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DIRITTO PROCESSUALE I cÜÉyAáát Z|ÉätÇÇt extÄ| Attraverso il processo civile si attua la giurisdizione civile che ha per oggetto i diritti soggettivi e si distingue da altre giurisdizioni come quella penale che ha per oggetto i reati o quella amministrativa per la tutela degli interessi legittimi. La giurisdizione civile si distingue tra la giurisdizione contenziosa e quella volontaria. La prima presuppone che ci sia una controversia per cui ha la finalità di risolvere i conflitti tra i privati in via autoritativa, cioè con l’intervento dello Stato che attua la legge mentre quella volontaria al contrario non presuppone una controversia, ma avviene in inter volentes partes, cioè serve alla cura ed alla gestione di interessi privati, ma che hanno una rilevanza pubblicistica potendosi assimilare all’attività amministrativa che però si occupa degli interessi pubblici, tanto che per qualcuno è una sorta di attività oggettivamente amministrativa, ma riferita ad interessi privati. La giurisdizione volontaria è un’attività svolta dai giudici per la cura e la gestione di interessi di particolari soggetti o entità; per esempio quando nell’interesse dell’incapace si rende necessario nominare un tutore. È un’attività affidata dal legislatore ai giudici perché danno maggiori garanzie di terzietà ed imparzialità, anche se nulla vieta di affidare quest’attività atipica ad altro soggetto che offra adeguate garanzie, non avendo ad oggetto soluzione di conflitti. Quella volontaria è una funzione atipica rispetto all’attività giurisdizionale propria che è quella contenziosa atta alla tutela dei diritti soggettivi attraverso la soluzione dei conflitti e definita come funzione necessaria in quanto non ci si può fare giustizia da sé, ma anche perché altrimenti non avrebbe senso prevedere regole di condotta generali, astratte e coattive senza poter verificare l’osservanza. Possiamo quindi distinguere tra: diritto sostanziale o diritto civile che è la normativa primaria ed è l’insieme delle norme che regolano determinate situazioni soggettive elevate a rango di diritti in relazione ai quali si prevede una serie di doveri, poteri e facoltà, cioè disciplina le relazioni tra i privati. Il diritto civile o comunque l’ordinamento non sarebbe completo se non si occupasse della violazione delle regole di condotta e della sanzione degli illeciti civili quando vi è una violazione di un precetto previsto da una norma di diritto civile; per esempio il debitore che non paga il debito compie un comportamento illecito. Quindi l’ordinamento per essere completo non può limitarsi a stabilire regole generali ed astratte, ma deve anche tutelare delle situazioni sostanziali se vi sono violazioni delle prescrizioni normative. Il diritto processuale tutela i diritti attraverso il processo ed è una normativa secondaria e strumentale non perché sia meno importante, ma perché interviene solo se si verifica un illecito, una violazione o una controversia intorno ad un diritto soggettivo. Il contrasto intorno al diritto può riguardare anche l’individuazione della norma da applicare nel rapporto tra le parti; per esempio, nel caso di prestito di una somma di denaro per verificare se è un atto di liberalità o meno al fine di individuare se la norma generale è relativa ai mutui o alle donazioni. Quindi la controversia può nascere dalla contestazione o dalla lesione del diritto e lo Stato deve predisporre gli strumenti per ripristinare il diritto nella questione concreta ed eventualmente sanzionare l’agente. Oltre alla giurisdizione volontaria e contenziosa, ci sono casi di giurisdizione senza lesione, o giurisdizione oggettiva, che si verificano nelle ipotesi in cui un soggetto per ottenere determinati effetti deve necessariamente rivolgersi al giudice anche se a monte non c’è un comportamento illecito o una lesione; per esempio lo scioglimento del matrimonio non si può conseguire con l’autonomia privata, anche se non vi è alcuna lesione o comportamento illegittimo (anzi i coniugi sono d’accordo), ma la legge stabilisce determinate condizioni che devono essere verificate dal giudice.

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DIRITTO PROCESSUALE I

cÜÉyAáát Z|ÉätÇÇt extÄ| Attraverso il processo civile si attua la giurisdizione civile che ha per oggetto i diritti soggettivi e si distingue da altre giurisdizioni come quella penale che ha per oggetto i reati o quella amministrativa per la tutela degli interessi legittimi. La giurisdizione civile si distingue tra la giurisdizione contenziosa e quella volontaria. La prima presuppone che ci sia una controversia per cui ha la finalità di risolvere i conflitti tra i privati in via autoritativa, cioè con l’intervento dello Stato che attua la legge mentre quella volontaria al contrario non presuppone una controversia, ma avviene in inter volentes partes, cioè serve alla cura ed alla gestione di interessi privati, ma che hanno una rilevanza pubblicistica potendosi assimilare all’attività amministrativa che però si occupa degli interessi pubblici, tanto che per qualcuno è una sorta di attività oggettivamente amministrativa, ma riferita ad interessi privati. La giurisdizione volontaria è un’attività svolta dai giudici per la cura e la gestione di interessi di particolari soggetti o entità; per esempio quando nell’interesse dell’incapace si rende necessario nominare un tutore. È un’attività affidata dal legislatore ai giudici perché danno maggiori garanzie di terzietà ed imparzialità, anche se nulla vieta di affidare quest’attività atipica ad altro soggetto che offra adeguate garanzie, non avendo ad oggetto soluzione di conflitti. Quella volontaria è una funzione atipica rispetto all’attività giurisdizionale propria che è quella contenziosa atta alla tutela dei diritti soggettivi attraverso la soluzione dei conflitti e definita come funzione necessaria in quanto non ci si può fare giustizia da sé, ma anche perché altrimenti non avrebbe senso prevedere regole di condotta generali, astratte e coattive senza poter verificare l’osservanza. Possiamo quindi distinguere tra: • diritto sostanziale o diritto civile che è la normativa primaria ed è l’insieme delle norme che

regolano determinate situazioni soggettive elevate a rango di diritti in relazione ai quali si prevede una serie di doveri, poteri e facoltà, cioè disciplina le relazioni tra i privati. Il diritto civile o comunque l’ordinamento non sarebbe completo se non si occupasse della violazione delle regole di condotta e della sanzione degli illeciti civili quando vi è una violazione di un precetto previsto da una norma di diritto civile; per esempio il debitore che non paga il debito compie un comportamento illecito. Quindi l’ordinamento per essere completo non può limitarsi a stabilire regole generali ed astratte, ma deve anche tutelare delle situazioni sostanziali se vi sono violazioni delle prescrizioni normative.

• Il diritto processuale tutela i diritti attraverso il processo ed è una normativa secondaria e strumentale non perché sia meno importante, ma perché interviene solo se si verifica un illecito, una violazione o una controversia intorno ad un diritto soggettivo. Il contrasto intorno al diritto può riguardare anche l’individuazione della norma da applicare nel rapporto tra le parti; per esempio, nel caso di prestito di una somma di denaro per verificare se è un atto di liberalità o meno al fine di individuare se la norma generale è relativa ai mutui o alle donazioni. Quindi la controversia può nascere dalla contestazione o dalla lesione del diritto e lo Stato deve predisporre gli strumenti per ripristinare il diritto nella questione concreta ed eventualmente sanzionare l’agente.

Oltre alla giurisdizione volontaria e contenziosa, ci sono casi di giurisdizione senza lesione, o giurisdizione oggettiva, che si verificano nelle ipotesi in cui un soggetto per ottenere determinati effetti deve necessariamente rivolgersi al giudice anche se a monte non c’è un comportamento illecito o una lesione; per esempio lo scioglimento del matrimonio non si può conseguire con l’autonomia privata, anche se non vi è alcuna lesione o comportamento illegittimo (anzi i coniugi sono d’accordo), ma la legge stabilisce determinate condizioni che devono essere verificate dal giudice.

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Le norme penali tutelano un interesse collettivo ed in presenza di un reato l’azione viene affidata ad un organo pubblico, cioè al pubblico ministero (P.M.) mentre nel processo civile l’interesse tutelato è quello privato ed ha ad oggetto diritti soggettivi per cui la tutela è subordinata, di regola, alla domanda della parte. La tutela dei diritti è collocata nel codice civile al libro VI che nel titolo IV si occupa della tutela giurisdizionale dei diritti e quindi riguarda il processo che è materia del codice di procedura civile. Per la Reali questa è una collocazione significativa in quanto nel momento in cui il codice civile riconosce dei diritti non può prescindere dalla loro tutelabilità, infatti nel 1942 se una persona negava un suo diritto non poteva poi agire in giudizio per farlo valere se questo fosse stato leso. Con la Costituzione questo non è più consentito in quanto l’art. 24 Cost. garantisce la tutela giurisdizionale: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Quindi qualunque legge che negasse la tutela ad un qualsiasi diritto sarebbe incostituzionale, tuttavia il legislatore può prevedere dei limiti all’esercizio dell’azione se rispondono ad interessi apprezzabili e differiscono senza escludere il diritto di agire e in questo caso sono ritenuti compatibili con l’art. 24 Cost. Il titolo IV del codice civile, sulla tutela giurisdizionale dei diritti, si apre con l’art. 2907 rubricato attività giurisdizionale che al primo comma afferma: “Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio.” Quindi, trattandosi di diritti soggettivi di regola la tutela giurisdizionale è su domanda di parte, ma ci sono alcuni casi, tassativamente previsti dalla legge, in cui la domanda può essere formulata dal P.M. o ancor più raramente dal giudice d’ufficio. Questi casi eccezionali in cui non è necessaria la domanda della parte si hanno quando si tratta di diritti che hanno rilevanza pubblicistica, cioè i c.d. diritti indisponibili relativi, per esempio, ai rapporti di famiglia, al matrimonio, al rapporto di filiazione; mentre, di regola, l’oggetto del processo civile sono i diritti disponibili in quanto il diritto civile si occupa dell’autonomia dei privati che possono regolare come meglio ritengono i loro rapporti. L’art. 2907 c.c. è importante perché da una parte sancisce che l’attività giurisdizionale è quella del giudice e dall’altra che oggetto dalla tutela giurisdizionale sono diritti soggettivi di cui le parti possono disporre. Nel caso di illecito civile o di controversia sul diritto sorge un conflitto intersoggettivo, ma questo ancora non significa che sia necessario accedere alla tutela giurisdizionale essendo questi diritti disponibili; per esempio, il creditore può non esigere il pagamento del credito oppure tentare una transazione (un accordo per prevenire le liti o per porre fine a controversie in atto) oppure se le parti sono d’accordo possono affidare la questione ad un arbitro per trovare una soluzione alternativa al processo. La tutela dei diritti non passa necessariamente attraverso il giudice essendovi la possibilità di rivolgersi ad un arbitro, cioè un giudice privato, ma è necessaria la presenza di una clausola compromissoria con la quale le parti hanno si vincolano a risolvere eventuali controversie derivanti da quel rapporto attraverso un arbitro di loro fiducia. In sintesi i diritti soggettivi possono essere tutelati attraverso tre strumenti (giurisdizionale, transazione e arbitrato), l’unica cosa che non è possibile è farsi giustizia da sé commettendo dei reati come quelli ex artt. 392 (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose) e 393 (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone) del codice penale. La tutela giurisdizionale dei diritti assume tre forme che rispondono a domande di giustizia diverse: la tutela dichiarativa (o di cognizione), la tutela esecutiva, la tutela cautelare. La tutela dichiarativa La tutela dichiarativa o di cognizione ha come scopo quello di accertate l’esistenza del diritto, cioè se esiste o meno per verificare se c’è stato l’illecito per poi provvedere nel modo migliore a realizzare l’interesse di cui si chiede la tutela. Questo tipo di tutela in alcuni casi può limitarsi a dare certezza oppure in altri può fare qualcosa di più. Per esempio in una contestazione circa l’esistenza di una servitù di passaggio dove uno dei

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proprietari del fondo confinante la nega e il proprietario del fondo intercluso si rivolge al giudice per accertare il suo diritto e quindi l’esistenza di una servitù di passaggio. Se il diritto esiste il giudice si limiterà ad emettere un provvedimento che dichiara l’esistenza del diritto alla servitù e di conseguenza giudicherà illegittimo il comportamento del proprietario confinante che ne aveva impedito l’esercizio. In tal caso l’attore chiede certezza per cui il provvedimento dichiarativo del giudice si limita ad accertare l’esistenza del diritto. In altri casi, invece, può essere chiesto qualcosa in più, per esempio, in caso di inadempimento del debitore il creditore si rivolge al giudice per chiedere l’accertamento del credito, l’inadempimento del debitore e l’emanazione di un provvedimento che obblighi il debitore alla prestazione, cioè una condanna ad un facere. In altre parole con la tutela dichiarativa il creditore si rivolge al giudice per accertare l’esistenza del credito, l’inadempimento del debitore e la condanna a pagarlo e questo rappresenta un qualcosa in più rispetto al caso precedente. Un'altra ipotesi è la possibilità di chiedere al giudice di produrre una modificazione della sfera giuridica dell’obbligato; per esempio in un contratto, se una parte è inadempiente l’altra può chiedere la risoluzione del contratto per estinguere il rapporto. Anche in questo caso siamo nella sfera dichiarativa che preliminarmente soddisfa un bisogno di certezza, ma poi il provvedimento del giudice, a seconda della domanda dell’attore, può limitarsi a questo oppure può condannare o modificare il diritto. È anche detta tutela di cognizione in relazione alla principale attività che il giudice è chiamato a compiere nell’ambito di questa tutela, cioè conoscere e per farlo deve raccogliere tutti gli elementi utili. Questa attività conoscitiva che caratterizza la tutela dichiarativa può svolgersi in due modi: cognizione piena ed esauriente e cognizione sommaria. Il processo a cognizione piena ed esauriente è preordinato a raggiungere il maggior grado di certezza possibile e di affidabilità la cui decisione finale assume il rango di cosa giudicata che è il massimo dell’accertamento possibile in ordine all’esistenza del diritto. I processi a cognizione piena ed esauriente sono: o il processo ordinario di cognizione previsto dal libro II del c.p.c.; o il processo (speciale) del lavoro; o il processo (speciale) in materia di controversie previdenziali e locatizie; o il processo (speciale) societario. Sono tutti processi contraddistinti da particolari caratteristiche e offrono alle parti determinate garanzie di cui la prima è la predeterminazione delle forme e dei termini stabiliti dal legislatore, in cui le parti e il giudice svolgono la loro attività nel processo quindi la domanda, le eccezioni, l’attività relativa alla negazione dei fatti. Le caratteristiche dei processi a cognizione piena ed esauriente sono: � il giudice fonda la sua conoscenza dei fatti solo su prove tipiche (cioè stabilite dalla legge); � sono stabiliti preventivamente i termini per la difesa delle parti dall’inizio alla fine del processo

che si conclude con la fase decisoria; � è previsto un sistema impugnazioni per porre rimedio ad eventuali errori del giudice; � è preordinato al giudicato, cioè accerta in maniera tendenzialmente incontrovertibile l’esistenza

del diritto. La garanzia per le parti nei processi a cognizione piena ed esauriente è il contraddittorio che è assicurata sempre in modo pieno e anticipato rispetto al provvedimento che conclude il processo, cioè la decisione finale, e caratterizza ogni momento del processo. In ragione di queste caratteristiche e garanzie il processo pieno ed esauriente, sia ordinario che speciale (del lavoro, in materia di controversie previdenziali e locatizie e quello societario), sono preordinati ad ottenere il giudicato, cioè il massimo grado di certezza possibile che nel processo a cognizione piena ed esauriente è, in linea di principio, una sentenza. Il giudicato si riferisce all’aspetto processuale e sostanziale, infatti l’art. 324 c.p.c. disciplina la cosa giudicata formale e l’art. 2909 c.c. la cosa giudicata.

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Si tratta di due nozioni complementari in quanto l’art. 324 c.p.c. stabilisce convenzionalmente che l’accertamento diventa tendenzialmente incontrovertibile, quando la sentenza passa in giudicato cioè non è più soggetta ad impugnazioni ordinarie che sono le più comuni (l’appello, il ricorso per Cassazione, il regolamento di competenza e la revocazione ordinaria). La sentenza diventa tendenzialmente incontestabile perché è possibile ancora attaccare il giudicato attraverso le impugnazioni straordinarie essendo basate su fatti particolari e motivi tassativi e tipici che il legislatore valuta come talmente gravi da rimettere in discussione l’accertamento delle sentenza passata in giudicato; per esempio per il dolo del giudice o se si scopre che la prova sulla quale era fondata la decisione era falsa. Trascorsi i termini per l’impugnazione ordinaria la sentenza diventa incontrovertibile ex art. 324 c.p.c. (giudicato formale) e di conseguenza l’accertamento contenuto nella sentenza acquista autorità di giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c. (giudicato sostanziale) che dice: “L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.” Quindi una volta che la sentenza passa in giudicato formale, ad esempio ha accertato l’esistenza del credito, quell’accertamento diventa incontrovertibile non essendo più possibile contestare l’esistenza del credito. Per cui il giudicato formale non può più essere messo in discussione né sulla base di difese ritenute infondate dal giudice nel corso del processo, che non possono valere una seconda volta, né di difese che la parte avrebbe potuto far valere nel corso del processo, ma non lo ha fatto, per esempio, un’eccezione di prescrizione del diritto che la parte non ha fatto valere nel processo, poi conclusi con una sentenza passata in giudicato, non potrà più essere eccepita perché il giudicato copre il dedotto e il deducibile e quindi non solo le difese ritenute infondate o rigettate dal giudice, ma anche quelle che avrebbero potuto essere formulate, ma non sono state fatte valere. Dal momento in cui la sentenza passa in giudicato fa stato tra le parti, gli eredi e gli aventi causa e non è più possibile metterla in discussione, fermo restando che dopo possono verificarsi fatti estintivi del diritto; per esempio l’adempimento del debitore con la conseguenza che il creditore non potrà più vantare diritti su quel credito. La tutela dichiarativa oltre che con il processo a cognizione piena ed esauriente si può anche realizzare attraverso procedimenti a cognizione sommaria. Il processo cognizione sommaria non è preordinato ad un accertamento incontrovertibile del giudicato, ma solitamente a rispondere alla domanda di giustizia in termini più rapidi attraverso un procedimento semplificato perché basato su un’attività cognitiva più semplice. Questo tipo di processo attraverso cui si realizza la tutela dichiarativa sono processi sommari, non cautelari, che la dottrina definisce con prevalente funzione esecutiva, perché la finalità principale è quella di consentire a chi richiede la tutela di ottenere in tempi rapidi un provvedimento che sia un titolo esecutivo e possa servire ad attuare coattivamente il credito. La caratteristica di questi procedimenti sta nella sommarietà, cioè nella rinuncia ad alcune delle caratteristiche dei processi a cognizione piena ed esauriente, per cui possono mancare, per esempio, la predeterminazione delle forme, la tipicità dell’attività istruttoria e la garanzia del contraddittorio. La sommarietà della cognizione può essere legata: � alla parzialità della cognizione, quando il provvedimento finale è reso senza il contraddittorio,

cioè senza che venga ascoltata la controparte, per cui si basa solo su fatti affermati dall’attore; � alla superficialità della cognizione, cioè il giudice fonda la decisione su elementi di prova che

nel processo ordinario non sarebbero sufficienti a fondare il convincimento del giudice. I processi sommari si affiancano, senza escludere, quelli cognizione piena ed esauriente in quanto il creditore può sempre utilizzare anche il processo ordinario di cognizione, cioè le forme di cognizione piena ed esauriente. Però il creditore può avere interesse per questioni di economia processuale, che sono alla base dei processi sommari, oppure talvolta può essere eccessivo ricorrere alla cognizione piena ed esauriente quando, per esempio, può non esserci una contestazione effettiva del diritto da parte del convenuto.

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I procedimenti sommari si concludono con provvedimenti che nascono provvisori, potendo poi essere assorbiti dal provvedimento emesso a cognizione piena ed esauriente. I procedimenti sommari sono previsti solo per alcuni diritti tipici (ad esempio il decreto ingiuntivo e la convalida di sfratto) espressamente previsti dal legislatore e non hanno carattere generale mentre con quelli a cognizione piena ed esauriente si può chiedere la tutela di qualsiasi diritto. Tra i più diffusi procedimenti sommari c’è quello per ingiunzione, con cui il creditore può chiedere la tutela di un credito invece di utilizzare il procedimento a cognizione piena ed esauriente. La caratteristica di questo procedimento è l’assenza del contraddittorio e se il giudice decide di dichiarare l’esistenza del diritto del creditore ingiunge il debitore al pagamento, senza averlo ascoltato, mentre spetta al creditore fornire la prova documentale del credito che però non ha gli stessi requisiti della prova nel processo a cognizione piena ed esauriente. Quindi sui fatti affermati dal creditore e sulla base della prova scritta in senso ampio, il giudice decide se accogliere o meno la domanda e se l’accoglie emette il decreto ingiuntivo (che non è una sentenza), con cui dichiara esistente il diritto ed ingiunge il debitore al pagamento una determinata somma. Poiché la cognizione piena ed esauriente è una garanzia irrinunciabile, il debitore può opporsi al decreto ingiuntivo entro 40 giorni (art. 641 c.p.c.), cioè insature un processo a cognizione piena ed esauriente per accertare l’esistenza del diritto del creditore. Quindi il processo a cognizione piena ed esauriente non è escluso, ma è rimesso all’iniziativa del convenuto, ma se il debitore non propone opposizione entro 40 giorni il decreto ingiuntivo diventa definitivo, per cui il provvedimento ingiuntivo nasce provvisorio, ma se non c’è opposizione diventa tendenzialmente incontrovertibile e sotto vari aspetti non è diverso da quello della cosa giudicata. Lo stesso accade se il debitore fa opposizione, cioè chiede il procedimento a cognizione piena ed esauriente, ma non si attiva per far valere le sue ragioni, quel giudizio si estingue per cui il decreto ingiuntivo diventa incontrovertibile. Questo è un tipico esempio di procedimento a cognizione sommaria che può portare ad un risultato tendenzialmente definitivo, se le parti non si attivano per ottenere la cognizione piena ed esauriente, cioè non lo instaurano oppure non lo coltivano. Altro esempio diffuso di procedimento sommario è quello di convalida di sfratto quando, scaduti i termini del contratto di locazione, il conduttore non rilascia l’immobile. Il locatore ha due strade per ottenere la tutela del diritto: quella ordinaria con il processo a cognizione piena ed esauriente e in alternativa il procedimento sommario di convalida di sfratto. Nel procedimento di convalida di sfratto, la sommarietà della cognizione non è data dalla parzialità, perché il contraddittorio viene instaurato prima della pronuncia del provvedimento, ma dalla superficialità della cognizione del giudice. Se il locatore cita il conduttore a comparire all’udienza e questo non compare, nel procedimento a cognizione piena ed esauriente ha un valore solo per la valutazione delle prove e non basterebbe per giustificare una sentenza di condanna, mentre nel procedimento sommario è sufficiente per emettere un’ordinanza al rilascio dell’immobile e lo stesso accade se il conduttore pur comparendo in udienza, non si oppone. Quindi il conduttore può impedire la pronuncia dell’ordinanza di rilascio dell’immobile solo opponendosi, mentre nel procedimento per ingiunzione l’opposizione segue la pronuncia del provvedimento, nel procedimento di convalida di sfratto impedisce al giudice di emettere l’ordinanza di rilascio ed il processo prosegue o si trasforma a cognizione piena ed esauriente, ma se il conduttore non compare o non si oppone l’ordinanza diventa incontrovertibile e non più contestabile. Nei procedimenti sommari quello per ingiunzione e la convalida di sfratto sono provvedimenti speciali autonomi e si distinguono da quelli emessi nel corso di un giudizio di cognizione piena ed esauriente, cioè le ordinanze anticipatorie di condanna, che servono ad anticipare gli effetti esecutivi di una sentenza. Le ordinanze anticipatorie vengono pronunciate nel corso di un processo a cognizione piena ed esauriente sulla base di una cognizione sommaria dei fatti, in quanto sono provvisorie perché

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destinate ad essere assorbite dalla sentenza, sempre che si arrivi a sentenza perché il processo potrebbe estinguersi prima e comunque quell’ordinanza conserva la sua efficacia esecutiva. Nel tentativo di deflazionare il contenzioso processo civile, tra le novità della legge 69 del 2009 vi è l’inserimento del capo III bis sul procedimento sommario di cognizione (artt. 702 bis ÷ 702 quater) che è un nuovo procedimento sommario non cautelare previsto solo per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, su richiesta della parte e sempre dopo la verifica dei presupposti da parte del giudice. L’art. 702 ter introdotto nel 2009 dispone che se il giudice ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria il giudice, con ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza dell’art. 183 e cioè la prima udienza del processo ordinario di cognizione. La sommarietà dell’art. 702 bis consiste nella cognizione del giudice e ricorda molto la disposizione del procedimento cautelare, anche questo estremamente semplificato, dell’art. 669 sexies c.p.c. che afferma “Il giudice sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto, e provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda.” Si tratta quindi di un procedimento semplificato e veloce in quanto il giudice sente le parti omettendo qualsiasi formalità che non sia essenziale al contraddittorio, compie gli atti di istruzione che ritiene rilevanti per l’oggetto del processo e si pronuncia con ordinanza provvisoriamente esecutiva in quanto costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale e titolo per la trascrizione. Il fatto che si tratti di un’ordinanza esecutiva porta a ritenere che lo scopo del procedimento sommario si cognizione sia quello di ottenere in tempi rapidi la formazione di un titolo esecutivo, perché al creditore può non interessare la certezza del giudicato, ma solo ottenere un titolo esecutivo che consenta di realizzare la sua pretesa per cui diventa inutile iniziare un procedimento a cognizione piena ed esauriente, se è sufficiente un procedimento sommario. Questo nuovo procedimento sommario non è solo finalizzato alla rapidità di ottenere un titolo esecutivo anche per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale per la trascrizione, ma la novità che sta facendo discutere è nell’essere finalizzato a raggiungere risultati di certezza che sono propri della sentenza passata in giudicato, in quanto l’art. 702 quater introdotto nel 2009 stabilisce che l’ordinanza emessa ex art. 702 ter produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c. (il giudicato sostanziale), se non è appellata entro 30 giorni dalla sua comunicazione o notifica, ma se non viene appellata quell’ordinanza acquista autorità di cosa giudicata. La novità è che si vuole conseguire il risultato di certezza del giudicato sostanziale, ma sulla base di una cognizione sommaria e non piena ed esauriente. La tutela esecutiva Attraverso la tutela dichiarativa, che è il presupposto per accedere a quella esecutiva, è possibile avere un titolo esecutivo (sentenza, decreto ingiuntivo esecutivo non opposto, ecc.) che a sua volta da possibilità di accedere al secondo tipo di tutela esecutiva che ha lo scopo di realizzare il diritto ad una prestazione in via coattiva, cioè senza o contro la volontà dell’obbligato. Oggetto della tutela esecutiva sono sempre diritti di credito che derivano da un’obbligazione contrattuale oppure da un’obbligazione da fatto illecito, ex art. 2043, a titolo di risarcimento del danno o dall’inadempimento di un’obbligazione. La tutela esecutiva è finalizzata alla realizzazione coattiva di un diritto di credito, perché la tutela dichiarativa può non essere sufficiente se debitore continua ad essere inadempiente. Mentre nella tutela dichiarativa l’attività caratterizzante è rappresentata dalla cognizione, in quella esecutiva non si tratta di giudicare, ma di eseguire. Quindi l’attività caratterizzante è quella materiale dell’ufficiale giudiziario, in qualità di ausiliario del giudice e consiste in un’attività sostitutiva, cioè l’ufficiale giudiziario fa ciò che avrebbe dovuto fare il debitore per soddisfare il diritto del suo creditore, nel senso che si sostituisce al debitore per adempiere all’obbligazione se ci fosse stato l’adempimento spontaneo e quindi è un’attività sostitutiva che mira alla soddisfazione coattiva del diritto del creditore.

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Per poter accedere alla tutela esecutiva è necessario un titolo esecutivo, infatti il c.p.c. all’art. 474 dispone: “L’esecuzione forzata non può aver luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido (cioè determinato nel suo ammontare) ed esigibile (cioè non sottoposto a condizione e termine).” Il secondo comma dell’art. 474 indica quali sono i titoli esecutivi certi su cui iniziare l’esecuzione forzata operando una distinzione tra titolo esecutivi di formazione giudiziali e stragiudiziali. Quelli di formazione giudiziale sono le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva. Si tratta di atti giudiziali che offrono un grado di certezza molto diverso tra loro e che hanno efficacia esecutiva. Per esempio una sentenza di condanna offre la massima garanzia di certezza perché presuppone una cognizione piena ed esauriente, mentre il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo prima della scadenza dei termini per l’opposizione non offre le stesse garanzie. Nel processo del lavoro una novità del legislatore del 1990 è l’art. 282 c.p.c. che afferma che la sentenza di condanna è esecutiva dal momento della sua pubblicazione e quindi è possibile procedere all’esecuzione forzata, tuttavia una sentenza di primo grado non offre la stessa certezza dell’esistenza del diritto rispetto a quella passata in giudicato, perché può essere impugnata giungendo a risultati diametralmente opposti con una dichiarazione di inesistenza del credito. Una certezza ancora minore si ha per i provvedimenti sommari esecutivi che possono dare il via all’esecuzione forzata, tra cui un decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo, un’ordinanza anticipatoria di condanna pronunciata sulla base di una cognizione sommaria. Tra i titoli di formazione stragiudiziale abbiamo le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute, le cambiali, nonché gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente la sua stessa efficacia; gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli (art. 474 c.p.c. secondo comma). Il creditore in possesso di un titolo esecutivo giudiziale o stragiudiziale può rivolgersi all’ufficiale giudiziario per l’esecuzione forzata e il titolo esecutivo è condizione necessaria e sufficiente, senza il quale non si può chiedere l’esecuzione forzata ed è sufficiente per dare il via al processo di esecuzione forzata perché non vi è attività cognitiva, in quanto l’ufficiale giudiziario preso atto della domanda di tutela e dell’esistenza del titolo esecutivo, dà il via al processo di esecuzione forzata senza compiere alcuna verifica sull’esistenza del credito al momento. Se il debito è stato pagato il debitore può proporre opposizione all’esecuzione forzata, cioè può contestare il diritto del creditore ad agire in via esecutiva con un processo a cognizione piena ed esauriente e in questo modo si ritorna alla tutela dichiarativa per accertare l’esistenza del credito, per cui l’opposizione del debitore rappresenta un momento di riequilibrio tra la posizione del debitore e del creditore. La tutela esecutiva si realizza sempre attraverso un processo e ne abbiamo diversi a seconda dell’oggetto della prestazione. Un primo tipo di processo sulla tutela esecutiva è l’espropriazione forzata, ex art. 2910 c.c., che ha per oggetto il pagamento di una somma di denaro e stabilisce che il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare espropriare i beni del debitore secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile. All’interno del processo di espropriazione distinguiamo tra: � espropriazione mobiliare presso il debitore, quando i beni si trovano nella casa del debitore; � espropriazione mobiliare presso terzi, quando i beni mobili espropriabili del debitore si trovano

nella disponibilità di un terzo oppure sono crediti che il debitore vanta nei confronti di un terzo; � espropriazione immobiliare. quando i beni espropriabili sono immobili. Nell’espropriazione di beni mobili l’ufficiale giudiziario pignora i beni del debitore e attraverso la vendita forzata o l’assegnazione in funzione satisfattiva di questi beni al creditore, realizza coattivamente il diritto del creditore, per cui è un’attività sostitutiva di ciò che avrebbe dovuto fare il debitore.

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Al di fuori del denaro, se le prestazioni hanno ad oggetto la consegna o il rilascio di beni oppure di obblighi di fare o non fare, il codice civile prevede l’esecuzione forzata in forma specifica ex art. 2930 c.c.: “Se non è adempiuto l'obbligo di consegnare una cosa determinata, mobile o immobile, l'avente diritto può ottenere la consegna o il rilascio forzati a norma delle disposizioni del codice di procedura civile” e richiama l’art. 605 c.p.c. e ss. L’esecuzione in forma specifica si differenzia dall’espropriazione forzata in primis per l’oggetto della prestazione (la consegna di un bene mobile o il rilascio di un immobile) e poi perché vi è coincidenza tra l’oggetto della prestazione e quello dell’esecuzione, cioè l’oggetto della prestazione è proprio quello dell’esecuzione; mentre nell’espropriazione forzata non c’è tale coincidenza perché i beni vengono trasformati in denaro oggetto della prestazione. Anche in questo caso per realizzare coattivamente la consegna della prestazione si ricorre all’attività sostitutiva dell’ufficiale giudiziario secondo quanto stabilito dall’art. 606 c.p.c.: decorso il termine indicato nel precetto, l’ufficiale giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto, se si tratta di beni mobili questi si reca nel luogo in cui le cose si trovano, le ricerca e le consegna al creditore; invece se si tratta del rilascio di un bene immobile, l’ufficiale giudiziario deve comunicare almeno 10 giorni prima alla parte che deve rilasciarlo, il giorno e l’ora in cui procederà all’esecuzione e da quel momento immette l’istante o persona da lui designata nel possesso del bene immobile (art. 608 c.p.c.). Altra forma di esecuzione specifica è quella dell’obbligo di fare (art. 2931 c.c.) o non fare per il quale il primo comma dell’art. 2933 c.c. - esecuzione forzata degli obblighi di non fare - dispone: “Se non è adempiuto un obbligo di non fare, l'avente diritto può ottenere che sia distrutto, a spese dell'obbligato, ciò che è stato fatto in violazione dell'obbligo”. Le modalità di esecuzione forzata per gli obblighi di fare o non fare vengono stabilite dal giudice di volta in volta, perché è necessario vedere il tipo di prestazione caso per caso. Tuttavia l’esecuzione forzata di fare o non fare può presentare qualche problema in quanto, mentre l’espropriazione forzata di un bene (l’esecuzione per consegna o rilascio) può sempre aver luogo perché consente sempre all’ufficiale giudiziario di sostituirsi all’obbligato; invece per gli obblighi di fare o non fare non sempre l’ufficiale giudiziario può svolgere l’attività sostitutiva, ma dipende dalla prestazione e cioè occorre vedere se si tratta di una prestazione fungibile o non fungibile. Se si tratta di una prestazione infungibile l’esecuzione forzata incontra dei limiti, per esempio se l’oggetto della prestazione è l’esibizione di una cantante oppure per la scultura di una statua, e in questi casi al creditore resta la tutela risarcitoria, cioè la richiesta dei danni. Vi è però un altro sistema per ottenere l’adempimento, ma con la collaborazione dell’obbligato, ed è l’esecuzione indiretta che si basa sulle c.d. misure coercitive, cioè sanzioni di carattere civile o penale che il legislatore può prevedere nell’ipotesi in cui il debitore non adempia l’obbligazione e avendo carattere monetario possono essere tali da indurre il debitore ad adempiere. Per esempio, si stabilisce che per ogni giorno per il quale si protrae l’inadempimento il debitore deve pagare 500 euro ed il debito accumulato sarà sempre eseguibile coattivamente, essendo una prestazione che ha per oggetto una somma di denaro. Di fronte ad una tale misura coercitiva il debitore può essere indotto ad adempiere perché eseguire la prestazione costa meno, rispetto ad essere inadempiente in relazione alle sanzioni pecuniarie da pagare, anche perché può essere prevista anche una sanzione penale. Per esempio l’art. 28 dello statuto dei lavoratori sulla condotta antisindacale da parte del datore di lavoro, ma se persevera può incorrere nell’art. 650 c.p. Attualmente nel nostro sistema, a differenza degli altri ordinamenti europei, non vi è un sistema di esecuzione indiretta, cioè un sistema generale di misure coercitive, ma solo delle norme specifiche dettate da leggi speciali come lo statuto dei lavoratori1.

1 La somma viene determinata dal giudice sulla base di parametri indicati dalla norma stessa (il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o prevedibile, le condizioni personali o patrimoniali delle parti ed ogni altra circostanza utile).

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Questa lacuna è stata colmata con l’approvazione della legge 69/2009 che all’art. 614 bis (Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare) introduce un sistema generale di misure coercitive, rubricato “Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'articolo 409. Il giudice determina l'ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.” La tutela cautelare Serve a tutelare in via provvisoria un diritto per il tempo necessario a far valerlo valere in un processo a cognizione piena ed esauriente. Quindi la necessità di questa tutela è correlata alla durata del processo che deve accertare l’esistenza del diritto il quale, visto la lunga durata dei processi, potrebbe essere pregiudicato in questo periodo. Tanto più lungo è il processo, tanto più la tutela cautelare assume un ruolo fondamentale per assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, quindi della sentenza e dell’esecuzione forzata. Infatti la tutela cautelare è strumentale rispetto alle altre forme di tutela, in quanto serve ad assicurare effettività alla tutela dichiarativa ed esecutiva facendo in modo che quando il giudice emetterà la sentenza sia ancora utile, per cui deve essere fornita in tempi rapidi ed è realizzata attraverso un procedimento sommario che è stato uniformato per tutte le misure cautelari dal legislatore nel 1990, secondo il procedimento sommario previsto dagli artt. 669 bis e ss. che proprio per la necessità di rapidità deve basarsi su una cognizione sommaria. Per ottenere la tutela cautelare sono necessarie due condizioni: � vi devono essere buone possibilità che l’istante abbia diritto ad avere quello che chiede, cioè

deve dimostrare in modo sommario, la presenza del fumus boni iuris (il profumo del buon diritto);

� il pericolo di pregiudizio dovuto alla lunga durata del processo, cioè il periculum in mora. Quindi per avere la tutela cautelare è necessario dimostrare, oltre al fumus, anche che vi sia un effettivo pericolo che si distingue anche tra il pericolo da infruttuosità da quello da tardività: � Il pericolo di infruttuosità può verificarsi quando, durante il tempo processo, c’è il pericolo che si

modifichi o alteri una situazione di fatto. Per esempio se, durante il processo ordinario di cognizione, vi è il pericolo che il debitore possa vendere tutti i beni pregiudicando il diritto del creditore, per cui si rende necessario tutelare, in via d’urgenza, il creditore con un provvedimento cautelare di sequestro conservativo. In sintesi se il creditore dimostra il fumus boni iuris e il rischio effettivo di inadempienza del debitore potrà ottenere questa misura cautelare che ha la funzione di cristallizzare la situazione al momento della proposizione della domanda, in modo che rendere inefficaci eventuali atti di disposizione del debitore e se il creditore otterrà una sentenza di condanna potrà rivalersi su quei beni per soddisfare il suo credito. Quindi il rischio è che durante il processo, si verificano mutamenti della situazione economica che rendono inutile il provvedimento dichiarativo. Lo scopo delle misure conservative è evitare che la sentenza di condanna diventi infruttuosa.

� Il pericolo da tardività si riferisce a diritti che devono essere soddisfatti immediatamente altrimenti rischiano di essere irrimediabilmente pregiudicati. In questo caso non si tratta di conservare la situazione iniziale, ma di anticipare gli effetti della sentenza per non pregiudicare il diritto. Per esempio l’assegno provvisorio agli alimenti se il coniuge versa in stato di bisogno oppure il lavoratore che necessita della retribuzione in attesa che si accerti la liceità del licenziamento. L’attesa della sentenza definitiva pregiudicherebbe la loro condizione per cui è necessaria una tutela provvisoria anticipatoria degli effetti della sentenza, come l’assegno provvisorio agli alimenti o il provvedimento d’urgenza ex art. 700 per il lavoratore.

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Il diverso tipo di pericolo da infruttuosità e tardività è impedito rispettivamente dai provvedimenti cautelari conservativi ed anticipatori. Questa distinzione oggi è collegata ad una diversa stabilità di questi provvedimenti, perché fino al 2005 i provvedimenti cautelari si caratterizzavano per essere strumentali (al processo) e provvisori perché destinati ad essere assorbiti dalla sentenza che concludeva il giudizio a cognizione piena ed esauriente, altrimenti divenivano inefficaci. Dal 2005 queste due caratteristiche rimangono ferme per i provvedimenti conservativi, mentre si sono attenuati per i provvedimenti anticipatori (strumentalità attenuata) non sono più dipendenti strutturalmente dal processo a cognizione piena ed esauriente (lo sono solo funzionalmente in quanto curano l’effettività della tutela dichiarativa), perché le misure anticipatorie possono vivere indipendentemente da questo processo. Se il provvedimento anticipatorio viene chiesto prima dell’inizio del processo a cognizione piena ed esauriente, non è più previsto che il giudice debba fissare il temine entro cui chi ha ottenuto il provvedimento cautelare ha l’onere di iniziare il processo (così avveniva fino al 2005). Questo termine oggi non esiste più per cui non vi è più un onere di iniziare il processo a cognizione piena ed esauriente quale condizione di efficacia del provvedimento e quindi conserva la sua efficacia anche se il processo ordinario di cognizione non viene iniziato. Sotto questo aspetto, i provvedimenti cautelari anticipatori si sono avvicinati ai provvedimenti sommari non cautelari, perché possono fornire una tutela abbastanza stabile e perfino definitiva in quanto, se nessuna delle parti inizia il procedimento a cognizione piena ed esauriente, il provvedimento cautelare conserva efficacia, cioè può continuare a regolamentare il rapporto tra le parti, proprio perché è un provvedimento che anticipa gli effetti della sentenza, è possibile che le parti si accontentino della tutela fornita dal provvedimento cautelare. Per esempio, per l’assegno provvisorio, se questo va bene per le parti non c’è motivo di imporre loro di iniziare un processo a cognizione piena ed esauriente, per cui il processo anticipatorio conserva la sua efficacia a prescindere dal processo di cognizione piena ed esauriente. In sintesi è un tipo di tutela meno provvisoria di quanto avveniva fino al 2005, viceversa per i provvedimenti cautelari conservativi, che hanno una finalità e neutralizzano un pregiudizio diverso, la strumentalità al processo ordinario resta forte per cui la mancata instaurazione o l’estinzione del processo ordinario comporta l’inefficacia del provvedimento.

LE AZIONI DI COGNIZIONE La tutela dichiarativa o di cognizione ha lo scopo di accertare l’esistenza del diritto e questa è una caratteristica comune alle tre azioni di cognizione: di mero accertamento, costitutiva e di condanna. La differenza sta nel fatto che mentre l’azione di mero accertamento, proprio perché nel dare certezza esaurisce la sua funzione, invece l’azione costitutiva e quella di condanna si concludono con provvedimenti che oltre a dare certezza hanno un contenuto aggiuntivo. Infatti l’azione costitutiva è diretta a produrre una modificazione nella sfera giuridica sostanziale, l’azione di condanna è diretta ad ordinare alla parte soccombente un determinato comportamento o di adempiere una determinata prestazione.

L’AZIONE DI MERO ACCERTAMENTO Questa azione presuppone che ci sia una controversia sull’esistenza del diritto, esaurisce il suo scopo nell’accertare l’esistenza, il contenuto, il modo di essere di un diritto. Nel codice civile ci sono diverse norme che prevedono azioni di mero accertamento, per es. l’art. 1079, azioni a difesa della servitù, prevede che il titolare di una servitù può far riconoscere in giudizio l’esistenza di questo diritto contro chi lo contesta; oppure l’azione di nullità è un’altra azione di accertamento diretta ad ottenere la nullità di un contratto. L’esigenza di questo bisogno di certezza nasce dalla contestazione o negazione del diritto ed è una azione che ha per oggetto un accertamento positivo, cioè è diretta ad accertare l’esistenza del diritto in positivo nei confronti di chi lo contesti o lo neghi.

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Altra tipica azione di mero accertamento, molto importante perché prevista a tutela del diritto di proprietà, è l’azione negatoria l’art. 949 c.c. e prevede che il proprietario possa agire per far dichiarare l’inesistenza del diritto da altri affermato sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio. In questo caso ci troviamo di fronte ad un’azione di accertamento negativo, perché il titolare del diritto che ritiene di subire un pregiudizio dal comportamento della controparte, agisce per far accertare l’inesistenza del diritto che altri vantano sulla cosa oggetto della sua proprietà. Da queste norme ricaviamo che le azioni di mero accertamento possono essere positive o negative, a seconda che sono dirette ad accertare l’esistenza o l’inesistenza del diritto. La dottrina prevalente e la giurisprudenza pressoché unanime sono dell’avviso che una delle principali caratteristiche dell’azione di accertamento sia rappresentata dalla sua atipicità, cioè può essere utilizzata per la tutela dichiarativa di qualsiasi diritto. Innanzitutto non c’è una norma che prevede espressamente la tipicità di questa azione, dicendo che l’azione di mero accertamento è proponibile solo nei casi previsti dalla legge. Non aiutano a risolvere la questione le norme riferite alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost. e l’art. 2907 c.c.), perché sono troppo generiche e allora diventa importante da un lato, che non ci sia una norma che limiti ai casi previsti dalla legge questa azione in negativo, mentre in positivo ci sono altre due norme che aiutano l’interprete nella soluzione di questo problema e cioè che ci troviamo di fronte ad una azione atipica. La prima norma è l’art. 2653, che il codice civile colloca nella tutela dei diritti, ma non si riferisce alla tutela giurisdizionale perché regola l’istituto della trascrizione. Il numero 1 dell’art. 2653 prevede che debbano essere trascritte, oltre alle domande dirette a rivendicare la proprietà o altro diritto di godimento su beni immobili, anche quelle dirette all’accertamento dei diritti stessi. Implicitamente questa norma fornisce un argomento a favore della tesi della tipicità dell’azione di mero accertamento, perché sui diritti reali su beni immobili questa norma stabilisce che debbano essere trascritte le domande di rivendica e anche di accertamento di questi diritti, ma se possono essere trascritte significa che è sempre possibile agire in giudizio per l’accertamento di questi diritti. Almeno per quanto riguarda la categoria dei diritti reali su beni immobili, se il legislatore si regola della trascrizione della domanda, questo presuppone che queste domande siano ammissibili e che sia sempre possibile l’azione di mero accertamento quando ha per oggetto diritti reali su beni immobili e la stessa cosa prevede l’art. 2691 con riferimento ai beni mobili registrati (vedi autoveicoli, navi, aeromobili etc.). Quindi già questa norma fornisce un’indicazione all’interprete potendo ritenere l’azione di mero accertamento sempre ammissibile per i diritti reali su beni immobili o beni mobili registrati. Ma il nostro obiettivo è dire che sia ammissibile non solo con riferimento a questi diritti, ma a qualsiasi diritto ed allora viene in aiuto una disposizione del codice di procedura civile. L’art. 34 disciplina gli accertamenti incidentali, inserita nella sezione sulla modificazione della competenza per ragioni di connessione del codice di procedura civile, prevedendo che sia sempre possibile, nel corso del processo, chiedere che una delle parti chieda l’accertamento di un diritto che è pregiudiziale rispetto al diritto dedotto nel giudizio e cioè già oggetto della domanda iniziale e in base a questa norma ricaviamo il principio per cui è sempre possibile una domanda di accertamento. La norma prevede che sia formulata in corso di causa, per questo si chiama incidentale perché c’è un processo già pendente, nel corso di questo processo ciascuna parte può chiedere che sia accertato un diritto pregiudiziale rispetto a quello già dedotto nel giudizio. Per esempio di fronte all’azione iniziata dal creditore per il pagamento di un debito ereditario, il convenuto chieda che venga accertato che non è lui l’erede, in questo caso l’accertamento negativo stabilisce la mancanza della qualità di erede. Oppure il diritto di risarcimento danni può dipendere dalla qualità di proprietario, come il diritto al mantenimento dipende dalla esistenza di un rapporto di filiazione essendo pregiudiziale.

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La categoria dei diritti pregiudiziali, cioè collegati ad un altro diritto di cui ne costituiscono il presupposto per l’esistenza di un altro diritto è amplissima e questa norma ci consente di allargare moltissimo l’ambito dei diritti che possono essere oggetto di un’azione di accertamento. Certo qui l’azione di accertamento è incidentale, cioè in corso di causa, ma non c’è alcun motivo per negare la possibilità di poter chiedere un accertamento di un diritto pregiudiziale anche in via autonoma, quindi questa norma offre un argomento molto importante a favore dell’atipicità dell’azione di mero accertamento, sicché non c’è motivo di pensare che l’azione di mero accertamento sia tipica, ma è un’azione che può essere utilizzata sempre a tutela di qualsiasi diritto, anche assoluto che possa riguardare cose o persone e finanche per accertare l’esistenza di un diritto di credito per il quale è possibile utilizzare finanche l’azione di condanna. L’azione di mero accertamento è sempre ammissibile con riferimento ai diritti di credito quando non si è ancora verificata la lesione del diritto, cioè non c’è ancora l’inadempimento, Tuttavia se non si è ancora verificato l’inadempimento, ma il debitore ha contestato l’esistenza del debito nei confronti di un determinato soggetto, se la contestazione è motivo di pregiudizio per il creditore, sicuramente non si può negare il diritto di proporre una azione diretta ad accertare il credito nei confronti del debitore. Il problema si pone se si è già verificata la lesione, cioè se c’è già stato un inadempimento, perché in questo caso il creditore avrebbe a sua disposizione l’altra azione di cognizione, cioè l’azione di condanna che non assicura l’accertamento, e quindi fa certezza sull’esistenza del credito e dell’inadempimento, ma offre al creditore la possibilità di ottenere un provvedimento nei confronti della controparte che potrà anche utilizzare per l’attuazione coattiva del credito. Per la Reali se si è verificato l’inadempimento è ammissibile che il creditore possa limitarsi all’azione di mero accertamento, anche se per una ragione di economia processuale, essendo possibile ottenere un risultato completo, è meglio proporre un’altra azione, invece di rischiare di iniziare un’azione e poi dover iniziarne una seconda per la condanna. Questo anche per evitare che queste azioni o che in generale il processo sia utilizzato in modo distorto e che ci siano degli abusi, perché il debitore si vedrebbe costretto a subire due processi: il primo perché venga accertato l’esistenza del credito e il secondo per chiedere la condanna al pagamento di una determinata prestazione. Quindi si è posto questo problema, però la soluzione preferibile è che non possiamo limitare in alcun modo il diritto di azione, cioè l’art. 24 Cost. dice che tutti hanno il diritto ad agire a tutela dei propri diritti, ma se il bisogno di tutela del creditore in un determinato momento è limitato solo al fare certezza, non può essere lo Stato ad imporre al creditore di agire per chiedere un di più. Siamo nel campo dei diritti disponibili e quindi solo il titolare del diritto può decidere qual è per lui e in quale momento l’azione soddisfa il suo bisogno di tutela e se ritiene che sia meglio un’azione sia di mero accertamento piuttosto che di condanna, lo Stato non può imporgli di agire chiedendo la condanna, quindi, dobbiamo ritenere che anche se si è verificato l’inadempimento, comunque vada ammessa l’azione di mero accertamento del credito insoddisfatto e quindi anche questa limitazione non ha motivo di esistere. La terza categoria di diritti è quella dei diritti potestativi i quali nel momento in cui vengono esercitati dal titolare producono una modificazione nella sfera giuridica di un altro soggetto, pensate al datore di lavoro che licenzia il dipendente e infatti in questo caso la giurisprudenza ha ritenuto apprezzabile l’interesse sia del datore di lavoro e sia del suo dipendente ritenendo meritevole di tutela il previo accertamento della giusta causa per il licenziamento. Quindi la tendenza è di ammettere in via generale l’azione di mero accertamento con riferimento a qualsiasi diritto che sia assoluto, relativo o potestativo. L’elemento costante affinché questa azione sia esperibile è che ci sia la contestazione, cioè una negazione del diritto oppure, per esempio, nell’art. 949 c.c. (Azione negatoria) dove la contestazione assume una forma diversa perché non viene contestata l’esistenza del diritto del proprietario, ma i diritti che altri affermano sulla cosa.

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La contestazione costituisce la condizione per poter chiedere l’accertamento e può assumere due forme diverse: o può consistere nella negazione dell’esistenza del diritto o nell’affermazione e quindi nel vanto dell’esistenza di un diritto nei confronti di una altra

persona e nel caso dell’art. 949 si afferma un diritto sulla cosa oggetto della proprietà. La contestazione in questa duplice forma non basta per ritenere ammissibile l’azione in mero accertamento, perché ex art. 949 è necessario temere un pregiudizio, cioè ci deve essere sempre un pregiudizio effettivo che giustifica il bisogno di tutela, che significa che è necessario che ci sia un danno per l’attore. Quindi non basta una mera affermazione, ma è necessario un pregiudizio effettivo altrimenti non è possibile chiedere la tutela giurisdizionale. L’azione di mero accertamento è estremamente importante proprio perché non c’è a monte una lesione, ma un comportamento prodromico ad una futura lesione, per cui in queste azioni è estremamente importante vedere se c’è l’interesse a proporre l’azione però, proprio per la atipicità di queste azioni la valutazione della sussistenza di questo interesse è rimessa al giudice che dovrà, caso per caso, verificare se ci sia un pregiudizio concreto, attuale ed effettivo che giustifichi il bisogno di tutela. L’azione di mero accertamento è sempre ammissibile per tutti i diritti mentre, di regola, è inammissibile quando ha per oggetto leggi, ma anche norme di contratti e quindi non è possibile chiedere al giudice di accertare come deve essere interpretata una determinata norma. Su questo profilo ha avuto torto Giuseppe Chiovenda2, pur avendo un grandissimo merito nell’elaborazione di questa categoria delle azioni sulla scia della dottrina tedesca, quando affermava che queste azioni dovessero essere estese anche all’interpretazione delle clausole testamentarie, delle disposizioni di un contratto e così via, anche se vi è un’eccezione, perché nel 2006 il legislatore ha introdotto nel processo del lavoro l’art. 420 bis che già dalla rubrica s’intuisce che si tratta di una deroga alla regola, in quanto prevede un accertamento pregiudiziale sulla efficacia, sulla validità e sull’interpretazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro. Prima c’è stata la riforma del pubblico impiego che ha previsto una norma simile relativamente alle controversie avente per oggetto rapporti di lavoro pubblico e poi è stata estesa a qualsiasi controversia di lavoro attraverso l’art. 420 bis che è assolutamente singolare, perché con sentenza il giudice può accertare l’interpretazione delle clausole di un contratto di un accordo collettivo nazionale di lavoro. Nelle intenzioni del legislatore l’eccezionalità di questa norma si giustifica con la finalità deflattiva, per ridurre il numero dei processi e rendere più efficiente la macchina della giustizia. Solitamente le controversie di lavoro sono molto simili tra loro, si dice che siano controversie seriali perché le pretese fatte valere sono più o meno sempre le stesse cambiano i diritti o i soggetti, però si agisce per le differenze retributive e tal volta ciò dipende dall’interpretazione di una clausola contrattuale. La finalità di questa norma è stabilire con certezza l’interpretazione da dare, in modo da evitare cause dovute all’interpretazione di quella norma, tuttavia la sentenza con cui il giudice accerta l’interpretazione del contratto non potrà mai essere vincolante in un altro processo potendo avere solo il valore di precedente, inoltre l’art. 420 bis prevede che la sentenza possa essere impugnata con il ricorso per Cassazione e nel frattempo il processo è sospeso allungando così i tempi. Anche la regola per cui non è possibile agire per chiedere al giudice di accertare un fatto che sia assolutamente scollegato al diritto, cioè per semplici fatti, ha due eccezioni importanti previste dal codice di procedura civile: la querela di falso e la verificazione della scrittura privata. La querela di falso è un’azione diretta ad accertare la falsità di un atto pubblico che in quanto redatto da un notaio o da un altro pubblico ufficiale gode di una fede privilegiata e per affermare

2 Il suo pensiero è considerato riferimento portante nella stesura del codice di diritto processuale civile del 1940. Strenuo sostenitore del principio dell'oralità, fu redattore del progetto di riforma dello stesso codice nel 1919. In seguito con Francesco Carnelutti, nel 1924, fondò e diresse la Rivista di diritto processuale civile. Chiovenda è riconosciuto come uno dei maggiori esponenti della dottrina giuridica italiana.

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che è falso un atto pubblico è necessario agire in giudizio con la querela di falso che è un’azione di accertamento mero che ha ad oggetto un falso. La falsità dell’atto pubblico non è certo un diritto o un negozio giuridico, ma è un mero fatto; tuttavia in ragione delle ripercussioni che la falsità dell’atto pubblico può produrre alla tutela dei diritti è ammessa, in via eccezionale, questa azione. Lo stesso vale per la verificazione della scrittura privata, ossia si prevede la possibilità che possa essere proposta, in via autonoma, una domanda diretta ad accertare che la firma apposta ad una scrittura privata sia autentica e anche in questo caso è un’azione di mero accertamento che ha per oggetto un fatto dato dall’autenticità o meno della sottoscrizione. La domanda di verificazione accerta il contrario di quella che introduce la querela di falso: mentre la querela di falso accerta la falsità del documento, l’azione di verificazione accertare che la sottoscrizione, non il documento, è autentica. Una delle caratteristiche delle azioni di mero accertamento, tradizionalmente individuate dalla dottrina, è che la sentenza produce effetti ex tunc, cioè ha effetti retroattivi, però questi si producono quando la sentenza è passata in giudicato. Essendo una sentenza dichiarativa il diritto non nasce quando il giudice lo accerta, ma è preesiste, ad esempio per la nullità di matrimonio oppure l’esistenza del diritto di proprietà o di un diritto di servitù, il giudice si limita a dichiarare che quel diritto esiste dal momento in cui è sorto e in questo senso la sentenza di mero accertamento ha efficacia retroattiva e questo è un elemento di differenza rispetto alla sentenza costitutiva. Per le azioni di accertamento mero esistono varie norme che le disciplinano, ma manca una disposizione generale, tanto è vero che si è posto il problema della tipicità o no di questa azione, invece nel caso della azione costitutiva esiste una norma che regola questa azione ed è l’art. 2908 c.c. - effetti costitutivi delle sentenze - che stabilisce che nei casi previsti dalla legge l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.

LE AZIONI COSTITUTIVE L’azione costitutiva è esperibile solo se è espressamente prevista dalla legge ed ha l’effetto di costituire, modificare o estinguere una rapporto giuridico e quindi è un azione tipica e questo è un primo elemento che la differenzia dall’azione di mero accertamento. Per qualcuno è un diritto potestativo, ma per altri, tra cui la Reali, non è corretto parlare di diritto potestativo perché è quello che consente al titolare di produrre un effetto nella sfera giuridica altrui semplicemente attraverso la manifestazione di volontà, invece qui si ricorre al provvedimento giurisdizionale. Se noi intendiamo il diritto potestativo in letterale forse è più corretto parlare di diritto ad una modificazione giuridica, se poi lo intendiamo in senso ampio va bene anche quella formula e comunque si ricorre all’intervento del giudice per ottenere l’effetto costitutivo, modificativo o estintivo. Oggetto dell’azione costitutiva è il diritto ad una modificazione giuridica e in alcuni casi le parti possono essere assolutamente d’accordo nel volere un determinato effetto, per esempio nel divorzio, ma questo non basta per poter ottenere l’effetto dello scioglimento del matrimonio perché vengono in rilievo in questi casi diritti e rapporti, di cui le parti non possono disporre avendo rilevanza pubblicistica e regolate da norme inderogabili sottratte alla autonomia dei privati. In questi casi il legislatore vuole che solo ricorrendo le condizioni previste dalla legge, che devono essere accertate dal giudice, si produca un determinato effetto. Vi sono due sottotipi dell’unico tipo di azione costitutiva: le azioni costitutive necessarie e non necessarie. Le azioni costitutive necessarie sono quelle che rappresentano la strada necessaria, quando non c’è altro modo, per ottenere un effetto costitutivo, modificativo o estintivo di un determinato rapporto. La differenza rispetto all’azione costitutiva non necessaria e che l’effetto può essere costitutivo, modificativo o estintivo e può essere ottenuto anche attraverso l’autonomia privata.

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Quindi non occorre che la parte si rivolga al giudice per ottenere un determinato effetto, ma quando c’è una crisi di cooperazione o c’è un contrasto nell’ambito della giurisdizione contenziosa, se il legislatore prevede la risoluzione giudiziale, nel momento in cui si verifica un inadempimento grave, quindi c’è l’elemento di crisi che porta la violazione, la parte adempiente può chiedere al giudice di accertare la gravità dell’inadempimento ed emette una sentenza costitutiva. In questo caso la sentenza produce l’effetto di estinguere il rapporto, cioè di sciogliere il vincolo contrattuale, ma non è affatto una strada obbligata perché la risoluzione potrebbe essere ottenuta anche in un altro modo con la risoluzione di diritto. La risoluzione del diritto si può ottenere con la diffida ad adempiere l’altra parte in un termine che non inferiore a 15 giorni e se non adempie, il contratto si intende risolto oppure c’è la possibilità di stabilire una clausola risolutiva espressa, con riferimento ad uno specifico inadempimento (ad es. si può stabilire che se non viene adempiuta quella prestazione il contratto s’intende risolto). Quindi non è affatto necessario rivolgersi al giudice, ma è possibile ottenere lo stesso effetto di risoluzione del contratto attraverso la via dell’autonomia privata. Inoltre se sorge una contestazione circa l’avvenuta risoluzione oppure no, l’azione che dovrà essere esperita è dichiarativa e quindi viene chiesto al giudice di accertare se il contratto si è risolto. Viceversa l’azione di risoluzione è costitutiva perché non è chiesto al giudice di accertare la risoluzione del contratto, ma di risolverlo cioè di porre fine al rapporto, estinguere il vincolo contrattuale, per cui si produrre un effetto nella sfera giuridica dei contraenti. La caratteristica di quest’azione costitutiva è non solo di accertare l’esistenza del diritto per la modificazione giuridica e i loro presupposti, ma anche produrre l’effetto costitutivo, modificativo o estintivo. Però questa azione è prevista solo in ipotesi tipiche, eccezionali, almeno con riferimento ai diritti disponibili in cui c’è sempre la strada dell’autonomia privata, cioè dell’accordo. L’azione costitutiva è ammessa solo se la legge lo prevede, perché altrimenti c’è il rischio di un’interferenza del giudice nell’autonomia privata e nella loro libertà di scelta e ciò giustifica l’eccezionalità di questa azione. Infatti, quando non erano previste espressamente come oggi nell’art. 2908 c.c. cioè con il vecchio codice, si dubitava che ci si potesse rivolgere al giudice per produrre un determinato effetto, che le parti avrebbero invece potuto o dovuto conseguire attraverso l’autonomia privata. Tra le azioni costitutive vi è l’azione ex art. 2932 c.c. per il quale quando le parti hanno stipulato un contratto preliminare, avendo effetti obbligatori, se uno dei due contraenti non stipula il contratto definitivo, l’altro può chiedere al giudice una sentenza che produca, ex art. 2932, gli effetti del contratto definitivo non concluso3. Per alcuni la funzione dell’art. 2932 non è solo cognitiva, ma anche esecutiva perché da soddisfazione coattiva a l’obbligo di concludere il contratto sul presupposto, tipico dell’azione di condanna, che ci sia stato l’inadempimento che si configura nell’obbligo di prestare una dichiarazione di volontà. Tanto è vero che chi sostiene la tesi che l’art. 2932 è da inquadrarsi nell’ambito della tutela esecutiva, vuole utilizzare questa norma anche per dare attuazione coattiva non solo all’obbligazione che nasce dalla stipula del contratto preliminare, ma a qualsiasi obbligazione che abbia per oggetto una dichiarazione di volontà. Nel momento in cui diciamo che è una tutela esecutiva e non un’azione costituiva, viene meno il carattere della tipicità e quindi è possibile utilizzarla per la soddisfazione coattiva di qualsiasi obbligo che abbia ad oggetto una manifestazione di volontà. Ora questa tesi può essere apprezzata perché vuole dare una tutela più ampia, una tutela esecutiva, anche rispetto ad obbligazioni che però hanno per oggetto una prestazione non surrogabile, perché qui il giudice non si sostituisce al contraente inadempiente, che è la caratteristica dell’azione esecutiva, prestando il consenso che il contraente inadempiente non ha prestato.

3 Questa norma codifica un principio che Chiovenda aveva sostenuto quando ancora non esisteva questa norma specifica.

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La manifestazione del consenso è una tipica prestazione infungibile per cui deve essere resa necessariamente dal soggetto e non è una attività sostituibile, fungibile o surrogabile. L’art. 2932 fa riferimento all’azione costitutiva come azione diretta a produrre determinati effetti nel contratto definitivo, in concreto mira a far sorgere il contratto. Pensiamo all’ipotesi tipica del contratto preliminare di compravendita, se una parte non adempie l’altra parte si rivolge al giudice per ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso, significa che vuol far sorgere il rapporto e quindi i diritti e gli obblighi che derivano dalla compravendita (trasferimento della proprietà e pagamento del prezzo). Quindi l’effetto di questa azione è costitutiva di un rapporto giuridico per cui possiamo confermare la tesi tradizionale che inquadra l’azione dell’art. 2932, nell’ambito delle azioni costitutive, perché il suo scopo è fare certezza dell’inadempimento e costituire il rapporto producendo gli effetti del contratto definitivo non concluso. La sentenza su queste azioni produce l’effetto costitutivo, modificativo ed estintivo perché, a differenza della sentenza di mero accertamento, si dice, che la sentenza non ha efficacia retroattiva, cioè produce effetto ex nunc, e questo si spiega perché produce effetto nel momento in cui il giudice costituisce, modifica o estingue il rapporto. Ad esempio la sentenza di divorzio produce effetti nel momento in cui passa in giudicato. Può sorgere, però, un problema legato alla tutela della parte che ha ragione perché può accadere che la durata del processo può arrecare danno alla parte vittoriosa, visto che l’effetto costitutivo si produce nel momento in cui la sentenza passa in giudicato. In alcuni casi gli strumenti per risolvere questo problema sono offerti dal diritto sostanziale, tra cui la trascrizione della domanda dell’art. 2652 c.c. che al n.1 è prevista proprio per le domande di risoluzione dei contratti e quindi è una tipica azione costitutiva. Infatti la trascrizione comporta che nel momento in cui verrà pronunciata la sentenza costitutiva che risolve il contratto, avrà efficacia quando passa in giudicato, ma gli effetti retroagiscono al momento in cui è stata trascritta la domanda e questo rende opponibile quella sentenza a terzi che abbiano acquistati diritti in base ad atti trascritti successivamente alla trascrizione della domanda giudiziale e questo evita le conseguenze pregiudizievoli della durata del processo. Ci sono anche altre ipotesi in cui è la legge stessa a prevedere questa retroattività, per esempio l’art. 421 c.c. è riferita ad una tipica sentenza costitutiva che è quella di interdizione e inabilitazione, la quale produce effetti dal giorno della pubblicazione della sentenza. Anche in questo caso la decorrenza degli effetti non è da quando passa in giudicato, ma dal giorno della pubblicazione della sentenza di primo grado, questo per tutelare meglio gli interdetti e inabilitati. Al di fuori di queste ipotesi di cui la legge espressamente prevede la retroattività la sentenza produce i suoi effetti ex nunc, cioè da quando passa in giudicato, anche se questo può far sorgere dei problemi. Pertanto non sembra possibile utilizzare, come pure si è tentato di fare in dottrina, l’art. 282 c.p.c. (esecuzione provvisoria) per affermare che anche la sentenza costitutiva produce effetti da subito, perché quella norma sebbene non faccia esplicito riferimento alla sentenza di condanna, ma genericamente a quelle di primo grado, stando alla lettera la possiamo riferire a qualsiasi sentenza, però la rubrica dell’art. 282 è esecuzione provvisoria e le uniche sentenze che tradizionalmente hanno una efficacia esecutiva e che possono arrivare ad un esecuzione forzata sono le sentenze di condanna. Quindi sarebbe una forzatura dire che questa norma possa essere utilizzata anche con riferimento alle sentenze costitutive, come afferma un’autorevole dottrina per dare una tutela maggiore a chi ha ragione in primo grado.

LE AZIONI DI CONDANNA Le azioni di condanna sono dirette ad:

accertare l’esistenza del diritto e la sua lesione, invece oggetto dell’azione è sempre un qualsiasi diritto di credito, sempre che si sia verificato l’inadempimento, cioè la lesione del credito che costituisce la condizione per poter esperire questa azione;

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ottenere una prestazione che ha per oggetto somme di denaro, la consegna di un bene mobile, il rilascio di un immobile oppure una prestazione di fare o di non fare (quando il giudice vieta di compiere determinati atti).

La particolarità di quest’azione è data dagli effetti che la sentenza di condanna produce che si differenzia dalle altre in ragione di tre tipici effetti che ne derivano, di cui il più importante e che caratterizza questa tipologia di sentenze è l’idoneità ad essere un titolo esecutivo. Per il creditore può non essere sufficiente ottenere una sentenza di cognizione che affermi l’esistenza del diritto e dell’inadempimento e condanni la parte inadempiente a tenere una determinata prestazione, perché questo può non soddisfarlo pienamente in quanto può aver bisogno di ottenere la prestazione coattivamente. Questo giustifica perché il principale effetto della sentenza di condanna sia quella di essere una condizione necessaria e sufficiente per iniziare un processo di esecuzione forzata. Questo non è l’unico titolo esecutivo in quanto l’art. 474 c.p.c. prevede anche titoli extragiudiziali e anche nell’ambito dei titoli esecutivi giudiziali non tutti sono provvedimenti aventi forma di sentenza, come i provvedimenti sommari emessi con un decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo che può costituire l’inizio del processo di esecuzione forzata, però non c’è dubbio che, tra i titoli esecutivi, il più importante (per qualcuno è il principe dei titoli esecutivi) è rappresentato dalla sentenza di condanna. Quindi un aspetto importantissimo della sentenza di condanna è l’effetto esecutivo dato dalla possibilità per il creditore di iniziare l’esecuzione forzata per ottenere il soddisfacimento del proprio credito anche contro la volontà dell’obbligato e, a seguito della modifica dell’art. 282 c.p.c. del 19904, la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva, quindi non bisogna più aspettare il passaggio in giudicato della sentenza. La provvisoria esecutività della sentenza di condanna di 1° grado non è l’unico effetto, perché la sentenza di condanna costituisce, ai sensi dell’art. 2818, titolo per iscrivere l’ipoteca giudiziale: “Ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all'adempimento di altra obbligazione ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore.” Questo è un effetto estremamente importante perché il creditore ha la possibilità di ottenere un diritto reale di garanzia, l’iscrizione di ipoteca, che gli consentirà di essere soddisfatto al termine del processo di esecuzione forzata, con precedenza rispetto agli altri creditori. Le sentenze di condanna sono titoli idonei per iscrivere l’ipoteca giudiziale, non soltanto per il pagamento di una somma, ma anche per l’adempimento di altra obbligazione. Qualsiasi sentenza di condanna può costituire titolo per iscrivere ipoteca giudiziale, ma se non è una condanna al pagamento di somme può anche accadere che non sia determinata la somma per la quale iscrivere ipoteca giudiziale e in questo caso, l’art. 2838 dispone: “Se la somma di danaro non è altrimenti determinata negli atti in base ai quali è eseguita l'iscrizione o in atto successivo, essa è determinata dal creditore nella nota per l'iscrizione (con cui si chiede al conservatore del registro immobiliare di iscrivere l’ipoteca).” Quindi è lo stesso creditore che determina per quale somma iscrivere l’ipoteca giudiziale. Il debitore di fronte ad una iscrizione ipotecaria per una somma eccessiva può chiedere, a norma dell’art. 2872, la riduzione dell’ipoteca e in questo modo le due norme riequilibrano le posizioni del creditore e del debitore. Il creditore può determinare una somma, se questa non è prevista nella sentenza, ma se eccede il debitore può chiedere la riduzione dell’ipoteca giudiziale.

4 Il legislatore del 1990, a cui si deve la modifica dell’art. 282, ha stabilito che l’efficacia esecutiva si produca già con la sentenza di 1° grado, mentre prima del ‘90 la sentenza di condanna per essere dichiarata esecutiva occorreva l’istanza della parte e un provvedimento del giudice che, ricorrendo determinate condizioni, poteva dichiarare la sentenza esecutiva. Nel 1990 per dare più valore al giudizio di 1° grado che si temeva potesse essere un po’ sminuito se non ci fosse stata l’esecutività della sentenza e per evitare la proposizione di appelli con finalità dilatorie, cioè diretti soltanto a procrastinare il momento in cui la sentenza acquistava efficacia esecutiva al fine di rinviare l’esecuzione forzata.

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Il terzo effetto della sentenza di condanna è previsto dall’art. 2953 c.c. sulla conversione delle prescrizioni brevi in ordinarie relative alle sentenze di condanna passate in giudicato: “I diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di dieci anni.” La sentenza di condanna deve essere passata in giudicato ed ha anche l’effetto di convertire le prescrizioni brevi5 in decennali, per cui qualsiasi sia la prescrizione prevista dalla legge quel diritto può essere attuato nel termine prescrizionale di dieci anni. Questo significa che anche se il diritto si prescrive in un anno, una volta intervenuta la sentenza di condanna passata in giudicato il creditore ha sempre dieci anni, per cui vengono tutte livellate a dieci anni le prescrizioni brevi per iniziare il processo di esecuzione forzata. In sintesi i tre effetti tipici delle sentenze di condanna (tipici perché ricollegati a queste particolari tipologie di sentenza) sono l’idoneità ad essere titolo esecutivo, l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale e la conversione della prescrizione a 10 anni per effetto del passaggio in giudicato6. Sono sentenze che hanno per oggetto i diritti di credito, ma per la stretta correlazione tra condanna ed esecuzione forzata c’è chi ha ritenuto che non tutti i diritti di credito possano essere fatti valere attraverso questa azione, ma soltanto quelli che abbiano ad oggetto prestazioni fungibili. L’esecuzione forzata non è possibile quando oggetto del credito è una prestazione infungibile, per cui la tutela esecutiva incontra un limite fisiologico perché l’ufficiale giudiziario non può sostituirsi all’obbligato per svolgere l’attività che questi avrebbe dovuto svolgere, come una prestazione artistica o intellettuale, ma è necessaria la cooperazione dell’obbligato per realizzare il diritto di creditore. In queste ipotesi la sentenza di condanna non serve per iniziare l’esecuzione forzata, perché sono prestazioni non suscettibili di essere attuate coattivamente, cioè senza tener conto della volontà del creditore. In questo casi non ha senso per il creditore chiedere la condanna se non può produrre l’esecuzione forzata, per cui sarebbe ammissibile soltanto una sentenza per quei crediti che possono essere soddisfatti coattivamente, cioè che hanno ad oggetto prestazioni fungibili e dunque crediti che hanno ad oggetto pagamento di somme di danaro, la consegna di un bene mobile o il rilascio di un bene immobile. Il problema si pone per le obbligazioni di fare per le quali non sempre è possibile che si verifichi questa fungibilità, mentre per le obbligazioni di non fare è impossibile impedire ad un soggetto di compiere atti che la sentenza vieta di porre in essere, per cui quella è sempre un’obbligazione infungibile. Questa tesi, però, incontra uno ostacolo in tutte le norme che specificamente prevedono delle azioni di condanna che hanno ad oggetto prestazioni infungibili. Per esempio la condanna alla reintegra nel posto di lavoro, in quanto non è possibile in alcun modo sostituirsi al datore di lavoro che deve svolgere una serie di adempimenti per poter integrare il lavoratore nel posto di lavoro, eppure si prevede espressamente un’azione di condanna anche se l’oggetto di questa azione è una prestazione è infungibile. Tuttavia nella maggioranza dei casi queste norme non si limitano a prevedere l’azione di condanna ad un fare o non fare infungibile, ma stabiliscono anche le misure coercitive, ossia una forma di esecuzione indiretta di quel provvedimento. Quindi sono ipotesi sempre accompagnate dalla previsione di misure coercitive che garantiscono a colui che agisce una misura ulteriore, ad esempio stabilisce che se l’obbligato non lo fa deve pagare una determinata somma di danaro per ogni giorno di ritardo che può andare direttamente al creditore o ad un fondo e quindi avere carattere pubblico. Ad esempio l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori per la condanna alla reintegra del posto di lavoro di un lavoratore che svolge attività sindacale, prevede che per ogni giorno di ritardo nell’adempimento

5 Ad esempio il risarcimento del danno derivante da fatto illecito in cinque anni, in materia di spedizione e trasporto, in un anno, per i danni derivanti da incidenti stradali due anni, ecc. 6 Si tratta di una norma che deriva dal diritto romano dalla vecchia actio judicati (azione di cosa giudicata) che era un’azione diretta a trasformare le prescrizioni brevi in quelle più lunghe.

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di questa obbligazione, il datore di lavoro debba versare la retribuzione al fondo pensioni e non direttamente al lavoratore. È una misura aggiuntiva coercitiva che ha lo scopo di indurre il datore di lavoro ad adempiere, perché in questo modo risulta molto più conveniente adempiere, cioè integrare il lavoratore, che non pagare sia la retribuzione al lavoratore che questa forma supplementare al fondo pensioni. Quindi nei casi in cui il legislatore ammette la possibilità di agire in giudizio per ottenere la condanna a prestazioni infungibili, prevede anche una qualche forma di esecuzione indiretta. Tuttavia il creditore può essere comunque interessato a chiedere la condanna anche per una prestazione infungibile, per esempio l’art. 2818 dispone che la sentenza di condanna è titolo per iscrivere ipoteca giudiziale, con riferimento non soltanto alle obbligazioni avente per oggetto somme di danaro, ma qualsiasi altra obbligazione. Questo effetto non è possibile con una sentenza di accertamento, ma è necessaria una condanna per poter poi utilizzare l’art. 2818 e in questo caso si può iscrivere ipoteca giudiziale non solo in relazione alla somma che il creditore ritiene equivalente alla prestazione rimasta inadempiuta, ma anche alla somma minacciata come risarcimento del danno per l’inadempimento. Quindi l’art. 2818 può rappresentare una misura coercitiva generale, perché comunque il creditore potrà iscrivere ipoteca giudiziale non soltanto per l’equivalente monetario, ma anche per la somma che chiederà come risarcimento dei danni per il mancato adempimento, fermo restando che la tutela risarcitoria per questa obbligazione è sempre possibile. Il disegno di legge 1082 Alla mancanza di un sistema generale di misure coercitive sopperisce l’art. 614 bis introdotto dalla legge 69/2009 che, con riferimento alle obbligazioni che hanno per oggetto prestazioni di fare infungibili o di non fare, stabilisce: “Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza7.” Nel momento in cui il nostro ordinamento prevederà un sistema generale di esecuzione indiretta, come del resto è previsto in tutti gli altri ordinamenti europei, questo problema non si pone più, perché non ci saranno solo delle ipotesi particolari in cui il legislatore prevede le misure coercitive, ma questa è una misura coercitiva generale, dunque prevista per qualsiasi obbligazione che abbia per oggetto un fare infungibile o una prestazione di non fare. Con l’art. 614 bis c’è sempre l’interesse ad agire per chiedere la condanna, anche quando ha ad oggetto prestazioni di fare infungibili o di non fare e dunque l’argomento di coloro che sostengono il contrario è venuta meno per l’introduzione di questa misura coercitiva generale. In sintesi l’azione di condanna è ammissibile sempre, sia che abbia per oggetto prestazioni di fare fungibili o di non fare o anche prestazioni di fare infungibili. Le figure particolari di condanna - la condanna generica Tra le figure particolari di condanna vi è c.d. condanna generica, regolata dall’art. 278 c.p.c. primo comma: “Quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della prestazione dovuta il collegio, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione.” Per la condanna generica è necessaria l’istanza di parte nel corso del giudizio, deve essere stata già accertata l’esistenza di un diritto ed è una sentenza che non conclude il giudizio perché il processo prosegue per stabilire l’entità della prestazione. La sentenza di condanna generica è particolare perché si limita ad accertare l’esistenza di un diritto ad una determinata prestazione, senza determinare l’entità della prestazione e dal punto di vista del

7 La norma non si applica alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

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contenuto è più simile ad una sentenza dichiarativa che ad una sentenza di condanna, infatti diversamente da queste non costituisce titolo esecutivo. La sentenza di condanna generica non è un titolo esecutivo perché l’art 474 c.p.c. (la norma sul titolo esecutivo) stabilisce che l’esecuzione forzata in virtù di un titolo esecutivo può aver luogo solo per un diritto certo, liquido ed esigibile, pertanto non essendo un diritto determinato nel suo ammontare, non certo e neanche esigibile e quindi non è idonea a determinare un processo di esecuzione forzata, ma produce il secondo effetto delle sentenze di condanna: è titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. Infatti, sui provvedimenti da cui deriva l’ipoteca giudiziale, l’art 2818 c.c. dispone che ogni sentenza di condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore ed è il tipico caso della sentenza di condanna generica. Questo tipo di pronuncia viene usata soprattutto per il risarcimento dei danni, perché nel momento in cui viene accertata l’esistenza della responsabilità di una parte il giudice si pronuncia sull’esistenza del diritto e quindi della responsabilità con una sentenza che non può definire il giudizio, ma avverrà successivamente con la liquidazione del danno ex art. 2818, ma è importante ed utile al creditore perché può iscrivere l’ipoteca giudiziale che costituisce un diritto reale di garanzia che gli consente di potersi soddisfare prima rispetto agli altri creditori che non hanno diritti di prelazione. Ma le sentenze di condanna producono anche un terzo effetto: la conversione delle prescrizioni. L’art. 2953 c.c. fa generico riferimento alla sentenza di condanna dicendo che i diritti si prescrivono con il decorso di dieci anni, per cui non è chiaro se questa norma è applicabile o meno alla sentenza di condanna generica e sul punto non c’è univocità di opinioni. Per qualcuno questa norma non è applicabile per il mancato riferimento esplicito alla sentenza di condanna generica, mentre altri (tra cui la Reali) ritengono che il legislatore inquadra questa sentenza nell’ambito di quelle di condanna, perché appunto è una condanna generica, inoltre anche se l’art. 2953 non prevede espressamente la condanna generica, ma genericamente include anche questa perché l’unica condizione richiesta dall’art. 2953 per la conversione della prescrizione è il passaggio in giudicato della sentenza, per cui la condanna generica dovrebbe essere ammessa per la conversione della prescrizione. Vi è la possibilità che l’attore agisca in giudizio esclusivamente per chiedere la condanna generica ed un è ipotesi al di fuori di quella dell’art. 278 c.p.c. che presuppone una richiesta formulata in corso di causa, mentre qui l’attore agisce limitando la domanda di giustizia al solo provvedimento giurisdizionale. La giurisprudenza ammette la possibilità di agire autonomamente per la sola condanna generica, ma mentre all’attore gli consente di iscrivere l’ipoteca giudiziale, per cui vi può essere un interesse dell’attore a chiedere soltanto la condanna generica, il convenuto potrebbe essere costretto a subire per un tempo anche molto lungo, gli effetti di questa iscrizione ipotecaria e senza sapere che l’attore si riserva di agire per il quantum in un altro autonomo processo. Per questo la giurisprudenza, pur ammettendo la possibilità che venga proposta un’azione autonoma di condanna generica, prevede anche che il convenuto possa opporsi per chiedere che la pronuncia del giudice non si limiti ad accertare l’esistenza del diritto, ma si estenda anche alla determinazione del quantum, questo perché la domanda autonoma di condanna generica potrebbe dar luogo a delle conseguenze pregiudizievoli per il convenuto come quella di subire eventualmente due processi. Analoga questione si pone con riferimento al caso in cui l’attore agisce per chiedere la condanna completa (l’an ed il quantum debeatur) dopodiché, in corso di causa, anziché chiedere soltanto, come prevede l’art. 278, la condanna generica con una sentenza non definitiva, riduce la domanda cioè chiede al giudice di limitare la sua pronuncia solo alla condanna generica, ma con una sentenza definitiva e non anche alla determinazione del quantum su cui si riserva di agire in un autonomo processo.

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Anche in questo caso la giurisprudenza ammette questa riduzione a condizione che ci sia il consenso esplicito del convenuto per tutelare la sua condizione che potrebbe essere pregiudicata da un frazionamento del provvedimento. Diversa è la questione sulle conseguenze che ci possono essere qualora, una volta emessa la sentenza con cui viene accertato l’esistenza del diritto alla prestazione, la parte vittoriosa, il creditore, non riesce a provare il danno. Infatti è possibile che il giudice riconosca la responsabilità, il diritto, però la stessa sentenza definitiva giudica il danno inesistente perché non si è provato il nesso di causalità oppure non si è ricevuto nessun danno. Qui la sentenza definitiva toglie qualsiasi utilità pratica alla sentenza di condanna generica, perché riconoscere il diritto ad una prestazione pari a zero. Non si deve intendere la non definitività della sentenza generica come provvisorietà, perché poi contro quella sentenza non definitiva la parte soccombente può proporre appello. Qui la particolarità nasce dal fatto che essendo una pronuncia limitata all’esistenza del diritto, lascia poi al successivo svolgimento del processo la determinazione del quantum, per cui se poi il danno non viene dimostrato la sentenza di condanna generica è posta nel nulla. Le figure particolari di condanna - la condanna provvisionale L’altra figura di condanna prevista dall’art. 278 secondo comma è la condanna provvisionale. Sempre nello stesso caso in cui sia accertata la sussistenza del diritto, “in tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, può altresì condannare il debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova.” In questo caso i presupposti della condanna generica sono sempre l’istanza di parte e l’accertamento all’esistenza del diritto alla prestazione, a cui si aggiunge un ulteriore presupposto che è il raggiungimento della prova per una parte del credito che l’attore ha richiesto, nei limiti della quantità in cui il giudice ritiene già raggiunta la prova. In questo caso il giudice può emettere una sentenza, che non definisce il giudizio, ma che condanna al pagamento di una somma nei limiti in cui il debito è stata provato, mentre il processo prosegue per stabilire l’entità della restante parte della prestazione in cui la prova non è stata raggiunta. Per esempio nel risarcimento dei danni se da un determinato fatto illecito derivano danni patrimoniali e non patrimoniali quindi danni a cose e persone, dimostrare l’esistenza del danno patrimoniale può essere abbastanza agevole, certamente più semplice rispetto alla dimostrazione del danno alla persona e del danno morale. In questo caso, l’attore, se ritiene che ci siano i presupposti per chiedere questo provvedimento perché si è già raggiunta la prova del danno alle cose, ha interesse a chiedere al giudice una sentenza che si pronunci sull’esistenza del diritto e su una parte del danno e poi il processo proseguirà per dimostrare la restante parte che ancora non è stata provata. Da notare che la condanna provvisionale è una vera e propria sentenza di condanna a tutti gli effetti, perché determina l’ammontare della prestazione relativamente alla parte accertata ed è un titolo esecutivo per iscrivere l’ipoteca giudiziale e se passa in giudicato la prescrizione breve si converte in ordinaria (decennale). L’altra caratteristica è che non può mai essere posta nel nulla dalla sentenza definitiva perché qui c’è un danno quantificato e il giudice che poi definisce il processo non può più incidere sulla sentenza provvisionale perché è irrevocabile e può essere modificata solo attraverso le impugnazioni. Quindi il giudice di primo grado, nel momento in cui emette la sentenza di condanna provvisionale, non le può togliere utilità pratica perché questa è una sentenza a tutti gli effetti, anche se non definitiva perché non definisce il giudizio che prosegue per la parte non ancora provata. Le figure particolari di condanna - la condanna in futuro Un’altra figura particolare ed eccezionale è la c.d. condanna in futuro e l’eccezionalità sta nel fatto che non presuppone che ci sia stata la lesione del diritto. Il presupposto generale per agire in giudizio è l’inadempimento da cui nasce l’interesse a chiedere, invece nella condanna in futuro il presupposto è che non si sia ancora verifico l’inadempimento, e quindi che non ci sia stata ancora una lesione.

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È una figura eccezionale riconosciuta esclusivamente quando la legge la prevede e serve a consentire al creditore di avere un titolo non esecutivo che non può utilizzare subito, però nel momento in cui si verifica l’inadempimento il creditore potrà utilizzarlo per iniziare l’esecuzione forzata ed ottenere la realizzazione coattiva del credito. Non sono molte le figure di condanna in futuro, che è un procedimento sommario, e la più diffusa è il procedimento di convalida di sfratto (art. 657 c.p.c.) che prevede la possibilità che il locatore possa agire in giudizio per chiedere al giudice il rilascio dell’immobile, prima ancora della scadenza del contratto di locazione e quindi la convalida della c.d. licenza per finita locazione e l’ordinanza per il rilascio dell’immobile e se il conduttore non si oppone alla pronuncia di questo provvedimento, diventa esecutivo. Se il conduttore si oppone, per cui chiede il processo a cognizione piena, si andrà avanti per accertare il diritto al rilascio dell’immobile, invece, se il conduttore non compare oppure pur comparendo non si oppone, il giudice può convalidare la licenza per finita locazione emettendo un’ordinanza di condanna al rilascio che è provvisoriamente esecutiva e che il locatore potrà utilizzare il giorno dopo in cui, scaduto il contratto, il conduttore non rilasci l’immobile. È chiaro che il creditore agisce in via anticipata ha il vantaggio di avere in tasca un titolo che può esercitare una pressione psicologica sul conduttore che sa che se non rilascia l’immobile il locatore può agire già il giorno dopo, chiedendo l’esecuzione per il rilascio, ma ciò non significa anche che il conduttore non possa sollevare contestazioni; per esempio sulla scadenza del contratto o perché ci sia una tacita riconduzione, per cui il locatore non è completamente al riparo dalla possibilità che il conduttore si difenda in giudizio, perché potrebbero sorgere altre contestazioni, senza considerare che comunque se il conduttore poteva voler rilasciare spontaneamente l’immobile alla scadenza ed in questo caso il creditore ha iniziato un processo ed ha sopportato delle spese rivelatisi inutili. Tra le ipotesi dell’art. 657 c.p.c. in cui è possibile utilizzare questo procedimento sommario vi è quello di un contratto di locazione non ancora scaduto ed il locatore può agire in giudizio per chiedere al giudice la licenza per finita locazione, che in questo caso è un atto di citazione, che ha un duplice valore sia sostanziale (di disdetta del contratto di locazione) e sia processuale perché costituisce l’inizio del processo. Tanto è vero che se il locatore abbandona il processo di convalida di sfratto, comunque rimane fermo l’effetto sostanziale della disdetta che evita la riconduzione tacita del contratto di locazione. I procedimenti speciali sono tutti tipici e previsti per tutelare determinate situazioni, mentre nel processo ingiuntivo c’è il creditore in questo caso c’è il locatore che, attraverso questo procedimento sommario, consegue una più rapida realizzazione del suo diritto. Vi sono poi altre ipotesi per la condanna in futuro perché si riferiscono ad obbligazioni che hanno per oggetto prestazioni a carattere continuativo o prestazioni periodiche. L’inadempimento per una di queste prestazioni può, sempre nei casi previsti dalla legge, giustificare una domanda di condanna futura, quindi ad adempiere non soltanto alla prestazione che non è stata adempiuta, ma anche alle prestazioni future. Il procedimento di convalida di sfratto è un esempio di questo tipo di condanna volta allo sfratto per morosità, cioè per mancato pagamento dei canoni di locazione da parte del conduttore. L’art. 664 prevede che il locatore possa agire in giudizio per chiedere lo sfratto per morosità (anche qui vi è un provvedimento di condanna al rilascio, questa volta motivato, e che è anche una domanda di risoluzione motivata dal mancato pagamento del canone) e contestualmente, ex l’art. 664, domandare un separato decreto di ingiunzione per l’ammontare non solo dei canoni scaduti, per i quali la richiesta sarebbe giustificata, ma anche per quelli in scadenza (quindi condanna in futuro) fino all’esecuzione dello sfratto. La differenza con l’ipotesi precedente è che qui c’è un inadempimento, sia pure relativo al mancato pagamento dei canoni, che giustifica un provvedimento di condanna non solo al pagamento di quelli scaduti, ma anche quelli da scadere fino all’esecuzione dello sfratto. Un'altra ipotesi di questo tipo la si ritrova, per esempio nel codice civile, con riferimento all’assegno di mantenimento in caso di separazione dei coniugi. L’art. 156 c.c. sesto comma

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prevede che “in caso di inadempienza, su richiesta dell'avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all'obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto.” Le figure particolari di condanna - la condanna con riserva delle eccezioni L’ultima figura particolare di condanna ed ancora più ridotta a livello di applicabilità rispetto alla stessa condanna in futuro è la c.d. condanna con riserva delle eccezioni. È un provvedimento sommario di cognizione perché presuppone che il giudice prenda una decisione sulla base dei fatti affermati da una parte riservandosi in un secondo momento di decidere sulle eccezioni (sulla difesa) formulate dalla controparte. Quindi intanto emette un provvedimento di condanna sulla base di una cognizione sommaria perché limitata alla conoscenza dei fatti affermati solo da una parte e si riserva, una volta emesso questo provvedimento, di valutare se le difese del convenuto sono fondate oppure no. Siamo di fronte ad un caso eccezionale limitato alle ipotesi tipiche previste dalla legge e può essere reso anche in forma diversa dalla sentenza. La ratio di questo provvedimento è quella di dare una risposta rapida ad una parte quando le eccezioni formulate dalla controparte appaiono finalizzate a prendere tempo cioè, si vuole evitare l’abuso della cognizione che si potrebbe verificare quando, a fronte del buon diritto (fumus boni iuris) dell’attore, desunto sulla base di prove certe e scritte, il convenuto solleva una serie di eccezioni pretestuose, complicate e impensabili, allo scopo di differire la pronuncia della sentenza. Nelle ipotesi previste dalla legge a tutela di un diritto particolare il giudice può emettere un provvedimento di condanna, riservandosi di valutare in un secondo momento le eccezioni del convenuto, per cui la durata del processo viene a gravare su questo che non è riuscito a fornire una prova sicura come quella fornita dall’attore della fondatezza delle sue difese. Un esempio è dato dal procedimento di convalida di sfratto cui il conduttore (l’intimato) è comparso in udienza e si è opposto alla convalida di sfratto, per cui il processo continua a cognizione piena ed esauriente con tutte le garanzie di questo procedimento, però il conduttore potrebbe essersi opposto solo per prendere tempo ed impedire al locatore di ottenere l’immobile. In questo caso la condanna con riserva delle eccezioni stabilisce che, ex art. 665, “se l’intimato comparisce e oppone eccezioni non fondate su prova scritta (quindi che richiedono del tempo come l’ammissione di testimoni), il giudice su istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio con riserva delle eccezioni del convenuto.” Quindi intanto condanna il conduttore a rilasciare l’immobile e poi valuta se le eccezioni sono fondate e qualora lo siano l’ordinanza precedente sarà riformata da una sentenza, salvo determinare eventuali risarcimenti per i danni subiti. Allora sono chiaramente delle forme molto particolari di condanna che sostanzialmente consentono una rapida tutela a determinate categorie di soggetti, in presenza di presupposti e condizioni ben precise stabilite dalle norme delle leggi e del codice (tra cui l’art. 665 c.p.c. e l’art. 35 c.p.c. sull’eccezione di compensazione, ma questa con sentenza). LE NOME COSTITUZIONALI CHE SI OCCUPANO DEL PROCESSO E DEL GIUDICE

La prima disposizione costituzionale processuale è l’art. 24: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.”8 Un principio fondamentale che la Costituzione pone a tutela dei diritti e dei doveri di tutti e cioè di qualsiasi persona e non soltanto i cittadini. L’art. 24 viene collocato tra i diritti e le libertà fondamentali con lo scopo di impedire che è il legislatore ordinario, così come era accaduto durante il fascismo, potesse privare determinati diritti della tutela giurisdizionale che equivale sostanzialmente a non riconoscerlo, perché l’effettività

8 Il principio affermato nel primo comma già esisteva nello Statuto albertino, che era una Costituzione flessibile che in molti casi durante il periodo fascista ha portato a negare questo diritto ed a varare delle leggi che con riferimento a determinati diritti e controversie (spesso quelle in cui era parte la P.A.) toglievano alle parti il diritto di agire in giudizio per la tutela delle posizioni soggettive.

