Procedura Civile 1

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Ai sensi dell’art. 24, 1° comma Cost. “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Perciò se ne deduce letteralmente che: esiste un giudizio; questo giudizio è messo in moto da un’iniziativa; questa iniziativa è configurata per tutti ed è destinata alla tutela dei diritti e degli interessi. Quindi il processo può essere visto come un procedere, le cui norme di funzionamento sono contenute nel c.p.c., andando così a costituire quell’attività che prende il nome di giurisdizione. Si tratta di norme giuridiche, che, oltre a descrivere certi comportamenti umani, li valuta in base a principi di doverosità, liceità, idoneità a produrre determinati effetti giuridici. L’attività giurisdizionale può definita sotto il profilo della sua funzione e sotto il profilo della sua struttura, le quali sono correlati tra loro. FUNZIONE : A cosa serve l’attività giurisdizionale? Dall’art. 24, 1° comma Cost. possiamo trarre che l’attività giurisdizionale civile serve alla tutela dei diritti. Ciò è deducibile, a maggior ragione, con il disposto dell’art. 2907 c.c., che, nel definire l’attività giurisdizionale, dispone che alla tutela dei diritti provvede l’autorità giudiziaria ordinaria. Questa tutela presenta 2 caratteristiche fondamentali: 1. Strumentalità: in quanto l’attività giurisdizionale è lo strumento per l’attuazione dei diritti, distinguendo tra diritto sostanziale e diritto processuale. 2. Sostitutività: cioè nel momento in cui l’ordinamento vieta l’autotutela allo stesso tempo ha garantito una protezione sostitutiva. La conciliazione costituisce, insieme al giudizio arbitrale, uno strumento eteronomo di risoluzione delle controversie, in quanto è realizzata dagli stessi protagonisti e non da terzi. La conciliazione si distingue dalla mediazione in quanto l’intervento del terzo mediatore è di mero ausilio per favorire il raggiungimento dell’accordo fra le parti mentre il terzo conciliatore deve trovare la giusta composizione. In alcuni casi la legge configura un’attività giurisdizionale indipendentemente dal fatto che si sia verificata o meno una violazione di norme. Questo fenomeno si verifica nei casi in cui l’ordinamento ritiene di dover sottrarre all’autonomia dei singoli la disponibilità di determinate situazioni giuridiche, stabilendo che la costituzione, modificazione o estinzione non possa avvenire se non attraverso l’organo giurisdizionale. Questo tipo di attività giurisdizionale, che ha per oggetto i diritti sostanziali alle modificazioni giuridiche, si chiama giurisdizione costitutiva

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Ai sensi dell’art. 24, 1° comma Cost. “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Perciò se ne deduce letteralmente che:

esiste un giudizio; questo giudizio è messo in moto da un’iniziativa; questa iniziativa è configurata per tutti ed è destinata alla tutela dei diritti e degli

interessi.

Quindi il processo può essere visto come un procedere, le cui norme di funzionamento sono contenute nel c.p.c., andando così a costituire quell’attività che prende il nome di giurisdizione. Si tratta di norme giuridiche, che, oltre a descrivere certi comportamenti umani, li valuta in base a principi di doverosità, liceità, idoneità a produrre determinati effetti giuridici.

L’attività giurisdizionale può definita sotto il profilo della sua funzione e sotto il profilo della sua struttura, le quali sono correlati tra loro.

FUNZIONE: A cosa serve l’attività giurisdizionale?

Dall’art. 24, 1° comma Cost. possiamo trarre che l’attività giurisdizionale civile serve alla tutela dei diritti. Ciò è deducibile, a maggior ragione, con il disposto dell’art. 2907 c.c., che, nel definire l’attività giurisdizionale, dispone che alla tutela dei diritti provvede l’autorità giudiziaria ordinaria. Questa tutela presenta 2 caratteristiche fondamentali:

1. Strumentalità: in quanto l’attività giurisdizionale è lo strumento per l’attuazione dei diritti, distinguendo tra diritto sostanziale e diritto processuale.

2. Sostitutività: cioè nel momento in cui l’ordinamento vieta l’autotutela allo stesso tempo ha garantito una protezione sostitutiva.

La conciliazione costituisce, insieme al giudizio arbitrale, uno strumento eteronomo di risoluzione delle controversie, in quanto è realizzata dagli stessi protagonisti e non da terzi. La conciliazione si distingue dalla mediazione in quanto l’intervento del terzo mediatore è di mero ausilio per favorire il raggiungimento dell’accordo fra le parti mentre il terzo conciliatore deve trovare la giusta composizione.

In alcuni casi la legge configura un’attività giurisdizionale indipendentemente dal fatto che si sia verificata o meno una violazione di norme. Questo fenomeno si verifica nei casi in cui l’ordinamento ritiene di dover sottrarre all’autonomia dei singoli la disponibilità di determinate situazioni giuridiche, stabilendo che la costituzione, modificazione o estinzione non possa avvenire se non attraverso l’organo giurisdizionale.

Questo tipo di attività giurisdizionale, che ha per oggetto i diritti sostanziali alle modificazioni giuridiche, si chiama giurisdizione costitutiva necessaria. Accanto a questa vi è una giurisdizione costitutiva non necessaria, nel senso che gli effetti costitutivi, attuati da essa, sarebbero potuti essere attuati indipendentemente dall’opera dell’organo giurisdizionale, che si attiverà solo quando è mancata l’attuazione primaria. Altra tipo di attività giurisdizionale che ha la caratteristica di prescindere dalla violazione è quella di accertamento mero, in cui l’esigenza di tutela è determinata dalla contestazione di un altrui diritto che il titolare considera esistente o dal vanto di un proprio diritto nei confronti di un soggetto che lo ritiene inesistente. In questi casi si determina una situazione che non è ancora di violazione, ma che potrebbe divenirlo a causa di incertezza obiettiva circa l’esistenza di un diritto.

STRUTTURA: Che cosa è l’attività giurisdizionale?

Il c.p.c. disciplina diversi tipi di attività, con caratteristiche strutturali diverse, a ciascuna delle quali corrisponde una funzione particolare. I vari tipi di attività giurisdizionale sono:

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a) Cognizione : è disciplinata nel 2° libro. La sua funzione o scopo è quella di dare attuazione ai diritti, cioè al diritto sostanziale. Ma per avere una norma di diritto sostanziale, occorre innanzitutto formulare una regola ed enunciarla in concreto, affermando o negando l’esistenza di un diritto. Quindi la funzione dell’attività di cognizione è determinare la certezza relativa (in quanto l’assoluto non è di questo mondo) sull’esistenza o meno di un diritto, che non dovrà valere per un singolo. Perciò si tratta di certezza relativa obiettiva, che permette che la regola possa essere imposta all’osservanza di tutti. Questa si ottiene attraverso una specifica attività, che viene svolta dal giudice. Il giudice, però, è un uomo e in quanto tale potrebbe commettere degli errori nella formazione del suo convincimento. Per questo motivo il nostro ordinamento ha previsto diversi gradi di giurisdizione, i quali, non potendo essere infiniti, sono stati determinati nel numero di 3: primo grado, appello e cassazione per il solo riesame di diritto. Conclusosi l’iter della possibile serie di riesami si giunge all’incontrovertibilità della cosa giudicata formale, ex art. 324 c.p.c., per la quale nessun giudice può pronunciarsi di nuovo su quel diritto. Ad essa si contrappone il concetto di cosa giudicata sostanziale, contenuto nell’art. 2909 c.c., per il quale l’accertamento passato in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, loro eredi ed aventi causa.

b) Esecuzione forzata : è disciplinata nel 3° libro. Mentre la cognizione vuole conseguire l’accertamento dell’esistenza del diritto, l’attività di esecuzione forzata vuole conseguire l’attuazione pratica e materiale di questa regola, in via coattiva o forzata. Non si tratta quindi di giudicare ma di eseguire, per cui questo l’organo non può che essere quello esecutivo, ossia l’ufficiale giudiziario.

c) A ttività cautelare : è disciplinata nel 4° libro e in diverse leggi speciali. Questa attività è strumentale rispetto a quella di cognizione e di esecuzione. La sua funzione consiste nell’ovviare ai pericoli, che possono compromettere l’effettività della tutela giurisdizionale, dovuta ai lunghi tempi per ottenerla.

d) Giurisdizione Volontaria : è disciplinata nel 4° libro e in diverse leggi speciali. Questa attività non tende ad attuare diritti, ma semplicemente ad integrare, realizzare o rimuovere la fattispecie costitutiva di uno stato familiare o personale, di un determinato potere, della vicenda costitutiva, modificativa o estintiva di una persona giuridica o di altre situazioni simili. Sembrerebbe un’attività simile a quella di cognizione costitutiva ma in realtà tutela solo generiche aspettative assimilabili agli interessi legittimi.

I diversi tipi di attività giurisdizionale entrano ovviamente in rapporto tra di loro.

Quando la cognizione si svolge in funzione della successiva attività esecutiva, il provvedimento, che la conclude, prende il nome di condanna.

Nei casi in cui l’esigenza di tutela è di sola cognizione, si possono verificare 2 casi:

1. Se non si è verificata una violazione, si ha la cognizione costitutiva necessaria o la cognizione costitutiva di accertamento mero.

2. Se si è verificata una violazione, le cui conseguenze possono essere eliminate senza operare nel mondo materiale, si ha la cognizione costitutiva non necessaria.

Nei casi in cui l’esigenza di tutela è di sola esecuzione forzata, l’ordinamento consente, per ragioni di opportunità, tale esecuzione forzata, purché sia effettuata sulla base di un titolo esecutivo, anche stragiudiziale come cambiali o assegni. In questo caso, chi subisce tale esecuzione può avviare un procedimento di accertamento di quel diritto, attraverso un procedimento chiamato opposizione all’esecuzione.

Il processo di cognizione e di esecuzione possono anche svolgersi contemporaneamente, come nel caso in cui il giudizio di cognizione sia già terminato con una condanna, sulla quale non è ancora sceso il giudicato. In questo senso la L. n°353/1990 ha innovato gli artt. 282 e 283 c.p.c., stabilendo che tutte le sentenze di primo grado sono provvisoriamente esecutive tra le

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parti, lasciando l giudice il potere di inibire tale esecutorietà, quando ritenga che sussistano gravi e fondati motivi in relazione all’insolvenza di una delle parti.

Il processo può essere considerato un insieme di situazioni giuridiche processuali, in cui quella fondamentale è costituita dal potere, in quanto è attraverso il loro esercizio che si contribuisce alla dinamica processuale. I poteri espressi in forma di dovere prendono il nome di oneri. Esistono però anche facoltà e doveri, i quali però non incidono in misura rilevante nel processo. Le situazioni giuridiche processuali possono poi essere:

semplici, quando consistono in un singolo atto; globali o composite, quando sono l’insieme di una serie di atti.

Si è così creato in concetto di rapporto giuridico processuale, autonomo da quello sostanziale ma non totalmente scisso da esso. Questa nozione ci risulta utilissima per comprendere la nozione di presupposti processuali. In generale un presupposto è un requisito che deve esistere prima di un determinato atto, affinché ne discendono determinate conseguenze. Nel campo processuale abbiamo pure dei presupposti, i quali possono essere distinti in:

Presupposti di esistenza del processo : sono quei requisiti che devono esistere prima della proposizione della domanda, perché possa venire in essere un processo. Si tratta di un unico requisito, che è la presentazione della domanda a un soggetto che sia dotato di giurisdizione.

Presupposti di validità o procedibilità del processo : sono quei requisiti che devono esistere prima della proposizione della domanda, perché il processo possa giungere fino alla pronuncia sul merito. Con riguardo al giudice è necessario che egli sia competente; mentre con riguardo agli altri soggetti è necessario che essi siano dotati del potere di compiere gli atti processuali, che rientrano nell’unica nozione di legittimazione processuale.

Il soggetto che agisce per chiedere la tutela giurisdizionale si chiama attore. Egli mette in moto il processo, compiendo un atto ben definito che è la domanda, attraverso la quale egli esercita l’azione. Il potere di proporre la domanda, ai sensi dell’art. 24, 1° comma Cost., spetta a tutti, sia si tratti di cittadini sia si tratti ti stranieri o apolidi. La sola limitazione, che potrebbe essere rinvenuta, riguarda le norme sulla capacità. Affinché la domanda possa introdurre un processo, è necessario che essa possa obiettivamente considerarsi tale,cioè deve consistere in una domanda di tutela. Questa, per essere idonea a introdurre un processo che giunga fino alla pronuncia sul merito, deve avere requisiti ulteriori, che riguardano l’azione e la sua ipotetica accoglibilità. Queste condizioni sono 3:

1. Possibilità giuridica : esistenza di una norma che contempli in astratto il diritto che si vuol far valere.

2. Interesse ad agire : per affermare un diritto occorre affermare anche l’accadimento concreto di uno o più fatti costitutivi e lesivi, previsti in astratto da una norma. Inoltre tale diritto deve essere affermato come abbisognevole di tutela. Ciò è sancito dall’art. 100 c.p.c., il quale dispone che per proporre o contraddire a una domanda è necessario avervi interesse, dove tale interesse è il bisogno di tutela giurisdizionale, che consegue alla lesione del diritto sostanziale, affermata nei fatti costitutivi e lesivi del diritto.

3. Legittimazione ad agire : è necessario che il diritto affermato nella domanda sia affermato come diritto di colui che propone la domanda e contro colui nei cui confronti si propone la domanda. Quindi vuol dire che si possono far valere solo diritti. Ciò è sancito, in termini rovesciati, nell’art. 81 c.p.c., il quale dispone che fuori dai casi espressamente previsti dalla legge, nessun può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. Implicitamente si evince che nei casi previsti dalla legge è possibile far valere in nome proprio diritti altrui o non esclusivamente propri. Si configura cosi la legittimazione straordinaria o sostituzione processuale. Essa, nella maggior parte dei

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casi, è prevista quando vi sono particolari esigenze di natura sociale, che assumono il nome di interessi collettivi o diffusi. In questo caso l’ordinamento tende ad attribuire tale legittimazione esclusivamente a soggetti adeguatamente portatori di tali interessi. Un esempio lo possiamo rinvenire nella L. n° 300/1970, che soprattutto all’art. 28 attribuisce alle associazioni sindacali una legittimazione ordinaria con riferimento ai diritti propri dell’associazione e una legittimazione straordinaria con riferimento ai diritti degli associati che le riguardano indirettamente. Un altro importante strumento, inserito nel 2007 nel codice del consumo, è l’azione di classe. Il singolo può agire mediante associazioni, a cui dà mandato, o comitati a cui partecipa ed essi potranno chiedere di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori, di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate e ordinare la pubblicazione del provvedimento su un quotidiano di diffusione nazionale. Questa azione non preclude comunque la possibilità del singolo di agire direttamente.

Se sussistono le 3 condizioni dell’azione, l’attore ne è il suo titolare. Il diritto di azione è un diritto autonomo e distinto dal diritto sostanziale che con esso si fa valere. Esso viene considerato, per essere più precisi, come il diritto verso il giudice ad ottenere un provvedimento sul merito, che non è detto sia favorevole. Si evince così l’ulteriore carattere dell’astrattezza di questo diritto.

Può essere fatta una classificazione delle azioni, la quale è fondata sul diverso tipo di attività giurisdizionale che esse possono introdurre. Quindi, le azioni si distinguono in:

AZIONE DI COGNIZIONE : La cognizione del giudice tende ad accertare se la domanda proposta sia fondata o meno. Esse possono essere distinte sulla base del provvedimento a cui tendono. Perciò avremo:

1. Azioni di accertamento mero: tendono ad ottenere una sentenza che accerti l’esistenza o l’inesistenza di un diritto vantato o contestato, senza che ancora sia avvenuta una violazione dello stesso. Si parlerà di mero accertamento negativo o affermativo, a seconda che il diritto sia contestato o vantato come esistente o inesistente.

2. Azioni di condanna: tendono non solo all’accertamento di un diritto ma anche a un qualcosa in più, che è il comando del giudice, rivolto al soccombente al fine di eseguire a favore dell’attore la prestazione dedotta in giudizio. Alcune azioni di condanna, per la loro particolarità, sono dette speciali e possono essere così individuate:

o Condanna generica : quando in un procedimento sia raggiunta la certezza su “se” del giudizio ma non ancora sul “quantum”. In questo modo è possibile scindere la sentenza, che sarà detta non definitiva, la quale continuerà per il “quantum”, sul quale può essere concessa anche una provvisionale. C’è una giurisprudenza che ritiene che l’azione possa essere esercitata anche solo con riferimento all’ “an”, purché sia stata esplicitamente richiesta. Inoltre per la pronuncia sul “quantum” non è necessario che quella sull’ “an” sia passata in giudicato.

o Condanna condizionale : il giudice fa dipendere l’eseguibilità della condanna dal verificarsi di una certa condizione.

o Condanna in futuro : sono azioni rivolte ad ottenere la condanna attuale ad una prestazione soggetta ad un termine e perciò eseguibile solo dopo il decorso dello stesso, come nel caso della condanna al rilascio a favore del locatore.

o Accertamento a prevalente funzione esecutiva : introducono processi di cognizione-condanna, la cui specialità consiste nell’eseguire una cognizione sommaria, vuoi perché è superficiale, cuoi perché incompleta.

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3. Azioni costitutive: tendono all’emanazione di una sentenza che costituisca, modifichi o estingua un rapporto giuridico. Sembrano essere simili all’azione di condanna ma la differenza sta nel fatto che, mentre nelle azioni di condanna è poi necessaria l’esecuzione affinché si ottenga il risultato positivo, nelle azioni costitutive, una volta accertato il diritto, questo può essere costituito, modificato o estinto direttamente dal giudice.

AZIONI ESECUTIVE : sono dirette ad ottenere l’applicazione di misure o mezzi esecutivi che soddisfino concretamente la pretesa dell’avente diritto, così da adeguare la situazione di fatto al comando giuridico contenuto nella sentenza. L’accertamento, che era punto di arrivo nella cognizione, è qui il punto di partenza. Quindi le condizioni di questo tipo di azione sono espresse in chiave di accertamento. Le sentenze che ne derivano sono titoli esecutivi ad efficacia incondizionata, del quale il titolare si avvale sotto la sua responsabilità.

AZIONI CAUTELARI : hanno finalità sussidiaria o accessoria in quanto dirette ad assicurare e garantire l’efficacia della tutela giurisdizionale, che potrebbe essere compromessa dall’iter di tale tutela. Quindi l’esercizio di questo tipo di azione è sottopoto alla presenza di 2 condizioni:

1. Periculum in mora: il fondato timore che il diritto possa essere compromesso dal ritardo dell’iter di tutela giurisdizionale.

2. Fumus boni juris: approssimativa verosimiglianza circa l’esistenza del diritto stesso.

Il soggetto a cui si chiede la tutela giurisdizionale è il giudice, inteso come organo giurisdizionale. Egli ha un dovere fondamentale: quello di compiere tutta l’attività necessaria, che coordinandosi con quella degli altri soggetti, affinché si giunga al provvedimento sul merito. In questa direzione l’art. 112 c.p.c. sancisce che il giudice deve decidere su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Esso enuncia l’importante regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato o disponibilità dell’oggetto del processo, secondo la quale il giudice ha il dovere di decidere sulla domanda, che è stata precisamente individuata dall’attore nell’esercizio del suo diritto d’azione. Nel compiere la suddetta enunciazione, la norma dice 3 cose fondamentali:

1. DOVERE DECISORIO IN SE STESSO : Il giudice deve decidere. Esso viene configurato indipendentemente che si tratti di una domanda idonea o meno a fondar un processo che giunga sul merito, visto che anche una pronuncia sul merito è comunque attività decisoria. Questa attività decisoria implica il compimento da parte del giudice di un giudizio. Il giudizio è un’operazione logica, che si sostanzia nell’incontro di 2 distinti momenti logici:

a. Interpretazione della norma o giudizio di diritto (premessa maggiore).b. Giudizio di fatto (premessa minore).

Insieme costituiscono il c.d. sillogismo del giudice o giudizio. E’ uno schema che serve a semplificare 2 momenti che solitamente si svolgono in un tutt’uno, per cui uno non può prescindere dall’altro.

2. DOVERE DECISORIO DEL GIUDICE DETERMINATO DALLA DOMANDA : La prestazione del giudice è dovuta nei limiti in cui questa è richiesta, come sancito anche dall’art. 2907 c.c., che dispone che la tutela giurisdizionale dei diritti è prestata su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del P.M. o d’ufficio. Tralasciando queste ipotesi particolari, possiamo immediatamente constatare come tale norma sancisca il fondamentale principio della disponibilità della tutela giurisdizionale, per il quale è il titolare affermato del diritto sostanziale a chiedere oppure no la tutela. Questo principio di ricollega al principio della domanda dell’art. 99 c.p.c., secondo il quale chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente.

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3. DOVERE DECISORIO LIMITATO AI LIMITI DELLA DOMANDA : nel momento in cui l’attore propone la domanda, esercita automaticamente la definizione dei limiti dell’oggetto del processo, secondo il principio della disponibilità del processo. Su questi limiti si inserisce anche il dovere decisorio del giudice, che di conseguenza è limitato; e tali limiti non possono che coincidere con i limiti della domanda.

L’attore può determinare i limite dell’oggetto del processo solo con riguardo all’indicazione e all’allegazione dei fatti costitutivi e lesivi del diritto che sta facendo valere. Per quanto riguarda le norme da applicarsi al caso concreto, nonostante l’attore debba indicare la norma posta a fondamento del suo diritto, tuttavia il giudice non può essere limitato nella loro applicazione. Infatti, ai sensi dell’art. 113 c.p.c., rubricato “Pronuncia di diritto”, il giudice deve seguire le norme del diritto, cioè è libero di applicare le norme che crede più opportune, nonché poter modificare la qualificazione giuridica del diritto. Questo principio viene genericamente enunciato con l’espressione jura novit Curia. Il giudice deve tener conto di tutto il diritto. Con riguardo al diritto straniero, egli è tenuto ad acquisire informazioni tramite il Ministero di Giustizia, mentre, con riguardo alle consuetudini, la giurisprudenza ritiene che il giudice possa applicarla direttamente e invece la parte ha l’onere di provarla. La scelta e l’applicazione delle norme presuppone la sua interpretazione. Il giudice non è in alcun modo tenuto ad uniformare la sua interpretazione a quella fatta in precedenti pronunce.

L’art. 112 seconda parte dispone che in alcuni casi il giudice possa effettuare una pronuncia secondo equità. Questa può essere resa solo sotto certe garanzie, perché altrimenti metterebbe a rischio la certezza del diritto. Infatti consiste in un giudizio basato sulla coscienza propria del giudice, il quale fa riferimento a determinati orientamenti sociali e morali, che poi sono gli stessi che ispirano il legislatore nella sua attività. Nel nostro ordinamento sono previste 2 ipotesi di giudizio secondo equità:

1. Art. 113, 2° comma c.p.c. (ipotesi necessaria): si ha di fronte al giudice di pace nelle cause, senza limite di materia, il cui valore non eccede i 1100€, salvo quelle derivanti da contratti conclusi con moduli e formulari.

2. Art. 114 c.p.c. (ipotesi facoltativa): si ha quando le parti, concordemente, attribuiscono al giudice il potere di decidere secondo equità e la controversia riguardi diritti disponibili.

Nel formare il suo convincimento, il giudice, ai sensi dell’art. 115, 1° comma c.p.c., è tenuto a porre a fondamento della sua decisione le prove proposte dalle parti o dal P.M., salvi i casi previsti dalla legge. E’ questo il principio della disponibilità delle prove. Da questo punto di vista, il nostro ordinamento si può definire un sistema dispositivo attenuato, proprio perché fa salvi dei casi previsti dalla legge, in cui il giudice può acquisire delle prove ulteriori. Questi casi sono:

Art. 115, 2° comma c.p.c. : il giudice può porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, senza bisogno di prova.

Art. 116, 2° comma c.p.c. : dalle risposte date nell’interrogatorio o in generale dal contegno delle parti, il giudice può trarre argomenti di prova.

Art. 117 c.p.c. : il giudice può disporre, anche d’ufficio, l’interrogatorio libero delle parti, per facilitarlo nella formazione del suo libero convincimento.

Art. 118 c.p.c. : il giudice può disporre l’ispezione di persone o di cose, anche d’ufficio. Art. 213 c.p.c. : il giudice può chiedere d’ufficio informazioni scritte alla P.A.

La L. n°69/2009 ha aggiunto all’art. 115 una nuova parte: “nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”. Si accoglie in questo modo il principio della non contestazione, per il quale la mancata esplicita e specifica contestazione dei fatti affermati dalla controparte, solleva questa dall’onere della prova.

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Ai sensi dell’art. 116, 1° comma, il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti, cioè con riferimento alle prove legali. Questo è il principio della libera valutazione delle prove.

Il nostro sistema è basato tutto sull’impulso di parte, come testimoniato dal principio di disponibilità della tutela giurisdizionale. Tutto ciò vale finché si tratti di diritti disponibili. Infatti quando si tratta di diritti indisponibili il nostro ordinamento, senza prevedere un giudizio ad hoc, ha creato un sistema basato sull’impulso del P.M. Dopo di ciò, il processo è realizzato secondo le normali regole, che quindi prevedono l’impulso di parte.

L’attività decisoria del giudice si basa su un altro principio fondamentale: quello del contraddittorio. Infatti, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., il giudice non può decidere su una domanda, se la parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa. La parte contro la quale la domanda è proposta non può che essere il soggetto passivo del diritto che si sta facendo valere, cioè colui che dovrà subire le conseguenze della pronuncia del giudice. Per cui l’inciso “e non è comparsa” sta ad indicare che l’eventuale comparsa del convenuto sana l’eventuale irregolarità della citazione. Questo principio si ricollega a quello di uguaglianza delle parti processuali. E non è il solo: infatti la difesa di ognuno è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del giudizio e ogni processo si svolge davanti a un giudice terzo e imparziale.

Il soggetto contro il quale la domanda è proposta è il convenuto. Egli, come l’attore ha la disponibilità della tutela giurisdizionale. Infatti, nel momento in cui riceve la chiamata in giudizio, egli può scegliere tra diverse 4 possibilità:

1. Convenuto contumace : è l’ipotesi in cui il convenuto decida di rimanere inerte e di non comparire in giudizio. Quindi, se è stato convenuto regolarmente, poco importa se poi egli decida di non svolgere alcuna attività difensiva. Da sottolineare il fatto che la contumacia non comporta automaticamente la sua soccombenza.

2. Convenuto che si rimette al giudice : è un’ipotesi che sostanzialmente poco differisce dalla contumacia.

3. Convenuto che chiede l’accoglimento della domanda : è un’ipotesi molto rara, che non determina automaticamente l’accoglimento della domanda. Infatti il giudice dovrà comunque accertare l’esistenza del diritto affermato. Certo un convenuto che, chiede l’accoglimento della domanda, influisce sul convincimento del giudice,

4. Convenuto che chiede il rigetto della domanda : è questa l’ipotesi più frequente, attraverso la quale in convenuto esercita un’azione di mero accertamento negativo. Inoltre egli può decidere se allegare determinati mezzi di prova a proprio favore.

Quindi si evince che la partecipazione attiva del convenuto può avvenire nei limiti della domanda dell’attore ma oltre i limiti dell’oggetto del processo determinato dall’attore stesso. Infatti pure il convenuto, nei limiti della domanda, può esercitare la disponibilità dell’oggetto del processo; e lo fa attraverso l’eccezione, che è un’istanza con funzione di contrasto, che ha lo scopo di sottolineare, secondo il convenuto, gli eventuali fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto che viene affermato dall’attore. Le eccezioni possono essere così distinte:

o Eccezioni in senso improprio, se consistono in semplici negazioni di fatti costitutivi.o Eccezioni di merito in senso proprio, se consistono nella richiesta di una decisione

negativa della domanda, sul fondamento di fatti impeditivi modificativi o estintivi.

Ai sensi della seconda parte dell’art. 112 c.p.c., il giudice non può pronunciare d’ufficio sulle eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti. Implicitamente si dice che egli può e deve pronunciare sulle eccezioni in genere. A questo punto si pone un quesito riguardo al fatto se il giudice possa o meno pronunciarsi d’ufficio su fatti impeditivi, estintivi o modificativi,

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dei quali sia venuto a conoscenza attraverso le risultanze processuali, nonostante nessuna parte abbia proposto eccezione con riguardo ad essi. l’art. 112 c.p.c. risponde a questo interrogativo e dalla sua formulazione si evince che esistono 2 categorie di eccezioni:

1. quelle sulle quali il giudice può pronunciarsi d’ufficio;2. quelle che possono essere proposte soltanto dalle parti.

Quindi bisogna capire quali siano i fatti di cui il giudice può tener conto d’ufficio e quali, invece, può considerare solo se espressamente fatti oggetto di un’eccezione. A tal proposito, noi sappiamo che il dovere di pronunciare sul merito corrisponde a una pronuncia sull’esistenza attuale del diritto affermato nella domanda. Per far ciò il giudice deve conoscere di tutti quei fatti, che, al momento della pronuncia, abbiano influito su quel diritto. Ciò vale anche per quei fatti che abbiano automaticamente prodotto i loro effetti: di questi fatti il giudice può e deve tener conto d’ufficio. Automaticamente i fatti di cui il giudice può conoscere d’ufficio sono quelli che appartengono alla sfera riservata e che non producono i loro effetti automaticamente, se non attraverso un’espressa eccezione, come ad esempio la risoluzione del contratto per inadempimento o l’annullamento dei contratti per errore, violenza o dolo. Da ciò si evince come l’eccezione è il diritto ad ottenere una pronuncia sul merito anche dei fatti estintivi, impeditivi o modificativi.

Il convenuto può superare anche i limiti della domanda dell’attore attraverso la proposizione di una domanda propria ed autonoma, di cui assume la veste si attore. E’ questa la domanda riconvenzionale. Per evitare che si sovrappongano in modo caotico diverse domande nello stesso processo, l’art. 36 c.p.c. stabilisce che possono proporsi nello stesso processo tutte le domande che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione. Quindi, la domanda riconvenzionale, per essere ammissibile, deve dipendere da fatti che siano genericamente collegati con i fatti costitutivi della domanda principale o con i fatti estintivi, impeditivi o modificativi già introdotti nella causa sotto forma di eccezioni, senza che occorra una vera e propria comunanza di causa petendi. Il tipico esempio è costituito dall’eccezione di compensazione.

L’attore, con l’esercizio della sua azione, determina l’oggetto sostanziale del processo, determinando così i confini che il giudice deve raggiungere e non superare con la sua pronuncia e che pure il convenuto deve rispettare con la sua attività. Il singolo processo individuato nel suo oggetto sostanziale prende il nome di causa. L’operazione logico-giuridica di individuazione dell’oggetto di una singola causa prende il nome di identificazione dell’azione. Si compie questa operazione logico-giuridica affinché siano rispettati alcuni principi fondamentali del processo, che sono quello del ne bis in idem e quello del doppio grado di giurisdizione. Il principio del ne bis in idem consiste nel divieto di ogni altro giudice di pronunciarsi ulteriormente sulla materia oggetto di una pronuncia passata in giudicato. Quando la questione sull’identità di 2 cause investe le zone di confine dell’ambito del giudicato, la questione stessa si presenta come un problema di limiti del giudicato. Nel caso in cui, invece, la seconda azione venga proposta quando la prima causa è ancora pendente, il giudice successivamente adito ha un divieto esplicito di pronunciarsi, dovendo dare atto del fenomeno di litispendenza, per evitare il contrasto di giudicati sulla medesima causa. La dichiara con ordinanza, anche d’ufficio, e cancella la causa dal ruolo. Ciò è sancito dall’art. 39, 1° comma c.p.c. Lo stesso può dirsi per il caso di riunione di procedimenti, per il quale l’art. 273 dispone che il G.I. o il presidente della sezione che ha notizia che per la stessa causa pende già un procedimento, ne riferisce al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto la riunione. In questi casi il giudice dovrà impostare e risolvere il problema dell’identificazione di 2 cause, per stabilire se una causa è nuova. Un’azione è identica quando tutti i suoi elementi sono uguali. Se anche uno solo di essi cambia, non si più parla più di identità ma di connessione. Gli elementi, che individuano un’azione, sono di 2 tipi:

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1. Elementi soggettivi : Sono i soggetti dell’azione stessa, ossia il soggetto attivo e passivo, e si individuano in relazione al diritto sostanziale affermato. Nei casi in cui la legge eccezionalmente consente di far valere i diritti altrui in nome altrui o in nome proprio (cioè in caso di rappresentanza o sostituzione processuale) si deve aver riguardo al soggetto affermato titolare attivo o passivo del rapporto sostanziale. Nel caso della rappresentanza si deve far riferimento al nome con il quale si è agito. La regola che risolve tale problema è codificata nell’art. 2909 c.c., per il quale l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. Da ciò si determina che:

a. la sentenza vale rispetto a tutti ma come sentenza tra le parti, nel senso che non può pregiudicare gli estranei alla lite.

b. con la parola parti si intendono, non solo i soggetti del processo, ma anche i soggetti del rapporto sostanziale affermato dall’azione.

c. i soggetti sostituiti o che comunque subiscono gli effetti dell’esercizio dell’azione da parte di altri, sono inclusi nella nozione di parti.

d. ci sono casi di estensione degli effetti del giudicato nei confronti di soggetti che non furono parti nel processo, come nel caso degli eredi e degli aventi causa, purché lo siano diventati dopo l’instaurazione del giudicato. A queste ipotesi di estensione degli effetti della sentenza, si contrappongono quelle della non estensione, che il terzo può far valere contro chi pretende tale sussistenza. E’ però chiaro che il terzo nei cui confronti sussiste l’estensione non può opporsi ad essa perché il pregiudizio che egli subisce è di mero fatto. Allorio ha evidenziato come il fenomeno dell’estensione sia dovuto soprattutto alla portata del rapporto sostanziale, per cui la fattispecie dell’uno include quella dell’altro. Sicché l’art. 2909, secondo la sua opinione, deve intendersi come norma che esclude per i terzi la retroattività della decisione giudiziaria intorno all’altrui rapporto, con la conseguenza che i limiti oggettivi della cosa giudicata possono trovare giustificazione logica in quanto limiti della retroattività.

2. Elementi oggettivi : Gli elementi oggettivi dell’azione sono 2:a. oggetto o petitum: che è ciò che si chiede con la domanda. Poiché la domanda

è rivolta al giudice e al convenuto, il petitum assumerà in concreto due aspetti diversi:

petitum in via immediata: è la domanda che si rivolge al giudice, con la quale non si chiede la cosa o la prestazione oggetto del diritto sostanziale ma un provvedimento.

petitum in via mediata: è la domanda che si rivolge alla controparte, che per lo più è il convenuto, al quale non si chiede un provvedimento ma si chiede un bene della vita: una cosa o una prestazione o una certa modificazione giuridica.

b. titolo o causa pretendi: significa ragione del domandare, ossia la ragione obbiettiva su cui la domanda si fonda. Sarebbe, cioè, il diritto sostanziale affermato in forza del quale si chiede il petitum. Il diritto affermato, di regola, viene in rilievo come entità concreta e in quanto tale, anche per il principio jura novit Curia, esso viene qualificato non tanto dalla causa petendi, quanto nei suoi fatti costitutivi, talvolta in correlazione con i suoi fatti lesivi. Quindi, per capire se il riferimento a fatti diversi implica diversità della causa petendi, bisogna indagare sul campo sostanziale se il fatto diverso fonda un diritto diverso oppure no. Questa indagine può essere fatta in relazione ai diversi tipi di diritti:

diritti relativi e in particolare quelli di obbligazione ad una prestazione generica: essi nascono secondo lo schema di un fatto che è costitutivo di un diritto. Quindi, in questo fatto si ravvisa la causa petendi.

diritti assoluti (esclusi quelli di garanzia): essi sono sempre identici indipendentemente dal fatto che ne ha determinato la nascita. Quindi in

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questo caso la portata individuatrice dell’azione è polarizzata nel petitum, che implica la causa petendi. Qui vale la regola che il giudicato copre il dedotto e il deducibile, ma non ciò che ancora non lo era, per potrà farsi valere con la stessa azione lo stesso diritto se sopraggiungo fatti nuovi che non potevano essere conosciuti.

diritti alla modificazione giuridica o diritti potestativi: sono caratterizzati dal fatto che diversi fatti genetici possono fondare lo stesso diritto e la stessa azione, come ad esempio l’azione di annullamento del contratto, che può essere esperita per errore, violenza o dolo, senza che ciò configuri un’azione diversa.

Questa nozione della causa petendi, individuata nell’allegazione dei fatti costitutivi del diritto, non è pacifica in dottrina e in giurisprudenza, perché si contrappongo 2 teorie: quella della sostanziazione (che impernia la portata individuatrice nell’allegazione dei fatti costitutivi e limita a quei fatti la portata del giudicato) e quella dell’individuazione (che fa riferimento all’indicazione del rapporto giuridico sostanziale). Molti autori però ritengono ormai che si tratti di facce della stessa medaglia.

Si è affermato, inoltre, che il diritto è l’oggetto minimo del processo. Tuttavia si deve ritenere che, in un sistema fondato sulla disponibilità dell’oggetto del processo e della tutela giurisdizionale, non si possa escludere la frazionabilità del diritto, purché venga valutato, di caso in caso, l’interesse al frazionamento.

Per quanto riguarda il tema dei limiti oggettivi del giudicato, possiamo fare riferimento a delle massime della Cassazione. Uno di questi afferma che il giudicato copre il dedotto e il deducibile ma nei limiti delle statuizioni indispensabili per giungere alla decisione. Un altro criterio, invece, enuncia che si ha mutamento della domanda quando muta il nucleo dei fatti che sono causalmente collegati con l’oggetto della domanda. La Cassazione suole affermare che nel valutare la novità delle allegazioni occorre tener conto dia dell’economia dei giudizi e sia dell’effettivo grado di lesione degli interessi della controparte, esaminando se si sia o meno introdotto un tema di indagine nuovo tale da disorientare la difesa dell’altra parte.

L’autore Canova fa la distinzione tra:

domande autodeterminate, che esauriscono l’individuazione del loro contenuto nell’indicazione del tipo di tutela invocato, dei soggetti e dell’effetto giuridico per cui si agisce (riguardano i diritti reali, gli status e i diritti di credito a una prestazione specifica).

Domande etero determinare, la cui individuazione viene completata dall’accadimento storico generatore della situazione fatta valere (riguardano i diritti reali di garanzia e i diritti di credito ad una prestazione generica).

Può accadere che tra diverse azioni vi sia comunanza di alcuni elementi soggettivi od oggettivi. Questo fenomeno interessa l’ordinamento per l’opportunità che questo voglia trattare insieme le più cause, che si diranno connesse o per l’opportunità dell’eventuale cumulo di azioni nello stesso processo, in deroga alle normali regole sulla competenza.

Il primo fenomeno prende il nome di connessione. Essa consiste nella coincidenza di solo alcuni, ma non tutti, gli elementi di identificazione di due o più azioni. A seconda del tipo di elementi coincidenti, avremo i seguenti tipi:

Connessione soggettiva : quando hanno in comune entrambi i soggetti, dando luogo al cumulo oggettivo, che consiste nella proposizione di più azioni diverse dalla stessa

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parte e contro la stessa parte nello stesso processo. L’unico limite è il rispetto delle regole sulla competenza, che, ai sensi dell’art. 104 c.p.c., potrebbe subire delle variazioni sul suo valore, che viene tenuto conto sulla base dell’art. 10, 2° comma c.p.c.

Connessione oggettiva : quando hanno in comune gli elementi oggetti, dando luogo al cumulo soggettivo. Questo fenomeno di più parti nello stesso processo prende il nome di litisconsorzio facoltativo, ai sensi dell’art. 103 c.p.c. In particolare la connessione oggettiva viene detta:

o “propria”, quando le cause hanno in comune l’oggetto o il titolo;o “impropria”, quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla

risoluzione di identiche questioni di diritto, nonostante non abbiano alcun elemento oggettivo in comune.

Figure particolari di connessione sono:

domanda riconvenzionale; accessorietà, quando la decisione sull’azione accessoria dipende dalla decisione di

quella principale; pregiudizialità, quando la decisione condiziona la decisione sull’azione principale; garanzia, quando una parte fa valere il suo diritto di essere garantita da un terzo, ossia

risarcita delle conseguenze della sua eventuale soccombenza.

Il cumulo soggettivo, reso opportuno dalla connessione oggettiva, può realizzarsi anche a processo iniziato attraverso l’intervento, con il quale si instaura un litisconsorzio successivo.

