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PARTE PRIMA:L’ESILIO

CAPITOLO PRIMO

Dorgo, ventisette giugno. Lapendola in casa del nonno batteventidue rintocchi. Barbara, distesasul letto nella sua camera di

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sempre, cerca il sonno. Ma il sonnonon vuole venire. Troppe emozioni.

E’ il suo primo giorno divacanza. E’ arrivata questa mattina,e non da Alaria, ma direttamente daMilano, e non è stato il papà adaccompagnarla, come nelle estatidegli ultimi sei anni. E’ stata lamamma. Per la prima volta daitempi del divorzio, la mamma harimesso piede a Dorgo.

“Quella svergognata!” era andataa raccontare in giro la vecchiaCarlina, visitando tutti i negozi delpaese col pretesto di fare la spesaper un pranzo speciale. “Arrivarecosì, tutta disinvolta, in casa Lulli,

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stringendo sottobraccio il nuovomarito, e con un pancione di ottomesi! Pensate se l’avesse incontratal’Alessio!”

Per fortuna l’Alessio, il padre diBarbara, in quei giorni era inOlanda, per una vacanza di unasettimana con certi amici. Il nonnoaveva accolto a braccia aperte la exnuora, che non vedeva da sei anni;l’aveva baciata sulle guancescostandole con tenerezza i capellidalla fronte. – Sei pallida. Ti hafatto male la macchina? Non te lericordavi così brutte, eh, le nostrecurve?

Il nuovo marito della mamma, il

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patrigno, per chiamarlo col suo veronome, scaricava dalla macchina ibagagli di Barbara.

– Ecco! Ve l’abbiamo portatasana e salva, la vostra bambina,anche se in viaggio ha vomitato duevolte. Marcella mi aveva avvertitodelle famose trecentodiciassettecurve, ma non le avrei maiimmaginate così tremende.

Un incontro cordiale. Peròquando la mamma aveva fatto ilgesto di abbracciare la zia Elvira,sorella del nonno, questa le avevateso la mano col braccio rigido,impedendole di avvicinarsi. “Saràperché non l’ha perdonata, o perché

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le fa schifo il pancione?” si erachiesta Barbara.

A lei faceva schifo. E le davarabbia che sua madre se lo portassein giro con tanta disinvoltura. Conorgoglio, anzi, con ostentazione,come per dire a tutti: “Visto?Anch’io, alla mia età, sono ancoracapace di fare all’amore e di avereun bambino!” A Barbara sembravauna cosa poco decorosa. Secondo leisua madre era vecchia per quelgenere di cose. Avevaquarantaquattro anni, e un figlio diventi, Claudio, che ora studiava inuna università americana. Cosa leera saltato in mente di innamorarsi,

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di sposarsi e di farsi mettereincinta? Queste erano cose chesarebbero toccate a Barbara e allesue amiche tra un paio d’anni, nona lei.

Quando i genitori si eranoseparati, sei anni prima, Barbaraaveva pensato che fosse la cosapeggiore che le poteva capitare. Manon sapeva che sarebbe stato moltopeggio quando uno dei due si fosserisposato.

Uno, o tutti e due, perché adessoaveva una paura tremenda chequesti “amici” con cui suo padre erain Olanda in realtà fossero“amiche”, anzi, un’amica sola. Ad

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ogni modo la mamma era stata laprima. Non glielo avrebbeperdonato mai.

L’anno scorso, in ottobre,quando aveva chiamato i due figli incamera sua e arrossendo avevadetto: – Mi sposo – a Barbara eravenuto un accidente. Anche perchésubito dopo la mamma avevaaggiunto: – Andremo ad abitare aMilano.

Barbara a Milano non ci volevaandare, neanche morta. Avevasempre saputo che Lorenzo, ilfidanzato della mamma, viveva elavorava in quella città, ma questole era sembrato, allora, un

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vantaggio, perché così l’intruso sifaceva vivo soltanto durante i finesettimana. Ma non aveva maipensato che il fatto potessecostituire un pericolo per loro tre.

Quanto a lei, a Milano c’era statauna sola volta, in gita scolastica, ericordava le solite cose da turisti: ilDuomo, Sant’Ambrogio, il CastelloSforzesco, il Cenacolo di Leonardo,il Museo della Scienza e dellaTecnica. Ma alle strade, alle case,alla gente, non ci aveva badato.Sapeva che a Milano abitavanoalcuni dei molti cugini di Vittoria.Ma non erano dei più simpatici, enon le era mai venuta voglia di

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andarli a trovare.E poi, il problema non era

Milano. Lei non voleva lasciareAlaria. Neanche per andare a viverea Parigi, neanche nel Far West, o aBora Bora che al cinema e nei librierano i suoi posti preferiti. Nonvoleva cambiare casa, tanto percominciare, e tantomeno cambiarescuola.

L’idea di separarsi da Vittoria eda Valentina, le sue amiche delcuore, le era insopportabile. E poi,non voleva andare a vivere conquell’uomo. Adesso, perché suamadre se ne era innamorata, queltizio doveva piacere anche a lei?

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Fino ad allora l’aveva sopportato,questo sé, per “nobile e generosorispetto dei sentimenti altrui”, comepredicava Valentina. Ma un fatto èsopportare uno che vedi di sfuggitaun paio di volte al mese. Un fatto èvivere sotto lo stesso tetto,incontrarlo in pigiama davanti allaporta del bagno, tenere glispazzolini nello stesso bicchiere, emangiare con lui tutti i santi giorni.“Magari gli piacciono il pesce e latrippa. Magari gli salterà in mentedi educarmi, di dirmi quello chedevo e che non devo fare. Cimancherebbe anche questo! Non èmica mio padre, lui.”

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Poi non sopportava tutte lesmancerie da innamorati a cui silasciava andare la mamma, ora cheaveva annunciato a tutti la suaintenzione di sposarsi. Di[ri]sposarsi, a voler essere precisi,perché sposata lo era già, col padredi Barbara. A Barbara quei bacetti,quell’abbracciarsi negli angoli, etenersi la mano, e camminareallacciati, sembrava un modo di farepoco dignitoso. Si vergognava perlei.

– Io a Milano non ci vengo! –aveva dichiarato, guardandosperanzosa Claudio in cerca diaiuto.

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– Non fare la scema. Ci andrai,eccome. E ti piacerà, anche – avevarisposto il fratello. Tanto lui era giàiscritto a quella universitàamericana. Non gliene importavaun accidente che lei dovesselasciare il papà e tutto ciò cheamava per seguire i due piccioncininel loro nuovo nido.

– Vado a vivere con papà –aveva proposto allora Barbara.

– Neanche per sogno. Il giudiceti ha affidata a me e non c’è nessunmotivo perché adesso sia lui adaverla vinta! – aveva risposto seccala madre.

– E poi, Barbara – aveva

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aggiunto il padre più tardi – io vivoin un monolocale, lo sai. Non potreitenerti.

“Non mi vuole. Non glieneimporta niente di me. Potrebbefarmi dormire sul divano. Il fatto èche gli serve la casa libera per le suetresche con quelle orribili donneche frequenta” aveva pensatoBarbara, disperata, anche se non lerisultava che, a parte l’attricedell’estate scorsa, che erascomparsa per sempre con gli altritelenovellari, il papà frequentassenessuna donna.

– Allora vado a stare su a Dorgo,dal nonno e dalla zia Elvira.

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– Non dire stupidaggini. Saibene che a Dorgo ci sono solo lescuole elementari, e tu il prossimoautunno dovrai andare al ginnasio.

– Allora scappo di casa! – avevadeciso Barbara, sfogandosi conVittoria e Valentina. Ma sapeva chenon era possibile. Prima di tuttonon aveva soldi. Poi, anche se neavesse avuti, dove sarebbe potutaandare? In albergo, e anche peraffittarti un appartamento, tichiedono i documenti e devi esseremaggiorenne. E se la mammaavesse denunciato la suascomparsa, la polizia avrebbediramato i suoi connotati in tutta

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Italia e l’avrebbero acchiappata.– Puoi scappare in America.

Puoi andare a raggiungere ScintillaLuz! – aveva suggerito Stefano, ilfratello minore di Valentina.

Scintilla Luz! Violante diMerignac! La telenovela! Comesembrava lontana quella storiabizzarra, lo strano incontro conl’odiosa attrice bambina! Eppureerano passati solo pochi mesi. Suimuri del Palazzo della Luna c’eranoancora le tracce nere dell’incendio esulla mensola del caminetto, in casadel nonno, c’erano le foto diBarbara, Vittoria e Valentina incostume settecentesco.

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Barbara però non voleva andarein America. Voleva restare ad Alaria.Aveva promesso alla signorinaLilietta Pancaldi che al ginnasio sisarebbe iscritta nella sua sezione.Assieme a Valentina e Vittoria,naturalmente.

E invece la mamma quasi non leaveva nemmeno lasciato cominciarela terza media, ad Alaria. L’avevaportata via ai primi di novembre,subito dopo il matrimonio.

E’ tremendo quando gli adultidecidono per te, e non ti puoiopporre in alcun modo. Ti viene unarabbia impotente che ti soffoca. Tisenti come una mosca nella tela del

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ragno. Vorresti fare qualcosa perribellarti, e il fatto di essere unoggetto nelle loro mani, un oggettola cui volontà non conta niente, ti faimpazzire.

Il dolore di staccarsi da Vittoriae da Valentina era stato così forteche Barbara non lo voleva neppurericordare. Alzarsi la mattina, esapere che non le avrebbe riviste inclasse sedute al solito banco. Vederequalcosa, un quadro, una scenettaper strada, un bel ragazzo; leggereuna frase; pensare un pensiero, esapere che non glielo avrebbepotuto raccontare.

Immaginare chi avrebbe

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occupato il suo banco, ad Alaria, etemere che potesse occupare ancheil suo posto nel cuore delle amiche.Struggersi di nostalgia per dellecose stupidissime, come i gradiniconsumati della casa di Valentina,le grandi tende bianche dellacamera di Vittoria, i baci appiccicosidi Roberta, e le sue lagne perentrare a giocare nella cameradov’erano “le grandi”.

Barbara aveva subito detestatoMilano. C’era freddo: un freddounto e strisciante che si infilavasotto i vestiti, non l’aria gelida etersa come cristallo di Alaria. Quibisognava farsi lo shampoo due

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volte alla settimana, e il collo dellecamicie aveva sempre una riga nera,anche se te le cambiavi due volte algiorno.

La gente per la strada correvacome inseguita dal nemico. “Secadessi morta sul marciapiede, nonsi girerebbero neppure a guardarmi”pensava Barbara. Anche lemacchine correvano, in colonnefittissime. Attraversare la strada erasempre un’impresa irta di pericoli.

Per andare a scuola Barbaradoveva prendere due mezzi: untram e un autobus, sempre in piedi,appesa alla maniglia, con le cinghiedello zaino che le segavano le

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spalle, sballottata, schiacciata dallagente, e ogni tanto c’era qualchevecchiaccio schifoso che neapprofittava per metterle le maniaddosso. Le veniva da piangere perla stizza. E sua madre, quando glieloaveva raccontato, per tuttaconsolazione, le aveva detto: – Nonfare il pulcino bagnato. Tutte leragazze di Milano vanno in tram.Devi imparare a difenderti da sola.

Però lei in tram non ci andavamai, con la scusa che era rimastasubito incinta e che la ressa e lefrenate avrebbero fatto male albambino.

L’unico conforto per Barbara

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erano le lunghe telefonate a Vittoriae a Valentina. In teleselezione.Chiamava quasi sempre lei. Quandoera arrivata la prima bolletta deltelefono, il patrigno l’avevamandata a chiamare nel suo studio.

– Tu da oggi il telefono non lotocchi più, siamo intesi?

Si riferiva alle interurbane,naturalmente. E per essere piùsicuro aveva fatto mettere altelefono un contascatti checontrollava ogni sera, prima dichiudere la porta di casa a doppiamandata e di girare il rubinetto delgas.

Per questo Barbara lo aveva

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odiato almeno per quindici giorni.Un odio feroce, sanguinario, davolerlo vedere morto fra le peggioritorture.

Adesso le tre amiche siscrivevano lettere lunghissime. Nonera la stessa cosa che parlarsi, però.

Valentina, che amava lecitazioni, mandò a Barbara questiversi di Dante:

Tu lascerai ogni cosa dilettapiù caramente, e questo è quello

straleche l’arco dell’esilio pria saetta.E tu saprai se come sa di salelo pane altrui, e com’è duro calle

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lo scendere e il salir per l’altruiscale.

Barbara fino ad allora non aveva

mai pensato che forse stavamangiando “lo pane altrui”. Corsesubito dalla madre. – Papà ti pagaancora gli alimenti?

– Quelli per me no, non li pagapiù da quando mi sono sposata. Eanche per Claudio provvededirettamente alle spese del college.Il tuo assegno invece me lo mandaancora. Ma non lo uso, sai.

– Perché?– Perché non ne abbiamo

bisogno. Lo vedi anche da sola. Non

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ci manca niente qui, in casa diLorenzo. I tuoi soldi li metto daparte su un libretto. Ti servirannoquando sarai grande.

– Io vorrei che li usassi adesso,invece. Vorrei che quello checompri per me lo pagassi coi soldidel papà.

– Ma Barbara, non essereridicola! Come faccio? Tre chili dimele. Vediamo: quante ne mangiaBarbara a cena? Due? Allora unottavo di chilo lo pago coi soldi diAlessio. Cosa te ne importa? Tu seimia figlia, fai parte della famiglia, eLorenzo, quando mi ha sposata,sapeva che c’eri anche tu. E’

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contento che stai con noi. Ti vuolbene. E di soldi ne ha molti di più dituo padre.

Di questo Barbara se n’eraaccorta. Tutto lo stile di vita aMilano era più danaroso.L’appartamento era grande, in uncondominio di lusso. (“Però non milascia telefonare ad Alaria!”). C’erauna cameriera che veniva tutti igiorni e una bambinaia tedesca erastata già prenotata all’agenzia perquando sarebbe nato il bambino.

La macchina di Lorenzo eragrande, scura, come quelle deiministri alla televisione. Allamamma il patrigno aveva regalato

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una piccola vettura rossa, sportiva.(“Però non mi lascia telefonare adAlaria!”). E a Barbara, per ilquattordicesimo compleanno, erastato promesso un supermotorino.

Per andare dove, poi? Arespirare fumo puzzolente? A farsitravolgere e spiaccicare sull’asfaltoda quel fiume di ferro che erano leautomobili sulle strade?

– Almeno i vestiti e le cose discuola, però, le potresti pagare conquei soldi – insisteva Barbara. – Ela mia paga settimanale, e iltesserino del tram, e i biglietti delcinema.

– Va bene, va bene. – diceva la

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mamma. Ma si capiva benissimoche era soltanto per farla staretranquilla.

Così Barbara, per orgoglio,cominciò a diventare economa.“Tirchia” anzi, diceva ridendo ilpatrigno, un po’ offeso perché i suoiregali venivano rifiutati. Barbaranon voleva scarpe o vestiti nuovi.Era decisa a consumare quelli cheaveva già fino a bucarli. Scriveva finsui margini dei quaderni, disegnavacon certi mozziconi di matita chequasi non riusciva a tenere inmano, comprava i libri allebancarelle dell’usato e si guardavain giro per cercare qualche lavoretto

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e poter guadagnare un po’ di solditutti suoi. Ma non è facile, a tredicianni e mezzo, e in una città dovenon si conosce nessuno.

CAPITOLO SECONDO

– Non è possibile che in due mesi discuola non ti sia fatta neppureun’amica! – protestava la mamma,vedendola passare i pomeriggi aciondolare per la casa con ariaannoiata. – Cosa c’è che non vanelle tue compagne? Perché non

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provi a telefonare ai ragazziIntimari?

Barbara non rispondeva. Andavaa chiudersi in camera, prendeva unlibro e si buttava sul letto senzatogliersi le scarpe. Leggeva eleggeva, fino a farsi dolere gli occhi,intontita dal calore del termosifone.Quando sentiva che la madre erauscita o là in soggiorno avevaacceso il televisore, sgattaiolava incucina e si preparava un panino. Daquando stava a Milano avevasempre fame, anche se si eraappena alzata da tavola. Ma nonvoleva farsi scoprire prendendo dalfrigorifero il formaggio o il

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prosciutto che poi sarebbero servitiper cena. Perciò si preparava deglistrani intrugli, pescando un giornoqua e un giorno là; burro consottaceti; pane, marmellata e fiocchid’avena; pane e maionese,melanzane fritte, mascarpone epancetta.

Ogni tanto sulla fronte o sulleguance le fioriva una costellazionedi foruncoli. La mamma le avevacomprato una lozione disinfettantee a ogni nuovo brufolo la sgridava.– Ma ci prendi gusto a diventarebrutta? – Il patrigno rideva ediceva: – E’ l’età.

Vittoria e Valentina però di

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brufoli non ne avevano. Perlomenonon così spesso. Barbara si erainformata per lettera.

Anche il nonno le scriveva ogniquindici giorni. Barbara era felicequando vedeva nella cassetta dellelettere la busta grigia col timbro diDorgo e l’indirizzo scritto con unalarga calligrafia elegante e un po’antiquata.

Erano lettere affettuose, piene dinotizie sulla gente del paese, sultempo, sugli animali, persino suglialberi. Una volta il nonno avevamesso due biglietti da diecimiladentro alla busta e Barbara li avevasubito spesi per comprare un

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enorme barattolo di Nutella, e loaveva nascosto nell’armadio, dietroa una pila di maglioni. Quando eramolto triste la mangiava liscia,senza pane o biscotti, a cucchiaiate.

– Come è andata oggi a scuola?

– chiedeva ogni giorno il patrignodurante la cena.

– Bene – mentiva Barbara,laconica.

– Hai qualche difficoltà? Haibisogno di ripetizioni in qualchemateria? Non fare complimenti. E’meglio cominciare prima che siatroppo tardi.

– Ma se è sempre stata la prima

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della classe! E poi non vedi chepassa tutto il tempo sui libri! –protestava la mamma indignata.

Non sapeva che nella nuovascuola Barbara non era più la primadella classe. Era arrivata un mesedopo l’inizio dell’anno scolastico, inun gruppo di venticinque ragazziche stavano insieme dalla primamedia, e qualcuno dalle elementari.Gli insegnanti seguivano un metododiverso da quello dei colleghi diAlaria. E poi, dovevano essereconvinti che lei, venendo dallaprovincia, fosse indietro rispettoagli altri. Cercavano di esseregentili, ma le parlavano come a una

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deficiente, pensava Barbaraumiliata. Le sembrava che anche inuovi compagni le si rivolgesserocon una leggera aria di superiorità.Lei sapeva che le sarebbe bastatopoco per lasciarli a bocca aperta,dimostrando di essere molto, mamolto più brava di loro. Bastava chesi applicasse un po’, che facesse unodei suoi soliti temi brillanti dicinque pagine, che nelleinterrogazioni citasse tutti i libri dagrandi che aveva letto, tutte lepoesie che sapeva a memoria. Manon ne aveva voglia. Non glieneimportava niente, le sembravafatica sprecata.

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In una lettera a Vittoria,parlando dei suoi nuovi compagnidi classe, aveva scritto: “Mi fannoschifo. Li odio tutti”.

Non era così. L’odio è unsentimento forte, che ha bisogno dienergia, di applicazione. E’ comestudiare una materia difficile. Chemotivo aveva Barbara di odiarequelle facce più brufolose della sua?Le erano semplicementeindifferenti. Li guardava tutti comese fossero fantasmi. Qualche voltaera lei a sentirsi un fantasma traloro. Amicizia per qualcuno?Impossibile. Il suo cuore erarimasto ad Alaria. Mai e poi mai

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avrebbe tradito Vittoria e Valentina.Aveva trovato su un’antologia

dei versi di Gozzano, e li avevaricopiati sul diario:

Il mio cuore è laggiù,morto con te sull’isola fiorentedove i palmizi gemono

sommessilungo la Baia della Fede Ardente.Oh, se potessi amare!Oh, se potessi amare!Canterei sé nuovamente.Ma l’anima corrosa sogghignanelle sue gelide sere. Accanto aveva incollato una

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cartolina di Alaria, quella dove sivedono le palme sul lungolago.

Alaria non era poi così lontanada Milano. Duecento chilometriappena. Ai tempi del fidanzamento,Lorenzo faceva la spolaallegramente da una città all’altraogni fine settimana.

In teoria anche Barbara adessosarebbe potuta andare a passaretutte le domeniche col padre, comeaveva stabilito il giudice. In praticaquesto non sembrava possibile.

Nessuno era disposto adaccompagnarla in automobile, e lamadre non voleva che viaggiasse dasola in treno o in pullman.

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– Chissà che gentagliaincontreresti! E poi, ragiona,sarebbe un vero strapazzo! Il sabatomattina hai scuola fino amezzogiorno. Dovresti partire alpomeriggio. Tre ore di treno, perarrivare col buio, stanca morta, emagari in viaggio vomiti, e Alessio,sbadato com’è, chissà se si ricordadi venire a prenderti alla stazione.L’indomani, stessa storia, perchélunedì mica puoi saltare la scuola.In pratica staresti là solo ladomenica mattina. Ne vale la pena?E i compiti, poi, quando li fai?

Questo diceva la mamma, eBarbara era sicura che dietro alle

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parole c’era un pensiero diverso: “Erovineresti il fine settimana anche anoi. Accompagnarti alla stazione ilsabato, e la domenica venirti aprendere alle sette. Ci spezzeresti ilpomeriggio. Ci faresti tornare primadalle nostre gite o ci costringeresti anon muoverci da Milano.”

La domenica di solito Lorenzo ela mamma prendevano la macchinae andavano da certi loro amici aPavia, a Vigevano, a Saronno.Oppure, se restavano a Milano,andavano al cinema, e poi alristorante, sempre con qualchecoppia di colleghi del patrigno. EBarbara era costretta ad andare con

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loro, perché la madre non la volevalasciare sola in casa tutto il giorno.Anche se il film scelto dai grandinon le piaceva. Anche se con quegliingegneri milanesi e con le loromogli non sapeva di cosa parlare.

– Almeno ti fossi fatta qualcheamica! – sospirava la madre.

Le avevano proposto di iscriversiagli Scout, ma Barbara non ne avevavoluto sapere. – Quelli proprio ladomenica fanno le uscite. Io devoessere libera, perché se non vado adAlaria, sarà il papà a venirmi atrovare.

E una domenica il papà eravenuto. Era stata una giornata così

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triste che Barbara si sentivastringere lo stomaco solo aripensarci.

Il papà era arrivato a Milanoverso le dieci del mattino e le avevatelefonato da una cabina peravvertirla: – Sei pronta? Tra cinqueminuti ti passo a prendere.

Non aveva nessuna intenzionedi salire in casa di Lorenzo, eBarbara era sicura che anche lamamma, che era ancora a letto, nonavrebbe gradito quella intrusione.

Lui citofonò e lei scese. Pioveva.– Dove andiamo?Barbara non sapeva cosa

suggerire. Finirono in un bar là

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vicino, tra gli ombrelli gocciolantidella gente, che litigava parlandodella partita, mentre il camerierecontinuava a spazzare il pavimentoportando in giro un mucchietto disegatura umida.

Dopo mezz’ora non sapevanopiù cosa dirsi. – C’è qualche mostrache ti interessa? Un museo, unposto che ti piacerebbe vedere?

Passarono due ore nelle sale delCastello Sforzesco, fra i turistigiapponesi, a guardare quadri,statue e armature di cui nonimportava niente a nessuno dei due.

Poi a pranzo al ristorante.Barbara sentiva che per l’umidità le

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si stavano arricciando i capelli.Vedeva che la gente agli altri tavolili guardava con curiosità, e credevadi leggere i loro pensieri. “Glifacciamo pena perché sanno chesiamo due randagi, che nonabbiamo una casa dove andare.”

Pomeriggio al cinema, e quelloera stato l’unico momentosopportabile. Si erano fatti persinoquattro risate. A un certo puntoperò Barbara, con la codadell’occhio, aveva sorpreso il padreche guardava l’orologio. “Ecco, èannoiato. E’ già stufo di stare conme. Se fosse rimasto ad Alariaavrebbe passato una domenica

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migliore. E’ venuto solo perché vuolfare il suo dovere.”

All’uscita era buio. Le stradeerano già illuminate e addobbateper Natale, ma i negozi eranochiusi. Si fermarono a guardarequalche vetrina. – Peccato che nonsi possa entrare! Potevo comprartiqualcosa. Cosa ti piacerebbe?

– Uffa, papà! Non fare come ipadri divorziati dei film! Non voglioniente.

– Soldi, te ne servono?Barbara stava per dire di sé. Poi

pensò: “Sarebbe come fargli pagaredue volte l’assegno che dà per mealla mamma. E non è che a lui di

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soldi ne girino tanti.”– No, no. Non ho bisogno di

nulla.– Va bene. Allora ti riporto a

casa. Io devo mettermi per strada.Vorrei essere ad Alaria prima dimezzanotte.

Che voglia aveva Barbara diaggrapparsi alla sua giacca, disupplicarlo: “Portami con te!Riportami a casa!”

Però non voleva fare scene damelodramma. E poi, lei ad Alariauna casa non ce l’aveva più. Losalutò un po’ imbronciata: – Graziedella bella giornata. E non correre.

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Quando il venerdì successivo ilpapà telefonò tutto dispiaciuto: –Questa volta non posso venire. Hodel lavoro arretrato. – Barbararispose: – Non fa niente.

Le dispiaceva, e allo stessotempo provava un grande sollievo.Se era per vederlo così, pensava,meglio aspettare Natale, quandosarebbero andati insieme a Dorgo,in casa del nonno.

CAPITOLO TERZO

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Venne Natale, ma a Dorgo Barbaranon ci andò. Per la prima volta daquando era nata. Passò le duesettimane di vacanza a letto, con lafebbre alta, troppo debole anche perarrabbiarsi contro il destino che legiocava questo nuovo scherzo. Unastupidissima infreddatura presa alezione di ginnastica era degeneratain bronchite.

– Bisogna stare attenti – avevadetto il medico – potrebbetrasformarsi in polmonite. Ne hogià visto molti casi, quest’anno.Tenetela a letto, al caldo, e nonsmettete gli antibiotici neppure sela temperatura scende. Alzarsi?

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Partire per la montagna? Non se neparla nemmeno.

Quella sera la mamma eLorenzo avevano litigato. Barbara liaveva sentiti attraverso la portachiusa. Non distingueva le parole,ma era sicurissima che fosse acausa sua. Sapeva che non era soloil suo viaggio a Dorgo che andava amonte per il verdetto del medico,ma anche la loro vacanza in Tunisia.Lorenzo ci teneva moltissimo. Erapiù d’un mese che non parlavad’altro: del clima, del sole, del mare,dell’albergo bellissimo doveavevano prenotato la camera.Avevano già pagato sia il viaggio che

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il soggiorno. “Chissà se gliridaranno indietro i soldi?” si chieseBarbara. Ma non era quello ilproblema. Il vero problema era ilfatto che lei per Lorenzo era solouna figliastra, un’estranea, e doverrinunciare a un viaggio tantodesiderato per un’estranea, non èpiacevole.

Passò una notte agitata. Sognavadi essere a Dorgo, accanto alcaminetto acceso in casa del nonno,ad arrostire castagne con Vittoria eValentina. Sognava la grandetombola attorno al tavolo coperto ditela cerata nel bar di Lisetta.

Poi si svegliava di soprassalto,

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ed era subito lucida, cosciente dellasituazione. “Niente Dorgo,quest’anno. Devo restare a Milanocon quei due.”

Si riaddormentava e sognava che“quei due” partivano lasciandolasola e ammalata nella casa deserta,senza niente da mangiare, coltelefono staccato, i termosifonispenti. E lei era troppo deboleanche per affacciarsi alla finestra echiamare aiuto. Poi il sognocambiava: erano in Municipio,vestiti tutti eleganti come il giornodel matrimonio, e davanti alsindaco Lorenzo chiedeva allamamma: “Scegli: o lei o me”. E, cosa

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strana, nel sogno lei invece diessere contenta perché sarebbetornata ad Alaria dal padre e dalleamiche, era disperata, e si attaccavaal vestito della mammasupplicandola: “Scegli me!”

Si svegliò con un gran mal ditesta. Erano le dieci del mattino e lamadre stava entrando col vassoiodella colazione. – Prima misuriamola temperatura. Alza il braccio,svelta! – Aveva ancora trentotto emezzo.

– Lo so che non ne hai voglia,ma devi sforzarti di mangiarequalcosa. Non puoi prenderel’antibiotico a stomaco vuoto.

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Barbara si mise a sederetirandosi la coperta fino al mento.

– Avete litigato?La mano di sua madre, che le

avvicinava alla bocca la tazza delcaffellatte, tremò leggermente:

– Non sono fatti tuoi.– Senti mamma: stanotte ho

pensato una cosa.– Sentiamo.– Voi due partite lo stesso. E’

stupido rinunciare al viaggio perme. No, aspetta, lasciami finire! Ionon mi muovo, resto qui. Non esconeppure dalla stanza. Però, vistoche voi non ci siete, potrebbe venireil papà a curarmi. E anche il nonno

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e la zia Elvira. Il posto per dormirec’è. Sono sicura che se glielo chiedo,vengono. Gli posso telefonare. – epensava: “Magari vengono ancheVittoria e Valentina. Porteremo icuscini del divano in camera mia.Faremo un accampamento.”

La madre era arrossita dallastizza. – Che idee, Barbara! Si vedeche avevi proprio la febbre alta,stanotte. Come pensi che me nepotrei andare tutta tranquilla invacanza mentre tu sei ammalata?Non se ne parla nemmeno.

– Ma Lorenzo.– Lorenzo è ancora più

preoccupato di me per la tua salute.

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Non ti lascerebbe a nessun costo. Tiè davvero affezionato, anche se tusei così scorbutica con lui. Nonavrei mai pensato che potessi esserecosì ingrata.

Si mise a fare un po’ d’ordinenella stanza, raccogliendo libri egiornali da terra, piegando gli abitigettati sulle sedie, lisciando lecoperte del letto. Barbara si rigiravaquell’“ingrata” tra la lingua e ilpalato come una caramella amara.

La madre si inginocchiò araccogliere qualcosa sotto allascrivania e senza girarsi riprese aparlare con voce priva diespressione: – E quanto al resto, te

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lo dico una volta per tutte e non telo voglio ripetere più. Tuo padre e isuoi parenti in questa casa non cidevono mettere piede. Mai. Pernessun motivo. Hai capito? Non èLorenzo che non li vuole. Sono io.Perciò non chiedermelo un’altravolta.

– E allora io il papà non lo possovedere neppure questo Natale!

– Non è colpa mia se ti seiammalata. Vi telefonerete. E adessocopriti bene, che apro la finestra perdieci minuti.

– Ma fa freddo!– Bisogna pure far cambiare

l’aria!

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Coperta fino al naso, Barbarabatteva i denti.

“Sì, cambiare l’aria! E far entrarequesta bella puzza di uova marce!”pensava.

Come la odiava, Milano! Come liodiava tutti, quegli egoisti deigrandi: la madre, Lorenzo, Claudio,che se n’era andato in America e sen’era lavato le mani, e anche ilpadre, che non faceva niente perrisolvere quella situazione.

“Gli starebbe bene se mi venissedavvero la polmonite e morissi!”

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CAPITOLO QUARTO

Barbara non morì, e verso la finedelle vacanze Vittoria ricevette unalettera da Milano.

Cara Vittoria,oggi finalmente mi hanno

lasciata alzare e posso scriverti unalettera come si deve, seduta allascrivania. Falla leggere anche aValentina, perché temo che non cela farò a scriverne una anche a lei.Sono già tre giorni che non ho più lafebbre, ma dopo un po’ che stoseduta mi gira la testa. Tossisco

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ancora tutta la notte. Comepretendono che possa guarire, secontinuo a respirare l’aria di questaschifosissima città? Anche il dottorel’ha detto: “Adesso avrebbe bisognodi un po’ di montagna”. E Lorenzo:“Purtroppo fra quattro giorni devetornare a scuola. In montagna ciandrà per le vacanze di carnevale”.Fra due mesi e mezzo! E magarinon mi mandano neppure a Dorgo,ma in qualche orribile posto divilleggiatura con gli alberghi, lepiste da sci e tutto il resto.

Ma se papà glielo permette, senon fa un po’ il prepotente anchelui per avermi quando gli spetta,

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giuro che non gli rivolgo più laparola.

Però non voglio annoiarviancora con le mie eterne lamentele.Ormai ne avrete fin sopra i capelli.Siete state davvero due tesori atelefonarmi tutti i pomeriggi dallacabina telefonica. Dovete aver spesoin gettoni tutti i vostri risparmi.State tranquille che quandodiventerò ricca e famosa, mi sapròsdebitare.