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della tutela è una componente essenziale dello stesso riconoscimento e non può essere scollegata dal riconoscimento del diritto. Per di più all’assemblea costituente non è bastato affermare questo principio in generale, ma lo ha voluto ribadire nella Costituzione proprio nei confronti della P.A. per la quale in passato erano sorte le situazioni di privilegio. Infatti l’art. 113 dispone: “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.” Un principio che ribadisce quello dell’art. 24 quando afferma che tutti possono agire per la tutela dei propri diritti. Emerge così che è possibile agire per chiedere la tutela dei propri diritti e non di quelli altrui: una norma che pone un ulteriore principio, specificato dal codice di procedura civile: la correlazione necessaria tra titolarità affermata di un diritto e il diritto di agire in giudizio. Il riconoscimento della possibilità di agire in giudizio per lo Stato corrisponde un dovere di predisporre di predisporre un’organizzazione giudiziaria e gli strumenti necessari per dare risposta a questa domanda di tutela. Nessuna legge potrà negare direttamente o indirettamente la possibilità di agire per la tutela di un diritto perché sarebbe palesemente illegittima alla luce dell’art. 24 Cost. In passato la legge prevedeva che in determinate controversie, dove in molti casi era parte la P.A., dovessero essere risolte attraverso l’arbitrato obbligatorio e la Corte costituzionale è intervenuta a più riprese dichiarando l’illegittimità di queste leggi in relazione all’art. 24 per affermare il principio per cui l’arbitrato è un modo alternativo di soluzione delle controversie fondato sulla volontà delle parti, ma non può essere imposto autoritativamente dalla legge, perché ciò corrisponderebbe a negare la tutela la possibilità di adire il giudice. La tutela giurisdizionale invece, l’art. 24 lo afferma chiaramente, è sempre possibile e tutti hanno diritto ad un giudice ed un processo dinanzi agli organi della giurisdizione statale. Può essere una scelta rivolgersi al privato, ma non si può per questo negare l’accesso alla tutela giurisdizionale come accadeva con le leggi che prevedevano forme di arbitrato obbligatorio. Lo stesso principio dell’alternatività tra ricorso e tutela giurisdizionale è stato enunciato dalla Corte costituzionale con riferimento ad altre leggi che subordinavano l’accesso alla tutela giurisdizione al previo esperimento di più ricorsi amministrativi e anche in questo caso la Consulta le ha dichiarate illegittime, perché rendono eccessivamente gravoso il ricorso alla tutela giurisdizionale essendo disposizioni che danno un ingiustificato privilegio alla P.A. e non corrispondevano ad un interesse generale apprezzabile.9 Però questo significa ammettere la possibilità che la giurisdizione possa essere subordinata all’assolvimento di oneri o allo svolgimento di determinate attività, se rispondono ad un interesse generale. Sostanzialmente è illegittima una legge che neghi il diritto all’accesso alla tutela giurisdizionale o lo renda eccessivamente difficoltoso a vantaggio di una parte in causa, ma questo non significa che ci possano essere ipotesi di giurisdizione condizionata che non sono incompatibili con l’art. 24, se hanno una giustificazione nell’interesse generale ed è un principio affermato dalla Corte costituzionale con riferimento agli artt. 410 – 410 bis e 412 del codice di procedura civile. Condizionata significa che la possibilità di andare dal giudice è subordinata all’assolvimento di un determinato onere o allo svolgimento di una determinata attività prevista dalla legge. Ad esempio nel 1998 sono state introdotte delle norme per le controversie di lavoro che prevedono che la causa

9 Per esempio con riferimento alle violazioni del codice della strada prima era necessario fare un ricorso al prefetto e dopodiché si poteva andare davanti al giudice, quindi la possibilità di andare davanti al giudice era prevista solo dopo aver esperito un ricorso al prefetto, con cui si chiedeva di accertare l’illegittimità della violazione. Oggi questa disposizione sarebbe censurata dalla Corte costituzionale, tanto è vero che la legge prevede che di fronte ad una violazione del codice della strada che si ritiene illegittima si può fare ricorso al prefetto oppure direttamente davanti al giudice di pace e quindi non più subordinato al ricorso al prefetto l’accesso alla tutela giurisdizionale perché è alternativa ed è scelta dalla parte.

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non possa essere iniziata, prima di aver esperito il tentativo preliminare obbligatorio di conciliazione che è condizione di procedibilità del ricorso. Si pose il problema di vedere se questo condizionamento fosse compatibile con il diritto di agire in giudizio e la Corte costituzionale (sent. 276/2000), chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità sugli artt. 410 – 410 bis e 412 che disciplinano il tentativo obbligatorio di conciliazione, ha dichiarato queste norme non in contrasto con l’art. 24 perché rispondono ad un interesse generale che è quello di evitare processi attraverso la strada preventiva della conciliazione. Questo strumento è deflattivo in quanto può evitare il processo e per la Corte costituzionale la ratio di questo condizionamento è l’interesse generale al buon funzionamento della giustizia per cui è inutile aggravare gli uffici giudiziari già oberati se vi è la possibilità di evitare un processo. Queste norme prevedono che se una volta formulata la richiesta il tentativo non venga espletato nei 60 giorni dalla richiesta, comunque si intende espletato e quindi la parte potrà adire il giudice. La Corte costituzionale afferma che al massimo queste norme comportano un differimento del diritto di azione di 60 giorni che, rispetto all’interesse generale, appare un termine ragionevole, anche perché riconoscere il diritto di azione non significa immediata ed è ben possibile differirla purché avvenga in un temine ragionevole10. Speculare al diritto di azione è il diritto di difesa enunciato nel secondo comma dell’art. 24: “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.”11 Il diritto ad avere un avvocato, cioè la c.d. difesa tecnica, fa parte del diritto di difesa, insieme, e più in generale, all’esercizio attivo del diritto, cioè la possibilità di far valere le proprie ragioni in qualsiasi grado del giudizio e davanti a qualsiasi magistratura. L’estrema sintesi del diritto alla difesa dell’art. 24 è nell’attuazione del contraddittorio e nell’ascolto della controparte12, ma solo dal 1999 l’art. 111 Cost. prevede espressamente il riconoscimento di questo principio. Per alcuni (tra cui la Reali) l’art. 24 non costituzionalizza questo principio perché il diritto di difesa spetta a tutti, mentre quello del contraddittorio è un modo di attuare la giurisdizione previsto dall’art. 111 ed è destinato al giudice che deve ascoltare le parti prima di decidere. Una conferma a questa tesi è la considerazione che il diritto di difesa spetta ad una parte nei confronti della controparte, anche per dare la possibilità di controdedurre rispetto alla tesi della controparte. Infatti una delle componenti più importanti della difesa è il diritto alla prova, senza il quale il diritto alla difesa sarebbe fortemente menomato, quindi deve sempre essere data la possibilità di controdedurre sull’affermazione dei fatti e delle prove fornite dalla controparte, ma anche nei confronti dei provvedimenti del giudice attraverso l’appello e le impugnazioni in generale. Quindi il diritto di impugnare i provvedimenti del giudice, in ogni stato e grado del processo, è una componente essenziale del diritto di difesa e ciò solleverebbe molte perplessità, sulle non poche disposizioni di legge che prevedono la non impugnabilità di alcuni provvedimenti del giudice che pur essendo decisori, cioè incidono sui diritti, sono revocabili o modificabili dal giudice che li ha emessi, ma non impugnabili, per cui limitano il diritto di difesa. La revoca o la modifica viene chiesta allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento, invece l’impugnazione porta ad un giudice diverso a cui si chiede un riesame sulla legittimità del provvedimento. Un esempio sono le ordinanze anticipatorie di condanna, provvedimenti sommari

10 “L'interesse generale sotto un duplice profilo: da un lato, evitando che l'aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell'apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento; dall'altro, favorendo la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quella conseguita attraverso il processo (sent. Corte cost. 276/2000).” 11 Anche qui non siamo di fronte ad una novità perché già previsti dagli artt. 71 e 72 dello Statuto albertino, ma è un principio che è stato fortemente menomato durante il periodo fascista e da qui la necessità di rimarcare l’inviolabilità del diritto di difesa in questo secondo comma dell’art. 24. 12 Quello che esisteva già dal diritto romano audiatur et altera pars (si ascolti anche l'altra parte).

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che possono essere emessi in corso di causa e che sono esecutivi (come l’ordinanza al pagamento di somme non contestate) che possono essere modificati o revocati, ma non possono essere impugnati. Lo stesso vale per quei provvedimenti non decisori come il provvedimento che ammette o meno il mezzo di prova che, col vecchio codice erano addirittura provvedimenti resi, se ci fosse stato contratto dalle parti, con sentenza appellabile. Oggi invece se un giudice dinega l’ammissione di una testimonianza non si può fare nulla, ma solo ricorrere in appello, ma intanto è stata negata la possibilità di difendersi. Il terzo comma dell’art. 24 garantisce il diritto di difesa ai non abbienti, però fino al 1973 la difesa di questi era affidata all’istituto del gratuito patrocinio regolato dal R.D. n. 3282 del 1923 che si rifaceva ad un precedente decreto del 1865, c.d. legge Cortese, sull’esempio del diritto francese13. Infatti il primo intervento in materia lo abbiamo con la riforma del processo del lavoro, la legge 573 del 1973, con la quale dal gratuito patrocinio si è passati al patrocinio a spese dello stato, sicché non è più un ufficio onorifico, ma gli avvocati vengono retribuiti dallo Stato. Inizialmente questo istituto era previsto nelle controversie di lavoro, poi è stato esteso nel 1983 nei procedimenti di adozione ed affidamento dei minori, nel 1990 nel processo penale e per le azioni civili di danno e di restituzione conseguenti a reati e solo nel 2001, con la legge 134, l’istituto del patrocinio a spese dello Stato è stato generalizzato a tutte le cause civili ed oggi trova la sua disciplina nel T.U. delle spese di giustizia D.P.R. 115 del 2002, modificato dal D.L. 92 del 2008. Una persona che non ha la possibilità economica non può iniziare il processo e questo costituisce una violazione dell’art. 24 che dispone che tutti devono poter agire, per cui non ci può essere una discriminazione di questo diritto solo per una questione di ordine economico. Pertanto è stata opportuna una legge che assicura anche ai non abbienti la possibilità di difendersi nel processo e ciò è stato fatto senza penalizzare il difensore che svolge un’attività ed è giusto che abbia l’onorario e di questo se ne fa carico lo Stato. Fondamentalmente la condizione per accedere al gratuito patrocinio è avere un reddito inferiore ad € 10.628,1614, ma ogni due anni questa soglia minima è adeguata agli indici ISTAT (art. 77 D.P.R. 115/2002). Se il gratuito patrocinio è richiesto dall’attore, un’altra condizione è che l’azione non deve essere infondata, per cui ci deve essere una valutazione preventiva sulla sua fondatezza. In via preventiva la domanda può essere formulata al Consiglio dell’ordine degli avvocati, ma anche direttamente al giudice in corso di causa e, a differenza che nel passato, è il beneficiario che sceglie il difensore, sia pure nell’ambito di un elenco che si trova presso i diversi Consigli dell’ordine di difensori iscritti appositamente per il patrocinio dei non abbienti. Nell’ipotesi in cui il giudice rigetti la domanda di gratuito patrocinio è possibile impugnare il decreto di rigetto davanti al Presidente del tribunale o della Corte d’appello e, in caso di ulteriore rigetto, è possibile proporre ricorso per Cassazione, ma è proponibile solo per violazione di legge. L’ultimo comma dell’art. 24 sancendo, la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari, si ritiene riguardi il processo penale (riparazione per ingiusta detenzione e così via), anche se un’applicazione nel civile di questo principio può essere costituito dalla legge sulla responsabilità civile dei magistrati (legge n. 117 del 1988). Altro principio costituzionale è quello previsto dal primo comma (l’unico che riguarda il processo civile) dell’art. 25 Cost.: “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.” Già l’art. 71 dello Statuto albertino prevedeva: “Niuno può essere distolto dai suoi Giudici naturali. Non potranno perciò essere creati Tribunali o Commissioni straordinarie.” Questi giudici 13 Il R.D. del 1923 è rimasto in vigore fino al 1973 prevedendo che il patrocinio dei poveri fosse un ufficio onorifico e gratuito e quindi gli avvocati, nominati da apposite commissioni, dovevano difendere gli indigenti e dovevano farlo obbligatoriamente e gratuitamente, né potevano ricusare l’incarico, salvo gravi motivi. Questo istituto del gratuito patrocinio non ha mai funzionato bene nella realtà applicativa ed è rimasto in vigore fino al 1973, ma di fatto non attuava questa garanzia costituzionale anche se è stato salvato dalla Corte costituzionale con la speranza che il Parlamento varasse una legge in grado di attuare questa garanzia costituzionale. 14 Decreto 20 gennaio 2009 - Adeguamento dei limiti di reddito per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato. (GU n. 72 del 27-3-2009 ).

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straordinari venivano costituiti ad hoc dopo che si fosse verificato il fatto e chiaramente non offrivano garanzie di terzietà o di imparzialità. Nel passaggio dall’art. 71 all’art. 25, primo comma, non c’è più il divieto, ma lo troviamo nell’art. 102 secondo comma della Costituzione: “Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali.” Da notare che nell’art. 25 non si dice solo giudice naturale, ma di giudice naturale precostituito per legge e dai lavori dell’assemblea costituente, una delle questioni più discusse all’interno dell’assemblea fu la formula da dare all’art. 25: se era preferibile riprodurre la vecchia formula dello Statuto albertino, cioè parlare di giudice naturale, o se fosse meglio discorrere di giudice precostituito per legge. Sembrò prevalere la seconda formula, ma nel testo definitivo dell’art. 25 troviamo entrambi quindi giudice naturale precostituito per legge, cioè è lo stesso concetto affermato due volte, perché il giudice naturale, come ha chiarito anche la Corte costituzionale, è il giudice precostituito per legge, ossia che può essere individuato in via preliminare prima che si verifichi il fatto sulla base di criteri oggettivi preventivamente stabiliti dalla legge. La ratio di questa duplicazione di concetti è quella di assicurare la terzietà e l’imparzialità del giudice per evitare ciò che accadde con il fascismo che, nonostante l’art. 71 dello Statuto albertino vietasse l’istituzione di giudici straordinari, furono introdotti una serie di tribunali speciali che non offrivano assolutamente una garanzia di terzietà e di imparzialità. Bisogna capire se la garanzia dell’art. 25 riguarda il giudice inteso come ufficio giudiziario o come persona fisica, cioè il giudice che poi materialmente andrà a trattare la causa. Perché se si riferisse anche al giudice persona fisica, qualche dubbio dell’attuazione della garanzia costituzionale dell’art. 25 potrebbe anche essere sollevato, perché il sistema per stabilire l’assegnazione delle cause tra i vari giudici dell’ufficio è costituito dalle c.d. tabelle, cioè un sistema tabellare15 approvato dal Consiglio superiore della magistratura e poi varate con un decreto del Ministro della giustizia, per cui manca già una condizione a cui fa riferimento l’art. 25, cioè la riserva di legge. Il problema è legato proprio a queste tabelle e alle modalità con cui si formano perché è lo stesso C.S.M. (Consiglio superiore della magistratura) che chiede ai presidenti delle corti d’appello di fare una proposta di tabella, avuto poi il parere favorevole del Consiglio giudiziario, vengono approvate dal C.S.M. e diventano efficaci col decreto del Ministro della giustizia. Tuttavia un margine di discrezionalità nella distribuzione delle cause tra i vari giudici rimane affidato al capo dell’ufficio giudiziario e sotto questo profilo se la garanzia del giudice naturale va riferita al giudice persona fisica, qualcosa non va nel sistema tabellare perché questa garanzia manca. A questa critica si è risposto che è impossibile applicare rigorosamente l’art. 25 con riferimento al giudice persona fisica, perché ci possono essere eventi imprevedibili che riguardano i magistrati e quindi non è possibile stabilire preventivamente il giudice che dovrà materialmente seguire e trattare una determinata controversia. Altri autori autorevoli affermavano che è opportuno lasciare al capo dell’ufficio un margine di discrezionalità al fine di gestire nel miglior modo possibile l’ufficio, in relazione alle esigenze. Per esempio se il presidente del tribunale o il capo dell’ufficio assegna una determinata causa a un giudice perché ritiene che sia il più capace. La Corte costituzionale sul punto non è stata molto chiara ed anche contraddittoria perché in alcuni casi afferma che la garanzia del giudice naturale va riferita alla persona fisica, in altri si riferisce al giudice ufficio, poi ci sono altre sentenze ancora in cui si limita a riconoscere che c’è incertezza sull’applicabilità di questa norma al giudice persona ed al giudice ufficio.

15 Gli artt. 7 bis e 7 ter della legge sull’ordinamento giudiziario disciplinano questo sistema che serve innanzitutto a ripartire i diversi uffici giudiziari, a stabilire la destinazione dei singoli magistrati alle sezioni, alle Corti di assise, l’assegnazione dei Presidenti, la designazione dei magistrati che hanno la direzione delle sezioni e poi, anche in base a queste tabelle, vengono assegnate le cause ai diversi giudici e vengono stabiliti anche i criteri di sostituzione dei giudici impediti, astenuti o fossero ricusati.

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La Corte costituzionale ha sostanzialmente avallato questo sistema tabellare e implicitamente potremmo dedurre che riconoscendo la garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, sia riferibile esclusivamente all’ufficio e non anche al giudice persona fisica. Il sistema tabellare si basa su criteri molto generali, per cui il margine di discrezionalità dei Presidenti dei tribunali e dei capi ufficio rimane e allora il rischio che questo tipo di sistema possa essere non propriamente compatibile con l’art. 25 esiste ed infatti molti costituzionalisti, come Pizzorusso, dubitano della legittimità di questo meccanismo. L’art. 111 Cost. invece riconosce la garanzia del giusto processo e inizialmente era composto solo da tre commi, in cui venivano riconosciute la garanzia della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (il primo comma di allora è diventato il sesto comma) “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati” e l’altra garanzia era rappresentata dal ricorso per Cassazione che riconosce che contro le sentenze, contro i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso per Cassazione per violazione di legge. “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione (art. 111 ottavo comma).” Nel 1999 però con la legge costituzionale n. 2, sulla scia di un dibattito che riguardava un contrasto tra il Parlamento a la Corte costituzionale sull’attuazione del contraddittorio nel processo penale, è stata varata questa legge costituzionale che ha aggiunto cinque commi all’art. 111, dei quali tre si riferiscono al processo penale, mentre i primi due si riferiscono al processo in generale e quindi anche al processo civile. “La giurisdizione e si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge (l’art. 111 primo comma).” Quindi per tutti i tipi di tutela dichiarativa, esecutiva e cautelare la Costituzione richiede che il processo sia giusto e regolato dalla legge. Per essere un processo giusto deve assicurare alcune garanzie minime a cominciare da quella di essere regolato dalla legge e rispettare le condizione imposte dal secondo comma dell’art. 111: il contraddittorio tra le parti, condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale ed avere una durata ragionevole. Al processo civile si riferiscono soltanto i primi due commi dell'art. 111 ed indicano le garanzie minime che il processo deve assicurare per essere considerato giusto tra cui la prima è la c.d. riserva di legge, cioè il processo deve essere regolato dalla legge. Questo significa che non può essere regolato da una fonte di rango inferiore alla legge o ad atti aventi forza di legge, però se interpretiamo in questo modo l'art. 111 novellato non dice nulla di nuovo rispetto a quanto si affermava sul processo prima del 1999, perché anche prima era pacifico che le norme sul processo dovessero essere contenute in una legge formale o in un atto avente forza di legge e lo si ricavava dall'art. 108 primo comma della Costituzione: “Le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge.” Secondo l'interpretazione della Reali, il legislatore ha voluto escludere che le caratteristiche fondamentali del processo possano essere lasciate alla discrezionalità del giudice, ossia che possano esservi spazi tanto ampi nei suoi poteri discrezionali da incidere nelle garanzie minime del giusto processo. L’art. 111 primo comma rende illegittime le norme che affidano al giudice poteri discrezionali troppo ampi che possono ledere le garanzie fondamentali del processo, come il diritto di difesa e il principio del contraddittorio che devono necessariamente essere regolate solo dalla legge. Questo non vuol dire che ogni singola fase o momento del processo deve essere regolato dalla legge, però le garanzie fondamentali o comunque quelle attività che incidono sulla decisione devono essere regolate dalla legge. Infatti quando l’art. 111 è entrato in vigore è stata messa in dubbio la legittimità di alcune norme del codice procedura l'art. 345 c.p.c. sul giudizio di appello e con riferimento alle nuove prove che le parti possono proporre le subordina al requisito della indispensabilità.

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Il diritto alla prova è essenziale per il diritto di difesa, potendo essere decisivo ai fini della decisione, per cui subordinarlo al requisito della indispensabilità può sollevare dubbi di legittimità costituzionale perché il legislatore, come è accaduto per il processo del lavoro nell'art. 437, non fissa dei criteri per determinare quando una prova è indispensabile. Quindi il giudizio di indispensabilità della prova è rimesso alla discrezionalità del giudice ed è una decisione che prende caso per caso, anche se questo incide sul diritto di difesa e per questo forse non propriamente in linea con l'art. 111 e il principio di legalità. La stessa cosa avviene con l'art. 421 che, con riferimento al processo del lavoro, prevede: “Il giudice può altresì disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile ...” Anche qui ci troviamo di fronte ad un potere discrezionale non ancorato ad alcun requisito. Certamente dove i poteri discrezionali possono incidere sulla decisione, e le prove incidono sull'accertamento dei fatti e quindi sull'accoglimento o meno della domanda, la discrezionalità và ancorata a delle regole, cioè il legislatore deve indicare in quali casi il giudice può disporre d'ufficio del mezzo di prova, quali sono i presupposti per l'esercizio di questo potere discrezionale, anche perché di regola nel processo sono le parti a dover dimostrare l'esistenza dei fatti nel processo e quand'è il giudice può intervenire disponendo d'ufficio un mezzo di prova, l'art. 421 è assolutamente generico sui presupposti di questo potere discrezionale e, se interpretiamo in senso garantistico il primo comma dell'art. 111 Cost., anche questa disposizione solleva delle perplessità. Sempre con riferimento a questa garanzia si è dubitato, per esempio, in dottrina la costituzionalità delle norme che disciplinano il procedimento in camera di consiglio (artt. 737 ss.) non tanto con riferimento alla volontaria giurisdizione, ma in relazione al procedimento per la tutela dei diritti. Il procedimento in camera di consiglio è estremamente rapido e non prevede il giudice istruttore e per dare tutela immediata a talune categorie di diritti che hanno risvolti pubblicistici e per questo il legislatore ha pensato di utilizzare questo procedimento. Rispetto a queste soluzioni una parte della dottrina ha avanzato delle perplessità, perché gli unici aspetti regolati dalla legge sono: � la forma dell'atto introduttivo deve essere con ricorso; � la fase istruttoria è limitata alle informazioni che il giudice può assumere (ultimo comma dell'art.

738); � è indicata la forma del provvedimento che conclude il procedimento (il decreto motivato), � è data un'impugnazione in senso ampio (il reclamo). Tutti gli altri passaggi del procedimento, compreso il contraddittorio, sono rimessi alla discrezionalità del giudice. L'altra garanzia minima di un processo giusto, ex art. art. 111, è l'attuazione del principio del contraddittorio tra le parti che non va confuso con il diritto di difesa. Il principio del contraddittorio consiste nel sentire le parti prima di decidere, per cui riguarda il giudice e quindi una modalità di attuazione della giurisdizione. Pertanto il giusto processo impone al giudice di non prendere decisioni senza aver sentito le parti, un principio che è stato al centro dell'attenzione della dottrina e della giurisprudenza. Per esempio si è sostenuto che c'era una violazione del principio del contraddittorio tutte le volte in cui il giudice pronunciava una sentenza sulla base di questioni rilevate d'ufficio dal giudice, ma non sottoposte al contraddittorio delle parti. Nel corso del processo le questioni previste dalla legge possono essere rilevate dal giudice d'ufficio. Nella realtà applicativa può accadere che il giudice decide la causa (quindi accoglie o rigetta la domanda) sulla base di una di queste questioni rilevate d'ufficio dal giudice, quando si riserva di decidere e questo determina che le parti si trovavano una sentenza fondata sull'accoglimento di una questione non conosciuta fino al momento della sentenza, si hanno così le c.d. sentenze a sorpresa o della terza via. Questa pratica per cui la sentenza a volte si decide sulla base di questioni rilevate d'ufficio, ma non sottoposte al contraddittorio delle parti è assolutamente in contrasto con il principio del

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contraddittorio, tanto è vero che la giurisprudenza della Cassazione, ribaltando un precedente consolidato indirizzo, ha dichiarato queste sentenze nulle per violazione di questo principio. Infatti prevede espressamente questo principio l'art. 101 del codice di procedura civile: “Il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa.” Quindi l’art. 101 riconosce il principio del contraddittorio nel processo civile ed è conforme al dettato della Costituzione. Il conditor legis (il legislatore) con la legge 69/2069 aggiunge un comma all’art. 101 c.p.c. “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione.” Sicché, oggi le sentenze c.d. a sorpresa sono diventate illegittime, in quanto il contraddittorio è affidato ad uno scambio di memorie scritte tra le parti. Altra questione che si pone per l'attuazione del principio del contraddittorio è relativa ai procedimenti nei quali il contraddittorio è differito o comunque eventuale, cioè i procedimenti sommari. Il procedimento più importante a contraddittorio differito nell'ambito della cognizione sommaria è il procedimento per ingiunzione: l'attore (il creditore) chiede al giudice di emettere un decreto sulla base dei fatti affermati e della prova scritta in senso ampio fornita dal creditore e il giudice decide sul ricorso per ingiunzione senza ascoltare il debitore (inaudita altera parte) e una volta emesso il decreto ingiuntivo il debitore se vuole contestarlo deve proporre opposizione, cioè iniziare un processo a cognizione piena ed esauriente. Quindi nella fase sommaria il procedimento per ingiunzione non prevede il contraddittorio e allo stesso modo è prevista la possibilità di provvedimenti cautelari senza la previa instaurazione del contraddittorio, ma per ragioni d'urgenza tali che, ex art. 669 sexies, la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del provvedimento cautelare. Se esiste il rischio che instaurando il contraddittorio alla fine si vada a frustare la pratica attuazione del provvedimento, il giudice può provvedere, inaudita altera parte, ma fermo restando che il provvedimento dato in forma di decreto dovrà essere confermato, modificato o revocato in un'udienza dove le parti compaiono e quindi emesso nel rispetto del principio del contraddittorio. Sulla legittimità dei procedimenti sommari a contraddittorio eventuale e differito non c'è motivo di dubitare, perché la dottrina prevalente è dell'avviso che l'attuazione del principio del contraddittorio non significa che le parti debbano esercitare poteri e facoltà loro conferiti nello stesso momento o nelle stesse forme, cioè attuare il principio del contraddittorio non significa contestualità della dialettica tra le parti, potendo essere esercitata in momenti o fasi diverse del procedimento, l’importante è che prima del provvedimento finale il contraddittorio venga attuato e questo avviene attraverso l'opposizione, tanto è vero che poi il provvedimento conclusivo, la sentenza, decide sull'esistenza o meno del credito ed è emessa dopo l’instaurazione del contraddittorio e questo rende costituzionalmente legittimi i procedimenti sommari. Altro principio a cui fa riferimento il capoverso dell'art. 111 Cost. è la parità delle armi: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità ... ”, sia pure tenendo conto della diversità della posizione processuale delle parti, dell'attore o del convenuto, non sarebbe legittima una norma che attribuisse solo ad una parte poteri e facoltà che incidono sulla decisione (principio della parità delle armi) e sotto questo aspetto l’art. 111 nell'ambito del processo si concilia con il principio di uguaglianza stabilito dall'art. 3 della Costituzione. Sempre il capoverso dell’art. 111 statuisce che il processo si deve svolgere “davanti a giudice terzo e imparziale” e la terzietà implica che il giudice non abbia un interesse nella causa e proprio a presidio di questa garanzia costituzionale già il nostro codice prevedeva due istituti molto importanti, l’astensione e la ricusazione, che mirano ad assicurare la terzietà e l'imparzialità del giudice prevedendo, per esempio, che debba astenersi quando è parente di una delle parti oppure quando ha un interesse diretto con riferimento all'oggetto della causa oppure è parte potenziale perché ha un diritto connesso con quello oggetto della lite o dipendente da quello oggetto della lite.

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Se vi è un collegamento che può riguardare una delle parti o l'oggetto della causa, per i motivi tassativamente previsti dall'art. 51 c.p.c. (i casi di astensione obbligatoria), il giudice deve astenersi e se non lo fa la parte ha il diritto di ricusarlo con le modalità dell'art. 52 e la ratio di queste norme è assicurare la terzietà del giudice, evitando che la causa possa essere decisa da un giudice sospetto (iudex suspectus). L'imparzialità, invece, si riferisce ad una posizione di equidistanza che il giudice deve assumere rispetto alle parti del giudizio. L'ultima garanzia del processo, imposta dall'art. 111, è la ragionevole durata per la quale la legge deve assicurare una risposta alla domanda di giustizia entro un tempo ragionevole, ma sotto questo aspetto siamo molto lontani dal realizzare un processo giusto perché la situazione è allarmante16. Finalizzata a ridurre i tempi del processo è la modifica apportata dalla legge 69/2009 all’art. 7 che ha raddoppiato la competenza per valore del giudice di pace, portandola dai 5 milioni delle vecchie lire a 5 mila euro, invece in materia di circolazione di veicoli e di natanti la sua competenza passa da 30 milioni di lire a 20 mila euro. La soluzione di aumentare la competenza del giudice di pace può essere sicuramente apprezzata essendo l'unico modo, a costo zero, per ridurre e ridistribuire meglio il carico di lavoro del sistema giudiziario17. Inoltre la legge 69/2009 ha dimezzato una serie di termini previsti per il compimento di determinati atti e più precisamente: � Il termine per riassumere il processo (quando si è verificata un'interruzione, una sospensione o

se il processo si è estinto) viene portato da 6 mesi a 3 (art. 50 c.p.c.). � Indipendentemente dalla notificazione, l'appello, il ricorso per Cassazione e la revocazione

ordinaria non si possono proporre dopo il decorso di sei mesi (prima era un anno) dalla pubblicazione della sentenza (art. 327 c.p.c.).

� Sono previste sanzioni per le parti che con il loro comportamento allungano i tempi del processo aumentando anche le spese per queste. Per esempio se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore alla eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta (art. 91 c.p.c.), per cui anche se l'attore vince la causa avendo rifiutato una proposta conciliativa migliore o pari rispetto a quella che poi è stata la decisione, il giudice può condannarlo alle spese e quindi significa che ha fatto una causa inutile.

� Per le impugnazioni davanti alla Corte di cassazione è stato aggiunto l'art. 360 bis (Inammissibilità del ricorso) per alleggerire il carico di lavoro del giudice supremo (arriva ad emanare anche 40 mila sentenze) introducendo un filtro ai ricorsi per Cassazione che diventano

16 Gli ultimi dati emersi nella relazione relativa all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2009, quindi sono dati riferiti al 2008: davanti al tribunale di I grado pendono in Italia 3.687.975 cause. Se raffrontiamo questo dato con gli altri paesi europei in Germania 544.751 cause, Spagna 781.754, Russia 480.000, segue la Francia con 1.165.192 cause che comunque è un terzo rispetto a quelle pendenti in Italia se a queste si aggiungono quelle davanti al giudice di pace e alle sezioni del lavoro si arriva 5.425.000 cause pendenti a giugno 2008. Per la Reali una responsabilità sulla lunghissima durata la dobbiamo anche attribuire al codice del 1940, ad esempio la figura del giudice istruttore è innegabile è stata una soluzione antieconomica perché anziché sveltire il processo lo rallentava, creando un grado all'interno del primo grado di giudizio: è assurdo andare dinanzi ad un giudice che può preparare e istruire la causa e prendere anche delle decisioni che poi possono essere sconfessate dal giudice della decisione, mentre è molto più rapido andare direttamente dinanzi al giudice della decisione. È innegabile che non poche soluzioni accolte dal legislatore del '40 hanno allungato la durata del processo civile, anche se sono aumentati i diritti e i processi. 17 Col vecchio codice, quando c'erano i conciliatori (i giudici onorari) gravava su di loro addirittura il 60% delle cause civili, perché la stragrande maggioranza delle cause è formata dal piccolo contenzioso e queste era egregiamente smaltito dai giudici conciliatori, mentre le cause più importanti andavano dinanzi al tribunale (giudice togato). Con il tempo i conciliatori hanno avuto una graduale riduzione delle cause, perché il legislatore non ha mai adeguato la competenza per valore di questi giudici alla svalutazione monetaria (fino alla riforma del '90 i conciliatori erano competenti per le cause di un valore non superiore a un milione di lire che oggettivamente era poco) e la conseguenza è stata che il lavoro dei conciliatori è diminuito molto, mentre all’opposto è aumentato in maniera esponenziale quello del pretore, quando c'era, e soprattutto del Tribunale i quali non riuscirono più a smaltire l'arretrato. Oggi tutto il contenzioso grava sul Tribunale e allora la soluzione di ampliare la competenza del giudice di pace va accolta positivamente in relazione all'esigenza di accelerare i tempi per assicurare la ragionevole durata del processo.

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ammissibili solo quando: 1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa; 2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo. Nel 2009 la tipizzazione dei motivi di inammissibilità del ricorso ha portato all’abrogazione dell’art. 366 bis (introdotto nel 2006), sulla generica formulazione dei motivi di ricorso a pena di inammissibilità, perché assorbito dall’art. 360 bis.

� È introdotto un’apposita sezione di verifica (un supercollegio) sull’ammissibilità del ricorso (380 bis c.p.c. riscritto nel 2009).

� È introdotto il procedimento sommario di cognizione, inserendo il capo III bis - artt. 702 bis, ter e quater, che hanno lo scopo di definire in modo più rapido le controversie che appartengono alla competenza del tribunale monocratico, per le quali l'istruttoria può svolgersi in modo semplificato.

� È introdotto il calendario del processo all'art. 81 bis nelle disposizioni di attuazione “Il giudice, quando provvede sulle richieste istruttorie, sentite le parti e tenuto conto della natura, dell'urgenza e della complessità della causa, fissa il calendario del processo con l'indicazione delle udienze successive e degli incombenti che verranno espletati. I termini fissati nel calendario possono essere prorogati, anche d'ufficio, quando sussistono gravi motivi sopravvenuti. La proroga deve essere richiesta dalle parti prima della scadenza dei termini.”

� È introdotta la testimonianza scritta, ex art. 257 bis, e nelle disposizioni di attuazione è introdotto l’art. 103 bis che dispone che deve essere resa su di un modulo conforme al modello approvato con decreto del Ministro della giustizia.

Per andare nella direzione dello stare decisis nel 2006 si è previsto che le sezioni semplici non possano più discostarsi dal principio di diritto enunciato dalle S.U. se non chiedendo nuovamente con ordinanza motivata alle S.U. di pronunciarsi. Il principio della ragionevole durata era già previsto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (art. 6) e il nostro paese, a causa dell'eccessiva durata dei processi, ha il maggior numero di condanne della Corte di giustizia di Strasburgo, tanto che nel 2001 la c.d. legge Pinto (89/2001) ha previsto un rimedio interno per evitare di ricorrere alla Corte. I ricorsi italiani che giungevano alla Corte di giustizia erano tantissimi e per di più fondati nella stragrande maggioranza dei casi, considerando che la Corte affermava che la durata del processo fosse irragionevole, non perché fossero le parti ad avere comportamenti dilatori in quanto quei tempi vengono sottratti nel calcolo per determinare la durata del processo e quindi solo per le disfunzioni dello Stato nel gestire questo servizio. Il numero di ricorsi era talmente elevato che la stessa Corte di giustizia iniziò ad andare in arretrato per il numero dei ricorsi italiani, tanto è vero che addirittura questi ricorsi venivano delibati sommariamente dalla Corte di giustizia per deciderli rapidamente. Dal 2001 chi vuol far valere il diritto all'equa riparazione per la durata irragionevole del processo deve prima proporre una domanda alla corte d'appello competente per territorio che, in questo caso, decide in primo grado, dopodiché la parte che si ritiene non soddisfatta potrà poi sempre adire la Corte di giustizia, ma in questo modo si è creato un filtro che limita il numero dei ricorsi italiani alla Corte di Giustizia, anche se poi sono stati aumentati a dismisura i ricorsi dinanzi alla corte d'appello che si è trovata a sua volta ingolfata. I primi due commi fissano la garanzia del giusto processo, ma prima del 1999 l’art. 111 Cost. già prevedeva alcune garanzie fondamentali e in particolare quello che è diventato il VI comma, prima era il I comma) stabilisce la garanzia della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali: “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.” È una garanzia molto importante perché la motivazione assicura un controllo dall'esterno dell'operato del giudice e in particolare dell'iter logico-giuridico seguito per decidere la controversia, nell'accogliere o meno una domanda. Inoltre è una garanzia di trasparenza sull'operato della magistratura, ma soprattutto interessa alla parte essendo l'unico modo per impugnare la

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sentenza qualora si ritenga la decisione non congrua o non sufficientemente motivata. Impedendo al giudice di sconfinare in quell'arbitrio che altrimenti potrebbe fare in modo incontrollato tutto quello che vuole. Gli ultimi due commi dell'art. 111 si riferiscono al ricorso per Cassazione: “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla liberta personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norme soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.” Questa norma costituzionalizza il ricorso per Cassazione e quindi una legge che lo sopprimesse sarebbe illegittima. Il ricorso in Cassazione, ex art. 111, è ammesso contro tutte le sentenze solo per violazione di legge ed è detto straordinario per distinguerlo da quello ordinario previsto dall'art. 360 c.p.c. Importante è stata l'opera svolta su questa norma prima dalla Corte di cassazione e poi dalla Corte costituzionale sul significato da attribuire alla sentenza, perché la Costituzione veniva dopo il periodo fascista e quindi c'era una certa sfiducia nei confronti del potere politico e allora la preoccupazione era che se fosse stata data a questa norma un’interpretazione letterale, ossia che il ricorso per Cassazione è ammissibile contro tutti i provvedimenti aventi forma di sentenza, non sarebbe stato difficile al legislatore ordinario aggirare la garanzia costituzionale, prevedendo che determinati provvedimenti fossero resi non in forma di sentenza, pur avendone il contenuto ed essendo dei provvedimenti decisori, ma con ordinanza o con decreto. Onde evitare questo rischio la giurisprudenza della Cassazione affermò che il termine sentenza, cui fa riferimento l'art. 111 della Costituzione, non deve essere inteso come sentenza in senso formale, ma sostanziale per cui il ricorso straordinario per Cassazione è ammissibile contro qualsiasi provvedimento decisorio e definitivo, a prescindere dalla forma. Sostanzialmente non dobbiamo guardare alla forma del provvedimento, che può essere quella di sentenza, di ordinanza oppure di decreto, ma al contenuto e alla immutabilità degli effetti che produce, cioè l'attitudine al giudicato sostanziale. Se il provvedimento è decisorio, cioè incide sui diritti, rapporti o status, ed è definitivo cioè contro di esso non è esperibile alcuna impugnazione, poco importa che abbia forma di sentenza, ordinanza o decreto quel provvedimento è ricorribile in Cassazione ai sensi dell'art. 111. Quindi la garanzia costituzionale è stata estesa a tutti i provvedimenti decisori e definitivi e questo ha consentito nella realtà applicativa l'impugnabilità di provvedimenti incidenti pesantemente sui diritti e sui rapporti giuridici sostanziali tra privati, anche se il legislatore li dichiarava espressamente non impugnabili. Oltre a questa interpretazione estensiva del termine sentenza, alla motivazione del ricorso straordinario, che l'art. 111 individua nella violazione di legge, è stata data un’interpretazione garantistica della norma costituzionale, in quanto si è detto che la violazione di legge non è soltanto quella della legge sostanziale, ma anche processuale per cui si è esteso il ricorso straordinario anche violazioni di norme processuali che incidono sulle garanzie fondamentali delle parti e che comunque comporti nullità del procedimento e della sentenza. Infine l'ultimo comma dell’art. 111 stabilisce: “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. La Corte di cassazione è anche il supremo giudice regolatore delle giurisdizioni in quanto contro le decisioni di questi giudici speciali, per motivi attinenti alla giurisdizione, è costituzionalmente garantito il ricorso in Cassazione. Oltre alle garanzie inerenti il processo, la Costituzione dedica il titolo IV alla Magistratura (la sezione I all'ordinamento giurisdizionale e la sezione II alle norme sulla giurisdizione) dove l'art. 101 “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.” Questa norma assicurare l'indipendenza dei giudici da altri poteri proprio perché sono soggetti soltanto alla legge e non ad altri poteri dello Stato, ma questo costituisce anche un limite all'operato del giudice essendo legittimato solo ad applicare la legge.

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L'art. 102: “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali.” Questa norma è molto importante innanzitutto perché afferma che la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario, sicché per esclusione (o in negativo) i giudici speciali sono quelli che non sono istituiti e regolati dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Attraverso il primo comma dell'art. 102 si è cercato di attuare il principio dell’unità della funzione giurisdizione esercitata dai giudici ordinari. Questo principio fu molto dibattuto dall'Assemblea costituente, perché c'era chi voleva un'attuazione piena di questo principio che comporta la soppressione di tutti i giudici speciali, tanto da proporre di trasformare i giudici speciali in sezioni specializzate, ma la proposta non passò e quindi l'unità della giurisdizione non è stata attuata pienamente, ma in modo tendenziale perché sono stati conservati giudici speciali preesistenti alla Costituzione. Quindi fermo restando il divieto del II comma dell'art. 102 di istituire nuovi giudici speciali o giudici straordinari18, però la Costituzione non ha impedito la sopravvivenza di quelli già esistenti. Alcuni di questi giudici, peraltro, sono costituzionalizzati dall'art. 103: il Consiglio di Stato (il giudice amministrativo supremo) e la Corte dei Conti. Altri invece sono rimasti perché la VI disposizione transitoria della Costituzione prevede: “Entro 5 anni dall'entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dei Tribunali militari.” Quindi è una norma finalizzata a consentire ai giudici speciali di continuare ad operare a condizione che si procedesse alla loro revisione; oltretutto per molti di questi giudici non è stata mai attuata o comunque è avvenuto dopo molti anni dall'entrata in vigore della Costituzione e ciò nonostante la Corte costituzionale non è intervenuta per dichiararli illegittimi. Quindi da un lato si è vietata l'istituzione di nuovi giudici speciali, dall'altro si è affidato quelle che erano le funzioni svolte da questi giudici alle sezioni specializzate: “… Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura … (art. 102 Cost.)” Le sezioni specializzate non sono giudici speciali, ma organi degli uffici giurisdizionali ordinari, tanto è vero che sono istituite presso il tribunale ordinario e la corte d'appello e si differenziano nella composizione, perché delle sezioni specializzate fanno parte 5 componenti di cui tre giudici e due esperti c.d. laici. La funzione delle sezioni specializzate è rendere più efficiente l'esercizio dell'attività giurisdizionale, assicurando la collaborazione di esperti, quando è richiesto dalla specificità della controversia. Perciò se c'è una controversia su una specifica materia per la quale si rende necessaria la partecipazione di esperti con specifiche competenze estranei alla magistratura è possibile l'istituzione di sezioni specializzate, che però fanno parte degli organi giurisdizionali ordinari. I giudici speciali si differenziano dai giudici ordinari perché non sono previsti e istituiti dalle norme sull'ordinamento giudiziario, ma anche perché le garanzie di autonomia ed indipendenza sono assicurate direttamente dalla Costituzione. Infatti ex 104 “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” in quanto il Consiglio superiore della magistratura è l’organo di autogoverno dei giudici al quale sono attribuite funzioni molto importanti per assicurare l'autonomia e l'indipendenza dei giudici, infatti: “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (art. 105 Cost.).” Tutte attribuzioni che se affidate, come accadeva prima della Costituzione, al potere politico (il Ministro della giustizia) potevano risolversi in elementi di pressione sui magistrati e quindi avrebbero vanificato o frustrato la loro autonomia e di qui l'affidamento ad un organo di rilevanza costituzionale qual è il C.S.M. 18 I giudici straordinari vengono istituiti dopo che sia sorta la controversia, cioè ad hoc, e quindi illegittimi perché in contrasto con l'art. 25 col giudice naturale precostituito per legge.

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“Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli (art. 106 Cost.) …” L'art. 107 Cost. assicura l'inamovibilità dei magistrati che si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni e quindi è esclusa qualsiasi subordinazione gerarchica all'interno della magistratura. Le garanzie di autonomia e di indipendenza dei giudici ordinari si ritrovano direttamente nella Costituzione, invece per i giudici speciali queste garanzie sono previste non dalla Costituzione, ma da una legge ordinaria, infatti il secondo comma dell'art. 108 della Costituzione dispone: “La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia.” Quindi comunque c'è una garanzia di indipendenza di questi giudici. Bisogna distinguere fra giurisdizioni speciali previste nella Costituzione e giurisdizioni speciali preesistenti alla Costituzione che sono sopravvissute. La Costituzione all’art. 103 dispone: “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.” Quest’ultima è la c.d. giurisdizione esclusiva perché esclude quella del giudice ordinario. L'art. 103 costituzionalizza il Consiglio di Stato e gli altri organi della giustizia amministrativa, rinviando all'art. 125 della Costituzione che istituisce in tutte le regioni organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l'ordinamento stabilito dalla legge della Repubblica e anche in sezioni dislocate in sedi diverse dal capoluogo di regione. Quindi in attuazione dell’art. 125, con la legge 1034 del 1971 sono stati istituiti i Tribunali Amministrativi Regionali (TAR) per cui la giustizia amministrativa oggi è organizzata in due gradi di giudizio: il primo dinanzi al TAR e il secondo dinanzi al Consiglio di Stato che ha sede a Roma ed è costituzionalmente riconosciuto. Altro giudice speciale costituzionalmente previsto è la Corte dei Conti: “La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge (art. 103 secondo comma).” Tra le funzioni giurisdizionali della Corte dei Conti (suddivisa in sezioni regionali) pensiamo alla materia delle pensioni civili e militari, le controversie relative a rapporti con lo stesso personale della Corte, ma soprattutto nei giudizi relativi alla responsabilità degli amministratori degli enti pubblici. Ma è importante tenere presente che la Corte dei Conti ha un sindacato esclusivo su queste materie, ogniqualvolta venga in rilievo una materia attinente alla contabilità pubblica la giurisdizione appartiene alla Corte dei Conti, anche se riguarda i diritti soggettivi. Grazie alla VI disposizione transitoria della Costituzione sono sopravvissuti anche altri giudici speciali, mentre molti sono stati soppressi per l’intervento della Consulta che ha dichiarato l'illegittimità di norme che prevedevano talune categorie di giudici speciali, mentre altri sono stati ritenuti compatibili con la Costituzione, benché non revisionati ai sensi della VI disposizione transitoria. Per esempio le commissioni tributarie sono giudici speciali competenti nelle controversie in cui è parte l'amministrazione finanziaria o un ente impositore in materia di imposte, tasse e tributi oppure il Tribunale superiore delle acque pubbliche di Roma è giudice speciale perché si occupa di tutte le controversie in materia di demanialità delle acque o di opere pubbliche legate alle acque pubbliche. Poi ci sono anche alcuni giudici speciali poco conosciuti tra cui la Commissione regionale per la liquidazione degli usi civici che risale al 1927 o il Consiglio nazionale forense per gli iscritti all'albo le cui decisioni possono irrogare sanzioni disciplinari nei confronti degli avvocati, ma sono ricorribili in Cassazione. Infine un'altra giurisdizione speciale è quella c.d. domestica delle Camere che ha giurisdizione sui ricorsi del personale addetto al Parlamento. Sulla giurisdizione ordinaria la legge sull'ordinamento giudiziario, il regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 e successive modificazioni, all'art. 1 stabilisce che la giustizia, nelle materie civili e penali, é

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amministrata: dal giudice di pace, dal tribunale ordinario, dalla corte d'appello, dalla Corte di cassazione, dal tribunale per i minorenni e con riferimento al penale dal magistrato di sorveglianza e dal tribunale di sorveglianza. l giudice di pace è un giudice di primo grado onorario, cioè significa non togato (non di carriera) istituito con la legge 21 novembre 1991 n. 374 perché prima c'era il conciliatore fortissimamente voluto dal ministro di Grazia e giustizia Giuseppe Pisanelli con la legge 2626 del 1865, legge sull'ordinamento giudiziario, ed era un giudice esistente nel Regno delle Due Sicilie che Pisanelli volle estendere a tutto il territorio nazionale19. Nel 1991, data l'istituzione del giudice di pace, esistevano 16 mila conciliatori che avevano ormai un ruolo marginale essendo rimasta ferma ad un milione di lire la loro competenza per valore avevano sempre meno cause. I 16 mila conciliatori nel 1991 sono stati sostituiti da 4700 giudici di pace dopo un dibattito molto ampio dottrinale e politico, in quanto garantiscono una maggiore professionalità assicurata anche dal fatto che diversamente dal conciliatore l'ufficio del giudice di pace non è né gratuito, né onorifico essendo retribuiti a cottimo20. Il giudice di pace ha gli stessi doveri di tutti i magistrati e risponde del suo operato al Consiglio superiore della magistratura, ma non è l'unico giudice onorario di primo grado, essendo nel 1998 stati introdotti i giudici onorari di tribunale (GOT) e i vice procuratori onorari (VPO) dal d.lgs. 19 febbraio 1998 n. 51 che ha novellato gli artt. 42 ter e seguenti il r.d. 12/41. I GOT affiancano i giudici ordinari, vengono nominati con decreto del Ministro della giustizia, adottato su conforme deliberazione del Consiglio superiore della magistratura e parere favorevole dei consigli giudiziali. Ai sensi dell’art. 43 bis del r.d. 12/41 - funzioni dei giudici ordinari ed onorari addetti al tribunale ordinario - i giudici ordinari ed onorari svolgono presso il tribunale ordinario il lavoro giudiziario assegnato dal presidente del tribunale o, se il tribunale è costituito in sezioni, dal presidente o altro magistrato che dirige la sezione. I giudici onorari di tribunale non possono tenere udienza se non nei casi di impedimento o di mancanza dei giudici ordinari e tuttavia nell'assegnazione delle cause a questi giudici speciali si privilegia il criterio di non affidare loro i procedimenti cautelari e possessori (lo stesso avviene per i giudici di pace), fatta eccezione per le domande proposte nel corso di causa o nel giudizio petitorio. Un'altra figura, ma in via di estinzione sono i giudici onorari aggregati (GOA) introdotti dopo l'entrata in vigore della riforma del 199021 per smaltire i giudizi pendenti al 30 aprile 1995, data di entrata in vigore della riforma, che dovevano essere trattati con il rito anteriore a quello riformato nel '90 e quindi la loro funzione era quella di smaltire le cause arretrate. L’introduzione dei GOA, per quanto solo temporanea, sollevò molte polemiche perché tutte queste cause civili da appartenere al tribunale dei giudici togati furono poi affidate ad un giudice onorario e questo è sostanzialmente in contrasto con il principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, ma l'esigenza di smaltimento di queste cause prevalse, anche se dalla loro istituzione l’ultima proroga alla loro esistenza è del 2009. Prima del d.lgs. 51 del 1998 la giustizia era amministrata anche da un altro giudice: il pretore.

19 Il giudice conciliatore era presente in ogni comune, era un ufficio gratuito e onorario e poteva essere svolto da chi avesse compiuto i 25 anni d'età e fosse iscritto nelle liste elettorali. Questo ufficio era molto utile ai giovani avvocati per farsi conoscere e per ottenere dopo il mandato degli impieghi pubblici. Quindi i Conciliatori ci tenevano molto a svolgere le loro funzioni, perché era un modo per avere ulteriori risvolti positivi per la carriera di avvocato o eventualmente per gli impieghi pubblici. Duravano in carica 3 anni e le loro funzioni erano sia conciliative che contenziose, si andava davanti a questo giudice innanzitutto per tentare di conciliare la lite e se questo non fosse possibile, aveva anche una funzione contenziosa per il cd. piccolo contenzioso. 20 Per ogni sentenza hanno una certa indennità e più sentenze fanno più sono retribuiti. 21 Con la legge 22 luglio 1997 n. 276 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 19 agosto 1997 n. 192), recante "Disposizioni per la definizione del contenzioso civile pendente: nomina di giudici onorari aggregati e istituzione delle sezioni stralcio nei tribunali ordinari" (chiamata riforma del ’90).

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Con la soppressione delle preture, la giustizia di primo grado viene amministrata dai giudici di pace e dal tribunale ordinario che estende la sua competenza ad un territorio denominato circondario. La sede centrale del tribunale si trova nel capoluogo di provincia però, il d.lgs 51 del 1998 avendo soppresso un giudice monocratico storico per la nostra tradizione, il pretore, ha previsto sezioni distaccate di tribunale che sostanzialmente sostituiscono la figura del pretore Tuttavia queste sezioni distaccate fanno parte sempre dello stesso ufficio di tribunale, tanto è vero che la questione relativa alla suddivisione delle cause tra sede centrale e sezioni distaccate riguarda solo una ripartizione interna delle cause all'interno di un unico ufficio di tribunale, cioè i rapporti interni tra tribunale centrale e sezioni distaccate non attengono alla competenza del giudice, ma riguarda solo una suddivisione tra sezioni interne di uno stesso tribunale. Il Tribunale viene diretto da un presidente che dirige l'ufficio e nei tribunali costituiti da più sezioni distribuisce il lavoro tra le sezioni, salvi i compiti del presidente di sezione, ed esercita le altre funzioni che gli sono attribuite dalla legge e, laddove sono costituite, ogni sezione ha anche un suo presidente. Quindi il presidente del tribunale non soltanto ha funzioni giurisdizionali, ma svolge anche funzioni amministrative di direzione dell'ufficio, di controllo e di distribuzione del lavoro fra le sezioni. Il tribunale può essere collegiale o monocratico, però il tribunale collegiale si trova soltanto nella sede principale, mentre nelle sedi distaccate vi è sempre un giudice monocratico, invece le cause di lavoro devono essere decise, sia pur monocraticamente, nella sede centrale. Il tribunale è giudice di primo grado, ma è anche d'appello avverso le sentenze del giudice di pace, che vengono decise in composizione monocratica. L'art. 53 dell'ordinamento giudiziario in relazione alla corte d'appello dispone che esercita la giurisdizione nelle cause di appello delle sentenze pronunciate in primo grado dai tribunali in materia civile e penale. Quindi la corte d'appello è giudice di secondo grado, ma può esercitare la giurisdizione anche in primo e unico grado nei casi previsti dalla legge, ad esempio per le richieste di risarcimento per il lungo processo per la c.d. legge Pinto. L'ambito territoriale delle corti d'appello è più ampio rispetto a quello dei tribunali perché solitamente si estende alla regione, anche se poi ve ne sono alcune che hanno più di una corte d'appello (tra cui la Puglia a Bari e a Lecce che ha anche una sezione distaccata a Taranto). La corte d'appello (i magistrati sono denominati consiglieri) può essere suddivisa in sezioni, con un presidente per ognuna di esse ed un altro per la sede centrale. L'art. 1 del r.d. 12/41 fa riferimento anche ad altri organi giurisdizionali ordinarie quali sezioni specializzate sia del tribunale che della corte d'appello tra cui il tribunale per i minorenni (sezione specializzata istituita presso le corti d'appello) e il tribunale regionale per le acque pubbliche. In quest’ultimo caso vi è una peculiarità perché abbiamo un giudice ordinario, che è il tribunale regionale per le acque pubbliche, ed un giudice speciale, che è il tribunale superiore delle acque pubbliche di Roma, che decide sugli appelli contro le decisioni dei tribunali regionali che sono una sezione specializzata del giudice ordinario. Infine ci sono le sezioni specializzate di ultima introduzione che è quella per le proprietà intellettuali e industriali istituita con il decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168. Il terzo e ultimo grado di giudizio è dato dalla Corte suprema di cassazione che ha sede a Roma e a cui l'art. 65 dell’ordinamento giudiziario, quale organo supremo della giustizia, attribuisce la funzione di assicurare “l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge (la c.d. funzione nomofilattica), l'unità dal diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge” ed ha giurisdizione su tutto il territorio dello Stato22.

22 Fino al 1923 in Italia esistevano cinque corti di cassazione distribuite sul territorio: Torino, Firenze, Napoli, Palermo e Roma dove c'erano soltanto le sezioni unite della Cassazione. In relazione all'esigenza di assicurare una maggiore uniformità nell'interpretazione, difficile da realizzare con la presenza di cassazioni regionali, nel 1923 queste furono soppresse e istituita un unica Cassazione a Roma.

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La Cassazione decide a sezioni semplici o a sezioni unite per particolari materie previste espressamente dalla legge ed è solitamente il giudice di legittimità. La Corte di cassazione, diversamente dal giudice di pace, dal tribunale e dalla corte d'appello che sono giudici di merito (decidono sul rapporto, valutano l'esistenza o meno del diritto e quindi giudicano nel merito della causa), la Corte di cassazione è giudice di legittimità per cui decide sulle sentenze quando vengono fatti valere vizi legati al procedimento (errores in procedendo), cioè la violazione delle norme processuali, oppure errori di giudizio in diritto (errores in iudicando cioè vizi di giudizio) e non in fatto, perché i giudici di merito si occupano di conoscere il fatto, mentre la Cassazione non essendo giudice di merito non conosce i fatti, ma può decidere soltanto sugli errori di diritto, ossia quando il giudice sbaglia ad interpretare o ad applicare una norma di diritto sostanziale per la c.d. violazione o falsa applicazione della legge. Fino al 1990 la Corte di cassazione, proprio perché non è giudice di merito, poteva limitarsi, qualora avesse accolto il ricorso, a cassare la sentenza con o senza rinvio (cassare significa annullare) e quindi rilevato il vizio di legittimità relativo al procedimento o l'errore di giudizio per violazione o falsa applicazione della norma annullava la sentenza ed eventualmente rinviare ad un giudice di merito affinché pronunciasse una nuova sentenza che doveva sostituire quella cassata. Quindi prima del 1990 non poteva mai emettere pronunce sul merito, invece a partire dal 1990, con la modifica dell'art. 384 c.p.c. la Corte di cassazione può emettere pronunce sul merito, a condizione che non siano necessari accertamenti di fatto ed è una condizione fondamentale per impedire che la Corte di cassazione si trasformasse in giudice di merito. In questo caso la pronuncia si sostituisce direttamente a quella annullata, senza rinviare al giudice di primo grado, ed è una riforma che aiuta a snellire e a ridurre i tempi del processo. Sulla questione due erano le prospettive perseguibili per ridurre i tempi dei processi: fare della Cassazione il giudice supremo che decide solo pochi ricorsi particolarmente importanti (direzione che sembra intrapresa nel 2009 con il filtro creato ai ricorsi per Cassazione dall’art. 380 bis) oppure renderla un giudice di terza istanza consentendole di decidere anche nel merito chiudendo il processo definitivamente ed forse una scelta più garantistica. Attualmente questo non accade perché, nella stragrande maggioranza dei casi, gli accertamenti di fatto sono necessari dopo la sentenza della Cassazione che quindi rinvia ad un giudice di pari grado, normalmente la corte d'appello, ed essendo una sentenza di secondo grado può essere ancora impugnata con ricorso in Cassazione, la quale può ancora annullare la sentenza con rinvio e ci sono casi anche di tre o quattro rinvii e in tal modo le cause durano tantissimo.

DIFETTO DI GIURISDIZIONE - ART. 37 C.P.C. Il giudice ordinario ha una giurisdizione generale in materia di diritti soggettivi, quindi non può giudicare solo con riferimento a materie che sono espressamente sottratte dalla legge, perciò il difetto di giurisdizione va visto in negativo. Le questioni di giurisdizione che si possono porre sono delineate dall’art. 37 c.p.c. il quale disciplina il difetto di giurisdizione prevedendone due ipotesi: nei confronti della pubblica amministrazione e del giudice speciale. Ma nella versione originaria questa norma si occupava anche del difetto di giurisdizione del giudice italiano rispetto ai giudici stranieri, essendo evidente che la giurisdizione italiana debba considerare quella di altri paesi, anche in relazione al fatto che lo Stato non ha interesse ad occuparsi di cause che non presentino con il nostro territorio alcun elemento di collegamento. Attualmente questo difetto di giurisdizione, per quanto riguarda i rapporti tra gli Stati appartenenti alla Comunità Europea, è regolato dal regolamento CE 44/2001 del 22 Dicembre del 2000; mentre per quanto riguarda i rapporti tra lo Stato italiano e altri stati, al di fuori della Comunità Europea, dalla legge sul diritto internazionale privato (legge 218/95). Le questioni di giurisdizione tecnicamente si definiscono pregiudiziali di rito: di rito perché riguardano il processo (il rito) e pregiudiziali perché devono essere esaminate prima del merito.

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Anzi tra le questioni pregiudiziali quella relativa alla giurisdizione è prioritaria perché il giudice prima deve essere certo di avere la giurisdizione, cioè la potestas iudicandi (potestà di giudicare). Nell’interpretazione dell’art. 37 c.p.c. sul difetto di giurisdizione un ruolo molto importante lo riveste la Corte di cassazione, essendo il giudice supremo regolatore delle giurisdizioni. L’art. 37 prevede due ipotesi di difetto di giurisdizione del giudice ordinario: nei confronti della pubblica amministrazione e nei confronti del giudice speciale. Sono giudici speciali il giudice amministrativo, la Corte dei Conti, le commissioni tributarie, ecc. e quindi il giudice ordinario è carente di giurisdizione nelle controversie che appartengono alla giurisdizione dei giudici speciali. L’art. 103 Cost. statuisce che il Consiglio di Stato e gli altri organi della giustizia amministrativa hanno una giurisdizione generale in materia di interessi legittimi e in alcune materie specifiche indicate dal legislatore anche per i diritti soggettivi. Se l’attore si rivolge al tribunale ordinario per chiedere l’annullamento di una sanzione irrogata dall’amministrazione finanziaria per il mancato pagamento di un’imposta, il giudice dovrà dichiarare il difetto di giurisdizione perché queste controversie spettano alla commissione tributaria. Lo stesso accade se al giudice ordinario viene proposta la domanda di responsabilità contabile di un ente pubblico: il giudice ordinario deve dichiarare il difetto di giurisdizione indicando come giudice fornito di giurisdizione la Corte dei conti. Quindi quando si parla di difetto di giurisdizione s’intende del giudice ordinario rispetto ad un giudice speciale previsto dal nostro ordinamento. Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e speciale diverso da quello amministrativo (ossia corte dei conti, commissioni, ecc.) è piuttosto semplice, perché con riferimento a questi giudici il riparto della giurisdizione interna è basato sulla materia oggetto della controversia. Ad esempio le controversie in materia di tributi appartiene certamente alla giurisdizione delle commissioni tributarie, le quali su questa materia hanno una giurisdizione generale. Viceversa la situazione si complica per quanto riguarda il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario ed amministrativo, poiché il riparto di giurisdizione è fondato sulla distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo. In molti casi è facile qualificare la situazione sostanziale soggettiva come diritto soggettivo o interesse legittimo, ma in molti altri questa distinzione non è agevole perché vi sono delle zone grigie in cui non è semplice stabilire se la situazione sostanziale per la quale l’attore agisce sia qualificabile come diritto soggettivo o interesse legittimo23. Nel 1889, con l’istituzione della sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato (la IV sezione), si crea il riparto di giurisdizione che l’art. 103 Cost. fonda sulla distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo. Per distinguere tra diritto soggettivo o interesse legittimo, entrambi tutelati, si guarda a chi propone l’azione: se l’attore contesta l’esistenza del potere della P.A. afferma un diritto soggettivo; viceversa se l’attore lamenta il cattivo esercizio del potere della P.A fa valere un interesse legittimo.

23 Se andiamo indietro nel tempo, il problema non si poneva perché nelle controversie in cui era parte la pubblica amministrazione il giudice ordinario non poteva giudicare, perché esistevano i tribunali del contenzioso competenti in tutte le controversie in cui era parte la pubblica amministrazione che aveva anche il potere di sollevare il conflitto di attribuzioni: cioè se era convenuta dinnanzi al giudice ordinario, poteva sollevare il conflitto di attribuzioni, su cui inizialmente decideva il sovrano sentito il Consiglio di Stato. Nel 1865 con la legge 20 marzo n. 2248 i tribunali del contenzioso sono abrogati e l’art. 2 della stessa legge stabilì: “Sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione d'un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell'autorità amministrativa.” Quindi venuti meno i tribunali del contenzioso la pubblica amministrazione, come i privati, poteva essere convenuta davanti all’autorità giudiziaria ordinaria quando la controversia aveva per oggetto un diritto soggettivo o politico. Ma dopo questa legge ci si è resi conto che vi erano situazioni che avevano bisogno di tutela nei confronti della pubblica amministrazione non qualificabili come diritti soggettivi e quindi per la tutela giurisdizionale di questi interessi, fu istituita la IV sezione del Consiglio di Stato e da allora si delinea la figura dell’interesse legittimo.

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Quindi il criterio usato per stabilire la giurisdizione del giudice ordinario o amministrativo, cioè per il riparto di giurisdizione è quello di vedere cosa contesta l’attore: se contesa l’esistenza del potere a danno di un suo diritto sta affermando un diritto soggettivo per cui la giurisdizione è del giudice ordinario; se invece lamenta il cattivo uso del potere sta facendo valere un interesse legittimo (incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge) e la giurisdizione spetterà al giudice amministrativo. In sostanza il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario ed amministrativo si fonda sulla distinzione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo. Si tenga presente che la tutela offerta dal giudice ordinario è molto diversa da quella del giudice amministrativo perché il giudice ordinario riconosce l’illegittimità del provvedimento amministrativo, dichiara l’esistenza del diritto, ma non lo può annullare, né si può sostituire all’amministrazione modificando o revocando l’atto e né può disporre all’amministrazione di compiere determinati atti, ma può solo disapplicarlo. Questi limiti al potere del giudice ordinario sono dati dall’art. 4 della legge del 1865: “Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell'autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell'atto stesso in relazione all'oggetto dedotto in giudizio. L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso.” Invece per la tutela degli interessi legittimi, il giudice amministrativo offre una tutela più ampia perché non soltanto deve verificare la legittimità dell’atto o del provvedimento (e in taluni casi si può spingere anche nel merito), ma una volta accertata illegittimità può anche disporne l’annullamento e in casi gravi può sospendere l’efficacia del provvedimento amministrativo. Il legislatore è intervenuto su questa materia in alcuni casi ampliando la giurisdizione del giudice ordinario e sottraendo talune materie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Pensiamo al d.lgs. 165 del 2001 che ha sottratto la materia del pubblico impiego al giudice amministrativo (con alcune eccezioni: magistrati, militari, professori universitari, ecc.) per attribuirla alla giurisdizione del giudice ordinario (alla sezione del giudice del lavoro): In altri casi il legislatore si è mosso in direzione opposta, ad esempio con il d.lgs. n. 80 del 1998, poi sostituito dalla legge n. 205/2000 che ha segnato una svolta nei rapporti tra giudice ordinario e amministrativo, perché prima era pacifico che il riparto di giurisdizione si basava sulla distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo. La novità di questa legge è l’aver previsto un diverso riparto di giurisdizione fondato sulla distinzione tra blocchi di materie; in particolare sono state devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le materie relative ai servizi pubblici (comprensivi di vigilanza sul credito, assicurazioni, mercato mobiliare, servizi farmaceutici, trasporti e telecomunicazioni), l’urbanistica e l’edilizia riferiti agli atti, ai provvedimenti ed ai comportamenti della P.A. anche se non riconducibili all’esercizio di un potere autoritativo, ma di diritto privato. Quindi vediamo si crea un nuovo riparto della giurisdizione, perché a prescindere dal fatto che l’attore chiede la tutela di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo, quando si controverteva in una di queste materie, la giurisdizione apparteneva al giudice amministrativo, senza tener più conto della situazione sostanziale tutelata. Questa legge sollevò dubbi di legittimità costituzionale, perché non appariva compatibile con l’art. 103 Cost. che attribuisce una giurisdizione generale di legittimità sugli interessi legittimi al giudice amministrativo e solo in particolari materie sui diritti soggettivi. Le perplessità mostrate dalla dottrina sono state poi confermate dalla Corte costituzionale, la quale ha dichiarato illegittimo questo nuovo riparto di giurisdizione che il legislatore aveva creato attribuendo indiscriminatamente e in modo generalizzato al giudice amministrativo la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi, creando così una sorta di giudice della pubblica amministrazione, perché ogni volta in cui era parte la P.A e oggetto della controversia era una di queste materie la giurisdizione veniva attribuita al giudice amministrativo.

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Con la sentenza n. 204 del 2004 la Corte costituzionale afferma che l’art. 103 Cost. attribuisce al legislatore ordinario il potere di attribuire al giudice amministrativo anche la tutela dei diritti soggettivi in determinate materie, ma non ha una discrezionalità assoluta in quanto ha il potere di attribuire determinati diritti alla giurisdizione del giudice amministrativo solo quando ricorrono due condizioni fondamentali: � Ci deve essere una connessione inscindibile tra diritto soggettivo e interesse legittimo, cioè

quando non è possibile distinguerli in maniera chiara per cui si rende necessaria l’attribuzione al giudice amministrativo, anche della tutela dei diritti soggettivi.

� Il giudice amministrativo deve aver già esercitato la sua giurisdizione di legittimità per potersi poi occupare del diritto soggettivo, cioè non è possibile attribuire sic et simpliciter la giurisdizione al giudice amministrativo dei diritti soggettivi, ma deve essere sempre correlato all’esercizio di un potere dell’autorità amministrativa del quale si lamenta l’illegittimità.

Quindi solo a queste due condizioni il legislatore può sottrarre al giudice ordinario la tutela giurisdizionale dei diritti a favore del giudice amministrativo. Da qui l’illegittimità di queste norme che avevano creato questo nuovo riparto e il ritorno al sistema di riparto di giurisdizione fondato sulla distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo e non più per blocchi di materie. Un’altra questione ha riguardato l’individuazione del giudice munito di giurisdizione per il diritto al risarcimento dei danni da lesione di interesse legittimo e se nel momento in cui la pubblica amministrazione lede un interesse legittimo, ci sia o meno un diritto al risarcimento per il cittadino. Sul secondo punto la Corte di cassazione con la sentenza n. 500 del 1999 ha stabilito che siano risarcibili anche i danni provocati dalla lesione dell’interesse legittimo, mentre per stabilire chi deve decidere tra il giudice ordinario e amministrativo la legge n. 205 del 2000, che modifica l’art. 7 della legge sul TAR, prevede che il TAR nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e degli altri diritti patrimoniali consequenziali. D’altro canto anche la giurisprudenza, sia del Consiglio di Stato che della Cassazione, afferma che la giurisdizione spetta al giudice amministrativo quando riguarda il risarcimento dei danni da lesione di interesse legittimo. La sentenza della Cassazione n. 500 del 1999, aveva previsto anche il principio della cosiddetta doppia tutela stabilendo che il cittadino avrebbe potuto scegliere di andare dinnanzi al giudice amministrativo per l’annullamento dell’atto amministrativo, ma questo non era un passaggio obbligato perché avrebbe potuto agire per chiedere il risarcimento del danno direttamente al tribunale ordinario il quale, conosciuta l’eventuale illegittimità dell’atto della pubblica amministrazione, avrebbe condannato l’amministrazione al risarcimento del danno. Questo principio sollevò numerose critiche della dottrina e soprattutto della giurisprudenza del Consiglio di Stato, il quale ritenne che se l’atto amministrativo non fosse stato impugnato nei termini decadenziali previsti, diventava inoppugnabile, e tale inoppugnabilità poteva essere fatta valere in qualsiasi sede. Dunque secondo il Consiglio di Stato il diritto al risarcimento del danno presupponeva l’impugnazione del provvedimento lesivo e il suo annullamento: questa è la c.d. pregiudiziale di annullamento dell’atto come presupposto per l’esistenza del diritto al risarcimento del danno. La Corte di cassazione, a Sezioni Unite, in un primo momento ha avallato questa giurisprudenza del Consiglio di Stato, ma successivamente ha cambiato indirizzo con la sentenza n. 13911 del 2006 (poi confermata anche da altre pronunce) che ha sconfessato il principio enunciato dal Consiglio di Stato, condiviso dalle stesse Sezioni Unite, affermando che la richiesta di risarcimento del danno non richiede la preventiva impugnazione dell’atto amministrativo perché la tutela del giudice ordinario (risarcitoria) e quella del giudice amministrativo (demolitoria, perché mira ad annullare l’atto) sono tutele diverse, per cui non si può imporre all’attore quale sia la tutela migliore. Il soggetto leso potrà agire nei confronti della pubblica amministrazione chiedendo al giudice amministrativo prima l’annullamento dell’atto e poi il risarcimento del danno, ma non per questo lo

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si può obbligare a questa scelta, in quanto se fa decorrere inutilmente i termini per l’impugnazione dell’atto amministrativo, oppure non lo vuole impugnare, il danno resta comunque. Dunque non c’è ragione di precludere il diritto e il risarcimento del danno, anche se l’atto amministrativo è diventato inoppugnabile essendo l’interessato decaduto dal potere di impugnarlo. Quindi fermo restando che la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, questi non può dichiarare inammissibile la domanda se l’attore si rivolge solo per chiedere il danno da lesione di interesse legittimo, senza aver prima chiesto l’annullamento dell’atto lesivo. Infatti la Cassazione per rafforzare questo principio affermò che se il giudice amministrativo non concede questa tutela, la sentenza sarà ricorribile in Cassazione per motivi attinenti la giurisdizione, perchè il giudice amministrativo rifiuta di giudicare sulla pretesa risarcitoria, in quanto non è stato chiesto preventivamente l’annullamento dell’atto per cui si ritiene privo di giurisdizione. Malgrado questo, i giudici amministrativi continuavano a ritenere necessaria la pregiudiziale dell’annullamento dell’atto, costringendo la Cassazione ad intervenire ancora sulla questione tra cui di recente con la sentenza n. 30254 del 23 dicembre 2008 le Sezioni Unite “… ribadiscono il principio di diritto, enunciato nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ., secondo cui, proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento”. Questo per quanto riguarda l’ipotesi di difetto di giurisdizione nei confronti del giudice speciale, mentre l’altro difetto di giurisdizione a cui fa riferimento l’art. 37 c.p.c., è nei confronti della pubblica amministrazione la quale però non è un giudice. Un conto è che il giudice ordinario dichiari il difetto di giurisdizione a favore del giudice speciale, altro è che il giudice ordinario dichiari il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione che giudice non è. Ciò appare ancora più strano in relazione all’art. 113 Cost.: “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.” Quindi l’art. 37 c.p.c. prevedendo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, appare in contrasto con questa norma costituzionale che da la possibilità di agire sempre per la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione. Pertanto, per la Reali, quel difetto di giurisdizione non va inteso in quanto tale poiché non ci può mai essere un difetto di giurisdizione del giudice ordinario, altrimenti sarebbe incostituzionale. A tal proposito si è delineata una tesi restrittiva la quale, partendo dall’art. 113 Cost. (1° e 2° comma), ritiene che gli unici atti che possono essere sottratti alla tutela giurisdizionale sono quelli che costituiscono espressione di un potere discrezionale e insindacabile, cioè che non può essere cioè sottoposto al sindacato del giudice. Allora nell’ambito di questa categoria di atti insindacabili si fanno rientrare gli atti di governo o gli atti politici. Ad esempio c’è stato un caso in cui la Corte di cassazione ha dichiarato il difetto di giurisdizione perché le organizzazioni sindacali aveva agito contro il Governo, il quale non aveva mantenuto un impegno di riforma legislativa amministrativa del settore della scuola e in tal caso il mancato impegno del Governo non può essere sindacato dal giudice perché è un atto politico e il giudice su questo non può sindacare, ma il Governo ne risponderà solo sul piano politico. In questa situazione il giudice dichiara il difetto di giurisdizione perché incontra un limite nell’insindacabilità del potere discrezionale attribuito alla pubblica amministrazione, anzi di atti del Governo e quindi di atti politici che sono diversi dall’attività amministrativa in senso stretto.

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Per esempio per il provvedimento di nomina a senatore a vita non può essere chiesta una tutela giurisdizionale perché sono atti insindacabili. Alcuni ritengono che il difetto di giurisdizione in questione debba essere limitato agli atti di Governo e politici, invece la Corte di cassazione ritiene che ricorra tutte le volte in cui la domanda nei confronti della pubblica amministrazione sia improponibile, in quanto la situazione soggettiva di cui si chiede la tutela giurisdizionale non è né un diritto soggettivo, né un interesse legittimo. Questo difetto di giurisdizione è assoluto perché né il giudice ordinario e né altri giudici possono decidere e si distingue dal difetto di giurisdizione relativo nei confronti dei giudici speciali perché ciò non toglie che ci sia un altro giudice comunque munito di giurisdizione. Questo difetto assoluto di giurisdizione ricorrerebbe nell’ipotesi di improponibilità assoluta della domanda, in quanto la situazione dedotta in giudizio non è né un diritto soggettivo, né un interesse legittimo, ma l’attore fa valere una situazione sostanziale per la quale il nostro ordinamento non prevede alcuna tutela giurisdizionale: gli interessi di fatto, interessi semplici e interessi diffusi. Sono interessi che sono rimessi alla cura della pubblica amministrazione, ma non c’è una norma che attribuisca una tutela giurisdizionale. La Cassazione sostiene che questo difetto di giurisdizione sussista ogni qual volta l’attore non sia titolare né di un diritto soggettivo e né di un interesse legittimo, ma di un mero interesse di fatto. In sostanza bisogna stabilire se esista o meno il diritto o se è un interesse legittimo, ma dichiarare esistente o inesistente un diritto è una questione di merito. Cioè se vi è un diritto, ma in realtà è un interesse di fatto il giudice deve accertare che non ha tutela giurisdizionale e in tal caso il provvedimento che il giudice adotterà sarà di rigetto, ossia valuterà la domanda infondata perché il diritto non esiste. In sostanza quella che si fa passare per una questione di giurisdizione, in realtà attiene al merito: stabilire se un diritto esiste o meno è una questione attinente al merito e non alla giurisdizione. Infatti se la stessa situazione la riportiamo anziché ad una controversia tra un privato e pubblica amministrazione ad una tra privati: chi fa valere nei confronti di un soggetto una situazione sostanziale che non è un diritto, il giudice dovrà rigettare la domanda e dichiarerà inesistente il diritto; quindi rigetta nel merito la domanda. Quindi attraverso questa interpretazione della giurisprudenza, si fa passare per una questione di giurisdizione ciò che è una questione di merito. In alcune pronunce della Cassazione vi è stata una presa di posizione rispetto ai giudici di merito, anche se in riferimento ad altri istituti e in particolare in materia di impugnazione con rimessione della causa al primo giudice, per cui se il giudice d’appello rileva che il giudice di primo grado ha errato nel dichiarare il difetto di giurisdizione (perché la giurisdizione esiste), il giudice d’appello non può decidere nel merito, ma deve rimettere la causa al giudice di primo grado (art. 353 c.p.c.). Pertanto il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, stando a questa interpretazione, viene etichettata come una questione di giurisdizione e quindi si sarebbe dovuto applicare l’istituto della rimessione. Ma questo è un assurdo perché non è una questione di giurisdizione, perché il giudice ha deciso nel merito; tanto è vero che la corte di Cassazione è intervenuta per affermare che allorché la sentenza del giudice di primo grado sotto l’apparente ed impropria formula del difetto di giurisdizione, contenga in realtà il rigetto della domanda nel merito, il giudice d’appello che riformi tale decisione e dichiari di avere giurisdizione, non deve rimettere la causa al primo giudice. Lo stesso ha statuito nel 1998 la Cassazione per la proponibilità del regolamento di giurisdizione, quando oggetto dell’istanza non sia una questione vera di giurisdizione, ma quella che la Cassazione chiama improponibilità assoluta della domanda. Tuttavia, anche dopo 1998 continuano ad esserci molte pronunce per difetto di giurisdizione in quei termini, per cui sembra che il problema potrà essere risolto solo con un intervento della Corte costituzionale per affermare che questa norma, nella misura in cui discorre di difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione è illegittima, perché siamo di fronte ad una questione di merito e non di giurisdizione. La terza ipotesi di difetto di giurisdizione, è quella che riguarda i limiti della giurisdizione italiana.

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Nel diritto internazionale privato il primo riparto di giurisdizione è tra gli stati dell’Unione Europea e quelli che ne sono al di fuori. Nei paesi dell’Unione la regola per stabilire la giurisdizione del giudice di uno Stato è data dal domicilio del convenuto: la giurisdizione italiana sussiste se il convenuto è domiciliato in Italia. L’attore può sempre agire dinnanzi al giudice italiano, ma non sempre il convenuto perché bisogna vedere se è possibile applicare il criterio di collegamento generale che è il domicilio del convenuto. Un altro criterio è l’accordo delle parti: la giurisdizione italiana sussiste se è stata accettata dalle parti in forma scritta o se non sia stata convenzionalmente derogata, nei limiti in cui è possibile derogare la giurisdizione italiana. Per i paesi dell’Unione Europea la ripartizione della giurisdizione in materia matrimoniale trova la sua disciplina nel regolamento n. 2201 del 2003 e per quella fallimentare nel regolamento n. 1346 del 2000, invece per le controversie in materia civile e commerciale dobbiamo far riferimento al regolamento (CE) n. 44/200124 il quale fissa all’art. 2 un criterio generale : “Salve le disposizioni del presente regolamento, le persone domiciliate nel territorio di un determinato stato membro sono convenute, a prescindere dalla loro nazionalità, dinnanzi ai giudici di tale stato membro”. La normativa comunitaria non usa il termine giurisdizione, ma competenza25 però dando il significato che noi diamo alla giurisdizione. Vi sono dei criteri alternativi legati alla materia oggetto della controversia e concorrono con quello generale; ad esempio l’art. 5 del regolamento 44/2001 prevede che in materia contrattuale la giurisdizione può appartenere al giudice del luogo in cui l’obbligazione è stata o deve essere eseguita oppure per i danni derivanti da fatto illecito c’è il criterio costituito dal luogo in cui si è verificato l’evento dannoso. In questi casi, e altri espressamente previsti dalla normativa comunitaria, vi sono giurisdizioni concorrenti (fori concorrenti) di giudici appartenenti a stati diversi (tra cui la materia delle assicurazioni, i contratti conclusi dai consumatori, i contratti individuali di lavoro). Ci sono poi le competenze esclusive sicché, indipendentemente dal criterio generale del domicilio, hanno competenza esclusiva in materia di diritti reali immobiliari e di contratti d’affitto di immobili i giudici dello stato membro in cui l’immobile è situato; oppure in materia di invalidità, nullità e scioglimento delle società o delle persone giuridiche il giudice del luogo in cui esse hanno la loro sede e lo stesso avviene per le trascrizioni ed iscrizioni nei pubblici registri; la materia di registrazione e validità dei brevetti e marchi, eccetera. Il regolamento 44/2001 risolve anche il caso che due cause identiche vengano instaurate dinnanzi a giudici di stati diversi, che se si verifichi cioè la c.d. litispendenza. In questo senso l’art. 27 del regolamento stabilisce che il giudice debba sospendere d’ufficio il procedimento finché sia stata accertata la giurisdizione del giudice adito in precedenza, e se questo dichiara la sua giurisdizione il giudice successivamente adito dichiara la propria incompetenza (o difetto di giurisdizione) a favore del primo. Un altro problema che si può porre è quello della connessione di cause pendenti dinnanzi a giudici di stati diversi dell’Unione Europea e anche qui il giudice adito successivamente (ex art. 28 del regolamento) può sospendere il procedimento. “Se tali cause sono pendenti in primo grado, il giudice successivamente adito può inoltre dichiarare la propria incompetenza su richiesta di una delle parti a condizione che il giudice precedentemente adito sia competente a conoscere delle domande proposte e la sua legge consenta la riunione dei procedimenti (art. 28 secondo comma).” Andando a vedere il riparto di giurisdizione tra giudice italiano e quello di stati non appartenenti all’Unione Europea, dobbiamo far riferimento alla riforma del diritto internazionale privato: la legge 31 maggio 1995, n. 218. All’art. 3 questa legge ha una disposizione generale che fissa tre criteri per l’attribuzione della giurisdizione al giudice italiano, di cui il primo stabilisce che la giurisdizione italiana sussiste se il

24 Regolamento concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. 25 Per alcuni è detta competenza giurisdizionale.

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convenuto è domiciliato o residente in Italia o se ha in Italia un rappresentante autorizzato a stare in giudizio a norma dell’art. 77 c.p.c. In determinate materie, come quella contrattuale o il risarcimento dei danno da fatto illecito, l’art. 3 rinvia a quelli che sono i criteri speciali per l’attribuzione della giurisdizione stabiliti dalla convenzione di Bruxelles del 1968 e ratificata nel 1971 con la legge n. 804. Per determinate materie questa convenzione prevede dei criteri di collegamento alternativi, ad esempio in materia di obbligazioni contrattuali il luogo in cui è stata o deve essere eseguita la prestazione; in materia di obbligazioni alimentari il luogo in cui il creditore ha il domicilio; in materia di risarcimento del danno il luogo in cui si è verificato l’evento dannoso. Le altre materie che non rientrano nella convenzione di Bruxelles sono disciplinate dalla legge 218/95 tra cui, ad esempio, in materia di giurisdizione volontaria la giurisdizione del giudice italiano sussiste quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana (art. 9). In materia cautelare la giurisdizione italiana sussiste se il provvedimento cautelare deve essere eseguito o pende in Italia il giudizio di merito (art. 9 legge 218/95). In materia matrimoniale (scioglimento, annullamento e nullità del matrimonio) si applica ancora il vecchio criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla cittadinanza, perché prima della legge 218/95 il codice di procedura civile stabiliva che la giurisdizione italiana sussisteva sempre se il convenuto era cittadino italiano, seguendo una logica legata alla sovranità dello Stato, invece dal 1995 il criterio generale è il domicilio o la residenza, prescindendo dalla cittadinanza. In materia di separazione personale, annullamento e scioglimento del matrimonio la giurisdizione italiana sussiste se uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è stato celebrato in Italia. Allo stesso modo per il rapporto di filiazione e in materia di successioni vige ancora il criterio della cittadinanza, talvolta alternativamente come nel caso delle successioni dove si fa riferimento anche al luogo in cui si è aperta la successione. Vi sono anche criteri esclusivi di attribuzione della giurisdizione. Per esempio l’art. 5 della legge n. 218 dispone: “La giurisdizione italiana non sussiste rispetto ad azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all'estero.” Quindi, in questi casi, la giurisdizione è sempre del giudice straniero. Quando nessuno di questi criteri è applicabile, cioè ne la convenzione di Bruxelles e neanche la legge 218/95, il criterio ultimo per stabilire la giurisdizione è quello basato sulle norme che disciplinano la competenza territoriale. In questi casi la giurisdizione sussiste in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio data dagli artt. 18 e seguenti c.p.c. Descritte le tre questioni di giurisdizione (tra giudice ordinario e speciale, nei confronti della P.A. e tra giudice italiano e straniero) bisogna vedere come si fa valere il difetto di giurisdizione nel processo civile. Anche sotto il profilo della rilevabilità del difetto di giurisdizione, dobbiamo distinguere a seconda che si tratta di questioni di cui all’art. 37 c.p.c. ovvero di limiti alla giurisdizione del giudice italiano rispetto a quello straniero di cui all’art. 11 della legge 218/95. Per rilevare il difetto di giurisdizione del giudice italiano l’art. 11 della legge 218/95 pone una distinzione a seconda che il convenuto si sia costituito in giudizio oppure sia contumace (non si sia costituito in giudizio). Nel primo caso: “Il difetto di giurisdizione può essere rilevato, in qualunque stato e grado del processo, soltanto dal convenuto costituito che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana. …. (art. 11).” La dicitura “… in qualunque stato e grado del processo …” va coordinata con l’art. 4 della stessa legge sull’accettazione tacita della giurisdizione. Infatti fermo restando la possibilità che le parti convenzionalmente decidano di attribuire per scritto la controversia alla giurisdizione del giudice italiano (accettazione espressa), l’accettazione tacita si verifica se il convenuto non eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice italiano nel primo atto difensivo (art. 4), che nel nostro processo è la comparsa di risposta, e quindi non potrà più essere fatto valere stando al disposto dell’art. 11.

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Se invece il convenuto è contumace il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del processo ex art. 11, fermo restando che è sempre rilevabile d’ufficio (anche se il convenuto non si è costituito) il difetto di giurisdizione previsto dall’art. 5, cioè per le azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero. L’art. 37 c.p.c. dispone: “Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo.” Pertanto il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalla parte o dal giudice d’ufficio, senza che la parte lo abbia eccepito, e “in qualunque stato e grado del processo” per cui, stando alla lettera può essere rilevato nel giudizio di primo grado, in appello e in Cassazione e del resto tra i motivi del ricorso del giudice supremo vi sono quelli attinenti la giurisdizione. Fino al 2008, se vi era stata una pronuncia espressa del giudice (ad esempio il convenuto aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a favore del TAR) che aveva dichiarato la sua giurisdizione e il processo era poi proseguito, per evitare che si formasse un giudicato interno, la parte interessata avrebbe dovuto impugnare la sentenza relativa alla giurisdizione altrimenti il giudice d’appello non avrebbe potuto rilevarla d’ufficio perché si era formato un giudicato interno. Da questo deriva che in appello o in Cassazione era possibile rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione se non ci fosse stata una pronuncia espressa del giudice, perché quella statuizione non poteva più essere messa in discussione all’interno del processo: si formava così il c.d. giudicato interno. Questa era una interpretazione pacifica e consolidata sino a quando è intervenuta la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 9 ottobre 2008 n. 24883 che ha in sostanza ha reinterpretato l’art. 37 c.p.c. sotto il profilo della rilevabilità ed eccepibilità del difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del processo. La Cassazione sottolinea come l’art. 37 c.p.c. sia in contrasto con i principi di economia processuale e di conseguenza deve essere inteso in modo restrittivo e residuale tenendo conto del principio della ragionevole durata del processo, della progressiva assimilazione delle questioni di giurisdizione alle questioni di competenza e che tenga conto dell’idea che la giurisdizione è un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione di merito in tempi ragionevoli. Con queste premesse la Cassazione interpreta in maniera diversa l’art. 37 c.p.c. e secondo la Reali è una sostanziale riscrittura della norma, per cui forse c’è anche una forzatura della legge, in quando detta delle nuove regole per eccepire il difetto di giurisdizione. Pertanto: a) fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo grado, il difetto di giurisdizione può

essere eccepito dalle parti, anche dopo la scadenza dei termini previsti dall'art. 38 c.p.c. (anche se sarebbe opportuno un intervento legislativo di coordinamento);

b) entro lo stesso termine le parti possono chiedere il regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell'art. 41 c.p.c.;

c) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione (dalla parte soccombente);

d) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si è formato il giudicato implicito o esplicito (operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità);

e) il giudice può rilevare anche di ufficio il difetto di giurisdizione, fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato implicito o esplicito.

La novità della sentenza del 2008, che ha poi conferma anche in pronunce successive, sta in questo giudicato implicito che si forma tutte le volte in cui la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implichino l’affermazione della giurisdizione. Questo significa che se il giudice di primo grado ha deciso nel merito la causa (ha accolto o rigettato la domanda), il soccombente può impugnare la sentenza di primo grado per motivi attinenti

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alla giurisdizione; ma se non lo fa con l’appello si forma il giudicato implicito e il difetto di giurisdizione non può più essere rilevato né in grado di appello e né in Cassazione. Prima di questa sentenza era assolutamente pacifico che il difetto di giurisdizione fosse rilevabile dalle parti o d’ufficio, stando alla lettera dell’art. 37 che dice in ogni stato e grado del processo, oggi invece non è più così perché nel momento in cui la parte non fa valere in appello il difetto di giurisdizione già eccepito in primo grado, si crea questa preclusione per cui non è possibile più eccepirlo né d’ufficio dal giudice e né dalla parte. Questa sentenza riguardava una controversia in materia tributaria in cui era stato eccepito il difetto di giurisdizione per la prima volta dall’Agenzia delle entrate nel giudizio di Cassazione, la quale rigetta la domanda ritenendola inammissibile perché il difetto di giurisdizione se non è stato fatto valere nel primo grado di giudizio o attraverso l’impugnazione della sentenza di primo grado con l’appello non può più essere fatto valere. La Cassazione afferma “Le parti che consapevolmente non sollevano l'eccezione di difetto di giurisdizione hanno evidentemente la riserva mentale di formularla successivamente in base ad un calcolo di convenienza (secundum eventum litis), quindi la loro inerzia ha un fine palesemente dilatorio e non meritevole di tutela.” Si parte allora dal presupposto che se il difetto di giurisdizione non è stato eccepito subito, è perché consapevolmente le parti vogliono tenersi questo asso nella manica da giocarsi magari in Cassazione, anche per scopi dilatori26. “Le parti che, invece, non ritengono che sussista un problema di giurisdizione, per ben due gradi di giudizio, ma lo sollevano poi soltanto in sede di giudizio di legittimità, o non hanno svolto il loro compito in maniera diligente (ci si riferisce agli avvocati) o "tentano" la carta estrema della "distruzione processuale": in entrambi i casi non meritano tutela.” Bisogna tener presente che tra le novità della legge n. 218/95 c’è la possibilità di derogare la giurisdizione italiana e non soltanto la proroga (cioè le parti si mettono d’accordo per attribuire la giurisdizione al giudice italiano). Prima dal 1995 la deroga della giurisdizione italiana era vietata al nostro codice di procedura civile, perché considerata una menomazione della sovranità dello Stato a cui la giurisdizione era collegata. Oggi, invece, l’art. 4 della legge 218/95 prevede che le parti possano mettersi d’accordo per attribuire la giurisdizione ad un giudice straniero, ma devono essere rispettate due condizioni: l’accordo deve avere forma scritta e l’oggetto della controversia sia costituito da diritti disponibili.

