiarazioni di Ivan. Visitavamo con Gregorio l'affascinante villaggio d'Alupka. In una piccola piazza sorge una specie di monumento funerario dedicato a un certo Ahmet Khan. Gregorio mi spiega che, in virtù di una legge sovietica, gli eroi di guerra, insigniti di una certa decorazione piuttosto importante, devono avere una statua nel loro villaggio natale. Domando, e Gregorio lo ammette, se Ahmet Khan è un nome tartaro. Un gruppo di abitanti del paese si è riunito intorno a noi. Gregorio mi fa da interprete con uno di loro.

« Ahmet Khan era tartaro? ». « Sì ». « Dov'è morto? ». « E' sempre vivo! ». « E dov'è? ». « Non si sa ». « Non si vedono più tartari in Crimea? ». « No ». « E dove sono? ». « Sono partiti ». « Quando sono partiti? ». « Nel 1945 ». « Perché sono partiti? ». « Sono stati puniti! ». Non posso saperne di più, ma mi accontento di questa conferma.

Con la vecchia Kodak di Mirella faccio molte fotografie del monumento. Ivan abita a centocinquanta metri dall'albergo. Con la complicità di Mirella, per tutti gli ultimi otto giorni del nostro soggiorno a Yalta, lo vedrò circa un'ora al giorno, senza che Gregorio dubiti qualcosa.

TRA DONNE

Quando Mirella, invece di raggiungerci a Simeié, si era recata per sbaglio ad Alupka, aveva fatto anche lei un interessante incontro. Sulla spiaggia,

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un'insegnante le aveva parlato. Insegnava francese in una regione deserta e lontana dell'U.R.S.S.

Mirella le aveva chiesto : « Vi trovate bene? ». « Certamente, io amo il mio Paese ». « Volete una sigaretta? ». « Nell'Unione Sovietica non riteniamo conveniente che le donne fumino ». « E trovate conveniente che si sfianchino nel bitume? ». L'insegnante se n'era andata senza batter ciglio.

UN PIONIEREDi sera, al ristorante, suscita grande impressione l'arrivo di una donna

adorabilmente acconciata. E', naturalmente, una parigina. Mentre Mirella si complimenta con lei per il suo cappellino, io intervisto il marito.

E' un simpatico e solido pezzo d'uomo. Fa il garagista a La Courneuve e ha una mania piuttosto singolare: ogni anno fa quello che egli chiama una « prima ». Vuole essere, cioè, uno dei primi ad effettuare un viaggio automobilistico in un paese dove la cosa appare quasi impossibile. Egli ha aperto, qualche anno fa, la strada agli automobilisti stranieri in Spagna, in Jugoslavia, in Turchia, e ora nell'U.R.S.S.

Beninteso, le strade che i nostri nuovi amici stanno percorrendo sono obbligatorie come le nostre e anche loro sono sotto la sorveglianza di una guida, che si chiama Sonia, la quale pretende l'applicazione alla lettera delle disposizioni, non sempre intelligenti, che regolano il turismo. Come tutte le accompagnatrici che incontreremo nell'U.R.S.S., essa mostra un animo settario, che in verità maschera convinzioni molto più superficiali di quelle di un Gregorio.

Durante una gita in battello, Mirella le dice di essere avvocato alla Corte di Parigi, come me, e attacca una discussione sul lavoro delle donne in Russia. Sonia risponde che qui la donna è uguale all'uomo, e che, meglio che in qualsiasi altro Paese, può accedere alle stesse carriere degli uomini. Delle donne lavorano sulle strade, è vero, ma questa è una loro libera scelta. Poi contrattacca : « Quante donne-avvocato ci sono a Parigi? ». « Circa ottocento, cioè quasi come la totalità degli avvocati dei due sessi di Mosca ». « Le vostre cifre sono false ». Il pioniere delle crociere automobilistiche deve intervenire per evitare che la discussione degeneri.

VACANZE PAGATEUn negozio di barbiere è a cento metri dall'albergo, sullo stesso

marciapiede. Mi faccio radere e tagliare i capelli da una donna alla quale impedisco energicamente di raparmi completamente la testa. Di ritorno dal barbiere, mi accorgo che, a venti metri dal nostro, vi è un albergo per turisti

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sovietici. Mi sporgo dal davanzale di una finestra e scorgo, attraverso le tende, una grande stanza nella quale conto diciassette letti. Ivan, che incontro un po' più tardi, m'assicura che coloro che usano questi letti, sono molto contenti. Solo il cinque per cento della popolazione sovietica va in vacanza. Meno del cinque per cento di questo cinque per cento può venire a passare le vacanze sulle coste della Crimea, come dire un cittadino su settecento. Non basta dunque non essere nemico del popolo per venire in Crimea.

Generalmente in ogni fabbrica c'è un solo posto disponibile per passare le vacanze in Crimea. Questo posto è assegnato dai sindacati. Il beneficiario deve teoricamente essere un malato che ha bisogno di un soggiorno in uno dei sanatori della penisola. E infatti il sindacato designa degli uomini invariabilmente pieni di salate, ma che sono ben quotati nel sindacato o nel Partito, il che è le stesso. Quasi sempre, colui che ottiene di fare il viaggio è il capo dei sindacati o il segretario del Partito. Questi privilegiati hanno inoltre gran parte delle spese di viaggio e di soggiorno pagate dal sindacato. Un'altra piccola categoria di fortunati è inviata nel Caucaso e così di seguito, in ordine decrescente. La stragrande maggioranza degli altri cittadini resta a casa. Il campeggio è proibito per ragioni di polizia.

Il viaggio in treno è lungo e costoso. Gli Sputnik volano a ventottomila chilometri l'ora, ma la velocità media dei treni sovietici non supera i cinquantacinque-sessanta. Calcolando i diversi poteri d'acquisto, il viaggio Mosca-Yalta, andata e ritorno, in ultima classe, su sedili di legno, è più caro dell'andata e ritorno Parigi- New York in un aereo di gran lusso.

Ivan mi racconta una storia che duecento milioni di russi si sussurrano all'orecchio da Brestlitovsk a Vladivostok e che poi fa il giro del mondo: Krusciov visita un'importante fabbrica di macchine da cucire a Tuia. Chiude la visita con un discorso agli operai riuniti nella sala delle macchine. Finito di parlare, dice : « Chi di voi ha una domanda da farmi è pregato di alzare la mano ». Nessuno fiata. Krusciov ripete la domanda, senza risultato. Quando sta per andarsene, gli viene consegnato un biglietto che è passato di mano in mano. Il biglietto, anonimo, reca la seguente domanda: « Perchè non avete svelato i crimini di Stalin quand'era ancora vivo? ». Krusciov legge ad alta voce e chiede: « Chi è colui che ha fatto questa domanda? ». Silenzio di morte. Krusciov riprende: « Io chiedo a chi ha fatto questa pertinente domanda di alzare la mano. Gli prometto personalmente l'impunità ». Nessuno apre bocca. Krusciov continua : « Voglio tuttavia rispondere a ciò che mi è stato chiesto: Stalin vivente, non ho detto nulla, per le stesse esatte ragioni che spingono il mio anonimo interlocutore a non parlare ».

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UN DIPLOMATICO IN LIBERTA'

Alla fine del pranzo un americano ci rivolge la parola. Fa lo stesso viaggio che facciamo noi, con una Chevrolet color « fragola schiacciata ». Si siede senza chiedere permesso di fronte a Mirella e approfitta dell'assenza di Gregorio per esplodere così, con degli sconosciuti quali siamo noi per lui : « Non ci sono due soluzioni : abbiamo provvisoriamente una potenza di fuoco superiore. Bisogna che dichiariamo immediatamente la guerra atomica e annientiamo questi bolscevichi della malora ». E' una dichiarazione che può essere stata sentita a trenta metri di distanza. Ci domandiamo se non abbiamo a che fare con un pazzo o con un provocatore. Mirella risponde evasivamente dicendo all'americano che egli forse dipinge le cose troppo fosche. E con prudenza ci eclissiamo.

Mezz'ora dopo ritroviamo lo stesso americano davanti alla porta dell'albergo, mentre ripete le stesse dichiarazioni a un gruppo di russi sbalorditi. Prendo nota del numero della sua auto per controllare al mio ritorno a Parigi se esiste veramente una Chevrolet rosa e bianca così targata nell'Illinois.

Al ritorno da Alupka nel solito battello, Mirella scorge, alla estremità della nave, una giovane donna bruna bellissima. L'interprete del pioniere delle crociere automobilistiche è accanto a noi Mirella le domanda: « Di quale regione è questa giovane? ».

Sonia risponde : « E' molto facile saperlo ». Si alza e senza nessun riguardo va ad interrogare la bella ragazza; ritorna immediatamente : « E' un'ebrea ». « Non vi domando la sua religione, dice Mirella, ma il suo paese d'origine ». « La parola ebrea indica la razza, non la religione ».

Di fronte alla sorpresa di Mirella, Sonia aggiunge: « E' ebrea, come gli altri sono di nazionalità ucraina, bielo-russa ». « Ci sono delle repubbliche d'Ucraina, della Bielo-Russia, non c'è la repubblica ebraica — insiste Mirella. — Come potete parlare di nazionalità ebraica? ». Sonia si limita a confermare : « E' ebrea, è la sua razza ».

Alla prima occasione ne parlo con Ivan, che mi dice, sorridendo, di potermi dare ampie spiegazioni, perchè anche lui è israelita.

Come gli Estoni, gli Ucraini, i Bielorussi, portano sulla carta d'identità l'indicazione della loro regione d'origine, gli israeliti hanno obbligatoriamente quella di « Ebreo », con la differenza che in Russia non c'è una repubblica ebraica. Non esiste l'antisemitismo ufficiale, ma gli israeliti non sono molto ben visti dall'insieme della popolazione che li rimprovera di non provare alcun entusiasmo per i lavori manuali. Infatti, gli israeliti — e lo

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si capisce — hanno tentato, spesso con successo, di monopolizzare le cariche di gerenti di magazzino, di farmacisti, di giornalisti, di pianificatori, ecc... Le autorità, dopo aver tollerato questa situazione di privilegio, hanno reagito in vari modi. Gli ebrei sono stati prima eliminati dalle cariche più importanti del Partito e del governo. Il Soviet Supremo comprendeva quarantasette ebrei nel 1937, ora ve ne sono uno o due. Dopo le esecuzioni di Kamenev e Zinoviev, nelle altissime sfere del regime erano rimasti due ebrei: Beria e Kaganovitch. Beria è stato assassinato. E non è molto chiara la sorte di Kaganovitch.

Contemporaneamente, col pretesto del « numero chiuso », si infieriva nelle università e nella letteratura. Lo stesso illustre Ilya Ehrenburg è riuscito a sfuggire agli ultimi giri di vite, grazie al suo abile senso di opportunismo.

Ivan afferma che Stalin voleva liquidare fisicamente gli ebrei con una deportazione in massa in Siberia, come per i tartari, ma che questo progetto gli sarebbe costata la vita.

Comunque, la realizzazione del piano è stata iniziata. Col pretesto di avviare gli ebrei all'agricoltura, le autorità hanno assegnato loro delle terre, accuratamente scelte all'estremità della Siberia, a diecimila chilometri da Mosca e nelle vicinanze di Vladivostok. Un certo numero di famiglie israelite sono state trapiantate là, in condizioni poco chiare. E comunque il successo di questo tentativo è stato scarso.

Troverò più tardi conferma delle dichiarazioni di Ivan, a pag. 3 de « L'Humanité » del 18 agosto 1958. L'articolo s'intitola: «Il Birobidjan, regione autonoma ebrea, sulle rive del fiume Amore ».

Se si vuol credere all'autore dell'articolo, questa regione definita « autonoma » è « più vasta del Belgio », « le sue terre sono le migliori di tutto l'Estremo Oriente », « vi si contano cinquantuno kolkoz », nei quali lavorano fianco a fianco dei « kolkosiani ebrei, russi, ucraini, bielorussi e moldavi ». « L'Humanité » si astiene dal precisare il numero degli ebrei che si sono precipitati verso questa succursale del Paradiso.

In base a informazioni precise, confermate dal numero dei kolkoz e da quello delle rappresentanze delle varie nazionalità, in questo territorio « più grande del Belgio e il più ricco di tutto l'Estremo Oriente » devono esserci soltanto alcune decine di famiglie ebree.

Ivan mi domanda bruscamente : « Siete antisemita? ». « No, e d'altra parte la maggioranza degli israeliti francesi sono comunisti o progressisti ». « E' antisemitismo — dice Ivan — fare una simile affermazione ».

Durante il pranzo, il pioniere delle crociere automobilistiche mi segnala la presenza nella stanza vicina di un insegnante francese e di sua moglie. Costui

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sostiene che il livello di vita russo è leggermente superiore a quello francese. Mi precipito. Il professore e sua moglie, una giovane donna bionda, sono in attesa della cameriera. Sono arrivati in una 2 CV; fanno parte di una carovana che ha ricevuto, in via del tutto eccezionale, l'autorizzazione di fare un campeggio. Il professore mi conferma che considera il tenore di vita russo identico se non superiore al nostro. Gli domando : « Quale stipendio medio base prendete? ». « Milleduecento rubli ». « E' sbagliato. E' come dire che il salario mensile medio francese è di millecinquecento NF ». In quel momento una cameriera porta una cesta di pane. « Sapete che questa cameriera guadagna 340 rubli al mese? ». L'insegnante fa un gesto di diniego. « Vi rendete conto che il guadagno mensile medio di un insegnante sovietico è da seicentocinquanta a novecento rubli al mese; che nessuno dei settecento vostri colleghi di Karkhov ha l'automobile? Sapete che le due donne che lavorano con il piccone in pieno sole nella pubblica strada, a centocinquanta metri da qui, percepiscono 500 rubli al mese? ».

La giovane donna bionda interviene : « Personalmente, non approvo questo sistema di far lavorare le donne ». L'insegnante, che conosce i classici marxisti, ha una risposta già pronta : « Preferite forse vederle darsi alla prostituzione, come a Parigi? ».

Non mi prendo nemmeno la briga di rispondere che è un po' arbitrario porre al gentil sesso l'alternativa della prostituzione o del lavoro da bestie da soma. Se un certo numero di donne occidentali preferiscono degradarsi piuttosto che fare le stenodattilografe o le cameriere, cosa farebbero le donne che lavorano sulla strada se avessero la facoltà di scegliere tra il bitume ed il commercio del loro fascino slavo?