La comunanza di alcuni elementi di diverse azioni può determinare l’eventualità che l’esercizio di un’azione determini il risultato pratico anche per l’altra, con la conseguenza che questa è priva dell’interesse ad agire, quindi infondata. Questo è il fenomeno del concorso di azioni. Si può avere concorso per connessione di petitum e di causa petendi o quando lo stesso diritto potestativo viene attribuito a soggetti diversi, come nel caso dell’azione di interdizione, che spetta al coniuge, ai parenti fino al quarto grado, al curatore, al tutore e al P.M., la quale se viene esercitata con successo da uno di questi nessun’altro la può richiedere.

Nel caso in cui 2 o più azioni concorrenti vengano proposte nello stesso processo, si verifica il fenomeno del cumulo alternativo di azioni o di domande. Ad esso si contrappone il fenomeno del cumulo condizionale, che si verifica quando due o più domande vengono proposte nello stesso processo a condizione che una di queste sia stata preventivamente accolta o previamente respinta.

Per quanto riguarda i giudici, dobbiamo analizzare l’art. 1 c.p.c., il quale dispone che la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del c.p.c. Questo articolo si riferisce genericamente ai giudici ordinari e riprende l’art. 102, 1° comma Cost., il quale dispone che la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. La sostanza, che emerge fuori da questo articolo, è che nel nostro ordinamento i giudici sono diversi e quelli di cui si occupa il c.p.c. sono soltanto quelli ordinari, ai quali tutti insieme viene attribuita la giurisdizione civile. Il potere giurisdizionale spetta ai giudici ordinari considerati nel loro insieme. Da ciò si comprende come questa disciplina presenti il carattere fondamentale della generalità e di come il tema della giurisdizione si pone quale un sistema di limiti alla generale spettanza di tutte le cause civili ai giudici ordinari.

Un primo criterio è quello enunciato nell’art. 5 c.p.c., secondo il quale la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente alla momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo. Questo è ciò che viene chiamata comunemente perpetuatio jurisdictionis.

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Un primo limite alla generale giurisdizione si ha nell’art. 5 D. Lgs. n°28/2010, per il quale, nelle materie ivi previste, essa è condizionata a un obbligatorio tentativo di mediazione.

Altri limiti vanno analizzati in relazione alla L. n°218/1995. Questa legge ha avuto il merito di modificare il criterio della virtuale universalità della giurisdizione italiana, abbandonando quindi il riferimento alla cittadinanza. Quindi, la qualità di straniero solo marginalmente influisce in un sistema in cui egli è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità (art. 16 disp. della legge in generale). Quindi ormai viene in rilievo solo la posizione del convenuto, rispetto al quale la giurisdizione è condizionata dal domicilio o residenza.

Nel caso particolare dello Stato Straniero, questo in quanto tale non può essere convenuto davanti ad un giudice ordinario di altro stato, pur potendo davanti a quel giudice agire come attore. Così si può evincere dall’applicazione dell’art. 10 Cost.

Il non riferimento alla qualità di cittadino o di straniero avviene per effetto della L. n°218/1995, la quale nel suo art. 3 stabilisce che la giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio. Il successivo art. 4, invece, dispone che la giurisdizione italiana sussiste se le parti l’abbiano convenzionalmente accettata e tale accettazione sia provata per iscritto ovvero quando il convenuto non eccepisca nel primo atto difensivo il difetto di giurisdizione. L’art. 5 la esclude rispetto ad azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero. Come si sa, l’Italia fa parte dell’U.E. e ciò comporta avere una giurisdizione speciale in alcune materie, come nel caso della Convenzione di Bruxelles, confluita poi nel regolamento CE 44\2001, che ha introdotto delle regole particolari, che possono essere così indicate:

la regola generale vuole che tutte le persone aventi domicilio in uno degli Stati membri possono essere convenute davanti ai giudici di quello Stato;

in materia contrattuale possono essere convenute davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita;

in materia di fatti illeciti possono essere convenute davanti al giudice del luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso;

per quanto riguarda le azioni nascenti da reato il responsabile può essere convenuto davanti al giudice al quale è esercitata l’azione penale, purché questi possa conoscere dell’azione civile;

in materia alimentare si può essere convenuti davanti al giudice del luogo di residenza abituale del creditore degli alimenti;

in materia di contratti individuali di lavoro è competente il giudice del luogo dove il lavoratore svolge abitualmente la sua attività o a quello dell’ultimo luogo in cui la svolgeva abitualmente;

in materia di provvedimenti cautelari previsti in uno Stato membro, questi possono essere richiesti al giudice di detto Stato anche se la competenza a conoscere nel merito è riconosciuta ad altro giudice di altro Stato membro.

Quanto detto finora si ha con riguardo alla mancanza di domicilio o residenza in Italia del convenuto. Un altro ordine di limiti si ha con riguardo alla specialità della controversia in relazione al fatto che sia parte la P.A. In questa ipotesi, però, non facciamo riferimento alla P.A. in qualità di attore, in quanto questa ha degli strumenti più efficaci della tutela giurisdizionale, tenendo pure conto che i suoi atti, che si presumono legittimi, sono esecutori. Per cui il problema si pone con riguardo alla P.A. in qualità di convenuto. In questo senso si possono verificare diverse ipotesi di violazione:

1. Se la P.A. viola i diritti soggettivi, essa può essere convenuta davanti al giudice ordinario, come sancito dalla L. n°2248/1865. Questi vengono fatti valere di fronte al giudice ordinario.

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2. Se la P.A. viola altre situazioni soggettive, vuol dire che essa sta violando i c.d. interessi legittimi, ossia norme di azione della P.A., i quali tutelano i cittadini solo indirettamente, come le norma di valutazione in un concorso pubblico. Essi vengono tutelati attraverso la possibilità dei loro titolari di ottenere un giudizio che annulli l’atto amministrativo e risarcisca i danni subiti. Tale annullamento può essere chiesto solo quando sia affetto da uno dei seguenti vizi:

a. Violazione di legge;b. Incompetenza, per difetto del potere di emanarlo nell’autorità che l’ha fatto;c. Eccesso di potere, quando il potere amministrativo è stato utilizzato per fini

diversi da quelli in funzione dei quali è configurato dalla legge. E’ una categoria creata dalla giurisprudenza.

Oltre all’annullamento, con la L. n°69/2009 ha aggiunto ulteriori 2 modalità:

1) Azione avverso il silenzio della P.A.: è esperibile decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo ed entro 1 anno da tale conclusione. Il giudice la pronuncerà solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.

2) Declaratoria di nullità: è proponibile per l’accertamento delle nullità previste dalla legge entro il termine di decadenza di 180gg. La nullità dell’atto è comunque opponibile dalla parte resistente e può essere rilevata d’ufficio.

Tali interessi legittimi possono essere fatti valere davanti a giudici speciali, che sono il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale e in primo grado i T.A.R., col compito di giudicare sulle materie sulle quali il Consiglio di stato è giudice di secondo grado. Può essere anche assunto un provvedimento di ottemperanza per ottenere l’esecuzione della sentenza amministrativa, quando la P.A. non adempia spontaneamente.

3) Se la P.A. viola diritti fondamentali o costituzionalmente rilevanti, connessi a materie affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, si ritiene che la ripartizione tra giudici ordinari e giudici amministrativi avvenga con l’attribuzione ai primi quando la lesione consegua a mera comportamenti e ai secondi quando consegua all’esercizio dei poteri. Vanno annoverati anche altri giudici amministrativi speciali come la Corte dei Conti (in materia di contabilità pubblica e responsabilità amministrativa e contabile) e il Tribunale superiore delle acque pubbliche (in materia di impugnazione di atti amministrativi riguardanti le acque pubbliche).

Con riguardo ad altre ragioni di specialità della controversia, l’art. 102 Cost. prevede che non possano essere istituiti altri giudici straordinari o speciali. Se particolari esigenze lo richiedano si possono istituire sezioni specializzate per determinate materie anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura. Tra questi possiamo ricordare le Sezioni specializzate agrarie, i Tribunali per i minorenni e le Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale. Con riguardo alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici, i limiti derivano dal Concordato con la Santa Sede del 1929, per il quale i Tribunali ecclesiastici sono competenti in materia di nullità dei matrimoni concordatari. La riforma nel 1984 di questo concordato, secondo alcuni, ha comportato il superamento di questo sistema, mentre, secondo altri, vi è solo un riparto di giurisdizione per cui i giudici ecclesiastici hanno giurisdizione in materia di atto e quelli civili in materia di effetti.

La giurisdizione in passato veniva considerata inderogabile. Oggi invece non è così, vista anche l’abrogazione dell’art. 2 c.p.c. Così, ai sensi dell’art. 4 L. n°218/1995, è possibile prevedere tale derogabilità convenzionale a favore di giudici e arbitrati stranieri, purché provata per iscritto e la causa verta su diritti disponibili. Tale deroga è inefficace e permane la giurisdizione del

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giudice italiano, se il giudice straniero declina la sua giurisdizione o non può conoscere della causa. Anche la giurisdizione straniera può essere derogata a favore di quella italiana. Il difetto di giurisdizione italiana può essere rilevato in ogni stato e grado del giudizio dal convenuto che non abbia accettato la giurisdizione italiana. Inoltre è stato abrogato anche l’art. 3 c.p.c., per cui adesso è rilevante anche la litispendenza internazionale, che impone al giudice italiana di sospendere il giudizio se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre degli effetti. Per quanto riguarda la derogabilità della giurisdizione tra giudici ordinari e amministrativi, viene in rilievo l’art. 37 c.p.c., il quale dispone che il difetto di giurisdizione può essere fatto valere anche d’ufficio in qualunque stato e grado del processo, facendoci capire come tale derogabilità è esclusa.

In relazione ai limiti di giurisdizione possono sorgere questioni attorno alla sussistenza o meno della giurisdizione medesima. Si tratta delle questioni di giurisdizione, che devono essere risolte dal giudice adito per il merito in via preliminare, essendo la giurisdizione un presupposto del processo. E’ per questo motivo che il legislatore ha configurato un istituto finalizzato alla rapida e preventiva soluzione di tali questioni da parte della Corte di Cassazione a sezioni unite: è il regolamento di giurisdizione. Esso è disciplinato non come un mezzo di impugnazione ma come un mezzo di contestazione. In merito, l’art. 41 c.p.c. dispone che si possa ricorrere a questo strumento finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado. Le Sezioni unite hanno affermato che il regolamento è precluso da una qualsiasi causa in sede di merito ma non anche sul merito, escludendo il concorso con l’appello. L’istanza di regolamento non apre un nuovo grado di giudizio ma solo una parentesi, che tra l’altro non pregiudica la decisione sul merito. L’istanza di regolamento si propone con ricorso, sottoscritto da avvocato munito di valida procura speciale. L’art. 367 c.p.c., prima della riforma disponeva che il giudice sospendesse la causa in questi casi. Oggi invece la sospensione va disposta solo se il G.I. o il collegio non ritengano l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. La pronuncia della Cassazione sul regolamento di giurisdizione viene data con ordinanza. Nel caso fosse stata disposta la sospensione e la Cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, la causa va riassunta, a pena di estinzione, entro 6 mesi dalla comunicazione dell’ordinanza. La proposizione del regolamento di giurisdizione, essendo una facoltà, non pregiudica il fatto che la giurisdizione possa essere fatta valere secondo le normali regole. L’art. 41 c.p.c. continua dicendo che, se la P.A. non è parte in causa, impersonata dal prefetto, può chiedere in ogni stato e grado del processo che sia dichiarato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, a causa dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione stessa. Prima della riforma con L. n°69/2009 non era presente un meccanismo simile alla translatio judicii sulla competenza. Oggi non è così: infatti il giudice ha l’obbligo di indicare il giudice munito di giurisdizione se esistente. Inoltre le pronunce della Cassazione in S.U. sulla giurisdizione sono vincolanti anche in altri processi; il rispetto del termine di riassunzione fa salvi gli effetti sostanziali e processuali della precedente domanda, salvo le preclusioni e le decadenze; le prove precedentemente raccolte sono valutabili come argomenti di prova.

Stabilito il problema della giurisdizione, bisogna capire chi tra tutti i questi ha il potere di decidere nel concreto la causa: è questo il problema della competenza. In questa direzione possiamo subito notare come è possibile individuare una precisa organizzazione giudiziaria, che da vita a 2 diversi problemi di distribuzione della competenza:

Distribuzione verticale tra giudici di tipo diverso , che sono:o Giudice di pace (uni personale);o Tribunale (in composizione monocratica o collegiale);o Corte d’appello (collegiale);o Corte di Cassazione (collegiale).

Distribuzione orizzontale tra diversi giudici dello stesso tipo : tale distribuzione viene fatta a seconda della loro dislocazione sul territorio, per cui avremo:

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o Giudice di pace: in ciascuno dei mandamenti preesistenti come circoscrizioni territoriali delle preture;

o Tribunale: in ciascun circondario;o Corte d’appello: in ciascun distretto;o Corte di Cassazione: una per tutto il territorio italiano a Roma.

Anche per la competenza opera la regola dell’art. 5 c.p.c., secondo cui si deve aver riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, restando senza conseguenze gli eventuali successivi mutamenti. Il codice distingue 3 tipi di competenza, di cui i primi 2 riguardano la distribuzione verticale tra giudici diversi, e l’ultimo riguarda la distribuzione orizzontale tra giudici dello stesso tipo:

1) COMPETENZA PER VALORE : questa competenza si determina sulla base del valore economico della causa. Questo criterio è quello che nel nostro ordinamento rappresenta la regola, nel senso che opera quando non esistono regole che stabiliscano diversamente con riguardo alla materia, perché, quando ciò avviene, il criterio della materia prevale su quello del valore. Emerge, perciò, un sistema di integrazione tra i 2 criteri, come si può evincere dall’art. 7 c.p.c., per il quale il giudice di pace è competente:

o nelle cause relative a beni mobili di valore non superiore a 5000€;o nelle cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli e

natanti, purché il valore della controversia non superi i 20000€;o indipendentemente dal valore, nelle cause relative ai rapporti di vicinato e agli

interessi accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali.

Allo stesso modo, l’art. 9 c.p.c. stabilisce che il tribunale è competente:

o nelle cause che non sono di competenza di altro giudice;o in modo esclusivo nelle cause in materia di imposte e tasse;o nelle cause sullo stato, la capacità delle persone e sui diritti onorifici;o nelle cause sulla querela di falso e l’esecuzione forzata;o in generale, in ogni altra causa di valore indeterminabile.

Gli artt. dal 10 al 15 c.p.c. stabiliscono dei criteri approssimativi e sbrigativi per determinare il valore della domanda. Un esempio è l’art. 10 c.p.c., il quale stabilisce che il valore della causa si determina dal complesso delle domande eventualmente proposte contro la stessa persona. Ma in generale possiamo dire che il valore delle cause si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall’attore.

2) COMPETENZA PER MATERIA : questa competenza si determinata sulla base della natura o al tipo del diritto su cui si controverte. Essa si applica tutte quelle volte in cui la legge dichiara espressamente di fare riferimento a questo criterio. In relazione al giudice di pace e tribunale, si è trattato prima della competenza in analisi, vedi sopra.

3) COMPETENZA PER TERRITORIO : è il criterio che il legislatore ha scelto per determinare chi è il giudice competente tra le varie circoscrizioni territoriali. Certo bisogna capire qual è il criterio di collegamento. Il nostro ordinamento ha scelto il criterio soggettivo, temperando questa scelta con numerose eccezioni di carattere oggettivo.

L’applicazione di questi criteri ci porta nell’ambito della disciplina dei fori. L’applicazione del criterio soggettivo si è espressa nella formulazione degli artt. 18 e 19 c.p.c., i quali individuano i c.d. fori generali delle persone fisiche e delle persone giuridiche, che così possiamo sancire:

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Art. 18 c.p.c. – Foro generale delle persone fisiche: dispone che è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, e, se questi sono sconosciuti, quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora. Se il convenuto non ha residenza, né domicilio, né dimora in Italia o se la dimora è sconosciuta, è competente il giudice del luogo in cui risiede l’attore.

Art. 19 c.p.c. – Foro generale delle persone giuridiche: dispone che è competente il giudice del luogo dove ha sede la persona giuridica. E’ competente anche il giudice del luogo dove la persona giuridica ha stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l’oggetto della domanda. Per quanto riguarda le società non aventi personalità giuridica, le associazioni non riconosciute ed i comitati, essi hanno sede dove svolgono attività in modo continuativo.

Accanto al criterio dei fori generali, operano le regole eccezionali nell’indicazione dei fori speciali, che sono determinati da criteri oggettivi, con riferimento a:

Petitum : in particolare dobbiamo tenere presente l’art. 21 comma c.p.c., il quale dispone che le cause relative a diritti reali su beni immobili, in materia di locazione e comodato di immobili e di affitto di aziende, nonché le cause relative ad apposizione di termini e distanze stabilite dalla legge appartengono al giudice del luogo dove è posto l’immobile. Ne sono escluse le controversie che, pur concernendo questi beni immobili, hanno per oggetto diritti obbligatori su di essi.

Causa petendi : facciamo riferimento alle ipotesi contenute negli articoli seguenti a titolo esemplificativo:

o Art. 22 c.p.c. – Foro delle cause ereditarie: è competente il giudice del luogo dell’aperta successione;

o Art. 23 c.p.c. – Foro delle cause tra soci e condomini: è competente il giudice del luogo dove ha sede la società o si trova l’immobile;

o Art. 30bis c.p.c. – Foro nelle cause in cui sono parti i magistrati.

Un’eccezione ai fori generali è quello dell’art. 25 c.p.c., per la quale nelle cause in cui sia coinvolta l’amministrazione dello Stato, essendo questa difesa dall’Avvocatura dello Stato, è competente il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello Stato, nel cui ambito territoriale si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie.

L’art. 26 c.p.c., in materia di esecuzione forzata su cose mobili o immobili, dispone che è competente il giudice del luogo in cui le cose si trovano. Per l’espropriazione forzata dei crediti è competente il giudice del luogo dove risiede il terzo debitore e per l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare è competente il giudice del luogo dove l’obbligo deve essere adempiuto.

I fori speciali, che le regole specificano essere gli unici competenti, sono detti esclusivi. Accanto a loro, esistono poi quelli facoltativi, la cui scelta spetta all’attore. Un esempio è quello previsto dall’art. 30 c.p.c., il quale dispone che chi ha eletto domicilio può essere convenuto davanti al giudice di quel domicilio.

Come per la giurisdizione, anche per la competenza è possibile trovare delle regole inerenti alla derogabilità o alla prorogabilità. Eventuali accordi anteriori o successivi al processo, su tale argomento, sono validi solo quando siano consentiti dalla legge (art. 6 c.p.c.).

Norme che prevedono accordi preventivi ed espliciti per derogare la competenza esistono solo con riguardo alla competenza per territorio. L’art. 28 c.p.c. dispone che la competenza per territorio può essere derogata in linea di massima, ma ad eccezione di materie come esecuzione forzata ed opposizione alla stessa, procedimenti cautelari e possessori e per ogni altro caso per il quale l’inderogabilità sia disposta espressamente dalla legge. La legge la chiama competenza territoriale inderogabile o funzionale. L’art. 29 c.p.c. regola le modalità

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dell’accordo derogativo, che deve risultare da atto scritto e riferirsi ad uno o più affari determinati. Esso non attribuisce competenza esclusiva se non quando ciò sia detto espressamente. La deroga può anche risultare indirettamente da un atto unilaterale. L’art. 30bis c.p.c. riguarda le cause in cui sono parte i magistrati, per le quali è competente il giudice ugualmente competente per materia che ha sede nel capoluogo di distretto di Corte d’appello più vicino.

Il caso del soggetto che sia stato convenuto di fronte a un giudice non competente è analizzato dall’art. 38 c.p.c. Questo articolo dispone che l’incompetenza per valore, per materia e per territorio sono eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, cioè entro 20gg della prima udienza. Essa deve inoltre contenere l’indicazione del giudice che la parte ritiene competente. Se l’eccezione non viene proposta entro i termini previsti, il giudice inizialmente incompetente diviene competente. Se le altre parti aderiscono all’indicazione fatta dalla parte che eccepisce, fa si che la nuova competenza indicata ed accettata resti fermi, purché la causa venga riassunta davanti al nuovo giudice entro 3 mesi dalla cancellazione del ruolo (art. 50 c.p.c.). Se la riassunzione avviene, il giudizio continua per effetto della translatio judicii. Dopo la riforma con L. n°353/1990, anche il rilievo d’ufficio, per i casi di nullità dei patti di deroga sulla competenza, non può essere esercitato oltre la prima udienza. Tali questioni, ovviamente, vengono risolte senza che ciò possa influire sulla decisione di merito.

Il normale mezzo per impugnare una sentenza, che pronuncia sulla competenza, è l’appello. Tuttavia, il nostro ordinamento configura un particolare strumento che è il regolamento di competenza, il quale dà luogo a un giudizio innanzi alla Cassazione. Il regolamento di competenza consiste in un’iniziativa giudiziaria di parte contro una pronuncia sulla competenza, nella quale la parte che impugna sia rimasta soccombente. E’ un mezzo di impugnazione ordinario, poiché la loro proponibilità condiziona il passaggio in giudicato della sentenza. Esso non è proponibile contro i provvedimenti del giudice di pace (art. 46 c.p.c.). Si possono configurare 2 tipi di regolamento di competenza:

NECESSARIO : è previsto dall’art. 42 c.p.c. ed è quello che può essere proposto contro i provvedimenti che pronunciano solo sulla competenza senza decidere la causa. Viene definito necessario in quanto è l’unico mezzo con il quale questi provvedimenti possono essere impugnati. Se il regolamento viene proposto, la Cassazione statuisce sulla competenza, determinando in modo definitivo chi è il giudice competente. Se il regolamento non viene proposto, la pronuncia non è più impugnabile in alcun modo e perciò resta ferma la competenza del giudice, che la pronuncia aveva dichiarato competente. Quest’ultimo giudice, perciò, non potrà contestar la propria competenza e dovrà pronunciare sul merito (art. 44 c.p.c.). L’art. 44 c.p.c. aggiunge che l’incontestabilità si verifica, salvo che si tratti di incompetenza per territorio o per materia, nei casi di competenza territoriale inderogabile o funzionale. Nei casi suddetti, la norma consente eccezionalmente al giudice, che nella pronuncia non impugnata era disegnato come competente, di dichiararsi incompetente. Se ciò accade si verifica il c.d. conflitto di competenza. Ai sensi dell’art. 45, in questi casi, il giudice davanti al quale la causa è stata riassunta può chiedere d’ufficio il regolamento di competenza. In tal senso pronuncia ordinanza con la quale dispone la rimessione del fascicolo d’ufficio alla cancelleria della Cassazione.

FACOLTATIVO : è previsto dall’art. 43 c.p.c. ed è quello che può essere proposto contro i provvedimenti che hanno pronunciato sulla competenza e sul merito. Viene definito facoltativo in quanto esso concorre con i mezzi di impugnazione ordinari. La legge lascia alle parti la facoltà di scelta, tenendo presente che uno esclude l’altro. La parte legittimata a proporre istanza di regolamento facoltativo è la parte che sia risultata soccombente sul merito sia sulla competenza. Il regolamento di impugnazione si propone con ricorso, da notificarsi alle parti che non vi hanno aderito, il quale deve

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contenere l’indicazione del giudice che si ritiene competente e il motivo della censura. Esso deve essere presentato entro il termine di 30gg, che decorre dalla comunicazione dell’ordinanza, e depositato in cancelleria entro 20gg dalla notificazione. La Cassazione pronuncia con ordinanza con forme abbreviate in camera di consiglio. Anche in questo caso deve essere disposta la riassunzione della causa, che deve avvenire nel termine stabilito dalla pronuncia o, in mancanza, in 3 mesi dalla comunicazione. Se la riassunzione avviene, il processo continua davanti al nuovo giudice e si verificherà un altro caso di translatio judicii. Se la riassunzione non avviene, il processo si estingue (art. 50 c.p.c.).

Come si sa, due o più azioni possono avere in comune tra loro tutti o alcuni elementi di identificazione. Se si ha la coincidenza di tutti gli elementi, le due o più azioni sono in realtà una sola e si parla di identità. Essa ci interessa perché si vuole evitare che un’azione, già pendente davanti a un giudice, venga riproposta davanti allo stesso od altro giudice. Questo è il fenomeno della litispendenza. Quindi, occorre decidere quale giudice deve deciderla: nel nostro ordinamento vige il criterio della prevenzione, per il quale è competente il giudice adito per primo, avendo riguardo alla data di notificazione della citazione o di deposito del ricorso. Il giudice successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone la cancellazione della causa dal ruolo (art. 39, 1° comma). Con lo stesso criterio risolve il fenomeno della continenza di cause, che si ha quando una delle azioni contiene l’altra per la maggior ampiezza del petitum, ferma la coincidenza degli altri elementi. In questo caso, l’art. 39, 2° comma dispone che il giudice successivamente adito disponga la riassunzione davanti al primo giudice se questi è competente o viceversa e sempreché anche il secondo lo sia. Le ordinanze, che pronunciano litispendenza e continenza, vengono considerate pronunce sulla competenza e pertanto saranno sottoposto a questo tipo di impugnabilità.

Analoghi fenomeni di ripercussione sulla disciplina della competenza sono determinati dal fenomeno della connessione, che consiste nella coincidenza ti taluni elementi di identificazione di 2 o più azioni. Questo fenomeno è importante perché occorre esaminare se ed in quali limiti la trattazione delle cause connesse può dar luogo a deroghe alle regole della competenza. In linea di massima, si può dire che le deroghe sono ammissibili per la competenza per territorio e per valore ma non anche per la competenza per materia. Come sappiamo la connessione può essere di 2 tipi:

1. SOGGETTIVA : Dà luogo alla possibilità del cumulo oggettivo. Per quanto riguarda la competenza per valore, le diverse domande si sommano tra di loro. Quando si ha connessione solo soggettiva, il cumulo oggettivo di cui all’art. 104 c.p.c. è possibile solo quando, sotto ogni altro profilo diverso da quello del valore, sussista la competenza del medesimo giudice.

2. OGGETTIVA : Dà luogo alla possibilità del cumulo soggettivo. Essa è prevista genericamente dall’art. 103 c.p.c., che, per essere concretizzata, la legge detta una serie di deroghe alla competenza:

o Riguardo alla competenza per territorio, ex art. 33 c.p.c., la regola dei fori generali fa capo alla residenza o al domicilio del convenuto. L’attuazione del cumulo può concretarsi nel convenire più persone nello stesso processo, lasciando all’attore la facoltà di scegliere tra questi diversi fori generali.

o Riguardo alla composizione per valore, il processo cumulativo si svolgerà innanzi al tribunale, se competente per una delle cause.

Due fattispecie particolari sono quelle previste agli artt. 31 e 32 c.p.c.:

ACCESSORIETA’ – (art. 31 c.p.c.) : è il rapporto che intercorre tra 2 cause connesse oggettivamente (ma anche soggettivamente), per il quale la decisione su una di esse,

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che è detta accessoria, dipende dalla decisione sull’altra, che è detta principale. Qui la regola generale vuole che, con riguardo al territorio, il giudice competente per la causa principale è competente anche per la causa accessoria; mentre, con riguardo al valore, bisogna tenere sempre presente la somma del valore di tutte le domande.

AZIONI DI GARANZIA – (art. 32 c.p.c.) : sono le azioni con le quali una parte fa valere il suo diritto (sostanziale) di essere garantita da un terzo, ossia essere risarcita delle conseguenze della sua eventuale soccombenza. La proposizione della domanda davanti al giudice competente dà la possibilità della deroga della competenza per territorio. Se la domanda eccede la competenza per valore, questi rimette entrambe le cause al giudice superiore, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione.

Ciò che sempre ispira il giudice, quando vede 2 cause connesse che pendono davanti a lui, è la possibilità di trattarle congiuntamente. Il rilievo della connessione non può avvenire oltre la prima udienza, neanche d’ufficio. Una particolare figura di connessione è quella imperniata sul criterio della prevalenza della cognizione del giudice togato rispetto a quella del giudice di pace. Sotto il profilo del momento anteriore all’inizio del processo, l’art. 40, 6° comma c.p.c. stabilisce che se una causa di competenza del giudice di pace è connessa con una causa di competenza del tribunale, le relativa domande possono essere proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo. Sotto il profilo del momento successivo all’inizio del processo, l’art. 40, 7° comma c.p.c. dispone che il giudice di pace, con riguardo alle cause connesse, pronunci d’ufficio la connessione a favore del tribunale.

Art. 34 c.p.c. – Questioni pregiudiziali di merito: sono quelle questioni, che, pur potendo costituire oggetto autonomo di decisione, si inseriscono nell’iter logico-giuridico, che conduce alla decisione sulla domanda principale e che non si può fare a meno di affrontare per decidere quest’ultima. Solo nell’ipotesi in cui deve essere decisa per legge o per esplicita richiesta di parte la questione pregiudiziale non può essere decisa incidenter tantum.

Art. 35 c.p.c. – Eccezione di compensazione: se si eccede la competenza per valore del giudice adito, la norma dispone che, se la domanda principale è fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile, il giudice può compiere rispetto ad essa una pronuncia con riserva, rimettendo la questione sull’eccezione di compensazione del credito al giudice superiore; quando invece non sussistono quelle condizioni il giudice superiore attrae nella propria competenza l’intera causa.

Art. 36 c.p.c. – Domanda riconvenzionale: all’ipotesi di domande che eccedono la competenza per valore o materia le cause vengono attratte interamente dal giudice superiore.

La trattazione congiunta può trovare delle difficoltà nelle differenze di rito. In questa direzione la L. n°353/1990 ha aggiunto i commi 3°, 4° e 5° all’art. 40 c.p.c. Questi nuovi commi dispongono che le cause connesse vengano tutte trattate con il rito ordinario (a meno che non si tratti di cause in materia di lavoro e previdenza), che nel caso di cause tutte assoggettate a differenti riti speciali esse vengano decise col rito previsto per quella in base alla quale si determina la competenza o in subordine quella di maggior valore e che se la causa è stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile il giudice provvede in base alle norme che regolano nel processo del lavoro il passaggio da un rito all’altro. Dopo questo intervento, quindi, si ritiene che la sola ipotesi in cui non sia ammesso il simultaneus processus (oltre a quella della connessione solo soggettiva tra cause sottoposte a riti diversi) quella dell’appartenenza delle cause a diversi criteri di competenza per materia.

Per quanto riguarda la figura del giudice, possiamo dire che egli ricopre un incarico che deve essere esercitato in assoluta indipendenza, equidistanza e imparzialità rispetto alle parti. Per cui diviene importante la disciplina che regola le ragioni di incompatibilità per l’esercizio delle funzioni giudiziarie. Lo scopo finale è quello di sottrarre al giudice, inteso come

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persona fisica, il potere-dovere di giudicare nelle cause in cui di potrebbe dubitare della sua imparzialità. Ciò può avvenire attraverso 2 ipotesi:

1. Astensione : quando avviene ad iniziativa del giudice. I motivi di astensione obbligatoria sono indicati dall’art. 51, 1° comma:

o Interesse nella causa;o Parentela sua o del coniuge o rapporti di commensalità abituale o convivenza

con una delle parti o dei loro difensori;o Aver dato consiglio o prestato patrocinio o consulenza tecnica o aver conosciuto

della causa come magistrato in altro grado del processo;o Aver avuto o avere rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione con una delle

parti.

Come motivi, invece, di astensione facoltativa l’art. 51, 2° comma indica gravi ragioni di convenienza. Ovviamente l’iter di astensione si esaurisce nella richiesta, presentata al capo dell’ufficio giudiziario, dell’autorizzazione ad astenersi.

2. Ricusazione : quando una parte ha motivo di dubitare della sua imparzialità e presenta una specifica contestazione. Tale contestazione può essere effettuata, ai sensi dell’art. 52, 1° comma c.p.c., solo quando sussista un motivo di astensione obbligatoria. Il procedimento di ricusazione inizia con un ricorso, sottoscritto dalla parte o dal difensore, al presidente del tribunale o al collegio. Si dà così vita a una sorta di procedimento incidentale, che si conclude con un’ordinanza non impugnabile, con la quale viene eventualmente designato il giudice che deve sostituire quello ricusato. Nel caso di dichiarazione di inammissibilità o di rigetto, l’ordinanza provvede sulle e può condannare a una pena pecuniaria non superiore a 250€. Il ricorso per ricusazione sospende il processo.

Con particolare riferimento all’imparzialità dei giudici, va veduta la disciplina riguardante i limiti della responsabilità civile dei magistrati, configurati agli artt. 55 e 56 c.p.c., abrogati dapprima da un referendum nel 1987 e poi sostituiti con L. n°117/1988. Il problema è quello di bilanciare 3 esigenze: da una parte quello di far sì che anche i giudici, come ogni altro funzionario dello Stato possa rispondere del suo operato e dall’altra evitare che forme di responsabilità possano influenzare la loro imparzialità e distacco. Nel sistema che ha introdotto la nuova legge, i limiti alla responsabilità dei giudici investono direttamente l’estensione allo Stato della responsabilità dei giudici per il loro operato. Non si tratta di condotte costituenti reato, per i quali vigono le norme ordinarie di risarcimento. Si tratta cioè di tutte le altre condotte, per le quali l’art. 2 della legge dispone che l’azione diretta verso lo Stato è prevista per il risarcimento di un danno ingiusto conseguente ad un comportamento, ad un atto o ad un provvedimento giudiziario in quanto sia posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni. Da questi comportami la legge esclude le funzioni di interpretazione delle norme e di valutazione di fatti e prove. Il danno risarcibile è quello patrimoniale e solo nei casi di provvedimenti che limitano la libertà personale è possibile richiedere anche il danno non patrimoniale. La nozione di colpa grave è imperniata sul concetto di negligenza inescusabile. La medesima responsabilità è prevista nel caso di diniego di giustizia, cioè nei casi di rifiuto, omissione o ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio. Lo Stato, che avesse subito la condanna al risarcimento, esercita entro 1 anno dallo stesso l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato con un autonomo giudizio. Il magistrato risponderà nel massimo di una annualità dello stipendio, salvo il caso di dolo. I magistrati permangono comunque sottoposti agli eventuali provvedimenti disciplinari comminati dal Consiglio Superiore della Magistratura.

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Il giudice, nell’assolvimento della sua funzione, si avvale della collaborazione di alcuni uffici complementari, dei quali alcuni fanno parte in modo stabile dell’organizzazione giudiziaria e altri ne sono estranei. Gli organi facenti parte della struttura giudiziaria sono:

CANCELLIERE – (Artt. 57 e 58 c.p.c.) : provvede alla documentazione dell’attività giurisdizionale, redigendo i processi verbali, rilasciando copie, estratti degli atti e documenti delle parti. Iscrive le cause al ruolo e forma il fascicolo d’ufficio e dà le comunicazioni degli atti. Per la sua responsabilità vedi sotto.

UFFICIALE GIUDIZIARIO – (artt. 59 e 60 c.p.c.) : nel processo esecutivo impersona l’organo esecutivo, nel processo di cognizione assiste il giudice in udienza e provvede all’esecuzione dei suoi ordini. L’ufficiale giudiziario e il cancelliere sono civilmente responsabili, quando, senza giustificato motivo, rifiutano di compiere gli atti inerenti al loro ufficio o quando hanno compiuto un atto nullo con dolo o colpa grave

Gli organi non facenti parte della struttura giudiziaria stabile sono:

CONSULENTE TECNICO – (Art. 61 c.p.c.) : il giudice se ne serve quando ha la necessità particolari cognizioni tecniche non giuridiche. Il giudice li sceglie tra le persone iscritte in albi speciali e a loro affida i quesiti, sui quali il consulente riferisce con delle relazioni scritte o chiarimenti verbali in udienza. E’ comunque il giudice responsabile del giudizio (anche tecnico).

CUSTODE – (Art. 65 c.p.c.): gli viene affidata la conservazione e, talvolta, l’amministrazione dei beni pignorati o sequestrati. Ha diritto a un compenso, che è determinato dal giudice con decreto, e se non esegue l’incarico assunto può subire essere condannata a una pena pecuniaria.

AUSILIARI GENERICI – (Art. 68 c.p.c.) : si tratta di interpreti, traduttori, stimatori il cui compito è quello di coadiuvare il giudice nelle sue funzioni. Essi hanno diritto a un compenso determinato dal giudice con decreto.

Con riguardo alla nozione di parte, la legge non definisce il concetto di parte. Tuttavia possiamo ritenere che nel linguaggio giuridico processuale con parte facciamo riferimento ai soggetti che compiono gli atti del processo e ne subiscono gli effetti, cioè sono coloro che propongono la domanda e coloro nei cui confronti la domanda è proposta. In questo modo, la qualità di parte appare come la qualificazione soggettiva minima ma sempre presente nel processo. Le parti assumono un diverso nome a seconda dell’azione esercitata, come ad esempio attore e convenuto; appellante e appellato o ricorrente e resistente. Il termine parte è sempre usato con riferimento al diritto sostanziale che si fa valere ma allo stesso tempo prescinde da esso, visto che al termine di un giudizio una parte potrebbe risultar essere non titolare di quel diritto che faceva valere.

La qualità di parte prescinde dalla ogni altra qualificazione soggettiva diversa dalla titolarità attiva e passiva della domanda. Tuttavia la parte così generalmente individuata può essere ulteriormente qualificata. Infatti:

se la parte, che propone la domanda, ha anche la legittimazione (legitimatio ad causam) e così la titolarità dell’azione, si parla di parte legittimata;

se la parte, che propone la domanda, aveva già il potere di proporla (legitimatio ad processum), si parla di legittimazione processuale. Può essere definita come la posizione soggettiva di colui che, in quanto esercita il potere di proporre la domanda, diviene titolare della serie ulteriore dei poteri processuali.

Anche se il legislatore ha evitato di utilizzare l’espressione “legittimazione processuale”, tuttavia si riferisce a questo concetto nell’art. 75 c.p.c., quando parla dei soggetti che sono

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capaci di stare in giudizio. Quindi il legislatore è incorso in una sovrapposizione terminologica, per la quale, con la nozione di capacità di stare in giudizio, egli ha espresso sia la capacità come modo di essere psicofisico del soggetto sia la titolarità del potere di proporre o ricevere la domanda e dei poteri che ne conseguono. L’art. 75, 1° comma c.p.c. afferma che sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere. Tuttavia nel secondo comma il legislatore precisa che coloro i quali non hanno il libero esercizio dei diritti possono stare in giudizio se sono assistite, rappresentate o autorizzate secondo le norme che regolano la capacità. Quindi l’ordinamento mette a disposizione di questi soggetti lo strumento della rappresentanza legale, con la quale la legge conferisce al rappresentante il potere rappresentativo per compiere gli atti processuali in nome dell’incapace-rappresentato, manifestando però che gli effetti si producono in capo a quest’ultimo. Ciò è la c.d. contemplatio domini, che consiste nella dichiarazione palese del rappresentate di agire in nome del rappresentato. L’art. 75, 2° comma c.p.c. si riferisce però anche ai soggetti semicapaci, cioè gli inabilitati e i minori emancipati, per i quali sono previsti:

assistenza , che vede la contemporanea partecipazione di curatore e assistito, che dà luogo a una legittimazione processuale congiunta;

autorizzazione , quando lo svolgimento di determinate azioni è sottoposto ad un’autorizzazione, come quelle che provengono dal tribunale o dal giudice tutelare.

Per quanto riguarda le persone giuridiche, dobbiamo analizzare l’art. 75, 3° comma, il quale dispone che esse stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto. Qui il riferimento alla rappresentanza è molto generale, per cui si ritiene che lo stesso risultato possa essere ottenuto attraverso un altro strumento affine alla rappresentanza, che è lo strumento organico. Il titolare dell’organo non si limita a produrre effetti in capo all’ente ma realizza direttamente l’attività dell’ente. In questo caso la legittimazione processuale fa capo direttamente all’ente. Considerazioni analoghe vengono fatte dall’art. 75, 4° comma con riferimento alle associazioni, i comitati e gli enti non riconosciuti, nei confronti dei quali, però, si parla di soggettività attenuata.

In discorso particolare può essere fatto con riferimento al condominio. Esso è un ente di gestione privo di soggettività giuridica. I rappresentati dell’amministratore sono solo i partecipanti, con la limitazione alle attribuzioni proprie dell’amministratore nel campo sostanziale. Per cui si ritiene che egli sia legittimato processuale solo quando riguardi la contestazione di diritti parziari dei singoli condomini o quando si tratti di risarcimento dei danni della parti comuni. Al di fuori è esclusa, a meno che essa non venga conferita. Nel caso in cui il condominio è convenuto, l’amministratore è processualmente legittimato senza limiti, purché si tratti di controversie sulle parti comuni, salvo l’obbligo di dare tempestive comunicazioni. A questa è assimilabile la legittimazione nelle multiproprietà.