IL REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE L’art. 37 c.p.c. non è l’unico modo per far valere le questioni di giurisdizione o il c.d. difetto di giurisdizione nel processo civile, perché può essere fatto valere anche attraverso uno strumento straordinario che è l’istanza di regolamento di giurisdizione. Dunque, un’altra singolarità del processo civile è che prevede due modi per far valere il difetto di giurisdizione: • il rimedio ordinario è dato dall’art. 37 c.p.c. e cioè il rilievo d’ufficio o l’eccezione di parte su

cui il giudice si pronuncia con sentenza appellabile e ricorribile in Cassazione; • il rimedio straordinario (inventato dal nostro legislatore) è dato dall’art. 41 c.p.c. con ricorso alle

Sezioni Unite della Corte di cassazione. Per la Reali probabilmente il legislatore del 1940 quando lo ha introdotto non aveva ben chiare le origini e la ratio di questo istituto quando ha previsto come modalità alternativa l’istanza di regolamento di giurisdizione al difetto di giurisdizione. Le origini del regolamento di giurisdizione stanno nell’istituto dei conflitti di quando non esisteva ancora la giurisdizione unica, ma esistevano i tribunali del contenzioso e qualora la pubblica amministrazione fosse stata convenuta in giudizio dinnanzi al tribunale, avrebbe potuto sollevare il conflitto di attribuzioni, tramite il Prefetto, perché c’era il tribunale del contenzioso che decideva le

26 Calamandrei diceva “il processo più pende, più rende”.

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controversie di cui era parte la P.A. e su tale conflitto decideva il Re, previo parere del Consiglio di Stato. Aboliti i tribunali del contenzioso nel 1865 con la legge n. 2248, non c’era nessuna ragione per conservare questo istituto e di consentire al Prefetto di intervenire, perché in quel momento l’unica situazione tutelabile era il diritto soggettivo, ma se la P.A. era convenuta in giudizio per una controversia in materia di diritto soggettivo, la legge n. 2248 del 1865 stabiliva che dovesse essere il giudice ordinario a decidere. Nonostante fosse irragionevole la legge n. 2248 conservò questo istituto, ma la cosa più assurda è che essendo mutato anche il regime costituzionale, la decisione sul conflitto di attribuzione sollevato dal Prefetto fu assegnata al Consiglio di Stato, il quale all’epoca non aveva ancora la funzione giurisdizionale, ma era un organo della stessa amministrazione. Quindi in una controversia in cui era parte la P.A. il Prefetto poteva sollevare il conflitto di attribuzione riferendo che l’oggetto della controversia non fosse un diritto soggettivo (in questo caso ci sarebbe stata la giurisdizione del giudice ordinario) per cui decideva il Consiglio di Stato e cioè un organo dell’amministrazione. La ragione della conservazione di tale istituto è quella di lasciare alla P.A. l’antico privilegio, oggi ingiustificato e illegittimo, di interferire in tutti i processi in cui essa fosse stata parte. In relazione alle critiche mosse dalla dottrina, nel 1877 Pasquale Stranislao Mancini varò la legge n. 3761 del 1877 con cui modificò questo istituto dei conflitti, dando ragione a chi lo aveva criticato. In particolare erano due le novità che Mancini introdusse. • il cambiamento del nome perché da mezzo per far valere conflitto di attribuzione si trasformò in

mezzo straordinario per eccepire l’incompetenza dell’autorità giurisdizionale ordinaria. Già sul nomen qualche perplessità ci sarebbe potuta essere, perché non ha senso parlare d’incompetenza della autorità giurisdizionale ordinaria nei confronti della P.A.

• la decisione sull’eccezione di incompetenza (anche se l’espressione è impropria) spettava alle Sezioni Unite della Corte di cassazione di Roma (nel 1877 c’erano ancora le Cassazioni regionali) perché era quella più vicina al potere politico.

Quindi con questa riforma cambiò qualcosa, ma la sostanza non mutò molto perché fu lasciato alla P.A. questo privilegio che, attraverso il Prefetto, poteva utilizzare uno strumento su qualsiasi controversia del privato contro la P.A. in cui far valere questa eccezione che comportava la sospensione del giudizio in attesa che la Cassazione romana decidesse. Se fosse stata infondata il processo sarebbe proseguito, nel caso opposto, se l’eccezione prefettizia fosse stata ritenuta fondata, la Cassazione avrebbe deciso in unico grado perché poi il giudizio sarebbe finito lì e il privato si sarebbe trovato senza più alcun processo. Il Legislatore del 1940 per un verso considerò il difetto di giurisdizione nei confronti della P.A. (una questione che difetto di giurisdizione non era) che era il motivo per cui poteva essere eccepito questo straordinario difetto di competenza del giudice ordinario. Inoltre per evitare l’accusa che si trattasse di un privilegio della P.A. il legislatore non abrogò l’istituto (che sarebbe stata la cosa più ragionevole), ma lo estese anche alle parti private inserendolo nell’art. 41 c.p.c. Purtroppo il legislatore del 1940 non potette immaginare le conseguenze di questa scelta, perché all’istanza ex art. 41 era collegato l’effetto della sospensione automatica del giudizio di merito. All’inizio gli avvocati non si accorsero di questa possibilità, ma in seguito quando non avevano interesse di arrivare subito a sentenza nell’interesse della parte che difendevano, capirono che sarebbe stato sufficiente proporre una qualsiasi istanza (sia pure infondata) di regolamento di giurisdizione in ogni processo, per ottenere la sospensione del giudizio di merito in attesa che le sezioni unite della Corte di cassazione decidessero sulla questione di giurisdizione. Quindi fu dato alle parti uno strumento che si prestava ad essere utilizzato con finalità dilatorie; si pensi al contenzioso elettorale, reso praticamente inoperante tra gli anni ’70 e ’80, perché in tutti i processi veniva proposta l’istanza di regolamento di giurisdizione con conseguente sospensione, ex lege, del processo in attesa che poi le Sezioni Unite della Cassazione decidessero.

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La dottrina reagì di fronte a questa situazione sollecitando la Cassazione a pronunciarsi, la quale invece ad allargare l’ambito di operatività dell’istituto in questione e la Corte costituzionale che fu più volte chiamata a pronunciarsi sulla sua legittimità, ha sempre ritenuto la questione inammissibile, ma auspicando un intervento del legislatore. Comunque sia le critiche della dottrina portarono ad un risultato che non fu quello auspicato dell’abrogazione dell’istituto, perché nel 1990 il legislatore è intervenuto soltanto per modificare il meccanismo della sospensione (quello che aveva creato più problemi) stabilendo che la sospensione non fosse più automatica, ma subordinata ad una valutazione di non manifesta inammissibilità o di non manifesta infondatezza dell’istanza del giudice di merito. Paradossalmente il regolamento di giurisdizione fu anche scambiato per uno strumento di economia processuale perché consentiva di arrivare direttamente in Cassazione, saltando i vari gradi di giudizio, ma con la sospensione automatica, di fatto, paralizzava il giudizio di merito. La sentenza può essere di rito o di merito, nel primo caso decide sulla procedura (ad esempio sulla giurisdizione), nel secondo decide nel merito, cioè accoglie o rigetta la domanda. Se il convenuto eccepisce il difetto di giurisdizione, il giudice deve decidere subito sulla questione di giurisdizione con una sentenza di rito ed ha due possibilità: � se ritiene fondata la questione di giurisdizione emette una sentenza declinatoria di giurisdizione

con cui dichiara il difetto di giurisdizione (ad esempio spetta al TAR), cioè il giudice declina la giurisdizione in quanto se ne dichiara privo con una sentenza definitiva (non significa sentenza passata in giudicato) nel senso che definisce chiudendolo il processo per quanto riguarda la giurisdizione, cioè definitiva sta solo a significare che definisce il processo davanti al giudice inizialmente adito. Tuttavia resta una sentenza appellabile essendo una sentenze non definitiva, anzi è soggetta ad un regime di impugnazione particolare che prevede la possibilità di riservarsi l’impugnazione, in quanto la parte può aspettare l’esito del giudizio di merito prima di impugnare oppure può farlo immediatamente.

� se ritiene la questione non fondata può emettere una sentenza dichiarativa della giurisdizione ed è anche questa non definitiva, perché non definisce il giudizio in quanto il processo continua davanti quel giudice che provvederà per il merito.

Se la sentenza non definitiva viene notificata dalla parte, da quel momento decorrono i termini per l’appello27 (30 giorni, art. 325 c.p.c.), invece se manca la notificazione per impugnare quella sentenza si applica il termine ordinario di sei mesi dalla pubblicazione (art. 327 c.p.c.). Essendo una sentenza non definitiva è appellabile ed anche ricorribile in Cassazione, ma il giudizio prosegue in primo grado e ed eventualmente in appello e in Cassazione. Può essere però che la pronuncia sulla giurisdizione sia implicita e succede quando il giudice, avendo forti dubbi sulla fondatezza della domanda, fa proseguire il processo per decidere sul difetto di giurisdizione quando deciderà nel merito della domanda. È facoltà del giudice decidere subito sul difetto di giurisdizione oppure differire la decisione sulle questioni al momento delle decisione del merito: è un potere discrezionale del giudice che valuta se la questione sia fondata o meno, ma se la ritiene fondata decide subito perché è una questione pregiudiziale di rito che chiude il processo; invece se ritiene la domanda infondata il processo sul merito prosegue e sulla questione si pronuncia nel momento in cui emette la sentenza di merito, per cui implicitamente significa che afferma la propria giurisdizione. La sentenza sulla giurisdizione dichiarativa pura o declinatoria è appellabile, ma anche ricorribile in Cassazione perché tra i motivi tassativi di impugnazione ordinaria vi è il difetto di giurisdizione. L’iter normale di rilevabilità del difetto di giurisdizione d’ufficio, previsto dall’art. 37, oppure su eccezione della parte, prevede la possibilità di appello e di ricorso in Cassazione e accanto a questo c’è un iter straordinario per far valere il difetto di giurisdizione costituito dal regolamento di giurisdizione ex art. 41 c.p.c.

27 La parte vittoriosa potrà notificare la sentenza dichiarativa di giurisdizione alla parte soccombente che potrà impugnarla, mentre il giudizio continua ad andare avanti in primo grado o in appello sul merito.

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È straordinario, extra ordinem (al di fuori dell’ordinario), in quanto rivolto ad un giudice fuori dall’ordine precostituito perché il regolamento di giurisdizione consente alla parte di chiedere direttamente alle SS.UU. della Corte di cassazione di pronunciarsi sulla questione. È un regolamento preventivo di giurisdizione, con riferimento al primo comma dell’art. 41, perché proposto prima che il giudice decida la causa, in questo caso il giudice può sospendere il processo e comunque non può decidere la causa nel merito se viene presentata istanza di regolamento di giurisdizione e per questo è preventivo. Per alcuni è un istituto di economia processuale perché il regolamento di giurisdizione consente alla parte di andare direttamente in Cassazione, invece in base al sistema ordinario i passaggi sono: eccezione, pronuncia di primo grado, eventualmente impugnazione in appello e facoltà di ricorso per Cassazione. In sostanza può apparire una scorciatoia perché consente alla parte di saltare tutto il primo grado e l’appello, ma le cose non stanno proprio così. In realtà il regolamento di giurisdizione non ha nulla a che fare con l’economia processuale perché è uno strumento collegato al vecchio istituto del conflitto di attribuzioni, nonché a quello che è poi diventato il mezzo straordinario per eccepire l’incompetenza del giudice ordinario che nel codice del 1940 è diventato il regolamento di giurisdizione, anche se con delle modifiche perché il mezzo straordinario per eccepire l’incompetenza del giudice ordinario era previsto solo a favore della P.A. (del potere esecutivo). L’istituto si è conservato nel tempo in quanto il legislatore ha voluto continuare a riconoscere alla P.A. il vecchio privilegio di controllare il potere giudiziario attraverso questi strumenti che sospendevano il giudizio affinché a decidere fosse il Consiglio di Stato e poi la Corte di cassazione con la riforma di Mancini del 1877. Il legislatore del 1940 si rendeva conto che quello era un privilegio a favore della P.A. ma ha voluto anche inserire le questioni di giurisdizione nei confronti della P.A. all’interno dell’art. 37, benché fosse già chiaro che quella non fosse una questione di giurisdizione, e per evitare che si potesse essere visto come un privilegio in favore della P.A., fu esteso a tutte le parti. In sostanza per evitare che fosse inteso come un privilegio, invece di abrogare l’istituto, il legislatore del 1940 lo estense alle altre parti e in questo modo non è più un privilegio della P.A. Non solo, mentre originariamente l’istituto serviva soltanto nei rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo, nel 1940 fu esteso a tutte le questioni di giurisdizione quindi nei confronti della P.A., del giudice speciale e all’ipotesi, inizialmente prevista dall’art. 37, di difetto di giurisdizione nei confronti del giudice straniero. Questo istituto aveva una precisa giustificazione politica ed è diventato nel 1940 uno strumento a disposizione delle parti per ottenere una decisione sulle questioni di giurisdizione dalle Sezioni Unite, ma avendo anche l’effetto di sospendere il giudizio di merito (così era previsto in origine), per far decidere un altro giudice, secondo un meccanismo che è rimasto immutato per cui la parte propone istanza di regolamento di giurisdizione su cui si pronunciano le Sezioni Unite della Cassazione e ha come conseguenza la sospensione legale, pertanto automatica, del giudizio di merito per la mera proposizione dell’istanza. Inizialmente, questo meccanismo previsto dal codice del 1940 non fu capito bene dagli avvocati, ma in seguito si resero conto di disporre di un’arma per bloccare i processi per due o tre anni in attesa della pronuncia della Corte di cassazione e questo in pieno contrasto col principio di economia processuale. Sicché negli anni ’70 e ’80 accadde che venivano proposte istanze di regolamento completamente infondate al solo scopo di sospendere per ritardare il giudizio fino a quando la Cassazione non si fosse pronunciata sulla questione di giurisdizione. La situazione esplose in materia di contenzioso elettorale, in quanto questo istituto opera anche nel processo amministrativo riguardo all’illeggibilità dei consiglieri comunali. Quando veniva eletto un consigliere comunale per il quale vi era una causa di illeggibilità, l’interessato la faceva valere in giudizio, ma il convenuto chiedendo il regolamento di giurisdizione nel frattempo il processo

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rimaneva sospeso per due o tre anni per cui quando arrivava la sentenza, il consigliere comunale aveva terminato il suo mandato. La dottrina criticò questo istituto in quanto era divenuto uno strumento sostanzialmente dilatorio che allungava i tempi e i costi della giustizia finendo in molti casi per negarla. Del resto non si capiva perché solo le questioni di giurisdizione avevano la possibilità di questa scorciatoia che le consentiva di arrivare direttamente alla Cassazione e in questo modo venivano trattate in modo diverso da qualsiasi altra idonea a definire il giudizio (per esempio la legittimazione ad agire in giudizio), considerando che il giudice di ultima istanza può porre nel nulla ciò che è stato fatto nei due gradi precedenti, ma questo non giustifica una scorciatoia che consente di andare direttamente dal giudice di ultima istanza, perché significa eliminare il processo di primo e secondo grado. Nel 1990 ci si aspettava l’abrogazione dell’istituto, ma il legislatore del 1990 invece di abrogare l’istituto della sospensione ex lege si è limitato a modificare con la legge 353/90 (in vigore dal 1° gennaio 1993) l’art. 367 c.p.c. con la quale viene eliminata la sospensione automatica, in quanto il giudice di merito dovrà operare una valutazione di non manifesta inammissibilità dell’istanza o di non manifesta infondatezza della questione per poter sospendere il giudizio. La questione presenta anche problemi di illegittimità costituzionale per quanto riguarda la violazione del diritto alla prova ex art. 24 secondo comma Cost. essendo una componente essenziale del diritto di difesa. Per esempio se il convenuto eccepisce il difetto di giurisdizione a favore del giudice straniero contestando il domicilio dell’attore, iniziata la causa davanti al giudice italiano il convenuto invece di eccepire il difetto di giurisdizione (art. 37 c.p.c.) a favore di quello straniero propone il regolamento di giurisdizione (art. 41 c.p.c.) con il quale contesta anche il domicilio dell’attore nel primo atto difensivo affinché si pronuncino le SS.UU. della Cassazione. Ma in questo modo l’attore viene privato della possibilità di provare il domicilio o la residenza contestata dal convenuto, in quanto il giudizio di Cassazione, essendo di legittimità, non ammette l’attività istruttoria per cui non si possono portare mezzi di prova; pertanto la questione deve essere decisa dalle SS.UU. allo stato degli atti e questo, in concreto, favorisce il convenuto violando il diritto alla difesa dell’attore. Proprio su una questione di giurisdizione tra il giudice italiano e quello straniero è intervenuta la Cassazione, ma invece di sollevare una questione di incostituzionalità davanti alla Consulta ha giudicato inammissibile il regolamento di giurisdizione, se il giudice non ha assunto prove sufficienti per decidere sulla questione28. Negli ultimi tempi, però, la Cassazione ha ristretto molto l’ambito di operatività del regolamento di giurisdizione in controtendenza alla sua stessa giurisprudenza avuta sino alla metà degli anni ’90 che aveva ampliato le possibilità di ammissibilità del regolamento (comprendendo addirittura i procedimenti cautelari)29. Nel 1990 è stato previsto il reclamo cautelare contro i provvedimenti cautelari, cioè un mezzo di impugnazione per combattere gli abusi del giudice nei procedimenti cautelari per cui non aveva più senso affermare che il regolamento di giurisdizione era l’antidoto su questi abusi. Si è arrivati così al 1996 quando la Corte di cassazione ha dichiarato, per la prima volta, inammissibile il regolamento di giurisdizione nei procedimenti cautelari e sulla stessa linea è continuata tutta la giurisprudenza successiva e da allora la Cassazione ha dichiarato inammissibile il regolamento di giurisdizione anche nel processo esecutivo. L’ambito di applicazione rimane allora

28 Nel caso in questione l’attore aveva già chiesto nell’atto di citazione i mezzi di prova ed il giudice di primo grado non li aveva ammessi, ma poi il convenuto aveva proposto istanza di regolamento di giurisdizione in Cassazione che lo ha giudicato inammissibile perché il giudice di primo grado avrebbe dovuto prima assumere le prove e solo dopo poteva proporsi il regolamento di giurisdizione, permettendo alla Cassazione di valutare sulla base degli atti. 29 La Cassazione aveva ritenuto ammissibile il regolamento di giurisdizione nei procedimenti cautelari, malgrado siano procedimenti di urgenza. La questione, nel caso di specie era su un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., fu portata davanti alla Corte costituzionale che riteneva ammissibile la richiesta di regolamento di giurisdizione perché costituiva l’antidoto rispetto all’abuso negli anni ’70 dei provvedimenti d’urgenza ex art. 700 da parte dei pretori nella materia lavoristica, cioè si voleva bilanciare questo abuso con il regolamento di giurisdizione.

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limitato al processo di cognizione ordinario e del lavoro, perche entrambi sono a cognizione piena ed esauriente. Il regolamento di giurisdizione è disciplinato dall’art. 41 - Regolamento di giurisdizione : “Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle Sezioni Unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37. …” La legittimazione spetta a ciascuna parte e non può essere mai chiesto d’ufficio, a differenza del difetto di giurisdizione che è rilevabile d’ufficio, anche se è comunque un modo straordinario e alternativo a quello ordinario dell’art. 37 per far valere il difetto di giurisdizione. In un primo tempo la giurisprudenza riteneva che stando alla lettera della norma l’attore e il convenuto potevano proporre il regolamento di giurisdizione, ma successivamente ha stabilito che l’attore può proporlo solo quando c’è un ragionevole dubbio sulla giurisdizione, cioè ci sia stata una contestazione da parte del convenuto che abbia fatto emerge dei dubbi per cui l’attore ha interesse a chiedere che la giurisdizione venga accertata dalla Cassazione. Il regolamento di giurisdizione può essere chiesto finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado. Questa previsione è importante perché: � il presupposto è che penda una causa di merito in primo grado, per cui il regolamento di

giurisdizione non può essere chiesto al di fuori del processo, ma ha carattere solo incidentale; � può essere chiesto finché la causa non sia decisa nel merito. Il limite ultimo era, quindi, ritenuto pacificamente la sentenza di merito di accoglimento o di rigetto definitiva o non definitiva (per esempio una sentenza di condanna generica). Ciò comportava che la pronuncia di una sentenza su questioni di rito non precludeva la possibilità, per esempio chiedere un giudizio sul difetto di giurisdizione al giudice di merito durante il processo, secondo la Cassazione, questo tipo di sentenza, essendo processuale e non di merito, non precludeva dopo la sua pronuncia la proposizione del regolamento di giurisdizione alle SS.UU. Ciò si poteva giustificare alla luce della lettera dell’art. 41 riguardo la sentenza di merito, per le sentenze non definitive sulla giurisdizione (quelle dichiarative) per le quali il giudizio prosegue per il merito, mentre per le sentenze declinatorie questa interpretazione non aveva senso perché erano definitive in quanto chiudevano il giudizio di primo grado per cui non era più pendente. Tuttavia la giurisprudenza, volendo estendere quanto più possibile l’ambito di applicazione di questo istituto, riteneva che il regolamento di giurisdizione fosse proponibile dopo la pronuncia sulla giurisdizione sia dichiarativa che declinatoria. Nel 1996 ci sono state una serie di pronunce, soprattutto sul cautelare, che hanno rivisto i confini del regolamento di giurisdizione in particolare c’è stata una sentenza storica (n. 2466 del 22 marzo 1996) delle Sezioni unite della Cassazione che ha radicalmente mutato indirizzo stabilendo che il regolamento di giurisdizione non è proponibile dopo che il giudice di merito abbai emesso una qualsiasi sentenza nel giudizio di primo grado, sia di merito, sulla giurisdizione o altra sentenza processuale. Questa sentenza affermava anche che la formula dell’art. 41, finché la causa sia decisa nel merito, deve essere intesa nel senso che “qualsiasi decisione emanata dal giudice presso il quale il processo è radicato ha efficacia preclusiva del regolamento”. Anche se usa il termine decisione e non sentenza per parte della dottrina erano da includere anche le ordinanze, per esempio le ordinanze di ammissione delle prove o soprattutto quelle anticipatorie di condanna che sono vere e proprie decisioni di merito, questo avrebbe comportato di precludere la possibilità di chiedere il regolamento di giurisdizione già con una di queste ordinanze e quindi ben prima della fine del processo di primo grado che si conclude con la sentenza. Questa tesi restrittiva non è passata e dottrina e giurisprudenza chiarirono che la Cassazione voleva riferirsi alle decisioni rese in forma di sentenza, anzi di recente ha escluso che sia ostativo della proponibilità del regolamento di giurisdizione la pronuncia dell’ordinanza ingiuntiva ex art. 186 ter (istanza di ingiunzione), per cui le uniche decisioni che precludono questa possibilità sono le sentenze, a prescindere dal contenuto che può essere di merito o processuale. Però questa sentenza

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del 1996 ha influito fino ad oggi sulla giurisprudenza ed ha avuto il merito di limitare il ricorso a questo istituto. Il regolamento di giurisdizione può essere chiesto per risolvere una delle questioni di giurisdizione di cui all’art. 37, cioè sia le questioni di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice speciale che nei confronti del giudice straniero, anche se quest’ultima ipotesi è stata messa in discussione perché l’art. 41 c.p.c. richiama espressamente l’art. 37 c.p.c. mentre le norme sulla giurisdizione italiana dal 1995 non sono più in questo articolo, ma nella legge 218/1995 per cui ha fatto pensare che l’art. 41 non si riferisse più ai limiti della giurisdizione italiana. La Cassazione ha chiarito che questa disposizione rinviava all’art. 37, quando prevedeva il difetto di giurisdizione del giudice straniero, per cui si deve ritenere anche oggi che quella ipotesi rientri tra le questioni che possono essere fatte valere con il regolamento. L’altra ipotesi prevista dall’art. 37 è il difetto di giurisdizione nei confronti della P.A., ma questa non è una questione di giurisdizione per cui si è dibattuto sulla possibilità di utilizzare il regolamento di giurisdizione per far valere una questione di giurisdizione che in realtà non lo è. Sull’argomento vi sono diversi orientamenti perché mentre in alcune pronunce il regolamento di giurisdizione è ammissibile, in altre la Cassazione dice che non può essere utilizzato quando la questione ha per oggetto l’esistenza di una norma che tuteli la situazione di fatto, dedotta in giudizio, come diritto soggettivo, cioè è dichiarato inammissibile il regolamento di giurisdizione quando l’oggetto della controversia non sia una vera e propria questione di giurisdizione, ma si tratta di stabilire se per la situazione dedotta in giudizio esiste una norma che la tuteli come diritto soggettivo. Ciò fa capire come la previsione dell’art. 37 abbia creato dei problemi, anche perché la Cassazione in alcuni casi ha detto espressamente che non è una questione di giurisdizione, ma di merito e di conseguenza si dovrebbe escludere la possibilità di poter utilizzare il regolamento di giurisdizione per quella questione, ma su questo profilo vi è un contrasto giurisprudenziale. L'istanza per il regolamento di giurisdizione si propone con ricorso a norma degli artt. 364 ss., e produce gli effetti di cui all'art. 367. Gli artt. 364 e ss disciplinano il procedimento davanti la Cassazione, mentre l’art. 367 disciplina la sospensione del procedimento di merito che è stato modificato nel 1990 ed oggi stabilisce che “Una copia del ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 41, primo comma, è depositata, dopo la notificazione alle altre parti, nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa, il quale sospende il processo se non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. Il giudice istruttore o il collegio provvede con ordinanza….”. Significa che la sospensione non è più automatica alla proposizione dell’istanza, ma subordinata ad una valutazione del giudice davanti al quale pende al causa che la sospende solo se non ritiene l’istanza per il regolamento di giurisdizione manifestamente inammissibile (per esempio se è stata formulata dopo che sia stata emessa una sentenza nel merito) oppure la contestazione manifestamente infondata (per esempio se la giurisdizione del giudice ordinario è consolidata e si sollevi il difetto di giurisdizione nei suoi confronti). La valutazione sommaria del giudice di merito è fatta solo ai fini della sospensione del processo, ma non ha alcuna influenza su quella che sarà la decisione della Cassazione e ciò può creare qualche problema nell’ipotesi in cui il giudice non abbia sospeso e poi la Cassazione dichiari il difetto di giurisdizione o ancora peggio se il processo si conclude nel merito con sentenza passata in giudicato, ma in seguito giunge la sentenza della Cassazione che afferma il difetto di giurisdizione. Su questa ipotesi, secondo alcuni, quello che conta è la sentenza passata in giudicato e da questo momento la questione di giurisdizione perde rilevanza; invece la Cassazione ritiene che la pronuncia sul difetto di giurisdizione determini l’inefficacia della sentenza passata in giudicato, nel senso che quella pronuncia è condizionata all’esistenza della giurisdizione per cui se le SS.UU. dichiarano la giurisdizione inesistente, finanche la sentenza passata in giudicato sarebbe travolta da questa statuizione, ma per la Reali tutto ciò non sembra convincente, soprattutto perché il

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regolamento di giurisdizione non è un’impugnazione per cui non si possono applicare le norme che valgono per l’impugnazione. Al momento vige l’orientamento della Cassazione per cui il regolamento di giurisdizione segue le regole stabilite per il procedimento dagli artt. 380 ter e ss con i quali il legislatore ha previsto un procedimento apposito sull’istanza di regolamento di giurisdizione che è decisa dal 2001 con ordinanza30 (ex art. 375 c.p.c.) che oltre ad essere vincolante per il giudice del processo ha efficacia panprocessuale, cioè sopravvive all’eventuale estinzione del processo (un modo alternativo di conclusione del processo rispetto alla sentenza), ex art. 310, perché l’estinzione non travolge l’azione e la domanda potrà essere riproposta, ma nel nuovo giudizio l’ordinanza della Cassazione conserva efficacia vincolante per cui non si potrà più discutere del regolamento di giurisdizione. Le statuizioni della Cassazione possono essere diverse, per esempio potrebbe dichiarare il difetto assoluto di giurisdizione quando nessun giudice, italiano o straniero, abbia giurisdizione ed in questo caso il processo si estingue definitivamente oppure potrebbe dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a favore di un giudice speciale o viceversa. Se la Cassazione statuisce che la parte deve riproporre la domanda davanti al TAR probabilmente i termini di decadenza sarebbero già scaduti (60 giorni), ma tali conseguenze negative sono evitate dal 2007 dalla c.d. traslatio iudicii (la traslazione del giudizio) cioè con la continuazione del processo davanti al giudice fornito di giurisdizione retto sulla domanda originaria e non su una nuova domanda che istaura un nuovo processo. Tale importante modifica dell’orientamento dalle sentenza a SS.UU. della Cassazione n. 4109 del 22 febbraio 2007, seguita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 12 marzo 2007, che hanno stabilito che la parte deve semplicemente riassumere il processo davanti al giudice fornito di giurisdizione, non è la proposizione di una nuova domanda, ma è lo stesso processo iniziato erroneamente davanti al giudice privo di giurisdizione continua davanti quello che la Cassazione ha indicato come fornito di giurisdizione31. La riassunzione consente di conservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda; per esempio uno degli effetti della domanda è la perpetuatio iurisdictionis (permanenza della giurisdizione), ex art. 5 c.p.c., in base alla quale il momento determinante della giurisdizione è costituito dalla proposizione della domanda. Quindi prima dell’istituto della traslatio iudicii, la parte avrebbe dovuto proporre una nuova domanda ed i mutamenti prodotti nel frattempo sarebbero stati rilevanti per la parte, invece con la riassunzione della causa disposta nel 2007 il procedimento continua e gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda vengono conservati. Naturalmente è necessario l’impulso della parte che deve riassumere la causa nel termine di sei mesi altrimenti il processo si estingue e non si tratta di una nuova domanda, ma con una comparsa davanti al giudice fornito di giurisdizione ex art. 125 delle disposizioni att. del c.p.c. È un atto di impulso e non un nuovo atto introduttivo, per cui tutto ciò che è avvenuto nel processo resta salvo perché continua davanti il giudice fornito di giurisdizione. Oltre al regolamento preventivo di giurisdizione previsto nel primo comma dell’art. 41, vi è anche un regolamento di giurisdizione previsto dal secondo comma dell’art. 41: “La pubblica amministrazione che non è parte in causa può chiedere in ogni stato e grado del processo che sia dichiarato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all'amministrazione stessa, finché la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato”. In sostanza si tratta del vecchio 30 L’ordinanza è un provvedimento più snello per accelerare i tempi, invece fino al 2001 la decisione sull’istanza di giurisdizione era data con sentenza e in questo senso è stato modificato l’art. 375 c.p.c. 31 La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 9 ottobre 2008 n. 24883 in sostanza reinterpreta l’art. 37 c.p.c. sotto il profilo della rilevabilità ed eccepibilità del difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del processo risolve il tema della possibilità di formazione di un giudicato implicito sulla giurisdizione, tale per cui, indipendentemente dalla pronuncia espressa sulla giurisdizione da parte del giudice di primo grado, l’omessa contestazione di quest’ultima in sede di appello ne implica il definitivo radicamento innanzi al plesso giurisdizionale originariamente adito.

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strumento straordinario dell’istituto dei conflitti che spetta solo alla P.A. che comunque non è parte in causa, perché altrimenti ci sarebbe il regolamento di giurisdizione del primo comma ex art. 41. Significa che la P.A. può inserirsi in qualunque controversia se ritiene che riguardi una materia appartenente alla sua assoluta discrezionalità e che non è tutelata come diritto soggettivo o interesse legittimo. È una norma che dà alla P.A. il potere di interferire in una causa tra privati, in cui la P.A. è terza, perché la situazione dedotta in giudizio non è un diritto soggettivo o interesse legittimo, ma è un interesse di fatto sostanzialmente rimesso alla sua discrezionalità perché si tratta di una materia riservata alla P.A. In questa ipotesi la P.A. può chiedere alle SS.UU. della Cassazione di dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario (quindi è il vecchio conflitto di attribuzioni) con una procedura singolare, ex art. 368 c.p.c., che prevede una richiesta della P.A. con decreto motivato al prefetto che interviene notificando il decreto alle parti ed al procuratore della Repubblica presso il tribunale (se la causa pende davanti a questo) oppure al procuratore generale presso la corte di appello, se pende davanti la corte. Il P.M. lo comunica al capo dell’ufficio giudiziario davanti al quale pende la causa che sospende (è una sospensione legale quindi automatica) il processo con decreto notificato alle parti a cura del P.M. entro 10 giorni a pena di decadenza. Dopodiché una delle parti può investire della questione di giurisdizione la Cassazione con ricorso nel termine perentorio di 30 giorni, anche se la norma non dice cosa succede se il ricorso non venga presentato entro detto temine, ma essendo perentorio fa capire che nel caso la causa diventa improcedibile. Per la Reali questa disposizione è incostituzionale, in quanto dà potere elevato al prefetto ed al capo dell’ufficio della procura, oltre a prevedere la sospensione legale a discapito dei diritti delle parti e ad esautorare il giudice di merito. Probabilmente questa norma non è stata dichiarata ancora incostituzionale perché la P.A. la utilizza in casi molto rari ed i prefetti non si interessano alle controversie tra privati per cui la norma in questione è caduta in desuetudine. Resta però una norma pensata per la P.A., anche se non se ne serve, ma da cui ha avuto origine lo strumento del regolamento di giurisdizione, in seguito esteso alle parti, in quanto è un istituto previsto in un momento storico in cui si voleva dare al potere esecutivo un potere di veto e quindi di controllo su quelle controversie che potevano interessare la P.A., impedendo al giudice di giudicare.

LA COMPETENZA Una volta stabilito che la giurisdizione spetta al giudice ordinario bisogna individuare tra i giudici ordinari dislocati sul nostro territorio quello competente dinanzi al quale l’attore può proporre la domanda e il problema non è di scarso rilievo, in relazione al numero elevato di giudici ordinari (4.700 giudici di pace e 166 sedi principali di tribunale a cui si aggiungono più di 200 sedi distaccate). Tradizionalmente la competenza è una porzione di giurisdizione, cioè il quantum di giurisdizione che spetta a ciascun ufficio giudiziario, ma comunque la competenza è riferita sempre ai criteri di ripartizione delle cause tra uffici giudiziari aventi la stessa giurisdizione. La competenza ci consente di individuare l’ufficio giudiziario dinanzi al quale la causa dovrà essere trattata; poi all’interno di quell’ufficio si tratterà di stabilire quale sarà il giudice, cioè la persona fisica o quale sezione del tribunale dovrà occuparsi della controversia per cui dobbiamo tenere distinti i due piani. Infatti la distribuzione interna all’ufficio non è un problema di competenza, ma riguarda la costituzione del giudice, le norme sull’ordinamento giudiziario e i criteri di ripartizione degli affari all’interno di un determinato ufficio e mancando di regole si ricorre alla prassi. La competenza riguarda la ripartizione delle cause tra uffici giudiziari diversi e si determina in base all’art. 5 c.p.c. al momento della proposizione della domanda. L’art. 5 stabilisce il principio della perpetuatio iurisdictionis (visto anche a proposito della giurisdizione tra giudice italiano e straniero): “La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della

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domanda (cioè quando viene notificato l’atto di citazione oppure depositato in ricorso), e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo.” Questo principio molto importante è stato introdotto dal codice del 1942, per porre rimedio ad un problema pratico molto grosso legato al mutamento di circostanze di fatto incidenti sulla competenza o sulla giurisdizione iniziale del giudice affinché portassero a delle pronunce di rito; perché nel momento in cui fosse intervenuto in pendenza di un processo un fatto che faceva venire meno la competenza iniziale del giudice, questo avrebbe dovuto dichiarare la propria incompetenza, chiudere il processo e la parte avrebbe dovuto iniziare il processo ex novo, cioè dall’inizio dinanzi ad un altro giudice divenuto competente. Tuttavia quando era ancora vigente il vecchio codice Giuseppe Chiovenda affermò, in via interpretativa, l’esistenza del principio della perpetuatio iurisdictionis, cioè la giurisdizione e la competenza restano ferme al momento in cui viene proposta la domanda e fatti successivi che fanno venir meno l’una o l’altra devono ritenersi irrilevanti ed è proprio il principio che troviamo oggi nell’art. 5, accolto dal legislatore del 1942 codificandolo in questa norma. In positivo la norma dispone che la giurisdizione e la competenza si determinano con la legge vigente al momento della presentazione della domanda, ma in negativo precisa anche che non hanno rilevanza i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo. L’attuale formulazione si deve alla legge n. 353 del 1990 perché originariamente l’art. 5 faceva esclusivo riferimento allo stato di fatto e ai mutamenti successivi all’inizio della controversia, ma non vi era alcun riferimento ai mutamenti legislativi, cioè alla possibilità che il cambiamento di una legge potesse incidere sulla giurisdizione o sulla competenza, per esempio stabilendo che specifiche materie prima di giurisdizione del giudice ordinario, vengano devolute al giudice amministrativo oppure se mutava la competenza in relazione al valore economico della controversia che è uno dei criteri di ripartizione della competenza. Per esempio se una causa sarebbe stata di competenza del pretore in relazione al valore del bene immobile, dopo 10 anni quel valore aumenta di molto per cui la causa sarebbe divenuta di competenza del tribunale. Questi mutamenti dello stato di fatto sono irrilevanti per l’art. 5, già nella versione precedente al 1990, restando ferma la competenza originaria. Inoltre, in via interpretativa, la giurisprudenza estese questa norma anche ai fatti qualificati dal diritto come i mutamenti di residenza o di domicilio. Però fino al 1990 vi era un vuoto normativo che riguardava le nuove leggi che in corso di causa avessero mutato la giurisdizione o la competenza. Per esempio il problema si pose con riferimento ad una legge che devolveva alla competenza del tribunale dei minorenni (è una sezione specializzata del tribunale ordinario) tutte le controversie in materia di disconoscimento della paternità relative a minorenni. Di regola c’era una disciplina transitoria per le cause pendenti e in mancanza si applicavano le regole generali e in questo caso non si poteva applicare l’art. 5 della perpetuatio che inizialmente si riferiva solo allo stato di fatto, per cui per tutte le cause pendenti i tribunali ordinari allora furono costretti a dichiarare la propria incompetenza e tutte le cause furono chiuse in rito e la parte interessata costretta a riassumerle dinanzi al tribunale per i minorenni. Ciò a portato il legislatore del 1990 ad estendere il principio della perpetuatio iurisdictionis non solo allo stato di fatto, ma anche ai mutamenti legislativi, per cui oggi questo non può più accadere. Infatti il decreto legislativo n. 80 del 1998 ha trasferito intere materia alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma il giudice ordinario potrebbe ancora continuare ad occuparsi di quelle controversie perché questo mutamento della legge intervenuto in corso di causa è irrilevante ai fini della determinazione della competenza o della giurisdizione in quanto si determina nel momento in cui è stata proposta la domanda. Dall’ambito di applicazione dell’art. 5 c.p.c. restano fuori le sentenze della Corte costituzionale che dichiarano l’illegittimità di una legge sulla giurisdizione o sulla competenza, in quanto hanno efficacia retroattiva e conseguentemente si applicano anche con riferimento ai giudizi pendenti. Ad esempio, a eseguito di una eccezione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Roma, la Corte

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costituzionale nel 2004 ha dichiarato illegittime le norme che avevano attribuito la giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie in materia di diritti relativi ai servizi pubblici e la sentenza ha avuto immediata efficacia sui giudizi in corso. L’unico problema che rimane aperto sul principio della perpetuatio iurisdictionis si riferisce al fatto che l’art. 5 non fa differenza fra leggi intervenute successivamente alla proposizione della domanda che tolgono la giurisdizione o la competenza al giudice adito e quelle che la attribuiscono ossia l’ipotesi in cui un giudice, inizialmente carente di competenza o giurisdizione, poi, in virtù della legge, si trova ad avere competenza e giurisdizione. Stando ad un interpretazione strettamente letterale dell’art. 5, si dovrebbe ritenere che la norma si applica sia ai mutamenti legislativi che tolgono la competenza o la giurisdizione che a quelli che la attribuiscono perché non c’è alcun distinguo nell’art. 5, diversamente da quanto accade nell’ambito del diritto internazionale privato dove la legge 218/1995 all’art. 8: “Per la determinazione della giurisdizione italiana si applica l'art. 5 Cod. Proc. Civ. Tuttavia la giurisdizione sussiste se i fatti e le norme che la determinano sopravvengono nel corso del processo.” Questa specificazione manca nell’art. 5 e conseguentemente la cosa è dibattuta e vi è chi propende per un’interpretazione in linea con la normativa del diritto internazionale privato ed è l’interpretazione più ragionevole, perché non avrebbe senso che il giudice si dichiari incompetente e chiuda la causa in rito, se poi in base ad una nuova legge la competenza o la giurisdizione spetta comunque a quel giudice. Invece c’è chi ritiene che la norma debba essere interpretata in senso letterale e facendo leva proprio sul fatto che avendo l’art. 8 della legge 218/95 espressamente previsto questa ipotesi, il legislatore degli anni ‘40 o ’90 se avesse voluto stabilire che la giurisdizione sussiste se i fatti e le norme che la determinano sopravvengono nel corso del processo, avrebbe dovuto farlo espressamente come è avvenuto nel 1995. Quindi l’art. 8 della legge 218/1995 è stato utilizzato sia a favore che contro, anche se la tesi preferibile ritiene che questo principio non si applichi quando il mutamento di fatto o di legge finisca per attribuire la giurisdizione o la competenza ad un giudice che inizialmente la disertava. I criteri sulla competenza, in base ai quali le cause vengono distribuite tra i diversi uffici giudiziari, non hanno una portata meramente organizzativa, ma soprattutto costituzionale in relazione al giudice naturale precostituito per legge disposto dall’art. 25 Cost. in base al quale il giudice deve essere investito di una determinata controversia. I criteri stabiliti dalla legge consentono di distribuire la competenza in verticale ed in orizzontale. In verticale viene individuato il tipo di giudice, cioè di ufficio (quando si parla di giudice ci si riferisce all’ufficio) che deve occuparsi della controversia, dinnanzi al quale l’attore deve proporre la domanda. In primo grado oggi sono previsti due tipi di giudici, il giudice di pace e il tribunale, mentre i criteri di ripartizione in verticale sono costituiti dalla materia e dal valore, in base ai quali si stabilisce se la causa è di competenza del giudice di pace o del tribunale. Una volta individuato il tipo di giudice competente, bisognerà stabilire quale tra i tanti giudici di pace o tribunali ha competenza territoriale secondo il criterio della ripartizione orizzontale che riguarda il territorio. Tradizionalmente la competenza per materia è ritenuta più importante perché il giudice viene individuato in base all’oggetto della controversia, cioè del rapporto giuridico dedotto nel processo ovvero in relazione a quella che è la natura della controversia, cioè quelle di una determinata specie devono essere devolute al giudice di pace o al tribunale; per esempio le controversie relative allo stato e alla capacità delle persone spettano al tribunale, invece le controversie che riguardano le modalità d’uso di servizi condominiali spettano alla competenza per materia del giudice di pace. Quindi il criterio della competenza per materia ci consente di individuare il tipo di giudice e prescinde dal valore della causa, invece la competenza per valore si fa riferimento sempre all’oggetto della controversia, ma sotto il profilo della sua valutazione monetaria della controversia. Il criterio del valore è sussidiario rispetto alla materia perché di regola ha rilievo solo quando il legislatore non prevede che una determinata materia sia attribuita alla competenza esclusiva di un

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dato giudice. Per esempio il giudice di pace è competente per materia in relazione alle cause che riguardano le modalità d’uso dei servizi condominiali a prescindere dal valore. Per questo il criterio per valore è sussidiario, nel senso che opera sempre quando non c’è una competenza per materia. Inoltre ci sono casi in cui materia e valore operano insieme, ad esempio le controversie per danni derivanti dalla circolazione dei veicoli opera il criterio del valore combinato alla materia perché fino a 20.000,00 Є è competente il giudice di pace, mentre al di sopra la competenza spetta al tribunale. Per determinare il valore di una causa l’art. 10 c.p.c., primo comma, stabilisce che “il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda …” pertanto si dovrà guardare alla prospettazione fatta nell’atto di citazione, in sostanza è l’attore che indica il valore. Il secondo comma dell’art. 10 si riferisce all’ipotesi particolare in cui si hanno proposte nello stesso processo più domande contro la medesima persona, da parte dello stesso attore e nello stesso processo. La connessione soggettiva, infatti, consente all’attore di proporre due o più domande che possono non avere un collegamento particolare tra loro ad eccezione del fatto di essere proposte contro lo stesso soggetto. “Le domande proposte nello stesso processo contro la medesima persona si sommano tra loro, e gli interessi scaduti, le spese e i danni anteriori alla proposizione si sommano col capitale (art. 10 secondo comma).” Quindi per stabilire il giudice competente per valore si dovrà sommare il valore delle due domande; per esempio se si chiede il pagamento della somma di 1.000 euro, competente è il giudice di pace, mentre se si chiede il pagamento, anche ad altro titolo, della somma di 6.000 euro, competente è il tribunale; se si propongono insieme entrambe le domande si dovrà sommare i valori, cioè 7.000 euro per cui la causa si proporrà davanti al tribunale. L’art. 14 c.p.c. - cause relative a somme di danaro e a beni mobili - dispone: “Nelle cause relative a somme di denaro o a beni mobili, il valore si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dell’attore; in mancanza di indicazione o dichiarazione, la causa si presume di competenza del giudice adito.” A fronte di questa dichiarazione dell’attore il convenuto può contestare il valore dichiarato, altrimenti potrebbe diventare un metodo per aggirare la regola del giudice naturale aumentando o diminuendo il valore per spostare la competenza del giudice. Il secondo comma dell’art. 14 dispone: “Il convenuto può contestare ma soltanto nella prima difesa il valore come sopra dichiarato o presunto; in tal caso il giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e senza apposita istruzione.” Quindi nella prima difesa, che è la comparsa di risposta del convenuto, il giudice, sulla base di una dichiarazione sommaria dovrà decidere se il valore dichiarato dall’attore è giusto o se lo è quello dichiarato dal convenuto con la contestazione. L’ultimo comma dell’art. 14 dispone: “Se il convenuto non contesta il valore dichiarato o presunto, questo rimane fissato, anche agli effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito.” Il calcolo del valore della causa è più semplice per le cause relative a beni immobili perché si determina in base ad un calcolo matematico. Infatti l’art. 15 - cause relative a beni immobili - prevede una serie di coefficienti diversi a seconda del tipo di causa, per esempio se relative alla proprietà o all’usufrutto, per cui se il valore della causa sono terreni si determina moltiplicando il coefficiente stabilito dall’art. 15 per il reddito dominicale, per la rendita catastale se si tratta di fabbricati e così via. La competenza per materia e per valore del giudice di pace e del tribunale sono espressamente previste negli artt. 7 e 9 (l’art. 8 che si riferiva al pretore è stato abrogato). L’art. 7, sulla competenza del giudice di pace, stabilisce: “Il giudice di pace è competente per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a cinquemila euro, quando dalla legge non sono attribuite alla competenza di altro giudice. Il giudice di pace è altresì competente per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti, purché il valore della controversia non superi ventimila euro. È competente qualunque ne sia il valore:

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1) per le cause relative ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi;

2) per le cause relative alla misura ed alle modalità d'uso dei servizi di condominio di case; 3) per le cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione

in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità;

3-bis) per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali.”32 Vi è anche una competenze per materia del giudice di pace prevista da leggi speciali, per esempio sulle ordinanze per ingiunzione emesse dalla P.A., come le contravvenzioni in materia stradale, per le quali il giudice di pace ha competenza sulle ordinanze ingiuntive del prefetto con cui vengono irrogate le sanzioni amministrative33. La competenza per materia e per valore del tribunale è residuale, cioè il tribunale è competente per tutte la cause che non sono di competenza del giudice di pace (art. 9 primo comma). L’art. 9, - competenza del tribunale - al secondo comma dispone: “Il tribunale è altresì esclusivamente competente per le cause in materia di imposte e di tasse (competenza quasi inesistente, perché nel 2001 sono state attribuite tutte le controversie in materia di imposte e tasse alla giurisdizione speciale delle commissioni tributarie), per quelle relative allo stato e alla capacità delle persone e ai diritti onorifici, per la querela di falso, per l'esecuzione forzata e, in generale, per ogni causa di valore indeterminabile”. Per esempio nel caso di usurpazione del nome si chiede al giudice di accertare la questione ed eventualmente inibire l’uso e questa è una causa dal valore indeterminabile ed automaticamente è competente per materia il tribunale collegiale. La querela di falso è una competenza per materia del tribunale collegiale e si riferisce a quei procedimenti diretti ad accertare la falsità di un documento a cui la legge attribuisce pubblica fede, per esempio l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata34. In questi procedimenti si chiede di accertare il falso ideologico del notaio che ha redatto una compravendita dichiarando il falso, perché al pubblico ufficiale, ad esempio il notaio, si dà il potere di attestare la pubblica fede e quindi nei procedimenti per querela di falso si contesta l’autenticità di un documento che si presume contraffatto o se vi è un falso materiale. Queste due criteri di competenza verticali sono inderogabili, cioè le parti non potrebbero mettersi d’accordo prima di iniziare la causa per derogare da questi criteri. Infatti, l’art. 6 - inderogabilità convenzionale della competenza - stabilisce: “La competenza non può essere derogata per accordo delle parti, salvo che nei casi stabiliti dalla legge (riferiti per lo più alla competenza per territorio).” La differenza fondamentale tra la competenza per materia e valore da un lato e territorio dall’altro è che la competenza per territorio viene fissata nell’interesse delle parti e soprattutto del convenuto. Una volta stabilito in base alla materia o al valore che la causa appartiene al giudice di pace o al tribunale, per il legislatore è ininfluente il luogo o la sede di questi giudici (ad esempio se Taranto o Bari), per cui l’ufficio territorialmente competente si determina in base all’interesse delle parti, ma soprattutto del convenuto. Colui contro il quale viene proposta un’azione deve essere posto nelle migliori condizioni per potersi difendere ed infatti criterio generale del foro competente delle persone fisiche è la residenza o il domicilio del convenuto. Poiché la competenza è posta nell’interesse delle parti, queste possono mettersi d’accordo prima e derogare alla competenza territoriale scegliendo un luogo diverso da quello stabilito per legge.

32 Articolo modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, con i limiti di applicabilità previsti dalle disposizioni transitorie della stessa legge. 33 In materia di sanzioni amministrative vi sono stati diversi passaggi perché inizialmente la competenza era del giudice di pace, poi fu attribuita al pretore, poi soppresso ed è ritornato al giudice di pace, eccetto per quelle materie espressamente stabilite dal d.lgs. n. 507 del 1999. 34 L’autocertificazione invece non è un atto pubblico perché manca il presupposto essenziale della querela di falso, cioè la presenza di un pubblico ufficiale.

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Il principio della derogabilità della competenza per territorio è regolato dall’art. 28, primo comma, prevedendo questa possibilità previo accordo delle parti ed è l’unica competenza che può essere derogata, salvo nei casi stabiliti dalla legge, che sono delle eccezioni al principio della derogabilità. Quindi nell’ambito della competenza per territorio la distinzione è tra: ⇒ Derogabile, la competenza per territorio semplice che costituisce la regola. ⇒ Inderogabile, la competenza per territorio nei casi stabiliti dalla legge (per alcuni è la

competenza funzionale), perché non è nell’interesse delle parti, ma pubblico per un miglior funzionamento della giustizia. In questi casi la competenza per territorio è equiparata a quella per materia.

Nel secondo caso sono ipotesi in cui è previsto l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, per cui la competenza territoriale inderogabile si giustifica perché le cause in cui il P.M. interviene, di regola, vertono sui diritti indisponibili e di conseguenza le parti non hanno la facoltà di derogare neanche alla competenza per territorio. Altri casi di competenza per territorio inderogabile riguarda l’esecuzione forzata e l’art. 26 c.p.c. - foro dell’esecuzione forzata - afferma: “Per l'esecuzione forzata su cose mobili o immobili è competente il giudice del luogo in cui le cose si trovano. …” La ratio è assicurare che il giudice sia vicino alla cosa per poterne controllare meglio le operazioni. Altri casi si riferiscono alle cause di opposizione all’esecuzione forzata, ai procedimenti cautelari e possessori, ai procedimenti in camera di consiglio e in ogni altro caso in cui l’inderogabilità è disposta espressamente dalla legge. Nei casi in cui è possibile la deroga della competenza territoriale deve, ex art. 29, riferirsi ad uno o più affari determinati e risultare da atto scritto o anche dalle condizioni generali del contratto, infatti l’art. 1341 c.c. prevede che tra le condizioni del contratto è possibile stabilire che le controversie relative a quel contratto possono essere devolute al giudice di un determinato luogo, ma le riconosce quali clausole vessatorie potendo comportare un disagio per una delle parti, per cui devono essere approvate specificamente dalle parti altrimenti sono inefficaci. L’art. 1341 elenca le cause vessatorie tra cui vi è la deroga alla competenza dell’autorità giudiziaria e lo stesso vale per i contratti conclusi mediante moduli o formulari ex art. 1342 e in quelli tra professionisti e consumatori. L’accordo però non attribuisce al giudice designato competenza esclusiva quando non è espressamente stabilito, cioè nel momento in cui le parti stipulano un accordo fissando la competenza territoriale in un giudice diverso rispetto a quello che sarebbe competente, questo non è valido se non è espressamente previsto e sottoscritto. Per esempio se nel contratto non è espressamente stabilito che per le controversie è competente esclusivamente il tribunale di Roma, se manca quell’esclusivamente i criteri generali non sono posti fuori gioco, nel senso che le parti potranno scegliere di andare davanti al tribunale di Roma oppure applicare le regole generali che individuano un altro tribunale territorialmente competente e quindi la competenza è esclusiva solo quando è espressamente prevista in quel modo dal contratto. Criteri per determinare il giudice competente sono dati dagli artt. 18 e 19 che individuano i c.d. fori generali (cioè si applicano a qualsiasi controversia): il primo per le persone fisiche e il secondo per le persone giuridiche. Per le persone fisiche l’art. 18 stabilisce: “Salvo che la legge disponga altrimenti, è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio e se questi sono sconosciuti, quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora”. Un primo criterio è concorrente tra la residenza o il domicilio che vuol dire che nel caso in cui essi non coincidono, l’attore può scegliere di andare davanti al giudice in cui il convenuto ha la residenza o dinanzi a quello dove ha il domicilio. Se i primi due sono sconosciuti si ricorre al criterio successivamente concorrente, cioè della dimora che interviene solo quando i prime due non sono individuabili. Il criterio successivamente concorrente è indicato al secondo comma dell’art. 18: “Se il convenuto non ha residenza, né domicilio, né dimora nella Repubblica o se la dimora è sconosciuta, è competente il giudice del luogo in cui risiede l'attore”.

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Con riferimento invece alle persone giuridiche o alle associazioni non riconosciute il criterio cambia perché l’art. 19 c.p.c. dispone: “Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora sia convenuta una persona giuridica, è competente il giudice del luogo ove essa ha sede. È competente altresì il giudice del luogo dove la persona giuridica ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l'oggetto della domanda. Ai fini della competenza, le società non aventi personalità giuridica, le associazioni non riconosciute e i comitati di cui agli arti. 36 e seguenti del codice civile hanno sede dove svolgono attività in modo continuativo.” Accanto a questi due fori generali, il legislatore prevede dei fori speciali per particolari controversie come quello delle obbligazioni e infatti l’art. 20, relativo al foro facoltativo, dispone: ”Per le cause relative a diritti di obbligazione è anche competente il giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione dedotta in giudizio”. Questo significa che può essere un criterio concorrente con quelli generali, per cui l’attore potrà citare il convenuto secondo i criteri dell’art. 18 o del 19 oppure, trattandosi di diritti di obbligazione, può applicare uno dei criteri facoltativi ex art. 20, per esempio può scegliere il giudice del luogo nel quale il contratto è stato stipulato oppure per le obbligazioni da fatto illecito può scegliere il giudice del luogo in cui si è verificato l’evento dannoso. Diverso è il caso del foro speciale quando è previsto in via esclusiva, come nel caso dell’art. 21 – foro per le cause relative a diritti reali ed azioni possessorie: “ … è competente il giudice del luogo dove è posto l'immobile o l'azienda”. È un foro speciale esclusivo, cioè la causa che ha per oggetto azioni reali e ad azioni possessorie (diritti reali su beni immobili, in materia di locazione e comodato di immobili e di affitto di aziende, ecc.) va proposta esclusivamente davanti al giudice del luogo dove è posto l'immobile o l'azienda. Tra gli altri fori speciali esclusivi quello delle cause ereditarie (art. 22 c.p.c.), cause tra soci e tra condomini (art. 23 c.p.c.), ma da segnalare è quello previsto dall’art. 25 (foro della P.A.) c.d. foro erariale: “Per le cause nelle quali è parte un’amministrazione dello Stato è competente, a norma delle leggi speciali sulla rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio e nei casi ivi previsti, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell'Avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie. Quando l'amministrazione è convenuta, tale distretto si determina con riguardo al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione o in cui si trova la cosa mobile o immobile oggetto della domanda”. L’amministrazione dello Stato è rappresentata e difesa in giudizio dall’Avvocatura dello Stato che ha una sede centrale e delle sedi distrettuali, di regola, nei capoluoghi di regione che sono anche sedi delle corti d’appello. Per favorire la difesa dello Stato, questa norma35 prevede un foro speciale territoriale esclusivo costituito dal giudice competente nel distretto di corte di appello nel quale ha sede l’Avvocatura di Stato. Per esempio se il distretto è quello della corte d’appello di Bari, perché lì si trova l’Avvocatura dello Stato, il giudice competente sarà quello di Bari. La rappresentanza e difesa dell’Avvocatura di Stato non sempre è necessaria, per esempio nei casi di esecuzione forzata oppure nelle cause davanti il giudice di pace che seguono le norme ordinarie. L’incompetenza Quando l’attore cita il convenuto dinanzi ad un giudice che non è competente per materia, per valore o per territorio siamo nel regime dell’incompetenza espressamente regolato dall’art. 38 c.p.c. riformato e semplificato con la legge 353 del 1990 (a far data dal 30 aprile 1995). Infatti prima del ‘90 il regime dell’incompetenza era molto più articolato e complesso perché vi erano tre giudici in primo grado, mentre oggi sono due, ma soprattutto la formulazione originaria dell’art. 38 distingueva tre piani: incompetenza per materia e per territorio inderogabile, incompetenza per valore e incompetenza per territorio derogabile. Prima della riforma del 1990 l’incompetenza per materia e per territorio inderogabile poteva essere eccepita o rilevata dal convenuto (l’unico legittimato ad eccepire il difetto di competenza), anche

35 È stata oggetto di dubbi sulla costituzionalità, ma ritenuti infondati dalla Consulta.

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d’ufficio, in ogni stato e grado del processo per cui anche in appello o in Cassazione con il rischio che si dovesse ricominciare tutto daccapo. Nel caso di incompetenza per valore l’art. 38 prevedeva che poteva essere rilevata, anche d’ufficio, non oltre il giudizio di primo grado; invece l’incompetenza per territorio derogabile poteva essere eccepita soltanto dal convenuto nella comparsa di risposta o in generale nel primo atto difensivo. Il legislatore del 1990, che ha novellato l’art. 38, ha unificato ai fini del rilievo dell’incompetenza la materia, il valore e il territorio inderogabile sicché può essere rilevata, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di trattazione (prima del 1990 poteva essere rilevata in ogni stato e grado del giudizio), per cui non può essere fatta valere in un momento successivo e la mancanza di questo presupposto processuale sana la competenza. Invece l’incompetenza per territorio semplice o derogabile è eccepita dal convenuto (non può essere rilevata d’ufficio) a pena di decadenza nella comparsa di risposta (nel suo primo atto difensivo scritto) e almeno 20 giorni prima dell’udienza di trattazione. Non solo: il convenuto dovrà indicare anche nella comparsa di risposta il giudice che ritiene competente, altrimenti l’eccezione si ha per non proposta. Questa indicazione è finalizzata a favorire l’accordo delle parti sia prima che dopo che la causa sia iniziata, perché siamo nell’ambito di una competenza derogabile per cui nel momento in cui si indica il giudice competente, le parti si possono mettere d’accordo prima o dopo per derogare la competenza, per cui l’attore potrà aderire all’indicazione del giudice territorialmente competente fatta dal convenuto nella comparsa di risposta. Ne consegue che se le parti costituite aderiscono a tale indicazione, la competenza del giudice rimane ferma se la causa è riassunta entro tre mesi dalla cancellazione dal ruolo. Quindi il giudice inizialmente adito cancella la causa dal ruolo e la parte interessata riassumerà la causa di un altro giudice indicato dal convenuto come competente, nel termine di tre mesi dalla cancellazione della causa dal ruolo e in tal modo la causa si radicherà davanti a quel giudice. L’eccezione di incompetenza è una questione processuale, ma soprattutto idonea a definire il giudizio davanti al giudice adito perché se questo si dichiara incompetente, il processo dinanzi a questo si chiude per cui sulle questioni di competenza il giudice:

se accoglie l’eccezione di incompetenza, cioè si dichiara incompetente, il processo si chiude con ordinanza definitiva, se non è impugnata con la istanza di regolamento rende incontestabile l’incompetenza dichiarata (art. 44 c.p.c.);

se il giudice pronuncia subito la sua competenza, con ordinanza non definitiva, il giudizio proseguirà per il merito;

se decide di rimandare la decisione alla fine del processo si pronuncerà sul merito e sul rito solo allora e nel caso che si dichiari poi incompetente con una declinatoria della competenza il processo si sarà svolto a vuoto.

L’ordinanza declinatoria sulla competenza può essere impugnata con un apposito strumento che è il regolamento necessario di competenza, viceversa la sentenza che pronuncia sulla competenza e sul merito, perché il giudice ha deciso alla fine del processo, può essere impugnata con regolamento facoltativo, perché il convenuto potrebbe impugnare la sentenza solo per la competenza con il regolamento, portando così la causa davanti alla Corte di cassazione; oppure potrebbe scegliere la via ordinaria ricorrendo in appello sia per la competenza che per motivi di merito. Se il giudice dichiara la propria incompetenza tale sentenza non ha un contenuto esclusivamente negativo perché il giudice che si dichiara incompetente deve anche indicare quello competente, il giudice davanti al quale la causa va riassunta, cioè deve proseguire. Questo è un principio molto importante per la continuazione del processo previsto dal codice del 1940 e non dal vecchio codice, con conseguenze gravissime perché vigeva il principio “competent competent”, cioè ciascun giudice è competente della propria competenza e non può dire ad un altro giudice che è incompetente. Il vecchio codice prevedeva anche che nel momento in cui il giudice si fosse dichiarato incompetente, l’attore doveva proporre la domanda ex novo davanti ad un altro giudice il quale a

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sua volta poteva dichiararsi incompetente e questo poteva continuare, fino a lasciare l’attore senza giustizia. Questo meccanismo assurdo è stato modificato dal legislatore del ‘40 che ha introdotto il principio della traslatio iudicii (il principio della continuazione del processo) con cui il giudice dichiarandosi incompetente deve indicare quello competente (ad quem, cioè il giudice indicato competente) davanti al quale la parte interessata dovrà riassumente la causa, sicché non si tratta di proposizione di una nuova domanda, ma di riassunzione che fa salvi gli effetti sostanziali (per esempio resta sospesa la prescrizione) e processuali della domanda. Per il principio della continuazione del processo, anche per le prove raccolte dal giudice incompetente, conservano la loro efficacia come se fossero state raccolte nello stesso processo che continua davanti al giudice per effetto della riassunzione. Diversamente da quanto accadeva nel vecchio codice, importante è anche l’art. 44 (efficacia della sentenza) in quanto la sentenza che dichiara l’incompetenza del giudice che l’ha pronunciata, se non è impugnata con l’istanza di regolamento, rende incontestabile l’incompetenza dichiarata e la competenza del giudice in essa indicato, se la causa è riassunta nei termini dell’art. 50, salvo che si tratti di incompetenza per materia o per territorio inderogabile ex art. 28. Significa che se l’incompetenza è stata dichiarata per valore o territorio derogabile il giudice nel dichiarare la propria incompetenza, deve indicare il giudice competente e se le parti non impugnano la ordinanza per il regolamento di competenza (in questo caso il giudizio va in Cassazione), ma la parte interessata riassume la causa dinanzi al giudice indicato, nel termine stabilito nella stessa ordinanza declinatoria o in mancanza entro 3 mesi dalla comunicazione (art. 44 c.p.c.) di questa, quella riassunzione rende incontestabile la competenza del secondo giudice dinnanzi al quale causa è riassunta. Questo sempre che si tratta di competenza per valore o per territorio semplice perché se si tratta delle competenza per materia o per territorio inderogabile, l’art. 45 (conflitto di competenza) stabilisce: “Quando, in seguito all'ordinanza che dichiara l'incompetenza del giudice adito per ragione di materia o per territorio nei casi di cui all'articolo 28 (competenza inderogabile), la causa nei termini di cui all'articolo 50 è riassunta davanti ad altro giudice, questi, se ritiene di essere a sua volta incompetente, richiede d'ufficio il regolamento di competenza.”36 Quindi il giudice deve chiedere alla Cassazione con ordinanza di statuire qual è il giudice competente (lui o il primo giudice). Se la causa non viene riassunta nel termine stabilito dal giudice nell’ordinanza o in mancanza, entro 3 mesi dalla comunicazione della ordinanza di regolamento o di quella che dichiara l’incompetenza del giudice adito, il processo si estingue (art. 50). Infatti, il processo si può concludere in tre modi: con una sentenza di merito di accoglimento o di rigetto della domanda; con una sentenza (oppure un ordinanza) che dichiara l’estinzione del processo o con la conciliazione perché le parti hanno raggiunto un accordo.

LA LITISPENDENZA La litispendenza si ha quando due cause identiche pendono davanti a giudici diversi, cioè due cause aventi gli stessi soggetti, petitum mediato (il bene giuridico) e causa petendi (fatti costitutivi e titolo della domanda) coincidono in tutti e tre gli elementi di identificazione della domanda. La litispendenza è negativa dal punto di vista dell’economia processuale perché aggrava inutilmente il carico di lavoro della giustizia, perché c’è il rischio che i processi sfocino in decisioni contrastanti o il conflitto pratico di giudicati37 e per il principio del ne bis in idem (divieto di giudicare due volte sulla stessa causa).

36 La parola sentenza è stata sostituita con ordinanza dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, con i limiti di applicabilità previsti dalle disposizioni transitorie della stessa legge. 37 Il conflitto pratico di giudicati si ha quando le cause vertono sullo stesso rapporto giuridico sostanziale, invece possono dar luogo a decisioni contrastanti se vi sono cause diverse e su rapporti autonomi.

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Queste ragioni fanno ritenere che nell’ipotesi di litispendenza, una delle due cause debba essere eliminata in base al criterio della prevenzione stabilito dal primo comma dell’art. 39 c.p.c., cioè resta la causa iniziata prima mentre dovrà essere eliminata quella iniziata successivamente. Il criterio per stabilire qual è la causa iniziata prima, l’art. 39, ultimo comma, riformato dalla legge 69/2009 stabilisce: “La prevenzione è determinata dalla notificazione della citazione ovvero dal deposito del ricorso”. Nei processi che iniziano con ricorso vi sono alcuni casi in cui la legge prevede espressamente il momento della pendenza della lite, per esempio nel procedimento per ingiunzione l’ultimo comma dell’art. 643 c.p.c. prevede espressamente che la notificazione del ricorso e del decreto ingiuntivo determina la pendenza della lite. Nel processo del lavoro, che è a cognizione piena e inizia col ricorso, a seguito della modifica del 2009 all’art. 39 la pendenza è stabilita dalla data di deposito del ricorso38. Sicché in relazione al criterio della prevenzione si dovrà esaminare la data della notificazione dell’atto di citazione nei processi ordinari di cognizione e la data del deposito del ricorso nel processo del lavoro. La litispendenza è una questione di rito in cui vi sono due cause coincidenti nel soggetto, petitum e causa petendi sono proposte davanti a uffici giudiziari diversi, quello successivamente adito in ogni stato e grado del processo, anche d’ufficio, dichiara con sentenza la litispendenza e dispone con ordinanza la cancellazione della causa di ruolo e quindi andrà avanti solo il processo iniziato per primo, mentre la sentenza potrà essere impugnata con regolamento necessario di competenza. Il giudice che dovrebbe dichiarare la litispendenza potrebbe voler prima verificare la competenza dell’altro giudice dinanzi al quale la causa è stata iniziata per prima, perché può accadere che il secondo giudice si spogli della causa e poi il primo risulti incompetente. Secondo il vecchio codice esisteva l’art. 104 che stabiliva che il giudice successivamente adito, prima di dichiarare la litispendenza, dovesse verificare che il primo giudice fosse competente. Però questa disposizione non è stata riprodotta dal legislatore del 1940, per cui si ritiene che sia voluto evitare questa verifica pertanto il secondo giudice si dovrà limitare ad accertare l’esistenza di una causa identica pendente per dichiarare la litispendenza, senza interessarsi della questione della competenza. La litispendenza, quindi, si risolve soltanto con la prevenzione per cui il giudice si deve limitare a verificare quale delle due cause è iniziata per prima, anche se resta il rischio che il primo giudice si possa dichiarare incompetente. La litispendenza riguarda la pendenza di una stessa causa dinanzi a uffici giudiziari diversi, ma può anche accadere che penda dinanzi allo stesso giudice oppure a due giudici dello stesso ufficio giudiziario o a due sezioni presenti nello stesso tribunale: anche questa sono ipotesi di litispendenza che però non riguarda la competenza, ma una ripartizione interna. In queste ipotesi la disciplina non è quella dell’art. 39, ma è dell’art. 273 che dispone: “Se più procedimenti relativi alla stessa causa pendono davanti allo stesso giudice, questi, anche d’ufficio, ne ordina la riunione (anche se più che di riunione dovrebbe essere sovrapposizione).” “Se il giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per la stessa causa pende procedimento davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente il quale, sentite le parti, ordina con decreto la riunione determinando la sezione o designando il giudice davanti al quale il procedimento deve proseguire.” In questo articolo cambia il provvedimento: non è una sentenza (perché non è un problema di competenza), ma un decreto: � il giudice deve ordinare la riunione delle cause (primo comma), se più procedimenti relativi

alla stessa causa pendono davanti allo stesso giudice; � il presidente del tribunale deve ordinare la riunione delle cause se ha notizia che per la stessa

causa pende procedimento davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso tribunale

38 Viene depositato in cancelleria, dopodiché il presidente del tribunale fissa con decreto la data dell’udienza e ricorso e decreto vengono notificati alla controparte che si dovrà costituire ed eventualmente comparire in giudizio.

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(secondo comma), ma manca l’indicazione di un criterio per individuare il giudice presso il quale causa debba proseguire39.

CONTINENZA DI CAUSE Si ha la continenza di cause quando due cause identiche per quanto riguarda i soggetti e la causa petendi (il titolo), ma non per il petitum (l’oggetto) che è più ampio rispetto quello dell’altra causa, cioè è tale da contenere (da cui continenza) quello dell’altra causa e in questo caso si ha la continenza quantitativa che è l’ipotesi tradizionale di questo istituto. Disciplina la continenza il secondo comma dell’art. 39 c.p.c. (Litispendenza e continenza di cause), modificato nel 200940: “Nel caso di continenza di cause, se il giudice preventivamente adito è competente anche per la causa proposta successivamente, il giudice di questa dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine perentorio entro il quale le parti debbono riassumere la causa davanti al primo giudice. ...”. Per esempio in una causa l’attore chiede la restituzione di 50 euro per un determinato contratto ed in un'altra, per lo stesso contratto, chiede la restituzione di 100 euro e quindi l’oggetto della seconda causa è quantitativamente più ampio ed è tale da comprendere anche la prima: di conseguenza queste due cause devono essere considerate unitamente. Inizialmente la continenza tra le cause era solo di tipo quantitativo, successivamente la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato il concetto di continenza qualitativa riferita agli effetti giuridici della decisione, quando sono tali da abbracciare quelli di un’altra causa dal punto di vista qualitativo, cioè della pregiudizialità logica interna al rapporto stesso. Per esempio può accadere che l’attore chieda la restituzione di 50 euro a titolo di mutuo e poi viene instaurata un’altra causa dal convenuto per la nullità del contratto di mutuo. Questa è una fattispecie particolare di un rapporto giuridico complesso, cioè dal quale derivano una serie di pretese e di obblighi per le parti: è giusta la restituzione di una somma data a titolo di mutuo finché il contratto è valido, ma se è nullo non c’è neanche il diritto o la pretesa che deriva da quel rapporto. Si parla in questo caso di pregiudizialità logica perché è interno all’unico rapporto giuridico essendo diritti ed obblighi interdipendenti dall’esistenza del rapporto stesso. In questo caso la giurisprudenza parla di domande contrapposte, cioè l’accoglimento dell’una non può coesistere con l’accoglimento dell’altra e allora si tratta di continenza qualitativa ed in questo caso la causa per la nullità del contratto, comprende anche il diritto alla restituzione del denaro basato sullo stesso contratto che si pretende nullo. Per esempio il datore di lavoro agisce nei confronti di un lavoratore licenziato per il risarcimento del danno ad un macchinario e contestualmente il lavoratore impugna il licenziamento chiedendo a sua volta, in un’altra causa il risarcimento. Le due domande sono in contrasto e se le cause pendono davanti a giudici diversi potrebbero portare ad accertamenti contrastanti perché il primo giudice potrà dichiarare legittimo il licenziamento e condannare il lavorare al risarcimento del danno, mentre l’altro giudice potrebbe accogliere l’impugnativa del lavoratore e condannare al risarcimento il datore di lavoro. Per evitare che si creino giudicati contraddittori, cioè quelli che vertono sullo stesso diritto (una sentenza nega un diritto e l’altra lo afferma), la giurisprudenza ritiene che si debba parlare di continenza qualitativa e che le due cause debbano essere riassunte davanti al primo giudice e questo può avvenire anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, come avviene per la litispendenza. Se tra due cause vi è continenza quantitativa, o secondo la tesi prevalente anche continenza qualitativa, il problema deve essere risolto attraverso il criterio della prevenzione, cioè il giudice dovrà stabilire quale è la causa iniziata prima, ma a differenza della litispendenza, nella continenza

39 Questa norma pone dei dubbi di legittimità costituzionale relativo al giudice precostituito per legge, perché le parti non sanno davanti quale giudice andranno, essendo deciso discrezionalmente dal Presidente, anche se nella prassi ci si attiene al criterio dell’art. 39, cioè della prevenzione. 40 È stata sostituita la parola sentenza con ordinanza dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, con i limiti di applicabilità previsti dalle disposizioni transitorie della stessa legge.

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può non essere sufficiente il criterio della prevenzione se vi è differenza nel petitum, perché il giudice dinanzi al quale la causa è iniziata prima, potrebbe non essere competente per valore rispetto all’altro giudice della causa iniziata successivamente. Ad esempio per la prima causa è competente il giudice di pace e per la seconda il tribunale. Quindi mentre nella litispendenza le due cause sono identiche, per cui il problema non si pone, nella continenza si dovrà accertare se il giudice preventivamente adito sia competente anche per l’altra causa pendente davanti il giudice adito successivamente. “Se questi non è competente anche per la causa successivamente proposta, la dichiarazione della continenza e la fissazione del termine sono da lui pronunciate (art. 39 secondo comma)”. Ad esempio nella prima causa viene chiesto il pagamento di una rata di 1.000 euro per cui è compente il giudice di pace, mentre in quella iniziata successivamente viene chiesto il pagamento di 10 rate da 1.000 euro, quindi 10.000 euro, per cui è compente il tribunale In questo caso il secondo giudice ad essere competente, per cui è il primo a dichiarare la continenza a favore del secondo con sentenza e deve fissare il termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice successivamente adito. In sintesi a parità di competenza è compente il giudice preventivamente adito (si applica la prima parte del secondo comma dell’art. 39), invece se è diversa la competenza tra il primo ed il secondo giudice e quello successivamente adito ha la competenza più ampia diventa competente questo (si applica la seconda parte del secondo comma dell’art. 39). In riferimento a questa ipotesi le SS.UU. della Cassazione con la sentenza n. 15905 del 13 luglio 2006 sulla continenza di cause ha affermato che il giudice successivamente adito non solo deve verificare che il giudice preventivamente adito sia competente sulla causa continente (quella più ampia), ma deve anche verificare che questo sia competente sulla causa iniziata davanti a lui, per evitare che il secondo giudice si spogli della causa senza che poi il primo sia competente per entrambe. “Il giudice il quale ravvisi la continenza tra una causa propostagli ed altra precedentemente instaurata dinanzi ad un giudice diverso, deve verificare non solo se sussiste la competenza di quest'ultimo (per materia, territorio inderogabile e derogabile, e valore) in relazione alla causa da rimettergli, ma anche se detto primo giudice è competente per la causa per la quale è stato preventivamente adito” La Cassazione motiva la decisione affermando che mentre il primo comma dell’art. 39 (litispendenza) pone come unico criterio quello della prevenzione senza alcun riferimento alla competenza del primo giudice, per la continenza, invece, il secondo comma dell’art. 39 affermando anche per la causa successivamente proposta, sta a significare che il secondo giudice deve verificare la competenza sia della prima che della seconda causa, prima di dichiarare la continenza e la fissazione del termine.

LA CONNESSIONE La connessione si ha quando due o più cause hanno in comune uno o due dei tre elementi di identificazione dell’azione o della domanda, perché se coincidessero tutti e tre gli elementi identificativi della domanda (soggetti, petitum e causa petendi) diventerebbe litispendenza. Sicché la connessione si ha quando ad essere comune o coincidente è l’elemento soggettivo (cioè, le parti, cioè attore o convenuto) oppure il petitum (il bene giuridico del quale si chiede tutela) o la causa petendi (il titolo della domanda, cioè i fatti costitutivi della domanda). Quindi l’istituto della connessione determina il c.d. simultaneus processus, ossia il legislatore vuole che le cause che presentano questo collegamento fra loro (oggettivo o soggettivo) siano trattate nello stesso processo davanti allo stesso giudice, entro determinati limiti. Tra le esigenze alla base della trattazione simultanea un primo valore è costituito dalla economia processuale, perché se l’attore propone due domande connesse nello stesso processo, dovrà iscrivere una sola volta la causa al ruolo, dovrà nominare un solo difensore e ci sarà un risparmio di attività processuale da parte dell’attore, ma anche per il giudice; per esempio in un incidente stradale che ha

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provocato una pluralità di danni a soggetti diversi ed autovetture diverse l’elemento di collegamento fra le cause è l’oggetto o i fatti costitutivi. Il fatto storico da accertare, cioè la responsabilità del conducente del veicolo, è lo stesso per ciascuna delle domande, quindi il giudice accerterà il fatto una volta per tutte, quindi l’attività istruttoria sarà comune e di conseguenza ci sarà un risparmio di attività processuale evitando di accertare il fatto più volte per cause separate. Alla base della trattazione simultanea della cause, la connessione, vi sono esigenze di economia processuale, ma soprattutto per l’armonia delle decisioni, cioè evitare giudizi contrastanti, di cui il presupposto è la connessione. Per esempio la connessione per pregiudizialità di dipendenza che si ha quando tra due rapporti giuridici sostanziali l’uno costituisce il presupposto per l’esistenza o l’inesistenza dell’altro. L’esempio classico è il diritto al mantenimento, il cui presupposto è un rapporto di filiazione, se vengono proposte due domande, in una l’attore chiede il mantenimento al convenuto ed un’altra in cui il convenuto chiede l’accertamento dell’inesistenza di qualsiasi legame di parentela rispetto al creditore alimentare (cioè chi afferma di essere creditore degli alimenti), se queste due cause fossero decise separatamente potrebbero portare a decisioni contrastanti da un punto di vista logico, perché la prima causa potrebbe concludersi con una sentenza con cui il giudice condanna l’attore al pagamento degli alimenti, mentre l’altra causa, avendo ad oggetto un diritto diverso, anche se pregiudiziale, il giudice potrebbe negare un rapporto di parentela tra le stesse parti e quindi rende inesistente il diritto agli alimenti, per cui avremmo da un lato una sentenza che afferma il diritto agli alimenti, dall’altro una sentenza che nega il rapporto di filiazione tra gli stessi soggetti. Per evitare questo le due domande devono essere trattate nello stesso processo in modo che il giudice dovrà pronunciarsi prima sulla domanda pregiudiziale (se esiste o meno il rapporto di filiazione) e poi, sulla base dell’accertamento, sul diritto dipendente cioè sul diritto agli alimenti. Ancora più importante è la reazione del simultaneus processus quando sono cause che vertono addirittura sullo stesso diritto, nel senso di che ci sono più titolari del diritto che hanno una legittimazione disgiunta, cioè ciascuno può agire autonomamente nel processo, perché se queste cause fossero trattate separatamente potrebbero portare ad un conflitto pratico di giudicati. In altri termini mentre nel conflitto logico sono pur sempre rapporti o diritti autonomi legati da un vincolo di dipendenza, il conflitto pratico si ha quando il contrasto di giudicati verte sullo stesso diritto, per cui in un processo quel diritto viene considerato esistente e in un altro lo stesso diritto viene considerato inesistente. È anche vero che la trattazione simultanea nello stesso processo di più cause, potrebbe avere un’incidenza negativa sulla lunghezza dei processi, perché una cosa è trattare una singola causa e altra è trattarne cinque insieme con pluralità di parti che potranno sollevare eccezioni diverse. È chiaro che la trattazione simultanea può incidere negativamente sulla rapida definizione delle singole cause, perché ne rende più complesso lo svolgimento della trattazione e la istruzione della causa e potrebbe finire col rallentarle che altrimenti potrebbero essere decise più rapidamente. Fra queste esigenze che possono entrare in collisione, da un lato l’economia e l’armonia delle decisioni e dall’altro la rapida decisione delle controversie, bisogna capire se privilegiare se il giudicato o la durata. L’armonia dei giudicati è un valore però non vi è nessuna norma, sia il codice che la Costituzione, che la tutela espressamente, tanto è vero che le cause potrebbero essere proposte separatamente. Invece la ragionevole durata del processo è sancita dal 1999 nell’art. 111 Cost. e già prima dalla Convenzione di Roma per cui è una garanzia di rango costituzionale da preferire all’economia processuale e all’armonia dei giudicati. Del resto la disciplina della connessione assicura il simultaneus processus, purché non sia di ostacolo alla rapida definizione delle cause. La connessione è regolata l’art. 40 c.p.c. istituto per il quale ci sono dei limiti entro cui la connessione può essere eccepita o rilevata d’ufficio dalle parti. L’art. 40 primo comma dispone: “Se sono proposte davanti a giudici diversi più cause, le quali per ragioni di connessione possono essere decise in un solo processo (cioè le due domande sono state proposte separatamente), il

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giudice fissa con ordinanza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria, davanti al giudice della causa principale e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito.” Quindi anche nella connessione opera il criterio della prevenzione, per cui la causa iniziata prima dovrebbe trovarsi più avanti rispetto a quella iniziata dopo. Tuttavia il secondo comma dispone: “La connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata d’ufficio dopo la prima udienza (cioè l’udienza di trattazione, per cui se nessuno la eccepisce o la rileva le cause proseguono separatamente), e la rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l’esauriente trattazione e decisone delle cause connesse.” Se viene eccepita o rilevata la connessione il giudice della causa accessoria o successivamente adito, con ordinanza41 la dichiara e fissa un termine per la riassunzione innanzi al giudice preventivamente adito, ma la parte che non ritiene che vi sia una connessione può impugnare l’ordinanza attraverso il regolamento necessario di competenza dinanzi la Corte di cassazione. Non può essere ordinata la connessione anche quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse, cioè quando caricarsi l’altra causa significa rallentare la prima causa per cui può essere ordinata solo se consente l’esauriente trattazione e decisione di entrambe. L’interesse del legislatore ad assicurare una rapida definizione della causa è ancora più evidente nell’art. 103 c.p.c. sul litisconsorzio facoltativo, il cui presupposto è la connessione, che al secondo comma dispone: “Il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause (quindi sono cause riunite secondo il principio simultaneus processus), se vi è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore la causa di sua competenza.” Quindi è sempre possibile la separazione su accordo delle parti (naturalmente la parte che ha torto non ha interesse a che la causa sia decisa prima), oppure è rimessa al potere discrezionale del giudice rispetto su cui la parte non può nulla e per questo per la Reali il codice diminuisce le garanzie delle parti, perché la parte non può proporre alcuna impugnazione se il giudice non dispone la separazione delle cause. Quindi anche per il diritto positivo il valore da privilegiare è la rapida definizione delle cause. I tipi di connessione possono essere diversi e tra questi la connessione soggettiva, quando le cause hanno in comune solo l’elemento soggettivo (le parti), cioè sono proposte da o contro la stessa parte, per esempio l’attore agisce contro il convenuto chiedendo il risarcimento del danno per responsabilità aquiliana, cagionato dal cane che questi aveva in custodia e con l’occasione propone contro lo stesso convenuto la domanda di restituzione di una cosa che gli aveva dato in comodato. Le due cause non hanno niente in comune da un punto di vista soggettivo, ma sono proposte dall’attore nei confronti dello stesso convenuto e in questo caso la riunione dei processi potrebbe complicarne notevolmente lo svolgimento, perché le due cause non hanno niente in comune. L’unica esigenza è quella dell’economia processuale, in quanto l’attore iscriverà una sola volta la causa a ruolo, nominerà una sola volta il difensore e quindi solo un risparmio dell’attività iniziale. Per questo motivo la connessione soggettiva è disciplinata dall’art. 104 c.p.c. (Pluralità di domande contro la stessa parte): “Contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la norma dell’art. 10 secondo comma”. Il secondo comma dell’art. 10 stabilisce come si determina la competenza per valore, disponendo che “le domande proposte nello stesso processo contro la medesima persona si sommano tra loro …”. Sostanzialmente l’art. 104 stabilisce che l’attore può proporre più domande, non altrimenti connesse, contro la stesso convenuto nello stesso processo, ma deve osservare l’art. 10 c.p.c. per cui il valore delle due domande si somma e quindi se in una si chiede il risarcimento del danno di 10.000 €, mentre nell’altra la cosa data in comodato vale 500 € (domande che se proposte

41 Prima del d.lgs. 69/2009 era prevista con sentenza.

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separatamente apparterebbero alla competenza per materia e per valore di giudici diversi) se l’attore decide di proporle insieme le deve sommare e quindi il valore sarà di 10.500€ e deve proporre la domanda davanti al tribunale, giudice competente per la somma dei valori delle domande, e questa è l’unica variazione che il legislatore consente. Il legislatore vuole che le domande connesse siano proposte insieme, il problema sorge se queste appartengono alla competenza per materia, valore o territorio di giudici diversi, quindi dovrebbero essere trattate innanzi ad uffici giudiziari diversi. Il legislatore, per realizzare la simultanea trattazione ab origine e in corso di causa, prevede delle deroghe alla competenza per ragioni di connessione e quindi che la domanda possa essere proposta davanti ad un giudice diverso rispetto a quello che sarebbe competente in base agli ordinari criteri di competenza per territorio, per materia e per valore. L’unica deroga al principio della competenza ammessa è solo per la somma dei valori, in quando più domande possono essere proposte nello stesso processo solo se tutte rientrano nella competenza per materia, territorio e valore dello stesso ufficio giudiziario, perché si tratta di un tipo di connessione molto labile, essendo gli oggetti completamente diversi, per cui è una connessione soggettiva che dà luogo al c.d. cumulo oggettivo, giustificata solo da una limitatissima esigenza di economia processuale non avendo le cause nessun elemento oggettivo in comune. Il legislatore dà la possibilità all’attore di proporre le domande soggettivamente connesse nello stesso processo, ma a condizione che le domande rientrino nella competenza dello stesso ufficio giudiziario, altrimenti questa trattazione simultanea non si potrà realizzare. Diversa è la connessione oggettiva, cioè per le cause che hanno in comune l’elemento oggettivo (il petitum o la causa pretendi o entrambi) presentano un vincolo più forte fra loro, tant’è che il legislatore in taluni casi consente, al fine di favorire la trattazione simultanea, la deroga alla competenza per ragioni di connessione oggettiva. Dobbiamo distinguere tra connessione oggettiva propria ed impropria di cui quella propria a sua volta si distingue in semplice e qualificata in particolari ipotesi. La connessione oggettiva impropria è disciplinata dall’art. 103 c.p.c.: “Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste una connessione per l’oggetto o per il titolo (connessione oggettiva propria) dal quale dipendono, oppure quando la decisone dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni (connessione oggettiva impropria).” Si dice impropria perché queste due cause non sono connesse per l’oggetto o per il titolo, ma solo dalla necessità di risolvere identiche questioni, che oltretutto il legislatore neanche precisa quali questioni sono. Dottrina e giurisprudenza ritengono che il legislatore si riferisca alle questioni di diritto o di fatto dalla cui soluzione può dipendere la decisione di due o più cause. Per esempio la connessione impropria si verifica con maggior frequenza nelle controversie di lavoro. I rapporti di lavoro con lo stesso datore di lavoro, spesso sono disciplinati nello stesso modo in base a contratti standard (contratti collettivi o individuali), per cui può essere che più lavoratori agiscano chiedendo al datore di lavoro una differenza retributiva o una indennità sulla base di una norma o ad una clausola del contratto di lavoro che è uguale ad altri lavoratori, ma che può dare adito ad interpretazioni diverse. I contratti di lavoro sono stipulati nello stesso modo, con lo stesso contenuto, però qui la connessione non è per l’oggetto o per il titolo perché il diritto che ciascun lavoratore fa valere è autonomo rispetto al diritto dell’altro lavoratore e non è per il titolo perché ciascuno stipula un proprio contratto di lavoro, quindi questi diritti sono diversi e si basano su titoli autonomi (i singoli contratti di lavoro), in comune hanno il fatto che l’esistenza di questo diritto dipende dalla interpretazione della stessa norma o clausola contrattuale, cioè dalla soluzione della stessa questione di diritto. Questo è un motivo per riunire e trattare insieme cause del tutto autonome, perché riguardano diritti e titoli differenti che fanno capo a ciascun lavoratore nei confronti del datore di lavoro, però la

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decisone dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni di diritto e questo è motivo per favorire la trattazione simultanea. Un’altra ipotesi è quella relativa ai contratti stipulati mediante sottoscrizione di moduli o formulari, se dall’interpretazione di una stessa clausola dipende il diritto di ciascun consumatore. La connessione oggettiva impropria è una connessione debole perché i diritti e i petita sono autonomi per cui le cause potrebbero andare avanti ciascuno per proprio conto. Il legislatore vuole che siano trattate insieme per una questione di economia processuale e di uniformità di precedenti giurisprudenziali che però è un valore molto relativo, perché (diversamente dagli ordinamenti anglosassoni) nel nostro ordinamento il precedente non ha efficacia vincolante, anzi è riconosciuta la possibilità che si formino delle decisioni sulle stesse questioni di diritto anche in contrasto fra loro. Comunque le cause possono essere trattate insieme solo se tutte rientrino nella competenza dello stesso ufficio giudiziario, perché se appartengono alla competenza per materia, valore o territorio di giudici differenti il processo simultaneo per connessione oggettiva impropria non potrà essere realizzato, per cui la connessione impropria non consente la possibilità di deroghe alla competenza per favorire la trattazione simultanea. La connessione oggettiva propria semplice, rispetto alla quale sono previste deroghe alla competenza, si ha quando la connessione è per l’oggetto o per il titolo ed è prevista: � dall’art. 33 c.p.c. sotto il profilo delle deroghe alla competenza per ragioni di connessione, � dalla prima parte del primo comma dell’art. 103 c.p.c. quando le cause sono proposte da più parti

che agiscono insieme nello stesso processo. Individuare il giudice competente nella connessione oggettiva l’art. 33 c.p.c. - cumulo soggettivo: “Le cause contro più persone che a norma degli articoli 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse con l’oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo”. Si tratta di più cause proposte contro più persone diverse connesse per l’oggetto o per il titolo tant’è che l’art. 33 è rubricato cumulo soggettivo ed un’ipotesi molto diversa rispetto alla connessione soggettiva42. Infatti la connessione soggettiva da origine ad un cumulo oggettivo di cause, mentre la connessione oggettiva da luogo ad un cumulo soggettivo di cause43. La competenza si determina sulla base della residenza o del domicilio, per cui abbiamo due cause che l’attore propone contro soggetti che hanno domicilio o residenza diversi e ciò implica che queste cause dovrebbero essere trattate davanti a giudici diversi (ad esempio il giudice di Taranto e quello di Bari), ma la connessione oggettiva crea un legame particolarmente intenso perché è prevista la possibilità di deroga al foro generale di uno dei due convenuti (persona fisica o giuridica, ex artt. 18 – 19), per favorire la trattazione congiunta della causa davanti allo stesso ufficio giudiziario. L’attore, cioè, può scegliere di proporre la causa davanti ad uno dei giudici competenti, consentendo la deroga al principio generale della competenza, costituito dalla residenza o domicilio del convenuto, per favorire la trattazione simultanea delle cause, connesse per l’oggetto o per il titolo, dinnanzi allo stesso ufficio giudiziario. Un ipotesi di connessione oggettiva per l’oggetto si ha quando il proprietario propone un’azione di rivendica di un bene nei confronti di due compossessori del bene, uno residente a Taranto l’altro a Torino, ed in questo caso l’attore potrà proporre la domanda innanzi al giudice che è competente per uno dei luoghi in cui ha residenza o domicilio dei due convenuti. Un esempio di connessione oggettiva per il titolo, cioè relativo al fatto costitutivo del diritto, è l’incidente stradale che ha provocato un pluralità di danneggiati oppure il creditore che agisce nei confronti di condebitori ciascuno dei quali è tenuto a pagare una somma di denaro per la sua parte (siamo nell’ambito di obbligazioni divisibili), quindi il titolo (l’obbligazione) e il fatto costitutivo

42 Più cause proposte contro la stessa persona danno luogo al cumulo oggettivo, cioè oggetti completamente diversi contro la stessa persona cumulati nello stesso processo. 43 Una o più domande connesse per oggetto o per titolo contro persone diverse.