Lascio la coppia pensando malinconicamente che dei milioni di giovani cervelli francesi sono nelle mani di educatori di questo stampo.

L'AMORE DELLA TERRA

Durante una delle nostre furtive passeggiate, Ivan mi domanda se ho mai visitato un kolkoz. Non vi sono ancora riuscito, ma Gregorio mi ha promesso che farà il possibile nel viaggio di ritorno. Ivan mi dà un'informazione sbalorditiva. Il cittadino sovietico, per spostarsi nell'interno della Russia, deve essere munito, oltre che della carta d'identità, di un passaporto, senza il quale non può essere accolto in un albergo né trovare lavoro. Fino a poco tempo fa era difficile ottenere questo passaporto, ma ora lo si ottiene su semplice domanda ed è valevole per dieci anni. Per impedire l'esodo dalle campagne e legare i contadini alla terra, le autorità hanno deciso di non consegnar loro i

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passaporti. Il kolkosiano che vuole andare a lavorare in città può ottenere un passaporto, che sarà accordato solo con l'autorizzazione del presidente del kolkoz e delle autorità del distretto. Il kolkosiano utile al kolkoz, o mal visto dal presidente, non otterrà mai il passaporto.

Le kolkosiane incontrano maggiori difficoltà degli uomini a lasciare i kolkoz nei quali lavorano faticosamente per salari irrisori. Ci riescono usando vari sotterfugi. Il più diffuso è il pretesto di frequentare corsi di perfezionamento in città. Molte ragazze lavorano poi sulle strade, il che sembra essere un gran sollievo in confronto alla vita fatta nei kolkoz.

Domando ad Ivan come mai il popolo non ha cercato, durante l'ultima guerra, di liberarsi da un giogo che è chiaramente mal sopportato. Ivan riflette, prima di rispondermi: « C'è mancato poco che accadesse ».

Il soldato russo, mi spiega, è coraggioso, ma, come tutti i soldati del mondo, ha bisogno, per combattere valorosamente, di una spinta morale.

La Russia non ha mai vinto una guerra d'aggressione, salvo quella contro la Finlandia, nel 1939. I finlandesi, però, si sono battuti uno contro cinquanta ed hanno tenuto per molto tempo in scacco l'Armata Rossa. Nessuno ha mai creduto che i quattro milioni di finlandesi avessero attaccato i duecento milioni di russi. Siccome la popolazione sovietica era talmente abituata a vedersi presentare come bianco quel che era nero, in un primo momento non ha nemmeno creduto all'aggressione tedesca del 1940, soprattutto perché pochi mesi prima era stato concluso il patto russo-tedesco. All'inizio, l'Armata non ha opposto che una resistenza simbolica. Centinaia di migliaia di soldati sono stati fatti prigionieri senza aver combattuto. Un po' dappertutto, e soprattutto in Crimea e in Ucraina, i tedeschi sono stati accolti come liberatori da buona parte della popolazione. Poi, qua e là, sono apparsi i franchi-tiratori comunisti e i tedeschi hanno reagito massacrando gente alla cieca. Le autorità sovietiche hanno sfruttato gli atti di crudeltà nazisti con una grande pubblicità. Allo stesso tempo, e seguendo l'esempio tedesco, Stalin ha fatto riaprire le chiese, ha fatto mettere in sordina la propaganda comunista e ha proclamato la difesa ad ogni costo della santa terra russa. La popolazione ha risposto magnificamente; ha creduto che dopo la vittoria si sarebbe iniziata un'era nuova. Invece tutto è ricominciato come prima. C'è solo una differenza; gli eventuali oppositori sono talmente scoraggiati e terrorizzati che il M.V.D. non ha più bisogno di assassinare gente.

BUONGIORNO, ZIO

Il 15 agosto, grande emozione in città. Un piroscafo carico di francesi farà

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sosta a Yalta per tutta la giornata. Stiamo attendendo con impazienza questo battello sul quale si trovano, com'era stabilito, il fratello di mio padre e sua moglie. Prima dell'arrivo della nave, una squadra di elettricisti installa degli altoparlanti perchè l'ingresso nel porto si svolga in un'atmosfera musicale. Una ventina di autobus ben lucidati attendono i turisti per un giro lungo la costa. Il piroscafo attracca maestosamente all'ora prestabilita. Dopo i calorosi scambi di saluti, ci uniamo ad un gruppo di gitanti.

Ad una velocità record compiamo la visita ufficiale dei mirabolanti sanatori. In quello più lussuoso, incontriamo una giovane francese, moglie di un capo dei sindacati di Digione. Il gruppo di turisti pone una quantità di domande sulle ragioni del suo ricovero. L'elegantissima signora dichiara, con molto disagio, che non le sa bene nemmeno lei. Davanti alle nostre curiose e interrogative espressioni, ci prega di credere che non è comunista.

Il conducente dell'autobus vuole evidentemente dimostrarci che è un campione del volante. Per le strade strette e tortuose di montagna conduce il suo mezzo ad una folle andatura. Mia zia ed i turisti più anziani sono pallidi dalla paura. I più giovani lanciano ad ogni curva delle urla vere o finte di spavento ed incoraggiano ironicamente l'autista ad aumentare la velocità.

Il fracasso e le scosse, dovute all'assenza degli ammortizzatori, ci stordiscono. Incrociamo le vetture che vengono in senso inverso senza rallentare e a 10 centimetri di distanza. L'effetto è sorprendente. Alla fine del giro siamo intontiti.

Mio zio è un patriota monarchico inveterato. Non teme di discutere da solo contro cento, tanto più che lo svolgersi delle cose ha spesso dimostrato che aveva ragione. Detesta la Repubblica, ma le ha dato suo figlio che, nel 1944, a diciott'anni, è morto eroicamente al suo fianco, attaccando un gruppo di soldati della divisione « Das Reich ».

Gli affido furtivamente il mio manoscritto perchè temo, nel viaggio di ritorno, il passaggio della cortina di ferro. La sera, il piroscafo ci lascia con le note della marcia del film « Il ponte sul fiume Kwai » cantato in coro dai turisti. Resto a lungo sulla banchina a guardare il lussuoso battello che si allontana lentamente.

UNA COLOSSALE FINZIONE

La partenza si avvicina. Dopo essermi assicurato che Gregorio è a letto, incontro Ivan per l'ultima volta. Gli propongo, malgrado l'ora tarda, di andare sulla spiaggia. Impossibile! L'ingresso è vietato dalle nove di sera. Il

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mare è una frontiera e la Turchia non è lontana. Decidiamo di passeggiare lungo la strada che costeggia la spiaggia proibita. Affronto questa sera il discorso più scabroso per l'URSS, quello che anche i comunisti più incaponiti toccano con l'imbarazzo dei malfattori presi con la mano nel sacco: le elezioni.

Tutti sanno che il sistema elettorale è basato su un partito unico, con tanti candidati quanti sono i posti da coprire e con un corpo elettorale che li elegge compatto, con una percentuale dal 99 al 99,9 per cento dei voti. I comunisti occidentali fingono di ignorare quello che significa e quello che ricorda una simile percentuale. Preferiscono dimenticare che, in un sistema elettorale serio, le consultazioni, anche le più decisive, segnano una percentuale che varia dal 55 al 90 per cento.

Domando a Ivan come mai il regime riesce a far muovere il 99 per cento degli elettori quando i risultati si sa già quali saranno. Si potrebbe anche pensare che i risultati vengano alterati. Ivan mi assicura di no. Lo credo. A più riprese ho potuto verificare che il regime rifugge dalla menzogna e dalla falsificazione diretta, preferisce la falsa dialettica e il ricatto invisibile. La tecnica elettorale è la perfetta realizzazione di questa tattica. E' di una semplicità infantile. Davanti alla lista unica, il cittadino sovietico ha due maniere di manifestare la sua disapprovazione per i candidati che si offrono alla sua scelta: non votare o cancellare dei nomi sulla lista unica. Per evitare questa pericolosa tentazione, le autorità hanno giustamente pensato che il miglior mezzo era quello che l'elettore non potesse restare anonimo e quindi impunito. Smascherare gli astensionisti è facile.

I seggi elettorali dispongono, come dovunque, di liste elettorali. La sera delle elezioni, prima di chiudere lo scrutinio, gli scrutatori segnano gli assenti, prendono l'urna e vanno in delegazione ad attirare l'attenzione dei compagni astensionisti sul fatto che essi o si sono dimenticati di votare o che non hanno potuto muoversi. Quasi sempre l'astensionista s'affretta a fare il suo presunto dovere e si scioglie in mille scuse. Se esita, il capo della delegazione gli fa osservare che il suo modo di comportarsi è un chiaro biasimo verso il partito del popolo. Se si ostina, il refrattario è minacciato di essere dichiarato nemico del popolo, complice dei peggiori reazionari. Non è difficile ricondurre la pecorella smarrita sulla retta via.

Ciononostante, di quando in quando, sprofondato in un piccolo villaggio, un vecchio contadino, sentendo ormai prossima la fine, resta sordo a tutte le sollecitazioni e rifiuta di votare. Non teme più la giustizia degli uomini. Il caso è piuttosto eccezionale, ma quando avviene, nel raggio di molti chilometri, le comari sussurrano fra loro : « Quel maledetto di X... si è

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rifiutato di votare... ».Resta il secondo espediente: cancellare dei nomi sulla lista. Pare un mezzo

semplice perchè nel seggio elettorale vi deve essere per obbligo una cabina. Ma se l'uso della cabina è apprezzato in Occidente, non è molto stimato nell'Unione Sovietica. Di fronte a tutti, il bravo cittadino entra nel seggio con la fronte alta, prende la scheda elettorale, ignora dignitosamente la cabina, non ha nemmeno la meschineria di leggere la lista dei candidati ed introduce con molto rispetto il suo verdetto nelle urne. Per evidenti ragioni, nessuno osa cancellare con ostentazione dei nomi sull'unica lista. Rifugiarsi nella cabina per farlo sarebbe una inutile precauzione, poiché solo i nemici del popolo hanno bisogno di nascondersi per sabotare la lista ufficiale.

Un modo di votare ancora più radicale, quello per alzata di mano, è usato per elezioni di minore importanza.

Il sistema elettorale al Praesidium Supremo deve essere poi di una perfetta procedura, giacché Ivan m'assicura che l'approvazione di tutte le centinaia dei decreti votati dopo il 1945 è avvenuta all'unanimità assoluta.

Immaginiamo quello che deve provare uno dei mille e duecento membri della Suprema Assemblea, quando, per la duemiladuecento- settantaduesima volta, vede millecentonovantanove braccia alzarsi meccanicamente nello stesso istante del suo. Il cittadino sovietico, anche se comunista, si perde in un mare di congetture sull'utilità di questi deputati-robot. D'altra parte non si possono fare le cose a metà. Le autorità sanno benissimo che elezioni veramente libere, a scrutinio segreto, darebbero un risultato curioso e sommamente sgradevole.

Ne avremo conferma due settimane dopo, quando passeremo per Cracovia. Ci incontreremo con un membro dell'agenzia « Orbis » che ci racconterà il seguente fatterello: nella primavera del 1958, al tempo delle elezioni a Cracovia, Gomulka decise di tentare di liberalizzare un poco le votazioni. Una lista unica fu presentata al suffragio degli elettori, ma con la straordinaria innovazione che il numero dei candidati era superiore ai seggi da ricoprire. Gli elettori non soltanto potevano scegliere impunemente, ma si trovavano nella necessità di dover fare una scelta.

I nomi che erano in testa alla lista erano stati particolarmente selezionati. Erano o uomini politici che ricoprivano importanti cariche o alti funzionari, la cui elezione non doveva presentare praticamente alcuna difficoltà. Il primo o il secondo della lista era un procuratore che per la sua intransigenza e la sua ferocia era chiamato « il boia ». In fondo alla lista c'era un brav'uomo, un professore, dalla personalità mediocre e sbiadita, di cui non si sapeva quasi

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nulla, solo che praticava la religione cattolica. Dato il grande prestigio dei candidati che lo precedevano nella lista, sembrava che il professore non avesse alcuna probabilità di riuscita, ed era stata d'altronde questa considerazione che lo aveva deciso ad accettare di entrare in lista.

Sapendo soltanto che quel candidato era cattolico, il corpo elettorale ne fece spontaneamente il capo dell'opposizione e il professore sconosciuto riuscì a battere tutti gli altri candidati, ottenendo da solo circa il 75 per cento dei voti.

La cosa più divertente fu che il professorino, diventato eroe suo malgrado, quasi impazzì e si mise a dichiarare ai quattro venti che in quella storia lui non c'entrava per nulla e non osò più uscire di casa.

* * *

Interrogo Ivan sulle ragioni del modestissimo numero degli iscritti al partito comunista nell'U.R.S.S.: dall'1 al 2 per cento della popolazione. E' un calcolo o un insuccesso?

I membri del partito comunista — dice Ivan — possono beneficiare di tutta una serie di eccezionali privilegi invisibili o indiretti. Dai pescherecci alla fabbrica dei rinforzi per le calze, all'Ordine degli avvocati, il Partito controlla tutto, sia direttamente che per interposta persona. Ciò risponde, d'altra parte, al suo preciso compito di organizzatore ed animatore della vita politica ed economica del Paese. ì posti chiave sono sempre riservati agli uomini di Partito o devoti al Partito. Ogni complesso industriale o agricolo ha un segretario indicato dal Partito. Questo personaggio è un superuomo potente, temibile e temuto. Non è difficile trovare candidati che aspirino a questo onore. La cricca comunista è molto gelosa delle sue prerogative. Non schiude le porte se non con perfetta cognizione di causa.

Il Partito è formato da tre gruppi ben distinti. Primo gruppo: i sinceri. Esaltati fanatici. Essi pensano che il fine, cioè la felicità del popolo, giustifichi ogni mezzo. Sono spesso disinteressati e qualche volta sono dei veri asceti al servizio del male. Si danno un gran daffare per scuotere l'apatia della massa e galvanizzare gli spiriti.

Secondo gruppo: gli arrivisti. Opportunisti di ogni genere come si trovano in tutti i paesi del mondo. Per tradizione, pronti a strisciare in qualsiasi occasione ai piedi del potere costituito.

Terzo gruppo: gli uomini réclame. Come i partiti comunisti occidentali, il partito comunista russo cerca di ottenere l'adesione di uomini che hanno una grande reputazione, per le loro attività, le loro capacità o la loro moralità.

