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sinergie n. 60/03 PROCESSI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: VECCHI E NUOVI PARADIGMI Vladimir Nanut * Andrea Tracogna ** Abstract Con questo saggio si è inteso mettere in evidenza come, nell’ambito dei processi di internazionalizzazione delle imprese, si stiano affermando dei nuovi paradigmi, che superano la classica opposizione export/investimenti diretti, per ispirarsi a nuovi criteri, come le recenti logiche del global sourcing, dell’impresa virtuale e della ricerca di vantaggi localizzativi e di competenze distintive su scala globale. Nel loro complesso, questi nuovi paradigmi stanno allargando il campo delle possibili modalità, motivazioni e strategie delle imprese internazionalizzate, al punto da relativizzare qualsiasi ipotesi di una “one best way” per i percorsi di internazionalizzazione delle imprese. Un’attenzione particolare è stata dedicata ai peculiari modelli di internazionalizzazione adottati dalle imprese italiane ed alla valutazione delle implicazioni dei processi di globalizzazione sul sistema dei distretti e delle PMI. Key words: internazionalizzazione, globalizzazione, strategie di esportazione, distretti industriali, piccole e medie imprese, delocalizzazione This essay aims to explore how, in the context of the internationalization of enterprises, new paradigms are emerging that overcome the traditional opposition between export and direct investment. These paradigms draw inspiration from new strategies, such as global sourcing and virtual organizing, and lead to the search for location-based advantages and distinctive competencies on a global basis. Altogether they are broadening the choice of modes, motives and strategies available to internationalized companies to the extent that it is no longer possible to say that there is “one best way” to go global. A special attention will be given to the unique internationalization models adopted by Italian firms and to assessing the impact of globalization on the industrial districts and the small business system. Key words: internationalization, globalization, export strategies, industrial districts, small and medium sized enterprises (SME), global sourcing * Ordinario di Strategie d’Impresa - Università degli Studi di Trieste e-mail: [email protected] ** Associato di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Trieste e-mail: andreat@econ. univ.trieste.it

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sinergie n. 60/03

PROCESSI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: VECCHI E NUOVI PARADIGMI

Vladimir Nanut* Andrea Tracogna** Abstract

Con questo saggio si è inteso mettere in evidenza come, nell’ambito dei processi di internazionalizzazione delle imprese, si stiano affermando dei nuovi paradigmi, che superano la classica opposizione export/investimenti diretti, per ispirarsi a nuovi criteri, come le recenti logiche del global sourcing, dell’impresa virtuale e della ricerca di vantaggi localizzativi e di competenze distintive su scala globale. Nel loro complesso, questi nuovi paradigmi stanno allargando il campo delle possibili modalità, motivazioni e strategie delle imprese internazionalizzate, al punto da relativizzare qualsiasi ipotesi di una “one best way” per i percorsi di internazionalizzazione delle imprese.

Un’attenzione particolare è stata dedicata ai peculiari modelli di internazionalizzazione adottati dalle imprese italiane ed alla valutazione delle implicazioni dei processi di globalizzazione sul sistema dei distretti e delle PMI.

Key words: internazionalizzazione, globalizzazione, strategie di esportazione, distretti industriali, piccole e medie imprese, delocalizzazione

This essay aims to explore how, in the context of the internationalization of enterprises, new paradigms are emerging that overcome the traditional opposition between export and direct investment. These paradigms draw inspiration from new strategies, such as global sourcing and virtual organizing, and lead to the search for location-based advantages and distinctive competencies on a global basis. Altogether they are broadening the choice of modes, motives and strategies available to internationalized companies to the extent that it is no longer possible to say that there is “one best way” to go global.

A special attention will be given to the unique internationalization models adopted by Italian firms and to assessing the impact of globalization on the industrial districts and the small business system.

Key words: internationalization, globalization, export strategies, industrial districts, small and medium sized enterprises (SME), global sourcing

* Ordinario di Strategie d’Impresa - Università degli Studi di Trieste e-mail: [email protected] ** Associato di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Trieste e-mail: andreat@econ. univ.trieste.it

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PROCESSI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE: VECCHI E NUOVI PARADIGMI

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1. Introduzione

L’internazionalizzazione è un fenomeno di natura composita, che non si riduce alla sfera degli scambi e delle transazioni economiche, ma che abbraccia gli ambiti della politica, della società, della cultura.

Nonostante l’attenzione degli studiosi e soprattutto dei media si sia impennata in epoca relativamente recente, questo fenomeno viene da lontano. Parlare di processi di internazionalizzazione delle imprese significa infatti toccare una tematica al contempo antica ed attuale.

Antica, perché con l’avvio di questi processi - che risalgono ad epoche ben anteriori a quella della rivoluzione industriale e che si realizzano per molto tempo in ottica prevalentemente mercantile - prendono forma gli stessi sistemi economici capitalistici moderni, che si sviluppano attorno a flussi di merci e di capitali capaci di attraversare anche il più impermeabile confine nazionale.

Attuale, perché questi processi - che proseguono oggi inesorabili e con dimensioni crescenti (come vedremo più avanti) - si sono di recente trasformati in un motore estremamente potente di integrazione e al contempo di cambiamento della nostra Società, alimentando quel fenomeno pervasivo che molti hanno definito “globalizzazione”.

Con questa relazione si intende mettere in evidenza come, nell’ambito dei processi di internazionalizzazione delle imprese, si stiano affermando dei nuovi paradigmi, che superano la classica opposizione export/investimenti diretti, per ispirarsi a nuovi criteri, come le recenti logiche del global sourcing, dell’impresa virtuale e della ricerca di vantaggi localizzativi e di competenze distintive su scala globale.

Nel loro complesso, questi nuovi paradigmi stanno allargando il campo delle possibili modalità, motivazioni e strategie delle imprese internazionalizzate, al punto da relativizzare qualsiasi ipotesi di una “one best way” per i percorsi di internazionalizzazione delle imprese.

Nel seguito della relazione cercheremo di descrivere sommariamente questi modelli di internazionalizzazione e di svolgere su di essi alcune riflessioni. Un’attenzione particolare sarà dedicata ai peculiari modelli di internazionalizzazione adottati dalle imprese italiane ed alla valutazione delle implicazioni dei processi di globalizzazione sul sistema dei distretti e delle PMI.

2. Generalità sui processi di internazionalizzazione In campo economico, il tema dell’internazionalizzazione delle imprese è stato

affrontato entro diverse prospettive ed angolazioni (dall’economia internazionale, al

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marketing, dall’international business, alla strategia aziendale e all’economia d’impresa).1

Indipendentemente dalla prospettiva adottata, gli interrogativi con cui lo studioso si accosta a questo tema sono essenzialmente gli stessi:

1. per quali motivi un’impresa si internazionalizza? 2. quali sono le modalità possibili dell’internazionalizzazione? 3. quali sono le strategie più adatte per operare sui mercati internazionali?

1) La questione dei motivi è solo apparentemente banale. Possiamo infatti distinguere il caso in cui l’impresa intenda sfruttare a livello internazionale un vantaggio competitivo già acquisito, dal caso in cui l’impresa voglia ottenerlo proprio attraverso le attività con l’estero.

Nel primo caso, la finalità principale dell’internazionalizzazione è in essenza quella di cogliere nuove opportunità di mercato, facendo leva su un prodotto vincente oppure su competenze distintive possedute, come una superiore tecnologia o marchi particolarmente noti e affermati.

Nel secondo caso, la motivazione prevalente per l’impresa è quella della ricerca di fattori di superiore competitività, che garantiscano risparmi nei costi di produzione (ad esempio nei costi del lavoro) o l’accesso privilegiato a materie prime.

Un altro movente dei processi di internazionalizzazione sta nel desiderio di ridurre i rischi operativi e di mercato attraverso una strategia di diversificazione degli sbocchi e/o degli approvvigionamenti.