Questo che vi racconterò frapoco però non lo potevo dire pertelefono. Avevo paura che qualcunomi sentisse. Drizzate le orecchie,specialmente tu, Vittoria, che

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perché sei una marchesina Intimaridegli Anceschi credi che la tuafamiglia sia l’unica rappresentantedella nobiltà sulla faccia della terra.

Se Vittoria non avesse capito

subito che Barbara scherzava, sisarebbe offesa a morte. Lei non citeneva affatto alla nobiltà. Il guaioera che gli Intimari erano davveromarchesi, almeno per chi credevaancora a queste cose. E i genitori diVittoria, gli zii, la nonna, persinoqualcuno dei cugini suoi coetanei, cicredevano, e si sentivano per questosuperiori al resto dell’umanità.

Vittoria invece si vergognava

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come un cane quando per qualchemotivo saltava fuori la sua sfilza dinomi altisonanti ereditati dallearistocratiche antenate: VittoriaDiamante Gerolama GuglielminaIntimari degli Anceschi diRoccaventosa. – In Italia non c’èpiù la monarchia! – protestava. –La Costituzione ha abolito i titolinobiliari. I cittadini sono tuttiuguali.

“Filippo Egalitè” la chiamavacon sarcasmo sua nonna,paragonandola a quel nobile chedurante la Rivoluzione Francese siera messo dalla parte dei ribelli. Epoiché lei invece si sentiva nobile

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fin nel midollo delle ossa, non sistancava di ripeterle ad ognioccasione: Non disprezzare i meritidi quelli che ti hanno preceduta,Vittoria. Devi esserne fiera, invece.Ricordati che il sangue non è acqua.

Vittoria friggeva dalla stizza.– Non prendertela! – cercava di

consolarla Valentina. – Non è micacolpa tua. Non te la sei mica sceltatu, la famiglia. C’è chi nasce con lelentiggini, e chi nasce con gliantenati. – (Le lentiggini davanofastidio a Valentina almeno quantola nobiltà dava fastidio a Vittoria.)

Lo sapete cosa ho scoperto la

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vigilia di Capodanno? Ho scopertoche Lorenzo, il mio patrigno, è unprincipe. E non solo: colmatrimonio anche mia madre èdiventata una principessa, e ilbambino che nascerà a questi duecampioni sarà un principino purelui. A me e a Claudio invece di tuttaquesta aristocrazia non ce ne vieneneppure una briciola. A proposito:Claudio ha telefonato dall’America.Sta bene e vi manda tanti saluti.Dice che non verrà in Italia primadell’estate perché il bigliettodell’aereo costa troppo. Secondo meinvece ha capito che aria tira epreferisce restare alla larga da Sua

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Altezza il Principe Lorenzo Laurentidi San Protaso.

Sè, mie care, questo è ilcognome completo del miopatrigno, non un semplice Laurentiingegner Lorenzo come c’è scrittosull’elenco del telefono e comeavevamo creduto finora.

Devo riconoscere che, con tutti isuoi difetti, Lorenzo non è come tuanonna, Vittoria, che non è contentase tutti in giro non sanno che èmarchesa e non la riveriscono. Luidi questo fatto della nobiltà non neaveva mai parlato. Pensate che nonlo sapeva neppure la mamma. Eavremmo continuato a non saperlo

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se l’ultimo dell’anno non fosserovenute a trovarci due sue cugine, leultime parenti che gli sono rimaste.Principesse anche loro,naturalmente. In questa famiglia,care mie, il sangue blu scorre atorrenti!

Noi non sapevamo neppure cheesistessero, queste cugine. Pensateche non erano venute almatrimonio perché non eranod’accordo che l’ultimo erede dellaloro stirpe, l’unico maschioautorizzato a trasmettere il nomedei Laurenti di San Protaso, sisposasse con una divorziata, e pergiunta priva di qualsiasi titolo

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nobiliare.Così abbiamo creduto tutti

quanti che Lorenzo non avesse piùun solo parente al mondo, come lamamma, d’altronde, che non ha nfratelli n cugini, e i suoi genitorisono morti prima che io nascessi.

Poi si vede che in questi mesi ledue befane ci hanno ripensato ehanno deciso di perdonare iltraditore. Così hanno telefonato allamamma tutte zuccherose,invitandoci a casa loro per aspettarel’anno nuovo. Siccome io ero malatae non potevo uscire, la mamma hadetto: “perché non venite voi?” Esono venute.

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Avreste dovuto vederle! Eranocosì cariche di gioielli chesembravano due alberi di Natale.Lorenzo poi però ci ha detto cheerano tutti falsi. Copie di gioielliveri, antichi, ereditati dalla famiglia.

In origine le due cugine si eranofatte fare le copie per paura deirapinatori, e tenevano gli originaliin cassaforte. Poi sono decadute. Losapete, vero, cosa vuol dire“decaduto” per un nobile? ComeViolante nelle prime puntate dellatelenovela. Solo che queste dueprincipesse non hanno trovatonessun testamento segreto enessun tesoro nascosto. A forza di

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vivere senza lavorare, e conabitudini molto costose, si sonodovute vendere tutto quello cheavevano: i quadri, i gioielliautentici, i mobili antichi,l’argenteria, la villa sul lago.

Adesso, ha detto Lorenzo,vivono molto modestamente in unappartamento di periferia. Ma viassicuro che hanno ancora la puzzasotto il naso come al tempo deipalazzi e dei maggiordomi.

La più anziana è zitella. Avràcirca sessant’anni; è magra, secca,col collo più rugoso che io abbiamai visto in vita mia. E non puoifare a meno di guardarlo, con tutto

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quello scintillio di perle e brillanti(falsi) attorno! Si chiama –indovinate un po’ – Selvaggia.Principessa Selvaggia Laurenti diSan Protaso. Non saprei dire se inprivato fa onore al suo nome. Inpubblico più che selvaggia èscostante come un secchio d’acquagelata d’inverno.

La sorella minore è vedova.Minore si fa per dire, perché fra ledue ci saranno sì e no due anni didifferenza. Si chiama Olimpia.Principessa Olimpia Laurenti di SanProtaso, perché il cognome delmarito, che non era nobile, parenon lo abbia mai voluto adottare.

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Non ha figli, ed è leggermente piùgrassa della sorella, ma propriopochissimo. Peserà mezz’etto di più.L’altra ha i capelli grigio ferro.Questa se li tinge, e li ha rossocarota. Mamma dice che deve farsil’henn in casa.

Con tutto che sono due vecchieproprio ridicole, dovreste vedere learie che si danno! Un altro po’, e siaspettavano che gli facessi lariverenza e gli baciassi la mano atutt’e due! Mi hanno guardato maleperché ero in pigiama e vestaglia emi sono alzata dal divano solo persalutarle. Credo che non miritengano degna di essere la

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sorellastra del “loro” futuroprincipino.

Sè, perché alla fine quello che leha fatte decidere a perdonare aLorenzo questo matrimonio plebeo,è il fatto che la mamma aspetta unbambino. Sono tutte eccitateall’idea che la stirpe dei Laurenti diSan Protaso non si estinguerà, edhanno portato uno scatolone pienodi vestitini di pizzo ingialliti, dicuffiette, copertine, portenfants,tutto con su lo stemma, e tuttoinvolto in carta velina. “Il bambinonascerà solo in luglio!” continuava aprotestare la mamma. E toccavaferro di nascosto, perché lei crede

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che porti male preparare il corredoprima che il bambino abbia dato ilprimo calcio dentro la pancia.

Lorenzo le lanciava certeocchiate, come a dire: “Portapazienza!”

Abbiamo passato tutta la sera asentir raccontare:

a) Incroci complicatissimi diparentele.

b) Le gesta degli antenati, che asentire le due befane risalgononientepopodimeno che al tempodelle crociate.

c) Quanta servitù avevanoquando erano giovani nel loropalazzo avito, e quanto erano

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rispettosi e deferenti questi servidella gleba, a differenza dellecameriere di oggi che sono tuttemaleducate e lazzarone. Usavanoproprio questo aggettivo“deferenti”, come se fosse lamassima virtù per una cuoca o unmaggiordomo.

d) Le prodezze di Lorenzoquando era piccolo, e poi quandoera al liceo, e le conquiste chefaceva da giovanotto, e tutte lefidanzate che ha avuto prima didecidersi al “grande passo”. Eguardavano la mamma con ariastupita, come incredule che proprioun essere così insignificante avesse

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fatto decidere lo schizzinosissimoprincipe al passo fatale.

Mamma non era tanto contentaa sentir nominare tutte quelle altrefidanzate. Io sì. Così impara che ilsuo bel marito non è poi quellostinco di santo che sembrava.

A mezzanotte e mezzo, dopoessersi scolate mezza bottiglia dichampagne a testa per brindare alfuturo principino, finalmentehanno chiamato un taxi e se nesono andate. “Poverette” hacommentato Lorenzo. “Fanno unavita molto triste. Bisognerà invitarlepiù spesso.”

Sul fatto di essere un principe,

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non una parola. Neppure la mammane ha più parlato. Ma non credanoche io me ne dimentichi! Speriamoche non lo vengano a sapere i mieicompagni di scuola. Quegli idiotinon aspettano altro che un pretestoper prendermi in giro. Ti ricordi,Vittoria, come ti tormentavamoquando eri appena arrivata dallaSpagna e ti chiamavamo lamarchesina Eufemia?

Non so se dirlo a papà oppureno. Non vorrei che si sentisseumiliato, a vedersi rimpiazzato nonsolo da uno molto più ricco di lui,ma addirittura da un principe! Poipenso che tanto, prima o poi finirà

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per saperlo, e allora tanto vale cheglielo dica io e che ci facciamo sopraquattro risate.

Voi due, però, nel frattempo,non ditelo a nessuno.

Un abbraccio forte forte dallavostra Cenerentola (o sorellastra?).

Barbara(semplicemente Lulli)

CAPITOLO QUINTO

I primi sei mesi di quell’annoBarbara li avrebbe ricordati a

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stento, come un incubo confuso chesi allontana sempre di più dopo ilrisveglio.

Finite le vacanze era tornata ascuola, ancora debole e pallida perl’influenza, e i nuovi compagni leerano sembrati più estranei chemai. A malapena ne ricordava icognomi. I nomi di molti non liaveva mai saputi e non avevanessuna curiosità di saperli.

Invece la notte, prima diaddormentarsi, ripassava nellamente come una lezione da nondimenticare, o come una preghierapropiziatoria, il vecchio “appello” diAlaria, l’elenco dei nomi dei suoi

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antichi compagni di classe, semprelo stesso – con pochissime varianti– fin dalla prima elementare.

Ad occhi chiusi cercava diallontanare dalla memoria ogniavvenimento della giornata erecitava col pensiero: Albini, Are,Bisi, Bonetti, Castagna, Donati,Ducci, Farina, Intimari, Inzulla,Lado, Lanzanotte, Lulli, Molino,Nessi, Prada, Pulani, Sassi.

E ad ogni nome corrispondevauna faccia, un carattere, spesso unapersonalissima bizzarria, unacarriera scolastica, un episodiobuffo. Quella volta sul pullman, ingita scolastica, che Vittoria per

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penitenza aveva dovuto baciare quelmostro bavoso di Bonetti. E quelcompito in classe in cui Nessi erastato sorpreso a copiare. E quando aginnastica Valentina si era messaper sbaglio le scarpe di Ilaria Ducci,di tre numeri più piccole delle sue, ecredeva di essersi presa ireumatismi alle dita dei piedi. Equella volta che, proprio mentrel’insegnante leggeva con grandepathos A Silvia di Leopardi, Barbaraaveva visto Donati che si frugava ilnaso in profondità con due dita (lochiamava “fare un po’ di pulizia nelcranio”, quello schifoso!), era statapresa da un attacco irrefrenabile di

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riso e si era beccata una nota per“scarsa sensibilità poetica”.

In questa classe nuova invecenon succedeva mai niente.

Tranne il fatto che la primapagella di Barbara fu un disastro, efinalmente anche la mammadovette riconoscere che c’eraqualcosa che non andava.

– Anche in italiano! Sei riuscitaa prendere insufficiente anche initaliano! – ripeteva incredula.

– Lo vedi, signorinapresuntuosa, che non era il caso dirifiutare le ripetizioni? – disse ilpatrigno. Quando uno non ce la fada solo deve avere il buon senso di

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lasciarsi aiutare.Per colmo di disgrazia quel

giorno a pranzo c’erano leprincipesse cugine. Si rigirarono trale mani con aria disgustata lapagella di Barbara e Olimpia disse:

– Povera bambina, è evidenteche non hai le basi per stare allapari con gli studenti di Milano.

– Chissà cosa ti hanno insegnatoin quella scuoletta di provincia!commentò Selvaggia.

– Ma no! Era un’ottima scuola.– cercò di protestare la mamma,lanciando un’occhiata minacciosa aBarbara.

Le cugine l’avevano già criticata

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molte volte per il modo “troppomolle” con cui educava la figlia chea dir loro era una selvaggia“maleducata, torva e proterva”.Sospiravano alzando i principeschiocchi al cielo, preoccupate per ilcattivo esempio che avrebbe trovatoin famiglia il principino nascituro. Eadesso ci mancava questafiguraccia!

– Bisognerà riflettere beneprima di iscriverti al ginnasio –disse il patrigno.

– Il Classico è una scuoladifficile – aggiunse Olimpia. –Ragazzi molto più intelligenti epreparati di te si sono trovati in

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gran difficoltà.Barbara masticava in silenzio,

con gli occhi fissi sul piatto, comese il discorso non la riguardasse.

Però se alla fine non labocciarono, il merito fu propriodelle odiose principesse cugine. Leloro osservazioni sprezzanti sulla“scuoletta di provincia” l’avevanopunta sul vivo, e per dimostrare chei suoi vecchi insegnanti le avevanodato invece un’ottima preparazione,Barbara riprese a studiare, sia purecon uno sforzo enorme, e aimpegnarsi nei compiti in classe.

Il primo componimento che fecedopo aver accettato quella sfida fu

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giudicato “inclassificabile”.L’insegnante era convinta che loavesse copiato, tanto era diversodalle quattro righe striminzite a cuiBarbara l’aveva abituata. Ma i temisuccessivi la convinsero che Lullisapeva scrivere davvero anche sefinora, inspiegabilmente, non loaveva dimostrato.

I compagni assistevanoincuriositi a questa “rimonta”, masiccome Barbara non davaconfidenza a nessuno, non fecerocommenti. Perlomeno, non con lei.

Intanto erano arrivate le vacanzedi Carnevale e, come Barbara avevatemuto, la mamma non la lasciò

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andare ad Alaria, ma la portò asciare a Madonna di Campiglio.Barbara passò tutta la settimanabianca sdraiata sul letto nellacamera d’albergo a leggere fumetti ea sgranocchiare cioccolata. Risposesgarbatamente a Lorenzo cheinsisteva per farla uscire sulla nevee si prese un paio di ceffoni dallamamma.

Le era cresciuto un grossoforuncolo dentro al naso e un altrosul mento. Ogni volta che siguardava allo specchio aveva unsoprassalto di disgusto e pensavache sarebbe rimasta sfigurata persempre.

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I rapporti col papà erano semprepiù strani. A Milano, durante lasettimana, Barbara pensando a luiprovava un amore fortissimo.Smaniava per vederlo, fantasticavasu come sarebbe stato bello parlarecon lui, raccontargli tutto quello chenon poteva dire alla mamma perpaura di essere derisa col solitosarcasmo.

Poi, se alla domenica il papàriusciva a venire, le sembrava dinon avere niente da dirgli e nonsapeva far altro che spiare ogni suomoto di noia o di impazienza perconcludere: “Cosa è venuto a fare?E’ chiaro che non gliene importa

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niente di me.” Anche se in fondo erasicura del contrario.

Una domenica, anzi un sabatosera, il papà le fece la sorpresa diportarle Vittoria e Valentina.Barbara nelle sue fantasie avevapensato che sarebbe impazzita digioia a riabbracciare le amiche.Adesso, appena le vide, le venne dapensare: “Domani pomeriggio se neandranno” e fu invasa da unaprofonda tristezza che le guastòtutto il fine settimana.

Le due amiche dormivano a casadegli zii milanesi di Vittoria. Ladomenica mattina si presentaronoinsieme a tre cugini, Orso, Lupo e

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Leo, quelli che un tempo a DorgoBarbara si divertiva a chiamare “lozoo”. I ragazzi avevano organizzatotutto un programma didivertimenti. Andarono a pattinareal Palazzo del Ghiaccio, poi aingozzarsi di schifezze a una BurgerHouse, infine a una discoteca cheVittoria e Valentina bocciaronosubito definendola “per poppanti”(ma d’altronde quelle per grandi nelprimo pomeriggio erano chiuse, epoi non le avrebbero lasciateentrare). Il papà li accompagnavafacendo da autista e pagava tuttolui. Mentre erano in discoteca fucosì intelligente da aspettarli fuori

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leggendo il giornale.Barbara non si divertì affatto.

Man mano che il tempo passava,anzi, il divertimento delle amiche ledava più fastidio. Lo sentiva comeun tradimento. Se le avesserovoluto veramente bene, avrebberocapito che città schifosa era Milanoe, se non altro per solidarietà,sarebbero state tristi anche loro.

Al momento di salutarsi Vittorial’abbracciò e le sussurrò in unorecchio: – Ho detto a Leo ditelefonarti e di invitarti a uscire coni loro amici. – Barbara si arrabbiò:non voleva elemosine. (E quando,qualche giorno dopo, il ragazzo le

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telefonò davvero, fece dire alladomestica che non c’era e non lorichiamò.)

Insomma, anche quel tentativodel papà di farle piacere si erarisolto in un fallimento.

Le due amiche se n’eranoaccorte benissimo e, appena tornatead Alaria, scrissero a Barbara unalettera a quattro mani moltopreoccupata, che si potevariassumere in questo modo: “Nonpuò andare avanti così, Barbara.Devi fare qualcosa.”

Già! Ma che cosa? A Pasqua finalmente il papà

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riuscì ad ottenere che Barbaraandasse per una settimana a Dorgocon lui nella casa del nonno.

Lassù faceva ancora moltofreddo, nevicava e c’era poca gente.Il paese d’inverno era ancora piùisolato che in estate perché ascoraggiare i visitatori, oltre allefamose curve dell’unica stradad’accesso, ci si mettevano il ghiaccioche faceva slittare le automobili e icumuli di neve che crollavanoall’improvviso dai rami troppocarichi.

Quando Pasqua cadeva inmarzo, molti dei villeggianti estivirinunciavano a quella vacanza,

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anche perché le loro case non eranoabbastanza riscaldate. Fra questic’era la famiglia di Vittoria.

Quell’anno però Valentina erastata così eloquente e cosìdiplomatica che aveva convinto isignori Intimari a lasciar andare lafiglia ospite da lei.

L’incontro tra le amiche fudiverso rispetto a quello recente diMilano. O forse era Barbara chelassù si sentiva diversa. Dopo tregiorni era come se le “treinseparabili” non si fossero mailasciate.

Barbara però pensavacontinuamente al ritorno a Milano,

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e quel pensiero era come un tarloche le avvelenava ogni gioia. Tuttele notti, infilandosi sotto alpiumino, pensava: “Un giorno dimeno”. Aveva letto da qualche parteche i giorni della vita di una personasi possono immaginare come unalunghissima fila di candele accese, ead ogni tramonto una candela sispegne e la fila diventa sempre piùcorta e meno luminosa.

Questa vacanza era una filabreve: dieci candele soltanto. E giàtre erano spente, e poi cinque, e poisette.

Col padre e col nonno Barbaraera ritornata alla carica:

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– Perché non posso vivere adAlaria? Tu potresti prendere unacasa più grande, papà.

– E lasceresti tua madre? –chiedeva la zia Elvira. – Non tiricordi i pianti, quei primi anni chesei venuta da sola, quando dovevisalutarla?

Barbara ricordavaperfettamente. Non aveva ancoradieci anni, allora, ed era felice allaprospettiva di passare i tre mesidelle vacanze a Dorgo come ognianno. Ma i genitori avevano appenadivorziato, e la madre non sarebbepiù venuta con lei. Barbara nonsopportava l’idea di staccarsi dalla

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madre. Aveva paura, contro ognilogica, che al ritorno in pianura nonl’avrebbe più trovata. Nei primitempi la madre doveva chiamarla altelefono tutti i giorni perrassicurarla.

Adesso Barbara si meravigliavadi quella paura, diquell’attaccamento e di quellelacrime. Come aveva potuto volertanto bene a una persona che infondo – l’avevano dimostrato i fattipiù recenti – se ne infischiava dilei?

Il nonno la sgridava quando lasentiva dire così. – Cerca diragionare, Barbara. Tua madre non

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poteva fare diversamente. Non èvero che non ti vuole più bene.

– Però vuole più bene a Lorenzoche a me – rispondeva Barbara, epensava: “E adesso che nasceràquesto bambino, passeròdefinitivamente all’ultimo posto.”

Un giorno, verso la fine delle

vacanze, il nonno le aveva detto:Abbiamo finito le riparazioni alPalazzo della Luna. Ormai non c’èpiù nessuna traccia dell’incendio.Gli operai hanno terminatoavant’ieri. Ti dispiace andare allavilla con le tue amiche a fare ungiro di controllo? Non vorrei che si

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fossero dimenticati di svuotare letubature dell’acqua; che avesserochiuso male qualche finestra. E leporse il mazzo di chiavi.

Barbara sapeva che quelcontrollo il nonno avrebbe potutofarlo benissimo lui, da solo o incompagnia del custode. Capì che larichiesta era un pensiero affettuosoper lei, la possibilità di penetrareancora una volta, prima del ritornoall’esilio, nella casa magica dellasua infanzia. Purificata oradall’invasione della trupp televisivache l’aveva “profanata” la scorsaestate.

Ringraziò il nonno. – Sta’

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tranquillo. Controlleremo tutto perbene.

Il Palazzo della Luna distavapoco meno d’un chilometro dalleultime case del paese. Stava inmezzo a un grande giardino, e ilgiardino era cintato da un alto muroricoperto di rampicanti. Sullasommità del muro c’era una strisciadi neve su cui spiccava il verdescuro dell’edera. Dall’arco di pietrascolpita del portone pendeva unabarba di ghiaccioli.

Le tre amiche entrarono nelgiardino. La neve si era posataanche sul bordo del labirinto dibosso formando un disegno

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geometrico. Tra gli alberi le statuedi marmo, che sembravano grigie,avevano cappucci e mantelli dineve. I fauni di terracotta attornoalla vasca reggevano tra le braccia ivasi come grandi coni gelati.L’acqua della vasca era ghiacciata.

– Brr! – rise Vittoria, ricordandoquella volta che si era dovutatuffare nelle vesti settecenteschedella “vera Violante”. – Pensate seavessimo dovuto girarla d’inverno,la telenovela! Sarei morta davverodi polmonite, come temeva miamadre.

– Figurati! Ettore – ve loricordate lo sceneggiatore? –

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avrebbe inventato delle scene dagirarsi tutte accanto al caminetto –obiettò Valentina.

Barbara guardava il giardinosilenzioso e le sembravaimpossibile che solo otto mesiprima in quei viali, in quellospiazzo, ci fossero la babilonia e glischiamazzi della truupp televisivache girava le scene de L’orfana diMerignac.

Ricordò i giorni in cui faceva leprove davanti alle telecamere persostituire la prima attrice scappatain America. Otto mesi soltanto, esembrava fosse passata una vitaintera! Se qualcuno allora le avesse

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detto che la mamma aveva giàdeciso di risposarsi e di trasferirsi aMilano, gli avrebbe riso in faccia.

Aprirono il portone della villa edentrarono nel grande atrio con leterracotte del Della Robbia allepareti. Le imposte erano tuttechiuse e dovettero accendere laluce.

– Ricordatemi di staccarel’interruttore generale quandousciamo.

Per fare il giro di controllo se lapresero comoda. Il restauro eraperfetto. Le cortine del letto abaldacchino da cui aveva avutoorigine l’incendio erano state

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sostituite con altre di una bellastoffa antica, intonata allo stile deimobili. Barbara sentì un nodostringerle la gola. Se là tutto erapotuto tornare come prima, perchénon poteva essere così anche per lasua vita?

Il dolore di andarsene alla fine

era stato più grande del piaceredella vacanza.

Gli ultimi mesi di scuola furonofaticosi. Barbara si sentiva stanca, lesembrava che il tempo non passassemai.

Ma passava, invece, e il segnopiù evidente erano le dimensioni

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della pancia della mamma che eracresciuta in un modo incredibile.

Vittoria e Valentina eranoeccitate da questa novità. Nelle lorolettere chiedevano continuamentenotizie della gravidanza escrivevano: “Che bello, quandonascerà il tuo fratellino!”

Alle tre inseparabili eranosempre piaciuti molto i bebè.Quando erano piccole facevanogiochi interminabili con i lorobambolotti e si prestavanovolentieri a custodire i fratelliminori di Vittoria o di Valentina. Eanche quando erano cresciuteavevano conservato una grande

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passione sia per le bambole che peri bambini piccoli. Eranorichiestissime da tutti i conoscenticome babysitter, e si divertivano unmondo, soprattutto se eranoinsieme, a scaldare biberon,cambiare pannolini, spingerecarrozzine sul lungolago.

Barbara era anche più entusiastadelle altre, forse perché non avevafratelli minori e quindi il gioco dellabambinaia per lei non si era maitrasformato in fatica.

Ma adesso, pensando albambino che sarebbe nato in estate,provava solo una grandeindifferenza, ed era un po’

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infastidita da tutti i discorsientusiasti delle amiche.

La mamma e il patrignoconoscevano già il sesso delnascituro, ma non lo avevanovoluto rivelare né alle principessecugine né a Barbara, perchésostenevano che era meglio lasorpresa. Anche di questo a Barbaranon gliene importava un bel niente.

Nelle loro lettere Vittoria eValentina avevano chiesto più volte:“Avete già scelto il nome?”

Barbara non lo sapeva. Lei, cheda piccola rubava in chiesa l’acquasanta per battezzare i gatti e i canidi Dorgo con i nomi più fantasiosi;

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lei che era famosa a scuola perconoscere a memoria il calendario,compresi i santi più strani, e cheinfarciva i temi con personaggi dainomi roboanti, adesso sidisinteressava completamentedell’argomento.

L’unica cosa che le importava,adesso, era che i giorni passasseroin fretta. Non era riuscita arecuperare la brillante media cheaveva sempre avuto ad Alaria, maormai aveva la sufficienza in tutte lematerie.

Aspettava la fine dell’anno conansia spasmodica e si era fattapromettere dalla mamma che,

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appena finiti gli esami, senzaneppure aspettare il risultato,l’avrebbero lasciata partire perDorgo.

E Lorenzo aveva detto: – Perchénon l’accompagniamo noi?

CAPITOLO SESTO

Così l’avevano accompagnata.Il nonno era stato gentilissimo.

Li aveva invitati a pranzo e avevaconversato amabilmente conLorenzo. Anche la zia Elvira, che

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all’inizio aveva trattato la mammacon freddezza, a metà del pranzo siera sciolta. E il motivo, con granderabbia di Barbara, era stato il titolonobiliare del patrigno, che eravenuto fuori casualmente nellaconversazione.

In realtà la mamma e Lorenzone avevano parlato per ridere delleprincipesse cugine, ma la zia Elvirasembrava prenderlo molto sul serio.Era abbonata da sempre a Oggi e aGente e seguiva con grandeinteresse le vicissitudini dellefamiglie reali europee, regnanti oesiliate che fossero. E adesso il fattodi essere seduta alla stessa tavola di

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un principe (e di una principessaconsorte, sua ex nipote) non solo lariempiva di orgoglio, ma le facevaconsiderare con indulgenza il fattodel divorzio, che per la gentecomune riteneva inaccettabile.

Barbara era sicura che la zia,mentre porgeva con un sorrisosmagliante il piatto da portata aLorenzo, pensava: “Chissà chefaccia, quando lo racconterò aquella spocchiosa della marchesaIntimari!”

Dopo pranzo vennero Vittoria eValentina. Bruciavano dallacuriosità di conoscere il famosopatrigno. E anche lui era curioso di

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guardare finalmente in faccia le duechiacchierone che lo avevanocostretto a mettere il contascatti altelefono.

Il nonno propose di andare tuttiassieme a fare una passeggiata alPalazzo della Luna per mostrarlo aLorenzo che non l’aveva mai visto.

– Tu faresti meglio a restare acasa e a stenderti un po’ sul lettodisse la zia Elvira alla mamma.

– Ma no, mi sento benissimo. Epoi è vicino.

Così si erano messi per stradasotto il sole cocente del pomeriggio.Il nonno e Lorenzo camminavanoavanti a passo spedito, parlando di

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caccia e di pesca. La mamma,appesantita dal pancione, era piùlenta. Ansimava un po’ e siappoggiava al braccio di Valentina,che la faceva ridere con gli ultimipettegolezzi di Dorgo.

Lorenzo fu molto colpito dallabellezza della villa settecentesca echiese: – E’ in vendita?

Barbara lo guardò con odio,come se volesse incenerirlo: avevadeciso di portarle via proprio tutto?

– Smettila! L’ha detto tanto perdire – sussurrò Vittoria, che lateneva sottobraccio.

– Rilassati. Sta solo cercandod’essere gentile – aggiunse

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Valentina.La mamma sospirò e si premette

una mano sulla pancia. – Quelbrasato era buono, ma ho paura diaverne mangiato troppo.

Tornarono al paese e sifermarono a prendere il caffè al bardi Lisetta. La mamma prese uncanarino e le tre inseparabili tregazzose.

La zia Elvira aveva insistito che idue ospiti si fermassero anche acena. Così la mamma andò a casa ariposarsi, Barbara restò a girellarecon le amiche per le strade delpaese e il nonno accompagnòLorenzo al torrente per una breve

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partita di pesca.Tornarono tutti fieri, con cinque

trote per la cena. Ma la mammaaveva ancora mal di stomaco e nonvolle assaggiarle. – Ho paura ditutte quelle curve che dovremo fareal ritorno.

Il nonno le guardò la pancia edisse a Lorenzo: – Guidi piano, miraccomando.

Lorenzo mangiò in fretta, congrande delusione della zia Elvira,che aveva sfoggiato per lui tutta lasua abilità culinaria, poi si alzò datavola dicendo: – Andiamo, che ètardi.

Barbara abbracciò la mamma,

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urtando contro la pancia tesa edura. Era felice che finalmente sene andassero e le lasciassero godereDorgo in santa pace. Ma era ancheinquieta, si sentiva colpevole versola madre per questo sollievo.Pensava: “E se morisse nel mettereal mondo il bambino? Forse èl’ultima volta che la vedo.”

Le si attaccò al collo piangendo.– Guardatela! – rise la zia

Elvira. – Faceva sempre così anchequando era piccola!

Anche la mamma rise,scrollandosela di dosso. – Su, su!Non fare la lagna. Appena c’èqualcosa di nuovo ti telefono. Ma

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fino al mese prossimo nondovrebbe succedere niente.

Erano montati in macchina ederano partiti. Barbara era andatasubito a coricarsi, stanchissima.Però non riusciva a prendere sonno.

Ascoltava i rumori della casa –la pendola, lo scricchiolio dei tarlinell’armadio, la zia Elvira chelavava i piatti in cucina, il nonnoche chiudeva le imposte. E pensava.Fra due giorni sarebbe arrivatoDavide, suo cugino, che passavaanche lui tutte le estati a casa delnonno. La settimana prossimasarebbe tornato il papà, e tuttosarebbe stato di nuovo come un

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tempo.Finalmente si addormentò e

sognò che aveva cinque anni e igenitori stavano ancora insieme. Latenevano per mano e salivanoall’alpe per dare il sale alle capre. Ec’era anche Claudio, che però nonaveva dodici anni, ma venti comeadesso, parlava in inglese e diceva:“Io devo tornare al mio college inAmerica. Non contate su di me perstare dietro a questa mocciosa.”

Poi sognò che era nell’atrio dellascuola di Milano, sola, e cercava iquadri con i risultati dell’esame. Icompagni le si affollavano intorno,la urtavano, la spingevano, in un

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vocio assordante. Però avevano tuttiil viso senza lineamenti, senzaocchi, senza naso, senza bocca.Finalmente trovò un grande cartellodove c’era scritto: “LULLI BARBARA:BOCCIATA IN TUTTE LE MATERIE INQUANTO NON ALL’ALTEZZA DI QUESTA

SCUOLA”.Stava ricopiando il giudizio su

un quaderno per portarlo allamamma e dirle: “Vedi!”, quandosentì, lontana lontana, la voce diValentina che gridava: – Barbara,Barbara!

Poi si sentì scrollare, sbatté gliocchi e fu colpita da una luceaccecante. Era il sole che entravadalla finestra che Vittoria aveva

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appena spalancata.Valentina era curva sul suo letto

e strillava eccitatissima: – Su, alzati,che dobbiamo andare a Pratile!

– A Pratile? Che ore sono? –chiese Barbara, con la testa ancoraconfusa e piena di sonno.