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Questo tipo d'uomo si recluta in qualsiasi ramo della società, sia egli uno studioso che un semplice artigiano.

Ivan mi ha citato l'esempio di un suo amico calzolaio, che era stimato in tutto il quartiere per la sua onestà, il suo amore al lavoro e la sua saggezza. Il segretario del Partito non esitò un istante ad accaparrare il piccolo artigiano. Il bravo calzolaio, che non ci teneva affatto ad iscriversi al Partito, tentò invano tutte le scappatoie. Non gli si domandava di divenire un militante attivo, non ci s'informò nemmeno delle sue vere convinzioni; gli si chiese soltanto di considerarsi un membro del Partito. Il calzolaio finì per iscriversi. Il Partito non abusa d'altra parte di lui: una piccola firma ogni tanto sotto un appello qualsiasi, un'apparizione passiva su di un palco, alle riunioni locali. Tutto questo non è molto impegnativo, ma il piccolo calzolaio non osa più guardare in faccia i suoi veri amici.

Anche in Francia sono cose, queste, che si conoscono. Il Partito ha una vasta gamma di uomini di punta, i cui nomi si ritrovano periodicamente nelle firme sotto gli appelli dei partigiani della pace o contro la barbarie razzista della Quinta Repubblica.

A questo tipo da « manifesto pubblicitario » non si chiede nemmeno d'essere comunista. E' così che il lettore de « L'Humanité » è sorpreso di ritrovare alla rinfusa sugli elenchi dell'Unione Democratica Antifascista i nomi del generale Petit, di Pablo Picasso, di Yves Montand e del presidente dell'Ordine degli Avvocati William-Thorp, ecc.

Prima di lasciare Ivan, probabilmente per sempre, gli domando se non è tentato di recarsi a vivere in Occidente. Ivan è attaccato alla sua famiglia e al suo Paese. Inoltre, malgrado tutto, è impressionato dalla propaganda ufficiale che avverte continuamente coloro che vorrebbero emigrare che all'estero condurranno un'esistenza da mendicanti. Dico a Ivan che effettivamente gli immigrati si sistemano difficilmente, ma che in tutti i casi il minimo indispensabile che si guadagna in Francia ha un potere d'acquisto superiore a quello russo. Comunque la discussione è perfettamente inutile perché la fuga è praticamente impossibile.

Durante quasi otto giorni, Ivan ha rischiato quotidianamente la sua relativa libertà, se non la sua sicurezza, per fornirmi informazioni che senza di lui non avrei mai potuto avere. Mi ha chiesto di dare a queste informazioni il massimo della pubblicità. Gliel'ho promesso e mi sforzo di mantenere la parola. Ci lasciamo rapidamente, senza avere il coraggio di dirci ciò che sentiamo nel cuore. Se, per caso, Ivan leggesse queste righe, sappia d'avere dall'altra parte un amico che sarà felice di soddisfare il suo debito se, per un

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caso straordinario, ne potrà avere l'occasione.Alla vigilia della nostra partenza, su mia richiesta, Gregorio ha preso dei

posti al teatro all'aperto di Yalta. Si dà una rivista musicale. Lo spettacolo comincia con l'inno del Partito, cantato da un imponente coro di uomini in vestito scuro e di donne in abito lungo. Raccoglimento assoluto. In un'atmosfera così rallegrata, la rivista incomincia con un quadro consacrato al ritorno in miniera di giovani congedati dalle armi. L'entusiasmo manifestato dai marinai, dagli aviatori e dai carristi di ridiscendere nei pozzi fa piacere a vedersi. Il secondo quadro è intitolato « Serata nel villaggio ». Una provocante ragazza dai capelli rossi canta trionfante la canzone di moda, il cui concetto è questo:

« Non sono graziosa, ma non m'importa come sono. Io sono Komsomol ».Dopo l'intervallo, la compagnia esegue la danza dell'amicizia e della pace.

Il divertimento continua col quadro : « Una sera in periferia ». Dei giovani operai organizzano un ballo in un angolo di strada. Si vedono le inevitabili danze cosacche; poi due grosse ragazze cantano con vigore il « Canto delle Mimose ». La compagnia al gran completo termina con un finale consacrato alla « Marcia verso l'Aurora ». Sempre il famoso « radioso domani ».

CAPITOLO IX

C O N F E R M E

Questa mattina lasciamo Yalta per riprendere la strada del ritorno. Avremmo voluto passare per le regioni meridionali, ma dalle informazioni ufficiali apprendiamo che non ci sono né alberghi né strade. Dobbiamo quindi riprendere la stessa strada che abbiamo fatto al venire, risalendo fino a Mosca.

Avevo pensato di lasciare Yalta alle 9, perché ci attende una lunga tappa, ma ancora una volta non avevo pensato al problema del rifornimento della macchina.

Quando mi presento, col cuore in gola, al garage, che pure è ben organizzato, mi sento dire che non ci sarà benzina fino alle 10. Infatti saremo serviti alle 11,30.

Al garage, il pioniere delle crociere automobilistiche ha un incidente.

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Poiché i meccanici impiegano un tempo enorme per effettuare una piccola riparazione, che i meccanici del suo garage di La Courneuve avrebbero eseguito in pochi minuti, si mette a discutere di « automobili ». Le automobili sovietiche, e naturalmente il loro motore, sono, secondo lui, copiate dai modelli occidentali. Quando vanta la qualità della sua 403, un operaio russo gli dice con tono sprezzante che le macchine sovietiche sono le migliori del mondo.

Il pioniere delle crociere automobilistiche esplode. Dà un forte pugno sul cofano della sua automobile ed esclama: « Nemmeno fra cent'anni sarete capaci di fabbricare una macchina simile ».

Lasciamo senza troppo rimpianto la riviera sovietica. Riprendiamo la strada di montagna con un po' di angoscia, perché i cigolii del motore non fanno che aumentare. Ci ritroviamo però senza difficoltà nell'immensa pianura russa. Mentre viaggiamo a 90 chilometri orari, andatura rispettabile per le strade russe, veniamo superati a tutta velocità da un enorme autobus. E' un pullman con passeggeri che viaggia ad una media di 100 chilometri orari.

Nulla lo fa rallentare.La sera, durante la sosta, il conducente di uno di questi veicoli mi confida

che, una settimana prima, uno dei suoi colleghi ha perduto una ruota mentre attraversava un villaggio a 110 all'ora. Bilancio: cinquanta morti. « Come in un incidente d'aereo» , soggiunge con una punta d'orgoglio.

* * *

La tappa a Zaporojié è molto piacevole. L'albergo è ben tenuto. I camerieri sono rapidi, premurosi, pieni d'attenzioni. Uno di essi, di origine bulgara, mi dà continuamente degli amichevoli colpi sulle spalle. L'indomani, alla partenza, brutta sorpresa: in città non c'è benzina per i turisti. Un attore sovietico, che abita nel nostro stesso albergo, mi offre il carburante della sua riserva. Rifiuto, un po' alla leggera, perché ho visto sull'itinerario che c'è un altro posto di rifornimento a venticinque chilometri.

Arrivati al distributore, non troviamo nemmeno una goccia di benzina. Chiedo dov'è il telefono per domandare aiuto a qualcuno. Non c'è telefono. Mi faccio dare il libro dei reclami e per la prima volta scrivo senza esitare: « Non c'è benzina. Non c'è telefono. Dobbiamo ritornare a Parigi a piedi? ». Firmo con la mia più bella calligrafia e, secondo il regolamento, Gregorio, con la morte nell'anima, trascrive in russo la mia protesta.

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Mentre esponiamo le nostre ragioni sul libro dei reclami, il gerente, molto preoccupato, è scomparso. Mentre ci stiamo domandando cosa si potrebbe fare, ritorna con quindici litri di benzina, che ha dovuto prendere dalla sua riserva personale. Mi pento di aver fatto l'annotazione, ma per lo meno rimarrà una traccia scritta del mio passaggio in U.R.S.S.

Il prossimo distributore è soltanto a centosettanta chilometri e i quindici litri non saranno sufficienti per raggiungerlo se non manteniamo una velocità ridotta.

LA BENEDIZIONE DELLE MELE

Siamo a poche decine di chilometri da Zaporojié; attraversiamo una piccola città chiamata « Nuova Mosca ». Nella piazza principale si erge una magnifica chiesa in legno, dipinta in verde e bianco. Sembra che vi si stia celebrando una cerimonia. Sebbene « Jojo-tuttofare » si opponga, ci fermiamo. Assistiamo, nel giardino che circonda la chiesa, ad una pittoresca processione in occasione della benedizione delle mele. Nell'antica Russia, questa cerimonia apriva il periodo in cui si cominciavano a mangiare le mele. Contadini e contadine attendono il passaggio della processione. Hanno allineato ai loro piedi i frutti più belli per farli benedire. Rivediamo le magnifiche mele che avevamo intravisto al Parco Agricolo di Mosca.

Questa brava gente capisce che siamo stranieri e che i nostri cuori sono vicini ai loro. Stanno quasi litigando per offrirci qualche mela. Una vecchia donna si avvicina. Sua figlia è sposata in Francia... Ci dice piangendo che non l'ha più vista da vent'anni. Ci offriamo di portarle sue notizie. La povera vecchia non è nemmeno capace di spiegarci in quale regione si trovi. Sa soltanto piangere e toccare con devozione i nostri vestiti. Le promettiamo di passare da casa sua per avere l'indirizzo. La donna domanda il permesso al marito che attende in disparte. Questi non ne vuole sapere, e trascina via bruscamente la sua vecchia sposa.

Ripartiamo subito, perché Gregorio dà segni d'impazienza se non proprio d'esasperazione. Mirella gli ripete una volta ancora che è un tipaccio votato all'Inferno e gli proibisce di mangiare le mele, perché sono benedette.

ONOREVOLE AMMENDA

A trenta chilometri dal distributore, avviene la catastrofe : dopo qualche sussulto il motore si ferma inesorabilmente. Siamo in aperta campagna. Soffio con la forza della disperazione nei pezzi del motore che sono capace di

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smontare. Gregorio, più pratico, ferma un camion. Il conducente non è molto disposto a rimorchiarmi.

Non ha un cavo? Che importa?Ho così l'occasione di esibire con orgoglio la mia superba corda rimorchio

occidentale. E' in nylon, resistente, pesa centocinquanta grammi e si può tenere in tasca. Il solo inconveniente è che è un po' corta. Non dimenticherò mai, per tutta la vita, questo rimorchio a ottanta chilometri all'ora, con il muso della macchina a due metri e ottanta dal minaccioso posteriore dell'enorme camion.

Il mio salvatore ha una tale fretta che davanti al garage non si ferma nemmeno. I miei richiami col clacson sono inutili: freno. Per fortuna, il nylon non è resistente come mi aveva assicurato il venditore, e mi fermo a centocinquanta metri dal distributore.

L'aspetto del garage è così tranquillo che mi sa di cattivo augurio. Gregorio va a cercare il gerente. Il mio orologio segna le undici e trenta. Gregorio ritorna e mi annuncia lugubremente : « Forse, verso le diciassette, verrà un meccanico ».

Il prossimo garage è a Karkhov, a 120 chilometri. Tre camionisti guardano la scena con molto interesse. Si offrono di dare un'occhiata al motore. Accetto con gratitudine, ma poco convinto. I tre uomini frugano alacremente sotto il cofano. Tristemente seduto sul ciglio della strada, ho perduto completamente la mia superbia occidentale.

Un urlo di trionfo mi fa scattare in piedi. Il più alto dei tre camionisti, con un fiuto staordinario, ha scoperto che una vite del mio spinterogeno si era allentata e interrompeva il contatto. Prometto a Gregorio di non parlare mai più male dei meccanici sovietici. Mirella offre al nostro salvatore una bottiglia di profumo per sua moglie. A gesti, costui spiega che non è sposato, ma ci fa capire, con una grande risata, che apprezza moltissimo il regalo.

IL MURO DELLA VITA PRIVATA

Ci ritroviamo a Karkhov con piacere. Mentre Mirella si riposa, domando a Gregorio di accompagnarmi al Tribunale, che dista dall'albergo 300 metri. Gregorio afferma che il Tribunale è chiuso. Gli dico che andrò da solo e mi allontano a passi decisi. Gregorio mi raggiunge imprecando.

Effettivamente non c'è più nessuno in Tribunale. La nostra attenzione è attirata da una piccola folla ferma davanti a dei cartelloni installati nelle vicinanze. Vi sono disegni satirici della serie del « Krocrodil », con i quali si

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sfoga l'umorismo dei moralisti sovietici. Chiedo a Gregorio di tradurrai le didascalie di una serie di disegni.

Il primo disegno è la caricatura di un giovane che corteggia parecchie ragazze di razze differenti. Sotto: « Il dongiovanni Dobronoff, dell'officina Finiakoff ». Il secondo disegno raffigura lo stesso giovane che riceve una severa lavata di capo. Sotto: «Il compagno Dobronoff è licenziato dai Komsomol e retrocesso nelle sue mansioni alla fabbrica, per cattiva condotta e seduzione di parecchie ragazze ». Il terzo disegno rappresenta lo stesso sig. Dobronoff espulso dai suddetti Komsomol con un magistrale calcio nel sedere. Sotto: «Senza commento...».

Gregorio trova tutto questo molto ben fatto. Non tento nemmeno di spiegargli che in Francia il dare una tale pubblicità alla vita privata di un cittadino è pura e semplice diffamazione. Penso al mio amico marxista Marcello, sempre tanto galante col gentil sesso. Al mio ritorno, gli domanderò se è d'accordo sulla diminuzione di salario ai proletari troppo intraprendenti.

La morale sovietica si fa sempre più severa. Il divorzio è sempre più malvisto, soprattutto fra i membri del Partito. E' abitudine normale che una ragazza abbandonata faccia punire il suo seduttore dal datore di lavoro. Chi abbandona il proprio consorte rischia di vedersi biasimato dalla stampa locale. La donna abbandonata, se non ha bambini, non avrà diritto a sussidi per gli alimenti, così come succede alle vedove di guerra o ad ogni altro genere di vedove.

IL PIÙ' BEL KOLKOZ

Il tempo è sempre magnifico. Parecchi giorni fa avevo domandato a Gregorio di provvedere alla visita di un kolkoz. Mi sarebbe piaciuto sceglierlo io o almeno lasciar fare al caso. Era domandar troppo. La visita si può fare a Karkhov e unicamente al kolkoz « La voce di Lenin », che ha la funzione di edificare i visitatori occidentali.