Ancora, in taluni casi l’internazionalizzazione è la strada obbligata per accedere a mercati protetti, che impongono una certa quota di “local content” nelle produzioni offerte sul mercato.

Già da questo primo sommario elenco di motivazioni si può cogliere la duplice valenza delle scelte di internazionalizzazione, che può essere vissuta dall’impresa sia come una necessità, cioè come una strategia di difesa delle proprie posizioni competitive, che come una vera e propria opportunità competitiva, come un percorso strategico idoneo a costruire e sostenere percorsi di crescita dimensionale e di

1 Tra gli apparati teorici più robusti si vuole qui ricordare la teoria dell’impresa

multinazionale e dell’internazionalizzazione delle imprese, come si è sviluppata dagli anni ’60 ad oggi, con i contributi determinanti di autori come Hymer (1976), Vernon (1966), Stopford e Wells (1972), Buckley e Casson (1976), Dunning (1981), Rugman (1982), per giungere fino Bartlett e Ghoshal (1989) e a Porter (1990).

Di rilievo è anche la letteratura italiana sul tema delle imprese multinazionali. Tra tutti si ricordano i contributi pionieristici di Rullani (1973) e Sciarelli (1973). Di particolare interesse è anche il contributo di Pellicelli (1989). Una delle migliori rassegne di prospettiva “aziendalista” sul tema delle imprese multinazionali e dei processi di internazionalizzazione è contenuta in Grandinetti e Rullani (1996). Si veda anche Caroli (2000). Infine, sul rapporto tra processi di internazionalizzazione e globalizzazione dei mercati, si ricordano qui i contributi di Varaldo (1987), Valdani (1991), Stampacchia (1991; 2001), Velo (1991).

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massimizzazione dei profitti. 2) Dal punto di vista delle sue modalità, l’internazionalizzazione delle imprese può avvenire essenzialmente in due forme estreme: via export o via investimenti diretti (IDE).2

Le domande chiave per scegliere tra export e IDE sono le seguenti:

- su quali basi si fonda il vantaggio competitivo dell’impresa? Su fattori firm-specific o su fattori country-specific?

- Il prodotto che si vuole collocare sui mercati esteri è liberamente commercializzabile su scala internazionale? Gli investimenti diretti dominano in settori dove sono importanti i fattori firm-

specific, cioè quei vantaggi competitivi che l’impresa possiede sui concorrenti indipendentemente dalla sua localizzazione geografica (come le tecnologie e i marchi). Si tratta di risorse che possono essere separate dal contesto locale e sfruttate a livello internazionale, meglio se in abbinamento ai vantaggi location-based (Kogut, 1985), come una forza lavoro a bassi costi, l’accesso a fonti di energia, la conoscenza diretta dei mercati locali.

Gli IDE sono anche preferiti in quei casi dove l’attività di esportazione è soggetta ad elevati costi transazionali.3

L’export sarà invece la modalità più adatta nel caso di un’offerta che ben sopporta il peso dei costi logistici di una produzione centralizzata nel paese di origine, e dove sono importanti i vantaggi di tipo country-specific che l’impresa può sfruttare a livello domestico.4

Rispetto alla modalità esportativa, gli investimenti diretti richiedono un più elevato livello di impegno dal punto di vista finanziario, sono intrinsecamente meno reversibili, e sono anche meno flessibili rispetto a possibili fenomeni di instabilità politica dei paesi ospitanti e alle fluttuazioni delle condizioni di mercato.

Per la sua semplicità e per il ridotto impegno richiesto, l’esportazione è stata così tradizionalmente considerata come il primo passo per l’entrata nei mercati internazionali, la “piattaforma” per future espansioni all’estero, specialmente nell’ottica delle PMI. 3) Dal punto di vista, infine, delle strategie per affrontare i mercati internazionali,

2 Esistono ovviamente diverse forme intermedie, come il licensing o le joint venture, che

però possono essere, per comodità espositiva, ricondotti ai due casi estremi dell’export e degli IDE.

3 Sulla scelta tra export e IDE esiste una lettura in termini di economia delle transazioni economiche. Quando le risorse chiave dell’impresa sono proprietarie (come marchi o brevetti), l’esportazione può esporre l’impresa a maggiori rischi di appropriazione. In tal caso, l’IDE diventa una modalità attraente di internazionalizzazione perché permette all’impresa di minimizzare i rischi legati alle transazioni attraverso l’internalizzazione dei mercati per lo scambio di risorse proprietarie (Hennart, 1982; Rugman, 1982)

4 Vedremo in seguito, ad esempio, che molti vantaggi competitivi delle imprese italiane sono il portato di fattori country-specific, operanti al livello dei distretti industriali.

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queste possono collocarsi all’interno di un continuum di opzioni che si situano tra le due estremità della strategia “multilocale” (dove non ci si confronta con un vero e proprio mercato internazionale ma semplicemente con una collezione di mercati domestici separati tra di loro) e della strategia “globale” (dove l’impresa si confronta con un mercato omogeneo su base mondiale, che viene servito con un’offerta standardizzata).5

La scelta multilocale/globale riflette l’esigenza di risolvere il tradizionale dilemma che l’impresa internazionalizzata affronta: quello tra le esigenze di integrare le proprie attività su scala mondiale e quella, opposta, di rispondere alle specifiche esigenze locali dei propri clienti (Bartlett e Ghoshal, 1989).

3. I numeri dell’internazionalizzazione L’internazionalizzazione dell’economia e delle imprese sta segnando una forte

crescita in senso quantitativo. Secondo il più recente rapporto annuale sul commercio dell’Unctad (Unctad,

2002), nel corso degli scorsi due decenni le esportazioni mondiali di merci sono cresciute ad un tasso medio annuo dell’8%, con tassi addirittura del 12, 5% nell’anno 2000.

Anche gli scambi di tipo “immateriale” danno il loro contributo all’internazionalizzazione se è vero che ben il 20% del commercio mondiale ha per oggetto i servizi (fonte WTO).

Una crescita perfino più sostenuta (in termini percentuali) di quella del “trade” è stata quella degli IDE, come si può osservare dalla tabella 1.6

5 La scelta multilocale/globale è, di fatto, la risultante di un complesso processo

decisionale (Yip, 1992), che comprende: - la definizione dei mercati - riguarda la scelta dei mercati domestici dove essere

presenti; - la definizione dell’offerta (prodotto/servizio) - concerne il grado di standardizzazione o

adattamento dei prodotti offerti su scala mondiale; - la localizzazione delle attività - riguarda la scelta su dove localizzare ognuna delle

attività della catena del valore, dalla ricerca, alla produzione, alle attività di post-vendita;

- la definizione del marketing mix - concerne la decisione se utilizzare gli stessi brand name, lo stesso advertising e altri elementi di marketing nei diversi paesi;

- la scelta delle strategie competitive - riguarda il modo in cui le decisioni competitive su un mercato locale sono parte di una strategia complessiva a livello globale.

6 Può essere interessante fornire anche qualche dato sulla distribuzione di questi flussi a livello internazionale (Unctad, 2001). A dispetto della loro ampiezza, gli investimenti diretti non sono infatti equamente distribuiti a livello mondiale. I primi 30 Paesi destinatari di IDE pesano per circa il 99% sui flussi di investimento. I Paesi sviluppati rimangono i primi destinatari degli investimenti diretti, rappresentando oltre i tre quarti dei flussi globali. I flussi di investimento verso i Paesi in via di sviluppo pesano per il 19% del totale, mentre quelli verso i Paesi dell’Europa Centrale ed Orientale ammontano

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1982 1990 2000 IDE – flussi in entrata 57 202 1271 IDE – stock di investimenti in entrata 719 1889 6314 M&A di tipo cross-border - 151 1144 Esportazioni di merci e servizi 2124 4381 7036

Tab. 1: Indicatori selezionati di IDE e di commercio internazionale, 1982 – 2000;

valori a prezzi correnti (miliardi di dollari USA)

Fonte: Unctad, World Investment Report 2001 Un’influenza decisiva nella crescita dei “numeri” dell’internazionalizzazione è

dovuta alle strategie seguite dalle imprese multinazionali.7 Produzioni con tassi di crescita tra i più elevati nei due decenni scorsi, e cioè

parti e componenti elettroniche, come pure prodotti del tessile-abbigliamento, sono state infatti fortemente influenzate dalla globalizzazione dei processi di produzione che si è realizzata attraverso accordi internazionali di global sourcing.