– Le otto e mezza. Dai, sbrigati,che andiamo a conoscere tuasorella.

– E’ nata stanotte all’ospedale diPratile – spiegò Vittoria. – Su,vestiti, svelta! – e le porse lacamicia scozzese.

Barbara mise giù le gambe ecercò a tentoni le pantofole.

– Ma doveva nascere il mese

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prossimo – balbettò sconcertata. Invece lo strapazzo del viaggio,

la passeggiata al Palazzo della Luna,le famose curve all’andata e alritorno avevano accelerato i tempi.A metà strada fra Dorgo ed Alaria lamamma si era sentita male. Perfortuna si era ricordata che a pochichilometri c’era il piccolo ospedaledi Pratile che serviva tutta la valle.L’avevano raggiunto appena intempo. All’una di notte la bambinaera già nata.

– Tua madre sta benissimo. Eanche tua sorella – disse Vittoria,mentre Barbara con le mani

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tremanti cercava di allacciarsi lescarpe. E’ grande e grossa. Nonl’hanno dovuta nemmeno metterenell’incubatrice.

– Su, sbrigati che tuo nonno èandato a prendere la macchinaincalzò Valentina. – Il tuo patrignoha cercato di telefonarvi, ma avete iltelefono guasto. Così mezz’ora fa hachiamato a casa mia e ha spiegatotutto a mia madre.

La zia Elvira entrò con una tazzadi caffellatte. – Svelta, bevi. Nonpuoi mica partire a stomaco vuoto –disse brusca.

Barbara obbedì. Si sentivafrastornata. Da un lato era curiosa

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di vedere questa sorella che avevascelto di nascere vicino a Dorgo, maallo stesso tempo avrebbe volutotornare a letto e tirarsi le copertesulla testa.

– Lorenzo ha detto comel’hanno chiamata? – domandòmentre salivano in macchina.

– Mah!? Mi pare che le abbianomesso il nome del padre, ma non hocapito bene. – disse Valentina –qualcosa come Lorenzina.

Invece la neonata si chiamavaLaurentina, un nome in uso fin dalCinquecento nella famigliaLaurenti, come spiegò il patrignotutto orgoglioso, mentre la mamma

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scostava le coperte dal fagottino cheteneva in braccio per mostrare alletre amiche una piccola faccia rossae grinzosa.

– Che amore! – esclamò Vittoriasfiorando con un dito il naso dellapiccola.

– Posso prenderla in braccio? –chiese Valentina speranzosa.

Barbara non diceva niente.Aveva visto sul comodino un grandemazzo di rose con la cartadell’Interflora e un biglietto: “Tantiauguri alla principessina.Benvenuta nella nostra famiglia! Lezie Olimpia e Selvaggia.”

– E Claudio, l’avete avvertito? –

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chiese.– Sì. Gli abbiamo telefonato

un’ora fa. Dice che non vede l’ora diconoscere Laurentina.

Barbara guardò il patrigno, chetoglieva con cautela il fagottinodalle braccia della mamma e lopassava in quelle di Valentina (chesollevò il viso della neonataall’altezza del suo e bisbigliò: Ciao,Lorenzina).

Guardò la mamma, che dal lettoseguiva l’operazione con unosguardo tenero che non ricordava diaverle mai visto negli occhi prima diallora, e le tornò in mente la fraseche Claudio aveva detto nel sogno:

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“Non contate su di me, per staredietro a questa mocciosa.”

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PARTE SECONDA: ILDIARIO DI BARBARA

CAPITOLO PRIMO

Probabilmente solo le tre amicheinseparabili conoscevano la stradaper arrivare a quel luogo di delizieche Vittoria aveva battezzato “I

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Giardini di Allah”. Bisognavascendere lungo il corso del torrentesaltando di macigno in macigno,sempre più a valle. Poi, a un certopunto – e bisognava sapereesattamente quale, perché c’era ilrischio di trovarsi davanti unainvalicabile parete di roccia – sideviava a sinistra, aprendosi lastrada in un folto di rovi e noccioliquasi impenetrabile, che sirichiudeva elastico alle spalle delviandante senza lasciare traccia delsuo passaggio. Si arrivava così in unlembo di prato pianeggiante, strettofra due alte muraglie di roccia eperfettamente isolato dal resto del

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mondo.Al centro del prato scorreva un

ruscello, figlio del torrente ma piùcalmo per la scarsa pendenza delterreno. Sulle due sponde, comepiantate ad arte, crescevano due filedi meli selvatici che intrecciavano irami più alti, formando sull’acquauna specie di galleria vegetale.

Era il rifugio perfetto per imomenti di crisi. Stando a bagnonell’acqua limpida, o seduti sullepietre della riva, ci si sentivaprotetti come da un bozzolo difoglie che lasciava filtrare una luceverde diffusa e riposante.Guardando in alto si vedeva, invece

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del cielo, l’intrico dei rami e dellefoglie e, in primavera, la densafioritura biancorosa dal profumodolcissimo. Bastava sfiorare i rami,perché una pioggia di petali cadessesull’acqua come una nevicata. E,d’estate, bastava allungare unamano per cogliere dozzine di piccolemele sugose dal sapore asprigno.

Quel pomeriggio di settembre lemele rosseggiavano fitte contro ilverde cupo delle foglie.

Valentina si lasciò cadere sullasponda del fiume, agitò i piedinell’acqua e disse indicando i frutti:Non vi fanno pensare a quellapoesia che ci ha letto ieri la

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signorina Pancaldi?Barbara, la cui memoria

prodigiosa era oggetto di grandeammirazione da parte delle amiche,recitò: – Come la dolce melarosseggia alta tra i rami, alta sulramo più alto. Forse non la videro iraccoglitori? No, la videro, ma nonarrivarono a coglierla.

– Canto nuziale per una sposaattempata – rise Valentina.Evidentemente la signorinaPancaldi pensa che questa poesiaSaffo l’abbia scritta pensando a lei.

– Beh, ma allora le si adatta dipiù quell’altra che ci ha recitato lasettimana scorsa – osservò Vittoria,

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ricordando lo strano flirt dell’annopassato fra l’anziana insegnante dilettere e il giovane attore televisivo,che aveva provocato tantechiacchiere in paese.

– Ah, sì! Quella del vecchio chechiede alle fanciulle di sorreggerlonel volo, così come fanno le giovanialcioni col cerilo, un uccellomarino! Vi ricordate che versimusicali? “Bàle dè, bàle kèrilos èie,òs epè kùmatos ànzos.” recitòancora Barbara.

La signorina Pancaldi erafierissima di lei. – Come midispiace che quest’inverno nonsarai mia allieva come le tue

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amiche! – ripeteva spessodispiaciuta.

All’inizio di luglio la signorina,che passava da sempre anche lei levacanze a Dorgo, ed era amica delleloro famiglie, si era offerta di darelezioni di latino e greco alle treinseparabili. – così, quando inautunno incomincerete la quartaginnasio, avrete meno difficoltà.

Erano lezioni molto particolari,durante le quali la signorina, piùche insegnare la grammatica e lasintassi, recitava con grande enfasibrani di prosa o di poesia in greco ein latino. – E’ lo spirito della lingua,la sua bellezza, che dovete imparare

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ad apprezzare prima di tutto. Perimparare le regole c’è sempretempo.

Le tre allieve ridacchiavano,però andavano a lezione volentieri ericopiavano con grande diligenzaquei brani sui quaderni.

Adesso la signorina era tornataad Alaria e le lezioni eranoterminate. Fra qualche giornosarebbero dovute partire anche loro.

Barbara in quei due mesi avevacercato di cancellare il ricordo diMilano. Si era goduta le vacanze conun’intensità quasi dolorosa,scacciando il pensiero del prossimoinverno ogni volta che le si

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affacciava alla mente. Così comecercava di scacciare il pensiero dellamadre, di Lorenzo e soprattutto diLaurentina.

Quell’anno Claudio si era volutosprecare e si era fermato anche luiuna settimana a Dorgo, prima diandare a raggiungere la madre eLaurentina in Toscana, doveLorenzo aveva affittato un rusticoriattato. Barbara era stata felicedella sua presenza, anche se ilfratello, come al solito, non l’avevadegnata di molta attenzione e avevapassato tutto il suo tempo con gliadulti.

Barbara sapeva che il nonno lo

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aveva rimproverato di trascurarla.Dovresti starle più vicino. E’ unmomento difficile per lei. Non dicoche dovevi rinunciare all’America,ma forse avresti potuto rimandare,passare con tua sorella questoprimo anno a Milano. Per lei èmolto duro, sai.

Ma Claudio non si era lasciatocolpevolizzare.

– Se Barbara sta male, è perchéè una stupida. Cosa va cercando? Lamamma ha sempre avuto un deboleper lei, e anche Lorenzo la vizia,gliele lascia passare tutte. Lo so checon voi fa la martire perseguitata,ma è solo una ragazzina stravagante

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con troppi grilli per la testa. E tu e ilpapà fareste bene a nonincoraggiarla.

Il nonno si era arrabbiato, maBarbara non se l’era presa. Di nonpoter contare sull’appoggio e lacomplicità di Claudio lei lo sapevada tanto tempo. Da quando, dopoun anno che il padre era andato viadi casa, lei aveva scelto diperdonarlo, e Claudio era rimastoinvece fermo nel suo rifiuto,solidale fino in fondo col rancoredella mamma. Questo, insieme allagrande differenza d’età, aveva finitoper renderli quasi estranei. Non cheBarbara ne facesse una malattia.

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Tutti i fratelli e sorelle checonosceva litigavano. Quelli diVittoria non perdevano l’occasionedi trattarla con sarcasmo, dicriticarla, di umiliarla davanti agliestranei, di far lega con i cuginicontro di lei, unica femmina dellatribù. Almeno a Claudio, da quelpunto di vista, non si potevarimproverare niente.

Quello a cui teneva Barbara nonera l’affetto del fratello, ma quellodel papà. E qui a Dorgo lo avevatutto per lei, e nel modo chepreferiva.

Si svegliavano alla stessa ora efacevano colazione insieme, nella

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cucina della zia Elvira, col nonnoche era già rientrato da uno dei suoigiri mattutini. Si raccontavanoreciprocamente i sogni, se neavevano fatto di curiosi. Il papà nonera di quelli che vogliono trovare atutti i costi un’interpretazionepsicologica in ogni sogno. A luiinteressavano le immagini, come inuna bella fiaba, e se erano sognipaurosi ammiccava a Barbara comeper dirle: “Niente paura! Ci sonoqua io!” Poi davano un’occhiata algiornale, commentavano le notizie,si beccavano con la zia Elvira chetrovava sempre le interpretazionidel papà troppo “rivoluzionarie”.

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Loro due ridevano con complicità.Finita la colazione il papà se ne

andava per i fatti suoi e Barbaracorreva a cercare le amiche. Potevacapitare che nel corso della mattinasi incontrassero nel bar di Lisetta oall’alpe, o da qualche altra parte.Oppure, se uno dei due faceva unapasseggiata con picnic, che non sivedessero affatto fino a sera.

Ma per tutto il giorno Barbaraconservava, dentro, la caldasensazione che il papà era nellevicinanze, pronto ad accorrere incaso di bisogno, o anche solo di unattacco di malinconia. Le treinseparabili avevano discusso a

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lungo sull’argomento e avevanoconcluso che l’affetto dei genitori,quando non sei più un lattante, nonsi misura dalla loro vicinanza fisicacontinua, ma anzi dalla lorodiscrezione, dal loro stare indisparte a lasciarti vivere la tua vitasenza immischiarsi.

Quello che è importante è chesiano lì quando ne hai bisogno,quando sei tu che li cerchi.

Non c’era niente di piùsgradevole e di più innaturale,pensavano, di quello stareappiccicati tutto il giorno,imbarazzati, annoiati, senza saperecosa dirsi, come durante le visite del

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padre di Barbara a Milano.Qui a Dorgo ognuno dei due

viveva la propria vita. A quattordicianni e a quarantacinque non sihanno gli stessi interessi. Però ognitanto c’era una passeggiata insieme,una discesa al torrente, una partitaa carte seduti sui gradini dellachiesa. E tutte le notti, quandoentrava a darle la buona notte, ilpapà si fermava dieci minuti achiacchierare vicino al letto diBarbara e le grattava la schiena inmodo delizioso.

– Mettetevi vicine che vi faccio

una foto – disse Vittoria.

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– Non prendermi di profilo! –strillò Valentina, cercando dimettere in primo piano le lunghegambe abbronzate.

Dall’anno precedente si eraallungata di cinque centimetri, ilviso le si era assottigliato, mettendopiù in risalto gli zigomi e, con suogrande dispiacere, anche il naso.Continuava a controllarselo allospecchio e ogni volta le sembravapiù grande.

– Quanti anni bisogna avere perpoter fare la plastica? – chiedevaogni tre giorni alla madre, cheimmancabilmente sbuffava erispondeva: – Non dire scemenze!

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Barbara le si avvicinò dimalavoglia. Un tempo le piacevamoltissimo farsi fotografare. Il suotemperamento drammatico (oistrionico, come diceva la zia Elvira)la spingeva ad assumere posecomplicate che poi sulla fotorisultavano buffissime. Sapevacomunque di essere fotogenica, el’esperienza con la truupp dellatelenovela l’anno precedente glieloaveva confermato.

Durante l’ultimo inverno peròera ingrassata. Solo un paio di chili,ma lei si sentiva obesa. Le sembravadi avere il doppio mento e un sedereenorme. E quegli schifosi foruncoli

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che neanche a Dorgo se n’eranovoluti andare! Aveva cercato di nonguardarsi allo specchio, ma sispecchiava lo stesso nello sguardodella mamma, che le sembravapieno di disgusto per come eradiventata.

Sospirò e si strinse a Valentinaguardando verso l’obiettivo. Chissà.Magari in fotografia sarebbesembrata migliore!

Vittoria rispetto all’estateprecedente era cambiata poco. Eracresciuta solo in altezza,raggiungendo le altre due. Ma avevasempre la stessa faccia infantile edera piatta come una tavola. Però

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non se ne faceva un problema. Anzi!In quel periodo il suo più gran

desiderio era quello di essere unmaschio. Almeno avrebbe potutoviaggiare come i suoi fratelli ecugini. Sarebbe potuta andare aLondra a imparare l’inglese.Sarebbe potuta rincasare in ritardola sera senza dover subire tantiinterrogatori. Non avrebbe dovutomettersi quei ridicolissimi vestiti da“ragazza di buona famiglia” che lesceglieva la nonna.

Era stata un’estate un po’ triste,quella, per lei. Aveva tanto speratodi rivedere Wolf, il ragazzo delviolino, di cui era stata così

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innamorata l’anno prima, quandoera troppo piccola per poterlocontendere alla bellissima espregiudicata Scintilla Luz. Pensavache quest’anno forse le cosesarebbero potute andare meglio.

Ma Wolf non era venuto. Eraarrivata una sua cartolina dal lagodi Garda, indirizzata a tutte e tre.Poche parole di saluto. E accantoalla sua firma ce n’era unafemminile: Silke.

Era triste Vittoria, però sirendeva conto, così come se nerendeva conto Valentina, che i loroproblemi erano niente in confrontoa quelli di Barbara.

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– Non è possibile che tu passiun altro inverno come quello scorsodisse Vittoria. – Non puoi lasciartiandare così a scuola. Guarda che laquarta ginnasio è difficile.

– E poi devi cercareassolutamente di fare amicizia conqualcuno disse Valentina. – Deviavere qualcuno con cui parlare, concui sfogarti. Se ti tieni tutto dentrofinisce che scoppi.

– Magari i compagni di questanuova scuola saranno più simpatici.

– E poi, insomma, Milano è unacittà grandissima! Possibile che nonci sia nessuno, ma proprio nessunoche ti piaccia?

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I compagni di scuola della terzamedia Barbara li avevacompletamente cancellati dallamemoria. Era strano. A un anno didistanza ricordava perfettamenteScintilla Luz, il suo timbro di voce,la peluria di pesca delle sue guance,quel piccolo neo castano sulsopracciglio sinistro.

Ricordava uno per uno tutti icomponenti della truupp televisiva.E li aveva frequentati per un mesescarso.

Invece quei ragazzi con cuiaveva passato un intero annoscolastico, con cui era andata ingita, aveva fatto ginnastica, aveva

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fatto l’esame, nella sua mente eranosolo un gruppo confuso. Dovevafare uno sforzo enorme persino perricordare il nome della suacompagna di banco.

Chissà se nel prossimo autunnoavrebbe incontrato qualcuno degnodi essere ricordato?

Voleva rimettersi a studiare.Non voleva deludere la signorinaPancaldi. Voleva tornare ad esserela prima della classe. PurchéLaurentina non le desse troppofastidio! Purché la mamma lalasciasse in pace e non le chiedessedi occuparsi della bambina.

– Se ti senti ancora così sola,

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invece di andartene a letto apiangere, perché non scrivi undiario? – suggerì Vittoria. – Non ècome un’amica in carne ed ossa,però tiene compagnia.

Così, appena arrivata a Milano,con i soldi che il nonno le avevainfilato in tasca nel salutarla,Barbara era andata in cartoleria e siera comprata un diario. Bellogrosso, con la copertina di telaazzurra a fiori e col lucchetto.

CAPITOLO SECONDO

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Milano, 14 settembreEcco, già a scrivere “Milano” mi

si riempiono gli occhi di lacrime. Epensare che stamattina, quando misono alzata, ero a Dorgo, nella miacamera in casa del nonno. E c’era ilpapà che mi chiamava per lacolazione. Poi, subito dopo, siamodovuti partire. Sono tornata aMilano perché domani è il primogiorno di scuola.

Anche Vittoria e Valentina sonotornate ad Alaria, ma loro eranotutte contente perché saranno inclasse con la signorina Pancaldi, esanno cosa le aspetta. Io. Chissàdove andrò a finire?

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Intanto, appena arrivata aMilano, ho subito trovato unabrutta sorpresa. Ero già dimalumore per aver lasciato Dorgo,per aver salutato il papà, e questanovità proprio non ci voleva. Nonho più la mia camera: hannospostato le mie cose in quella cheera la stanza degli hobbies diLorenzo, in fondo al corridoio. Nellacamera dove dormivo prima hannosistemato Laurentina con labambinaia. Quando ho aperto laporta e ho visto i mobili nuovi, laculla, il fasciatoio, il letto dellafraulein, ci sono rimasta malissimo.Non che le fossi affezionata come

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alla mia adorata cameretta di Alaria.Però era il mio rifugio, l’unico postodella casa dove potevo stare in santapace. Nel trasloco hanno strappatoil poster che il nonno aveva fattofare dalla mia foto col costume diScintilla Luz.

La mamma crede di farsiperdonare vantando le bellezzedella stanza dove mi hannotrasferita. Ha fatto tappezzare ilmuro con una carta a rosellineantiche e ci ha fatto trasportare ilpianoforte che prima era insoggiorno. Se crede che mi rimetta astudiare musica come ad Alaria, stafresca! Adesso che mi ci sono

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sistemata devo riconoscere che infondo non è una brutta stanza. Perònon avevano il diritto di spostarmisenza chiedermi prima se erod’accordo.

La mamma è già andata allanuova scuola e si è fatta darel’elenco dei libri. Molti li ha giàcomprati. Mi ha comprato anche unmaglione nuovo, arancione, proprioil colore che detesto, e mi ha dettoche domani pomeriggio usciremoinsieme per rifarmi tutto ilguardaroba, perché nei vestitidell’anno scorso non c’entro più.Sono sicura che le verrà unaccidente quando mi vedrà

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spogliata e scoprirà quanta celluliteho sulle cosce e che ormai devoprendere la taglia 44.

E intanto domani per andare ascuola cosa mi metto?

Milano, 15 settembre

Che giornata! Ho un diavolo percapello. Eppure stamattina le cosesembravano avviarsi discretamente.

Il liceo Ariosto dove mi hannoiscritta non è lontano da casa. Peròla mamma ha volutoaccompagnarmi lo stesso inmacchina. E’ venuto anche Lorenzo.Che vergogna! Sono dovuta entrarenell’atrio con loro due a fianco

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come una bambina piccola. Cimancava che mi tenessero permano! Meno male che all’uscita mihanno lasciato tornare a casa dasola.

In classe siamo ventitré.Quattordici femmine e novemaschi. Dei compagni dell’annoscorso per fortuna non ce n’ènemmeno uno. La nostra è lasezione B. Oggi abbiamo fatto solotre ore, tutte con la prof d’italiano.Ci ha fatto fare un tema che mi èpiaciuto molto. Bisognava parlaredei libri che abbiamo letto per contonostro, fuori dalla scuola. Lamaggior parte dei compagni si

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grattava il mento con la penna eguardava per aria. Io naturalmente,ho subito attaccato a scrivere e misono messa a filare come unalocomotiva. Ho riempito sei facciateprotocollo e, se non avesse suonatola campana, avrei continuato.

Ho visto che c’erano altri dueche facevano come me. Unragazzino bruno con gli occhi verdi,così piccolo che sembra un bambinodi prima media, e una ragazzamagra, molto carina, vestita dirosso, con una treccia lunga quasifino alla vita. Non ho capito come sichiamano. Domani starò più attentaquando la prof fa l’appello.

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Dopo il pranzo, ahimè, abbiamofatto, la mamma ed io, la famosaspedizione in centro, nei negozi divestiti. E’ stata una tortura. Tuttoquello che la mamma mi volevacomprare, non mi piaceva. Oppuremi piaceva quando lo vedevo sullagruccia. Quando poi me lomisuravo, mi sembrava che mistesse malissimo. Abbiamo fattoimpazzire le commesse, che nonsapevano più cosa portarci. Alla finela mamma esasperata mi hachiesto: “Ma insomma, cosa vuoi?Cos’è che ti piace?”

Le ho detto la verità: “Non mipiace niente.”

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“Allora vuoi andare in gironuda?”

Non capisce che vorrei delle coseche non mi facessero sembrare cosìgrassa.

Abbiamo finito per noncomprare niente. La mamma avevaun diavolo per capello e non mi haparlato per tutta la sera. Neppure acena. Non mi ha dato neppure labuona notte. Adesso è di là, nellacamera di Laurentina, e le stafacendo un sacco di moine conquella voce tutta “gnè gnè” cheusano i grandi con i bambini piccoli.

Dovrei scrivere a Valentina e aVittoria per raccontare del primo

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giorno di scuola, ma non ne hovoglia. Credo che me ne andrò aletto e mi farò un bel pianto.

Milano, 18 settembre

Stamattina la prof di italiano ciha portato i temi che abbiamo fattoil primo giorno. Io ho preso otto emezzo. Anche la ragazza con latreccia, che si chiama Ornella Viani,ha preso otto. Roberto Altara, quelragazzino, quel baby, ha preso nove,la prof gli ha fatto i complimenti elui è diventato rosso come unpomodoro.

Tutti gli altri hanno fatto deicompiti scadenti. C’erano due sette,

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quattro sei e il resto insufficiente.Non mi ricordavo quanto fossebello prendere otto.

Nell’intervallo la prof ci hachiamati da parte, noi tre, e ci hadetto che vuole affidarci labiblioteca di classe. Dobbiamoordinare i libri, possibilmenteconvincere i compagni a prenderliin prestito, controllare che lirestituiscano e proporre i nuovititoli da acquistare. Mi piace questoincarico e penso che andròd’accordo con Ornella e Roberto,anche se ho sbirciato i loro compitie ho visto che a tutti e duepiacciono libri completamente

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diversi da quelli che piacciono a me.Domani pomeriggio ci dobbiamo

riunire, noi tre bibliotecari, perdecidere come iniziare il lavoro.

Dopo pranzo è successo un fattocurioso. Ero in camera mia chefoderavo i libri quando ho sentitobussare. Era Liselotte, la fraulein.Mi ha chiesto se poteva entrare afare due chiacchiere. Mi ha dettoche Laurentina stava dormendo eche quindi era libera per un’oretta.E’ bionda, un po’ spigolosa ed haventisette anni. Parla l’italiano conun accento che mi ricorda un po’quello di Wolf e mi fa venirenostalgia.

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Avrei voluto chiederle come maile è venuto in mente di fare labambinaia, e se non le dispiace divivere in una casa estranea, con unafamiglia che non è la sua. E se haintenzione di fare la bambinaiatutta la vita, oppure se ha altreaspirazioni. Però non la conoscoancora così bene da farle domandetanto personali. A vederla, nonsembra triste. Si è seduta sul mioletto e ha cominciato achiacchierare. Mi ha chiesto dellascuola, se mi piaceva. Poi fa:“Domani è il mio pomeriggio dilibertà. Devo andare a fare qualchecommissione, ma non conosco bene

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Milano. Mi accompagneresti?”Non me l’aspettavo. Pensavo che

avesse delle amiche della sua età.Mi fa pena. Mi sembra ancora piùestranea di me, in questa casa,anche se a lei, per andarsene, bastache si licenzi. Io non mi posso micalicenziare dalla mamma. Comunquele ho promesso che l’avreiaccompagnata alla Rinascente.

Milano, 19 settembre

Ormai abbiamo l’orariocompleto, e abbiamo conosciutoquasi tutti i professori. C’è quello difrancese che è proprio un belragazzo. Una certa Michela, un tipo

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buffissimo, piccola, magra, con gliocchi da cinese e una grande facciatosta, si è alzata e gli ha chiestoquanti anni ha. Ne deve compieretrenta. Anna, la mia compagna dibanco, giura che è scapolo, anzi chenon ha neppure la ragazza. Beh,cosa crede? Che siccome lui è liberoci possiamo far sotto noi alunne?

A me però più di tutti piace laprof di italiano. Si chiama LudovicaDanesi e ha circa quarant’anni.Dev’essere sposata, perché tutti lachiamano signora e poi porta lafede. A prima vista potrebbesembrare antipatica, perché veste discuro, è molto severa e sorride

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raramente. E poi sta così dritta,quando cammina e quando si siede,che quella scema di Anna dice chedeve avere inghiottito un manico discopa.

Ma a me piace proprio perché ècosì seria. Ha fama di essere moltobrava, ma di pretendere molto daglialunni. Io credo che faccia bene,perché quando ci parla non dice lescemenze della prof dell’annoscorso, ma fa delle lezioni che tifanno rimescolare dentro. Hacominciato a spiegarci di Dante,della sua vita, del suo esilio, inmodo che ci sembrava di essere noia Firenze tra i guelfi e i ghibellini.

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Io ho alzato la mano e le ho dettoche conoscevo quei versi: “Tulascerai ogni cosa diletta” che miaveva scritto Valentina, e lei mi hadetto: “Brava!” e mi ha sorriso.

Ha i capelli neri, lunghi, lisci,annodati sulla nuca, e gli occhianche neri, luminosissimi. Non sitrucca, ma ha le ciglia così folte escure che sembra si metta ilrimmel. E una voce bassa, grave, unpo’ rauca, che quando legge lepoesie ti fa venir voglia di piangere.

Mamma l’ha vista il primogiorno, quando mi haaccompagnato e dice che è un tipoinsignificante, all’antica, che

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sembra una suora. Certo che nonpuò capire quanto invece è elegante,proprio perché è così severa, lei che,se non va ogni quattro giorni dalparrucchiere, si ammala!

D’altronde alla mamma nonpiace neppure la signorina Pancaldi.La trova ridicola, con i suoi ricciolibiondi (tinti) e tutti quei “pizzi,pizzetti e falpalà” come dice lanonna di Vittoria. Io dico: uno nonpuò essere libero di vestirsi e dipettinarsi come gli pare?

Ho ricevuto una lettera diVittoria. Dice che a scuola lasignorina si comporta nello stessomodo con cui ci faceva lezione a

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Dorgo. Che gli alunni ridono, ma leinon si offende e li chiama “figliolinicari”. E poi ogni tanto smette di farelezione e racconta episodiromanzeschi della sua vita, comequella volta che è andata a Madridin autostop per vedere un certoquadro al museo del Prado, e facevalezione di Storia dell’Arte aicamionisti che le davano unpassaggio.

Quando leggo queste cose miviene un gran malumore. Penso chese la mamma non si fosse risposata,o se almeno non ci fossimotrasferiti a Milano, adesso sareianch’io in classe con loro a farmi

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chiamare “figliolina cara”.

Milano, 20 settembreNel pomeriggio, mentre la

mamma andava con Laurentina atrovare le principesse cugine, sonouscita con Liselotte ed è successauna cosa buffa.

Siamo andate da Coin e allaRinascente, perché lei dovevacomprarsi una giacca. Davvero, nonso come è successo, ma ho fatto uncolpo di testa e mi sono comprataanch’io una quantità incredibile divestiti. Tre gonne, due pantaloni,due golf, tre camicie, un giaccone epersino un vestito blu un po’

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elegante che mi fa sembrare quasimagra. Non avevo un soldo in tasca,ma Liselotte mi ha detto: “Nonpreoccuparti, te li presto io. Ho lacarta di credito. Sono sicura che poitua madre me li rende.”

Io non sapevo se la mammasarebbe stata contenta chespendessi tanti soldi. Ma Liselottecontinuava a dire: “Prova questo.Guarda come ti sta bene!” E poi,alla fine, bisognava pure che micomprassi qualcosa da mettereaddosso. Non potevo continuare adandare in giro in tuta da ginnastica.

Quando siamo tornate a casacon tutti i nostri pacchi, la mamma

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si è un po’ arrabbiata. “Chissà chestracci avrete preso!” Ma quando havisto gli abiti, le è passata e harestituito i soldi a Liselotte.

Poi mi sono chiusa in camera emi sono di nuovo provata tuttodavanti allo specchio. Ha ragioneLiselotte. Dovrò cominciare adepilarmi le gambe. Con la gonna ela giacca blu somiglio un poco allasignora Danesi.

Milano, 29 settembre

Oggi ho litigato con la mamma.Mi ero messa d’accordo con

Ornella per andare a studiare a casasua. Credevo che la mamma

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sarebbe stata contenta, dopo tuttequelle lamentele sul fatto che nonfacevo amicizia con nessuno. Inveceha cominciato a fare un sacco distorie. Ha detto che non laconosceva, che non sapeva nientedella sua famiglia, e perché per laprima volta non la invitavo astudiare da me, così lei poteva darleun’occhiata.

Io le ho risposto che qui non eracasa mia e che non volevo invitarcinessuno. Allora si è arrabbiata estava per darmi uno schiaffo. Perfortuna in quel momento è entrataLiselotte con Laurentina in braccioe la mamma ha dovuto calmarsi.

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Però ha cominciato a dire chevoleva l’indirizzo e il numero ditelefono, e che alle sette e mezzaavrebbe mandato Liselotte aprendermi.

Allora le ho detto: “Va bene. Senon ti fidi di me, non ci vado. Mapoi non lamentarti se non faccioamicizia con nessuno.”

E non ci sono andata. Mi sonochiusa in camera e non sono uscitaneppure per la cena.

Milano, 30 settembre

Questo pomeriggio Ornella èvenuta a studiare da me. Non sonostata io a invitarla, ma quando le ho

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spiegato perché ieri non ero andatada lei si è messa a ridere e ha detto:“Per me è lo stesso. Se tua madremi vuole esaminare, che siaccomodi!”

Evidentemente ha superatol’esame, perché la mamma era tuttaun miele. Ci ha portato la merendain camera e ha chiesto a Ornella sevoleva assistere al bagno diLaurentina. Come se fosse unacerimonia straordinaria!

Per fortuna Ornella ha risposto:“No, grazie. Abbiamo molto dastudiare.”

Prima di andarmene però mi hadetto: “Sei fortunata, ad avere una

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casa così grande, e una bambinaiaper tua sorella. Pensa se tel’avessero messa in camera e se cidovessi badare tu.”

Sè, pensa, davvero! Non cimancherebbe che questo! Anche sedevo riconoscere che Laurentina èbuonissima. Se non fosse per lamamma con tutti i suoi “gnè gnè”non ci si accorgerebbe neppure chec’è un bambino piccolo in casa.

Milano, 10 ottobre

Sono esterrefatta! Ornella mi hadetto che è innamorata di RobertoAltara, quel moccioso! E siccome luinon si capisce come la pensi al

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riguardo, mi ha supplicato di fareun sondaggio, con moltadiplomazia, per sapere se laricambia o se per caso è innamoratodi qualcun’altra.

Io Ornella proprio non lacapisco. E’ simpatica, intelligente,carina, elegante, sicura di s. Quellidi prima e seconda liceo la invitanosempre a uscire con loro, e lei va ainnamorarsi di quello sgorbietto!

Ha ragione Valentina quandodice che ci sarà bene un motivo segli antichi raffiguravano l’amorecon la benda sugli occhi.

Milano, 11 ottobre

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Ornella insiste perché io parlicon Roberto. Ma non possoaffrontarlo così, a bruciapelo.Bisogna che trovi una scusa percominciare il discorso.