In particolari situazioni contingenti, come nel caso in cui manchi la persona alla quale spetti la rappresentanza o l’assistenza ed esistano ragioni di urgenza, l’art. 78, 1° comma prevede la nomina, su istanza dell’interessato, dei suoi prossimi congiunti o del P.M., di un curatore speciale con i poteri di rappresentanza o di assistenza provvisori, cioè finché subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l’assistenza.

Oltre allo strumento della rappresentanza legale, il nostro ordinamento prevede anche la forma della rappresentanza volontaria, in cui il potere rappresentativo è conferito dal titolare del diritto attraverso il negozio della procura. Però, l’art. 77 c.p.c. dispone che il rappresentante volontario non può agire come tale anche nel processo se non ha ricevuto un’apposita procura, per iscritto e in modo espresso, proprio per agire anche nel processo. La qualità di rappresentante nel campo sostanziale è un requisito necessario ma non sufficiente. Questa non sufficienza ha delle eccezioni, per le quali in casi particolari il rappresentante volontario ha la

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rappresentanza processuale anche se non gli è stata conferita espressamente per iscritto. Ciò avviene in 2 ipotesi, che vengono prese in considerazione dall’art. 77 c.p.c., e che sono:

1. Art. 77, 1° comma: quando si tratti di atti urgenti e misure cautelari;2. Art. 77, 2° comma: quando tale potere si presume conferito al procuratore generale di

chi non ha residenza o domicilio nella repubblica e all’institore.

Se il soggetto, che agisce in giudizio in nome altrui, è privo della legittimazione processuale rappresentativa si chiama falsus procurator. Egli non produce effetti in capo a colui che sembra rappresentato. Ciò non impedisce che la sua domanda produca effetti in capo al falsus procurator. Tuttavia questo procedimento, nel caso in cui il vizio sia stato rilevato e non sanato, deve arrestanti alla pronuncia del difetto del contraddittorio. Se il vizio non è stato rilevato ed è stata pronunciata la sentenza, questa riguarderà il rappresentato solo apparentemente; ed è un’apparenza che non può essere modificata nemmeno dalla ratifica. Quindi, il difetto di rappresentanza, ai sensi delle modifiche apportate dalla L. n°69/2009, è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio. La sanatoria si realizza attraverso la ratifica, cioè con la costituzione del rappresentante legittimato o dei soggetti che devono dare assistenza o ricevere le relative autorizzazione, che deve avvenire nel termine perentorio assegnato alle parti dal giudice (art. 182, 2° comma c.p.c.).

Nel caso in cui manchi solo l’autorizzazione, poiché questo investe non l’esistenza dei poteri ma solo il loro esercizio, si ammette sanatoria. Quando invece condiziona il potere di agire il difetto di autorizzazione implica difetto di legittimazione processuale e nullità rilevabile d’ufficio.

Per quanto riguarda le disfunzioni dello strumento organico, occorre distinguere, occorre distinguere l’eventuale erronea indicazione della persona fisica dall’indicazione di un organo o ufficio privo di poteri. Nel primo caso l’errore è sanabile. Nel secondo caso non sembra che questo sia possibile. Per quanto riguarda le disfunzioni dell’assistenza, la giurisprudenza ritiene che sia possibile l’utilizzabilità della ratifica.

Le parti, per compiere gli atti del giudizio, si avvalgono molte volte della collaborazione di altri soggetti, che sono i difensori. Ciò è dovuto, da una parte, all’elevate tecnicismo del processo, e, dall’altra, ad evitare che si operi in modo emotivamente coinvolti. Quando si parla di difensori in realtà facciamo riferimento a 2 figure:

1. Procuratori , i quali svolgono l’attività di ministero di difensore;2. Avvocati , i quali svolgono l’attività di assistenza di difensore.

Ad opera delle L. n°27/1997 è venuta meno la distinzione professionale tra queste 2 figure. Infatti, è stato soppresso l’albo professionale dei procuratori legali, che è confluito in quello degli avvocati. L’art. 82 c.p.c. dispone che la parte può stare in giudizio personalmente:

davanti al giudice di pace nelle cause il cui valore non ecceda i 516,46€; davanti al giudice di pace, quando questi, tenuto conto della natura e dell’entità della

causa, autorizza, con decreto emesso anche su istanza verbale della parte, la parte a stare in giudizio di persona.

La parte può stare in giudizio personalmente anche quando ha la qualità necessaria per esercitare l’ufficio di difensore, come disposto dall’art. 86 c.p.c., e senza alcuna autorizzazione quando si applica il rito speciale del lavoro e la causa non ecceda il valore di 129€. In tutti gli altri casi la parte deve essere rappresentata da un avvocato. In particolare, nei giudizi Davanti alla Corte di Cassazione egli deve essere iscritto nell’apposito albo. Gli uffici di ministero e assistenza di difensore possono essere assegnati separatamente ma nulla vieta che vengano dati alla stessa persona.

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L’attività del ministero di difensore, secondo l’art. 84 c.p.c., consiste nel potere dell’avvocato di compiere e ricevere, nell’interesse della parte, tutti gli atti del processo che la legge non riserva espressamente ad essa. In ogni caso non può compiere gli atti che importano disposizione del diritto in contesa, se non ne ha ricevuto l’apposito potere. Poiché l’art. 75 c.p.c. conferisce questi poteri processuali alla parte, vuol dire che l’attività del difensore si configura solo in quanto la parte lo abbia designato. Tale designazione è necessaria alla parte per l’esercizio di quei poteri, che la legge comunque le attribuisce. La designazione avviene attraverso la procura, la quale, per rendere valido il contratto d’opera, deve contenere l’informazione per l’assistito di poter ricorrere alla procedura di mediazione con certi sgravi fiscali, ai sensi del D. Lgs. n°28/2010. La procura può essere di 2 tipi:

1. Generale o alle liti, se si riferisce genericamente a una serie indefinita di liti o a tutte le possibili liti;

2. Speciale o alla lite, se si riferisce alla singola lite.

La procura poi deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Quando la procura è speciale, può essere apposta da persona munita di poteri individuabile dalla sottoscrizione o intestazione dell’atto a margine dei documenti che contengono gli atti del processo, con autenticazione da parte dello stesso difensore. Da precisare che la procura in calce o a margine non è valida se è rilasciata fuori dal territorio dello Stato, occorrendo l’autenticazione, ma la certificazione da parte di procuratore esercenti in Italia fa presumere che il rilascio sia avvenuto in Italia, salva prova contraria. Invece la procura notarile rilasciata all’estero è valida, purché sia avvenuta secondo la legge del luogo. Infine possiamo dire che la mancanza della certificazione dell’autografia da parte del difensore non è ritenuta motivo di nullità se la procura è inserita in un atto sottoscritto dal difensore. La procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell’atto non è espressa volontà diversa. Può comprendere la facoltà di nominare sostituti o altri difensori e può essere sempre revocata dalla parte o il difensore può rinunciarvi. La revoca e la rinuncia non hanno effetti nei confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione, come disposto dall’art. 85 c.p.c. Con riguardo alla procura dell’attore, l’art. 125 c.p.c. dispone che può essere rilasciata anche dopo la notificazione dell’atto di citazione, purché sia fatta prima della costituzione. In alcuni casi la designazione del difensore avviene direttamente per legge, come nel cado dell’amministrazione dello Stato, che è difesa dall’avvocatura dello Stato, o tramite un particolare provvedimento come nel caso del patrocinio a spese dello Stato. Questo patrocinio è ammesso, per i soggetti con un reddito inferiore a 9300€, quando la parte interessata ne abbia fatto esplicita richiesta e la sua pretesa non appaia manifestamente infondata. Lo Stato ha comunque un’azione di rivalsa nel caso in cui gli siano state liquidate delle somma dalla parte controparte soccombente. Chi vi è ammesso può scegliere un avvocato tra quelli che siano in possesso di determinati requisiti. La Corte Costituzionale ha escluso i praticanti avvocati dalla possibilità di essere nominati. Se il difensore agisce senza procura, egli assume la qualità di parte con tutte le conseguenti responsabilità anche con riguardo alle spese. La procura funziona come la rappresentanza, tant’è che si parla di rappresentanza tecnica. Tuttavia rispetto ad essa presenta delle differenze:

1. il difensore ha più autonomia tecnica del rappresentante;2. il difensore non ha alcuna autonomia nel disporre direttamente dei diritti in contesta.

Per quanto riguarda invece l’avvocato, questi svolge il suo compito di assistenza di difensore in modo più marginale con riferimento al processo ma sicuramente svolge al di fuori un ruolo fondamentale. Egli, infatti, opera in persona propria a favore della parte, svolgendo tutti gli argomenti difensivi necessari per determinare il convincimento del giudice.

L’art. 87 c.p.c. prende in considerazione la figura dell’assistenza del consulente tecnico, ovviamente di parte. La legge consente alle parti di nominarlo nei casi in cui il giudice, dovendo

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risolvere questioni tecniche, nomina un consulente tecnico d’ufficio. Il consulente tecnico svolge le attività dell’avvocato limitatamente al piano tecnico.

Nel c.p.c. sono presenti dei doveri delle parti. Un primo esempio ci è dato dall’art. 88, 1° comma c.p.c., il quale dispone che le parti e i loro difensori devono comportarsi in giudizio con lealtà e probità, tant’è che dal loro contegno il giudice può trarne argomenti di prova. Con riferimento ai difensori, il 2° comma prevede l’obbligo del giudice di riferire alle autorità che esercitano il potere disciplinare su di loro in caso di violazione. Poi l’art. 89 c.p.c. dispone il divieto delle parti e dei loro difensori di usare frasi sconvenienti od offensive, prevedendo la cancellazione delle espressioni e con la sentenza che decide la causa l’assegnazione alla persona offesa di una somma a titolo di risarcimento, se le espressioni non riguardano l’oggetto della causa.

Per quanto riguarda le spese processuali, esse consistono negli oneri fiscali e di compenso dei difensori, consulenti tecnici, oltre che negli altri oneri coordinati con l’attività dell’ufficio, come le spese di cancelleria e i compensi agli ufficiali giudiziari. A questo punto si pongono 2 problemi:

CHI ANTICIPA LE SPESE? : l’art. 8 D.P.R. n°115/2002, abrogando l’art 90 c.p.c., dispone che ciascuna parte provvede alle spese degli atti processuali (compreso il compenso del difensore) che compie e che chiede e le anticipa se la legge o il magistrato le pongono a suo carico.

CHI SOPPORTO IL CARICO DEFINITIVO DELLE SPESE? : ai sensi dell’art. 91 c.p.c., il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Tuttavia ci sono spese di onorario che non sono ripetibili dal difensore della parte vittoriosa nei confronti di quella soccombente. Essendo dispensato dal pagamento delle spese processuali, la parte vittoriosa riesce in questo modo ad avere una piena ed effettiva tutela giurisdizionale del suo diritto. Ma non è ingiusto addossare le spese a carico della parte soccombente, che nonostante tutto stava esercitando solo il suo diritto alla tutela giurisdizionale? Il problema è che queste spese devono pur essere pagate qualcuno ed ovviamente la logica vuole che cadano sulla parte soccombente: questa è la c.d. regola victus victori, che vuole che tali spese non siano considerate come una sanzione ma come aventi la funzione di autoresponsabilità nel momento in cui si decide di agire o resistere in giudizio. De jure condendo si è cercato di superare questa regola ed effettivamente nel diritto vivente è ormai possibile notare casi in cui si è giunti alla compensazione delle spese nelle ipotesi di soccombenza reciproca, complessità della causa o di novità delle questioni decise. La L. n°69/2009 ha aggiunto un 2° comma all’art. 91, il quale stabilisce che se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, egli condanna la parte che ha rifiutato senza motivo tale proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta.

La regola della soccombenza presenta delle eccezioni, che l’art. 92 c.p.c. ammette con una serie di poteri del giudice, il quale può:

o ridurre, in sede di liquidazione, la ripetizione delle spese che ritiene eccessive o superflue;

o sanzionare col rimborso delle spese anche non ripetibili ed indipendentemente dalla soccombenza il comportamento posto in violazione dei doveri di lealtà e probità;

o compensare discrezionalmente le spese tra le parti quando vi è soccombenza reciproca tra i vari punti della decisione;

o compensare le spese tra le parti quando concorrono gravi ed eccezionali ragioni (da motivare) che giustifichino tale compensazione.

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La regola della soccombenza può essere resa più rigorosa, fino ad assumere i caratteri propri di un risarcimento danni, quando si verifica la fattispecie della c.d. responsabilità aggravata. Essa è prevista dall’art. 96 c.p.c., il quale dispone che si verifica quando la parte soccombente abbia agito (in caso di soccombenza dell’attore) o resistito in giudizio (in caso di convenuto) con mala fede o colpa grave, per soli scopi dilatori e defatigatori. E’ ciò che viene definita temerarietà della lite. Con riguardo ai procedimenti esecutivo e cautelare, la responsabilità aggravata consiste nell’avvalersi di un titolo esecutivo o provvedimento cautelare infondati (o senza la normale prudenza). Infine questo articolo prevede una sorta di temerarietà attenuata, quando viene attribuito al giudice il potere, che può esercitare anche d’ufficio, di condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata. Particolari figure di responsabilità si hanno per i rappresentanti e i curatori, ex art. 94 c.p.c., che possono essere condannati alle spese per motivi gravi se violano i doveri di lealtà. Infine l’art. 93 c.p.c. prevede la possibilità della c.d. distrazione delle spese, per la quale il compenso al difensore è dovuto solo dal suo rappresentato o assistito, salvo nel caso della sua vittoria, che gli permette di ottenere il diritto al rimborso nei confronti del soccombente. In questo modo il difensore ha una maggiore garanzia nel conseguire il suo compenso. Il difensore, se viene accolta l’istanza di distrazione, diviene creditore diretto della controparte soccombente. Una sentenza della Corte Costituzionale nel 1960 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 98 c.p.c., che prevedeva la c.d. cautio pro expensis, cioè il deposito di una cauzione da parte di chi era ammesso al gratuito patrocinio, quando sussisteva fondato timore che l’eventuale condanna alle spese sarebbe rimasta ineseguita.

La pluralità di parti nel processo comporta il realizzarsi del fenomeno del litisconsorzio, cioè del caso in cui ci sono più attori e più convenuti. Il litisconsorzio può essere:

NECESSARIO : In questo caso si configura un’ipotesi di legittimazione ad agire necessariamente congiunta. Ai sensi dell’art. 102 c.p.c., si verifica quando la decisione non può pronunciarsi che nei confronti di più parti e in tal caso queste devono agire o essere convenute nello stesso processo. Ciò vuol dire che il giudice non può decidere sul merito e deve ordinare l’integrazione del contraddittorio, il quale deve avvenire nel termine perentorio da lui stabilito, pena l’estinzione del processo. Qualora il giudice si sia comunque pronunciato nonostante la necessarietà del litisconsorzio, la sentenza pronunciata sarà inutiliter data, cioè non produrrà effetti né nei confronti del litisconsorte pretermesso né nei confronti delle parti costituite. Riguardo alla sentenza inutiliter data, si ha notevole dottrina che ha cercato di spiegarla. C’è, quindi, chi la ritiene come inesistente, chi una sentenza nulla, chi la ritiene annullabile attraverso l’opposizione di terzo. Se, nonostante la plurisoggettività del rapporto, una pronuncia può regolare i rapporti di alcuni, il litisconsorzio non è necessario.

FACOLTATIVO : si verifica quando sussistono ragioni di opportunità per la partecipazione congiunta dei più soggetti nel medesimo processo, senza che la legge lo imponga. Esso è previsto dall’art. 103 c.p.c., che dispone che si possa verificare quando le cause sono connesse oggettivamente o quando 2 azioni vengono esercitate nello stesso processo. Un aspetto particolare del litisconsorzio facoltativo è dato dal litisconsorzio alternativo, caratterizzato da un medesimo petitum verso più soggetti in alternativa tra loro (passivo) o dallo stesso petitum di più soggetti in alternativa tra loro contro lo stesso convenuto (attivo). Infine, se l’identità di petitum e causa petendi esigono lo svolgimento formale e sostanziale del processo in un unico giudizio, si suole parlare di litisconsorzio unitario.

Il litisconsorzio, oltre che verificarsi all’atto dell’inizio del processo, può verificarsi anche a processo già instaurato, prendendo il nome di intervento. Ciò accade attraverso l’ordine di integrazione del contraddittorio previsto dall’art. 102 c.p.c. La ragione pratica sta nel fatto che la posizione del terzo potrebbe subire delle conseguenze indirette dalla sentenza altrui. Attraverso l’intervento, il terzo acquista la qualità di parte, determinando spesso un

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ampliamento dell’oggetto processuale. Quindi la legge se occupa, cercando di stabilire in quali casi è ammissibile ricorrere a questo istituto, cioè se ne occupa nell’ambito della legittimazione ad intervenire o a far intervenire. Entrando più nelle specifico, possiamo vedere che esistono 2 tipi di intervento:

1. VOLONTARIO : è disciplinato dall’art. 105 c.p.c. L’intervento del terzo può avvenire quando questi voglia far valere un diritto che egli afferma essere oggettivamente connesso con quello che costituisce oggetto del processo già pendente, perché ritiene che possa risentire delle conseguenze derivanti da quel processo di cui non è parte. Il terzo, qualora non intervenisse, potrebbe, alla fine del processo, proporre l’opposizione di terzo, ex art. 404 c.p.c. A sua volta, l’intervento volontario si distingue in intervento

a. principale , quando l’interveniente afferma un diritto in confronto di tutte le parti, cioè un diritto incompatibile con quelli fatti valere dall’attore o dal convenuto. Esso è previsto nel 1° comma dell’art. 105 c.p.c;

b. litisconsortile o adesivo autonomo, quando l’interveniente faccia valere il suo diritto affermato in confronto di alcune parti. In questo caso il terzo assume una posizione autonoma nei confronti di sole alcune parti;

c. intervento adesivo o adesivo dipendente, quando l’interveniente sostiene le ragioni di una delle parti, avendo un proprio interesse nella causa. Tale interesse consiste in una generica aspettativa di vantaggio che il terzo si aspetta dell’accoglimento della domanda, quindi un vantaggio che non è autonomo ma che dipende dalla posizione della parte che ha sostenuto.

2. COATTO : si ha quando l’intervento del terzo viene chiamato in giudizio attraverso la sua citazione. Non è una coazione né fisica né giuridica. La sola citazione gli fa assumere la qualità parte e ciò permette che la pronuncia faccia effetto anche nei suoi confronti. Si distinguono 2 tipi di intervento coatto:

a. coatto su istanza di parte : previsto nell’art. 106 c.p.c., si verifica quando una parte chiama nel processo un terzo, perché ritiene comune la causa (intervento coatto in senso proprio) o perché pretende di essere garantito dallo stesso (intervento coatto con chiamata in garanzia). Se poi ci facciamo caso, le ragioni che legittimano la chiamata sono le stesse che legittimano il terzo all’intervento volontario in tutte e 3 le sue forme. Lo scopo è sempre quello: far sì che il terzo assumi la qualità di parte e che il provvedimento che decide la causa sia efficace anche nei suoi confronti.

b. coatto per ordine del giudice : è previsto nell’art. 107 c.p.c., si verifica quando il giudice ordina l’intervento del terzo perché ritiene che il processo si debba svolgere anche nei suoi confronti, in quanto la causa è comune. L’ordine del giudice, però, non è riferito al terzo ma alle parti. Sarà una di queste, mediante citazione, a chiamare in giudizio il terzo. Ovviamente la parte che ottempera a questo ordine è quella che ha interesse ad evitare le conseguenze previste dall’art. 270 c.p.c., che sono la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione del processo. Diciamo che le ragioni che spingono il giudice ad emanare l’ordine di intervento sono quelle di economia dei giudizi, allo scopo di garantire unità e uniformità di decisione sui rapporti connessi, oppure quelle di tener in conto la tutela delle ragioni del terzo. L’ordine di chiamata va tenuto distinto dall’ordine di integrazione del contraddittorio in caso di litisconsorzio necessario, perché in questo caso il litisconsorzio necessario è la causa dell’ordine del giudice mentre nell’intervento il litisconsorzio è conseguenza dell’ordine di chiamata. Il requisito affinché il giudice possa procedere all’ordine di chiamata è la comunanza della causa.

L’estromissione è il fenomeno inverso dell’intervento e consiste nell’uscita di una parte dal processo, per effetto di una pronuncia del giudice. L’uscita si verifica per effetto di un

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provvedimento del giudice che riscontra il difetto dei presupposti sui quali si fonda la presenza della parte nel processo. Il codice regola espressamente 2 casi di estromissione:

1. Estromissione del garantito - (art. 108 c.p.c.) : è l’ipotesi che il garante compaia e accetti di assumere la causa in luogo del garantito. In questo caso, si può disporre l’estromissione del garantito con ordinanza, a condizione che le altre parti non si oppongano e fermo restando che la sentenza produrrà effetti anche nei confronti dell’estromesso. Il processo prosegue così contro il garante, che assume la veste di sostituto processuale del garantito.

2. Estromissione dell’obbligato - (art. 109 c.p.c.) : si ha quando l’obbligato non contesta la sua obbligazione a favore della parte creditrice, su cui ancora si controverte. Se l’obbligato si dichiara pronto ad eseguire la prestazione, il giudice può ordinare il deposito della cosa o della somma dovuta e, dopo il deposito, può estromettere l’obbligato dal processo. Si ritiene che anche in questo caso la sentenza produca efficacia nei confronti dell’obbligato estromesso.

Tra i fenomeni che implicano mutamenti nella posizione delle parti anche la successione. Nel campo sostanziale, la successione a titolo universale si verifica per causa di morte o per eventi assimilabili come l’estinzione della persona giuridica. L’analisi di questo fenomeno si pone con riguardo al caso in cui si apra una successione universale durante la pendenza di un processo. Facciamo quindi riferimento al caso particolare della successione nel processo. La soluzione del problema è implicita nella nozione di successione universale. Infatti se successione universale significa subingresso in tutti i diritti, esclusi quelli non trasferibili, che appartenevano al de cuius, e se la posizione processuale del de cuius ha una sua autonoma consistenza giuridica, allora vuol dire che anche questa posizione giuridica processuale può essere trasmessa al suo successore universale. Non si tratta del subingresso nel diritto sostanziale ma nella posizione processuale corrispondete all’affermazione di quel diritto. Ciò è confermato dall’art. 110 c.p.c. che dispone appunto che il processo è proseguito dal successore universale o è proseguito nei suoi confronti.

Per quanto riguarda l’estinzione delle persone giuridiche sono da ricordare 2 sentenze della Cassazione del 2006, che hanno dato un’interpretazione precisa dell’art. 2504bis c.c. nella direzione di considerare l’incorporazione o la fusione di società non come eventi estintivi della personalità giuridica ma come eventi modificativi. Ciò ha sicuramente un’importante influenza anche sul piano processuale, perché vorrebbe dire far salvala prosecuzione di tutti i loro rapporti, compresi quelli processuali; che poi del resto è lo stesso contenuto che possiamo ravvisare nella norma.

Il subingresso avviene solo attraverso un’autonoma iniziativa del successore che prende il nome di riassunzione, quando è compiuta dall’altra parte nei confronti del successore, o spontanea costituzione, quando è compiuta dal successore stesso.

Un altro fenomeno successorio è quello della successione a titolo particolare, che si verifica per atto tra vivi o per causa di morte attraverso un legato. Da questo fenomeno emerge l’istituto della successione a titolo particolare nel diritto controverso, di cui si occupa l’art. 111 c.p.c., che si applica quando la successione avviene nel momento in cui il diritto è oggetto di controversia nel processo. In questi casi l’art, 111 c.p.c. prevede 2 ipotesi:

1. Se il trasferimento avviene con per atto tra vivi, il processo prosegue tra le parti originarie, per cui l’alienante continua ad essere parte in giudizio per un diritto che non è più suo. Si ha un caso di legittimazione straordinaria. (1° comma)

2. Se il trasferimento avviene a causa di morte, il processo è proseguito dal successore universale o nei suoi confronti (2° comma). Da notare che la parte che prosegue il processo è il successore universale, cioè l’erede e non il legatario. Quindi assume la stessa posizione dell’alienante, cioè di legittimato processuale in senso ampio.

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Il 3° comma dell’art. 111 c.p.c. prevede che il successore a titolo particolare possa intervenire nel giudizio. Se si verifica questa possibilità, il successore universale o l’alienante possono essere estromessi. Da precisare che comunque la sentenza pronunciata in queste ipotesi produce effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salvo le norme sull’acquisto in buona fede dei terzi e sulla trascrizione (4° comma).

Per completare l’analisi dei soggetti che operano nel processo, dobbiamo fare riferimento alla figura del Pubblico Ministero (P.M.). La funzione che egli esercita è quella di tutelare determinati diritti che l’ordinamento ritiene di sottrarre, in varia misura, alla disponibilità dei loro titolari, perché ritenuti rilevanti sul piano pubblicistico. I P.M. sono magistrati che si collocano nella magistratura requirente, che, ai sensi dell’art. 75 dell’ordinamento giudiziario, hanno il compito di vegliare all’osservanza delle leggi, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci, nonché promuovere la repressione dei reati e l’applicazione delle misure di sicurezza. La legge configura 3 distinte posizioni, che il P.M. può assumere nel processo:

o P.M. ATTORE : è la posizione che il P.M. assume in tutte quelle situazioni che sono caratterizzate dal massimo grado si intensità dell’interesse pubblico. Essendo diritti che non appartengono al P.M., egli assume una posizione di legittimato straordinario. Infatti, ai sensi dell’art. 69 c.p.c., egli esercita l’azione civile nei casi stabiliti dalla legge, come ad esempio l’opposizione e l’impugnazione del matrimonio, l’interdizione e l’inabilitazione o la dichiarazione di fallimento.

o P.M. INTERVENIENTE NECESSARIO : questa ipotesi è prevista dall’art. 70, 1° e 2° comma c.p.c., che dispone che il P.M. deve intervenire a pena di nullità rilevabile d’ufficio:

nelle cause che egli stesso potrebbe proporre; nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi; nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone; negli altri casi previsti dalla legge; in ogni causa davanti alla Corte di Cassazione.

Si tratta, dal punto di vista tecnico di una figura particolare di litisconsorzio necessario. Per poter intervenire, il P.M. deve essere messo nelle condizioni di farlo. Per questo motivo l’art. 71 c.p.c. dispone l’obbligo del giudice di trasmettere a lui gli atti del processo. Il suo intervento può avvenire fino al momento che precede il giudizio e ciò ha portato, nelle maggior parte delle ipotesi, a ridurre il suo intervento alla formulazione delle sue conclusioni. Possiamo precisare che l’intervento del P.M. è necessario quando si tratti, nella maggior parte delle volte, di materie da decidersi da parte del collegio

o P.M. INTERVENIENTE FACOLTATIVO : l’art. 70, ultimo comma c.p.c. dispone che il P.M. può intervenire in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse. E’ quindi il P.M., che discrezionalmente decide quando e in quali materie intervenire. Si ha un generico affidamento alla sua valutazione. Nel caso in cui intervenisse la posizione che verrà ad assumere è quella di P.M. interveniente necessario.

Per quanto riguarda i poteri del P.M., dagli stessi che le posizioni del P.M. sono sostanzialmente 2:

1. P.M. che ha proposto o che avrebbe potuto proporre l’azione : in quanto investito, dalla legge, della titolarità di una azione, non può non ricevere, dalla legge stessa, tutti i poteri inerenti all’esercizio di tale azione, cioè tutti i poteri della parte legittimata, nessuno escluso. Sicché il P.M. può formulare delle domande in modo autonomo dalle parti o proporre impugnazioni nella loro inerzia (art. 72, 1° comma c.p.c.).

2. P.M. interveniente in ogni altro caso : non essendo titolare di un’autonoma azione, il P.M. è influenzato da questa mancanza di autonomia. Infatti, l’art. 72, 2° comma dispone che

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il P.M. interveniente può produrre documenti, dedurre prove e può prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti. Può proporre impugnazioni contro le sentenze relative a cause matrimoniali.

L’art. 73 c.p.c. estende ai P.M. le disposizioni relative all’astensione del giudice, ma non quelle relative alla ricusazione.

Il processo si configura come l’insieme dei vari atti processuali, per cui descrivere questi atti vuol dire descrivere il processo stesso. Perciò è fondamentale la disciplina delle forme degli atti processuali. Quindi sono importanti 2 concetti:

Forma dell’atto giuridico , con cui si intende il suo manifestarsi in un comportamento esteriore oggettivamente apprezzabile ed individuabile;

Contenuto dell’atto giuridico , con cui si intende il contenuto dell’estrinsecazione dell’atto.

Sono, cioè, 2 facce della stessa medaglia, per cui qualcuno parla di disciplina della forma-contenuto. Al di fuori della disciplina formale, rimane la legge sostanziale, che configura l’efficacia degli atti in dipendenza e correlazione con l’osservanza della disciplina della formazione e manifestazione della volontà. La disciplina degli atti del processo, invece, non si occupa né della formazione né della manifestazione della volontà. Essa si occupa degli atti solo sotto il profilo del loro scopo obbiettivo, per cui se questa disciplina è rispettata, l’atto non può non raggiungere il suo scopo obbiettivo. Certo la loro validità ed efficacia dipende da forme ben precise. In questa direzione emerge l’applicazione del c.d. principio della strumentalità delle forme o congruità delle forme allo scopo, che afferma che gli atti del processo sono disciplinati dal legislatore con le forme più idonee al conseguimento del loro scopo obbiettivo. In questo modo non si degenera in un mero formalismo, in quanto le forme devono essere rispettate se ed in quanto siano necessarie a conseguire lo scopo obiettivo, altrimenti possono essere anche trasgredite. Ciò può essere tratto dall’art. 121 c.p.c., che, rubricato “Libertà delle forme”, dispone che gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo. Alcune regole generali sono:

Art. 122 c.p.c.: prevede l’uso della lingua italiana, con l’eventuale nomina di interpreti; Art. 123 c.p.c.: prevede la nomina dei traduttori, in caso di documenti non scritti in

italiano; Art. 124 c.p.c.: prevede un interprete speciale per l’interrogazione di sordi e muti.

Gli atti possono avere forma scritta od orale e anche informatica. In linea di massima sono orali tutti gli atti che si svolgono con la contemporanea presenza fisica delle parti innanzi al giudice, dei quali la legge, molte volte, prescrive che venga redatta una documentazione scritta, che prende il nome di processo verbale, e contiene le principali informazioni del processo, come il nome delle parti intervenute, delle circostanze di luogo e di tempo in cui gli atti sono stati compiuti, nonché delle dichiarazioni ricevute. (art. 126 c.p.c.). I momenti in cui avvengono i contatti tra il giudice, le parti e/o i loro difensori si chiamano udienze. Esse sono dirette dal giudice singolo o dal presidente, i quali regolano la discussione che è privata quando si tratta del G.I., e pubblica, quando si tratta di udienza in cui si discute la causa. Può svolgersi anche a porte chiuse se ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume lo richiedano (artt. 127 e 128 c.p.c.). L’art. 129 c.p.c. dispone che chi interviene all’udienza non può portare armi o bastoni, deve essere a capo scoperto ed in silenzio. Il cancelliere redige processo verbale sotto la direzione del giudice ed entrambi lo sottoscrivono (art. 130 c.p.c.). L’art. 125 c.p.c. dispone che tutti gli atti del processo della parte, come ad esempio ricorso, comparsa, controricorso, debbano essere sottoscritti dalla parte, se sta in giudizio personalmente, o dal difensore. Essa è fondamentale perché da essa si desume l’autenticità dell’atto.

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I termini sono i periodi di tempo, stabiliti dalla legge, per il valido compimento degli atti del processo. Nel disporre per ciascun atto il termine per il suo compimento, il legislatore si è ispirato a criteri di ragionevolezza ed opportunità per ottenere finalità:

o Acceleratrici : come i termini previsti per le impugnazioni. Questi vengono detti termini finali e, sulla base delle conseguenze della loro inosservanza, possono essere definiti:

Perentori, quando la loro decorrenza produce la decadenza dal potere di compiere quel determinato atto. Essi non possono essere abbreviati o prorogati con l’accordo delle parti (art. 153, 1° comma c.p.c.). La L. n°69/2009 ha aggiunto un altro comma che dispone che la parte, che è incorsa nella decadenza, può chiedere la rimessione in termini, purché la parte dimostri che sia stata dovuta a una causa ad essa non imputabile (art. 184bis c.p.c.). Un termine non può essere considerato perentorio se non quando la legge lo qualifica espressamente come tale (art. 152 c.p.c.).

Ordinatori, quando l’inosservanza non produce alcuna decadenza, se non a seguito di una valutazione discrezionale del giudice. L’art. 154 c.p.c. prevede la possibilità di abbreviarli o prorogarli da parte del giudice.

La conseguenza del mancato compimento dell’atto nel termine finale comporta la decadenza (che si verifica automaticamente o con previa valutazione del giudice) dal potere di compiere quell’atto. La decadenza dà luogo alla preclusione, che è la perdita, l’estinzione o la consumazione di una facoltà processuale. Essa è di solito irreversibile salva la possibilità, nei casi previsti dalla legge, della restituzione o rimessione in termini.

o Dilatorie : come i termini previsti per comparire.

Per quanto riguarda il computo dei termini: se si tratta di termini a mesi o anni, si osserva il calendario comune. Nel computo dei termini a giorni o ad ore, si escludono il giorno o l'ora iniziale mentre si calcolano quelli finali. Non si tiene conto del fatto che alcuni giorni compresi nel termine siano festivi ma, se il giorno di scadenza è festivo, questa è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo (art. 155 c.p.c.). Se la legge indica un termine riferendosi ad un certo numero di giorni liberi, come nel caso del termine di comparizione, si esclude dal computo sia il giorno iniziale sia quello finale. Tutti i termini processuali si sospendono dal 1 agosto al 15 settembre di ogni anno, escluse le cause in materia alimentare, i procedimenti cautelari, l’opposizione all’esecuzione, la dichiarazione e la revoca fallimento, cause del lavoro e previdenziali.

Gli atti giuridici processuali con i quali il giudice assolve alla sua funzione decisoria giurisdizionale si chiamano provvedimenti. L’art. 131 prevede 3 tipi di provvedimenti:

1. Sentenza, prescritta per i provvedimenti che assolvono alla funzione decisoria sul merito o sul rito del giudizio;

2. Ordinanza, prescritta con funzione ordinatoria interna al processo, è utilizzata quando il provvedimento presuppone lo svolgimento di un contraddittorio tra le parti;

3. Decreto, prescritta con funzione ordinatoria interna al processo, è utilizzata quando non è necessario lo svolgimento di un contraddittorio.

In mancanza di tali prescrizioni, i provvedimenti sono dati nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo. Secondo l’art. 111 Cost., tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, in modo più o meno intenso a seconda del provvedimento.

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La sentenza è il provvedimento col quale il giudice assolve alla funzione giurisdizionale decisoria. Al seconda dell’aspetto che prendiamo in considerazione possiamo avere:

Sentenza di mero accertamento, quando accerta il diritto, assolvendo ad un’esigenza di certezza determinata dalla contestazione o dal vanto;

Sentenza di condanna, quando oltre all’accertamento c’è l’esigenza di un’ulteriore tutela mediante esecuzione forzata;

Sentenza costitutiva, quando, dopo aver accertato un diritto ad una modificazione giuridica, assolve all’esigenza di tutela mediante tale modificazione.

Ovviamente potranno essere sentenze di rigetto o accoglimento della domanda. Inoltre essa può essere definitiva (se il giudice con essa si pronuncia sul merito della causa) o non definitiva (se il giudice con essa si pronuncia su una questione pregiudiziale). Ai sensi dell’art. 132 c.p.c., la sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano e deve contenere:

o l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata;o l’indicazione delle parti e dei loro difensori;o le conclusioni del P.M. e delle parti;o la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione;o il dispositivo, la data di deliberazione e la sottoscrizione del giudice. La sentenza

emessa da un organo collegiale è sottoscritta soltanto dal presidente e dal giudice che redige la sentenza. Se il presidente non può sottoscrivere, la sottoscrive il componente del collegio più anziano. Se l’estensore non può sottoscrivere, basta la sottoscrizione del solo presidente, purché sia menzionato l’impedimento. La mancanza delle sottoscrizioni dà luogo alla nullità assoluta ed insanabile. E’ quindi un elemento richiesto a pena di inesistenza.

Non è necessario che tali elementi seguano un ordine rigoroso. La cosa importante è che, dal contesto della sentenza, ciascuno di essi possa essere desunto con certezza. Per eventuali omissioni, che non diano luogo ad assoluta incertezza, si può ovviare col procedimento di correzione degli errori materiali. Il difetto di un requisito, essenziale per il raggiungimento dello scopo, dà luogo ad un vizio che si può far valere con i mezzi di impugnazione, cioè con la trasformazione dei vizi di nullità in motivi di gravame.

La sentenza, stesa e sottoscritta, viene depositata nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata. Il cancelliere vi apponendo la sua firma e la data. In questo modo è svolta la pubblicazione della sentenza, che diviene efficace. Entro 5gg dalla pubblicazione, il cancelliere ne dà notizia alle parti, mediante biglietto o posta elettronica certificata. E’ questa la comunicazione della sentenza. La data di pubblicazione costituisce il momento a partire dal quale decorrono i termini per la proposizione delle impugnazioni ordinarie in mancanza della notificazione, mentre la data della notificazione costituisce il giorno da cui decorrono i termini per le impugnazioni in generale. Quanto al momento in cui la sentenza acquista efficacia, occorre distinguere tra efficacia di accertamento, che presuppone il suo passaggio in giudicato, ed efficacia esecutiva, che appartiene provvisoriamente anche alle sentenze di primo grado e di appello.

L’ordinanza, ai sensi dell’art. 134 c.p.c., è il provvedimento che assolve la funzione ordinatoria del giudice, il quale lo emana per regolare lo svolgimento del processo e riuscire a risolvere le questioni procedurali, che possono insorgere tra le parti. Perciò di solito presuppone il contraddittorio tra le parti. Se pronunciata in udienza, è inserita nel processo verbale; se è pronunciata fuori dall’udienza, è scritta in calce o in foglio separato con data e sottoscrizione del giudice. E’ succintamente motivata e va comunicata dal cancelliere alle parti. Di solito è un provvedimento revocabile.

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Il decreto, ai sensi dell’art. 135 c.p.c., è un provvedimento rispondente alla funzione ordinatoria, per lo più scritto, che viene pronunciato d’ufficio o su ricorso della parte. Di solito, non presuppone l’insorgere di questioni, per cui non è necessario il contraddittorio tra le parti. Per questo non è motivato, salvo che la motivazione non sia chiesta espressamente dalla legge.

Le comunicazioni sono atti con i quali il cancelliere, per suo dovere d’ufficio, informa le parti o altri soggetti, che si sono verificati determinati fatti rilevanti per il processo, con particolare riferimento ai provvedimenti emanati dal giudice. Ai sensi dell’art. 136 c.p.c., la comunicazione si esegue mediante il biglietto di cancelleria, in carta non bollata, che si compone di 2 parti: una è consegnata, trasmessa mediante raccomandata o a mezzo dell’ufficiale giudiziario, al destinatario e l’altra è conservata nel fascicolo d’ufficio.

La notificazione, atto dell’ufficiale giudiziario, è provocata su istanza di parte, del P.M. o del cancelliere ed ha la funzione di portare a conoscenza del destinatario un altro atto (sempre scritto), consegnato in copia conforme all’originale, che l’ufficiale giudiziario attesta e dichiara in una relazione che redige in calce all’originale e che egli stesso data e sottoscrive. Se queste forme sono rispettate, la legge presume la conoscenza assoluta della notificazione, a prescindere da quella effettiva. Non sono ammessi equipollenti. Le diverse forme in cui può avvenire la notificazione sono:

Notificazione in mani proprie – art. 138 c.p.c. : consiste nella consegna personale al destinatario della copia dell’atto. Se il destinatario si rifiuta, l’ufficiale giudiziario ne dà atto nella relazione e la notificazione si ritiene compiuta in mani proprie.

Notificazione nella residenza, nella dimora o nel domicilio – art. 139 c.p.c. : si debbono cercare nel comune di residenza del destinatario. E’ possibile anche nei luoghi in cui esercita la professione. Se non viene trovato in uno di questi luoghi, l’ufficiale giudiziario consegna la copia a persona di famiglia, dell’ufficio o dell’azienda, purché non si tratti di minore o incapace. Se tali persone sono irreperibili, è prevista la consegna al portiere o al vicino di casa, che sottoscriveranno una ricevuta. L’ufficiale giudiziario poi darà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione con raccomandata.