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del diritto del creditore è lo stesso. In questi caso l’attore può far valere i suoi diritti nello stesso processo in deroga alla regola generale sulla competenza per territorio, fermo restando la possibilità per l’attore di presentare la domanda nei confronti dei condebitori separatamente e ciascuno risponderà per la sua quota, essendo diritti soggettivamente diversi possono essere fatti valere autonomamente. Altra ipotesi di diritto e fatto costitutivo insieme si ha nell’ambito delle impugnazioni di una delibera assembleare condominiale in cui è identico il fatto costitutivo e il diritto che si fa valere. In tutti questi casi l’attore ha una possibilità in più in quanto le cause possono essere trattate nello stesso processo, in deroga al foro generale della competenza. Nelle obbligazioni dove foro generale è la residenza o domicilio del convenuto, ma competente è anche il giudice del luogo dove è sorta l’obbligazione; nell’ipotesi di due convenuti residenti in due luoghi diversi (Torino e Taranto), se l’obbligazione è sorta a Bari, per la giurisprudenza, contrariamente alla dottrina, l’attore non può iniziare il processo a Bari sulla base della lettera della norma perché l’art. 33 c.p.c. fa riferimento esclusivamente agli artt. 18 e 19 c.p.c. ed al fatto che la causa possa essere proposta davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una delle parti, non cita il giudice del luogo in cui è sorta l’obbligazione. La giurisprudenza interpreta la norma in termini molto rigorosi per cui la deroga è possibile solo a favore del giudice del luogo in cui uno dei due convenuti ha residenza o il domicilio, ma non del giudice competente in base ad altri criteri, come quello speciale delle obbligazioni. La connessione oggettiva propria qualificata é prevista dall’art. 31 all’art. 36 c.p.c. (escluso l’art. 33) ed è qualificata perché sono tutte ipotesi tipiche: connessione per accessorietà (art. 31), per garanzia (art. 32), per pregiudizialità di pendenza (art. 34), per compensazione (art. 35), per riconvenzione (art. 36). La connessione per accessorietà è regolata dall’art. 31 c.p.c. (cause accessorie): “La domanda accessoria può essere proposta al giudice territorialmente competente per la domanda principale affinché sia decisa nello stesso processo, osservata, quanto alla competenza per valore, la disposizione art. 10 secondo comma (le domande proposte contro la stessa persona devono essere sommate, ad esempio gli interessi si sommano al capitale).” Ci sono due domande (principale e accessoria), di competenza di giudici diversi, di cui la domanda accessoria è basata su un titolo autonomo, ma fondata sul titolo della domanda principale e quindi c’è una stretta correlazione fra le due domande. Ad esempio nel contratto di mutuo nell’ipotesi in cui il mutuante (chi concede il mutuo) proponga una domanda per la restituzione del capitale o della cosa data in mutuo al mutuatario ed un’altra domanda per il pagamento degli interessi sul mutuo. Quest’ultima è una domanda autonoma, però è accessoria perché ha il suo fondamento, il suo titolo, nella domanda principale perché se viene rigettata la domanda principale di restituzione del capitale dato in mutuo, dovrà essere rigettata anche quella relativa al pagamento degli interessi, viceversa se viene accolta la domanda principale dovrà essere accolta anche la domanda accessoria perché strettamente legata alla principale. Quindi la domanda accessoria in caso di rigetto viene assorbita dal rigetto della domanda principale, e allo stesso modo nel caso di accoglimento deve essere a sua volta accolta sempre perché legata alla domanda principale. Domande accessorie sono anche quelle che riguardano la restituzione o il risarcimento dei danni a seguito di annullamento o risoluzione di un contratto (domanda restitutoria) o l’ipotesi in cui il possessore agisce perché viene turbato il suo possesso chiedendo l’accertamento della turbativa e la rimessione in pristino (ripristino dello stato dei luoghi) e il risarcimento del danno, anche queste ultime sono domande accessorie rispetto alla principale (l’accertamento della turbativa). L’art. 31 c.p.c. deroga alla competenza per territorio stabilendo che la domanda accessoria per la quale sarebbe competente territorialmente un determinato giudice, può essere proposta davanti al giudice territorialmente competente per la domanda principale. Per cui se per la domanda accessoria fosse competente il giudice di Torino e per la principale il giudice di Bari, l’attore ha la facoltà di proporre entrambe le domande innanzi al giudice di Bari.

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Altra ipotesi di connessione qualificata è la connessione per garanzia ex art. 32 c.p.c. (Cause di garanzia): “La domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la domanda principale, affinché sia decisa nello stesso processo, qualora essa ecceda la competenza per valore del giudice adito, questi rimette entrambe le cause al giudice superiore, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione.” Il rapporto di garanzia si ha quando un soggetto, il garante, si obbliga ad indennizzare un altro soggetto, il garantito, dalle conseguenze dell’eventuale soccombenza di quest’ultimo nel processo. Bisogna distinguere tra garanzia propria ed impropria ed un esempio tipico di garanzia si ha nei contratti di compravendita, perché tra le obbligazioni del venditore vi è quella di garantire il compratore dall’evizione (ex art. 1476 c.c.), cioè se un terzo afferma di vantare dei diritti sulla cosa venduta, il compratore potrà chiamare in causa il venditore (ex art. 1485 c.c.) e se il terzo risulta titolare del bene dovrà restituire il prezzo al compratore (ex art. 1479 c.c.), oltre a dover risarcire i danni (ex art. 1483 c.c.). È una tipica ipotesi di garanzia perché il venditore è obbligato, per legge, a tenere indenne il compratore dall’eventuale soccombenza che possa derivare dal processo instaurato nei suoi confronti da un terzo che rivendica dei diritti sulla cosa. Ulteriore esempio è quello della fideiussione, dove il fideiussore si obbliga a garantire i debiti di un altro soggetto e che ha poi il diritto di regresso (di rivalsa) nei confronti del debitore. La garanzia si distingue in propria ed impropria: � La garanzia è propria quando si fonda nella legge o nella domanda principale e costituisce

oggetto della domanda dedotta in giudizio, ad esempio nel caso della fideiussione e nella garanzia per l’evizione.

� La garanzia impropria si fonda in un rapporto distinto da quello dedotto in giudizio, esempio tipico è quello della garanzia delle vendite a catena. Se si acquista un oggetto il venditore ne risponde per eventuali i vizi della cosa, ma questi a sua volta potrà chiamare in garanzia il grossista che gli ha venduto il bene e quest’ultimo il produttore del bene. Tutte queste domande danno luogo a cause separate, ma sono collegate per garanzia da un fatto eccezionale, cioè che la stessa merce è stata venduta più volte, per sono rapporti autonomi e per questo si parla di garanzia impropria.

Questa distinzione è fondamentale ai fini dell’applicazione dell’art. 32 c.p.c. in quanto la giurisprudenza afferma che questa norma si applica soltanto nelle ipotesi di garanzia propria. Significa che nelle ipotesi di garanzia impropria non ci potrà essere deroga alla competenza, pertanto le diverse cause, per esempio tra negoziante ed acquirente finale, potranno essere trattate nello stesso processo solo se rientrino tutte nella competenza per materia, valore e territorio dello stesso ufficio giudiziario. Viceversa, dalla lettera dell’art. 32, si desume che nella garanzia propria è possibile derogare alla competenza, perché la domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la causa principale, affinché sia decisa nello stesso processo; sicché sulla domanda di garanzia è possibile derogare alla competenza proponendo innanzi al giudice competente per la domanda principale. Inoltre, qualora la domanda di garanzia ecceda la competenza per valore del giudice adito per la causa principale, questi deve rimettere entrambe le cause innanzi ad un giudice superiore competente per valore, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa innanzi al giudice superiore. Quindi c’è la possibilità di derogare alla competenza per territorio, ma anche per valore, anche se però queste deroghe vengono superate da un’altra disposizione. In precedenza tali disposizioni creavano più problemi perché avevano maggiore possibilità di applicazione quando in primo grado i giudici erano tre: il conciliatore, il pretore ed il tribunale con competenze di valore diverse. Oggi, invece, quando si pone un problema di competenza tra giudice di pace e tribunale, l’art 40 c.p.c. prevede che la causa vada proposta davanti al tribunale, per cui viene risolto il problema della competenza in verticale, in quanto se c’è connessione tra una causa che appartiene alla competenza del giudice di pace ed un’altra al tribunale, la questione di competenza è sempre risolta in favore del tribunale.

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In sostanza queste norme trovano applicazione soprattutto con riferimento alla competenza per territorio, cioè quando sulla domanda di garanzia e su quella principale ci sono giudici competenti territorialmente diversi e quindi l’art. 32 c.p.c. dispone che la domanda di garanzia potrà essere proposta innanzi al giudice territorialmente competente per la domanda principale. Altra ipotesi di connessione è quella prevista dall’art 34 c.p.c. (Accertamenti incidentali) che disciplina la connessione per pregiudizialità di pendenza: “Il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui.”Si ha nell’ipotesi in cui, nel corso del processo, sorge una questione pregiudiziale che, per legge o esplicita domanda di una delle parti, deve essere decisa con efficacia di giudicato. In senso letterale una questione pregiudiziale deve essere decisa prima rispetto alla sentenza di merito, però l’art 34 c.p.c. non si riferisce a qualsiasi questione pregiudiziale, ma in particolare a quella di pendenza in senso tecnico, cioè una questione che ha per oggetto il cosiddetto fatto-diritto ossia un vero e proprio diritto che costituisce il presupposto logico necessario della fattispecie, da cui deriva un altro diritto o rapporto come fatto costitutivo estintivo o impeditivo. L’art. 34 c.p.c. quindi si riferisce alla connessione per pregiudizialità di pendenza in senso tecnico, cioè alla connessione che può esistere dal particolare collegamento fra due diritti o due rapporti giuridici sostanziali autonomi, di cui l’uno costituisce il presupposto logico-giuridico per l’esistenza o inesistenza dell’altro. Per esempio il diritto al mantenimento dipende dal rapporto di filiazione che è questione pregiudiziale allo stesso diritto al mantenimento, ma è anche un rapporto autonomo che diventa costitutivo per la fattispecie del diritto al mantenimento. Altro esempio, il caso in cui l’attore agisce in giudizio per il risarcimento del danno derivato dalla caduta di un cornicione o un vaso da un balcone, per cui l’attore agisce nei confronti del proprietario dell’immobile, mentre il convenuto nega di essere il proprietario: la soluzione della questione sulla proprietà dell’immobile è pregiudiziale rispetto alla questione del risarcimento del danno, perché ci sarà il diritto al risarcimento del danno in quanto il convenuto che ha sollevato la questione sia proprietario. La norma afferma che il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale, significando che ci sono dei casi stabiliti dalla legge in cui necessariamente il giudice deve decidere la questione pregiudiziale con efficacia di giudicato. In questa ipotesi rientrano tutti i casi in cui la questione pregiudiziale riguardi lo stato e la capacità delle persone sulle quali il giudice deve decidere, per legge, con efficacia di giudicato, oppure può essere la parte a chiedere che decida con efficacia di giudicato. Se né la legge o né la parte chiedono che il giudice decida con efficacia di giudicato la questione dovrà essere risolta dal giudice senza efficacia di giudicato, in sostanza il giudice può conoscere le questioni pregiudiziali incidenter tantum, cioè senza efficacia di giudicato a meno che non sia la legge o una delle parti a chiedergli di decidere con efficacia di giudicato. Quindi, sulla base dell’art. 34, sulle questioni pregiudiziali bisogna distinguere tra punto pregiudiziale, questione pregiudiziale e domanda pregiudiziale. Il punto pregiudiziale si ha quando il diritto che costituisce il presupposto per l’esistenza di un altro diritto, per esempio la qualità di proprietario rispetto al diritto al risarcimento del danno, non è contestato dal convenuto: se l’attore agisce per il risarcimento del danno ed il convenuto non contesta il suo essere proprietario, il giudice lo considera un punto pregiudiziale pacifico, perché nessuno lo ha contestato. Se, invece, il convenuto contesta quella qualità, per esempio quella di proprietario di un bene rispetto il diritto al risarcimento oppure di erede rispetto un debito ereditario, tale contestazione rende quel punto controverso, non più pacifico, determinando così il sorgere di una questione pregiudiziale che il giudice deve risolvere solo al fine di stabilire se sussista o meno il risarcimento

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del danno, quindi nell’ambito dello stesso processo e senza efficacia di giudicato, perché nessuno gli ha chiesto di decidere con efficacia di giudicato. La questione pregiudiziale mira soltanto ad ottenere il rigetto della domanda dell’attore che viene contestata, ma rimane all’interno dello stesso processo in quanto il giudice deve comunque risolvere la questione contestata e lo fa nella sentenza, ma senza efficacia di giudicato e cioè la questione potrà essere riproposta in un altro processo perché non si è formato il giudicato sulla qualità di proprietario, per cui può essere rimessa in discussione in un altro processo. Un esempio si ha nell’ipotesi disciplinata dall’art. 124 (Vincolo di precedente matrimonio): “Il coniuge può in qualunque tempo impugnare il matrimonio dell'altro coniuge; se si oppone la nullità del primo matrimonio, tale questione deve essere preventivamente giudicata.” Se il convenuto non solo contesta di essere il proprietario, ma chiede un accertamento negativo e cioè che non è lui il proprietario, in questo caso il convenuto propone una vera e propria domanda di accertamento incidentale, perché viene proposto nel corso del processo già instaurato. La domanda di accertamento incidentale è connessa per pregiudizialità ed in questo caso il giudice deve decidere con efficacia di giudicato, ma deve anche essere competente, mentre se rimane a semplice questione il problema della competenza non si pone perché il giudice la conosce solo ai fini di accogliere o meno la domanda. Sorge allora il problema della competenza, cioè verificare se il giudice adito sulla domanda, diventata ora dipendente, sia competente anche sulla domanda principale. Questo problema è risolto dall’art. 34 c.p.c. disponendo che il giudice adito rimette tutta la causa al giudice superiore assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice superiore, pertanto il simultaneus processus si celebrerà innanzi a questo. Viene così derogata la competenza del giudice adito sulla prima domanda, poi diventata domanda dipendente, ed entrambe le cause verranno trattate e decise dinnanzi al giudice superiore competente per materia o per valore sulla domanda pregiudiziale. Un problema che si può porre è se il giudice adito ha una competenza per materia inderogabile sulla prima domanda e si poneva in passato per il pretore in quanto aveva una competenza inderogabile in materia di lavoro, oggi invece il problema si può porre con riferimento alle sezioni specializzate (tribunale per i minorenni o le sezioni specializzate agrarie) che hanno una competenza specializzata per materia, per cui l’ufficio giudiziario non può rimettere la sua domanda al giudice superiore, perché questo è incompetente per materia essendo la competenza per materia non derogabile (lo stesso avviene per la competenza per territorio inderogabile) a differenza di quanto avviene con la competenza per valore e per territorio. L’art. 34 c.p.c. prevede che si realizzi il simultaneus processus davanti al giudice superiore, ma se tale simultaneo processo non si può realizzare, quindi il giudice inferiore non può rimettere la causa al giudice superiore perché ha una competenza per materia inderogabile sulla domanda, il giudice della domanda dipendente deve sospendere il suo processo in attesa che il giudice superiore si pronunci con efficacia di giudicato sulla domanda pregiudiziale, quindi poi il processo riprenderà dopo eventualmente che il giudice si sia pronunciato. L’art. 35 c.p.c. (Eccezione di compensazione) stabilisce che: “ Quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, questi, se la domanda è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione relativa all’eccezione di compensazione, subordinando, quando occorre, l’esecuzione della sentenza alla prestazione di una cauzione; altrimenti provvede a norma dell’articolo precedente.” È il caso in cui il convenuto eccepisce in giudizio all’attore che rivendica un credito pecuniario, l’esistenza di un controcredito vantato nei confronti dello stesso attore, cioè fa valere un vero e proprio diritto. La compensazione è uno dei modo di estinzione delle obbligazioni per quantità corrispondenti aventi per oggetto somme di denaro e ricorre quando fra le parti ci sono reciproci rapporti obbligatori di credito e debito.

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Stando all’art. 34 c.p.c. trattandosi di una eccezione di compensazione, il giudice dovrebbe conoscerne incidenter tantum, però questa è una ipotesi in cui per legge il giudice deve decidere con efficacia di giudicato, perché lo prevede l’art. 35, tanto è vero che si pone il problema della competenza e la possibilità che venga applicato l’art. 34, cioè che entrambe le cause siano rimesse al giudice superiore se quello adito non è competente per valore sul controcredito eccepito dal convenuto. La dottrina ritiene che questa sia una di quelle ipotesi per cui, per legge, il giudice deve decidere sulla questione con efficacia di giudicato. Ai sensi dell’art. 35 l’eccezione del convenuto deve avere due presupposti si deve trattare di un credito contestato e deve essere eccedente la competenza per valore del giudice adito, in quanto per una domanda competente il giudice di pace, per l’altra il tribunale. Al contrario se la domanda proposta dall’attore è fondata su un titolo non controverso (per esempio il convenuto non ha contestato il credito) o se è facilmente accertabile (è accertabile su una prova documentale), il giudice adito può decidere sulla domanda per cui se ritiene esistente il credito emette una sentenza di condanna con riserva delle eccezioni essendo un provvedimento sommario, cioè senza andare a delibare (ad analizzare) l’eccezione sollevata dal convenuto, ma riserva la decisione sulla eccezione al giudice superiore, perché lui non è il giudice competente per valore. In questo caso il giudice, nel momento in cui condanna il convenuto al pagamento di una determinata somma di denaro, potrà subordinare l’esecuzione della sentenza alla prestazione di un’idonea cauzione, perché il giudice che dovrà decidere sull’eccezione relativa al controcredito potrebbe ritenere quell’eccezione fondata per cui bisognerà recuperare quella somma. In sintesi il giudice non competente per valore sull’eccezione di compensazione e sempre che la condanna iniziale sia fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, decide sulla domanda e rimette l’eccezione di compensazione al giudice superiore affinché decida. Altra possibilità è che il giudice applichi l’art. 34 c.p.c. quando non ci sono i presupposti previsti dall’art. 35 c.p.c. perché magari anche la prima domanda ha per oggetto un credito controverso oppure rientra nella scelta perché ci sono dei problemi che richiedono accertamenti più lunghi. In questo caso l’art. 35 stabilisce che si applica l’art. 34 c.p.c. significando che il giudice potrà rimettere entrambe le cause davanti al giudice superiore (la domanda del credito vantato dall’attore e quella del controcredito vantato dal convenuto) per essere decise nello stesso processo e questo comporta una deroga alla competenza del giudice inizialmente adito, competente sulla prima domanda. Ultima ipotesi di connessione qualificata è la riconvenzione, cioè la domanda riconvenzionale (art. 36 c.p.c.) proposta dal convenuto che è una vera e propria domanda rispetto a quella formulata dall’attore. L’art. 36 - cause riconvenzionali: “Il giudice competente per la causa principale conosce anche delle domande riconvenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione, purché non eccedono la sua competenza per materia o valore; altrimenti le disposizioni dei due articoli precedenti.” Questa è un particolare tipo di domanda riconvenzionale proposta dal convenuto, che diviene attore in riconvenzione, che dipende dal titolo dedotto in giudizio dall’attore. Ad esempio l’attore chiede al convenuto il pagamento del prezzo derivante da un contratto di compravendita e il convenuto, a sua volta, domanda la consegna del bene: quella del convenuto è una vera e propria domanda perché ha per oggetto un diritto autonomo che, però, dipende dallo stesso titolo dedotto in giudizio dall’attore (il contratto di compravendita stipulato). La domanda è perfettamente compatibile con quella dell’attore, perché il convenuto non contesta l’esistenza del contratto, ma sta solo chiedendo al giudice di condannare l’attore alla consegna della cosa ed è una domanda riconvenzionale che rientra nell’art. 36, in quanto la domanda del convenuto dipende dal titolo dedotto in giudizio dall’attore. L’art. 167 c.p.c. (comparsa di risposta) prevede che se il convenuto vuole proporre domanda riconvenzionale lo deve fare, a pena di decadenza, nel suo primo atto difensivo (comparsa di riposta), costituendosi 20 giorni prima dell’udienza in cancelleria (art. 166), se non lo fa in questo

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termine non potrà più proporre la domanda riconvenzionale, ma potrà sempre proporre una domanda in via autonoma in un altro giudizio. Altra ipotesi è la domanda riconvenzionale che dipende dal titolo che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione. Per esempio l’attore che agisce in giudizio contro il convenuto per chiedere il pagamento del prezzo oppure l’adempimento del contratto, mentre il convenuto eccepisce l’inadempimento dell’attore oppure l’eccessiva onerosità e chiede la risoluzione del contratto. Quella del convenuto è una vera e propria domanda riconvenzionale, perché la domanda di risoluzione ha un proprio petitum (si chiede al giudice una sentenza costitutiva) che dipende dal titolo che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione (l’inadempimento dell’attore o l’eccessiva onerosità), per cui il convenuto non si limita a far valere il fatto estintivo, ma propone una vera e propria domanda fondata nel fatto estintivo, cioè la domanda di risoluzione del contratto o anche il risarcimento del danno. A differenza dell’altra, questa domanda riconvenzionale è incompatibile con la domanda dell’attore e costituisce uno sviluppo della difesa del convenuto, perché il giudice accoglierà la domanda dell’attore che pretende l’esecuzione del contratto, cioè il pagamento del prezzo, oppure darà ragione il convenuto accertando l’inadempimento e dichiarando la risoluzione del contratto. Le domande pertanto sono incompatibili e la domanda riconvenzionale rappresenta uno sviluppo ulteriore della difesa del convenuto. Mentre nel primo caso le due domande erano compatibili, l’accoglimento dell’una non escludeva l’accoglimento dell’altra, nella seconda ipotesi il giudice dovrà accogliere una delle due domande e necessariamente rigettare l’altra. Un’ipotesi particolare è la reconventio reconventionis, cioè la riconvenzionale della riconvenzionale, che può essere proposta dall’attore e si ha quando l’attore propone una domanda nei confronti del convenuto, il convenuto propone domanda riconvenzionale nei confronti dell’attore, l’attore sulla base della riconvenzionale propone un ulteriore domanda riconvenzionale. Per molto tempo si è discusso se la reconventio reconventionis fosse ammissibile, oggi il problema non si pone più perché la riforma del 2005 (seguita a quella del 1990) l’ha implicitamente prevista all’art. 183 c.p.c. quinto comma prevedendo che l’attore può proporre domanda riconvenzionale nei confronti del convenuto, entro il termine preclusivo nell’udienza di trattazione e pertanto viene ammessa implicitamente che la domanda riconvenzionale possa essere proposta anche dall’attore. Per esempio se l’attore agisce in giudizio per chiedere il pagamento di una somma di denaro sulla base di un contratto, il convenuto propone domanda riconvenzionale eccependo la nullità del contratto e l’attore a sua volta potrebbe proporre una reconventio reconventionis, come conseguenza della domanda riconvenzionale del convenuto, chiedendo la restituzione della cosa oppure l’ingiustificato arricchimento del convenuto. Se il giudice inizialmente adito è competente sulla domanda riconvenzionale proposta dal convenuto, l’art. 36 c.p.c. prevede che il giudice deciderà entrambe con efficacia di giudicato, trattandosi di vere e proprie domande. Invece, se il giudice non è incompetente sulla riconvenzionale, l’art. 36 richiama gli artt. 34 e 35 c.p.c. significando che il giudice può: ⇒ Ex art. 35 - se la domanda iniziale si fonda su un titolo non controverso o facilmente accertabile

il giudice decide sulla domanda principale e rimette al giudice competente per materia o per valore la domanda riconvenzionale, cioè viene separata la decisione sulle due domande. Il problema è quello di tutelare l’attore contro l’abuso del diritto di difesa del convenuto che potrebbe proporre una domanda riconvenzionale o una eccezione di compensazione, anche completamente infondata, solo al fine pretestuoso di far prendere tempo.

⇒ Ex art. 34 - se il titolo è controverso o non facilmente accertabile il giudice rimette entrambe le domande, principale e riconvenzionale, al giudice superiore che competente per materia o per valore sulla riconvenzionale.

Le ipotesi di connessione qualificata si riferiscono tutte alla possibilità che le domanda ab origine siano proposte davanti allo stesso ufficio giudiziario oppure ad una domanda che sia nata nel corso

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di un processo già instaurato, come la riconvenzionale o la domanda di accertamento incidentale, e siano decise innanzi allo stesso giudice. Tuttavia il fenomeno della connessione può anche riguardare cause che sono state proposte separatamente, infatti l’art. 40 c.p.c. nei primi due commi disciplina la connessione stabilendo che se sono proposte innanzi a giudici diversi più cause le quali, per ragione di connessione, possono essere decise nello stesso processo, il giudice fissa con sentenza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. La connessione può essere eccepita dalle parti o rilevata d’ufficio, ma non oltre la prima udienza di trattazione, fermo restando poi la possibilità di separazione delle cause. Uno degli ostacoli alla realizzazione del simultaneus processus può essere costituito, oltre che dalla competenza risolta con la connessione qualificata degli artt. 31 e ss, anche dalla diversità del rito con cui vengono trattate le cause (rito ordinario o speciali, rito in camera di consiglio, ecc.). Se per le due cause sono previsti riti diversi il terzo comma dell’art. 40, riformato nel 1990, prevede che nei casi di connessione qualificata le cause, cumulativamente proposte o successivamente riunite debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva però l’applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli artt. 409 (rapporti di lavoro subordinato, di mezzadria, di agenzia, di collaborazione, ecc.) e 442 (controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie) c.p.c. Quindi se ci sono due cause connesse ed una deve essere trattata col rito ordinario, l’altra col rito speciale, prevale il rito ordinario, per cui anche quella per la quale è previsto il rito speciale dovrà essere trattata con rito ordinario. Invece se si tratta del rito del lavoro, in uno dei casi previsti dagli artt. 409 e 442, si ha la prevalenza del rito del lavoro su quello ordinario, per cui se per una delle domande connesse è previsto il rito del lavoro, entrambe dovranno essere trattate con il rito del lavoro. Invece: “Qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore (art. 40, quarto comma).” In altri termini in base alla competenza viene determinato il rito e se questo non è possibile, si passa al criterio sussidiario che è quello del maggior valore. Infine il d.lgs. n. 5/2003, che disciplina il processo societario, all’art. 1 prevede la prevalenza del rito societario anche sul rito ordinario. Quindi nelle cause in materia societaria e di intermediazione bancaria se vi è una causa connessa che deve essere trattata con rito ordinario, si applica per entrambe le cause il rito societario. L’ultima ipotesi è quella in cui ci siano competenze per valore diverse che determinano l’appartenenza delle cause al giudice di pace o al tribunale. Le disposizioni dell’art. 31 e ss, cioè della ipotesi di connessione qualificata, operano in deroga del criterio orizzontale (competenza per territorio), invece per i criteri verticali (valore e materia) se una delle cause connesse appartiene alla competenza del tribunale non si applicano le regole degli art. 31 e ss. perché le domande (sia la principale che quella accessoria) devono essere sempre proposte dinanzi al tribunale e decise nello stesso processo. Al riguardo l’art. 40 c.p.c. ultimo comma prevede: “Se le cause connesse ai sensi del sesto comma (quindi causa di competenza del giudice di pace connessa con altra del tribunale) sono proposte davanti al giudice di pace e al tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d’ufficio la connessione a favore del tribunale.” Quindi nel caso in cui le due cause sono state proposte sin dall’inizio insieme, entrambe devono essere proposte davanti al tribunale, se questo non è accaduto e le due cause sono state proposte separatamente (una davanti al tribunale e l’altra al giudice di pace), il giudice di pace può pronunciare, anche d’ufficio, la connessione e lo può fare in qualsiasi momento (non c’è il limite dell’udienza di trattazione) e con ordinanza rimettere le parti dinnanzi al tribunale, fissando un termine per la riassunzione della causa. Tutte queste ipotesi di connessione si riferiscono al caso in cui le domande siano proposte davanti ad uffici giudiziari diversi, per cui si pone il problema della competenza del giudice, ma può anche

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accadere che le domande di cause connesse vengano proposte innanzi a giudici o sezioni diverse, ma dello stesso ufficio giudiziario. In questo caso la disciplina della connessione non è più quella che abbiamo considerato sin ora, ma è contenuta nell’art. 274 c.p.c. (Riunione di procedimenti relativi a cause connesse) perché non c’è più un problema di competenza, ma di ripartizione delle cause all’interno dello stesso ufficio e quindi non ha più un rilievo esterno, ma interno. Il primo comma dell’art. 274 prevede l’ipotesi in cui le due cause connesse pendano innanzi allo stesso giudice (persona fisica) o alla stessa sezione del tribunale, questi anche d’ufficio può disporre la riunione delle due cause innanzi a sé in qualsiasi momento. “Se il giudice istruttore o il presidente della sezione ha notizia che per una causa connessa pende procedimento davanti ad altro giudice o davanti ad altra sezione dello stesso tribunale, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto che le cause siano chiamate alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per i provvedimenti opportuni (art. 274 secondo comma).” La connessione è dichiarata con ordinanza impugnabile dalla parte con il regolamento necessario, ma nel caso ripartizione all’interno dello stesso ufficio giudiziario la connessione viene rilevata dal presidente del tribunale il quale emette un decreto, per cui il simultaneus processus si realizza lo stesso, ma viene disposto dal capo dell’ufficio (il presidente del tribunale, sentite le parti) con decreto, stabilendo poi il giudice innanzi al quale le due cause dovranno essere riunite.

PROTAGONISTI DEL PROCESSO: IL GIUDICE

Il processo è un atto di tre persone (pluripersonale): il giudice e le parti (attore e convenuto). Tra le garanzie costituzionali che riguardano direttamente il giudice l’art. 111 Cost. ha statuito i principi, per alcuni già immanenti nell’ordinamento, della terzietà e imparzialità del giudice essenziali a fini del giusto processo regolato dalla legge. Oltre alla Costituzione, il codice di procedura civile prevede due istituti che concorrono ad assicurare la terzietà e l’imparzialità del giudice: l’astensione e la ricusazione (artt. 51 e ss. c.p.c.). Sono ipotesi per le quali il giudice potrebbe non essere imparziale per il particolare legame che può avere con una delle parti del processo o con un difensore di queste oppure proprio in relazione all’oggetto della causa, cioè il diritto dedotto in giudizio. Sicché per questi istituti la figura del giudice viene in rilievo come persona fisica in relazione al suo legame soggettivo o oggettivo con la causa e non come ufficio giudiziario (come avviene per la competenza e la giurisdizione). L’art. 51 c.p.c. al primo comma prevede alcune ipotesi tassative in cui il giudice ha il dovere di astenersi, alle quali si aggiunge anche un’ipotesi di astensione facoltativa. Se ricorre una delle ipotesi del primo comma dell’art. 51 c.p.c., ma il giudice non si astiene, avendo la parte diritto ad un giudice terzo ed imparziale, in relazione all’art. 111 Cost., ha la possibilità di ricusare il giudice considerato non imparziale in via presuntiva dal legislatore. A queste ipotesi di astensione obbligatoria si aggiunge quella facoltativa, cioè il giudice può chiedere di astenersi se ritiene che vi siano delle ragioni valide. Le ipotesi di astensione obbligatoria del giudice sono indicate nei primi 5 numeri del primo comma dell’art. 51 e dall’art. 10 delle legge 374/91 istitutiva dei giudici di pace. La prima di queste ipotesi si ha quando il giudice ha l'obbligo di astenersi “se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto”, venendo così in rilievo il legame del giudice con l’oggetto della causa. L’ipotesi più eclatante di interesse del giudice nella causa si ha quando egli è anche parte nel processo, cioè se ha un interesse diretto sul diritto dedotto in giudizio, ed è l’ipotesi più grave che viola un principio elaborato già dai romani: nemo iudex in causa propria; cioè il giudice non può essere anche parte nello stesso processo, tuttavia è anche un’ipotesi abbastanza remota. Invece è più probabile che il giudice sia titolare di un diritto connesso con l’oggetto o con il titolo oppure un diritto dipendente da quello dedotto in giudizio dalle parti, cioè è interessato

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indirettamente. Quindi se il giudice è titolare di un diritto dipendente o comunque connesso con l’oggetto (per esempio un diritto comune a quello dedotto in giudizio) o anche incompatibile con quello dedotto in giudizio, non può giudicare in modo sereno e obiettivo ed ecco perché il legislatore prevede che debba astenersi. Il n. 1 dell’art. 51 si riferisce ad un interesse diretto (quando il giudice è parte del processo) o un interesse indiretto che nasce dalla titolarità di un diritto connesso oggettivamente oppure per pregiudizialità o dipendenza con quello dedotto in giudizio su cui lo stesso giudice è chiamato a giudicare. È importantissima questa distinzione tra interesse diretto e indiretto, in quanto non ha solo rilievo teorico, ma anche pratico, perché per la Corte di cassazione l’unico caso in cui si verifica una nullità del procedimento e della sentenza, anche se il giudice non si astiene e la parte non lo ricusi, è proprio quello di un interesse diretto. In tutte le altre ipotesi di astensione obbligatoria il giudice ha il dovere di astenersi e in caso contrario la parte può ricusarlo, ma se la parte non lo fa e il giudice non si astiene il processo va avanti regolarmente e validamente. La parte che, pur potendo, non ha ricusato il giudice non può poi chiedere la nullità del processo e della sentenza, perché se non esercita questo diritto non può lamentarsi della validità degli atti e della sentenza e questo vale in tutte le ipotesi di astensione obbligatoria, tranne in quella in cui il giudice sia parte del processo, perché solo in questo caso, secondo la giurisprudenza, la sentenza è comunque nulla in quanto viola il principio cardine della terzietà del giudice nel processo. Tuttavia questa interpretazione presta il fianco a qualche critica perché, nella nozione di interesse diretto dovrebbe rientrare non solo quella, quasi scolastica, in cui il giudice è parte del processo, ma anche quella in cui il giudice abbia un interesse determinato da un diritto connesso oggettivamente a quello dedotto in giudizio oppure quando è titolare di un diritto incompatibile con quello dedotto dalle parti: ad esempio in una causa vertente sulla proprietà di un immobile, se il giudice afferma di essere lui il proprietario esclusivo, mentre le parti, a loro volta, sono in causa tra di loro per affermare lo stesso diritto44. Per alcuni queste ipotesi dovrebbero essere inquadrate nell’ambito di un interesse diretto e quindi comportare la nullità della sentenza e del procedimento, invece per la giurisprudenza la nullità del procedimento si ha solo nell’ipotesi più eclatante del giudice che contestualmente è parte del processo. L’altra fattispecie a cui fa riferimento il n. 1 dell’art. 51 è quella del giudice che ha interesse in un’altra causa vertente sulla stessa questione di diritto di quella in cui giudica. Ad esempio se riguarda l’interpretazione o l’applicazione di una determinata norma su cui il giudice è chiamato a decidere, quando è anche parte in un'altra causa vertente sulla stessa norma ad interpretare. Anche in questo caso il legislatore ritiene che il giudice sia condizionato nel risolvere la questione di diritto, orientandola in maniera a lui favorevole ed eventualmente precostituendo un precedente con la possibilità di estenderlo nell’altro processo ed in particolare al suo. Il precedente non è vincolante, però il legislatore presuppone che il giudice possa essere condizionato dalla soluzione adottata nella causa in cui ha giudicato il giudice che ora è parte e anche in questo caso è prevista una ipotesi di astensione obbligatoria. L’altra fattispecie in cui viene in rilievo il rapporto, non l’interesse, del giudice con la causa è prevista dal n. 4 dell’art. 51: “se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico.” Ha l’obbligo di astenersi il giudice che si è già esposto in qualche modo in quella causa, ad esempio come consulente tecnico in relazione ai giudici onorari che molte volte sono degli avvocati. È piuttosto chiaro stabilire quando il giudice ha dato consiglio o prestato patrocinio o deposto come testimone, invece l’unica fattispecie tra quelle indicate dal n. 4 che crea problemi interpretativi e

44 Può avvenire quando il giudice è il proprietario di un terreno che ha abbandonato, ma che nel frattempo è stato usucapito da due persone e ognuna si contende la proprietà esclusiva nella causa posta davanti al giudice che ne è il proprietario.

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applicativi è sul dovere di astenersi del giudice, se ha conosciuto la causa come magistrato in altro grado del processo. Su questa norma si sono avuti dei contrasti tra un’interpretazione letterale che fa leva sulla dicitura “in altro grado del processo” che riduce la portata dell’astensione obbligatoria e un’altra estensiva fatta propria dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 387 del 1999. La Consulta, chiamata a pronunciarsi sull’art. 51 ha ritenuto la questione di illegittimità infondata45 perché questa norma doveva essere interpretata nel senso che “altro grado del processo” non può essere riferito soltanto al ristretto ambito del diverso grado del processo, ma deve ricomprendere anche la fase che in un processo civile si succede con un carattere di autonomia avente contenuto impugnatorio, caratterizzata da una pronuncia che tiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti al medesimo organo giudiziario. La Cassazione per molto tempo ha dato un’interpretazione molto restrittiva dell’art. 51 n. 4, nel senso che il legislatore utilizzando il verbo conoscere ha pensato non alla cognizione, ma alla decisione della causa, intendendo conoscere equivalente o sinonimo a giudicare o decidere46. Inoltre la Cassazione interpretava la locuzione “in altro grado del processo” riferendolo al grado di impugnazione in senso tecnico e quindi il dovere di astensione sussiste nel caso in cui il giudice, che ha deciso una causa, si trovi a deciderla nuovamente in sede di impugnazione. Ad esempio il giudice decide una causa in primo grado, poi viene trasferito in appello, e si trova a decidere in secondo grado sulla stessa causa: solo in questo caso, per l’orientamento prevalente della Cassazione, c’è il dovere di astensione, per cui viene data un’interpretazione restrittiva della norma. La ratio del legislatore, anche in considerazione delle altre ipotesi contemplate dal n. 4, è evitare che un giudice che ha conosciuto o si è già formato una opinione sulla causa, possa giudicare nuovamente sulla stessa causa. Ha ragione la Corte costituzionale e la dottrina quando affermano che non possiamo interpretare grado del processo come grado di impugnazione in senso stretto, ma va inteso in termini più ampi come fase del processo, in maniera tale da ricomprendere anche la fase del processo che, per la Consulta, si sussegue con carattere di autonomia ed ha contenuto impugnatorio in senso lato, cioè non è una impugnazione in senso tecnico, ma si atteggia come un giudizio impugnatorio. Un caso potrebbe essere quello del decreto ingiuntivo, dove il procedimento di ingiunzione è caratterizzato da due fasi: una senza contraddittorio e l’altra eventuale che instaura il processo a cognizione piena ed esauriente su iniziativa del debitore. Il creditore ottiene un decreto ingiuntivo in questa fase sommaria, ma il debitore può proporre opposizione chiedendo la garanzia della cognizione piena ed esauriente. Sul giudizio di opposizione è competente lo stesso ufficio giudiziario che ha emesso il decreto ingiuntivo, ma l’opposizione non è un’impugnazione, nel senso che non è un appello o un ricorso in Cassazione, essendo una fase autonoma del processo a contenuto impugnatorio, perché l’opposizione al decreto ingiuntivo non è un nuovo grado di impugnazione, ma è la fase successiva (autonoma per la Cassazione) del processo sommario che si trasforma a cognizione piena ed esauriente e quindi a contenuto impugnatorio in senso lato, ma non tecnico. Stando a questo orientamento restrittivo della Cassazione se il giudizio di impugnazione dovesse finire nelle mani dello stesso giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo, non ci sarebbe l’obbligo di astenersi perché non è un altro grado di giudizio, ma solo la naturale continuazione del processo. Per la Reali questo tradisce lo spirito della norma, perché quel giudice si è già pronunciato con quel decreto e quindi si è già formato un’opinione, sia pur sommaria, pertanto dovrebbe essere assicurata la garanzia della terzietà del giudice attenendosi al n. 4 dell’art. 51.

45 Dopo questa sentenza della Consulta, essendo interpretativa di rigetto, non è vincolante per la Cassazione e, tra l’atro, è stata sconfessata da pronunce successive sull’art 51 della stessa Corte costituzionale. 46 Su questo qualche dubbio può essere sollevato, perché non si capisce perché il legislatore avrebbe utilizzato il verbo conoscere volendo intendere giudicare o decidere.

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Con una pronuncia del 1999 la Corte costituzionale ha dichiarato che la norma non è incostituzionale, perché bisogna interpretare il grado del processo in senso ampio, cioè come qualsiasi fase su cui il giudice è stato chiamato a pronunciarsi sulle stesse questioni e a compiere le stesse valutazioni. Per la Reali, l’orientamento restrittivo adottato sull’interpretazione di questa norma dalla Corte di cassazione difficilmente è giustificabile, sia con riferimento alla formula altro grado del processo e sia al termine conoscere. Sulla base di questa norma Cipriani47 riteneva che anche la figura del giudice istruttore doveva essere illegittima, perché un giudice che conosce, tratta e istruisce la causa si forma un’opinione per cui non può essere completamente imparziale e terzo, se fa parte del collegio che deve deciderla. Facendo leva sul termine conoscere, Cipriani sostenne che il giudice istruttore non era propriamente legittimo o quantomeno avrebbe dovuto astenersi dal partecipare alla decisione perché si era formato un’opinione trattando e istruendo la causa. Viceversa un’interpretazione di questo tipo viene tagliata fuori, se intendiamo restrittivamente il termine conoscere o giudicare che peraltro non è quello che dice il codice. Molto più semplici sono i casi di astensione obbligatoria del giudice, determinati dal legame soggettivo che il giudice ha con le parti del processo (o con il difensore), ossia le altre ipotesi considerate dai n. 2, “se egli stesso o la moglie (si intense il coniuge, perché nel ’40 non c’erano donne magistrato) è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori.” Al n. 3 il giudice deve astenersi “se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori.” Inoltre per il n. 5 deve astenersi “se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; se, inoltre, è amministratore o gerente di un ente, di un'associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa.” Viene in rilievo il rapporto del giudice-persona fisica con una delle parti, o con il suo difensore, il giudice deve astenersi se esiste uno dei motivi elencati tassativamente dall’art. 51. A queste ipotesi di astensione obbligatoria, si aggiunge quella prevista dall’art. 10 legge 374/91 per il giudice di pace (i giudici onorari) in quanto hanno gli stessi doveri, le stesse responsabilità dei magistrati togati e rispondono al C.S.M. per eventuali illeciti disciplinari. Il giudice di pace, ex art 10 della legge 374/91, deve osservare i doveri previsti per i magistrati ordinari con l’obbligo di astenersi, oltre che nei casi dell’art. 51 c.p.c., in ogni caso in cui ha avuto o abbia rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione con una delle parti. Tra le cause di astensione obbligatoria non rientra, anche se si è tentato di farlo, l’ipotesi che il giudice possa aver manifestato opinioni politiche o religiose che possano entrare in conflitto con l’oggetto della causa o con la decisione, in quanto può essere non obiettivo nel decidere una determinata causa. Il problema si è posto in maniera concreta, ma si è escluso che l’opinione politica e religiosa del giudice rientri nelle ipotesi di astensione obbligatoria, non essendo possibile l’estensione analogica. Tuttavia se il giudice ritiene opportuno astenersi (ad esempio gli obiettori di coscienza) per la sua fede religiosa o per le sue opinioni politiche, sentendosi di non poter dare un giudizio obiettivo sulla causa, questo potrebbe essere un motivo per l’astensione facoltativa disciplinata dall’ultimo comma dell’art. 51 per gravi ragioni di convenienza. Il giudice comunque non può astenersi direttamente, ma deve chiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione perché giudicare è un dovere dell’ufficio. L’ultimo comma dell’art. 51 dispone: “In ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza, il giudice può richiedere al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi; quando l'astensione riguarda il capo dell'ufficio,

47 Nella parte speciale di Cipriani “Il processo civile nello Stato democratico”.

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l'autorizzazione è chiesta al capo dell'ufficio superiore.” Per cui se non sussistono gravi ragioni di convenienza sarà comunque tenuto il giudice a decidere quella controversia. L’art. 52 (Ricusazione del giudice) disciplina il diritto della parte di ricusare il giudice che non si astiene quando ricorre una delle ipotesi di astensione obbligatoria dell’art. 51 c.p.c. Il diritto della parte di ricusare il giudice è anche un onere, come giustamente si è messo in risalto in dottrina: se la parte non ricusa il giudice nei modi e nei termini previsti dagli art. 52 e ss. c.p.c. poi non può lamentarsi dell’esito dell’andamento del processo. Bisogna contemperare l’esigenza costituzionalmente garantita della terzietà del giudice ed evitare che istituti come la ricusazione possano essere usati in modo distorto e con abuso delle parti, quindi dilatorio essendo molto grave ricusare il giudice. Questo spiega i termini molto rigorosi della disciplina di questo istituto e l’art. 52 c.p.c. dispone che nei casi in cui è fatto obbligo al giudice di astenersi, ciascuna delle parti può proporne la ricusazione mediante ricorso contenente i motivi specifici e i mezzi di prova. Il ricorso, sottoscritto dalla parte o dal difensore, deve essere depositato in cancelleria due giorni prima dell'udienza, se al ricusante è noto il nome dei giudici chiamati a trattare o decidere la causa, e prima dell'inizio della trattazione o discussione di questa nel caso contrario. La ricusazione sospende il processo (art. 52 c.p.c.). La ragione di questa norma è che il legislatore non vuole che l’istituto sia applicato in modo strumentale, nel senso di utilizzare la ricusazione solo se si sta perdendo la causa, ma si vuole evitare che diventi uno strumento di pressione nelle mani della parte, per cui è possibile presentare ricorso per la ricusazione solo all’inizio del processo, prima che il giudice inizi a trattare la causa e prenda dei provvedimenti, altrimenti si perde il diritto di ricusare il giudice e di far valere l’invalidità del processo. Comunque solo se il sospetto è determinato da uno di questi motivi esiste il diritto di ricusare il giudice, essendo strumenti molto delicati a salvaguardia della serenità del giudizio e dell’imparzialità. Ci sono però sentenze che dicono che se questi rapporti sono avvenuti dopo l’inizio della causa, questo non è motivo di astensione obbligatoria e tanto meno di ricusazione. Comunque non sono moltissimi i casi di ricusazione, perché essendo ipotesi molto gravi, la parte prima di ricusare il giudice è molto attenta a non sbagliare, anche per le conseguenze collegate alla proposizione dell’istanza. La ricusazione sospende il processo automaticamente (ultimo comma art. 52) dal momento in cui è depositata il ricorso e questo è giustificato dal fatto che si ritiene quel giudice non imparziale. Questa norma dal punto di vista letterale opera una sospensione ex lege automaticamente, tuttavia l’interpretazione data dalla giurisprudenza della Cassazione ammette che il giudice ricusato possa continuare il processo se ritiene l’istanza manifestamente inammissibile. Quindi non si tratta di infondatezza, ma di inammissibilità; per esempio l’istanza è stata presentata quando sono scaduti i termini oppure è stata presentata per un motivo che non rientra tra quelli di quelli di astensione obbligatoria. In questi casi si può pensare ad un’istanza strumentale per ritardare il processo. Per la Reali non è convincente l’ipotesi di proporre un’istanza manifestamente inammissibile per fini strumentali, perché diventa un boomerang che si ritorce contro la parte, perché se il ricorso è manifestamente inammissibile è lo stesso giudice che dovrà poi decidere la causa nel merito. Comunque la legge tratta letteralmente di sospensione legale, mentre la giurisprudenza la interpreta nel senso di sospensione subordinata alla valutazione di non manifesta inammissibilità dell’istanza. “Sulla ricusazione decide il presidente del tribunale se è ricusato un giudice di pace; il collegio se è ricusato uno dei componenti del tribunale o della corte. La decisione è pronunciata con ordinanza non impugnabile, udito il giudice ricusato e assunte, quando occorre, le prove offerte (art. 53).” Per la Reali l’impugnazione deve essere assicurata, perché il presidente del tribunale o il collegio possano sbagliarsi, per cui non dovrebbe essere negato alla parte il diritto di chiedere il riesame del provvedimento ad un altro giudice, visto che il ricorso di ricusazione verte su questioni di rilievo.

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Tuttavia c’è sempre la possibilità per la parte che abbia tentato di ricusare il giudice senza successo di far valer questo vizio in appello, se c’è stata istanza di ricusazione poi rigettata. Si è anche provato la strada del ricorso straordinario per Cassazione, ex art. 111 settimo comma, però questa strada è stata sbarrata dalla Cassazione che non ritiene ammissibile questo ricorso perché, secondo un primo orientamento, era visto addirittura come un procedimento amministrativo in quanto riguarda la costituzione del giudice e quindi la stessa organizzazione interna degli uffici. Questo orientamento è stato rivisto dalla stessa Cassazione che ha riconosciuto la natura decisoria essendo un diritto processuale, però egualmente ha negato il ricorso straordinario perché è un provvedimento non definitivo (Cass. 3935/2001), ma provvisorio strumentale al processo e la parte ha l’appello per far valere l’illegittimità dell’ordinanza che si è pronunciata sulla ricusa. Provvedimento può essere di accoglimento o di rigetto e se il giudice della ricusa accoglie il ricorso deve designare il giudice che lo deve sostituire (art. 54). Viceversa se rigetta il ricorso perché inammissibile o infondato: “Il giudice, con l'ordinanza con cui dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione, provvede sulle spese e può condannare la parte che l'ha proposta ad una pena pecuniaria non superiore a euro 250 (art. 54 terzo comma modificato dalla legge 69/2009). Prima della riforma del 2009 la pena pecuniaria era non superiore a 20.000 lire, ma l’irrisorietà della sanzione toglieva rilievo alla norma che vuole evitare ricorsi infondati o inammissibili. L’altro istituto che riguarda il giudice è la responsabilità civile dei magistrati, prevista dagli artt. 55 e 56, successive alla ricusazione, oggi abrogate (insieme all’art. 74 c.p.c. sulla responsabilità del pubblico ministero) con decreto del Presidente della Repubblica 9 dicembre 1987, n. 497 in esito al referendum popolare48. La responsabilità civile del magistrato consiste nella possibilità di chiedere la condanna del giudice il risarcimento del danno cagionato nell’esercizio delle sue funzioni, ricorrendo determinate fattispecie tipiche. Gli articoli 55 e 56, risalenti al 1940, erano incostituzionali per due ragioni: � per contrasto con l’art. 24 Cost. in quanto l’azione era subordinata all’autorizzazione del

Ministro della giustizia, cioè un organo dell’esecutivo e infatti l’abrogato art. 56 era rubricato autorizzazione;

� per contrasto con l’art. 25 Cost. sul giudice naturale precostituito per legge perché decideva sulla domanda di risarcimento dei danni un giudice, individuato volta per volta. dalla Corte di cassazione a cui veniva proposta l’istanza.

Nonostante questi motivi si è dovuto procedere al referendum nel 1987 per abrogare queste norme che la Corte costituzionale aveva salvato, forse per evitare un vuoto normativo perché se dichiarate illegittime dovevano essere applicate ai magistrati le norme ordinarie sulla responsabilità civile con conseguenze ancora più gravi. Le ipotesi di responsabilità civile del magistrato del codice del ‘40 erano limitate al dolo, frode, concussione49 e al diniego di giustizia, mentre con il referendum si voleva aggiungere anche la responsabilità per colpa, se il magistrato negligente avesse arrecato un danno alla parte. Fino all’87 si era parlato molto della responsabilità civile dei magistrati, senza arrivare mai ad una legge che giunse solo dopo il referendum. È difficile conciliare esigenze opposte: da una parte il diritto del cittadino ad ottenere giustizia e dall’altro l’esigenza di assicurare l’autonomia e la serenità del magistrato. La legge 13 aprile 1988 n. 117 - risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati - ha previsto la responsabilità per colpa, ma è disciplinata in modo tale che è molto remota l’ipotesi che essa ricorra in concreto. Prima della riforma il cittadino, in possesso dell’autorizzazione del guardasigilli, poteva agire contro il magistrato per chiedergli i danni, invece con la legge 117/88 l’azione di responsabilità civile deve essere proposta dal cittadino nei confronti dello Stato, non più del magistrato, e nel caso

48 Nel 1987 ci fu un referendum che riscosse grande successo e molte polemiche (slogan: “il magistrato che sbaglia deve pagare”). 49 La frode e la concussione sono ipotesi di responsabilità penale.

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di accoglimento della domanda e una volta risarcito il danno al privato, poi lo Stato deve iniziare un giudizio per rivalersi nei confronti del magistrato. La legge prevede dei limiti quantitativi entro cui è ammissibile la rivalsa per la responsabilità civile, mentre nel caso in cui sia accertata l’esistenza del dolo il giudice risponde illimitatamente senza limite di valore. “Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. (art. 2 primo comma, legge 117/88).” La prima garanzia della legge 117/88 è data dal secondo comma dell’art. 2 - Responsabilità per dolo o colpa grave: “Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.” L’errore di giudizio del giudice è comprensibile e può essere fatto valere impugnando la sentenza, per cui è esclusa l’azione di responsabilità se vi è un’errata valutazione o interpretazione delle norme nell’applicazione concreta, ricostruzione e accertamento dei fatti. Per qualunque magistrato, perché questa norma si applica a tutte le magistrature, le ipotesi di responsabilità civile sono tre: dolo, colpa grave e diniego di giustizia. L’ipotesi più grave di responsabilità del magistrato è il dolo e in questo caso il giudice risponde se ha posto in essere atti illegittimi con la coscienza e la volontà di creare un danno ingiusto. La novità della riforma dell’88 fu la colpa grave, ma solo nelle ipotesi tipiche indicate dall’art. 2 terzo comma, per costituiscono colpa grave: a. la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; quindi un vero e proprio

travisamento, ad esempio se ha applicato una legge abrogata da anni. b. l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza é

incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c. la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta

incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d. l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti

dalla legge oppure senza motivazione (riguarda il processo penale). In sintesi le fattispecie di colpa grave che danno luogo ad ipotesi di responsabilità del magistrato sono la grave violazione di legge e il c.d. errore di fatto, lettere b e c, ossia il giudice considera esistente un fatto la cui inesistenza risulta chiaramente dagli atti del processo, ad esempio se c’è un errore grossolano del giudice o, al contrario, non considera un fatto la cui esistenza risulta chiaramente. Però è necessario che la violazione di legge o l’errore siano determinati da negligenza inescusabile, cioè senza alcuna giustificazione neppure per la particolarità del caso concreto. La terza ipotesi di responsabilità civile del magistrato è il diniego di giustizia, già prevista nel codice del 186550 e del 1940 e infine disciplinata dalla legge del 1988. Nel testo del 1940 si stabiliva che il diniego di giustizia fosse configurabile qualora il giudice avesse omesso di compiere un atto del suo ufficio quando, formulata un’istanza al giudice affinché provvedesse in tal senso, erano trascorsi inutilmente 10 giorni dal deposito dell’istanza senza che il giudice avesse provveduto. La legge dell’88 all’art. 3 - diniego di giustizia: “Costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria. Se il termine non é previsto, debbono in ogni caso decorrere inutilmente trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria dell'istanza volta ad ottenere il provvedimento (primo comma).” Quindi si è passati dai 10 giorni che erano previsti dalla disciplina previgente e

50 Codice Pisanelli, coevo del codice civile sempre voluto dall’allora Ministro di grazia e giustizia Giuseppe Pisanelli.

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per di più improrogabili, agli attuali 30 giorni per i quali la legge ha anche previsto la possibilità di proroga. “Il termine di trenta giorni può essere prorogato, prima della sua scadenza, dal dirigente dell'ufficio con decreto motivato non oltre i tre mesi dalla data di deposito dell'istanza. Per la redazione di sentenze di particolare complessità, il dirigente dell'ufficio, con ulteriore decreto motivato adottato prima della scadenza, può aumentare fino ad altri tre mesi il termine di cui sopra (secondo comma).”51 Queste sono le uniche tre ipotesi di responsabilità del giudice, in cui il magistrato può rispondere civilmente dei danni cagionati alla parte nell’esercizio delle sue funzioni giudiziarie. È venuta meno l’autorizzazione del guardasigilli e l’individuazione di volta in volta del giudice competente, infatti l’art. 4 (competenza e termini) della legge 117/88 stabilisce che la competenza a decidere spetta al tribunale del luogo ove ha sede la corte d’appello del distretto più vicino a quello in cui é compreso l'ufficio giudiziario al quale apparteneva il magistrato al momento del fatto, salvo che il magistrato sia venuto ad esercitare le funzioni in uno degli uffici di tale distretto. L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si é verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni che decorrono dal momento in cui l'azione é esperibile. L’azione non è proposta contro il magistrato, ma contro lo Stato ed in particolare del Presidente del consiglio dei ministri (art. 4) ed è questa una delle più importanti novità di questa legge che ha previsto inoltre che lo stesso tribunale deve previamente valutare la non manifesta inammissibilità dell’azione o non manifesta infondatezza e lo deve fare rapidamente con un procedimento che segue le forme del procedimento camerale (art. 5). Si è voluto creare un filtro per tutelare il magistrato onde evitare istanze manifestamente inammissibili o infondate soltanto per rivalersi delle decisioni del giudice o per reazione nei confronti del magistrato. La manifesta inammissibilità ricorre quando mancano le condizioni per porre la domanda, ad esempio se la domanda è stata proposta per motivi diversi da quelli che danno luogo a responsabilità oppure perché la parte sia decaduta dal diritto di proporre l’azione perché è proponibile soltanto dopo che sono stati esperiti tutti i mezzi di impugnazione contro la sentenza e nel termine 2 anni a partire dal momento in cui la domanda è proponibile (art. 4). La manifesta infondatezza presuppone una valutazione di merito, sia pure in una fase sommaria, ma qui c’è la garanzia dell’impugnazione. La norma prevede che il tribunale decide, con decreto motivato, sulla non manifesta inammissibilità o infondatezza seguendo le forme del procedimento in camera di consiglio che è un procedimento sommario. Il decreto motivato può essere oggetto di reclamo, ai sensi dell’art. 739 c.p.c. (reclami delle parti), ossia è possibile proporre reclamo alla corte d’appello contro il decreto di inammissibilità e contro il provvedimento di questa è riconosciuta la garanzia del ricorso straordinario in Cassazione. Quindi è assicurata l’impugnazione sia in corte d’appello che in Cassazione contro il decreto motivato che dichiari inammissibile la domanda in via preventiva, viceversa se viene ritenuta ammissibile (direttamente o a seguito di reclami) il procedimento può andare avanti. Altra particolarità è che a questo procedimento non deve necessariamente partecipare il magistrato della cui responsabilità si tratta, cioè questo processo si svolge tra il privato che afferma di essere stato danneggiato e lo Stato e non è necessaria la partecipazione del magistrato della cui responsabilità si tratta.

51 “Quando l'omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell'imputato, il termine di cui al comma primo é ridotto a cinque giorni, improrogabili, a decorrere dal deposito dell'istanza o coincide con il giorno in cui si é verificata una situazione o é decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale (terzo comma).”

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Infatti l’art. 6 della legge 117/88 dispone: “Il magistrato il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio non può essere chiamato in causa ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 105 del codice di procedura civile. Al fine di consentire l'eventuale intervento del magistrato, il presidente del tribunale deve dargli comunicazione del procedimento almeno quindici giorni prima della data fissata per la prima udienza. La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato non fa stato nel giudizio di rivalsa se il magistrato non é intervenuto volontariamente in giudizio. Non fa stato nel procedimento disciplinare. Il magistrato cui viene addebitato il provvedimento non può essere assunto come teste né nel giudizio di ammissibilità, né nel giudizio contro lo Stato.” Ciò è importante perché se il magistrato decide di intervenire, la sentenza di accoglimento o di rigetto produrrà effetti nei suoi confronti; ma se sceglie di non intervenire, non essendo parte necessaria del processo, l’eventuale sentenza di accoglimento della domanda di risarcimento del danno non è opponibile al magistrato. In altre parole c’è una sentenza che condanna lo Stato al risarcimento del danno, però non produce effetti nei confronti del magistrato (neanche disciplinari) perché non ha partecipato al giudizio, come pure non produce effetto l’eventuale transazione tra Stato e cittadino per evitare la sentenza di condanna. Sostanzialmente il magistrato in sede di rivalsa per il danno allo Stato e nel procedimento disciplinare, può difendersi in modo pieno sulla sussistenza della responsabilità senza essere condizionato dalla sentenza di condanna ricevuta dalla Stato. In questo caso sarebbe stato molto più semplice prevedere che il magistrato partecipasse al giudizio in modo che la sentenza producesse effetti direttamente, invece per salvaguardare l’immagine del magistrato se questi non partecipa, il giudizio di rivalsa inizia da zero, nel senso che non tiene conto della sentenza di condanna inflitta allo Stato. Lo Stato ha il dovere di proporre l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato deve essere promossa dal Presidente del consiglio dei ministri (art. 4), entro un anno dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale e in nessun caso la transazione é opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa e nel giudizio disciplinare (art. 7 legge 117/88). I giudici popolari52 rispondono soltanto in caso di dolo, invece i cittadini estranei alla magistratura (art. 102 Cost. secondo comma) che concorrano a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono per dolo e colpa grave. Nel caso in cui l’azione di rivalsa sia accolta e qualunque sia l’entità del risarcimento che lo Stato ha dovuto corrispondere alla persona danneggiata, l’art. 8 della legge 117/88 prevede un ulteriore garanzia a favore del magistrato perché la misura della rivalsa non può superare una somma pari a un terzo della annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è stata proposta, anche se dal fatto è derivato un danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità, ma tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. Il procedimento nei confronti dello Stato e quello di rivalsa nei confronti del magistrato sono autonomi e se il privato vince la causa contro lo Stato viene risarcito, ma ciò non toglie che lo Stato possa perdere anche la causa di rivalsa se il magistrato dimostra che non c’era una sua responsabilità.

52 Il giudice popolare è il cittadino italiano iscritto all'albo dei giudici popolari previa richiesta al comune di residenza, che viene chiamato nelle corti di assise e nelle corti di assise d'appello per affiancare i giudici assistendoli nelle udienze e partecipando alle decisioni contenute nelle sentenze. Detto ufficio di giudice popolare è a carattere obbligatorio. La nomina avviene mediante sorteggio ed è subordinata ad alcuni requisiti necessari: cittadinanza italiana, età compresa tra i 30 e i 65 anni, godimento dei diritti civili e politici, buona condotta morale, possesso di licenza media inferiore (per la corte d'assise) o di scuola media superiore (per la corte d'assise d'appello). Sono esclusi di diritto i magistrati e i funzionari in servizio all'ordine giudiziario, gli appartenenti alle Forze Armate e alla Polizia e i membri di culto e religiosi di ogni ordine e congregazione.

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Infine, un ultimo piccolo privilegio riguarda la ritenuta per il risarcimento del danno in quanto l'esecuzione della rivalsa, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, la rata mensile non può superare complessivamente il quinto dello stipendio netto (ultimo comma, art. 8). Si può comprendere perché i promotori del referendum videro questa legge come un ribaltamento della volontà popolare che tradisce le aspettative dei promotori della campagna referendaria. Funziona di più la responsabilità disciplinare del magistrato davanti il C.S.M., piuttosto che la responsabilità civile e questo sia perché le fattispecie che sono abbastanza difficili da verificarsi e da dimostrare e sia per tutte le garanzie che circondano il magistrato nell’azione di responsabilità.

IL PUBBLICO MINISTERO

Nel processo civile il pubblico ministero (P.M.) ha un ruolo marginale ed è una figura che ha rilievo nelle cause che vertono su diritti inderogabili, cioè di cui le parti non possono disporre avendo rilevanza pubblicistica53. La legge sull’ordinamento giudiziario (regio decreto 30 gennaio 1941 n. 12) regola i poteri del P.M. e all’art. 69 (modificato nel 1946) stabilisce che il P.M. non agisce più sotto la direzione, ma sotto la vigilanza del Ministro della giustizia. Per quanto concerne le attribuzioni del P.M. nel processo civile e amministrativo, l’art 75 del r.d. 12/41, prevede che il P.M. esercita l’azione civile e intervene nel processo civile nei casi stabiliti dalla legge, per cui possiamo distinguere un potere d’azione da un potere di intervento con una distinzione che ritroviamo tra l’art. 69 c.p.c. sull’azione e l’art. 70 c.p.c. sull’intervento del P.M. Con il potere d’azione il P.M. può iniziare il processo civile, invece con il potere di intervento interviene in una causa già iniziata tra le parti. L’art. 69 dispone che il P.M. esercita l’azione civile solo nei casi stabiliti dalla legge e quindi sono ipotesi eccezionali che si distinguono in: � Legittimazione esclusiva del P.M. quando i procedimenti possono essere iniziati soltanto dal

P.M., ad esempio la dichiarazione di adottabilità ai sensi dell’art. 9 della legge 149/2001 che può essere richiesta soltanto su azione del P.M.

� Legittimazione concorrente, o sussidiaria, quando i procedimenti possono essere iniziati sia dalle parti private che dal P.M. Ad esempio le impugnazioni di nullità dei matrimoni per questioni relative allo stato dei coniugi e dei figli dove l’iniziativa, oltre che dei diretti interessati (coniugi e familiari), può essere anche del P.M. e in questo caso ha un potere d’azione che concorre con quello delle parti private.

In altri casi, invece, il P.M. ha un potere di intervento in un processo pendente e anche qui si distingue tra intervento obbligatorio (a pena di nullità del processo e della sentenza) e facoltativo. L’art. 70 stabilisce che è obbligatorio l’intervento del P.M. a pena di nullità rilevabile d’ufficio:

53 Storicamente la presenza del P.M. si giustifica perché in origine era il procuratore del sovrano assoluto, per cui era un esponente del potere esecutivo, quando ancora non era un magistrato, che nel processo civile aveva la funzione di controllare i giudici per il re: in sintesi il P.M. costituiva una forma di controllo dell’esecutivo (il potere politico) sul potere giudiziario. Quando con Zanardelli, nel 1890, c’è stata l’unificazione delle carriere e il P.M. divenne un magistrato e questa funzione di controllo non aveva più ragion d’essere tanto è vero che Lodovico Mortara (1855 - 1937) pensò che di lì a poco sarebbe stata abrogata questa figura nel processo civile perché, se ci fidiamo del giudice, non appariva necessario neanche per i diritti indisponibili. Così non è stato perché al regime fascista era utile avere un P.M. nel processo civile, anche se non era più un organo dell’esecutivo, ma nella versione originale della legge sull’ordinamento giudiziario il P.M. agiva sotto la direzione del ministro guardasigilli e quindi il fascismo conservò questa figura per ragioni politiche. Non a caso Dino Grandi (ministro della giustizia durante il regime fascista) ampliò le ipotesi di intervento del P.M. nel processo civile prevedendo, per esempio, che il P.M. avesse facoltà di intervenire in tutte le cause civili in cui ravvisava un interesse pubblico, che era un modo non troppo velato di consentirgli di intervenire in qualsiasi causa civile (art. 70 c.p.c. ultimo comma). Furono previste anche altre ipotesi di interveto del P.M., successivamente abrogate, ad esempio in tutte le controversie di lavoro in grado d’appello oppure doveva partecipare quando la Corte di cassazione deliberava la sentenza. Quindi c’è una tendenza ad aumentare la partecipazione del P.M. in alcune ipotesi, ma se non sono eccezionali per la Reali sarebbe più opportuno che il magistrato si occupasse delle cause piuttosto che del processo civile, dove c’è un giudice che è assolutamente in grado di tutelare anche i diritti non disponibili.

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1) nelle cause che egli stesso potrebbe proporre, cioè se ha potere d’azione, se il processo è iniziato dalle parti deve poter intervenire;

2) nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale tra i coniugi, a cui si sono aggiunte anche quelle di divorzio; nel 1996 è intervenuta la Corte costituzionale nei giudizi tra genitori naturali che comportino provvedimenti relativi ai figli dichiarando illegittimo l’art. 70 nella parte in cui non prevedeva l’intervento obbligatorio del P.M.

3) nelle cause che riguardanti lo stato e la capacità delle persone, ad esempio il procedimento di interdizione che non solo può essere iniziato dal P.M., ma deve anche intervenire;

4) è abrogata la partecipazione necessaria del P.M. nelle controversie di lavoro in appello; 5) negli altri casi previsti dalla legge, per esempio nel procedimento di querela di falso essendo

diretto ad accertare la falsità di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, cioè di un documento che faccia pubblica fede ex art. 221 c.p.c.

Deve intervenire in ogni causa davanti la Corte di cassazione (art. 70 secondo comma), però questa forma di intervento è molto diversa dalle precedenti perché in Cassazione il P.M. non partecipa alla deliberazione della sentenza, ma semplicemente deve dare la sua opinione se il ricorso proposto dalle parti meriti di essere accolto o rigettato, anche se è a lui che spetta l’ultima parola (prima parlano gli avvocati e poi il P.M. contro cui non è possibile replica se non in forma di osservazioni scritte). L’intervento del P.M. è facoltativo nell’ultimo comma art. 70, in quanto può intervenire in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse. Per la Reali molto probabilmente questa norma è incostituzionale, anche se è rimasta forse perché capita assai di rado che il P.M. intervenga ravvisando un pubblico interesse, ma si tratta di disposizioni pericolose perché nulla gli impedisce di intervenire e siccome la valutazione del pubblico interesse è riservata a lui insindacabilmente, praticamente gli si da la possibilità di intervenire in tutte le cause. L’art. 71 c.p.c. stabilisce che il giudice davanti al quale è proposta una delle cause per cui è previsto l’intervento obbligatorio del P.M. ordina la comunicazione degli atti al P.M. affinché possa intervere nel processo. Tale comunicazione è fondamentale ai fini della validità degli atti del processo e della sentenza, perché le ipotesi di intervento obbligatorio sono sanzionate dalla nullità assoluta della sentenza e quindi può essere fatta valere in ogni stato e grado del processo. Infatti l’art. 158 c.p.c. prevede che la nullità derivante da vizi relativi alla costituzione del giudice o all'intervento del pubblico ministero è insanabile e deve essere rilevata d'ufficio, salva la disposizione dell'art. 161. Il rinvio al 161 c.p.c. significa che essa si sana se non è fatta valere con i mezzi di impugnazione, cioè può essere rilevata anche d’ufficio, ma fino a che la sentenza non passa in giudicato. Se le parti la fanno passare in giudicato non possono poi far valere la nullità per mancato intervento del P.M., ma questi può comunque ancora farla valere in quanto l’art. 397 c.p.c. consente solo al P.M. l’impugnazione straordinaria (quelle proposte contro le sentenze passate in giudicato). L’art. 397 - Revocazione proponibile dal pubblico ministero: “Nelle cause in cui l'intervento del pubblico ministero è obbligatorio a norma dell'articolo 70 primo comma, le sentenze previste nei due articoli precedenti possono essere impugnate per revocazione dal pubblico ministero: 1) quando la sentenza è stata pronunciata senza che egli sia stato sentito; 2) quando la sentenza è l'effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge.” Queste conseguenze così gravi si verificano soltanto se gli atti del processo non sono comunicati al P.M., per cui non si richiede una partecipazione effettiva ciò che conta per la validità del procedimento e della sentenza è che ci sia stata la comunicazione degli atti al P.M. il quale può scegliere anche di non intervenire. Solitamente nei casi in cui sia obbligatorio l’intervento del P.M., gli atti gli vengono comunicati solo alla fine del processo e il P.M. si limita a formulare le conclusioni chiedendo il rigetto o l’accoglimento della domanda.

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Per quanto riguarda le modalità di intervento dobbiamo fare riferimento alle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile che non sono diverse da quelle previste per l’intervento dei terzi nel processo e si sostanzia con una comparsa che il P.M. deposita in cancelleria oppure direttamente in udienza, ma di fatto anche la semplice apposizione delle conclusioni è considerato come avvenuto intervento. L’art. 72 - Poteri del pubblico ministero - opera una distinzione importante a seconda che il P.M. abbia potere d’azione oppure soltanto d’intervento. Se ha potere d’azione o interviene nel processo ai sensi del n. 1) dell’art 70, la sua posizione è assimilata a quella delle parti: “Il pubblico ministero, che interviene nelle cause che avrebbe potuto proporre, ha gli stessi poteri che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime (primo comma art. 72).” In realtà non è mai totalmente assimilabile la sua posizione a quella delle parti, ad esempio il P.M. non è condannabile alle spese e gli effetti del provvedimento non si riverberano nella sfera del P.M. Comunque dal punto di vista delle attività processuali il P.M. quando ha potere d’azione è come se fosse parte del processo, quindi può proporre domande, eccezioni, allargare l’ambito dell’oggetto della causa, cosa che invece non può fare se non ha il potere d’azione, cioè nei casi in cui è interveniente. Nei casi in cui il P.M. ha soltanto il potere-dovere di intervenire nel processo ovvero nei casi di interevento facoltativo, le attività processuali che può compiere sono molto più limitate: può produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti (secondo comma art. 72). La differenza tra il primo e il secondo comma sulle attività che il P.M. può compiere è che mentre quando ha potere d’azione non ha alcun limite può compiere le stesse attività processuali che possono compiere le parti; invece quando ha potere di intervento senza avere potere d’azione, può produrre documenti, chiedere mezzi di prova, ma nei limiti delle domande (e delle eccezioni) formulate dalle parti originarie e quindi non può ampliare l’oggetto della causa con fatti nuovi a fondamento delle domande o delle eccezioni, perché questa attività è riservata alle parti. L’attività di intervento del P.M. è sostanzialmente diretta a sostenere le ragioni delle parti attraverso la richiesta di mezzi di prova che eventualmente le parti non abbiano chiesto o producendo documenti che altri non abbiano prodotto. Questa differenza rileva anche per l’impugnazione della sentenza perché quando il P.M. ha potere d’azione, e quindi è parte, può anche impugnare la sentenza, invece quando ha un potere di intervento, può proporre l’impugnazione soltanto quando la legge consente al P.M. di farlo. “Il pubblico ministero può proporre impugnazioni contro le sentenze relative a cause matrimoniali, salvo che per quelle di separazione personale dei coniugi. Lo stesso potere spetta al pubblico ministero contro le sentenze che dichiarino l'efficacia o l'inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali, salvo che per quelle di separazione personale dei coniugi (art. 72 terzo comma).” Ulteriore differenzia tra la posizione del P.M. da quella della parte è che mentre la parte può impugnare la sentenza soltanto se ha perso la causa (se è soccombente), il P.M. lo può fare anche nel caso in cui la sentenza abbia accolto la sua conclusione e tale impugnazione spetta al P.M. presso il giudice che abbia pronunciato la sentenza ovvero a quello competente a decidere sull’impugnazione (art. 72 quarto comma). L’impugnazione del P.M. è svincolata dalla soccombenza perché comunque può accadere che il P.M. presente presso la corte d’appello ritenga, diversamente dalla valutazione fatta dal P.M. presso il tribunale, che quella sentenza non tuteli adeguatamente l’interesse pubblico. Da questa disciplina si desume che ai P.M. che intervengono nel processo civile si applicano le disposizioni relative all’astensione del giudice, ma non quelle sulla ricusazione perché non è un giudice, deve astenersi, ma la parte non può ricusarlo e lo stesso per quanto riguarda la responsabilità civile dei magistrati.

LE PARTI

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Alle parti il codice di procedura dedica il capo I (Delle parti), dall’art. 75 all’art. 81, del titolo III (Delle parti e dei difensori). La parte nel processo civile si individua essenzialmente sulla base della domanda giudiziale: è parte chi propone la domanda (l’attore) e chi ne cui confronti la domanda è proposta (il convenuto). L’ipotesi due parti è la più semplice, ma il processo può anche svolgersi tra più parti ed è possibile anche che sia un processo litisconsortile caratterizzato da una pluralità di parti (pluralità di attori o convenuti) che può esserci anche dall’inizio del processo, pensiamo all’ipotesi di due o più creditori che agiscono dall’inizio congiuntamente verso il debitore, oppure può accadere che le parti si aggiungano nel corso del processo. Il litisconsorzio si verifica in corso di causa ed è un’eventualità regolata dal nostro codice attraverso la figura dell’intervento del terzo che può essere volontario, su ordine del giudice o su istanza di una parte che si aggiunge al processo che interviene perché ha un proprio diritto, per cui propone una vera e propria domanda giudiziale che si inserisce nel processo già pendente tra le parti originarie e questo è litisconsorzio successivo. In sintesi il processo inizia tra due parti e successivamente se ne aggiungono delle altre e quindi parte non è solo l’attore e il convenuto iniziale, ma è anche il terzo che interviene per far valere un proprio diritto proponendo una vera e propria domanda e in tal modo acquisisce la qualità di parte. Il processo ordinario di cognizione inizia con atto di citazione mentre il processo speciale, ad esempio il processo del lavoro, inizia con ricorso. Pertanto mentre il processo ordinario di cognizione inizia a pendere con la notificazione alla controparte dell’atto di citazione ed è questo il momento in cui si acquista la qualità di attore e convenuto, per i processi speciali che iniziano con ricorso, incominciano ad essere pendenti dal deposito del ricorso essendo diverso il meccanismo di introduzione della causa. La qualità di parte si perde se questa muore, se è una persona fisica, o si estingue, se si tratta di persona giuridica (estinzione), ma anche per estromissione in ipotesi tassative e quindi ha una portata circoscritta ad l’inverso dell’intervento dato che segna l’uscita della parte dal processo. Per poter essere parte nel processo è sufficiente avere la capacità giuridica che per le persone fisiche si acquista dalla nascita (art. 1 c.c.) e per le persone giuridiche (gli enti) quando vi sono le condizioni stabilite dalla legge, ma non tutti i soggetti con capacità giuridica hanno capacità di stare in giudizio ossia di agire e compiere atti del processo. Occorre distinguere la capacità di essere parte dalla capacità processuale che l’art. 75 c.p.c. ricollega al libero esercizio dei diritti. La capacità processuale spetta a chi ha il libero esercizio dei diritti che ricorda la capacità di agire di diritto sostanziale dell’art. 2 c.c. e riecheggia, con le dovute variazioni, nel primo comma dell’art. 75 c.p.c.: “Sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere.” Questa regola incontra delle eccezioni che troviamo già nell’art. 2 c.c. quando consente, anche a chi non abbia la capacità di agire (che si acquista con la maggiore età), di svolgere un’attività lavorativa: “Sono salve le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro.” In deroga alla regola generale, questo è un caso in cui un infradiciottenne, pur non avendo la capacità di agire, ha la capacità processuale anche se limitatamente alle azioni che nascono dal contratto di lavoro. Altra ipotesi particolare è quella che riguarda il fallito che non ha capacità processuale con riferimento ai rapporti patrimoniali coinvolti nel fallimento, però la conserva per i rapporti personali (ad esempio per il divorzio) e quindi non sempre le due nozioni coincidono. L’art. 75 secondo comma stabilisce: “Le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità.” sicché se la persona non ha libero esercizio dei diritti dobbiamo fare ricorso all’istituto della rappresentanza legale, dell’assistenza o dell’autorizzazione.

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Con la rappresentanza legale il minorenne sta in giudizio attraverso il genitore esercente la potestà e l’interdetto con il tutore, pertanto il rappresentante processuale è il soggetto a cui spetta la rappresentanza legale di chi non ha il libero esercizio dei diritti e agisce in nome e per conto del rappresentato e compie atti del processo destinati a produrre effetti nella sfera giuridica di un soggetto diverso: il rappresentato. C’è una sorta di scissione tra la parte che compie gli atti del processo, che è il rappresentante, e la parte che ha diritto al provvedimento, il titolare del rapporto (il rappresentato), nella cui sfera giuridica si produrranno gli effetti. Per alcuni è una parte complessa perché si ha una scissione tra il rappresentato che è parte in senso processuale essendo destinatario degli effetti e il rappresentante che è parte solo in senso formale perché è colui che formalmente ha una serie di posizioni processuali attive (diritti, facoltà, oneri, obblighi processuali) che compie in nome e per conto del rappresentato. Nel diritto sostanziale esiste anche la rappresentanza volontaria di cui si occupa anche il codice di procedura civile all’art. 77 stabilendo che la rappresentanza processuale, cioè la rappresentanza ad agire e stare in giudizio per un’altra parte, spetta esclusivamente a chi abbia una procura generale o speciale (cioè preposto a determinati affari). Il primo principio che si desume dall’art. 77 (rappresentanza del procuratore e dell’institore) è che non ci può essere una rappresentanza processuale, cioè una delega a stare in giudizio, svincolata dalla rappresentanza di diritto sostanziale. Non è possibile conferire ad una persona il mandato solo per compiere atti del processo, ma ci deve essere sempre una procura generale a compiere qualsiasi affare di diritto sostanziale o speciale con riferimento ad affari determinati e questo lo si desume dall’art. 77: “Il procuratore generale (procura generale) e quello preposto a determinati affari (procura speciale) non possono stare in giudizio per il preponente, quando questo potere non è stato loro conferito espressamene per iscritto, tranne che per gli atti urgenti e per le misure cautelari.” Quindi la rappresentanza processuale (generale o speciale) può essere conferita solo da chi abbia una rappresentanza sostanziale; ma non è sufficiente avere la rappresentanza di diritto sostanziale per poter agire nel processo per conto del rappresentato, perché deve essere espressamente conferita per iscritto ad eccezione degli atti urgenti e per le misure cautelari (anche se nelle misure cautelari sono ricompresi gli atti urgenti). Una seconda deroga è prevista dal secondo comma dell’art. 77 per i residenti all’estero per i quali il potere di agire in giudizio si presume conferito al procuratore generale di chi non ha residenza o domicilio nello Stato e all’institore (per imprese commerciali). In questi casi è possibile che il procuratore generale o speciale agisca anche senza che gli sia espressamente conferita la rappresentanza processuale, perche il potere di agire in nome e per conto del rappresentato è presunta. L’ultima forma di rappresentanza è la rappresentanza organica per le persone giuridiche che è una forma di rappresentanza un po’ diversa di chi agisce tramite un suo organo e ciò rileva anche sotto l’aspetto processuale. Nella rappresentanza delle persone fisiche, il rappresentante risponde degli atti compiuti in nome e per conto del rappresentato, però se commette un illecito non risponde il rappresentato, ma il rappresentante perché al rappresentato si imputano solo gli effetti non l’azione e gli atti. Nella rappresentanza organica il discorso è diverso perché all’ente rappresentato si imputa non solo l’effetto, ma anche l’agire. Ad esempio se l’amministratore delegato (il rappresentante) compie un illecito, è oggettivamente imputato all’ente (la persona giuridica) e quindi non solo gli effetti, ma anche atti e azioni del suo rappresentante. Per le persone giuridiche si pone il problema di stabilire chi abbia la rappresentanza dell’ente e quindi la capacità processuale e per far ciò dobbiamo riferirci alle norme di diritto sostanziale (statuti, atti costitutivi, ecc.) e infatti l’art. 75 c.p.c. terzo comma dispone: “Le persone giuridiche (private o pubbliche) stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello

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statuto.” Quanto invece agli enti che non hanno personalità giuridica, quindi associazioni e comitati, hanno la capacità processuale il presidente o il direttore (art. 36 c.c.). La rappresentanza si riferisce a chi non abbia in modo assoluto capacità d’agire, sia cioè totalmente incapace, tuttavia è possibile che una persona sia solo parzialmente incapace e per questa fattispecie vi è un altro istituto a cui fa riferimento l’art. 75 secondo comma, vale a dire all’assistenza di chi non abbia la piena libertà di agire, cioè sia relativamente incapace come il minore emancipato e l’inabilitato. Qui la capacità processuale non manca del tutto, ma semplicemente è necessario che sia integrata attraverso l’assistenza da parte di un soggetto come il curatore nel caso dell’inabilitato. Il curatore sta in giudizio insieme alla persona relativamente incapace e non è come il rappresentante legale che si sostituisce, ma assiste ed è necessario il suo consenso per il compimento degli atti del processo. Ad esempio l’amministratore di sostegno che è particolare perché in alcuni casi è data la rappresentanza legale in altri casi si tratta di semplice assistenza. Terza figura a cui fa riferimento l’art. 75 è l’autorizzazione che è diversa dalla rappresentanza e dall’assistenza perché si riferisce sia alla rappresentanza legale che quella organica ed è un requisito a cui è subordinata la valida attività del rappresentante legale o rappresentante organico, ad esempio nel caso del genitore che rappresenta un minorenne. L’art. 320 c.c. (Rappresentanza e amministrazione) stabilisce nei giudizi che abbiano ad oggetto atti eccedenti l’ordinaria amministrazione che il genitore può stare in giudizio, ma è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare. Quindi occorre un quid pluris dato dall’autorizzazione che è condizione di validità ed efficacia degli atti del rappresentante (legale o organico); ad esempio il sindaco del comune ha bisogno all’autorizzazione della giunta comunale per agire in giudizio. L’autorizzazione non attribuisce un potere che non c’è, ma rimuove un ostacolo all’efficacia degli atti posti in essere dal rappresentante. L’art. 78 c.p.c. poi si occupa del curatore speciale e questa è un ipotesi molto particolare e temporanea che si ha quando ad persona (fisica o giuridica) o associazione non riconosciuta manca la capacità processuale e non abbia un rappresentante legale, cioè manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l’assistenza e vi sono ragioni di urgenza per cui è possibile nominare un curatore speciale che lo rappresenti o lo assista, ma è una situazione provvisoria perché il curatore speciale svolge il suo compito fino a quando subentra chi ha la rappresentanza o l’assistenza. Sicché la nomina del curatore speciale presuppone l’urgenza e la mancanza del rappresentante legale o l’assistenza, ma è previsto anche nel caso ci sia un conflitto di interesse tra rappresentante e rappresentato (art. 78 secondo comma). In questo caso è possibile chiedere al giudice di pace o al presidente del tribunale o della corte d’appello la nomina del curatore speciale e questo rientra in uno dei casi in cui la richiesta può essere formulata dal pubblico ministero oppure direttamente dalla persona incapace o dalla persona che deve essere rappresentata o assistita, sebbene incapace, nonché dai suoi prossimi congiunti e, in caso di conflitto di interessi, dal rappresentante e infine da qualunque altra parte in causa che vi abbia interesse (art. 79 c.p.c.). Il giudice, assunte le opportune informazioni e sentite possibilmente le persone interessate, provvede con decreto. Questo è comunicato al pubblico ministero affinché provochi, quando occorre, i provvedimenti per la costituzione della normale rappresentanza o assistenza dell'incapace, della persona giuridica o dell'associazione non riconosciuta (art. 80 c.p.c.). La disciplina della rappresentanza processuale è molto importante perché eventuali vizi relativi alla rappresentanza, all’assistenza o all’autorizzazione possono avere conseguenze fatali sul processo, considerando che il difetto di rappresentanza o assistenza rilevabile dal giudice d’ufficio in qualsiasi momento del processo, in quanto la capacità di agire in giudizio è un presupposto processuale. Queste norme sono importanti perché la loro violazione determina l’invalidità o la nullità degli atti del processo e della stessa sentenza anche se il legislatore si preoccupa di far in modo che questi vizi possano essere sanati.

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Infatti il primo comma dell’art. 182 c.p.c. (Difetto di rappresentanza o di autorizzazione) prevede: “Il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi.” Il secondo comma è stato modificato dalla legge 69/2009 stabilendo che il giudice: “Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L'osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione.” Le novità della nuova formulazione sono: è possibile sanare anche un vizio che determina la nullità della procura al difensore; il giudice deve assegnare un termine (nella vecchia formulazione era una sua facoltà) che oggi è perentorio; è scomparsa la decadenza54 per chiedere di sanare i vizi; infine l'osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione. Con la riforma del 2009, il processo si estingue per mancanza di un presupposto processuale solo se viene superato il termine perentorio assegnato dal giudice alla parte per integrare la capacità processuale, nel difetto di rappresentanza assistenza o autorizzazione e comunque gli effetti della sanatoria sono sempre dal momento della prima notificazione.55 Infatti, scomparendo la formula salvo sia avvenuta la decadenza, la sanatoria del difetto di rappresentanza o assistenza o autorizzazione produce effetto retroattivamente, cioè fin dalla notifica della domanda invalida per difetto di rappresentanza, per cui il legislatore ha voluto togliere valore a questo vizio che poteva avere conseguenze negative per il processo. Nel momento in cui il rappresentante si costituisce in giudizio, pensiamo al genitore che si costituisce sanando vizio di capacità processuale del figlio minorenne, questo non comporta automaticamente la validità degli atti del processo, cioè come accade nel diritto sostanziale la validità di questi atti si produce solo se c’è la ratifica di chi ha la rappresentanza legale che li fa propri, in mancanza di ratifica questi atti restano invalidi e inefficaci. L’ultima norma relative alle parti è l’art. 81 c.p.c. - sostituzione processuale - che è un istituto ben diverso dalla rappresentanza: “Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui.” Questa norma è importantissima perché fissa un principio basilare del processo civile che si ricava leggendola in positivo: tutti possono agire nel processo in nome proprio per far valere un proprio diritto e questa è una delle condizioni dell’azione chiamata legittimazione ordinaria. Leggendo al contrario l’art. 81 si ha anche un ipotesi di legittimazione straordinaria e si ricava un principio fondamentale: fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, si può agire in giudizio in nome proprio solo per la tutela dei propri diritti, perché può far valere un diritto chi afferma di esserne titolare, in quanto oggetto del processo sono i diritti disponibili, per cui solo il titolare del diritto può scegliere come farlo valere e se tutelarlo davanti al giudice.

54 Con la vecchia formulazione il vizio di rappresentanza o di assistenza poteva essere sanato fino a quando non si verificava la decadenza. Per esempio se veniva rilevato dal giudice d’appello e nel frattempo sono decorsi i termini per impugnare, il vizio non poteva esser più sanato perché si è verificato una decadenza per cui il giudice doveva dichiarare la domanda improcedibile. Ma in questo modo il processo non poteva più andare avanti per mancanza di un presupposto processuale e quindi si chiudeva il rito con improcedibilità della domanda. 55 Nella precedente formulazione la sanatoria si produceva dal momento della domanda e quindi gli effetti si producevano ex nunc, cioè nel momento in cui il vizio viene sanato e questa tesi è pacifica per la rappresentanza e l’assistenza. Per l’autorizzazione, invece, si affermava che questa più un requisito di validità è di efficacia degli atti (ad esempio il genitore che ha agito senza l’autorizzazione del giudice, non è che non avesse la rappresentanza del figlio) per cui si ritiene che l’autorizzazione abbia efficacia retroattiva sanando il vizio sin dal momento della domanda di autorizzazione ed è data in qualsiasi momento, semplicemente producendo il documento che mancava per rendere efficace l’atto.

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Nella legittimazione ordinaria la condizione necessaria per agire in giudizio è far valere un proprio diritto: è il principio della correlazione necessaria tra la titolarità di agire in giudizio (diritto di azione) e titolarità affermata del diritto per il quale si agisce, perché per stabilire se c’è la legittimazione ad agire bisogna guardare a ciò che afferma l’attore nella domanda giudiziale. Infatti non sappiamo se poi effettivamente sia il titolare del diritto oppure no, perché sarà accertato dal processo, ma per stabilire se ricorre questa condizione di ammissibilità della domanda l’attore deve sostenere di essere il titolare del diritto per cui agisce in giudizio. Pertanto non deve essere confusa la condizione di ammissibilità della domanda con la questione di merito che attiene alla fondatezza della domanda. Invece, in deroga alla regola generale, nella legittimazione straordinaria si applica la sostituzione processuale nei casi eccezionali in cui la legge espressamente prevede che un soggetto possa agire, in nome proprio per far valere un diritto altrui, quando non c’è una piena disponibilità o addirittura totale indisponibilità del diritto o rapporto per il quale è chiesta la tutela. Da non confondere la rappresentanza dalla sostituzione processuale, perché anche nella seconda c’è una scissione tra la parte che agisce in giudizio e quella che subisce gli effetti del processo e della sentenza in quanto si produrranno verso chi è titolare del diritto, ma la differenza sta nel fatto che il rappresentante agisce in nome e per conto di altri, invece il sostituto processuale fa valere un diritto altrui in nome proprio per cui se perde la causa paga lui le spese processuali e non il rappresentato e quindi si assume i rischi dell’azione. Una delle ipotesi più importanti di sostituzione processuale è l’azione surrogatoria disciplinata dal’art. 2900 c.c.: “Il creditore, per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni, può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore e che questi trascura di esercitare, purché i diritti e le azioni abbiano contenuto patrimoniale e non si tratti di diritti o di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non dal loro titolare. Il creditore, qualora agisca giudizialmente, deve citare anche il debitore al quale intende surrogarsi (parte necessaria del processo).” Questa è un ipotesi di sostituzione processuale, ex art. 81, perché qui c’è il creditore che si sostituisce al titolare per agire in giudizio in nome proprio, avendo interesse a far valere un diritto del proprio debitore nei confronti del terzo che è il debitore del suo debitore (il debitor debitoris). La ratio della sostituzione processuale è nella non piena disponibilità del patrimonio del debitore e al riguardo l’art. 2740 c.c. dispone che il debitore risponde delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri e in presenza di un obbligazione non adempiuta, non è del tutto disponibile il suo patrimonio essendo vincolato alla garanzia del credito, tanto che il creditore può anche agire con l’esecuzione forzata. Questo giustifica la possibilità per il creditore di sostituirsi al debitore facendo valere in nome proprio un diritto altrui, cioè del proprio debitore, che però deve essere citato in giudizio per poter esercitare la possibilità di difendersi, essendo parte necessaria nel giudizio, ma gli effetti del provvedimento finale si producono verso il debitore titolare del diritto. Il codice civile prevede altre ipotesi, per esempio in materia matrimoniale, nell’ambito dei rapporti indisponibili, il genitore può agire in giudizio chiedendo che sia dichiarato nullo il matrimonio che il figlio ha contratto in violazione di requisiti previsti dalla legge; altro esempio si ha quando il coniuge può agire in giudizio per chiedere che sia dichiarato nullo il secondo matrimonio dell’altro coniuge; in riferimento ai diritti reali l’art. 1012 c.c. prevede che l'usufruttuario può far riconoscere l'esistenza delle servitù a favore del fondo o l'inesistenza di quelle che si pretende di esercitare sul fondo medesimo, ma deve chiamare in giudizio il proprietario. In questi esempi è individuato il sostituto processuale, ma in molti casi il sostituto processuale viene individuato sulla base della nozione del soggetto interessato; per esempio la legittimazione all'azione di nullità (art. 1421 c.c.) del contratto può farla valere chiunque abbia interesse, quindi anche dal titolare di un diritto dipendente da quello dedotto in giudizio e per il quale è chiesta la tutela giurisdizionale.