La signora Danesi mi ha dato daleggere un libro bellissimo. Siintitola Il grande Meaulnes, è uncognome, e parla di due amici chevanno in un reame misterioso e siinnamorano della stessa ragazza, epoi lei ha una figlia e muore, e lui,Meaulnes, se ne va nella notte conla figliolina avvolta nel mantello.Ho finito di leggerlo ieri notte eprima di addormentarmi ho piantoper mezz’ora. Lo regalerò a Vittoria

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per il suo compleanno. Sono sicurache le piacerà.

Milano, 13 ottobre

Valentina nella sua ultimalettera si lamenta perché non leracconto mai di Laurentina. Cosa cisarà da raccontare di una che non faaltro che mangiare e dormire?

Liselotte ieri mi ha chiesto sefaccio ginnastica insieme a lei. Miha detto che il medico le haordinato di farla tutti i giorni, per ilmal di schiena, ma che da sola siannoia e trova tutte le scuse perrimandare all’indomani. Invece sesiamo in due, dice, ci sentiamo

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impegnate l’una con l’altra e cicontrolliamo a vicenda.

Io non so perché la mamma nonla lascia uscire per andare inpalestra! Mi fa pena, poveraLiselotte. Sono sicura che il mal dischiena le è venuto a furia di starechinata sulla carrozzina, e poi alavare a mano tutti i vestiti dellabambina e stirarli, e senza maiscambiare due parole perché lamamma non le dà confidenza. Nonavrei mai pensato che la mamma sicomportasse come una negriera.

Così stasera abbiamo cominciatoquesta ginnastica. La facciamo disera in camera mia mentre

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Laurentina dorme. Mettiamo unnastro di musica e Liselotte ha unfoglio con tutti i movimenti che lehanno dato in palestra. E’divertente.

Valentina mi ha scritto che devoassolutamente leggere un librointitolato Il Signore degli Anelli.Dice che è superbellissimo. Me lofarò prestare da Ornella. Ho vistoche sua madre ce l’ha.

Ornella sta cominciando ascocciarmi con le sue pene d’amore.Cosa ci posso fare io sequell’imbranato di Roberto non sisbilancia?

Quando siamo insieme noi tre

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per occuparci della biblioteca, èsempre gentilissimo. Ci ha ancheinvitate a mangiare la pizza e hapagato lui. Però non cerca mai direstare da solo con lei. Ornella diceche forse non ha coraggio perché ètimido. Dice che certe volte ha l’ariatriste, malinconica. Secondo lei èsegno di innamoramento. Invece iopenso che Roberto è ancora troppobambino per pensare a queste cose.

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CAPITOLO TERZO

Milano, 18 ottobreHo cercato sull’elenco del

telefono per vedere dove abita lasignora Danesi. Sta qui vicino, in viaVenti Settembre. Oggi pomeriggioho preso il tram e sono andata avedere com’è la casa. E’ una villettacol giardino. Ho aspettato mezz’ora,ma al cancello non è apparsonessuno. Chissà a che piano sta lasignora. Me la immagino che

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corregge i miei temi dietro quellafinestra al primo piano, con la vistasugli alberi del viale. Se propriodovessi vivere sempre a Milano, mipiacerebbe abitare in una casa così.

Milano, 20 ottobre, domenica

Oggi sono venute a trovarci leprincipesse cugine. Chepresuntuose antipatiche! Ci vuoleproprio la pazienza della mammaper sopportarle. Lorenzo, subitodopo mangiato, è uscito con lascusa di andare alla partita, e cosìsiamo rimaste solo “noi donne”(Liselotte la domenica esce per ifatti suoi).

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Io volevo andarmene di là aguardare la televisione, ma lamamma mi ha fatto certeocchiatacce perché restassi. Non sose perché giudicava la mia fuga unascortesia verso le due ospiti, operché non voleva restare sola conloro. Ma tanto, di noi due a quellevecchie streghe non gliene importaun bel niente. Per loro esiste soloLaurentina, l’erede del titolo. Lachiamano “la nostra principessina”;le fanno mille stupide smancerie; lavogliono prendere in braccio anchequando dorme; la sbaciucchiano;litigano perché Olimpia sostieneche somiglia tutta all’antenato tale

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e Selvaggia protesta che invece è ilritratto del prozio talaltro.

Ci hanno portato, ma solo davedere, un piccolo ritratto a olio delSettecento che raffigura unaLaurentina Laurenti di San Protasovestita di rosso, con un cagnolino ingrembo.

Dicono che somiglia tutta allanostra Laurentina. Quella scema diOlimpia ha detto persino: “E se sitrattasse di un caso direincarnazione?”

Bisogna essere proprio cieche.Come fa una adulta con la parrucca,col viso lungo e col naso lungo asomigliare a una lattante di quattro

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mesi quasi calva e con la facciatonda come una mela?

Se ci fosse qui Valentina, cidivertiremmo a fare uno scherzoalle vecchie arpie. Potremmomostrare loro le nostre foto con icostumi della telenovela e dire cheanche noi siamo un caso direincarnazione. Ma da sola questestupidaggini non mi divertono.

Quello che poi mi dà una granderabbia è che la mamma non simette a ridere, ma le sta adascoltare come se le prendesse sulserio. Non mi ha difeso neppurequando le due arpie mi hannosgridato perché, secondo loro, sono

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poco affezionata a “quel tesorucciodella mia sorellina”. Cosavorrebbero? Che la mettessi su unaltare come fanno loro e la adorassiin ginocchio?

Mi sono annoiata da morire. Laprossima volta, quando so chevengono, me ne vado a studiare acasa di Ornella.

Milano, 3 novembre

Domani andiamo in gitascolastica a Pavia, a vedere SanPietro in Ciel d’Oro, dove è sepoltoSant’Agostino.

Ornella mi ha fatto giurare conle dita incrociate che in pullman mi

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siederò vicino a Roberto e glichiederò finalmente di chi èinnamorato.

Gliel’ho promesso, anche se ilmio più grande desiderio è quello disedermi vicino alla signora Danesi.Ma tanto sono sicura che lei simetterà vicino a un’altrainsegnante.

Milano, 4 novembre, Santa

BarbaraAiuto! E adesso come faccio a

dirglielo a Ornella? Aveva ragione,Roberto è innamorato. Ma di chi èandato a innamorarsi quelmoccioso? Di me. Mi è venuto un

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colpo quando me l’ha detto. Io miero seduta vicino a lui tutta piena dilusinghe per strappargli il suosegreto. Appena ho cominciato ildiscorso, è diventato rosso come unpomodoro e ha cominciato abalbettare: “Era tanto tempo che telo volevo dire, ma non riuscivo atrovare il coraggio.” Povero piffero,mi aveva portato persino un regalodi buon onomastico, una cateninacon un cuoricino d’oro.

Quando gli ho detto che di luinon me ne importava niente e chelo stavo interrogando per Ornella, èrimasto così deluso che mi ha fattopena. Ma io che colpa ne ho? Ho

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pensato e ripensato a come mi sonocomportata con lui in tutto questotempo che lo conosco, ma sonosicura di non averlo incoraggiato. Eadesso Ornella si arrabbierà conme, sarà gelosa. Che disastro!

Prima di cena mi hanno

telefonato Vittoria e Valentina perfarmi gli auguri. Gli ho chiestocome mi devo comportare.Valentina dice che devo esseresincera e infischiarmene. In fondoOrnella è stata una stupida a noncapire che a Roberto di lei nonimportava niente. Vittoria invecedice che devo cercare di convincere

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Roberto a spostare il suo amore suOrnella. Dice che devo chiederglieloin nome dell’amore che ha per me.Io invece avrei voglia discapparmene per una settimana elasciare che si arrangiassero.

Milano, 10 novembre

Ero così preoccupata per quelloche avrei detto a Ornella che misono sentita male. Mi è venuto unmal di stomaco tremendo e hovomitato tutto il giorno. Poi mi èvenuta la febbre. Il medico dice cheè una intossicazione da frutti dimare, ma io sono sicura che è ilrimorso. Non sono andata a scuola

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per cinque giorni, però non hopotuto evitare il momento dellaverità.

Ornella è venuta a trovarmi, eraansiosissima, e quando le ho dettoquello che era successo si è messa apiangere. Per fortuna non se l’èpresa con me. Anzi, ha voluto fare lamagnanima: “Prenditelo. Te lo cedovolentieri.” E si è quasi offesaquando le ho detto che non mi piacee non lo vorrei per nessun motivo almondo.

Uffa! Che difficili che sono irapporti con le persone!

Quello scemo di Roberto, pertutto il periodo che sono stata a

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casa, ha continuato a telefonare, maio gli ho sempre fatto dire daLiselotte che dormivo (Liselotte miprende in giro e mi dice che non micredeva una rubacuori).

Oggi quando sono tornata ascuola, ho trovato un mazzolino difiori sul banco. Ma cosa fa quellostupido? Mi vuol far diventare lozimbello della classe?

Milano, 15 novembre

Se n’è resa conto anche lasignora Danesi che tra noi tre lecose non vanno più come prima.Non sa il motivo – spero – ma èdispiaciuta. Stamattina, durante la

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ricreazione, mi ha fermato nelcorridoio e mi ha detto pressappococosì: “Io mi sono accorta fin dalprimo giorno che voi tre eravate imigliori della classe. Un altroinsegnante vi avrebbe messo incompetizione per ricavare il meglioda ognuno di voi stimolando ilvostro orgoglio e la vostra rivalità. Ame però le gare non piacciono. Vene faranno fare abbastanza quandosarete adulti. Per me è piùimportante che a questa età voigettiate le basi di una amiciziabasata sull’affinità degli interessi.Per questo vi ho affidato labiblioteca. Ma evidentemente ho

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sbagliato. Cosa c’è che non va?”E’ davvero una donna

meravigliosa!Naturalmente non le ho potuto

spiegare il motivo della nostradiscordia. Oltretutto sarebbe statocome vantarmi. “Spero che sia unacrisi passeggera e che tutto tornipresto come prima” ha concluso lasignora Danesi. Lo spero tantoanch’io.

Milano, 20 novembre

Ormai non vediamo più Robertofuori dalla scuola. Non ci telefonapiù, non viene a studiare con noi.Ha chiesto di essere sostituito

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nell’incarico della biblioteca. Inclasse ha voluto cambiare di banco.E’ nella fila della porta, adesso, e hasempre un’aria triste, come un canebastonato. Anche Ornella hasempre un’aria da funerale, e diconseguenza sono triste anch’io.

Ho provato a immaginarequalche volta come sarebbe seriuscissi a innamorarmi di Roberto.Se ci mettessimo insieme. In fondo,prima, andavamo così d’accordo! Epoi ci piacciono le stesse cose.

Valentina dice che, se proprionon mi fa schifo, dovrei sforzarmi efare un tentativo. Ma se poi vamale, lui ne soffrirebbe ancora di

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più. E con Ornella come lametterei? Non è la mia miglioreamica, però si fida di me e non lapotrei tradire. “Se la avverti prima,questo non è tradire. Tradire èquando fai il doppio gioco” sostieneValentina. Ma io ho altre cose a cuipensare.

Sono preoccupata per il papà.Eravamo rimaste d’accordo, quandosono venuta a Milano, cheValentina e Vittoria lo avrebberotenuto d’occhio, e se ci fosse statoqualcosa di nuovo mi avrebberoavvertita.

Purtroppo pare che ci sia proprioqualcosa di nuovo. Da più di un

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mese il papà esce quasi tutti i giornicon la stessa donna. Vittoria mi hascritto che ormai ad Alaria lo sannotutti. Pare che sia una che lavora intribunale.

Sono così triste. Dopodomani ilpapà dovrebbe venire a trovarmi,ma non so se avrò il coraggio dichiedergli qualcosa.

Milano, 24 novembre

Il papà è venuto e non gli hochiesto niente. Solo, mi sonoaccorta che era distratto, chementre parlavo pensava ad altro, ese ne è andato un’ora prima delsolito.

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Quando l’ho salutato avevo unmagone! Per fortuna che a casa c’èLiselotte. Le ho raccontato tutto emi ha consolato un po’. E’ bellosapere che le posso dire tutto senzache lo vada a raccontare in giro.

Milano, 26 novembre

Da quando è nata, Laurentinanon fa che essere fotografata.Praticamente almeno una volta allasettimana. La mamma ha già duealbum pieni di foto del suo preziosotesoruccio, e Lorenzo ne porta unanel portafoglio e un’altra l’haincorniciata sulla scrivania del suostudio.

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Io le mie foto di quand’eropiccola non le trovo più. Avevamoun album anche noi, mi ricordo. Emi ricordo di certe mie fotografie inbraccio a Claudio. E poi, tutti icompleanni, a soffiare sullecandeline col papà a destra e lamamma a sinistra. Quando il papàse n’è andato, la mamma ha toltodall’album tutte le foto dove c’eralui e le ha strappate. Ma le altredove sono andate a finire?

Comunque oggi le cugineprincipesse hanno mandato un loroamico fotografo per farle un“servizio”, cioè una serie difotografie artistiche. E’ un regalo di

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Natale per Lorenzo e naturalmentedeve essere un segreto.

Oltre al fotografo hannomandato uno scatolone con dentroun bellissimo vestito antico dabambino che la famiglia sitramanda da non so quanti anni.Liselotte ha storto il naso e hadetto: “Spero che lo abbianomandato in lavanderia a farlodisinfettare!” Io credo di no, perchéaveva odore di muffa.

La mamma non ha fatto laschizzinosa, ha preso Laurentinadalla culla e glielo ha messo. Lestava un po’ grande e il fotografo,che è specializzato in ritratti di

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bambini famosi, glielo ha aggiustatocon qualche spilla da balia.

Povera Laurentina! Ormai puntai piedi e a tenerla sotto alle ascellesta dritta come se volessecamminare. Sembrava un GesùBambino di cera, di quelli che sitengono sotto le campane di vetro.Il fotografo la spostava come unabambola: sulla poltrona, vicino alvaso di azalee, sul tappeto delsalotto. Le sistemava le gambe, lemetteva in vista un piedino scalzo,le raddrizzava la cuffietta, lemetteva in mano un fiore, poi ledava un ventaglio, poi una mela, uncampanello d’argento.

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Alla fine Laurentina si è stufatae si è messa a piangere, fregandosigli occhi e sbavando tutto il corpettodel vestito antico.

Mentre Liselotte la calmava, lamamma ha detto: “Sarebbe bellofargliene una in braccio a Barbara.”

“E’ strano” ho pensato “nonabbiamo neppure una foto insieme,io e Laurentina. Invece quando ioero piccola, mi avranno fotografatoun milione di volte in braccio aClaudio.”

Oggi però ero tutta spettinata,con un vestito che mi stavamalissimo, e avevo un bel foruncolosulla fronte, proprio al centro. Non

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ero nelle migliori condizioni perfarmi fotografare. Liselotte però hainsistito tanto, e anche il fotografo.Mi hanno dato un colpo di pettine,mi hanno schiaffato Laurentina ingrembo e – zaczaczac! mi hannoscattato cinque o sei fotografie.

Il servizio lo pagano leprincipesse cugine e non credo chesaranno tanto contente di trovarcianche me oltre alla loro preziosaprincipessina.

Milano, 27 novembre

Che nostalgia di Dorgo! E ditutte le volte che con Vittoria eValentina siamo andate ai Giardini

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di Allah!Oggi a scuola la signora Danesi

ci ha letto quella poesia delPetrarca, Chiare, fresche dolciacque. Al punto in cui dice: “Dai beirami scendea, dolce nella memoria,una pioggia di fior sopra il suogrembo.” mi sono commossa. Misono ricordata di quelle vacanze diPasqua quando abbiamo trovatotutti i meli fioriti, e l’aria era cosìlimpida e l’acqua così trasparente. Emi si sono riempiti gli occhi dilacrime.

La prof poi mi ha chiamato percommentare la poesia e mi ha datonove. Sono tornata a casa tutta

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contenta, ma la mamma non mi hadato nessuna soddisfazione. Eraarrabbiata perché ero spettinata, eavevo il cappotto abbottonatostorto. “Possibile che te ne vaiancora in giro come una selvaggia!E hai quasi quindici anni!” mi hadetto dura. Tanto per cominciare,quindici anni li avrò solo a maggio,e poi tra un nove in italiano e unvestito in disordine, cos’è piùimportante?

Cosa ci sto a fare qui a Milano?Liselotte dice che devo cercare diessere più concreta, che non devoesaltarmi con tutte queste poesie,che le altre ragazze della mia età

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non piagnucolano sul passato, nonsanno nemmeno cos’è la nostalgia epensano a divertirsi.

Mi sembra strano che me lo dicaproprio lei, che vive in un paesestraniero. “Tu non hai nostalgia?” leho chiesto, ma lei non mi harisposto.

Milano, 28 novembre

Ho scoperto che la signoraDanesi ha due figli: un maschio euna femmina. L’abbiamoincontrata, Ornella ed io, in piazzaBaracca, alla bancarella dei libriusati, con i due bambini, che hannootto e dieci anni. Lei ci ha fatto un

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sacco di feste e ci ha invitato al barMotta a prendere una cioccolata conpanna. I bambini sono simpatici,ma erano un po’ intimiditi da noi ehanno parlato poco. La signoraDanesi invece ci ha trattato propriocome se fossimo due sue amiche. Ciha spiegato quali sono le bancarellemigliori, quelle dove si trovano ilibri più interessanti. Era molto piùallegra che a scuola, scherzava, e havoluto pagare a tutti i costi anche lenostre cioccolate.

Con Ornella abbiamo deciso cheper sdebitarci domani lemanderemo un mazzo di fiori. Nona scuola, però. A casa.

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Come mi piacerebbe se lasignora Danesi fosse mia madre!

Milano, 1 dicembre

Sono andata con Roberto alPalazzo del Ghiaccio. Abbiamo fattola pace. Solo che adesso devofrequentarli separatamente, lui eOrnella. Non vogliono più averniente a che fare l’uno con l’altra.Mi piacerebbe dargli un bel paio diceffoni a tutti e due.

Liselotte è molto contenta cheabbia ripreso a frequentare Roberto.Mi chiede sempre di lui. Vuolesapere un’infinità di cose: se hafratelli, che mestiere fa suo padre,

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dove vanno in vacanza. Mi sembraValentina, quando mi faceva il terzogrado su qualche ragazzo che ioconoscevo e lei no.

Liselotte non se ne frega di me,come fa la mamma. Mi ha persinochiesto di leggere le lettere delnonno e quelle di Vittoria eValentina. “E’ difficile al giornod’oggi trovare delle amiche cosìfedeli” mi ha detto “tienitele care.”

Qualche volta penso che seLiselotte avesse la mia età potrebbediventare una mia grande amicacome Vittoria e Valentina. Ancheadesso vado più d’accordo con leiche con Ornella, che su tante cose la

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pensa in modo troppo diverso dame.

CAPITOLO QUARTO

Milano, 10 dicembreSi stanno avvicinando le vacanze

di Natale. Devo stare molto attentaa non ammalarmi, se no anchequest’anno addio Dorgo!

La mamma ha già prenotato ilsuo solito albergo in Costa Azzurra.Dice che per una bambina di seimesi l’aria di mare è più adatta di

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quella d’alta montagna. Lorenzoinvece non rinuncia a sciare e se neva a Madonna di Campiglio. E allorala mamma cosa fa, per averecompagnia? Si porta dietroLiselotte. Le impedisce di tornare acasa sua per Natale, poveretta! E’davvero una grande egoista.

Liselotte dice che per lei va benecosì. Che le verranno pagati glistraordinari e che lei ha bisogno dimettere da parte molto denaro. Mifa proprio pena. Vorrei aiutarla, manon so come. Se anche protestassicon la mamma per come la tratta,non mi darebbe retta.

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Milano, 15 dicembreSono uscita con Ornella. Siamo

andate alla Rinascente a comprare iregali di Natale. Ho speso tutti imiei soldi, però sono soddisfatta.Ho sistemato la mamma, il papà, ilnonno, la zia Elvira, Vittoria,Valentina, Claudio e Liselotte. AOrnella comprerò qualcosa un altrogiorno, se no che sorpresa è? Mi hafatto ridere, Ornella. Ha guardato ilmio elenco e ha chiesto: “E alla tuasorellina non le compri niente?”

Ma cosa vuole che ne capisca diregali Laurentina?

Ho un grave dubbio, anzi due.Primo: posso fare un regalo alla

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signora Danesi? Non sarà prendersitroppa confidenza? Mi piacerebbetanto che si ricordasse di me lanotte di Natale. Le vorrei regalareuna bellissima carta da lettere colmonogramma che ho visto dalcartolaio. Che bello sarebbe ricevereuna lettera da lei!

Secondo: devo fare un regalo aRoberto? Non ne ho nessuna voglia,ma forse lui se l’aspetta. E se fa unregalo a me e io non ho presoniente per ricambiare? Ma se glifaccio un regalo, poi non è che simonta la testa? Dovrebbe essereuna cosa assolutamenteimpersonale.

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Milano, 18 dicembre

Non mi sembra vero! Fraquattro giorni parto per Dorgo.Lorenzo mi accompagnerà ad Alariain macchina e di lì prenderò lacorriera, da sola. Ho tantissimipreparativi da fare e non ho tempodi scrivere sul diario.

Milano, 21 dicembre

Caro diario, ti saluto. Domanipomeriggio, appena uscita dascuola, parto con armi e bagagli. Houna valigia così grande che non sose ce la farò a caricarla da sola nelbagagliaio della corriera. Sono

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felice, felice, felice!Non ti porto con me, caro diario.

Sono certa che avrò abbastanzapersone con cui parlare e che nonavrò bisogno di sfogarmi con te.Arrivederci all’anno venturo.

Milano, 7 gennaio

Come al solito ogni voltaritornare in questa città è untormento. Su a Dorgo ho conosciutola famosa donna che esce semprecon papà. Non è antipatica. E’ moltodiscreta, credo che si sia accorta eabbia accettato che il papà vuole piùbene a me che a lei. Questa è la cosapiù importante.

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Un’altra cosa importante è ildiscorso che abbiamo fatto la nottedi capodanno. Lei – si chiamaAugusta – di mestiere fa il giudice.Allora le ho chiesto se era proprioobbligatorio che io continuassi avivere con la mamma. Se quello cheaveva deciso il giudice deiminorenni al momento del divorzionon si poteva cambiare. Lei mi hadetto che si può cambiare,soprattutto adesso che ho compiutoquattordici anni. Che, se voglio e selui è d’accordo di tenermi, possochiedere di andare col papà.

Mi ha detto che però devopensarci bene perché

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probabilmente la mamma non nesarà contenta. Mi ha chiesto se mela sento di darle questo dispiacere.Se me la sento? Dopo tutti idispiaceri che lei ha dato a me!

Questa Augusta è un tipo strano.Sembra che parteggi per la mamma.Ha cercato di difenderla. Mi hachiesto che cos’altro poteva fare.Forse doveva rinunciare a sposarsiper non togliermi da Alaria? Ioavevo il diritto di chiederle questo?No, le ho risposto. Però avevo ildiritto di restare dove volevo io.

“Sei sempre stata con lei.Davvero non avresti alcun problemaa lasciarla?” mi ha detto. Che

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domande. Certo che avrei deiproblemi. La mamma dice che sonouna ragazza senza cuore, ma non èvero. “E non ti dispiacerebbe dilasciare la tua sorellina?” Ah, quellaproprio! Per me è come se nonesistesse.

In conclusione, abbiamo decisoche io ci penso e lei intantos’informa dal giudice deiminorenni. Le ho promesso diterminare l’anno scolastico qui aMilano, e lei mi ha promesso diconvincere il papà a prendere unacasa più grande. L’anno venturo,anche se restassi a Milano, lamamma non potrebbe impedirmi di

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andare ad Alaria ogni domenica. Amaggio compio quindici anni, e nonpuò più dirmi che sono troppopiccola per viaggiare da sola.

Augusta mi ha detto che, intantoche ci penso, dovrei anchediscuterne con la mamma di questaidea di andare dal giudice e farmiaffidare al papà. Ma non so se neavrò il coraggio.

Lei è tornata da Nizza tuttaabbronzata, e anche di buonumore.Pretende che Laurentina abbiacominciato a parlare, ma invecesecondo me fa solo dei versi.

Liselotte mi ha fatto un sacco difeste. Per fortuna che c’è lei, se no

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non so come farei a vivere in questacasa.

Milano, 11 gennaio

Incredibile! Lorenzo mi haregalato un cane. Proprio a me. E’una cosa che ho sempre desiderato,fin da quando ero piccolissima, enon l’ho mai potuto avere perché acasa non c’era posto e poi lamamma non voleva pelidappertutto. Il nonno una volta aDorgo aveva un vecchio cane dacaccia, Bliz, ma dopo che è mortonon ne ha voluto prendere altri. Eadesso ce l’ho io, un cane da caccia.Non riesco a crederci. E’ un

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cucciolo, ma Lorenzo dice cheresterà comunque piccolo, perchénon è un cane da punta, ma da tana,di quelli che si infilano nei buchi asnidare lepri e conigli. E’ bianco conmacchie marroni ed ha un musoche sembra Snoopy. La mamma perquesto voleva chiamarlo Snoopy,ma io credo che ci voglia un nomepiù originale, più importante. E’ ilprimo cane della mia vita. Cipenserò per qualche giorno.

Ma quello che mi lascia senzaparole è che il mio patrigno abbiafatto un regalo così importante ame, proprio a me e non aLaurentina. E che la mamma sia

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stata d’accordo, invece di tirar fuorile sue solite scuse del disordine, enon abbiamo un giardino eccetera.Neppure Liselotte si è lamentata.Anzi ha detto che secondo i suoilibri di puericultura per unabambina piccola va benissimo avereun animale in casa.

Milano, 13 gennaio

E’ due giorni che continuo apensarci. Perché me l’avrannoregalato? E’ bellissimo. Per farmi lefeste mi lecca tutta la faccia e dinotte dorme ai piedi del mio letto.Laurentina quando lo vedeimpazzisce, si agita, strilla, cerca di

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afferrarlo per le orecchie. Però ionon glielo lascio toccare. Potrebbefargli male. Lo chiamerò Dagoberto.

Però non sono affatto tranquilla.Non riesco a capire il perché diquesto regalo. è come se Lorenzovolesse tirarmi dalla sua parte. Maperché? Avranno capito che nonvoglio più restare con loro? Ma dache cosa possono averlo capito?Non credo che possano averlosaputo dal papà, e Augusta neppuresanno che esiste. Che la mammaabbia un sesto senso? Certo cheadesso mi trovo in unbell’imbarazzo. Mi hanno datoquello che desideravo più di tutto

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dalla vita e io gli dico: “Grazie.Adesso però me ne vado.” Scriverò aVittoria e a Valentina per chiedereconsiglio.

Milano, 15 gennaio

Il papà mi ha telefonato cheforse ha trovato un appartamentopiù grande. Glielo cederebbe un suocollega che è stato trasferito aRoma. Sono quattro stanze, duebagni e una grande cucina. Un belsalto da un monolocale, no? Luidice che però non c’è molto dascegliere e che questo è una veraoccasione.

Io ho subito pensato che ci sarà

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posto anche per Dagoberto, masubito dopo mi sono venuti unaquantità di rimorsi. Con questoregalo la mamma e Lorenzo mihanno proprio spiazzato. Sareiun’ingrata se gli dicessi che nonvoglio più stare con loro? Oppureno?

Meno male che non ho dettoniente e che Augusta mi haconvinto a finire l’anno scolasticoqui a Milano. Almeno ci possopensare con calma.

Milano, 18 gennaio

Piove, e le gocce di pioggialasciano delle righe nere sui vetri

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delle automobili. Ho litigato conOrnella. Pretenderebbe che nonparlassi più con Roberto. Vittoriami ha scritto che nella loro classefanno una recita. L’ha organizzata lasignorina Pancaldi. Darei chissà checosa per essere con loro. Ci hopensato tutta la notte. Io vogliotornare ad Alaria. Non possolasciarmi comprare con un cane.Anche se è un cucciolo dolce comeDagoberto. Mi sono chiesta: seandassi via lo potrei portare con meo dovrei lasciarlo qui a Laurentina?Cosa sarebbe più onesto?

Milano, 21 gennaio

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Ieri sera ha telefonato il papà.L’affare della casa è concluso. Entroventi giorni farà il trasloco. Mi hadetto che a marzo potrò andare tuttii sabati ad Alaria e portare anche ilcane. Dovrei essere contenta. PeròOrnella, quando gliel’ho raccontato,mi ha messo una pulcenell’orecchio. Dice se sono sicurache il papà l’abbia presa per me lacasa più grande, e non per andarci avivere con Augusta, lasciandomi quia Milano.

Se fosse così si spiegherebberomolte cose. Per esempio tutti queiconsigli di pensarci bene, se davverovoglio lasciare la mamma per

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tornare a vivere ad Alaria. E seAugusta fosse una furba, una diquelle che invece di contraddirti tidanno sempre ragione e poi tiportano a fare quello che voglionoloro? Però il papà mi ha detto: “Lacamera più grande, quella colbalcone, sarà la tua. Così Dagobertopotrà dormire fuori quando faràcaldo.” E allora?

Milano, 22 gennaio

Anche qui a Milano ci sononovità. La mamma oggi a pranzo hadetto che il mese prossimo Lorenzoandrà in Sudafrica per il suo lavoro,a Johannesburg, dove c’è un

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congresso di urbanistica, e che leivorrebbe accompagnarlo. Mi hachiesto se me la sento di dare unamano a Liselotte per badare aLaurentina. Staranno via solo perdieci giorni.

Per quel che me ne importa, chevadano pure.

Non è che dopo avermipermesso di tenere il cane lamamma sia migliorata. Anche ierimi ha fatto una scena per come erovestita. Dice che si vergogna di mepensando a quando passo davantialla portinaia. Avevo una voglia, mauna voglia di risponderle: “Nellanuova casa del papà, ad Alaria, di

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portineria non ce n’è.”Ho deciso. Quando me ne andrò,

porterò con me Dagoberto. In fondoadesso è mio, no?

Milano, 25 gennaio

Sono furibonda! Questa lamamma non me la doveva fare. Eneppure Liselotte, quella traditrice.Vatti a fidare della gente! Ho vogliadi fuggire di casa. Le odio, tutte edue. Vorrei non vederle mai più intutta la mia vita.

Non mi posso più fidare dinessuno, ormai. Liselotte è unaspia. Anzi, era una spia, perché noncontinuerò certo a raccontarle tutti i

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fatti miei perché poi li vada ariferire alla mamma.

Ho scoperto che già prima diconoscermi, prima che tornassidalle vacanze, Liselotte avevaricevuto dalla mamma l’incarico dicontrollarmi, di fingersi mia amica,di conquistare la mia confidenza,farsi dire tutti i miei segreti, perpotermi manovrare come voglionoloro. E le davano anche unostipendio in più per questo.

Tutta la sua simpatia per me,tutta la sua comprensione, eranouna finta. Una finta in settembre, ilsuo bisogno di essere accompagnataa scegliere i vestiti. Si erano messe

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d’accordo con la mamma perspingermi a comprare io degli abitinuovi. Ecco perché Liselotte eracosì pronta a prestarmi tutti i soldiche volevo! Stava facendo il doppiogioco.

E così pure la storia dellaginnastica. E’ stata la mamma adirle che doveva cercare di farmimuovere perché stavo ingrassando– come dice lei quando non sicontrolla – come una vacca.

E quel grande interessamentoper Roberto, e per le lettere che miarrivavano da Dorgo e da Alaria.Tutto, tutto andava a riferire allamamma quella serpe vestita da

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fraulein. Non glielo perdonerò mai.E il bello è che ancora oggi sono

convinte entrambe di averlo fattoper il mio bene. O, perlomeno, cosìdicono.

E’ stata proprio la mamma arivelarmi tutto oggi pomeriggio. Miaveva fatto arrabbiare, ed io comeuna scema le ho detto che Liselotteè l’unica, in questa casa, a volermibene. E lei: “Sì, certo. Bene apagamento. Ma non ti sei accorta,stupida, che la fraulein con te fatutto quello che le dico io?”

Insomma, la sua giustificazioneè che siccome io ero diventatatroppo chiusa e lei non sapeva più

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come fare con me, ha pensato cheuna persona estranea e più giovane,fingendosi dalla mia parte, potevacarpire la mia confidenza. Ed io cisono cascata come un’oca!

Mi sono così arrabbiata, quandoho scoperto come mi avevanoraggirata, che mi si è bloccato ilrespiro. Non riuscivo neppure apiangere. Mi sembrava di soffocare.

Poi Liselotte ha avuto il coraggiodi venire in camera mia a cercare discusarsi. Pretende che creda che,nonostante tutto, il suo affetto perme è sincero. Che lei in un primomomento aveva accettato di faretutta quella recita per obbedire alla

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mamma, è vero. Ma che dopo chemi ha conosciuta, ha continuatoperché mi vuole bene, perché hobisogno di essere aiutata. Perché miero cacciata in una situazione senzauscita. Perché dice che sono inun’età difficile.