L'appuntamento è fissato alle dieci. Mirella, un po' indisposta, non si unisce a noi. Un trio di americani e d'inglesi ed un altro francese fanno parte del gruppo che deve visitare, in compagnia delle rispettive guide, sotto la direzione a loro volta di una guida specializzata, il kolkoz.

Simpatizzo immediatamente col viaggiatore francese, che sarà un prezioso compagno. Si tratta del sindaco del villaggio di Chezy-sur-Marne. Si dice che i coltivatori francesi siano degli abitudinari. Costui è la prova vivente del contrario. L'anno scorso è stato in America. Quest'anno visita la Russia in aereo. E tutto ciò con la sua quadrata e scaltra testa di bravo contadino.

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« La voce di Lenin » è a una decina di chilometri da Karkhov. Eccezion fatta per la Mosca-Brestlitovsk e la Leningrado- Yalta via Mosca, sembra che in Russia non esistano strade asfaltate. La regione di Karkhov segue la regola, ed andiamo al kolkoz modello su di una pista che non permette più di 25 chilometri all'ora. Siccome la terra non è di nessuno, quando le carreggiate sono troppo profonde, si devia di lato e si continua così. In queste condizioni, una strada diventa talvolta larga come i Champs-Elysées.

Il kolkoz modello ha l'aspetto di una fabbrica abbandonata. Mi ricorda una confidenza di Ivan: « In Russia, per definire un luogo mal tenuto, si dice: è un vero kolkoz ».

In lontananza delle donne sono sedute su di un mucchio di cipolle. Appena ci scorgono, si precipitano sulle loro forche. Intorno degli uomini chiacchierano. Visitiamo una stalla modello. La nostra giovane guida accarezza il collo di una mucca da latte, campionessa di tutte le Russie. La mungitura si fa soltanto elettricamente.

La fotografia di una donna è appesa sopra la porta della stalla. Domando: « Chi è? ». « E' la campionessa delle mungitrici ». « Ma io credevo che le macchine... ». « Sì, ma ci sono le mucche che non sopportano le mungitrici meccaniche, e in ogni modo anche per le altre bisogna finire di mungerle a mano ». Chiedo di vedere le mungitrici elettriche. L'agronomo che ci conduce è costernato: sono guaste...

Il kolkoz basta a sé stesso, ha la sua officina e la sua falegnameria. Passiamo proprio davanti a quest'ultima. La nostra zelante guida apre la porta per farcela ammirare. Non abbiamo fortuna: il falegname è occupato a fare una bara con delle assi mal piallate. Filiamo via rapidamente.

Il sindaco chiede di vedere qualche casa di kolkosiani. L'agronomo rifiuta con cortesia, ma con fermezza. Insisto anch'io. Non c'è niente da fare. Quello che scopriremmo non quadrerebbe affatto con ciò che ci è spiegato pochi minuti dopo nella sala delle riunioni. Ci raggruppiamo infatti nella grande sala del « Club del kolkoz », inquadrati dall'agronomo e dall'intendente. Il presidente legge i dati sulle ricchezze del kolkoz: 1.077 ettari, 550 kolkosiani, 180 mucche, 90 cavalli, dei quali 60 da lavoro, 6 trattori, 14 camions, 100 apparecchi televisivi. I kolkosiani guadagnano da cinque a seicento rubli al mese.

Il sindaco domanda qual è il rendimento del grano per ettaro. L'agronomo risponde : « Da 20 a 25 quintali all'ettaro ».

Siamo in una fattoria modello sita in piena Ucraina, cioè in una delle migliori terre del mondo per la coltivazione del grano. Mi rivolgo al mio

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compatriota: « Che rendimento avete voi? ». Il sindaco si fa pregare, poi confessa che il rendimento medio nella sua fattoria, l'anno scorso, è stato di 45 quintali all'ettaro.

L'agronomo, molto interessato, fa tradurre. L'interprete è furiosa e ribatte: « Nelle nuove terre di Siberia otteniamo dei rendimenti tripli! ». L'agronomo protesta sorridendo. Queste famose nuove terre sono gelate nove mesi su dodici e per parecchie decine di centimetri di profondità. Senza essere esperti agricoli, se ne può immaginare il rendimento.

Voglio controllare le informazioni di Ivan sulla libertà di circolazione dei kolkosiani. Per evitare di non avere risposta pongo la domanda a bruciapelo, raggirandola: « I kolkosiani che abbiano un fondato motivo, possono ottenere un passaporto dalle autorità? ». L'interprete traduce senza battere ciglio. Il presidente del kolkoz risponde molto a suo agio : « Certamente, se il motivo è legittimo, per esempio per andare a studiare in città... ». « E se non ci sono motivi legittimi? ». L'interprete ha capito dove volevo arrivare. Ha una discussione animata col presidente e mi prega di limitare le mie questioni al kolkoz.

Mi viene confermato che i lotti di terra assegnati ai kolkosiani sono stati ridotti da 5.000 mq. a 3.000 mq. Faccio qualche domanda sulla quota obbligatoria dei cereali da consegnare allo Stato, e sulla determinazione del prezzo, ecc... La discussione diventa sempre più concitata. Il sindaco stesso mi fa segno che sto sorpassando i limiti. Prendiamo congedo e ritorniamo a Karkhov.

Al mio ritorno, Mirella si sente ancora poco bene. Ordino, com'è suo desiderio, un leggero brodo di verdura. Con un grande cerimoniale, le portano un brodo di cavoli.

FOSSE COMUNI PER « EROI »

Nelle prime ore del pomeriggio, riprendiamo il nostro cammino verso il nord. La strada è cosparsa di nomi che abbiamo sentito molto spesso durante la guerra. Segue infatti la linea del fronte. Domando a Gregorio di farci visitare un cimitero militare. Ci fermiamo al confine della provincia. Due cannoni ai lati di una lapide. Qui quarantamila soldati sovietici sono stati sepolti. Non esistono cimiteri militari. I soldati hanno diritto solo ad una fossa comune. Chiedo se esistono dei cimiteri militari tedeschi.

Gregorio mi risponde allegramente: « Non ce ne sono più, abbiamo lavorato la terra ed abbiamo seminato patate ». Ecco il vertice del progressismo! Una volta applicato il materialismo marxista, perché accordare

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più importanza ai resti umani che alla carcassa di un animale?

INCIDENTI STRADALI

Attraversiamo Kursk e poi Orel. Queste due città battono ogni record di trascuratezza. E' la desolazione della desolazione. Le strade come le piazze sono cosparse di rotaie che spuntano dal terreno come funghi, di buche, d'immense pozze d'acqua. Tutto circondato da misere case.

Scende la sera. Ancora una volta notiamo che fino alla immediata prossimità delle grandi città (si può dire a due chilometri da Orel) le isbe sono illuminate da lampade a petrolio. Davanti alle porte sono messi a seccare dei mucchi di letame, che servono da combustibile per l'inverno. L'U.R.S.S. produce tanta elettricità e carbone che cerca di esportarne!

Un po' più lontano, la strada è in riparazione. Il compagno ingegnere dei ponti e delle strade non si è certo rotto la testa per stabilire i percorsi delle deviazioni. Le macchine passano attraverso i campi, a caso. Per riguadagnare la strada, bisogna oltrepassare i campi e un fossato dai bordi arrotondati, ma profondo un metro. Scarico passeggeri e bagagli per limitare i danni, quando sopraggiunge una Pobieda sovietica molto alta sulle ruote. Il guidatore ha uno sguardo sprezzante per questa vettura occidentale bloccata da un così facile ostacolo. Senza far scendere i sei passeggeri intasati nell'interno, rallenta un po' e passa il fossato con un fracasso assordante. Quando la nube di fumo si è dissipata, scopriamo la Pobieda ferma cento metri più avanti. Ha lasciato nel fossato, un metro e mezzo di tubo di scappamento e ha il suo serbatoio bucato. Raddoppio la prudenza e riesco a passare rompendo solo un po' la mia marmitta. Non avrò più bisogno di clacson fino a Parigi. In pieno villaggio, vitelli, cavalli, oche vagano per la strada senza che nessuno se ne preoccupi.

Facciamo sosta a Mtsenks, che è una replica esatta di Zeljonyjgaj. Un vero caravanserraglio d'auto-dormitorio circonda l'albergo. Per darci una camera, l'amministratrice manda via una coppia sovietica che se la svigna scusandosi.

La nostra camera dispone di due grandi letti. Mirella va a cercare la coppia sloggiata, che si è sistemata per la notte in una minuscola « due posti », e offre un letto. La donna parla correntemente francese. Accetta con entusiasmo la proposta di Mirella. Ma suo marito rifiuta. Dormiamo con la porta aperta, perchè nessuna serratura dell'albergo funziona. Partiamo in ritardo perché nel garage continua a non esserci l'A. Z. 74.

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SUPERBA RASSEGNAZIONE

A trenta chilometri da Tula, facciamo salire un autostoppista. Si chiama Andreiev; ha imparato il tedesco durante la guerra, e facciamo a meno dell'opera di Gregorio, che assiste alla conversazione con inquietudine. Andreiev lavora a Tula, cioè a trenta chilometri da dove abita. La sua casa è a sei chilometri dalla stazione e a due chilometri dalla strada. Il viaggio in treno è economico perché ha una tessera, ma lo costringe a fare quattordici chilometri a piedi al giorno. Ogni tanto preferisce venire a fare l'autostop sulla strada. Ha cinquantanni; lavora da trentadue anni nello stesso posto, è fabbroferraio, operaio specializzato di settima categoria.

La più alta, precisa, con fierezza. Guadagnava 1500 rubli al mese, ma ora ne guadagna solo mille, dai quali gliene vengono detratti ottantacinque di tasse.

Mi meraviglio e domando delle spiegazioni supplementari. Lavorava a cottimo, ma adesso è pagato a ore. E' meno duro e ne è contentissimo.

« Il numero delle ore settimanali è diminuito? ». « No, bisogna farne sempre quarantasei per settimana ». « Avrete meno lavoro, in compenso alla diminuzione del salario! ». « No, ma va molto bene egualmente ».

Non tirerò certamente conclusioni dal discorso di questo straordinario salariato che è, per prudenza, soddisfatto d'aver visto la sua paga diminuita di un terzo. Saprò più tardi, da altre fonti, che in contropartita di certi ribassi spettacolosi, è stata ridimensionata tutta una serie di alti salari, il che vuol dire che sono stati diminuiti. Gregorio si accanirà a dimostrarmi che si tratta di un caso isolato, cioè un'eccezione che conferma la regola.

Continuo l'intervista con Andreiev. Ha quindici giorni di ferie pagate all'anno, ma non è mai andato in vacanza perché ha quattro figli e non è mai riuscito ad incassare gli assegni familiari. Durante le ferie si dedica al suo giardino. Sua moglie lavora nel kolkoz del quale fa parte la loro casa. Guadagna cinque rubli a giornata lavorativa. Ne fa centottanta all'anno, che le rendono 900 rubli in tutto, più qualcosa in natura. Siamo ben lontani dai 600 rubli mensili del kolkoz « La voce di Lenin ». Andreiev ci racconta ancora che, per evitare i lunghi tragitti durante l'inverno, affitta una camera a Tula, che per fortuna aveva trovato a 200 rubli al mese. Ora, l'ha ceduta a suo figlio maggiore.

Ci piacerebbe chiacchierare ancora con Andreiev, ma arriviamo a Tuia, conosciuta per le sue fabbriche di macchine da cucire.

MANIFESTI BELLICOSI

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Ai lati della strada, continuiamo a leggere dei bellicosi proclami in favore della pace: « I soldati della pace sono invincibili! ». « Sbaraglieremo i nemici della pace! ». A sud di Karkhov abbiamo persino letto una parafrasi del consiglio che ci era stato dato nel 1939: « Tacete, la più piccola informazione può giovare al nemico! ». Altri cartelli sono più umoristici: « Ragazzo! Le nuove terre della Siberia ti attendono! ». « Nel 1965 avremo raggiunto gli U.S.A. ».

Quest'ultimo manifesto mi ricorda un aneddoto che mi aveva raccontato Ivan. Prima delle ultime epurazioni, Malenkov diceva a Krusciov: « Dobbiamo raggiungere gli americani ». E Krusciov ribadiva : « Dobbiamo superarli ». Molotov, che se ne stava in disparte, obiettò: « Sono d'accordo che si devono raggiungere, ma non superare ». « Perché? » ruggì Krusciov. « Perché si accorgerebbero che abbiamo il fondo dei calzoni bucato! ».

CAPITOLO X

LA FESTA CONTINUA

Ritorniamo a Mosca e all'albergo Métropole. Dopo il pranzo, ritroviamo il pioniere delle crociere automobilistiche. E' stato avvicinato da un francese stabilitosi in Russia, che diceva di essere ingegnere nell'aviazione a 900 rubli il mese. Saputo che il suo compatriota veniva dal Mar Nero, gli aveva domandato consiglio per fuggire dall'U.R.S.S. in piroscafo. Il pioniere gli ha prudentemente e giustamente consigliato di rivolgersi a coloro che l'avevano spinto a stabilirsi nell'U.R.S.S.

Ci fermiamo qualche giorno a Mosca. Facciamo la tradizionale visita a Zagorsk. E' uno degli ultimi seminari russi; situato a settanta chilometri da Mosca, ha una meravigliosa cattedrale, che non possiamo visitare perché è riservata al culto. Visitiamo l'esterno e il ricco museo, con la guida di uno strano seminarista, più marxista di Gregorio. Al ritorno, nella sala dell'albergo, attacco discorso con un professore d'università. E' molto soddisfatto della sua vita. Ha due figli. Guadagna 1.200 rubli al mese. Sua moglie è operaia specializzata in una fabbrica di calzature a 700 rubli mensili. Hanno avuto la fortuna di trovare, per 400 rubli al mese, una camera con cucina comune. Il solo punto nero è il problema di dar aria alla camera, nella quale vivono in quattro.