La maggiore mobilità dei capitali, assieme alle persistenti restrizioni nei movimenti della forza lavoro, hanno esteso l’ampiezza dei network internazionali di produzione, e di conseguenza accelerato la crescita del commercio in un consistente numero di settori, specialmente dove le catene di produzione possono essere spezzate e localizzate in paesi diversi.

Politiche tariffarie di favore, spesso realizzate attraverso accordi a livello regionale (UE, Nafta, ..), e incentivi di carattere fiscale hanno ulteriormente incoraggiato questo processo, promuovendo nuovi modelli di commercio, dove i

al 2%. I 49 Paesi meno sviluppati della terra attirano soltanto lo 0, 3% degli investimenti diretti.

All’interno del mondo sviluppato, sono orientati verso la cd. Triade (USA, UE, Giappone) il 71% del totale degli investimenti diretti a livello mondiale, mentre provengono dalla Triade l’82% degli investimenti diretti. I principali destinatari di IDE sono gli Stati Uniti d’America.

7 Le prime 100 multinazionali controllano oggi circa il 20% del totale degli investimenti esteri. 51 delle principali economie del pianeta sono imprese private, contro 49 Stati-nazione. Come ci ricorda Hertz (2001) nel suo recente libro “The silent takeover”, le vendite di imprese come General Motors e Ford sono più grandi del PIL dell’intera Africa sub-sahariana. Wal Mart, la catena di retail americana, ha ricavi superiori a molti Stati dell’Europa Centro-Orientale, inclusa la Polonia e la Repubblica Ceca. La forza economica di queste multinazionali è concentrata in pochi paesi. Infatti, circa 90 delle prime 100 multinazionali non finanziarie in termini di risorse investite all’estero hanno i loro quartieri generali in paesi della Triade. Sono dati di particolare significato, sui quali da alcuni anni è attivo un dibattito che vede coinvolti anche studiosi di economia d’impresa e che verte sul possibile ruolo e sulle responsabilità che queste imprese possono e devono assumersi rispetto alle esigenze di sviluppo economico del Sud del mondo.

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prodotti vengono realizzati in diverse località internazionali prima di raggiungere l’utente finale.

Si stima che queste forme di commercio, basate su modelli di divisione del lavoro entro network internazionali di produzione, pesino per un buon 30% sulle esportazioni mondiali (Unctad, 2001).8

4. La Globalizzazione: mito e realtà Al di là degli aspetti quantitativi sopra evidenziati, è la stessa “qualità” dei

processi di internazionalizzazione che sta cambiando profondamente. I processi di internazionalizzazione dell’economia si realizzano oggi entro uno

scenario di progressiva apertura dei mercati. Sistemi economici un tempo divisi e mercati protetti diventano via via più contendibili per operatori nazionali ed internazionali, anche in conseguenza degli accordi raggiunti a livello WTO e degli estesi processi di deregulation attuati da un numero crescente di Paesi.

Siamo entrati in uno scenario (che i più definiscono con il termine “globalizzazione”), entro il quale le un tempo “avveniristiche” tesi del villaggio globale (di Marshall McLuhan) e dell’omogenizzazione dei bisogni (Levitt, 1983) sembrano trovare più di un riscontro.

Negli ultimi anni, anche il fenomeno della globalizzazione ha assunto significati che travalicano la sfera dell’economia per coinvolgere la politica, la società, la cultura. Se dal punto di vista prettamente economico, la globalizzazione è stata definita come la produzione e la distribuzione di prodotti e servizi di tipo e qualità omogenei su scala mondiale (Rugman, 2000), un’accezione ben più ampia di globalizzazione viene utilizzata, ad esempio, dall’eminente sociologo e politologo Antony Giddens, che la definisce come l’interconnessione mondiale, ai livelli culturale, politico ed economico, che risulta dall’eliminazione delle barriere alla comunicazione ed al commercio (Giddens, 1999).

In termini generali, il tema della globalizzazione sta interessando, oltre agli studiosi, strati sempre più ampi dell’opinione pubblica. Assieme a chi ne canta le lodi, e ne mette in evidenza gli effetti benefici, in particolare per quanto concerne la disponibilità di beni e servizi a prezzi sempre più accessibili, non mancano movimenti politici e sociali che si oppongono fermamente ai principi e alle conseguenze della globalizzazione. Non entreremo in questo dibattito, che ha assunto spesso toni molto accesi. Dal nostro punto di vista dobbiamo tuttavia rilevare che, nonostante la convinzione diffusa che il mercato e le imprese si trovino in piena fase di globalizzazione, in realtà i riscontri fattuali non sembrano avvalorare tale assunto.

Alcune autorevoli ricerche evidenziano infatti che la gran parte del trade internazionale si realizza ancora a livello intra-regionale, e cioè entro le macro-

8 Risulta evidente che in questo intreccio di produzione globale e di re-importazioni il

valore totale del commercio registrato su questi prodotti eccede il loro valore aggiunto per un margine considerevole.

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regioni del Nord-America, dell’Unione Europea e del Giappone. Rugman (2000) fornisce precisi riferimenti fattuali a questa tesi. Ad esempio,

nel 1997, il 60, 6% delle esportazioni dei Paesi dell’Unione Europea era realizzato internamente a questa macro-regione. Le esportazioni verso i Paesi del Nafta ammontavano all’8, 7%, mentre l’Asia pesava per il 9, 4%. Anche a livello Nafta, il commercio interno pesava per il 49, 1% del totale, con le esportazioni rivolte all’UE e all’Asia che rappresentavano rispettivamente il 15, 4% e il 22, 4%.

Se passiamo dai dati aggregati ai dati relativi alle singole imprese, le conclusioni non cambiano. Infatti, pochissime delle 500 più grandi multinazionali vantano una presenza veramente “globale” sui mercati. La grande maggioranza di queste imprese è piuttosto concentrata sulle vendite nella propria macro - regione. Molte di queste imprese, inoltre, faticano non poco a ottenere profitti dalle proprie operazioni all’estero.

Basandoci sui dati forniti da Rugman e Verbeke (2002), se consideriamo, ad esempio, le prime tre multinazionali francesi per asset investiti all’estero, sulla base della graduatoria stilata ogni anno dall’Unctad, vediamo che queste imprese realizzano ancora la stragrande maggioranza delle vendite sul mercato europeo, cioè su base regionale, con percentuali che vanno dal 68% di Vivendi, al 72, 1% di Eridania Beghin-Say, all’81, 7% di Pernod Ricard (dati 2001).

Se prendiamo poi in considerazione i due maggiori retailer a livello mondiale, e cioè Wal Mart e Carrefour, notiamo che l’impresa americana possiede il 90, 5% dei suoi punti di vendita in Nord-America, mentre la quota di punti di vendita aperti a livello europeo dal gruppo francese corrisponde all’89, 5% del totale.

Anche nel campo dei servizi finanziari, un settore che dovrebbe essere, in teoria, più influenzato dai processi di globalizzazione, si fa fatica ad individuare “vere” imprese globali. Se consideriamo, a titolo di esempio, il gruppo americano Citigroup, il più grande operatore del settore su scala mondiale, osserviamo nell’ambito delle attività di consumer banking ancora una netta prevalenza dei ricavi realizzati sul mercato nordamericano (72, 7% sul totale del fatturato nel 2001).