Comodo, questo dare la colpa ditutti i guai che mi combinano loroalla mia età!

Sarebbe facilissima, la mia età,ed anche felicissima, se non fossimai venuta a stare in questa casa, inquesta città, tra questa gente falsa ebugiarda.

Milano, 27 gennaio

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E’ il colmo! Ho scoperto che atutte le altre sue nefandezze,Liselotte aggiungeva quella diprendere il mio diario, questo, lamattina quando ero a scuola, diaprire il lucchetto (aveva scoperto ilnascondiglio della chiave) e di farloleggere alla mamma.

Mi sento come se mi avesserospogliata nuda e mi avessero messoalla berlina.

Hanno letto anche dei mieidiscorsi con Augusta. Del mioprogetto di andare dal giudice perchiedere di essere affidata al papà.Dev’essere per questo che hannocercato di correre ai ripari

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regalandomi il cane. E Lorenzo si èprestato al loro gioco. Io, per unattimo, ho creduto che invece stessecominciando a volermi un po’ dibene.

E adesso cosa ne faccio diDagoberto? Lo devo restituire?Adesso che mi sono affezionata? Liodio tutti quanti! Ho poco dapensarci adesso. Appena finita lascuola me ne vado ad Alaria dalpapà.

Intanto non scriverò più unariga su queste pagine. Anzi, ledistruggerò. In casa di Ornella c’è ilcaminetto. Fra un paio d’ore faremoun bel rogo.

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Requiem, diario mio. Senzavolerlo anche tu mi hai tradito emeriti di morire.

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PARTE TERZA:RITORNO AD ALARIA

CAPITOLO PRIMO

Dopo aver bruciato il diario Barbarasi sentì un po’ meglio. Non leriusciva facile adesso incontrare losguardo della mamma, sapendo che

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questa conosceva tutti i suoipensieri, il suo rancore, le suetrame clandestine per lasciarla etornare ad Alaria.

Però si costringeva a riflettereche, se lei era in torto ad averpensato e scritto certe cose, lamamma era ancora più in torto adaverle lette, e reggeva il suo sguardocon aria di sfida.

Liselotte si comportava come senon fosse successo niente. “Ti hochiesto scusa, no? Cosa vuoi ancorada me?” sembravano dire i suoiocchi di porcellana azzurra, quandoBarbara la trattava con freddezza ele rifiutava ogni confidenza. Ma,

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cosa strana, dopo il primo impeto dirabbia, Barbara non riusciva adavercela con lei. Aveva perduto ognifiducia, questo sì. Però pensava chela colpa era tutta della mamma, nondella fraulein, che in casa Laurentisi trovava in una condizione diinferiorità. Era stato facileapprofittare del suo stato disoggezione, del suo bisogno didenaro, del fatto che ancora nonconosceva Barbara e non avevaverso di lei doveri di amicizia e dilealtà. Che vigliaccheria, però!

Barbara non voleva essereconsiderata lei stessa una vigliacca,perciò dopo una decina di giorni

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dalla scoperta del tradimento,raccolse tutte le sue forze e scrisseuna lettera alla mamma. Si sforzò dinon essere offensiva – e sì che neavrebbe avuto voglia! però scrissesenza mezzi termini che non volevapiù stare con lei, che quell’anno emezzo a Milano per lei era stato unatortura e che era decisa a fare ditutto per tornare a vivere col papà.

“Se tu mi volessi bene te nesaresti accorta senza bisogno dileggere di nascosto il mio diario”concluse. “Ma sei un’egoista e pensisolo a te stessa. Adesso che lo sai, tene vergogni per il modo in cui lo seivenuta a sapere. Non vergognarti

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più. Questa lettera è unacomunicazione ufficiale. Non devipiù far finta di niente, e se vuoi mene puoi parlare. Sappi però che noncambierò idea.”

Mise la lettera in una busta e,prima di uscire per andare a scuola,lasciò la busta sul tavolo dellacolazione, vicino al tovagliolo dellamamma perché la trovasse appenasi fosse alzata.

A scuola pensò per tutto iltempo: “Adesso la trova e si chiede”cosa sarà?“. Adesso la apre colcoltello del burro. Adesso la staleggendo. Adesso chissà a cosa stapensando?.”

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All’uscita di scuola non aveva ilcoraggio di tornare a casa, ma nonera nelle sue intenzioni farpreoccupare o spaventare lafamiglia. Disse a Ornella: – Perfavore, telefona a casa mia e di’ cheresto a mangiare una pizza con te.

Se ne andò da sola in un bar echiese un bicchiere di latte tiepido,ma quando lo avvicinò alla boccal’odore le dette la nausea e dovettecorrere a precipizio nella toilette,però non riuscì a vomitare.

Girellò attorno alla scuola pertutto il pomeriggio, sotto unapioggerellina sottile che le facevadiventare i capelli ruvidi e crespi. E

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non aveva neppure l’ombrello! Sisentiva sola, estranea a tutto.Almeno avesse avuto con séDagoberto!

Finalmente, verso le cinque, sidisse: “Non posso restare per stradafino a domani. Basta con questacatena di vigliaccherie! Devo avereil coraggio di affrontare leconseguenze della mia lettera.”

E rincasò. Era il giorno di liberauscita di Liselotte e la mammastava facendo il bagno a Laurentina.Quando sentì il rumore della chiavechiamò: – Sei tu, Barbara? – conuna voce esitante, come chi haappena smesso di piangere. Barbara

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entrò nella camera della bambina,la sua ex camera.

– Hai letto la mia lettera? –chiese subito per non cedere allatentazione di parlare d’altro facendofinta di niente.

La mamma continuò ainsaponare Laurentina, che leguardava entrambe piena dicuriosità drizzando la testa oltre ilbordo della vasca. Lo sai che mi haidato un grande dolore? – chiese congli occhi pieni di lacrime.

– Anche tu a me – risposeBarbara.

Erano a un punto morto. Nonc’era altro da dire. Ma dopo essersi

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parlate così, si chiese Barbara,potevano continuare a vivere sottolo stesso tetto come se non fossesuccesso niente?

– Vuoi che me ne vada subito? –chiese, sentendo che la situazione leprendeva la mano come un cavalloimbizzarrito, come una valanga cheti trascina a valle diventandosempre più rovinosa.

Per fortuna la mamma era su unterreno più solido di lei e arrestò lavalanga. – Non dire stupidaggini! –fece sollevando dall’acquaLaurentina. – Dammil’asciugamano. E’ sul termosifone.

Barbara glielo diede, poi si

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rimise ad aspettare, in piedi, rigida,con ancora addosso il cappottoumido e i libri in mano. Non sapevapiù cosa dire.

– Senti – disse la mamma – sevuoi ne parliamo subito. Lasciamisolo rivestire Laurentina, ché nonprenda freddo. Vorrei che mispiegassi bene tutto; vorrei capire.Altrimenti, se preferisci che cipensiamo un poco, sia tu che io,possiamo rimandare a quandotorneremo dal Sudafrica. Lo sai chepartiamo fra cinque giorni.Francamente preferirei passarlisenza discussioni. E poi, lontane,possiamo rifletterci meglio, non ti

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pare?– Sì – disse Barbara sollevata.

Anch’io preferisco aspettare (chevigliacca!) – Però. – e non sapevacome concludere.

– Però – le venne in aiuto lamamma, ormai senza più tensioneanzi con un accenno di risata. –Però nel frattempo facciamo unatregua, vero? se non proprio la pace.Su, vieni a darmi un bacio!

E in quei cinque giorni, dellalettera di Barbara e della suadecisione di andarsene non se neparlò più.

C’erano tante altre cose di cuiparlare: i programmi del viaggio, la

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partenza, gli alberghi, i regali dacomprare in Sudafrica. Esoprattutto le raccomandazioni sucome mandare avanti la casadurante l’assenza dei dueviaggiatori.

La mamma faceva la disinvolta,anche perché, dopo tutto queltempo, desiderava proprio unavacanza per conto suo, senza gliimpegni e i legami che comporta lapresenza di un lattante.

Erano due mesi ormai chesognava quel viaggio. Però era inansia per Laurentina. Continuava aripetere, come per rassicurarsi, chesarebbe andato tutto bene, che

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Liselotte era una bambinaiastraordinaria, che ad ogni buonconto il pediatra abitava nellostesso stabile. – E poi miraccomando a te, Barbara. Sei unaragazza grande, ormai. Avrai cura ditua sorella, vero? In fondo diecigiorni passano in fretta. Non haipaura di restare da sola conLiselotte? Di qualsiasi cosa abbiatebisogno, vi ho segnato tutti inumeri di telefono utili nella primapagina della rubrica. E in caso dinecessità puoi sempre rivolgerti aOlimpia e Selvaggia che verrannoqui tutti i giorni.

Le principesse cugine si erano

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dichiarate più che disposte adaccorrere in aiuto della loroprincipessina. Anzi se fosse statoper loro, si sarebbero stabilite incasa sua per tutto il periododell’assenza dei genitori. Avevanopoca fiducia nella fraulein lasciata ase stessa, e ancor meno in Barbara.– Quella, è ancora tanto se riusciràa star dietro al cane!

Per fortuna Lorenzo aveva detto:Grazie, ma davvero non c’è bisognoche vi trasferiate qui anche adormire.

Così erano rimasti d’accordo chele zie sarebbero venute a prenderela piccola tutte le mattine per

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portarla al parco insieme aDagoberto, mentre Liselotte aiutavala domestica a sbrigare le faccendedi casa. Nel pomeriggio bambina ecane sarebbero tornati sotto lagiurisdizione della fraulein e diBarbara.

Il clima dei preparativi eraagitato e, a modo suo, anche allegro.Barbara ogni tanto si sorprendeva afantasticare sulle tappe del viaggio,sui paesaggi africani, sullebianchissime spiagge di Durban cheaveva visto sugli opuscolipubblicitari, dimenticando per unattimo i suoi problemi.

Un attimo soltanto, però. Il fatto

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di rimandare la spiegazione con lamamma le aveva dato un certosollievo, ma il pensiero di doverlaprima o poi affrontare a viso apertoera un tarlo di inquietudine che larodeva continuamente.

Qualche volta si illudeva: “Micapirà. Perché non deve capirmi? E’una donna intelligente. Perché duepersone civili – e che si voglionobene – non devono riuscire aspiegarsi e a comprendersi? Micapirà, mi lascerà andare eresteremo in ottimi rapporti. Chemotivo ha di trattenermi a forza,tanto più che adesso haLaurentina.”

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Ma poi le tornavano in mente iprimi tempi della separazione e ilconflitto insanabile tra i genitori,che pure erano persone civili e sierano voluti bene. Ricordava ilrancore della mamma, il suo rifiutoa parlare se non tramite avvocati, lasua irragionevolezza quando sitrattava dei rapporti col marito.

“Lui l’ha lasciata” pensava “e leinon glielo perdonerà mai, mai, mai.Anche se adesso è felice conLorenzo, quell’affronto di esserestata abbandonata non riesce adimenticarlo. E per vendicarsi delpapà che l’ha offesa non ha altraarma che me. Non mi lascerà mai

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tornare da lui, non perché ci tenga ame, ma solo per non dargliela vinta.Io questo però non lo possoaccettare. Non può usarmi. Devetener conto anche dei miei desidèri.Sono una persona, non un oggetto.Quando torna le parleròsinceramente, lealmente, e poi mene andrò. Non mi può mica legare.Se sarà necessario fuggirò.”

Si immaginava in azione, audacee decisa. Subito dopo però si sentivasommergere da un’onda diamarezza. Che ragione c’era diodiarsi così? perché la vita dovevaessere tanto complicata?

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La mamma si affannava achiudere le valigie allegra, eccitata,affettuosa. – Mi raccomando,Barbara, mi raccomando! Ti porteròun regalo bellissimo.

Entrava a baciarla prima che siaddormentasse come se tra loro duenon ci fosse stato niente. Barbara siscioglieva di tenerezza per quei baci,ma appena la mamma era uscita leveniva da pensare: “E se fosse tuttauna recita, una tattica per cercare diriguadagnare terreno?”

Quando finalmente partirono,per lei fu un gran sollievo. Nientepiù ambiguità. Ora dovevapreoccuparsi solo di fare il suo

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dovere a scuola, e a casa conDagoberto e Laurentina. Erinforzarsi per la battaglia cheavrebbe dovuto affrontare senzaesitazione fra dodici giorni.Vittoriosamente.

CAPITOLO SECONDO

Milano, diciotto febbraio. In cucinaLiselotte armeggia intorno aifornelli, mentre Barbara, conLaurentina in braccio, guarda fuoridalla finestra. E’ tutto il giorno che

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nevica e sul davanzale c’è un sofficestrato bianco segnato dallezampette degli uccelli cui Liselotte,da brava tedesca amante deglianimali, ha gettato un interopacchetto di riso.

Nel riquadro luminosoproiettato dalla finestra i grossifiocchi volteggiano fitti e silenziosi,e Laurentina, senza scoraggiarsi,preme le mani contro il vetro neltentativo di acchiapparli.

Ha le guance rosse e profuma diborotalco. Non sa dire ancora unaparola, ma se Barbara picchia conl’unghia sul vetro il visetto rotondosi atteggia a una esagerata smorfia

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di ascolto.– Pic pic! Chi è? Un uccellino

affamato? Lo lasciamo entrare, eh,Laurentina? Sì? E se poi ti becca quisul pancino, e sale a beccarti sulpetto, e sul collo grassoccio, e sulmento, e sul naso, becca, beccal’uccellino!

La bambina ride e si contorcecercando di afferrare le dita diBarbara che la “beccano”. Ha solotre denti e un quarto puntinobianco le sta spaccando la gengivainferiore. Salta sulle gambe dellasorella puntando i piedini nudi.

E’ una vecchia disputa fraLiselotte e le principesse cugine

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questa delle scarpe di Laurentina.Liselotte sostiene che finché lapiccola non cammina deve starescalza. Le due signore protestano: –Ma avrà freddo ai piedi, poveracreatura!

– Se i piedi non toccano nientedi freddo, mantengono la stessatemperatura delle mani – insiste lafraulein. E per tagliare la testa altoro aggiunge: – E poi non avetevisto le foto di tutti i bambini reali?I principini inglesi, per esempio, ifigli di lady Diana e di Sarah larossa? O i piccoli del granduca delLussemburgo, i bambini di Carolinadi Monaco? Gliele avete mai viste le

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scarpe a quei bambini lì prima cheabbiano compiuto un anno?

Davanti a questi esempi leprincipesse cugine cedono amalincuore e Liselotte se la ride.Non gliene importa niente deirampolli di sangue reale, a lei. Lo hasoltanto letto sul suo manuale dipuericoltura. E così Laurentinamette i calzerotti di lana soloquando va a spasso d’inverno,quando anche le piccole mani sonoprotette dai guanti.

Dal televisore acceso arriva ilsegnale orario delle otto di sera.Liselotte sta preparando la cena persé e per Barbara. Sofficini surgelati,

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insalata di patate e budino dellaCentrale del Latte. Non è una grancuoca la fraulein, né ci tiene adesserlo. Le sue specialità sono,come è giusto, farine lattee, pappedi verdura e altre simili leccornieper la fase dello svezzamento.Laurentina, da quando è nata, nonha mai avuto un mal di pancia.

Barbara dà un’occhiata allapadella. Ci vorrà ancora un pocoprima che i sofficini, ancora rigidiper il gelo, siano pronti. SistemaLaurentina nel seggiolone e va di làa telefonare a Vittoria. Non hapaura di essere scoperta. Al ritornoLorenzo troverà comunque più

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scatti del solito, visto che a partireda domani Barbara deve chiamarliun giorno sì e un giorno noall’albergo di Johannesburg.

Risponde il fratello maggiore diVittoria, Jacopo. Stanno giàcenando e di regola non dovrebbechiamare la sorella all’apparecchio.Ma per Barbara fa un’eccezione.Vittoria arriva, saluta.

– Partiti?– Partiti. A mezzogiorno.– E tu come te la cavi da sola?– Benissimo. E poi non sono da

sola. C’è Liselotte che pensa a tutto.– Dagoberto come sta?– Ha paura della neve, quello

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stupido. Non vuole uscire. Qui stanevicando da stamattina, sai.

– Anche qui. Se dura, domenicaandiamo a Dorgo.

– Beata te!– Senti, e tua madre quand’è che

arriva a Johannesburg? Voglio dire,quanto dura il viaggio?

– E’ già arrivata in Egitto. Allecinque ci hanno telefonatodall’aeroporto del Cairo. Dovevanoaspettare lì fino alle sette e mezzo.Dopo ripartivano per il Sudafrica.Dovrebbe arrivare verso le due delmattino.

– Come la invidio! Fra l’altrolaggiù adesso sarà estate.

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– Ma vedessi quanto è bella quia Milano la neve! La città sembraquasi pulita.

– Beh, ciao Barbara. Adessodevo andare. Se non torno subito atavola mamma si arrabbia. Tichiamo io dopodomani.

– Buonanotte allora.– Buonanotte.I sofficini sono pronti. Un po’

bruciacchiati. Per sé Liselotte hapreparato anche dei wurstel, chemangia affogandoli nella senape.

– Tu no, che ti vengono i brufoli.Come se ci fosse bisogno dei

wurstel! Dietro suggerimento diValentina, Barbara per una

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settimana non ha mangiato altroche yogurt, frutta e fermenti lattici.E’ quasi morta di fame, ma iforuncoli non sono scomparsi.

Liselotte invece può rimpinzarsidi tutte le schifezze che vuole:hamburger con ketchup, fritturaunta, salamini cotti nel burro,peperoni, crauti, e la sua pelleconserva intatto quello splendore diporcellana bianca e rosa.

Laurentina fa il terzocommensale, seduta sul seggiolone.Stringe in mano una carota cruda ela morsica con metodo. Dagoberto èaccucciato vicino al termosifone esonnecchia. Sullo schermo sfilano

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in silenzio le immagini deltelegiornale. Liselotte ha abbassatol’audio quando Barbara è andata atelefonare e si è dimenticata dirialzarlo.

Mangiano scambiandosi lepoche frasi necessarie, tipo“Passami il sale”. Barbara fa lasostenuta. Non è ancora disposta atornare al cordiale cameratismo diuna volta, anche se questo fatto diessere rimaste loro due soleinsieme a badare alla bambina èuna forte spinta al riavvicinamento.

A un certo punto Laurentinaprende a fissare il teleschermo congrande interesse: – Ffff! Ffff! –

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soffia, sputando nella foga un po’ dibava e un pezzo di carota. E’ uno deigiochi che le ha insegnato Lorenzo.Fa scattare l’accendino, le mette lafiammella davanti al viso e lapiccola Ffff! Ffff! – soffiasforzandosi di spegnerla, e se non ciriesce il padre senza parereprovvede lui. Quando va in visita daOlimpia e Selvaggia, che perabitudine quando hanno ospititengono in salotto un candelabro acinque braccia sempre acceso,Laurentina impazzisce: – Ffff! Ffff!

Spruzza bava, tende verso lacorona di fiammelle le piccole mani,finché una delle due zie, intenerita,

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non le concede di spegnere lecinque candele.

Ora Barbara guarda incuriositalo schermo che ha attiratol’attenzione della sorellina, e vedeche dentro vi divampa un incendio.

– Eh, no, Laurentina – ride –qui ci vogliono i pompieri.

Liselotte solleva il telecomandoe preme sul tasto dell’audio,facendo tornare la vocedell’annunciatore. Una voce daltono grave, drammatico.Contemporaneamente latelecamera indietreggia. Quelli chestanno bruciando sono i resti di ungrosso aeroplano, in mezzo a una

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pista d’atterraggio, mentre intornocorrono le ombre nere deisoccorritori. In sovrimpressioneuna scritta: “La tragedia aerea delCairo”.

Barbara rimane col bracciobloccato, la forchetta a mezz’aria.

“Vani, come vedete, si sonodimostrati gli sforzi dei soccorritoriaccorsi sul posto pochi minuti dopol’esplosione del velivolo. Per icentoquaranta passeggeridell’aereo, compresi i nove membridell’equipaggio, non c’è stato nienteda fare.”

“Il personale dell’aeroporto stacomponendo i corpi martoriati in

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un capannone attiguo alla pista.Sono già arrivati il capo dei governoegiziano, i consoli francese, inglese,spagnolo e italiano. Gli italiani abordo dell’aereo bruciato eranotrentadue, una comitiva diingegneri lombardi diretti aJohannesburg per un congresso diurbanistica. L’elenco delle vittime ègià stato trasmesso alla nostraambasciata. Per chi avesse necessitàdi ulteriori informazioni è statoallestito un numero speciale pressoil Ministero degli Esteri. ChiamateRoma, 376583.”

Il numero lampeggia per quasiun minuto sul teleschermo, in

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sovrimpressione sulle scene di caosdall’aeroporto del Cairo. Poil’immagine cambia. Si parla delmaltempo, della neve che hacoperto il nord d’Italia di una coltrebianca, delizia per gli sciatori e glialbergatori di montagna.

Barbara poggia la forchetta sulpiatto. Le sembra di non averrespirato per tutti i lunghissimiquattro minuti del notiziario. Lesembra che il sangue le si siaritirato dalle vene e sia defluito inun buco d’ombra, chissà dove,lasciandola vuota, prosciugata.Guarda Liselotte e la vede, pallidacome una morta, che boccheggia

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senza riuscire a parlare.“Adesso svengo” pensa. “Dunque

svenire è così.” Stringeconvulsamente le mani sul bordodel tavolo e incrocia lo sguardo diLaurentina.

I bambini piccoli hanno un sestosenso. Laurentina, che avevaseguito il notiziario continuando asoffiare e a battere ritmicamente lacarota sul piano del seggiolone, ora,senza che Barbara dica una parola,al solo sguardo, raggrinzisce ilvisetto rotondo e scoppia in unpianto disperato. Immediatamentedopo squilla il telefono.

Barbara vede nero, sente che le

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manca la terra sotto i piedi, la testale si riempie di un gran rombo comedi cascata. Stringe con le mani ilbordo del tavolo, sente che i muridella stanza stanno cominciando aruotarle attorno e sprofonda nelnulla.

Adesso Barbara è a letto nellasua camera. Non sa quanto tempo èpassato: un minuto, due giorni. Lesembra che il televisore sia sempreacceso e che ripeta spezzoni difrase. “Passeggeri tutti morti.Elenco delle vittime. Un congressodi urbanistica a Johannesburg. Ipoveri corpi martoriati. Un numerospeciale presso il Ministero degli

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Esteri.”Si alza a sedere sul letto con gli

occhi sbarrati. Grida: Liselotte! Haitelefonato a Roma?

Liselotte entra in punta di piedi.– Cerca di non agitarti – dicesottovoce. – Il dottore ha detto dimisurarti la febbre ogni tre ore.

Quanto tempo è passato?Adesso la porta è socchiusa. Il

televisore è spento. Dal soggiornoarrivano le voci delle principessecugine che parlano con una vocemaschile sconosciuta. Ogni tanto, aondate, fioco come da dietro unaserie di porte chiuse, arriva il piantolamentoso di Laurentina.

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Barbara vorrebbe morire.Vorrebbe non alzarsi mai da quelletto, mai entrare in soggiorno eascoltare le frasi di conforto delledue cugine. Brutte ipocrite, nongliene importa niente della mammaa quelle, solo del loro preziosoLorenzo. Mai guardare in facciaLiselotte e leggere nei suoi occhi“non torneranno più”.

Brucia ed è gelata. Si toglie iltermometro da sotto l’ascella e loguarda. Ha trentotto e quattro. Edecco di nuovo le vertigini, come se illetto le si spalancasse sotto e leicadesse, cadesse, cadesse in unabisso senza fondo.

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CAPITOLO TERZO

Alle undici del mattino arrivò ilnonno da Dorgo.

Barbara non si era voluta alzare,come se restando a letto erifiutandosi di affrontare il nuovogiorno potesse cancellare ciò cheera accaduto. Aveva pianto tantodurante la notte che non riuscivaquasi ad aprire gli occhi. Le dolevala testa. Il medico – il pediatra diLaurentina che abitava due piani

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sopra di loro ed era accorso subitodopo aver visto il telegiornale – leaveva dato un calmante, ed oraBarbara sonnecchiava. Ma anchenel dormiveglia le immaginidell’aeroplano in fiamme ledanzavano davanti agli occhi.

L’appartamento intanto si erariempito di gente. C’erano le dueprincipesse cugine che eranoarrivate la notte prima e avevanodormito sui divani del salotto, nonosando occupare il letto dellamamma e di Lorenzo, e che si eranoalzate prestissimo. C’era il medico,c’erano i due soci di Lorenzo, versole nove era venuto il responsabile

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dell’agenzia di viaggio. C’era laportinaia che faceva la spola fra lacucina e il salotto con vassoi carichidi tazzine di caffè. A un certo puntoBarbara, prima di assopirsi, avevasentito la voce di Roberto cheinsisteva per vederla, e poi la vocedi Liselotte che diceva: – No, megliodi no. Lasciala tranquilla. Domani,forse.

Dagoberto girava inquieto fra lagente. Ogni tanto correva alla portacome se aspettasse qualcuno; poiandava ad accucciarsi in un angolocol muso fra le zampe e guaivapiano.

Olimpia si era impadronita di

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Laurentina e la teneva in bracciosenza cederla a nessuno, neppure aLiselotte.

– Povera orfanella – continuavaa ripetere tirando su le lacrime colnaso – non hai più nessuno almondo tranne le tue vecchie zie,adesso.

Liselotte era andata a riposare.Fin dall’inizio era stata

bravissima, calma, efficiente. Avevatelefonato a Roma e aveva avuto laconferma che Marcella e LorenzoLaurenti di San Protaso eranonell’elenco delle vittime. Avevamesso a letto Barbara che dava insmanie, era andata ad aprire al

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dottore che veniva spontaneamentead offrire il suo aiuto. Poi avevaavvertito le due cugine, avevatelefonato ad Alaria. Era stata inpiedi tutta la notte cercando difronteggiare la situazione, ma versole dieci del mattino era crollata,aveva cominciato a parlare in modoincoerente, a lasciar cadere glioggetti per il tremito nervoso cosìche il medico l’aveva mandata astendersi un poco sul letto nella suastanza.

La porta sul pianerottolo eraaperta.

Il nonno entrò e si guardòattorno un po’ frastornato – era

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partito da Dorgo alle sei del mattino– ma non così confuso da nonprovare curiosità per la casa doveviveva Barbara, quella casa che gliera stata descritta tante volte dallanipote e dove, se non fosse successaquesta disgrazia, non avrebbe maimesso piede.

Osservò che, nonostante ildisordine e la confusione,l’appartamento era molto diversodalla sua casa rustica di Dorgo. Quisi vedeva la mano sofisticatadell’arredatore. Si vedeva un lussoche non aveva niente a che fare conl’abitazione di suo figlio ad Alaria, aitempi in cui viveva ancora con la

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moglie e i due bambini.“Un uomo così ricco avrà certo

fatto testamento” pensò, e subitodopo si pentì di aver pensato aisoldi in un momento così dolorosoper la sua nipotina.

Il suo primo pensiero, appenasaputa la notizia per telefono, erastato: “Barbara! Adesso è davverosola in quella casa che non è la sua.”

Si era consultato col figlio. –Bisogna andare immediatamente aprendere la “bambina”.

– Te la senti di scendere subitogiù ad Alaria? – gli aveva chiestoAlessio. – Poi proseguiremoinsieme per Milano con la tua

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macchina. Io vado al Cairo per ilriconoscimento delle salme. Hol’aereo alle undici dalla Malpensa.Viene anche Claudio dall’America.E’ già in volo. Ci incontreremolaggiù. Tu ti fermerai a Milano,andrai da Barbara e vedrai cosa èpiù opportuno fare con lei.

Il nonno non aveva dubbio sucosa fosse più opportuno. Barbaradoveva tornare immediatamente adAlaria ed essere circondata da tuttol’amore possibile.

– Si è appena addormentata –gli disse Olimpia quando ebbecapito chi era. – La lasci tranquilla.E nel frattempo se vuole

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accomodarsi nello studio, miasorella ed io vorremmo parlarle.

– Come lei saprà – esordìSelvaggia quando si furono seduti –noi siamo le uniche parenti che ilpovero Lorenzo aveva al mondo. Vada sé che saremo noi ad occuparcidi Laurentina. Ne abbiamo parlatostanotte e abbiamo deciso diprenderla a casa nostra insieme allabambinaia. Noi siamo troppoanziane per accudire a una bambinacosì piccola, e ci risulta che lafraulein abbia già ricevuto il suostipendio fino alla fine dell’anno.Per il futuro si vedrà, dopo che saràstato aperto il testamento del

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povero Lorenzo. Noi nonconosciamo esattamente lasituazione finanziaria che halasciato nostro cugino. Siamo certeperò che per quanto riguarda ilpatrimonio dei Laurenti di SanProtaso, Lorenzo non abbia fatto lacomunione dei beni e quindi, ancheammesso che si possa dimostrareche è morto prima della moglie, sipuò ipotizzare che alla poveraMarcella e per suo tramite aBarbara tocchi poco o niente.

Il nonno indignato arrossì e sischiarì la voce, ma Selvaggia non glilasciò il tempo di rispondere eriprese: – Naturalmente lei capirà

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che non ce la sentiamo di prenderein casa anche sua nipote. Barbaraha un carattere così difficile, e poialla sua età ha bisogno di moltocontrollo. Davvero non ce lafaremmo a starle dietro. E poi,francamente, non ne vediamo ilmotivo. Non abbiamo nessunlegame di parentela con lei.

– Veramente, – riuscì aprotestare il nonno, a questo punto– non capisco perché vi siate postoil problema. Barbara ha unafamiglia che ha rinunciato amalincuore a lei per lasciarla viverecon sua madre. Adesso che la madrenon c’è più, Barbara tornerà con

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noi. Immediatamente. Sono venutoa prenderla e dobbiamo sbrigarciprima che la neve rendaimpraticabili le strade.

– La fraulein potrà aiutarla afare i bagagli – esclamò Olimpiasoddisfatta. – La vado subito achiamare.

Il nonno entrò in camera diBarbara e si inginocchiò accanto alletto.

– Tesoro, sono qui – sussurròprendendole una mano. Sentì chescottava. Era il caso di farlaviaggiare con la febbre? D’altrondenon voleva lasciarla un minuto dipiù con quelle due vecchie arpie.

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Barbara aprì gli occhi, vide ilnonno e gli si gettò fra le braccia.Portami a casa!

Liselotte, con gli occhi lucidi dilacrime, la aiutò a fare i bagagli.Non preoccuparti. Se ti dimentichiqualcosa telefonami che te lomando.

Le infilava gli abiti come a unabambina piccola. Le lavò il viso conacqua fredda, la pettinò.

– E’ da ieri sera che non manginiente. Vuoi qualcosa?

– Solo bere. Ho sete.Mentre Barbara era in cucina a

farsi una spremuta d’arancia,Liselotte prese in disparte il nonno.

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– E Laurentina la lasciate qua conle due signore?

Il vecchio la guardò sconcertato:Io non ho niente a che fare conLaurentina.

– E’ la sorella di Barbara.– Mio figlio già deve fare i salti

mortali per riorganizzarsi la vita epoter riprendere Barbara. Cosa nefarebbe di questa piccolina? E’ tristeche si separino, lo so. Ma si può farealtrimenti?

– Achè! Vedo – disse Liselotte. Einvece le due signore la vogliono.Povera Laurentina!

Fuori continuava a nevicare.Barbara si infilò la giacca di

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piumino, si calzò sulla fronte ilberretto di lana azzurra. Il nonnoaspettava vicino alla porta con ledue valigie.

– Non vuoi salutare la tuasorellina? E’ di là con le zie – dissela fraulein.

Barbara entrò nel salotto.Laurentina era in disordine, con gliabiti sporchi e spiegazzati, unosbaffo di pappa incrostato sullaguancia. L’avevano messa a sederesul tappeto persiano, ai piedi diSelvaggia, e giocava con le frangedella poltrona. Barbara siinginocchiò e la baciò sul naso. –Ciao, Laurentina.

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– Ciao, Barbara. Arrivederci apresto – rispose la fraulein per lapiccola.

Barbara salutò le principessecugine, abbracciò Liselotte e uscì atesta bassa sul pianerottolo, senzaguardarsi indietro. Non sentivaniente. Era assente, comeanestetizzata. L’unicaconsapevolezza era quella dellafebbre che la bruciava.

In macchina il nonno la fecesedere dietro, la avvolse in unacoperta, controllò che non ci fosseneppure uno spiffero.

– Se vuoi dormire stenditi pure:il sedile è tutto per te.

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Continuava a nevicare e il nonnodoveva guidare piano, con cautela.Mentre uscivano dalla città unpensiero attraversò come un lampola mente di Barbara: “La signoraDanesi! Non la rivedrò mai più. Nonl’ho neppure salutata”. Ma in fondonon gliene importava niente. Se nonche, da quel pensiero ne nacque unaltro: “Non la rivedrò più. E’ lamamma che non rivedrò più”. Eraimpossibile. Non poteva esserevero. Stava sognando. Oppurevivendo in un film che prestosarebbe finito.