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NESSUNA NUOVA BUONA NUOVA

A pranzo siamo vicini ad una coppia di francesi in preda alla più nera disperazione: da parecchie settimane non hanno più notizie dei figli. Dovevano ricevere da più di dieci giorni una loro lettera. Ogni giorno vediamo aumentare la loro apprensione. Facciamo del nostro meglio per calmarli. La sola lettera che ci ha raggiunti ha impiegato dodici giorni per arrivare all'albergo Métropole da Parigi. La giovane signora piange sempre. Il marito passa il tempo a domandare alla sede dell'Inturist se è arrivata posta. Riceveranno la lettera tanto attesa alla vigilia della nostra partenza. Era stata impostata in Francia quattordici giorni prima.

LA M.V.D. VEGLIA

Oggi facciamo un giro fuori programma nei dintorni di Mosca per visitare una basilica detta « Chiesa degli Zar » che è servita come modello per la famosa chiesa di San Basilio. La guida dei nostri compatrioti non si sente bene ed essi fanno colazione con noi sotto la sorveglianza comune di Gregorio. Finita la colazione, parliamo della gita che abbiamo decisa per il pomeriggio. Proponiamo ai giovani sposi di unirsi a noi. Accettano con entusiasmo, partiremo con la loro automobile, che è più grande della nostra.

Gregorio, che ci ha ascoltati senza dir parola, ci prega improvvisamente di scusarlo. Ritorna, dopo una lunga assenza, e ci dice con aria lugubre: « Non è possibile fare la gita con la macchina dei vostri amici, perché avevo preparato i documenti per la vostra ». « Non importa, prenderemo la nostra! ».

Gregorio ci prega nuovamente di scusarlo e scompare in direzione dell'ufficio dell'Inturist. Ritorna sempre più lugubre, dopo tre quarti d'ora, « Sono desolato, signore, avevo procurato il necessario per una 203 con tre persone ed è troppo tardi per aggiungercene altre due ». Il povero Gregorio è sorpreso con le mani nel sacco.

Avrò conferma da altri turisti francesi che, per ogni gita fuori Mosca, è necessaria una speciale autorizzazione che segnali anzitutto alla polizia il tipo della macchina e il numero dei passeggeri. Di fronte a tante complicazioni, rinunciamo a portare con noi i nostri amici. La Chiesa degli Zar è a tredici chilometri da Mosca. Ci rendiamo conto perché questa escursione non figura nei programmi ufficiali. Per arrivare a destinazione, si deve passare per uno dei quartieri più miserabili di Mosca e finire il percorso su di una pista che farebbe imprecare anche un conducente di camion. Sebbene l'ora sia tarda, una guida ci attende in portineria.

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Il posto è straordinario. Ci troviamo sull'area del famoso palazzo in legno della grande Caterina. Il palazzo è stato distrutto. Rimangono soltanto alcune costruzioni di un'architettura meravigliosa. Cerchiamo di visitare la più importante delle chiese. Con grande meraviglia di Gregorio, l'ingresso ci è rifiutato brutalmente da una megera, col pretesto che la chiesa è riservata al culto.

Ritorniamo a Mosca senza essere stati mai palesemente controllati. Gregorio ha sempre provveduto con molta discrezione alle nostre gite, e, se non fosse accaduto l'incidente di poco fa, avremmo sempre ignorato che i nostri più piccoli spostamenti erano segnalati a priori alla polizia.

POVERI SERVI

Gregorio ci ha prenotato dei posti al celebre teatro della Marionette. Lo spettacolo è bellissimo. Oggi abbiamo visitato il celebre palazzo Costantino. E' un magnifico edificio in legno che è stato fatto costruire da un principe amante del teatro. La guida coglie ogni occasione per dire che la costruzione era stata fatta da operai, sotto il controllo di un architetto, con la collaborazione di artisti, tutti servi della gleba. La cosa migliore del palazzo è un teatro disposto in modo perfetto. Si vede un po' dappertutto il ritratto di una danzatrice, figlia di servi della gleba, che si è fatta sposare dal bel principe.

Malgrado gli sforzi della guida, nessuno riesce ad impietosirsi sulla sorte di questo genere di schiavi: pittori, attori, danzatori, architetti e padrone di casa.

DIALOGHI DA SCEMI

Dobbiamo lasciare Mosca fra poco. Mi preoccupo di mettere in ordine la macchina. Racconto ai miei nuovi amici le prime delusioni al garage di Mosca. Katia, la loro guida, protesta violentemente per i miei discorsi, e sostiene che siamo tutti degli stupidi, compreso Gregorio. Punto sul vivo, le dico a brutto muso : « Verrete con noi per mostrarci come si deve fare ». Gregorio, pietrificato, ci segue e ce ne andiamo tutti e tre al famoso garage che si trova, come sempre, a 10 chilometri dall'albergo.

Il posto di rifornimento è organizzato ancora più ingegnosamente del solito: due porte permettono l'ingresso nella sala di ingrassaggio. Da una non si può entrare, perché l'elevatore è bloccato da parecchi giorni a 70 cm. dal suolo, la seconda porta ne ha un altro che funziona. Per entrare o uscire dalla sala, le macchine devono attendere che la vettura issata sull'elevatore sia finita. Siamo lontani dai « ritmi vertiginosi » descritti da « L'Humanité ».

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Katia è scomparsa.Domando al capo officina se posso entrare con la macchina. Mi risponde

che non c'è più olio, che forse ce ne sarà domani, che farei meglio a tentare di trovarne a Smolensk (a 600 km) ma non è sicuro che ce ne sia. Katia ritorna. La investo : « Non c'è più una goccia d'olio nella vostra capitale fasulla. Siccome noi siamo degli stupidi, andate immediatamente a telefonare all'Inturist e rimarrete qui con noi, finché non avrete trovato l'olio ». Disorientata ma piena di dignità, la poverina si dirige verso l'ufficio del direttore. Probabilmente per darmi il tempo di calmarmi, ci rimane mezz'ora prima di ritornare sorridente. Ed abbiamo un dialogo da scemi: « Vi hanno informato male, l'olio c'è... ». Ho un rantolo di soddisfazione. « ...soltanto, l'impiegato che ha la chiave non c'è ». « La chiave dell'olio? ». « Sì ». « Quando verrà? ». « Domattina alle dieci ». « Che cosa fa con la chiave? ». « Non lo so ». « Datemi il suo indirizzo, vado a cercarlo». «Nessuno sa dove abita». Sto toccando con mano il muro della dialettica marxista. L'indomani verrò a sapere che effettivamente l'olio era finito. Non mi spiegherò mai perché Katia, invece che ammetterlo, ha preferito inventare tutta quella storia. Gregorio, vigliaccamente, è andato a rifugiarsi in macchina.

Sono molto preoccupato, perché dobbiamo lasciare Mosca domattina e arrivare in Occidente a tappe di settecento chilometri. Il minimo ritardo farà scadere il nostro visto. Avverto Gregorio che se non abbiamo olio per domattina, faremo uno scandalo senza precedenti. Abbiamo perduto ancora una mattina. Ritorniamo in albergo in compagnia di Katia che ha per lo meno il pudore di tenere gli occhi bassi.

Il giorno dopo, arriviamo molto presto all'autorimessa. Seduto su di una pila di pneumatici, passo tutta la mattina a giuocare agli scacchi con Gregorio. Finalmente arriva l'olio e l'operaio batte con fierezza ogni suo record personale facendo tutto il lavoro in un'ora.

CAPITOLO XIULTIME IMPRESSIONI

Lasciamo Mosca una domenica mattina. Per arrivare a Minsk ci sono settecentoquattro chilometri. Partiamo alle sette del mattino senza aver potuto ingurgitare nulla. E' perfettamente legale che il nostro stomaco sia vuoto, perché è impossibile all'albergo Métropole, come probabilmente dappertutto, poter avere la colazione prima delle nove del mattino. Consulto

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la pianta dei ristoranti. Il primo è a Gzhatsk, a centosettantaquattro chilometri da Mosca. E' in aperta campagna; c'è solo del latte condensato e del burro atrocemente rancido. L'albergatrice ci spiega che nel magazzino di Stato non c'è burro e che bisogna comprarlo, a prezzi superiori e rancido, al mercato kolkosiano. La situazione è simile in tutta la Russia, salvo in qualche grande città. L'inverno scorso, in una regione tra le maggiori produttrici di zucchero, lo zucchero è mancato per sei mesi.

Su metà della strada, mucchi di grano marciscono sotto la pioggia. Ci fermiamo per caso a Ujazma e rivolgo la parola ad un piccolo gruppo di contadine che separano il grano dalla paglia con l'aiuto di un rudimentale crivello a mano. Malgrado l'aiuto di Gregorio, le donne non vogliono dirmi il numero dei trattori del kolkoz. Vengo a sapere tuttavia che guadagnano 3 rubli al giorno.

Poco lontano vediamo un branco di diciassette cavalli che attraversano impunemente un immenso campo d'avena verde. Nessuno se ne preoccupa. Come dappertutto, animali d'ogni genere scorrazzano su mucchi di grano che marciscono lentamente ai lati della strada.

Incontriamo due automobili seriamente danneggiate da sbarramenti senza segnali e senza luci d'avvertimento.

* * *L'albergo di Minsk è tenuto male come quello di Zaporojié. Il bagno è,

come sempre, sporco e inutilizzabile. La mancanza d'acqua calda è completata da quella della luce; delle coorti di scarafaggi fanno la gimcana attorno a degli ossi secchi di frutta, sparsi al suolo. Il cibo è impossibile, Gregorio, che è di bocca buona, rifiuta una maionese fatta senza dubbio con dell'olio preso da un camion. Decidiamo di seguire il vecchio adagio : « Chi dorme non ha bisogno di mangiare ».

Prima di lasciare Minsk distribuiamo qualche ricordo a una banda di ragazzini che circonda la macchina. I bambini russi che abbiamo incontrato erano sempre cortesi e beneducati. E' impossibile offrir loro qualcosa senza che vi contraccambino con ciò che hanno di più prezioso con loro.

Per arrivare alla frontiera attraversiamo la Bielorussia, che si può considerare il meglio in materia di paesi poveri e desolati. Vicino a Baranoviki, prendiamo a bordo una donna, coi piedi nudi, che fa l'auto-stop. Guadagna un rublo al giorno. Gregorio protesta ed ella si sente in dovere di rettificare: « Vicino a noi, ci sono dei kolkoz più ricchi, dove le donne ne

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guadagnano due ».A Brestlitovsk, consumiamo il nostro ultimo pasto con Gregorio.

Sperperiamo i nostri rubli in caviale e ci dirigiamo verso la frontiera. Le formalità del passaggio sono sbrigate rapidamente. I nostri bagagli non vengono nemmeno toccati. E' vero che non siamo mai stati soli e che l'Amministrazione sa al pari di noi ciò che abbiamo da trasportare.

Lasciamo Gregorio, che come il primo giorno vaga nel suo vestito tre volte più grande della sua misura, dietro la barriera. Provo lo stesso sentimento di disagio che assale sempre un avvocato quando, sotto lo sguardo del detenuto, si dirige verso l'uscita della prigione, verso la libertà, il benessere, la fantasia.

Dei fili spinati corrono lungo la frontiera. Come il giorno del nostro arrivo, dei colpi di fucile echeggiano lugubremente; allenamento o avvertimento?

Sui pali che sostengono i fili spinati, bisognerebbe incidere:

QUI COMINCIA L'IMPERO DELLA PAURA, DELLO SPRECO DELLA ROBACCIA,

DELLA PROSOPOPEA

DELL'ARBITRIO

INDOMABILE POLONIA

Rivediamo i cavalli polacchi. Per fronteggiare la fame e le rivendicazioni popolari, Gomulka ha provvisoriamente restituito la terra ai contadini. Il risultato non s'è fatto attendere. Malgrado l'assenza quasi totale di trattori, le colture sono nettamente in vantaggio su quelle della Bielorussia. Fino a sera inoltrata, vediamo uomini, donne, bambini, vecchi, lavorare nei campi con degli attrezzi primitivi. In poco tempo le cifre della produzione si sono raddoppiate. Pensiamo a questa brava gente, che si affanna senza capire che, una volta affermato, il regime la priverà di tutto ciò che ora le ha concesso, seguendo l'esempio di Stalin dopo la N.E.P.

All'albergo di Varsavia ritroviamo un ambiente decente ed un'accoglienza umana. Si dice che i polacchi hanno un regime di semilibertà. Come se la libertà si potesse dividere! I dittatori che mollano i freni non durano a lungo. Più volte abbiamo constatato che i polacchi si servono di quel po' di licenza che è loro permessa per manifestare il feroce rancore per la situazione a cui sono costretti. Fortunatamente, nella storia dei popoli, l'occupazione straniera di un paese ha sempre un limite. L'inevitabile giorno in cui gli occupanti dovranno ritornare alle loro steppe natali, dovranno ricordarsi di mettere tra

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le file della retroguardia qualche emulo di Zatopek col fondo dei pantaloni blindato.

A U S C H W I T Z

Dopo pranzo discutiamo dei destini del mondo con una esuberante coppia di americani. Pensano di visitare domani mattina il campo di Auschwitz. Ci propongono di « fare » il campo con noi, aggiungendo con serietà: «Sarà più divertente». Visitiamo il terrificante campo anche in compagnia del pioniere delle crociere automobilistiche che ci ha raggiunti.

I resti di quattro milioni di esseri umani, per tre quarti polacchi, documentano la follia hitleriana. A fianco di una baracca, ve un piccolo monumento elevato dai poveri genitori di due giovani studenti francesi trascinati qui senza sapere nemmeno perché. Una coppia di polacchi si unisce a noi. La donna, che parla francese correntemente, manifesta lo stesso risentimento sia per i tedeschi che per i russi. Suo zio è deportato in un campo di lavoro in Russia da quindici anni. Raramente arriva una sua lettera. Dopo anni, ella è riuscita a riunire le « carte » per farlo rimpatriare. Manca però sempre qualcosa. L'anno scorso tutta la famiglia credeva d'esserci riuscita. Dopo un terribile viaggio, lo zio arrivò fino alla frontiera russo-polacca. Mancava ancora qualche carta e l'infelice fu rinviato al campo di lavoro.

La donna ha le lacrime agli occhi. « Dobbiamo diffidare di tutti, anche dei nostri bambini ». Il pioniere, che si vanta di essere obiettivo, sussulta. La donna fa un esempio. « Ai tempi di Stalin, alla fine dell'anno si distribuivano a suo nome nelle scuole dei dolci. Quando la mia piccola di quattro anni tornava dalla scuola e mi parlava del buon papà Stalin, io non potevo nemmeno tentare di contraddirla, per la paura che lo ripetesse a scuola ».