Questi riscontri ci portano agevolmente a concludere che - se teniamo conto di variabili come la distanza geografica, la dimensione dei mercati, i livelli di reddito, le lingue e le culture, le legislazioni nazionali - le attività e transazioni economiche sono più “dense” entro i confini nazionali che tra paesi diversi. Le attività economiche sono in altri termini “location-bound”, sono cioè legate ai territori in cui si svolgono.

Possiamo dunque comprendere perché - di fronte a dati come quelli sopra riportati - vi sia chi arriva addirittura a parlare di “fine della strategia globale” (Rugman e Hodgetts, 2001).

Effettivamente, se si escludono alcuni settori, come l’elettronica di consumo, dove una strategia di integrazione su scala globale appare diffusamente realizzata, per molta parte del mondo aziendale le strategie di adattamento locale appaiono ancora le più appropriate e le più seguite.

Per anni - sulla scia dei facili entusiasmi relativi all’avvento dell’economia globale - si è pensato che a prevalere sarebbero presto stati i cd. drivers

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dell’integrazione globale e cioè: 1. le economie di scala - nelle attività di ricerca e nello sviluppo di nuovi prodotti; - nelle operations (produzione, acquisti, logistica); - nel reclutamento di forza lavoro e di talenti manageriali; - nel marketing (global brands); 2. i segmenti “globali” di domanda, rappresentati da - clienti che preferiscono utilizzare lo stesso fornitore in ogni parte del mondo

(come nel caso dei produttori auomobilistici rispetto ai fornitori di componentistica);

- clienti che sono mobili a livello internazionale (e preferiscono rivolgersi a catene internazionali di hotels o appoggiarsi per le proprie necessità di pagamento a circuiti globali di carte di credito);

- clienti che sono identificabili in gruppi e comunità trasversali dal punto di vista geografico, attratti da prodotti e modelli di consumo “globali”;

Dall’osservazione attenta della realtà appaiono invece ancor’oggi prevalenti i

cd. drivers dell’adattamento locale, basati sull’esistenza di “differenze” tra mercati geografici (nelle preferenze dei clienti, nelle regolamentazioni di legge, ecc.) e sulla necessità di adattare l’offerta dell’impresa per soddisfare esigenze diverse in modo più appropriato. Ciò spiega anche la ragione per cui molte multinazionali di successo oggi disegnano le proprie strategie ancora prevalentemente su scala regionale.

Entro un quadro di forte e persistente dualismo nei percorsi internazionali di sviluppo tra le grandi imprese, in primis quelle multinazionali, e le PMI, anche sotto il piano della modellizzazione teorica, quanto appena affermato finisce comunque per mettere in evidenza un tratto in comune tra queste due categorie di imprese, e cioè una difficoltà condivisa a realizzare completamente le “promesse” della globalizzazione.

Per suffragare meglio tale asserzione, abbiamo ritenuto opportuno dedicare specificamente alcune riflessioni alle logiche e alle modalità attraverso le quali le PMI si sono avviate lungo i percorsi dell’internazionalizzazione, considerando in particolare il caso italiano. 5. Internazionalizzazione e PMI: il caso italiano

Il tema dell’internazionalizzazione delle imprese del nostro Paese ha ricevuto,

soprattutto negli ultimi due decenni, una significativa attenzione nel campo degli studi aziendalistici. 9

Le ricerche e le analisi svolte, considerata la specificità del caso italiano, che vede una ridottissima presenza di grandi imprese con una forte presenza

9 Sulle strategie di internazionalizzazione delle PMI italiane si vedano, tra gli altri, Varaldo

(1992), Grandinetti e Rullani (1992), Silvestrelli e Gregori (1994).

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internazionale, hanno evidenziato la paradigmaticità di un modello di internazionalizzazione, centrato sul ruolo delle PMI e dei distretti industriali, che si pone in netta antitesi ai modelli implementati dalle grandi multinazionali.

In effetti, le proiezioni di carattere internazionale delle imprese italiane sono andate nel tempo svincolandosi dalle dimensioni d’impresa, ed è proprio dai segmenti dimensionali minori ma anche dalle agglomerazioni distrettuali che sono giunti i contributi più dinamici al processo di espansione sui mercati esteri dell’industria italiana, anche in termini di investimenti diretti (Lipparini, 2002).

L’espansione internazionale è stata particolarmente significativa nelle regioni del Nord-Est.10 Secondo dati della Fondazione Nord-Est nel suo Rapporto per il 2000, più del 70% delle imprese con oltre 100 dipendenti ha rapporti commerciali con l’estero; il peso percentuale del fatturato realizzato all’estero è molto elevato, sovente superiore a quello di molte grandi imprese multinazionali.

Si tratta di dati di particolare rilievo, che ci consentono forse di cogliere, almeno per il nostro Paese, i termini di una transizione generale in corso tra una fase di mondializzazione elitaria dell’economia, affidata a grandi organizzazioni multinazionali, e l’affermazione di una fase nuova, caratterizzata da una condizione di globalità diffusa (Grandinetti e Rullani, 1992; 1996).

I processi di internazionalizzazione delle PMI italiane presentano comunque dei tratti distintivi, che meritano di essere esaminati.

Innanzitutto, le imprese considerate non sono sempre consapevoli di collocarsi entro uno scenario di internazionalizzazione. La maggior parte delle PMI “vive” infatti forme di internazionalizzazione indiretta o, per così dire, “oggettiva” (Cafferata, 1993; Rispoli, 1994). Le piccole imprese possono cioè collegarsi all’ambiente internazionale anche indipendentemente dal collocamento diretto del proprio output nei mercati esteri:

- o perché operano come anelli terminali della “filiera”, mettendo a punto il

prodotto finito e servendo un mercato nazionale o locale, ma acquistando da una catena internazionale a monte di beni e servizi;

- o perché realizzano beni e servizi intermedi per utilizzatori industriali, i quali a loro volta servono un mercato internazionale.

Inoltre, anche quando vi è una deliberata strategia di internazionalizzazione, le

PMI – come e più delle grandi imprese - vengono a confrontarsi con due importanti limitazioni (Lu e Beamish, 2001): - la cd. liability of foreigness (Hymer, 1976), che fa riferimento al fatto che le

conoscenze e le capacità che una PMI ha sviluppato operando nel suo mercato domestico originario sovente non sono adatte per operare in nuovi mercati internazionali;

10 Sulla propensione internazionale delle PMI, ed in particolare di quelle del Nord-Est, cfr.

Nanut e Compagno (1989).

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- la cd. liability of newness (Stinchcombe, 1965), che fa riferimento al fatto che l’entrata su un nuovo mercato, specialmente se con una filiale o sussidiaria, comporta delle sfide e dei rischi molto simili a quelli di un vero e proprio start-up. Occorre costruire e sviluppare relazioni con gli stakeholders, occorre consolidare una reputazione ed una legittimazione su base locale, e bisogna reclutare e addestrare nuova forza lavoro. Possiamo in tal senso assegnare alla decisione di internazionalizzazione un carattere “imprenditoriale”. Forse a causa di queste limitazioni, la PMI italiana ha sempre preferito

largamente la modalità dell’export, evidenziando invece una ridotta propensione agli investimenti esteri. Nella maggior parte dei casi, la proiezione internazionale delle PMI italiane ha riguardato infatti le vendite del prodotto finito e non le attività a monte della catena del valore. Per queste attività, anche nel caso di ricorso al decentramento, si sono utilizzate in gran parte risorse e soggetti presenti nello specifico contesto territoriale locale.

A questa preferenza per modalità poco “impegnative” di internazionalizzazione hanno senza dubbio contribuito anche gli stessi modelli di governance di tali imprese, centrati sul ruolo dell’imprenditore e della famiglia, e caratterizzati da scarso ricorso a profili manageriali e a forme organizzative adeguatamente strutturate per affrontare le sfide dell’internazionalizzazione.11

Nonostante le peculiarità e le limitazioni considerate, tuttavia, l’esportazione non va, a nostro avviso, considerata un modello meno evoluto di internazionalizzazione.