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Lo stesso discorso riguarda la nullità del matrimonio che può essere fatta valere, oltre che dai coniugi, dal pubblico ministero, familiari, ascendenti, discenti e chiunque vi abbia interesse, cioè chi ha una posizione dipendente da quel rapporto. Sotto questo aspetto il pubblico ministero con riferimento ai rapporti dove ha una legittimazione concorrete si comporta, in senso lato, come un sostituto processuale, perché fa valere non in nome proprio, ma nell’interesse pubblico, un diritto o un rapporto che fa capo a soggetti diversi. Nella sostituzione processuale rientrano anche, espressamente previste dalla legge, le c.d. azioni dirette con le quali viene data ad un soggetto la possibilità di esercitare direttamente l’azione nei confronti del terzo. Tipica azione diretta è quella art. 1595 c.c. (rapporti tra il locatore e il subconduttore) prevedendo che il locatore, se il conduttore non adempie, possa agire direttamente nei confronti del subconduttore, benché il rapporto è tra conduttore e sub conduttore, ma la norma da la possibilità di esercitare azione diretta dal terzo, (il locatore) che è debitore del debitore, quanto è dovuto al creditore. Altra azione diretta è quella del danneggiato da un sinistro automobilistico nei confronti della compagnia di assicurazione del danneggiante, pur essendo il rapporto tra danneggiato e danneggiante, si da la possibilità di agire direttamente nei confronti del terzo (la compagnia di assicurazione) e anche questa è un’ipotesi di sostituzione processuale in quanto si fa valere un diritto altrui. La differenza rispetto all’azione surrogatoria è negli effetti del provvedimento, perché mentre nella sostituzione processuale generale gli effetti del provvedimento si producono nella sfera giuridica del sostituito (il titolare del rapporto), nell’azione diretta vanno automaticamente a colui che agisce, quindi la persona che agisce ottiene direttamente il risarcimento del danno dalla compagnia di assicurazione e non produce effetti nella sfera giuridica del danneggiante, ma direttamente nella sfera giuridica del danneggiato che ha agito in giudizio con azione diretta.

I DIFENSORI Dei difensori (o rappresentanza tecnica che è diversa da quella processuale) il codice di procedura dedica il capo II (Dei difensori), dall’art. 82 all’art. 87, del titolo III (Delle parti e dei difensori). Il nostro processo prevede l’obbligatorietà della rappresentanza tecnica (il difensore) ed è una scelta fatta dal legislatore che si giustifica in ragione delle conoscenze specialistiche e costituisce una componente essenziale del diritto alla difesa ex art. 24 Cost. La parte ancorché munita di capacità processuale sta in giudizio attraverso il ministero o l’assistenza di un difensore e non può compiere direttamente atti del processo, se non in alcuni casi eccezionali. Una delle ipotesi in cui la parte può stare in giudizio personalmente è prevista dall’art. 82 c.p.c. (Patrocinio) per le cause dinnanzi al giudice di pace il cui valore non superi 516,46 euro, tuttavia lo stesso giudice in considerazione della natura ed entità della causa, con decreto emesso anche su istanza verbale della parte, può autorizzarla a stare in giudizio di persona. L’altro caso lo troviamo nel processo di cognizione per le controversie in materia di lavoro, ma anche qui la norma ha un’utilità scarsa perché l’art. 417 (Costituzione e difesa personali delle parti) prevede che si possa stare in giudizio personalmente per le cause il cui valore non superi i 129,11 euro e solo nel primo grado di giudizio. Se la parte è un avvocato può stare in giudizio personalmente, infatti l’art 86 (Difesa personale della parte) dispone: “La parte o la persona che la rappresenta o assiste, quando ha la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito, può stare in giudizio senza il ministero di altro difensore.” Al di fuori di queste ipotesi le parti non possono stare in giudizio se non con il ministero o con l’assistenza di un difensore, quindi la difesa tecnica è necessaria nelle cause dinanzi al tribunale ed alla corte d’appello, mentre per le cause dinnanzi alla Corte di cassazione la difesa deve essere assunta da un difensore iscritto ad un apposito albo che è quello dei patrocinanti in Cassazione.

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La distinzione tra ministero e assistenza data dall’82 corrisponde alle due differenti funzioni che possono essere svolte dal difensore: � Si ha il ministero quando il difensore svolge la funzione di rappresentanza attribuita al

procuratore legale che rappresenta la parte nel processo ricevendo e compiendo gli atti processuali in favore della parte; quindi si parla di ministero con riferimento al procuratore cioè chi sta in giudizio con la parte.

� L’assistenza si riferisce all’altra funzione che viene normalmente esercitata dal difensore, cioè di consiglio, di consultazione tecnica assolta dall’avvocato56. In altri termini l’assistenza dell’avvocato è quella di colui che sta accanto alla parte o al procuratore dando il suo consiglio tecnico e risolvendo le questioni giuridiche impostando al meglio la difesa.

Oggi le due funzioni sono svolte entrambe dal difensore, ma fino al 1997 corrispondevano due funzioni diverse, essendoci il procuratore legale (iscritto all’albo dei procuratori che poteva esercitare la funzione di rappresentanza solo nell’ambito distrettuale) e l’avvocato (iscritto all’albo degli avvocati dopo 6 anni da procuratore che rappresenta e difende la parte su tutto il territorio nazionale). La legge 24 febbraio 1997, n. 2757 ha soppresso l’albo dei procuratori legali, i quali d’ufficio sono stati iscritti all’albo degli avvocati. L’unificazione delle due funzioni non esclude la possibilità che la parte possa attribuire ad un difensore il mandato per rappresentarlo in giudizio e ad un altro il compito di assistere il procuratore in un processo, anche se è una possibilità soprattutto teorica in quanto normalmente entrambe le attività sono svolte dallo stesso difensore. Affinché il difensore possa svolgere la funzione di procuratore legale nel processo è necessario che la parte dia mandato al difensore, cioè conferisca la rappresentanza in giudizio, e questo avviene attraverso la procura alle liti disciplinata dall’art. 83 c.p.c.: “Quando la parte sta in giudizio col ministero (la rappresentanza) di un difensore, questi deve essere munito di procura.” Questa per la rappresentanza del difensore è inquadrabile nella figura più generale del mandato di diritto sostanziale, ma qui trovano applicazione le regole particolari previste per le modalità e la forma che deve avere. Infatti il secondo comma dell’art. 82 dispone: “La procura alle liti può essere generale o speciale, e deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata.” La procura generale è conferita al fine di rappresentare la parte in qualsiasi controversia e per un numero indeterminato di liti; viceversa la procura speciale è quella che viene conferita per una controversia determinata e per un solo grado del giudizio, salvo dalla procura stessa non risulti una diversa volontà e anche per gli altri gradi di impugnazione. Inoltre, per la procura speciale il terzo comma dell’art. 83, integrato dalla legge 69/2009, prevede: “La procura speciale può essere anche apposta in calce o a margine della citazione, del ricorso, del controricorso, della comparsa di risposta o d'intervento, del precetto o della domanda d'intervento nell'esecuzione, ovvero della memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato. In tali casi l'autografia (cioè la verità della sottoscrizione) della sottoscrizione della parte deve essere certificata dal difensore. La procura si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all’atto cui si riferisce o su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all'atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia. Se la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la

56 L’advocatus per i romani è colui che è chiamato in aiuto. Già nel processo romano c’era questa distinzione, il procuratore che rappresentava la parte e poteva essere chiunque, invece l’avvocato era il giure consulto. cioè colui che prestava consiglio tecnico. 57 Soppressione dell'albo dei procuratori legali e norme in materia di esercizio della professione forense.

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sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica.” Questa è una novità introdotta dal legislatore del 1940, perché nel vecchio codice il mandato alle liti (non si parlava di procura) doveva sempre essere conferito, sia generale che speciale, con atto pubblico o scrittura privata autenticata per cui bisognava andare dal notaio. La soluzione accolta da Pisanelli nel vecchio codice era molto dispendiosa, per cui il legislatore del 1940 ha previsto la possibilità di apporre la procura in calce o a margine di determinati atti, ma aggiungendo un quid pluris dato dalla certificazione del difensore sulla veridicità della sottoscrizione che non è un autenticazione, ma è una certificazione ex art. 83. Gli atti indicati dall’art. 83 sono tutti introduttivi, cioè atti con cui la parte si costituisce (l’atto di citazione per l’attore, la comparsa di risposta per il convenuto, la comparsa per l’interveniente), ma la norma non prende in considerazione la possibilità che il difensore venga sostituito in corso di causa e in questo caso la procura non potrà essere posta in calce o a margine dell’atto perché il processo è già iniziato. In queste ipotesi la giurisprudenza ha affermato che la procura possa essere conferita con un atto diverso e precisamente con la comparsa con cui il difensore nominato in corso di causa si costituisce in giudizio. La giurisprudenza aveva escluso la tassatività degli atti a cui fa riferimento questa norma, ma la legge 69/2009 ha espressamente sancito questo principio, stabilendo che all’elencazione di atti a cui fa riferimento il secondo comma si aggiunge anche la possibilità che la procura venga conferita in margine o a calce della memoria del nuovo difensore, in aggiunta o sostituzione del difensore originariamente designato. Quindi solo la procura speciale, cioè quella che si riferisce ad una determinata controversia, può essere conferita in calce o a margine di un determinato atto della parte a cui si aggiunge la certificazione del difensore che attesti la verità della firma che però non è autentica, non essendo il difensore un pubblico ufficiale, infatti il legislatore dispone la certificazione e non l’autentificazione della firma. Ciò nonostante per la Cassazione la certificazione del difensore, quasi fosse un’autentica, fa piena prova fino a querela di falso, cioè l’unico modo per far valere la falsità è la querela di falso che è uno strumento per impugnare un atto pubblico o scrittura privata autenticata. Questa giurisprudenza solleva molte perplessità come l’istituto della certificazione e di cui per la Reali non c’è un gran bisogno, in quanto sarebbe sufficiente una semplice scrittura privata con cui la parte si rivolge al difensore per dargli mandato a difenderlo e rappresentarlo in giudizio58. La giurisprudenza tende a dare molto valore alla procura, nel senso che la mancata certificazione e qualsiasi vizio formale comporta nullità del processo e della sentenza. Anche se la modifica apportata nel 2009 all’art. 182 ha introdotto la possibilità che il vizio della procura venga sanato entro un termine perentorio dato dal giudice, così è stato attenuato notevolmente l’assurdo formalismo processuale della giurisprudenza della Cassazione che molte volte ha dichiarato inammissibile un ricorso per questa ragione, di fatto così viene negata la giustizia per un vizio formale legato alla procura59. La situazione più grave si è verificata per le cause dinanzi alla Corte di cassazione per le quali sono necessarie le procure speciali. La Cassazione per molto tempo ha affermato che la procura in calce

58 Pensate all’assurdità di una certificazione fatta a favore di chi rilasciata la procura, cioè il notaio non può autenticare la procura in proprio favore, ma questo avviene con il difensore denotando anche un formalismo eccessivo. 59 Nel regno delle Due Sicilie esisteva il mandato presunto per cui non c’era bisogno che il difensore dovesse dimostrare nel processo di agire in nome e per conto della parte, ma si presume che se il difensore agisce in giudizio lo fa in nome e per conto della parte per non esisteva questa necessità. Il difensore, poi, ha interesse di premunirsi della procura nell’eventualità che la controparte potesse chiedere il mandato al difensore onde cautelarsi nelle eventualità in cui vi fosse stato un disconoscimento, ma non doveva dimostrare subito. Pisanelli, nel codice preferì optare per il mandato espresso a tutela non della parte, ma della controparte per evitare che si potesse arrivare alla fine del processo senza chi vi fosse il mandato, danneggiando così la controparte perché l’eventuale sconfitta era imputata al difensore non riconosciuto, anziché alla parte.

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per essere valida si doveva trovare “nello stesso luogo documentale del ricorso senza soluzione di continuità”, quindi se invece fosse stata apposta su un foglio spillato al ricorso quella procura era nulla e per questo motivo una serie di ricorsi veniva dichiarata inammissibile dalla Cassazione. Tutta la dottrina reagiva di fronte a questo consolidato orientamento della Suprema corte che continuava a dichiarare inammissibile i ricorsi per nullità delle procure. Addirittura, per porre fine alle gravi ingiustizie è intervenuta la legge 141/97, prevedendo che la procura speciale si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all’atto cui si riferisce (comprese le spillette metalliche). Una norma tanto sentita da essere applicata anche ai giudizi in corso, oggi ulteriormente ampliata dall’art. 182 riformato nel 2009. Pertanto la procura speciale può conferirsi a margine o in calce di uno degli atti indicati dalla norma oppure viene assimilata alla procura speciale, anche se rilasciata su un foglio separato congiunto materialmente all’atto a cui si riferisce. Per effetto della procura il difensore acquista il c.d. ius postulandi60, cioè può ricevere e compiere gli atti e a questo fa riferimento l’art. 84 c.p.c. - Poteri del difensore: “Quando la parte sta in giudizio col ministero del difensore, questi può compiere e ricevere, nell'interesse della parte stessa, tutti gli atti del processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati.” Il codice prevede in molti casi che sia la parte a compiere determinati atti, per esempio la parte deve comparire personalmente e libero all’interrogatorio, deve rispondere personalmente all’interrogatorio formale, deve prestare giuramento, tutti atti che non possono essere compiuti dal difensore. “In ogni caso non può compiere atti che importano disposizione del diritto in contesa, se non ne ha ricevuto espressamente il potere (secondo comma art. 84).” Quindi il difensore non può compiere atti di composizione della lite (non può transigere la causa o conciliare la lite) sulla base della sola procura alle liti, ma occorre un espresso mandato ulteriore e lo stesso vale per il compimento di quegli atti che, in senso lato, comportano disposizione del diritto; per esempio il deferimento del giuramento decisorio che è un mezzo di prova decisivo da cui dipende la decisione della causa e lo stesso vale per la rinuncia agli atti del giudizio che comporta l’estinzione del processo, per il quale il difensore ha bisogno di un espresso mandato del suo assistito. Se nel corso della causa, il difensore rinunci all’incarico o gli viene revocato il mandato, diversamente dalle norme di diritto sostanziale sul mandato, la procura continua a produrre effetti anche se c’è stata la rinuncia o la revoca, fino a quando non sia avvenuta la sostituzione del difensore (art. 84), cioè è una forma di ultrattività del mandato che continua a produrre effetti. L’art. 88 relativo al dovere di lealtà e di probità al quale sono tenute le parti e i loro difensori nel processo. “In caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorità che esercitano il potere disciplinare su di essi.” Il processo ha un costo sia diretto che indiretto e delle tasse che corrispondono al servizio che lo Stato rende61 e riguardo alle spese processuali l’art. 90 è stato abrogato e sostituito dall’art. 8 dal testo unico in materia di spese di giustizia: “Ciascuna parte provvede alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede e le anticipa per gli atti necessari al processo quando l'anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato.” Primo principio in materia di spese è quello dell’anticipazione degli atti che si compiono o si chiedono in processo (a cognizione piena ed esauriente, speciali come quello cautelare e per induzione), sia pur in maniera provvisoria perché la condanna alle spese è disposta dal giudice anche d’ufficio, nel momento in cui viene pronunciato un provvedimento definitivo che conclude il processo. Infatti, nel dubbio, uno dei modi per stabilire se una sentenza è definitiva, è verificare se c’è la pronuncia sulle spese e in tal caso ci troviamo di fronte ad un provvedimento definitivo.

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Diritto a rappresentare (detto giuridico). Il diritto o la facoltà di proporre domande in giudizio per il proprio patrocinato e cioè diritto di cui si avvale ogni persona, quando delegata da altri, nel perorare le altrui cause. 61 Il testo unico in materia di spese di giustizia (D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) ha operato una notevole semplificazione delle spese, prevedendo il contributo unificato sostituendo le varie spese di cancelleria.

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Per individuare chi deve pagare le spese, il legislatore ha stabilito il principio della soccombenza (chi perde paga) in quanto, di regola, sono poste a carico della parte soccombente e consiste nel rimborso delle spese a favore della parte che ha vinto. Il principio della soccombenza è enunciato nel primo comma dell’art. 91 (Condanna alle spese): “Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa.” Il principio della soccombenza incontra alcune deroghe previste dall’art. 92 e quella più importante che ha fatto più discutere, è costituito dal potere discrezionale del giudice di compensare le spese ponendole in parte a carico di chi ha vinto e in parte di chi ha perso, con l’unico limite che non si possono attribuire integralmente a carico di chi ha vinto. Una deroga al principio della soccombenza è stata introdotta nel 2009, nel secondo periodo del primo comma dell’art. 91, perché il giudice “Se accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 92.” In altre parole è una misura deflattiva che spinge le parti a conciliarsi ed evita che possano avere pretese esose prive di fondamento, perché la parte, pur avendo ragione, sarà condannata al pagamento delle spese maturate dopo la formulazione della proposta non accolta. Altra ipotesi è la soccombenza reciproca tra le parti, cioè quando non c’è una parte che abbia totalmente vinto o perso, quindi la domanda è stata accolta solo in parte. Questa ipotesi è prevista dal secondo comma dell’art. 92, modificato nel 2009: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti.” Nella formulazione originaria questa norma aveva dato luogo a una serie di perplessità perché lasciata al libero arbitrio del giudice, quando non era neanche previsto l’obbligo di motivare, e la Cassazione riteneva questo potere assolutamente discrezionale non suscettibile di impugnazione. Ciò ha portato il legislatore del 2005 a fare un’aggiunta importante disponendo che il giudice deve comunque indicare la motivazione e i motivi per i quali compensa le spese. La motivazione è importante perché consente di controllare e far valere, anche in sede di impugnazione, l’ingiustizia avvertita dalla parte relativa alla decisione di compensazione. Con la precedente formulazione dell’art. 92 il giudice poteva compensare le spese se concorrevano giusti motivi esplicitamente indicati nella motivazione, mentre oggi con la legge 69/2009 questa formula è stata sostituita in senso più restrittivo e cioè “quando concorrono altre gravi e eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”62. La compensazione è la prima deroga al principio della soccombenza, mentre le altre due, meno importanti dal punto di vista pratico, le troviamo nell’art. 92 primo comma: “Il Giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue;” ad esempio se la parte da mandato a 3 o 4 difensori il giudice può ritenere eccessiva la spesa legata ai difensori e ritenendola non ripetibili (non rimborsabili). L’altra deroga si ha quando, indipendentemente dalla soccombenza, il giudice può condannare anche la parte vittoriosa al rimborso delle spese, anche non ripetibili, se ritiene che ci sia stata trasgressione al dovere di lealtà e probità, di cui all’art. 88, causato all’altra parte anche se questa è la parte vittoriosa. Questa violazione non è ancora un illecito, in quanto se c’è dolo o colpa grave ad agire e resistere in giudizio vi è una responsabilità aggravata ed una condanna al risarcimento del danno. Qui la violazione del dovere viene intesa come un abuso del processo, anche in relazione al comportamento preprocessuale, se la parte poteva evitare di dar luogo alla lite. 62 Per la Reali si sarebbe potuto far qualcosa di più tipizzando le ipotesi in cui il giudice può compensare le spese, in quanto così resta sempre un margine di discrezionalità, ma quantomeno è un potere più limitato.

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Un altro istituto è quello della distrazione delle spese regolato dall’art. 93: “Il difensore con procura può chiedere che il giudice, nella stessa sentenza in cui condanna alle spese, distragga in favore suo e degli altri difensori gli onorari non riscossi e le spese che dichiara di avere anticipate. Finché il difensore non abbia conseguito il rimborso che gli è stato attribuito, la parte può chiedere al giudice, con le forme stabilite per la correzione delle sentenze, la revoca del provvedimento, qualora dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per gli onorari e le spese.” La regola è che l’assistito debba pagare gli onorari al difensore, salvo ottenere poi dalla controparte il rimborso se giudice la condanna alle spese, però è data la possibilità al difensore di chiedere immediatamente la distrazione delle spese, cioè che sia direttamente la controparte a pagare il suo onorario. È un istituto che tutela il difensore, salvo la possibilità di chiedere la revoca del provvedimento qualora il cliente dimostri di aver già pagato gli onorari. Una responsabilità aggravata è prevista la lite temeraria regolata dall’art. 96, anche se è raro che vi sia una condanna per questa ragione. In presupposti della lite temeraria è che la parte abbia agito e resistito in giudizio con mala fede (ad esempio con dei raggiri) o colpa grave e non violando semplicemente il dovere di lealtà e probità. L’art. 96 - responsabilità aggravata- dispone: “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza. Il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziaria o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.” Infine nel 2009 è stato aggiunto un altro comma: “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.”

L'ESERCIZIO DELL'AZIONE

Inizia con l’art. 99 c.p.c. - Principio della domanda - il titolo IV dell'esercizio dell'azione, anche se le norme che lo compongono non danno una definizione di azione. Forse il legislatore non ha voluto prendere posizione perchè quando il codice fu varato il problema di dare una nozione al concetto di azione era molto controverso e dibattuto in dottrina, perché sul tema dell'azione, sul suo significato, sul tipo di diritto e se è un diritto autonomo o distinto si sono scontrati i più grandi processualisti, essendo uno dei temi classici, soprattutto della teoria generale del processo, più che del diritto processuale. Oggi è accolta univocamente la concezione dualistica dell'azione, in contrapposizione alla concezione monistica che si affermò intorno all'800 che riteneva l'azione solo una componente del diritto sostanziale fatto valere attraverso l'azione. Secondo la concezione monistica non era possibile configurare l'azione come un diritto autonomo, perché era solo un aspetto del diritto sostanziale, tant'è che a studiare l'azione non erano i processualisti, ma i civilisti: era solo una forma diversa dello stesso diritto sostanziale e per alcuni una forma di combattimento, perché si presentava in questa forma quando veniva violato il diritto sostanziale. Successivamente però prevalse la concezione dualistica del diritto d'azione perché, essendo un diritto autonomo, va distinto dal diritto sostanziale che si fa valere attraverso l'azione. Una conferma di questa concezione la troviamo nel diritto positivo e in particolare nell’art. 24 Cost. 1 comma: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Quindi oggi il diritto d'azione, oltre ad essere un diritto autonomo, è costituzionalmente garantito e non va sovrapposto con il diritto sostanziale a cui è collegato.

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Per la dottrina dominante il diritto d'azione è un diritto soggettivo pubblico, perché esercitato nei confronti dello Stato ponendo a carico del giudice il dovere di provvedere alla tutela giurisdizionale di quel diritto. In pratica consiste nel diritto di ottenere dal giudice-Stato un provvedimento sul merito che accolga o rigetti la domanda, cioè dichiari esistente o inesistente il diritto. In sintesi la tesi dottrinale del diritto di agire in giudizio è quella di essere un diritto soggettivo pubblico finalizzato ad ottenere un provvedimento sul merito. In realtà questa tesi è il risultato di una mediazione tra due concezioni opposte del diritto d'azione che si sono a lungo contese il campo: la concezione astratta e la concezione concreta dell’azione. Secondo la concezione astratta il diritto d'azione è semplicemente un diritto soggettivo pubblico, uti civis, spettante a chiunque e in qualsiasi momento essendo inteso come un generico diritto ad ottenere un provvedimento del giudice e quindi non necessariamente un provvedimento sul merito. Ma questa formula è troppo generica per poter scoprire quale sia la natura e il contenuto del diritto d'azione. A questa tesi si contrapponeva quella di Giuseppe Chiovenda63 secondo cui il diritto d'azione è un tipico diritto potestativo64 perché andava esercitato nei confronti di un altro soggetto (quindi non nei confronti dello Stato) e consisteva nel diritto ad ottenere la modificazione giuridica richiesta nella controparte, attraverso l'attuazione della legge; sicché il diritto d'azione doveva essere inteso come diritto ad ottenere un provvedimento favorevole all'attore, ma non un provvedimento sul merito, nel senso di accoglimento dell'azione. Mentre la concezione astratta separava completamente il diritto d'azione dal diritto sostanziale, la concezione concreta collega il diritto d'azione al diritto sostanziale. Pur essendo un diritto autonomo, per Chiovenda il diritto d’azione esiste solo quando il giudice dichiara esistente il diritto sostanziale attraverso l'azione, per cui è un diritto inteso ad ottenere un provvedimento favorevole. Anche questa teoria si esponeva ad una critica perché il diritto d'azione spetta anche a chi vede rigettare o dichiarare inesistente il diritto per il quale agisce, in quanto solo dopo il processo viene accertato il diritto mentre la domanda la propone chi presume di avere un diritto. Quindi il limite di questa teoria è il non riuscire a spiegare come mai ad agire in giudizio potesse essere anche chi si fosse visto dichiarare inesistente il diritto. Chiovenda si rendeva conto di questo limite, però lo superava distinguendo l'azione dalla domanda oppure l'azione dal rapporto giuridico processuale, cioè l’azione ce l’ha chi è riconosciuto dal giudice titolare del diritto (la parte vittoriosa), mentre la controparte (la parte soccombente) ha solo la domanda o quello che Chiovenda chiamava rapporto giuridico processuale. La teoria di Chiovenda ha comunque influenzato il codice e il legislatore del ‘40 e la dottrina successiva ancora oggi intende il rapporto giuridico processuale distinto rispetto all'azione. Per Chiovenda una cosa è l'azione e un’altra è la domanda: l'azione spetta soltanto a chi poi risulta essere il titolare del diritto, invece la domanda può essere proposta anche da chi ha torto e serve ad instaurare un rapporto giuridico processuale. Per la Reali questa appare una forzatura perché l'azione si esercita attraverso la domanda, infatti oggi prevale la concezione intermedia dell'azione che segue la tesi di un’azione quale diritto soggettivo pubblico nei confronti dello Stato-giudice che comporta il dovere di provvedere sul merito, cioè una volta proposta l'azione il giudice ha il dovere di accertare se il diritto esiste, purché esistano le condizioni per agire in giudizio e cioè l'azione sia ammissibile.

63 Fu il massimo artefice della teoria dell’azione il quale ha anche rilanciato il problema del diritto d'azione e, per qualcuno anche la concezione dualistica dell'azione. Tuttavia oggi un'autorevole dottrina fa notare che già in autori precedenti (come Pisanelli e Giandomenico Lisi) già esisteva questa idea del diritto d'azione autonomo e distinto, ma comunque non possiamo disconoscere il merito e il contributo dato da Chiovenda allo studio della teoria dell'azione. 64 I diritti potestativi sono i poteri di un soggetto che operano un mutamento della situazione giuridica di un altro soggetto senza che questo si possa opporre. Un esempio di diritto potestativo è la clausola risolutiva espressa, cioè quella postilla inserita dalle parti nel contratto che permette la sua automatica risoluzione se si verifica una determinata condizione (come accade nei contratti di assicurazione, finanziamento, ecc.), tra cui l’inadempimento.

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Aderendo alla tesi della concezione intermedia possiamo individuare due condizioni dell'azione necessarie (in mancanza delle quali l'azione è inammissibile) affinché sorga il diritto ad agire in giudizio e il giudice possa pronunciarsi sul merito: la legittimazione e l'interesse ad agire. La legittimazione ad agire spetta a chi afferma di essere titolare del diritto, fatto valere attraverso l'azione e consiste nella relazione tra la titolarità del diritto d'azione e titolarità del diritto sostanziale per il quale si agisce. Il codice non dà una definizione della legittimazione ad agire, tuttavia per l'art. 24 della Costituzione tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. Questo principio può essere desunto, a contrariis, anche dall'art. 81 c.p.c.: “Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui.” Questa norma definisce eccezionali le ipotesi in cui un soggetto può agire in giudizio per far valere un diritto appartenente ad un altro soggetto, ma agendo in nome proprio e quindi la prima condizione dell'azione è la legittimazione ad agire, cioè l'affermazione della titolarità del diritto che si fa valere. Da non confondere la condizione dell'azione, che consente di verificare se l'azione è ammissibile, dall'accertamento dell'esistenza del diritto, cioè il merito. Per stabilire se l'azione è ammissibile, il giudice deve guardare alla domanda dell'attore: la legittimazione ad agire ricorre l’attore afferma nella domanda di agire per far valere un proprio diritto, salvo poi verificare nel processo se effettivamente esiste questo diritto. La legittimazione ad agire dell’attore è speculare alla legittimazione a contraddire del convenuto, anch'essa da valutare sulla base della domanda dell’attore e manca quando, ad esempio, dalla domanda chi contraddice non risulta essere il debitore, cioè l'obbligato. Quindi, in base a quello che afferma l'attore nella domanda, l'azione è ammissibile purché ci sia la condizione dell'affermazione della titolarità del diritto sia dal punto di vista attivo (dell’attore) che passivo (del convenuto, cioè del soggetto contro cui agisce l’attore). La legittimazione ad agire attiene all’ammissibilità della domanda, mentre l’esistenza delle condizioni per l’azione attiene alla fondatezza della domanda e quindi il provvedimento di merito (accogliere o meno la domanda, dichiarare esistente o inesistente il diritto sostanziale). Se manca la legittimazione ad agire o a contraddire l'azione non è ammissibile, per cui il giudice non si può pronunciare sulla fondatezza della domanda e quindi dare un giudizio di merito a cui l'azione aspira. La sentenza di merito si pronuncia sul diritto sostanziale, ma affinché il giudice si possa pronunciare l'azione deve essere ammissibile, altrimenti non esiste neanche il diritto ad ottenere un provvedimento sul merito. Diversamente dalla legittimazione ad agire, l'interesse ad agire è disciplinato dall'art. 100: “Per proporre una domanda o contraddire alla stessa è necessario avervi interesse.”Ma è una norma generica che non ci aiuta a capire in cosa consiste l'interesse ad agire che comunque va distinto dall'interesse sostanziale. L'interesse ad agire è una delle due condizioni dell'azione (l’altra è la legittimazione ad agire) ed è l'interesse ad ottenere un provvedimento dal giudice, cioè alla tutela giurisdizionale e in base al tipo di tutela richiesta, il giudice valuta se esiste o meno un interesse ad agire. L'interesse ad agire sussiste quando vi è una lesione del diritto sostanziale e deve essere determinato da una situazione oggettiva necessaria concreta ed attuale, infatti senza l'intervento del giudice l'attore subirebbe un pregiudizio. Nel tempo la giurisprudenza ha elaborato una nozione di interesse ad agire, perché è importante distinguere l'azione per un effettivo bisogno di tutela giurisdizionale, da quella che può essere un'azione vessatoria con la mera intenzione di creare fastidio all'avversario. Per la giurisprudenza l'interesse ad agire quale condizione dell'azione si distingue tra le azioni di mera iattanza (ostentazione della propria superiorità, del proprio potere) e quelle dirette a conseguire il bene della vita e consiste nella rimozione dello stato giuridico di incertezza in ordine alla sussistenza di un determinato diritto.

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Quindi l'interesse ad agire esiste non solo se c'è una lesione del diritto, ma anche se il diritto si trova in uno stato di incertezza, per effetto della contestazione o perché il diritto è vantato da altri, può arrecare all'attore un pregiudizio effettivo, per cui può ricorrere al giudice per eliminare il pregiudizio determinato dallo stato di incertezza; pertanto la lesione va intesa in senso ampio e non solo come danno, ma anche stato di incertezza (ad esempio l’azione di mero accertamento). Le caratteristiche dell'interesse ad agire sono:

deve avere carattere oggettivo, cioè derivare da un fatto lesivo inteso in senso ampio; deve essere necessario l’intervento del giudice altrimenti l’attore, subirebbe un danno o ne avrebbe incertezza;

deve essere attuale poiché, per la Cassazione solo in questo caso trascende il piano di una mera prospettazione soggettiva, assurgendo a giuridica ed oggettiva consistenza.

Viceversa non c'è interesse ad agire “quando il giudizio sia strumentale alla soluzione soltanto in via di massima od accademica di una questione di diritto in vista di situazioni future o meramente ipotetiche” (Cassazione 19 agosto 2000, n. 11010). Ad esempio per difetto di interesse ad agire la Cassazione ha ritenuto inammissibile la domanda in cui un lavoratore aveva chiesto di calcolare gli elementi della retribuzione relativi ai compensi per le festività lavorate, ma nella domanda non aveva dedotto di aver lavorato durante le festività e quindi chiedeva che si calcolassero gli elementi della retribuzione relativi alle festività lavorate, senza affermare nella domanda di aver lavorato in quei giorni, per cui, secondo la Cassazione, la domanda è inammissibile perché non c'era l'interesse ad agire concreto ed attuale. Come per la legittimazione, all'interesse ad agire corrisponde l'interesse a contraddire, anche se è in re ipsa in quanto, nel momento in cui l'attore agisce, il convenuto ha tutto l'interesse a contraddire e quindi non ha un rilievo autonomo essendo insito nel fatto che viene proposta l'azione. Le condizioni dell'azione sono essenziali affinché possa sorgere il diritto d'azione ed ottenere un provvedimento sul merito, per cui è evidente che la carenza di queste condizioni può essere rilevata dal giudice, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo (anche in Cassazione). L'interesse e la legittimazione ad agire sono condizioni di decidibilità della domanda e possono intervenire anche in corso di causa, purché ricorrano quando il giudice deve pronunciarsi sul merito. Infatti può accadere che l'attore all'inizio non abbia interesse ad agire e il giudice non lo rileva, ma poi, in corso di causa, questo interesse sorge e in questo caso il giudice dovrà comunque pronunciarsi sul merito e non potrà più dichiarare la domanda inammissibile. Per questa ragione si afferma che le condizioni dell'azione sono di decidibilità nel merito, perché devono sussistere al momento della decisione e se al momento della decisione queste due condizioni mancano, il giudice deve dichiarare inesistente il diritto d'azione: la domanda improponibile e l'azione inammissibile. La pronuncia di inammissibilità non è di merito sull'esistenza del diritto sostanziale, ma è una pronuncia di merito in senso lato perchè comunque è una pronuncia sul diritto d'azione per cui è ritenuta comunque idonea ad avere attitudine al giudicato sostanziale ai sensi dell’art. 2909 (Cosa giudicata), cioè fa capo unicamente alle sentenze che pronunciano su diritti: “L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (art. 2909)”. Poiché la sentenza accerta l'inesistenza del diritto d'azione, si ritiene idonea a produrre gli effetti del giudicato sostanziale perché fa stato tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Il principio della domanda risalente ai Romani: “Nemo iudex sine actore (non c'è giudizio senza attore)” è fissato dall'art. 99 c.p.c. (Principio della domanda): “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente.” Il principio della domanda costituisce un riflesso del principio della disponibilità del diritto dedotto in giudizio in quanto, trattandosi di diritti disponibili, soltanto chi afferma di essere titolare del diritto può decidere se agire in giudizio per chiederne la tutela, salvo le eccezioni in cui spetta anche al pubblico ministero proporre la domanda e altre ipotesi, ancora più rare, come nel processo di interdizione, in cui l'azione può essere disposta dal giudice d'ufficio.

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L'azione si esercita attraverso la domanda giudiziale che però, come diceva Chiovenda, è anche l'atto introduttivo del giudizio con il quale si instaura il rapporto giuridico processuale tra: l'attore, il convenuto e il giudice. Affinché questo rapporto venga instaurato validamente devono ricorrere i c.d. presupposti processuali, da non confondere con le condizioni dell'azione, che devono essere preesistenti alla proposizione della domanda. Il presupposto dell’esistenza del rapporto processuale è che la domanda sia proposta a chi è giudice, invece i presupposti di validità e procedibilità della domanda (o instaurazione del rapporto processuale) riguardano i soggetti di questo rapporto: il giudice e le parti. Con riferimento al giudice, un presupposto di procedibilità viene indicato, anche se in modo abbastanza generico, dallo stesso art. 99 quando statuisce che la domanda va posta al giudice competente; la norma non è chiarissima, però possiamo affermare che i presupposti processuali affinché il rapporto sia validamente instaurato sono il rispetto delle norme sulla giurisdizione e la competenza del giudice. Con riferimento alle parti, invece, il presupposto per la valida instaurazione del rapporto processuale è costituito dalla capacità processuale o anche dalla legittimazione processuale. Le parti possono stare in giudizio se hanno il libero esercizio del diritto a norma dell'art. 75 c.p.c. (Capacità processuale) o se comunque in giudizio sta chi ha la rappresentanza, cioè un legittimato processuale e riguarda la valida instaurazione del processo (cosa molto diversa dal legittimato ad agire che è una condizione dell'azione) che, ad esempio spetta al rappresentante legale della persona interdetta, dell'incapace o del minore. Questi presupposti processuali devono preesistere sin dal momento della proposizione della domanda, ma è anche vero che se il giudice ne riscontra la carenza in corso di causa la legge ne consente la sanatoria a determinate condizioni. Ad esempio se il giudice rileva un vizio inerente alla capacità processuale, può assegnare alle parti un termine entro cui deve avvenire la costituzione di colui che è legittimato a stare in giudizio, cioè il rappresentante o l'assistente (art. 182 c.p.c.). Anche con riferimento ai presupposti processuali è rilevabile: � d'ufficio in qualunque stato e grado del processo la capacità e la legittimazione processuale; � d'ufficio sino alla prima udienza di trattazione per le eccezioni relative all'incompetenza per

materia e valore e quella per territorio inderogabile ex art. 28; � solo dal convenuto nella comparsa di risposta quando la competenza per territorio è derogabile. La rilevabilità d'ufficio in qualunque stato e grado del processo presuppone che sulla questione non si sia già formato il giudicato, perchè se già c'è stata una pronuncia, sia pure implicita, ritenendo sussistente la capacità processuale la parte potrà far valere solo in appello il vizio del presupposto processuale. Quindi la rilevabilità d'ufficio presuppone che non sia stata rilevata la questione relativa al difetto di capacità processuale, perchè se è già stata rilevata occorre l'impugnazione, altrimenti diventa incontrovertibile all'interno del processo. Se il giudice rileva l'assenza dei presupposti processuali non può emettere una pronuncia di merito (sulla fondatezza della domanda), con la differenza che in questo caso è una sentenza di rito, cioè sul processo per cui il giudice non può entrare sul merito perché il rapporto processuale non si è validamente instaurato. Le sentenze di rito possono passare in giudicato formale, se non sono impugnate, ma non hanno quell'attitudine al giudicato sostanziale che si riferisce esclusivamente alle sentenze di merito perché solo queste accertano l'esistenza o l'inesistenza del diritto. Gli elementi che identificano l'azione e la domanda sono i soggetti, l’oggetto (petitum) e il titolo (la causa petendi) che sono importanti in quanto vanno ad incidere su tutta una serie di istituti e di fenomeni, ad esempio la litispendenza (quando sono identici i soggetti, il petitum e la causa petendi) oppure, con riferimento all'oggetto della domanda, il giudice non può andare oltre i limiti oggettivi segnati dalla domanda proposta dall'attore, cioè può giudicare solo sull’oggetto della domanda.

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Il primo elemento è costituito dai soggetti: l'attore (colui che propone la domanda) e il convenuto (colui nei cui confronti la domanda è proposta). Ma ai fini dell'individuazione della domanda dobbiamo far riferimento alle parti intese in senso sostanziale, cioè di chi è il destinatario degli effetti della sentenza; ad esempio se la parte sta in giudizio attraverso un rappresentante, ai fini dell'individuazione della domanda non è il rappresentante, ma il rappresentato e nella sua sfera giuridica si produrranno gli effetti della sentenza. Per quanto riguarda l'oggetto della domanda dobbiamo distinguere il petitum, cioè ciò che si chiede, dalla causa petendi, cioè le ragioni del chiedere. Riguardo al petitum si articola in petitum mediato e petitum immediato:

Il petitum mediato è rappresentato dal bene giuridico che l'attore aspira ad ottenere attraverso la proposizione della domanda. Ad esempio il creditore agisce in giudizio per ottenere il pagamento di un milione di euro che è l’oggetto della domanda.

Il petitum immediato è il provvedimento che si chiede al giudice, ad esempio una sentenza di condanna del debitore al pagamento al pagamento della somma di denaro. In generale, il petitum immediato è rappresentato dal provvedimento chiesto al giudice che può essere di accertamento, costitutivo o di condanna.

Riguardo la causa petendi, volendo dare una definizione essa comprende i fatti giuridici e le ragioni sulla base delle quali l'attore propone la domanda, per cui si pone il problema di stabilire quando l'indicazione di questi fatti costitutivi è necessaria per l'individuazione della domanda. Su questo punto dottrina e giurisprudenza concordano nel porre una distinzione che tiene conto del contenuto del diritto che si fa valere distinguendo tra diritti autodeterminati e etero determinati:

Il diritto autodeterminato può sussistere una sola volta tra le stesse parti e con lo stesso contenuto, ma l'indicazione dei fatti costitutivi del diritto non vale ad identificare la domanda

Il diritto eterodeterminato può sussistere più volte tra le stesse parti e anche con lo stesso contenuto, ma per l'indicazione dei fatti costitutivi del diritto è determinante per identificare la domanda.

Un tipico diritto autodeterminato è il diritto di proprietà. Ad esempio per chi agisce in giudizio per rivendicare la proprietà di un villino, non è rilevante che debba specificare se è proprietario perché ho acquistato o per donazione, per cui non è necessario ai fini dell'individuazione della domanda allegare il fatto costitutivo del diritto essendo, appunto autodeterminato. Diverso è il discorso il diritto etero determinato, cioè per i diritti di credito, perché se il creditore agisce in giudizio per il diritto al pagamento di una determinata somma di denaro, nella domanda deve specificare il titolo (cambiale, contratto, ecc.) e per questo è eterodeterminato. Quindi mentre il diritto autodeterminato (il diritto di proprietà) l'indicazione del fatto costitutivo non è necessaria al fine dell'individuazione dell'oggetto della domanda (può esistere una sola volta, tra le stesse parti e con lo stesso contenuto), per il diritto eterodeterminato (di credito) l'indicazione del fatto costitutivo è essenziale per identificare la domanda (può sussistere più volte, tra le stesse parti e con lo stesso contenuto). Questi elementi sono molto importanti anche perché indicano il limite del dovere decisorio del giudice, cioè il giudice non può andare oltre od omettere di pronunciare sulla domanda. Questa regola la ricaviamo dal principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato previsto dall'art.112 “Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa (la seconda parte si riferisce alle eccezioni del convenuto), e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti.” Se il giudice omette di pronunciare su tutta o parte della domanda, il vizio di omessa pronuncia rende nulla la sentenza. Questo avviene anche se il giudice viola la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato andando oltre e qui la giurisprudenza distingue tra il vizio di ultrapetizione e quello di extrapetizione. L'ultrapetizione attiene ad un profilo quantitativo e si ha quando il giudice va ben oltre ciò che l'attore aveva chiesto con la sua domanda (a chiesto 100 riconosce 150); l'extrapetizione invece riguarda il profilo qualitativo quando il giudice dà un provvedimento diverso rispetto a quello che chiesto dall'attore, ad esempio se la parte ha chiesto solo la risoluzione del contratto per

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inadempimento e il giudice non solo risolve il contratto, ma condanna anche al risarcimento dei danni la parte soccombente e senza che la parte vittoriosa lo avesse chiesto. Per stabilire quando la domanda produce questi effetti è importante distinguere a seconda della forma con cui la domanda viene posta. Il processo può cominciare in due modi: con citazione o con ricorso. Normalmente il processo ordinario inizia con citazione, il ricorso viene utilizzato nei procedimenti speciali (processo del lavoro, processo per ingiunzione, ecc..). Questa differenza è importante anche sotto il profilo della produzione degli effetti della domanda, perchè questi effetti si producono quando il processo inizia a pendere, e con riferimento ai processi che iniziano con atto di citazione, la pendenza è determinata dalla notificazione dell'atto di citazione. E' questo il momento a partire dal quale la domanda produce i suoi effetti sostanziali e processuali. Mentre nei processi che iniziano con ricorso, salvo stabilito diversamente dalla legge (come ad esempio accade nel procedimento per ingiunzione), bisogna tener conto del deposito del ricorso stesso in cancelleria. Gli effetti sostanziali e processuali della domanda sono prodromici rispetto a quello che poi sarà l'effetto finale prodotto dal provvedimento del giudice. Sappiamo che il processo può iniziare con citazione (quello ordinario) o con ricorso (quello speciale) e questa distinzione è importante anche sotto il profilo degli effetti processuali della domanda, perché si producono nel momento in cui il processo inizia a pendere e cioè dalla notificazione dell’atto di citazione o dal deposito del ricorso. Un primo effetto processuale della domanda è la c.d. perpetuatio iurisdictionis, sancita nell’art. 5 c.p.c. (Momento determinante della giurisdizione e della competenza) per il quale il momento in cui viene proposta la domanda (notificando l'atto di citazione o depositando il ricorso) è determinante, perché eventuali successivi mutamenti della legge e dello stato di fatto inerenti la giurisdizione o la competenza diventano del tutto irrilevanti. Ad esempio un mutamento che toglie la giurisdizione inizialmente sussistente al momento della proposizione della domanda. Un altro effetto processuale della domanda è la litispendenza, in quanto l'art. 39 c.p.c. dispone che la causa proposta successivamente deve essere estinta con ordinanza del giudice che dichiara la litispendenza, perché non possono esserci due cause identiche per ragioni di economia processuale e soprattutto per evitare il rischio di un contrasto dei giudicati. Un altro effetto processuale collegato alla proposizione della domanda è la c.d. perpetuatio legittimationis, prevista dall'art. 111 c.p.c., per il quale notificazione dell'atto di citazione rende irrilevanti eventuali mutamenti dei soggetti del diritto fatto valere nel processo, cioè eventuali trasferimenti da una persona all’altra della res litigiosa intervenuti in corso di causa. In sostanza la legittimazione delle parti a stare in giudizio si perpetua, nel momento in cui viene proposta la domanda, sicché eventuali mutamenti di soggetti sono irrilevanti per cui il processo prosegue tra le parti originarie. Riguardo agli effetti sostanziali della domanda (anche questi hanno il fine di evitare che il processo si ritorca a danno della parte) possono distinguersi in effetti sostanziali conservativi ed attributivi. Un esempio di effetto sostanziale conservativo è l'interruzione della prescrizione del diritto (ex art. 2945 c.c.) in quanto con la proposizione della domanda la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio, perchè un'eventuale estinzione del diritto per prescrizione durante il processo, danneggerebbe irrimediabilmente la posizione dell'attore per cui vi è questo effetto conservativo del diritto. Un altro effetto conservativo è quello di impedire la decadenza oppure l'opponibilità della sentenza ai terzi che hanno trascritto un titolo d'acquisto dopo la trascrizione della domanda giudiziale. In questo caso l'attore vittorioso avrà ottenuto, per effetto della proposizione e trascrizione della domanda, un effetto conservativo molto importante perchè potrà opporre la sentenza anche ai terzi che hanno trascritto il titolo d’acquisto successivamente alla trascrizione della domanda. Per quanto riguarda gli effetti sostanziali attributivi, questi servono a dare qualcosa all'attore. Ad esempio i frutti maturati dal possessore in buona fede (art. 1148 c.c.) oppure nell'anatocismo (art.

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1283 c.c.) quando, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale. In relazione alla posizione del convenuto, alla domanda dell'attore corrisponde una posizione difensiva del convenuto. Le difese del convenuto possono essere di tre livelli differenti, perché può limitarsi a contestare l'esistenza del diritto dell'attore, senza fare altro essendo l’attore tenuto a dimostrare l’esistenza del diritto. Ad esempio, il debitore che di fronte alla domanda di pagamento di una somma di denaro può affermare che il diritto di credito vantato dall'attore non esiste. Questa è la posizione difensiva base e consiste nella negazione del diritto affermato dall'attore ed è denominata mera difesa, in cui il convenuto si limita a contestare il diritto fatto valere dall'attore, senza allegare fatti ulteriori o diversi rispetto a quelli dedotti in giudizio dall'attore. La mera difesa non allarga l'oggetto della cognizione del giudice, perché i fatti restano quelli costitutivi allegati dall'attore nella sua domanda iniziale. L'art. 112 c.p.c. fa riferimento anche ad un'altra posizione e cioè quella in cui il convenuto fa valere delle eccezioni. Qui siamo ad un livello diverso, perchè il convenuto non solo si limita a negare l'esistenza del diritto fatto valere dall'attore, ma aggiunge fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto dell'attore fatto valere nella domanda. Ad esempio l'attore chiede il pagamento del credito e il convenuto si oppone perché è intervenuta la prescrizione (può essere eccepita solo dalla parte) e quindi il convenuto aggiunge un fatto estintivo (la prescrizione) del diritto fatto valere dall'attore. I fatti impeditivi, modificativi, estintivi sono alla base delle eccezioni di merito ed hanno lo scopo di far ottenere il rigetto della domanda. Tuttavia non tutte le eccezioni di merito sono subordinate all'istanza della parte e infatti il secondo comma dell'art. 112 dispone: “… il giudice non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti”. Sicché stando alla norma, la tesi prevalenti è la rilevabilità d'ufficio dell'eccezione, salvo non sia espressamente previsto che possa essere proposta soltanto dalle parti. Da questo concetto deriva un’ulteriore distinzione all'interno delle eccezioni di merito: � eccezioni in senso stretto rilevabili esclusivamente dalla parte (annullamento, inadempimento,

rescissione); � eccezioni in senso lato rilevabili anche d'ufficio dal giudice (adempimento, nullità contrattuale,

ecc.). Fermo restando che sono le parti a dover allegare gli atti, il giudice può rilevarli; ad esempio se dagli atti allegati dalle parti risulta l'adempimento il giudice può rilevare d'ufficio tale fatto estintivo, perché sono eccezioni non espressamente riservate alla parte e infatti mentre l'eccezione di inadempimento è riservata alla parte, quella di adempimento può essere rilevata d'ufficio. Le norme sostanziali in alcuni casi subordinano i fatti estintivi all'istanza di parte, ad esempio la prescrizione solo la parte può farla valere, invece la nullità del contratto è rilevabile anche d'ufficio. Poi ci sono le eccezioni processuali che non attengono al merito, ma al processo e anche qui bisogna distinguere tra eccezioni rilevabili d'ufficio (come il difetto di giurisdizione) e quelle riservate espressamente alla parte (incompetenza per territorio). L'eccezione tende ad ottenere solo il rigetto della domanda dell'attore, ma può accadere che il convenuto chiede anche un provvedimento autonomo che sia a sé favorevole (una domanda riconvenzionale) e questo è il terzo livello di difesa. Questa è l'ipotesi in cui il convenuto propone una domanda riconvenzionale con funzione difensiva, cioè quelle incompatibili con l'accoglimento della domanda dell'attore e dirette a contrastare oltre che ad ottenere il rigetto della domanda dell'attore. Ad esempio l'attore chiede la restituzione del bene dato in comodato e il convenuto, oltre a non volerlo restituire, dichiara di essere lui proprietario del bene e domanda al giudice di accertarlo, per cui chiede un provvedimento a sé favorevole che è l'accertamento della proprietà del bene oggetto della causa. Quindi è una domanda del tutto autonoma che ha un proprio petitum, con la particolarità che viene proposta dal convenuto in corso di causa che diventa attore in riconvenzione.

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Non tutte le domande riconvenzionali una funzione difensiva, ad esempio l'attore chiede la consegna del bene oggetto del contratto e il convenuto risponde con una domanda riconvenzionale con cui chiede il pagamento del prezzo.

IL LITISCONSORZIO NECESSARIO L'art. 102 c.p.c. disciplina il litisconsorzio necessario, sempre nel titolo IV dell'esercizio dell'azione perché riguarda la legittimazione ad agire, ed è una norma prevista per la prima volta dal codice del 1940 che codifica uno dei principi di Chiovenda. La parola litisconsorzio fa capire che il processo si svolge tra più parti ed è necessario perché deve necessariamente svolgersi tra più parti e si contrappone al litisconsorzio facoltativo, dove non c'è questa necessità. L’art. 102 (Litisconsorzio necessario) al primo comma dispone: “Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo.” Tale decisione necessita la partecipazione delle parti ed un’ipotesi in cui è dedotto in giudizio un unico rapporto giuridico sostanziale caratterizzato da una pluralità di titolari, quindi c'è una causa con più parti. L’art. 102 è una norma in bianco e questo è questo è un problema, perché l’articolo non dice quando tutti devono agire o essere convenuti in giudizio e quindi l'ambito di applicazione. Questa mancanza della norma è un fatto grave, perchè le conseguenze della violazione dell'art. 102 sono pesantissime sul processo. È molto importante stabilire quando ricorra la necessità del litisconsorzio, cioè quando è dedotto in giudizio un unico rapporto plurisoggettivo, ma è necessario che tutte le parti sostanziali di quel rapporto siano anche parti del processo, con la conseguenza che se non vi partecipano, la sentenza sarebbe non produttiva di alcun effetto, quand'anche fosse pronunciata. Questo problema è risolto nei casi che la legge prevede espressamente il litisconsorzio e cioè: ⇒ L'art. 247 c.c. dispone: “Il presunto padre, la madre ed il figlio sono litisconsorti necessari nel

giudizio di disconoscimento.” ⇒ L'art. 2900 c.c. sull'azione surrogatoria, quando prevede che se il creditore agisce per far valere

un credito del suo debitore nei confronti del debitor debitoris, il sostituito è litisconsorte necessario.

⇒ L'art. 784 c.p.c. essendo rubricato litisconsorzio necessario: “Le domande di divisione ereditaria o di scioglimento di qualsiasi altra comunione debbono proporsi in confronto di tutti gli eredi o condomini e dei creditori opponenti se vi sono.”

Pertanto il problema riguarda le ipotesi in cui la legge non prevede nulla a riguardo, inoltre la pluralità di parti sostanziali non implica necessariamente un litisconsorzio necessario, cioè ogni volta che viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo, non sempre tutte le parti devono necessariamente agire o convenire in giudizio. Questo lo desumiamo da una norma in materia di rapporti obbligatori che diventa molto importante dal punto di vista sistematico, l'art. 1306 c.c. che fa riferimento alle obbligazioni solidali, prevede la possibilità che la sentenza venga pronunciata tra il creditore e uno dei debitori in solido oppure tra il debitore e uno dei creditori in solido. Per cui non è sempre necessario il litisconsorzio se vi è dedotto un rapporto plurisoggettivo, essendo possibile che il creditore agisca nei confronti di uno solo dei debitori solidali o che uno solo dei concreditori agisca nei confronti del comune debitore e quindi la sentenza può essere pronunciata nei confronti di una sola parte. L’art. 1306 c.c. chiarisce che non c'è sempre la necessità del litisconsorzio (in negativo), tuttavia ancora non è chiarito quando ricorre questa necessità (in positivo). L'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha portato a ritenere che se la domanda non fosse proposta tra tutte le parti, l'attore non potrebbe conseguire il risultato voluto e questa condizione sussiste quando l'attore propone un'azione costitutiva (quelle dirette a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico), cioè quando l'attore vuole operare una modificazione della realtà sostanziale.

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Questo effetto potrà conseguirlo, se ci sono più parti, solo se la sentenza viene pronunciata nei confronti di tutte le parti. Ad esempio, un contratto plurilaterale di cui l'attore vuole ottenere la risoluzione, la sentenza deve aversi necessariamente nei confronti di tutte le parti di quel rapporto, altrimenti è sostanzialmente inutile e non è in grado di fornire all'attore quella utilità (in questo caso risoluzione del contratto) che vuole conseguire attraverso la proposizione della domanda. Altro esempio è la costituzione di una servitù coattiva su un fondo in comproprietà, essendo necessario che tutti i soggetti siano convenuti in giudizio, altrimenti la sentenza costitutiva non produrrà effetti nei confronti delle tutte le parti del rapporto. Sicché la necessità del litisconsorzio ricorre tutte le volte in cui l'attore proponga una domanda diretta a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico plurisoggettivo che è il presupposto principale. Invece, questa necessità non sempre ricorre se la domanda è di accertamento o di condanna, perché nel primo caso la sentenza accerta l'esistenza del diritto, senza modificare la realtà sostanziale, ma si limita a dichiarare l'esistenza del diritto, quindi da un risultato di certezza che l'attore vuole ottenere ed è conseguito anche se non tutte le parti del rapporto sono convocate in giudizio e lo stessa cosa per le azioni di condanna, come nell'ipotesi del 1306, in quanto il creditore che agisce nei confronti di un solo condebitore ottiene ugualmente la condanna. In linea generale il litisconsorzio necessario, a differenza delle azioni costitutive, non sempre ricorre per le azioni di accertamento e di condanna dove bisognerà compiere una valutazione caso per caso, perché ci sono delle azioni di accertamento o di condanna che necessitano del litisconsorzio per poter arrivare ad una sentenza che produca effetti utili. Ad esempio, un'azione di accertamento di chi agisce in giudizio per accertare che il contratto plurilaterale è simulato e per poter ottener un effetto utile, deve agire nei confronti di tutte le parti del contratto. Oppure un'azione di condanna che abbia ad oggetto non il pagamento di una somma, ma un obbligo di fare, per esempio l'attore chiede la condanna alla demolizione di un'opera che appartiene a più soggetti. Se l'attore non agisse nei confronti di tutti i comproprietari non potrebbe ottenere una sentenza di condanna che abbia effetti per tutti, perché il comproprietario contro cui non ha agito e non ha partecipato in giudizio opporrebbe l'inefficacia nei suoi confronti ed una sentenza non eseguibile è inutile. Quindi il rapporto giuridico plurisoggettivo è la regola, ma ci sono delle eccezioni, tant'è vero che per la giurisprudenza è un’unitaria ed inscindibile situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in controversia: “In tema di litisconsorzio necessario, la parte che assume la non integrità del contraddittorio non può limitarsi ad allegare la necessità di chiamare in causa un terzo che indichi quale proprietario coinvolto dall'azione dia accertamento, ma deve individuare la fattispecie sostanziale che richiede l'integrazione del contraddittorio e dimostrarne la sussistenza se questa già non risulta dagli atti. Cioè deve dimostrare che il terzo è titolare di una unitaria ed inscindibile situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in controversia, in modo tale che la pronuncia richiesta al giudice sarebbe inutile se non fosse emessa unitariamente nei confronti di tutti i soggetti che della situazione stessa siano partecipi (Cassazione civile, sezione II, n. 5146 del 3 aprile 2003)”. In sintesi per stabilire se c'è necessità del litisconsorzio, bisogna utilizzare il criterio dell’utilità: se la sentenza incide su una situazione unitaria e plurisoggettiva è necessaria la partecipazione di tutti i titolari del rapporto, anche quando l'azione non sia costitutiva ma di accertamento o di condanna. Viceversa se la sentenza può produrre effetti utili, anche senza la partecipazione di tutti i soggetti, la necessità del litisconsorzio non ricorre. Pertanto vi è un punto fermo riguardo le azioni costitutive, ma per le azioni di condanna e di accertamento stabilire se c'è o no necessità del litisconsorzio è rimesso ad una valutazione del giudice caso per caso e questo crea problemi in relazione alle conseguenze legate alla violazione dell'art. 102 c.p.c. Un'altra ipotesi di litisconsorzio necessario si ha quando vi sono addirittura una pluralità di rapporti plurisoggettivi che la legge espressamente prevede la necessità che le parti debbano convenire nello stesso processo: è il c.d. litisconsorzio necessario propter opportunitatem (mera opportunità).

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La specificazione propter opportunitatem indica un’ipotesi differente da quelle finora analizzate, infatti qui la ragione della necessità del litisconsorzio non è determinata da ragioni di diritto sostanziale, ma di mera opportunità e nei casi espressamente previsti dalla legge. La peculiarità è che non c'è un unico rapporto plurisoggettivo, che è il presupposto del litisconsorzio necessario, ma due o più rapporti plurisoggettivi ed è l'ipotesi di litisconsorzio facoltativo in cui ci sono più cause che devono essere trattate e decise unitariamente per espressa previsione di legge. Un esempio è l'art. 144 (Azione diretta del danneggiato) del codice delle assicurazioni con l'azione diretta del danneggiato nei confronti della compagnia di assicurazione del danneggiante e dove il responsabile del danno (il danneggiante) è un litisconsorte necessario, però il rapporto dedotto in giudizio non è uno, ma due ed entrambe le cause devono necessariamente essere trattate in un unico processo: danneggiato-danneggiante e danneggiante-compagnia di assicurazione. Un altro esempio litisconsorzio necessario propter opportunitatem è quello previsto dall'art. 784 c.p.c. per la divisione ereditaria e lo scioglimento della comunione nell’ipotesi in cui vi sono creditori che si opposti alla divisione. In tutte le ipotesi di litisconsorzio necessario se non tutte le parti necessarie vengono chiamate in giudizio le conseguenze sono molto gravi, essendo questo un vizio del contraddittorio che può essere rilevato dal giudice in qualunque stato e grado del processo. La norma non lo dice espressamente, ma se viene rilevato dal giudice di primo grado, il secondo comma dell’art. 102 c.p.c. dispone: “Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio (il litisconsorte mancante, c.d. pretermesso) in un termine perentorio da lui stabilito.” Questo ordine è rivolto alle parti interessate che nel termine perentorio stabilito dal giudice dovranno provvedere a citare in giudizio il litisconsorte necessario che potrà costituirsi in giudizio oppure rimanere contumace, però in ogni caso diventa parte del processo, perché anche il contumace (chi sceglie di non costituirsi in giudizio) è parte del processo e quindi il contraddittorio è integro. Se nessuna delle parti provvede a citare in giudizio il terzo, cioè ad integrare il contraddittorio, la conseguenza è l'immediata estinzione (una delle cause di conclusione del processo) del processo dichiarata dal giudice con sentenza (art. 307 c.p.c. terzo comma). Ancora più grave se il giudice di primo grado non si accorge della necessità del litisconsorzio, in quanto la sentenza pronunciata dal giudice in difetto di contraddittori, cioè in violazione dell'art. 102, è inutilizzabile, è priva di efficacia, e secondo la giurisprudenza è inefficace non solo nei confronti del terzo litisconsorte pretermesso, ma anche delle parti che hanno partecipato al giudizio. La sentenza non è suscettibile neanche di acquisire autorità di giudicato, tant'è che quand'anche passasse in giudicato può essere messa in discussione in qualsiasi momento dal litisconsorte pretermesso (quello mancante) che può chiedere l'eliminazione della sentenza con l’impugnazione straordinaria che è l'opposizione di terzo, ma anche dalle parti. Inoltre, potendo la questione essere rilevata in qualunque stato e grado del processo, se tale vizio viene rilevato in appello o in Cassazione, il processo deve tornare indietro al primo grado e tutti gli atti fino a quel momento vengono posti nel nulla e si riparte da capo. Infatti la violazione dell'art. 102 costituisce una delle ipotesi tassative di rimessione della causa al primo giudice, da parte del giudice d'appello (art. 354 c.p.c.) o della Cassazione (art. 383 c.p.c.), che quindi devono rimettere gli atti al primo giudice affinché venga integrato il contraddittorio e si riparta. Il rischio legato a questa norma è l’incertezza che crea il litisconsorzio, perché può anche essere che una norma del genere si presti ad un uso distorto. Ad esempio, l'erede che non abbia interesse a che il giudice pronunci una sentenza e che pur sapendo che manca un altro erede, faccia valere solo in Cassazione questo vizio, arrecando un enorme danno per gli altri eredi e per i costi della giustizia. Il legislatore avrebbe dovuto prevedere tassativamente le ipotesi, quindi ancorare a parametri certi la necessità del litisconsorzio, cosa che non ha fatto con l'art. 102 c.p.c. visto che c'è il rischio che si arrivi in Cassazione, per essere dichiarato il rapporto processuale non validamente instaurato nei confronti delle parti e questa possibilità si può prestare ad abusi.

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LITISCONSORZIO FACOLTATIVO

A differenza del litisconsorzio necessario nel litisconsorzio facoltativo non c’è soltanto una pluralità di parti, ma c’è anche una pluralità di cause e quindi di rapporti giuridici sostanziali oggetto delle singole cause. L’art 103 c.p.c. disciplina il litisconsorzio facoltativo: “Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni.” Quindi ci sono più parti e più cause ed essendo litisconsorzio facoltativo non è affatto necessario che queste cause vengano trattate insieme. Il litisconsorzio facoltativo ha fondamento nelle ragioni di opportunità, cioè il legislatore dà la possibilità alle parti che due o più cause, connesse tra loro, siano trattate in un unico processo. Quindi le cause sono pur sempre scindibili, possono essere trattate autonomamente, però il legislatore ritiene che le parti possano chiedere che siano trattate nello stesso processo. Questo per ragioni di economia processuale (se bisogna accertare fatti comuni, l’attività istruttoria sarà comune a tutte le cause), inoltre la trattazione simultanea evita decisioni contrastanti65 e favorire l’armonia delle decisioni. È anche vero che queste due esigenze, l’economia processuale e l’armonia delle decisioni, potrebbero finire per contrastare con un’altra esigenza: quella di rendere più complesso lo svolgimento del processo appesantendo le cause che potrebbero essere decise più rapidamente66 e quindi è necessario valutare le esigenze contrapposte per decidere quale debba prevalere. Per quanto riguarda i presupposti del litisconsorzio facoltativo la norma individua due presupposti alternativi: la connessione per l’oggetto o per il titolo (presupposto del litisconsorzio facoltativo proprio) e la soluzione di questioni identiche alla base della decisione di più cause (presupposto del litisconsorzio facoltativo improprio). Si ha il litisconsorzio facoltativo proprio quando la connessione ha per l’oggetto (petitum) o per il titolo (la causa petendi). Per esempio quando il danneggiato propone due domande nei confronti di due soggetti, obbligati o responsabili del danno, con lo stesso titolo o lo stesso oggetto; oppure può accadere il contrario: due danneggiati da un fatto illecito agiscano congiuntamente contro l’autore dell’illecito e in questo caso l’elemento comune sono i fatti costitutivi, cioè da responsabilità (il titolo) di colui che ha commesso l’illecito. Il legislatore si preoccupa di favorire la trattazione simultanea delle cause, perché nell’ambito della competenza l’art. 33 c.p.c. (Cumulo soggettivo), per favorire la proposizione congiunta di due domande connesse, prevede la possibilità di derogare agli ordinari criteri di competenza territoriale in quanto, se le domande per le quali sarebbero competenti giudici territorialmente diversi (per esempio il tribunale di Taranto e quello di Bari), connesse per l’oggetto o per il titolo, possano essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una delle parti, per essere decise nello stesso processo. Si ha il litisconsorzio facoltativo improprio quando più parti agiscono o sono convenute quando la decisione dipende dalla soluzione di identiche questioni. La norma si riferisce a questioni che riguardano l’interpretazione di norme o di clausole contrattuali e quindi possono essere questioni di diritto o di fatto, cioè cause oggettivamente e soggettivamente diverse che hanno in comune solo il fatto che la decisione di queste cause, dipende dalla soluzione di questioni di diritto o di fatto identiche.

65 Qui non c’è il problema di evitare conflitto di giudicati, perché non stiamo nell’ambito dello stesso rapporto: il conflitto pratico di giudicati si ha quando le cause vertono sullo stesso rapporto giuridico sostanziale. Qui, invece, sono cause diverse su rapporti autonomi che potrebbero dar luogo a delle decisioni contrastanti. 66 Per la Reali l’esigenza della rapida definizione delle controversie dovrebbe prevalere sulle altre due e pone a fondamento del suo convincimento l’art. 111 Cost. sulla ragionevole durata dei processi. Di fronte al rischio di un eccessivo ritardo nelle decisioni determinato da questa trattazione simultanea dei processi, quale è il litisconsorzio facoltativo, è meglio procedere separatamente.

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Ci troviamo di fronte ad una forma di connessione molto debole non essendoci neanche un elemento oggettivo comune alle cause, tant’è vero che il legislatore non prevede la possibilità di deroghe neppure alla competenza il che significa che queste domande potranno essere proposte congiuntamente dinanzi allo stesso giudice, se rientrano nella competenza di quel giudice secondo le regole ordinarie, altrimenti non sarà possibile la trattazione simultanea e ciascuna procederà per proprio conto. Questa norma trova applicazione soprattutto in materia lavoristica essendo frequente che più lavoratori agiscano contro il comune datore di lavoro chiedendo, per esempio, differenze retributive sulla base di una determinata interpretazione della stessa clausola del contratto collettivo di lavoro. Quindi sono rapporti oggettivamente e soggettivamente diversi (ciascuno ha un rapporto giuridico autonomo col datore di lavoro) in cui l’unico elemento che accomuna queste cause è la necessità per il giudice di interpretare la stessa clausola al fine di stabilire se esiste il diritto chiesto dai lavoratori. Un’altra ipotesi di questo tipo di litisconsorzio facoltativo è quello delle azioni proposte dai consumatori contro un gestore di un servizio, sulla base di contratti che prevedono le stesse clausole (per adesione). È importantissimo precisare che il litisconsorzio realizza un processo formalmente unico, però le singole cause restano comunque autonome e indipendenti, cioè è come un contenitore di cause che restano autonome e indipendenti dal punto di vista sostanziale. Questo è molto importante in quanto nella fase istruttoria e in particolare nell’ambito dei mezzi di prova, anche nel caso in cui le prove siano vincolanti per il giudice (ad esempio la confessione) per quella causa, non ha efficacia vincolante nelle altre cause, cumulate tra parti diverse, dove non c’è stata una confessione. Lo stesso vale anche per quelle vicende particolari che vanno a colpire una causa, ad esempio l’estinzione per rinuncia agli atti del processo dell’attore in quanto l’estinzione riguarderà solo la causa in cui ci sia stata la rinuncia dell’attore, mentre le altre cause proseguiranno regolarmente. Quindi, vicende come l’estinzione, secondo quello che ritiene la dottrina più accreditata, non si comunicano alle altre cause cumulate proprio perché il processo è solo formalmente unico, ma le cause restano autonome e indipendenti. Infatti anche la sentenza è formalmente unica, ma composta di più provvedimenti decisori per le singole cause, il che significa che la decisione relativa ad una causa venga impugnata, mentre un altra passa in giudicato. Questa autonomia e indipendenza si evince anche dalla possibilità per il giudice di separare le cause riunite, sancito dal secondo comma dell’art. 103: “Il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore la causa di sua competenza.” La scindibilità delle cause si desume anche dal potere del giudice di separarle e presuppone una richiesta di tutte le parti oppure una valutazione da parte del giudice circa il ritardo per la decisione di una o alcune che la trattazione simultanea comporterebbe. Ad esempio se in una causa si è avuta la confessione ed è pronta per essere decisa, mentre l’altra necessita ancora di essere istruita attraverso prove testimoniali e richiede del tempo, il giudice può decidere di separare le cause per non rallentare la causa pronta, in attesa di decidere l’altra. La norma dice che il giudice può separare le cause e quindi la decisione è rimessa alla discrezionalità del giudice, finanche nella ipotesi, peraltro remota, in cui tutte le parti chiedano al giudice la separazione67. Il litisconsorzio facoltativo può aversi:

67 Questo è indicativo di un certo atteggiamento del legislatore del ‘40 che tende a togliere alle parti il diritto di ottenere la decisione in tempi più rapidi, caratterizzante del vecchio codice, per rafforzare il potere del giudice sul presupposto che, in questo modo, si faccia l’interesse pubblico, però penalizzando la parte in quanto le toglie il diritto di avere una decisione prima; per cui la parte che magari vede la causa pronta per essere decisa, può sollecitare il giudice, ma se questi non raccoglie questa sollecitazione, dovrà attendere la decisione finale senza poter far nulla.

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� inizialmente, ab origine, quando più parti agiscono o sono convenute nello stesso processo per cui vi sono domande congiunte proposte, sin dall’inizio, nei confronti di uno o più soggetti, da o contro uno o più soggetti,

� in un momento successivo, cioè può essere che il processo inizi tra due parti e successivamente a queste due parti iniziali si aggiungano altre parti e ciò succede quando si verifica il cosiddetto intervento del terzo nel processo. Queste altre parti si possono aggiungere spontaneamente (il terzo può intervenire di propria iniziativa al processo), oppure intervenire perché chiamato da una delle parti originarie del processo o addirittura dal giudice.

Il nostro codice prevede tre ipotesi di intervento di terzo: � intervento volontario del terzo (art. 105 c.p.c.); � coatto su istanza di parte (art. 106 c.p.c.); � coatto su ordine del giudice (art. 107 c.p.c.).

L’intervento volontario del terzo Al riguardo l’art. 105 c.p.c. dispone: “Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo. Può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse.” In base a questa norma possiamo distinguere una contrapposizione tra il primo e il secondo comma perché il terzo, in base al primo comma, interviene facendo valere un diritto, invece in base al secondo comma, interviene per un proprio interesse e quindi la situazione sostanziale che l’interveniente fa valere è diversa. Il terzo può far valere un diritto nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse e questo significa che il terzo va a proporre nel processo una domanda, nei confronti di tutte o alcune delle parti, che deve essere connessa per l’oggetto o per il titolo, essendo la connessione oggettiva sempre il presupposto dell’intervento. Nell’ambito del primo comma dell’art. 105 c.p.c. si distingue, a seconda che il terzo intervenga facendo valere un diritto in confronto di tutte le parti oppure di alcune di esse: nel primo caso si chiama intervento principale ad escludendum (accordo per eliminare un qualcosa), mentre nel secondo caso si parla di intervento litisconsortile o adesivo autonomo. Si ha l’intervento principale ad escludendum quando il terzo fa valere un diritto oggettivamente incompatibile con quello dedotto in giudizio dalle parti originarie e quindi è una forma particolare di connessione oggettiva per incompatibilità: se il giudice riconosce esistente il diritto del terzo, deve negare quello delle parti originarie del processo perché non possono esistere contestualmente. Ad esempio il terzo dispiega un intervento principale ad escludendum facendo valere il suo diritto di proprietà, che è un diritto autonomo, contro l’attore e il convenuto che sono già in causa per affermare il loro diritto di proprietà. Se il terzo decide di non intervenire nella causa la sentenza non produce alcun effetto nei suoi confronti, in quanto ai sensi dell’art. 2909 c.c. la sentenza fa stato tra le parti, gli eredi e gli aventi causa, ma non nei confronti di chi non è stato parte del processo. Il terzo può sempre far valere un suo diritto, con un’autonoma domanda e in un autonomo processo contro le parti, anche nell’ipotesi in cui la sentenza fosse passata in giudicato. Infatti il codice prevede un’impugnazione straordinaria che è l’opposizione di terzo, per chiedere l’annullamento di una sentenza pronunciata inter alios (giudizio che si svolge fra altri soggetti), da parte di chi sia titolare di un diritto incompatibile con quello riconosciuto dalla sentenza. Tra i legittimati a chiedere l’opposizione ordinaria di terzo c’è proprio il titolare di un diritto incompatibile ed è un’impugnazione straordinaria perché può essere proposta non solo per le condanne di primo grado, ma anche contro la sentenza passata in giudicato e quindi nessun pregiudizio deriverebbe al terzo, dall’eventuale pronuncia della sentenza resa agli altri soggetti (inter alios). Tuttavia, nel momento in cui ci fosse una sentenza che afferma e riconosce la proprietà di Tizio piuttosto che di Caio, il terzo potrebbe subire un pregiudizio di fatto da questa sentenza perché

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potrebbe essere più difficile recuperare il bene nello stato in cui si trovava durante la causa tra Tizio e Caio e questo potrebbe portarlo ad intervenire subito nel processo, piuttosto che intraprendere successivamente l’azione autonoma. L’altra forma di intervento quello litisconsortile o adesivo autonomo che avviene nei confronti di alcune delle parti e dove il terzo propone sempre una domanda per valere un diritto autonomo, che lo legittimerebbe ad adire contro le parti in un autonomo processo, ma con la particolarità di essere proposta nei confronti di una o alcune delle parti e dove il diritto che il terzo fa valere è comune ad una delle parti (attore o convenuto). Per esempio il comproprietario interviene nel giudizio iniziato da altro proprietario per la rivendica del bene: il terzo non interviene affermando di essere il proprietario contro tutte le parti, ma facendo valere il suo diritto in comproprietà. Quindi il diritto deve essere connesso per l’oggetto o per il titolo a quello di una delle parti. Ad esempio il danneggiato da un fatto illecito che interviene nel giudizio instaurato da un altro danneggiato chiedendo ugualmente la condanna del responsabile del danno e dove l’elemento comune è proprio il petitum (il fatto costituitvo). Non a caso quest’intervento viene chiamato dalla dottrina anche litisconsortile, proprio perché le ipotesi in cui il terzo può utilizzarlo sono quelle previste per il litisconsorzio facoltativo proprio e cioè la connessione per l’oggetto o per il titolo. Per questo è chiamato litisconsortile oppure adesivo autonomo per contrapporlo all’intervento adesivo dipendente regolato dal secondo comma dell’art. 105. L’aspetto comune all’adesivo autonomo e all’adesivo dipendente sta nel fatto che chi interviene affianco di una delle parti e contro l’altra: nell’intervento adesivo autonomo il terzo interviene facendo valere un proprio diritto autonomo che potrebbe esercitare in un autonomo processo perché vanta un diritto nei confronti della parte, ma questo non accade nell’intervento adesivo dipendente perché il terzo interviene in quanto ha un interesse giuridico all’accoglimento o al rigetto della domanda, non si parla più di diritto, ma di un interesse a che la domanda proposta dall’attore sia accolta, se interviene per sostenere le ragioni dell’attore, o sia rigettata, se interviene per sostenere le ragioni del convenuto. Tra le connessioni vi è quella per pregiudizialità per la dipendenza e il terzo può subire degli effetti riflessi dall’accoglimento o dal rigetto di una domanda se titolare non di un diritto autonomo, ma di un diritto dipendente da quello di una delle parti originarie. Se ha un diritto dipendente il terzo non può agire autonomamente, ma può intervenire nel processo per sostenere le sue ragioni, perché comunque dall’accoglimento o dal rigetto della domanda potrebbe ricevere un pregiudizio indiretto. Un esempio è l’art. 1595 c.c. (Rapporti tra il locatore ed il subconduttore), perché se viene risolto un contratto di locazione gli effetti riflettono sulla posizione del subconduttore che ha un diritto dipendente da quello del conduttore e quindi ha un interesse giuridico a sostenere le ragioni del conduttore, perché se la domanda del locatore viene accolta il sub-conduttore deve lasciare l’immobile. Nel caso del secondo comma dell’art. 105 c.p.c. il terzo non ha un diritto autonomo, ma è legittimato ad intervenire essendo titolare di un diritto dipendente da quello dedotto in giudizio. Questo è molto importante anche sotto il profilo processuale del terzo, perché non ha un diritto diretto e non acquista la stessa posizione di parte nel processo nel senso che non interviene facendo valere una domanda contro delle parti, perché non ha il diritto e sono molto diversi i sui poteri processuali. Quando il terzo interviene in base al primo comma dell’art. 105, acquista la stessa posizione processuale delle altre parti, cioè può svolgere le stesse attività (proporre domande riconvenzionali, eccezioni in senso stretto, ecc.); invece quando interviene in base al secondo comma, può svolgere attività processuali solo se non comportano un allargamento dell’oggetto del processo, cioè nell’ambito delle domande o delle eccezioni formulate dalle parti originarie. Un altro caso è quello del P.M. che interviene nel processo senza avere potere azione, in quanto può prendere conclusioni, chiedere mezzi di prova, ma nell’ambito dei fatti principali allegati dalle parti

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originarie. Sostanzialmente analoga è la posizione del terzo interveniente adesivo dipendente che può svolgere le attività processuali che non comportano un allargamento dell’oggetto, quindi non potrà proporre una domanda, perché è riservata alle parti, non potrà proporre un’eccezione in senso stretto, perché è riservata alle parti, però se ravvisa un’ipotesi di nullità del contratto di locazione, può proporre un’eccezione rilevabile d’ufficio. Quindi può proporre eccezioni in senso ampio e può anche chiedere l’ammissione dei mezzi di prova per dimostrare l’esistenza o l’inesistenza a seconda della parte per cui interviene e dei fatti allegati dalle parti originarie del processo. Non essendo parte, non ha neanche un autonomo potere di impugnare la sentenza e questo limite è quello più controverso e discusso, perché mentre la giurisprudenza dagli anni ’50 è ormai ferma nel ritenere che il terzo interveniente adesivo dipendente non può impugnare autonomamente la sentenza, non essendo parte del processo, ma potrà inserirsi nel processo di impugnazione se una delle parti va ad impugnare; la dottrina, invece, ritiene che il terzo intervenendo nel processo subisce l’efficacia diretta della sentenza e questa conseguenza giustifica una legittimazione autonoma del terzo ad impugnare la sentenza se fosse pregiudicato dalla pronuncia. Per quanto riguarda le modalità di intervento nel processo, l’art. 267 c.p.c. (Costituzione del terzo interveniente) dispone che il terzo deve costituirsi presentando una comparsa di risposta in cancelleria o direttamente in udienza e depositando le copie per le altre parti, i documenti e la procura. Il termine per l’intervento è regolato dall’art. 268 c.p.c.: “L’intervento può avere luogo sino a che non vengano precisate le conclusioni.” Solitamente avviene in un’udienza ed è proprio il momento che fa da spartiacque tra la fase della trattazione dell’istruzione e il momento prima della fase decisoria ed è l’udienza che procede il momento in cui il processo entra nella fase decisoria, tant’è vero che è l’ultima udienza che si svolge dinanzi al giudice istruttore. Dopo la precisazione delle conclusioni la causa viene rimessa al collegio (se la decisione spetta al collegio) oppure viene riservata (se spetta al giudice monocratico) e quindi l’intervento si può avere quasi fino alla fine del processo. Le attività che il terzo può esercitare dipendono dal momento in cui interviene, perché a seguito della riforma del 1990 abbiamo un processo caratterizzato dalle preclusioni, cioè si prevede che determinate attività vadano compiute entro termini a pena di preclusione (di decadenza). In questo senso l’art. 268, secondo comma, dispone “Il terzo non può compiere atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti ad alcuna parte, salvo che comparisca volontariamente per l’integrazione necessaria del contraddittorio.” Quindi diventa fondamentale il momento in cui il terzo interviene nel processo, in relazione alle attività che può compiere, ad esempio se interviene all’udienza di precisazione delle conclusioni, non può né proporre un’eccezione in senso stretto, né chiedere un mezzo di prova, per cui intervenendo non viene rimesso nei termini, ma accetta il processo nello stato in cui si trova. L’unica deroga a questo principio è che il terzo si costituisca per l’integrazione necessaria del contraddittorio; quindi non è un terzo interveniente, ex art. 105, ma è un litisconsorte necessario pretermesso, ex art. 102, che interviene per integrare il contraddittorio, cioè per sanare il vizio. Se viene rilevato in appello il litisconsorte necessario pretermesso, addirittura il processo torna indietro, ne consegue che in qualunque momento intervenga il litisconsorte necessario pretermesso dovrà essere rimesso in termini e quindi per lui non valgono le preclusioni, ma potrà svolgere tutte le attività, anche quelle precluse alle parti del processo. Questa norma costringe il terzo ad intervenire subito, visto che le più importanti attività difensive delle parti vanno tutte svolte nella fase introduttiva e comunque nell’udienza di trattazione, nel termine fissato eventualmente dal giudice dopo la chiusura di questa udienza, per se non interviene subito viene fortemente penalizzato68.

68 Questo ha portato qualcuno a dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.c. che dice il terzo accetta il processo nello stato in cui si trova, cioè non può essere rimesso in termini.

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Il diritto ad intervenire è riferito solo al giudizio di primo grado, mentre in appello l’intervento del terzo non è consentito se non quando pregiudica i suoi diritti, cioè quando sarebbe legittimato a proporre l’opposizione di terzo e solo in questo caso l’art. 344 c.p.c. ammette in appello l’intervento del terzo. Quindi è logico che il terzo non possa intervenire in appello, in quanto interviene facendo valere un diritto proponendo una domanda e consentendo al terzo di intervenire in appello, salterebbe un grado di giudizio. Tuttavia seguendo questo ragionamento, dovremmo invece riconoscere, come alcuni riconoscono in dottrina, che in appello, oltre al titolare del diritto autonomo incompatibile, che ha questa legittimazione all’opposizione di terzo, deve poter intervenire anche l’interveniente adesivo dipendente, perché in quel caso non propone una domanda e quindi non c’è motivo di escludere la possibilità di intervenire in appello anche per chi intervenga solo per sostenere le ragioni di una delle parti avendovi interesse. L’intervento coatto su istanza di parte È previsto dall’art 106 c.p.c.: “Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende di essere garantita.” Innanzitutto è il convenuto a poter chiamare in causa il terzo perché l’attore propone la domanda, infatti se l’attore volesse agire contro il terzo proporrebbe la domanda verso il terzo ed è chiaro che questo intervento si ha innanzitutto con riferimento all’iniziativa del convenuto, invece l’esigenza per l’attore di chiamare in causa un terzo deriva dalle difese svolte del convenuto. Il primo presupposto per chiamare nel processo il terzo è la comunanza di cause ed una formula generica, poi specificata dalla dottrina e dalla giurisprudenza come connessione di cause, e può avvenire se c’è una connessione per l’oggetto o per il titolo che fa ritenere alla parte opportuno chiamare in giudizio il terzo. Un’altra ipotesi, ed è questa la più frequente, è la connessione per alternatività che si può avere quando il convenuto contesta di essere il soggetto obbligato o se contesta che l’attore è il titolare del diritto. Ad esempio se il convenuto afferma di non essere il debitore, ma un altro, cioè un terzo: questa è la tipica ipotesi della chiamata del cosiddetto terzo obbligato ed è una connessione per alternatività e giustifica l’attore, in relazione alla difesa del convenuto, a proporre la domanda nei confronti del terzo, affinché si accerti chi sia il suo debitore, se il convenuto oppure il terzo. Speculare è il caso del convenuto che costituendosi in giudizio afferma che non è l’attore il creditore, ma un terzo e in questo caso c’è la chiamata del terzo pretendente. Un’altra ipotesi è quella delle obbligazioni solidali: il condebitore chiamato in giudizio dal creditore può chiedere che l’intervento dell’altro debitore in solido, per ottenere un accertamento nei suoi confronti che gli consenta di rivalersi, in regresso, nei confronti di questo. Secondo una tesi non accolta da tutti, anche la connessione per dipendenza giustifica la chiamata in causa del terzo, quando c’è un interesse a che la sentenza produca effetti anche nei confronti di un titolare di un diritto dipendente; per esempio il conduttore può chiedere che intervenga il subconduttore, in modo tale che l’eventuale sentenza di risoluzione del contratto potrà poi avere effetto anche nei suoi confronti, senza che debba proporre un giudizio autonomo. Sostanzialmente nella comunanza di cause per pregiudizialità dipendente rientrano un po’ tutte le ipotesi di connessione oggettiva, quindi per l’oggetto o per il titolo. Il secondo presupposto indicato dalla norma è che la parte può chiamare in causa il terzo dal quale pretende di essere garantito, cioè può chiamare in causa il garante quando c’è un rapporto di garanzia che implica di tenere indenne il garantito dalle conseguenze di una eventuale soccombenza69.

Per la Reali questa norma non è illegittima perché si tratta di una facoltà del terzo e se sceglie di intervenire ne accetta le conseguenze previste dall’art 268 c.p.c. infatti può sempre agire autonomamente, cioè iniziare un autonomo processo nel qual caso non subirebbe alcuna preclusione. 69In passato la giurisprudenza riteneva che questa norma trovasse applicazione soltanto alle ipotesi di garanzia propria, cioè quando il rapporto di garanzia ha fondamento o nella legge o nello stesso rapporto giuridico sostanziale dedotto

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Le modalità per l’intervento del terzo su istanza di parte, regolate dal secondo comma dell’art. 269 c.p.c. (Chiamata di un terzo in causa), sono molto rigorose, infatti il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di risposta (cioè nel primo atto difensivo), costituendosi almeno 20 giorni prima della prima udienza del processo (l’udienza di trattazione), e contestualmente chiedere al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini minimi di comparizione (per consentirgli di esercitare il diritto di difesa) e il giudice istruttore provvede entro 5 giorni con decreto. Per quanto riguarda l’intervento del terzo su istanza dell’attore, l’interesse di questo nasce dalle difese del convenuto, infatti il terzo comma dell’art. 269 c.p.c., dispone che ove a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta, sia sorto l’interesse dell’attore a chiamare in causa un terzo l’attore deve, a pena di decadenza, chiederne l’autorizzazione al giudice istruttore nella prima udienza. In ogni caso, l’attore (come il convenuto) non può chiamare in causa un terzo direttamente, ma deve chiedere al giudice l’autorizzazione e se la concede fissa una nuova udienza per poter citare il terzo nel rispetto dei termini minimi di comparizione; ma se il giudice non autorizza, il terzo non può intervenire nel processo. L’intervento coatto del terzo per ordine del giudice Ci sono dei presupposti affinché il giudice possa ordinare non al terzo, ma alle parti del processo di chiamare in causa il terzo. Se il giudice ritiene opportuno che il processo si svolga con il confronto di un terzo, ne ordina l’intervento sul presupposto che la causa sia comune con il terzo. Per cui ritroviamo il concetto di comunanza di causa riferito alla sussistenza di una connessione per l’oggetto o per il titolo tra il terzo e le parti originarie, il tutto subordinato ad una valutazione di opportunità da parte del giudice. Per la dottrina è improprio parlare di ordine, ma si tratta in realtà di un invito che il giudice rivolge alle parti perché il giudice non può obbligare una parte ad agire nei confronti del terzo se non vuole. In realtà è un invito sui generis perché le conseguenze di inottemperanza all’ordine del giudice sono la cancellazione e poi la riassunzione al ruolo entro tre mesi (art. 307 c.p.c. modificato nel 2009) altrimenti la causa si estingue, per cui la parte interessata ad avere la sentenza non ha molta scelta70. Il primo comma dell’art. 270 c.p.c. prevede che questa chiamata può essere ordinata in ogni momento dal giudice istruttore per un’udienza che fissa all’uopo, ma per pacifica dottrina e

nella causa (per esempio la garanzia per evizione: colui che ha acquistato il bene e viene convenuto in giudizio dal terzo che afferma di essere il proprietario, può chiamare in causa chi gli ha venduto il bene in modo da potersi rivalere per chiedere la restituzione del prezzo e il risarcimento dei danni). Secondo questa tesi, poi criticata ed oggi un po’ superata, si riteneva questa norma applicabile solo alla garanzia propria e non anche a quella impropria, che presuppone che un rapporto di garanzia si basi su un titolo diverso e del tutto autonomo rispetto a quello oggetto della causa e che ci sia fra i due rapporti un collegamento occasionale, ad esempio le vendite a catena. Si tratta di un orientamento che, oltre a non avere alcun fondamento normativo, visto che l’art. 106 non fa riferimento alla garanzia propria, ma genericamente alla garanzia, perciò non si capisce perché limitare alla sola garanzia propria l’ambito di operatività di questa norma e perché, supponiamo, il dettagliante che convenuto in giudizio per il difetto del registrare che ha venduto, non possa chiamare in causa il produttore. La logica è la stessa, per cui non c’è motivo di ritenere la possibilità di chiamare in causa il terzo applicabile solo alla garanzia propria e non anche alla garanzia impropria, pertanto l’orientamento da preferire è quello di essere applicabile ad entrambe le ipotesi di garanzia. 70Per la Reali questo tipo di intervento pone dei dubbi di legittimità costituzionale in relazione all’art. 24 Cost. relativo alla libertà della parte di agire nel processo e anche in riferimento a quel principio della domanda inserito nell’art. 99 c.p.c. soprattutto in quei casi in cui l’intervento si traduce nella proposizione di una domanda nei confronti del terzo, perché così è come se il giudice obbligasse la parte a proporre questa domanda. È diverso quando il giudice ordina la chiamata del terzo interveniente adesivo dipendente (ad esempio per consentire al sub-conduttore di esercitare le sue difese), perché qui non viene proposta una domanda nei confronti del terzo, ma c’è un’esigenza di estendere gli effetti della sentenza nei suoi confronti. Questa forma di intervento resta nel nostro codice soleva forti dubbi, anche se forse resta nel nostro codice perché, in concreto, accade assai di rado che il giudice si sovrapponga alle parti ordinando di chiamare in causa un terzo.

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giurisprudenza può farlo solo in primo grado, anche se neanche il terzo che interviene volontariamente può intervenire in appello. L’intervento del terzo su ordine del giudice può farlo nel momento del giudizio di primo grado, però è importante guardare le conseguenze: “Se nessuna delle parti provvede alla citazione del terzo, il giudice istruttore dispone con ordinanza non impugnabile la cancellazione della causa dal ruolo. (art. 270 c.p.c.).” Quindi se il giudice ritiene opportuno che la causa si svolga nei confronti di un terzo che ha una posizione comune, ordina alle parti di chiamare in causa un terzo e se queste non lo citano, nel termine fissato dal giudice nell’ordinanza non impugnabile, cancella la causa dal ruolo, ma poi c’è un termine di un anno per riassumere questa causa e se entro questo termine la causa non viene riassunta, il processo si estingue, cioè finisce. Il terzo che interviene su ordine del giudice, a prescindere dal momento in cui interviene, può svolgere qualsiasi attività processuale e quindi non va incontro alle preclusioni dell’interveniente volontario. L’estromissione Sempre nel titolo IV dell’esercizio dell’azione vi è un istituto opposto all’intervento e cioè l’estromissione che segna l’uscita di una delle parti dal processo ed opera soltanto nei casi in cui la legge lo preveda espressamente nelle tre ipotesi tipiche: 1. Quella prevista dall’art. 108 c.p.c. (Estromissione del garantito): “Se il garante comparisce ed

accetta di assumere la causa in luogo del garantito, questi può chiedere, qualora le altre parti non si oppongano, la propria estromissione. Questa è disposta dal giudice con ordinanza; ma la sentenza di merito pronunciata nel giudizio spiega i suoi effetti anche contro l’estromesso.” Quindi l’estromesso chiede di uscire dal processo, ma non evita di subire gli effetti della sentenza, perché la sentenza tra la parte originaria e il garante avrà effetto nei confronti del garantito.