Poi improvvisamente la donna esplode : « « Non c'è pericolo che vi facciano vedere le fosse di Katyn. Dicono che sono i tedeschi che hanno massacrato i nostri uomini a Katyn; ma perchè si visitano tutti i campi della morte e non quello di Katyn? ».

Dopo una notte piacevole a Cracovia, raggiungiamo la frontiera cecoslovacca, viaggiando insieme al pioniere. Gli ultimi trenta chilometri sono orrendi. In una nuvola di polvere, il pioniere affonda in una pista piena di enormi buche. La sua 403 fa dei salti di un metro. Perdiamo il contatto e ci ritroviamo alla frontiera.

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CAPITOLO XII

CECOSLOVACCHIA

Entriamo in Cecoslovacchia in prossimità dei Carpazi e del monte Tatra. Si rivedono ogni tanto case graziose, qualche veicolo circola per le strade; si notano meno donne costrette ai lavori pesanti. I caratteri russi si attenuano. E' vero che i cechi conoscono le beatitudini del collettivismo solo da una dozzina d'anni. Le vestigia capitalistiche non sono ancora scomparse del tutto.

La 203 deve essere sorpresa di viaggiare su piccole strade asfaltate, tra villaggi spesso ancora civettuoli. Miracolo! Il regime non ha ancora, chiuso tutti i ristoranti, le trattorie e le osterie. Il viaggiatore affamato o assetato si può satollare senza che nessuno sia già in sua attesa. A Praga scopriamo anche un ristorante gastronomico, dove i buongustai vanno timorosamente e saltuariamente a mangiare bene.

Ci fermiamo a Zelina. Durante il pranzo un'orchestra, che suona con molto brio, esegue gli ultimi successi alla moda: « Ciliegi rosa e meli bianchi » e « Tornerai », ecc. Sarà forse per dimostrare che la vita si è fermata al 1947.

UNA TRAPPOLA?

E' quasi mezzanotte quando ci dirigiamo verso le nostre camere. Siamo oggetto di un incidente che non dimenticheremo molto presto. Mentre passiamo di fronte alla direzione dell'albergo, vengo chiamato dal direttore. « Siete il signor Pruvost? ». « Sì ». « E' arrivato un telegramma per voi. Non dovete dormire qui!

Dovete andare a X... ». Chiedo precisazioni sulla località, di cui non riesco a capire il nome. E' a sessanta chilometri da qui, in montagna. Ho un bel spiegare al direttore che il nostro itinerario, stabilito a Parigi, prevede una tappa a Zelina. Egli si trincera dietro il telegramma, di cui non può nemmeno dirmi la provenienza. Durante la discussione, Mirella è salita in camera di corsa. La trovo barricata, tremante come una foglia. Mi scongiura di non tener conto dell'ingiunzione del direttore: è convinta che ci hanno preparato un tranello.

Bussano alla porta. E' la moglie del pioniere. Attraverso la porta, ci dice che

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il direttore dell'albergo insiste perché andiamo a dormire altrove. Rispondiamo a due voci che dovranno sloggiarci con la forza. Mirella è sempre più persuasa che quel telegramma è una trappola della M.V.D. e che proprio qui, nei Carpazi, dobbiamo essere sgozzati. Vorrei convincerla che questo invito ad una passeggiata notturna in montagna non ha nulla di sospetto, ma riflettendo sul fatto mi sento anche io preoccupato.

Il telegramma si riferiva senza dubbio a noi. E' arrivato tra le undici e mezzanotte. Siamo a una tappa prestabilita e la miglior prova è che il telegramma ci è stato indirizzato qui. Non è per decongestionare l'albergo, perché è vuoto. Mia moglie rileva giustamente che gli stranieri indesiderabili non sono mai prelevati o giustiziati nell'U.R.S.S., ma, di preferenza, nei paesi limitrofi, come la Cecoslovacchia o la Romania.

Comincio a rimpiangere la protezione di Gregorio. Il solo elemento rassicurante è la presenza del pioniere, per quanto Mirella mi sussurri che l'insistenza della sua compagna nel consigliarmi a obbedire è inquietante. Verifichiamo porte e finestre. La notte è d'inchiostro. Anche la luna sembra partecipare al complotto. Sia per bloccare l'entrata che per essere pronti ad una eventuale e precipitosa partenza, metto le valigie davanti alla porta.

Impossibile addormentarsi. Per assicurarmi, tento di fissare il pensiero sull'immagine gioviale di un pacifico Krusciov mentre abbraccia delle bambine che gli offrono dei fiori. Fatica sprecata! Su questa immagine si sovrappone immediatamente quella ghignante di Hitler mentre compiva lo stesso gesto. Recito invano fra me e me e i poemi di Aragon sulla libertà, la dignità dell'uomo, il sacro diritto alla vita. Il più piccolo rumore nel corridoio sembra preludere all'attacco degli assassini che hanno giurato la nostra fine.

Dopo un sonnellino intramezzato da incubi, ci risvegliamo all'alba, felici di essere ancora vivi. Alle prime luci del mattino, filiamo via, senza chiedere il resto del conto già pagato. Mirella penserà fino alla fine dei suoi giorni che siamo sfuggiti ad una morte certa. I primi raggi del sole fanno apparire i miei timori sotto una luce ridicola, ma non riuscirò mai a dare una spiegazione convincente a questa storia del telegramma.

* * *Con nostro batticuore, sulla strada che porta a Praga, per due volte, siamo

raggiunti da poliziotti in motocicletta, che ci fermano bruscamente.

PRAGA, LA SEMIMORTA

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Praga non è più come una volta. L'animazione delle vie e le belle vetrine la rendono ancora simile più a una città occidentale che a un agglomerato sovietico. Per quanto tempo ancora?

Mirella cerca invano una sua vecchia amica che abita a Praga. Durante queste ricerche, entriamo nella succursale dell'Air France. L'impiegata alla quale ci rivolgiamo ci presenta ad una sua collega il cui padre è avvocato. Le domando se può fissarmi un appuntamento con lui. La ragazza gli telefona e mi dice che sarò ricevuto alle quattordici. Il mio collega abita in un nuovo stabile in pieno centro.

Felice per l'occasione, mi presento, all'ora stabilita, davanti alla porta del suo appartamento. Suono invano; nessuno mi risponde. Un vicino mi conferma che ho bussato alla porta giusta e m'assicura che il mio collega è in casa. Suono con più energia, senza risultato. Il collega compagno probabilmente ha cambiato idea. Mi guardo intorno. La costruzione è lussuosa. Questo insolito fatto è probabilmente conseguenza di una lunga serie di compromessi, il cui corso è forse meglio non turbare.

Un po' deluso, ritrovo Mirella da un parrucchiere. Sta prendendo l'indirizzo di molte commesse alle quali ha promesso di inviare dei rossetti e delle creme per il viso. Qui questi articoli sono introvabili o di pessima qualità. Le ragazze parlano della

Francia come di un paradiso che a loro rimarrà sempre sconosciuto. Mirella, per consolarle, dice imprudentemente che le donne russe sono in condizioni peggiori. Le commesse ci fanno capire che proprio questo le preoccupa, perché il regime sta calcando, con un ritardo di dieci anni, le orme sovietiche.

LA MOTO ROSSA

Al nostro ritorno all'albergo, facciamo conoscenza con un giovane francese che è nato a Tolone. E' molto simpatico, come può esserlo un francese di vent'anni. In ossequio alle convinzioni politiche del padre, si chiama Ivan ed ha comperato una motocicletta ceca, che si è rivelata una vera casseruola. Le sue proteste alla fabbrica sono rimaste senza risposta. Deciso a non lasciarsi imbrogliare, ha approfittato delle vacanze per restituire l'infame motoretta.

Gli operai, auscultata la macchina, hanno dichiarato che è perfetta. I guai di Ivan nascono dal fatto che egli non limita la sua velocità a sessanta chilometri all'ora, come fanno tutti i cechi. Ivan è furioso : all'acquisto la superba motocicletta « rossa » gli era stata garantita per una velocità superiore ai

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cento chilometri orari. Pranziamo con lui.E' operaio specializzato. Guadagna circa 800 NF al mese. Sa che, per la sua

età, gode di un salario privilegiato. E' stupefatto per l'esiguità del potere d'acquisto degli operai cechi. Lo è ancora di più quando gli diciamo che quello dei russi è ben più limitato e che l'aspetto delle città sovietiche è molto peggiore.

A noi, che arriviamo dalle steppe, la Cecoslovacchia sembra una specie di paradiso. Per lui, che viene dalla Francia, la delusione è grande. Il suo viaggio solitario, costellato di incidenti, l'ha messo direttamente a contatto con la realtà del regime collettivistico. Si domanda come tanti nostri compatrioti possano augurarsi di tentare una così pazzesca esperienza. Dimentica forse che appena quindici giorni fa, probabilmente, anche lui sognava l'Eden rosso.

E' un peccato che le convinzioni dei nostri comunisti non siano abbastanza solide da deciderli in massa ad acquistare le motociclette ceche!

CAPITOLO XIII

INCREDIBILE CONTRASTO

Lasciamo Praga di buon mattino, e ci dirigiamo verso la Germania Ovest. Contiamo i chilometri che ci dividono dal mondo libero. Il confine è molto vicino, alcune sbarre tagliano la strada a circa cento metri dal posto di frontiera. Affrontiamo la famosa cortina di ferro. Lo spettacolo è sinistro. Filo spinato, alto parecchi metri, costeggia la linea di confine. In alto questa barriera è piegata verso l'Est. Da ambedue i lati di questa siepe spinata, la vegetazione è rasa al suolo per un lungo tratto. Di quando in quando la barriera è rinforzata da garitte con sentinelle armate. Occorre una tempra eccezionale per tentare di evadere da questo paradiso.

Entro nel posto di dogana. Sono disposto a qualunque cosa pur di uscire da questo mondo da incubo. Con aria falsamente disinvolta, faccio il contrario de « La rana e il bue ». Mi accartoccio, mi rattrappisco di fronte ai poliziotti cechi. In un quarto d'ora tutte le formalità sono assolte e la barriera si alza. Un altro posto di dogana: è la frontiera della Germania Ovest. Mirella mi stringe la mano senza aprir bocca. Un grosso doganiere dall'aria bonacciona si avvicina. Per la prima volta in vita mia, mi sento spinto dallo strano desiderio di abbracciare un uomo. I doganieri non ci domandano

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nemmeno se abbiamo qualcosa da dichiarare. Cosa potremmo aver mai? Ci dirigiamo verso Norimberga.

Ci eravamo abituati a regioni desolate, a città inumane, a popolazioni tristi. Lo spettacolo di case fiorite, di giovani donne graziosamente vestite, di giardini ben curati, di strade piene di veicoli luccicanti, sembra farci vivere un racconto di fate.

Nei campi ben tenuti scopriamo finalmente i famosi trattori annunciati dai cartelli pubblicitari sovietici. Ce ne sono ovunque, di tutti i tipi, di tutti i colori, energicamente guidati da robusti giovanotti senza complessi. Siamo talmente storditi nel vedere, per la prima volta dopo sei settimane, un simile spettacolo in una cornice umana e razionale, che per poco non concludiamo qui il nostro viaggio.

Ho perso, infatti, l'abitudine di rallentare agli incroci, in tutti quei paesi senza macchine. Infischiandomi delle più elementari regole, in piena campagna taglio un incrocio senza fare attenzione a una Mercedes che viene sulla mia destra a centoquaranta all'ora.

Il cielo ha dovuto pensare che le nostre disavventure meritavano qualche indulgenza. Il mostro di nichel passa a qualche centimetro dal cofano della mia automobile, senza che io diminuisca la velocità. Lo spavento mi costringe a fermarmi qualche minuto sul ciglio della strada.

Ricordandomi che il serbatoio della macchina dev'essere quasi vuoto, mi arresto davanti a un meraviglioso distributore. Senza discussioni, preghiere, insistenze e minacce, in pochi secondi il serbatoio è pieno, i pneumatici controllati, il livello dell'olio verificato, ed il parabrezza pulito.

Ci fermiamo a Norimberga per far colazione. La città, rasa al suolo dalla guerra, è completamente ricostruita. Ogni edificio è pieno di vita, di colore, di attività. Darei senza rimorsi tutti i rubli che mi restano per fotografare l'espressione di un cittadino di Kursk davanti ad una tale visione. L'immenso abisso che separa i due mondi solo sul piano materiale è venticinquemila volte più straordinario del lancio di un proiettile sulla luna.

Ci sediamo ad un tavolo sulla ombreggiata terrazza di una birreria popolare. Un rubicondo ragazzo si precipita e prende subito nota dei nostri desideri. Esitiamo fra sei tipi di birra e una cinquantina di piatti succulenti. Ordino due Münchnart. Ventidue secondi dopo, abbiamo davanti due enormi bicchieri di birra. Al secondo boccale, faccio amicizia con un magnifico fattore di campagna in uniforme, e al terzo dichiaro ai quattro venti che non baratterei il diritto a questa magnifica birra ghiacciata con tutti gli Sputnik del mondo.

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CAPITOLO XIV

S TAT I S T I C H E

Prima di tentare di condensare il mare di impressioni emerse da questo viaggio, non resisto alla tentazione di comparare il livello di vita francese a quello sovietico.

Il viaggiatore in buona fede che visita la Russia fa subito le seguenti constatazioni.

La grande maggioranza dei salariati dimostra un attaccamento al lavoro e un rendimento molto inferiori a quelli degli occidentali; dappertutto appaiono i segni evidenti della disorganizzazione e del disordine; salvo tre grandi arterie, le strade carrozzabili sono inesistenti; a pochi chilometri dalle grandi città non c'è energia elettrica; i treni hanno prezzi esorbitanti e viaggiano a una velocità media inferiore alla metà di quella dei treni francesi; l'anarchia più completa regna nel settore delle poste e telegrafi, i negozi non hanno i prodotti più necessari; milioni di donne sono addette a lavori pesanti, con la più grande noncuranza per la delicatezza del loro sesso e per le conseguenze che possono derivarne per le generazioni future.

La situazione è ancora più grave sul piano dei salari e dell'assistenza sociale, senza parlare della mancanza assoluta delle libertà più elementari. Nello stesso tempo spese fantastiche vengono fatte per la propaganda e per la costruzione di veicoli interspaziali.