Il viaggio fu lungo. Dovetterofermarsi tre volte ai bar lungo la

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strada perché Barbara aveva sete.– Andiamo ad Alaria o a Dorgo?

– chiese a metà strada.– A Dorgo. Tuo padre stava

giusto facendo il trasloco. La casa diAlaria sarà pronta fra una decina digiorni. La zia Elvira ti staaspettando. Le ho telefonato diprepararti il letto e di portare lastufa nella tua stanza.

Ai piedi della salita il nonnoscese dall’auto per mettere lecatene. Gli alberi ai lati della stradaerano bianchi di neve.

Barbara si sentiva bruciare dallafebbre, si sentiva debole come unburattino con i fili tagliati.

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Desiderava soltanto infilarsi in unletto caldo, dormire e non pensare aniente.

Quando arrivarono in paese eragià scuro. La zia Elvira venne sullaporta avvolta in uno scialle e primaancora di salutarli, prima chescendessero dalla macchinaesclamò:

– Sia chiaro che quella bestia vaa dormire in cantina! Dentro casanon ce la voglio!

Barbara e il nonno, dopo ilprimo attimo di stupore, siguardarono costernati: avevanodimenticato Dagoberto.

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CAPITOLO QUARTO

Quella notte Barbara pianse perchéaveva lasciato il cane a Milano. Lemancavano i guaiti di gioia, i salti,le leccate di Dagoberto. Si sentivacolpevole nei suoi confronti peraverlo dimenticato. Ma in un certosenso piangere per il cane era unsollievo. La sua assenza era solo uncontrattempo: in fondo sapeva cheDagoberto era in casa, al caldo eall’asciutto. Era certa che Liselottelo avrebbe portato fuori per i suoibisogni e gli avrebbe dato damangiare. L’unico dolore nasceva

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dal fatto di saperlo lontano. Non loaveva perduto irrimediabilmente.

Molto meglio piangere per ilcane, dunque, che per la mamma,che era morta in modo orribile eche non sarebbe tornata mai più ariprendere quel discorso cheavevano lasciato aperto. Ma era poivero? In certi momenti Barbara sichiedeva se non fosse un bruttosogno, se non si sarebbe svegliatasospirando di sollievo.

L’indomani era sabato. Vittoria eValentina avevano fatto il diavolo aquattro con i genitori per farsiaccompagnare a Dorgo, nonostantela strada piena di neve. Adesso

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erano nella cucina della zia Elvira esi guardavano sconcertate. Piene ditrepidazione erano salite fino allacamera di Barbara, avevanobussato, ma Barbara non le avevavolute vedere. Le aveva lasciatefuori dalla porta, sul pianerottolo,loro, le due amiche più care, leinseparabili!

Barbara non voleva parlare connessuno. Aveva soltanto chiesto alnonno che telefonasse a Liselotte dimandarle su il cane alla primaoccasione.

– Andate a fare una passeggiata,ragazze! Andate al Palazzo dellaLuna – disse la zia Elvira che voleva

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mettersi a sfaccendare senza intrusinella sua cucina. – Magari questopomeriggio sarà di buonumore. Lesto preparando le frittelle di meleche le piacciono tanto.

Valentina e Vittoria siconsultarono con lo sguardo escossero la testa. Raccolsero dallesedie i maglioni e le giaccheimbottite e andarono a sedersi suigradini, a metà scala. Aspettaronotutta la giornata, in silenzio. Ognitanto tiravano su col naso. Amezzogiorno la zia Elvira,impietosita, le chiamò in cucina amangiare le frittelle che Barbaraaveva rifiutato, ma rifiutarono

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anche loro.Stavano male, avevano il sedere

freddo e indolenzito, i piediintorpiditi pieni di formiche.Avevano dei terribili crampi allostomaco per la fame. Mapensavano, e non c’era bisogno chese lo dicessero, che Barbara stavacertamente peggio di loro, e che nonera da amiche preoccuparsi deipropri comodi quando lei chissàcosa stava soffrendo.

Mentre venivano a Dorgo, inmacchina, avevano preparato unbellissimo discorso da fareall’amica. Un discorso che dicevache la capivano, che soffrivano con

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lei, che come lei erano sgomenteper la repentinità della tragedia. Mache le volevano sempre bene, anzi,più di prima, e che doveva contaresu di loro, che avrebbero cercato diriempire il vuoto lasciato da suamadre.

A dire la verità, le aveva anchesfiorate il dubbio che fosse undiscorso retorico, artificioso. Macos’altro potevano dirle? Incircostanze così tragiche non vienemai in mente niente di spontaneo.L’unica cosa veramente spontaneasarebbe nascondere la testa sotto lasabbia come lo struzzo e fingere chenon sia successo niente, oppure

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scappare a gambe levate.Finalmente, verso le sette di

sera, Barbara comparve in cima allascala, in pigiama, con la facciagonfia, gli occhi rossi, i capelliingarbugliati, e ai piedi un paio dicalzerotti verde bandiera. Vittoria siricordò che solo avant’ieri sera leaveva chiesto per telefono: “Comete la cavi da sola?” e corse adabbracciarla, ma non le venne altroda dire se non: – Che razza di calzeti sei messa?

Dopo di che parlarono solo dibanalità. Non nominarono ladisgrazia neppure una volta. Le dueamiche fecero mille acrobazie

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verbali per non nominare mai nonsolo la madre di Barbara, maneppure le proprie. Non chiesero diLaurentina, e, visto che nongironzolava là attorno, neppure delcane. Raccontarono le ultimeprodezze della signorina Pancaldi;Vittoria riferì di una lunga letterache aveva ricevuta da Wolf. L’unicoaccenno che scappò loro sullo statoreale delle cose, l’unico indizio chenon ignoravano ciò che erasuccesso, fu l’augurio che Barbarapotesse scendere presto ad Alaria epotesse cominciare a frequentare lascuola nella loro classe.

Il nonno disse alla zia Elvira che

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portasse la cena per tutte e tre su incamera di Barbara, poi andò luistesso in casa Prada e in casaIntimari a chiedere che le dueragazze potessero dormire perquella notte con la sua nipotina.Tornò con i due pigiami e con tantibaci per Barbara da parte deigenitori delle amiche.

Per fortuna il letto era grande, adue piazze, e in tre ci si stava, vicinevicine ma abbastanza comode. Ledue amiche misero Barbara inmezzo.

– Se ti viene da piangere, nonfarti scrupolo per noi – le disseValentina.

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Barbara si rigirò comeun’anguilla, sospirò, sudò a litri, maquella notte non pianse. Con suagrande meraviglia, e anche condisappunto, perché ogni tantosfogarsi fa bene, da allora per moltesettimane non pianse più. Non perla mamma.

Le due amiche restarono con leianche tutto il giorno seguente,sempre parlando del più e delmeno, con lunghi silenzi e conqualche risatina isterica.All’imbrunire la salutarono etornarono ad Alaria.

Barbara scese a cenare in cucinacol nonno e con la zia Elvira. Poi se

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ne tornò in camera a rimuginare isuoi pensieri.

I primi giorni passarono comeun sogno. Le sembrava di starevivendo in un film, era tutta unafinzione, non era successoveramente. Non poteva esseresuccesso a lei.

Però aveva lo stomaco chiuso enon riusciva a inghiottire niente disolido. La prima volta che la ziaElvira, per cercare di nutrirla inqualche modo, le portò una tazza dilatte tiepido, le venne da ricordarel’autunno precedente, quando lamamma allattava Laurentina, inpiedi, camminando, come una

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zingara, con la camicetta sbottonatafino alla vita in un modo che le davafastidio. Le sembrava indecente,impudico, anche se in casa aguardarla c’erano solo lei e lafraulein. E pensò che tredici anniprima anche lei aveva preso il lattedal petto della madre, con la boccastretta attorno al capezzolo rosa cheadesso era bruciato con tutto ilresto.

Respinse la tazza. Non volevapiù bere latte finché viveva.

Intanto per fortuna c’eranomolte cose a cui pensare. Sioccupava di tutto il nonno, ma eralei che doveva dargli le istruzioni e

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le informazioni giuste.Decisero sulla pianta la

disposizione dei mobili nella nuovastanza di Barbara in casa del papà.Organizzarono il suo trasferimentodal ginnasio di Milano a quello diAlaria. Liselotte si rivelò unacorrispondente preziosa. “Il nostroagente all’Avana” diceva di lei ilnonno, cercando di strappare aBarbara un sorriso.

Liselotte andò al liceo Ariosto,spiegò la situazione e fece spedire idocumenti di Barbara al liceoPetrarca di Alaria. Restituì a OrnellaIl Signore degli Anelli e a Roberto lamacchina fotografica che Barbara

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aveva preso in prestito. Parlò con lasignora Danesi e le spiegò cheBarbara era andata via e che per ilmomento non voleva rispondere altelefono. Poteva scriverle due righe,se voleva.

La signora Danesi mandò untelegramma. Un lunghissimotelegramma che doveva esserlecostato un occhio della testa. Ma aBarbara non fece né caldo néfreddo, anzi le dette un po’ fastidio.Era una specie di predicozzo, unincitamento a non lasciarsi andare,un dirle: “Mi dispiace tanto, maguai a te se adesso lo prendi comescusa per non studiare”. Con tanto

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di “Fa’ che la tua mamma su nelcielo continui ad essere fiera di te”.Forse fu questa frase melensa chepiù di tutto irritò Barbara. Sapevabene che la madre non era mai statafiera di lei, non per i successiscolastici. Anzi, la rimproveravaperché stava troppo sui libri, e laprendeva in giro chiamandola conuna sfumatura di disprezzo“intellettuale”. Come poteva esserecosì retorica, la signora Danesi, cosìbanale? E come aveva fatto Barbaraad ammirarla tanto, ad esserle cosìdevota? Aveva persino scritto neldiario: “Mi piacerebbe che fosse miamadre”. La mamma aveva i suoi

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difetti, però sdolcinata non lo erastata mai.

Dopo quattro giorni il papàtornò dal Sudafrica in compagnia diClaudio.

Passando da Milano era andato aprendere Dagoberto e lo avevaportato con sé a Dorgo. Non avevavisto le principesse cugine, maaveva parlato con Liselotte.

– Che tristezza, stannosmontando la casa. Io non l’avevomai vista prima, ma vi assicuro cheadesso ha proprio un’aria disquallore. La fraulein mi haraccontato che le due signore sonorimaste malissimo quando hanno

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scoperto che non era di proprietàdel cugino, ma in affitto e che senon volevano pagare, la dovevanolasciare entro il mese. Mi ha anchedetto che non si è trovato alcuntestamento e che i socidell’ingegner Laurenti stannocercando di ricostruire la suasituazione patrimoniale. Ho visto labambina. Sta bene. Sai, Barbara,somiglia a te quand’eri piccolina.

Dagoberto al vedere la padronaera impazzito dalla felicità. Lesaltava addosso, le leccava la faccia,faceva mille capriole in una danzadi gioia. Persino la zia Elvira si eraintenerita davanti a tanto affetto e

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lo aveva lasciato dormire dentrocasa.

Il papà e Claudio invece eranomolto abbattuti. Quella del Cairo,raccontavano, era stataun’esperienza angosciosa. Ilcapannone dell’aeroporto era pienodi corpi carbonizzati e di parenti inlacrime che si aggiravano in cerca diun segno, anche se minimo, diriconoscimento. Ma l’impresa eraquasi impossibile. Il fuoco avevafatto un buon lavoro. Solo unaventina di cadaveri erano statiidentificati senza ombra di dubbio.Fra questi Lorenzo, grazie a unapiastrina d’argento che portava al

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collo, col nome e il grupposanguigno. Ma la mamma no.

– Ce n’erano almeno sette chepotevano essere Marcella –sussurrò il papà al nonno unmomento che Barbara non c’era. –E’ stato straziante. Alla fineabbiamo rinunciato. Poiché eraimpossibile che ognuno siriportasse indietro la “sua” salma, siè deciso di seppellirli tutti insiemeal Cairo.

Aveva visto i rottami dell’aereo:un ammasso di lamiere contorte,calcinate e annerite. – Pare che unodei motori abbia preso fuoco almomento del decollo. C’è stato uno

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scoppio, una fiammata, poil’incendio. E’ stata una cosarapidissima. Non credo che abbianosofferto. Probabilmente non hannoavuto nemmeno il tempo diaccorgersene.

Claudio si faceva forza per nonpiangere perché ormai era unuomo, ma era disperato. Losapevano tutti che aveva semprevoluto molto più bene alla mammache al papà.

Barbara ogni volta che neincontrava lo sguardo si sentiva adisagio. Sapeva che la mammascriveva al fratello tutte lesettimane. Chissà se gli aveva

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parlato di lei, della sua ribellione, diquella decisione di tornarsene adAlaria che le aveva dato tantodolore. Adesso Barbara si sentivacolpevole per quella lettera, piena dirimorso per aver amareggiato, conquelli che oggi le parevano capricci,gli ultimi giorni della mamma, pertutte quelle volte che aveva scrittosul diario: “Come la odio”. E temevache anche Claudio lo sapesse epotesse fargliene una colpa.

Claudio aveva protestato per lasorte toccata a Laurentina. Non eracontento che fosse finita in mano diquelle due vecchie fanatiche, diquelle due “fasciste” come le

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chiamava lui, anche se il nonno lorimproverava: – Non fare di ognierba un fascio. Quelle sono duestreghe, ne convengo, ma sono solomonarchiche.

– Se ci fossi stato io in casa, seavessi vissuto io con la mamma,non avrei permesso che la famigliasi sfasciasse così. Avrei tenuto lacasa e la bambinaia, e Laurentinasarebbe restata con noi.

Ma questi erano sogni. Claudioancora non aveva né arte né parte.Anzi, per mantenersi al collegedoveva lavorare come inservientealla mensa e risparmiare ognicentesimo.

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– Guarda che Barbara sta giàabbastanza male senza che tu levenga a mettere in testa di questirimorsi – si infuriava il nonno.Perché non lasci perdere il tuoprezioso college e non metti su casaa Milano con Laurentina?

Ovviamente di rinunciareall’università americana a Claudionon passava neppure per la testa.

– E allora, se hai da parlare soloper dar aria alla lingua è meglio chetu stia zitto – concludeva il nonnoseccato.

Per fortuna Claudio tornò subitogiù ad Alaria col padre per aiutarlo aterminare il trasloco. Quando la

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casa fu pronta, dopo circa unasettimana, Barbara li raggiunse.

– E’ inutile che tu perda altrotempo – le disse il papà quella sera– e stare senza far niente non ti facerto bene. Domani andrai a scuola.La signorina Pancaldi è stata giàavvisata. Ti accetterà in classeanche se i tuoi documenti non sonoancora arrivati. Ti aspetta e non tifarà troppe domande.

CAPITOLO QUINTO

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– Cosa fai domenica prossima? –chiese il papà con aria indifferente.

Stavano sparecchiando: Barbaratoglieva i piatti dal tavolo e glieliportava all’acquaio, lui, con i guantidi gomma, li immergeva nell’acquacalda insaponata.

– Perché non comprate unalavapiatti? – aveva chiesto Claudio,prima di partire.

– Per noi due soli non conviene– aveva risposto il papà.

Comunque si erano dovutiorganizzare. La nuova casacostituiva per entrambi un belcambiamento. Il papà prima vivevain un monolocale, mangiava al self-

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service o al ristorante e portavacamicie e lenzuola in lavanderia. Lepulizie gliele faceva la portinaia unavolta alla settimana.

Barbara, nella casa di Milanonon faceva niente: c’era ladomestica tutti i giorni, c’eraLiselotte e anche la mamma facevala sua parte.

Adesso lei e il papà vivevano dasoli in un appartamento di quattrostanze e servizi. Potevanopermettersi la domestica solo unpaio d’ore alla settimana e a tutto ilresto dovevano provvedere da soli.Si erano divisi i compiti. Il papàfaceva le pulizie e teneva in ordine

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il proprio guardaroba. Barbaranaturalmente teneva in ordine ilsuo, portava lenzuola e asciugamania lavare e faceva la spesa di tutti igiorni. Il sabato andavano insiemeal supermercato con l’automobile ecompravano le provviste per lasettimana. Cucinare e rigovernarelo facevano a turno, un giorno peruno. A Dagoberto doveva pensareBarbara, ma della prima passeggiatadel mattino e dell’ultima della serasi incaricava il papà.

Qualche volta Barbara sbuffavao fingeva di dimenticare questa oquella incombenza, ma incomplesso la nuova organizzazione

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casalinga le piaceva. Le piaceva chelei e il papà vivessero da soli senzaestranei come due sposini. Avevauna bellissima camera d’angolo, condue finestre e un balcone affacciatosul lago. Valentina e Vittoria alpomeriggio venivano sempre astudiare da lei, con Dagoberto chegirava tra i piedi provocandole acorrere e a giocare. Erano felici diaver ricostituito il terzetto, e sidavano un gran daffare perrimettere Barbara al passo con laclasse.

Contrariamente a quello chepotevano pensare i professorimilanesi, gli allievi del ginnasio di

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Alaria venivano tenuti sotto torchio,e i nuovi (o vecchi?) compagni diBarbara erano molto più avanti dilei in tutte le materie. Naturalmentetutti gli insegnanti erano aconoscenza del motivo per cui si eratrasferita a metà anno scolastico ecercavano di essere indulgenti. Malei era orgogliosa. Non volevaelemosine e nemmenocompassione.

Il primo mese si gettò a studiarecome una pazza. Lavorava alpomeriggio con le due amiche chela aiutavano nelle lezioni del giornoe le facevano un po’ di ripasso. Pernon farle perdere tempo, Valentina

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andava a farle la spesa, quando erail suo turno, e Vittoria la aiutava adapparecchiare e a cucinare. Dopocena, mentre il papà leggeva oguardava la televisione ochiacchierava con Augusta di là insoggiorno, Barbara si metteva altavolino e studiava ancora sino amezzanotte.

Alla fine di marzo eraperfettamente alla pari col restodella classe. Era cresciuta di quattrocentimetri dall’anno precedente, edera dimagrita. Se ne accorgeva dagliabiti della primavera scorsa che leerano corti e larghi.

Anche se era molto soddisfatta

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della sua nuova silhouette, vestirsiera diventato un problema, tantopiù che non voleva far spenderealtri soldi al papà per compraredegli abiti nuovi. Era piena discrupoli finanziari. Sapeva che ladifferenza tra l’affitto del vecchiomonolocale e quello del nuovoappartamento era molto alta. Erapur vero che il papà non pagava piùgli alimenti per lei, ma certamentein questo nuovo modo di viverespendeva molto più di prima.

Come al solito il soccorso venneda Valentina, l’esperta di sartoria.Dove si poteva, gli abiti furonoallungati e ristretti. Due vecchie

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camicie del padre di Vittoria,arricciate alle spalle e orlate di unapassamaneria verde scurodiventarono due nuovissimicamicioni per Barbara, lunghi finsopra al ginocchio. Li portava con lefalde sventolanti fuori dal maglionerosso.

In un accesso sfrenato digenerosità poi, le due amichearrivarono a regalarle alcuni deiloro vestiti che amavano di più.Ormai erano più o meno alte ugualie avevano la stessa corporatura. Leloro madri forse si accorsero che daiguardaroba delle figlie erascomparsa quella gonna, quel paio

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di jeans, quella felpa, per poiriapparire addosso a Barbara, maebbero il buon gusto di non farecommenti.

Il padre di Barbara non siaccorse di nulla, perché non badavaa queste cose. Se se ne fosseaccorto, si sarebbe dispiaciuto,perché nella realtà non era ridottoal punto da non poter rivestire lafiglia. Recentemente avevaaddirittura avuto una promozione eun aumento di stipendio, masiccome era un uomo schivo non sene era vantato, e Barbara non losapeva.

Quanto a Barbara, non avrebbe

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mai accettato l’elemosina da unestraneo, così come aveva rifiutatol’indulgenza pietosa degliinsegnanti. Ma Vittoria e Valentinasi potevano considerare estranee?Non avevano forse giurato di“vivere le une per le altre, e anche dimorire le une per le altre” se fossestato necessario?

Chi si era accorto di tutta lamanovra erano stati ovviamentecompagne e compagni di scuola.Erano dei ragazzi in gamba, ingenerale, ma ci tenevanomaledettamente a quello chemettevano addosso. Primadell’arrivo di Barbara il fatto di

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possedere una certa felpa firmata odi portare scarpe fuori moda potevacostituire motivo di esclusione o diaccettazione in un gruppo, diammirazione o di derisione. Ma conl’arrivo della nuova venuta le coseerano cambiate. Come al solito, sesolo voleva, Barbara esercitava suicoetanei un grande fascino, unaimplicita autorità da leader.

Lei, nessuno osava deriderla oescluderla perché non seguiva igusti correnti. Non c’erasoddisfazione, perché lei se neinfischiava. Per quanto rimbecillitidalla pubblicità, dalla televisione edall’indulgenza dei genitori,

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compagne e compagni eranoabbastanza svelti da accorgersi cheloro cercavano di vestire secondoun modello imposto dall’esterno,Barbara e le sue amiche invececercavano di mettersi quello chestava loro meglio, quello chemetteva in risalto le loro qualitàpersonali. Erano considerate le treragazze più carine della classe. Iltop, senza ombra di dubbio, eraValentina, con i capelli ramati, lelentiggini, gli zigomi alti, gli occhichiari e l’andatura brusca, un po’maschile. Vittoria, con i suoi capellineri e lisci e il viso da elfo, la graziaacerba del corpo sottile e il carattere

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quieto, un po’ misterioso, sicontendeva la palma con Barbara.Questa, a voler essere pignoli, con isuoi capelli castani un po’ mossi, gliocchi castani e il naso dritto, severo,non aveva niente di eccezionale. Ma(anche se in realtà non lo era)sembrava essere così disinteressatadel parere degli altri sul suo fisicoche bisognava ammirarla per forza.Così in classe scambiarsi gli abiti eusare, anche le femmine, vecchiecamicie e giacche dei padri diventòuna moda.

D’altronde, ricordava Barbara,questo dello scambio degli abiti eraun gioco che lei e Valentina avevano

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sempre cercato di fare fin dapiccolissime, ed era stata la signoraLulli a scoraggiarlo. Era un po’schizzinosa, la mamma, e poi volevache Barbara indossasse solo abitiscelti, o almeno approvati, da lei.

Chissà cosa avrebbe dettoadesso se avesse assistito a tuttiquei passaggi a senso unico dicamicie, di sottane e di maglioni?Ma non poteva più assistere aniente ormai, e tantomenoprotestare.

Barbara cercava di tenerlo fuoridalla mente, ma il pensiero dellamamma era presente in tutto quelloche faceva. Qualche volta le pareva

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di essere come uno di quei mutilatidi cui aveva sentito parlare, che nonavevano più un braccio, o un piede,e tuttavia sentivano dolore o pruritoalle dita, al polso, al calcagno.

Stava per fare qualcosa e sifrenava: “La mamma non vuole.” Alsupermercato passava davanti aipompelmi senza comprarne perché“alla mamma non piacciono”.Tornava a casa in ritardo: “Lamamma mi sgriderà.” La notte sisvegliava gridando per un incubo:“Oh Dio, mi avrà sentito, lei che hail sonno così leggero.”

Quando camminava per lastrada e vedeva da lontano una

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donna bionda, esile, elegante, con icapelli tagliati in quel certo modo, ilcuore cominciava a batterleall’impazzata. Invano cercava diautoconvincersi: “Non può esserelei”. Doveva correre, raggiungerla,guardarla in faccia da vicino, ebastava una lontanissimasomiglianza a farla star male pertutta la giornata.

A scuola era tornata a prenderela solita sfilza di otto e nove. Laprofessoressa di inglese, alcolloquio, aveva detto al papà: – Mipiace tanto Barbara che vorrei chefosse mia figlia.

La signorina Pancaldi un giorno,

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in un empito di entusiasmo percome aveva tradotto alcuni versilatini, era scesa dalla cattedra e leaveva schioccato un bacio in fronte.– Chi l’ha detto che ci sono soloall’università il bacio e l’abbraccioaccademico?

Eppure ogni volta che ricevevaun bel voto Barbara pensava comeun tempo: “Cosa darei perché lamamma ne fosse contenta!”

Era combattuta fra il dolore chele dava questo continuo ricordare eil senso di colpa per tutte le volteche si augurava di dimenticarepresto.

– Passerà, tesoro. Non sarà

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sempre così acuto. Continuerai aricordarla, ma con rassegnazione,con dolcezza – le diceva la madre diValentina, la signora Prada,sfiorandola con una carezza.

Non sapeva però che Barbaranon era tormentata tanto dalricordo, quanto dal rimorso. Chenon si sarebbe mai potutarassegnare, che non avrebbe maipotuto pensare alla madre condolcezza, perché gli ultimi giorniche l’aveva vista era stata indiscordia con lei.

Certe volte, nel dormiveglia, nonriusciva a scacciare un’idea che lariempiva di terrore. “E’ morta per

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causa mia. E’ voluta morire perchél’ho delusa.”

Quest’idea la tormentava inmodo atroce, ma non avevacoraggio di parlarne a nessuno.Sapeva cosa le avrebbero detto:“Non sei stata tu a far esploderel’aereo. E non è stata neanche leiper il dolore che le hai dato. Fossemorta per malattia o per unincidente individuale. Ma vuoi cheper punirti abbia ucciso non solo sestessa, ma Lorenzo e tutti gli altripasseggeri? Vuoi che per punirtiabbia lasciata orfana la sua preziosaLaurentina? Tu almeno il padre cel’hai ancora, ma lei non ha proprio

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nessuno.”Tutti questi erano ragionamenti

logici, senza dubbio. Eppure non leridavano la pace.

Ma non bisogna credere che sene andasse in giro lagnosa e con lafaccia lunga. Anzi, apparentementeera allegra e spensierata, un po’rompiscatole, un po’ commediante,un po’ esagerata, molto ironica,insomma, la Barbara di sempre.

A guardare dall’esterno tutti isuoi più cari desideri si eranorealizzati. Era tornata ad Alaria,viveva col papà, avrebbe di nuovopassato tutte le vacanze a Dorgo.Andava a scuola con Vittoria e

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Valentina nella classe dellasignorina Pancaldi.

Non aveva alcuna nostalgia diMilano. Aveva cancellato con uncolpo di spugna quella ipocrita dellasignora Danesi, quella pappamolladi Ornella, quel marmocchio diRoberto. Era convinta che il liceoAriosto fosse un capitolo della suavita chiuso per sempre.

Era di nuovo la prima dellaclasse, era dimagrita, le stavanopersino sparendo i foruncoli. Matutto questo al prezzo della mortedella mamma.

Si chiedeva: “Se potessi tornareindietro e mi mettessero a scegliere,

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cosa farei? Se tornando a stareesattamente come stavo l’annoscorso in terza media potessi farlarivivere.” E allora si arrabbiavacontro la morta. “Ma perché ci deveessere quest’unica alternativa: lamia infelicità o la tua vita?” E doposi sentiva ancora più colpevole peressersi arrabbiata.

Insomma, un bel guazzabuglio.Ma dall’esterno tutti pensavano cheBarbara stesse coraggiosamentesuperando la tragedia che l’avevacolpita.

– Cosa fai domenica prossima?

– chiese il papà in tono indifferente.

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Troppo indifferente per non essereuna trappola.

– Niente. Studierò. Uscirò,andrò a spasso con Vittoria eValentina.

– Pensavo. Io esco in barca sullago. Verresti?

– Noi due soli?– Veramente. No, non soli. Ci

sarebbe anche Augusta.“Qui ti volevo bello mio! Vuoi

farmi reggere il moccolo! Vuoifarmi accettare a tutti i costi quellatua innamorata. Ma che bisogno haidi una innamorata? Non sei feliceadesso che ho ucciso la mamma pervenire a vivere con te?”

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Ucciso la mamma?! Barbara nesapeva abbastanza di psicoanalisiper sapere cosa è un lapsus. Lasignorina Pancaldi ci insistevatanto: “lapsus linguae”, “lapsuscalami”. E questo cos’era? “Lapsusmentis”?, “lapsus malvagitatis”?

Insomma, era inutile svicolare.Augusta le scatenava sentimentiambigui e la rendeva inquieta.

Era un donna amabile eintelligente, non bella, maespressiva, elegante. Con lei avevatatto, sapeva stare al suo posto.Davanti a lei non trattava il papàcon aria possessiva, non lo toccava,non si permetteva tenerezze.

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Lui però pendeva dalle suelabbra. Col tempo Barbara si eraresa conto che quei due andavanod’accordo in tutto, e nonostante ladiscrezione di Augusta, si sentivaun po’ esclusa. Ma non era questo ilproblema fondamentale.

Il guaio era che era stataAugusta a dire a Barbara che aquattordici anni poteva scegliere ditornare col papà, ed era colpa diAugusta se lei aveva scritto allamamma quella lettera terribile.

– No, se c’è Augusta non ci

vengo – rispose in tono deciso.Il papà non disse niente, e anche

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questo le dava sui nervi. Era stataquella perla della fidanzata araccomandargli di avere pazienza?La mamma almeno, quando leirispondeva male, non ci stava tantoa pensare prima di mollarle unoschiaffo. –

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PARTE QUARTA:PRINCIPESSALAURENTINA

CAPITOLO PRIMO

A Laurentina Barbara non cipensava quasi mai.

Nel mese di marzo aveva

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ricevuto tre biglietti scritti daLiselotte nel suo italiano stentato.Tre biglietti molto formali, che ledavano notizie della sorellina: si eradefinitivamente trasferita con lafraulein in casa delle zie, stavabene, cresceva, aveva messo quattrodenti.

Barbara non aveva risposto. Incasa delle principesse cugine lei nonc’era mai stata e quindi non riuscivaa immaginare la fraulein e labambina nel loro nuovo ambiente.

Come segnalibro usava unacopia di quella sua foto con inbraccio Laurentina vestita di pizziantichi. Non le aveva voluto dare

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l’onore di una cornice, però non sela sentiva neppure di gettarla via.Tutti quelli che la vedevanoammiravano Laurentina e dicevano:– Sembra una bambola.

Poi, la prima settimana di aprile,le arrivò un quarto biglietto dellafraulein, questa volta da Monaco diBaviera.

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Cara Barbara,scrivo per informare te di

essermi tornata in mio paese. Mi holicenziata. Non potevo più di quelledue presuntuose vecchiesopportarne. Adesso Laurentina èrimasta davvero sola. Nonodimenticare lei, prego. Millissimibaci. Liselotte.

La prima reazione di Barbara fu:

“Ed io cosa c’entro se lei se ne èandata? Cosa ci posso fare?”

Le dava fastidio pensare allabambina sola con le due anzianeparenti. Lei così tenera, così rosea,

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così ridente quando tendeva le maniper essere presa in braccio, tutta unfremito come un nido di uccellini. Eloro grigie e arcigne, lente neimovimenti, con le pettinature rigidedi lacca, gli occhi grifagni come duevecchi gufi in cerca di preda.

Più che fastidio le dava pena, eproprio per questo non ci volevapensare. Quel giorno le capitò, peruna ricerca scolastica, di doverleggere la Bibbia. Andò a cascareproprio sul brano dove Caino,interrogato sulla scomparsa diAbele, risponde: “Sono io forse ilcustode di mio fratello?”

Le venne un tale malumore che

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dormì male tutta la notte el’indomani per sfogarsi lo raccontòa Valentina. Ma invece di consolarlacome si era aspettata l’amicarincarò la dose: – Non è possibileche tu sia così indifferente neiconfronti di quella bambina! E’ tuasorella in fondo. Quelle saranno lezie, ma tu e Claudio siete i suoiparenti più stretti. Non puoilavartene le mani in questo modo.Pensa se io me ne infischiassi cosìdi Roberta!

Roberta era la sorella diValentina. Aveva cinque anni ed erala cocca non solo della famiglia, madi tutti gli amici della sorella

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maggiore. Le tre inseparabili aDorgo se la portavano sempredietro, fin da quando erapiccolissima, strapazzandola,facendole da mamme e da maestre,ridendo per le scempiaggini che labambina riusciva a dire per imitarlee, tutto sommato, lasciandosenetiranneggiare.

Valentina sbuffava e silamentava continuamente cheRoberta era una rompiscatole; mase qualcuno gliela toccava,diventava una tigre. Barbara, neitempi felici, gliela aveva invidiata.

Ma una cosa è vivere assieme auna sorella minore, altra cosa è

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averla lontano duecento chilometri.– Cosa posso fare? – protestò.

Scriverle? Ha solo dieci mesi. E seanche le telefono non capisceniente. Chissà poi se ricorda la miavoce?.

– Potresti andare a trovarla,però.