2. L’estromissione dell’obbligato prevista dall’art. 109 c.p.c. e fa riferimento al caso in cui il convenuto in giudizio abbia contestato la titolarità attiva del rapporto: cioè ci sia una lite tra chi sia il creditore per cui è una lite tra pretendenti. “Se si contende a quale di più parti spetta la prestazione e l’obbligato si dichiara pronto ad eseguirla a favore di chi ne ha diritto, il giudice può ordinare il deposito della cosa o della somma dovuta, e, dopo il deposito, può estromettere l’obbligato dal processo.” Quindi se il debitore è disposto a consegnare la cosa ed a pagare la prestazione a ne avrà diritto alla fine del processo, non è più necessario che sia partecipe al giudizio, ma deve prima depositare la cosa, per cui non può limitarsi a manifestare la volontà, dopodiché il giudice può estrometterlo dal processo con un provvedimento. Non è indicato che forma debba avere, mentre nell’art 108 è l’ordinanza ed è subordinata a che le altre parti non si oppongano all’estromissione, qui la norma non prevede né questa condizione, né ci dice con che forma il giudice debba provvedere all’estromissione del terzo obbligato. La giurisprudenza ritiene che questo provvedimento debba avere la forma della sentenza, se le parti contestino la sussistenza dei presupposti per l’estromissione; viceversa, se non c’è contestazione e se anche le parti originarie sono d’accorso, il giudice provvede con ordinanza.

3. La Successione processuale a titolo particolare. Il codice prevede due tipi di successione processuale: a titolo universale (art 110 c.p.c.) e successione a titolo particolare (art. 111 c.p.c.). La successione comporta un mutamento dal punto di vista soggettivo del processo: cambia uno dei soggetti del processo. Nel caso della successione a titolo universale il cambiamento durante lo svolgimento del processo è determinato dal venir meno di una della parti originarie per decesso (se si tratta di una persona fisica) o estinzione (se si tratta di una persona giuridica) della parte. Ai sensi dell’art. 110 c.p.c. “Quando la parte viene meno per morte o altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto.” Quindi il processo prosegue con chi subentra nella posizione giuridica della parte venuta meno ed i presupposti sono:

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� la morte della persona fisica, a cui la giurisprudenza equipara la dichiarazione di morte presunta e quindi il processo prosegue con l’erede o gli eredi universali.

� L’estinzione della persona giuridica, cioè quella che il codice chiama altra causa e nel processo subentra un nuovo soggetto.

L’ipotesi che crea maggiori difficoltà è quella riferita alle persone giuridiche, perché bisogna stabilire quando all’estinzione si accompagna una successione a titolo universale, quindi a tutti i rapporti che facevano capo alla persona giuridica, privata o pubblica, estinta. Fino a ieri per le società si riteneva che un’ipotesi di estinzione con successione, ex art 110, si avesse nell’ipotesi di fusione delle società per unione o incorporazione (quando una società veniva incorporata in un’altra). Con la riforma del diritto societario, d.lgs. 6/2003, che ha modificato l’art. 2504 bis sugli effetti della fusione, prevede: “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante, assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione.”71 Quindi, nel momento in cui si verifica la morte della persona fisica o l’estinzione della persona giuridica accompagnata ad un trasferimento dell’intera posizione giuridico sostanziale, anche processuale, si applica l’art. 110 e quindi il processo prosegue con il successore universale. Questa prosecuzione non avviene automaticamente, ma nell’interruzione del processo se una parte viene meno, il procuratore dichiara la morte della persona fisica o l’estinzione della persona giuridica e dal momento in cui viene fatta questa dichiarazione, il processo viene interrotto per essere riassunto entro tre mesi (art. 305 c.p.c.) dai successori a titolo universale oppure questi possono costituirsi in giudizio proseguendo il processo. L’altro tipo di successione processuale è la successione a titolo particolare del diritto controverso regolato dall’art. 111 c.p.c. e anche in questo abbiamo un mutamento soggettivo, però non per il venir meno di una parte, ma perché in corso di causa la parte ha trasferito il diritto controverso, la res litigiosa, con un atto negoziale inter vivos oppure con atto mortis causa attraverso un legato. Nel trasferimento per atto inter vivos viene alienata la res litigiosa ad un terzo in corso di causa. Ad esempio se il convenuto vende un quadro di cui è contesa in un processo la proprietà ad un terzo, quando arriva la sentenza che dichiara l’esistenza o l’inesistenza del diritto non riguarderà più il convenuto, ma il terzo a cui il convenuto ha venduto il quadro. Per effetto di questo trasferimento viene meno la legittimazione ad agire nel processo o a contraddire, a seconda che il trasferimento avvenga dal lato dell’attore o del convenuto, cioè viene meno una delle condizioni dell’azione con la conseguenza che il giudice dovrebbe dichiarare inammissibile la domanda per mancanza di legittimazione ad agire o a contraddire. Da questo nascono conseguenze molto gravi per chi chiede tutela e per chi non ha dato causa a questa vicenda modificativa (al trasferimento), cioè sostanzialmente per l’altra parte. Ad esempio se il convenuto trasferisce la proprietà del bene, il giudice dovrebbe dichiarare la domanda improponibile perché è venuta meno la legittimazione a contraddire del convenuto, in quanto la causa va instaurata nei confronti del terzo che ha acquistato il bene; invece l’attore dovrebbe iniziare un processo nei confronti di colui che risulta o afferma di essere il titolare del bene e questo lo esporrebbe al rischio che nel corso del secondo processo il nuovo convenuto venda il bene, in sostanza l’attore dovrebbe

71 Per effetto di questa riforma, le Sezioni Unite della Cassazione con una sentenza di grande importanza dell’8 febbraio 2006 n. 2637, hanno affermato che, ai sensi del nuovo art. 2504 bis, la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, né crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria, ma si risolve in una vicenda meramente evolutiva-modificativa dello stesso soggetto giuridico che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo. In sintesi la fusione societaria non dà più luogo a successione a titolo universale, ex art 110 c.p.c., perché la società non viene meno per estinzione. Oltretutto, sempre le Sezioni Unite, con la sentenza 27183 del 28/12/2007, sono state costrette a distinguere, ritenendo applicabile l’art 110 se la fusione è avvenuta prima della riforma del diritto societario del 2003, non applicabile se è avvenuta dopo l’entrata in vigore della riforma. Quindi la fusione societaria non determina estinzione, mentre la giurisprudenza ritiene ancora che ci sia estinzione nelle ipotesi di scissione totale di una società con creazione di soggetti giuridici distinti, mentre è più controversa è l’ipotesi di scissione parziale. Per l’estinzione degli enti pubblici con successione universale la questione è ancora più complessa, tant’è vero che i giudici si regolano caso per caso, in relazione agli statuti degli enti pubblici, per stabilire se effettivamente l’estinzione comporta una successione a titolo universale.

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inseguire i vari convenuti a seconda di quante siano le alienazioni del bene e questo si tradurrebbe in un diniego di giustizia, oltre che potrebbe prestarsi facilmente ad abusi, perché la parte trasferendo il diritto riuscirebbe a rinviare all’infinito una pronuncia di merito. Sulla scia della soluzione adottata nell’ordinamento tedesco, anche il nostro ordinamento ha seguito dei principi che derogano alla legittimazione ad agire72 in primo luogo prevedendo la possibilità di trasferimento in corso di causa della res litigiosa, ma stabilendo che non incide sul processo. Per il principio della perpetuatio legitimationis, in relazione agli effetti processuali della domanda, nel momento in cui l’attore propone la domanda, ciascuna parte acquisisse il diritto a non veder modificata la situazione soggettiva del processo, per cui la vicenda traslativa per il processo diventa irrilevante che prosegue tra le parti originarie come se non ci fosse stato nessun trasferimento (art. 111 c.p.c.). Tuttavia l’art. 111 trova applicazione solo se il trasferimento avviene tra vivi a titolo particolare, cioè con un atto derivativo e l’acquisto non sia avvenuto a titolo originario. Per quanto riguarda il trasferimento per atto mortis causa il legislatore tutela la parte nel caso in cui il bene oggetto del giudizio è oggetto del legato; ad esempio se con un testamento il de cuius abbia nominato erede il figlio, ma abbia dato un quadro di valore, oggetto del giudizio, al suo miglior amico. In considerazione che può essere estremamente difficile per la parte individuare chi è il legatario, nasce la necessità di tutelarla stabilendo che il processo sia proseguito dal successore universale o in suo confronto. Quindi, anche se il bene non apparterrà, nell’ipotesi in cui fosse dichiarata esistente la proprietà, al successore universale, perché per disposizione testamentaria è stato dato al legatario (anche qui c’è un problema di legittimazione), il processo prosegue da o nei confronti del successore a titolo universale, benché questi non sia evidentemente il soggetto nella cui sfera giuridica si produrranno poi gli effetti della sentenza. Sia il successore universale che il dante causa del successore a titolo particolare, si comportano come un sostituto processuale perché fanno un diritto ed è un’ipotesi di legittimazione straordinaria, perché non fanno valere un loro diritto attuale, ma un diritto che apparterrà al successore a titolo particolare, qualora venga riconosciuto. A differenza della sostituzione processuale (ex art. 81 c.p.c.) e del sostituito litisconsorte necessario, il successore a titolo particolare può intervenire nel processo o essere chiamato nel processo, anche se questa chiamata è un po’ sui generis perché non essendo inquadrabile negli artt. 105 e 106, perché il successore ha un diritto connesso, ma si discute proprio del suo diritto, e quindi è un intervento particolare. “In caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore universale può essere estromesso (art. 111 terzo comma).” In sintesi la terza ipotesi di estromissione è legata alla partecipazione al giudizio del successore a titolo particolare per il quale il processo prosegue tra i legittimati ordinari all’azione, invece il dante causa (l’alienante o il successore universale) potrà uscire dal processo, sempre che ci sia il consenso delle altre parti. L’altro profilo importante per la successione a titolo particolare, lo troviamo nell’ultimo comma dell’art. 111 c.p.c. nell’ipotesi in cui il successore a titolo particolare non interviene volontariamente o su istanza: “La sentenza pronunciata contro questi ultimi (le parti originarie) spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salvo le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione.” Quindi l’altra deroga ai principi generali è l’efficacia ultra partes della sentenza.

72 Nell’antichità in maniera sbrigativa si escludeva la possibilità di trasferire la res litigiosa in pendenza del processo, per cui il diritto controverso non poteva essere trasferito. Col passare dei secoli, però, ci si è resi conto che anche questa soluzione non era accettabile perché sostanzialmente toglieva la disponibilità di disporre del bene al proprietario in presenza di una qualsiasi azione, anche la più infondata, oltre a bloccare i traffici commerciali.

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Ricapitolando: il successore a titolo particolare non rileva per il processo che può proseguire tra le parti originarie; se prosegue tra le parti originarie senza l’intervento del successore a titolo particolare, la sentenza ha efficacia diretta anche nei confronti del successore a titolo particolare. Non è un’efficacia riflessa della sentenza, come quella nel caso in cui ci sia una posizione di dipendenza, ma diretta ed un'altra deroga ai principi generali dell’art. 2909 c.c. (Cosa giudicata), in quanto la sentenza non ha efficacia solo tra le parti originarie, ma anche nei confronti del terzo, benché non sia intervenuto nel processo. Il problema della tutela della parte che non ha dato causa al trasferimento è risolto per un verso prevedendo la prosecuzione del processo tra le parti originarie e per l’altro, stabilendo che il successore a titolo universale, partecipe oppure no al processo, subirà gli effetti diretti della sentenza (accertativi e esecutivi), tant’è che ha un autonomo potere di impugnare la sentenza, perché si tratta di efficacia diretta. Ai sensi dell’art. 111 c.p.c. questa sentenza è opponibile al terzo tranne nel caso in cui non si tratti di acquisto in buona fede dei beni mobili (ex art. 1153 c.c.) e sulla trascrizione e quindi se il terzo abbia conseguito il possesso in buona fede, cioè senza conoscere dell’esistenza di questo processo, o in base ad un titolo idoneo in un contratto di vendita, la sentenza non sarà opponibile al terzo73. L’altra eccezione fa riferimento alle norme sulla trascrizione dei beni immobili e mobili registrati. La sentenza sarà opponibile, ex art. 111, al terzo che abbia acquistato il bene, se la domanda è stata trascritta prima del titolo d’acquisto della trascrizione, da parte del terzo. Se il terzo ha trascritto il proprio titolo d’acquisto prima della domanda giudiziale, in questo caso, in base alle norme sulla trascrizione, la sentenza non potrà essergli opposta e quindi non opera l’art. 111 e non potrà produrre i suoi effetti nei confronti del terzo che abbia trascritto il suo titolo prima della trascrizione della domanda giudiziale e solo successivamente il soggetto vincitore potrà agire nei confronti del terzo in un autonomo processo per far valere il suo diritto prevalente.

LITISCONSORZIO UNITARIO A meta strada tra il litisconsorzio necessario e il litisconsorzio facoltativo vi è litisconsorzio quasi necessario o litisconsorzio unitario. In realtà non c’è nel codice questo istituto, infatti è il risultato di un’elaborazione dottrinale sulla base di alcune norme del codice civile. Un esempio ne è l’art 2377 sull’annullabilità delle delibere assembleari che al secondo comma prevede: “Le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti od astenuti, dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale.” Quindi ciascun socio, assente o dissenziente, può autonomamente impugnare la delibera assembleare e non è necessario che lo facciano tutti insieme congiuntamente. Tuttavia se l’impugnazione della delibera assembleare è proposta congiuntamente, l’art 2378, penultimo comma dispone che tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione, anche se separatamente proposte, devono essere istruite congiuntamente e decise con un’unica sentenza. Per cui, all’inizio l’impugnazione può aver luogo autonomamente da parte di ciascun socio, ma se i soci impugnano congiuntamente la delibera assembleare queste impugnazioni devono essere trattate e decise con un’unica sentenza e non è più possibile separare le cause ed ecco perché è un litisconsorzio quasi necessario: è facoltativo quanto all’instaurazione (ciascun socio può procedere autonomamente), ma è necessario quanto a trattazione e decisione, cioè a svolgimento, perché una volta che si è instaurato il simultaneus processus (giudizio contestuale su due opposte domande) non è più possibile scindere le cause (come accade nel litisconsorzio facoltativo), ma devono essere trattate e decise con un’unica sentenza.

73 Forze non c’era neanche bisogno che il legislatore prevedesse questa riserva, perché l’art. 1153 c.c. è un tipico acquisto a titolo originario, il cui presupposto di applicabilità è che ci sia un trasferimento a titolo derivativo del diritto. Quindi, quand’anche il legislatore non l’avesse previsto, era pacifico che questa norma non potesse trovare applicazione al 1153 c.c.

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Lo stesso accade per le impugnazioni delle delibere assembleari, ex art 1137, per il condominio degli edifici e quindi la particolarità di questo litisconsorzio sta nell’essere facoltativo quanto all’instaurazione e nel divenire successivamente necessario nella trattazione e decisione delle cause.

ATTI DEL PROCESSO Il codice di procedura civile dedica, nel I libro, il titolo VI degli atti processuali di cui il capo I è titolato delle forme degli atti e dei provvedimenti. Il processo si svolge sia attraverso atti intesi come comparse scritte e sia attraverso le udienze, per cui gli atti del processo sono quegli atti che vengono posti in essere dai soggetti del processo: il giudice, le parti, il pubblico ministero e gli ausiliari del giudice (il cancelliere e l’ufficiale giudiziario). Con riferimento a questi atti il capo I, della sezione I degli atti in generale, apre con l’art. 121 rubricato libertà di forme, anche se, in realtà, in relazione agli atti è vero il contrario. Il legislatore nella maggior parte dei casi prevede delle forme vincolate, cioè stabilisce espressamente in quale forma l’atto va compiuto, ma questo non va visto in termini negativi perché la forma è garanzia di certezza, di legalità e prevedibilità dell’atto e quindi di terzietà e di imparzialità del giudice. È chiaro che questa forma non deve diventare formalismo processuale, cioè l’eccesso delle forme va criticato soprattutto per quanto riguarda il processo, perché dire che il giudice non può giudicare per un vizio di forma dell’atto si traduce nel diniego di tutela, cioè lo Stato rinuncia a dare giustizia per un mero vizio formale. Un esempio è la procura alle liti, in relazione all’orientamento della giurisprudenza di cassare i processi se in luogo di una procura speciale fosse stata presentata una procura generale. “Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento dello loro scopo (art. 121 c.p.c.).” La libertà delle forme è un principio residuale, poiché nella maggior parte dei casi la legge prevede forme determinate per cui questo principio opera in ipotesi limitate. Però è un principio importante perché le forme degli atti processuali non devono essere fini a loro stesse, ma devono essere dirette ad assicurare il raggiungimento dello scopo e questo in tutti i casi anche quando l’idoneità della forma è stabilita dalla legge o dal giudice. Quindi l’atto ha una funzione oggettiva, non soggettiva, nel processo finalizzata al raggiungimento dello scopo, anzi una delle differenze maggiori fra un atto processuale e un atto negoziale è che nell’atto processuale non rileva l’intenzione soggettiva, cioè una volta che l’atto viene compiuto nella forme prescritte dalla legge, oppure in via residuale quelle fissate dal giudice, l’atto produce l’effetto a cui è preordinato e poco importa che quell’effetto è voluto oppure no dall’autore dell’atto, quindi la volontarietà rimane estranea all’atto processuale, rilevando solo che venga compiuto nelle forme stabilite dalla legge o dal giudice e comunque in quelle più idonee al raggiungimento dello scopo. Quindi sia che gli atti abbiano una forma vincolata sia che venga fissata dal giudice, il raggiungimento dello scopo oggettivo dell’atto è un denominatore comune su cui si misura la stessa validità ed efficacia dell’atto processuale, perché non sempre la mancanza di un requisito formale previsto dalla legge comporta la nullità dell’atto, ma solo quando, a causa della mancanza di quel requisito, l’atto non ha raggiunto il suo scopo. Quindi il principio della libertà delle forme è stato rinominato dalla dottrina strumentalità delle forme, cioè la forma è strumentale al raggiungimento dello scopo dell’atto. Non dobbiamo pensare alla forma degli atti del processo semplicemente come modo in cui va manifestato esteriormente l’atto, cioè alla forma scritta o orale, pur rientrando nella nozione di forma dell’atto processuale. In effetti la forma scritta è privilegiata dal legislatore con riferimento ad atti che abbiano carattere propulsivo (ad esempio domande e istanze che devono essere formulate per iscritto) oppure

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assertivo, quando si tratta di allegare fatti, come le domande e le eccezioni di merito del convenuto quando allega un fatto estintivo, modificativo, impeditivo del diritto fatto valere dall’attore. La regola generale è la forma scritta con le eccezioni previste dalla legge, tra cui la domanda giudiziale (art. 316 c.p.c.) davanti al giudice di pace, un atto propulsivo, può essere proposta anche oralmente, anche se va redatto apposito verbale. Inoltre, di regola, sono compiuti oralmente gli atti che si svolgono nella udienze dinanzi al giudice, cioè le parti dialogano in udienza con il giudice e questi atti vengono documentati in forma scritta nel verbale di udienza perché deve restare una traccia anche degli atti formulati oralmente e questa traccia la troviamo nel processo verbale, regolato espressamente dall’art. 126 c.p.c., che deve contenere l’indicazione delle persone che intervengono, delle circostanze di luogo e di tempo nelle quali gli atti che documenta sono compiuti, deve contenere la descrizione delle attività svolte, delle rilevazioni fatte e delle dichiarazioni ricevute e quindi quando è prevista la forma orale, segue un processo verbale. Sono riferite alla forma esteriore anche: → L’art. 122 c.p.c. che prescrive l’utilizzazione della lingua italiana in tutto il processo, però se

c’è l’esigenza di ascoltare una persona che non conosca l’italiano, il giudice può nominare un interprete sempre, se egli stesso non in grado di comprendere.

→ L’art. 123 c.p.c. prescrive che se si deve procedere all’analisi di documenti scritti in lingua straniera è prevista la facoltà del giudice che può, non deve, se è necessario, nominare un traduttore.

→ L’art. 124 c.p.c. prescrive che se nel procedimento debba essere sentito un sordo o un muto o un sordomuto le interrogazioni possono essere fatte per iscritto ovvero il giudice può nominare un interprete.

Se c’è una violazione di queste prescrizioni formali la conseguenza è la nullità. Nell’atto del processo la forma deve essere intesa in senso ampio, cioè anche con riferimento ai requisiti di contenuto dell’atto, anzi questo è l’aspetto più rilevante, cioè quando parliamo di requisiti formali non ci riferiamo esclusivamente alla forma estrinseca dell’atto, ma anche ai requisiti minimi di contenuto che l’atto deve avere per poter produrre i suoi effetti. In molti casi il legislatore, ad esempio in riferimento ai provvedimenti del giudice, stabilisce il contenuto minimo oggettivo necessario perché l’atto sia idoneo a raggiungere lo scopo cui è destinato. Quindi parliamo di forma anche con riferimento ai requisiti di forma contenuto, cioè quegli elementi minimi di contenuto prescritti dal legislatore, essenziali per il raggiungimento dello scopo. Il processo si snoda non soltanto attraverso atti scritti, orali e comparse, ma anche attraverso le udienze a cui il codice dedica un’apposita sezione e stabilendo che l’udienza è l’audizione delle parti dinanzi al giudice, cioè degli avvocati delle parti e il codice pone un divieto nelle disposizioni di attuazione all’art 84, consentendo che le parti possono essere presenti in udienza insieme ai loro difensori, però non possono interloquire con il giudice. Questa è una concezione un po’ autoritaria perché la parte non può rendere una dichiarazione spontanea, ma occorre un istanza dell’avvocato con cui viene richiesto al giudice l’autorizzazione a poter rendere una dichiarazione, anche se nella pratica i giudici difficilmente negano questa autorizzazione. “L’udienza è diretta dal giudice singolo o dal presidente del collegio (se si tratta di una udienza collegiale). Il giudice che la dirige può fare o prescrivere quanto occorre affinché la trattazione delle cause avvenga in modo ordinato e proficuo, regola la discussione, determina i punti su cui essa deve svolgersi e la dichiara chiusa quando la ritiene sufficiente (art. 127).”

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Altro aspetto è la pubblicità in quanto nel processo ordinario di cognizione solo l’udienza di discussione è pubblica74 a pena di nullità (art. 128 c.p.c.), viceversa per “le udienze del giudice istruttore non sono pubbliche” (art. 84 delle disposizioni di attuazione), cioè tutte le altre. Quindi la regola è che le udienze non sono aperte al pubblico, invece l’unica udienza in cui la pubblicità è prescritta addirittura a pena di nullità è l’udienza di discussione che si ha quando si chiude la fase davanti al giudice istruttore con la precisazione delle conclusioni, prima che il giudice del collegio decide75. Con la riforma del ‘90 l’udienza di discussione è stata subordinata all’istanza di parte (art. 281 quinquies), cioè non è più un passaggio obbligatorio, però se una delle parti chiede che la causa sia discussa oralmente può ottenere di comparire dinanzi al collegio per poter discutere oralmente la causa e questo vale tanto nelle cause a decisione collegiale, quanto in quelle davanti al giudice monocratico e quindi l’unica udienza pubblica è diventata facoltativa. Anche se l’udienza di discussione è pubblica il giudice può disporre che si svolga a porte chiuse, se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico e di buon costume (ad esempio se si tratta di un minorenne), inoltre “il giudice esercita i poteri di polizia per il mantenimento dell’ordine, del decoro e può allontanare chi contravviene alle sue prescrizioni (art. 128).” L’art. 130 si riferisce al verbale di udienza in cui viene documentato tutto quello che avviene in udienza ed è redatto dal cancelliere, sotto la direzione del giudice, e sottoscritto dal presidente e dal cancelliere e del quale non è data lettura, tranne se non ci sia una esplicita istanza di uno degli avvocati delle parti. Questo verbale costituisce un atto pubblico, cioè fa piena prova della provenienza (di chi l’ha redatto) e di quanto in esso viene attestato, ossia degli atti che sono in essi documentati. L’unico modo per togliere questa particolare efficacia probatoria è la querela di falso che è uno strumento generale previsto per togliere autenticità all’atto pubblico o alla scrittura privata autenticata, cioè a tutti quei documenti che per legge hanno pubblica fede e tra i quali rientra anche il verbale di udienza. Nell’ambito degli atti del processo, guardando dal punto di vista di chi li compie, dobbiamo distinguere fra gli atti di parte, gli atti del giudice (si chiamano provvedimenti) e gli atti degli ausiliari del giudice. Focalizzando l’attenzione sugli atti delle parti, l’art. 125 c.p.c. (Contenuto e sottoscrizione degli atti di parte) il legislatore stabilisce i requisiti essenziali di contenuto di un atto: “Salvo che la legge disponga altrimenti, la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso, il precetto debbono indicare l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni o la istanza e, tanto nell’originale quanto nelle copie da notificare, debbono essere sottoscritti dalla parte, se essa sta in giudizio personalmente, oppure dal difensore.” Questa norma formula in maniera generale i requisiti minimi di contenuto degli atti di parte, poi ulteriormente specificati nelle norme riferite ai singoli atti. Ad esempio nell’art. 163 c.p.c., l’atto di citazione viene dettagliatamente ed ulteriormente specificato nel suo contenuto, lo stesso l’art. 167 c.p.c. sulla comparsa si risposta oppure il ricorso del processo del lavoro. 74 Letteralmente aperta al pubblico, cioè a terzi estranei alla causa, perché comunque le parti possono essere sempre presenti in udienza con i loro difensori. 75 Prima della riforma del ‘90 l’udienza di discussione dinanzi al collegio era l’unica in cui le parti vedevano il collegio, perché dall’inizio della causa e per tutta la trattazione e l’istruzione l’unico giudice con cui potevano interloquire era il giudice istruttore, mentre l’unica udienza in cui finalmente compariva il collegio era l’ultima udienza del processo, cioè udienza di discussione che, prima della riforma del ‘90, era una tappa obbligata verso il deposito della sentenza. Questa obbligatorietà non aveva molto senso, perché questa udienza era preceduta dal deposito degli ultimi atti scritti difensivi delle parti (cioè le comparse conclusionali e le memorie di replica) in cui ormai le parti avevano già formulato tutto per iscritto quello che volevano dire perché in forma scritta diventa vincolante; pertanto nell’udienza di discussione orale e pubblica non potevano aggiungere nulla rispetto a quello che avevano già scritto. Inoltre nella prassi applicativa questa udienza aveva perso tutto il suo significato, perché alla fine gli avvocati si limitavano a chiedere che la causa fosse mandata in decisione. Fissare questa udienza comportava, mesi o anni di ritardo nella pronuncia della sentenza perché dal deposito degli ultimi scritti difensivi, le memorie di replica, anche se il codice fissava l’udienza entro 60 giorni, in realtà passavano molti mesi per un udienza sostanzialmente inutile.

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La mancanza di uno di questi requisiti non comporta automaticamente la nullità dell’atto, ma solo se per questo vizio di forma l’atto non ha raggiunto lo scopo. Certamente un vizio molto grave che comporta nullità dell’atto di parte è la mancata sottoscrizione, essendo prescritto espressamente la sottoscrizione dell’atto personalmente dalla parte (nei casi eccezionali in cui la parte sta in giudizio personalmente) o dal difensore. Il secondo e terzo comma dell’art. 125 riguardano la costituzione delle parti, infatti si riferisce alla procura alle liti al difensore dell’attore che può essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell’atto di citazione (che segna il momento in cui il processo inizia a pendere), ma prima della costituzione in giudizio della parte rappresentata. Questa disposizione non si applica quando la legge richiede che la citazione sia sottoscritta da un difensore munito di mandato speciale, pensiamo al ricorso per Cassazione dove è prevista una procura speciale che deve essere rilasciata fin da quando il ricorso viene depositato nella cancelleria della Corte. Riguardo ai termini76 per la presentazione degli atti si distinguono in: � termine accelleratorio, nei casi in cui la legge stabilisce che l’atto va compiuto entro un certo

termine, ad esempio l’appello va proposto entro 30 giorni dalla notificazione dalla sentenza, quindi il termine indica il momento entro il quale l’atto deve essere posto in essere;

� termine dilatorio indica che decorso il termine l’atto può essere compiuto, quindi l’atto non può essere compiuto prima che sia decorso un determinato termine, ad esempio il termine minimo di comparizione previsto dall’art. 163 bis77.

In sintesi, in alcuni casi il termine si riferisce al momento entro cui l’atto va compiuto, in altri il termine decorso il quale si può compiere l’atto. Il codice di procedura civile, nel titolo VI, si occupa dei termini al capo II che inizia con l’art. 152 che distingue fra termini legali e termini giudiziali: il termine legale è quello già stabilito dalla legge, il termine giudiziale è quello fissato dal giudice. Dall’art. 152 si desume che la regola è che sia la legge a stabilire i termini entro cui vanno compiuti determinati atti, infatti la norma dice i termini per il compimento di determinati atti del processo sono stabiliti dalla legge, possono essere stabiliti dal giudice, anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo stabilisce espressamente. A volte la legge indica al giudice un minimo e un massimo entro cui il temine va stabilito oppure dice che il giudice può stabilire i termini, anche a pena di decadenza. Pensiamo ad un termine giudiziale molto importante come l’integrazione del contraddittorio: se il giudice rileva la violazione dell’art. 102 (un vizio di integrità del contraddittorio), con un termine giudiziario fissa alle parti il termine entro cui il contraddittorio va integrato, cioè vanno citate le altre parti con la conseguenza che se entro quel termine nessuno provvede la sanzione è gravissima, cioè l’estinzione del processo, quindi anche ai termini fissati dal giudice possono collegarsi delle sanzioni molto gravi come l’estinzione e la perdita del potere processuale. Altra distinzione molto importante è fra termini ordinatori e termini perentori. � Il termine ordinatorio se non viene osservato comporta solo una irregolarità nello svolgimento

del processo, può causare delle conseguenze sfavorevoli alla parte, però non comporta decadenza dal diritto di compiere l’atto, l’estinzione del potere giudiziale della parte cosa che invece è tipica dei termini perentori.

� Il termine perentorio è più importante, perché il mancato compimento dell’atto nel termine perentorio comporta la decadenza dal diritto di compiere l’atto in un momento successivo del processo e la perdita del potere processuale.

76 Il momento cronologico in cui l’atto deve essere compiuto. 77 Per l’atto di citazione la norma espressamente prevede che l’attore fissa la data dell’udienza di comparizione in modo tale da rispettare il termine dell’art 163 bis, cioè da assicurare che tra il momento della notificazione dell’atto di citazione e la data dell’udienza decorra un termine minimo di 90 giorni (dopo la riforma del 2005), cioè solo dopo che siano decorsi 90 giorni dalla notificazione della sentenza; se è fissata prima c’è la nullità assoluta, anche se può essere sanata nei modi previsti dall’art. 164.

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Questo spiega perché i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori (art. 152 secondo comma), quindi anche qui la regola è che il termine è ordinatorio, tranne se la legge non stabilisca espressamente un termine perentorio, in ragione delle conseguenze che ne possono derivare dalla sua inosservanza. Le ipotesi che la legge considera perentorio un termine sono di stretta interpretazione per cui non possono essere estese a casi simili, comportano la decadenza dal diritto di compiere l’atto che il giudice può rilevare anche d’ufficio e va correlata anche alla perdita del potere processuale. Ad esempio il termine di 30 giorni dalla notificazione della sentenza per proporre appello è perentorio, quindi se l’appellante non propone l’appello entro quel termine, la sentenza passa in giudicato e si perde completamente il potere di impugnare quella sentenza. Solitamente i termini perentori sono posti a carico delle parti, viceversa i termini a carico del giudice sono ordinatori; ad esempio nelle cause collegiali l’udienza di discussione deve essere fissata nel termine di 60 giorni, ma la violazione di questo termine non comporta alcuna conseguenza per il giudice che ritarda a fissare l’udienza. Tuttavia delle conseguenze pregiudiziali possono derivare anche a carico del giudice, ad esempio il mancato deposito della sentenza nel temine stabilito dalla legge può portare ad una responsabilità disciplinare del giudice oppure sul piano civile se il giudice omette, dopo espressa richiesta delle parti, di depositare la sentenza perché rientra nel diniego di giustizia prevista dalla legge 117/88. Ai termini perentori si ricollegano le preclusioni che sono dirette ad assicurare l’ordinato svolgimento del processo e il compimento degli atti secondo un ordine cronologico stabilito dal legislatore, per cui il mancato compimento dell’atto nel termine previsto a pena di preclusione impedisce di poterlo compiere in un momento successivo. Ad esempio la richiesta di un mezzo di prova oppure la chiamata in causa del terzo da parte del convenuto che deve essere fatta nella comparsa di risposta, altrimenti si preclude la possibilità di poterlo fare, cioè viene meno per il convenuto il potere di chiamare in causa il terzo nel processo. Dalla distinzione fra termini ordinatori e perentori derivano le conseguenze previste dagli art. 153 e seguenti, perché “I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno su accordo delle parti (primo comma art. 153).” Per il mancato compimento dell’atto previsto a pena di decadenza, di estinzione o preclusione è dovuto a una causa non imputabile alla parte, mancava una norma generale per la rimessione in termini, nell’ipotesi di mancato compimento dell’atto per causa non imputabile. Nel 1990 è stato previsto l’art. 184 bis che forzando un po’ poteva anche essere esteso alle preclusioni che si verificano nella fase della trattazione, comunque il problema è stato risolto perché l’art. 184 bis è stato abrogato dal d.lgs. 69/2009 per diventare il secondo comma dell’art. 153 c.p.c. che introduce una forma generale di rimessione in termini: “La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell'articolo 294 (contumacia involontaria), secondo e terzo comma.” Il termine ordinatorio, prima della scadenza, può essere abbreviato oppure prorogato, anche d’ufficio, anche se il legislatore ha introdotto un correttivo prevedendo che la proroga non può avere una durata superiore al termine originario e “Non può essere consentita proroga ulteriore, se non per motivi particolarmente gravi e con provvedimento motivato (art. 154 c.p.c.). Nel computo dei termini a giorni o ad ore (art. 155 c.p.c.) si escludono il giorno e l’ora iniziale, tranne che la legge non preveda espressamente dei termini liberi, infatti il primo comma dell’art. 163 bis (Termini per comparire) dispone: “Tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell’udienza di comparizione devono intercorrere termini liberi (cioè nel termine non viene computato ne il giorno iniziale ne finale) non minore di 90 giorni se il luogo della notificazione si trova in Italia e di 150 giorni se si trova all’estero.” Il computo dei termini avviene secondo il calendario comune, i giorni festivi si computano nel termine, se però il giorno finale cade in un giorno festivo la scadenza viene prorogata di diritto al primo giorno non festivo (art. 155 c.p.c.).

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Da notare che nel 2005 il legislatore ha parificato al giorno festivo il sabato, però limitatamente agli atti processuali che si svolgono fuori dall’udienza, ad esempio la notifica di un atto il sabato viene equiparato ad un giorno festivo. Nel computo del termine va tenuto conto del periodo di sospensione feriale, attualmente dal 1° agosto al 15 settembre stabilito dalla legge 742/69, ad esempio se non c’è stata la notifica della sentenza di primo grado, questa può essere impugnata entro sei mesi dalla pubblicazione (art. 327 c.p.c.), ma se la scadenza cade nel periodo di sospensione feriale, il termine si allunga sino al 15 settembre, perché bisogna calcolare la sospensione del termine dal 1° agosto al 15 settembre. Relativamente agli atti del giudice, i provvedimenti, l’art. 131 (Forma dei provvedimenti in generale) dispone: “La legge prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto. In mancanza di tali prescrizioni, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo.” Questo non significa che il giudice può provvedere in maniera diversa dalla sentenza, ordinanza o decreto, essendo i provvedimenti del giudice tipici, riguardano solo queste tre forme. Però se la legge non prescrive espressamente che sia emanata sentenza, ordinanza o decreto, in via residuale il giudice potrà scegliere tra questa tre forme quella che ritiene essere più idonea a raggiungere lo scopo. La sentenza Quando il giudice accerta l’esistenza o l’inesistenza di un diritto oppure deve modificare, costituire, estinguere un diritto deve farlo con sentenza, cioè il provvedimento decisorio per eccellenza. Sulla forma del provvedimenti del giudice78 l’art. 279 c.p.c. al secondo comma, modificato nel 2009, determina quando il giudice deve provvedere in forma di sentenza quando: 1) definisce il giudizio, decidendo questioni di giurisdizione79; 2) definisce il giudizio decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni

preliminari di merito; 3) definisce il giudizio decidendo totalmente il merito; 4) decidendo alcune delle questioni di cui ai numeri 1, 2, 3 non definisce il giudizio e impartisce

distinti provvedimenti per ulteriore istruzione della causa; 5) valendosi della facoltà di cui agli art. 103 secondo comma e 104 secondo comma (cioè di

separare le cause), decide solo alcune delle cause fino a quel momento riunite e con distinti provvedimenti dispone la separazione delle altre cause e l’ulteriore istruzione riguardo alle medesime ovvero la rimessione al giudice inferiore delle cause di sua competenza.

In riferimento a questa norma la prima distinzione è fra sentenza di rito e sentenza di merito. La sentenza di rito decide su una questione potenzialmente idonea a definire il processo, infatti il numero 1 della norma rinvia alle questioni di giurisdizione che è una tipica questione di rito che riguarda il processo ed è potenzialmente idonea a decidere il giudizio, perché se il giudice dinanzi al quale l’attore ha proposto l’atto di citazione dichiara di non avere giurisdizione (ad esempio spetta al TAR se la questione è stata proposta al tribunale) il processo si chiude. Quindi la sentenza di rito pronuncia su una questione idonea a definire il giudizio anche se difetta la capacità processuale di una parte perché chiude il processo, se non viene sanata (art. 182 c.p.c.); invece la mancanza della legittimazione ad agire non può essere intesa come sentenza di rito, perché c’è una pronuncia sull’inesistenza del diritto d’azione da intendere come una sentenza di merito in senso un più ampio, perché le vere sentenze di merito sono quelle che, ai sensi del numero 3 dell’art. 279, pronunciano sulla domanda accogliendo o rigettando la domanda, cioè dichiarano se il diritto fatto valere dall’attore esiste. Quindi di merito è la sentenza su domanda e va distinta, anche per quanto riguarda gli effetti del giudicato sostanziale, dalla sentenza di rito perché solo quella di merito produce effetti fuori dal processo sul rapporto giuridico sostanziale che costituisce oggetto di quella sentenza.

78 La norma cita i provvedimenti del collegio, ma riguarda anche il giudice monocratico perché il termine collegio resta nel codice perché nel 1940 il tribunale era sempre collegiale, però va inteso come giudice della decisione. 79 La legge 69/2009 ha soppresso dall’elenco dei provvedimenti emanati con sentenza quello per definire la competenza.

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Inoltre le sentenze di rito o di merito possono definire il giudizio o non definirlo e questo è molto importante, perché si questo si fonda la distinzione fra sentenza definitiva e non definitiva che è una distinzione fondamentale. La sentenza definitiva non è la sentenza passata in giudicato, ma è quella che nel decidere una questione di giurisdizione o di competenza o pregiudiziale di rito o di merito, ovvero nel pronunciare sulla domanda definisce il giudizio, cioè chiude il processo davanti al giudice adito. La sentenza di primo grado è definitiva, ancorché appellabile poi ricorribile in Cassazione, perché definisce il giudizio dinanzi al tribunale o giudice di pace; la sentenza non definitiva, invece, è quella che nel decidere le stesse questioni potenzialmente idonee a definire il giudizio di giurisdizione, competenza, capacità processuale, ecc, ma non definisce il giudizio in quanto il processo prosegue. Se il giudice invece pronuncia una sentenza con cui afferma di avere giurisdizione, anche quella è una sentenza non definitiva, perché poi il processo proseguirà dinanzi a quel giudice. Pensiamo alle sentenze non definitive di merito (la sentenza di condanna generica o la sentenza di condanna provvisionale), l’art. 278 prevede la sentenza con cui il giudice dichiara esistente il diritto, però prosegue il processo per la determinazione del quantum, quella è una sentenza di merito perché sta pronunciando sulla domanda, quindi sulla esistenza del diritto. Lo stesso vale per la sentenza di condanna provvisionale, perché non soltanto accerta l’esistenza del diritto, ma condanna per un quantum nei limiti del quale ritiene già raggiunta la prova. Questa distinzione rileva sotto il profilo del regime di impugnazione delle sentenze perché solo per le sentenze non definitive il legislatore prevede la possibilità di differire l’impugnazione ad un momento successivo, viceversa le sentenze definitive possono essere impugnate immediatamente, altrimenti la sentenza passa in giudicato. In riferimento al cumulo delle domande può non essere semplice capire se il giudice sta pronunciando una sentenza definitiva oppure non definitiva. Se c’è un cumulo delle domande e il giudice pronuncia solo su una causa, quella dovrebbe essere definitiva, perché definisce la causa davanti a quel giudice. Però la giurisprudenza fa dipendere il carattere definitivo o non definitivo all’esistenza di un provvedimento formale di separazione, infatti il numero 5 del’art. 279 secondo comma c.p.c. dispone che quando si decide solo alcune delle cause riunite e con distinti provvedimenti il giudice dispone la separazione delle altre cause. In relazione a questa norma, per la giurisprudenza, se il giudice emette un formale provvedimento, cioè nel decidere una o più cause cumulate, e con ordinanza contestualmente dispone la separazione delle cause, solo in questo caso ci troviamo davanti una sentenza definitiva altrimenti, se manca questo provvedimento, la sentenza va ritenuta non definitiva. Il provvedimento formale di separazione la giurisprudenza equipara la condanna alle spese, per cui se manca un provvedimento formale di separazione, ma nella sentenza il giudice decide una delle cause cumulate e condanna alle spese, quello è indice del carattere definitivo della sentenza, perché la condanna alle spese si ha solo quando il giudizio si chiude davanti al giudice. Per quanto riguarda i requisiti formali della sentenza il primo comma dell’art. 132 (contenuto della sentenza) determina i requisiti minimi: “La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano e reca l’intestazione: Repubblica Italiana. Essa deve contenere: 1) l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata; 2) l’indicazione delle parti e dei loro difensori; 3) le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle parti; 4) la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione (questo punto è stato

sostituito dalla legge 69/2009); 5) il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice.” Come avviene per gli atti di parte, la mancanza di uno di questi requisiti non comporta automaticamente la nullità della sentenza, infatti l’art. 156 (Rilevanza della nullità) dispone: “Non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge. Può tuttavia essere pronunciata quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. La nullità non può mai essere

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pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.” Trasformando la frase in positivo, la sentenza è nulla solo se la mancanza di un requisito essenziale non permette il raggiungimento dello scopo e un esempio è la mancata motivazione, anche in virtù dell’art. 111 Cost., perché se la sentenza non è motivata la parte non può neanche sapere se sia giusta. La sentenza è nulla anche se manca il dispositivo, ma soprattutto la mancata sottoscrizione del giudice, infatti l’art. 161 secondo comma (nullità della sentenza) addirittura la considera inesistente, tanto che questo vizio può essere fatto valere sempre, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza. La mancata sottoscrizione del giudice ha creato problemi soprattutto per le sentenze collegiali, perché se uno dei componenti del collegio dimenticava di sottoscrivere la sentenza, l’omissione era ritenuta un vizio insanabile, infatti nel 1977 è intervenuto il legislatore prevedendo che la sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta soltanto dal presidente e dal giudice che materialmente la estende (art. 132 ultimo comma), cioè il giudice estensore. “Se il presidente non può sottoscrivere per morte o per altro impedimento, la sentenza viene sottoscritta dal componente più anziano del collegio, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l’impedimento; se l’estensore non può sottoscrivere la sentenza per morte o altro impedimento è sufficiente la sottoscrizione del solo presidente, purché prima della sottoscrizione sia menzionato l’impedimento (art. 132 ultimo comma).” Con riferimento alle sole decisioni collegiali, questa fase è segreta in cui il collegio si ritira in camera di consiglio e delibera la sentenza e non dovrebbe restare traccia di quello che succede all’interno della camera di consiglio. Il legislatore con la legge 117/88, quella sulla responsabilità civile del magistrato, ha previsto che resti traccia di questo aggiungendo all’art. 131 l’ultimo comma: “Dei provvedimenti collegiali è compilato sommario processo verbale, il quale deve contenere la menzione della unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su ciascuna delle questioni decise. Il verbale, redatto dal meno anziano dei componenti togati del collegio e sottoscritto da tutti i componenti del collegio stesso, è conservato a cura del presidente in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio.” Fino al 1989 questo sommario processo verbale doveva essere compilato sempre, ma la Corte costituzionale, con la sentenza n. 18 del 1989, ha dichiarato questa norma illegittima stabilendo che venga compilato solo se uno dei componenti è dissenziente e ne faccia richiesta esplicita, al fine di evitare una sua responsabilità se vi è dolo o colpa grave del giudice. In questo modo il componente dissenziente si tutela manifestando il suo dissenso, di cui resta traccia in questo plico sigillato che potrà essere utilizzato solo se viene proposta una azione di responsabilità contro il collegio. Nel momento in cui la sentenza viene depositata in cancelleria diventa giuridicamente esistente, pertanto da questo momento decorre il termine lungo (sei mesi) per impugnarla e la sentenza diventa immodificabile e irrevocabile da parte del giudice che l’ha emessa e questo è un ulteriore elemento di diversità fra la sentenza egli altri provvedimenti del giudice. L’ordinanza Relativamente agli altri provvedimenti del giudice, cioè l’ordinanza e il decreto, la prima differenza consiste nel fatto che questi non dovrebbero essere provvedimenti idonei a decidere il giudizio, in quanto l’ordinanza è un provvedimento utilizzato dal giudice per assicurare l’ordinato svolgimento del processo e per risolvere questioni fra le parti, non a definire il giudizio ai sensi dell’art. 279. Pensiamo alla contestazione dell’ammissibilità di un mezzo di prova che una parte ha chiesto e l’altra ritiene inammissibile e il giudice potrebbe riservarsi di decidere e su questa questione: in ogni caso la decisione che riguarda il processo è presa con ordinanza. Anche questa regola presenta delle eccezioni, prevista da ordinanze che hanno un contenuto decisorio, ad esempio le ordinanze anticipatorie di condanna art. 186 bis, ter, quater, che anticipano gli effetti esecutivi della sentenza. L’ordinanza (a differenza del decreto) presuppone il contraddittorio fra le parti ed è succintamente motivata e quindi la differenza fra ordinanza e

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sentenza sta nel fatto che mentre la sentenza deve indicare le ragioni di fatto e di diritto, la motivazione della ordinanza è più snella, proprio per questo il legislatore in alcuni casi espressamente previsti dalla legge prevede che il giudice provveda con ordinanza, perché motiva più rapidamente soddisfando esigenze di celerità e deflattiva del contenzioso. L’ordinanza può essere pronunciata in udienza, e in questo caso è inserita nel processo verbale, se invece viene pronunciata fuori dall’udienza è scritta in calce al processo verbale oppure su foglio separato munito della data della sottoscrizione del giudice, ma quando è collegiale è sufficiente la sottoscrizione del presidente (art. 134 c.p.c.). Se resa in udienza l’ordinanza si presuppone conosciuta dalle parti, se resa fuori udienza (ad esempio quando il giudice si riserva di decidere sull’ammissibilità di un mezzo di prova e quindi terminata l’udienza dopo scioglie la riserva) dovrà essere comunicata alle parti, salvo la legge non ne prescriva la notificazione (art. 134). Altra caratteristica delle ordinanze è la modificabilità e revocabilità da parte del giudice che le ha emesse, lo stabilisce l’art. 177 c.p.c. (effetti e revoca delle ordinanze) disponendo che le ordinanze comunque motivate, non possono mai pregiudicare la decisione della causa e possono essere sempre modificate o revocate dal giudice che le ha pronunciate. Le uniche eccezioni alla modificabilità e revocabilità sono rappresentate da tre ipotesi previste dall’art. 177: 1) l’ordinanza sia pronunciata su accordo fra le parti, la modifica oppure la revoca può avvenire solo se tutte le parti sono d’accordo e chiedono modifica; 2) se l’ordinanza viene dichiarata espressamente non impugnabile dalla legge; 3) non sono modificabili oppure revocabili, solvo eccezioni, le ordinanze per le quali la legge prevede uno speciale mezzo di impugnazione che è il reclamo. Il decreto Spesso il decreto viene assimilato a un provvedimento amministrativo con cui il giudice si occupa di aspetti concreti che riguardano la causa, l’assegnazione, ecc. Il decreto, ex art. 135, può essere pronunciato d’ufficio o su istanza, anche verbale, della parte e se è pronunciato su ricorso viene scritto in calce al medesimo, mentre quando l’istanza è proposta verbalmente se ne redige il processo verbale dentro il quale viene inserito il decreto. Diversamente dalla sentenza e dall’ordinanza il decreto non è motivato, tranne se la legge non prevede espressamente la motivazione, viene datato e sottoscritto dal giudice e quando è collegiale dal presidente. Il decreto, di regola, non ha natura decisoria, perché ci sono delle eccezioni; ad esempio il decreto ingiuntivo con cui il giudice ingiunge il pagamento di una somma che benché reso in forma di decreto motivato, perché è prevista la motivazione, è comunque un provvedimento decisorio. Altra peculiarità del decreto, che lo differenza dalla sentenza e dall’ordinanza, è che di regola viene pronunciato senza essere preceduto dal contraddittorio delle parti e anche qui, di regola, viene considerato non modificabile e non revocabile, salvo sia espressamente stabilito dalla legge; inoltre il decreto è immediatamente efficace nel momento in cui viene a giuridica esistenza e il giudice provvede. La comunicazione e la notificazione I due atti tipici degli ausiliari del giudice, il cancelliere e l’ufficiale giudiziario, sono la comunicazione e la notificazione. Questi atti hanno la funzione di portare a conoscenza il destinatario di un determinato atto del processo, al fine di darne ufficialmente notizia, cioè di assicurare la conoscenza legale di un determinato atto. Tuttavia sono atti molto diversi fra loro: � la comunicazione è un atto del cancelliere, invece la notificazione è dell’ufficiale giudiziario; � solitamente la comunicazione è un atto dell’ufficio (il cancelliere procede perché previsto dalla

legge o perché glielo ordina il giudice), invece la notificazione presuppone l’istanza della parte oppure del pubblico ministero, salvo che non sia diversamente stabilito;

� con la comunicazione viene data una notizia in forma abbreviata, cioè si dà notizia ufficiale che un determinato atto è stato compiuto o che il giudice ha depositato un determinato

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provvedimento o che si è verificato un fatto del processo che incide sulla posizione processuale del destinatario della comunicazione, viceversa con la notificazione viene rilasciata copia del testo integrale dell’atto.

Quindi con la comunicazione il destinatario ha notizia del deposito del provvedimento, poi però si deve attivare per poter conoscere il testo integrale del provvedimento, invece la notifica consiste nel rilascio di una copia dell’atto per cui il destinatario conosce subito il provvedimento integralmente. Questa differenza risalta per le sentenze, infatti l’art. 133 c.p.c. secondo comma dispone: “Il cancelliere dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la firma, ed entro cinque giorni, mediante biglietto contenente il dispositivo, ne dà notizia alle parti che si sono costituite.” Quindi attraverso la comunicazione le parti sanno se la domanda è stata accolta oppure rigettata (il dispositivo), ma se vogliono conoscere le motivazioni devono andare in cancelleria per leggere la sentenza. Viceversa per la notificazione quando la sentenza viene notificata dalla parte (quella che ha interesse a far decorrere il termine breve per impugnarla) alla controparte, viene notificata copia della sentenza e quindi ne conoscere da subito il testo integrale. La comunicazione è regolata dall’art. 136 c.p.c. (comunicazioni): “Il cancelliere, con biglietto di cancelleria in carta non bollata, fa le comunicazioni che sono prescritte dalla legge o dal giudice al pubblico ministero, alle parti, al consulente, agli altri ausiliari del giudice e ai testimoni, e dà notizia di quei provvedimenti per i quali è disposta dalla legge tale forma abbreviata di comunicazione.” Bisogna fare anche riferimento all’art. 45 delle disposizioni di attuazione: “Il biglietto, col quale il cancelliere esegue le comunicazioni a norma dell'articolo 136 del codice, si compone di due parti uguali una delle quali deve essere consegnata al destinatario e l'altra deve essere conservata nel fascicolo d'ufficio.” “Il biglietto è consegnato dal cancelliere al destinatario, che ne rilascia ricevuta, o è rimesso all'ufficiale giudiziario per la notifica. Le comunicazioni possono essere eseguite a mezzo telefax o a mezzo posta elettronica nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi (art. 136 riformato nel 2005).” La comunicazione è importante perché da questa decorrono determinati termini perentori, ad esempio l’istanza di regolamento di competenza va proposta entro 30 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza con cui il giudice ha declinato la competenza con sentenza definitiva, infatti l’art. 47 c.p.c. (Procedimento del regolamento di competenza) prevede che il termine decorra dalla comunicazione e non dalla notificazione del provvedimento. Più complessa è la notificazione che presuppone l’istanza, porta a conoscenza del destinatario mediante la consegna di copia conforme dell’originale dell’intero atto notificato (art. 137 c.p.c.) e dove è molto importante l’atto dell’ufficiale giudiziario, la c.d. relata di notifica, in cui l’ufficiale giudiziario deve indicare in calce, sia all’originale dell’atto e sia alla copia attestandone la conformità all’originale: il soggetto ad istanza del quale ha effettuato la notifica, il soggetto a cui ha consegnato l’atto da notificare, eventuali ricerche che ha dovuto compiere per stabilire dove si trovasse il destinatario della notifica, deve datare e sottoscrivere la relata, pertanto attraverso la sottoscrizione l’ufficiale giudiziario si assume la paternità dell’atto che ha compiuto, La relata di notifica ha valore di atto pubblico (art. 2700 c.c.), cioè fa piena prova della provenienza del pubblico ufficiale che ha effettuato la notifica e del destinatario e di tutte le attività documentate nella relata ai sensi dell’art 148 c.p.c. (relazione di notificazione). La notifica è un atto autonomo rispetto al provvedimento notificato: la notifica può essere valida, ma può essere viziato l’atto notificato. Pensiamo alla notificazione dell’atto di citazione che può essere nullo per un vizio formale, ma la notifica resta valida, oppure, al contrario, l’atto di citazione può essere valido e nulla la notifica. Tra l’ipotesi di nullità della notifica rientra il caso in cui l’ufficiale giudiziario consegni l’atto in mani del destinatario fuori dal distretto a cui è addetto, perché anche l’ufficiale giudiziario come il

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giudice ha una sua competenza territoriale, potendo operare soltanto all’interno del mandamento in cui ha sede l’ufficio giudiziario a cui è addetto, altrimenti la notifica è nulla. Tuttavia il legislatore prevede espressamente per l’ufficiale giudiziale la possibilità di notificare atti fuori dall’ambito della sua competenza territoriale, non attraverso la consegna in mani del destinatario, ma deva farlo attraverso il servizio postale (art. 149 c.p.c.). La disciplina delle notificazioni è articolata e complessa con diverse norme del codice di procedura civile tra cui gli articoli dal 137 al 151, l’art. 160 sulla nullità della notificazione, l’art. 170 che disciplina le notifiche in corso di causa al difensore procuratore costituito dalle parti. A queste norme si aggiungono le leggi speciali ed internazionali, infatti oggi la notifica fatta a mezzo del servizio postale, è sempre regolata dall’art. 149 c.p.c., però secondo le modalità di dettaglio contenute nella legge 890/92. La trasmissione a mezzo del servizio postale è regolata dall’art 149 c.p.c. però la parte più cospicua la troviamo nella legge del 92, modificata sia nel 2005 e nel 2008 con la legge 31. Questa era una delle forme preferite è la notificazione a mezzo del servizio postale (quando non vi è espresso divieto della legge), essendo il compito dell’ufficiale giudiziario molto ridotto perché si limita a scrivere “la relazione di notificazione sull'originale e sulla copia dell'atto, facendovi menzione dell'Ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento. Quest'ultimo è allegato all'originale (art. 149 c.p.c.).” Il problema di questa forma di notifica è che non sempre c’era certezza del momento in cui la notifica poteva considerarsi eseguita, perché la notifica è eseguita nel momento in cui il destinatario ha conoscenza legale dell’atto, però le Poste non danno certezza sui tempi di consegna dell’atto da parte del postino e questo era un grande rischio per la parte che lo deve notificare entro un termine perentorio a pena decadenza. Ad esempio la notifica di un atto di appello ben oltre i 30 giorni dalla notifica della sentenza, col rischio che la parte si vedeva preclusa la possibilità di poter impugnare la sentenza per un fatto non dipendente dalla sua volontà. Opportunamente è intervenuta la Corte costituzionale, con sentenza 26 novembre 2002, n. 477, dichiarando illegittimo l’art. 49 (corrispondente all’art 4 della legge 890/92) ha stabilito che, ai fini dei termini per presentare ricorso, la notifica si perfeziona nel momento in cui consegna l’atto all’ufficiale giudiziario e non quello in cui viene ricevuto dal destinatario. Quindi la Corte costituzionale ha operato una scissione dei momenti in cui la notifica si perfeziona al momento della consegna e l’eventuale ritardo non rileva quando decorrono dei termini perentori a partire dalla notifica, invece per il destinatario la notifica si perfeziona nel momento in cui ha conoscenza legale dell’atto. Questa sentenza della Consulta è stata fatta propria dal legislatore del 2005 che ha modificato l’ultimo comma dell’art. 149 confermando il disposto della Corte costituzionale: “La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell'atto.” Sebbene la questione è controversa, secondo la tesi preferibile la scissione degli effetti tra quelli del soggetto notificante e il destinatario, dovrebbe valere solo ai fini di impedire al notificante di incorrere in decadenza e non anche agli atti effetti. Poi c’è la possibilità per gli avvocati di notificare direttamente gli atti, anche se per le complicazioni che comporta, questa novità introdotta nel 1994 non ha avuto grande successo. A livello europeo c’è la convenzione dell’Aja del 15/11/1965 sulla notifica all’estero degli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale, il regolamento n. 1348/2000 sulla comunicazione degli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale e il regolamento 1206/2001 sulla cooperazione fra autorità giudiziarie degli stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile e commerciale. I tre momenti fondamentali del procedimento di notifica sono: � L’impulso. “Le notificazioni, quando non è disposto altrimenti, sono eseguite dall’ufficiale

giudiziario, su istanza di parte o su richiesta del pubblico ministero o del cancelliere (art. 137 c.p.c. primo comma).”

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� La modalità di consegna dell’atto. La notifica può avvenire per consegna in mani proprie (art. 138 c.p.c.), a mezzo del servizio postale e, dal 2009, anche posta elettronica certificata, ma occorre il consenso degli avvocati.

� La relata di notifica. La documentazione di tutto questo complesso procedimento fatta dall’ufficiale giudiziario.

La forma privilegiata è la notifica in mani del destinatario, ex art. 138: “L'ufficiale giudiziario esegue la notificazione di regola mediante consegna della copia nelle mani proprie del destinatario, presso la cosa di abitazione oppure, se ciò non è possibile, ovunque lo trovi nell'ambito della circoscrizione dell'ufficio giudiziario al quale è addetto. Se il destinatario rifiuta di ricevere la copia, l'ufficiale giudiziario ne dà atto nella relazione, e la notificazione si considera fatta in mani proprie.” Questa è la forma privilegiata di notifica in quanto può avvenire direttamente nelle mani del destinatario nella sua casa d’abitazione o dovunque venga trovato. Ciò che conta è esclusivamente la conoscenza legale dell’atto notificato e a nulla rileva accertare se il destinatario abbia effettivamente conosciuto l’atto, in quanto la notifica si da per eseguita anche se il destinatario non venga a conoscenza effettiva. Nel momento in cui non sia possibile effettuare la notifica nelle mani del destinatario, “la notificazione deve essere fatta nel comune di residenza del destinatario, ricercandolo nella casa di abitazione o dove ha l'ufficio o esercita l'industria o il commercio (art. 139 c.p.c.).” Se il destinatario non viene trovato, l'ufficiale giudiziario consegna copia dell'atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all'ufficio o all'azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace. In mancanza di questi, la copia è consegnata al portiere dello stabile dove è l'abitazione, l'ufficio o l'azienda, e, quando anche il portiere manca, a un vicino di casa che accetti di riceverla. Il portiere o il vicino deve sottoscrivere una ricevuta e l'ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione dell'atto, a mezzo di lettera raccomandata e questa è un ulteriore garanzia, perché ci si allontana dalle persone vicine al destinatario. Nella relata di notifica, il pubblico ufficiale dovrà indicare le ragioni per le quali è stata notificata ad una persona invece di un'altra posta prima nella graduatoria stabilita dall’art. 139. Se il destinatario vive abitualmente a bordo di una nave mercantile, l'atto può essere consegnato al capitano o a chi ne fa le veci. Quando non è noto il comune di residenza, la notificazione si fa nel comune di dimora, e, se anche questa è ignota, nel comune di domicilio, osservate in quanto è possibile le disposizioni precedenti. Se alla fine di tutte queste operazioni il destinatario non è reperibile oppure è incapace o si rifiuti di ricevere l’atto, l’art. 140 stabilisce: “Se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nell'articolo precedente, l'ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del destinatario, e gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento.” L’art. 142 primo comma c.p.c. si occupa del caso che il destinatario dell’atto si trovi all’estero “… Se il destinatario non ha residenza, dimora o domicilio nello Stato e non vi ha eletto domicilio o costituito un procuratore a norma dell'art. 77, l'atto è notificato mediante spedizione al destinatario per mezzo della posta con raccomandata e mediante consegna di altra copia al Ministero degli affari esteri per la consegna alla persona alla quale è diretta.” Questa norma va integrata sia con il regolamento n. 1348/2000, se la notifica deve avvenire nell’Unione Europea, che con la convenzione dell’Aja del 15/11/1965 per i casi in cui la notifica deve avvenire al di fuori dell’Unione. Un'altra ipotesi so ha quando il destinatario dell’atto abbia eletto il proprio domicilio, per la notificazione degli atti, presso una persona o un ufficio: “La notificazione degli atti a chi ha eletto domicilio presso una persona o un ufficio può essere fatta mediante consegna di copia alla persona o al capo dell'ufficio in qualità di domiciliatario, nel luogo indicato nell'elezione. Quando l'elezione di domicilio è stata inserita in un contratto, la notificazione presso il domiciliatario è obbligatoria, se così è stato espressamente dichiarato (art. 141 c.p.c.). …”

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Aspetto importante è quello previsto dall’art. 170 c.p.c., notificazioni e comunicazioni nel corso del processo, nel caso in cui la parte sia costituita a mezzo di procuratore, perché in corso di causa tutti gli atti vengono notificati al difensore costituito per la parte e non alla parte personalmente, salvo che non sia espressamente previsto dalla legge, cioè solo per gli atti del processo per i quali la legge prevede la notifica alla parte personalmente, altrimenti vanno notificati tutti al difensore costituito. Ultima ipotesi presa in considerazione dal codice è quella in cui non siano noti né la residenza, né il domicilio, né la dimora del destinatario e non ci sia un procuratore ai sensi dell’art 77, in questo caso l’ufficiale giudiziario esegue la notificazione attraverso tre momenti (art. 143 c.p.c.): deposito della copia dell’atto nella casa comunale dell’ultima residenza oppure, se è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario80. “Per le amministrazioni dello Stato si osservano le disposizioni delle leggi speciali che prescrivono la notificazione presso uffici dell'Avvocatura dello Stato. (art. 144 c.p.c. primo comma).” Per le persone giuridiche il legislatore del 2005 ha introdotto nell’art. 145 c.p.c. una semplificazione della procedura di notifica: “La notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell'atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa ovvero al portiere dello stabile in cui è la sede. La notificazione può anche essere eseguita, a norma degli articoli 138, 139 e 141 (come per le persone fisiche), alla persona fisica che rappresenta l'ente qualora nell'atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale.” Quindi l’ufficiale può scegliere tra l’una o l’altra modalità di esecuzione della notifica e in maniera simile dispone il secondo comma per la notificazione alle società che non hanno personalità giuridica. L’ultima forma di notificazione presuppone un numero rilevante di destinatari oppure quando non sia semplice identificarli tutti ed è la notificazione per pubblici reclami - art. 150 c.p.c.: “Quando la notificazione nei modi ordinari e' sommamente difficile per il rilevante numero dei destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti, il capo dell'ufficio giudiziario davanti al quale si procede può autorizzare, su istanza della parte interessata e sentito il pubblico ministero, la notificazione per pubblici proclami. …”

LA NULLITÀ PROCESSUALE Il procedimento è un modo speciale di combinarsi di una serie di atti e si caratterizza per il fatto che gli effetti della sequenza vengono prodotti dall’atto finale e nello stesso tempo ogni singolo atto è concatenato con quello precedente e successivo, quindi se gli effetti si hanno soltanto con l’atto finale, ogni singolo atto di per sé è il presupposto per quello successivo e presuppone un atto precedente; salvo l’atto iniziale e l’atto finale, perché l’atto iniziale non ha un presupposto, ma presuppone soltanto quello successivo e l’atto finale che non presupporrà ovviamente ulteriori atti, ma produrrà tutti gli effetti. Da questa caratteristica degli atti processuali che quindi formano e danno vita ad un procedimento, nasce anche una sorta di diversa valutazione dell’atto processuale perché se l’atto giuridico in senso stretto rileva nella teoria generale degli atti, quindi nel nostro sistema del diritto, rileva per il contenuto, per la volontà, per la forma, nel caso di atti processuali e quindi di atti inseriti in un procedimento, l’elemento della volontà viene letto diversamente, infatti non si tratta della volontà dei fini come avviene nel negozio giuridico, ma semplicemente della volontarietà del comportamento, cioè un atto processuale deve dimostrare che gli è doluto per porre in essere successivamente un altro atto processuale e quindi giungere alla fine, all’atto finale per eccellenza che è la sentenza e quindi per produrre gli effetti di questa. Quindi la valutazione dell’atto processuale non è diretta alla valutazione di una volontà intesa in senso proprio, ma semplicemente della volontarietà di quel comportamento e la volontarietà di quel comportamento sta nel fatto che si è voluto porre in essere quell’atto, per poi porre in essere l’atto

80 Il periodo restante “mediante affissione di altra copia nell’albo dell’ufficio giudiziario davanti al quale si procede” è stata abrogato dal d.lgs. 196/2003 (legge sulla privacy).

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successivo; cioè porre in essere un atto di citazione, che è l’atto introduttivo iniziale del processo ordinario di cognizione, la volontarietà sta nel fatto che è diretta ad ottenere poi una iscrizione a ruolo della causa e quindi successivamente una comparsa di costituzione e di risposta, ecc. La volontarietà del comportamento in un atto processuale lo si evince dalla forma che questo ha, cioè deve avere tutti i requisiti attraverso i quali si può ritenere che l’atto posto in essere è diretto ad un altro successivo e quindi ne costituisce il presupposto. Per la nullità degli atti processuali è importante fare una distinzione tra: nullità formale ed extra formale. La nullità formale degli atti è la nullità dei singoli atti, invece la nullità extra formale consiste nella carenza di un presupposto processuale. Per quanto riguarda la nullità dei singoli atti l’art. 156 c.p.c. (Rilevanza della nullità) adotta una nozione di nullità e di invalidità diversa da quella della teoria generale del processo, perché stabilisce che l’invalidità dell’atto si ha in due ipotesi concorrenti: � nel caso in cui la nullità è espressamente prevista dalla legge; � quando la mancanza di un elemento, pur non essendo previsto come motivo di nullità, rende

l’atto inidoneo al raggiungimento dello scopo. Quindi c’è una non coincidenza tra quella l’invalidità e l’inefficacia dell’atto e sotto questo profilo dobbiamo distinguere quattro punti: � Prima ipotesi: abbiamo un atto valido ed efficace e questo non pone problemi perché qui la

previsione normativa e la teoria generale coincidono, la fattispecie è completa e l’atto è valido ed efficace.

� Seconda ipotesi: l’atto è valido, ma è inefficace. Potrebbe sembrare una contraddizione del legislatore, ma non è così perché l’inefficacia ci può essere pur essendo l’atto valido, ma è un’inefficacia temporanea e quindi non idoneo a produrre gli effetti. Un esempio è la legge che, una volta pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, non entra immediatamente in vigore e quindi non produce subito i suoi effetti, essendoci una vacatio legis di 15 giorni per cui l’efficacia è sospesa. Un'altra esempio le sentenze di divorzio che sono efficaci solo nel momento in cui sono passate in giudicato, l’atto è valido però non produce immediatamente efficacia, l’efficacia è sospesa.

� Terza ipotesi: l’atto è invalido e tuttavia è efficace ed quello che riguarda gli atti processuali. Questa combinazione deve prevedere che l’atto invalido, ma efficace possa essere eliminato, cioè che vi sia la possibilità di una impugnativa dell’atto, cioè di far accertare l’invalidità e quindi a caducarne gli effetti. Un esempio nel diritto sostanziale è l’annullamento del contratto (il contratto è valido si può esercitare l’azione di annullamento entro determinati termini) oppure il provvedimento amministrativo illegittimo (produce i suoi effetti, ma può essere impugnato davanti agli organi della giustizia amministrativa). Lo stesso avviene per la nullità nel diritto processuale, perché quella che nel diritto sostanziale si chiama annullabilità, nel diritto processuale è denominata nullità. L’invalidità dell’atto processuale consiste nel fatto che esso, pur invalido produce i suoi effetti, ma è suscettibile di essere impugnato e quindi rimosso attraverso una pronuncia, che ha anche carattere costitutivo perché toglie degli effetti che per il momento si stanno producendo.

� Quarta ipotesi: l’atto è invalido e inefficace. In questo caso non è necessario esercitare un’azione di impugnativa nel termine prefissato, in quanto è sufficiente far constatare in ogni tempo e con ogni mezzo che gli effetti di quell’atto non si sono prodotti. Questa è la nullità vera e propria nel diritto sostanziale che corrisponde nel diritto processuale alla inesistenza degli atti. Quindi un atto processuale è inesistente se è invalido e inefficace, nel senso che manca di tutti quegli elementi necessari affinché possa essere considerato minimamente valido.

Nella combinazione fra invalidità ed efficacia, l’atto produce i suoi effetti che però possono essere rimossi e questo fenomeno si riferisce l’art. 156, me ne sono esclusi tutti i vizi extra formali, cioè l’inesistenza dell’atto per la quale non abbiamo una disciplina che possa portare alla convalida degli atti inesistenti, eccetto l’art. 161 al secondo comma in relazione alla sentenza.

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Con il primo comma dell’art. 156 si pone il principio di tassatività delle nullità, però a questa previsione è dato ampio respiro dal secondo comma in base al quale, anche ove la nullità non sia prevista dalla legge può essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. A sua volta, il terzo comma dell’art. 156 corregge in senso restrittivo l’applicazione del principio di tassatività delle nullità: “La nullità non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.” Quindi le tre regole poste dall’art. 156 si articolano in questo modo: I. l’atto è nullo quando lo prevede la legge (primo comma);

II. l’atto è nullo anche se la legge non lo prevede, quando non ha gli elementi indispensabili per il raggiungimento dello scopo (secondo comma);

III. la nullità non può essere pronunciata, nonostante sia prevista dal primo comma, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato (terzo comma), questo significa che il raggiungimento dello scopo sana il vizio o la carenza prevista dalla legge a pena di nullità.

Il raggiungimento dello scopo, ove carente, come ulteriore motivo di invalidità, e ove presente come motivo di sanatoria, non va inteso come produzione dell’effetto giuridico, sarebbe ragionare come segue: l’atto ha raggiunto il suo scopo quando ha prodotto i suoi effetti, poiché gli atti, ancorché nulli producono comunque i loro effetti, finché tali effetti non sono rimossi, quindi ricollegare il raggiungimento dello scopo alla produzione degli effetti significa negare la stessa categoria della nullità. Lo scopo a cui si riferisce l’art. 156 è diverso dall’effetto giuridico che produce l’atto, per cui la sanatoria per il raggiungimento dello scopo va cercata in un’altra direzione, cioè nel verificarsi di un evento materiale che sana l’atto viziato. Quindi il legislatore prevede la presenza di un certo requisito dell’atto, a pena di nullità, perché vuole rendere possibile il verificarsi di un determinato evento e se questo evento si verifica l’atto è sanato, nonostante sia carente di quel requisito. Per esempio l’atto di citazione è valido se è possibile iscrivere la causa a ruolo e se è valido il convenuto si costituisce e pone in essere un altro atto processuale che è la comparsa di risposta. Stando così le cose la regola e che ognuno degli atti processuali deve avere un contenuto minimo, ad esempio l’atto di citazione deve contenere il nome del tribunale, il nome delle parti, la causa petendi, il petitum, perché sono tutti elementi che consentono di porre in essere l’atto successivo che è la iscrizione a ruolo, in quanto non scrivere qual è il tribunale, la causa petendi, chi sono le parti significa non poter iscrivere la causa a ruolo, cioè non posso porre in essere l’atto processuale successivo. Quindi il legislatore prevede una serie di requisiti per l’atto in quanto è diretto a porre in essere un atto processuale successivo e questo si riverbera nella disciplina e nel regime delle nullità, perché ex art. 156 gli atti sono nulli se mancano del requisito stabilito dalla legge, però se producono il loro scopo (ad esempio se l’atto di citazione non riporta qual è il tribunale, ma il convenuto si presenta ugualmente l’atto ha raggiunto lo scopo) l’atto può essere sanato. Diverso è il caso della inesistenza degli atti, dove il vizio è talmente grave che l’atto non è proprio venuto ad esistenza ed è il caso della sentenza che manca della sottoscrizione del giudice o la mancanza di presupposti processuali (nullità extra formale), perché se c’è un litisconsorzio necessario che non è stato rispettato, tutti gli atti del procedimento sono nulli, perché lì il processo non può neanche partire. Per far valere la nullità degli atti interviene l’art. 157 (Rilevabilita' e sanatoria della nullità). All’interno del processo di cognizione lo strumento che introduce la questione di nullità è l’eccezione processuale ed è diversa dall’eccezione di merito perchè non si tratta di introdurre fatti modificativi, impeditivi, estintivi, ma è un’eccezione di rito. L’eccezione processuale relativa alla nullità funziona al contrario dell’eccezione di merito: mentre la regola è che il giudice può rilevare tutte le eccezioni di merito, salvo quelle in senso stretto rilevate alla parte, al contrario per le eccezioni processuali il giudice non può rilevare la nullità degli atti, ma è lasciata direttamente all’iniziativa delle parti, salvo i casi in cui la leggi demandi al

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giudice la rilevabilità della nullità e in quel caso abbiamo un caso di nullità assoluta. La parte deve rilevare l’esistenza della nullità con l’atto immediatamente successivo e la nullità non può essere rilevata dalla parte che ha dato causa alla nullità stessa. La nullità degli atti del processo influisce in linea di massima sull’atto finale, perché tutti gli atti del processo sono compiuti in funzione di questo e quindi sulla sentenza oppure dalla sentenza sono assorbite tutte le nullità che si sono avute nel corso del processo. La ripercussione delle nullità degli atti del processo sulla sentenza dà luogo ad un fenomeno di nullità derivata della sentenza che è nulla in quanto dipende da atti nulli, però vige il principio della conversione in motivo di impugnazione delle nullità. Se la nullità non viene rilevata nell’atto successivo può essere che si riverberi anche sull’atto successivo e quindi su tutti quanti gli atti che seguono a quello nullo fino ad arrivare alla nullità della sentenza, ma le parti hanno sempre la facoltà di sollevare la questione di nullità. Se durante il processo non è stata sollevata la questione di nullità, tutte le nullità che si possono essere verificate confluiscono nell’atto finale che è la sentenza, quindi la parte a quel punto ha la possibilità di impugnare la sentenza anche per motivi di nullità, quindi tutti i casi di nullità si convertono in motivi di impugnazione, perciò se viene impugnata la sentenza ci sarà un giudizio su quei motivi di nullità, in caso contrario la sentenza passerà in giudicato e tutti i vizi verranno ad essere sanati.

IL PROCESSO ORDINARIO DI COGNIZIONE Il processo ordinario di cognizione è il modello processuale più importante nel nostro sistema ed è regolato nel libro II del codice di procedura civile ed è diretto a fornire la tutela dichiarativa che si contrappone alla tutela esecutiva e cautelare. È un processo ordinario di cognizione in quanto è il modello standard (regolato dagli artt. 163 e ss.), perché ci sono i processi di cognizione c.d. speciali come il processo del lavoro, il processo societario, il procedimento per le infrazioni al codice della strada regolato anche dalla legge speciale n. 689/1981, il processo delle locazioni. Il processo ordinario di cognizione offre una tutela dichiarativa, quindi una sentenza di accertamento o eventualmente di condanna, e si svolge in più fasi: l'introduzione del processo, la costituzione delle parti all'interno del processo, una fase di trattazione, una fase eventuale di istruzione probatoria e la fase della decisione. Essendo un processo a cognizione piena, il giudice deve poter avere tutti elementi per poter valutare, pienamente ed in contraddittorio con le parti, la richiesta di tutela formulata dall'attore per poter arrivare ad una sentenza. La fase eventuale è quella della istruzione probatoria, in quanto può essere che il diritto, per il quale si chiede tutela, non necessiti di prove per l'esistenza del diritto stesso o comunque non necessiti di un'istruzione probatoria diretta a fornire al giudice quegli elementi necessari per la decisione di merito. L'eventualità dell’istruzione probatoria sta in capo al potere del giudice che ha nel dirigere il processo, perché le parti possono richiedere di assumere determinati mezzi di prova, ma è il giudice a valutare se è necessario assumere i mezzi di prova (quindi se ammettere o stralciare la fase dell’istruzione probatoria) apportati nel processo dalle parti. Le parti possono indicare, nei rispettivi atti introduttivi, i mezzi di prova, ma per essere ammessi all’istruzione probatoria subiscono un vaglio da parte del giudice il quale dovrà esprimere un giudizio sulla loro rilevanza e ammissibilità. Quindi la fase dell’istruzione probatoria si apre se se il giudice lo ritiene necessario ed è una fase ulteriore ed incidentale del processo ordinario di cognizione. Mentre la fase dell'istruzione probatoria è una fase eventuale, non può mancare la fase introduttiva relativa alla fase della costituzione delle parti, la fase della trattazione della controversia e la fase della decisione. Durante le fasi obbligatorie (introduzione, costituzione delle parti, trattazione, decisione) e fino alla

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trattazione della causa (art. 163 c.p.c.), abbiamo il maturare di una serie di preclusioni. All'interno del processo ordinario di cognizione le parti chiedono la tutela di un diritto fatto valere in giudizio, ma quanto le parti possono chiedere al giudice ha dei tempi precisi di presentazione, in quanto ci sono dei tempi processuali precisi da rispettare che determinano le c.d. preclusioni. Il processo ordinario di cognizione si svolge in maniera ordinata e tecnicamente precisa e in questo senso le norme (art. 163 e ss.) dettano per ognuno degli atti introduttivi a carico delle parti, per lo svolgimento, la trattazione, i tempi, le modalità e quanto le parti possono chiedere, cioè le modalità processuali attraverso le quali il giudice valuterà prima di emettere una sentenza. Lo svolgimento del processo ordinario di cognizione è sempre sotto la direzione del giudice istruttore che non ha grandi poteri nello svolgimento della trattazione, ma ha la possibilità di dirigere lo svolgimento del processo e di chiedere alle parti di volta in volta dei chiarimenti o di dover trattare determinate questioni piuttosto che altre. Quindi lo svolgimento del processo ordinario di cognizione è determinato in buona parte dall'attività posta in essere dalle parti, ma anche dalla direzione del giudice, limitatamente a quelli che possono essere i suoi poteri. Il processo ordinario di cognizione comincia con l'atto introduttivo che è il c.d. atto di citazione, regolato dall'art. 163, ed ha una duplice funzione: • individuare correttamente l'oggetto del processo, cioè la situazione sostanziale di cui si chiede

tutela al giudice e nel contempo è l’atto con cui si chiede in maniera chiara la specifica tutela richiesta al giudice;

• portare la domanda di tutela proposta dall'attore a conoscenza del giudice e della controparte e, eventualmente, di tutte le altre controparti (se vi sono più convenuti).

Nel processo a cognizione piena tutte le controparti devono essere portate a conoscenza della domanda giudiziale proposta dall'attore a garanzia del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, per cui non si può svolgere inaudita altera parte e non ci può essere una cognizione sommaria che sono caratteristiche dei procedimenti speciali. Quindi la cognizione del giudice deve essere piena ed esauriente e per essere tale ci deve essere un contraddittorio pieno di tutte le parti e la discussione deve essere esauriente su tutti i punti oggetto della causa, salvo la possibilità del convenuto di essere contumace. Alla doppia funzione corrisponde anche un doppio contenuto dell’atto di citazione perché: � una parte è relativa all'editio actionis che attiene alla prima funzione e cioè al fatto di dover

indicare di quale diritto sostanziale si chiede tutela; � l'altra parte è relativa alla vocatio in ius, cioè portare a conoscenza del convenuto e del giudice

l'esistenza della domanda giudiziale. L’atto di citazione viene regolato dall’art. 163, è l’atto introduttivo per eccellenza, viene redatto dall’attore che chiede La tutela giurisdizionale nei confronti di un determinato soggetto e quindi per ottenere una determinata sentenza e come tutti gli atti processuali il legislatore prevede una serie di requisiti e tra questi la causa petendi e del petitum sono essenziali in quanto servono per individuare in maniera esatta l’oggetto del procedimento. Per esempio l’individuazione dell’oggetto del procedimento è fondamentale ai fini della litispendenza, della continenza, connessione e vale sia per il rito in senso stretto, ma anche per il merito soprattutto alla luce dell’art. 183 per stabilire se nello svolgimento del processo un’ulteriore domanda è una domanda nuova oppure integra quella già proposta con l’atto di citazione, quindi per stabilire esattamente quel è l’oggetto del processo. Il contenuto dell’atto di citazione, cioè gli elementi che identificano nell'atto introduttivo la vocatio in ius e l’editio actionis sono assolutamente necessari, invece i vari procedimenti di cognizione, ordinario e speciali (societario, del lavoro, locatizi, ecc.), possono avere una diversa forma per l'atto introduttivo. Per esempio nel processo ordinario di cognizione l'atto introduttivo è l'atto di citazione, invece nel processo del lavoro è il ricorso per cui la diversa forma di questi atti introduttivi è determinata liberamente dal legislatore. La differenza tra questi due forme sta nel fatto che mentre l'atto di citazione è portato a conoscenza

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prima del convenuto (e di tutte le parti in genere) e poi del giudice; al contrario con il ricorso, nel processo del lavoro, viene prima depositato in cancelleria e portato a conoscenza del giudice e poi a conoscenza del convenuto. Il terzo comma dell'art. 163 stabilisce gli elementi tassativi dell’atto introduttivo: “L’atto di citazione deve contenere: 1) l’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta (l’indicazione del giudice); 2) il nome, il cognome e la residenza dell’attore, il nome, il cognome, la residenza o il domicilio o

la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono. Se attore o convenuto è una persona giuridica un’associazione non riconosciuta o un comitato la citazione deve contenere la denominazione o la ditta, con l’indicazione dell’organo o ufficio che ne ha la rappresentanza in giudizio (l’indicazione delle parti, persona fisica o giuridica, non può mai mancare);

3) la determinazione della cosa oggetto della domanda (il c.d. petitum mediato); 4) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le

relative conclusioni (la causa petendi); 5) l’indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi e in particolare dei

documenti che offre in comunicazione; 6) il nome e il cognome del procuratore e l’indicazione della procura, qualora questa sia stata già

rilasciata 7) l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione; l’invito al convenuto a costituirsi nel

termine di venti giorni prima dell’udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall’art. 166, ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire, nell’udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell’art. 168-bis, con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167.”

La causa petendi è riferita alle ragioni a fondamento della tutela giurisdizionale richiesta, cioè i fatti costitutivi di diritto fatto valere in giudizio e determina esattamente il titolo della domanda, cioè dell’atto di citazione, ed è di più difficile individuazione. La causa petendi ha un ruolo diverso seconda che nel processo ordinario di cognizione venga fatto valere un diritto autoindividuato oppure eteroindividuato. Il primo si individua di per sé, cioè attraverso il soggetto, il bene e il tipo di utilità che viene garantita, invece nel diritto eteroindividuato ci possono essere una serie di fattispecie costitutive che cambiano di volta in volta a seconda del fatto costitutivo del diritto del quale poi si chiede la tutela. Un esempio di diritto autoindividuato è quello di Tizio che agisce in rivendicazione nei confronti di Caio per un determinato immobile: i soggetti che si contendo la proprietà dell’immobile, l’oggetto del diritto è il bene conteso, il tipo di utilità è il godimento del bene. Quindi il diritto autoindividuato è il diritto di proprietà e si può anche non specificarne la provenienza (usucapione, mortis causa, un contratto), ma la domanda resta comunque individuata attraverso i soggetti, il bene e il tipo di utilità. Viceversa se Tizio agisce verso Caio per ottenere la condanna al pagamento di una somma di denaro, senza specificare se questo pagamento deriva da una rata di mutuo oppure da un rapporto di lavoro subordinato o da un incidente stradale, questo è un diritto che non è determinato. Nel processo di cognizione questa distinzione ha un'importanza diversa a seconda che si tratti di diritti autoindividuati o etero individuati. Nel primo caso il diritto è individuato anche se non si specifica il fatto costitutivo in quanto è in sé perché nell'atto di citazione la causa petendi si evince chiaramente; invece se vi è un diritto eteroindividuato e non è specificata la causa petendi nell’atto di citazione, il fatto costitutivo, la domanda non prende corpo perché sostanzialmente non è individuato l’oggetto. Se si propone una domanda autoindividuata nella quale non si specifica la causa petendi, il procedimento ordinario di cognizione potrà continuare se il giudice ritiene che non sia necessaria la dimostrazione del diritto; al contrario, se si propone una domanda eterodeterminata e non viene specificata la causa petendi, diventa incerto anche il diritto rivendicato e quindi il giudice dichiarerà

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di non potersi pronunciare sulla domanda, rigettandola in rito, perché la domanda non è stata correttamente formulata perché dall'atto di citazione non si evince qual è il fatto costitutivo posto a fondamento della domanda e quindi qual è la tutela richiesta. Quindi la causa petendi nell’atto di citazione è un elemento fondamentale perché consente di individuare esattamente l'oggetto della controversia ed è anche legato al concetto ai diritti che possono essere autodeterminati o eterodeterminati, con la conseguenza che, a seconda di quanto la causa petendi inciderà nell'atto introduttivo per la tutela di un determinato diritto sostanziale, si potrà avere una pronuncia in rito oppure una pronuncia in merito. Petitum e causa petendi costituiscono la base necessaria ed esclusiva per individuare l'oggetto della domanda, anche ai fini della trattazione della causa, e il mutamento della domanda, cioè la possibilità di modificare o integrare la domanda piuttosto che presentare una nuova o diversa domanda si regola attraverso la causa petendi e il petitum. Il n. 4 dell’art. 163 stabilisce che le parti devono indicare anche le conclusioni, cioè devono anche indicare il provvedimento che vogliono ottenere, cioè il contenuto della sentenza. L’indicazione dei mezzi di prova (art. 163 n. 5), sia nell'atto introduttivo dell’attore che nella comparsa di risposta, è libera quindi non è sottoposta a nessuna decadenza per cui l’attore non è obbligato ad anticiparli subito, perché non sa come il processo di cognizione si svilupperà e delle eventuali difese del convenuto, ma questo non gli impedisce di indicare successivamente i mezzi di prova nel rispetto delle preclusioni, quindi anche in sede di trattazione anche perché l’introduzione della domanda influenza quelle che saranno le attività difensive del convenuto o i rilievi d’ufficio che il giudice potrà fare. Quindi l'indicazione dei mezzi di prova nell’atto di citazione è libera e l’attore ne può indicare quelli che vuole e decidere anche di rinunciare ad assumere determinate prove: l’unica barriera preclusiva è l'udienza di trattazione, ex art. 183 c.p.c. che è fondamentale per definire il thema probandum (fatti controversi o comunque bisognosi di prova) e il thema decidendum (domande ed eccezioni) oggetto del processo ordinario di cognizione. Nell'atto di citazione l’attore fissa l’udienza, cioè indica direttamente e preventivamente il giorno dell'udienza di comparizione che è anche di trattazione; invece quando il processo di cognizione comincia con il ricorso, l'indicazione della data dell'udienza è stabilita direttamente dal giudice. “L'atto di citazione, sottoscritto a norma dell'art. 125, è consegnato dalla parte o dal procuratore all'ufficiale giudiziario, il quale lo notifica a norma degli artt. 137 ss. (art. 163 ultimo comma)”. “Tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell'udienza di comparizione debbono intercorrere termini liberi non minori di novanta giorni se il luogo della notificazione si trova in Italia e di centocinquanta giorni se si trova all'estero (art. 163 bis primo comma).” “L'attore, entro dieci giorni dalla notificazione della citazione al convenuto, ovvero entro cinque giorni nel caso di abbreviazione di termini a norma del secondo comma dell'articolo 163-bis, deve costituirsi in giudizio a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge, depositando in cancelleria la nota d'iscrizione a ruolo e il proprio fascicolo contenente l'originale della citazione, la procura e i documenti offerti in comunicazione. Se si costituisce personalmente, deve dichiarare la residenza o eleggere domicilio nel comune ove ha sede il tribunale. Se la citazione è notificata a più persone, l'originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall'ultima notificazione (art. 165).” La comparsa di risposta è l’atto contrario all’atto di citazione con cui il convenuto risponde. “Nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni (art. 167 primo comma)” Quindi il convenuto non dovrà porre in essere una difesa generica, ma dovrà esprimersi su tutti quei fatti costitutivi posti a fondamento della domanda attorea (dell’attore) e potrà, a sua volta, proporre fatti impeditivi, modificativi o estintivi di quelli posti a fondamento della domanda dall'attore. Quindi prendere posizione significa opporre dei fatti processualmente contrari ai fatti costitutivi posti a fondamento della domanda dall'attore.