Da un lato, perché queste imprese minori, pur continuando a servire i mercati di sbocco con logiche esportative, manifestano oggi una chiara propensione a sfruttare anche le opportunità di delocalizzazione all’estero.

Dall’altro lato, perché, in determinate circostanze, come si chiariva in apertura di relazione, la forma export può risultare più adatta degli IDE per realizzare l’internazionalizzazione dell’impresa. Più in particolare, la preferenza per l’export può essere giustificata in tutti quei casi dove il valore dell’offerta dipende da vantaggi che sono prevalentemente di tipo “country specific”, come quelli identificabili nelle economie di agglomerazione tipiche dei distretti industriali italiani.

I vantaggi competitivi su cui fanno leva le PMI italiane sono infatti prevalentemente quelli “locali” di cui parla Porter nel suo modello del “diamante” (Porter, 1990).12 In questi termini, sarebbe quindi la necessità di conservare i vantaggi dell’appartenenza a sistemi del valore a base territoriale ad indurre le PMI italiane a preferire il modello esportativo agli IDE.

Come notano Grandinetti e Rullani (1996), le PMI italiane hanno un rapporto 11 Sul tema del rapporto tra modelli di Corporate Governance e modelli di

internazionalizzazione, si veda la relazione di Cristiana Compagno in questo stesso numero.

12 E non a caso la sua analisi prende le mosse proprio dai distretti di Sassuolo e dalla “packaging valley” dell’area bolognese.

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“naturale” con l’internazionalizzazione, per il fatto che le loro competenze di nicchia possono essere messe in valore semplicemente attraverso un’estensione mondiale delle vendite. I vantaggi competitivi delle nostre imprese sono infatti fortemente radicati sul territorio e sono intrinsecamente di natura “globale”, in quanto adatti ad essere sfruttati a livello internazionale senza un elevato adattamento dell’offerta ai diversi mercati.

Sono queste essenzialmente le caratteristiche centrali del cd. “made in Italy”: un’offerta di prodotti che sono particolarmente adatti a servire mercati limitati (nicchie) ma di estensione globale. Non solo, si tratta spesso di prodotti che servono segmenti high-end del mercato, e quindi con livelli di prezzo e margini di redditività che possono spesso sopportare differenziali anche elevati nei costi di produzione rispetto ai produttori a basso costo.

In questo quadro, non vanno poi sottovalutati i vantaggi dell’appartenenza ai distretti industriali. In un contesto di relativo “nanismo” imprenditoriale, come quello italiano, dove il peso sul commercio internazionale di ogni singola impresa è poco più che marginale, è forse possibile assegnare proprio ai distretti un ruolo di “multinazionali spontanee” (Fortis, 2000); spontanee perché non il frutto del disegno strategico di imprese guida; multinazionali per la rilevanza in termini di dimensione (fatturato e addetti) e di quote di mercato a livello internazionale. In tal senso, i dati di tabella 2 sono particolarmente significativi.

Prodotti Distretti Quota su export mondiale (%) Tessuti di lana Prato 19-20 Tessuti di lana Biella-Vercelli 14-15 Tessuti di seta Como 24-26 Calze femminili Castel Goffredo 40 Pelli conciate Vicenza 10 Calzature Ascoli Piceno-Macerata 5-7 Occhiali Belluno 15-17 Oreficeria Vicenza 13-15 Oreficeria Arezzo 12-13 Mobili e cucine Treviso-Pordenone 8-9 Mobili e cucine Como-Milano 4-5 Piastrelle ceramiche Modena 38-40 Macchine per imballaggio Bologna 13-15

Tab. 2: Il peso dei principali distretti italiani sull’export mondiale (dati 1996) Fonte: Fortis (2000)

Export e distretti: in estrema sintesi è proprio su queste colonne portanti che il

sistema delle PMI italiane ha raggiunto livelli relativi di internazionalizzazione non dissimili da quelli di altri sistemi industriali Occidentali.

Sulla base di un’analisi più approfondita, tuttavia, si può definire ancora incompleto tale percorso di internazionalizzazione (Grandinetti, Micelli e Rullani,

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1993). Da un lato, per la natura selettiva di questi processi, nel senso che sono sovente circoscritti solo a poche funzioni e attività della catena del valore (prevalentemente le vendite). Dall’altro lato, perché manca spesso una chiara e deliberata strategia di internazionalizzazione, che sia la sintesi di una serie articolata di scelte strategiche, e che rappresenti un’adeguata risposta alle seguenti domande:

- abbiamo un approccio sistematico ai mercati esteri? Agiamo in modo pro-attivo o

semplicemente reattivo di fronte alle opportunità esterne? - Abbiamo valutato attentamente le più adatte modalità di presenza estera? - Stiamo considerando con attenzione la scelta del grado di internazionalizzazione

della nostra “catena del valore”? - Disponiamo di un marchio conosciuto a livello internazionale? Siamo stati o

saremo capaci di affermarlo sui mercati esteri? Oppure operiamo ancora secondo le logiche della produzione “unbranded” per conto terzi?

- Qual è l’ampiezza del nostro portafoglio clienti internazionali? Abbiamo definito un target di clientela per i mercati esteri?

- Disponiamo di un piano di marketing internazionale? - Cosa sappiamo dei nostri concorrenti sui diversi mercati? - Stiamo utilizzando tutte le opportunità di delocalizzazione produttiva?

Inoltre, se è vero che la modalità esportativa è ancora la più adatta a sostenere

l’internazionalizzazione del “made in Italy”, la mancanza di un approccio strutturato alle operazioni in ambito internazionale appare un fattore di potenziale debolezza entro uno scenario che sta progressivamente mutando per effetto di alcuni fenomeni evolutivi come:

- l’aumento della scala dei mercati (con le conseguenti problematiche

dimensionali) - la concorrenza dei nuovi player a livello mondiale, e la tendenza alla

delocalizzazione delle imprese occidentali nei paesi a basso costo del lavoro Fino ad oggi l’imprenditore italiano ha privilegiato uno sviluppo più di tipo

qualitativo che dimensionale, preferendo valorizzare e rafforzare il sistema di relazioni in cui l’impresa si era inserita a livello locale (il distretto) piuttosto che crescere rapidamente correndo il rischio di perdere il controllo delle attività. Tuttavia, nei prossimi anni, con l’ulteriore apertura dei mercati sul piano globale, la dimensione d’impresa appare sempre più importante per conseguire il vantaggio competitivo. Per governare la propria crescita, le PMI si trovano quindi costrette a modificare sensibilmente i modelli di governo e di direzione consolidati, con ampi interventi sui fronti della governance, delle strategie, del management e della finanza.

Alla sfida della dimensione si sommano le nuove sfide della competizione internazionale. Se scorriamo infatti la lista dei principali concorrenti nei settori dove l’Italia ha una posizione di leadership, vediamo che quasi sempre si tratta di Paesi

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con chiari vantaggi di costo nell’utilizzo della manodopera (Cina e Corea in primis). E’ evidente che, laddove non sia possibile isolarsi dalla crescente concorrenza

internazionale attraverso forme di differenziazione competitiva, occorre sottostare alle sempre più dure leggi dell’efficienza e dei costi di produzione.

Conseguentemente, la delocalizzazione produttiva su scala globale sta diventando non soltanto un’opportunità strategica, ma una necessaria condizione organizzativa e produttiva per operare in molti settori economici.

Dal momento che questo fenomeno sta coinvolgendo un numero crescente anche di imprese italiane, vale la pena di approfondirne le implicazioni sui processi di internazionalizzazione.