Notificazione in caso di irreperibilità o rifiuto di ricevere la copia – art. 140 c.p.c. : in caso di irreperibilità, incapacità o rifiuto a ricevere la notificazione delle persone indicate negli articoli precedenti, l’ufficiale giudiziario provvederà al deposito della copia presso la casa del comune e affigge sulla porta dell’abitazione, ufficio o azienda in busta chiusa l’avviso del deposito, inviando anche una raccomandata (a/r).

Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti – art. 143 c.p.c. : se del destinatario non si conoscono né residenza né dimora né domicilio, l’ufficiale giudiziario effettua la notificazione tramite il deposito della copia dell’atto presso la casa nel comune dell’ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario. Se neppure questi luoghi sono conoscibili, la copia va consegnata al P.M. e si intende eseguita.

Notificazione presso il domiciliatario – art. 141 c.p.c. : a chi ha eletto domicilio presso una persona o un ufficio, la notificazione avviene con la consegna della copia alla persona o capo ufficio ed equivale alla consegna in mani proprie.

Notificazione a persona non residente, né dimorante, né domiciliante nella Repubblica – art. 142 c.p.c.: se il destinatario non ha né residenza , né dimora né domicilio in Italia, la notificazione avviene tramite spedizione al destinatario per mezzo di raccomandata e consegna di altra copia al P.M. che ne cura la trasmissione al Ministero degli affari esteri per la consegna al destinatario.

Notificazioni all’estero: Si procede secondo le norme delle convenzioni internazionali e, solo se questo non è possibile, si applica l’art. 142 c.p.c.

Notificazioni nella Comunità europea : il regolamento prevede che le notificazioni e le comunicazioni di atti giudiziali e stragiudiziali avvengano per tramite di organi mittenti e

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riceventi, i quali devono provvedere a ciò con qualsiasi mezzo appropriato. Restano salve le facoltà degli stati membri di procedere direttamente alla notificazione attraverso i propri canali diplomatici o consolari o mezzo posta o direttamente attraverso pubblici ufficiali.

Notificazione alle persone giuridiche – art. 145 c.p.c. : si eseguono nella loro sede legale o anche solo effettiva mediante consegna dalla copia al rappresentante o a persona incaricata a ricevere; mentre per le società non aventi personalità giuridica, le associazioni e i comitati essa avviene come per le persone giuridiche e in mancanza al portiere dello stabile.

Notificazione alle amministrazioni dello Stato – art. 144 c.p.c. : si effettua presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato. Al di fuori di questi casi, che sono previsti dalla legge, si effettuano presso l’amministrazione.

Notificazione a militari in attività di servizio – art. 146 c.p.c. : si esegue, e non può essere fatta in mani proprie, consegnando una copia al P.M., che ne cura l’invio al comandate del corpo a cui il militare appartiene.

Ai sensi dell’art. 147 c.p.c., le notificazioni non possono farsi prima delle 7 e dopo le 21. Inoltre, può essere eseguita a mezzo del servizio postale se non è fatto espresso divieto dalla legge. Con riguardo a questa modalità di notificazione, ci sono state diverse discussioni in dottrina e giurisprudenza, le quali ora tendono in parte ad essere uniformi nello stabilire che per il notificante la notificazione si perfeziona nel momento in cui questi consegna l’atto all’ufficiale giudiziario, fermo restando che, per il destinatario, gli effetti si producono solo al momento della consegna, che avverrà anche con la sola ricezione dell’avviso di ricevimento. Difatti la Cassazione ritiene che per determinare la prevenzione nei casi della litispendenza bisogna aver riguardo al momento del deposito del piego. Tutto ciò riceva somma conferma in una recente sentenza della corte Costituzionale del 2010. Le Sezioni unite, poi, hanno ribadito che la mancata produzione dell’avviso di ricevimento, che prova l’avvenuta notificazione, non integra un’ipotesi di inesistenza o di nullità. Se i destinatari sono più, occorre l’invio di tanti plichi quanti sono i destinatari; mentre basta un solo plico, con le diverse copie, se questo viene inviato al procuratore costituito per più parti. Nel caso di rifiuto da parte del destinatario o delle persone alle quali può farsi la consegna, l’agente postale ne fa menzione sul plico e lo restituisce al mittente per raccomandata. Per quanto riguarda, invece, il momento in cui la notificazione si ha per eseguita, una sentenza delle S.U. della Cassazione lo ha individuato nel momento in cui si ha il ritiro del plico o quando si compie il 10° giorno di deposito. L’omissione della menzione dell’avviso al destinatario assente rende la notificazione insanabilmente nulla. Per lo svolgimento delle notificazione per mezzo di Posta elettronica certificata, la L. n°69/2009 ha apportato importanti modifiche, predisponendo che nell’albo professionale, oltre ai consueti dati, deve essere indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata e che tutti questi dati siano aggiornati con cadenza giornaliera. Infine, ex art. 55 L. n°69/2009, l’Avvocatura dello Stato esegue le sue notificazioni attraverso un registro cronologico, che sia stato previamente numerato e vidimato.

Il concetto di nullità nel diritto processuale è autonomo rispetto ai concetti di nullità ed annullabilità, usati in diritto civilistico. Essa consiste nell’inidoneità dell’atto a raggiungere il suo scopo ed è oggetto di una pronuncia del giudice, in mancanza della quale l’atto processuale produce ugualmente i suoi effetti. Da questo punto di vista può essere paragonata all’annullabilità del diritto civile. Tuttavia, se la nullità viene pronunciata comporta la produzione di effetti ex tunc, come la nullità. Perciò gli atti processuali, nonostante i vizi da cui possono essere afflitti, sono comunque efficaci fin quando una pronuncia del giudice non ne dichiari la nullità. In tal senso una norma importante è l’art. 159 c.p.c., che, rubricato “Estensione della nullità”, dispone che la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti, né di quelli successivi, se ne sono indipendenti. La nullità di una parte dell’atto, inoltre, non colpisce le altre parti che ne sono indipendenti. Infine, se il vizio impedisce un determinato effetto, l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo. Quindi la

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nullità è determinata da un vizio, cioè dalla mancanza di un requisito, e l’art. 156, 2° comma c.p.c. dispone che la nullità può essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. Spesso, però, è la legge stessa che dispone senz’altro la nullità alla mancanza di un determinato requisito. Tuttavia, per il principio della strumentalità delle forme allo scopo, il 3° comma di questo art. 156 dispone che la nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato. Quindi lo schema della nullità può essere così definito in una sorta di 3 regole:

1. la nullità non può essere pronunciata se la legge non la commina espressamente;2. l’atto è nullo se manca dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo;3. se l’atto viziato raggiunge il suo scopo, la nullità è sanata.

L’atto processuale viziato continua a produrre i suoi effetti finché non sia sopravvenuta la pronuncia di nullità, la quale viene compiuta dal giudice, inteso nel senso ampio di ufficio giudiziario davanti al quale pende il giudizio. La nullità, ai sensi dell’art. 157, non può pronunciarsi senza l’istanza della parte (che ovviamente sarà quella interessata al rilievo del vizio), a meno che la legge disponga che sia pronunciata d’ufficio. Sulla base di questo articolo si distingue, quindi tra 2 tipi di nullità:

1. Relativa, quando la nullità è pronunciata solo su istanza della parte;2. Assoluta, quando la nullità può essere pronunciata d’ufficio.

La parte legittimata a chiedere la pronuncia di nullità, ai sensi dell’art. 157, 2° comma, è soltanto quella nel cui interesse è stabilito un requisito, che lo può fare nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso. Poi il 3° comma dispone che la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha rinunciato anche tacitamente. Queste regole riguardano solo le nullità relative, in quanto quelle assolute possono essere rilevate in ogni stato e grado di giudizio con poche eccezioni. Visto che la legge ha configurato dei limiti temporali e dei limiti di modalità, è ovvio che, se la nullità non può, o non può più, essere fatta valere, essa è come se non esistesse ed il vizio si considera sanato ex tunc. Si desume, quindi, che le nullità relative sono sanabili mente quelle assolute non lo sono,a meno che la legge non la preveda espressamente. L’art. 158 c.p.c. specifica che la nullità derivante da vizi relativi alla costituzione del giudice o all’intervento del P.M. è insanabile, salva la disposizione dell’art. 161. Questo si occupa di disciplinare la nullità della sentenza. Essa si verifica nelle ipotesi in cui sia stata emessa sentenza nonostante fosse presente la nullità di un atto, vuoi perché, essendo una nullità relativa non è stata fatta valere in quanto la parte non ne aveva avuto tempestiva conoscenza, vuoi perché la nullità è assoluta, non verificandosi quindi la sanatoria del vizio che inevitabilmente investe tutti gli atti successivi dipendenti, compresa appunto la sentenza. La nullità della sentenza può verificarsi anche quando la nullità riguarda direttamente essa. In passato lo strumento per far valere questa nullità era la querela nullitatis. L’evoluzione della disciplina ha però comportamento un ampliamento delle funzioni degli strumenti di impugnazione, per cui oggi tale strumento è scomparso, in quanto assorbito nell’appello. Quindi, i vizi di nullità, potendoli far valere in appello, si convertono in motivi di impugnazione o gravame. Questo, ai sensi dell’art. 161, 1° comma c.p.c., significa che:

non c’è altro mezzo per far valere la nullità delle sentenze se non l’impugnazione; le modalità della proposizione dell’impugnazione, con i relativi termini, limiti e

preclusioni, si ripercuotono sulle modalità attraverso le quali far valere la nullità; l’eventuale decadenza dai termini e dalle modalità dell’impugnazione dà luogo alla

decadenza della possibilità di rilevare il vizio, che quindi viene sanato.

L’art 161, 2° comma dispone che la disposizione non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice, cioè tale vizio può essere fatto valere anche al di fuori delle modalità e dei termini previsti per quel dato mezzo di impugnazione. E’ la fattispecie che la dottrina

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definisce dell’inesistenza. Ciò vuol dire che tale vizio non è sanabile. Con riferimento alle sentenze pronunciate dal collegio, un’opinione, che si è affermata nella giurisprudenza della Cassazione, prevede che, nel caso di mancata sottoscrizione di uno dei componenti del collegio, si abbia inesistenza solo nel caso in cui il difetto di sottoscrizione è dovuto a un rifiuto cosciente del giudice; mentre negli altri casi si ritiene che sia una mancanza emendabile col procedimento di correzione. Inoltre, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che possono configurarsi anche altri vizi, molto gravi, che danno luogo all’inesistenza della sentenza. All’opposto dell’inesistenza c’è l’irregolarità, che si ha quando il vizio dell’atto non pregiudica la sua idoneità a conseguire lo scopo. Ai sensi dell’art. 162 c.p.c., il giudice che pronuncia la nullità deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende, in modo tale che venga rispettato il principio dell’economia processuale. Il che vuol dire che, se la rinnovazione per l’atto nullo non può essere disposta, dichiara la nullità del processo e automaticamente la sua conclusione. Essa può essere compiuta anche spontaneamente dalla parte interessata. Infine, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., la notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data, salvo il caso del raggiungimento dello scopo dell’atto.

Il codice di procedura civile vigente è ancora quello che è entrato in vigore nell’aprile del 1942, ovviamente modificato nei suoi contenuti dalle successive leggi o integrato dai contenuti di leggi, che sono esterni ad esso. Tra i soggetti che contribuirono in particolar modo alla sua realizzazione possiamo ricordare in primis Chiovenda, il quale aveva ipotizzato un processo fondato su 3 elementi: oralità, concentrazione e immediatezza. Tuttavia il risultato finale è il compromesso delle teorie del tempo, che hanno il pregio di non esser state influenzate dall’ideologia fascista. Il periodo successivo alla 2° guerra mondiale non ha contribuito al corretto funzionamento del sistema, che quindi è stato considerato non funzionale. Così, a partire dagli anni ’50 si è avviata la novellazione attraverso importanti leggi e decreti legislativi:

L. n°533/1973 ha istituito il processo del lavoro; L. n°353/1990 ha rielaborato il processo cautelare e in parte quello di cognizione; D. Lgs. n°51/1998 ha soppresso l’ufficio del pretore; I D. Lgs. n°5 e 6/2003 hanno istituito il rito societario poi abolito dalla L. n°69/2009, che ha apportato delle migliorie in tema di processo civile; D. Lgs. n°28/2010 ha istituito la mediazione obbligatoria in alcune materie.

Le fonti non possono che essere contenute anche nella Costituzione, dalla quale sono stati tratti importanti principi ispiratori: il principio del contraddittorio e dell’uguaglianza delle parti trovano fondamento negli artt. 3 e 24, che definisce la difesa un diritto inviolabile, per il quale anche i meno abbienti vi sono ammessi; quello del giusto processo nell’art. 111; quello della disponibilità della tutela giurisdizionale, della domanda e dell’oggetto del processo si rifanno alla disponibilità dei diritti. Poi, i giudici sono imparziali e indipendenti (artt. 101, 107, 108); i provvedimenti sono motivati e conformi al diritto (art. 113); il processo deve avere una durata ragionevole. Altri principi invece si rinvengono solo indirettamente dalla Costituzione: il principio della strumentalità delle forme allo scopo; quello della libera valutazione e della disponibilità delle prove, quello dell’economia processuale e del doppio grado di giurisdizione. Anche a livello europeo, le istituzioni si stanno muovendo nella direzione di prevedere un nucleo di norme processuali comuni, che si legano agli ordinamenti nazionali, sia attraverso regolamenti sia nella previsione generale all’interno del trattato di Lisbona.

Il processo di cognizione si articola in tre fasi:

1. la fase di introduzione;

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2. la fase di istruzione in senso ampio, articolata nelle due fasi di trattazione e di eventuale istruzione in senso stretto;

3. la fase di decisione.

LA FASE INTRODUTTIVA

La procedibilità del processo, ai sensi del nuovo D. Lgs. n°28/2010, è condizionata dal previo esperimento della procedura di mediazione, che è obbligatoria nelle materie indicate all’art. 5 (diritti reali, divisione, successioni ereditarie, locazione, comodato, risarcimento danno da responsabilità medica, contratti assicurativi, bancari e finanziari) e facoltativo nelle altre materie. Di ciò l’avvocato è tenuto a dare informazione all’assistito all’atto del conferimento dell’incarico, a pena di annullabilità del contratto di opera.

Tale fase è iniziata attraverso la proposizione della domanda, con la quale l’attore chiede la tutela giurisdizionale. La domanda si propone con le forme proprie dell’atto di citazione.

L’atto di citazione è un atto formale scritto (redatto e sottoscritto dal difensore-procuratore o dalla parte quando consentito dalla legge), doppiamente recettizio perché è rivolto a due destinatari:

1. il convenuto, che diventa tale se regolarmente citato mediante la notificazione della citazione, svolgendo così la funzione di vocatio in ius;

2. il giudice, cioè il soggetto a cui si rivolge la domanda di tutela giurisdizionale previa affermazione del diritto e con la conseguente determinazione dell’oggetto del processo, svolgendo così la funzione di editio actionis.

Per assolvere a queste due funzioni l’art. 163, 3° comma c.p.c. individua i requisiti dell’atto di citazione.

Con riguardo all’editio actionis:

1. indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta;2. indicazione delle parti, specificando nome, cognome, residenza dell'attore e del

convenuto, le persone che rispettivamente li rappresentano o li assistono, se convenuta è una persona giuridica si deve indicare la denominazione o la ditta con l’indicazione dell’organo che ha il potere di stare in giudizio;

3. indicazione della cosa oggetto della domanda, che indica il petitum (mediato: oggetto della domanda, immediato: provvedimento);

4. esposizione dei fatti e degli elementi di diritto, costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni. Questi elementi costituiscono la c.d. causa petendi o titolo. Essi svolgono la funzione di prospettare la riconducibilità di questi fatti ad una o più norme, che non è vincolante per il giudice, secondo il principio jura novit Curia. Le conclusioni sono la formulazione sintetica della domanda al giudice. Questo elemento è una barriera preclusiva per l’attore perché nelle successive fasi del processo non può introdurre nuovi petita e causae petendi;

5. indicazione dei mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi e dei documenti che offre in comunicazione;

6. indicazione del nome e cognome del procuratore e indicazione della procura se è già stata rilasciata. Questa può essere rilasciata ex art. 125, 2° comma fino alla costituzione in giudizio.

Con riguardo alla vocatio in ius:

1. indicazione del giorno dell’udienza di comparizione;2. invito al convenuto a costituirsi nel termine di 20gg prima dell’udienza indicata o

10gg in caso di abbreviazione dei termini, con l’avvertimento che la costituzione oltre

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tali termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c. Queste preclusioni sono: la possibilità di proporre domande riconvenzionali, eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio o chiamare in causa un terzo e costituiscono la prima barriera preclusiva per il convenuto;

3. invito al convenuto a comparire in questa udienza di fronte al giudice designato. Con questa disposizione l’attore assolve all’onere della regola del contraddittorio, ponendo il convenuto nella condizione di potersi difendere se lo vuole.

Un’alternativa a questo meccanismo era prevista dall’art. 70ter disp. att. c.p.c., il quale ammetteva un accordo tra le parti per l’impiego del rito societario, che per la sua eccessiva complessità e dubbia costituzionalità, è stato abrogato con L. n°69/2009.

Fino agli anni ‘50 l’invito dell’attore al convenuto consisteva solo nella sua costituzione in cancelleria. La prima udienza era stabilita dal presidente del tribunale dopo la costituzione dell’attore.

Oggi invece, il giorno della prima udienza, ai sensi dell’art. 163, 2° comma, è fissato dall’attore tra quelli destinati dal presidente del tribunale alla prima comparizione delle parti innanzi al giudice istruttore. Le udienze successive vengono di volta in volta fissate dal giudice istruttore. La scelta dell’attore di questo giorno deve rispettare i termini per comparire, fissati ex art. 163bis c.p.c., rispondendo così a 2 esigenze:

fare in modo che l’attore non lo scelga tanto vicino da impedire al convenuto di avere un margine di tempo sufficiente a predisporre la sua difesa. Per questa esigenza la legge stabilisce un numero minimo di giorni liberi che l’attore deve lasciare intercorrere tra la notificazione della citazione e il giorno della prima udienza. Si tratta di un termine dilatorio che è di 90gg se il luogo della notificazione è in Italia e di 150gg se si trova all’estero. Di fronte al giudice di pace sono ridotti alla metà. Nel calcolo si tiene conto anche della sospensione feriale e se il giorno di scadenza è festivo la scadenza è prorogata al primo giorno seguente non festivo. In caso di particolari ragioni di urgenza il presidente del tribunale, su istanza dell’attore, può abbreviare questi termini fino alla metà con decreto motivato steso in calce all’originale dell’atto di citazione e da trascriversi sulle copie. (1° e 2° comma).

fare in modo che l’attore non lo scelga tanto lontano da frustrare l’interesse del convenuto ad accelerare i tempi. Per questa esigenza il legislatore ha previsto il potere del convenuto di chiedere l’anticipazione della prima udienza, nel caso in cui il termine per comparire stabilito dall’attore ecceda il minimo ed a condizione che il convenuto si costituisca prima della scadenza di suddetto termine. Il presidente provvede con decreto che va comunicato alle parti costituite 5 giorni prima dell’udienza e notificato personalmente alle altre parti in un congruo termine stabilito dal presidente. (3° comma)

L' atto di citazione non produce effetti se non è sottoscritto dal difensore (salvi i casi della parte che sta in giudizio personalmente) e notificato dall'ufficiale giudiziario su richiesta della parte o del suo procuratore (ultimo comma art. 163). Se ci sono più convenuti la notificazione deve avvenire nei confronti di tutti con la consegna di una copia a ciascuno. Su ogni copia l’ufficiale giudiziario stende la relazione di notificazione. Quindi la notificazione dell’ufficiale giudiziario è atto distinto e autonomo rispetto all’atto di citazione, che è un atto della parte.

Senza notificazione, l’atto di citazione è tamquam non esset. Con la notificazione si dà vita al processo e si producono 2 ordini di effetti:

1. EFFETTI PROCESSUALI: sono quelli che la proposizione della domanda produce sul rapporto processuale. Determina l’esistenza giuridica del rapporto processuale, fissa il momento in cui devono ricorrere tutti i presupposti processuali, determina la pendenza

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del processo, che può dirsi iniziato. E’ da questo momento che si determinano giurisdizione e competenza. Inoltre determina l’acquisizione della qualità di parte e l’oggetto del processo (cioè petitum e causa pretendi).

2. EFFETTI SOSTANZIALI: si tratta di effetti marginali che rispondono all’esigenza di evitare che il tempo necessario allo svolgimento del processo non produca effetti estintivi e allo stesso tempo si vuole che il riconoscimento del diritto avvenga come se avvenisse al momento della proposizione della domanda. Questo vuol dire che la proposizione della domanda, che coincide con la notificazione dell’atto di citazione, comporta:

a. la sospensione-interruzione della prescrizione. L’effetto sospensivo viene meno se non c’è una sentenza, nel senso che se il processo si estingue la prescrizione riprende dall’evento sospensivo, mentre si interrompe in caso di sentenza, in quanto si avrà un certo accertamento del diritto controverso;

b. l’impedimento della decadenza dall’esercizio di un diritto;c. l’obbligo del possessore in buona fede di restituire i frutti percepiti

dopo la domanda o l’opponibilità delle sentenze che accolgono domande relative ai beni immobili ai terzi che abbiano acquistato diritti su quei beni dopo la proposizione della domanda, purché la domanda sia stata trascritta prima della trascrizione dell’acquisto di terzo.

Come per ogni atto processuale la nullità va pronunciata quando l'atto manca dei requisiti indispensabili per il raggiungimento del suo scopo obiettivo, ex art. 156, 2° comma c.p.c. L'art. 164 disciplina la nullità della citazione e distingue tra i vizi che attengono la vocatio in ius (disciplinati nel 1°, 2° e 3° comma), il cui scopo è quello di istaurare il contraddittorio con il convenuto per metterlo in condizione di potersi difendere, e i vizi che attengono all’edictio actionis (4° e 5° comma), il cui scopo è quello di precisare al convenuto ciò che si chiede contro di lui per consentirgli di difendersi sul merito, offrendo al giudice elementi per il giudizio.

Riguardo i vizi della vocatio in ius, ai sensi dell’art. 164, 1° comma: L’atto di citazione è nullo se sono omessi o risultano assolutamente incerti l’indicazione del tribunale al quale è proposta la domanda e l’indicazione delle parti; se manca la data dell’udienza di comparizione; se al convenuto è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge; se manca l’avvertimento delle decadenze nel mancato rispetto dei termini di comparizione. Poiché la costituzione del convenuto è il miglior indice per capire se la citazione ha raggiunto il suo scopo, l’art. 164 distingue il caso del convenuto costituitosi o non costituitosi:

(2°comma art. 164) – convenuto non costituitosi in giudizio : il giudice rileva la nullità dell’atto e dispone d’ufficio la rinnovazione entro un termine perentorio. Se la rinnovazione viene eseguita si verifica la sanatoria dell’atto con efficacia retroattiva; mentre se non viene eseguita il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo ed il processo si estingue.

(3°comm art. 164) - convenuto costituitosi in giudizio : la costituzione del convenuto sana i vizi con efficacia retroattiva. Tuttavia se il convenuto deduce l’inosservanza dei termini a comparire o la mancanza dell’avvertimento sulle decadenze, il giudice deve fissare una nuova udienza nel rispetto dei termini.

Riguardo i vizi dell’edictio actioni, ai sensi dell’art. 164, 4° comma: L’atto di citazione è nullo se sono omessi o risultano assolutamente incerti la cosa oggetto della domanda o l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda con le relative conclusioni. Anche qui possono verificarsi due ipotesi, entrambe contenute nel 5° comma dell’art. 164:

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convenuto non costituitosi in giudizio : il giudice, rilevata la nullità, fissa all’attore un termine perentorio per la rinnovazione dell’atto di citazione, fissando anche il giorno dell’udienza;

convenuto costituitosi in giudizio : il giudice concede all’attore un termine perentorio per integrare la domanda in quelle parti mancanti. In questa ipotesi lascia ferme le eventuali decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla integrazione.

Per quanto riguarda lo svolgimento del processo:

dopo la rinnovazione le successive preclusioni riguardano l’atto rinnovato e la successiva comparsa in risposta;

dopo l’integrazione è sufficiente una nuova fissazione dell’udienza con lo spostamento della barriera preclusiva ( a carico del convenuto).

Se il giudice non rileva i vizi e non dispone la rinnovazione, ovviamente nella sola ipotesi che il convenuto non si sia costituito, c’è il dubbio se i vizi divengano insanabili e rilevabili d’ufficio nei gradi successivi o se ci siano (questo è l’orientamento della cassazione) possibilità di rinnovazione e sanatoria.

Nel caso di citazione a più convenuti, se il vizio investe solo la vocatio in ius di alcuni, i problemi conseguenti alla sua mancata sanatoria vanno risolti, nel caso di litisconsorzio necessario, attraverso l’integrazione del contraddittorio entro un termine perentorio, e nel caso di litisconsorzio facoltativo secondo le regole dello stesso.

Indipendentemente dall’ordine di rinnovazione l’attore può sempre proporre una nuova citazione la cui validità può ovviare i vizi della precedente, con riunione dei due procedimenti.

Nel caso di vizi di inesistenza (è inesistente l’atto che manchi di quel minimo di elementi necessari perché possa essere riconosciuto come tale, ad esempio la mancata sottoscrizione dell’originale da parte del procuratore costituito) non è possibile alcuna sanatoria.

La costituzione in giudizio è l’atto con cui la parte si rende giuridicamente presente nel processo, depositando in cancelleria il proprio fascicolo.

La costituzione dell'attore avviene secondo quanto disposto dall’art. 165 c.p.c.: L'attore, entro 10gg (5gg in caso di abbreviazione dei termini) dalla notificazione della citazione al convenuto, deve costituirsi in giudizio a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge, depositando in cancelleria:

1. la nota d’iscrizione al ruolo generale degli affari contenziosi civili;2. il proprio fascicolo contenente l’originale della citazione notificata, la procura e i

documenti che offre in comunicazione.

Se si costituisce personalmente, deve dichiarare la residenza o eleggere domicilio nel comune ove ha sede il tribunale. Se la citazione è notificata a più persone, l'originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro 10gg dall'ultima notificazione.

Con questo deposito la parte assume la presenza ufficiale per tutta la durata del processo in quel determinato grado e si distingue dall’effettiva presenza che si indica come comparizione. Ciò vuol dire che la parte costituita che non compare viene detta assente, mentre la sua non costituzione fonda la dichiarazione di contumacia.

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La costituzione del convenuto avviene secondo quanto disposto dall’art. 166 c.p.c.: Il convenuto deve costituirsi a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge, almeno 20gg (10gg in caso di abbreviazione dei termini) prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione ovvero almeno 20gg prima dell'udienza fissata a norma dell'art. 168bis, 5° comma (cioè quella differita fino a un massimo di 45gg), depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente:

1. la comparsa di risposta;2. la copia della citazione notificata;3. la procura;4. i documenti che offre in comunicazione.

Nella comparsa di risposta, ex art. 167 c.p.c., che è un atto difensivo, il convenuto deve:

proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore nella domanda, cioè può eventualmente, a pena di decadenza (rappresenta una barriera preclusiva per il convenuto), allargare l’oggetto del processo con la proposizione di eccezioni o domande riconvenzionali;

indicare le proprie generalità e il codice fiscale; indicare i mezzi di prova di cui si intende valere; indicare i documenti che offre in comunicazione; formulare le sue conclusioni, che siano correlate con quelle dell’attore; se vuole chiamare un terzo in causa, facendone dichiarazione e richiesta al giudice

istruttore, chiede lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo.

Se è omesso o è incerto l’oggetto o il titolo della domanda riconvenzionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al convenuto un termine perentorio per integrarla. Restano ferme le decadenze maturate e i diritti acquisiti anteriormente all’integrazione.

Nel caso in cui il convenuto si limiti ad una contestazione generica egli non decade dalla possibilità di indicare nella prima udienza i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione. Infatti in base alla previsione dell’art. 183 6° comma si prevede l’assegnazione da parte del giudice, su istanza di parte, di un termine perentorio entro cui le parti possono produrre documenti e dedurre nuovi mezzi istruttori.

La costituzione delle parti deve essere integrata con l’iscrizione della causa a ruolo ex art. 168 c.p.c. Il 1° comma dispone che all'atto della costituzione dell'attore, o, se questi non si è costituito, all'atto della costituzione del convenuto, su presentazione della nota d'iscrizione a ruolo, il cancelliere iscrive, su istanza della parte costituita, la causa nel ruolo generale. L’iscrizione a ruolo è un atto distinto dalla costituzione delle parti, anche se deve avvenire contemporaneamente ad essa. Ha la funzione di documentare la pendenza di un processo davanti ad un certo ufficio giudiziario e di investire il giudice della causa, instaurando il rapporto tra il giudice e le parti.

La nota di iscrizione a ruolo, consistente in un atto scritto in cui sono indicati gli estremi della causa (nome delle parti e del procuratore, oggetto della domanda, data di notificazione della citazione, data dell’udienza di prima comparizione) non va confusa con l’iscrizione vera e propria, che è l’atto del cancelliere che ha altresì il dovere di controllare la corrispondenza degli elementi contenuti nella nota e gli atti e i documenti prodotti dalle parti.

Il 2° comma del medesimo articolo dispone che contemporaneamente il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio, nel quale inserisce:

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1. la nota d'iscrizione a ruolo,2. copia dell'atto di citazione, delle comparse e delle memorie in carta non bollata,3. successivamente, i processi verbali d'udienza, i provvedimenti del giudice, gli atti di

istruzione e la copia del dispositivo delle sentenze.

Nel fascicolo d’ufficio sono compresi anche i fascicoli delle 2 parti, nonché in originale tutti gli atti dell’ufficio e una copia degli atti delle parti, i cui originali sono tenuti nel fascicolo di parte, che la parte stessa, ex art. 169 c.p.c., può ritirare con l’obbligo di depositarlo ogni volta che il giudice lo disponga e in ogni caso depositarlo al momento della comparsa conclusionale.

Poiché, con la costituzione, le parti hanno assunto la presenza ufficiale nel processo per mezzo del loro difensore, tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno presso il difensore-procuratore costituito, mentre se le parti si sono costituite personalmente si fanno nella residenza o domicilio dichiarato, come disposto dall’art. 170. Ciò non è richiesto per tutti gli atti (ad esempio per le comparse e le memorie, atti processuali con cui le parti illustrano per iscritto la propria posizione sui punti di diritto e di fatto oggetto della controversia) per i quali il giudice consente, in alternativa alla notificazione, lo scambio documentato col visto del procuratore o della parte o il deposito in cancelleria.

Formato il fascicolo d'ufficio, l'art. 168bis, 1° comma dispone che il cancelliere lo presenti senza indugio al presidente del tribunale, il quale, con decreto scritto in calce alla nota di iscrizione al ruolo, designa il giudice istruttore, davanti al quale le parti devono comparire, se non crede di procedere egli stesso all'istruzione. Nei tribunali divisi in più sezioni, il presidente assegna la causa ad una di esse, e il presidente della relativa sezione designa il giudice istruttore. Subito dopo questa il cancelliere iscrive la causa sul ruolo della sezione, su quello del giudice e gli trasmette il fascicolo. Il giudice istruttore è il magistrato a cui, attraverso la trattazione delle questioni rilevanti e l’acquisizione degli elementi di prova, è demandata la funzione di rendere la causa matura per la decisione.

La designazione deve avvenire non oltre il secondo giorno successivo alla costituzione della parte più diligente in assoluta libertà, perché altrimenti l’attore potrebbe, nello scegliere il giorno della prima udienza, scegliere indirettamente il giudice.

D’altra parte, però, in questo modo può accadere che la data dell’udienza indicata nell’atto di citazione non coincide con quella in cui il giudice designato tiene udienza e in tal caso l’art. 168 c.p.c., 4° comma dispone che la causa dovrà essere trattata nell’udienza tenuta dal giudice designato immediatamente successiva alla data indicata nella citazione.

Infine il giudice istruttore ha il potere di differire, con decreto da emettere entro 5gg dalla presentazione del fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di 45gg, per l’esigenza di amministrare più razionalmente il carico di lavoro ed acquisire un’adeguata conoscenza della causa.

La designazione del giudice opera per tutto il processo: infatti una volta designato è immutabile ex art. 174 c.p.c. Può essere sostituito con decreto del presidente solo per assoluto impedimento o per gravi esigenze di servizio o quando la sostituzione è indispensabile per il compimento dei singoli atti.

La parte che si costituisce per prima, che può essere anche il convenuto, deve provvedere alla iscrizione della causa a ruolo, salvando così la funzionalità del processo in modo integrale. Tuttavia l’art. 171 c.p.c. prevede diverse ipotesi di ritardata costituzione delle parti.

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Il 1° comma dispone che se nessuna delle parti si costituisce nei termini stabiliti si applicano le norme dell’estinzione del processo, presentandosi così 2 ipotesi:

a) Nessuna delle parti si è costituita : non essendoci stata l’iscrizione a ruolo della causa il giudice istruttore non può essere designato e quindi una prima udienza non sarà mai tenuta

b) Se una parte si è costituita tardivamente : essendoci stata iscrizione al ruolo, il giudice terrà la prima udienza solo per ordinare la cancellazione della causa dal ruolo. Questa è una situazione di pendenza che può durare fino a 3 mesi a partire dalla scadenza del termine stabilito per la costituzione del convenuto o della data del provvedimento di cancellazione. Ciò vuol dire che la parte che vi abbia interesse può ancora attraverso la notificazione avviare la riassunzione. L’eventuale mancato rispetto dei nuovi termini di riassunzione o il non aver riassunto la causa entro 3 mesi comporteranno l’estinzione immediata.

Nell’ipotesi di costituzione tardiva di una sola parte, essendoci comunque stata l’iscrizione a ruolo della causa da parte della parte diligente, la prosecuzione del giudizio è assicurata e permette alla parte, che non si è costituita nel suo termine, di farlo fino alla prima udienza. Le conseguenze del ritardo dell’attore non sono notevoli. Se è il convenuto ad essersi costituito tardivamente, egli subisce la decadenza della proposizione di domande riconvenzionali, della richiesta di chiamare un terzo e della proposizione di eccezioni non rilevabili d'ufficio. La parte che non si costituisce neppure alla prima udienza è dichiarata contumace con ordinanza dal giudice istruttore.

LA FASE ISTRUTTORIA

Conclusa l’introduzione della causa, che termina con la costituzione delle parti ha inizio la fase di istruzione in senso ampio, che indica l’insieme di tutte quelle attività necessarie a rendere la causa matura per la decisione. Questa fase quindi può essere vista come la sintesi di una duplice operazione logica: il giudizio di fatto e il giudizio di diritto. Ciò non vuol dire che l’istruzione si riduce all’acquisizione delle sole prove materiali, poiché per stabilire se una causa è matura o no è necessaria un’attività logica che risolva determinati problemi di diritto.

Nella fase di istruzione si individuano 3 sotto fasi:

1. Trattazione : ha la funzione di individuare le domande e discutere le questioni più rilevanti;

2. Istruzione in senso stretto o probatoria : consistente nell’acquisizione delle prove scritte ed orali ed è eventuale;

3. Rimessione della causa in decisione : funge da ponte per il passaggio alla decisione del giudice istruttore in funzione di giudice monocratico o dell’organo collegiale.

Le esigenze che il legislatore del ‘40 voleva soddisfare erano quelle proposte da Chiovenda nei principi dell’oralità, dell’immediatezza e della concentrazione, che è molto simile al processo penale di fronte a un organo collegiale. Altri autori ritenevano però che l’organo collegiale non permettesse una rapida acquisizione degli elementi di giudizio, avanzando l’idea di un processo innanzi a un giudice unico. In questo dibattito prevalse una soluzione di compromesso che attribuiva al giudice unico (il giudice istruttore) l’istruzione della causa e al collegio la decisione. Era evidente che istruzione e decisione sono attività talmente connesse tra loro che era inconcepibile un processo in cui queste fossero svolte da organi diversi, per cui il legislatore del ’40 attuò una coordinazione tra i due organi, inserendo il giudice istruttore nel collegio con funzione di relatore. Questa soluzione aprì la strada alla riforma degli anni ’90, che fu indirizzata verso il giudice unico, mantenendo il sistema del doppio organo soltanto per talune

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materie, specificamente individuate nell’art. 50bis, e ritenute più delicate; mentre in tutte le altre furono attribuite le funzioni decisorie allo stesso giudice istruttore in funzione di giudice unico.

Il giudice istruttore (G.I.) è l'organo propulsore del processo di cognizione e una volta designato è investito di tutta l’istruzione della causa ai sensi dell’art. 174 c.p.c.

I poteri del giudice istruttore sono quelli che le singole specifiche norme gli attribuiscono, per cui possiamo fare un’analisi dei vari artt.:

( art. 175 c.p.c.) – Direzione del procedimento : Il G.I. esercita tutti i poteri necessari per il più sollecito e leale svolgimento del procedimento. Infatti egli fissa le udienze successive alla prima e i termini entro i quali le parti devono compiere gli atti processuali. Anche se esistono in alcuni casi degli intervalli massimi tra un’udienza e l’altra, la giurisprudenza giustifica la loro violazione sul fatto che si tratti di termini ordinatori e non perentori. Le udienze davanti al G.I. non sono pubbliche e vi partecipano solo i difensori delle parti e le parti personalmente solo alla prima udienza di trattazione e nei casi previsti dalla legge senza poter interloquire se non con l’autorizzazione del giudice. Qualora l’ordinanza non contenga la fissazione dell’udienza successiva o del termine entro cui si devono compiere gli atti è prevista la possibilità delle parti di chiedere l’integrazione del provvedimento; altrimenti il processo si estingue.

(art. 176 c.p.c.) – Forma dei provvedimenti : Tutti i provvedimenti del G.I., salvo che la legge disponga diversamente, hanno la forma dell’ordinanza da pronunciarsi in udienza, oppure fuori udienza. Le ordinanze pronunciate in udienza si presumono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi senza bisogno di comunicazione; quelle pronunciate fuori dall’udienza sono comunicate a cura del cancelliere entro i 3gg successivi, anche attraverso mezzi telematici nel rispetto della relativa normativa.

(art. 177 c.p.c.) – Effetti e revoca delle ordinanze : Le ordinanze del G.I. non pregiudicano mai la decisione della causa, in quanto possono essere modificate e revocate dal giudice che le ha pronunciate, tranne che nei casi specificamente indicati dal 3° comma:

o Quando le ordinanze siano state pronunciate sull’accordo delle parti su materie su cui queste possono disporre. Possono essere revocate quando vi sia nuovamente l’accordo delle parti.

o Quando le ordinanze siano dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge.

o Quando le ordinanze siano assoggettate ad uno speciale mezzo di reclamo.

La trattazione della causa comprende quell’attività preparatoria del giudizio diretta ad impostare e programmare il giudizio stesso. Tant’è che ai sensi dell’art. 81bis disp. att. c.p.c. viene stabilito dal G.I. il calendario solo tendenziale del processo sulla base della natura della causa e della sua complessità.

Il primo avvio alla trattazione in senso ampio si verifica nell’udienza che l’attore aveva indicato nell’atto di citazione. Tale udienza di prima comparizione torna, con la modifica della L. n°80/2005, alla fase di trattazione del giudizio di cognizione. Per cui il nuovo art. 180 dispone semplicemente che la trattazione della causa è orale e di essa si redige processo verbale.

L'art. 181 c.p.c. tratta della m ancata comparizione delle parti , dove la comparizione si intende come presenza effettiva in udienza della parte regolarmente costituita, che compare a mezzo del difensore. Se nessuna delle parti regolarmente costituite compare all’udienza di

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prima comparizione, il G.I. fissa un’udienza successiva di cui il cancelliere da comunicazione alle parti e, qualora le parti non compaiano neanche a questa udienza, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo. Il legislatore ha attribuito alla mancata comparizione delle parti valore di implicita rinuncia alla prosecuzione del processo, con riferimento all’attore. Infatti l’ipotesi del convenuto non comparso dà luogo alla sua sola assenza. Invece il 2° comma dell’art. 181 fa riferimento alla mancata comparizione del solo attore costituito e riconduce a questa ipotesi la cancellazione della causa dal ruolo e l’immediata estinzione del processo, ma previa fissazione di una nuova udienza, di cui viene data comunicazione all’attore costituito, che anche alla nuova udienza non sia comparso. Tuttavia se il convenuto chiede che si proceda in assenza dell’attore, si ritiene che egli non accetti l’inerzia dell’attore e quindi il processo continuerebbe. Se ciò non viene richiesto si avrebbe immediatamente la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione del processo.