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“Il convenuto deve costituirsi a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge, almeno venti giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione, o almeno dieci giorni prima nel caso di abbreviazione di termini a norma del secondo comma dell'articolo 163-bis, ovvero almeno venti giorni prima dell'udienza fissata a norma dell'articolo 168-bis, quinto comma, depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente la comparsa di cui all'articolo 167 con la copia della citazione notificata, la procura e i documenti che offre in comunicazione (art. 166).” Anche il convenuto dovrà dare indicazione dei mezzi di prova che, così come per l'attore nell'atto di citazione, è libera quindi potrà essere integrata o ridotta durante lo svolgimento del processo fino all'udienza di trattazione. Infine dovrà formulare le conclusioni, cioè chiedere al giudice il provvedimento che si vuole ottenere: se per esempio l’attore con l’azione di rivendica chiede di tornare in possesso del proprio bene, il convenuto potrà chiedere il rigetto della domanda. Le difese del convenuto possono essere ampliate cioè, piuttosto che proporre fatti impeditivi, modificativi o estintivi dei fatti a fondamento della domanda dell'attore può, a pena di decadenza, proporre le eventuali domande riconvenzionali (art. 167 secondo comma): “A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio. Se è omesso o risulta assolutamente incerto l'oggetto o il titolo della domanda riconvenzionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al convenuto un termine perentorio per integrarla. Restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti anteriormente alla integrazione.” Quindi il convenuto può, oltre che presentare una domanda contraria a quella dall’attore con l’atto di citazione, può estendere la sua difesa ad una domanda riconvenzionale; significa che la sentenza dovrà riguardare non solo sulla domanda proposta dall'attore, ma anche su quella ulteriore proposta dal convenuto e quindi il giudice si dovrà pronunciare su due domande. Tuttavia se nella domanda riconvenzionale è omesso o è incerto l’oggetto o il titolo (petitum o causa petendi) della causa, il giudice “fissa all'attore un termine perentorio per rinnovare la citazione o, se il convenuto si è costituito, per integrare la domanda (art. 164 c.p.c.).” Ma l’effetto è ex nunc significando che gli effetti sostanziali e processuali della domanda maturano dal momento della sua integrazione. Art. 167 terzo comma: “Se intende chiamare un terzo in causa, il convenuto, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e provvedere ai sensi dell'art. 269”. Il convenuto con la comparsa di risposta può allargare il processo anche da un punto di vista soggettivo, ad esempio la chiamata in garanzia, chiamando un terzo in causa con una dichiarazione nella comparsa e chiedendo al giudice, ex art. 269, lo spostamento dell'udienza di trattazione. In sostanza la domanda riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio, quindi a stretta istanza di parte, nonché la chiamata in causa del terzo, sono attività processuali che il convenuto deve svolgere solo se si costituisce 20 giorni prima dell'udienza fissata nell'atto di citazione. Per cui queste attività del convenuto sono sottoposte a decadenza nel senso che per essere esercitate il convenuto si deve costituire in cancelleria 20 giorni prima dell'udienza depositando in cancelleria la comparsa di risposta. Il convenuto può anche costituirsi direttamente all'udienza di trattazione, ma in questo caso non potrà allargare il giudizio estendendo le sue difese alla domanda riconvenzionale, alla chiamata del terzo o alla proposizione di eccezioni processuali di merito non rilevabili d'ufficio. Questa preclusione iniziale non opera per quanto riguarda l’indicazione delle prove, perché può essere fatta dalle parti, dall’attore nell’atto di citazione e dal convenuto nella comparsa di risposta in libertà, cioè possono essere indicate subito o anche successivamente. Dopo l'introduzione di questi atti un altro momento di scambio si ha nell'udienza di trattazione ex art. 183. Con l'atto di citazione notificato al convenuto e di conseguenza la comparsa di risposta le parti

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hanno definiscono l'oggetto della controversia nell'udienza di trattazione ex art. 183. In quest'udienza dovrà essere completato il thema decidendum, cioè le richieste effettuate dall’attore e dal convenuto ed il thema probandum, cioè tutto quello che dovrà essere in base alle richiesta, oggetto di prova definito improrogabilmente nell'ambito di quest'udienza. Con la riforma del 1990 il processo ordinario di cognizione è stato standardizzato per l'individuazione del thema probandum e del thema decidendum, attraverso gli atti iniziali e l' udienza di trattazione e con le eventuali preclusioni e quindi lo svolgimento del processo di cognizione avviene in questi tre fondamentali momenti. Chiuso il processo di trattazione vengono definiti il thema probandum e il thema decidendum e non si può tornare indietro per cui le richieste rivolte al giudice si cristallizzano, potrebbe esserci solo una eventuale fase dell'istruzione probatoria, altrimenti l'ultimo segmento è rappresentato dalla fase della decisione che porta all’emanazione della sentenza del giudice, ma che non stravolge quanto è già stato cristallizzato negli atti introduttivi e nell'udienza di trattazione. Art. 183 (Prima comparizione delle parti e trattazione della causa) primo comma dispone: “All'udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità del contraddittorio e, quando occorre, pronuncia i provvedimenti previsti ….” Le parti si sono solo scambiati i rispettivi atti e s’incontrano per la prima volta davanti al giudice nell'udienza prefissata dall'attore nell’atto di citazione, ma prima d'iniziare a discutere il giudice controlla che l'introduzione della causa sia avvenuta in maniera regolare e cioè verifica:

se sono intervenute tutte le parti o se vi sia un caso di litisconsorzio necessario (art. 102 secondo comma)

se vi siano casi di nullità della citazione ai sensi dell'art. 164 secondo, terzo e quinto comma; la presenza di domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito art. 167, secondo e terzo comma;

eventuale presenza di difetto di rappresentanza o di autorizzazione (art. 182) cioè, verifica la corretta costituzione delle parti

l’eventuale contumacia del convenuto (art. 291 c.p.c. primo comma). Se il giudice ha la necessità di integrare il contraddittorio perché vi è un litisconsorzio necessario, dovrà indicare una nuova udienza di trattazione (art. 183 secondo comma). Se le parti congiuntamente ne fanno richiesta al giudice (art. 183 terzo comma), il giudice istruttore fissa, altresì, una nuova udienza, ex art. 185, per consente alle parti di esperire un tentativo di conciliazione e se la riconciliazione andrà a buon fine si dovrà redigere un apposito processo verbale, altrimenti si procederà con la trattazione. I primi due commi stabiliscono l'attività preliminare compiuta dal giudice prima di mettere in moto il processo, invece il terzo comma indica l’eventualità di un'ulteriore udienza per giungere ad una conciliazione della lite e se questa non avviene si passa alla trattazione. “Nell'udienza di trattazione ovvero in quella eventualmente fissata ai sensi del terzo comma, il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione (art. 183 quarto comma).” Comincia da qui la fase della trattazione, dove il giudice dirige il processo, chiede i chiarimenti necessari sui fatti allegati dalle parti negli atti introduttivi e sulle questioni rilevabili d'ufficio e dovrà pronunciare una sentenza in contraddittorio tra le parti. Fin qui, i poteri del giudice che avvia l’udienza di trattazione, dal quinto comma in poi invece, si hanno le attività che le parti possono porre in essere una volta presentati gli atti introduttivi: “Nella stessa udienza l'attore può proporre le domande (cioè una nuova domanda, la c.d. riconventio riconventionis) e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Può altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate (art. 183 quinto comma).” Quindi l’attore può proporre una riconventio riconventionis, può proporre eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal

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convenuto e può chiamare in causa un terzo se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. In sintesi vi è un’estensione dell’oggetto della causa, ma non può andare oltre l’udienza di trattazione. Tutte le attività che allargano l’oggetto del processo sono a pena di decadenza per cui mentre potranno essere svolte per il convenuto nella costituzione di risposta 20 giorni prima, per l’attore nell’udienza di trattazione e non potranno essere proposte in momenti successivi. Se il convenuto si è limitato ad una difesa sulla base della domanda dell’attore senza allargare il processo con ulteriori domande, le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate negli atti introduttivi. “Se richiesto, il giudice concede alle parti i seguenti termini perentori (art. 183 sesto comma): 1) un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o

modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte; 2) un termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate

dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali;

3) un termine di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni di prova contraria (solo nel caso che le parti hanno presentato repliche od eccezioni di cui al punto 2).

La fase descritta nel sesto comma chiude la trattazione e si svolge per iscritto solo se è richiesto dalle parti, altrimenti si svolge oralmente nell’udienza di trattazione, per cui le parti devono definire improrogabilmente le loro posizioni e perfino dei mezzi di prova in quest'udienza. In sintesi il processo di cognizione si apre con un atto di citazione ad udienza fissa, cioè l’attore fissa l'udienza nella quale comparire, mentre gli elementi del contenuto dell’atto di citazione è prefissato dal legislatore. Nell'udienza di trattazione verranno trattati, in maniera completa, il thema probandum e il thema decidendum e l’elemento fondamentale, imprescindibile, che individua concretamente la domanda dell'attore sono il petitum e la causa petendi. A fronte di questa domanda il convenuto risponde con un atto uguale e contrario che è la comparsa di risposta, art. 167, e anche in questo caso il legislatore prevede un contenuto prefissato e la possibilità di prendere posizione sui fatti posti a fondamento dalla domanda dall'attore con una difesa generica oppure proponendo una serie di eccezioni e quindi introducendo altri fatti modificativi, impeditivi, estintivi che saranno valutati dal giudice. Il convenuto ha anche la possibilità di allargare l'oggetto del processo, ma solo se si costituisce in giudizio nel termine di 20 giorni prima dell'udienza di comparizione, e consiste nel proporre una domanda riconvenzionale che si affianca a quella dell’attore, la possibilità di proporre eccezioni non rilevabili d’ufficio oppure allargare da un punto di vista soggettivo chiamando un terzo in causa. Per le parti è libera l'indicazione dei mezzi di prova nei rispettivi atti introduttivi oppure possono aspettare l’udienza di trattazione. Dopo questi atti iniziali che incardinano il processo ordinario di cognizione, le parti s'incontrano e possono discutere nell'unica fondamentale udienza di comparizione e di trattazione81 che mira a definire il thema probandum e il thema decidendum del processo. La prima attività nell'udienza di trattazione è quella del giudice che controlla la regolarità della causa, l’osservanza di tutte le regole processuali, indica le questioni da trattare e chiarire e laddove le parti ne abbiano fatta richiesta congiunta, il giudice fissa un'ulteriore udienza per esperire un tentativo di conciliazione e se fallisce il processo prosegue. Se il convenuto ha proposto domanda riconvenzionale, chiamato un terzo in causa, proposto eccezioni non rilevabili d'ufficio processuali e di merito, l'attore può proporre una riconventio riconventionis (cioè una nuova domanda collegata alla domanda riconvenzionale del convenuto), può proporre delle eccezioni conseguenti a quelle proposte dall’attore, può chiamare un terzo in causa quindi può allargare il processo, ma se il convenuto non ha allargato l’oggetto della causa, l’attore può comunque avere l’esigenza di precisare o modificare le proprie domande. 81 L’udienza di comparizione e trattazione è unica e comprende sia quella di comparizione (art. 163 bis) che di trattazione (art. 183).

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La risposta dell'attore all’udienza di trattazione è l'unico momento utile per rispondere alla comparsa di risposta del convenuto e potrà allargare il processo con nuove eccezioni oppure potrà semplicemente precisare o modificare la domanda posta nell’atto di citazione. Il tutto si svolge oralmente in udienza, ma le parti possono chiedere al giudice un termine per poter svolgere questa attività di trattazione in maniera scritta per allargare l'oggetto del processo e definire il thema probandum e il thema decidendum e per la proposizione di prove contrarie presentate dalla parte. Conclusa la fase di trattazione si può aprire eventualmente quella probatoria con cui si assumono i mezzi di prova a cui segue la fase decisoria che invece è essenziale. Nullità della citazione L'art. 164 c.p.c. regola i casi di nullità della citazione e al primo comma dispone: “La citazione è nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto alcuno dei requisiti stabiliti nei numeri 1) e 2) dell'articolo 163, se manca l'indicazione della data dell'udienza di comparizione, se è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge ovvero se manca l'avvertimento previsto dal numero 7) dell'articolo 163.” Tutti questi elementi sono relativi alla vocatio in ius, cioè alla funzione che ha l'atto di citazione di chiamare in causa il convenuto. Se manca uno dei requisiti indicati nel primo comma dell’art. 164 l'atto di citazione può essere sanato in due modi: attraverso una convalidazione soggettiva, se il convenuto si costituisce in giudizio, oppure una rinnovazione degli atti. “Se il convenuto non si costituisce in giudizio, il giudice, rilevata la nullità della citazione ai sensi del primo comma, ne dispone d'ufficio la rinnovazione entro un termine perentorio. Questa sana i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione. Se la rinnovazione non viene eseguita, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue a norma dell'articolo 307, comma terzo (art. 164 secondo comma). Se il convenuto non si costituisce in giudizio e nell’udienza di trattazione il giudice riscontra un vizio relativo alla vocatio in ius, cioè alcuni punti indicati dall’art. 163 c.p.c. che si riferiscono alla chiamata del convenuto in giudizio, per esempio l’attore dimentica di indicare l’avvertimento relativo alla mancata costituzione entro 20 giorni del convenuto oppure non indica il tribunale o le altre parti, l’atto di citazione è viziato per cui ne ordina la rinnovazione entro un termine perentorio. Quindi l’atto viene ricompilato e notificato nuovamente al convenuto ed opera come sanatoria dei vizi con efficacia retroattiva perché sana i vizi ma, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione e non della seconda, quindi è una sanatoria ex tunc (retroattiva). Però se la rinnovazione dell'atto non viene eseguita dall’attore, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue a norma dell'art. 307 e senza l’anno di quiescenza. Invece se nonostante l’atto di citazione sia viziato nella vocatio in ius, il convenuto si sia costituito in giudizio il terzo comma dell’art. 164: “La costituzione del convenuto sana i vizi della citazione e restano salvi gli effetti sostanziali e processuali di cui al secondo comma; tuttavia, se il convenuto deduce l'inosservanza dei termini a comparire o la mancanza dell'avvertimento previsto dal numero 7) dell'articolo 163, il giudice fissa una nuova udienza nel rispetto dei termini.” Quindi l'atto é sanato se il convenuto si costituisce in giudizio in quanto l’atto ha raggiunto il suo scopo, ed anche in questo caso la sanatoria ha effetti retroattivi dalla prima notificazione, come per esempio se non è indicato il tribunale, ma il convenuto si costituisce in giudizio, il vizio dell’atto di citazione viene sanato. Però se il convenuto deduce la mancanza dei termini a comparire (art. 163 bis) o la mancanza dell'avvertimento previsto dal n. 7 dell'art. 163 il giudice fissa una nuova udienza in modo che il convenuto abbia i 20 giorni necessari per dare modo al convenuto di difendersi senza cadere nelle preclusioni e decadenze che maturerebbero, se non si costituisse entro il termine dei 20 giorni prima dell’udienza di trattazione. Al quarto comma dell’art. 164 vi è il caso della citazione nulla per quanto riguarda l'editio actionis cioè la funzione della citazione, di individuare l'oggetto della domanda e la tutela che si chiede: “La citazione è altresì nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel numero

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3) dell'articolo 163 (cioè il petitum) ovvero se manca l'esposizione dei fatti di cui al numero 4) dello stesso articolo (quando manca il petitum o la causa petendi).” “Il giudice, rilevata la nullità ai sensi del comma precedente, fissa all'attore un termine perentorio per rinnovare la citazione o, se il convenuto si è costituito, per integrare la domanda. Restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione (art. 164 quinto comma).” Diversamente dal caso dei vizi inerenti alla vocatio in ius, la costituzione del convenuto non sana la nullità, infatti non determina il venir meno dell’incertezza intorno all’individuazione del diritto fatto valere e quindi della causa di nullità della citazione. Ferma quindi la considerazione che l’incertezza in merito alla proposta non può essere sanata da un’attività del convenuto, il giudice deve ordinare l’integrazione della domanda assegnando un termine perentorio e la sanatoria può quindi intervenire solo con effetto ex nunc. La sanatoria per rinnovazione opera invece nel caso di mancata costituzione del convento e sempre con efficacia ex nunc. La riforma del 2005 con l’abolizione dell’udienza di prima comparizione, il giudice all’udienza di trattazione (ormai la prima del processo) nel caso necessita integrazione della domanda, l’ultimo comma dell’art. 164 dispone che il giudice fissa una nuova udienza di trattazione per l’integrazione della comparsa di risposta e assegna un termine al convenuto non inferiore a 20 giorni prima dell’udienza. La comparsa di costituzione e risposta del convenuto è l’atto difensivo che dà subito evidenzia, proprio per il sistema di preclusioni che caratterizza il nostro processo ordinario di cognizione, le difese del convenuto e loro la portata, perché la comparsa di costituzione e risposta dipende dal momento nel quale il convenuto si costituisce. Se la costituzione avviene almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione e trattazione, è possibile per il convenuto rispondere all’atto di citazione allargando l’oggetto del processo e cioè gli consente non già di proporre solo mere difese, non già di prendere solo posizione sui fatti posti a fondamento della domanda dall’attore come dice il primo comma dell’art. 167, ma gli consente di proporre un’altra domanda connessa con la domanda principale (una domanda riconvenzionale), può chiedere la chiamata in causa del terzo, chiedendo contemporaneamente lo spostamento dell’udienza di comparizione e può proporre eccezioni non rilevabili d’ufficio. Mentre se non si costituisce almeno 20 giorni prima le eccezioni in senso stretto non possono più essere proposte, quindi allargamento delle difesa e perfino di proporre un’eccezione di prescrizione se non si è costituito almeno 20 giorni prima dell’udienza. Attraverso l’atto di citazione e attraverso la comparsa di costituzione e risposta già si designa quello che è l’oggetto del processo e tra l’altro in questi atti iniziali non è prevista la necessità di indicare da subito i mezzi di prova che possono essere indicati fino all’ultimo momento che è segnato dall’udienza di trattazione. Però c’è una grossa differenza rispetto al modello cognitivo del processo del lavoro o ancora peggio per quello societario, perché nel processo cognitivo del processo del lavoro l’indicazione dei mezzi di prova deve avvenire immediatamente a pena di decadenza, invece nel processo ordinario di cognizione la possibilità di indicare i mezzi di prova è lasciata alla discrezionalità delle parti fino al momento ultimo segnato dall’udienza di trattazione. Comunque è possibile che questo sia un disegno del convenuto, ad esempio se la questione sia di puro diritto, quindi il convenuto può ritenere utile costituirsi direttamente all’udienza, non riscontrando l’esigenza di chiamare un terzo, né di proporre domanda riconvenzionale, ma vuole solo proporre una difesa generica e può perfino restare contumace, cioè non costituirsi affatto. Questi sono i due atti iniziali e sono gli unici atti attraverso i quali le parti si parlano, da un lato notifica della citazione con i contenuti minimi stabiliti dall’art. 163, dall’altro comparsa di risposta. Il momento successivo che cristallizza in maniera definitiva, il thema decidendum e il tema probandum nell’unica udienza di comparizione e di trattazione (poi per un fatto pratico si può sviluppare in più udienze) dettata dall’art. 183. Questa è un’udienza è fondamentale ed ha la funzione di cristallizzare il thema decidendum e il

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tema probandum e dove vi sono gli ultimi scambi di battute che attore e convenuto si possono dare. A dirigere l’udienza è il giudice istruttore che non ha molti poteri, ma semplicemente dirige le fasi processuali, controlla che gli atti siano posti in essere in maniera regolare, salvo poi decidere e conoscere su delle questioni e pronunciarsi attraverso una sentenza. Proprio perché la funzione è di direzione e di controllo, l’udienza si apre con l’intervento principale del giudice istruttore e la prima cosa che fa è controllare la ritualità dell’atto di citazione e della comparsa di risposta e quindi, se per esempio l’atto di citazione manca di uno degli elementi relativi alla vocatio in ius oppure l'editio actionis, ne ordina la rinnovazione dell’atto. Il giudice fa una serie di controlli formali, cioè se c’è un litisconsorzio necessario, controlla l’atto di citazione, se ci sono le autorizzazioni per i rappresentanti oppure se c’è un valido rapporto di rappresentanza per chi sta nel processo, eccetera. Dopo i controlli da parte del giudice le parti possono chiedere congiuntamente di procedere ad una conciliazione e questo è un cambiamento che si è avuto con la riforma del 2005, perché prima il tentativo di conciliazione era obbligatorio, ora invece è lasciato alla iniziativa delle parti e in questo senso viene aperta un’apposita udienza e si tenta di conciliarsi, se la cosa non raggiunge un esito positivo si procede con la trattazione, viceversa viene redatto un verbale di conciliazione, che è anche un titolo esecutivo. Dopo il giudice, parla per primo l’attore perché le ultime difese sono nella comparsa di risposta del convenuto, per cui l’attore può, rispetto alla sua domanda principale, allargare l’oggetto del giudizio proponendo una riconventio riconventionis, eccezioni ulteriori e anche la chiamata in causa del terzo e lo può fare all’udienza di trattazione e non in un momento successivo. Resta fermo che ci deve essere una stretta congruenza tra quello che l’attore chiede e le attività poste in essere dal convenuto, perché non può stravolgere l’oggetto del giudizio e non può proporre una domanda nuova, non proposta con l’atto introduttivo. Invece il convenuto (anche lo stesso attore se decide di non proporre un’ulteriore domanda), possono precisare e modificare quanto già è stato detto con gli atti iniziali. Le richieste delle parti all’udienza di trattazione possono essere presentate oralmente oppure, la prassi è, chiedere al giudice istruttore un termine per porle per iscritto attraverso tre termini fondamentali: il primo serve all’attore per proporre una riconventio riconventionis, il secondo per replicare e precisare e modificare e per chiedere in via definitiva di quali mezzi di prova intendono avvalersi, quindi si definisce la preclusione per le richieste dei mezzi istruttori, il terzo termine serve soltanto per chiedere la prova contraria su quelle indicate con la memoria precedente dalle parti. La fase decisoria Il giudice istruttore può rimettere la causa in decisione una volta che è stata completata la trattazione ai sensi dell’art. 187 c.p.c. (Provvedimenti del giudice istruttore). Se non c’è bisogno di assumere mezzi istruttori vale la regola dettata dall’art. 187: “Il giudice istruttore, se ritiene che la causa sia matura per la decisione di merito senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio. Può rimettere le parti al collegio affinché sia decisa separatamente una questione di merito avente carattere preliminare, solo quando la decisione di essa può definire il giudizio. Il giudice provvede analogamente se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali, ma può anche disporre che siano decise unitamente al merito. ….” Quindi il giudice istruttore se ritiene di dover effettuare l’istruzione probatoria, una volta che l’ha esaurita rimette la causa in decisione ai sensi dell’art. 189 c.p.c., quindi la fine della fase istruttoria fa scattare l’ultimo atto della trattazione della causa che è la precisazione delle conclusioni. Se le parti non hanno richiesto una istruzione probatoria si rimette la causa in decisione al collegio (ex art. 187 primo comma), mentre se è stata esaurita la fase istruttoria per l’assunzione dei mezzi di prova (ax art. 188), allo stesso modo il giudice rimette le parti al collegio per la decisione a norma dell’art. 189 (Rimessione al collegio). Quindi il giudice rimette comunque le parti dinanzi al collegio per la decisione ed invita le parti, ex

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art. 189 primo comma, a precisare le conclusioni che intendono sottoporre al collegio, nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi a norma dell’art. 183 e le conclusioni di merito debbono essere interamente formulate anche nei casi previsti dall’art. 187 secondo e terzo comma. Questo atto processuale al quale sono chiamate le parti è importantissimo nel processo ordinario di cognizione, perché qui le parti devono in maniera chiara e definitiva evidenziare quelle che sono le richieste di tutela giurisdizionale, in pratica devono sostanzialmente definire in maniera chiara quello che vogliono ottenere con la sentenza finale ed è questa la logica della precisazione delle conclusioni che ha un rilievo anche temporale di efficacia della sentenza. Questo significa che eventuali fatti successivi alla precisazione delle conclusioni diventano irrilevanti per il processo, anche se potranno essere oggetto di un altro nuovo giudizio, perché ormai si è definitivamente chiesto al giudice che cosa si vuole ottenere e tutto quello che accade da questo momento in poi è al di fuori del processo, salvo la possibilità di impugnazione straordinaria e ordinaria. In questa udienza si ha la cristallizzazione di tutte le domande e di tutte le eccezioni per cui si chiude il procedimento e qualsiasi cosa succede dopo non rileva82, può rilevare in un altro processo, ma resta salva la possibilità di impugnare la sentenza e far valere eventuali limiti o fatti gravi con le impugnazioni straordinarie o ordinarie. Tutto questo si riverbera nel giudizio di appello, perché anche lì vige il sistema di preclusione, cioè in appello si possono far valere solo le domande e le eccezioni presentate in primo grado e restano escluse quelle che sarebbe stato possibile far valere in primo grado. Ad esempio se la parte non si costituisce almeno 20 giorni prima non può eccepire la prescrizione e quindi non può farlo neanche in appello, cioè le preclusioni poi condizionano anche quello che è l’oggetto del processo di appello, perché vige il divieto dei nova in appello, sancito nell’art. 345 c.p.c. che impedisce di proporre nuove domande o eccezioni a pena di inammissibilità, salvo che non si vogliano chiedere gli interessi, e neanche mezzi di prova o documenti a meno che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione ovvero se la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Questo perché il giudizio di appello è diretto alla rivisitazione ed al controllo di tutto quello che è stato fatto in primo grado e non a rifare il procedimento di primo grado con nuove domande, eccezioni, documenti e prove per cui diventa difficile ribaltare il giudizio del primo giudice. Nel processo ordinario di cognizione è importante capire la progressione degli atti iniziali, perché è all’udienza di trattazione che si definisce il giudizio di merito, salvo che non ci siano delle questioni processuali83. Le precisazioni delle conclusioni sono un atto fondamentale, perché è necessario definire in maniera chiara e precisa quello che si vuole ottenere con la sentenza, in quanto il giudice pronuncerà sentenza in relazione alle precisazioni delle conclusioni.

82 Prima della legge n. 653 del 1990 l’ingresso delle prove poteva esserci addirittura fino ad un momento prima della decisione, quindi era possibile ridiscutere su tutto. Ad esempio era possibile far entrare documenti fino all’ultimo, anche se tutt’oggi la situazione è abbastanza controversa, cioè anche la giurisprudenza non è molto d’accordo, però a rigore i documenti devono entrare fino all’udienza di trattazione e non dopo. 83 Il legislatore del 2003 per il processo societario ha creato un modello processuale di eccellenza, dove il giudice non c’è nella parte iniziale del processo, ma solo le parti che si scambiano una serie di atti: un atto di citazione e una comparsa di risposta; una prima memoria difensiva, ed una prima memoria di replica; una seconda memoria difensiva ed seconda memoria di replica. Se dopo questo scambio di atti processuali le parti non riescono a risolvere la questione chiedono l’istanza di fissazione dell’udienza, cioè chiedono l’intervento del giudice che, sulla scorta degli atti processuali (tutti pieni di decadenze e di preclusioni) decide la causa. Nel processo societario l’istanza di fissazione dell’udienza può essere chiesta in qualunque momento dalle parti e una volta chiesto si interrompe lo scambio di memorie, quindi è importante esprimere tutto quello che è necessario negli atti iniziali, altrimenti non potranno essere più eccepiti davanti al giudice. È una sorta di processo privato dove ci si dice tutto subito e se non si omette qualcosa, si può mettere in difficoltà l’avversario chiedendo immediatamente l’intervento del giudice che decide sulla scorta degli atti. Il fine del legislatore è avere un processo dove non ci sono molti giudici, poca attività processuale, le parti si dicono tutto con i loro atti e il giudice decide allo stato degli atti e quindi diventa più facile arrivare prima a sentenza.

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Del resto durante il processo è possibile proporre una domanda o un’eccezione a cui si può rinunciare non indicandola nella precisazione delle conclusioni, in quanto è qui che viene fissato l’oggetto della sentenza finale da cui deriva la soccombenza della parte e quindi se rispetto a quello che è stato chiesto il giudice ha accordato o meno tutela. La cristallizzazione delle richieste nella precisazione delle conclusioni, tra l’altro, condiziona l’efficacia temporale della sentenza, perché tutti i fatti successivi alla precisazione delle conclusioni non possono considerati in quella sentenza e nello stesso tempo si definisce la soccombenza della parte, perché se il giudice rigettata quelle richieste ne deriva la soccombenza della parte che le ha proposte. Una volta precisate le conclusioni le parti sono tenute a presentare le cosiddette comparse conclusionali che sono atti processuale che, sulla scorta delle precisazioni già effettuate, va a sostenere con ragioni di fatto, ma soprattutto con ragioni di diritto, le richieste che sono state poste in essere in sede di precisazione delle conclusioni che è un’udienza nella quale le parti si presentano e mettono a verbale le loro conclusioni, quindi non è un atto processuale redatto e depositato. La precisazione delle conclusioni non è redatta con un apposito atto processuale (come la comparsa di risposta, la comparsa conclusionale e l’atto di citazione), ma vengono posti a verbale dinanzi al giudice istruttore. Ad esempio si chiede la condanna di Tizio al pagamento di € 100.000,00 e di altri € 20.000,00 per gli interessi e su quelle richieste il giudice emetterà la sentenza e quindi la precisazione delle conclusioni è messa a verbale nell’udienza e definisce in maniera chiara e precisa quello che si vuole. Successivamente vi è fra le parti lo scambio delle comparse conclusionali ed è un atto redatto dalla parte e depositato in cancelleria, che ha una precisa funzione: quella di sostenere con ragioni di fatto, ma soprattutto di diritto quelle che sono state le richieste fatte in sede di precisazione delle conclusioni. Ad esempio se la parte chiede il risarcimento del danno, nella comparsa conclusionale motiva qual è la fattispecie di diritto che consente di ottenere quella tutela, cita la giurisprudenza e tutto quello che è necessario per sostenere le sue ragioni. La comparse conclusionale è un atto conclusivo che da un lato rivisita tutto quello che le parti hanno affermato durante lo svolgimento del giudizio ordinario di cognizione, quindi anche durante la fase di trattazione. Per esempio se è stata assunta una prova testimoniale dove il testimone si è contraddetto sulla circostanza di un determinato fatto, nella comparsa conclusionale viene messo in evidenza per sostenere le ragioni della parte o se c’è un’ultima sentenza della giurisprudenza che dà ragione alla parte, diventa un elemento di diritto da inserire per sostenere le richieste di questa. Dopo le comparse conclusionali ci può essere un ulteriore scambio di memorie di replica che servono per ribattere quanto sostenuto nelle comparse conclusionali e anche queste vanno depositare in cancelleria. La memorie di replica sono atti processuali che servono a sostenere le richieste di tutela giurisdizionale consacrate nella comparsa conclusionale, sia da un punto di vista dei fatti che del diritto, anche al fine di poter dare maggior torto o ragione su quello che chiede la parte. A questo punto il processo si chiude ed entro 60 giorni il giudice dovrà emettere la sentenza. Da un punto di vista pratico la sentenza è emessa sulla scorta delle precisazioni delle conclusioni, delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, perché sono gli atti che riassumono bene tutto quello che è avvenuto nel processo. Infatti per ognuno dei fatti e delle domande esaminate c’è anche la verifica da un punto di vista del diritto, quindi da questi atti il giudice trae una serie di informazioni e di inquadramenti della fattispecie che chiariscono la causa, salvo poi rileggere la questione alla luce degli orientamenti e della visone dei fatti che il giudice riterrà opportuno nel caso di specie. Con le memorie di replica si chiude definitivamente lo scambio di battute tra le parti, anche sé le memorie di replica non sono obbligatorie, ma solo se la parte ha necessità di replicare sulla comparsa conclusionale precedentemente depositata, invece questa è un atto indispensabile. Non depositare una comparsa conclusionale vuol dire perdere la causa, perché significa non sostenere le ragioni della richiesta di tutela giurisdizionale.

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LE PROVE Le prove sono necessarie perché il giudice per giudicare ha bisogno di conoscere i fatti e per fare questo ha bisogno delle prove84. La fase istruttoria non è essenziale potendo il giudice decidere senza necessità di acquisire mezzi di prova e questo accade quando evidentemente la causa verte esclusivamente su questioni di mero diritto, quindi si tratta soltanto di risolvere questioni di diritto mentre i fatti sono pacifici tra le parti, (non sono in discussione). La fase istruttoria è un passaggio che normalmente si ha nel processo e si trova tra la fase introduttiva e la fase della decisione della causa e quando parliamo di fase istruttoria in senso stretto ci si riferisce al momento della raccolta delle prove. Il legislatore utilizza il termine prova in una pluralità di significati, in una pluralità di accezioni: in alcune norme si riferisce alle prove come mezzo di prova, come fonte di prova pensate al documento o alla dichiarazione di scienza della parte o del terzo; in altri casi si riferisce alla prova come il risultato del procedimento probatorio e in altri casi ancora meno frequenti sono intese come procedimento probatorio. La disciplina delle prove la troviamo nel codice civile, per quanto riguarda i limiti oggettivi di ammissibilità e l’efficacia dei mezzi di prova, e nel codice di procedura civile per quanto riguarda i limiti soggettivi e soprattutto le modalità di assunzione delle prove costituende. Il primo limite all’attività cognitiva del giudice è rappresentato proprio dall'oggetto: può conoscere soltanto i fatti allegati dalle parti, perché una delle regole più importanti della fase istruttoria è il divieto per il giudice di utilizzare il c.d. sapere privato. Il giudice non deve conoscere dei fatti aliunde (fuori dal processo) per portarli nel processo, ma esclusivamente quelli allegati dalle parti agli atti del processo, altrimenti saremmo in un sistema inquisitorio che è incompatibile con il carattere dispositivo del processo civile. Oggetto di prova sono sempre e soltanto i fatti di causa che devono essere provati nel processo cominciare da quelli dai fatti principali, cioè quei fatti che hanno una incidenza diretta sull’esistenza oppure no del diritto fatto valere nel processo. I fatti principali sono quelli costitutivi allegati dall'attore, ma anche i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi allegati dal convenuto nella comparsa di risposta alla base delle eccezioni in senso stretto che rientrano nelle difese del convenuto. Sicché oggetto di prova sono certamente i fatti principali, pero non sempre la parte è in grado di fornire la prova del fatto principale per cui può portare anche i c.d. fatti secondari che sono semplici indizi, cioè fatti che non hanno un'incidenza immediata, ma dai quali il giudice, attraverso un ragionamento presuntivo (le presunzioni) può giungere a conoscere o a ritenere esistente o inesistente il fatto principale che comunque deve essere accertato ai fini della decisione della lite. Ad esempio se non vi è un testimone oculare di un incidente stradale, cioè una testimonianza principale, è possibile fornire una prova secondaria quale la striscia di frenata che può indurre il giudice a risalire criticamente all'esistenza del fatto principale (ad esempio la colpa del conducente del veicolo) che è quello che deve essere dimostrato.

84 In concreto certamente le prove sono delle tracce dei fatti o, per un autorevole studioso, sono gli elementi di raccordo tra il noto e l'ignoto e cioè quello che permette al giudice di stabilire se un determinato fatto sia vero oppure no, si sia verificato oppure no. La verità cui il giudice perviene attraverso le prove è pur sempre una verità processuale, non potendo affermare che il giudice arrivi ad una verità assolutamente certa, ma questo vale per il processo come per qualsiasi altro accadimento che si è svolto nel passato. Voltaire diceva che i fatti che sono accaduti nel passato non sono che la verità storica, non è che una probabilità che questi siano accaduti e quindi è chiaro che il risultato della prova è sempre un risultato di certa probabilità e nel pervenire a questo risultato, il giudice assume un po’ i panni dello storico perché deve ricostruire i fatti, per stabilire se si siano avverati oppure no come sostengono in posizione contrapposta le parti. Il giudice non è libero come un qualsiasi altro storico nella ricostruzione dei fatti, ma incontra vincoli precisi e il primo è rappresentato dal fatto che il giudice può conoscere soltanto i fatti allegati dalle parti del processo.

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Affinché un fatto necessiti di essere provato deve essere controverso tra le parti, sicché non tutti i fatti hanno bisogno di essere provati e infatti non necessitano di essere provati i c.d. fatti pacifici che sono collocati proprio fuori dal tema probandum. Se una parte allega un fatto e l'altra lo riconosce, ammette esplicitamente quel fatto per quel fatto è pacifico, quindi il giudice lo considera esistente senza bisogno che sia provato. Però il fatto può essere pacifico anche nell'ipotesi in cui il fatto sia tacitamente ammesso e questo lo ricaviamo da un comportamento della parte, incompatibile con la volontà di negare l'esistenza o l'inesistenza di quel fatto. Per esempio se l'attore agisce in giudizio chiedendo il pagamento del prezzo della vendita di un bene sulla base di un determinato contratto e il convenuto si difende chiedendo a sua volta all'attore la consegna del bene, è pacifico il fatto costitutivo cioè l'esistenza del contratto perché è chiaro che non potrebbe il convenuto chiedere la consegna della cosa, se negasse l'esistenza del contratto, per cui il giudice da per scontato che il contratto sia concluso e che quel fatto principale esista e non deve essere provato. Una delle questioni più dibattute negli ultimi tempi tra dottrina e giurisprudenza è legata al silenzio della parte, cioè se può essere considerato pacifico un fatto allegato dalla controparte, se la parte non prende posizione, resta silente, su quel fatto e quindi se esiste nel nostro processo un principio di non contestazione e quindi se le parti abbiano un onere di contestare le allegazioni delle controparti entro termini precisi e se questo non avviene quel fatto possa considerarsi pacifico. Fino al 2002, almeno nel processo ordinario di cognizione, nessuno dubitava che le mere difese consistenti nelle contestazioni dei fatti fossero formulabili in qualsiasi momento del processo, cioè non ci fosse una preclusione; dal 2002 le Sezioni Unite dalla Corte di cassazione con la sentenza del 23 gennaio 2002 n. 761 hanno affermato l'esistenza nel nostro ordinamento di un onere di contestazione delle parti, da assolvere nelle battute iniziali del processo a pena della preclusione delle contestazioni successive sicché i fatti che non siano tempestivamente contestati devono ritenersi pacifici e non possono resi controversi nel corso del processo. Questa importantissima sentenza delle Sezioni Unite ha affermato questo principio con riferimento al processo del lavoro, però hanno lasciato intendere che sia valido anche nel processo ordinario di cognizione e le sentenze successive si sono adeguate, almeno la prevalente giurisprudenza, mutando completamente indirizzo rispetto all'orientamento precedente. Pur non essendoci nessuna norma che espressamente affermi che se un fatto non viene contestato entro un determinato termine va ritenuto incontrovertibile, le Sezioni Unite hanno statuito il principio di non contestazione desumendolo dall’art. 167 c.p.c. (comparsa di risposta), per quanto riguarda il processo ordinario, e dall’art. 416, terzo comma (costituzione del convenuto), per quanto riguarda il processo del lavoro. Per l'art. 167 il convenuto, nella comparsa di risposta, deve prendere posizione su tutti i fatti allegati dall'attore, ma non c’è un’analoga espressa norma per l'attore di prendere posizione sui fatti allegati dal convenuto, neanche nell’art. 183 sull'udienza di trattazione. Questo problema si era posto nel processo del lavoro e fu portato all'attenzione della Corte costituzionale vent'anni e in quell’occasione sancì che questo onere esiste anche per l'attore, altrimenti ci sarebbe una disparità di trattamento tra le parti; quindi la Consulta ha dichiarato la norma legittima, ma interpretata nel senso che l'onere di contestazione sussiste anche a carico dell'attore. “Nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda … (art. 167 primo comma)”, ma questa statuizione non è a pena di decadenza, come invece è espressamente previsto per l'onere di proporre domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite questo termine si deduce dal sistema delle preclusioni previsto dal legislatore in quanto l'attore e il convenuto hanno l'udienza di trattazione quale termine per contestare reciprocamente i fatti, altrimenti si preclude alle parti questa possibilità e i fatti vanno ritenuti pacifici.

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Questo orientamento della Cassazione ha sollevato molte perplessità in una parte della dottrina, perché questa è una preclusione creata dalla giurisprudenza, invece i termini perentori a pena di perdita di un potere processuale devono essere espressamente previsti dalla legge, anche perché non sono indicate le modalità per applicarlo, ma questi aspetti fondamentali sono rimessi alla valutazione della giurisprudenza. Il legislatore qui non ha comminato alcuna preclusione come avvenuto, per esempio, nel processo societario con la riforma del 2003 che all'art. 10 espressamente prevede che i fatti non contestati prima dell'istanza di fissazione dell'udienza vanno ritenuti pacifici; come anche nello stesso processo ordinario di cognizione, l’art. 186 bis disciplina l'ordinanza di pagamento di somme non contestate e qui il legislatore espressamente ricollega alla non contestazione un determinato effetto che non avrebbe avuto senso, se fosse vigente un principio generale che preveda un termine perentorio. Il problema è stato risolto dal d.lgs. 69/2009 che ha introdotto nell’ordinamento un onere di contestazione modificando l'art. 115 c.p.c. primo comma: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.” Per cui la modifica stabilisce espressamente che il giudice deve fondare la decisione solo sui fatti specificamente contestati dalla parte costituita, anche se poi non indica il termine ultimo e le modalità per effettuare le contestazioni. Pertanto questa norma introduce, anche nel processo ordinario di cognizione, quest’onere di contestazione specifica dei fatti a cui è collegata la preclusione, ossia i fatti non specificamente contestati possono essere posti dal giudice a fondamento della decisione in quanto pacifici. Il secondo comma dell'art. 115 dispone che non devono essere provati nemmeno i c.d. fatti notori: “Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.” Sono fatti che proprio per la loro notorietà sono conosciuti dalla generalità delle persone in un determinato tempo e in un determinato momento storico, tanto da non aver bisogno di essere provati e il giudice può considerarli veri. Per esempio se una determinata prestazione non è stata eseguita a causa di un terremoto, la parte non ha bisogno di provare che si sia verificato questo evento e lo stesso vale per gli scioperi generali o gli eventi bellici. Non necessitano di essere provati neppure i c.d. i fatti impossibili, invece i fatti inverosimili necessitano di una prova e ancora più puntuale rispetto a quella dei normali fatti85. Infine non necessitano di essere provati i c.d. fatti già provati quando è stata fornita una prova legale, ma dal punto di vista dell'efficacia sono prove legali quelle che vincolano il giudice a considerare vero un determinato fatto, sono prove libere quelle rimesse al libero apprezzamento del giudice. Ad esempio se una parte confessa la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole alla controparte, quella confessione nel nostro ordinamento forma piena prova ed è una prova legale, cioè vincola il giudice a considerare vero il fatto confessato. Questa regola per cui non devono essere provati i fatti già provati è dedotta dall'art. 209 c.p.c. (Chiusura dell'assunzione) che conclude chiude la disciplina delle modalità di assunzione dei mezzi di prova e dispone: “Il giudice istruttore dichiara chiusa l'assunzione quando sono eseguiti i mezzi ammessi o quando, dichiarata la decadenza di cui all'articolo precedente, non vi sono altri mezzi da assumere, oppure quando egli ravvisa superflua, per i risultati già raggiunti, la ulteriore assunzione.” Quindi il giudice potrebbe dichiarare chiusa l'assunzione dei mezzi di prova perché, in relazione ai risultati probatori acquisiti, l'ulteriore assunzione è superflua. Per esempio se la prova testimoniale vuole dimostrato un fatto, ma ci sono già 5 testimoni che hanno già affermato quel fatto è inutile assumere la sesta testimonianza solo per confermare quello che hanno già detto i testimoni precedenti.

85 È impossibile ciò che si pone fuori dalle possibilità umane e quindi è irrealizzabile in senso assoluto, invece è inverosimile ciò che è improbabile, cioè apparentemente non probabile e quindi in senso relativo e quindi va provato.

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Tuttavia se si tratta di una prova contrastante che vuole fornire un risultato opposto con quelli già raggiunti, in questo caso dobbiamo ritenere che il giudice non possa considerare quella prova superflua perché potrebbe essere decisiva per rovesciare il suo convincimento che si è formato in base alle prove fino a quel momento raccolte. Quindi questo giudizio di superfluità va interpretato con riferimento a prove superflue perché ormai il fatto è già provato, non per prove che mirano ad ottenere un risultato contrastante con quello raggiunto fino a quel momento, per cui queste dovrebbero essere sempre ammesse e assunte perché sono già state ammesse. Comunque i fatti da provare sono i fatti principali e i fatti secondari purché siano controversi fra le parti. Dall’art. 115 c.p.c. si deduce che l'iniziativa in materia probatoria spetta alle parti per il principio, espresso nella rubrica della norma, della disponibilità delle prove ed è un principio assolutamente ragionevole, perché nessuno meglio dei protagonisti dei fatti li conosce e quindi può indicarne le prove più idonee a dimostrarli. Del resto riconoscere il potere del giudice di disporre d'ufficio un mezzo di prova può essere pericoloso in relazione alla terzietà ed imparzialità del giudice perché se ammette una prova d'ufficio dovrà valutarla e quindi perde un po' della sua terzietà e imparzialità. Quindi nel processo ordinario di cognizione a prevedere il principio per cui la regola è che siano le parti a chiedere l'ammissione dei mezzi di prova, salvo che il potere di disporre di un mezzo di prova non sia espressamente previsto dalla legge, perché se la regola è quella che sono le parti a dovere di chiedere le prove, ma questa regola incontra una eccezione tutte le volte in cui il codice prevede il potere del giudice di disporre d'ufficio un mezzo di prova. Peraltro non sono pochi i mezzi di prova che il giudice può disporre d'ufficio per esempio l'ispezione (art. 118 c.p.c.), l'interrogatorio libero delle parti (art. 117), la consulenza tecnica, il giuramento suppletorio o estimatorio, la testimonianza di riferimento e addirittura quando la causa è una causa che appartiene al tribunale monocratico, cioè la normalità dei casi, il giudice può disporre d'ufficio anche la testimonianza se le parti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere i fatti e quindi il giudice d'ufficio può disporre che queste persone, a cui le parti si siano riferite, vengono sentite come testi. Vi è un acceso dibattito dottrinale sui poteri istruttori d'ufficio tra due posizioni contrapposte: secondo una parte della dottrina occorre aumentare i poteri istruttori d'ufficio del giudice dando la possibilità al giudice di disporre d'ufficio, qualsiasi mezzo di prova come già avviene nel processo del lavoro, invece un'altra parte va in senso opposto. Mentre nel processo ordinario trova applicazione il principio della disponibilità delle prove, invece nel processo del lavoro viene seguito un principio diametralmente opposto in quanto l'art. 421 c.p.c. prevede che il giudice possa disporre d'ufficio qualsiasi mezzo di prova, anche al di fuori di quelli che sono i limiti oggettivi di ammissibilità stabiliti dalla legge. Questa differenza tra il processo ordinario e quello del lavoro per alcuni è dovuta a situazioni sostanziali dedotte nel processo del lavoro legate alla retribuzione, al licenziamento, cioè situazioni ritenute non totalmente disponibili e dove non c'è disponibilità del diritto bisognerebbe aumentare i poteri del giudice. Tuttavia nel processo del lavoro ci sono delle preclusioni istruttorie molto rigide che scattano negli atti introduttivi cioè nel ricorso e nella memoria difensiva e quindi questi poteri istruttori d'ufficio servirebbero a bilanciare un po' queste preclusioni istruttorie così rigide che vengono attenuate dal potere del giudice di disporre d'ufficio un mezzo di prova. Per queste ragioni si vorrebbe esportare quello che accade nel processo del lavoro nel processo ordinario di cognizione tutti i mezzi di prova disponibili d'ufficio, Nella realtà applicativa i giudici da sempre utilizzano in modo assai parsimonioso i loro poteri istruttori d'ufficio, cioè è assai raro che il giudice disponga d'ufficio una testimonianza ai sensi dell'art. 281 ter o disponga un giuramento suppletorio (art. 240 c.p.c.). In primo luogo perché non c'è la necessità in quanto le parti sono assistite dai difensori e se c'è una prova il difensore la chiede, per cui non c’è la necessità di un potere integrativo o suppletivo del giudice.

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Questo potere del giudice è estremamente delicato perché può favorire una parte piuttosto che un'altra, perché se la parte non è riuscita a provare un fatto e il giudice dispone d'ufficio un mezzo di prova, questo l’avvantaggia. Il potere istruttorio dei giudici è molto delicato sia per loro terzietà ed imparzialità e sia perché il potere di disporre prove d'ufficio può entrare in contrasto con il principio dell'onere della prova. I romani dicevano che chi afferma un fatto deve dimostrarne l'esistenza (onus probandi incumbit ei qui dicit) ed è un principio di civiltà consacrato ancora oggi nell'art. 2697 c.c. (onere della prova) ed è molto importante perchè innanzitutto stabilisce che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. In prima battuta l'onere della prova incombe sull'attore che deve dimostrare i fatti costitutivi del suo diritto, in quanto ha avanzato una pretesa e il convenuto potrebbe anche restare contumace, cioè non costituirsi in giudizio, ma se l'attore non prova i fatti perde la causa. In seconda battuta grava anche sul convenuto il quale se allega un fatto estintivo, modificativo o impeditivo ne deve dimostrare l'esistenza. Questa norma è molto importante sotto vari profili perché fissa un principio di ripartizione dell'onere della prova tra attore e convenuto, ma anche perché ha una base positiva la distinzione tra le categorie di fatti principali e cioè tra fatti costitutivi, fatti impeditivi, modificativi ed estintivi. L'attore deve provare i fatti costitutivi, invece il convenuto deve provare i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi, sicché inquadrare un fatto nella categoria dei fatti costitutivi da una parte ovvero dei fatti impeditivi, modificativi, estintivi dall'altra, è fondamentale perchè rileva sotto il profilo dell'onere della prova, cioè ci consente di dire chi, tra attore e convenuto, a dever provare determinati fatti. I fatti impeditivi, modificativi, estintivi si verificano cronologicamente dopo rispetto al sorgere del fatto costitutivo. Ad esempio il contratto di compravendita è un fatto costitutivo sulla base del quale l'attore chiede il pagamento del prezzo e il convenuto allega un fatto estintivo come l'adempimento, cioè ha pagato il prezzo, quindi l’adempimento è un fatto cronologicamente successivo al fatto costitutivo, cioè la conclusione del contratto e lo stesso vale per quanto riguarda i fatti modificativi. I problemi sorgono con riferimento alla categoria dei fatti impeditivi cioè quelli che, come enuncia l’art. 2697, sono diretti a togliere efficacia ai fatti costitutivi che avvengono contestualmente ai fatti costitutivi. Allora può non essere facile per i fatti impeditivi individuare se sono fatti impeditivi oppure fatti costitutivi, anche perchè talvolta il legislatore considera uno stesso fatto, in alcune norme come fatto costitutivo, in altre norme come fatto impeditivo. L'esempio classico è quello della responsabilità contrattuale: il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento o il ritardo è determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). Quindi nella responsabilità contrattuale la regola è che l’inadempiente deve risarcire il danno, salvo che il convenuto non dimostra l'assenza di colpa e questo è un fatto che impedisce il fatto costitutivo dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento. Invece per la responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.) avviene il contrario, perché chi chiede il risarcimento del danno da fatto illecito (da responsabilità extracontrattuale) deve dimostrare che il fatto è doloso o colpevole e quindi lo stesso fatto colposo diventa nella responsabilità extracontrattuale fatto costitutivo che dovrà essere provato dall'attore. Solitamente il fatto impeditivo ricorre eccezionalmente, tanto è vero che solitamente il legislatore aiuta l'interprete dicendo salvo che oppure a meno che, invece il fatto costitutivo può non essere semplice operare questa distinzione per cui bisogna fare molta attenzione perché questa distinzione rileva per l'onere poi della prova. L'onere della prova grava sull'attore per i fatti costitutivi e sul convenuto per quanto riguarda i fatti impeditivi, modificativi o estintivi, ma è un principio che conosce alcune attenuazioni e la prima di queste nella prova ammessa d'ufficio perché può entrare in conflitto con l'onere della prova, se

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l'attore non prova un fatto e il giudice dispone d'ufficio un mezzo di prova che rovescia l'esito della lite e l'attore anziché perdere la causa, la vince grazie alla prova disposta dal giudice. Un'atra attenuazione è nelle c.d. presunzioni legali relative che sono vere e proprie inversioni dell'onere della prova, cioè alcune norme prevedono una sorta di relevatio ab onere probandi (inversione onere probatorio) a favore dell'attore. Un esempio si ha nel licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa in quanto in entrambi i casi si inverte l'onere della prova ponendo a carico del datore di lavoro, il convenuto, l'onere per dimostrare l’esistenza del giustificato motivo o della giusta causa (ex art. 5 della legge 604/66). In altro esempio per il possesso di buona fede (art. 1147 c.c.), in quanto la buona fede nel possesso si presume quindi è chi contesta la buona fede del possessore che dovrà dimostrare il contrario e quindi le presunzioni comportano un inversione dell'onere della prova rispetto alle regole ordinarie. L'ultima attenuazione di questo principio è nel c.d. principio di acquisizione delle prove nel processo, cioè una volta che la prova viene acquisita al processo, non è importante se sia stata chiesta dalla parte onerata o dalla parte che non aveva l'onere della prova. Per esempio se l'attore porta un testimone nel processo, ma questo anziché dire qualcosa a vantaggio della posizione dell'attore, rende dichiarazioni favorevoli al convenuto, una volta che la prova è stata assunta resta acquisita al processo anche se avvantaggia la controparte. “Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, oltre a questo l’art. 2697 c.c. prevede anche una regola di giudizio per il giudice, perché dispone come deve comportarsi il giudice nel caso in cui la parte onerata non abbia fornito la prova oppure sia insufficiente a dimostrare l'esistenza o l'inesistenza del fatto. Dal secondo comma dell'art. 2697 si desume che un fatto non provato o non sufficientemente provato deve essere considerato dal giudice inesistente, per cui questo principio vieta al giudice di non giudicare, il giudice di fronte al fatto incerto, non liquet (non è chiaro), perché non sufficientemente provato, non può non giudicare. In base all'art. 2697 il giudice se il fatto non è stato provato o non lo è stato a sufficienza, il fatto incerto equivale a fatto inesistente, quindi se l'attore non è riuscito a provare i fatti vedrà rigettata la sua domanda e perderà la causa e lo stesso vale per il convenuto. Le parti chiedono al giudice di ammettere un mezzo di prova, ma è il giudice a valutare se le prove richieste dalle parti siano ammissibili e rilevanti per il processo, cioè prove chieste innanzitutto nel rispetto delle preclusioni istruttorie e quindi nei termini previsti dall'art. 183 sesto comma per la richiesta dei mezzi di prova, ma anche con alcuni limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità. Inoltre il mezzo di prova per essere ammesso deve essere anche rilevante, cioè deve essere idonea a fornire al giudice elementi di conoscenza utili per i fatti principali che il giudice dovrà ricostruire e accertare per decidere la lite e quindi una volta ammessi i mezzi di prova sulla base di questo giudizio di ammissibilità e rilevanza, le prove vengono assunte secondo le modalità stabilite dagli artt. 205 c.p.c. ss. per essere valutate dal giudice al momento della decisione. L'art. 116 c.p.c. (valutazione delle prove) stabilisce che il giudice debba valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. Nella valutazione delle prove il giudice si serve delle c.d. massime di comune esperienza che sono desunte dal sapere comune o dal sapere scientifico, che il giudice deve applicare per poter considerare un fatto provato e per poter valutare la stessa attendibilità di un mezzo di prova. Ad esempio se un testimone dichiara di aver visto un incidente stradale ad una distanza di 150 metri, il giudice applicando la massima di esperienza, può ritenere che il testimone non abbia visto bene soprattutto se è una persona abbia gravi difetti di vista e quindi il giudice applica una valutazione dell'attendibilità o no di una prova. Però questo prudente apprezzamento non viene definito in maniera precisa dal legislatore e per alcuni s’intende che il giudice deve decidere secondo prudenza e ragione, comunque di certo deve valutare le prove secondo un procedimento logico-razionale (per alcuni è un procedimento sillogistico-deduttivo invece per altri è induttivo), per cui il giudice deve essere anche un logico.

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Quello che rileva è che il giudice segua un procedimento logico-razionale che poi deve emergere dalla motivazione della sentenza per essere controllabile dall'esterno, pertanto non può essere apodittico (che è evidente in sé, che non ha bisogno di dimostrazione) o per mera intuizione. Sicché l’importante è che l'iter logico seguito dal giudice emerga dalla motivazione della sentenza, ai fini della controllabilità, per evitare che il libero convincimento ed il prudente apprezzamento del giudice, non si trasformi in arbitrio, anche in relazione all'obbligo di motivazione delle sentenze costituzionalmente garantito. Il giudice valuta le prove di regola secondo il suo prudente apprezzamento salvo non sia diversamente previsto dalla legge, ossia ci sono alcune prove sottratte al prudente apprezzamento del giudice perché la loro efficacia è stabilita a priori dal legislatore e su questa distinzione si fonda la contrapposizione tra prove libere e legali: � le prove libere sono rimesse al prudente apprezzamento del giudice e costituiscono la regola ex

art. 116; � le prove legali invece hanno efficacia di piena prova stabilita a priori dalla legge, ad esempio la

confessione è una tipica prova legale e quindi sottratta al libero apprezzamento del giudice che deve considerare vero ed esistente il fatto confessato.

Mentre nelle prove libere è il giudice ad individuare la massima di esperienza e decide se la prova è idonea o meno a dimostrare l'esistenza o l'inesistenza del fatto, nelle prove legali questa valutazione è fatta a priori dal legislatore che ritiene la massima di esperienza da applicare attendibile, sino al punto da ritenere certo il risultato prodotto dall'applicazione di quella massima. Ad esempio nella prova legale della confessione la massima di esperienza e che teoricamente nessuno confesserebbe un fatto contrario al proprio interesse, se quel fatto non fosse vero (salvo non voglia caricarsi di responsabilità altrui), perché il legislatore ritiene più probabile che possa sbagliare il giudice a considerare non vera quella prova piuttosto che il contrario. L'art. 116 al secondo comma introduce la categoria degli argomenti di prova sicché: � la massima efficacia è delle prove legali essendo vincolanti e fanno piena prova, � le prove libere rimesse al prudente apprezzamento del giudice, � gli argomenti di prova.

L'art. 116 secondo comma: “Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente (l'interrogatorio non formale delle parti), dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinato, e in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo.” Inoltre l'art. 310 c.p.c. secondo comma stabilisce che le prove raccolte nel processo estinto hanno valore a norma dell’art. 116 secondo comma. Gli argomenti di prova sono stati introdotti dal legislatore del 1940, ma il legislatore non indica che cosa siano e secondo la tesi prevalente dovrebbero essere elementi di valutazione delle prove libere, cioè dovrebbero servire al giudice per corroborare o disattendere l'efficacia di una prova libera. Per un autorevole studioso è come se fossero uno zero: da soli non sono sufficienti a fondare il convincimento del giudice, però unite ad una prova (come 1 unito allo 0 diventa 10) potrebbero rafforzarla molto. La dottrina e in parte la giurisprudenza sono d'accordo nel ritenere che gli argomenti di prova non sono sufficienti a fondare il convincimento del giudice come prove vere e proprie, però questo principio spesso confessato, perché la stessa giurisprudenza a volte considera anche un solo argomento di prova sufficiente a fondare la decisione al pari delle vere e proprie prove. L'esempio emblematico è proprio l'art. 116 secondo comma quando dispone che il giudice desume gli argomenti di prova dalle risposte all'interrogatorio libero e così vi ingloba qualsiasi risposta, ma il valore probatorio della risposta dipende dal contenuto della dichiarazione resa dalla parte. Infatti per la giurisprudenza le dichiarazioni contra sé rese in sede di interrogatorio libero sono sufficienti a fondare il convincimento del giudice, perché quella è una vera e propria confessione sia pure resa nel contesto particolare dell'interrogatorio libero, ma il problema resta per gli argomenti di prova in cui il legislatore include elementi e comportamenti muniti di un'efficacia probatoria completamente diversa. Quindi questi elementi di valutazione costituiscono un ibrido, anche perché si prestano a

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delle interpretazioni arbitrarie potendo lo stesso elemento essere ritenuto da un giudice argomento di prova insufficiente a fondare il suo convincimento e in altre no e quindi tutto rimesso alla discrezionalità del giudice con gravi conseguenze sotto il profilo della certezza del diritto. I mezzi di prova che il giudice può assumere nel processo sono soltanto quelli previsti dal codice e anche se la legge non lo prevede espressamente, si ritiene immanente nell'ordinamento il principio della tipicità delle prove, cioè solo le prove previste dal codice civile e di procedura civile possono essere utilizzate nel processo, cioè quelle tipiche. Altra questione molto dibattuta è se possano trovare ingresso nel processo anche le c.d. prove atipiche e cioè non previste da alcuna norma e soprattutto quale sia il valore o l'efficacia di queste prove atipiche. Al di là del contrasto tra dottrina e giurisprudenza, da parte della Corte di cassazione c'è un'apertura pressoché completa all'ammissibilità delle prove atipiche, ma apertura generalizzata ha sollevato qualche perplessità della dottrina, perché spesso si tende a far passare per prove atipiche quelle che sono prove che dovrebbero essere considerate illegittime, perché acquisite in violazione delle modalità di assunzione di un mezzo di prova. Ad esempio la giurisprudenza ammette che possa essere prodotta una dichiarazione scritta da parte di un terzo, quindi una testimonianza scritta che però può valere come argomento di prova e non come vera e propria prova; però quella testimonianza non dovrebbe essere una prova atipica, ma illegittima perché nel la legge stabilisce che la testimonianza va dedotta in un determinato modo e deve essere assunta nel corso del processo, quindi è una prova costituenda che si forma nel processo, invece la giurisprudenza l'ammette come subspecie di prova atipica affermando che il valore probatorio di questa testimonianza è quello di un argomento di prova. Tuttavia oggi la questione è completamene superata dal d.lgs. 69/2009 che ha previsto la possibilità di una testimonianza scritta, introducendo una norma ad hoc e cioè l’art. 257 bis il quale prevede anche specifiche modalità per la sua ammissione. La falsità della prova deve essere accertata con una sentenza passata in giudicato e tranne il giuramento, tutte le prove false, una volta accertate, possono dar luogo alla revocazione della sentenza, però nel momento in cui c'è una confessione il giudice non ha valutazione discrezionale, essendo la testimonianza (come il giuramento e l'atto pubblico) una prova vincolante per il giudice. Se c'è un atto pubblico che attesta un determinato fatto significa che viene dichiarato nell'atto pubblico dal pubblico ufficiale e fa piena prova fino a querela di falso, quindi l'unico modo per contestarlo è l'accertamento della falsità del documento. Da non confondere l'ammissione con l'assunzione perché l'ammissione dei mezzi di prova avviene con un provvedimento del giudice nell'udienza di trattazione oppure con un'ordinanza con cui il giudice ammette i mezzi di prova tra cui un interrogatorio formale o una testimonianza, anzi l'interrogatorio formale delle parti solitamente serve a provocare la confessione per cui viene ammesso prima di assumere gli altri mezzi di prova, perche potrebbe rendere superflua l'assunzione delle altre prove se la parte confessa in quanto finisce il giudizio e lo stesso avviene se la parte giura il fatto è provato. Dal punto di vista della formazione le prove si distinguono tra precostituite e costituende: � le prove precostituite sono i documenti, cioè le prove che si formano fuori e prima del processo,

come la confessione stragiudiziale essendo una prova che si forma fuori dal processo. � le prove costituende si formano nel processo e sono la testimonianza, la confessione giudiziale

e il giuramento. Tra la più importanti prove precostituite vi sono due prove documentali e cioè l’atto pubblico e la scrittura privata. L’atto pubblico viene definito in modo molto chiaro e preciso dall’art. 2699 c.c. in quanto afferma che “è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo in cui l’atto è formato.”

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La norma pone in particolare risalto l’elemento soggettivo, cioè colui che redige l’atto pubblico che deve essere un notaio o un pubblico ufficiale autorizzato, ex lege, ad attribuire pubblica fede all’atto. Il notaio ha un generale potere di documentazione pubblica, ma ci sono altri pubblici ufficiali che esercitano, per legge, queste funzioni come all’ufficiale di stato civile oppure, l’ufficiale giudiziario e il cancelliere. Quindi l’art. 2699 non solo dispone che si deve trattare di un soggetto autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma aggiunge anche “nel luogo in cui l’atto è formato”. Questo significa che un atto pubblico per poter essere considerato tale non solo deve essere redatto da un notaio o da un pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma nel luogo in cui l’atto è formato cioè il pubblico ufficiale deve essere competente perché, per esempio, i notai possono esercitare solo nell’ambito del territorio del distretto dove si trova la sede notarile (art. 27 legge notarile), ma lì possono svolgere le loro funzioni con chiunque, anche con clienti provenienti fuori dal distretto. Se un notaio redige l’atto fuori dal distretto non vale come atto pubblico; tuttavia, per il principio della conservazione degli atti, ex art. 2701 quell’atto, se sottoscritto dalle parti, può comunque essere considerato una scrittura privata. L’atto pubblico rientra nell’ambito delle prove legali la cui efficacia è vincolante per il giudice. L’art. 2700, che regola l’efficacia dell’atto pubblico, dispone: “L’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso (art. 221 c.p.c.), della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza (ad esempio la data e il luogo in cui è avvenuto l’atto pubblico) o da lui compiuti.” Quindi l’unico modo per togliere efficacia privilegiata all’atto pubblico è quello di proporre querela di falso. L’atto pubblico fa piena prova del cosiddetto estrinseco, ossia fa piena prova della circostanza che la dichiarazione documentata dal notaio o dal pubblico ufficiale è stata resa dinanzi a lui, ma non fa piena prova del contenuto o della veridicità intrinseca della dichiarazione, cioè del fatto che ciò che le parti hanno dichiarato al pubblico ufficiale risponda al vero. Quindi se le parti vanno dinanzi al pubblico ufficiale per stipulare un contratto di compravendita e il venditore dichiara di aver ricevuto un prezzo di 3.000 €, l’atto pubblico fa piena prova del fatto che il venditore ha dichiarato di aver ricevuto 3000 €. Ma questo non dimostra che effettivamente la somma di denaro è stata percepita o se magari il prezzo è di più o se in realtà non si tratta di una donazione e non di una compravendita. Pertanto chi vuole dimostrare che non è stato pagato alcun prezzo perché si tratta di una donazione, non deve fare la querela di falso, ma un’azione di simulazione fornendo le prove del fatto che quella è stata una donazione e non una vendita. La querela di falso va proposta per motivi estrinseci, ad esempio se la dichiarazione resa, attestata dal notaio, non è avvenuta dinanzi a lui oppure non in quella data o non dalle persone citate nell’atto, per cui l’unico modo per togliere l’efficacia di piena prova da un atto pubblico è quello di proporre la querela di falso. La querela di falso è l’unico modo per la accertare la falsità di un documento a cui la legge attribuisce pubblica fede e questa è un’azione di accertamento molto particolare, perché l’oggetto di quest’azione è un mero fatto, la falsità dell’atto pubblico, anziché un diritto od un rapporto giuridico come di regola dovrebbe essere. La falsità può essere materiale o ideologica: � il falso materiale consiste nella contraffazione del documento (quando il notaio disconosce la

paternità dell’atto, quindi è stato contraffatto) oppure nell’alterazione del documento, cioè in modifiche apportate successivamente con o senza la complicità del pubblico ufficiale86.

� il falso ideologico si quando risultano attestazioni false dello stesso pubblico ufficiale che ha redatto l’atto, cioè il pubblico ufficiale ha attestato falsamente che il venditore ha dichiarato di aver ricevuto 3000 €. Quindi il falso ideologico viene sempre posto in essere dal notaio o dal

86 Se è commessa dal pubblico ufficiale questo incorre nell’art. 476 del codice penale.

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pubblico ufficiale che va anche incontro a responsabilità penale (art. 479 c.p.) nell’ipotesi in cui venga accertato questo tipo di falso.

L’art. 221 c.p.c. prevede che la querela di falso sia proponibile in due modi: in via principale oppure in via incidentale. In via principale dà vita ad un autonomo giudizio d’accertamento invece incidentale significa nel corso di un altro processo, cioè in corso di causa. L’attore dovrà dimostrare di avere interesse ad accertare la falsità del documento a prescindere dal processo, in via autonoma, dimostrando, per esempio, che l’esistenza del documento falso può pregiudicarlo e si tratta di un vero e proprio atto di citazione proposto al tribunale collegiale perché sulla querela di falso, ex art. 225 c.p.c. (decisione sulla querela), pronuncia sempre il collegio, mentre per la competenza territoriale si applicano i criteri ordinari, quindi il tribunale del luogo in cui il convenuto ha la residenza e così via. L’art. 221 secondo comma stabilisce che la querela di falso debba contenere, a pena di nullità, l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità. Quindi mentre generalmente le prove possono essere indicate dopo la notifica dell’atto di citazione, fino alla scadenza del termine entro cui va depositata la comparsa prevista dall’art. 183 sesto comma, se si tratta di un atto di citazione volto ad accertare la falsità del documento devono essere indicate le prove a pena di nullità. L’altra particolarità che presenta la proposizione della querela di falso è che essa deve essere proposta dalla parte personalmente oppure a mezzo di procuratore speciale, quindi l’atto di citazione dovrà essere sottoscritto dalla parte oppure da un procuratore munito di un mandato speciale con atto di citazione o con dichiarazione da unirsi al verbale di udienza (art. 221). Infine l’ultima particolarità riguarda l’art. 99 delle disposizioni di attuazione quando prevede che la querela di falso proposta, con atto di citazione, venga confermata nella prima udienza dinanzi al giudice istruttore, dalla parte personalmente o dal difensore munito di procura speciale, quindi non solo deve essere proposta personalmente ma deve essere anche confermata nella prima udienza. L’ipotesi più ricorrente, invece, è il procedimento incidentale di falso in cui la querela può essere proposta in qualunque stato e grado del giudizio, finché la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato (art. 221), sicché non ci sono preclusioni. Altra particolarità è se avviene in corso di causa la querela è sempre proposta dalla parte personalmente o da un procuratore munito di mandato speciale, attraverso una dichiarazione che dovrà poi essere unita al verbale di udienza. Una volta presentata la querela di falso s’instaura un procedimento incidentale all’interno del processo che possiamo distinguere in due fasi: la fase autorizzativa e la quella vera e propria della presentazione della querela di falso. Proposta la querela di falso, il giudice deve interpellare la parte che ha prodotto il documento chiedendole se intende avvalersi di quel documento e a seconda dell’esito di questo interpello procede di conseguenza (art. 222 c.p.c.): ⇒ se la parte il cui atto è stato impugnato il falso rinuncia ad avvalersene, il processo va avanti

regolarmente, ma il giudice non potrà utilizzare quel documento nel processo; ⇒ se la parte insiste nel volersi avvalere del documento impugnato di falso dalla controparte, il

giudice deve valutare che il documento sia rilevante ai fini della decisione ed è una particolarità che troviamo solo in questo procedimento, perché normalmente i documenti prodotti dalle parti non sono sottoposti ad un giudizio di ammissibilità e di rilevanza come le prove costituende.

Se il giudice considera il documento rilevante, autorizza la presentazione della querela nella stessa udienza o in quella successiva ed ammette i mezzi istruttori che ritiene idonei nonché dispone circa i modi ed i termini della loro assunzione (art. 222). Quindi se la parte ha risposto positivamente all’interpello ed ha dichiarato di volersi avvalere del documento e il giudice ritiene quel documento rilevante si dà luogo alla seconda fase di questo sub procedimento che è quella della presentazione della querela di parte. Questa seconda fase si svolge dinanzi allo stesso giudice se la causa è stata incardinata dinanzi al tribunale collegiale, ma se la querela viene proposta dinanzi al tribunale monocratico o al giudice di

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pace o finanche dinanzi alla corte d’appello87, la decisione spetta al giudice competente per materia che è il tribunale collegiale di primo grado (art. 225) e la conseguenza è la sospensione, ex lege, del processo, quindi senza alcun potere discrezionale del giudice di valutare l’opportunità di sospendere il processo. Nella fase del procedimento dinnanzi al tribunale è previsto l’intervento necessario del pubblico ministero (art. 221 ultimo comma), quindi gli atti devono essere comunicati al pm, proprio perché si ravvisa un interesse pubblico essendo documenti coperti da pubblica fede. A questo punto l’art. 223 (processo verbale di deposito del documento) dispone: “Nell'udienza in cui è presentata la querela, si forma processo verbale di deposito nelle mani del cancelliere del documento impugnato. Il processo verbale è redatto in presenza del pubblico ministero e delle parti, e deve contenere la descrizione dello stato in cui il documento si trova, con indicazione delle cancellature, abrasioni, aggiunte, scritture interlineari e di ogni altra particolarità che vi si riscontra. Il giudice istruttore, il pubblico ministero e il cancelliere appongono la firma sul documento. Il giudice può anche ordinare che di esso sia fatta copia fotografica.” Viceversa se questo documento non è stato ancora prodotto in giudizio e si trova presso un depositario, il giudice può ordinare il sequestro nelle forme previste dal codice penale o, se non è possibile il deposito del documento in cancelleria, dispone le necessarie cautele per la conservazione di esso e redige il processo verbale alla presenza del depositario nel luogo dove il documento si trova (art. 224 c.p.c.). A questo punto si svolge il processo, verranno acquisite le prove e potrà la querela di falso e se viene accolta quel documento sarà accertato come documento falso, invece se viene rigettata, l’art. 226 c.p.c. prevede che il giudice ordini la restituzione del documento, disponga che sia fatta menzione della sentenza sull’originale e sulla copia e che la parte che abbia proposto la querela di falso infondata, venga condannata ad una pena pecuniaria non è inferiore a 2 € e non è superiore a 20 € e nelle intenzioni del legislatore del 1940, la pena avrebbe dovuto costituire un deterrente alla proposizione della querela, ma oggi ha perso completamente il suo valore visto che è diventata irrisoria. Se la querela di falso è accolta e quindi accertata la falsità del documento, il secondo comma dell’art. 226 prevede che il collegio, anche d’ufficio, dia le disposizioni accessorie previste dall’art. 537 c.p.p. Questi provvedimenti consistono nella cancellazione del documento (se è totalmente contraffatto), nella ripristinazione (nel caso in cui siano state fatte delle alterazioni per ripristinarlo così com’era nell’originale) nella rinnovazione nell’ipotesi in cui ci sia stato un falso ideologico, quindi bisognerà ricostruire il contenuto, il testo e la volontà originaria nei limiti in cui ciò è possibile (ad esempio nell’ipotesi di un testamento pubblico, se nel frattempo il testatore è morto non sarà più possibile rinnovare questi provvedimenti). Tutti i provvedimenti accessori devono essere attivati solo quando la sentenza che ha accertato la falsità del documento sia passata in giudicato. Altra particolarità di questa sentenza è l’efficacia perché, secondo la tesi prevalente in dottrina e seguita dalla giurisprudenza, ha efficacia erga omnes, quindi in deroga all’art. 2909 c.c. che stabilisce che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato produca effetti tra le parti gli eredi e gli aventi causa, qui invece la sentenza produce effetti anche nei confronti dei terzi. Questa deroga si giustifica con l’interesse pubblico sotteso a questo procedimento, in quanto vengono proprio eliminati dalla circolazione giuridica documenti falsi che costituiscono un attentato alla fede pubblica. La scrittura privata diversamente dall’atto pubblico, il codice non fornisce una definizione per cui la nozione di scrittura privata la dobbiamo dedurre in negativo, guardando l’atto pubblico,

87 Se è proposta a querela di falso il giudice di pace (art. 313 c.p.c.), quando ritiene il documento impugnato rilevante per la decisione, sospende il giudizio e rimette le parti davanti al tribunale per il relativo procedimento e lo stesso deve fare la corte d’appello (art. 355 c.p.c.) se nel giudizio d’appello è proposta querela di falso il giudice, quando ritiene il documento impugnato rilevante per la decisione, sospende con ordinanza il giudizio e fissa per le parti un termine perentorio entro il quale devono riassumere la causa di falso dinanzi al tribunale.

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considerando che dal punto di vista dell’efficacia cambia tutto perché non c’è un soggetto autorizzato ad attribuire pubblica fede come un notaio. È evidente che la scrittura privata è un qualsiasi testo scritto firmato da un privato, quindi la differenza è proprio nella provenienza, non proviene da un soggetto autorizzato ad attribuirgli pubblica fede ma da un qualsiasi privato. Il testo della scrittura privata può essere olografo (di pugno del sottoscrittore) o può essere scritto da un terzo o meccanicamente con un computer, cioè che rileva è la sottoscrizione che è l’elemento essenziale, anche perché consente di individuare il sottoscrittore ma soprattutto è importante in quando chi sottoscrive fa proprio il documento e quindi se ne assume la paternità. L’art. 2702 c.c. (Efficacia della scrittura privata) dispone: “La scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta.” La scrittura privata, diversamente dall’atto pubblico, fa piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni, non di quello che sta scritto sul documento o di quello che viene dichiarato (questo è fondamentale per distinguere tra atto pubblico e scrittura privata). Fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni solo se chi l’ha sottoscritta riconosce espressamente la scrittura o la sottoscrittura oppure se questa legalmente è considerata come riconosciuta e tra le ipotesi in cui si ha per riconosciuta, l’art. 2703 c.c. indica la sottoscrizione autenticata da un notaio o da un altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Quindi la scrittura privata acquista efficacia di piena prova se nel corso del processo la parte contro cui è prodotta riconosce espressamente che la sua sottoscrizione, oppure, se si tratta di una scrittura che appartiene ad una persona deceduta, gli eredi possono limitarsi a riconoscere la scrittura. L’art. 214 c.p.c. (disconoscimento della scrittura privata) pone a carico della parte contro cui è prodotta una scrittura un vero e proprio onere di disconoscimento: “Colui contro il quale è prodotta una scrittura privata, se intende disconoscerla, è tenuto a negare formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione. Gli eredi o aventi causa possono limitarsi a dichiarare di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione del loro autore.” È molto importante che il disconoscimento deve consistere in una negazione formale perché, ai sensi dell’art. 215 n. 2, se la parte comparsa non la disconosce o non dichiara di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione della scrittura, si ha un riconoscimento tacito, cioè la scrittura è riconosciuta ex lege ed acquista efficacia di piena prova. L’altra ipotesi in cui si verifica il riconoscimento tacito, si ha nel caso di scrittura sia prodotta nei confronti del contumace, ex art. 215 n. 1: “se la parte, alla quale la scrittura è attribuita o contro la quale è prodotta, è contumace, salva la disposizione dell'articolo 293 terzo comma”, significando che se il contumace si costituisce in giudizio può comunque disconoscere la scrittura privata. Ricapitolando la scrittura privata fa piena prova fino a querela di falso quando: � è riconosciuta espressamente; � è riconosciuta tacitamente, se la parte non l’ha tempestivamente disconosciuta (art. 215 c.p.c.); � se è prodotta nei confronti del contumace; � se si tratta di una scrittura privata autenticata da un notaio o da un altro pubblico ufficiale.

In quest’ultimo caso, ex art. 2703, l’autenticazione consiste nell’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell’identità della persona che sottoscrive l’atto e quindi ciò di cui la scrittura fa piena prova è sempre la provenienza dell’atto da chi lo ha sottoscritto. Nel caso dell’autenticazione, rileva anche il luogo e la data e in particolare quest’ultima si desume dal primo comma dell’art. 2704 c.c.: “La data della scrittura privata della quale non è autenticata la sottoscrizione non è certa e computabile riguardo ai terzi, se non dal giorno in cui la scrittura è stata registrata o dal giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno di coloro che l’hanno sottoscritta o dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atti

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pubblici o, infine, dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento.” Quindi la data della scrittura privata se è autenticata si dà per certa, se è una scrittura riconosciuta per esempio espressamente fa piena prova fra le parti, ma nei confronti dei terzi non è opponibile se non da uno di questi momenti che sono indicati nel 2704. Se la parte disconosce tempestivamente la scrittura privata, nei termini di cui all’art. 215 n. 2, quella scrittura non ha nessun valore probatorio però l’altra parte, quella che ha prodotto la scrittura, potrebbe contestare e chiedere la verificazione. Se c’è stato il disconoscimento la parte che ha prodotto la scrittura che invece ha interesse ad avvalersi della scrittura disconosciuta che è una prova, può chiedere la verificazione della scrittura privata ex art. 216 c.p.c. (Istanza di verificazione): “La parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiederne la verificazione, proponendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di comparazione. L'istanza per la verificazione può anche proporsi in via principale con citazione, quando la parte dimostra di avervi interesse; ma se il convenuto riconosce la scrittura, le spese sono poste a carico dell'attore.” Quindi anche la verificazione può proporsi in via incidentale (ipotesi più ricorrente), quanto in via principale cioè un autonomo giudizio per accertare l’autenticità della sottoscrizione. Vedete la verificazione ha un contenuto opposto rispetto alla querela di falso, mentre la querela di falso è diretta a togliere efficacia al documento, la verificazione vuole attribuire efficacia ad una scrittura privata che, per effetto del disconoscimento, non ha più alcun valore probatorio. Se la parte ha interesse ad accertare la validità della scrittura e avendone interesse può proporre istanza in via principale e in tal caso il procedimento di verificazione dà luogo ad un giudizio ordinario di cognizione avente ad oggetto l'accertamento dell'autenticità della sottoscrizione. Secondo l'orientamento oggi prevalente in via principale sarebbe una vera e propria domanda, invece in via incidentale l'istanza di verificazione avrebbe natura di richiesta istruttoria. Questo problema è importante perché rileva con riferimento alla preclusioni perché la giurisprudenza ritiene che l’istanza di verificazione non può essere proposta fino alla precisazione delle conclusioni, ma, essendo una richiesta istruttoria, deve essere formulata nel rispetto delle preclusioni istruttorie, anche se questo crea ulteriori complicazioni nell’ipotesi in cui la scrittura privata viene prodotta dopo la fase istruttoria. Ritornando al procedimento di verificazione le prove devono essere indicate con l'istanza di verificazione e tra queste particolare importanza hanno le scritture che possono servire da comparazione, quindi sulla base di scritture certe per il soggetto che ha disconosciuto la provenienza di quella prodotta in giudizio, cioè si prende un'altra scrittura dello stesso soggetto per compararla con quella contestata attraverso una perizia calligrafica si può stabilire se la firma posta sul documento disconosciuto sia vera. “Nel determinare le scritture che debbono servire di comparazione, il giudice ammette, in mancanza di accordo delle parti, quella la cui provenienza dalla persona che si afferma autrice della scrittura è riconosciuta oppure accertata per sentenza di giudice o per atto pubblico (art. 217 c.p.c.).” Quindi deve essere assolutamente certo che la scrittura utilizzata come scrittura di comparazione provenga dalla parte. Tuttavia “Il giudice istruttore può ordinare alla parte di scrivere sotto dettatura, anche alla presenza del consulente tecnico. Se la parte invitata a comparire personalmente non si presenta o rifiuta di scrivere senza giustificato motivo, la scrittura si può ritenere riconosciuta (art. 219 c.p.c.)”. Anche questo procedimento si conclude con una sentenza di accoglimento o di rigetto, ma sull'istanza di verificazione pronuncia sempre il collegio (art. 220 c.p.c.) che qui è inteso come il giudice della decisione e ciò si desume dal fatto che questo procedimento non rientra tra quelli, ai sensi dell'art 50 bis, riservati alla decisione collegiale.

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Il legislatore del 1940 ha fatto riferimento al collegio per disporre che non può decidere lo stesso giudice istruttore, ma il collegio perché allora non c’era il giudice monocratico della decisione, cioè non lo stesso giudice istruttore. Quindi l’art. 220 va inteso che se la causa è di competenza del collegio decide sempre questo, ma se rientra nella competenza del giudice del giudice di pace o del tribunale monocratico decidono questi. “Il collegio, nella sentenza che dichiara la scrittura o la sottoscrizione di mano della parte che l'ha negata, può condannare quest'ultima a una pena pecuniaria non inferiore a € 2 e non superiore a € 20 (secondo comma art. 220).” Come è avvenuto per la querela di falso, ex art. 226, la sentenza che rigetta il disconoscimento può condannare ad una pena, oggi irrisoria, chi l’ha proposto.

PROVE LEGALI La confessione La confessione consiste in una dichiarazione di scienza della parte, cioè una dichiarazione sulla verità di determinati fatti la cui particolarità è il contenuto perché è sfavorevole al dichiarante. La nozione è data dall’art. 2730 c.c.: “La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte. La confessione è giudiziale o stragiudiziale.” La caratteristica della confessione consiste in una contra se declaratio. Deve essere sempre una dichiarazione espressa, in quanto nel nostro ordinamento non esiste più la confessione tacita (prevista dal vecchio codice del 1865) e per poter valere deve avere questo duplice effetto: essere sfavorevole al dichiarante e favorevole alla parte avversa. Infatti non è confessione una dichiarazione sfavorevole al dichiarante, ma favorevole ad un terzo. Proprio per il suo contenuto, perché, di massima, nessuno confesserebbe la verità di un fatto che si ritorca contro, se quel fatto non fosse vero, il legislatore attribuisce a questa dichiarazione una efficacia probatoria privilegiata, essendo vincolante per il giudice88. Oltre alla dichiarazione espressa dal contenuto sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte, la confessione, secondo la giurisprudenza, deve avere anche un elemento soggettivo denominato animus confitendi (intenzione di confessare). Su questo elemento soggettivo si è molto discusso, perché nella nozione di confessione, ex art. 2730, non c'è alcun accenno sull'animus confitendi che è semplicemente la consapevolezza di rendere una confessione e comunque l’effetto tipico della confessione, a prescindere che sia voluto oppure no, è previsto direttamente dalla legge. Per la tesi prevalente89 la confessione è una vera e propria prova, anche se può ricordare un modo di disporre del diritto, perché chi confessa determina delle conseguenze a se sfavorevoli. Quindi la confessione deve avere un elemento oggettivo (la dichiarazione espressa) e un elemento soggettivo (l'animus confitendi) e, di regola, produce l'effetto di vincolare il giudice di piena prova. Però affinché la confessione produca questo effetto, ossia abbia valore di prova legale, il codice richiede due requisiti affinché valga come piena prova: 1. chi confessa deve avere la capacità di disporre del diritto, cioè deve essere resa, dice l'art. 2731

c.c., da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono o da un rappresentante, ma è efficace se fatta entro i limiti e i modi in cui questi vincola il rappresentato, cioè non può andare oltre i limiti attribuiti con la procura.

2. Deve essere riferita a fatti relativi a diritti disponibili, quindi è necessaria la disponibilità soggettiva ed oggettiva, infatti, ex art 2733, la confessione forma piena prova contro colui che l'ha fatta purché non verta su fatti relativi a diritti non disponibili.

88 In passato questa prova era definita la regina delle prove perché, si diceva, che non c'è prova migliore di quella fornita direttamente dalla parte che confessa un fatto ad essa sfavorevole. 89 Secondo la teoria della natura negoziale della confessione, che è una tesi della dottrina minoritaria, la confessione non sarebbe una prova, ma un atto dispositivo cioè un modo per disporre del diritto. Questa tesi non può essere condivisa perché l’animus confitendi non centra con i negozi giuridici, e attenendoci alla nozione di confessione, data dal codice civile, è una dichiarazione di scienza sulla verità di determinati fatti.

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Sul come considerare la confessione resa in mancanza dei requisiti di disponibilità soggettiva e oggettiva del diritto le opinioni diverse e secondo una tesi questi requisiti devono essere considerati di validità oltre che di efficacia della confessione, cioè se è resa su fatti relativi a diritti indisponibili, non ha alcun valore probatorio e va proprio ritenuta invalida e quindi improduttiva di qualsiasi effetto. A questa tesi si contrappone una tesi opposta, ma più logica, che considera questi requisiti essenziali affinché la confessione abbia efficacia di prova legale, affinché sia vincolante per il giudice, ma questo non significa che la contra se declaratio resa da chi non possa disporre del diritto debba essere considerata nulla, ma dovrà essere rimessa al prudente apprezzamento del giudice, cioè non avrà valore di prova legale secondo la regola generale dell’art. 116. Questa tesi si desume dall'art. 2733 c.c. che quando statuisce che la confessione giudiziale forma piena prova contro chi l'ha fatta, purché non verta su fatti relativi a diritti non disponibili e quindi sembrerebbe che non forma piena prova, ma non significa che non abbia valore probatorio e che non possa essere liberamente apprezzato dal giudice. Pertanto, per la Reali, i requisiti di disponibilità soggettiva e oggettiva della confessione valgono affinché abbia efficacia di prova legale, in mancanza sarà valutata dal giudice come prova libera. Del resto, la mancanza della disponibilità soggettiva e oggettiva non è l’unico caso in cui la confessione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, essendoci altre ipotesi previste dallo stesso codice che stabiliscono che la confessione da prova legale, degradi a prova libera. Uno di questi casi è dato nell’ipotesi di confessione resa da uno solo dei litisconsorti necessari (art. 102 c.p.c.), quella confessione non può vincolare gli altri litisconsorti che non hanno confessato e allora ex art. 2733 terzo comma quella confessione non vale come prova legale, ma è liberamente apprezzata dal giudice. Questa situazione però è cosa diversa dalla confessione resa nell'ipotesi di litisconsorzio facoltativo, perché la connessione è solo formale, ma dal punto di vista sostanziale restano separate, quindi la confessione resa da una parte in una delle cause cumulate fa piena prova, di massima, soltanto nei confronti dell'altra parte della stessa causa, mentre per aver valore anche tra le parti della causa cumulata deve riguardare una questione in comune. La confessione vale come prova libera nell’ipotesi prevista dall'art. 2734 c.c. che disciplina le dichiarazioni aggiunte alla confessione, quindi relative alla parte che ha confessato, ma che tendono a togliere valore alla confessione resa. Per esempio il convenuto confessa di aver ricevuto una somma di denaro che l'attore/creditore chiede, ma aggiunge di averla restituita; quella aggiunta (la restituzione della somma) toglie valore alla dichiarazione confessoria (di aver ricevuto una somma di denaro): questa confessione è denominata complessa e si ha quando una parte che ha reso una dichiarazione confessoria aggiunge un fatto che toglie valore alla dichiarazione confessoria. Invece è confessione qualificata quando il confidente dà al fatto confessato una qualificazione diversa, ma sempre tale da togliere valore alla confessione, nell'esempio precedente se la parte confessa di aver ricevuto una somma di denaro, ma in donazione anziché prestito. Quindi in questo caso aggiunge una circostanza che qualifica diversamente il fatto confessato e sostanzialmente vanifica il valore della confessione resa. Il legislatore del ‘4290 sulla confessione complessa o qualificata stabilisce che quando alla dichiarazione confessoria “si accompagna quella di altri fatti o circostanze tendenti ad infirmare (invalidare) l'efficacia del fatto confessato, ovvero a modificarne o estinguerne gli effetti, le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità, se l'altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte. In caso di contestazione è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l'efficacia probatoria delle dichiarazioni (art. 2734 c.c.).”

90 Secondo il vecchio codice del 1865 era enunciato nell'art. 1360, il principio per cui la confessione non può essere divisa in danno di chi l'ha fatta, cioè non è possibile considerare quella dichiarazione soltanto nella parte contra se e non tener conto che chi ha confessato ha aggiunto una dichiarazione pro se. Tuttavia in mancanza di più precise indicazioni questa previsione aveva dato luogo a innumerevoli problemi, non si capiva bene come valutarla.

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L'efficacia della confessione complessa o qualificata dipende dal comportamento dell'avversario: se non contesta la circostanza aggiunta (non contesta la restituzione del denaro) implicitamente ammette che quella circostanza è vera. Questo spiega perché l'intera dichiarazione fa piena prova, viceversa se viene contestata la dichiarazione aggiunta, l'intera dichiarazione è rimessa al libero apprezzamento del giudice a seconda delle circostanze, per cui diventa una prova libera. Per la dottrina (Balena) e in alcune sentenze della Cassazione il giudice deve valutare come prova libera solo la parte contra se della dichiarazione, ma non la parte pro se, altrimenti questa acquisterebbe valore solo perché si accompagna ad una dichiarazione contra se, mentre nella normalità dei casi non ha alcun valore e, tra l’altro, è una dichiarazione pro se contestata dall'altra parte. Pertanto questa norma va letta in modo garantistico e allo stesso tempo compatibile con i principi dell'onere della prova e dell'efficacia probatoria minima intendendo che, nel caso in cui sia stata aggiunta una dichiarazione pro se contestata dall'altra parte, la dichiarazione contra se non ha valore di prova legale, ma libera per cui il dichiarante dovrà però dimostrare la verità della dichiarazione probatoria che è stata contestata dal suo avversario. Di regola, una volta che la confessione è stata resa, non è più possibile revocarla, salvo i due casi molto gravi previste dall'art. 2732 c.c. (Revoca della confessione): errore di fatto e violenza. La parte ha confessato la verità di un fatto a se sfavorevole, nella convinzione che quel fatto fosse vero, ma poi si rende conto che ha avuto una falsa percezione della verità di quel fatto. Per ottenere la revoca della confessione innanzitutto dovrà dimostrare che il fatto confessato è falso e poi dovrà pure dimostrare l'errore di fatto, cioè di aver erroneamente percepito come vero un fatto falso, quindi ha una duplice e difficile prova da dimostrare. L'altro caso di revoca è l'ipotesi della confessione determinata da violenza (anche morale) e anche qui dovrà essere dimostrata la violenza subita per chiedere la revoca della confessione. La confessione può essere resa sia fuori dal processo, cioè stragiudiziale, ed è disciplinata dal codice civile, oppure può essere resa in corso di causa, cioè confessione giudiziale, e in questo caso la disciplina la ritroviamo nel codice di procedura civile. La confessione stragiudiziale, art. 2735 primo comma, è resa dalla parte fuori dal processo: alla parte o ad un rappresentante legale o ad un terzo o può essere contenuta in un testamento. L'efficacia probatoria della dichiarazione stragiudiziale cambia a seconda del soggetto a cui è resa: ⇒ se la confessione è fatta alla parte o a chi la rappresenta, ha la stessa efficacia probatoria di

quella giudiziale, fa piena prova contro colui che l'ha fatta ed ha efficacia vincolante, ⇒ se viene resa ad un terzo o è contenuta in un testamento è liberamente apprezzata dal giudice, e

quindi ha valore di prova libera. Se la confessione è stata resa fuori dal processo, la parte che se ne vuole avvalere nel corso del processo dovrà dimostrare che la confessione stragiudiziale sia stata resa fornendo quella che è denominata la prova della prova. Se la confessione è contenuta in un atto scritto (testamento o in un documento come una quietanza che è una tipica confessione scritta) è sufficiente produrre quel documento nel processo per dimostrare che la confessione è stata resa; ma se la parte non ha un documento scritto, dovrà dimostrare la confessione attraverso un qualsiasi altro mezzo di prova, primo fra tutti un testimone, con un limite: “La confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni se verte su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge (art. 2735 secondo comma).” La prova testimoniale in alcuni casi è ex lege inammissibile (limiti oggettivi di ammissibilità), per cui se su quei fatti la prova testimoniale non è ammessa, neppure attraverso la confessione per testimoni potranno provarsi quei fatti, cioè se gli stessi fatti non possono essere provati per testimoni è inammissibile una confessione per testimoni che verte su fatti per i quali la testimonianza è inammissibile. In relazione alla confessione giudiziale l'art. 228 c.p.c. stabilisce che può essere resa in due modi: spontanea e provocata mediante interrogatorio formale.

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La confessione spontanea può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell'art. 117 c.p.c. La confessione spontanea, art. 229 c.p.c., viene resa su iniziativa della parte e consiste in una dichiarazione sottoscritta dalla parte che forma piena prova contro colui che l'ha resa. In relazione all'art. 117, che disciplina l'interrogatorio libero delle parti, l'art. 229 viene interpretato che la confessione spontanea può essere resa in qualsiasi atto del processo, ma non può mai essere resa nel corso dell'interrogatorio libero (art. 117) e sembrerebbe, secondo quella che è l'interpretazione dominante, che in sede di interrogatorio libero non si può mai avere una confessione con efficacia di piena prova. Tuttavia la giurisprudenza e la dottrina aggiungono una precisazione: non può mai esserci una confessione in sede di interrogatorio libero come conseguenza delle domande formulate dal giudice, ma se in sede di interrogatorio libero, una parte spontaneamente confessa davanti al giudice, quella confessione non è conseguenza delle domande fatte dal giudice, per cui diventa una confessione spontanea a tutti gli effetti con valore di piena prova. Nel codice del ‘40 era l’art. 117 (Interrogatorio non formale delle parti)91 era l'unica norma che disciplina l'interrogatorio libero, in seguito però questo istituto è stato regolato anche dall'art. 185 (Tentativo di conciliazione), mentre prima del 2005 la disciplina di questo interrogatorio era contenuta anche nell'art 183 che disciplina l'udienza di trattazione. “Il giudice in qualunque stato e grado del processo, ha facoltà di ordinare la comparizione personale delle parti in contraddittorio tra loro per interrogarle liberamente sui fatti di causa. Le parti possono farsi assistere dai difensori (art. 117).” Questa disposizione attribuisce al giudice un potere molto ampio di ordinare la comparizione personale delle parti e qui il giudice non incontra alcun limite nel suo potere discrezionale, in quanto può convocare le parti quando lo ritiene. Per la Cassazione è un potere discrezionale non censurabile in sede di legittimità, quindi rimesso alla valutazione del giudice senza che ci possa essere alcun controllo su questo potere: lo può fare una o più volte nel corso del processo e in qualunque stato e grado del processo. Quindi non soltanto è un potere ampio dal punto di vista della discrezionalità (se disporre o meno l'interrogatorio), ma anche del quando perché il giudice può disporlo in qualunque stato del processo di primo grado. Del resto, con riferimento alla prima udienza di trattazione, la possibilità che venga disposto all'inizio è espressamente prevista dall'art. 183 terzo comma: il giudice istruttore fissa una nuova udienza se deve procedere a norma dell'art. 185, cioè se deve interrogare liberamente le parti. Questa disposizione è inutile perché esiste già l’art. 117 che da la possibilità al giudice di disporre l'interrogatorio non formale in qualunque stato del processo e può farlo, ex art. 117, all'inizio della lite o in corso di causa, sino alle precisazioni delle conclusioni e, addirittura, per la Cassazione anche dopo che il giudice si è riservato per la decisione, in quanto il collegio potrebbe restituire la causa al giudice istruttore per questo interrogatorio libero delle parti. Può essere disposto in qualunque grado, quindi anche in appello il giudice può convocare personalmente le parti per interrogarle liberamente e teoricamente anche in Cassazione, però questa situazione non è mai accaduta, perché è un giudice di legittimità non di merito, ma non perché la norma non lo consenta. Quindi un potere amplissimo sia con riferimento all'an (il se) sia con riferimento al quando, ma anche e sopratutto alle domande che il giudice può formulare alle parti, perché l'art. 117 pone un unico limite al giudice: quello di ordinare la comparizione a tutte le parti, cioè in contraddittorio, ma non può ordinare la comparizione di una soltanto. Se però se ne presentasse una soltanto, nulla impedirebbe il giudice di interrogare liberamente la parte presente. Il giudice interroga liberamente le parti e questo significa che il giudice può porre alle parti qualsiasi domanda, con l'unico limite che devono vertere sui fatti di causa.