L'U.R.S.S. dovrebbe invece essere la seconda potenza economica del mondo e il tenore di vita dei lavoratori dovrebbe progredire a passi da gigante. Immensi cartelloni avvertono che nel 1965 il livello di vita sovietico avrà raggiunto quello degli americani. (La data è stata poi spostata al 1970).

Ho cercato di capire questo mistero e Ivan m'ha aiutato in parte.Come tutti i paesi totalitari, l'U.R.S.S. è la patria delle statistiche. Come un

critico può far dire quello che vuole ad un autore, citando in mala fede un testo isolato, senza nemmeno mutilarlo, così un economista settario può far dire tutto ciò che vuole alle statistiche scegliendo gli elementi che gli servono.

Abitualmente il procedimento sovietico si limita a pubblicare delle percentuali sull'aumento della produzione e sul ribasso dei prezzi, senza dare, generalmente, cifre.

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Il trucco è ingegnoso e porta, per esempio, ad affermare: « Dal 1957 al 1958, il numero dei distributori di supercarburante è aumentato del 100% ». Fa più effetto che dire: « Dal 1957 al 1958, il numero dei distributori di supercarburante è passato da 1 a 2 ».

E' così molto comodo annunciare un ribasso d'autorità del 10% su certi prodotti, senza precisare che il prezzo degli stessi era stato aumentato del 50% qualche anno prima e senza aggiungere che il prezzo di altri prodotti è aumentato e che determinati salari sono diminuiti.

La Russia ha veramente aumentata la sua produzione di carbone, di acciaio e di petrolio, ma la qualità e il rendimento dei prodotti sono sempre da controllare.

E' molto semplicistico calcolale la potenza economica di un Paese alla luce di questi soli indizi, quando non si conoscono i dati sui consumi, le abitazioni, i mezzi di trasporto, che non seguono lo stesso ritmo.

In qualche parte dell'U.R.S.S. deve esistere un gigantesco magazzino o qualche avversario del regime che accumula miliardi di tonnellate dei prodotti più diversi. Come spiegare altrimenti che a una produzione di scarpe per centinaia di milioni, come viene proclamato, corrispondono milioni di donne e di bambini a piedi nudi; che ad un'enorme produzione di elettricità per ogni abitante corrispondono i tre quarti dei villaggi senza luce; che a una produzione di acciaio record corrispondono strade senza automobili, locomotive comprate in Francia, trattori che non si vedono nei campi; che a una produzione di petrolio in vorticoso aumento corrispondono distributori senza benzina, posti a intervalli di trecentocinquanta chilometri!

Tento di paragonare, come ho fatto altre volte, il livello di vita del sovietico medio con quello del medio francese.

Il cambio turistico del rublo è all'incirca di 0,45 NF; il cambio ufficiale 0,85 NF. Per rendere più chiaro il confronto, dò al rublo il valore di 1 NF, facilitando così il calcolo senza peraltro falsare il confronto, poiché prezzi e salari sono aumentati nelle stesse proporzioni.

Come spiegherò in seguito, il salario medio in Russia, varia da 450 a 600 rubli al mese, essendo il minimo di trecento. Con il rublo a 1 NF, si ha un salario minimo di 300 NF, e uno medio da 450 a 600 NF, approssimativamente cioè le cifre degli stipendi minimi e medi in Francia.

Va fatta però una precisazione sul salario medio da 450 a 600 rubli. Un metodo degli studiosi di statistica per alterare i calcoli è quello di prendere, come base per il salario medio russo, 8 o 900 rubli, il che è inesatto come sarebbe inesatto sostenere che lo stipendio mensile dell'operaio medio

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francese è di 1.000 NF.Il medico, l'avvocato, l'istitutore russo guadagnano effettivamente da 700 a

1.000 rubli. L'operaio specializzato sorpassa talvolta i 1.000 rubli ed anche i 1.500, ma molto meno spesso di quel che non si dica. Sarebbe come dire che ogni operaio specializzato francese prende 1.000 o 1.500 NF al mese.

Solo una minoranza economicamente insignificante percepisce un salario alto. Scrittori, scienziati, professori, chirurghi, pittori, giornalisti vedono spesso ricompensata la loro devozione al regime con un titolo accademico. Appartenere a una delle tante accademie dà diritto ad un mensile che può anche superare i 20.000 rubli, come dire 20.000 NF. In compenso la grande massa degli impiegati e degli operai non specializzati percepiscono da 300 a 700 rubli. Le cameriere e le domestiche che ho interrogato guadagnano da 300 a 350 rubli. Gli spazzini, 300. Le donne addette ai lavori stradali arrivano a superare la media. Ne ho interrogate due che sgobbavano in pieno sole su una strada di Yalta. Detratte le imposte e le ritenute, guadagnano 500 rubli al mese. Il posto di donna cantoniera, anche se faticosissimo, è molto ricercato, a causa dell'alto salario. Questo fa capire cosa bisogna intendere per alta remunerazione di una donna sovietica.

Come nella maggior parte dei settori di lavoro, nei kolkoz alle donne vengono riservati per principio i lavori più pesanti. I kolkoz e i sovkoz raggruppano quasi la metà della popolazione, cioè 100 milioni di individui. Nei kolkoz-modello, che fanno visitare ai turisti in Ucraina, i kolkosiani arrivano a guadagnare 600 rubli. Nei famosi kolkoz georgiani, a cui vennero assicurati privilegi esorbitanti dal georgiano Stalin, i kolkosiani avrebbero dei mensili mirabolanti e, pare, automobili private.

Dalle informazioni avute da Ivan, e da quelle ottenute dai kolkosiani che abbiamo potuto interrogare, come da ciò che ci hanno fatto vedere nei kolkoz-modello, abbiamo potuto controllare che la quasi totalità dei kolkosiani hanno un'entrata mensile inferiore ai 300 rubli, tenendo conto delle provviste in natura.

Abbiamo precedentemente riferito il colloquio avuto, presso Minsk, con una donna che guadagnava 1 rublo al giorno. Non è un elemento base, perché la Bielorussia è enormemente sterile, quanto l'Ucraina è straordinariamente fertile. Il guadagno medio dei kolkosiani sembra però più vicino ai 30/60 rubli dei kolkoz della Bielorussia che ai 600 di quelli modello che vengono esibiti in Ucraina. Parlare di un mensile da 450 a 600 rubli per l'intera popolazione, rurale e cittadina, sembra dunque corrispondere alla realtà.

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Lo stipendio base in Francia sembra egualmente esatto, perché, se molti francesi ne hanno uno superiore a 450 NF e talvolta a 1.000 NF, la maggior parte, specialmente i celibi senza figli, guadagnano da 300 a 450 NF al mese. Le popolazioni rurali sono meno svantaggiate ancora di quelle russe, poiché il salario minimo dell'operaio agricolo è ora di 350 NF. Bisogna però a queste entrate medie aggiungere le previdenze sociali. La maggioranza dei francesi immaginano che su quest'ultimo punto l'U.R.S.S. sia un paese guida. Abbiamo le orecchie frastornate dai reboanti discorsi sulle realizzazioni comuniste a favore dei bambini, delle madri, dei malati, dei vecchi. Senza chiasso pubblicitario, la Francia concede assegni familiari che in certi casi raddoppiano il salario del capofamiglia. La maggior parte degli statistici si guarda bene dallo scrivere che gli assegni familiari in Russia non esistono se non per le famiglie che hanno almeno quattro figli.

Per incoraggiare la natalità, l'U.R.S.S. ha ideato un sistema molto più economico: il celibe paga un'imposta speciale, che viene pagata anche, in misura minore, dai genitori di uno o due figli. Per non pagare questa tassa, bisogna avere tre figli.

Un fatto straordinario: fino all'anno scorso la gravosa tassa sul celibato senza figli si applicava anche alle ragazze di venti anni. Le giovani che non erano riuscite a farsi sposare a vent'anni,

O dovevano pagare la tassa o avere dei bambini senza sposarsi.I celibi senza figli possono evitare la tassa presentando un certificato di

sterilità, che non è difficile da ottenere, ma siccome una certa pubblicità è inevitabile, i giovani russi preferiscono pagare, piuttosto che ottenere questa specie di diploma. Ivan mi ha anche dimostrato che un terzo o un quarto figlio in una famiglia modesta è un tale handicap che in certi casi l'aborto legale è tollerato, dopo aver avuto il parere favorevole del rappresentante locale del Partito.

E' esatto che le cure e i medicinali sono gratuiti, ma devono essere somministrati negli ospedali. Le visite del medico a domicilio, le medicine comprate nelle farmacie non sono rimborsate. I pensionati, a prima vista, possono apparire dei privilegiati, perché la pensione minima è di 300 rubli ossia 300 NF. Hanno diritto a questa pensione solo i salariati che hanno lavorato almeno 25 anni al servizio dello Stato, il che esclude per ora i kolkosiani, i quali potranno difficilmente rivendicare 300 rubli di pensione, dopo aver guadagnato dai 50 ai 200 rubli al mese per tutta la loro vita.

Certi salari sovietici godono d'altri vantaggi che non hanno sempre il loro equivalente in Francia: asili infantili, borse per gli studi superiori, ecc.

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Le ferie pagate sono generalmente meno apprezzate e diffuse che in Francia, ma una piccola minoranza gode di viaggi e soggiorni rimborsati nelle speciali case di riposo. Comunque, sembra che non esistano norme e basi uniche per i salari. La durata della settimana legale lavorativa è di quarantacinque ore invece delle quaranta della Francia.

Concludendo questo prospetto comparativo, si può affermare che, fissando il salario medio sovietico tra 450 e 600 rubli e quello francese tra 450 e 600 NF, bisogna fare una seria differenziazione, dati i numerosi vantaggi di cui il salariato francese gode oltre quello che è il suo stipendio normale.

RAFFRONTO DI PREZZI

Nell'ipotesi che i salari potessero nominalmente essere comparati a quelli russi, quale è poi il potere d'acquisto nell'U.R.S.S.? Perché i livelli di vita fossero identici bisognerebbe che anche i prezzi sovietici, come i salari, fossero comparabili ai prezzi francesi.

Ecco i prezzi degli articoli base che io ho, per la maggior parte, annotati personalmente nei negozi sovietici. Accanto è il corrispondente prezzo in nuovi franchi, come però se un rublo valesse un nuovo franco e non meno (1).

ALIMENTARIPane bianco, al chilo..................2 r 45 : 2 NF 45Pane nero, al chilo.....................1 r 30 : 1 NF 30Latte fresco in bottiglia.............5 r : 5 NFLatte condensato, 410 gr...........5 r 50 : 5 NF 50Burro, al chilo.............................28 r : 28 NFZucchero, al chilo......................11 r : 11 NFCarne (filetto) al chilo...............36 r : 36 NFCaffè, al chilo.............................45 r 50 : 45 NF 50Formaggio sovietico, al chilo...37 r : 37 NFCioccolato, al chilo....................15 r : 15 NFPasta, al chilo..............................5 r : 5 N FVodka, il litro..............................60 r : 60 NF

VESTIARIO - TRASPORTI - VARIScarpe da u o m o . . . . da 150 a 200 r: da 150 a 200 NF Scarpe da donna

(tacchilarghi).............. 300 r : 300 NFVestito (qualità sovietica) da 600 a 1600 r: da 600 a 1600 NF

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Vestito (qualità occid.) . da 2000 a 3000 r: da 2000 a 3000 NFCalze...................da 18 a 42 r : da 18 a 42 NF

Treni (sedile legno) 1 Km. I r : 1 N F

(1) I lettori italiani tengano presente che un nuovo franco vale circa 130 lire.Automobile

(Pobieda: 203)25.00

0 r25.

000N

FMotocicletta...... 800 r 80

0N

FTelevisione (picc.

schermo)da

1200a

1600 r ::

da1

200a

1600N

FTelevisione (gr.

schermo) .da

1750a

2500 r ::

da1

750a

2500N

FGrammofono a

manovella210 r

:21

0N

FDischi................. da 3 a 6

r :d

a3 a 6 N

F

Questo prospetto dimostra che l'alimentazione costa da 3 a 5 volte più che in Francia, per raggiungere le 8 o 10 volte per certi generi essenziali, come lo zucchero, il latte o il caffè.

L'abbigliamento va da 5 a 10 volte e i trasporti in ferrovia ultima classe (sedili di legno) sono 12 volte più cari. La differenza per i manufatti è meno importante, ma il confronto più difficile, perché la maggior parte degli articoli messi in vendita nei negozi sarebbe invendibile nell'ultimo dei supermercati di provincia francesi. Tutta una serie di altri articoli è inesistente.

Popov, il padre di tutte le invenzioni, dalla radio al dirigibile passando per la spilla da balia, non ha ancora inventato il nylon la biro, gli utensili in plastica, ecc. Senza tener conto dell'importante fattore « perdita di tempo ed energia » nella difficile ricerca di certi prodotti, la media dei prezzi è da 3 a 5 volte più elevata che in Francia.

Rifacendo i miei calcoli in tutti i modi possibili ed immaginabili, sono sempre arrivato al risultato che in Russia il costo della vita è tre volte più elevato che in Francia, e cioè che il tenore di vita è un terzo del nostro.

Ho riletto molte opere le cui conclusioni sono piuttosto discordanti: « Réalités » fissa il livello di vita sovietico a tre quinti del nostro; Jules Moch ai due terzi; l'ineffabile statistico Jean Romeuf dichiara senza ironia che gli

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standards di vita sono « equivalenti ».Ho fatto delle ricerche per capire come questi economisti siano potuti

arrivare a cifre così grossolanamente inesatte. Lascio ai lettori di decidere se sono frutto di estrema ingenuità o di volontà di sbagliare.

Per rincarare la dose, « Réalités » aggiunge nella tasca del proletario sovietico il salario della moglie, confronta il bilancio di uno scapolo francese con quello di una famiglia sovietica, e il gioco è fatto, col pretesto che tutte le donne sovietiche lavorano.

Jules Moch, uomo politico coscienzioso, ha fatto ogni genere di calcoli; non ha commesso che un errore: ha preso per oro colato tutte le cifre che gli sono state date. Il risultato è sbalorditivo.

In base a una dichiarazione di Mikoyan, egli va, per esempio, in estasi per i raccolti di grano, talmente abbondanti che i silos straripano e la metà delle strade è cosparsa di mucchi di grano. Mentre i kolkosiani fanno seccare il grano sulle strade perché non dispongono di un'aia adatta.