Successivamente, ai sensi dell’art. 182, 1° comma c.p.c., il G.I. verifica d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi. Si tratta di un aspetto della funzione di direzione del procedimento del giudice istruttore. Con questo controllo si possono evitare le conseguenze di irregolarità o di vizi che potrebbero compromettere il processo. L’oggetto del controllo riguarda:

i vizi della legittimazione processuale : il 2° comma stabilisce che quando il giudice rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, egli può assegnare alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, della procura alle liti o la sua rinnovazione. Si è così avuta una profonda innovazione che da la possibilità di sanare i vizi; cosa che prima non era possibile. La sanatoria o ratifica può avvenire anche oltre la prima udienza ma non oltre la rimessione della causa in decisione.

la regolarità del contraddittorio : L’art. 183, 1° comma stabilisce che, all'udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione, il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità del contraddittorio e, quando occorre, pronuncia i provvedimenti previsti:

o l’ordine di integrazione del contraddittorio,o l'ordine di rinnovazione, integrazione e cancellazione,o l'ordine di integrazione della domanda riconvenzionale,o l'ordine di rinnovazione che precede la dichiarazione di contumacia.

Il 2° e 3° comma stabiliscono che nel caso in cui sia pronunciato uno di tali provvedimenti o qualora si debba procedere al tentativo di conciliazione, verrà fissata una nuova udienza di trattazione.

Il tentativo di conciliazione dell’art. 185 c.p.c. è una possibilità richiesta congiuntamente dalle parti. Il giudice ne dispone una nuova udienza e le interroga liberamente. Quando e' disposta la comparizione personale, le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia. Se la procura è conferita con scrittura privata, questa può essere autenticata anche dal difensore della parte. Questo tipo di conciliazione giudiziale è qualcosa di più della transazione, perché produce sia effetti sostanziali sia effetti processuali, con riguardo all’estinzione del processo in corso, che si

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verifica immediatamente ed ipso iure. Inoltre il processo verbale costituisce titolo esecutivo. Tale conciliazione può essere proposta anche in sede di giudizio di appello, sottoforma di invito del giudice, quando lo ritiene opportuno, tenendo conto della causa, ai sensi del D. Lgs. n°28/2010.

Il normale svolgimento della trattazione presuppone la reciproca conoscenza e immutabilità delle domande, eccezioni e dell’offerta dei mezzi di prova delle parti e la loro conoscenza da parte del giudice.

Nel sistema precedente alla riforma era consentita la modifica fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, determinando un allungamento dei tempi del giudizio.

Dopo la riforma del ’90, è stato creato un sistema di preclusioni. L’art. 183, 4° comma prevede che il giudice istruttore richieda alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. Nei successivi commi vengono configurati dapprima i termini e le autorizzazioni per le nuove allegazioni (modificazioni e precisazioni) e dopo i termini e le autorizzazioni relative alle istanze istruttorie e alle produzioni.

A)Il sistema delle preclusioni nelle allegazioni.

All’esame del regime di termini e autorizzazioni circa le allegazioni, occorre premettere il chiarimento della portata delle espressioni delle quali si serve la legge.

Proporre nuove domande o nuove eccezioni ( mutatio ) significa allargare l’oggetto del processo con l’allegazione di nuovi fatti costitutivi, estintivi, modificativi o impeditivi.

Precisare ( emendatio) significa solo rettificare i fatti allegati. Non è facile capire quando la precisazione diventi modificazione.

Ferma la preclusione per le domande totalmente nuove, l’art. 183 5° comma prima parte ammette che entrambe le parti possano effettuare precisazioni ed eventuali modificazioni alla prima udienza di trattazione e anche con memorie successive se autorizzate. Le precisazioni e modificazioni sono previste nella seconda parte del 5° comma dove si afferma che entrambe le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate. Per quanto riguarda le memorie il 6° comma dispone che se, è richiesto, il giudice concede alle parti dei termini perentori:

di ulteriori 30gg per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte;

di ulteriori 30gg per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali;

di ulteriori 20gg per le sole indicazioni di prova contraria.

Queste facoltà che riguardano entrambe le parti vanno integrate con quelle previste per ciascuna di esse:

a) per quanto riguarda l’attore: nella stessa udienza, ex art. 185, 5° comma, l’attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto ed essere autorizzato a chiamare un terzo in causa, solo se tale esigenza deriva dalle difese del convenuto.

b) per quanto riguarda il convenuto: egli può proporre oltre alle eccezioni rilevabili d’ufficio e quelle che conseguono alle allegazioni dell’attore, anche le precisazioni e le

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modificazioni delle eccezioni già proposte e quelle consequenziali (art. 183, 6° comma n.2).

Si chiude così la barriera delle preclusioni nelle allegazioni che consiste:

1. nel divieto fin dall’inizio delle domande o delle eccezioni totalmente nuove che non dipendano dalle allegazioni della controparte;

2. nella possibilità di precisare e modificare le eccezioni anche indipendentemente dalle difese della controparte fino e non oltre la scadenza del termine eventualmente chiesto all’udienza. E’ la c.d. appendice di trattazione scritta.

Questa barriera relativa alle preclusioni può subire eccezioni, per cui possono consentirsi nuove domande se rese necessarie dalle modificazioni di diritto sopravvenute in corso di giudizio e nelle ipotesi di fatti sopravvenuti che possono essere dedotti tardivamente per evitare la frammentazione del giudizio.

B)Il sistema delle preclusioni nelle istanze istruttorie e nelle produzioni di documenti.

Alla prima udienza si chiude anche la barriera delle istanze istruttorie sulle quali il giudice si riserva di provvedere entro 30gg. Così dispone l’art. 183, 7° comma, il quale precisa, inoltre, che salva l'applicazione dell'art. 187 (che riguarda l’ipotesi del giudice che ritiene matura la causa per la decisione), il giudice provvede sulle richieste istruttorie fissando un’udienza per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti.

L’8° comma dispone che nel caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova con l'ordinanza del comma precedente, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi nonché depositare memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di provvedere sempre ai sensi del 7° comma.

Il 9° comma dispone che con l'ordinanza che ammette le prove il giudice può in ogni caso disporre, qualora lo ritenga utile, il libero interrogatorio delle parti; all'interrogatorio disposto dal G.I. si applicano le disposizioni di cui al 3° comma, riguardo il tentativo di conciliazione.

Il 10° comma dispone che l'ordinanza di cui al 7° comma è comunicata a cura del cancelliere entro i 3gg successivi al deposito, anche a mezzo telefax o posta elettronica, nel rispetto della normativa vigente.

Così si chiude la fase della trattazione e si apre la fase dell’istruzione in senso stretto, durante la quale viene predisposto il calendario processuale dal giudice, sentite le parti. Inoltre l’art. 184 dispone che nell'udienza, fissata con l'ordinanza prevista dall’art. 183, 7° comma, il G.I. procede all'assunzione dei mezzi di prova ammessi. Ciò vuol dire che le nuove produzioni documentali e le offerte di nuovi mezzi di prova sono possibili fino a quando il giudice non provvede sulle istanze istruttorie, cioè ogni richiesta istruttoria rimane preclusa dopo che si sia chiusa la fase preparatoria e si sia aperta quella istruttoria.

La L. n°353/1990 aveva inserito un art. 184bis, che prevedeva la possibilità di ottenere la rimessione in termini nei casi in cui la parte era incorsa nelle decadenze per causa ad essa non imputabile. Tuttavia la L. n°69/2009 ha abrogato questo articolo per inserirlo nel 2° comma dell’art. 153.

La trattazione nei sui aspetti concreti vede la risoluzione:

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A. delle questioni pregiudiziali di rito e delle questioni preliminari di merito. Queste questioni risultano dalle domande ed eccezioni delle parti e sono dette:

pregiudiziali di rito , quando concernono i requisiti del processo, come ad esempio giurisdizione, la competenza, la legittimazione processuale;

preliminari di merito , quando sono introdotte da un’eccezione, come ad esempio la prescrizione del diritto controverso.

Il problema si pone specialmente nelle cause che, ex art. 50bis, devono decidersi dal collegio, per la necessità di rispettare l'autonomia e l’indipendenza sia del G.I. sia del collegio. Infatti il dilemma riguarda se privare il collegio dei suoi poteri decisori od esautorare il G.I., riducendolo a uno strumento di trasmissione. Il c.p.c. risolve il problema affidando al G.I. il potere di compiere, sulla questione pregiudiziale o preliminare, una valutazione provvisoria ed implicita circa la sussistenza o meno del requisito o del presupposto o della situazione pregiudiziale, potendo scegliere, così, se proseguire o meno l’istruzione e, al tempo stesso, lasciando impregiudicata la competenza del collegio di decidere la questione. Ciò è descritto dall’art. 187 2° e 3° comma dove l’inciso “può” ci fa capire di questa possibilità implicita data al G.I., il quale decide quando ritiene che la decisione della questione sarà nel senso della fondatezza dell’eccezione, altrimenti se è propenso per l’infondatezza dell’eccezione può anche disporre che siano decise unitamente al merito.

B. dell’ammissione dei mezzi di prova, i quali si distinguono in: prove precostituite , come ad esempio i documenti, le quali non necessitano di

altre attività all’infuori della loro offerta al giudice fatta dalla parte; prove costituende , come ad esempio gli interrogatori o i testimoni, che

necessitano, per la produzione dei loro effetti, di un’attività procedimentale ulteriore, che si chiama esperimento, acquisizione o esecuzione delle prove e costituisce l’istruzione in senso stretto.

Giustamente il giudice deve valutare la possibilità (cioè se sussistono le condizioni a cui l’ordinamento subordina l’esperimento di quel mezzo di prova, cioè la sua ammissibilità) e l'utilità (cioè se l’eventuale esito positivo della prova sarà rilevante per il giudizio) dell'eventuale ammissione. Il quesito in questione, quindi, concerne le questioni di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova e si pone il problema della distribuzione dei poteri tra il G.I. e il collegio. Anche questo problema è risolto dal codice in maniera analoga a quello sulle questioni pregiudiziali e preliminari ossia con l'attribuzione al G.I. del potere di compiere una decisione provvisoria (stavolta esplicita), espressa in un'ordinanza, caratterizzata dalla revocabilità e modificabilità da parte dell’organo collegiale, a cui spetta la responsabilità del giudizio definitivo. Tale pronuncia può avvenire al termine della prima udienza o nelle eventuali prosecuzioni previste per le eventuali istanze istruttorie. Questo sistema presenta lo svantaggio per cui il collegio durante l’istruzione probatoria rimane estraneo. Il legislatore del 1950 aveva inoltre previsto uno strumento che consentiva al collegio di decidere le questioni di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova senza attendere la remissione totale della causa al collegio, ossia con una rimessione che investiva il collegio solo del potere di decidere le questioni suddette (c.d. rimessione istruttoria della causa al collegio).

Gli artt. 186bis, 186ter e 186quater prevedono dei provvedimenti finalizzati a razionalizzare e decongestionare la trattazione dei processi civili, attraverso la rapida acquisizione di un titolo esecutivo e riconducibile alla categoria delle condanne speciali. Questi provvedimenti sono:

1. (art. 186bis c.p.c.) – Ordinanza per il pagamento di somme non contestate: su istanza di parte il G.I. può disporre, fino al momento della precisazione delle conclusioni, il

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pagamento delle somme non contestate dalle parti costituite. Inoltre se l’istanza è proposta fuori dall’udienza il giudice dispone la comparizione delle parti ed assegna il termine per la notificazione. E’ un provvedimento emesso dal G.I. a sua discrezionalità su istanza di parte e mai d’ufficio. Ha come presupposto la non contestazione consapevole della somma da pagare, per cui non può essere pronunciata nei confronti del contumace, e ha natura anticipatoria e provvisoria per cui, come disposto dal 3° comma, non può mai pregiudicare la decisione della causa. E’ un titolo esecutivo e conserva la sua efficacia esecutiva in caso di estinzione del processo ed è un’ordinanza ultra attiva. In pratica il creditore potrà continuare ad avvalersi dell’ordinanza mentre il debitore può contestare il suo fondamento in un altro giudizio di merito o in sede di opposizione all’esecuzione.

2. (art. 186ter c.p.c.) – Istanza di ingiunzione: Fino al momento della precisazione delle conclusioni, quando ricorrono i presupposti per la pronuncia del decreto ingiuntivo (diritto di credito a una somma liquida di denaro o una quantità determinata di cose mobili fungibili e prova scritta), la parte può chiedere, in ogni stato del processo, che il giudice pronunci un’ordinanza di ingiunzione di pagamento o di consegna. Se l’istanza è proposta fuori dall’udienza il giudice dispone la comparizione delle parti e un termine per la notificazione. Il 2° comma, con il riferimento all’art. 641, dispone che l’ordinanza nei confronti del contumace sia esecutiva quando il credito è fondato su cambiale, assegno o atto ricevuto da notaio o quando vi è un pericolo di grave pregiudizio nel ritardo; mentre l’ordinanza nel confronti della controparte costituita può avvenire nei casi in cui nel procedimento ingiuntivo il debitore abbia proposto opposizione, sollevando eccezioni, od opposizione all’ammontare del credito. Questa provvisoria esecutorietà non può mai essere disposta quando la controparte abbia disconosciuto la scrittura privata prodotta contro di lei o abbia proposta querela di falso contro l’atto pubblico. Solo nel caso del contumace il 5° comma dispone che l’ordinanza sia notificata nel termine di 60gg a pena di inefficacia del decreto ingiuntivo. Se l’intimato non si costituirà entro 20gg dalla notificazione, l’ordinanza è esecutiva. L’ordinanza è modificabile dal G.I. fino alla pronuncia della sentenza. In caso di estinzione del processo, l’ordinanza conserva la sua esecutorietà.

3. (art. 186quater c.p.c.) – Ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione: è un provvedimento provvisorio e anticipatorio, che differisce dagli altri 2 provvedimenti in quanto può essere pronunciato al termine dell'istruzione, quando cioè la causa sarebbe già matura per la decisione. In effetti si tratta di una decisione anticipata, esecutiva e provvisoria, resa possibile dal risultato dell’istruzione nei limiti in cui il convincimento dell’istruttore sia nel senso dell’accoglimento della domanda. Questa ordinanza, assunta dal G.I. su istanza di parte, può avere ad oggetto soltanto la condanna:

a. al pagamento di somme, che possono essere sia liquide sia liquidabili;b. alla consegna o rilascio di beni mobili ed immobili, disponendo anche sulle spese

processuali.

La pronuncia può avvenire nella stessa udienza o in altra previa instaurazione del contraddittorio. L’istante ha 2 alternative: scegliere l’attesa della sentenza nella prospettiva di cambiare il convincimento del giudice ed ottenere la revoca dell’ordinanza o rinunciare alla pronuncia della sentenza per appellare subito l’ordinanza che, proprio per questo motivo, acquista efficacia di sentenza impugnabile. Nel caso di domande autonome e semplicemente cumulate non ci sono problemi per la proposizione di tale domanda, previa separazione delle stesse. Nel caso di domande in rapporto di pregiudizialità è determinante il fatto che la legge ha limitato i poteri decisionali esercitabili con l’ordinanza alla sola condanna, così escludendo le pronunce costitutive o di accertamento nella valutazione di fondatezza della domanda di condanna.

La domanda dell’ordinanza può essere accolta o respinta o accolta parzialmente.

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L'ordinanza è titolo esecutivo ed è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. Se dopo la pronuncia dell'ordinanza, il processo si estingue, l'ordinanza acquista l'efficacia di sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza. Questa è l’ipotesi che sia la parte istante sia la parte intimata non diano impulso al processo, l’una appagata dall’ordinanza e l’altra convinta di non poter ottenerne la revoca. Quindi l’ordinanza acquista efficacia di sentenza sia se il giudizio si estingue, sia se l’intimato rinuncia alla pronuncia della stessa. Infatti il 4° comma prevede che l’ordinanza acquisti l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza se la parte intimata non manifesti entro 30gg dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all’altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata la sentenza.

Tra gli atti che concernono genericamente l’instaurazione del contraddittorio vanno inclusi anche quelli riguardanti l’intervento dei terzi nel processo. Esso può avvenire secondo diverse modalità, che vedono:

1. l’intervento volontario, che si ha quando il terzo esercita un’azione distinta da quella che costituisce già oggetto del processo. Dunque, ex art. 267, 1° comma, per intervenire nel processo a norma dell’art. 105 il terzo ha l’onere di costituirsi, presentando in udienza o depositando in cancelleria la relativa comparsa di risposta. Se il deposito avviene in udienza le parti ne sono subito informate e viene instaurato il contraddittorio, altrimenti il cancelliere ne da notizia alle parti costituite (2° comma art. 267). E’ ammissibile di regola solo in primo grado fino alla precisazione delle conclusioni e il terzo non può compiere atti che sono preclusi alle altre parti, come la proposizione di domande (art. 268).

2. l’intervento coatto può avvenire secondo 2 diverse modalità:a. ad istanza di parte : in questo caso il terzo deve essere posto nella condizione di

non subire preclusioni. Quindi è necessario che la prima udienza venga differita o ne venga fissata una apposita, ex art. 269, 1° comma. Ovviamente l’istanza può provenire da:

i. convenuto , il quale, a pena di decadenza, deve farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente chiedere al giudice lo spostamento della prima udienza. Se il giudice accoglie l’istanza di spostamento, entro 5gg dalla richiesta provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza e lo comunica alle parti costituite (art. 269, 2° comma).

ii. attore , il quale può effettuare la chiamata del terzo solo se tale interesse sia sorto dalle difese svolte dal convenuto e comunque previa autorizzazione del giudice. La richiesta di fissazione di un’udienza per la citazione del terzo può avvenire solo alla prima udienza. Il giudice se concede l’autorizzazione fissa una nuova udienza per consentire la citazione del terzo (art. 269, 3° comma).

b. su ordine del giudice : L’art. 270 non pone precisi limiti temporali a quest’ordine del giudice, che lo esercita quando rileva l’opportunità della partecipazione del terzo, fissando una precisa udienza. L’ordine ha la forma dell'ordinanza revocabile e modificabile (sottoposta al controllo del collegio) ed è rivolto alle parti già costituite o, meglio dire, alla parte che ha interesse alla prosecuzione del processo. Infatti se non si provvede a tale citazione si determina la cancellazione della causa dal ruolo.

Il terzo chiamato potrà restare contumace o costituirsi e, in questo caso, deve osservare le modalità della costituzione del convenuto. Egli può chiamare anche un altro terzo ma deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta (art. 271 c.p.c.).

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Con riguardo all'intervento, si pongono delle questioni da risolvere. Infatti ci si può chiedere se sia possibile un controllo anticipato della legittimazione del terzo. La risposta a tale quesito ci viene data dall’art. 272 c.p.c. che afferma che tali questioni sono decise dal collegio insieme col merito, salvo che il G.I. disponga di rimettere le parti al collegio affinché sia decisa separatamente una questione di merito avente carattere preliminare, solo quando tale decisione può definire il giudizio. L’esito negativo del controllo può provocare un provvedimento di estromissione o scissione di cause.

Il passaggio dalla fase istruttoria alla fase decisoria avviene, in seguito alla riforma del D. Lgs. n°51/1998, nei soli casi indicati dall’art. 50bis c.p.c. mentre in tutte le altre ipotesi si svolge dinanzi al G.I., che decide in funzione di giudice unico.

Quando la rimessione è totale, il collegio è investito di tutta la causa, può deciderla o non deciderla rimettendola nuovamente all’istruttore, a seconda che condivida o meno la valutazione di maturità per la decisione effettuata dallo stesso. Inoltre la rimessione totale da luogo alla chiusura dell’istruzione ed ha la funzione di ponte di passaggio alla fase di decisione. La rimessione totale si può verificare in 3 diverse ipotesi (accomunate dal previo riscontro da parte del G.I. che la causa è matura per una decisione, anche se non vincola il collegio):

1. Rimessione immediata, al termine della trattazione, senza istruzione probatoria: questa è l’ipotesi più semplice e l’art. 187, 1° comma stabilisce che il giudice, se ritiene la causa matura per la decisione senza assumere mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio;

2. Insorgenza di questioni preliminari o pregiudiziali, che il G.I. ritenga suscettibili di definire il giudizio: è prevista dal 2° e 3° comma dell’art. 187. Il collegio non è vincolato a pronunciarsi solo su di esse ma, essendo investito di tutta la causa, può pronunciarsi anche sul merito;

3. Rimessione al termine dell’istruzione probatoria o istruzione in senso stretto: è l’ipotesi più frequente, prevista dall’art. 288 c.p.c. il quale dispone che il G.I. provvede all’assunzione dei mezzi di prova ed, esaurita l’istruzione, rimette le parti al collegio.

La rimessione avviene secondo diversi elementi.

Il primo elemento è la precisazione delle conclusioni, prevista dall’art. 189, che nel 1° comma, prima parte, dispone che il G.I., quando rimette la causa al collegio, invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio, nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi. E’ un atto orale da compiersi da ciascuna delle parti, che prelude alla rimessione della causa, poiché viene compiuta innanzi all’istruttore, che ha effettuato l’invito, tendenzialmente dopo tale invito nella stessa udienza o in una fissata appositamente. Ciò vuol dire che verranno formulate sinteticamente le domande e le richieste che le parti intendono sottoporre al giudice, tenendo conto degli elementi emersi durante la trattazione e l’eventuale istruzione probatoria. Le conclusioni di merito devono essere formulate anche nei casi di rimessione in funzione della risoluzione di una questione pregiudiziale o preliminare, perché la rimessione investe il collegio dell’intera causa. Ciò vale anche per le conclusioni istruttorie, cioè le domande concernenti l’esperimento dei mezzi di prova. La precisazione delle conclusioni, quindi, consiste nella formulazione ultima e definitiva delle domande dell’altra parte. Questo momento segna il limite di ogni preclusione, per cui non è più possibile sollevare eccezioni, modificare o integrare il testo delle conclusioni. La rimessione vera e propria della causa al collegio avviene dopo la precisazione delle conclusioni, quando le parti vengono rimesse al collegio. A questo punto tra le parti vengono scambiati gli atti difensivi finali, che consistono nel sunto dell’attività di assistenza difensiva dell’avvocato, che le riassume e le coordina. Questo è il secondo elemento, che è rappresentato dalle comparse conclusionali, che, ai sensi dell’art. 190, debbono essere depositate nel termine di

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60gg dalla rimessione della causa al collegio. Il 2° comma dispone che il G.I. può fissare un termine più breve ma comunque non inferiore a 20gg. Il deposito va effettuato in cancelleria in originale da inserire nel fascicolo di parte e di alcune copie destinate alla controparte, al fascicolo d’ufficio ed ai componenti del collegio. Quanto detto finora vale anche per il terzo elemento, costituito dalle memorie di replica. Esse sono brevi scritti difensivi di replica e vanno depositate entro i 20gg successivi a quello dell’avvenuto deposito delle comparse conclusionali.

La regola generale vuole che la rimessione al collegio investa tutta la causa, tuttavia la legge ammette pochissime eccezioni in cui il collegio è investito di tutti i poteri necessari per la decisione di una parte della causa, coordinata alla principale e dotata di una certa autonomia, tale da permettere che venga decisa separatamente. Si configura così la rimessione parziale della causa, che avviene nelle stesse modalità previste per la rimessione totale. Tale opportunità è valutata dal G.I. solo quando ricorrano 2 ipotesi tassative:

1. querela di falso, proposta in via incidentale e sulla quale deve pronunciarsi sempre il collegio, perché rientra tra le cause previste dall’art. 50bis c.p.c.

2. verificazione della scrittura privata, proposta in via incidentale.

La decisione, secondo la regola, spetta ai sensi dell’art. 50ter c.p.c., al tribunale in composizione monocratica. L’eccezione è rappresentata dall’art. 50bis, che elenca le cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale, che sono:

1. le cause in cui è obbligatorio l'intervento del P.M., nonché quelle introdotte dallo stesso, per via dell’indisponibilità dei diritti oggetto di questi giudizi;

2. le cause di opposizione, impugnazione, revocazione e liquidazione coatta amministrativa;

3. le cause devolute alle sezioni specializzate, come ad esempio il tribunale minorile;4. le cause di omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo;5. le cause di impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea e del consiglio di

amministrazione, nonché le cause di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e i liquidatori delle società, delle mutue assicuratrici e società cooperative, delle associazioni in partecipazione e dei consorzi. Questa elencazione è tassativa e non più generale come quella precedente, determinando una maggiore chiarezza in merito;

6. le cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione di legittima;7. le cause sulla responsabilità dei giudici;8. le cause in materia societaria;9. le cause in camera di consiglio, salvo che sia disposto altrimenti.

Il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica è trattato in modo identico al procedimento davanti al tribunale in composizione collegiale. Infatti l’art. 281bis c.p.c. dispone che si osservano, in quanto applicabili, quelle norme. Ciò è sancito anche dall’art. 281quater in merito ai poteri di decisione. Tuttavia sono presenti delle lievi differenze. L’art. 281ter attribuisce al giudice monocratico la facoltà di disporre d'ufficio la prova testimoniale, quando le parti si sono riferite a persone che appaiono conoscitrici della verità. Infine gli artt. 281quinquies e 281sexies stabiliscono 2 modalità differenti di decisione, che il giudice in funzione monocratica può scegliere in relazione della natura della causa e una serie di circostanze valutabili caso per caso. Esse sono:

1. la trattazione scritta o mista: quando il giudice, fatte precisare le conclusioni, dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie, depositando la sentenza in cancelleria entro 30gg dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Se però una delle parti richiede un’udienza di discussione orale, il giudice la

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fissa non oltre 30gg dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse medesime e la sentenza è depositata entro i 30gg successivi a tale udienza (art. 281quinquies).

2. la trattazione orale: il giudice, fatte precisare le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza o, su istanza di parte, in un'udienza successiva e pronunciare sentenza al termine della discussione orale, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. La sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria.

Avvenuta la rimessione, il collegio potrebbe anche ritenere che la causa non rientri tra quelle elencate dall’art. 50bis. In questo caso, ai sensi dell’art. 281septies, si verifica il fenomeno della rimessione della causa al giudice monocratico, che si produce con ordinanza non impugnabile, che rimette gli atti al G.I., affinché decida in veste di giudice monocratico.

Nel caso in cui, invece, il G.I. rileva che una causa, che aveva riservato per la decisione davanti a se in funzione di giudice monocratico, deve essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, rimette la causa al collegio, ai sensi di quanto disposto dall’art. 281octies.

In caso di connessione tra cause attribuite al collegio e cause attribuite al tribunale in composizione monocratica, è previsto da parte del G.I. l’ordine di riunire le cause e rimetterle al collegio, il quale pronuncia su tutte le domande, a meno che disponga la separazione (art. 281nonies).

Nel passaggio dal vecchio al nuovo rito il legislatore del 1995 ha utilizzato il criterio del doppio binario, lasciando le cause introdotte prima del 30 aprile 1995 al vecchio rito.

L’istruzione in senso stretto o istruzione probatoria ha lo scopo di raccogliere le prove necessarie per la decisione delle questioni individuate e discusse in fase di trattazione. È una fase meramente eventuale. Le prove sono gli strumenti processuali grazie ai quali il giudice forma il suo convincimento circa la verità o meno dei fatti affermati dalle parti. Rispetto a questi egli subisce un doppio vincolo:

A. può conoscere soltanto dei fatti affermati dalle parti;B. può servirsi, di regola, solo delle prove offertegli dalle stesse.

Rispetto a questi strumenti si parla di mezzi di prova, i quali si distinguono in:

Prove precostituite: che sono quelle che si formano fuori, e di solito, prima del processo, nel quale entrano attraverso la loro produzione, ossia con l’introduzione nel fascicolo di parte. Esempi: documenti, fotografie o in generale le cose idonee a fondare o rafforzare un convincimento di verità sul fatto affermato.

Prove costituende: quelle che si formano nel processo, come risultato di attività istruttoria in senso stretto. Esempi: prove orali, articolate in prove testimoniali, confessione, giuramento, ma anche l’ispezione giudiziale. Il meccanismo d'ingresso nel processo di queste prove è complesso e correlato alle prove precostituite. Si articola in 3 fasi:

1. Istanza di parte : la parte, nell’offrire il mezzo di prova, chiede al giudice l’espletamento dell’attività istruttoria necessaria affinché la prova venga raccolta. L’istanza è necessaria solo quando la prova rientra nella disponibilità delle parti o del P.M.; mentre non lo è se il giudice ne può disporre d’ufficio.

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2. Provvedimento di ammissione : assume la forma dell’ordinanza del G.I. o del collegio ed è il risultato della valutazione circa l’ammissibilità e la rilevanza dei mezzi di prova. L’ammissibilità è il requisito di legalità della prova, in quanto questa per essere ammessa deve essere consentita dalla legge. La rilevanza implica invece un giudizio preliminare di utilità della prova, nel senso che la prova deve essere efficace e non superflua per la dimostrazione di ciò che si vuole provare.

3. Esperimento del mezzo di prova (assunzione della prova) : consiste nelle attività istruttorie in senso stretto con cui si attua un programma probatorio, che avrà un certo risultato documentato nel processo verbale di assunzione della prova. Questo risultato è oggetto della valutazione che il giudice compirà nel momento della decisione.

La disciplina sull’assunzione dei mezzi di prova include anche la disciplina sull’ammissibilità e sull’efficacia delle prove. Queste regole sono perlopiù il risultato di massime d'esperienza (cioè il prodotto dell’elaborazione di dati che traiamo dall’esperienza quotidiana desumendone criteri generali di apprezzamento o di giudizio sui fatti), che suggeriscono di preferire ad esempio le prove documentali rispetto a quelle testimoniali, così negando l’ammissibilità delle seconde se sono in contrasto con le prime, lasciando alcune prove alla disponibilità delle parti e in generale stabilendo una specie di gerarchia in relazione alla loro prevedibile efficacia. Queste regole, sebbene contenute nel codice civile, hanno natura processuale.

I mezzi di prova concretamente ammissibili sono soltanto quelli che la legge configura espressamente come tali. Tale sistema è a numero chiuso senza possibilità per il giudice di crearne altri: è la c.d. tipicità dei mezzi di prova, per la quale non esistono altre vie per far entrare nel processo le prove al di fuori di quelli che la legge espressamente disciplina, né esistono regole di ammissibilità o attribuzione di efficacia probatoria diverse da quelle contenute nel codice. Tutto ciò non impedisce che tali norme possano applicarsi a situazioni non espressamente contemplate dalla legge. Si parla di prove atipiche, che si riferiscono più precisamente a indizi atipici, che concernono:

Lo scritto proveniente da un terzo; Le prove assunte in precedente giudizio o raccolte da giudice incompetente; La sentenza penale di patteggiamento; Le certificazioni amministrative; Gli atti di notorietà.

Su tali indizi è fondamentale il ruolo svolto dalle presunzioni semplici, come espediente di integrazione probatoria, nonché gli argomenti di prova tratti dal comportamento delle parti. Infine le prove illecite o anomale, volte ad aggirare divieti o preclusioni e ad introdurre elementi di prova altrimenti non ammissibili, comportano, dal punto di vista della loro acquisizione, un pur minimo influsso sul libero convincimento del giudice.

Le 2 regole fondamentali in tema di prove sono:

1. Disponibilità delle prove – (art. 115 c.p.c.): Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal P.M. Può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.

2. Valutazione delle prove – (art. 116 c.p.c.): Il giudice, liberamente, deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti.

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L’art. 116 rappresenta anche un criterio di distinzione tra le prove, per cui la valutazione del giudice secondo il suo prudente apprezzamento si avrà nelle c.d. prove libere, mentre nelle c.d. prove legali il giudice è vincolato alle loro risultanze, in quanto non ha margine di esprimere un convincimento diverso da quello che tale prova consegue. Ciò a meno che non siano in contrasto con altra prova di uguale efficacia.

Sempre con riguardo all’efficacia e al modo col quale esse determinano il convincimento del giudice si distinguono:

Prove dirette: che sono quelle che sono idonee a far conoscere immediatamente il fatto da provarsi;

Prove indirette: che sono quelle che fanno conoscere uno o più fatti diversi. Esse sono i c.d. indizi, dalla conoscenza dei quali si può risalire, attraverso una operazione logica chiamata presunzione semplice, al fatto da provarsi. E’ la conseguenza che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato, rilevante solo se grave, precisa e concordante. Essa si distingue dalla presunzione legale che non è un mezzo di prova né ha natura processuale anche se influisce sulla regola dell’onere della prova.

Con riguardo all’intensità dell’efficacia probatoria si distinguono:

Prove piene: che sono quelle normalmente richieste dalla legge; Prove di verosimiglianza: che sono quelle che la legge ritiene sufficienti quando ci si

muove nel campo del credibile o verosimile, come ad esempio il fumus boni iuris in sede cautelare;

Prova propriamente detta e argomento di prova: quest’ultimo offre soltanto elementi di valutazione di altre prove e non costituisce l’unico fondamento, coma ad esempio l’argomento di prova desunto ex art. 116, 2° comma sul contegno delle parti tenuto nel processo.

Quindi possiamo parlare di una sorta di gerarchia tripartita delle prove che vede quelle legali, poi quelle liberamente valutabili e infine gli argomenti di prova.

Anche se le parti non sono riuscite a provare le circostanze di fatto che hanno allegato o non hanno voluto o potuto offrire prove a riguardo, sia perché le prove non sono state ammesse o perché anche se ammesse ed esperite non hanno provocato un convincimento del giudice, questi non può rifiutare il giudizio ma gli impone di giudicare sempre sulle domande postegli sia che disponga sia che non disponga delle prove necessarie. In questo caso ci si riconduce alla regola di logica che vuole si dia torto alla parte che sarebbe stata tenuta a provare (e non ha provato) le circostanze di fatto necessarie per il giudizio. Si tratta cioè della regola di distribuzione dell’onere della prova. A tal proposito l’art. 2697, 1° comma c.c. dispone che l’attore che vuol far valere un diritto in giudizio deve (nel senso di avere l’onere di) provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Viceversa il 2° comma, riferendosi al convenuto, dispone che chi eccepisce i fatti costitutivi del 1° comma ovvero eccepisce che tale diritto si sia modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.

L’art 2697 c.c. non dice nulla in ordine al modo secondo cui si possono individuare i fatti costitutivi, impeditivi, estintivi e modificativi, cioè sul modo di ripartizione dell’onere della prova. Tuttavia la legge, con riguardo alle presunzioni legali, ha disposto, ex art. 2728 c.c., che queste dispensano dalla prova coloro a favore dei quali sono stabilite. In particolare esse sono dette presunzioni legali:

juris tantum (relative): quando la legge consente all’altra parte di offrire la prova contraria;

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juris et de jure (assolute): quando la legge non consente la prova contraria.

Sono questi dei casi di inversione dell’onere della prova, che può esserci anche in caso di accordo tra le parti limitatamente ai diritti disponibili o con il comportamento processuale della non contestazione.

Si affiancano le ipotesi di superamento dell’onere della prova, che si ha nei casi di:

disposizione del giudice della prova d’ufficio tramite ispezione giudiziale, interrogatorio libero, consulenza tecnica;

acquisizione delle prove, cioè la prova, una volta acquisita, opera a prescindere da quale parte l'abbia offerta, purché i fatti oggetto di prova siano stati allegati dalla parte che ne fruisce.

I fatti notori, in quanto rientranti nella comune esperienza e che sono a conoscenza del giudice, sono esentati dall’onere della prova.

La consulenza tecnica non è un mezzo di prova dato, in quanto la sua funzione consiste nell’offrire al giudice cognizioni tecniche che egli di solito non possiede. Egli è un ausiliario del giudice, che integra la sua attività. L’acquisizione di queste cognizioni avviene nella fase istruttoria mentre la loro valutazione in quella decisoria. Il consulente tecnico opera sotto le direttive del G.I., fornendo elementi che orientano ulteriormente lo svolgimento dell’attività istruttoria. L’attività del consulente serve anche per conoscere fatti la cui conoscenza può essere acquisita solo da chi possiede una determinata preparazione tecnica. Spetta al giudice stabilire se e in che limiti gli occorre l’aiuto del consulente. La relazione del consulente tecnico non vincola il giudice nella decisione della causa. Tuttavia si ritiene che nel momento in cui il giudice si discosti dalle conclusioni del consulente tecnico deve motivarne le ragioni. Trattandosi di attività integrativa a quella del giudice, la consulenza può essere disposta d’ufficio anche se nulla impedisce alle parti di richiederla e di sollecitarla. La nomina del consulente è compiuta, ex art. 191 c.p.c., dal G.I. con ordinanza con la quale viene fissata anche l’udienza di comparizione del consulente, durante la quale egli presta il giuramento di bene e fedelmente adempiere (art. 193 c.p.c.). Il consulente può rifiutarsi o astenersi dall’incarico ma è obbligato a farne denuncia o istanza al giudice almeno 3gg prima dell’udienza di comparizione. Ai sensi dell’art. 194 c.p.c. il consulente assiste alle udienze alle quali è invitato, compie da solo o insieme al giudice anche fuori della circoscrizione giudiziaria le indagini che gli sono commesse dal giudice e può essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da terzi e ad eseguire piante, calchi e rilievi. Allo svolgimento di queste attività possono assistere le parti personalmente o a mezzo dei loro difensori o consulenti tecnici, i quali possono redigere memorie ed osservazioni ed intervenire alle udienze. Se le indagini del consulente sono compiute davanti all’istruttore se ne redige processo verbale, altrimenti si concretano in una relazione scritta, depositata in cancelleria, nella quale vanno inserite anche le istanze e le osservazioni compiute dalle parti o dai loro consulenti.

Un’altra figura di consulente tecnico, con riferimento all’esame contabile, è analizzata dagli artt. 198, 199 e 200 c.p.c. Al consulente contabile vengono attribuiti particolari e più ampi poteri, che consistono nella possibilità di esaminare, col consenso delle parti, documenti e registri contabili anche non prodotti in causa e nella possibilità di tentare la conciliazione delle parti. Se la conciliazione riesce se ne redige processo verbale, che ha efficacia di titolo esecutivo; se non riesce il consulente espone nella sua relazione i risultati delle sue indagini e le dichiarazioni delle parti da cui può desumere argomenti di prova.

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La funzione integratrice e coordinatrice di altre risultanze probatorie può essere svolto anche dall’interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c. o dall’ordine di esibizione delle prove documentali.

Il codice di procedura civile disciplina le modalità attraverso le quasi si svolge l’assunzione dei mezzi di prova. A questa attività, ex art. 202, provvede il G.I., il quale con ordinanza stabilisce il tempo, il luogo e il modo dell’assunzione; nonché un’eventuale altra udienza se una non è sufficiente. L’art. 206, poi, dispone che di questa assunzione, alla quale possono assistere oltre che i difensori anche le parti personalmente, si redige processo verbale sotto la direzione del G.I., che può anche descriverne il contegno. Ex art. 205, il G.I. può pronunciarsi con ordinanza sulle questioni nascenti in fase di assunzione. Se una determinata prova si assume su richiesta di una, la parte richiedente ha l’onere di presenziare l’udienza fissata, previa decadenza dal diritto di far assumere la prova stessa, a meno che l’assenza è avvenuta per causa non imputabile ad essa (art. 208 c.p.c.). Se le prove devono essere assunte fuori dalla circoscrizione del tribunale il G.I., ex art. 203 c.p.c., delega a procedervi il G.I. del luogo, salvo che le parti richiedano concordemente, e che il presidente del tribunale vi consenta, che vi si trasferisca il giudice stesso. Il giudice delegato procede all’assunzione, dopo rimette d’ufficio il processo verbale al G.I. delegante. Se il mezzo di prova deve essere assunto all’estero, il G.I. dispone la c.d. rogatoria alle autorità estere con la relativa trasmissione per via diplomatica, salvo che non riguardi cittadini italiani residenti all’estero, nel qual caso il G.I. delega il console (art. 204 c.p.c.). Se l’assunzione riguarda stati membri della UE vi è un apposito Regolamento che prevede che l’assunzione avvenga attraverso richiesta dell’autorità giudiziaria dello Stato richiedente a quella competente dello Stato richiesto e attraverso l’assunzione diretta della prova in altro Stato membro .

In generale può essere definito documento ogni oggetto materiale idoneo a rappresentare o a dare conoscenza di un fatto. Per questo motivo sono tra i mezzi di prova più efficaci.

Il documento di gran lunga più frequente è quello scritto, che consiste nell’estrinsecazione di pensiero compiuta direttamente o indirettamente dal soggetto, che l’ha effettuata attraverso questa documentazione. Questa attività di estrinsecazione rileva per se stessa in quanto fatto estrinseco, cioè il fatto che è stata fatta, o in quanto fatto intrinseco, cioè per il suo contenuto. Ecco perché si distinguono a seconda che il contento sia narrativo o dichiarativo le dichiarazioni di:

a) Volontà : quando concerne solo il fatto che la dichiarazione sia stata resa ma ciò non esclude ad esempio che essa sia simulata o viziata da dolo o errore;

b) Scienza : quando l'efficacia di prova legale, valida fino a querela di falso, concerne solo il fatto che la dichiarazione di scienza sia stata resa, ma non anche che essa sia vera.