91 Si tratta di un istituto introdotto nel 1940, non previsto nel vecchio codice, anche se la dottrina aveva auspicato che fosse dato al giudice il potere di poter convocare personalmente le parti, ma in modi e fini diversi da quelli che poi sono stati seguiti nel codice del 40.

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Il problema che sorge è che l'art. 117 dispone che le parti hanno facoltà (non l’obbligo) ad essere assistite in sede di interrogatorio libero e secondo alcuni giudici quella del difensore deve essere una mera presenza, cioè non può intervenire in aiuto del suo assistito nel corso dell'interrogatorio; invece per altri deve essere un’assistenza con il difensore che intervene per assistere la parte. Il problema centrale nell’interrogatorio libero è che la parte può essere colta di sorpresa, qualcuno parla di domande trabocchetto, quindi possa finire per rendere una dichiarazione sfavorevole che la pregiudica. Per questo l'art. 229 ha disposto che le dichiarazioni contra se declaratio non possono valere come confessione, cioè il legislatore del 1940 per un verso ha dato al giudice un amplissimo potere per interrogare liberamente le parti, ma ha svuotato questo potere del suo valore probatorio perché quello che dice la parte nel corso del interrogatorio non è una confessione, per cui non può usarlo contro la parte. Calamandrei si rese conto che questo istituto poteva trasformarsi in un mezzo inquisitorio e non potendo impedire l’introduzione questa norma, cercò di limitare i danni introducendo l’art. 116 per il quale le dichiarazioni contra se rese in sede di interrogatorio libero possono valere solo come argomento di prova per chiarire i fatti e fornire al giudice gli elementi sussidiari di convincimento, ma non per fornire vere e proprie prove. Ma le cose sono andate in modo diverso, perché la giurisprudenza ha sconfessato questo disegno del legislatore, perché afferma in modo costante che se una parte in sede di interrogatorio libero rende una dichiarazione contra se, emette una dichiarazione sfavorevole e favorevole all'altra parte, la giurisprudenza dice che quella dichiarazione è sufficiente a fondare il convincimento del giudice per decidere la lite e anche se non ha valore di una prova legale (non è una confessione), il giudice può ritenerla sufficiente a decidere la lite, per cui sostanzialmente ha lo stesso valore di una vera e propria prova. Quindi mentre la dichiarazione pro se resa in sede di interrogatorio libero è un semplice argomento di prova, un elemento sussidiario di convincimento, la dichiarazione contra se oggi può ritorcersi contro la parte che l'ha resa, perché il giudice può decidere la lite in base a quella dichiarazione92. L'art. 185 prevede che l'interrogatorio libero possa essere disposto non solo su ordine del giudice, ma anche su richiesta congiunta delle parti: è una novità introdotta dalla legge 80 e 263 del 2005. Questa norma ha sostituito la precedente previsione del 1990 che, sulla scia del tentativo obbligatorio di conciliazione del processo del lavoro (art. 410 c.p.c.), aveva stabilito l'obbligatorietà dell'interrogatorio libero all'inizio di tutte le cause civili. Il legislatore del ‘90 aveva creato un collegamento tra l'interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione, che resta la principale funzione oggi dell'interrogatorio libero dove il giudice convoca le parti per conoscere le rispettive posizioni e se ci sono margini per conciliare le parti. Questo interrogatorio libero obbligatorio all'inizio di qualsiasi causa civile si è rivelato una scelta non felice del legislatore, perché spesso inutile perché, sebbene obbligatorio, il giudice ometteva di interrogare le parti ritenendolo inutile oppure le parti stesse non comparivano in udienza, ponendo così il giudice nell'impossibilità di espletare l'interpello, tanto più che l'omissione dell'interrogatorio libero, non essendo sanzionata da nullità non comportava conseguenze sulla validità del processo e della sentenza, per cui questa obbligatorietà è stata di fatto disattesa. Nel 2005 il legislatore si è reso conto dell'inutilità di questa previsione ed ha soppresso l'obbligatorietà lasciando l'interrogatorio libero solo su richiesta congiunta di parte, anche se è assai difficile che tutte le parti che sono contrapposte trovano un accordo per andare davanti al giudice e sottoporsi all'interrogatorio libero.

92 Questo istituto pone dei dubbi di legittimità costituzionale, sopratutto in relazione al diritto di difesa, alla garanzia del giusto processo regolato dalla legge, perché questa non regola né i presupposti, perché il giudice può interrogare liberamente le parti, e neppure i limiti alle domande, come invece accade nel processo penale, dove l'interrogatorio delle parti private è molto più garantistico e dove il giudice non può formulare domande che tendano a suggerire risposte, per cui queste regole andrebbero previste anche per l'interrogatorio libero.

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Per la Reali è una norma che ha in se già il germe del suo fallimento, perché dare a ciascuna parte la possibilità di chiedere l'interrogatorio libero è diverso dal presupporre che tutte le parti lo chiedano in comune accordo, in quanto le possibilità pratiche di applicazione in questa seconda ipotesi diminuiscono di molto. Sta di fatto che l'art. 185 prevede l’interrogatorio libero su richiesta congiunta per il quale il giudice fissa la comparizione delle parti per interrogarle liberamente e provocarne la conciliazione. Quindi le parti possono chiedere congiuntamente l'interrogatorio libero all'inizio di causa o in corso di causa, e se c'è questa richiesta il giudice interroga. Quindi è sempre discrezionale questo interrogatorio, salvo il caso in cui non ci sia una richiesta congiunta delle parti e in tal caso il giudice deve provvedere. In sede di interrogatorio libero, ex art. 185, le parti possono anche farsi sostituire da un procuratore generale o speciale che sia a conoscenza dei fatti di causa ed è una previsione fu introdotta nel 1990 quando l'interrogatorio libero era obbligatorio, per cui poteva essere difficoltoso per la parte comparire alla causa (soprattutto se doveva comparire in più cause contemporaneamente). Tale procuratore generale o speciale deve essere a conoscenza dei fatti di causa ed essere munito di procura conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata, perché deve anche contenere il potere di conciliare o transigere la controversia e dal 2005 è previsto che la scrittura privata con cui è conferita questa facoltà sia autenticata dallo stesso difensore della parte. Se però il procuratore si presenta in sostituzione della parte, ma non è in grado di rispondere alle domande del giudice, cioè afferma di non conoscere i fatti senza giustificato motivo, la mancata conoscenza è valutata come argomento di prova ai sensi dell'art. 116 secondo comma: il giudice può tener conto come argomento sussidiario di convincimento. Lo stesso discorso vale nel caso in cui la parte non presenzi all'interrogatorio libero senza giustificato motivo, né si faccia sostituire né compaia personalmente e anche se dal 2005 questo comportamento della parte non è più sanzionato attraverso il rinvio all'art 116 secondo comma, la stessa norma prevede che il contegno della parte è valutata come prova: il giudice può desumere argomento di prova dal contegno della parte tra cui rientra la mancata comparizione ingiustificata a rendere l’interrogatorio libero. L'interrogatorio libero è chiamato anche interrogatorio non formale (artt. 117 e 185), in contrapposizione all'interrogatorio formale finalizzato alla confessione della parte (art. 230). L'interrogatorio libero, ex art. 117, è disposto d'ufficio, mentre l'interrogatorio formale è disposto dal giudice su richiesta della parte e quindi rientra nell’art. 115 sulla disponibilità delle prove, perché soltanto la parte può chiedere al giudice di interrogare formalmente il proprio avversario, sicché l'interrogatorio formale presuppone l'iniziativa della parte, almeno nel processo ordinario di cognizione. L’interrogatorio formale è circondato dalle più ampie garanzie per la parte, proprio perché diretto a provocare una confessione con efficacia di piena prova, infatti l'art. 230 (Modo dell'interrogatorio): “L'interrogatorio deve essere dedotto per articoli separati e specifici. …” Quindi nel chiedere l'interrogatorio dell'avversario, la parte dovrà indicare in articoli separati e specifici i fatti su cui l'altra parte dovrà essere interrogata, perché “… Non possono farsi domande su fatti diversi da quelli formulati nei capitoli, a eccezione delle domande su cui le parti concordano e che il giudice ritiene utili; ma il giudice può sempre chiedere i chiarimenti opportuni sulle risposte date.” Qui siamo in una situazione opposta all'interrogatorio libero, perché nell'interrogatorio formale la parte conosce esattamente le domande che il giudice le formulerà. Paradossalmente questo rigore che caratterizza l'interrogatorio, finisce per vanificare la funzione probatoria di provocare la confessione, perché conoscendo in anticipo de domande che saranno formulate la parte non può essere colta di sorpresa, quindi nella stragrande maggioranza dei casi la parte finirà per negare i fatti sfavorevoli e rendere solo dichiarazioni pro se.

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Pertanto, l'interrogatorio formale dovrebbe servire a provocare la confessione in concreto quasi mai fornisce al giudice una dichiarazione confessoria della parte93, quindi viene utilizzato dalla parte solo per prendere tempo e soprattutto per definire i confini delle contestazioni e pertanto spesso viene ammesso prima degli altri mezzi di prova. La parte deve rispondere all’interrogatorio formale personalmente, quindi non può farsi sostituire da un procuratore speciale come nell'interrogatorio libero, non può nemmeno servirsi di scritti preparati, salvo che il giudice non lo autorizzi ad avvalersi di note o appunti se deve fare riferimento a nomi o numeri o particolari circostanze lo consigliano (art. 231 c.p.c.). La chiamata all’interrogatorio formale va comunicato anche alla parte contumace e l'art. 232 (mancata risposta) c.p.c. stabilisce: “Se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il collegio (da intendere come giudice della decisione), valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio. Il giudice istruttore, che riconosce giustificata la mancata presentazione della parte per rispondere all'interrogatorio, dispone per l'assunzione di esso anche fuori della sede giudiziaria.” Si tratta di vedere se la mancata comparizione della parte è giustificata oppure no, perché nel primo caso il giudice non può trarre alcuna conseguenza sfavorevole per la parte da questa situazione, al massimo può fissare una nuova udienza d'interrogatorio anche fuori la sede giudiziaria. Viceversa se l'assenza è ingiustificata e ancor peggio se la parte non risponde alle domande, il giudice, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti cioè si ha l'effetto dell'ammissione tacita. Se questo l’interrogato non si presenta, questo comportamento equivale ad una tacita ammissione di quei fatti valutato ogni altro elemento di prova. Ma qui sorgono dei problemi perché, secondo la giurisprudenza, questo inciso vuol dire che, da sola, la mancata comparizione, non sufficiente a fondare il convincimento del giudice, se non ci sono altri elementi prova che confermano questo comportamento. La giurisprudenza qui, sebbene in altre circostanze ha detto che anche un solo argomento di prova, purché qualificato, è sufficiente a fondare il convincimento del giudice, in questo caso, dove invece forse ci sono tutti i presupposti e le garanzie, afferma il contrario; per cui la tesi da preferire è che questa mancata risposta possa, anche da sola, valere come ammissione tacita, salva la possibilità per il giudice di valutare anche eventuali altre prove94. Il giuramento della parte Altra prova legale è il giuramento della parte è regolato dall’art. 2736 c.c. ed è anche una dichiarazione di scienza della parte, cioè una dichiarazione sulla verità dei fatti.

93 Già dal vecchio codice era stato chiesto al legislatore di abrogare questo istituto, come era accaduto in Francia da dove abbiamo importato l'interrogatorio formale, ma nel 42, siccome non serviva a nulla, è stato soppresso e sostituito con la comparizione personale delle parti disciplinata in modo dettagliato e non come il nostro 117. Invece il legislatore italiano del ‘40 ha previsto l'interrogatorio libero che non serve come mezzo di prova, ma ha conservato l'interrogatorio formale che tutti volevano sopprimere. Così oggi abbiamo due istituti: uno pericoloso (l’interrogatorio libero) e l'altro che serve a ben poco (quello formale). Invece bisognava trovare una via intermedia: né la libertà del 117, né il formalismo dell'interrogatorio. 94 Per la Reali, l’interpretazione restrittiva della giurisprudenza dell'art. 232 non ha ragion d'essere, perché quell'inciso è stato introdotto per escludere, come accadeva col codice del 1865, che la mancata comparizione fosse considerata una confessione tacita, mentre oggi il nostro ordinamento non prevede più la confessione tacita, però col vecchio codice c'era chi riteneva che la mancata risposta all'interrogatorio formale fosse una confessione tacita. Per evitare questo il legislatore ha detto che il giudice deve tenere conto anche delle altre prove raccolte, ma non ha detto che se non ci sono altre prove questa mancata comparizione non ha valore probatorio, ma è un semplice argomento di prova, come oggi dice la giurisprudenza. Anche perché se mancata risposta vale come argomento di prova non avrebbe senso l’art. 232, essendoci già l'art. 116 secondo comma, che dice che il giudice può desumere argomento di prova dal contegno processuale delle parti e quindi anche dalla mancata comparizione dall'interrogatorio, per cui non ha senso aver previsto questa confessione tacita. Viceversa l’ammissione, ex art. 232, ha valore di vera e propria prova, perché qui la parte non solo sa i fatti su cui sarà interrogata, ma per di più non si presenta a rendere queste dichiarazioni; è evidentemente che si può presumere che non abbia il coraggio di negare i fatti sfavorevoli, per cui si può ritenere provato il fatto su cui la parte non ha il coraggio nemmeno di presentarsi davanti al giudice per negare la verità.

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Il contenuto di questa dichiarazione è diametralmente opposto alla confessione, perché il giuramento è una dichiarazione sulla verità di fatti favorevoli al dichiarante, cioè il giuramento consiste proprio in una dichiarazione sulla verità di un fatto a sé favorevole. Ciononostante questa dichiarazione pro se ha valore di prova legale, anzi il giuramento è quella che ha l'efficacia più forte tra tutte le prove legali. Per spiegare perché una dichiarazione pro se, che normalmente non ha alcun valore probatorio, se resa nella forma solenne del giuramento, acquista efficacia di piena prova a favore del giurante, si spiega guardando le origini di questo istituto e in particolare al carattere sacro che il giuramento aveva nell’antichità. Si giurava davanti a Dio e chi giurava il falso era colpito, oltre alla disapprovazione a morale, da una sanzione religiosa e questo spiega la sacralità del giuramento, che però è venuta meno con l’entrata in vigore della Costituzione e l’introduzione del principio supremo della laicità dello Stato. Infatti la Corte costituzionale ha statuito che il giuramento non deve contenere alcun riferimento alla religione o a Dio, per cui è stata ritenuta costituzionalmente illegittima la disposizione originale del codice nella parte in cui la formula prevedeva il giuramento davanti a Dio. Sicché è venuto meno qualsiasi riferimento alla religione, per cui l'unica giustificazione all'efficacia probatoria piena di questa prova, sta nella sanzione penale a cui va incontro chi giura il falso: lo spergiuro è penalmente sanzionato dall'art. 371 c.p.95 che costituisce il deterrente al giuramento falso. Molti però, ritengono che sia troppo poco questa responsabilità per giustificare un efficacia probatoria così forte ed infatti si discute sull'opportunità di sopprimere questo istituto che pare anacronistico o quantomeno di prevedere una dichiarazione giurata subordinata al prudente apprezzamento del giudice, cioè si vuole degradare il giuramento da prova legale a prova libera. Non sono molti i casi in cui la parte chiede al proprio avversario di giurare sulla verità perché, nel momento in cui una parte chiede all'avversario di giurare su un fatto a lui favorevole, si rimette nelle mani dell'avversario, il quale se giura in proprio favore, vince la causa. Allora diventa un’ultima possibilità (extrema ratio) della parte, quando non è in grado di fornire la prova e pensando di perdere la causa, si rimette alla lealtà della controparte chiedendo al giudice di deferire il giuramento al proprio avversario. Un altra ipotesi si ha quando una parte ha in mano una documentazione che non vuole produrre in giudizio, per esempio per ragioni fiscali, e allora deferisce il giuramento all'avversario, il quale sa che nell'ipotesi in cui giurasse il falso, potrebbe andare incontro alla sanzione penale, perché la parte con quel documento potrebbe far valere la sua responsabilità, ma al di fuori di queste ipotesi è raro che venga deferito questo giuramento. Il giuramento ha per oggetto i fatti e può essere di due specie: decisorio e suppletorio. Mentre il giuramento decisorio viene deferito su iniziativa di parte, quello suppletorio cambia l'iniziativa essendo disposto dal giudice d'ufficio quando ricorre il presupposto della semiplena probatio (prova semi piena). Caratterizza l’istituto del giuramento la decisività, perché verte su fatti che non sono semplicemente rilevanti, come avviene per gli altri mezzi di prova, ma sono decisivi, talché, una volta prestato giuramento, il giudice non ha che da constatare che la parte ha giurato e quindi raccogliere o rigettare la domanda e il processo finisce, proprio per la decisività del fatto con cui viene deferito questo istituto. Tenuto conto di questa caratteristica il primo comma dell'art. 2739 c.c. fissa 4 limiti oggettivi al giuramento per i quali non è ammissibile provare talune categorie di fatti:

95Art. 371 - Falso giuramento della parte - Chiunque, come parte in giudizio civile, giura il falso è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Nel caso di giuramento deferito di ufficio, il colpevole non è punibile, se ritratta il falso prima che sulla domanda giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva, anche se non irrevocabile. La condanna importa l`interdizione dai pubblici uffici.

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1. Il giuramento non può essere deferito o riferito per la decisione di cause relativi a diritti di cui le parti non possono disporre, quindi oggetto del giuramento possono essere soltanto fatti relativi a diritti disponibili altrimenti il giuramento è inammissibile.

2. Non possono essere oggetto di giuramento i fatti illeciti (art. 2043 c.c.). Il legislatore ha voluto evitare che il giurante si venisse a trovare scomoda, tra giurare il falso e ammettere di aver commesso un illecito civile.

3. Per provare la validità di un contratto quando è richiesta la forma scritta ex art. 1350 c.c. (ad substantiam) perché sarebbe comunque nullo per difetto di forma.

4. Per negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza del pubblico ufficiale che ha formato l'atto stesso. Il giuramento è inammissibile perché l'unico modo per contestare l'autenticità di quanto risulta da un atto pubblico è la querela di falso.

“Il giuramento non può essere deferito che sopra un fatto proprio della parte a cui si deferisce o sulla conoscenza che essa ha di un fatto altrui e non può essere riferito qualora il fatto che ne è l'oggetto non sia comune a entrambe le parti (art. 2739 c.c. secondo comma).” Cioè il giuramento di distingue anche tra de veritate e de scentia: � fatti propri della parte a cui viene deferito, cioè può essere chiesto alla parte di giurare su fatti

propri, è il c.d. giuramento de veritate (giura sulla verità del fatto); � quando viene chiesto di giurare sulla conoscenza che la parte ha di un determinato fatto, sotto il

profilo dell'oggetto, è il c.d. giuramento può essere de scentia, Vi è anche un limite soggettivo, in quanto il giuramento può essere deferito soltanto da chi abbia la capacità di disporre del diritto. Il giuramento ha sempre valore di piena prova a favore di colui che lo rende, al contrario della confessione, ed è vincolante per il giudice il quale il quale deve considerare vero il fatto giurato e decidere di conseguenza ed è un’efficacia talmente forte che non viene meno neppure nell'ipotesi in cui venga accertata in sede civile o penale la falsità del giuramento. Paradossalmente benché sia accertato che la parte ha giurato il falso, ex art. 2738 c.c. (efficacia) non è più possibile mettere in discussione la sentenza che ha pronunciato sulla base del giuramento falso, perché questo è un mezzo di prova sottratto all'impugnazione per revocazione. Quando si è giudicato in base ad una prova falsa, il legislatore dà sempre alla parte che è stata pregiudicata la possibilità di impugnare la sentenza, ancorché passata in giudicato, attraverso la revocazione (l'annullamento), cioè l’impugnazione straordinaria della sentenza che ha deciso sulla base di una prova poi accertata falsa, ma questa regola non può essere opposta se si tratta di giuramento, perché anche se ne viene cioè accertata la falsità la sentenza resta ferma. Chi viene danneggiato “può tuttavia domandare il risarcimento dei danni nel caso di condanna penale per falso giuramento. Se la condanna penale non può essere pronunziata perché il reato è estinto, il giudice civile può conoscere del reato al solo fine del risarcimento (secondo comma dell’art. 2738).” Quindi non l’annullamento della sentenza, ma solo tutela risarcitoria. Il litisconsorzio necessario è l'unica ipotesi in cui il giuramento prestato da alcuni soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzato dal giudice, questo perché non è possibile vincolare anche le parti che non hanno giurato come del resto avviene per la confessione. In relazione al giuramento decisorio (art. 2736 c.c.) è quello che una parte deferisce all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa e per quanto riguarda le modalità di questo deferimento l'art. 233 c.p.c. (deferimento del giuramento decisorio): “Il giuramento decisorio può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore, con dichiarazione fatta all'udienza dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale o con atto sottoscritto dalla parte. Esso deve essere formulato in articoli separati, in modo chiaro e specifico.” La parte può chiedere di deferire il giuramento al proprio avversario in qualunque stato della causa ed è l'unico mezzo di prova non assoggettato alle preclusioni istruttorie, infatti può essere chiesto in qualunque momento del giudizio di primo grado, e in appello lo prevede espressamente l’art. 345 c.p.c. ed è un eccezione perché di regola l’appello è chiuso alle nuove prove, mentre in Cassazione non può essere deferito solo perché è il giudice di legittimità, ma può essere deferito nel giudizio di

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rinvio che segue alla cassazione della sentenza. Tutte deroghe motivate dalla decisività di questo mezzo di prova che risolve e definisce il giudizio. Il deferimento può avvenire: � con una dichiarazione verbale fatta all'udienza dalla parte personalmente, quindi rientra fra gli

atti riservati alla parte (non rientra fra i poteri del difensore), � con una procuratore munito di un mandato speciale (non è sufficiente la procura alle liti), � con un atto sottoscritto dalla parte.

Il deferimento viene formulato su fatti e articoli specifici, per permettere al giudice di valutare l'ammissibilità del giuramento e anche la decisività dei fatti su cui viene chiesta prova. Una volta che è stato deferito il giuramento, la parte a cui viene chiesto di giurare (denominata delato) può invertire la sfida, cioè girare la delazione e chiedere al deferente di giurare la verità del fatto questa volta a lui favorevole (a lui deferente), cioè può riferirlo all'avversario e infatti è rubricato riferimento l’art. 234 c.p.c. che regola il meccanismo dell'inversione della delazione: “Finché non abbia dichiarato di essere pronta a giurare, la parte, alla quale il giuramento decisorio è stato deferito, può riferirlo all'avversario nei limiti fissati dal codice civile.” Cioè dall'art. 2739 c.c. che stabilisce che il giuramento può essere riferito all'altra parte qualora versi su un fatto che sia comune ad entrambe. I presupposti del riferimento ex art. 234 sono: 1. la parte a cui è stato deferito il giuramento non si sia dichiarata pronta a giurare; 2. i fatti oggetto del giuramento devono essere comuni ad entrambe le parti, cioè l'altra parte sia a

conoscenza di questi fatti e sia posta nella condizione di giurare. Una volta che il giuramento è stato deferito o riferito può essere revocato fino a che l'avversario non si sia dichiarato pronto a prestarlo (art. 235 c.p.c.), salvo che il giudice abbia modificato la formula del giuramento. L'art. 236 c.p.c. (caso di revocabilità) dà al giudice la facoltà di modificare la formula proposta dalle parti e se il giudice ha modificato la formula, la parte che aveva chiesto il giuramento può revocarlo. La formula del giuramento (art. 238 c.p.c.) è estremamente importante, perché deve riprodurre la tesi difensiva (è favorevole al giurante) della parte, deve essere formulata in modo chiaro e la parte a cui viene deferito, il delato, deve limitarsi a ripetere quella formula che dichiara il fatto a se favorevole; in questo modo il giuramento si intende prestato e produce l'efficacia di piena prova a suo vantaggio. Non è possibile apportare alcuna modifica alla formula del giuramento e l'art. 238 (prestazione) dispone: “Il giuramento decisorio è prestato personalmente dalla parte ed è ricevuto dal giudice istruttore. Questi ammonisce il giurante sull'importanza [religiosa e] morale dell'atto e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false, e quindi lo invita a giurare. Il giurante, in piedi, pronuncia a chiara voce le parole: "consapevole della responsabilità che col giuramento assumo [davanti a Dio e agli uomini]96, giuro...", e continua ripetendo le parole della formula su cui giura.” Quindi oggi il giudice si limita ad ammonire il giurante anche sulle conseguenze morali e penali delle dichiarazioni false e lo invita a giurare. Il giurante non può fare aggiunte alla formula su cui ha chiesto di giurare e se fa delle modifiche o aggiunte a questa formula, che non siano ne chiarimenti o precisazioni, vengono considerate equivalenti alla mancata prestazione del giuramento. La mancata prestazione del giuramento produce conseguenze altrettanto gravi, al riguardo l’art. 239 c.p.c. (mancata prestazione) “La parte alla quale il giuramento decisorio è deferito, se non si presenta senza giustificato motivo all'udienza all'uopo fissata, o, comparendo, rifiuta di prestarlo o non lo riferisce all'avversario, soccombe rispetto alla domanda o al punto di fatto relativamente al

96 La Corte costituzionale con sentenza 8 ottobre 1996, n. 334 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del primo comma limitatamente alle parole "religiosa e" e del secondo comma limitatamente alle parole "davanti a Dio e agli uomini".

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quale il giuramento è stato ammesso; e del pari soccombe la parte avversaria, se rifiuta di prestare il giuramento che le è riferito. Il giudice istruttore, se ritiene giustificata la mancata comparizione della parte che deve prestare il giuramento, provvede a norma dell'articolo 232 secondo comma.” Quindi se la parte presta il giuramento vince la causa; se invece la parte a cui è deferito il giuramento non si presenta a prestare il giuramento, oppure si presenta e non presta il giuramento e neppure lo riferisce all'avversario è lui che perde la causa, il deferente vince e il delato perde. Quindi la mancata prestazione equivale a soccombenza ed è per questo che l'ordinanza che ammette il giuramento deve essere notificata personalmente al contumace, in quanto il mancato intervento gli fa perdere la causa. Sulla mancata prestazione la giurisprudenza formula una distinzione tra giuramento de veritate e de scentia: nel primo caso non sorgono problemi, invece se si tratta di un giuramento de scentia la giurisprudenza si è posta il problema di stabilire quale conseguenza determini e che valore ha una dichiarazione da parte del giurante di non conoscere i fatti su cui il giuramento è stato deferito. Per la Cassazione se si tratta di fatti propri, la dichiarazione di non conoscere equivale a mancata prestazione del giuramento e quindi determina soccombenza; viceversa se il giuramento de scentia è stato deferito sulla conoscenza che il delato ha di determinati fatti e il delato dichiara di non conoscere i fatti, a soccombere è il deferente che ha sbagliato a deferire un giuramento su fatti che non sono conosciuti dal delato. Qui sorgono perplessità perché è assurdo che non conoscere il fatto determini la soccombenza del deferente, al massimo dovrebbe portare a revocare il provvedimento con cui il giudice ha ammesso il giuramento, perché i fatti non sono conosciuti, ma non certo una conseguenza così grave come quella della soccombenza. In relazione al giuramento suppletorio si differenzia perché l'iniziativa spetta al giudice, in quanto rientra tra quei mezzi di prova che, in deroga al principio di disponibilità, possono essere disposti dal giudice anche d'ufficio. É suppletorio il giuramento “che è deferito d'ufficio dal giudice a una delle parti, al fine di decidere la causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite di prova, ovvero quello che è deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertarlo altrimenti (art. 2736 c.c.)” Il giuramento suppletorio è un giuramento che il giudice deferisce d'ufficio quando ricorre questo presupposto della semiplena probatio, cioè quando la domanda e le eccezioni non sono pienamente provate, ma neppure del tutto sfornite di prova. Una sottospecie del giuramento suppletorio (art. 240 c.p.c.) è quello estimatorio (art. 241 c.p.c.) che viene deferito dal giudice quando è certa l'esistenza del diritto, ma non si può stabilire il valore della cosa domandata e allora il giudice chiede alla parte di indicare il valore della cosa, non essendo tale valore altrimenti accettabile. Se la causa è riservata al collegio il giuramento suppletorio non può essere deferito dal giudice istruttore, ma al collegio (art. 240 c.p.c.) e non può essere riferito all'avversario, mentre il giuramento decisorio, quello deferito da una parte all'altra può essere riferito all'avversario, il giuramento suppletorio non è riferibile (art. 242 c.p.c.), per il resto trovano applicazione le norme sul giuramento decisorio (art. 243 c.p.c.). La caratteristica del giuramento suppletorio è nella possibilità per il giudice di scegliere tra attore e convenuto a chi deferire il giuramento, fermo restando i limiti oggettivi di ammissibilità che valgono anche per il giuramento suppletorio, l'efficacia vincolante di piena prova prodotta dal giuramento suppletorio. Il giuramento d'ufficio, suppletorio, può creare qualche dubbio nella misura in cui è il giudice a scegliere tra l'attore e il convenuto quale parte debba prestare il giuramento, perché questo potere del giudice può entrare in forte conflitto con un principio basilare in materia probatoria, quello dell'onere della prova, ex art. 2697, per cui il fatto rimasto incerto, che la parte non abbia sufficientemente provato deve essere considerato dal giudice inesistente, quindi l'attore che non fornisca una prova piena del fatto costitutivo, perde la causa.

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Supponiamo che l'attore, avendo l'onere della prova, non abbia fornito la prova piena dei fatti, ma solo una prova semi piena comunque insufficiente a fondare la decisione; questo è il presupposto che consente al giudice di deferire d'ufficio il giuramento, però una cosa è se il giudice deferisce il giuramento al convenuto, che in questa situazione comunque avrebbe vinto la causa perché l'attore non è riuscito a provare i fatti; altra è se il giudice va a deferire il giuramento suppletorio all'attore, che in base all'art. 2697 avrebbe perso la causa non essendo riuscito a provare i fatti costitutivi e se il giudice deferisce il giuramento all'attore o alla parte che aveva l'onere della prova, consente a quella parte di vincere, perché quella parte quasi sicuramente giurerà a proprio favore, mentre senza l'intervento del giudice avrebbe perso ed ecco perché ci sono dubbi forti di legittimità costituzionale su quest'istituto. Nel vecchio codice del 1865 il giudice poteva deferire il giuramento d'ufficio, ma deve essere un giuramento purgativo che deve deferire alla parte non onerata dalla prova, perché può aver senso che di fronte all'incertezza che residua al termine della raccolta di mezzi di prova, se l’attore non è riuscito a provare i fatti, il giudice piuttosto che applicare il principio dell'onere della prova che è una regola formale, si rivolge alla parte che comunque avrebbe vinto la causa e, appellandosi alla sua lealtà, gli chiede di giurare che il fatto è vero: ma questo è diverso dal deferire quel giuramento alla parte che senza l'intervento del giudice avrebbe perso la causa. Questi dubbi di legittimità costituzionale sono stati portati all'attenzione della Corte costituzionale e della Corte di cassazione che ha sempre ritenuto quei dubbi infondati, ma che per la Reali sono fondatissime. Anche perché, questo presupposto della semiplena probatio è in larga misura rimesso ad una valutazione discrezionale del giudice e infatti la Cassazione ha dichiarato che il giudice deve esattamente motivare nel suo provvedimento i presupposti che hanno giustificato l'esercizio del suo potere, al fine di renderlo controllabile ed eventualmente farne valere l'illegittimità o l'ingiustizia in sede di impugnazione. La testimonianza La testimonianza è una delle prove più diffuse nel processo civile, si forma nel processo (quindi una prova costituenda) e consiste in una dichiarazione di scienza orale sulla verità dei fatti che però, diversamente dal giuramento e la confessione, non proviene dalla parte bensì da un terzo. Nemo in testis in causa propria dicevano i romani (nessuno può essere testimone nella propria causa) e questa regola trova conferma nel nostro processo che non ammette la testimonianza della parte, diversamente da altri ordinamenti, sicché la testimonianza è quella dichiarazione sulla verità resa da un terzo estraneo alla causa. Questa dichiarazione è affidata al ricordo del testimone sicché, sotto questo profilo, può essere più o meno affidabile ed è evidente che si tratta di una prova che deve essere rimessa al libero apprezzamento del giudice tanto che la testimonianza è la prova libera per eccellenza. Solo il giudice può valutare la credibilità della dichiarazione resa dal testimone e la sua attendibilità, naturalmente utilizzando quelle massime di comune esperienza che poi dovrà impiegare per motivare le ragioni per le quali ritiene la dichiarazione attendibile o inattendibile nella valutazione delle prove libere. Una certa sfiducia viene manifestata dal legislatore verso questa prova nella previsione di alcuni limiti all’ammissibilità della testimonianza; cioè per l’oggetto della testimonianza ed i soggetti che possono rendere la testimonianza, il legislatore prevede limiti che denotano una certa sfiducia a priori sulla possibilità che la dichiarazione resa su determinati fatti o da determinati soggetti possa essere considerata attendibile sotto il profilo della terzietà e dell’imparzialità. Per l testimonianza sono previsti questi limiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità: i limiti oggettivi si riferiscono ai fatti e, di regola, vi sono dei fatti che non possono essere provati attraverso la testimonianza e sono previsti dal codice civile; viceversa i limiti soggettivi riguardano il soggetto che deve rendere la testimonianza e che con riferimento a talune categorie di soggetti il legislatore considera a priori inattendibile e dunque esclude l’ammissibilità di determinati soggetti come testimoni.

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I limiti oggettivi in realtà sono legati ai rapporti tra la prova testimoniale e i contratti a cui il legislatore assimila anche il pagamento e la remissione del debito. Per il legislatore rispetto alla testimonianza maggiormente è più attendibile un atto scritto ed ha previsto un primo limite oggettivo all’ammissibilità della testimonianza per dimostrare l’esistenza e il contenuto di un contratto con riferimento al valore, stabilendo all’art. 2721 c.c.: “La prova per testimoni dei contratti non è ammessa quando il valore dell’oggetto eccede gli euro 2,58.” Questo limite eccessivamente ristretto viene derogato dal secondo comma dell’art. 2721 in quanto il giudice può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. Nel 1940 un contratto del valore di 5000 lire (2,58 €) era importante, ma quella disposizione non è stata mai adeguata alla svalutazione monetaria e allora è intervenuta un’interpretazione correttiva della Cassazione che ha ritenuto questo limite di valore operante solo per quei contratti di valore molto elevato, perché si dà per scontato che siano stipulati in forma scritta. Pertanto la prova testimoniale è ammissibile e il giudice potrà derogare a questo limite valutando la natura del contratto, la qualità delle parti e ogni altra circostanza idonea a far ritenere che il patto nonostante il suo elevato valore sia stato concluso. Più significativi sono invece i limiti prescritti dagli art. 2722 e 2723 c.c. di cui il primo è rubricato patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento e regola l’ipotesi che ci sia un documento scritto per il quale una delle parti affermi che ci siano stati dei patti in forma orale che completano o integrano o addirittura ribaltano il contenuto del documento scritto. In linea di principio i patti aggiunti non possono essere provati per testimoni, però il legislatore attenua questo rigore operando una distinzione tra patti orali anteriori o contemporanei al documento scritto e dall’altro posteriori. Infatti l’art. 2722 dispone che “La prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento per i quali si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea.” Perché se fossero stati esistenti sarebbero stati inseriti nel documento scritto e quindi è esclusa la prova testimoniale. Anche per i patti stipulati dopo la formazione del documento la regola è quella che non possano essere provati per testimoni, tuttavia, ex art. 2723 (patti posteriori alla formazione del documento), il giudice può consentire la prova per testimoni “se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali (successive).” Invece, nelle ipotesi espressamente indicate dal successivo art. 2724 (eccezioni al divieto della prova testimoniale): “La prova per testimoni e ammessa in ogni caso: 1) quando vi è un principio di prova per iscritto: questo e costituito da qualsiasi scritto,

proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato;

2) quando il contraente e stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta;

3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova.” Altri limiti oggettivi all’ammissibilità della testimonianza sono previsti dal primo comma dell’art. 2725 (atti per i quali è richiesta la prova per iscritto o la forma scritta): “Quando, secondo la legge o la volontà delle parti, un contratto deve essere provato per iscritto, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso indicato dal n. 3 dell'articolo precedente.” In assenza di questa causa giustificativa la prova testimoniale non può essere ammessa neppure con riferimento a quei contratti per i quali la prova scritta è richiesta ad probationem; viceversa questi contratti potranno essere provati attraverso la confessione e il giuramento, per cui questo limite esiste unicamente con riferimento alla testimonianza. Art. 2725 secondo comma: “La stessa regola si applica nei casi in cui la forma scritta è richiesta sotto pena di nullità (ex art. 1350).” Infatti sarebbe del tutto inutile dimostrare l’esistenza di un contratto che per vizio di forma comunque nullo.

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Questi sono i limiti oggettivi all’ammissibilità della testimonianza, mentre i limiti soggettivi li troviamo nel codice di procedura civile che, nel suo disegno originario del 1940, il legislatore escludeva la testimonianza in tre ipotesi, quindi valutava il teste a priori inattendibile. In particolare l’art. 246 (incapacità a testimoniare): “Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.” A questo limite il legislatore del ’40 aveva aggiunto altri due limiti stabiliti negli art. 247 e 248: l’art. 247 prevedeva che non fosse ammissibile la testimonianza del coniuge ancorché separato, dei parenti e affini in linea retta, salvo il caso in cui si trattasse di cause relative a questioni di stato, a separazioni personali, a rapporti di famiglia; lo stesso valeva, ai sensi dell’art. 248, per il minore di anni 14 che non può essere sentito, salvo quando la loro audizione non sia necessaria da particolari circostanze. Su queste norme è intervenuta la Corte costituzionale con due sentenze storiche che ne hanno profondamente modificato il contenuto: nel 1974 con la sentenza 248 la Consulta ha dichiarato illegittimo l’art. 247 per violazione dell’art. 3 Cost. nella misura in cui non si consentiva di sentire come testimoni i parenti, il coniuge e gli affini di una delle parti e quindi per disparità di trattamento; nel 1975 è intervenuta la sentenza n. 139 per dichiarare illegittimo l’art. 248 che non consentiva di escutere come testi i minori di anni 14. Queste due pronunce della Corte costituzionale comportano che oggi nel processo civile il coniuge, i parenti gli affini e il minore di 14 anni possono essere ascoltati come testimoni, quindi si è lasciato al prudente apprezzamento del giudice la valutazione di tali testimonianze, ma facendo cadere questo limite soggettivo di ammissibilità. Ne deriva perciò che l’unico limite soggettivo in vigore è quello rappresentato dall’art. 246 per i terzi che non abbiano un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. I terzi interessati che non possono essere escussi (sentiti) come testi nel processo sono i titolari di un diritto connesso a quello dedotto in giudizio per l’oggetto e per il titolo dipendente da quello dedotto in giudizio, sono cioè quei testi che ai sensi dell’art. 105 c.p.c. (intervento volontario) possono legittimamente intervenire volontariamente nel processo. Tale equiparazione è stata molto criticata dalla dottrina perché è come se ci fosse un’assimilazione tra le parti effettive e quelle potenziali, cioè si dice che questi testi non sono parti effettive del processo, ma potenzialmente potrebbero diventare parti qualora decidessero di intervenire ai sensi dell’art. 105. Proprio perché hanno un interesse che legittima la loro partecipazione al processo, sono ritenuti non attendibili dal legislatore stesso e ne è esclusa la testimonianza. Questo determina che i terzi interessati sono trattati peggio delle parti, tant’è vero che si è posta una questione di legittimità perché, quantomeno le parti possono essere sentite in sede di interrogatorio libero ai sensi dell’art. 117, viceversa l’interrogatorio libero dei terzi interessati è previsto unicamente nel processo del lavoro e non nel processo ordinario. Quindi i terzi interessati sono l’unica categoria che non possono essere sentiti nel processo, con un trattamento addirittura peggiore rispetto a quello riservato alle parti che il giudice può convocare personalmente per interrogarli liberamente. È stata anche sollevata una questione di incostituzionalità per una disparità di trattamento tra la disciplina del processo del processo del lavoro che ammette lì interrogatorio libero dei terzi interessati e quella del processo ordinario che invece non lo ammette, ma la Corte costituzionale ha ritenuto la questione infondata perché il processo del lavoro ha per oggetto situazioni particolari e quindi ben si giustifica una disciplina diversa rispetto al processo ordinario. Oltre all’ammissibilità (cioè i limiti oggettivi e soggettivi) il giudice deve valutare la rilevanza del mezzo di prova e, di regola quindi, è la parte (e il pm) che chiede di ammettere una testimonianza ai sensi dell’art. 115 (disponibilità delle prove). L’unica deroga a questa regola dell’iniziativa di parte però è prevista dall’art. 281 ter (poteri istruttori del giudice) con riferimento alle cause che appartengono al giudice del tribunale monocratico (cioè la stragrande maggiorana di cause) è ammessa la possibilità che il giudice possa

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disporre d’ufficio la testimonianza, se le parti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità97. La prova per testimoni è regolata dall’art. 244 (modo di deduzione): “La prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata.” Sicché è necessario, quando viene articolata la prova testimoniale, indicare le persone dei testimoni e poi indicare in modo specifico i fatti su cui il testimone dovrà essere interrogato. Ciò anche per consentire al giudice di valutare la rilevanza di questo mezzo di prova, cioè di valutare che si tratti di fatti rilevanti per la ricostruzione del giudizio di fatto par la decisione finale. È dato al giudice può, ex art. 245, ridurre le c.d. liste testimoniali sovrabbondanti, perché se una parte chiede che vengano escussi troppi testimoni e lo fa per fini dilatori, il giudice ha il potere di ridurre le liste eliminando i testimoni sovrabbondanti o che non possono essere sentiti per legge. Quindi una volta che il giudice ammette con ordinanza la testimonianza, il passaggio successivo è l’intimazione del testimone che avviene sempre su iniziativa della parte interessata ad opera dell’ufficiale giudiziario, il quale intima ai testimoni di comparire nel luogo, nel giorno, nell’ora fissati indicando il giudice che assume la prova e la causa nella quale devono essere sentiti e se questa intimazione non viene seguita a mani o proprie o mediante servizio postale è effettuato in busta chiusa e sigillata (art. 250 c.p.c.). Tra le novità previste nel 2005, con riferimento proprio all’intimazione del teste, vi è la possibilità, importata dal processo penale, che il testimone venga intimato direttamente dall’avvocato della parte. Infatti nel 200598, con una modifica all’art. 250, è stato previsto che l’intimazione non debba, come accadeva prima, necessariamente passare attraverso l’ufficiale giudiziario, ma, al fine di semplificare il procedimento di intimazione del teste, il difensore può inviare direttamente copia dell’atto con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o a mezzo telefax o posta elettronica. Il difensore che ha spedito l'atto da notificare con lettera raccomandata deposita nella cancelleria del giudice copia dell'atto inviato, attestandone la conformità all'originale, e l'avviso di ricevimento. Una volta che il teste è stato intimato deve presentarsi all’udienza perché ha il dovere di testimoniare, tant’è vero che se non si presenta senza giustificato motivo, ex art. 255, il giudice può intimarne una nuova intimazione, oppure può disporne l’accompagnamento all’udienza stessa o in altra successiva; non solo ma può anche disporre con ordinanza che il testimone che non sia comparso senza giustificato motivo venga condannato ad una pena pecuniaria che va da € 100 a € 1000. “In caso di ulteriore mancata comparizione senza giustificato motivo, il giudice dispone l'accompagnamento del testimone all'udienza stessa o ad altra successiva e lo condanna a una pena pecuniaria non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000 euro (periodo aggiunto all’art. 255 dal d.lgs. 69/2009).” Una volta che si presenta in udienza, il testimone giura di dire la verità, ex art. 251, (che è cosa ben diversa dal giuramento della parte come mezzo di prova) e anche dalla formula di questo giuramento sono stati eliminati tutti i riferimenti alla religione per effetto delle sentenza della Corte costituzionale del 1979 e del 1995. Prima che il testimone giuri, art. 252 (identificazione dei testimoni), il giudice ne accerta l’identità e domanda al testimone se abbia rapporti di parentela, affinità, affiliazione o dipendenza con alcuna delle parti, oppure interesse nella causa e dopodiché lo interroga sui fatti che hanno costituito oggetto della deduzione e in relazione ai quali la testimonianza è stata ammessa. Ai sensi dell’art. 253 (interrogazioni e risposte) “Il giudice istruttore interroga il testimone sui fatti intorno ai quali è chiamato a deporre. Può altresì rivolgergli, d'ufficio o su istanza di parte, tutte le domande che ritiene utili a chiarire i fatti medesimi. È vietato alle parti e al pubblico ministero di interrogare direttamente i testimoni. Alle risposte dei testimoni si applica la disposizione

97 Questa norma è stata importata dal procedimento pretorile, ma non ha molto rilievo pratico perché, se ci sono persone che conoscono i fatti, saranno difensori delle parti a chiedere la prova testimoniale, senza la necessità dell’attività suppletiva del giudice. 98 Con il D.L. 35/2005 con decorrenza 1° marzo 2006.

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dell'articolo 231.” La cosiddetta cross-examination (o esame incrociato dei difensori) anglosassone nel nostro ordinamento non è prevista per cui è il giudice a dover interrogare i testimoni99. Il d.lgs. 69/2009 ha introdotto art. 257 bis (testimonianza scritta) che al primo comma dispone: “Il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 203, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato.”100 Il giudice può mettere a confronto testimoni le cui dichiarazioni siano contraddittorie o presentino delle dissonanze ed è un potere che il giudice ha d’ufficio (art. 254). “Se il testimone, presentandosi, rifiuta di giurare o di deporre senza giustificato motivo, o se vi è fondato sospetto che egli non abbia detto la verità o sia stato reticente, il giudice istruttore lo denuncia al pubblico ministero, al quale trasmette copia del processo verbale (art. 256).” Quindi può essere sottoposto ad un processo penale. L’ispezione L’art. 118 c.p.c. (ordine d'ispezione di persone e di cose) disciplina questa prova che è particolare, perché quelle che abbiamo finora preso in considerazione sono tutte prove rappresentative. Il giudice conosce i fatti che si vuole provare attraverso la rappresentazione data dai documenti (atto pubblico o scrittura privata) oppure la deposizione fatta dalla parte o dal testimone attraverso una dichiarazione di scienza. Del resto la prova rappresentativa è l’unica utilizzabile con riferimento a fatti accaduti nel passato. Contrapposta alla prova rappresentativa è l’ispezione che è una prova diretta, intendendo che il fatto oggetto della percezione del giudice coincide con l’oggetto della prova; cioè il fatto che si vuol provare viene percepito direttamente dal giudice e quindi non attraverso la rappresentazione che altri ne fanno, ma direttamente, ad esempio l’ispezione di un luogo o di una cosa. Il limite dell’ispezione è che può aversi solo su fatti permanenti o attuali che non si siano svolti nel passato, quindi se il fatto è ancora attuale è possibile utilizzare questo mezzo di prova che peraltro, in deroga all’art. 115 sulla disponibilità delle prove, il giudice può disporre d’ufficio in qualunque stato e grado del processo. È un potere discrezionale che il giudice però deve motivare, anche perché il legislatore ha circondato questo mezzo di prova di talune cautele stabilendo che l’ispezione possa essere esposta dal giudice solo se ricorrono determinate condizioni o presupposti. Oggetto dell’ispezione possono essere cose, ma anche persone (ispezione corporale) che è quella più delicata, perché questo potere del giudice può entrare in collisione con il diritto alla riservatezza e con tutta una serie di garanzie assicurate alla persona dalla nostra carta costituzionale.

99 Per una prassi diffusa nel centro sud, spesso però, la testimonianza viene raccolta dai difensori delle parti per guadagnare tempo piuttosto che dal giudice, ma entrambi i difensori devono essere d’accordo, vanificando però la logica dell’immediatezza che dovrebbe caratterizzare questo mezzo di prova; cioè il giudice dovrebbe valutare il testimone anche attraverso il contatto diretto, però poi nella realtà accade di frequente che queste testimonianze vengano raccolte dai difensori e poi riprodotte nel verbale. 100 La restante parte dell’art. 257 bis dispone: “Il giudice, con il provvedimento di cui al primo comma, dispone che la parte che ha richiesto l'assunzione predisponga il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi e lo faccia notificare al testimone. Il testimone rende la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisa quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione. Il testimone sottoscrive la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice. Quando il testimone si avvale della facoltà d'astensione di cui all'articolo 249, ha l'obbligo di compilare il modello di testimonianza, indicando le complete generalità e i motivi di astensione. Quando il testimone non spedisce o non consegna le risposte scritte nel termine stabilito, il giudice può condannarlo alla pena pecuniaria di cui all'articolo 255, primo comma. Quando la testimonianza ha ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, essa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello di cui al secondo comma. Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato.”

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Altro aspetto da tenere presente è che il destinatario di questo ordine di ispezione può essere tanto una delle parti del processo, quanto un terzo che sia estraneo alla causa. Il primo comma dell’art. 118 dispone: “Il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire (occorre che le parti acconsentano, anche se poi la mancata ottemperanza della parte e del terzo determina delle conseguenze pregiudizievoli) sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti negli articoli 351 e 352 del codice di procedura penale (segreto d’ufficio e segreto di stato).” Il legislatore limita in un certo qual modo questo potere del giudice stabilendo che l’ispezione può essere disposta soltanto se è indispensabile per conoscere i fatti, sicché non è sufficiente la rilevanza del mezzo di prova, ma quei fatti non devono poter essere provati in altro modo sicché l’unico mezzo per provarli è l’ispezione. Il requisito dell’indispensabilità è valutato in misura diversa a seconda dell’oggetto dell’ispezione, perché se oggetto dell’ispezione è una cosa o un luogo l’indispensabilità viene valutata con minore rigore, perché generalmente può non creare grossi problemi l’ispezione che abbia per oggetto cose. Viceversa il rigore è richiesto quando oggetto dell’ispezione sono le persone, perché quando si tratta di un’ispezione corporale, questa è anche abbastanza invasiva della sfera personale del soggetto, per cui il giudice deve ordinare l’ispezione solo quando è indispensabile. La giurisprudenza esclude che l’ispezione possa essere utilizzata dal giudice a fini esplorativi, cioè per conoscere dei fatti, perché devono essere indicati e individuati a priori i fatti che costituiranno oggetto dell’ispezione e non è possibile che il giudice disponga l’ispezione senza individuare preventivamente i fatti per vedere se esistono oppure no. Al limite dell’indispensabilità come vedete si aggiunge anche quello costituito dal fatto che l’ispezione non deve arrecare grave danno alla parte o al terzo, soprattutto il terzo che malgrado sia estraneo ai fatti diventa destinatario di quest’ordine del giudice. Ulteriore limite è che non deve comportare la violazione di quei segreti per i quali è prevista la tutela dal codice di procedura penale. Le modalità dell’ispezione sono regolate c.p.c. che prevede che il giudice nell’ordinare l’ispezione di luoghi, cose mobili, immobili, persone deve fissare l’ordinanza con cui dispone l’ispezione il tempo, il luogo e il modo dell’ispezione. “All'ispezione procede personalmente il giudice istruttore, assistito, quando occorre, da un consulente tecnico, anche se l'ispezione deve eseguirsi fuori della circoscrizione del tribunale, tranne che esigenze di servizio gli impediscano di allontanarsi dalla sede. In tal caso delega il giudice istruttore del luogo a norma dell'articolo 203 (art. 259).” Quindi se c’è da stabilire se è stata aperta una determinata finestra su un muro, il giudice si reca sul luogo per appurare di persona il fatto oggetto della prova. Quanto all’ispezione corporale l’art. 260 c.p.c. individua ulteriori cautele per garantire il rispetto della persona dando al giudice la facoltà di astenersi dal partecipare all’ispezione e disporre che vi proceda soltanto il consulente tecnico. Se a fronte dell’ordine del giudice di ispezione, la parte o il terzo, senza giustificato motivo, rifiutano di farsi ispezionare o di fare ispezionare le cose in loro possesso ci sono delle conseguenze tanto per la parte, quanto per il terzo. Per quanto riguarda la parte vi sono conseguenza di ordine probatorio cioè, ex art. 118 secondo comma, se la parte rifiuta senza giustificato motivo di eseguire l’ispezione, il giudice può desumere da questo comportamento meri argomenti di prova ai sensi dell’art. 116 secondo comma, intesi qui come elementi sussidiari di convincimento101.

101 In molti casi, ad esempio per l’esame del dna o gli esami ematologici in una causa relativa alla paternità, che qualcuno fa rientrare nella nozione di ispezione in senso ampio, il rifiuto ingiustificato del presunto padre di sottoporsi a questi esami viene considerato un argomento di prova che può diventare decisivo per fondare il convincimento del giudice, considerando la mancata ottemperanza al provvedimento del giudice una prova dell’esistenza della paternità. Quindi questi argomenti di prova sono sempre nell’ambito di quell’ambiguità che li caratterizza e che sono interpretati

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Se invece a rifiutare l’ispezione sia il terzo, non si pone il problema probatorio perché non è la parte, il giudice lo condanna a una pena pecuniaria da euro 250 ad euro 1.500, ex art. 118 terzo comma riformato dal d.lgs. 69/2009. Questo forse è un fatto molto grave perché ci da un po’ la misura di un certo atteggiamento autoritario del legislatore, ulteriormente aggravato nel 2009. Infatti può essere legittimo il rifiuto del terzo ad un ispezione corporale, essendo del tutto estraneo al processo e ai fatti di sottoporsi all’ispezione. Nonostante ciò il legislatore del ’40 prevede che se il terzo rifiuti di subire l’ispezione il giudice lo condanna ad una pena pecuniaria (era fino a € 5,00 ma nel 2009 è stata portata da 250 a 1.500 €) e il fatto appare molto grave, cioè che sia sottoposto ad una sanzione pecuniaria dovuta al rifiuto di sottoporsi a questa ispezione.

LE ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA Questo sono delle ordinanze che il giudice può emettere nel corso dell’istruzione della causa e si tratta di provvedimenti anticipatori, cioè servono ad anticipare gli effetti di una sentenza di condanna e sono stati previsti nel processo ordinario di cognizione dalla legge 353 del 1990. Ricorrendo determinati presupposti, attraverso questi provvedimenti si consente al creditore, perché siamo nell’ambito dell’azione di condanna, di avere una tutela più rapida, senza dover attendere la fine del processo e quindi i tempi necessari per giungere ad una sentenza a cognizione piena ed esauriente. Il nostro processo prevede tre ordinanze anticipatorie di condanna e la caratteristica di questi provvedimenti è la sommarietà, perché devono essere emessi prima della pronuncia della sentenza e si fondano su una cognizione sommaria. Sono provvedimenti provvisori che possono essere posti nel nulla (quindi revocati o modificati) con la sentenza definitiva, sicché, volendoli inquadrare da un punto di vista sistematico, sono provvedimenti sommari non cautelari con la funzione di consentire che si giunga più rapidamente e all’interno dello stesso processo, alla formazione di un titolo esecutivo che possa consentire al creditore di ottenere una soddisfazione più rapida del proprio diritto. Dei tre tipi di ordinanze anticipatorie di condanna la sommarietà della cognizione si attaglia perfettamente all’ordinanza di pagamento di somme non contestate regolata dall’art. 186 bis e all’ordinanza ingiuntiva di cui all’art. 186 ter, invece diversa è l’ordinanza postistruttoria di cui all’art. 186 quater; inoltre mentre le prime due sono state previste dal legislatore del 1990, l’ordinanza post-istruttoria è stata introdotta dalla riforma del 1995. Sulla disciplina di queste tre ordinanze ha anche inciso il legislatore del 2005 con le leggi 80 e 273 in modo davvero marginale per quanto riguarda l’art. 186 bis e ter, cioè l’ordinanza di pagamento di somme non contestate e ordinanza ingiuntiva, e un po’ più significativo invece per quanto riguarda l’ordinanza post-istruttoria dell’art. 186 quater. L’ordinanza di pagamento di somme non contestate L’art. 186 bis, che disciplina questa ordinanza, ha portato nel processo ordinario un provvedimento che era già previsto dal 1973 nel processo del lavoro e infatti il primo comma dell’art. 423 c.p.c. prevede che “il giudice, su istanza di parte, in ogni stato del giudizio, dispone con ordinanza il pagamento di somme non contestate dalle parti costituite.” Confrontando il primo comma dell’art. 423 con l’art. 186 bis si nota che nel 1990 il legislatore ha dettato una disciplina più articolata e dettagliata di questo provvedimento di quella dettata nel 1973. Probabilmente l’esperienza dell’art. 423 è servita al legislatore del 1990 che con l’art. 186 bis ha dato una risposta normativa ad alcune questioni interpretative ed applicative che la scarna disciplina dell’art. 423 primo comma aveva sollevato.

dal giudice come ritiene a seconda dell’efficacia persuasiva che questi argomenti possono fornirgli. Qualcuno inquadra questi tipi di esami nell’ispezione, anche se più correttamente dovrebbero essere prove atipiche (cioè non catalogate o non previste dal codice), però di nuova emersione che dovrebbero essere argomenti di prova, ma che talvolta possono rivelarsi anche decisivi.

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Il giudice non può disporre d’ufficio un provvedimento di condanna al pagamento di somme non contestate, ma devono essere chiesti dalla parte interessata e può essere formulata fino alla precisazione delle conclusioni, anche perché dopo non ci sarebbe poi molto da anticipare. Può chiedere questo provvedimento chi abbia proposto una domanda di condanna, che può essere l’attore o il convenuto in via riconvenzionale, condanna però che deve avere un oggetto ben definito perché si deve trattare di una condanna al pagamento di somme di denaro e non crediti che hanno un oggetto diverso (consegna di cose, rilascio di beni immobili, obblighi di fare e di non fare). Il presupposto di questa ordinanza è che si deve trattare del pagamento di somme non contestate dalle parti costituite e questo è altro limite: l’ordinanza può essere pronunciata soltanto nei confronti della parte costituita che non abbia contestato le somme. Non può dunque essere pronunciata nei confronti del contumace (la parte non costituita) e questa è una risposta al problema che era sorto nel processo del lavoro, perché in mancanza di una disposizione esplicita ci si era chiesti se fosse possibile emettere questo provvedimento nei confronti del contumace. Nel 1990 il legislatore, seguendo la soluzione accolta dalla giurisprudenza dominante nel processo del lavoro, ha previsto che questa ordinanza può essere pronunciata solo se la non contestazione proviene dalla parte costituita, riaffermando in questo modo il principio per il quale la contumacia non vale come ammissione tacita o non contestazione dei fatti, ma è un comportamento neutro al quale il legislatore non ricollega conseguenze sfavorevoli. Secondo la tesi che è condivisa da larga parte della dottrina e che appare preferibile, la non contestazione ha per oggetto il diritto o la pretesa, sostanzialmente è una sorta di riconoscimento della domanda che non può che essere parziale, perché se la parte costituita riconoscesse interamente la pretesa avversaria, non ci sarebbe più ragione di continuare il processo e il giudice dovrebbe riservarsi e portare la causa in decisione. Il riconoscimento parziale della pretesa avversa non obbliga il giudice ad accogliere automaticamente l’istanza, perché resta affidata alla valutazione del giudice a far derivare da questo riconoscimento gli effetti che la parte istante ha chiesto. Secondo un’altra tesi dottrinale l’oggetto della non contestazione non sarebbe il diritto, bensì i fatti costitutivi del diritto e in ogni caso si deve trattare di una non contestazione parziale. Se l’attore agisce in giudizio chiedendo al convenuto il pagamento della somma di € 1000 e il convenuto si costituisce affermando di essere debitore, ma per la somma di € 300, per € 300 si forma la non contestazione. L’attore potrebbe, sulla base di questo presupposto, cioè della non contestazione parziale chiedere al giudice intanto di condannare il debitore a pagare le € 300 che egli stesso ha riconosciuto come dovute e lo può fare subito anticipando la pronuncia della sentenza. Resta essenziale che la non contestazione sia parziale, altrimenti se fosse totale cesserebbe la materia del contendere e il processo entrerebbe nella fase decisoria. Per alcuni il semplice silenzio su determinati fatti o anche una contestazione generica deve essere intesa come non contestazione, quindi danno una nozione molto ampia. Per la Reali non sembra questa la tesi da preferire, perché anche in ragione delle conseguenze che questo comportamento determina la tesi più restrittiva è quella che va condivisa; cioè la non contestazione deve consistere in un comportamento certamente oggettivo e non equivoco ad opera della parte costituita e quindi non ci devono essere margini di discrezionalità da parte del giudice, ma deve essere un fatto oggettivo affinché possa portare alle conseguenza previste dalla norma. L’unica novità introdotta dalla legge 263/2005 all’art. 186 bis è relativa all’ipotesi in cui l’istanza venga proposta fuori udienza: se l'istanza e' proposta fuori dall'udienza il giudice dispone la comparizione delle parti ed assegna il termine per la notificazione dell’istanza e del provvedimento con cui ha disposto la fissazione dell’udienza alla controparte. Questo perché si vuole che l’ordinanza sia preceduta dal contraddittorio e del resto l’ordinanza è un tipico provvedimento che viene emesso previa instaurazione del contraddittorio delle parti. Sicché se l’istanza viene formulata direttamente in udienza, il contraddittorio è instaurato; se invece è depositato in cancelleria (formulata fuori udienza) il giudice dovrà fissare l’udienza di

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comparizione delle parti e l’istanza e il provvedimento di fissazione dell’udienza vengono poi notificate alla controparte affinché entrambe le parti compaiano e il provvedimento venga eventualmente pronunciato dopo l’instaurazione del contraddittorio. Il giudice accoglie l’istanza, dispone l’ordinanza di pagamento di somme non contestate che è un titolo esecutivo, cioè ha efficacia esecutiva, in questo modo si tutela il creditore dandogli la possibilità di ottenere, già in corso di causa, un provvedimento esecutivo con la conseguenza che, se il debitore non ottempera all’ordinanza di pagamento delle somme non contestate, il creditore potrà iniziare un processo di esecuzione forzata e ottenere l’attuazione coattiva della sua pretesa. Altro aspetto molto importante collegato all’efficacia di questo provvedimento è la sua ultrattività, in quanto l’ordinanza conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo. Se il processo si conclude con l’estinzione, la regola è che tutti gli atti del processo estinto divengano inefficaci, salvo alcuni espressamente previsti dalla legge tra i quali rientra l’ordinanza di pagamento di somme non contestate che conserva la sua efficacia esecutiva anche dopo l’estinzione del processo. Dunque dal punto di vista dell’efficacia abbiamo due caratteristiche molto importanti: la esecutività del provvedimento e la sua ultrattività, cioè la sua sopravvivenza all’estinzione del processo. Dal punto di vista della stabilità una delle caratteristiche di questo provvedimento sommario (perché basato sulla non contestazione) è rappresentato dalla provvisorietà. Infatti l’ultimo comma dell’art. 186 bis dispone che è un provvedimento soggetto alla disciplina delle ordinanze revocabili, ex art. 177 primo e secondo comma e 178 primo comma, cioè è un provvedimento che può essere modificato o revocato dal giudice che lo ha emesso, senza necessità di presupposti particolari. La modifica o la revoca del provvedimento (per esempio il mutamento di circostanza) non è legata alla deduzione di nuove ragioni di fatto; il che fa ritenere che il giudice possa revocare e modificare questo provvedimento anche sulla base di una diversa valutazione dei fatti o per effetto di un mero ripensamento, anche se è altamente improbabile perché è difficile che il giudice smentisca se stesso dopo aver concesso questo provvedimento, per esempio neghi che ci sia stata la non contestazione riconoscendo il proprio errore. Questo però significa che questi provvedimenti, in quanto modificabili o revocabili, non sono impugnabili in alcun modo davanti ad un giudice diverso e questo è un fatto molto grave perché sono provvedimenti decisori in cui si sta affermando l’esistenza, sia pure parziale, del credito. Nel caso in cui la parte, contro cui questo provvedimento è pronunciato, ritenga di aver contestato la somma per la quale è stata condannata al pagamento e che il giudice, per errore, non si sia accorto di questa contestazione, oppure non abbia contestato un comportamento che la parte ritiene sia assimilabile a contestazione la conseguenza è che la parte che subisce un provvedimento illegittimo, perché pronunciato senza la ricorrenza dei presupposti richiesti dalla legge o semplicemente ingiusto, non ha alcuna possibilità di difendesi nell’immediatezza da un provvedimento che ha efficacia esecutiva. Per questo si è anche tentata la strada del ricorso straordinario per Cassazione, ex art. 111, stante la decisori età del provvedimento, però la Corte di cassazione lo ha respinto sulla base della non definitività, perché si tratta di un provvedimento che non ha attitudine al giudicato essendo in qualsiasi momento modificabile e revocabile e dunque come tale non suscettibile di essere impugnato ai sensi dell’art. 111 settimo comma della costituzione. L’ordinanza ingiuntiva Introdotta dal legislatore del 1990, un’altra ordinanza anticipatoria di condanna è l’ordinanza ingiuntiva regolata dall’art. 186 ter (istanza di ingiunzione). Questa ordinanza sicuramente rappresenta una trasposizione del procedimento per ingiunzione che è un procedimento sommario con prevalente funzione esecutiva (un procedimento speciale) all’interno del processo di cognizione. Si è detto che è una parentesi di procedimento ingiuntivo che si apre all’interno di un processo a cognizione piena ed esauriente. Infatti, per quanto le condizione e i presupposti di questa ordinanza, il legislatore del ’90 fa più volte rinvio alla disciplina del decreto ingiuntivo (art. 633 e seguenti)

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con le dovute variazioni, tra cui il fatto che mentre il decreto ingiuntivo è un provvedimento emesso in audita altera parte (senza la previa instaurazione del contraddittorio), invece l’ordinanza ingiuntiva viene pronunciata dopo l’instaurazione del contraddittorio, essendo pronunciata nel processo a cognizione piena ed esauriente, nel quale il contraddittorio viene instaurato sin dal primo momento. “Fino al momento della precisazione delle conclusioni, quando ricorrano i presupposti di cui all'art. 633, primo comma, n. 1), e secondo comma, e di cui all'art. 634, la parte può chiedere al giudice istruttore, in ogni stato del processo, di pronunciare con ordinanza ingiunzione di pagamento o di consegna (art. 186 ter primo comma).” Anche qui è necessaria l’istanza della parte che può chiedere l’ordinanza ingiuntiva (di pagamento o di consegna) sino al momento della precisazione delle conclusioni, quando vi sono due presupposti relativi al procedimento per ingiunzione: � se del diritto fatto valere si dà prova scritta (art. 633 primo n. 1); � se il diritto dipende da una controprestazione o da una condizione, purché il ricorrente offra

elementi atti a far presumere l'adempimento della controprestazione o l'avveramento della condizione (art. 633 secondo comma).

Stando all’art. 633 l’ordinanza ingiuntiva può esser chiesta da chi è creditore di una somma di denaro liquida ed esigibile (ordinanza di pagamento), cioè determinata nell’ammontare e non sottoposta a condizione o termine e se si tratta di una somma dipendente da una controprestazione, è sufficiente la prova che la controprestazione è stata eseguita, per poter chiedere questo provvedimento o che la condizione si sia verificata o il termine sia scaduto. Inoltre l’ordinanza ingiuntiva può esser chiesta da chi è creditore della consegna di una determinata quantità di cose fungibili o di una cosa mobile determinata (ordinanza di consegna) e questo aumenta l’ambito di operatività di questo provvedimento, dal quale restano fuori soltanto le obbligazioni che hanno per oggetto il rilascio di beni immobili e gli obblighi di fare e di non fare. Chi ha un credito che abbia per oggetto il pagamento di somme, la consegna di una determinata quantità di cose fungibili ovvero la consegna di una cosa mobile determinata, può chiedere questo provvedimento, a condizione che fornisca prova scritta dell’esistenza del proprio credito. La prova scritta idonea alla pronuncia di questo provvedimento sommario non è l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata, nel processo a cognizione piena ed esauriente hanno valore di piena prova, ma è quella indicata dall’art. 634 (prova scritta) ossia è di una qualsiasi scrittura (ancorché non abbia efficacia di piena prova): le polizze, le promesse unilaterali per scrittura privata e i telegrammi anche se mancanti dei requisiti prescritti dal codice civile. Sicché qualsiasi scritto può essere considerato una prova scritta idonea ad ottenere l’accoglimento dell’istanza di ingiunzione, inoltre, con riferimento ai crediti relativi a somministrazioni di merci, denaro e per prestazioni di servizi fatte da imprenditori, tra le prove iscritte idonee l’art. 634 enumera anche gli estratti autentici delle scritture contabili (artt. 2214 c.c. e ss.), nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalla leggi tributarie. Nell’interpretazione della giurisprudenza di questa norma, anche una semplice fattura allegata dal creditore è ritenuta una prova scritta sufficiente al fine di ottenere l’accoglimento di questa istanza, sicché è una nozione di prova scritta molto più ampia rispetto a quella prevista invece nel processo a cognizione piena ed esauriente. Ricorrendo questi presupposti, riferiti tanto al credito quanto alla prova, il giudice può emettere questo provvedimento e, anche in questo caso, se l’istanza viene formulata fuori dall’udienza, il giudice dispone la comparizione delle parti ed assegna il termine per la notifica alla controparte, unitamente al provvedimento del giudice che fissa la comparizione delle parti ai fini dell’instaurazione del contraddittorio. Dal punto di vista dell’efficacia, a differenza dell’ordinanza ex art. 186 bis, l’ordinanza ingiuntiva non è immediatamente esecutiva, ma può essere dichiarata provvisoriamente esecutiva quando ricorrono i presupposti dell’art. 642 c.p.c. e se la controparte non è contumace (art. 648 primo comma, cioè se la parte si è costituita in giudizio).

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L’ordinanza ingiuntiva, diversamente da quella di pagamento di somme non contestate, può essere pronunciata anche nei confronti del contumace e quindi la contumacia non è preclusiva della pronuncia di questo provvedimento, anche se rileva sotto il profilo dei requisiti richiesti affinché il giudice possa concedere subito la provvisoria esecutività a questo provvedimento. Nella interpretazione data prevalentemente a questa norma, l’ordinanza, se pronunciata nei confronti del contumace, può essere dichiarata provvisoriamente esecutiva quando si basa su un titolo di credito o su una prova scritta particolarmente qualificata ai sensi dell’art. 642: cambiale, assegno bancario o circolare, certificato di liquidazione di borsa o quando la prova scritta sia costituita da un atto ricevuto da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato. L’ordinanza ingiuntiva può essere provvisoriamente esecutiva “anche se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo ovvero se il ricorrente produce documentazione sottoscritta dal debitore, comprovante il diritto fatto valere (art. 642 secondo comma).” Se l’ordinanza è stata emessa nei confronti della parte costituita, può essere dichiarata provvisoriamente esecutiva anche se il debitore non ha fornito una prova scritta o di pronta soluzione, ex art. 648 primo comma, cioè se il creditore ha dato una prova scritta del proprio credito e il debitore non è in grado di fare altrettanto e quindi vuole dimostrare l’inesistenza del credito attraverso testimonianze o altro modo, il tempo del processo può essere posto a suo danno, perché il giudice può emettere un’ordinanza ad efficacia esecutiva. La provvisoria esecutorietà, ex art 186 ter, è legata al fatto che venga pronunciata in contraddittorio, per cui il giudice non può mai dichiarare l’ordinanza provvisoriamente esecutiva, se la controparte ha proposto querela di falso oppure ha disconosciuto la scrittura privata dedotta in giudizio dal creditore. La provvisoria esecutorietà di questa ordinanza è molto importante, perché non soltanto consente al creditore di avere un titolo esecutivo che lo legittimi a iniziare un procedimento di esecuzione forzata, ma costituisce titolo per iscrivere ipoteca giudiziale (ultimo comma art. 186 ter). Quindi, produce questo ulteriore effetto secondario dei provvedimenti di condanna che invece non viene prodotto, per esempio, dall’ordinanza ex art. 186 bis, anch’esso titolo esecutivo, ma, in mancanza di esplicita prescrizione di legge, non può essere utilizzato per iscrivere ipoteca giudiziale. Altra ipotesi in cui questa ordinanza diventa esecutiva, si riferisce al caso in cui venga emessa nei confronti del contumace, ex art. 186 ter quinto comma, perché se la parte contro cui è pronunciata ingiunzione è contumace, l’ordinanza deve essere notificata al contumace personalmente, con l’avvertimento che se il contumace non si costituisce nel termine di 20 giorni dalla notifica, l’ordinanza diverrà esecutiva ai sensi dell’art. 647. Ancora una volta questa è una conseguenza del contraddittorio che caratterizza questo provvedimento, per cui se viene emessa l’ordinanza e l’altra parte è contumace, la parte che ha ottenuto il provvedimento deve notificarlo al contumace nel termine di 60 giorni dalla pronuncia e l’avversario ha tempo di 20 giorni dalla notificazione per costituirsi in giudizio e la mancata costituzione comporta che l’ordinanza divenga esecutiva. Il rinvio della norma all’art. 647, non soltanto implica l’acquisto dell’efficacia esecutoria dell’ordinanza perché, secondo l’interpretazione consolidata, acquista anche efficacia pari a quella di una sentenza passata in giudicato, perché l’art. 647 è riferito al decreto ingiuntivo contro il quale non sia stata proposta opposizione che diventa così esecutiva ed incontrovertibile, cioè acquista efficacia di giudicato definitivo. Pertanto il rinvio al 647 c.p.c. significa che se il contumace verso cui è pronunciata questa ordinanza non si costituisce tempestivamente, questo comportamento determina una conseguenza per lui molto pregiudizievole, nel senso che quell’ordinanza non solo diventa esecutiva, ma non può più essere messa in discussione, cioè acquista un’efficacia pari a quella di una sentenza passata in giudicato, salvo il caso in cui il contumace non dimostri di non essersi potuto costituire in giudizio per fatto a lui non imputabile. Per esempio è un contumace involontario non avendo avuto

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conoscenza del processo per un vizio di notifica oppure per il caso fortuito o forza maggiore e solo in questo caso potrà chiedere di essere rimesso in termini e rivissuta dell’ordinanza. L’ordinanza diventa incontrovertibile anche qualora, dopo la pronuncia di questo provvedimento, il processo si estingua. Ex art. 186 ter quarto comma, se il processo si estingue l’ordinanza che non ne sia già munita acquista efficacia esecutiva ai sensi dell’art. 653 (questa norma disciplina il giudizio di opposizione del decreto ingiuntivo prevedendo che se il giudizio di opposizione si estingue, l’ordinanza diventa incontrovertibile) e questo significa che l’estinzione del processo comporta che l’ordinanza non soltanto divenga esecutiva, ma anche definitiva e incontrovertibile acquistando efficacia simile a quella di una sentenza passata in giudicato. L’ordinanza ingiuntiva è un provvedimento comunque provvisorio, potendo essere modificato o revocato in corso di causa ed è destinato ad essere assorbito nella sentenza, anche se, qualora alla fine del processo a cognizione piena ed esauriente il giudice si convinca che il credito non esista, può revocare l’ordinanza con una sentenza che ribalti il giudizio precedente e dichiari inesistente il diritto. Anche per quest’ordinanza si pone il problema dell’impugnabilità perché, anche se modificabile e revocabile, resta un provvedimento decisorio contro il quale non è possibile alcun rimedio innanzi ad un giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento. Ordinanza successiva alla chiusura dell'istruzione Il provvedimento disciplinato dall’art. 186 quater è molto diverso rispetto da quelli regolati dagli artt. 186 bis e ter, non soltanto perché questa ordinanza è stata introdotta successivamente dalla riforma del 1995, ma anche perché presenta delle caratteristiche del tutto peculiari non avendo alcunché di sommario. Infatti, post istruttoria significa che questa ordinanza viene pronunciata esaurita l’istruzione, cioè quando sono state raccolte tutte le prove, il giudice pronuncia questo provvedimento sulla base di una cognizione che non è affatto sommaria, ma è piena ed esauriente. Anche se è un’ordinanza che deve essere pronunciata dopo l’istruzione, la sua è pur sempre anticipatoria essendo un provvedimento di condanna anticipato rispetto alla sentenza. Ma l’anticipazione consiste esclusivamente nel tempo che intercorre tra la chiusura dell’istruzione e la precisazione delle conclusioni ed il deposito della sentenza; quindi è molto meno anticipatoria rispetto alle altre, fermo restando che la durata di questo intervallo, tra precisazione delle conclusioni e deposito della sentenza, non è breve perché nei tribunali più grandi può arrivare a uno o due anni. Proprio il fatto che venga pronunciata sulla base di una cognizione piena ed esauriente dà a questa ordinanza delle caratteristiche particolari. Come per le altre due ordinanze, il presupposto per poter ottenere questo provvedimento è l’istanza di parte, ma l’oggetto del provvedimento si amplia perché può essere chiesta la condanna al pagamento di somme di denaro, la consegna mobili o il rilascio dei beni immobili, con esclusione delle sole obbligazioni di fare e di non fare e di prestazioni infungibili. L’unico limite, anche se ai ricava in via interpretativa, è che si deve trattare di una di una domanda di condanna autonoma e non dipendente da altra domanda di accertamento o costitutiva. Non tutti sono d’accordo con questa interpretazione, ma è quella più logica perché, ritenendo un’ordinanza anticipatoria di condanna davanti in causa di accertamento o costitutiva, si sovvertirebbe completamente l’ordine logico delle questioni perché avremmo comunque una condanna anticipata, ma non fondata su alcun presupposto, perché il provvedimento di accertamento o costitutivo non può essere anticipato, ma può essere dato solo con sentenza. Pensiamo all’ipotesi tipica in cui l’attore chieda al giudice l’accertamento dell’inadempimento e la risoluzione del contratto per inadempimento, nonché (domanda accessoria) la condanna al risarcimento dei danni. La condanna al risarcimento dei danni rientra tra i provvedimenti per i quali è ammissibile l’ordinanza ex art. 186 quater, però se il giudice condannasse con l’ordinanza al risarcimento dei danni, questa condanna non avrebbe il suo presupposto che invece è che il giudice risolva il contratto e questo può essere risolto solo con la sentenza. Allora è ovvio che non può

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emettere un provvedimento di condanna sulla base di un presupposto che non è stato ancora accertato e quindi non può neppure essere anticipato attraverso quest’ordinanza. Pertanto è necessario che l’ordinanza di condanna, ex art. 186 quater, sia oggetto di una domanda autonoma e non accessoria, cioè dipendente da una domanda di accertamento o costitutiva. “Esaurita l'istruzione, il giudice istruttore, su istanza della parte che ha proposto domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con ordinanza il pagamento ovvero la consegna o il rilascio, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova. Con l'ordinanza il giudice provvede sulle spese processuali. (primo comma art. 186 quater).” Se ci atteniamo alla lettera della norma “nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova”, questa frase appare superflua perché se il giudice ritiene provata l’esistenza del diritto, emette questo provvedimento anticipatorio, altrimenti rifiuta l’istanza. Una spiegazione a questa aggiunta della norma si è data pensando che il legislatore si sia riferito all’ipotesi in cui nello stesso processo siano state cumulate più domande, cioè l’ipotesi di un litisconsortio facoltativo: più cause e più domande, quando sia stata già raggiunta la prova solo per una o alcune delle domande. Quindi se per una o alcune delle domande cumulate la prova è stata raggiunta, il giudice può emettere l’ordinanza dell’art. 186 quater, fermo restando che per le altre il processo seguirà il suo corso. La particolarità di questa ordinanza non sta soltanto nel fatto che viene pronunciata a cognizione piena ed esauriente, quando le prove sono state raccolte, ma anche nella possibilità, ricorrendo determinati presupposti, di trasformarsi addirittura in sentenza. Innanzitutto sotto il profilo della efficacia è già titolo esecutivo, quindi l’ordinanza nasce con efficacia esecutiva, ma sotto il profilo della stabilità l’art. 186 quater è un po’ diverso dalle altre due, perché non afferma che l’ordinanza è modificabile o revocabile, ma soltanto che può essere revocata con la sentenza che definisce il giudizio. Sicché, nel periodo che intercorre tra la chiusura dell’istruzione e il deposito della sentenza, il giudice non può più né modificare né revocare questo provvedimento. La particolarità, invece, è proprio data dal fatto che è l’unico tra questi provvedimenti che abbiamo esaminato che può trasformarsi addirittura in sentenza, un’evenienza ricorre in due ipotesi. La prima è che il giudizio si estingue: “Se, dopo la pronuncia dell'ordinanza, il processo si estingue, l'ordinanza acquista l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza (quarto comma art. 186 quater).” Quindi, non solo quest’ordinanza continua ad avere efficacia esecutiva ed incontrovertibile, ma si trasforma in sentenza di primo grado contro la quale la parte che ha subito il provvedimento potrà proporre appello sull’oggetto dell’istanza. È anche vero che è piuttosto remota questa possibilità, perché è un po’ difficile che in quel ristretto periodo temporale che va dalla chiusura della fase istruttoria al deposito della sentenza si verifichi uno dei fatti che determini l’estinzione del processo. Il secondo caso in cui “l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza se la parte intimata non manifesta entro trenta giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all’altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata la sentenza (quinto comma art. 186 quater).” Questa norma è stata modificata dalla legge 263/2005, invece nella sua versione precedente si prevedeva che l’ordinanza si trasformasse in sentenza qualora la parte intimata avesse espressamente rinunciato alla sentenza. Nel 2005 questo presupposto è stato rovesciato, perché l’intimato deve chiedere espressamente la sentenza altrimenti è come se avesse tacitamente rinunciato. Quindi, se nel termine di 30 giorni dalla pronuncia in udienza o dalla comunicazione l’intimato non richiede al giudice di pronunciare espressamente la sentenza definitiva, potrà impugnare l’ordinanza perché questa si trasforma in sentenza appellabile sull’oggetto dell’istanza ed impugnabile con i mezzi ordinari. Questa disposizione fa riflettere perché l’intimato è quasi obbligato a non chiedere la sentenza e ad accontentarsi di questo provvedimento, perché nei suoi confronti è stato emesso un provvedimento esecutivo, in base al quale il creditore potrà iniziare l’esecuzione forzata, che, nella quasi totalità dei

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casi avrà lo stesso contenuto della sentenza definitiva, essendo raccolte tutte le prove, la cognizione è piena ed esauriente e il giudice ormai si espresso con l’ordinanza. Pertanto è difficilissimo che nella sentenza finale abbia un contenuto diverso dall’ordinanza. A questo punto all’intimato conviene rinunciare alla pronuncia della sentenza, ottenere (come prevede la norma) che quell’ordinanza si trasformi in sentenza, appellarla subito e chiedere in sede d’appello l’inibitoria, cioè la sospensione dell’efficacia esecutiva così potrà paralizzare gli effetti esecutivi della sentenza. Il legislatore ha così creato un meccanismo che vuole pervenire ad un risultato: ottenere che il processo, anziché con sentenza, si concluda con ordinanza che, in quanto succintamente motivata consente una pronuncia più rapida e più leggera per il giudice Rispetto a queste particolari azioni di condanna, il legislatore ha previsto una forma semplificata di conclusione del processo, cioè l’ordinanza, comunque lasciata alla scelta dell’intimato che se vuole che si arrivi a sentenza, non ha che da chiederlo espressamente come prevede la norma. La finalità di questa ordinanza è quella, non solo anticipatoria, ma anche deflattiva per far giungere a conclusione le cause, eliminando il periodo di tempo che richiede il deposito della sentenza, eliminando anche per il giudice, il lavoro materiale di stendere e motivare una sentenza nel modo in cui richiede l’art. 132 c.p.c. La contumacia Non avendo un obbligo di costituzione in giudizio, il contumace è la parte che ha scelto di non costituirsi in giudizio, cioè di non compiere alcun atto del processo, anche perché l’attore dovrà comunque provare i fatti costitutivi se vuole vincere la causa, altrimenti perde la causa anche se l’altra parte non ha preso parte attiva al processo. Per cui vedete, quello che vi dicevo poco fa, che la contumacia nel nostro ordinamento non ha valore di ficta confessio102, diversamente da altri ordinamenti dove si attribuisce un valore negativo alla mancata costituzione in giudizio ed è prevista un’apposita disciplina del processo contumaciale, con un processo molto più rapido che perviene ad una decisione in tempi più brevi, perché la mancata costituzione viene considerata equivalente ad una ammissione tacita dei fatti affermati dall’attore. In Italia non è così perché il contumace non subisce delle conseguenze pregiudizievoli, cioè ci troviamo di fronte ad un comportamento neutro senza conseguenze pregiudizievoli e comunque la decisone è rimessa alla libera scelta della parte. La contumacia nel processo ordinario di cognizione può riguardare tanto l’attore che il convenuto, ma non nel processo speciale del lavoro perché qui, la costituzione in giudizio avviene nel momento stesso in cui il processo viene instaurato che avviene con il deposito del ricorso e cioè nel momento in cui l’attore si costituisce in giudizio e quindi non ci potrà mai essere la contumacia dell’attore. Viceversa ci potrà essere nel processo ordinario di cognizione perché inizia con la notificazione da parte dell’attore al convenuto dell’atto di citazione, dopodiché l’attore ha 10 giorni per costituirsi in giudizio; invece il convenuto ha un termine di 20 giorni prima dell’udienza, cosa che farà se ha da svolgere delle attività previste a pena di decadenza, cioè se ha da proporre una domanda riconvenzionale oppure se deve chiamare in causa un terzo o se deve formulare delle eccezioni non rilevabili d’ufficio, altrimenti può costituirsi il giorno dell’udienza. Anzi, nel processo ordinario di cognizione può accadere che entrambe le parti (attore e convenuto) non si costituiscano, perché la costituzione avviene successivamente all’inizio del processo. In questo caso noi avremmo un’ipotesi molto particolare di un processo pendente, ma non iscritto a ruolo, perché questa avviene quando la parte si costituisce, mentre il processo inizia a pendere con la notifica dell’atto di citazione al convenuto. Comunque, qualora nessuna delle parti si costituisce in giudizio, il processo entra in una fase di acquiescenza di un anno che decorre dal termine per la costituzione del convenuto, dopodiché, se nessuna delle parti riassume il processo entro l’anno, il processo si estingue. 102 Letteralmente confessione finta. Indica un principio di diritto processuale secondo cui la mancata risposta all'interrogatorio vale come ammissione dei fatti dedotti in interrogatorio.

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Può accadere che una delle parti si sia costituita e l’altra abbia scelto di restare contumace e, diversamente dal processo del lavoro, nel processo ordinario di cognizione questa scelta può essere fatta anche dall’attore se non si costituisce nei 10 giorni dalla notifica dell’atto di citazione, mentre il convenuto lo fa almeno 20 giorni prima dell’udienza; infatti il codice opera una distinzione a seconda che ad essere contumace sia l’attore o il convenuto. Il giudice nella prima udienza di comparizione e di trattazione dovrà verificare la regolare costituzione delle parti ed è in questa udienza, qualora una delle parti non si sia costituita il giudice dichiarerà la contumacia. Nel caso in cui ad essere contumace sia l’attore, la prosecuzione del giudizio dipende da una espressa richiesta del convenuto di proseguire il giudizio, infatti l’art. 290 c.p.c. (contumacia dell’attore) dispone che il giudice dichiara la contumacia, solo se il convenuto richiede che il processo prosegua. Per esempio se il convenuto ha proposto una domanda riconvenzionale con la comparsa di risposta e perciò ha interesse che il processo prosegua per avere una pronuncia del giudice sulla sua domanda. Ma se il convenuto non formula questa richiesta di prosecuzione del giudizio, il giudice dispone che la causa sia cancellata da ruolo e il processo si estingue. Un po’ diversa è la disciplina nell’ipotesi, più ricorrente, che ad essere contumace sia il convenuto e, nella prima udienza di trattazione, il giudice si dovrà innanzitutto preoccupare se la mancata costituzione in giudizio del convenuto, non sia dipesa da un vizio relativo alla notifica dell’atto di citazione. Infatti se il giudice rileva un vizio che rende nulla la notificazione dell’atto di citazione, deve ordinare all’attore che la notifica venga rinnovata entro un termine perentorio e se non provvede anche in questo caso la sanzione è l’estinzione immediata del processo (art. 291 c.p.c.103). Viceversa se l’attore provvede bisogna vedere comunque se il convenuto si costituisce oppure no. Se la mancata costituzione in giudizio è volontaria, cioè non dipende da un vizio di notifica o se la notificazione è stata rinnovata, nella prima udienza il giudice dichiara con ordinanza la contumacia e questo comporta talune variazioni nel processo, denominato procedimento contumaciale ai sensi dell’art. 292 c.p.c. riferito all’attività di notificazione o comunicazione degli atti al contumace. Il legislatore non attribuisce valore negativo a questo comportamento, ma neppure è tenuto a portare a conoscenza del contumace gli atti del processo, per cui se questo vuole conoscere l’andamento della causa, con un atteggiamento di contumacia vigile, dovrà attivarsi per conoscere gli atti del processo, salvo per alcuni atti specifici per i quali l’art. 292 dispone la notifica al contumace. Infatti le comparse e, più in generale, gli atti del processo si comunicano al contumace attraverso il deposito in cancelleria, cioè è il contumace che deve andare in cancelleria per avere copia degli atti. Questo, però, non vale per alcuni atti che possono determinare nei confronti del contumace alcune conseguenze particolarmente pregiudizievoli, i quali sono elencati in modo tassativo nell’art. 292 e in altre norme, come l’art. 186 ter che prevede espressamente che l’ordinanza debba essere notificata al contumace. Infatti il primo comma dell’art. 292 dispone: “L'ordinanza che ammette l'interrogatorio o il giuramento, e le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte sono notificate personalmente al contumace nei termini che il giudice istruttore fissa con ordinanza.” In relazione alle ordinanze istruttorie, più precisamente la norma si riferisce all’ordinanza che ammette l’interrogatorio formale (non è detto espressamente, ma è pacifico che sia così). Questa ordinanza va notificata al contumace perché la parte che non si presenta senza giustificato motivo, va incontro alle conseguenze prescritte dall’art. 232, cioè il giudice può considerare ammessi i fatti dedotti dall’interrogatorio valutati gli altri elementi di prova. La mancata comparizione personale all’interrogatorio formale del contumace, determina nei suoi confronti l’effetto dell’ammissione tacita, cioè una conseguenza particolarmente pregiudizievole. Per questo il legislatore richiede di notificargli personalmente il provvedimento che ammette l’interrogatorio, in modo che il contumace sappia che se decide di non presentarsi all’interrogatorio comunque va incontro a queste conseguenze. 103 Il d.lgs. 69/2009 ha disposto che il primo comma dell'art. 291 si applica anche nei giudizi davanti ai giudici amministrativi e contabili.

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Ancora di più questo discorso vale per l’ordinanza che ammette il giuramento, perché lì la mancata presentazione a rendere giuramento comporta (lo dice espressamente la norma) soccombenza, cioè il contumace che non si presenta a giurare perde la causa ed anche per questo motivo quest’ordinanza va notificata personalmente al contumace. A questi provvedimenti la Corte costituzionale ha aggiunto anche il verbale con cui si da atto della produzione della scrittura privata e anche questa va notificata personalmente al contumace per consentirgli di presentarsi in giudizio o per disconoscerla tempestivamente. Invece se il contumace ritiene che quella scrittura non sia propria può impugnarla in qualsiasi momento del processo, cioè non deve farlo immediatamente. Devono poi essere notificate personalmente al contumace le comparse che contengono domande nuove o riconvenzionali, perché può sorgere nel contumace l’interesse a costituirsi per contrastare attivamente la loro fondatezza, ma anche le sentenze (art. 292 ultimo comma). Viceversa tutte le altre comparse si considerano comunicate con il deposito in cancelleria con la apposizione del visto del cancelliere sugli originali. “La parte che è stata dichiarata contumace può costituirsi in ogni momento del procedimento fino all'udienza di precisazione delle conclusioni. La costituzione può avvenire mediante deposito di una comparsa, della procura e dei documenti in cancelleria o mediante comparizione all'udienza. In ogni caso il contumace che si costituisce può disconoscere, nella prima udienza o nel termine assegnatogli dal giudice istruttore, le scritture contro di lui prodotte (art. 293 c.p.c.).” Se il contumace decide di costituirsi in giudizio tardivamente va incontro a conseguenze legate ai tempi dello svolgimento del processo, perché non può essere rimesso in termini, cioè non potrà svolgere attività che per lo stato di progressione del processo sono precluse alle parti. Ad esempio se il contumace si costituisce all’udienza di precisazione delle conclusioni, non potrà svolgere alcuna attività probatoria ormai preclusa anche alle parti. Questo principio incontra un’eccezione nell’ipotesi in cui la contumacia sia involontaria: “Il contumace che si costituisce può chiedere al giudice istruttore di essere ammesso a compiere attività che gli sarebbero precluse, se dimostra che la nullità della citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile (art. 294 c.p.c.).” In questi casi può chiedere al giudice di essere rimesso in termini e cioè di svolgere quelle attività che ormai gli sarebbero precluse.