Come secondo e ultimo esempio, trascrivo integralmente la nota a margine della pagina 162 del suo libro. « L'U.R.S.S. Portes ou- vertes ». « In Russia oggi ci sono 207.000 chilometri di strade asfaltate, contro 24.000 del 1913. Ma la nostra piccola Francia ne possiede 344.000 nazionali o dipartimentali, senza comprendere i 306.000 Km. di strade secondarie spesso eccellenti. Si vede qui una volta di più l'enorme sforzo fatto daU'U.R.S.S. — che dal 1928 ha costruito 175.000 chilometri di strade — e quello più considerevole ancora che rimane da fare ».

Jules Moch mette in evidenza lo sforzo sovietico della costruzione stradale dal 1913 ai nostri giorni. Mi permetto di ricordargli che, contro i pretesi 207.000 Km. di strade sovietiche, noi abbiamo attualmente più di 600.000 chilometri di strade asfaltate, e di porgli quindi una domanda : « Quanti ne avevamo nel 1913? ». (La bitumazione delle strade francesi è cominciata in pratica dopo la guerra del 1914).

Che dire allora dello sforzo compiuto dalla piccola miserabile Francia capitalista? Faccio appello agli automobilisti francesi che hanno percorso il territorio sovietico. Dove sono i 207.000 chilometri di strade asfaltate? Le strade Brestlitovsk-Mosca e Leningrado-Mosca-Yalta sono quasi le sole asfaltate nella Russia europea. Il che fa 3500 Km. Dove sono gli altri 203.500 Km.? Con molta probabilità, nello stesso posto dove sono i milioni di trattori e la libertà di stampa e di culto.

Ho tenuto il sig. Jean Romeuf come « dulcis in fundo ». Per innalzare il livello della vita sovietica al livello francese, questo straordinario statistico

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non va tanto per il sottile. Comincia con l'affermare che la media dei salari sovietici supera i 1000 rubli: sarebbe come moltiplicare la verità per due. Poi Jean Romeuf si fa ardito e dichiara che il salario della manodopera sovietica è di 1000 rubli e quello della manodopera parigina di 230 NF e 76.

Romeuf s'accorge allora, sbigottito, che con 230 NF e 76 l'operaio parigino ha sempre un tenore di vita migliore di quello da 1000 rubli. Per dimostrare che i tenori di vita sono « quasi equivalenti », Romeuf lancia allora il famoso assioma: « Il cittadino russo non è esigente ». Preferisce il pane nero al pane bianco, la prova è che lo mangia solo la domenica. Se ne infischia della qualità dei vestiti e si accontenta di carne scadente. Ama talmente la vita collettiva, che i nuovi stabili hanno sempre una cucina in comune per più appartamenti. In una parola, la gastronomia, il jazz, i viaggi all'estero, la buona birra, il campeggio e le belle ragazze non lo interessano affatto.

Onore e gloria a Jean Romeuf.

* * *Marx aveva predetto la pauperizzazione costante dei proletari dei paesi

capitalisti, il passaggio ineluttabile dal capitalismo al comunismo. Si è verificato l'inverso. Solamente i paesi più arretrati economicamente e socialmente sono liberamente passati al comunismo. Quasi un mezzo secolo di collettivizzazione ha dato i risultati sopra riportati.

Nello stesso tempo l'America, il paese più capitalista del mondo, senza costrizioni, senza pianificazioni, è diventato il paese più prospero del mondo. Dopo il 1945, la Germania dell'Est è diventata il fantasma di ciò che era, mentre la Germania dell'Ovest ha conosciuto uno slancio senza precedenti.

Il marxismo dovrebbe essere una verità scientifica. Curiosa verità, che ha bisogno, per imporsi, di violenze premeditate, di corruzione, di assassini, di propaganda. La fisica nucleare ha bisogno di propaganda per affermarsi?

CAPITOLO XV

« BLUFF » A TRE PIANI

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Al termine di questo viaggio appassionante, l'U.R.S.S. ci appare ormai come un gigantesco bluff a tre piani.

IL PRIMO PIANO

Il primo piano, il più primitivo, è destinato alla grande massa russa:« Prima della Rivoluzione, la Russia non era che uno Stato caotico ed arretrato,

nel quale alcuni privilegiati passavano la maggior parte del loro tempo a spegnere il sigaro sul naso del loro cocchiere. Il glorioso partito comunista ha dato il pane, il lavoro e la libertà a tutti. Il popolo russo ha alla base di tutte le invenzioni che soltanto il nuovo regime ha saputo valorizzare. Gli operai occidentali, compresi quelli francesi, sono afflitti dalla disoccupazione, sfruttati e dissanguati da borghesi pasciuti e incuranti. Ogni inverno, una gran parte di questi disgraziati muore di fame o di freddo. Le mogli di coloro che sopravvivono si prostituiscono alla soldataglia americana per sfamare i loro bambini. Il franco si svaluta tanto rapidamente che la massaia francese deve portare un cesto pieno di biglietti di banca per poter fare la spesa ».

Il risultato di questa propaganda incontrollabile è che la gran massa del popolo russo si sente soddisfatta della sua sorte. Chi non lo è, si sente travolto dalla più nera disperazione : « Perché sperare, se altrove è ancora peggio! ».

Questo primo piano si manovra meno comodamente di quanto si creda. Diffondere l'immagine deformata del mondo esteriore è cosa facile. Privare i cittadini della possibilità di confrontare la caricatura con l'originale, è un po' rischioso nel secolo della radio, del telefono, della televisione, dell'aereo a reazione. Questo rischio i russi sono riusciti, bene o male, fino ad ora a superarlo. Quasi tutti i giornali e le pubblicazioni straniere sono bloccati alle frontiere. Tutte le trasmissioni radio straniere sono disturbate, il che è quasi inutile, perché la maggior parte degli apparecchi riceventi sono privi del dispositivo per la ricerca delle varie lunghezze d'onda. I liberi contatti con l'estero sono radicalmente soppressi.

Il cittadino sovietico medio non può uscire dal suo Paese per nessun pretesto. I rarissimi visti sono dati soltanto a qualche super- privilegiato costretto per di più a spostarsi in gruppo. Non incontrerete mai a Montmartre, a Romorantin o a Bruxelles, un cittadino russo che passeggi solo a piedi, in bicicletta o in automobile. D'altra parte, nessun turista straniero può spostarsi liberamente, senza sorveglianza nell'U.R.S.S., così come abbiamo constatato.

Questo primo piano è forse quello che riserverà più sorprese a chi lo ha

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ideato. E' infatti il più pericoloso da difendere. Data l'enorme diversità fra l'atmosfera interna ed esterna, il contenuto è come una miscela esplosiva. Una prima fuoruscita notevole rischia di far saltare tutto in aria.

IL SECONDO PIANO

Il secondo piano è più raffinato. E' quello destinato all'esportazione. Con un sistema appropriato, accuratamente messo a punto, i proletari ed i borghesi di ogni paese vengono mantenuti nell'idea che l'U.R.S.S. è la patria di tutte le libertà, di tutte le scienze, del più alto standard di vita.

Applicando fermamente la tecnica del doppio gioco, all'estero i comunisti diventano i paladini dei principi più cinicamente calpestati in U.R.S.S.: diritto di sciopero, libertà di stampa, elezioni oneste, diritto alla libertà individuale. Nulla è dimenticato.

Una continua propaganda viene svolta da simpatizzanti camuffati e sistemati dove è necessario, fra gli informatori della stampa, della radio e della televisione.

Un esempio tipico è quello della televisione nei paesi europei e particolarmente in Francia. Quasi tutte le notizie dei telegiornali, provenienti dagli U.S.A., descrivono incendi, catastrofi aeree o ferroviarie, tornados devastatori, delitti contro natura, discriminazioni razziali, disoccupazione, missili recalcitranti, dimostrazioni bellicistiche, ecc... Tutte le notizie sull'URSS dei telegiornali illustrano le realizzazioni sovietiche nel campo artistico ed economico.

Conseguenza diretta dell'incredibile incuria, incapacità o doppiezza dei nostri informatori ufficiali è che non un telespettatore ignora il più piccolo dettaglio sul Lunik, sullo spaccaghiaccio atomico o il Tupolev 114; ma non un francese su diecimila (e c'ero anch'io) sa che nell'U.R.S.S. non ci sono praticamente case popolari, che a qualche chilometro dalle più grandi città la corrente elettrica non esiste, che è necessario molto più tempo che altrove per far viaggiare lettere, merci e persone, che, indipendentemente dall'arbitrio che regna in quasi tutti i settori, il tenore di vita del cittadino russo è tre volte inferiore a quello del cittadino francese. Sono ancora pochi iniziati quelli che conoscono veramente queste cifre.

L'intellighenzia russa ha saputo rifinire con cura e secondo le proprie intenzioni il terzo piano del « bluff ».

IL TERZO PIANO

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E' il piano più perfezionato. Si rivolge alla massa, sempre più importante, di coloro che sono a conoscenza dell'incontestabile ritardo dell'economia sovietica su quella occidentale.

Questo terzo piano si condensa in una frase alla quale si attaccano disperatamente comunisti e progressisti di ogni tendenza. « Siamo in ritardo, è vero, la nostra rivoluzione non ha che quarantanni, ma guadagneremo il nostro ritardo a passi di gigante ».

Krusciov aggiunge: «Avremo raggiunto gli USA... nel 1970 ».Ora — ed è con questa constatazione essenziale che vorrei terminare la

relazione del nostro viaggio — non soltanto l'U.R.S.S., la Polonia, la Romania, ecc..., non recuperano il loro ritardo sulle nazioni occidentali e sull'America, ma questo ritardo aumenta di giorno in giorno.

Misurare i risultati dell'esperimento sovietico dal numero dei suoi Sputnik o dalla lunghezza dei suoi Tupolev, è lo stesso che stabilire il tenore di vita degli antichi Egiziani in base all'altezza delle Piramidi faraoniche.

Le cifre nude ed incontrollabili della produzione dell'acciaio, del carbone e dell'elettricità non sono determinanti per definire la potenza di un paese totalitario. Quando i redattori delle telecatastrofi ricordano compiaciuti che la produzione dell'acciaio in Francia è aumentata del 6 %, quella dell'U.R.S.S. del 12 % e quella della Cina comunista del 20%, non danno nessun dato concreto. Se la siderurgia francese progredisce del 6%, ciò significa che vi è il 6 % di acquirenti e imprenditori di più. Il metallo sarà trasformato in prodotti fino all'ultima tonnellata.

Quando l'U.R.S.S. annuncia il 12% d'aumento della sua produzionale, le cifre sono certamente esatte. Ma se il 25 % dell'acciaio prodotto è di una qualità inservibile, nessuno ne saprà niente. Se una altra parte del 25 % è inutilizzabile perché le industrie non tengono il passo, la « Pravda » non uscirà con un'edizione speciale ed i moscoviti non sapranno mai perchè non hanno ferri da stiro.

Come abbiamo potuto constatare ogni giorno, un regime autoritario può concentrare i suoi sforzi su qualche settore spettacolare e trascurare deliberatamente tutti gli altri.

Con una drastica requisizione del 90 % delle automobili, degli alberghi, delle ferrovie, delle proprietà private, incamerando due terzi dei salari, il granducato del Lussemburgo potrebbe certamente lanciare un razzo interplanetario ogni sei mesi.

Ciò che importa è la produzione globale in tutti i campi. Il miglior modo di misurare la produzione globale è di esaminare il livello di vita di ogni

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cittadino ed i servizi messi a sua disposizione. E' riferendosi a questo livello di vita che ci si accorge rapidamente dell'insuccesso dell'esperimento comunista.

E a questo proposito l'elenco degli scambi commerciali franco-sovietici è pieno di insegnamenti. In questi ultimi anni l'U.R.S.S. ha esportato in Francia cellulosa, combustibili minerali, legno, cotone, pelletterie ecc... La Francia da parte sua ha esportato utensili, gruppi elettrogeni, forni elettrici, locomotive e diversi prodotti di consumo.

Nell'epoca del Lunik, ciò fa riflettere. Infatti l'esportazione delle materie prime e l'importazione dei prodotti finiti è la caratteristica essenziale dell'economia dei paesi sottosviluppati.

Trascinati da un ideale ammirevole, i primi rivoluzionari hanno tentato di sostituire l'insostituibile molla dell'interesse individuale col sentimento dell'interesse collettivo.

Soltanto una minoranza di idealisti ha continuato a essere animata da questa illusione. Ma per far lavorare gli altri, cioè la grande massa, è stato necessario sostituire l'interesse personale con la costrizione.

Gli economisti russi hanno provato così quelle delusioni ben note a chi ha voluto far lavorare in guerra per forza soldati o prigionieri: disinteressamento generale, rendimento esiguo, sperpero dei beni pubblici.

E questo fenomeno in Russia è particolarmente sensibile nell'agricoltura, il cui stato è pietoso.

Sotto la spinta del Partito e delle scoperte moderne, il livello di vita sovietico progredisce innegabilmente, ma molto più lentamente che nei paesi liberi. E' una verità essenziale che non dobbiamo stancarci di dire.

Nel 1917, il livello di vita del proletario russo era già in ritardo su quello del proletario francese, ma ne raggiungeva approssimativamente i due terzi. Oggi questo stesso livello è passato da due terzi ad un terzo.

Nel 1965, se avvenimenti imprevisti non verranno a mutare le previsioni, il rapporto dovrebbe scendere da un terzo ad un quarto.

Arriveremo ben presto alla conclusione.Fra sei mesi, cinque anni, vent'anni, quando la differenza sarà troppo

evidente, il sistema salterà in aria. Uno straordinario esperimento giungerà alla sua fine.

La maggior parte delle relazioni di viaggio dei turisti occidentali nell'U.R.S.S. terminano con questa osservazione : « E tuttavia il popolo russo sembra soddisfatto della sua sorte ».

Questo mi ricorda la riflessione di un viaggiatore francese nel 1916: «

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Evidentemente il regime arbitrario e dispotico degli Zar è perfettamente consono al popolo russo ».

Qualche mese più tardi scoppiava la più formidabile rivoluzione di tutti i tempi...

Finito di stampare il 10 febbraio 1962. Stampatore: Garzanti - Stabilimento grafico di Roma.

Pubblicato per la prima volta da « Les Nouvelles Editions Debresse » a Parigi. Edité primitivement par « Les Nouvelles Editions Debresse » à Paris.