6. La delocalizzazione produttiva Una delle motivazioni principali della delocalizzazione delle imprese è quella di

ridurre il costo del lavoro. Sovente, la delocalizzazione è anche necessaria per sopperire alla mancanza di manodopera a livello domestico. Nella logica degli IDE, la strategia di delocalizzazione può avere inoltre come obiettivo quello di entrare su nuovi mercati interessanti anche come mercati di sbocco o di avvicinare le forniture alle unità produttive dei committenti internazionali. In altri casi lo spostamento all’estero delle prime fasi di lavorazione è reso necessario da vincoli di natura ambientale nei Paesi di origine, oppure dall’opportunità di mantenere un legame diretto con i mercati di provenienza delle materie prime.

Se in passato quello dell’abbigliamento era il comparto produttivo più interessato dal fenomeno della delocalizzazione, nell’ultimo decennio lo spostamento della produzione all’estero effettuato da molte imprese italiane ha riguardato i settori più disparati: oltre alla realizzazione di capi in seta in Cina ad all’abbigliamento di lana in Turchia, si possono citare a titolo d’esempio le produzioni di paste alimentari in Slovacchia e Turchia, quelle di cinturini per orologi in Ungheria, di componenti di calzature in Romania e Slovacchia, di semilavorati in legno in Romania, Croazia e Polonia e di componenti per autoveicoli in Tunisia.13

13 Sul tema della delocalizzazione internazionale delle imprese italiane, cfr. Schiattarella

(1999). Non sempre queste forme di delocalizzazione appaiono nelle statistiche ufficiali (Corò, 2000). Queste ultime registrano soltanto le forme di delocalizzazione che vengono realizzate attraverso forme di investimento diretto, come nel caso di dismissione di impianti nella base domestica e rilocalizzazione in paesi terzi, o come nel caso di realizzazione o utilizzazione di un impianto all’estero per espandere la produzione che nella casa madre non è possibile o conveniente avviare. Ma un processo di delocalizzazione può avvenire anche semplicemente mediante la decisione di affidare una fase di lavorazione ad imprese estere o di acquisire una linea di prodotti o componenti, prima realizzati all’interno dell’azienda, da fornitori presenti in località remote. Anche la sostituzione dei fornitori locali con fornitori esteri può rientrare nella categoria della delocalizzazione, in quanto si effettua uno spostamento di attività lavorativa verso un altro paese. In questi ultimi casi si effettua un’integrazione

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Uno dei paesi che ha attirato maggiormente le imprese italiane – specialmente quelle del Nord-Est - è la Romania. Nell’ultimo decennio, più di 10.000 imprenditori italiani hanno intrapreso processi di delocalizzazione produttiva in questo Paese, investendovi centinaia di milioni di dollari in attività che riguardano principalmente la lavorazione del legno ed i comparti del tessile/abbigliamento e calzaturiero, ma che si estendono anche al settore meccanico ed elettronico. Accanto a pochi grandi gruppi (come il gruppo veneto Zoppas, da anni radicato in questa regione), si tratta di un gran numero di PMI che hanno aperto degli stabilimenti produttivi in Romania in forza di una consapevole scelta di mercato, alla ricerca di manodopera a basso prezzo da impiegare in processi produttivi ad alto contenuto di lavoro, con l’obiettivo di abbattere i costi di produzione ed aumentare la competitività.

Secondo alcuni studiosi (Corò, 2000), la delocalizzazione delle imprese del Nord-Est rappresenta il sintomo di un cambiamento del modello di sviluppo di questo territorio, che da estensivo - in cui la crescita è funzione crescente della quantità dei fattori di lavoro, capitale e ambiente impiegati nella produzione – diventa invece intensivo, cioè caratterizzato dall’aumento di produttività nell’uso dei fattori, liberando risorse che possono venire meglio impiegate, se adeguatamente riconvertite, in attività a maggiore qualificazione e produttività. E che, dunque, risentono meno della concorrenza internazionale sui costi.

In questa prospettiva, la delocalizzazione non segnala solo il trasferimento di attività da un territorio (i distretti italiani del Made in Italy) ad un altro (in primis l’Europa dell’Est, le regioni balcaniche e il bacino del Mediterraneo), ma un cambiamento nelle modalità stesse attraverso cui si organizza la divisione internazionale del lavoro.

Ci troviamo così di fronte ad un modello di internazionalizzazione più complesso di quello puramente esportativo precedentemente considerato, un modello che unisce gli IDE all’export, un modello basato sulla localizzazione estera di alcune fasi della catena del valore, e sulla re-importazione di semilavorati per la loro trasformazione in prodotti finiti che prenderanno poi la strada dell’esportazione.

Questo modello di internazionalizzazione non è ugualmente diffuso presso tutte le imprese italiane, ma sembra essere preferito da un insieme via via più numeroso di imprese di medie dimensioni, che si stanno staccando dal “gruppone” delle PMI e che qualcuno ha definito come le “pocket multinationals” (Colli, 2002). Si tratta di imprese che si distinguono per l’essere attive sui mercati internazionali sia in termini commerciali che di produzione diretta, e per essere prevalentemente organizzate in

internazionale della capacità produttiva attraverso transazioni di mercato che, prima, si sviluppavano all’interno degli stabilimenti o dei confini nazionali.

Osserviamo inoltre che spesso l’output delle produzioni delocalizzate non è un prodotto finito, ma un semilavorato, che viene re-importato nei Paesi Occidentali (ad esempio nell’Unione Europea) con la tecnica del Traffico di Perfezionamento Passivo (TPP), per realizzare le fasi finali di produzione e la successiva commercializzazione con il marchio “made in EU”.

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forma di gruppo, con una holding - in genere a saldo controllo familiare - a capo di un ampio ventaglio di imprese commerciali, produttive oppure di servizi.

7. Il global sourcing e l’impresa “virtuale” Il fenomeno della delocalizzazione non riguarda, ovviamente, soltanto le

imprese italiane, nè tanto meno soltanto le PMI. Da decenni le grandi imprese occidentali sono coinvolte in estesi processi di trasferimento delle attività produttive verso Paesi in via di sviluppo o di nuova industrializzazione.14

Quando attuati su basi sistematiche e con i mezzi e l’ampiezza di prospettive delle grandi imprese, questi processi possono determinare il radicale ridisegno delle catene del valore di interi settori industriali (Lorenzoni, 1997).

Seguendo le logiche del global sourcing (così è stato denominato questo fenomeno, che mette insieme la prospettiva della globalizzazione con la pratica dell’outsourcing), imprese come Gap, Levi’s, nel campo dell’abbigliamento, Mattel nel campo dei giocattoli, e IKEA nel campo dei mobili, realizzano oggi un decentramento totale di capacità produttiva in Paesi a basso costo del lavoro, presso piccole imprese terziste a forte intensità di manodopera (non a caso questi luoghi di produzione sono denominati “sweatshops” dai movimenti no global) localizzati in particolare in Asia Sud-orientale.

Questo stesso modello organizzativo - basato sull’internazionalizzazione della supply chain - è stato adottato anche da numerosi OEM (Original Equipment Manufacturers) nei settori dell’elettronica e delle telecomunicazioni, come Cisco, Nokia, Hewlett-Packard, Motorola, Alcatel.15

Il moderno manufacturing sta così diventando un vero e proprio “affare internazionale”.

Il caso forse più conosciuto di produzione su scala globale è quello della Nike. Sono 51 i paesi dove Nike ha decentrato la produzione delle sue scarpe e dei suoi capi di abbigliamento sportivi, per un totale di più di 500.000 addetti presso le unità produttive terziste (a fronte di poco più di 14.000 dipendenti diretti della multinazionale americana).

Dal suo quartier generale a Beaverton in Oregon (USA), Nike gestisce un’impresa di ampiezza planetaria, impegnata a combinare le competenze interne di marketing e di R&S con una strategia di manufacturing a bassi costi.