– Rimettere piede a Milano?Valentina! Lo sai che non ci possotornare.

– Questo lo dici tu. Non puoi? Eperché non puoi? Non vuoi.

Messa con le spalle al muroBarbara preferì cambiare discorso.In realtà non c’era niente, se non iricordi, che le impedisse di tornare

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a Milano. Il papà gliel’aveva giàproposto due o tre volte: Non vuoivedere i tuoi vecchi compagni discuola? Non vuoi salutare i tuoiinsegnanti? Se vuoi, un sabato tiaccompagno.

Lui non aveva detto: “Non vuoiandare a trovare la tua sorellina?”Barbara non capiva che sentimentiavesse il padre nei confronti diLaurentina. La piccola non avevaalcun legame di sangue con lui,eppure era sorella dei suoi figli. Erail segno tangibile che, mentre luiera rimasto solo, la sua ex moglie siera riformata una famiglia. Lepoche volte che lui ne aveva parlato,

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lo aveva fatto in modo benevolo.Era persino andato a scovare nellesue carte una vecchissima foto diBarbara a nove mesi che in effettisomigliava moltissimo aLaurentina. Ma forse era così bendisposto proprio perché la piccolaera lontana, perché non interferivain alcun modo nella sua vita.

Comunque, lei non avevanessuna intenzione di andare aMilano. Né per trovare la sorella néper alcun altro motivo.

Ma la settimana dopo Valentinatornò alla carica.

– E tua sorella? Che intenzionihai?

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– Uffa! – disse Barbara. – Cheintenzioni vuoi che abbia? Al suocompleanno, in giugno, le manderòun regalo.

– Ti ricordi com’era buffaquando è nata? – rise Valentina. Poisi accigliò. – E così, pensi dicavartela con un orsacchiotto?

– Potresti chiedere alle zie cheuna domenica te la portino adAlaria. Potresti invitarle per un finesettimana. La camera degli ospiti cel’avete – propose Vittoria.

– Ce lo vedi tu mio padre, con lesue idee politiche, a fare gli onori dicasa a due ruderi che credonoancora nei titoli nobiliari? E poi non

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verrebbero, ne sono sicura – disseBarbara.

– E allora per te quella bambinaè perduta per sempre?! – esclamòValentina esasperata.

– Potrei telefonare per chiederesue notizie. – azzardò Barbara.Possibile che le due amiche noncapissero quanto le costavariallacciare quei vecchi legami?

– Ecco, brava! Comincia almenoa telefonare – disse Vittoriatrascinandola verso una cabina.

– Ci vorranno un sacco digettoni – disse Valentina. – Aspettache li vado a comprare.

Rassegnata Barbara poggiò a

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terra la cartella – stavano tornandoda scuola – e fece il numero di casaLaurenti. Rispose Selvaggia:Pronto?

– Sono Barbara, Barbara Lulli.Chiamo da Alaria. Come sta,signora?

– Bene, Barbara. E tu come stai?– Bene. Volevo notizie di

Laurentina.– Ah! Ci sta facendo disperare,

quella bambina. Lo sai che lafraulein se n’è andata?

– Sì, lo so. Me lo ha scritto.– Bella fannullona quella

tedesca! Non faceva che dire:“Questo non spetta a me. Io devo

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fare pulizia solo nella camera dellabambina. Io non devo servire atavola” e cose del genere. Una verainfingarda! E cafona, anche! Lo saiche era stata pagata fino alla finedell’anno? Pensa che ci ha restituitolo stipendio dal mese scorso a finedicembre. Ce lo ha sbattuto in facciaprima di andarsene.

– Ma Laurentina come sta? –insistette Barbara.

– Ne ha sempre una. I denti, ilmal di pancia, l’otite. Ci sono nottiin cui non riusciamo a chiudereocchio.

– Mi dispiace.– Adesso è raffreddata. Ha il

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naso chiuso, tossisce. La senti?In effetti si sentiva in

lontananza una tossetta secca.Barbara era imbarazzata.

– Mi dispiace – ripeté. – Speroche guarisca presto.

– Anch’io lo spero. Non miricordavo che un bambino piccolopotesse essere un tale impiastro.

– Beh, grazie delle notizie. Salutisua sorella.

– Glielo dirò. Ciao, Barbara.Fatti sentire qualche volta.Arrivederci.

– Arrivederci.Appese il microfono esausta,

accaldata. Le due amiche avevano

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ascoltato tutta la conversazionestando con l’orecchio incollato allasua testa. Che fatica! E che notiziedeprimenti! Povera Laurentina!Quando c’era Liselotte era semprestata sana come un pesce.

– E’ l’aria di Milano – sentenziòVittoria. – I miei cugini da piccoliavevano sempre l’asma o labronchite.

– Devi assolutamente andare avederla – disse Valentina. – E semuore perché quelle due non lacurano bene?

Dall’espressione sgomentadell’amica capì che non era statauna frase felice. Altro che parlare di

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corda in casa dell’impiccato!Vittoria cercò di correre ai ripari.

– Su, dai! Nessun bambino èmai morto di raffreddore. Non farecosì, Barbara. Non piangere. Tu nonci puoi fare nulla.

– Sì, che ci può fare qualcosa –tornò a insistere Valentina – puòandare a trovarla domenica.Andremo anche noi. Vedrete cheinsieme ci lasciano.

Si era già informata degli oraridei treni. Ce n’era uno alle otto dimattina che arrivava a Milano alleundici. E da Milano potevanoripartire alle cinque e mezza delpomeriggio per essere ad Alaria

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prima delle nove.Non ebbero nessuna difficoltà a

ottenere il permesso. Da sole forsenon le avrebbero lasciate andare,ma insieme, come aveva calcolatoValentina, la cosa era differente. Epoi Barbara conosceva la città. E poii due cugini di Vittoria sarebberoandati a prenderle alla stazione e leavrebbero portate a pranzo in casaIntimari.

Dalle principesse cuginesarebbero andate nel pomeriggio,una visita breve per non disturbare.E avrebbero visto Laurentina.Valentina e Vittoria erano quasi piùimpazienti di Barbara di vedere la

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bambina, di controllare quantofosse cresciuta, che progressi avessefatto e se davvero era cosìmalaticcia come sembrava.

Era la domenica delle Palme. Traqualche giorno sarebberocominciate le vacanze di Pasqua.

In treno le cose andarono lisce.Si erano portate un mucchio diriviste e di parole crociate. Poigiocarono a fare buffi anagrammicon i nomi e i cognomi di genteconosciuta e risero tanto che tutti iviaggiatori dello scompartimento leguardavano. Ci fu l’unicoinconveniente di un signore, untizio sui trent’anni, che voleva fare

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lo stupido. Faceva un sacco didomande, si immischiava in quelloche dicevano tra loro, si offrì di fareda cicerone nella “città tentacolare”,come chiamava Milano. MaValentina rispose raccontando unatale quantità di bugie che alla fineanche lui si accorse di essere presoin giro e, offeso, se ne rimase zittoper tutto il resto del viaggio.

Quando il treno entrò nellaStazione Centrale di Milano Barbarasentì che il cuore le accelerava ibattiti. Non le era mai piaciutaquella città. E dopo quasi due mesidi assenza le piaceva ancora meno.

I cugini di Vittoria, Orso e Lupo,

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due degni rappresentanti di quellatribù maschile che Valentina avevabattezzato “lo zoo”, le aspettavanopuntuali in testa al binario. Preserola metropolitana.

Ora Vittoria e Valentina eranoun po’ meno entusiaste e sistringevano ai due ragazzi in cercadi protezione. Che brutta gente c’erain giro, che facce! E l’altoparlanteche continuava a gracchiare:“Attenzione ai borseggiatori!” ABarbara sembrava di essereritornata indietro di un anno, e le sistringeva il cuore dall’angoscia.

Finalmente arrivarono in casaIntimari, in un bel quartiere dai

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giardini alberati, dove nonsembrava neppure di essere aMilano. Vittoria nello zainettoaveva portato un regalo della nonnaper la nuora milanese. Ciònonostante fu passata in rassegnadalla testa ai piedi.

Per il fatto ch’era l’unicafemmina della tribù, ogni zia sisentiva in diritto di criticare la suaeducazione, il suo abbigliamento, lasua pettinatura, le sue amicizie, ilibri che leggeva. Con loro granderabbia, almeno così pensavaVittoria, non potevano sgridarla peril rendimento scolastico, perché daquando era arrivata in Italia aveva

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sempre avuto la media dell’otto,mentre i suoi fratelli e cuginiandavano avanti a fatica, sempre aripetizione per recuperare in questao in quella materia, spessorimandati a settembre, qualchevolta bocciati.

Anche Barbara e Valentinafurono esaminate minuziosamente,ma su di loro la zia ebbe il buongusto di non fare commenti.

– Certo non ci vorrebbe comemogli dei suoi amati rampollisussurrò Valentina all’amica,quando andarono in bagno a lavarsile mani. – Non siamo abbastanzaaristocratiche per la loro nobile

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stirpe.Barbara sospirò. – Aspetta di

conoscere le due principesseLaurenti!

Mangiarono cercando di starepiù dritte che potevano, con i treimmaginari elenchi del telefono inequilibrio sulla testa e stretti sottole ascelle. E, come succede semprequando si vuol fare a tutti i costibella figura, Valentina si rovesciòsulla camicia bianca il sugo deglispaghetti alle vongole e Barbarafece cadere per due volte le posate.Orso e Lupo sghignazzavano inmodo poco cavalleresco.

Vittoria invece fu irreprensibile.

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Non voleva dare alla zia lasoddisfazione di riferire alla nonnache sua madre non sapeva educarla.

Per fortuna quando si alzaronoda tavola erano quasi le due e le ziedi Laurentina le aspettavano per ledue e mezzo.

– Vi accompagno in macchina –propose il signor Intimari. – E’all’altro capo della città, ma aquest’ora c’è poco traffico! Che ideaandare ad abitare al quartiereLorenteggio!

“Che idea per delle principesse!Un quartiere così plebeo.” completòmentalmente la frase Vittoria, checonosceva i suoi polli.

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Adesso che si avvicinava ilmomento di rivedere la sorellina,Barbara si sentiva a disagio. Se nonfosse stata seduta nell’automobiledel signor Intimari, con Vittoria eValentina al fianco come duecarabinieri, forse avrebbe cedutoall’impulso di tornare subito allastazione e di salire sul primo trenodiretto ad Alaria.

CAPITOLO SECONDO

Aveva ragione lo zio di Vittoria. Era

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proprio un condominio popolare.Nelle scale e sul pianerottoloristagnava uno sgradevole odore dicucina: cavoli, pesce, soffritto dicipolla. Anche l’ascensore ne eraimpregnato.

L’appartamento era al terzopiano, e stonava come un pugno inun occhio in quel tipo di edificio.Stanze buie, tetre, piene zeppe digrandi mobili di legno scolpito,scuri, con zampe di leone al postodei piedi, che in origine dovevanoaver arredato vaste stanze severe,dai soffitti alti e dalle finestre avetri piombati.

– Stile Impero – sussurrò

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Vittoria che se ne intendeva. Quiperò il soffitto era basso enell’ingresso il grande lampadarioquasi sfiorava la testa dellevisitatrici.

Le pareti erano rivestite ditappezzeria damascata rosso cupo ei pavimenti ricoperti di tappetipolverosi su cui, pensò Valentina,che a casa sua era addettaall’aspirapolvere,quell’elettrodomestico non erapassato chissà da quante settimane.

Le due signore erano tutteeleganti, pettinate con cura e pienedi gioielli come due madonne dicampagna. Barbara si chiese se a

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casa stavano sempre così o se sierano bardate appositamente perriceverle.

Le accolsero con frasicerimoniose, artefatte, e quandosentirono il cognome di Vittoria latempestarono di domande sulle suearistocratiche parentele. Vittoriac’era abituata e risposeesaurientemente, con pazienza,spiegando tutti i matrimoni e lediscendenze che sua nonna le avevaripetuto tante volte da farglieliimparare a memoria. Barbara eValentina intanto scalpitavanoimpazienti: dov’era Laurentina?

Ma le cerimonie non erano

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finite. Furono introdotte nel salotto,una stanza soffocante dalle tende divelluto verde cupo, piena finoall’inverosimile di mobili e, suimobili, di ninnoli d’argento e dicristallo, candelabri, fiori finti epiume di pavone nei vasi o sottocampane di vetro, specchi in cornicidi legno dorato macchiatidall’umidità.

– Volete un caffè? – chieseSelvaggia.

– Una Coca-Cola, magari? –chiese Valentina.

Ma Coca-Cola non ce n’era.Dopo molto confabulare con lasorella, Olimpia uscì e tornò con

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una caraffa di sciroppo d’amarenasu un vassoio d’argento. Eraevidente che era stato appena fatto,sciogliendo lo sciroppo concentratonell’acqua del rubinetto. Eradolcissimo, tiepido, appiccicoso. Lobevvero compunte. A Valentinascappava da ridere, ma Vittoriasfiorò il dorso della mano diBarbara piena di comprensione.

Fecero un po’ di conversazione.O meglio, stettero zitte ad ascoltaregli sproloqui delle padrone di casa.

– Lo sai Barbara – disseSelvaggia indignata – che il tuopatrigno non ha lasciato quasiniente? Credevamo che la casa dove

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vivevate fosse sua; che avesse altriimmobili, titoli, azioni, un conto inbanca ragionevole per uno col suotenore di vita. Invece è risultato chequell’incosciente – non si dovrebbeparlar male dei morti, ma quando siha una figlia bisognerebbe esserepiù previdenti quell’incoscienteaveva investito tutto in certiesperimenti di ingegneriaelettronica che non hanno datoalcun risultato. Viveva con lostipendio della società, e tua madre,come sai, non si sprecava a lavorare.Spendevano tutto senza mettere daparte niente. I suoi soci ci hannopromesso una modesta liquidazione

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e forse riusciremo ad otteneredall’Ordine degli Ingegneri unapensioncina di reversibilità. Questoè tutto ciò su cui può contareLaurentina. Al resto dobbiamopensarci noi.

– Tutto sommato – osservòOlimpia – è stato un bene che lafraulein se ne sia andata. Dagennaio in poi non avremmo saputodavvero come pagarla. Buon per teche tuo padre lavora e ha qualcosa,perché anche Marcella, paceall’anima sua, a parte due gioiellinidi poco pregio, non ha lasciatoproprio niente. Due vite da cicale,senza alcun pensiero per il futuro di

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chi resta.Prima di allora Barbara non

aveva mai pensato alla mamma e aLorenzo in questi termini, e nonsapeva come reagire. Aveva voglia dimettersi a piangere per l’amarezzadel ricordo, per la pena che ora lefacevano quei due morti. Però lasfiorava anche un pensiero dirimprovero, come se fossed’accordo con le due principesse:era possibile essere così pocoprevidenti? Lasciare entrambe lefiglie allo sbaraglio nel mondo,affidate alla carità degli estranei?Ma soprattutto provava l’impulso digridare la sua rabbia verso le due

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vecchie avare che non sapevanoparlare d’altro che di denaro.

Vittoria, seduta accanto a lei suldivano polveroso, le stringeva unamano di nascosto. “Sta’ calma!Lascia perdere. Lo sapevi che eranocosì” diceva quella stretta.

Valentina però si stavaannoiando. – Dov’è Laurentina? –chiese dimenandosi sulla poltrona.– La possiamo vedere? Siamovenute apposta e il nostro trenoriparte alle cinque meno dieci.

– Venite. In punta di piedi, però,perché sta dormendo – concesseSelvaggia, un po’ seccata per esserestata interrotta nelle sue

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dissertazioni.– Per fortuna dopo pranzo fa

sempre un sonnellino – aggiunseOlimpia. Almeno ci lascia un attimodi tregua.

Entrarono nella camera dellabambina, una stanzetta poco piùgrande di un ripostiglio, dove siaffollavano stretti i bei mobili chiaricomprati dalla mamma meno di unanno fa per quella che era stata l’excamera di Barbara.

Laurentina dormiva nel lettino asbarre, sdraiata sulla pancia, sudata,con le coperte in disordine. Nellastanza c’era odore di chiuso.

– Ma noi vogliamo vederla

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sveglia! – esclamò Valentinaincurante delle proteste soffocatedelle due signore. Batté forte lemani. Su, su, piccolina! Ci sonovisite!

La bambina aprì gli occhi, tirò sula testa dal cuscino e le guardò.

– Buongiorno Lorenzina! –disse Valentina avvicinandosi allaculla.

– Laurentina. Lau – la corresseSelvaggia.

In quei due mesi la piccola eramolto cresciuta. Aveva le guancemeno rotonde. Era pallida. I capellileggerissimi si sollevavano inpiccoli riccioli sulla sommità della

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testa.– Che amore! – esclamò Vittoria

tendendo le braccia oltre le sbarredel lettino.

– Aspettate, è bagnata – avvertìSelvaggia, e sospirò. – Adesso citocca cambiarla.

La maneggiavano rigide, senzaun sorriso, una parolina dolce, conl’aria un po’ disgustata di chi pensa:“Cosa ci tocca fare!”. E Laurentinastava seria, anche se non piangeva.

La camera aveva una piccolafinestra che guardava sul muro diun cortiletto grigio, senza unapianta, senza un uccello. In unangolo, di fianco al fasciatoio, c’era

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un box col recinto di reterammendato che Barbara nonricordava nell’altra casa. Era pienodi giocattoli e di cianfrusaglie, eaveva l’aspetto sporco e moltovissuto.

– Questo ce l’ha prestato lasignora del terzo piano – disseOlimpia seguendo lo sguardo diBarbara. – E’ davvero prezioso.Laurentina ci passa ore ed ore.Praticamente quando è sveglia stasempre lì dentro.

– Lei veramente vorrebbeandarsene in giro per la casa –aggiunse Selvaggia. – A quattrozampe va rapida come un fulmine e

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mette le mani dappertutto. Se trovauna sedia o il bordo di un tavolo siaggrappa e cerca di mettersi in piedirovesciandosi tutto addosso. Se nonci fosse il recinto ci avrebbe giàdistrutto la casa.

“Tutto il giorno in gabbia emagari da sola in questa bruttastanzetta” pensò Barbararicordando come invece nell’altracasa la piccola partecipasse alla vitadei grandi sempre in braccio allamamma o a Liselotte.

Finalmente lavata, cambiata erivestita di fresco Laurentina fusistemata in braccio alla sorella, chela teneva con gran precauzione,

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timorosa di farle male, di stringerlatroppo, di spaventarla e di farlapiangere. Quel piccolo corpopoggiato con abbandono contro ilsuo le dava una grande tenerezza,una tenerezza che prima di alloranon aveva mai provato.

– Chissà se si ricorda di me? Semi riconosce?

– Oh, non preoccuparti, ha unbuon carattere – disse Olimpia. –Non ha paura degli sconosciuti.

– Quando andiamo al circolo delBridge – spiegò Selvaggia – ognivolta viene una babysitter diversa,così Laurentina è abituata alle faccenuove.

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Barbara si accorse che labambina aveva indosso una tutinavecchia, consumata, di una tagliaormai troppo piccola, così cherestava tesa e trasparente sui gomitie sui ginocchi. In cima al piededestro c’era un buco da cui usciva ilpiccolo alluce rotondo con l’unghiatroppo lunga.

– Ehi, Lorenzina bella, lo sai cheti ho vista appena nata? – disseValentina avvicinando il viso aquello della piccola.

– Laurentina. Lau; si chiamaLaurentina, un antico nome difamiglia la corresse di nuovoOlimpia spazientita.

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Ma Valentina lo faceva apposta.Cominciò a solleticare con un dito ilmento della bambina per farlaridere e canterellava:

Lorenza Lorenzina,che amore di bambina,che dolce sorellina,che bambola carina,falle una risatina,alla tua Valentina,Lorenza Lorenzina. E poiché non rideva, la tolse a

Barbara e se la fece volteggiare sulcapo con un gesto esperto, pieno disicurezza. Non per niente aveva due

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fratelli minori!La bambina era incuriosita. Ogni

tanto accennava un timido sorriso,ma per la maggior parte del temporestava seria. Buona, sì, senzapiangere, ma con gli occhi gravi. ABarbara parve che guardasse le ziecon un po’ di apprensione. Di checosa aveva paura una bambina cosìpiccola? Cosa le avevano fatto? Levennero mille fantasie, tutteinsieme, in un attimo: orfanellepicchiate, affamate, umiliate,mandate a mendicare.

Che assurdità. Le zie a modoloro le volevano bene. L’avevanovoluta a tutti i costi: era la loro

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principessina.Cercò anche lei di farla ridere.

Pic pic, l’uccellino che sale che sale,che becca che becca, pic pic, beccaLaurentina sulla pancia, sul petto,sul collo.

La piccola fece una risatina, unasola, come se si controllasse, poitornò seria, intenta alle dita dellasorella che giocavano sul suo corpo.

– Oggi non tossisce più –osservò Olimpia.

– Sì, me ne sono accorta.Potrebbe uscire. Ma proprio non mela sento di portarla a passeggio. Houn tal mal di schiena.

Valentina si intromise. – C’è un

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bellissimo sole. Potremmo portarlanoi a fare un giro qui sotto. C’è unbel giardinetto, mi pare.

– Sì, non sarebbe una cattivaidea. Così noi due ci mettiamo sulletto e facciamo un riposino. Nonpiù di un’oretta, però, perché poiviene freddo.

– Di più non potremmo neanchenoi. Dobbiamo essere alla stazionealle quattro e mezzo.

– Aspettate un attimo che lavesto e la metto nel passeggino.

Così si infilarono nell’ascensore,le tre amiche e Laurentina,infagottata in una tuta rosaimpermeabile che Barbara ricordava

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tra i regali di Natale. Allora era cosìgrande che Laurentina ci si perdevadentro. Adesso le si poteva a stentoallacciare.

– State attente, mi raccomando– disse Selvaggia dalla porta. – Ealle tre e mezzo a casa!

Il giardino consisteva inun’aiuola spelacchiata con trepanchine e una vasca di sabbia per igiochi dei bambini. Attornosfrecciavano le automobili. Tolserola piccola dal passeggino e Vittoriala prese in grembo.

– E’ una bambina bellissima –disse – un bambolotto così dolce,così tenero! E poi ha anche una sua

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dignità. L’avete vista con quellevecchiacce? Sta sulle sue, non dàconfidenza.

– Chissà che dispiacere quandoè partita Liselotte – fece Barbara.Però io non la capisco la fraulein.Per quanto stesse male in quellacasa, come ha fatto ad andarsenelasciandola sola?

– Senti chi parla – la rimbeccòValentina. – E tu, allora? Come haifatto ad andartene lasciandola sola?

Barbara arrossì. Poiimprovvisamente disse: – Io nongliela riporto.

Se aspettava delle proteste, delleobiezioni, delle esclamazioni di

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incredulità o di meraviglia, rimasedelusa.

– Tu hai più diritto di tenerla diquanto non ne abbiano loroconvenne Vittoria. – In fondo è tuasorella.

– E poi, che tristezza in quellacasa di gufi – esclamò Valentina.Come fa una bambina a crescere làdentro? Senza aria, senza luce,senza un poco di allegria.

-…e sempre chiusa in gabbia. Manon si vergognano quelle duevecchie streghe!?

Più le amiche parlavano e piùBarbara si rinforzava nella suadecisione, che all’inizio era stata

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soltanto una frase, una battuta, unareazione esasperata alle impressionidi quel pomeriggio e ai rimproveridi Valentina.

Ma adesso si accorgeva di averdesiderato fin dall’inizio di portarevia Laurentina da quella casa. Finda quando aveva visto la tappezzeriarosso cupo dell’ingresso. L’idea diriportarla là dentro, di restituirlaalle due vecchie principesse, lariempiva di tristezza. Comesarebbero stati i loro rapporti d’orain avanti? Una visita al mese? Unavisita in salotto, come quella dioggi, a sorbirsi le cattiverie, legrettezze delle due zie? Laurentina

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sarebbe cresciuta, avrebbe imparatoa camminare, a parlare, lontano dalei. Non avrebbe potuto insegnarleniente. E quando fosse stata piùgrande, i loro incontri sarebberosomigliati a quelli tristissimi fraBarbara e il papà nei primi mesi diMilano.

Accettare una simile prospettivale sembrava impossibile. Per piùd’un anno aveva cercatoinconsciamente di tenereLaurentina fuori dalla sua vita. Orasi accorgeva che era stato un grossosbaglio. Era legata a quellabambina, a quel corpicino tenero enervoso, a quel viso malinconico, da

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legami molto più forti di quantoavesse potuto sospettare, lacci chedolevano a tagliarli. Laurentina poiera tutto ciò che restava dellamamma. Aveva gli stessi occhichiari e indagatori, lo stesso nasoaffilato da uccellino, lo stesso mododi inarcare le sopracciglia. Esomigliava a lei, Barbara, quandoera bambina. Proprio non la potevarestituire. Le due vecchie stregheavrebbero dovuto rinunciare allaloro principessina. Ricordò la fine diIl grande Meaulnes e desiderò avereun grande mantello per avvolgere lapiccina e incamminarsi via versol’ignoto.

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Ma l’ignoto è suggestivo neilibri, non nella vita.

– Va bene, ma come facciamo? –chiese pratica Vittoria.

– Fuori i portamonete!Guardiamo quanti soldi abbiamo intutto disse Valentina prendendosubito in mano la situazione.

Erano ricche. I genitori, perpaura che si trovassero in difficoltànella città sconosciuta, le avevanobene equipaggiate, seguendol’adagio caro alla nonna di Vittoria:“Soldi in tasca e lingua in bocca, siarriva dappertutto”.

– Possiamo prendere un taxi! –esclamò Valentina soddisfatta. – Lì

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c’è un posteggio. Facciamoci subitoportare alla stazione. Se riusciamo asalire su un treno prima dellequattro siamo a cavallo. La suamente veloce aveva già predispostoun piano che teneva conto di ognipossibile obiezione.

– Prima delle tre e mezzo non cicercheranno. Aspetteranno ancoraalmeno una decina di minuti primadi preoccuparsi. Poi nonpenseranno subito a una fuga.Scenderanno a cercarci nelgiardinetto, chiederanno in giro.Non credo che ci metteranno menodi un’ora per concludere cheabbiamo rapito Laurentina. E fanno

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le quattro e quaranta. A quell’oranoi saremo già lontane da Milanouna cinquantina di chilometri.

– Ma potrebbero telefonare allastazione di Alaria e farci bloccaredalla polizia appena arriviamo –obiettò Vittoria.

– No, ascolta. Ho pensato anchea questo. Non andremo ad Alaria.Guarda qui sull’orario ferroviario:alle tre e venti c’è un treno perPratile, un rapido, che arriva alle seie mezza. Di lì raggiungeremo Alariacon la corriera. Nessuno penseràche arriviamo da quella parte.

– E dopo?– Dopo, dopo, ci penseremo

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quando saremo in treno.Sul taxi stettero zitte per non

insospettire l’autista. Laurentinaera di buonumore, come seapprovasse il rapimento.Gorgheggiava dei suoni, batteva lemani contro i vetri dell’automobile.

– Mi sembra che sia di nuovobagnata – osservò Vittoria.

– Niente paura. Ho pensatoanche a questo – disse tranquillaValentina.

Arrivate alla stazione – erano letre e dieci – dopo aver fatto ibiglietti, Valentina le guidò allafarmacia dove comprarono un granpacco di panni e quattro vasetti di

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omogeneizzati. – Bisognerà farlamangiare. La cosa più importante èche non pianga e non attiril’attenzione della gente.

Vittoria trasportava ilpasseggino chiuso, e Barbaraportava in braccio la sorella che siera addormentata e ad ogni passo lesembrava sempre più pesante.Valentina cercò il binario del trenodiretto a Pratile e ce le portò algaloppo. Il treno stava per partire.

Salirono a bordo, trovarono unoscompartimento vuoto. Stesero ilcappotto di Barbara sui sedili difronte e vi coricarono Laurentina,con precauzione per non svegliarla.

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La coprirono con la giacca dipiumino di Vittoria. Poi chiusero loscompartimento per tener fuori gliestranei, si sistemarono e si miseroad aspettare frementi che il trenopartisse.

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CAPITOLO TERZO

Il viaggio fu abbastanzaavventuroso.

Per fortuna nessuno era entratonello scompartimento, ma dopomezz’ora che il treno era partitoLaurentina si svegliò e si mise apiangere. Valentina controllaval’orologio. – A questo punto le ziecominciano a preoccuparsi per ilnostro ritardo.

– Beh, Laurentina non piange

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certo per questo. Se sentiva la loromancanza si sarebbe disperataprima. Adesso probabilmente avràfame disse Barbara, tirando su lasorella.

– Prima di farla mangiarebisogna cambiarla – suggerìVittoria, ricordando le istruzioni chericeveva quando faceva lababysitter.

– E cambiamola, allora! I pannili abbiamo comprati.

Sembrava facile, ma togliere unatutina impermeabile un po’ stretta auna bambina che strilla e sidivincola sgusciandoti via dallemani, non è un’operazione di tutto

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riposo. La tuta era umida e lamisero ad asciugare sulla boccadell’aria condizionata sotto alfinestrino. Sotto, Laurentina avevauna calzamaglia, zuppa di pipì; siera bagnata anche la maglietta e ilgolfino fin sul petto.

– Cosa facciamo? Non possiamolasciarla così. Ricordatevi che fino aieri aveva la tosse.

Finirono per spogliarla nuda, eper fortuna che Valentina avevapensato a comprare in farmacia unbarattolo di salviette già imbevutedi detergente! Le cambiarono ilpanno bagnato e, in attesa che i suoivestiti si asciugassero, la avvolsero

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in una maglietta di ricambio cheVittoria si era portata nello zaino ela coprirono col golf di Barbara.Laurentina continuava a piangere ele tre amiche non sapevano seabbandonarsi a un attacco di risoisterico o se mettersi a piangereanche loro.

Quando l’ebbero beneimbacuccata ed ebbero stesomaglietta, calzamaglia e golfinovicino alle bocche di calore,Valentina disse: E adesso diamoleda mangiare.

Presero dalla busta di plasticadella farmacia i vasetti degliomogeneizzati e si accorsero che

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non avevano un cucchiaino perimboccare la piccola.

– Come facciamo?– Provo a darglielo col dito –

propose Barbara.– Ma non è igienico. Hai toccato

di tutto con quella mano e saraipiena di microbi.

– Vado alla toilette a lavarmi.– Stai ben attenta quando torni,

a non toccare niente.Barbara fece la strada del ritorno

sventolando la mano destra peraria. La sinistra era di nuovo fuoriuso perché aveva dovuto toccare lamaniglia della toilette.

Arrivata nello scompartimento

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si strofinò ancora le dita con lasalvietta umida e si accinse aimboccare la piccola. Sulla puntadel dito di omogeneizzato ce nestava pochissimo, ma Laurentina losucchiava avidamente e avevasmesso di piangere.

Valentina intanto aveva avutoun’idea e se n’era andata in giro peri vagoni alla ricerca di un carrellodelle bibite. “Se vendono il caffèhanno di certo anche i cucchiaini diplastica.”

Riuscì a trovarne uno, andò alavarlo e tornò trionfante nelloscompartimento. Laurentinacominciava a spazientirsi. I bocconi

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erano troppo piccoli e gran partedell’omogeneizzato era finito sul belgolf d’angora di Barbara. Colcucchiaio e con un fazzoletto diVittoria infilato sotto il mento a mo’di bavaglino, le cose andarono unpo’ meglio. Quando la piccola ebbefinito il pasto, le tre amiche eranoesauste.

– Non ricordavo che dar damangiare a un bambino fosse cosìcomplicato! – esclamò Valentinaabbandonandosi sul sedile.

Entrò il controllore e guardòmeravigliato il bucato steso eLaurentina infagottata nel golf diBarbara.

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– Non c’è un grande con voi? –chiese guardandosi attornoinsospettito.

– Sì. E’ andato alla toilette –rispose pronta Valentina.

Continuava a controllarel’orologio.

– Adesso le due signore hannocapito che siamo fuggite e sistaranno chiedendo se è il caso diavvertire la polizia.

Tutto il traffico degli abiti e delcibo non aveva fatto dimenticare aBarbara il problema principale: cosane avrebbe fatto di Laurentinaappena arrivata ad Alaria?

– Semplice: la porti a casa tua,

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da tuo padre – diceva Valentina.Non avrà il coraggio di metterla allaporta.

– No. Però domani me la faràcertamente riportare indietro.

– E tu digli che se se ne vaLaurentina, te ne vai anche tu. Tene torni a Milano con lei.

Barbara non aveva nessunavoglia né di sottoporre il padre aquel ricatto né di tornare a Milano.Era certa che lui non l’avrebbe mailasciata andare via. Però, preferivanon metterlo alla prova.

“Claudio” pensò. “Telefonerò aClaudio ad Harvard e gli chiederòche ci pensi lui a convincere il papà.