Dato fondamentale è riscontrare la provenienza del documento. In tal senso l’ordinamento, secondo una massima di esperienza, ritiene che si riconosce come proprio o si fa proprio a posteriori il contenuto di uno scritto, attraverso la sottoscrizione dello stesso, ossia con firma in calce o con firma digitale. La sottoscrizione non è necessaria quando non è contestata la provenienza dello scritto e non è sufficiente quando da sola non esprime la volontà di far proprio tale scritto. Ecco perché la documentazione va collocata nel tempo e nello spazio. A tale funzione assolve la data.

Per ottenere maggiore certezza, l’ordinamento si avvale dell’attestazione ufficiale da parte di notai o pubblici ufficiali, che ha la funzione di attribuire al documento pubblica fede. Su questo diverso grado di sicurezza sulla provenienza, si distingue tra:

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Scrittura privata : quando la provenienza risulta dalla sottoscrizione o da altri elementi meno sicuri;

Atto pubblico : quando la provenienza risulta attestata da notaio o altro pubblico ufficiale.

Oltre alla forma scritta esiste anche la forma verbale. Tuttavia se la legge prescrive l’impiego della forma scritta è evidente che la scelta è compiuta con riguardo alla funzione probatoria, distinguendo nei casi in cui la forma scritta è richiesta solo ai fini della prova (ad probationem) da quelli in cui è richiesta a pena di nullità dell’atto (ad substantiam).

La legge ha voluto dare al giudice quegli strumenti per capire, da un lato, la provenienza del fatto estrinseco e, dall’altro lato, l’ha lasciato libero sulla valutazione del contenuto intrinseco del documento.

Con riguardo all’efficacia probatoria dell’atto pubblico, l’art. 2699 c.c. lo definisce come quel documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo in cui l’atto è formato. La mancanza di questi requisiti fa si che l’atto abbia efficacia di scrittura privata. Poi, ai sensi dell’art. 2700 c.c., esso fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato e delle dichiarazioni e dei fatti che questi attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Ciò vuol dire che, essendo una piena prova, il giudice non ha margine per una libera valutazione, cioè si tratta di prova legale. Tutto ciò vale fino a querela di falso. Il D. Lgs. n°110/2010 ha introdotto anche l’atto pubblico informatico, quando questo sia dotato di firma digitale, rilasciata dal Consiglio nazionale del notariato.

Il contenuto di tale atto, cioè l’intrinseco, rimane comunque fuori dall’efficacia di prova legale, per cui il giudizio sulla veridicità è lasciata alla libera valutazione del giudice.

Per quanto riguarda la scrittura privata, la legge può attestare solo sull’elemento insicuro della sottoscrizione. Quindi, per valutarne la sua efficacia probatoria ricorre a strumenti integrativi; mentre ha la stessa efficacia dell’atto pubblico e fa piena prova fino a querela di falso, se colui contro il quale è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta (art. 2702 c.c.). Gli strumenti integrativi sono:

a) il riconoscimento da parte di colui contro il quale la scrittura è prodotta. L’efficacia della scrittura privata sussiste solo in quanto essa proviene dalla controparte. La controparte può ovviamente disconoscere tale scrittura privata, in quanto, se ciò non avviene, subisce le conseguenze del riconoscimento tacito o presunto. Tale onere è sancito dall’art. 214 c.p.c., che stabilisce anche che gli eredi o aventi causa possono limitarsi a dichiarare la loro non conoscenza.

b) il riconoscimento tacito, sancito dall’art. 215 c.p.c., si ha quando la parte alla quale è attribuita la scrittura o contro la quale è prodotta è contumace, lasciandogli la possibilità di disconoscerla se si costituisce tardivamente, o quando la parte comparsa non la disconosce o non dichiara di non conoscerla nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione. Se la parte, sulla quale grava questo onere, provvede a una di queste 2 ipotesi, l’ordinamento lascia all’altra parte la possibilità di scegliere tra la rinuncia ad avvalersi dello scritto disconosciuto o insistere sullo stesso, affrontando il rischio dell’instaurazione di un giudizio di verificazione. L’art. 216 c.p.c. dispone che, in questa ipotesi, la parte che vi ricorre deve proporre i mezzi di prova e indicare eventuali altre scritture per la comparazione, che il giudice può effettuare ordinando alla parte di scrivere sotto dettatura. Se essa si rifiuta la scrittura si ritiene riconosciuta. Tale istanza si propone in via principale con citazione ed è un procedimento di accertamento mero. Sull’istanza di verificazione pronuncia sempre il

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collegio, da intendersi come organo giudicante. Se il giudizio è positivo la scrittura è riconosciuta, altrimenti essa è priva di effetti probatori.

c) l’autenticazione della sottoscrizione: si ha in mancanza del riconoscimento espresso e l’art. 2703 c.c. dispone che si ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Tale autenticazione consiste nell’attestazione che egli fa che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza. Oggi ciò può avvenire anche con riguardo ai documenti informatici. Essa viene equiparata alla scrittura privata riconosciuta.

La stessa efficacia della scrittura privata è stata riconosciuta anche al documento informatico, stabilendo diversi livelli di sottoscrizione:

con firma elettronica è liberamente valutabile in giudizio; con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale ha la stessa efficacia di prova piena

fino a querela di falso.

La data non è un elemento essenziale, a meno che si tratti di tutelare un’esigenza dei terzi, con riguardo all’opponibilità ai terzi della data della scrittura privata. E in questo caso la certezza della data si può avere con l’autenticazione, poiché esiste l’attestazione del pubblico ufficiale. Nel caso in cui la scrittura privata non è stata autenticata ma è solo riconosciuta o verificata giudizialmente, la data della scrittura non è certa ed opponibile a terzi, a meno che non concorrano altri fattori idonei a dare tale certezza (art. 2704 c.c.).

Sempre sull’esame dell’efficacia probatoria delle scritture private occorre considerare alcune regole specifiche che la legge detta con riguardo a:

Telegrammi : Ai sensi dell’art. 2606 c.c., è stabilita una generale presunzione di conformità della riproduzione all'originale, salva prova contraria. La legge, inoltre, estende l’efficacia probatoria dell’originale, oltre che ai casi di sottoscrizione da parte del mittente, anche ai casi in cui il mittente abbia consegnato o fatto consegnare il suddetto originale. Essi fanno prova contro il suo autore per il semplice motivo che nessuno dice o scrive cose contro i propri interessi.

Carte e registri domestici : possono far prova, contro chi li ha sottoscritti, quando enunciano espressamente un pagamento ricevuto o quando contengono l’espressa menzione che l’annotazione è stata fatta per supplire alla mancanza di titolo in favore di chi è indicato come creditore. Essi sono elementi di prova libera.

Scritture contabili delle imprese soggette a registrazione : hanno efficacia di prova libera contro l’imprenditore che le tiene ma colui che vuole trarne vantaggio non può scinderne il contenuto. Esse possono far prova anche a favore dell’imprenditore/autore, purché si tratti di libri bollati e vidimati, regolarmente tenuti e limitatamente ai rapporti tra imprenditori inerenti all’esercizio dell’impresa.

Fatture commerciali : sono atti di solito non sottoscritti, a contenuto partecipativo e con funzione essenzialmente fiscale, per cui esse possono fornire solo indizi.

Copie degli atti pubblici e delle scritture private depositate presso pubblici uffici : hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale tranne il caso in cui si perde quest’ultimo.

L’efficacia probatoria dei documenti presuppone l’autenticità sotto il profilo estrinseco e la veridicità sotto il profilo intrinseco. Quindi la falsità del documento è la discordanza tra la realtà e ciò che appare nel documento. Si distinguono 2 tipi di falsità:

1. Falsità materiale : quando investe la materialità estrinseca e si concreta nellaa. Contraffazione: quando il documento viene materialmente formato da un

soggetto diverso dal suo autore apparente o posto in essere in una data o in un luogo diverso da quelli apparenti;

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b. Alterazione: che è una modificazione delle risultanze del documento compiuta dopo la sua formazione.

2. Falsità ideologica : quando investe il contenuto intrinseco del documento e consiste in una enunciazione falsa nel contenuto del documento. Perciò essa investe solo le dichiarazioni di scienza e le enunciazioni di contenuto narrativo.

La falsità dei documenti riguarda il processo civile per l’attitudine che il documento falso ha di determinare un falso convincimento del giudice. Tra l’altro essa può costituire materia per il processo penale. La falsità dei documenti viene rilevata attraverso 2 modalità:

1. il giudizio di verificazione della scrittura privata, che concerne solo la possibilità di accertare la falsità della sottoscrizione o della scrittura, cioè solo la falsità materiale. Inoltre, essa equipara la scrittura verificata a quella autenticata o riconosciuta. Questa equiparazione concerne l’attitudine a dare piena prova circa la provenienza dello scritto, esattamente come l’atto pubblico fa piena prova della provenienza e degli altri elementi estrinseci dell’atto stesso. Tale efficacia sussiste fino a querela di falso, che quindi rappresenta l’altra modalità.

2. la querela di falso: permette di contestare le risultanze (estrinseche) dell’atto pubblico o della scrittura privata riconosciuta, autenticata o verificata, sulla quale si sia svolto anche un giudizio di verificazione. E’ un’iniziativa giudiziaria, che, ex art. 221 c.p.c., può proporsi in via principale, in qualunque stato e grado del giudizio ma prima della rimessione della causa in decisione. La domanda di querela va proposta personalmente dalla parte o a mezzo di procuratore speciale e il P.M. interviene obbligatoriamente. Ai sensi dell’art. 222 c.p.c., se la risposta è negativa il documento non è utilizzabile, altrimenti il G.I. dispone un’udienza per l’assunzione dei mezzi istruttori idonei. Sulla querela di falso pronuncia sempre il collegio con sentenza definitiva per l’intero giudizio (art.225 c.p.c.).

L’efficacia probatoria di un documento può essere trasferita in un altro documento, che ne costituisca una copia. Quando la legge parla di copie degli atti o delle scritture, non si riferisce alla copia fotografica ma ad una riproduzione che risale alle parole nel loro preciso ordine anche se riportate su carta con segni diversi. L’efficacia probatoria degli atti dipende dalla loro conformità all’originale, che deve essere attestata da soggetti autorizzati, tra i quali i notai, attraverso una sorta di autenticazione, che dà loro la stessa efficacia probatoria dell’originale, che può essere sostituita da queste (art. 2714 c.c.). E’ comunque fatto salvo il potere del giudice di apprezzarne liberamente l’efficacia nei casi in cui presentino cancellature o abrasioni. Lo stesso discorso vale per le scritture private, quando queste siano depositate presso un pubblico depositario autorizzato (art. 2715 c.c.). Le copie fotografiche delle scritture, ex art. 2719 c.c., hanno la stessa efficacia delle copie autentiche non solo quando la loro conformità è attestata da un pubblico ufficiale competente, ma anche quando tale conformità non sia espressamente disconosciuta. Ciò vale in genere per ogni rappresentazione meccanica di fatti o cose.

Diversi dalle copie e dalle riproduzioni in generale sono i c.d. atti ricognitivi o rinnovativi, che sono atti autonomi aventi il contenuto di una dichiarazione di scienza o di una nuova volontà negoziale sostitutiva della prima. Questi atti fanno piena prova delle dichiarazioni contenute nel documento originale, se non si dimostra , producendo quest’ultimo, che c’è stato errore nella ricognizione o nella rinnovazione.

Il documento entra nel processo con la produzione, che di solito è atto spontaneo della parte che ne è in possesso e li mette a disposizione del giudice. Avviene attraverso l’inserimento dei documenti nel fascicolo di parte al momento della costituzione e, una volta effettuata tale produzione, il documento rimane acquisito al processo (c.d. acquisizione) ed è a disposizione

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del giudice e delle altre parti. Solitamente è la parte che è in possesso di un documento che lo produce ma può accadere che questo si trovi in possesso di un terzo o della parte a cui il documento non giova. In queste ipotesi il sistema previgente nulla disponeva; invece quello vigente vuole che, indipendentemente dalla parte che ha il possesso del documento, la sua funzione probatoria non sia ostacolata. Ecco perché, ex art. 210 c.p.c., il giudice ha il potere d ordinarne l'esibizione, quando ritenga sia necessario acquisirlo, stabilendo le modalità di tempo e di luogo per effettuarla. Tale ordine può essere impartito solo quando l’esibizione possa avvenire senza grave danno per la parte o per il terzo e senza costringerli a violare un segreto professionale o d’ufficio. Se l’esibizione importa una spesa, questa va anticipata dalla parte che l’ha richiesta. L'ordine di esibizione non può essere eseguito coattivamente, ma da tale inosservanza il giudice può desumere argomenti di prova. Se l’ordine di esibizione è rivolto a un terzo, il G.I., ex art. 211 c.p.c., deve cercare di conciliare l'interesse della giustizia con i diritti del terzo. Quindi il giudice prima di ordinare l'esibizione può disporre che il terzo sia citato in giudizio. L’ordine di esibizione non può riguardare i documenti formati per uso proprio o privato. Tuttavia l’ordinamento ammette l’ordine di esibizione nei casi in cui la natura della controversia lo esiga, come nel caso delle cause di scioglimento delle società, di comunione di beni e di successioni per causa di morte. Infine il giudice può richiedere d’ufficio alla P.A. informazioni scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione stessa, che è necessario acquisire al processo (art. 213 c.p.c.).

Le 3 principali figure di prove costituende sono:

1. Confessione giudiziale : Essa rappresenta un aspetto particolare attraverso il quale opera la confessione. In generale la confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (art. 2730 c.c.). La sua attendibilità si fonda su una massima di esperienza, per la quale nessuno riconosce la verità di fatti che gli nuocciono se non sono veri. La dichiarazione confessoria, per produrre effetti probatori, deve essere provata. Nel caso di confessione giudiziale la prova è acquisita nel momento in cui viene resa (probatio probata). Nel caso di confessione stragiudiziale, se questa è avvenuta verbalmente, può essere provata a mezzo di testimonianza (art. 2735 c.c.), mentre se è avvenuta per iscritto la prova viene fornita secondo le normali regole. Oggetto della confessione possono essere solo i fatti costitutivi, estintivi, impeditivi o modificativi della causa. Se il riconoscimento di questi fatti sfavorevoli si accompagna con l’affermazione di altri fatti, tendenti a infirmare l’efficacia del fatto confessato o modificarne e restringerne gli effetti, le dichiarazioni fanno piena prova se non c’è contestazione, altrimenti il giudice valuta liberamente. L’autore della confessione può essere solo la parte personalmente. Le dichiarazioni a contenuto confessorio del difensore rilevano come “ammissioni”, cioè dichiarazioni o comportamenti in giudizio che sono affini ma non totalmente coincidenti. L’onere della prova delle ammissioni è oggetto di dibattito riguardo in capo a chi spetti. L’efficacia della confessione è, di regola, quella della prova legale, purché non verta su fatti relativi a diritti non disponibili, ed è prevista dalla legge per la confessione giudiziale e per quella stragiudiziale, quando è fatta alla parte o a chi la rappresenta. Invece se è fatta a un terzo o in un testamento è liberamente apprezzabile. Attraverso la confessione giudiziale, la parte influisce sulla pronuncia del giudice, per cui essa non è efficace se non proviene da persona capace di disporre del diritto a cui i fatti si riferiscono. Se è resa dal rappresentante è efficace se vincola il rappresentato. Non può essere revocata se non si prova che è stata determinata da errore di fatto o violenza. In quanto dichiarazione di scienza e non di volontà, la confessione rimane uno strumento di convincimento del giudice. Questo però non vuol dire che essa sia fatta in modo inconsapevole: anzi, si richiede il c.d. animus confitendi. Entrando nello specifico, il

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c.p.c., all’art. 228, si occupa ovviamente della confessione giudiziale, la quale si può distinguere in:

a. Confessione giudiziale spontanea : se ne occupa l’art. 229, che dispone che essa può essere contenuta in qualsiasi atto processuale, firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell’interrogatorio libero delle parti, che non dà una vera e propria confessione.

b. Confessione giudiziale provocata mediante interrogatorio formale : l’interrogatorio formale, invece, può soltanto nuocere alla parte interrogata. E’ un procedimento probatorio strumentale, che può essere disposto soltanto su istanza della parte contrapposta a quella da interrogarsi. Ad eseguire l’interrogatorio è il G.I., il quale non fa domande su fatti diversi da quelli formulati. Ovviamente può chiedere gli opportuni chiarimenti sulle risposte che ha ricevuto (art. 230 c.p.c.). La parte risponde personalmente, servendosi di note o appunti se le circostanze lo consigliano (art. 231 c.p.c.). Ai sensi dell’art. 232, se la parte non si presenta o si rifiuta di rispondere, il collegio può desumerne elementi di prova. Se ciò sia dovuto a una causa che ritiene giustificabile, il G.I. fissa un’altra udienza. Nel litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcuni è liberamente apprezzabile, mentre in quello facoltativo è prova legale.

2. Giuramento : è una dichiarazione orale sulla verità di fatti della causa, proveniente dalla parte a cui i fatti giovano. I suoi presupposti di fondatezza si trovano nella solennità delle forme seguite e nell’efficacia intimidatrice delle conseguenze, che colpirebbero chi giurasse il falso, che sono di natura morale, sociale e anche penale. Il nostro ordinamento distingue 3 tipi di giuramento:

a. Giuramento decisorio : ex art. 2736 n.1 c.c., è quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa. Il deferimento al giudice è disciplinato dall’art. 233 c.p.c., il quale stabilisce che può avvenire in qualunque stato della causa davanti al G.I., prima della rimessione in decisione. Deve essere formulato in articoli separati in modo chiaro e preciso. Ex art. 234 c.p.c., la parte alla quale il giuramento è deferito, fino a quando non ha dichiarato di essere pronta a giurare, può riferirlo all’altra parte, riservando all’altra parte la scelta tra il giuramento (vittoria ma rischio di conseguenze se si giura il falso) e il non giuramento (soccombenza). La parte che ha deferito o riferito il giuramento può revocarli, ex artt. 235 e 236 c.p.c., fino a quando l’avversario non abbia dichiarato di essere pronto a giurare o quando il giudice abbia modificato la formula proposta dalla parte. Sull’istanza il G.I. si pronuncia con ordinanza revocabile ma eventuali contestazioni sull’ammissione sono risolte dal collegio, previa rimessione. E’ prestato personalmente dalla parte, che se si rifiuta o non si presenta rimane soccombente, a meno che il G.I. la ritenga giustificata.

b. Giuramento suppletorio : ex art. 2736 n.2 c.c., è quello deferito d’ufficio a una delle parti al fine di decidere la causa, quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate ma non sono del tutto sfornite di prova. Ai sensi dell’art. 240 c.p.c., esso può essere deferito unicamente dal collegio per le sue materie e negli altri casi dal G.I. Per la prestazione di questo tipo di giuramento si applicano le medesime norme previste per il giuramento decisorio, esclusa la possibilità del riferimento all’altra parte; ma inclusa la portata necessariamente risolutiva della quaestio facti.

c. Giuramento estimatorio : è una sottospecie di quello suppletorio ed è quello deferito al fine di stabilire il valore della cosa domandata, se non si può accertarlo altrimenti. L’art. 241 c.p.c. stabilisce che può essere deferito dal collegio, in qualità di organo decidente, il quale determina la somma fino a concorrenza della quale il giuramento avrà efficacia.

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L’efficacia probatoria del giuramento è molto intensa e vincola il giudice al suo esito. Tale vincolo si riflette sulla sua pronuncia, in quanto il giudice deve senz’altro dichiarare vittoriosa la parte che ha giurato e soccombente l’altra parte (art. 239 c.p.c.), senza che possa essere neppure ammessa a provare il contrario di quanto giurato. Tuttavia qui il legislatore si è espresso impropriamente in quanto in realtà il giuramento è pur sempre una dichiarazione di scienza e quindi determina l’esito della causa solo per il tramite della pronuncia. Esso ha natura di prova legale e non è possibile revocarlo neppure per errore o violenza, a meno che venga modificata la formula o quando l’avversario non ha ancora dichiarato di prestarlo. Oggetto del giuramento possono essere soltanto i fatti rilevanti che vertano su diritti disponibili. Non è ammesso su fatti illeciti o su contratti, la cui validità dipenda dalla forma scritta ad substantiam. Deve inoltre essere un fatto proprio della parte a cui si riferisce (giuramento de veritate) o quanto meno la conoscenza che essa ha di un fatto altrui (giuramento de scientia o de notitia).

3. Testimonianza : la testimonianza in generale è la narrazione di fatti che taluno compie ad altri per renderlo partecipe della conoscenza di tali fatti. Nel diritto processuale ci si riferisce, invece, a quelle narrazioni dei fatti della causa del giudice, compiute nel corso del processo con determinate forme, da soggetti che non sono parti del processo. Da ciò deriva una presunzione della loro attendibilità, derivante dalla loro terzietà ed imparzialità. In realtà è difficile credere un’assoluta indifferenza, per cui la legge ne subordina l’ammissibilità ad una serie di limiti. Il primo è quello previsto dall’art. 2725 c.c. che dispone che la prova per testimoni è ammissibile solo quando l’atto sia effettivamente venuto in essere in forma scritta, ma la prova scritta è impossibile dal fatto che il documento sia stato incolpevolmente perduto. Questa norma trova il suo fondamento sul terreno della forma degli atti. Le vere limitazioni all’ammissibilità, che riguardano la prova dei contratti, sono fondate su 2 ordini di ragioni:

a. sul fatto che il contratto abbia valore superiore a 2,58 €. Tale norma è in realtà molto temperata dal potere discrezionale del G.I. di consentire la prova oltre tale limite, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto, e di ogni circostanza.

b. sul fatto che la prova abbia ad oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento. La legge dispone che, se suddetti patti fossero anteriori o contemporanei alla redazione di un documento, la prova per testimoni non sarebbe ammissibile, essendo poco probabile che tali patti non siano stati inseriti nel documento; mentre, se tali patti fossero stati stipulati dopo la redazione del documento, l’autorità giudiziaria potrebbe ammettere la prova per testimoni solo se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali.

In ogni caso i suddetti limiti sono senz’altro superabili e la prova per testimoni è ammessa in ogni caso, quando:

vi è un principio di prova per iscritto, costituito da qualsiasi scritto proveniente dalla persona contro cui è diretta la domanda e che faccia apparire verosimile il fatto allegato;

il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta;

il contraente ha senza sua colpa perso il documento che gli forniva la prova.

Poiché non esistono altre norme che limitano l’ammissibilità delle prove testimoniali, si può desumere che il giudice è, in linea di massima, tenuto ad ammettere le prove che ritiene rilevanti.

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L’istanza di ammissione deve contenere l’indicazione delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata (art. 244 c.p.c.). L'istanza può essere proposta da ciascuna delle parti ed è consentito alla controparte di opporsi o di aderire alla richiesta, indicando altri testimoni da sentire su quei medesimi articoli. La possibilità di offrire prova contraria sussiste anche nel caso assai più frequente in cui la controparte si opponga all’istanza di ammissione e chiedendo la prova contraria soltanto in via subordinata. L’art. 245 c.p.c. dispone che il G.I., con l’ordinanza che ammette la prova, riduce le liste dei testimoni ed elimina quelli che non possono essere sentiti per legge. Per quanto riguarda i testimoni, la legge, da un lato, configura un dovere a deporre e, dall’altro, stabilisce quando il testimone può non deporre o non deve deporre.

Il dovere del testimone di deporre risulta indirettamente dalle sanzioni, previste per la mancata comparizione, di accompagnamento coattivo o condanna a pena pecuniaria compresa tra i 200 e i 1000 € (art. 255 c.p.c.). Egli deve comparire, indicare le proprie generalità, prestare giuramento e dire la verità.

Per quanto riguarda i casi in cui il testimone non può deporre, facciamo riferimento ai casi di difetto di legittimazione a deporre, che si ha quando si presume una certa inattendibilità del testimone, dovuta al fatto che egli sia interessato al giudizio. Non rileva più l’art. 247 c.p.c., che vietava di testimoniare a coloro che dipendevano da un rapporto personale particolarmente qualificato con una delle parti, come il rapporto coniugale, in quanto è stato dichiarato incostituzionale. Non possono testimoniare la parte rappresentata e il suo rappresentante; mentre può farlo chi, nonostante sia rappresentante, non ha agito come tale nel processo. L’ufficio del testimone è incompatibile con quello del giudice. La testimonianza ha funzione puramente informativa e la legge non fa dipendere la legittimazione a testimoniare dalla capacità di agire né dal raggiungimento della maggiore età. Il solo limite di età menzionato era quello dei 14 anni nell’art. 248 c.p.c., che prevedeva che per i minori di questa età non fosse necessario un giuramento, in quanto la loro testimonianza deve essere effettuata solo quando particolari circostanze lo richiedano. Anche questa norma è stata dichiarata incostituzionale.

Assunzione dei testimoni o esperimento della prova testimoniale: dopo la fissazione dell’udienza per l’assunzione dei testimoni, la parte interessata alla loro deposizione è onerata a chiedere all’ufficiale giudiziario di provvedere ad intimare ai testimoni, 7gg prima dell’udienza, di comparire all’udienza stessa. La parte istante ha l’onere di essere presente all’udienza e i testimoni vi vengono sentiti separatamente, ai sensi dell’art. 251 c.p.c., il quale stabilisce come il giudice ammonisca il testimone sull’importanza del giuramento e lo raccolga. Successivamente il giudice lo interroga, rivolgendogli tutte le domande che ritiene necessarie e utili per chiarire i fatti. Tali domande possono essere formulate dal giudice, d’ufficio o su istanza di parte, dai difensori o dal P.M. ma né i difensori, né il P.M. possono interrogare direttamente i testimoni, che devono rispondere personalmente. Se ci sono divergenze tra le deposizioni di 2 o più testimoni, il G.I., su istanza di parte o d’ufficio, può disporre che siano messi a confronti (art. 254 c.p.c.) e che siano sentiti testimoni precedentemente esclusi. La L. n°69/2009 ha inserito l’art. 257bis, riguardante la testimonianza scritta, che può essere disposta dal giudice, su accordo delle parti e tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza. Il testimone la rende attraverso il modello di testimonianza e sottoscrive la propria deposizione, apponendo firma autentica in ogni foglio. Se si vuole astenere deve indicarne i motivi.

Tutti e 3 consistono in una dichiarazione orale sulla verità di fatti della causa.

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L’ispezione giudiziale è un mezzo di prova che il giudice può esperire d’ufficio ed è lo strumento con il quale si acquisisce l’efficacia probatoria di cose, luoghi o corpi di persone, ossia di oggetti che, non essendo acquisibili al processo come documenti, possono essere fatti solo materia di osservazione, in modo da acquisire al processo il risultato di tale osservazione. Tale operazione viene documentata in un processo verbale che viene acquisito. L’art. 118 c.p.c. dispone che il G.I. può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o il terzo. Il rifiuto della parte consente al giudice di desumere argomenti di prova; mentre il rifiuto del terzo non ha riflessi in ordine al processo ma subirà una pena pecuniaria. Le modalità di assunzione vengono stabilite dal G.I., che con un'ordinanza fissa tempo, luogo e modo dell’ispezione (art. 258 c.p.c.). Ai sensi dell’art. 259, il G.I. procede personalmente all’ispezione ma di solito si avvale di un consulente tecnico. L’ispezione corporale viene fatta nella garanzia del rispetto della persona (art. 260 c.p.c.). L’ispezione è documentata in un processo verbale ma spesso sono consentiti rilievi, calchi e riproduzioni anche fotografiche, nonché la riproduzione dinamica del fatto.

Il rendimento dei conti (artt. 263-266 c.p.c.) ha la struttura di un procedimento, idoneo a condurre non solo alla prova, ma all’accertamento circa la situazione del conto ed eventualmente persino ad un ordine di pagamento del saldo, ordine la cui sostanza è quella di una condanna. L’esigenza di tutela, a cui l'istituto assolve, è quella che concerne il diritto al rendimento del conto, che può sorgere sia in corso di giudizio sia come autonoma esigenza di tutela. Nel primo caso, il rendimento dei conti, pur avendo una portata più ampia di una prova costituenda, rimane nei limiti di un procedimento incidentale; mentre nel secondo caso costituisce un procedimento autonomo con elementi di specialità. In entrambi i casi si instaura a seguito di una domanda e il giudice, ex art. 263 c.p.c., con ordinanza, ordina la presentazione del conto e fissa un’udienza per la discussione di esso. La parte destinataria deve depositare il conto in cancelleria almeno 5gg prima dell’udienza. Lo scopo dell’ordinamento è quello di eliminare le controversie sul conto. Il legislatore prevede diverse ipotesi, che sono:

Conto depositato, accettato dalla parte richiedente : il G.I. dà atto nel processo verbale dell’accettazione ed ordina il pagamento delle somme che risultano dovute, con ordinanza non impugnabile.

Conto depositato, contestato dalla parte che non lo accetta : essa deve specificare le partite che intende contestare. Si aprono così ulteriori 2 ipotesi:

o Accordo raggiunto tra le parti: il giudice provvede sulla base delle risultanze del conto eventualmente rettificato.

o Accordo non raggiunto tra le parti: permane la contestazione e quindi può occorrere il ricorso a mezzi istruttori (art. 264 c.p.c.).

Se la parte onerata dell’ordine di presentazione del conto non deposita il conto, il giudice può disporre il giuramento estimatorio (art. 265 c.p.c.).

La parte che ha approvato il conto, ex art. 266 c.p.c., ha la possibilità di chiederne la revisione, anche in separato processo, ma solo per errore materiale, omissione, falsità o duplicazione di partite. In caso di conto accertato con sentenza passata in giudicata sarà possibile solo la correzione per errori materiali o di calcolo, oltre le impugnazioni straordinarie.

LA FASE DI DECISIONE

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La fase di decisione consiste nel porre in essere tutti quegli atti necessari per giungere all’emanazione di un provvedimento decisorio.

Mentre il legislatore del 1940 prevedeva l’attribuzione al G.I. e al collegio rispettivamente dell’istruzione e della decisione, la L. n°353/1990 mantiene questo sistema solo per le cause elencate dall’art. 50bis c.p.c., preferendo, per tutte le altre cause, l’assunzione delle funzioni decisorie da parte del G.I. in funzione di giudice monocratico, ottenendo maggiore rapidità del giudizio. Il collegio è composto da 3 membri:

1. Il presidente, che presiede il collegio e che è il presidente del tribunale o di una sezione;2. Il G.I., che in questa fase ha il compito di riferire al collegio l’iter che lo hanno portato fin

lì;3. Un terzo giudice, per completare il numero richiesto.

Il collegio, quando ha funzioni decisorie, riceve la causa dal G.I. per mezzo del provvedimento di rimessione della causa al collegio, che ha la funzione di collegare istruzione e decisione. Se nel sistema previgente consisteva nella fissazione di un’udienza per la discussione davanti al collegio, la L. n°353/1990 la rende facoltativa. Viene tenuta solo se richiesta.

La disciplina della fase di decisione è rimasta operante solo nelle cause riservate al collegio ed è applicabile integralmente solo nelle cause per le quali sia stata richiesta la discussione.

Richiesta di discussione non avvenuta: l’art. 275, 1° comma c.p.c. dispone che, rimessa la causa al collegio, la sentenza è depositata entro 60gg dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie.

Richiesta di discussione avvenuta: l’art. 275, 2°, 3° e 4° comma dispone che ciascuna parte, nel precisare le conclusioni, può chiedere che la causa sia discussa oralmente innanzi al collegio. Nel rispetto dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie, la richiesta deve essere riproposta al presidente del tribunale alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Il presidente con decreto fissa l’udienza di discussione entro 60gg. A questa udienza il G.I. fa la relazione orale sulla causa, terminata la quale il presidente ammette le parti alla discussione. Ai sensi dell’art. 276, il collegio procede alla deliberazione in camera di consiglio, prima sulle questioni preliminari e poi su quelle di merito. In questo modo se manca un requisito preliminare si evita che la successiva sentenza diventi un obiter dictum privo di efficacia. La decisione viene assunta a maggioranza dei voti. L’ordine di voto vede il giudice relatore, l’altro giudice e alla fine il presidente. La motivazione deve contenere la succinta esposizione dei fatti, le ragioni giuridiche della decisione; mentre vanno omesse le citazioni degli autori giuridici. La sentenza viene depositata in cancelleria entro i 60gg successivi. Se il collegio pronuncia ordinanza, questa viene sottoscritta dal solo presidente.

Per quanto riguarda i contenuti dei provvedimenti e la correlazione dei provvedimenti con la forma. Ai sensi dell’art. 189, 2° comma c.p.c., la rimessione (totale) investe il collegio di tutta la causa. Ha, quindi, una pienezza di poteri che possono essere così sintetizzati (potestas judicandi):

Se ci sono questioni pregiudiziali di rito, l’organo giudicante deve decidere innanzitutto quelle, definendo il giudizio o superandole, passando poi al merito;

Prima di passare al merito, l’organo giudicante può trovarsi di fronte a questioni preliminari di merito, che dovrà subito risolvere, arrestandosi ad esse e definendo il giudizio o superarle;

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Passando al merito in senso proprio, l’organo giudicante potrà condividere o meno l’opinione del G.I. sulla maturità della causa. Perciò è previsto un riesame della valutazione del G.I. con eventuale rimessione allo stesso con ordinanza;

Quanto alla pronuncia sulle spese, questa deve essere compiuta dall’organo giudicante con sentenza definitiva. La stessa cosa vale per l’eventuale pronuncia sulla responsabilità aggravata.

La legge vuole una pronuncia il più possibile sintetica, globale ed esauriente. Tuttavia è prevista la possibilità che la decisione non riguardi l’intera causa e che la pronuncia sia limitata ad alcune domande (art. 277c.p.c.). Questa possibilità è prevista anche dall’art. 278 quando è stata già accertata la sussistenza di un diritto ma è ancora controversa la quantità della prestazione, permettendo così una condanna generica alla prestazione con eventuale concessione di una provvisionale. Queste decisioni si chiamano sentenze parziali o non definitive.

L’art. 279 c.p.c. dispone la forma dei provvedimenti del collegio, che provvede con:

Ordinanza , quando:o provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della causa, senza definire

il giudizio;o decide soltanto questioni di competenza.

Nel caso in cui non definisce il giudizio, impartisce con la stessa ordinanza i provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa. Ai sensi dell’art. 280 c.p.c., l’ordinanza del collegio fissa l’udienza per la comparizione delle parti davanti al G.I. o davanti a sé nel caso della rinnovazione di prove. Il cancelliere la inserisce nel fascicolo d’ufficio, dandone comunicazione alle parti. L’ordinanza non può mai pregiudicare la decisione della causa. Salvo che la legge disponga altrimenti, essa è modificabile e revocabile dal collegio e sono sempre immediatamente esecutive. Tuttavia può accadere che tra la sentenza non definitiva e l’ordinanza istruttoria vi sia una certa consequenzialità. In tal caso il collegio con ordinanza non impugnabile dispone che l’esecuzione o l’istruttoria siano sospese fino alla definizione del giudizio di appello. L’ordinanza viene depositata in cancelleria insieme con la sentenza. Esse, anche se collegiali, esauriscono, di regola, la loro efficacia nell’ambito del singolo grado del processo di cognizione.

Sentenza , quando:o definisce il giudizio, decidendo su questioni di giurisdizione o di competenza,

che la L. n°69/2009 ha eliminato. Si tratta di sentenza definitiva, purché sia in senso ostativo, cioè negativa della giurisdizione;

o definisce il giudizio, decidendo su questioni pregiudiziali attinenti al processo o al merito. Anche qui la pronuncia è definitiva in senso ostativo, in quanto si arresta dinnanzi all’ostacolo determinato dal difetto di un requisito del processo o della situazione sostanziale pregiudiziale;

o definisce il giudizio, decidendo totalmente sul merito in modo definitivo;o decidendo alcune delle 3 questioni precedenti, non definisce il giudizio e

impartisce ulteriori provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa. Questo tipo di sentenza non ha carattere definitivo e presuppone, da un lato, che le pronunce sulle questioni preliminari siano avvenute in senso non ostativo e, dall’altro, che l’eventuale pronuncia sul merito non riguardi tutte le domande;

o decide solo alcune delle cause fino a quel momento riunite e, con distinti provvedimenti, dispone la separazione delle altre cause e l’ulteriore istruzione riguardo alle medesima, ovvero la rimessione al giudice inferiore delle cause di sua competenza. Quindi, si ritiene che la sentenza sia definitiva.

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Per quanto riguarda la loro efficacia, le sentenze sono destinate ad operare, oltre che all’interno dello specifico grado del giudizio, anche e soprattutto all’esterno di quel grado e addirittura all’esterno del processo di cognizione, sia nel campo sostanziale e sia in quanto possono costituire, se sono sentenze di condanna, il fondamento per un processo esecutivo. È con la pubblicazione che la sentenza acquista l’efficacia di dictum del giudice. Però, solo col suo passaggio in giudicato diviene incontrovertibile in quanto l’accertamento fa stato ad ogni effetto tra le parti e i loro eredi o aventi causa (art. 2909 c.c.). Oltre a questa efficacia di accertamento incontrovertibile, che è propria di tutte le sentenze, si possono affiancare l’efficacia costitutiva, qualora si tratti di sentenza costitutiva, e l’efficacia esecutiva, o attitudine a fondare un processo di esecuzione forzata, qualora si tratti di sentenza di condanna. Quest’ultima efficacia è attribuita alle sentenze anche prima ed indipendentemente dal loro passaggio in giudicato, per cui spetta anche alle sentenze di primo grado, come sancito dal nuovo art. 282 c.p.c. Riguardo a questo tema si è notevolmente dibattuto in giurisprudenza e dottrina, le quali ci danno posizioni contrapposte riguardo alla possibilità o meno di affermare tale esecutorietà provvisoria a particolari tipi di sentenze, come quelle costitutive o quelle riguardanti la condanna alle spese. Tuttavia la legge con il nuovo art. 283 c.p.c. attribuisce al giudice dell’appello il potere di inibitoria, con il quale, se sussistono gravi e fondati motivi anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti, può sospendere in tutto o in parte l’esecutorietà della sentenza, con o senza cauzione. L’inibitoria ha un’evidente funzione di contro cautela all’esecuzione provvisoria e rappresenta un potere discrezionale.

Il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado si verifica solo se ed in quanto la sentenza non sia impugnata, poiché in caso di impugnazione il processo prosegue in secondo grado e nell’altro eventuale grado di Cassazione. Con questi limitati mezzi di impugnazione la legge da luogo all’incontrovertibilità propria del giudicato. Perciò l’impugnazione è assoggettata ad un termine perentorio, che comincia a decorrere dalla notificazione della sentenza, che è onere della parte vittoriosa, che ovviamente ha interesse ad ottenere il rapido passaggio in giudicato della sentenza. La notificazione deve essere effettuata alla parte personalmente, se si è verificato un evento che colpisce il procuratore e che da luogo all’interruzione del processo, mentre, se si è verificato un evento interruttivo che colpisce la parte, dopo la chiusura della discussione, la notificazione può essere effettuata a coloro ai quali spetta di stare in giudizio (art. 286 c.p.c.).

Correzione delle sentenze e delle ordinanze – (artt. 287 e 288 c.p.c.): La sentenza può essere affetta da errori, che possono investire sia l’atto, cioè la sostanza del giudizio, sia la formazione dell’atto o del documento. Con l’istituto della correzione delle sentenze ci occupiamo degli errori di espressione, che la legge chiama errori materiali. A questi vengono equiparati gli errori di calcolo e le omissioni. Per eliminare questo tipo di errori è stato disposto uno strumento semplificato rispetto all’impugnazione. Infatti si tratta di un provvedimento di tipo amministrativo, che ha la funzione di ripristinare la corrispondenza tra quanto la sentenza ha inteso dichiarare e quanto formalmente dichiara. Esso viene pronunciato dallo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza, se non è appellata: in questa ipotesi spetta al giudice di appello. E’ uno strumento facoltativo, che può essere richiesto sia da tutte le parti, senza la necessità di svolgere il contraddittorio, sia da una o non da tutte le parti, con la necessità stavolta di intraprendere il contraddittorio. In ogni caso il tutto viene stabilito per mezzo di un decreto, che nella seconda ipotesi contiene pure la fissazione dell'udienza di comparizione, che vengono notificati personalmente se la correzione della sentenza viene chiesta dopo 1 anno dalla pubblicazione. Questo procedimento di correzione è utilizzabile anche per le ordinanze ed i decreti non revocabili.