Un portafoglio di competenze attivate attraverso relazioni: è questa l’essenza di

14 Già all’inizio degli anni ‘90 circa un quinto dell’intera produzione delle imprese

americane era realizzata fuori dagli Stati Uniti. 15 Gli OEM dell’elettronica immettono oggi sul mercato dei prodotti che, pur portando il

proprio marchio, sovente non sono stati neppure manipolati dai propri dipendenti, in nessuna delle fasi che vanno dall’approvvigionamento dei componenti fino alla consegna al cliente finale. La produzione è svolta in questi casi dai cd. providers di EMS (Electronic Manufacturing Services), una nuova etichetta per designare i terzisti in questo settore (Tracogna, 2002)

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Nike oggi. L’impresa americana assembla queste risorse e competenze attraverso una vera e propria coalizione di soggetti, che comprende, terzisti asiatici, agenzie di advertising, atleti e squadre professionisti legati da contratti di esclusiva, agenzie per il supporto alle vendite via web, imprese specializzate in servizi logistici e catene di punti di vendita al dettaglio.

Il vantaggio competitivo della multinazionale statunitense sta nella capacità di “orchestrare” i contributi di questi soggetti e di mantenere una posizione di guida strategica all’interno di questa coalizione.16

Alla virtualizzazione della catena produttiva secondo il modello Nike si stanno oggi aggiungendo forme di global sourcing di servizi e attività cd. “infrastrutturali”.

Ad esempio, negli ultimi anni molte imprese multinazionali hanno cominciato a spostare all’estero i servizi legati all’Information Technology, come gli help desk o le stesse attività di sviluppo del software. Le localizzazioni “offshore” più frequenti sono state la Cina, l’Irlanda, Israele e specialmente l’India.17

I soggetti in grado di realizzare forme così estese ed articolate di global sourcing sono senza dubbio le grandi imprese multinazionali, come testimoniano i casi sopra citati. Al centro di un complesso e articolato network di soggetti, attività e risorse, le multinazionali di oggi appaiono incarnare un nuovo modo di organizzare le attività d’impresa su scala internazionale.

Interi settori dell’economia mondiale, come l’elettronica, l’auto e l’aerospaziale si stanno riorganizzando secondo queste logiche.

Ma anche il mondo dei distretti italiani appare muoversi in queste direzioni. E’ Grandinetti (2001) a segnalarci che alcune imprese distrettuali, ed in particolare i gruppi di maggiore dimensione, si stanno trasformando in vere e proprie global corporation. La supply chain di queste imprese sta assumendo una configurazione internazionale, con attività e relazioni che - pur rimanendo parzialmente entro il distretto - vengono integrate in un disegno più complesso, che comprende la delocalizzazione di alcune fasi della filiera produttiva (con modalità che vanno dagli accordi di subfornitura con produttori esterni al distretto all’investimento diretto 16 In questo nuovo scenario sta diventando critico il ruolo della logistica come attività

necessaria all’integrazione delle catene di fornitura su scala globale. Il coordinamento dei flussi informativi, produttivi e logistici che tagliano i confini politici e geografici è la grande sfida del Supply Chain Management, un termine che in questi ultimi anni è entrato a far parte del “vocabolario” aziendale per definire quell’insieme di tecniche, metodologie, strumenti e infrastrutture utilizzate per la gestione dei flussi di materiali e di informazioni che percorrono la ‘catena’ di attività che va dall’acquisizione delle materie prime sui mercati di approvvigionamento fino alla distribuzione dei prodotti finiti sui mercati di consumo.

17 Secondo una recente ricerca condotta dalla Indian National Association of Software and Service Companies, quasi 2 imprese su 5 appartenenti alla lista Fortune 500 USA attualmente ha in corso qualche forma di IT outsourcing in India, specialmente nella regione di Bangalore. La ragione è semplice: il costo del lavoro pesa fino a oltre il 75% sui costi di queste attività e in Paesi come l’India il costo del lavoro per profili ad alta qualificazione (ingegneri, tecnici informatici), necessari per realizzare alcune complesse attività di IT outsourcing, è del 40-60% inferiore a quello degli Stati Uniti.

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all’estero in attività produttive), l’insediamento di filiali commerciali nei principali mercati esteri di sbocco, lo sviluppo di relazioni strategiche con fornitori extra-distrettuali per svolgere attività come l’innovazione tecnologica, la progettazione dei prodotti e il design, il marketing, i servizi finanziari.

Virtual organizing (Venkatraman e Henderson, 1998), virtual corporation (Davidow e Malone, 1992), intelligent enterprise (Quinn, 1992), boundaryless organization (Ashkenas, Ulrich, Jick, Kerr, 2002), hollow corporation, 18 sono alcuni dei termini (probabilmente i più noti) che sono stati coniati per definire, in modo piuttosto eloquente, questo nuovo modello emergente d’impresa “virtuale”.

Il fenomeno della “virtualizzazione” dell’impresa è stato largamente favorito dalla forte riduzione degli oneri di transazione e di relazione determinatasi in seguito all’avvento di internet e delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ma le implicazioni sono ben più ampie di un mero incremento delle transazioni con imprese terze. Il “core” strategico dell’impresa moderna si sta fortemente circoscrivendo, arrivando in casi estremi ad interessare la sola gestione dei marchi commerciali, mentre il ricorso all’esterno – attraverso ampie forme di outsourcing - va ben oltre le semplici attività produttive, per coinvolgere tutte le fasi della catena del valore, da quelle primarie a quelle di supporto, dagli acquisti al marketing, dalle risorse umane alla R&S.19

8. Il nuovo ruolo dei vantaggi localizzativi Sulla scia dei processi di global sourcing e di “virtualizzazione” sopra descritti,

le imprese stanno modificando radicalmente i criteri delle scelte localizzative. Localizzandosi opportunamente a livello internazionale, molte imprese

beneficiano oggi delle sinergie create - su scala globale - dalla contemporanea presenza di acquirenti esigenti, fornitori specializzati, risorse umane sofisticate, finanza e instituzioni di supporto ben sviluppate.

Ovviamente, differenti configurazioni di vantaggi localizzativi attrarranno diverse imprese di diversi settori.

In alcune industrie high tech come l’elettronica, le attività finali di assemblaggio saranno attratte dalla disponibilità di manodopera a bassa professionalità e a basso costo e da efficienti facilities per l’export-processing. Alcune attività di back office potranno invece richiedere skill specializzate, come nel caso delle attività di accounting. In altre attività, più sofisticate, la localizzazione della produzione potrà richiedere catene logistiche locali ben sviluppate ed efficienti, pool di risorse umane

18 Il termine - che sta per “impresa cava” o “vuota” - è stato coniato dalla rivista Business

Week (“The Hollow Corporation”, 3 marzo 1986). 19 Il tradizionale termine di Original Equipment Manufacturer, che designa l’impresa

decentrante, potrebbe in effetti essere sostituito con il ben più eloquente Original Brand Holder, per identificare un’impresa che considera il solo marchio come elemento “core” della sua strategia e che su questo fa leva per coordinare un network di attività disperse tra diversi soggetti in diverse parti del mondo.

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specializzate, stretta interazione con altre imprese e istituzioni votate alla produzione di conoscenze innovative ed alla formazione di talenti. Funzioni ad alto valore aggiunto, come la R&D o gli headquarter su base regionale, avranno invece bisogno di skill avanzate e di istituzioni efficienti.

Nelle decisioni di localizzazione internazionale stanno assumendo un ruolo sempre più importante gli stessi sistemi territoriali locali. Così come le imprese più competitive si differenziano dai rivali sviluppando prodotti chiaramente identificabili con riconoscibili brand name, così alcuni sistemi locali possono, nel tempo, identificare e sviluppare i loro vantaggi comparati e “venderli” ad investitori esteri.20

I processi di localizzazione su scala globale sono dunque mossi e facilitati dalla gestione attiva di una serie di vettori tecnologici, economici e culturali, da fattori di standardizzazione e di convergenza che il noto studioso Kenichi Ohmae (2000) esamina e approfondisce entro il modello “porteriano” (Porter, 1986) delle cd. Global Platforms.21

La prospettiva della ricerca di questi nuovi vantaggi localizzativi allarga l’ampiezza e la portata dei processi di internazionalizzazione delle imprese.