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Integrazione dei provvedimenti istruttori – (art. 289 c.p.c.): Se l’ordinanza dell’organo decidente non contiene la fissazione dell’udienza successiva o del termine entro il quale le parti debbono compiere gli atti processuali, è prevista l’integrazione da pronunciarsi, su istanza di parte o d’ufficio, entro il termine perentorio di 6 mesi dall’udienza in cui tale provvedimento è stato pronunciato, oppure dalla comunicazione o notificazione, se previste. L’integrazione, disposta dal presidente del collegio o dal G.I. a seconda dei casi, è comunicato a tutte le parti a cura del cancelliere.

Per il caso di smarrimento, distruzione o sottrazione di atti, la Corte di Cassazione ritiene si applichino analogicamente le disposizioni che a riguardo detta il codice di procedura penale, mancando in quello di procedura civile una normativa in merito.

Le vicende anormali del processo sono quelle che rendono impossibile, in modo temporaneo o definitivo, che la causa giunga alla sua conclusione normale. Tra le vicende anormali del processo possiamo rilevare:

La riunione dei procedimenti : Ai sensi dell’art. 273 c.p.c., che richiama l’art. 39 sui casi di litispendenza e continenza di cause (quando una stessa causa sia proposta davanti a giudici diversi), se, relativamente alla stessa causa, siano proposti diversi procedimenti davanti allo stesso giudice, questi, anche d’ufficio, ordina la riunione dei due o più procedimenti. Solo nell’ipotesi in cui i diversi procedimenti pendono davanti ad altro G.I. della stessa sezione o di altra sezione, la riunione verrà disposta dal presidente. Non dissimile è la disciplina nei casi di connessione, prevista in generale all’art. 40. Infatti l’art. 274 stabilisce che se cause connesse sono proposte davanti allo stesso giudice, questi ne dispone, anche d’ufficio, i provvedimenti opportuni. E’ qui la differenza rispetto alla prima ipotesi ed è dovuta al fatto che la connessione dà luogo solo a un’eventuale opportunità di trattazione congiunta. Quindi si potrebbe pure verificare il caso che la riunione di 2 cause connesse sia stata inopportuna. In questo caso si produce la fattispecie della:

Separazione delle azioni : è una possibilità prevista dagli artt. 103 e 104 ed essa è disposta dall’organo decidente, quando vi è istanza di tutte le parti o quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe gravoso il processo.

Il trasferimento o traslazione del processo : dal giudice incompetente verso quello competente. Se la causa è riassunta davanti al giudice dichiarato competente, dalla Cassazione in sede di regolamento o da altro giudice, nel termine fissato nell’ordinanza o nel termine di 6 mesi dalla comunicazione della relativa ordinanza, il processo continua davanti al nuovo giudice, altrimenti si estingue.

Il processo in contumacia : La contumacia si riconduce al principio della disponibilità della tutela giurisdizionale, per il quale la partecipazione attiva al processo è un onere e non un obbligo della parte interessata, che si concreta attraverso l’atto di costituzione. E’, quindi, quella situazione di inattività unilaterale nell’ambito del principio della disponibilità della tutela, che consegue al mancato esercizio del potere-onere di costituzione di una parte e che va dichiarata previa verifica dei suoi presupposti. Se nessuna della parti si costituisce, il processo, perciò, non ha motivo di proseguire. Se si costituisce una sola parte, l’ulteriore svolgimento del processo avviene secondo le modalità del c.d. processo contumaciale. La contumacia è una situazione di fatto, che diventa di diritto nel momento in cui viene effettuata la dichiarazione di contumacia, la cui mancanza non è motivo di nullità a meno che non vengano rispettate le norme poste a tutela di chi viene dichiarato contumace. Infatti la legge tende a ridurre il più possibile il pregiudizio derivante da questa mancata partecipazione. Tale dichiarazione, di regola effettuabile alla prima udienza, può essere resa dal G.I. solo in presenza di certi presupposti, che ne sono condizione. Essi sono:

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Attore non costituito, di cui si dovrebbe dichiarare la contumacia : la legge richiede che il convenuto dichiari esplicitamente di voler proseguire il processo. In caso contrario si ha la cancellazione dal ruolo della causa e la sua estinzione (art. 290 c.p.c.);

Convenuto non costituito, di cui si dovrebbe dichiarare la contumacia : il G.I., d’ufficio, verifica la regolarità della notificazione dell’atto di citazione e, nel caso in cui rileva un vizio, ne dispone la rinnovazione entro un termine perentorio. Se nemmeno con la seconda notificazione il convenuto si costituisce, il G.I. lo dichiara contumace (art. 291 c.p.c.).

Dopo la dichiarazione di contumacia, il processo si svolge normalmente, con la sola sovrapposizione delle regole dettate a riguardo del procedimento in contumacia. Tra queste regole possiamo ricordare l’onere della parte costituita di notificare al contumace alcuni atti, che a loro volta introducono altri oneri pesanti o conseguenze gravi. L’ordinanza che ammette l'interrogatorio formale o il giuramento e le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte, sono notificate personalmente al contumace nei termini che il G.I. fissa con ordinanza. Le altre comparse si considerano comunicate con il deposito in cancelleria e con l’apposizione del visto del cancelliere. Tutti gli altri atti non sono soggetti a notificazione o comunicazione, eccetto le sentenze che sono notificate personalmente (art. 292 c.p.c.). Inoltre l’ingresso gli è facilitato in quanto è consentita la costituzione tardiva, fino all'udienza di precisazione delle conclusioni in cui la causa è rimessa al collegio (art. 293, 1° e 2° comma c.p.c.). Ma alla regola generale, che vede delle preclusioni in caso di costituzione tardiva, la legge prevede delle eccezioni. Per cui il contumace può disconoscere le scritture private prodotte contro di lui e può chiedere la rimessione in termini, se riesce a dimostrare la nullità della notificazione o altra causa di impedimento a lui non imputabile. Il giudice provvede con ordinanza. Se il contumace, costituitosi tardivamente, non chiede o non ottiene la rimessione in termini, non può che accettare il processo nello stato in cui si trova. Gli effetti della dichiarazione di contumacia sono limitati al grado nel quale la situazione si verifica.

La sospensione del processo : consiste in un arresto dell'iter processuale a causa di un determinato evento e fino alla cessazione di quell’evento. Di regola, la sospensione non si verifica in modo automatico, ma a seguito di un provvedimento del giudice nei soli gradi di merito (ma mai dopo la precisazione delle conclusioni), restando esclusa la Cassazione. Tale provvedimento può derivare:

Dall’istanza concorde delle parti (facoltativa) : in questo caso la sospensione è detta “volontaria” e non viene disposta per un periodo superiore a 3 mesi (art. 296 c.p.c.). Con la legge di riforma n°69/2009 si è disposto che la sospensione può avvenire una sola volta, quando sussistono giustificati motivi, e il periodo massimo è stato portato da 4 a 3 mesi.

Dal rapporto di pregiudizialità, per il quale la decisione della causa in corso va sospesa quando dipende dalla soluzione di altra controversia già pendente (necessaria) (art. 295 c.p.c.). Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, le ipotesi di sospensione del processo civile si dovrebbero ridurre ai soli casi espressamente previsti dall’art. 75 c.p.p. (azione civile per danni conseguenti al reato). Tuttavia il c.p.p. è ispirato al principio dell’autonomia dei 2 giudizi. Infatti il processo penale non è affatto un antecedente logico-giuridico di quello civile. La stessa giurisprudenza della Cassazione è indirizzata verso l’autonomia dei 2 processi. Invece nei casi di dipendenza tra 2 giudizi civili, la sospensione è ritenuta “necessaria” ogni qual volta vi sia tale presupposto imposto dalla legge. Tale sospensione avviene, perciò, senza alcuna valutazione di opportunità.

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La sospensione può essere evitata quando è possibile la pronuncia incidenter tantum o la riunione delle cause. Non può essere evitata se è necessaria la pronuncia con efficacia di giudicato sulla questione pregiudiziale o quando il diverso stato della controversia pregiudicante e di quella pregiudicata impedisce, ex art. 40, 2° comma, la rimessione al giudice della causa principale o quello adito preventivamente o la riunione delle cause. Nell’ipotesi di più cause connesse non tutte pregiudicate da altra causa pregiudiziale, la sospensione può essere limitata alle sole cause effettivamente pregiudicate. Essa è disposta dall'organo decidente, attraverso un’ordinanza (quando ha funzione ordinatoria) o una sentenza (quando ha funzione decisoria).

Un caso particolare di sospensione è quello configurato dall’art. 337, 2° comma c.p.c, che sta nell’eventualità che sulla questione pregiudiziale sia già intervenuta una sentenza. Se tale sentenza passa in giudicato, il giudice della questione pregiudicata dovrà adeguarsi ad essa; ma, se è impugnata, il giudice della questione pregiudicata può (quindi si tratta di facoltà, esercitata su una libera valutazione) sospendere il processo in attesa della pronuncia sull’impugnazione. Durante la sospensione non si possono compiere gli atti del processo, i cui termini sono interrotti e che ricominciano a decorrere dal giorno della nuova udienza. Questa stasi processuale è solo parziale in alcuni casi particolari di sospensione, che viene detta “impropria”. Esso continua a svolgersi in sede particolare, come nel caso in cui è proposto il regolamento di giurisdizione o di competenza. La stessa cosa vale nel caso di eventuale pronuncia di non manifesta infondatezza dell’eccezione di illegittimità costituzionale. A sollevare tale questione possono essere una delle parti o il PM con apposita istanza. Se il giudizio è già pendente di fronte alla Corte Costituzionale, si ritiene che un giudizio di incostituzionalità comporterebbe l’estensione di questo effetto a ogni giudizio sospeso. Se invece quel giudizio si conclude con il rilievo dell’infondatezza della questione, si ritiene che nell’altro giudizio sospeso si possa sollevare anche la medesima questione, in quanto la preclusione opera nell’altro. Un meccanismo simile opera sulle questioni di interpretazione in ambito europeo.

Solitamente il G.I., con l’ordinanza con cui dispone la sospensione, fissa l’udienza in cui il processo deve proseguire e in questo caso non si pone nessun problema. Se non viene fissata un’udienza, l’art. 297 dispone che siano le parti a chiedere la fissazione di una nuova udienza entro il termine perentorio di 3 mesi, il quale decorre dal momento della conoscenza che la parte abbia avuto di tale cessazione.

L’interruzione del processo : Essa consiste nell'arresto dell'iter processuale a causa di un determinato evento. Gli eventi che danno luogo a questo fenomeno sono fatti che compromettono l'effettività del contraddittorio in ogni fase del giudizio di merito, con l’esclusione della fase di cassazione, nella quale opera l’impulso d’ufficio. Il processo viene solitamente bloccato per un periodo non superiore a 3 mesi. Questo è un termine perentorio che, se la parte interessata a ristabilire il contradditorio non rispetta, comporta l’estinzione del processo. Gli eventi interruttivi sono elencati negli artt. 299 e 301 c.p.c. Essi sono:

1. La morte della parte e gli eventi ad essa assimilabili, come l’estinzione della persona giuridica, la morte presunta o la scomparsa.

2. La perdita della capacità processuale o legittimazione processuale della parte per interdizione, inabilitazione o dichiarazione di fallimento.

3. La morte o la perdita della capacità processuale del rappresentante legale della parte, ad esclusione di quello volontario.

4. La cessazione della rappresentanza legale. Non è causa di interruzione la cessazione della rappresentanza volontaria od organica.

5. La morte, la radiazione o la sospensione del procuratore.

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L’evento interruttivo può colpire:

la parte personalmente . In questo caso:a. se l’evento interruttivo si verifica prima che la parte colpita dall’evento

interruttivo si costituisca, l’interruzione si verifica immediatamente, come conseguenza automatica dell’evento ed indipendentemente dal provvedimento col quale viene dichiarata.

b. Se l’evento interruttivo si verifica dopo che la parte che subisce tale evento si sia costituita a mezzo di procuratore, la legge condiziona l’interruzione al fatto che il procuratore dichiari in udienza l’evento interruttivo. Se il procuratore non compie la dichiarazione, il processo prosegue nei confronti della parte che l’ha subito, fosse anche defunta. Il procuratore assume su di sé la responsabilità conseguente alla mancata interruzione nell’ipotesi che ciò non era stato concordato con coloro ai quali spetta di proseguire il processo.

una delle parti in cause scindibili cumulate per litisconsorzio facoltativo, l’interruzione deve avvenire solo con riguardo al procedimento di cui è parte il soggetto colpito dall’evento, senza che sia necessaria la separazione delle cause.

la parte dichiarata contumace : il processo sarebbe interrotto non immediatamente e neppure a seguito di una dichiarazione di un procuratore che non esisterebbe, ma dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato dall’altra parte o è notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario.

il difensore-procuratore : la mancanza del difensore rende impossibile un’intermediazione con le persone alle quali spetta di proseguire il processo. Perciò, l’art. 301 dispone che in questi casi (sempre esclusa la Cassazione) l’interruzione avviene automaticamente, salva la facoltà della parte rappresentata di delegare altro difensore.

L’interruzione del processo può giungere a una fine quando si avvia la sua prosecuzione, che si ha quando è stata effettuata la ricostituzione dell’effettività del contraddittorio, che si verifica attraverso:

1. costituzione spontanea , che, ai sensi dell’art. 302 c.p.c., può avvenire all’udienza. Se non è fissata alcuna udienza, la parte interessata può chiederne la fissazione al G.I. o al presidente. Il ricorso e il decreto sono notificati a cura dell’istante.

2. citazione di riassunzione , che, ai sensi dell’art. 301 c.p.c., prevede la richiesta di fissazione dell’udienza a cura dell’altra parte e la notifica del ricorso a coloro che debbano costituirsi per proseguire il processo.

Nel caso dell’interruzione e anche nel caso della sospensione la prosecuzione del processo o la sua riassunzione devono avvenire nel termine di 3 mesi, così come modificato dalla L. n°69/2009. Per l’interruzione è termine perentorio, per la sospensione invece è ordinatorio.

Estinzione del processo : è la vicenda anormale che colpisce la fine del processo. La funzione è quella di evitare la prosecuzione delle attività processuali quando tutte le parti, per accordo esplicito o comportamento concludente, la ritengono ormai inutile. La legge prende in esame 2 fattispecie di estinzione, che sono:

1. Estinzione per rinuncia agli atti del giudizio – (art. 306 c.p.c.): La rinuncia agli atti è una dichiarazione esplicita della parte, che ha proposto la domanda, di voler rinunciare agli atti. Per produrre effetti è comunque necessario che questa rinuncia sia accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla

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prosecuzione. Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione non sono efficaci se contengono riserve o condizioni e se si tratta di accordo su una duplice dichiarazione unilaterale a contenuto non negoziale. Se riguarda un contenuto più complesso, la legge prevede il tentativo di conciliazione ex art. 185. La rinuncia all’azione è un modo improprio di esprimere la rinuncia agli atti. Queste dichiarazioni devono essere compiute dalle parti o da loro procuratori speciali. Chi rinuncia deve rimborsare all’altra parte le spese, salvo diverso accordo.

2. Estinzione per inattività delle parti - (art. 307 c.p.c.): Tale inattività non è una semplice inerzia delle parti quanto una loro omissione di atti compresi in un elenco tassativo. Si può distinguere il caso in cui l’estinzione si ha per l’omissione dell’atto nel termine perentorio dal caso in cui l’estinzione si verifica per il mancato compimento di un atto che a sua volta costituisce il rimedio di una precedente omissione.

In entrambi i casi di estinzione del processo, l’art. 307 c.p.c. dispone che il processo deve essere riassunto davanti allo stesso giudice nel termine perentorio di 3 mesi altrimenti il processo si estingue. La riassunzione avviene con notificazione di una comparsa per la comparizione innanzi al G.I. o all’organo decidente, se la cancellazione è stata ordinata da questo.

L'estinzione si verifica come conseguenza immediata dell’omissione (senza possibilità di riassunzione) quando, una volta avvenuta la riassunzione a seguito di una delle 2 ipotesi precedenti, le parti siano incorse nuovamente in una delle medesime omissioni. L’estinzione si determina immediatamente se le parti, alle quali spetta rinnovare la citazione, proseguire, riassumere o integrare il giudizio, non vi provvedono nel termine perentorio stabilito dalla legge o fissato dal giudice (non inferiore a 1 mese né superiore a 3 mesi).

L'estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d’ufficio, con ordinanza del G.I. ovvero con sentenza del collegio (art. 307, 4° comma c.p.c.). Il provvedimento di estinzione è soggetto a controllo attraverso la possibilità di impugnazione. Se si tratta di cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale e il provvedimento è una sentenza del collegio, si ha il normale regime delle impugnazioni. Se l’estinzione è pronunciata dal giudice in composizione monocratica, il reclamo perderebbe ogni ragion d’essere a causa della sovrapposizione nella stessa persona fisica dell’organo dell’istruzione e dell’organo decidente.

Il termine perentorio per la proposizione del reclamo è di 10gg e decorre dalla pronuncia dell’ordinanza o dalla comunicazione dell’ordinanza medesima. Il collegio provvede entro 15gg e si pronuncia in camera di consiglio con sentenza definitiva, se respinge il reclamo; altrimenti con ordinanza non impugnabile.

Per quanto riguarda gli effetti dell’estinzione, l’art. 310 c.p.c. stabilisce che l’estinzione non estingue l’azione, cioè il diritto sostanziale oggetto del processo rimane integro e l’azione per far valere quel diritto può essere riproposta, purché non sia già stata pronunciata sentenza sul merito anche se non definitiva. L’articolo prosegue disponendo che l’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti ma non le sentenze di merito pronunciate durante il processo. E’ fatta salva anche l’efficacia delle pronunce che regolano la competenza. Le prove raccolte nel processo estinto perdono efficacia ma possono essere valutate dal giudice in un eventuale altro processo come argomenti di prova. Le spese del processo estinto rimangono a carico di chi le ha anticipate.

Se l’estinzione riguarda una o alcune tra le cause connesse, si parla di estinzione parziale.

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Cessazione della materia del contendere : Essa è il riflesso processuale del mutamento della situazione sostanziale, quando questa dà luogo al venir meno della ragion d’essere del giudizio, sia per ragioni obbiettive, come la morte del coniuge in un giudizio di separazione, sia per ragioni subbiettive, come la rinuncia alla pretesa. Questo mutamento potrebbe essere una delle ragioni che sta a monte dell’estinzione per rinuncia o per inattività delle parti. Si ritiene che la cessazione della materia del contendere possa essere in qualche modo superata quando venga impugnata sotto un profilo giuridico nuovo.

Il D. Lgs. n°51/1998 ha soppresso l’ufficio del pretore, eliminando così le disposizioni comuni ai procedimenti davanti al pretore e al giudice di pace. L’art. 311 c.p.c. compie un generale richiamo alla disciplina del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, per tutto ciò che non è espressamente regolato dalle norma riguardanti il procedimento davanti al giudice di pace. L’art. 313 c.p.c. si riferisce all’ipotesi che venga proposta querela di falso, stabilendo che la competenza è riservata al tribunale. Se il giudice di pace ritiene rilevante il documento impugnato, sospende il giudizio e rimette le parti innanzi al tribunale e disponendo, su istanza di parte, che la trattazione della causa prosegua davanti a se per quelle domande indipendenti dal documento impugnato.

Il giudice di pace è un giudice a struttura uni personale, che decide secondo equità le cause il cui valore non supera i 1100 €, salvo siano stati conclusi mediante moduli o formulari.

Nel sistema precedente il potere di decidere secondo equità spettava al conciliatore, che era un giudice onorario, ossia non di carriera, prestando la sua opera senza retribuzione. Per la sua nomina non erano richiesti studi qualificati, per cui era considerato una persona saggia, adatta ad assolvere le funzioni non contenziose. Ora queste funzioni spettano al giudice di pace e si imperniano sull’attività conciliativa in modo autonomo, chiesta al giudice di pace al di fuori del giudizio ed indipendentemente da esso, anzi col proposito di evitarlo.

Alle funzioni non contenziose del giudice di pace la legge dedica l’art. 322 c.p.c., che dispone che l’istanza per la conciliazione in sede non contenziosa è proposta anche verbalmente al giudice di pace competente per territorio e che il processo verbale di conciliazione in sede non contenziosa costituisce titolo esecutivo, se la controversia rientra nella competenza del giudice di pace, mentre negli altri casi ha valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio.

Il giudice di pace possiede anche delle funzioni contenziose, a cui la legge dedica i seguenti articoli del codice:

Art. 316 c.p.c. : concerne il modo di proporre la domanda e stabilisce che si propone con citazione ad udienza fissa. Può essere proposta anche verbalmente e di essa il giudice fa redigere processo verbale, che, a cura dell’attore, è notificato con citazione a comparire a udienza fissa.

Art. 317 c.p.c. : configura un’ipotesi particolare di rappresentanza volontaria, per la quale le parti hanno la facoltà di farsi rappresentare da persona munita di mandato scritto in calce alla citazione o in atto separato, salvo che il giudice ordini la loro comparizione personale.

Art. 318, 1° comma c.p.c. : il contenuto della domanda è semplificato rispetto a quella innanzi al tribunale. Essa deve contenere l’indicazione del giudice e delle parti, l’esposizione dei fatti e l’indicazione dell’oggetto, senza richiedere l’indicazione delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda.

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Art. 318, 2° e 3° comma c.p.c. : dispone che i termini a comparire sono ridotti alla metà rispetto a quelli previsti dall'art. 163bis (90 e 150gg, quindi 45 e 75gg). Se la citazione indica un giorno nel quale il giudice di pace non tiene udienza, la comparizione è d’ufficio rimandata all’udienza immediatamente successiva.

Art. 319 c.p.c. : la costituzione delle parti si effettua depositando in cancelleria la citazione o il processo verbale con la relazione di notificazione e quando occorre, la procura, oppure presentando tali documenti al giudice in udienza. Il convenuto può svolgere le sue difese anche verbalmente all’udienza. Le parti, che non hanno precedentemente dichiarato la residenza o eletto domicilio nel comune in cui ha sede l’ufficio del giudice di pace, devono farlo con dichiarazione ricevuta nel processo verbale al momento della costituzione.

Art. 320 c.p.c. : riguardo alla trattazione della causa, il giudice effettua alla prima udienza l’interrogatorio libero delle parti, tentando la conciliazione. Se questa riesce ne redige processo verbale. Se non riesce, invita le parti a precisare definitivamente i fatti che ciascuna pone a fondamento delle domande, difese ed eccezioni, a produrre i documenti e a chiedere i mezzi di prova da assumere. Quindi vi è la possibilità di allegare nuovi fatti, a differenza di quanto avviene nel processo innanzi al tribunale. Tuttavia rimane fermo il divieto di porre nuove domande. I documenti prodotti dalle parti possono essere inseriti nel fascicolo d’ufficio e conservati fino alla definizione del giudizio.

Art. 321 c.p.c. : per la decisione della causa è previsto un iter ridotto all’essenziale, composto dall’invito alla precisazione delle conclusioni e all’immediata discussione della causa, senza che sia previsto il previo scambio di scritture defensionali. Inoltre c’è un termine di 15gg per il deposito della sentenza in cancelleria, che nelle cause di valore inferiore a 1100 € va decisa secondo equità ad eccezione di quelle riguardanti diritti indisponibili. Nel caso di contratti conclusi mediante moduli o formulari, la sentenza è assunta secondo diritto.

Secondo il nuovo sistema, tutte le sentenze del giudice di pace sono appellabili, senza limiti se pronunciate in cause di valore superiore a 1100 €, mentre ci sono dei limiti alle sole violazioni di norme di rango superiore se rese in cause di valore inferiore, tenendo sempre presente che il giudice di pace deve sempre motivare la sua pronuncia, ancorché effettuata secondo equità. In questo modo si è evitato che per cause molto semplici del giudice di pace si arrivasse subito in Cassazione: lo scopo è ovviamente di alleggerimento del suo lavoro. Secondo la Cassazione l’impugnabilità col regolamento di competenza sussiste, invece, nei confronti della sentenza del tribunale che pronuncia negativamente sulla sola competenza, quale giudice di appello nei confronti di sentenza del giudice di pace.

Esigenze di revisione del primo giudizio, che può essere viziato da qualche errore, e di certezza del diritto, hanno imposto l’articolazione del giudizio di cognizione in 3 fasi:

1. Primo grado, tribunale di primo grado;2. Grado di appello, tribunale di appello;3. Ricorso per Cassazione, Corte di Cassazione.

Questa è la possibile articolazione eventuale; eventuale perché lo svolgimento delle fasi 2 e 3 è lasciato all’iniziativa della parte che è rimasta insoddisfatta dall’esito della precedente fase di giudizio. Questa iniziativa prende il nome di impugnazione, che è una contestazione che può aver ad oggetto sia un provvedimento del giudice, per chiederne l’eliminazione o la sostituzione con altro provvedimento, sia un generico atto, per far valere un vizio dello stesso.

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Nel diritto processuale civile viene in rilievo come contestazione di una sentenza ma più nello specifico dobbiamo analizzare l’art. 323 c.p.c., il quale dispone che i mezzi per impugnare le sentenze, oltre al regolamento di competenza nei casi previsti dalla legge, sono:

Appello; Ricorso per Cassazione; Revocazione; Opposizione di terzo.

Visto che l’impugnazione è una facoltà della parte, che può esercitare o meno, si capisce la sua necessarietà al fine di introdurre la nuova fase del giudizio, altrimenti incorrendo in una implicita rinuncia ad essa con conseguente accettazione del provvedimento. L’art. 324 c.p.c. specifica, poi, un’ulteriore serie di mezzi di impugnazione, disponendo che si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta a:

Regolamento di competenza; Appello; Ricorso per Cassazione; Revocazione.

Come si può vedere, questo articolo riprende il contenuto di quello precedente, specificandolo con riferimento al concetto di cosa giudicata formale, che indica il raggiungimento della incontrovertibilità, necessaria per aversi la certezza del diritto. Essa si collega poi all’art. 2909 c.c., con riferimento alla cosa giudicata sostanziale, che esprime gli effetti sostanziali che il diritto produce, così come è stato riscontrato dai giudici. Dopo la L. n°353/1990, tutte le sentenze di primo grado sono immediatamente efficaci. Ciò oltre ad essere enunciato nel nuovo art. 282, è confermato anche nel nuovo art. 337 c.p.c., il quale dispone che l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa.

L’impugnazione, essendo l’esercizio di un’azione, ha le sue condizioni. Primo fra tutti è l’interesse ad agire, che si presenta come interesse a impugnare, per ottenere la modifica, la sostituzione o l’eliminazione di un provvedimento. Ciò vuol dire che questo interesse nasce, quando c’è stata soccombenza. E’ escluso l’interesse di mero fatto o puramente teorico ma si ritiene che l’interesse sussista anche sulla parte vittoriosa sul merito ma soccombente su una questione pregiudiziale (soccombenza teorica all’impugnazione in via incidentale) o in capo ad entrambe le parti quando si tratta della sentenza che pronuncia l’estinzione. La soccombenza è concepibile solo in capo ad un soggetto che sia stato parte nel giudizio. Per questo motivo si ritiene che siano in possesso della legittimazione ad impugnare solo i soggetti che furono parti in quel giudizio, con la conseguente legittimazione passiva a ricevere tale impugnazione. Infine l’impugnazione è esercitabile solo quando la legge abbia configurato quel provvedimento come impugnabile: è quella che si chiama possibilità giuridica di impugnazione.

In linea di massima, si deve ritenere che i mezzi di impugnazione concretamente proponibili sono quelli che la legge prevede per ciascun provvedimento così come esso si presenta sotto il profilo formale; salvi i casi eccezionali in cui questo aspetto formale sia soltanto apparente e quelli in cui la legge stessa consente di attribuire rilievo alla sostanza.

Per stabilire poi quale mezzo di impugnazione utilizzare, la giurisprudenza considera determinante la qualificazione del provvedimento effettuata dal giudice nella pronuncia della cui impugnazione si tratta: è il c.d. principio dell’apparenza. In mancanza di tale qualificazione ci si deve riferire al tipo di tutela chiesto con la domanda, secondo l’orientamento della Cassazione.

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Quindi, i requisiti e le condizioni delle impugnazioni in generale, in mancanza dei quali si avrà una pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione, sono:

a) Esistenza di un provvedimento;b) Interesse ad impugnare, determinato dalla soccombenza di una parte, che espone i

motivi di impugnazione;c) Legittimazione ad impugnare, determinata dalla qualità di parte nella precedente fase

processuale;d) Obbiettiva impugnabilità del provvedimento.

Infine il giudizio di impugnazione si distingue in 2 momenti:

fase rescindente, che contiene la critica alla decisione impugnata e tende a demolirla; fase rescissoria, che tende alla sostituzione del provvedimento impugnato con un altro.

Le impugnazioni possono essere classificate e distinte secondo diversi criteri:

A. Con riguardo alla ragione delle impugnazioni: La distinzione si fonda su ciò che si lamenta nel provvedimento impugnato, per cui tale provvedimento può essere affetto da un vero e proprio errore su una norma processuale (error in procedendo) o una norma sostanziale o un criterio di giudizio (error in judicando), costituendo i c.d. vizi del procedimento. L’omissione di pronuncia è un error in procedendo, che rileva solo su violazioni di norme processuali. Un provvedimento può essere ritenuto anche semplicemente ingiusto, cioè non affetto da errori ma fondato su una ingiusta valutazione del giudice. La dottrina ha cercato di distinguere tra rimedi di legalità e rimedi di giustizia. Tuttavia nel nostro ordinamento tale distinzione non esiste, se non con riferimento a quei rimedi concessi per far valere errori o vizi in senso stretto (mezzi a critica vincolata) e rimedi concessi per far valere anche errori o vizi comprensivi della semplice ingiustizia nella valutazione del merito (mezzi a critica libera: nel nostro ordinamento lo è solo l’appello).

B. Con riguardo al vizio di nullità come ragione dell’impugnazione; la regola dell’assorbimento dei vizi di nullità in motivi di gravame: Questa metodica di impugnazione appartiene all’ordinamento positivo solo da tempi recenti. Il sistema processuale comune prevedeva, per far valere i vizi di nullità, lo strumento della querela nullitatis. L’allargamento delle funzioni del giudizio d’appello ha fatto scomparire questo istituto, per cui ora l’appello è il solo mezzo per far valere le nullità delle sentenze di primo grado; mentre il ricorso per Cassazione è il mezzo per le sentenze di secondo grado o comunque non appellabili. Quindi la regola, per cui si riconduce ogni possibilità di far valere i vizi di nullità, che inficiano la sentenza, alle modalità dell’appello o del ricorso per Cassazione, è detta dell’assorbimento dei vizi di nullità in motivi di gravame (art. 161 c.p.c.). Si evince che se il vizio non è fatto valere nei termini e con le modalità dell’impugnazione, l’esaurimento della possibilità di impugnazione determina la sanatoria del vizio.

C. Con riguardo all’attitudine a determinare la cosa giudicata: L’art. 324 c.p.c. effettua una distinzione tra i mezzi di impugnazione in:

Mezzi ordinari, che condizionano il passaggio in giudicato se non vengono proposti nelle modalità previste;

Mezzi straordinari, che sono proponibili indipendentemente dal passaggio in giudicato del provvedimento. In questo caso il legislatore ha ritenuto opportuno consentire, in via eccezionale, di far valere elementi turbativi del giudizio, che possono essere conosciuti anche a distanza di molto tempo, come la revocazione straordinaria, o situazioni particolari che conseguono a posizioni soggettive diverse da quelle delle parti, come l’opposizione di terzo. Si tratta cioè di

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elementi che rendono impossibile o inopportuno far dipendere la relativa impugnazione da un termine rigorosamente prefissato.

D. Con riguardo alla struttura del giudizio di impugnazione: Questa distinzione è fondata sul fatto che in molti mezzi di impugnazione la fase di annullamento della sentenza viziata (c.d. fase rescindente) si svolge anteriormente e autonomamente da quella della pronuncia di una nuova sentenza destinata a sostituire la prima (c.d. fase rescissoria). Ecco allora che si avranno:

Impugnazioni rescindenti, che sono quelle in cui il giudice deve limitarsi ad annullare la sentenza, rinviando la decisione al primo giudice;

Impugnazioni rescissorie, che sono quelle in cui il giudice deve annullare il provvedimento viziato e sostituirlo con il provvedimento corretto.

E. Con riguardo al giudice dell’impugnazione: Si distingue, infine, tra: mezzi di impugnazione in cui il giudice è lo stesso che ha pronunciato il

provvedimento impugnato, come accade nella revocazione o nell’opposizione di terzo;

mezzi di impugnazione in cui il giudice è diverso da quello che ha pronunciato il provvedimento impugnato, come nell’appello o nel ricorso per Cassazione.

Nessun mezzo di impugnazione è dotato, ora, di efficacia sospensiva automatica, per cui non si fonda più la distinzione di mezzi di impugnazione sulla base della loro efficacia sospensiva.

Per quanto riguarda i termini di impugnazione dei mezzi ordinari, essi sono perentori ed è di 30gg per l’appello e per la revocazione (art. 325, 1°comma c.p.c.), mentre è di 60gg per il ricorso per Cassazione e per la revocazione contro le sentenza della Cassazione (artt. 391bis e 325, 2°comma c.p.c.). Essi decorrono dalla notificazione della sentenza a istanza della controparte. Gli effetti della notifica per il notificante si verificano al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, anche se condizionatamente al successivo perfezionarsi dell’iter notificatorio. La notificazione va effettuata, su istanza della parte, al procuratore costituito per l'altra parte, o presso lo stesso procuratore, e fa decorrere il termine nei confronti sia del notificato sia del notificante.

Per quanto riguarda i termini di impugnazione dei mezzi straordinari. I mezzi straordinari non impediscono il passaggio in giudicato proprio perché il termine per la loro impugnazione non può incominciare a decorrere da un momento predeterminato ma coincide con un evento che può verificarsi anche molto tempo dopo la notificazione della sentenza o non verificarsi affatto. Normalmente esso è di 30gg ma nel caso dell’opposizione di terzo manca qualsiasi termine. Se durante la decorrenza del termine, si verifica un evento che è causa di interruzione del processo, l’art. 328 dispone che il termine sia interrotto e che il nuovo termine decorra dalla rinnovazione della notificazione della sentenza, che può essere effettuata agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto.

Indipendentemente dalla notificazione della sentenza, un termine di decadenza delle impugnazioni decorre comunque, ai sensi dell’art. 327 c.p.c., dalla pubblicazione della sentenza, anche se non comunicata dal cancelliere. In questo modo si evita che il passaggio in giudicato sia protratto all’infinito. Si tratta ovviamente di un termine più lungo ed è pari a 6 mesi. Questa disposizione non si applica nei confronti della parte contumace, che dimostra di non avere avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o notificazione. Se, però, dopo 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza non notificata si verifica un evento interruttivo, il c.d. termine lungo è prorogato per tutte le parti di 6 mesi dal giorno dell’evento.

Per evitare la decadenza, ovviamente occorre che l’impugnazione sia proposta prima che il termine sia decorso. Quale che sia l’atto introduttivo dell’impugnazione, vale, in generale, la regola secondo la quale l’atto introduttivo di impugnazione di fronte al giudice competente non

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produce effetti fino a quando non sia notificato. Questa notificazione va fatta secondo le modalità previste dall’art. 330 c.p.c.: se nell'atto di notificazione della sentenza, la parte ha dichiarato la sua residenza o eletto domicilio nella circoscrizione del giudice che l’ha pronunciata, l’impugnazione deve essere notificata nel luogo indicato; altrimenti si notifica presso il procuratore costituito nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per quel giudizio. Se la parte vittoriosa è defunta dopo la notificazione della sentenza, l’impugnazione può essere notificata nei luoghi indicati precedentemente agli eredi della parte defunta. Al contumace l'impugnazione va notificata personalmente ex art. 292, ultimo comma c.p.c. Prima della riforma dell’art. 330 c.p.c. ad opera della L. n°69/2009, operava il corollario per il quale, se la notificazione è effettuata presso il procuratore costituito per più parti, occorre la consegna di tante copie quante sono le parti destinatarie.

L’ufficiale giudiziario che ha notificato l’impugnazione deve avvisare per iscritto il cancelliere del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata affinché ne compia annotazione sull’originale. Infine, dall’impugnazione si può decadere anche per effetto dell'acquiescenza, che consiste nell’accettazione espressa della sentenza oppure nell’accettazione che è implicita nel compimento di atti incompatibili con la volontà di impugnare (art. 329 c.p.c.). L'impugnazione parziale implica l’acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate e su di esse scende il giudicato. L’impugnazione dichiarata inammissibile non può essere riproposta, dando luogo alla c.d. consumazione o consunzione dell’impugnazione.

L’estinzione del procedimento di appello o di revocazione fa passare in giudicato la sentenza impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto.

Se mancano i requisiti per l’impugnazione si parla di inammissibilità dell’impugnazione, mentre l’omissione di attività che la legge ritiene necessarie danno luogo all’improcedibilità dell’impugnazione. Entrambe sono riconducibili all’ampia nozione di nullità.

Una delle fondamentali preoccupazioni del legislatore nella disciplina delle impugnazioni è quella di mantenere unitario il giudizio di impugnazione contro la stessa sentenza. In tal senso si possono verificare 2 fattispecie a cui il legislatore ha cercato di trovare una soluzione:

1. Pluralità di parti , che a sua volta fa riferimento a 2 ipotesi distinte:I. Pluralità non sussistente nel grado precedente: in questa ipotesi la pluralità in

sede di impugnazione può conseguire alla successione di una parte deceduta o estinta a favore di più soggetti, i quali all’impugnazione dovranno partecipare tutti, quali litisconsorti necessari.

II. Pluralità sussistente nel grado precedente, che la legge riconduce a 2 situazioni diverse:

a) “Sentenza resa in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti”: la causa inscindibile con più parti è quella nella quale la pluralità di parti nel giudizio di primo grado era stata determinata dalla necessarietà del litisconsorzio o da eventi sopravvenuti come la successione di più persone a una delle parti. Le cause tra loro dipendenti sono quelle cause legate tra loro per via del vincolo di pregiudizialità o garanzia. In questi casi la legge esige che anche il giudizio d’impugnazione si svolga nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al grado precedente, perché altrimenti tale pronuncia sarebbe inutiliter data. Si dà luogo a un litisconsorzio necessario (e così l’art. 331, 1° comma lo disciplina), anche se precedentemente non sussisteva.

b) “Sentenza resa in cause scindibili”: sono quelle cause che, essendo state cumulate e trattate insieme in primo grado per la loro connessione

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oggettiva, con conseguente litisconsorzio facoltativo, rimangono tuttavia separabili. L’unica cosa che il legislatore vuole evitare è l’evenienza che nei confronti della stessa sentenza si svolgano diversi procedimenti di impugnazione. Per questo motivo, l’art. 332, 1° comma dispone che, nel caso d’impugnazione proposta da sole alcune parti, sia notificata l’impugnazione anche alle altri parti, che così possono partecipare se lo vogliono. La sanzione, nel caso in cui non si ottemperi a tale ordine, è solo la sospensione del processo fino a quando le altre parti siano decadute dall’impugnazione. Le parti che si siano eventualmente integrate al contraddittorio possono rimanere contumaci. In ogni caso ex art. 333 c.p.c. la parte che è provocata, se vuole impugnare a sua volta la sentenza, ha l’onere di farlo nello stesso processo.

2. Impugnazioni dello stesso tipo (impugnazioni incidentali) : la prima norma che viene in rilievo in questo caso è l’art. 335 c.p.c., che dispone che tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite, anche d’ufficio, in un solo processo. Nel caso che poi la parte, nei cui confronti è stata proposta l’impugnazione, voglia a sua volta impugnare la sentenza, l’art. 333 dispone che la nuova impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, in via incidentale nello stesso processo nel primo atto d’ingresso del giudizio di impugnazione. In caso di impugnazioni incidentali tardive, le parti contro le quali è stata proposta impugnazione e quelle chiamate ad integrare il contraddittorio possono proporre impugnazione incidentale anche quando per esse è decorso il termine o hanno fatto acquiescenza alla sentenza. Questa non ha ragion d’esistere se l’impugnazione principale non ha motivo di esistere (art. 334 c.p.c.). Si impone poi una sorta di scelta tra l’impugnazione differita, da proporsi insieme con l’impugnazione della sentenza definitiva e l’impugnazione immediata. Nell’ipotesi opposta di impugnazione solo parziale si dispone che l’eventuale riforma o cassazione parziale della sentenza ha effetto anche sulle parti che dipendono da essa (c.d. effetto espansivo interno). La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti che sono dipendenti da esse (c.d. effetto espansivo esterno). L’orientamento che vuole l’unicità dell’impugnazione contro la stessa sentenza trova riscontro nella regola secondo la quale l’impugnazione non può avere ad oggetto che una sola sentenza. Nel caso, invece, di più impugnazioni nei confronti dello stesso provvedimento, se si tratta di stesso tipo di impugnazione allora per il principio di litispendenza quelli successivi sono inammissibili; se invece sono si tipo diverso non sussiste la litispendenza e ciascuno dei giudici aditi pronuncerà sull’ammissibilità dell’impugnazione proposta.