Un numero crescente di imprese, per sfruttare tutte le opportunità e i vantaggi offerti dalla possibilità di operare su scala internazionale, fa contemporaneamente leva su vantaggi localizzativi presenti a livello domestico e su vantaggi presenti in più “piattaforme globali” esistenti in parti diverse del mondo. Valorizzare questi vantaggi sul piano globale, attraverso la costruzione attiva di quelli che sono stati definiti cluster (o distretti) transnazionali (Rugman e Verbeke, 2003), rappresenta una delle prospettive più promettenti per l’internazionalizzazione delle imprese.

E’ questa anche la chiave di lettura per comprendere i comportamenti strategici delle imprese che si muovono attivamente a livello internazionale con una finalità di

20 Per esempio, Bangalore in India è diventato un brand name per lo sviluppo di software,

con il suo pool di ingegneri ben formati e di competitive imprese di software. Singapore e Hong Kong godono di uno status simile nell’area dei servizi finanziari e per la localizzazione dei quartieri generali per l’Asia.

21 Secondo Ohmae questi vettori sono rappresentati da: - la lingua inglese (la lingua delle transazioni internazionali e di internet); - il dollaro USA (la valuta di pagamento della maggior parte degli scambi); - Internet (e il suo potere di connessione e di comunicazione); - i moderni sistemi internazionali di pagamento (come Visa e Master card); - i sistemi operativi “universali” su cui si basano le reti informatiche (come Microsoft

Windows); - le comunità virtuali ad ampiezza planetaria (come quelle che convergono su

Amazon. com o su Ebay, o in passato su Napster) - il ruolo dei global express carriers (come FedEX) e dei moderni sistemi di

telecomunicazione. Questi vettori starebbero indebolendo la forza dei tradizionali vantaggi localizzativi delle

imprese, rendendole più mobili a livello internazionale. Ohmae prende l’Irlanda come esempio di Paese che attraverso la gestione di questi vettori è riuscito a realizzare estesi processi di internazionalizzazione (in entrata) che hanno prodotto una crescita economica straordinaria.

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“apprendimento”, localizzandosi entro centri di eccellenza per lo svolgimento di attività ritenute critiche per il vantaggio competitivo (Doz, Santos e Williamson, 2001).22

Sta così profilandosi all’orizzonte un nuovo modello d’impresa, al contempo:

- virtuale, nel senso che ricorre fortemente a logiche di outsourcing; - integratrice di attività disperse a livello internazionale, secondo logiche di global

supply chain; - in grado di raccogliere competenze su scala globale, presso una pluralità di

piattaforme globali e di centri internazionali di eccellenza. In questo modello di internazionalizzazione, la presenza estera dell’impresa

rappresenta il risultato di una strategia rivolta contemporaneamente:

- all’accesso ai mercati di sbocco, in una prospettiva tradizionale di “selling to the world”;

- all’accesso ai mercati dei fattori, con una gestione strategica della localizzazione delle attività di produzione, logistica, approvvigionamento;

- all’accesso ai mercati internazionali della conoscenza; - alla partecipazione a cluster transnazionali di risorse e competenze.

In misura crescente, inoltre, la scelta di questi modelli di internazionalizzazione

richiede la gestione attiva dei rischi impliciti nella presenza estera, attraverso un’attenta valutazione degli scenari geopolitici, come anche attraverso l’adozione di un approccio “socialmente responsabile” nello svolgimento delle attività d’impresa a livello globale. 23

22 Come centri di eccellenza a livello internazionale potremmo citare, ad esempio, alcune

forme di cluster di attività innovative come Silicon Valley in California, Silicon Fen a Cambridge (UK), Wireless Valley nei pressi di Stoccolma, o Zhong Guancum nei pressi di Pechino.

23 Il tema è noto con il nome di Social Corporate Responsibility, ma forse, più correttamente entro uno scenario di internazionalizzazione, dovremmo parlare di Global Responsibility. Tra i contenuti più di frequente attribuiti all’idea di responsabilità sociale c’è il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei consumatori, l’attenzione per le implicazioni ecologiche e ambientali delle attività economiche, la trasparenza di procedure e informative societarie (Caroli, 2000). L’impresa internazionalizzata può essere considerata un vero e proprio fattore di cambiamento economico-sociale nei Paesi in cui opera, ma non sempre le imprese Occidentali hanno dimostrato di possedere una particolare sensibilità nei confronti di questo ruolo. Avere un approccio “responsabile” sotto il profilo sociale significa sovente rinunciare a sfruttare le opportunità offerte da uno specifico quadro normativo nazionale (che può essere incompleto, o scarsamente attento alle istanze o ai diritti di alcune categorie di soggetti, come i lavoratori) per mantenere invece modelli di azione e di comportamento simili a quelli adottati nei Paesi più sviluppati. Assumere un atteggiamento socialmente

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9. Conclusioni Con questa relazione si è voluto mettere in evidenza come, nell’ambito dei

processi di internazionalizzazione delle imprese, si stiano affermando nei nuovi paradigmi, che superano la classica opposizione export/investimenti diretti, per ispirarsi alle più recenti logiche del global sourcing, dell’impresa virtuale e della ricerca di vantaggi localizzativi e di competenze distintive su scala globale.

Questi nuovi paradigmi stanno allargando il campo delle possibili modalità, motivazioni e strategie delle imprese internazionalizzate, al punto da relativizzare qualsiasi ipotesi di una “one best way” per i percorsi di internazionalizzazione delle imprese.

Al contrario, esistono tanti modelli di impresa internazionalizzata. Ognuno di questi appare altrettanto adatto ed efficace a realizzare le finalità di un percorso di internazionalizzazione, anche se in una prospettiva contigente, cioè tenendo conto delle realtà settoriali e delle tipologie di imprese considerate.

Al modello preferito dalle grandi imprese multinazionali, centrato sugli investimenti diretti all’estero e su strategie globali, si contrappone così quello delle PMI, basato prevalentemente su modalità esportative. E a questi modelli tradizionali si aggiungono oggi nuove forme di sviluppo in senso internazionale, che fanno cadere la linea di separazione tra export e IDE, per centrarsi su estese forme di delocalizzazione e di global sourcing, e sulla costruzione di cluster transnazionali di attività, che paiono rimettere in discussione la valenza dei tradizionali vantaggi localizzativi a base domestica.

Se molte imprese multinazionali risultano aver già da tempo adottato modelli di internazionalizzazione ad elevata complessità, sul fronte italiano sembrano ancora poche le imprese in grado di muoversi attivamente lungo queste strade.

Il punto non è però soltanto se le imprese italiane sapranno inserirsi entro questi nuovi circuiti di internazionalizzazione, ma se il Sistema Italia, e il sistema dei distretti in particolare, saprà anche attrarre forme di internazionalizzazione “importata” dall’esterno, proponendosi come una piattaforma globale in grado di offrire anche ad imprese estere interessanti configurazioni di vantaggi localizzativi.

Sotto questi profili, appartenere all’area Occidentale, così come garantire semplicemente la necessaria apertura dell’economia al commercio mondiale e agli investimenti esteri, costituisce certamente una condizione necessaria, ma non sufficiente per rimanere nel ristretto numero dei Paesi più sviluppati.

responsabile significa dimostrare una concreta volontà di ottimizzare il proprio impatto sulle condizioni di sviluppo locali; significa operare per favorirne lo sviluppo (Caroli, 2000). Al contrario, il capitalismo “da esportazione” è spesso stato ed è del tipo “mordi e fuggi”, e si dimostra insensibile verso le esigenze locali. Il ruolo del “cattivo” in questi casi non è svolto soltanto dalle grandi multinazionali, ma anche dalle tante PMI (anche italiane) che in anni recenti hanno cominciato l’avventura della delocalizzazione.

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