L’appello, appartenente alla serie delle impugnazioni ordinarie, è l’unico gravame in senso stretto e introduce un secondo grado di giudizio. Con esclusione di quei punti della decisione di primo grado che non siano stati impugnati, la sentenza di secondo grado si sostituisce ad essa. Quindi il suo primo elemento è il carattere sostitutivo. L’art. 339 c.p.c. dispone che possono essere impugnate tutte le sentenza pronunciate in primo grado, purché l’appello non sia escluso dalla legge o dall’accordo delle parti, quando questo sia volto ad effettuare immediatamente il ricorso per Cassazione (omissio medio). Sono invece inappellabili le sentenze che sono così dichiarate dalla legge, le sentenze pronunciate secondo equità, ad eccezione di quelle non eccedenti il valore di 1100 € che sono appellabili solo per violazione di norme costituzionali o europee. Per quanto riguarda le sentenze non definitive, l’appello può essere proposto immediatamente dopo la loro pronuncia. Un differimento degli eventuali termini, ammissibile solo se se ne sia fatta riserva, provoca la possibilità dell’appello fino alla pronuncia della sentenza definitiva. La mancata riserva in tal senso non impedisce l’appello immediato se non sono decorsi i termini; mentre la riserva stessa implica che in questo modo non sia più possibile l’appello immediato. Nel caso di estinzione del processo di primo grado, la sentenza non definitiva oggetto di riserva di appello diventa appellabile nel termine che

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decorre dal giorno in cui passa in giudicato o diviene irrevocabile il provvedimento di estinzione. La proposizione di appello immediato non impedisce che il giudizio di primo grado prosegua.

Nei limiti delle censure contenute nella domanda di appello, questo giudizio è lo stesso di quello di primo grado: si parla perciò di effetto devolutivo dell’appello. Questo però opera solo se ciascuna domanda e ciascuna eccezione siano espressamente riproposte, perché in mancanza si decade dalla loro proposizione e sulle stesse scende il giudicato.

Ancorché non espressamente prevista in alcuna norma, fondamentale è anche il c.d. divieto di reformatio in pejus, per il quale la parte appellante chiede una riforma in meglio e non in peggio.

Inoltre per il principio del doppio grado di giurisdizione si vuole che l’oggetto del giudizio sia solo quello del giudizio di primo grado. Perciò non sono ammesse nuove domande in appello, ad eccezione di quelle che costituiscono uno svolgimento logico o cronologico di domande già proposte (art. 345 c.p.c.). Ovviamente non si ha domanda nuova in caso di mutamento della sola qualificazione giuridica, che il giudice può fare fermi i fatti. La Cassazione ritiene, ad esempio, che è diversa la domanda di risarcimento del danno esistenziale rispetto alla domanda di risarcimento del danno biologico, come pure è diversa la domanda fondata sulla corresponsabilità nella produzione del sinistro. L’art. 345, 3° comma prevede l’inammissibilità di nuovi mezzi di prova, ad esclusione del giuramento decisorio, a meno che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, nonché se la parte dimostra di non averli potuto proporre in primo grado per causa che non gli è imputabile. Quindi il giudizio di appello ha una natura di controllo e rinnovazione del giudizio di primo grado, che è detta revisio prioris instantiae.

Le cause in grado di appello non sono più incluse dall’art. 50bis tra quelle da decidersi sempre dal collegio, per cui, ex art. 350 c.p.c., davanti alla corte d’appello è eliminata la fase seguita dall’istruttore, mentre davanti al tribunale, che giudica in sede di appello contro le sentenze del giudice di pace, l’intero giudizio si svolge davanti a un giudice monocratico.

Anche se gli artt. 350 e 351 parlano di prima udienza davanti al collegio, si deve ritenere che questa possa essere anche l’unica, considerando che l’art. 352 dispone che il collegio, ove non disponga atti istruttori, compie gli atti che preludono alla decisione. Con l’eliminazione della fase davanti all’istruttore, rimane eliminata, in appello, la sua figura, le cui funzioni sono svolte dal collegio per quanto riguarda la trattazione e anche i singoli atti istruttori. Quindi l’intero giudizio davanti la corte di appello si svolge davanti al collegio o all’organo decidente.

Le parti sono l'appellante (colui che propone l’appello) e l’appellato (colui che lo subisce, può essere anche un appellante in via incidentale). L'interveniente in appello può configurarsi solo ipoteticamente ed è ammesso per coloro i quali sono legittimati all'opposizione di terzo (art. 344 c.p.c.).

Il giudice competente è quello superiore rispetto al primo grado:

Corte d'appello rispetto alle sentenze del tribunale; Tribunale in composizione monocratica rispetto alle sentenze del giudice di pace.

L’atto introduttivo è un atto di citazione, che, oltre ai normali requisiti, deve contenere l'indicazione dei motivi specifici di impugnazione (art. 342 c.p.c.). L'atto di citazione non produce effetti se non è sottoscritto e notificato.

La comparsa di risposta è il primo atto difensivo, che deve contenere, a pena di decadenza, l'eventuale appello incidentale, che è l’unico modo per l’appellato di impugnare la sentenza.

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Esso può essere anche tardivo o condizionato alla conferma o rigetto del capo impugnato in via principale.

La costituzione delle parti avviene con le stesse modalità e termini del primo grado. La costituzione dell’appellato sana i vizi della citazione, con salvezza dei diritti quesiti.

La fase di trattazione si svolge in Corte d’appello davanti al collegio, in tribunale davanti al giudice monocratico, ex art. 350, 1° comma c.p.c. Il 2° comma dello stesso articolo dispone poi che nella prima udienza il collegio verifica la regolare costituzione del giudizio, ne ordina l’eventuale integrazione o notificazione, dichiara l’eventuale contumacia dell’appellato e provvede alla riunione dei diversi appelli proposti.

L’inammissibilità va pronunciata nei casi di appello proposto dopo la decadenza del termine o per acquiescenza o per il difetto delle condizioni per impugnare o per l’inottemperanza all’ordine di integrazione del contraddittorio. L'inammissibilità e l'improcedibilità dell'appello vanno pronunciate con sentenza. L'improcedibilità va dichiarata, anche d’ufficio, quando l'appellante non si sia costituito in termini, o, pur essendosi costituito, non è comparso alla prima udienza, previa fissazione di altra udienza (art. 348 c.p.c.).

Alla prima udienza il collegio provvede, con ordinanza non impugnabile, sull' istanza di sospensione dell'esecuzione o dell'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, solo se sussistono gravi e fondati motivi.

Fermo l’onere di proporre con l’appello le istanze probatorie inerenti ai motivi di appello, le parti possono ottenere il rinvio della trattazione per deduzioni, con la conseguente preclusione, che altrimenti si verificherà all’udienza di precisazione delle conclusioni. L’assunzione o la rinnovazione delle prove è sempre riservata all’organo decidente, esclusa ogni possibilità di delega del collegio ad uno dei suoi membri.

L’ art. 352 c.p.c. dispone che il giudice (il collegio della corte di appello o il tribunale in composizione monocratica), ove non provveda a disporre o a rinnovare prove, invita le parti a precisare le conclusioni e dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. Quindi la rimessione in decisione avviene con le stesse modalità del giudizio di primo grado. Sempre in questo art. 352 è stabilito il termine di 60gg (dalla scadenza del termine per il deposito della memoria di replica) per il deposito della sentenza. Con riguardo all’eventuale richiesta di discussione, di distinguono 2 ipotesi fondamentali, così prevedibili:

a) Nei giudizi davanti alla corte d’appello: La facoltà di ciascuna delle parti al momento della precisazione delle conclusioni

di chiedere la discussione orale davanti al collegio; La fissazione con decreto della data di udienza di discussione da tenersi entro

60gg e con la contemporanea designazione del relatore; La disciplina dell’udienza di discussione, che si articola nella relazione della

causa e nella discussione vera e propria, seguita dalla deliberazione e dal deposito della sentenza entro i 60gg successivi.

b) Nei giudizi davanti al tribunale (in composizione monocratica): a richiesta di una delle parti, lo scambio, da disporsi dal giudice, delle sole comparse conclusionali e la fissazione dell’udienza di discussione non oltre i 60gg dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse medesime. La sentenza è depositata in cancelleria nei 60gg successivi.

La motivazione della sentenza può anche esaurirsi in un richiamo agli argomenti della sentenza di primo grado, purché confuti le censure sollevate contro di essi.

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Per l'eventuale ammissione o rinnovazione di una prova è disposta un’ordinanza dell'organo decidente (art. 356, 1° comma c.p.c.).

La sentenza del giudizio d'appello è sempre e comunque di secondo grado, quand’anche si limiti a pronunciare la nullità del giudizio di primo grado, salvi i casi eccezionali (nei quali il giudice di appello deve rimettere la causa giudice di primo grado) in cui la sentenza è affetta da vizi talmente gravi che ne fanno supporre la sua inesistenza. Questo avviene in caso di mancata sottoscrizione della sentenza da parte del giudice o in altri casi quali la rimessione al primo giudice, dichiarando che ha sulla causa la giurisdizione negata dal primo (art. 353 c.p.c.) o ancora nel caso in cui dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva o riconosca che in primo grado mancava il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte (art. 354 c.p.c.). La rimessione effettiva al giudice di primo grado non avviene d’ufficio ma sempre su impulso di parte, la quale provvede a riassumere la causa innanzi al primo giudice, da notificarsi entro il termine perentorio, sotto pena di estinzione, di 3 mesi dalla pubblicazione della sentenza di rimessione. Questi casi in cui è possibile la rimessione al giudice di primo grado sono tassativi, per cui al di fuori di queste ipotesi opera la regola della conversione dei vizi in motivi di gravame e sarà il giudice d’appello a dover decidere sul merito.

Se il giudice d’appello dichiara la propria incompetenza, l’appellante, secondo la Cassazione, ove non ritenga di proporre il regolamento, può fruire della translatio judicii ex art. 40 c.p.c.

Nel merito la sentenza di secondo grado può essere di accoglimento o di rigetto, si sostituisce a quella di primo grado, comportandone la caducazione, pure per quanto riguarda le spese.

Il giudice d’appello può limitarsi anche a una semplice pronuncia sul processo, che preclude l’esame del merito.

Nel caso si tratti di appello contro sentenza non definitiva, se l’istruttoria era stata sospesa si prevede la riassunzione nel termine di 6 mesi dalla comunicazione della sentenza che definisce l’appello. Nel caso però della riforma della sentenza non definitiva si prevede la facoltà dell’istruttore di disporre, in caso di ricorso per Cassazione e previa istanza della parte interessata, la sospensione dell’istruttoria fino alla definizione del giudizio di Cassazione. La sentenza di appello ha anche efficacia costitutiva. Il giudizio di appello può chiudersi per rinuncia, che da luogo al passaggio in giudicato della sentenza appellata. Per quanto concerne la pronuncia di estinzione del giudizio, il meccanismo di rinvio alle norme sul primo grado esige che la pronuncia avvenga in camera di consiglio. In sede di appello davanti al tribunale in composizione monocratica, l’estinzione va pronunciata con sentenza; se pronunciata con ordinanza, questa ha natura di sentenza ed è ricorribile per Cassazione.

Il ricorso per Cassazione è un mezzo d’impugnazione ordinaria, la cui proposizione impedisce il passaggio in giudicato della sentenza. A differenza dell’appello, però, non ha effetto devolutivo, cioè non introduce una rinnovazione del giudizio e perciò non può essere considerato una terza istanza di giudizio. Ciò vuol dire che con esso si fanno valere soltanto errori nel procedere o nel giudicare, esclusa la generica ingiustizia. E’ un giudizio a critica vincolata e a cognizione, determinata dall’ambito della denuncia fatta attraverso il motivo. Il rimedio della Cassazione è un rimedio di legalità. Il ricorso non ha effetto sospensivo della sentenza impugnata, a meno che dall’esecuzione della sentenza possa derivare un danno grave ed irreparabile. In questo caso la legge consente al giudice, che ha pronunciato la sentenza impugnata, di disporre, con ordinanza non impugnabile, la sospensione dell’esecuzione (art. 373 c.p.c.). E’ anche un giudizio essenzialmente di diritto in quanto è inteso a controllare la puntuale applicazione della legge ad opera dei giudici. Infatti, ex art. 65 dell’ordinamento giudiziario, la Cassazione assicura:

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1. l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge;2. l’unità del diritto oggettivo nazionale;3. il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni.

Questa è l’importante funzione di nomofilachia, che permette l’interpretazione elastica delle c.d. clausole generali. Per questo motivo è presente un unico ufficio su tutto il territorio nazionale, garantendo il rispetto dell’uguaglianza costituzionale. Sempre in questa direzione deve essere letto l’art. 363, che ammette di ricorrere per Cassazione, quand’anche le parti siano decadute dalla possibilità di farlo, quando c’è in gioco un principio di diritto nell’interesse della legge e la cui decisione non influisce sul rapporto tra le parti. Di formazione solo giurisprudenziale, invece, il fenomeno delle sentenze additive di principio, che sono orientate appunto a formulare un principio. L’art. 360 dispone che l’impugnazione con ricorso per cassazione si può fare nei confronti di:

le sentenze pronunciate in grado di appello, che possono essere della Corte d’appello o del tribunale a seconda di quale sia stato il giudice di primo grado;

le sentenze pronunciate in unico grado, che sono quelle nei cui confronti non è ammesso l’appello per la particolare struttura del giudizio o perché l'appello è escluso per legge;

le sentenze appellabili del tribunale, rispetto alle quali le parti si siano accordate per omettere l’appello. Questi sono i c.d. accordi di “omisso medio”, validi solo se il ricorso per Cassazione viene proposto per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro

Per quanto riguarda le sentenze del giudice di pace, abbiamo visto che non opera più l’immediata portata precettiva dell’art. 111, 7° comma Cost., che dispone che contro le sentenze è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge. Tuttavia la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è orientata verso il c.d. ricorso straordinario per Cassazione, che si applica non soltanto ai provvedimenti che hanno la forma della sentenza ma anche a ogni altro provvedimento con forma diversa, purché questo incida su diritti soggettivi, abbia natura decisoria, e non altrimenti impugnabile. Ciò è vero in quanto il termine “sentenza” usato nella Costituzione non ha la stessa portata che ha nel c.p.c., indicando perciò ogni provvedimento decisorio. Sono ricorribili per Cassazione le sentenze definitive; ma anche per quelle non definitive è ammesso il ricorso immediato. Al riguardo l’art. 361, 1° comma dispone che, contro le sentenze che decidono una o alcune delle domande senza definire il giudizio o contro le sentenze di condanna generica, il ricorso per Cassazione può essere differito qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso e non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza stessa. Possono essere impugnate con ricorso per Cassazione pure le sentenze che decidono questioni insorte senza definire nemmeno parzialmente il giudizio e può essere proposto, senza necessità di riserva, quando sia impugnata la sentenza che definisce parzialmente il giudizio.

In caso di riserva, il ricorso va proposto insieme a quello contro la sentenza definitiva o la sentenza successiva e tale riserva non può effettuarsi, e se effettuata perde efficacia, quando la sentenza è impugnata con ricorso immediato da alcuna della parti.

Sono ricorribili per Cassazione anche le decisioni dei giudici speciali, solo per motivi attinenti alla giurisdizione, entro 60gg ai sensi dell’art. 362, 1° comma c.p.c. Invece, ex art. 362, 2° comma, si può ricorrere in ogni tempo per:

i conflitti positivi e negativi di giurisdizione tra giudici speciali o tra questi e i giudici ordinari;

i conflitti negativi di attribuzione tra la P.A. e il giudice ordinario. In questo caso se la P.A. ritiene di non essere parte, in quanto contesta la giurisdizione del giudice ordinario

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per i poteri che la legge le attribuisce, deve seguire una procedura che vede: una richiesta, effettuata con decreto motivato dal prefetto, che è notificato alle parti e al P.M. presso il giudice innanzi al quale pende la causa. Questi comunica il decreto al capo dell’ufficio giudiziario, che sospende il procedimento. La corte viene così investita della questione di giurisdizione con ricorso a cura della parte più diligente, entro il termine perentorio di 30gg dalla notificazione del decreto.

L'ammissibilità del ricorso per cassazione dipende dalla sussistenza dei motivi di ricorso, i quali vengono, di solito, suddivisi in 2 categorie:

1. Vizi di attività : sono, in primo luogo, tutti quelli determinati da erronea applicazione della legge processuale. Quindi ai sensi dell’art. 360, 1° comma rientrano tra questi vizi:

la nullità della sentenza o del procedimento, determinata dalla nullità di un atto che inficia tutta la sentenza (1° comma n.4);

i motivi attinenti alla giurisdizione (1° comma n.1); la violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il

regolamento di competenza (1° comma n.2); l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e

decisivo per il giudizio (1° comma n.5). Esso si esaurisce in una censura dell’iter logico che ha condotto al giudizio di merito.

Con riguardo all’esame di questi vizi, si suole dire che la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto, tenendo conto che i fatti dei quali la Cassazione può conoscere sono i fatti processuali, che riguardano l’attività processuale, che essa può censurare.

2. Vizi di giudizio : sono quelli determinati da erronea applicazione della legge sostanziale. Ai sensi dell’art. 360, 1° comma n.3, facciamo riferimento alla violazione o falsa applicazione di norme di diritto, che includono i contratti e gli accordi collettivi nazionali di lavoro. Si ritiene che vi rientrino anche le leggi straniere ed, eccezionalmente, lo jus superveniens. Nell’ambito dei contratti o degli accordi collettivi nazionali di lavoro è prevista una sentenza immediata, ricorribile solo per Cassazione, su questioni pregiudiziali di interpretazione dei suddetti contratti od accordi collettivi.

Oggetto del giudizio di Cassazione è la richiesta di cassare la sentenza impugnata, che viene presentata all’unico ufficio competente per tutto il territorio, ossia la Corte di Cassazione.

Le parti sono il ricorrente e il resistente, con la possibilità che questi, in via incidentale, diventi ricorrente. E’ inammissibile l'intervento di terzi. Manca la fase di istruzione e l’unico organo operante è il collegio.

L’instaurazione del giudizio avviene per mezzo di un ricorso, rivolto alla Corte, che non contiene la vocatio in jus, ed è notificato al resistente prima del deposito stesso. L’art. 366, 1° comma c.p.c. stabilisce il contenuto del ricorso, che deve contenere, a pena di inammissibilità, i seguenti elementi:

1. L’indicazione delle parti;2. L’indicazione della sentenza o della decisione impugnata;3. L’esposizione sommaria dei fatti della causa, che è richiesta dalla giurisprudenza della

Cassazione, che si richiama al “principio della autosufficienza”, per rendersi conto delle censure sollevate;

4. I motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano e delle ragioni per le quali si censura la loro applicazione. Questo mezzo di impugnazione, essendo privo di effetto devolutivo ed a critica vincolata, ha un oggetto tendenzialmente limitato alle censure sollevate, per cui l’indicazione dei motivi ha una funzione determinativa e limitativa dell’oggetto di giudizio. In questo caso si ha una

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portata limitativa del principio jura novit Curia. Si ritiene però che sia possibile la prospettazione di nuove questioni di diritto rilevabili di ufficio ma solo se si fondano sugli stessi elementi di diritto dedotti in sede di merito e non richiedono nuovi accertamenti. I motivi hanno portata limitativa anche nell’ipotesi di jus superveniens. Tra i vizi rilevabili d’ufficio rientrerebbe il vizio di nullità della citazione introduttiva di primo grado se non rilevato nei gradi precedenti che tuttavia è stato escluso dalla giurisprudenza successiva;

5. L’indicazione della procura, se conferita con atto separato e, nel caso di ammissione al gratuito patrocinio, del relativo decreto. La procura può essere rilasciata in calce o a margine del ricorso e viene rilasciata dalla parte personalmente o da un suo procuratore ad negotia. Non è valida quella rilasciata prima della pubblicazione della sentenza impugnata. La mancanza di certificazione ad opera di difensore non iscritto all’albo speciale non è motivo di nullità in mancanza di contestazione;

6. La specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso.

L'elezione di domicilio in Roma è necessaria per evitare che le notifiche vengano effettuate nella cancelleria della Corte di Cassazione (art. 366, 2°comma c.p.c.). Il D. Lgs. n°40/2006 ha aggiunto ulteriori 2 commi all’art. 366, i quali stabiliscono che, nel caso dell’accordo per ricorrere in Cassazione omisso medio, l’accordo delle parti deve risultare mediante visto apposto sul ricorso dalle altre parti o dai loro difensori, oppure mediante atto separato, e che le comunicazioni si possono fare anche tramite fax o posta elettronica certificata. Prima di essere notificato, il ricorso va sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell'apposito albo munito di procura speciale (art. 365 c.p.c.). L’atto d’impulso alla notificazione del ricorso è il deposito del ricorso nella cancelleria della Corte di Cassazione entro il termine di 20gg dall’ultima notificazione, a pena di improcedibilità del ricorso. Nello stesso articolo 369 c.p.c. sono elencati i documenti che debbono essere depositati insieme con il ricorso:

1. L’eventuale decreto di concessione del gratuito patrocinio;2. Copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relativa notificazione,

se questa è avvenuta oppure copia autentica dei provvedimenti dai quali risultano i conflitti di giurisdizione o di attribuzione tra la P.A. e il giudice ordinario;

3. La procura speciale, se questa è conferita con atto separato;4. Gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda;5. Il fascicolo di parte relativo alle fasi merito.

In Cassazione non si possono produrre documenti non prodotti in precedenza, eccezion fatta per quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l'ammissibilità del ricorso. Questi ultimi producibili anche dopo il deposito del ricorso, previa notifica del relativo elenco alle altre parti (art. 372 c.p.c.).

Se da un lato il ricorso per Cassazione non ha effetto sospensivo della sentenza impugnata, dall’altro cosa diversa è la sospensione del processo di merito per effetto della proposizione del regolamento di giurisdizione o di competenza, perché si tratta della sospensione di un procedimento e non dei suoi soli effetti esecutivi. Ciò però è ammesso solo se l’istanza non sia manifestamente infondata, per evitare che si utilizzi a soli fini dilatori.

La parte resistente può non replicare al ricorso ma può resistere attraverso il controricorso, che è rivolto alla Corte ma viene notificato al ricorrente entro 20gg dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso, cioè 40gg dalla notificazione del ricorso. Con esso chiede il rigetto del ricorso, esponendo le sue ragioni. Il resistente incidentale può presentare un controricorso incidentale.

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L’eventuale ordine di integrazione del contraddittorio si deve ottemperare, ai sensi dell’art. 371bis c.p.c., entro il termine perentorio assegnato e si deve depositare entro 20gg dalla scadenza del termine assegnato.

Un particolare tipo di ricorso incidentale è quello condizionato, che è un ricorso destinato ad essere preso in considerazione solo in caso di accoglimento del ricorso principale. La giurisprudenza della Cassazione ritiene che questo strumento sia consentito solo quando la parte vittoriosa è risultata effettivamente soccombente su questioni pregiudiziali o preliminari esaminate. In questa fase non opera l’interruzione e non è ammesso l’intervento di terzi non partecipanti alle fasi di merito.

Per quanto riguarda la fase di decisione: Dopo la fase introduttiva, la causa è già matura per la decisione. Essa viene discussa oralmente in un’unica pubblica udienza davanti al collegio, composto di 5 giudici. Tale udienza è fissata dal primo presidente con provvedimento che contiene la designazione del relatore. Di ciò viene data notizia agli avvocati delle parti almeno 20gg prima, affinché questi possano depositare una memoria scritta entro 5gg dalla prima udienza. All'udienza, dopo una succinta relazione, gli avvocati delle parti svolgono oralmente le loro difese e il P.M. espone oralmente le sue conclusioni. Non sono ammesse repliche ma solo brevi osservazioni scritte sulle conclusioni del P.M. Dopodiché la Corte si ritira in camera di consiglio per deliberare la sentenza. Fino a quando non è cominciata la relazione dell’udienza, la parte può rinunciare e l’atto di essa va sottoscritto dalla parte e dall’avvocato e poi notificato alle altre parti, che vi appongono il visto. La Corte di cassazione pronuncia a Sezioni unite nei casi disposti dall’art. 374 c.p.c.:

in materia di giurisdizione, tranne che nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti;

sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, su disposizione del primo presidente;

sui ricorsi che presentano una questione di particolare importanza, su disposizione del primo presidente;

sui ricorsi delle sezioni semplici, che rimettono alle sezioni unite, quando la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite. La rimessione avviene con ordinanza motivata.

Ai sensi poi degli artt. 375 e 391bis c.p.c., la Corte, sia a sezioni unite sia a sezioni semplici, pronuncia in camera di consiglio, ossia senza previa discussione, quando riconosce di dovere:

1. dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale e incidentale;2. ordinare l’integrazione del contraddittorio o disporre che sia eseguita la notificazione o

la rinnovazione dell’impugnazione;3. provvedere in ordine all’estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia;4. pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione;5. accogliere o rigettare il ricorso principale e l’eventuale ricorso incidentale per manifesta

fondatezza o infondatezza;6. correggere gli errori materiali e quando si tratti di revocazione delle sentenze della

Cassazione (ipotesi dell’art. 391bis).

Questo è quello che costituisce il c.d. filtro di ammissibilità nell’avvio dei ricorsi per Cassazione. In questo modo il legislatore ha cercato di rendere più celeri i provvedimenti e in questa direzione deve essere visto pure l’art. 360bis, inserito con la L. n°69/2009, il quale sancisce che il ricorso è inammissibile:

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quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa;

quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo. Infatti sono necessari argomenti seri e palesemente meritevoli di approfondimento.

Il nuovo art. 376, 1° comma dispone che il primo presidente, tranne che per i ricorsi da assegnare alla decisione delle Sezioni unite, assegna i ricorsi ad apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio. Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all’assegnazione alle sezioni semplici. Se tali presupposti sussistono, il relatore dichiara il ricorso inammissibile o manifestamente fondato o infondato. Quindi il presidente fissa con decreto l’adunanza della Corte, che insieme alla relazione vengono comunicati al P.M. e notificati agli avvocati delle parti almeno 20gg prima dell’adunanza (art. 380bis, 1° e 2° comma c.p.c.). A questo punto il successivo comma stabilisce che, se il ricorso non è dichiarato inammissibile, il relatore della sezione semplice deposita in cancelleria una relazione concisa con i motivi per i quali si deciderà in camera di consiglio. Invece, secondo il 4° comma, se si ritiene che non ricorrano le ipotesi per ordinare l’integrazione del contraddittorio o provvedere all’estinzione del processo, la Corte rinvia la causa alla pubblica udienza. Riguardo a ciò si pongono delle perplessità, considerando che in questo modo l’apposita sezione finisce per essere non soltanto un filtro ma quasi un custode della funzione nomofilattica della Corte, fino a farla prevalere sul dovere costituzionale di assicurare sempre il pieno giudizio di legittimità. Quindi il problema rimane comunque quello di bilanciare queste esigenze nel miglior modo possibile.

I possibili contenuti della decisione della Corte fanno riferimento in ogni caso all’enunciazione del principio di diritto (art. 384 c.p.c.). Nello specifico la Corte può:

1. dichiarare inammissibile o improcedibile il ricorso;2. dichiarare l’estinzione del processo per avvenuta rinuncia;3. dichiarare la cessazione della materia del contendere;4. rigettare il ricorso per difetto di motivi o per la loro infondatezza;5. statuire sulla giurisdizione e/o sulla competenza, significa determinare in maniera

definitiva e vincolante qual è il giudice che ha la giurisdizione e/o la competenza;6. accogliere il ricorso e conseguentemente:

a. cassare il provvedimento impugnato statuendo sulla competenza ;b. cassare senza rinvio , quando riconosce che il giudice che ha pronunciato il

provvedimento cassato difetta di giurisdizione, nonché per violazione delle norme sulla competenza. Significa togliere di mezzo il provvedimento impugnato statuendo che non vi è luogo ad alcuna pronuncia di giudice (giudizio rescindente senza rescissorio) (art. 382, 3° comma c.p.c.);

c. cassare con decisione sul merito , quando accoglie il ricorso e non occorrono ulteriori accertamenti di fatto. Significa chiudere il giudizio rescindente con l’eliminazione del provvedimento impugnato e passare al rescissorio, pronunciando sul merito (art. 384, 2° comma c.p.c. in fine);

d. cassare con rinvio , quando accoglie il ricorso e occorrono ulteriori accertamenti di fatto. Significa chiudere il giudizio rescindente con l’eliminazione del provvedimento impugnato e l’attribuzione della causa, per il giudizio rescissorio, ad altro giudice di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza cassata (art. 383, 1° comma c.p.c.);

e. rimettere la causa al giudice di primo grado , quando la Corte riscontra la nullità di quel giudizio, per cui il giudice di appello avrebbe dovuto rimettergli la causa. Significa disporre che il giudizio ricominci da capo (art. 383, 3° comma c.p.c.).

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La dichiarazione di inammissibilità e d’improcedibilità del ricorso impediscono la riproponibilità dello stesso. Il rigetto del ricorso o la dichiarazione di estinzione del processo danno luogo al passaggio in giudicato della sentenza impugnata. L’art. 388 c.p.c. dispone che copia della sentenza è trasmessa dal cancelliere della Corte a quello del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, affinché ne sia presa nota in margine all’originale di quest’ultima. Le sentenze della Corte non impugnabili in alcun modo, a meno che non si tratti di vizi di inesistenza. Si ritiene sia ormai ammissibile anche l’opposizione di terzo tant’è che, quando pronuncia la revocazione o accoglie l’opposizione di terzo, la Corte decide la causa nel merito o la rinvia al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata (art. 391ter c.p.c.).

Il giudizio di rinvio (può essere proprio o prosecutorio e restitutorio) è una fase autonoma dell’originario processo civile, che si svolge davanti al giudice al quale la Cassazione ha rimesso la causa e che sarebbe uno di pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza cassata. L’introduzione di questa fase avviene con la riassunzione della causa, da notificarsi alle altre parti personalmente con atto di citazione, nel termine perentorio di 3 mesi dalla pubblicazione della sentenza della Cassazione, (art. 392 c.p.c.). In caso di mancata tempestiva riassunzione, l'intero giudizio si estingue, ferme restando soltanto le pronunce passate in giudicato e non impugnate e fermo restando il principio di diritto enunciato dalla Cassazione (art. 393 c.p.c.). Se, invece, la riassunzione avviene tempestivamente, del giudizio di merito è investito il giudice di rinvio, nei limiti di quanto risulta dalla sentenza della Cassazione, la quale si è sostituita a quello di secondo grado solo in quei punti di cui è stata investita del suo ruolo. Questi limiti però non riguardano le ipotesi interpretative eventualmente prospettate dalla Cassazione, per cui il giudice è libero si seguire il proprio ragionamento purché sia in grado di giustificarlo nello schema implicito dato dalla Cassazione. Davanti al giudice di rinvio le parti conservano la loro posizione e non possono sollevare questioni preliminari diverse da quelle dedotte in Cassazione e non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel precedente giudizio, salvo che la loro necessità emerga da fatti sopravvenuti. Sono escluse anche nuove istanze istruttorie, salvo il potere di deferire il giuramento. Sono proponibili le domande di restituzione o di riduzione in pristino e ogni altra conseguente alla sentenza di Cassazione, salvo il caso in cui non ci sia stato rinvio (art. 389 c.p.c.). Davanti al giudice di rinvio sono proponibili le questioni di merito sulle quali non ci sia stata sentenza esplicita, in quanto ritenute assorbite, nonché le eccezioni fondate su fatti nuovi non allegabili nelle precedenti fasi di giudizio, che potrebbero fondare la revocazione. Il rinvio prosecutorio è quello che consegue alla violazione di norme di diritto, per vizio di motivazione. Invece quello restitutorio ha funzione appunta restitutoria, che si concreta in una sorta di passo indietro per correggere il riscontrato error in procedendo, sostituendo l’attività processuale seguita a questo errore. Quanto ai poteri del giudice di rinvio, la legge non dice nulla ma possono valere le seguenti considerazioni:

l’esame del giudice è limitato alle parti della sentenza che sono state cassate ed entro tali limiti è autonomo;

il giudice ha il potere di interpretare la sentenza della Corte; la sentenza del giudice di rinvio può essere uguale a quella cassata.

La revocazione è un mezzo di impugnazione eccezionale, che può aggiungersi o sovrapporsi alla normale serie dell’appello o della Cassazione. E’ un’impugnazione a critica vincolata ma che, in quanto investe il giudizio di fatto sulla base di motivi che solo eccezionalmente implicano una nullità, coinvolge e non la legalità del provvedimento impugnato. I provvedimenti impugnabili con questo mezzo, ex art. 395, 1° comma, sono le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado, quando:

sono effetto del dolo di una parte a danno dell’altra;

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si è giudicato in base a prove riconosciute o dichiarate false; sono stati trovati documenti decisivi dopo la sentenza; la sentenza è affetta da un errore di fatto risultante dai documenti o dagli atti; la sentenza è contraria ad altra precedente fra le parti ma che è già passata in

giudicato; la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.

La proposizione di tal mezzo d’impugnazione è possibile:

a) dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado o in sede di rinvio. In questo caso è possibile la concorrenza della revocazione con il ricorso per Cassazione. Se la prima a pronunciarsi è la Cassazione, l’annullamento della sentenza fa cessare la materia del contendere in revocazione, mentre il rigetto del ricorso elimina ogni interferenza tra i 2 giudizi. Se invece la prima pronuncia è sulla revocazione, il suo eventuale passaggio in giudicato potrebbe privare il giudizio di Cassazione del suo oggetto, mentre la sua impugnazione per Cassazione provocherebbe la riunione dei 2 giudizi;

b) dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, che sia passata in giudicato e purché siano rispettati i motivi per la revocazione straordinaria;

c) eccezionalmente, in pendenza del giudizio di appello, nel caso in cui la scoperta del vizio sia avvenuta dopo la scadenza del termine per appellare;

d) dopo la pronuncia della sentenza o dell’ordinanza della Cassazione.

La revocazione, in quanto mezzo rescindente, può essere:

Ordinaria : quando il vizio è rilevabile dalla sentenza. I motivi, per cui può essere proposta, sono palesi e conoscibili dalla parte, sin dal momento della pubblicazione della sentenza. E’ proponibile entro 30gg dalla notificazione della sentenza a meno che non si tratti di sentenze della Cassazione, per le quali il termine è di 60gg dalla notificazione ovvero di 1 anno dalla pubblicazione (art. 395, 1° comma numeri 4 e 5 c.p.c.).

Straordinaria : quando si possono far valere i vizi, di cui si viene a conoscenza dopo molto tempo, la cui impugnazione può essere fatta valere o senza termini o con un termine che decorra solo dalla loro scoperta dal momento in cui è rilevata la circostanza eccezionale su cui si fonda il motivo di revocazione. Perciò è proponibile nei soli casi espressamente previsti dalla legge, che sono i numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395, 1° comma c.p.c. Il termine di proposizione è sempre di 30gg.

Per la legittimazione e l’interesse ad agire in sede di revocazioni sono determinanti la qualità di parte e la soccombenza del richiedente nel precedente giudizio. Per la revocazione è competente lo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (art. 398, 1° comma c.p.c.). Se si tratta di sentenza della Cassazione è competente la Cassazione stessa. La domanda di revocazione si propone con atto di citazione, salvo che si tratti di sentenza della Cassazione, nel cui caso si propone con ricorso. Tale atto, sottoscritto da un difensore munito di procura speciale, deve contenere, a pena di inammissibilità, l'indicazione del motivo di revocazione e, nei casi di revocazione straordinaria, delle prove relative a tale motivo nonché del giorno in cui tale parte è venuta a conoscenza di questo evento. Tale giorno costituisce il dies a quo per il decorso del termine d’impugnazione per revocazione (art. 398, 2° comma). La costituzione delle parti avviene nelle normali modalità, ad eccezione del fatto che davanti al tribunale e alla Corte di appello il deposito della citazione deve avvenire nel termine più lungo di 20gg dalla notificazione della sentenza. La proposizione della revocazione non ha effetto sospensivo. La pronuncia può essere di inammissibilità, improcedibilità o rigetto. Se essa è di accoglimento, contiene la revocazione della sentenza impugnata, che riguarda il giudizio rescindente e apre l’adito al giudizio rescissorio. L’art. 402, 1° comma dispone che con la medesima sentenza che pronuncia la revocazione, il giudice decide il merito della causa. Nel

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caso in cui invece il giudice ritiene di non avere tutti gli elementi necessari per decidere la causa nel merito, insieme con la sentenza di revocazione, dispone, con ordinanza, la rimessione delle parti in istruttoria (art. 402, 2° comma c.p.c.). La sentenza così pronunciata si sostituisce a quella revocata ed è impugnabile con i mezzi ordinari. L’unica preclusione è che la sentenza revocata non è più impugnabile per revocazione (art. 403 c.p.c.).

L’opposizione di terzo è un mezzo di impugnazione straordinario, in quanto proponibile nonostante il passaggio in giudicato della sentenza, concesso a chi non sia stato parte in causa al fine di rimuovere gli effetti pregiudizievoli, che una sentenza, pronunciata tra le altre persone, può avere sui suoi diritti. L’opposizione è perciò un mezzo facoltativo, nel senso che la sua mancata proposizione non dà luogo a preclusioni e in particolare non impedisce che le ragioni, che si fanno valere con essa, siano fatte valere in altro modo. Infatti il terzo, non essendo soggetto alla efficacia della sentenza, può fare valere le sue ragioni in un autonomo processo. L’art. 404, 1° comma fa dipendere la sua proponibilità dal fatto che la sentenza pregiudichi i diritti del terzo. Questa norma sembra in contraddizione con l’art. 2909 c.c., però in realtà i rapporti giuridici sono molte volte coordinati tra loro, per cui in qualche modo una sentenza tra le parti influirà su diritti di terzi. Per cui si può ritenere che le ragioni dell'opposizione di terzo (ordinaria) sono in sostanza le stesse ragioni che avrebbero legittimato il terzo ad intervenire, sicché l’opposizione di terzo costituisce una sorta di intervento tardivo. Nella sostanza, con l'opposizione di terzo semplice il terzo fa valere la non estensione dell'efficacia della sentenza contro di lui, chiedendo, quindi, la rinnovazione del giudizio. L’opposizione ordinaria, disciplinata all’art. 404, 1° comma, non è consentita a tutti i terzi indistintamente, in quanto è necessaria la dipendenza del diritto che si vuol fare valere. Tuttavia il 2° comma dello stesso articolo prevede un’altra forma di opposizione, detta revocatoria, che mira ad eliminare radicalmente la sentenza impugnata, la quale, se non fosse eliminata, non potrebbe non travolgere i diritti del terzo. La legge la consente quando gli aventi causa e i creditori di una delle parti riescono a provare che la sentenza impugnata è il risultato del dolo o della collusione a loro danno.

Sia che si ratti di opposizione ordinaria sia di opposizione revocatoria, essa può essere proposta contro le sentenze passate in giudicato, compresi i provvedimenti della Corte di Cassazione quando questa pronuncia sul merito. La proponibilità è estesa, in generale, contro quelle sentenze che siano comunque esecutive, determinando la possibile coesistenza con altre impugnazioni come l’appello.

La legittimazione ad agire dipende dalla mancata partecipazione del terzo al giudizio, mentre per l’interesse ad agire occorre che il mezzo non sia divenuto inutile o soppiantato da altro strumento di tutela giurisdizionale.

Il giudice competente è quello medesimo che ha pronunciato la sentenza impugnata, ex art. 405, 1° comma. La domanda si propone con atto di citazione, che dovrà contenere l’indicazione della sentenza impugnata e, nel caso di opposizione revocatoria, l’indicazione del giorno in cui il terzo è venuto a conoscenza del dolo o della collusione, con relativa prova. In questo modo è possibile computare il decorso del termine dall’avvenuta conoscenza, come stabilito dall’art. 326, 1° comma. L’opposizione ordinaria è senza termine.

Verranno seguite le normali regole del giudice che è stato adito (art. 406 c.p.c.).

La pronuncia sull’opposizione di terzo avviene con sentenza e allo stesso tempo si decide rescindente e rescissorio. Nel caso di inammissibilità o infondatezza dell’opposizione, il giudice condannerà il terzo opponente a una pena pecuniaria (art. 408 c.p.c.).

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In linea di massima, la sentenza che definisce il giudizio sull’opposizione di terzo lascia integro il giudicato formatosi tra le parti; ma questo principio trova il suo limite nell’incompatibilità col rapporto accertato in sede di opposizione.

La sentenza è impugnabile con i mezzi che sarebbero ammissibili contro la sentenza opposta.