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Non c’è altra scelta. Laurentinadeve vivere con noi.” Laurentina siera addormentata in braccio aVittoria. Era ridicolissima, con quelgolf grigio scuro dalle manichearrotolate, i piedi nudi e il fazzolettosporco di pappa ancora infilatosotto il mento.

Anche Barbara, cullata dalmovimento del treno si assopì. Manel dormiveglia continuava apensare al padre, alla reazione cheavrebbe avuto trovandosi davantiLaurentina. Povero papà! Già la suavita era stata sconvolta, era dovutacambiare radicalmente per l’arrivodi Barbara. Era stato costretto a

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cambiare le vecchie abitudini, eradovuto diventare un casalingo,padre e madrecontemporaneamente, e non avevaperduto il buonumore. Barbara sirendeva benissimo conto che incircostanze analoghe un altro padre,invece di metter su casa con lei,l’avrebbe schiaffata in collegio etanti saluti.

Ma adesso come si sarebbeadattato il papà ai nuovicambiamenti imposti dalla presenzadi Laurentina? Di Laurentina chenon era niente per lui.

Certo l’ideale per allevare unbambino così piccolo è una famiglia

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tradizionale, con un marito e unamoglie, possibilmente casalinga.Questo voleva dire che il papà sisarebbe dovuto sposare? Dio nescampi! Allora almeno unabambinaia fissa. Ma non se lapotevano permettere.

Barbara doveva farcela da sola.Ma come avrebbe fatto con lascuola? Laurentina non era comeDagoberto. Non la si poteva lasciareda sola in casa tutta la mattina.“Potrei portarla alla signora Prada,la mamma di Valentina. Ma no!Quella va a scuola anche lei! Allamadre di Vittoria allora che ècasalinga. Figuriamoci, la signora

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Intimari non sopporta nemmeno ipropri, di bambini. Potrei iscriverlaa un asilo nido. La ritirerei all’uscitadi scuola e al pomeriggio la terrei io.Già, e i compiti?”

Comunque era inutile andaretanto lontano col pensiero. Il primoe il più terribile scoglio lo dovevaaffrontare quella sera. Comeavrebbe fatto a presentarsi al papàcon Laurentina fra le braccia? E senel frattempo, avvertita dalle dueprincipesse, in casa ci fosse già lapolizia ad aspettarla?

Adesso che non c’era più mododi rimediare, si rendeva conto diessersi gettata, con l’approvazione e

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l’incoraggiamento di quelle altredue incoscienti, in una impresatemeraria e di difficile soluzione.

Era ancora immersa in questipensieri quando il treno entrò nellastazione di Pratile. Vittoria avevagià controllato che gli abiti dellabambina si fossero asciugati el’aveva rivestita.

– Domani dovrai comprarlealmeno altri tre cambi. Se vuoi tifaccio un prestito. Ho da parte isoldi per il motorino.

– Ma no, aspetta! – intervenneValentina. – Ci penso io. Guarderòtra i vestiti vecchi di Roberta. Lamamma non deve averli gettati via.

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Sono sicura che ci sarannomagliette, calze, tutine e mutande abizzeffe. E’ cresciuta così in frettaquella peste che non ha fatto intempo a consumarli, i suoi vestiti dabebè.

– Ti ricordi com’era buffa conquella tutina verde con le scarpegrandi, a punta? Sembrava BilboBaggin – disse Vittoria.

Guardarono Laurentina percercare anche in lei una somiglianzacon qualche personaggio delSignore degli Anelli.

– Beh, visto che è unaprincipessa, lei potrebbe esseredama Galadriel – ridacchiò Vittoria.

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Ma la bambina non aveva niente dielfico, niente di nobile e austero.Era patetica, abbandonata nelsonno tra le braccia della sorellamaggiore. E forse sembrava ancorapiù patetica perché le tre amichenon sapevano come sarebbe stataaccolta ad Alaria.

Scesero dal treno guardandosiattorno con apprensione. Non c’eranessun poliziotto in vista.

Il pullman sarebbe partito solotra mezz’ora, perciò entrarono nelbar della piazza. Non era una mossamolto prudente: qualcuno avrebbepotuto notarle. Fra gli avventori cisarebbe potuto essere qualcuno di

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Dorgo che le conosceva. Ma adaspettare per strada faceva troppofreddo per Laurentina.

Mentre bevevano una Coca-Colacercando di far inghiottire un po’ dilatte alla bambina, a Barbara venneun’idea che le parve formidabile. Ilnonno! Com’è che non ci avevapensato prima? Non avrebbe presola corriera per Alaria, ma quella perDorgo. Avrebbe portato la bambinalassù e ce l’avrebbe lasciata finchéad Alaria le cose non si fosserosistemate per il verso giusto. La ziaElvira stava tutto il giorno a casa enon aveva praticamente niente dafare.

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Si precipitò al telefono a gettoni,fece il numero. Rispose il nonno,felice di sentire la sua voce. Maquando capì quello che Barbaravoleva da lui, si arrabbiò:

– Non ho alcuna intenzione ditoglierti le castagne dal fuoco. Haifatto una cosa molto grave, e adessote ne devi assumere laresponsabilità. L’unica cosa che tiposso promettere è di stare zittofino a domani. Non avvertirò tuopadre e non avvertirò le signoreLaurenti. Devi farlo tu. Ma ticonsiglio di non aspettare.Rimandare non serve a niente, ecorreresti dei guai seri. Anzi, forse li

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stai già correndo. Sai cosa possofare per te? Avvertire quell’amica dituo padre, Augusta. Lei è magistratoe saprà quello che si deve fare.Laurentina sarà anche tua sorella,ma non avevi alcun diritto diportarla via. In un certo senso ècome un rapimento, te ne rendiconto?

Barbara cominciò a spaventarsi.Allora secondo te cosa devo fare?

– Appena arrivi ad Alaria, va’dritta a casa. Io nel frattempocercherò di rintracciare Augusta. Senon ci fossi riuscito, appena rientratuo padre, digli che lo faccia lui.

– Magari sono insieme. Magari

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verranno a prendermi insieme altreno da Milano.

– Sì, e magari ci sarà anche lapolizia. Ma ti rendi conto di quelloche hai fatto? Dammi retta. Appenaarrivi, va’ a casa con la bambina.Alla stazione ferroviaria ad avvertiretuo padre mandaci Valentina oVittoria.

– Tu dici che mi potrebberoarrestare?

– Questo no, sei minorenne.Però potrebbero prendertiLaurentina e metterla in un istitutofinché le zie non se la vengono ariprendere.

– A questo non ci avevo pensato.

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– Perché sei un’incosciente! Fa’come ti ho detto. Va’ a casa. Verso lenove e mezzo ti telefono per saperecome è andata.

Delusa e preoccupata Barbararaggiunse le amiche che stavanosalendo sulla corriera, e le informòdi ciò che aveva detto il nonno.Durante il breve tragitto da Pratilead Alaria, eccitate e spaventate,fecero mille congetture su quelloche le aspettava. L’unica cosa certaera che le due amiche nonavrebbero abbandonato Barbara,che si sarebbero assunte le lororesponsabilità e avrebberoaffrontato unite la tempesta.

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Alla stazione delle corriere nonc’era nessuno. Erano arrivatemezz’ora prima del treno cheavrebbero dovuto prendere aMilano secondo il progettooriginario, perciò avevano unleggero vantaggio.

– Io prendo un taxi e corro acasa con Laurentina. Ho le chiavidisse Barbara. – Voi andate allastazione dei treni. Se c’è mio padre,ditegli. Non so se è meglioanticipargli già qualcosa o aspettareche la veda. Non ditegli niente,tranne che sono a casa e ho unasorpresa per lui.

Pensava che, vista la bella

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giornata, il padre fosse uscito sullago con Augusta e che poi andassedirettamente dal molo alla stazione.

Perciò quando aprì la porta dicasa e sentì delle voci nel soggiorno,le voci del papà e di Augusta, rimasedi sasso. Ormai c’era poco dascegliere. Respirò profondamente e,stringendo forte Laurentina, entrònella stanza esclamando: – Eccomi!–

CAPITOLO QUARTO

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Il papà e Augusta non sembravanomolto meravigliati di vederlaarrivare prima del tempo e carica diquel fardello.

– Ho preparato il divano letto incamera tua – disse il papà. Valla adappoggiare. Ho pensato che stanottesia meglio non lasciarla dormire dasola.

– Vengo ad aiutarti – disseAugusta alzandosi. – Bisognaspogliarla. Le avete dato damangiare in viaggio?

Barbara non capiva niente e sisentiva tremare le gambe. Si erapreparata a fronteggiare un attacco,ad essere aggressiva, a giustificarsi,

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a perorare la causa di Laurentina.Quel modo di fare tranquillo, comese l’arrivo della piccola fosse unacosa scontata la spiazzava. Andò incamera sua con Augusta. Nuovasorpresa: anche loro avevanocomprato un gran pacco dipannolini da gettare!

– Come lo sapevate? – sussurròper non svegliare la piccola.

– Le zie – rispose Augusta avoce bassa. – Avevo mal di testa,così all’ultimo momento abbiamodeciso di non andare in barca e dipassare il pomeriggio a casa. Circaun’ora fa hanno telefonato lesignore Laurenti da Milano. Sono

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meno cretine di quello che tu pensi,Barbara. Hanno capito che non vipoteva essere capitato un incidente.Non a tutte e quattro, così comenon potevate essere state rapite inmassa. La loro portinaia poi hariferito di avervi viste salire su untaxi. Così hanno sospettato che tu tifossi voluta portare via Laurentina,ed hanno telefonato per avvertirci.Anche noi abbiamo pensato a unatua alzata di testa, e siamo riusciti aconvincerle ad aspettare le seiprima di chiamare la polizia. Poi hachiamato tuo nonno da Dorgo e ciha confermato che il loro sospettoera giusto. Adesso le avvertiamo

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subito che siete arrivate sane esalve.

Barbara provò un impulso diribellione. Eppure capiva che eral’unica cosa sensata da fare. Nonpoteva aspettarsi che Olimpia eSelvaggia si rassegnassero allascomparsa della loro principessinasenza muovere un dito. Avrebbedovuto prevederlo prima: ci sarebbestato da combattere su due fronti.

Tornarono in soggiorno. Il papàaveva un’aria enigmatica. Non sicapiva se fosse arrabbiato e quanto.Più che altro sembravadisinteressarsi alla piega cheprendevano gli avvenimenti.

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Dagoberto invece era eccitatissimo.Tremava, guaiva, andava alla portadella stanza dov’era Laurentina eraspava sul legno cercando dientrare.

Augusta telefonò a Milano, allesignore Laurenti. Fu molto calma,cortese e decisa. Sembrava unatelefonata destinata non a dissiparele angosce di un rapimento, masemplicemente a dare informazionifamiliari su un viaggio previsto eprogrammato. Chiese quali erano leabitudini alimentari e notturne diLaurentina e salutò.

– A domani, allora!– Vengono a riprendersela

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domani pomeriggio – annunciò poi.Barbara ci rimase malissimo. Ma

d’altronde cosa poteva aspettarsi?Di avere già vinto la sua battaglia?Era solo all’inizio, e lo sapeva bene.

– Non gliela ridarò. L’ho presaper tenerla con me per sempreannunciò con aria di sfida.

Augusta la guardò pensierosa. –Tu decidi anche per conto deglialtri. – poi si mise a ridere. –Alessio, quella bambina prima didormire deve mangiare una pappadi farina lattea di questa marca, eun omogeneizzato di prugne. Perfavore, fa’ un salto in farmacia acomprarli, compra anche un

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biberon, così intanto Barbara ed ioparliamo.

Il colloquio fu abbastanzasemplice, anche se non di grandesoddisfazione per Barbara.

Prima di tutto si trattava disapere che genere di diritto avevanole due zie su Laurentina. Se c’era unatto scritto in cui i genitoriaffidavano loro la piccola, se erastato il Tribunale dei Minorenni diMilano a nominarle tutrici, oppurese avevano semplicemente presocon sé la bambina senza nessunaformalità legale.

Quest’ultima ipotesi era la piùprobabile, perché non risultava che

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Claudio, che era il parente piùprossimo di Laurentina, avessedovuto firmare alcuna carta dirinuncia.

– Perché Claudio e non io? –protestò Barbara.

– Perché lui è maggiorenne.Secondo la legge è lui il tutorenaturale della sorellina. Se le cosestanno a questo modo non c’èpericolo di nessuna denuncia daparte delle principesse. Altrimenticercheremo di farle ragionare. Infondo, se gli restituiamo la piccola,cos’altro possono pretendere? Dimandarti in prigione per lospavento che gli hai fatto prendere?

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– Ma io non gliela vogliorestituire, Augusta. L’hai vista!Com’è possibile che tu pensi direstituirgliela, a quelle arpie?

– E tu come hai potuto pensaredi imporre a tuo padre, senzanemmeno consultarlo, unapresenza così ingombrante? Tirendi conto di cosa vuol direallevare un bambino piccolo?

– In qualche modo ce la faremo.Anzi, ce la farò. Perché, hai ragionetu, sono d’accordo che il papà nondeve essere coinvolto.

– E come hai intenzione di farecon la scuola?

– Non so. Potrei portare

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Laurentina a un asilo nido. Potreistudiare privatamente e dare gliesami a giugno. Vittoria e Valentinami aiuterebbero.

– Ma non ti rendi conto che seitroppo giovane per unaresponsabilità così grande? Peroccuparsi di Laurentina ci vorrebbeun’adulta.

– Una come Liselotte, la frauleinche avevamo a Milano.

– Ti rendi conto di quanto costauna fraulein e di quanto guadagnatuo padre?

Insomma, sembrava che non cifosse proprio alcuna via d’uscita.

Il papà rincasò con la busta della

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farmacia e Augusta aiutò Barbara adare la cena a Laurentina. Lapiccola era di ottimo umore,sembrava non aver risentito affattodi quel viaggio avventuroso. Ridevaa Barbara. Tendeva le manine e sisporgeva per toccarle la faccia, pertirarle i capelli. Andò a letto sazia,asciutta, profumata di borotalco.Augusta le fece tutto attorno aldivano letto una barricata di cusciniperché non cadesse.

– Vado a letto anch’io. Sonostanca morta – disse Barbara dopoaver telefonato a Vittoria e aValentina per tranquillizzarle.

– Non ti fare delle illusioni

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stanotte – le disse Augustasalutandola con un buffetto sullaguancia. – Domani Laurentinatornerà a Milano con le zie. E’ lasoluzione migliore per tutti. Potraiandare a trovarla quando vorrai.

Il papà continuava a guardareBarbara con uno sguardo strano, masu tutta la faccenda non si eraancora pronunciato.

Appena poggiato il capo sulcuscino Barbara si addormentòimmediatamente di un sonnoprofondissimo. Niente pensiericonfusi, niente ricordi dellagiornata, niente sogni.

Ma nel cuore della notte si

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svegliò di soprassalto, lucidissima,con la certezza che qualcuno fosseentrato nella camera e avesseportato via Laurentina. Si alzò albuio, andò a tentoni verso il divanoletto e si fermò ad ascoltare, pienadi sollievo, il lievissimo respirodella bambina. La sollevò concautela per non svegliarla e la portònel proprio letto. Il resto della nottelo trascorse sveglia, tenendolaabbracciata.

Pensava a tante cose, soprattuttoalla mamma, in un modo in cui nonl’aveva mai pensata prima. Sichiedeva se sarebbe stata infelicevedendo Laurentina in casa delle zie

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come l’aveva vista lei il giornoprima. La mamma quella casa laconosceva. C’era stata molte voltein visita, ma non aveva mai avutouna parola di critica. Era stato unriguardo verso le uniche parenti delmarito, oppure quella casa lepiaceva davvero? Per la prima voltadopo la tragedia Barbara pensò alungo anche a Lorenzo. A come, infondo, si era sforzato di esseregentile con lei. A come non era maiintervenuto a dire la sua quando lamamma la sgridava. Non era colpadi Lorenzo se si era innamorato diuna donna divorziata e madre didue figli. Lui, la sua parte, aveva

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cercato di farla fino in fondo. Certo,la cosa migliore sarebbe stata chequei due non si fossero maiincontrati. Lei adesso vivrebbeancora ad Alaria con la mammacome quattro anni fa. Questospaventoso intervallo di Milano nonci sarebbe mai stato. Ma non cisarebbe stata nemmeno Laurentina,che invece era così calda e teneracontro il suo petto, con quel respiroleggero, e le lunghe ciglia ricurvesulle guance, e le orecchie come dueconchiglie di madreperla rosa.Barbara si rese conto che, daquando Laurentina era nata, quellaera la prima volta che dormivano

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nella stessa camera, per non parlaredi tenerla con sé nel letto.

Così passò la notte e arrivòl’alba. Alle sei Laurentina si svegliòe si mise a fare degli strani versi digola, come dei gargarismi diallegria. Barbara a quel puntomoriva dal sonno, ma si fece forza,si costrinse ad alzarsi, andò incucina e mise a scaldare un biberoncome avevano detto per telefono lezie. Cambiò la sorella e le dette damangiare. Si era svegliato ancheDagoberto, sul balcone, e avevaraspato contro la porta per entrare.Barbara si sentiva un po’ colpevole.La sera prima si era completamente

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dimenticata di avere un cane e senon ci avesse pensato il papà.

Mentre stava seduta sul lettostralunata, con i capelli arruffati egli occhi gonfi di sonno, la piccola inbraccio che poppava e il cane aipiedi, fu invasa da un’ondata discoraggiamento. Ce l’avrebbe fattatutti i giorni ad alzarsi così presto ea sistemare tutto prima di andare ascuola? E, tanto per cominciare,quel giorno a scuola ci sarebbeandata o no? A chi avrebbe lasciatoLaurentina? Non poteva certopretendere che il papà stesse a casadal lavoro. Ma anche per lei illunedì era un giorno di materie

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importanti.Alle sette e mezzo si alzò il papà

e mise la testa dentro alla camera.– Oggi puoi restare a casa – le

disse. Questo però risolveva ilproblema solo momentaneamente.E domani? E gli altri giorni avenire?

Vestì Laurentina e la mise asedere sul tappeto. Che fine avevafatto il passeggino? Quando sierano salutate le pareva che l’avesseal braccio Vittoria. Dovevaricordarsi di richiederglielo. Cosaavrebbe fatto tutta la mattina incasa senza poter portare la piccola aspasso?

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Alle otto meno un quarto unascampanellata vigorosa: eraAugusta. Allora come è andatastanotte? Non stare lì a ciondolare,Barbara. Vestiti, prepara i tuoi libri.Con Laurentina stamane rimangoio. Oggi non ho udienze e possolavorare in casa.

Alle otto e dieci suonò Vittoria.Come al solito veniva a prendereBarbara per andare a scuolainsieme. Portava il passegginopieghevole. Era curiosa di comefossero andate le cose, ma nonchiese niente.

Barbara finì di prepararsi in unlampo e uscì frastornata, senza aver

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fatto colazione. Adesso i suoipensieri si erano già proiettati alprimo pomeriggio, quandosarebbero arrivate, comepreannunciato, le principesseLaurenti.

Bisognava prepararsi allabattaglia.

CAPITOLO QUINTO

Invece non ci fu nessuna battaglia.Barbara tornò da scuola piena di

apprensione e trovò Laurentina di

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buonumore e Augusta cheapparecchiava la tavola. “Sesposasse il papà sarebbe tuttorisolto” le venne da pensare. Manon voleva che il papà si sposasse.Soprattutto non per risolvere unproblema che era suo, di Barbara. Ecome pretendere, poi, che Augustasi facesse carico di un’interafamigliola, il cui membro piùgiovane non era nemmeno figlio delsuo innamorato? Erano solofantasticherie.

Il pranzo comunque era ottimo;il papà sembrava di buonumore,non infastidito dalla novità e dallapresenza di Laurentina.

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Alle due e mezzo arrivò lasorpresa. Squillò il citofono, ma nonerano le principesse-cugine, chesarebbero dovute arrivare verso lequattro. Era il fattorino di uncorriere con un grosso pacco e unalettera per Barbara da Milano.

La lettera diceva così:

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Cara Barbara,è inutile dirti che ieri, dopo aver

scoperto che avevi portato viaLaurentina, ci siamo preoccupate earrabbiate, anche perché temevamoche durante il viaggio alla piccolapotesse capitare qualcosa di male,che la lasciassi cadere, o le dessi damangiare qualcosa di sbagliato, lefacessi prendere freddo o qualcosadel genere.

Il fatto che tu sia riuscita aportarla ad Alaria senza problemi ciha spinto a riflettere e a interrogarcisulla sorte della tua sorellina. Certo,avremmo preferito che tu non tifossi comportata come una ladra e

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che ci avessi parlato apertamentedel tuo desiderio di avereLaurentina con te. Ma possiamocapirti, considerata la tua età e lasoggezione che hai sempre avuto dinoi anche quando era viva la tuapovera mamma. Sappi che dopo unanotte di riflessioni non siamo piùarrabbiate con te e che tiperdoniamo per lo spavento che cihai fatto prendere.

Abbiamo parlato molto fra di noie siamo arrivate alla conclusioneche in definitiva, nonostante ilmodo un po’ irruente, la decisioneche tu hai preso è quella giusta. Io emia sorella Olimpia non siamo

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adatte ad allevare una bambina cosìpiccola. Siamo troppo anziane,siamo stanche, e le nostrecondizioni finanziarie, come saprai,non sono delle più fiorenti. E’ moltopiù giusto che Laurentina crescacon te, che sei giovane e che in findei conti sei sua sorella. Perciòabbiamo deciso di non venire adAlaria a riprendercela.

Te la lasciamo. Verremo atrovarla o ce la porterai tu a Milanopiù avanti. La sua casa d’ora in poinon sarà più la nostra, ma la tua.Telefonaci per qualsiasi problemache ti si possa presentare. Nel paccotroverai tutti gli abiti di Laurentina,

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le sue coperte, i suoi asciugamani, isuoi biberon, insomma, tutto quelloche le può servire. Nella cartellettatroverai il certificato di nascita equelli di vaccinazione che ci avevalasciato Liselotte. Se ti servonoanche i mobili della sua cameretta ese hai il posto dove metterli,telefonaci e te li spediremo.

Ci costa molto separarci dallanostra principessina, ma lofacciamo volentieri perchésappiamo che è per il suo bene.Saluta tanto da parte nostra il tuocaro papà che ieri al telefono si ècomportato come un vero signore.

Mia sorella Olimpia condivide

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tutto quanto è scritto in questalettera e unisce i suoi più affettuosisaluti a te e alla cara Laurentina.

Un abbraccio cordiale anche daparte mia.

Selvaggia Laurenti di SanProtaso

Barbara lesse la lettera a voce

alta, sempre più sconcertata manmano che appariva evidentel’intenzione delle due signore. Daun lato era felice che la storiaandasse a finire in quel modo, senzanessuna contesa per il possesso diLaurentina. Dall’altro lato lesembrava incredibile che le due zie

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rinunciassero così, dall’oggi aldomani, senza la minimaopposizione. Le dovevano voleredavvero poco bene, poverapiccolina! E poi era ancheincredibile che disponessero cosìanche del papà, senza consultarlo,senza chiedere la sua approvazione.Lo sapevano benissimo che Barbaraaveva solo quattordici anni e chequando scrivevano: “E’ giusto cheviva con te. La sua casa sarà la tua”,intendevano “con tuo padre” e “lacasa di tuo padre”.

Evidentemente le due vecchiebefane si erano stancate della loroprincipessina e non aspettavano che

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l’occasione propizia per disfarsenein modo elegante, senza fare bruttafigura davanti alle loroaristocratiche conoscenze.

Forse all’inizio avevano speratoche insieme a Laurentina in casaloro sarebbe arrivato un bel po’ didenaro ed erano rimaste deluse.Forse avevano fatto conto di potertenere per sempre una governante enon avevano né la voglia né la forzadi occuparsi personalmente dellapiccola.

Anche Augusta era rimastasenza parole. – Non ho mai visto unmodo più disinvolto per scaricarsidi una responsabilità.

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Il papà ripiegò lentamente lalettera e cercò lo sguardo diBarbara. E’ tutta tua. Sei contenta?

– Sì, sono contenta – risposeBarbara esitante. – E tu?

Le erano venuteimprovvisamente, in un attimo,mille paure. Che il papà rifiutassel’offerta delle signore Laurenti; chepensasse di mettere Laurentina inun istituto o addirittura di darla inadozione a una famigliasconosciuta. La sua fantasia, comeal solito, si era messa a galoppareverso le soluzioni più romanzesche.Era contenta, ma era ancheterrorizzata. – E tu?

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– Io, Barbara, so quelli che sonoi miei doveri nei tuoi confronti everso Claudio. E tra i miei doveri c’èquello di non farvi soffrireinutilmente separandovi dallavostra sorellina. Questo ciprocurerà una quantità di problemi;ne abbiamo parlato con Augusta.Ma devo confessarti che ieri,quando ci hanno telefonato del tuocolpo di testa, mi sono levato unpeso dallo stomaco. Avevo pauraper te, Barbara. Ero preoccupato.Temevo che la morte della mammaper te fosse stato un colpo così forteda impedirti ogni altra capacità divolere bene. Ora te lo posso dire. Il

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tuo disinteresse per Laurentina misembrava poco normale, quasimostruoso. Mi chiedevo se sarebbedurato per sempre, e se tu saresticresciuta bloccata nell’affetto,egoista, un cuore arido. Non era date. Non osavo intervenire, masperavo che succedesse qualcosa asbloccare la situazione. E intantoavevo paura.

Barbara respirò profondamente.Allora sei contento che abbia rapitoLaurentina. Sei contento di tenerla?

– Contento. Mi vedi, non faccio isalti di gioia. So tutti i problemi chenasceranno giorno per giorno,soprattutto perché non abbiamo

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abbastanza denaro da permetterciuna bambinaia. Mi rendo contoperò che non c’è altra soluzione. Sevoglio tenerti con me, e questa è lacosa che mi preme di più, lo sai,devo tenere anche tua sorella eprendermene cura come se fosseanche lei figlia mia.

Laurentina stava in braccio adAugusta e sembrava seguire ildiscorso con grande attenzione.

Barbara non sapeva cosa dire.Era felice, ma anche piena diimbarazzo per le cose che il papàaveva detto. Non lo aveva maisentito parlare così apertamente di“voler bene” e di sentimenti, prima

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d’allora. In un libro questo sarebbestato il momento di gettarsi tra lesue braccia piangendo, oppure dimettersi a fare le capriole, dispalancare la finestra per gridare atutti la sua gioia. Lei invece nonsapeva cosa fare.

Si mise a disfare nervosamenteil pacco che era arrivato con lalettera e ad allineare sul tavolo tuttele cose di Laurentina. Per fortunache Augusta era lì. Adessobisognava mettersi a fareprogrammi, organizzarsi per lanuova vita quotidiana.

– Ci sono tutti i biberon e letazze e gli scaldapappa, mi sembra

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fu tutto quello che riuscì a diredopo aver ripiegato la carta delpacco. Ma Laurentina aveva unservizio di posate d’argento, me loricordo benissimo. E anche unbicchierino d’argento dorato.Liselotte brontolava sempre perchénon poteva metterli in lavastoviglie.Devo telefonare alle signoreLaurenti perché ce li mandino?

– Ma no, lascia perdere – disse ilpapà. – Cosa vuoi che ce ne importidelle posate d’argento?

CAPITOLO SESTO

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Dorgo, ventisette giugno. La ziaElvira giù in cucina staapparecchiando la tavola per lamerenda che verrà offerta a tutti ibambini del paese, indigeni evilleggianti, per festeggiare il primocompleanno di Laurentina.

La festeggiata è ancora su incamera che dorme, ma la festa difuori è cominciata già da un paiod’ore. Il nonno ha organizzato unacaccia al tesoro per trovare il qualegrandi e piccoli si sono scatenati,correndo dal bar di Lisetta al piccolocimitero, dal portico del Municipioal torrente, dalle stalle dei Merlottial Palazzo della Luna. Anche

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Vittoria e Valentina partecipano allacaccia, con la tribù dei fratelli ecugini Intimari e con Wolf. Barbarano. Col papà, col nonno, la signoraPrada e don Pierino, Barbara faparte della giuria, che aspetta igiocatori nello spiazzo della chiesa,dietro un banco pieno di premi.

Ha fatto caldo per tutto il giorno,ma ora – sono le cinque meno dieci– soffia un venticello leggero edanche le signore in villeggiaturaosano mettere il naso fuori di casa.

Su, nella ex camera di Barbara incasa del nonno, Liselotte hasvegliato Laurentina, l’ha lavata ecambiata e le sta infilando l’abitino

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di pizzo bianco che Claudio le hamandato dall’America. Barbara e lesue amiche sono arrivate a Dorgosoltanto da una settimana, dopo lachiusura della scuola, ma lafraulein, la bambina e Dagobertosono ospiti del nonno fin dai primidel mese e Laurentina ha già unabella abbronzatura dorata.

E’ incredibile come tutti in paesesi siano affezionati alla bambina. Ilsindaco ha persino deciso chestanotte ci saranno i fuochiartificiali. Si giustifica scherzando.Dice che Laurentina è la primabambina nata prematura a causadelle famose trecentodiciassette

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curve e che quindi il paese le deveun indennizzo. La luce dei fuochiarriverà fino a Pratile, finoall’ospedale dove è nata la piccola.

Wolf, che l’anno scorso hatradito Dorgo per il lago di Garda,quest’anno è tornato agli antichiamori. E non solo nel senso delpaese. Sembra anche nuovamentepreso da Vittoria. L’ha aspettata conansia, e da quando è arrivata non lesi è più staccato dal fianco. E’cresciuto anche lui. Ormai ha ilfisico di un uomo, ha quasivent’anni, ma i suoi occhi sonoancora teneri e sognanti, propriocome deve averli un suonatore di

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violino. Vittoria però è moltoimbarazzata, perché negli ultimimesi dell’anno scolastico, giù adAlaria, ha allacciato un’amiciziastrettissima con un compagno diclasse, un certo Alessandro, e anchese fra loro due non c’è ancora statauna vera e propria dichiarazioned’amore, adesso lei ad accettarel’antica assiduità di Wolf si sente unpo’ traditrice.

Wolf durante la merendasuonerà il violino per gli ospiti, eBarbara lo accompagnerà alpianoforte.

Sembra veramente una giornataperfetta.

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Sembra. Se si riesce a nonpensare che la mamma è morta soloda quattro mesi, e che non torneràpiù a festeggiare i compleanni diLaurentina. La mamma, che solo unanno prima se ne andava in giroallegra per il paese e che si erapremuta una mano sulla panciadicendo: “Buono, quel brasato,però.”

Se si riesce a non pensare cheBarbara era così arrabbiata con lei, eche a Natale aveva deciso dilasciarla per sempre, che l’avevaoffesa e che la morte era arrivata aprendersela prima che ci fosse iltempo e il modo di rappacificarsi.

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E’ una bellissima giornata eLiselotte è di ottimo umore. Lepiace la nuova sistemazione.Soprattutto ha una grande simpatiaper il nonno, che la ricambia.

– Avete vinto un terno al lotto aritrovare questa ragazza – dice ilvecchio signor Lulli.

Anche Barbara e suo padre sonoconvinti di essere stati fortunati.Prima di tutto perché è stataritrovata la polizzadell’assicurazione.

Avevano preso in casa

Laurentina da un mese e mezzo e sibarcamenavano alla bell’e meglio

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con babysitter, donne a ore e lasignora Prada che tutti i pomeriggiportava la piccola due ore al parcocon i suoi bambini. Era una vitafaticosa, soprattutto per Barbara,anche se la salute della bambina siera completamente ristabilita. Edecco che era arrivata una lettera daparte dei soci di Lorenzo.

Diceva che sgombrando l’ufficiodell’ingegner Laurenti le segretarieavevano trovato una busta che erascivolata dietro a un cassetto dellascrivania e che non sarebbe maisaltata fuori se non durante untrasloco. Dentro alla busta c’era ungruppo di fogli stampati:

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un’assicurazione sulla vita cheLorenzo aveva stipulato alla nascitadi Laurentina. Evidentemente nonera uno sconsiderato come logiudicavano le cugine, e investendotutto il suo denaro in un’impresarischiosa, aveva però cercato dimettere comunque al sicuro lafamiglia. L’assicurazione erapiuttosto alta. Nel caso di morte diLorenzo la compagnia avrebbepagato quasi un miliardo.“Beneficiari, in parti uguali, miafiglia Laurentina, mia moglieMarcella Navarra e i miei figliastriBarbara e Claudio Lulli.”

Quando Barbara lo aveva saputo,

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le era venuto un nodo alla gola. Nonper il denaro, ma per il pensiero.Lorenzo la considerava sua figliaallo stesso identico modo della suaprincipessina. Ecco perché le avevaregalato il cane. E lei che era statacosì sgarbata, così ostile, così pocoriconoscente! Ma come potevasaperlo? Lorenzo non pensava dimorire così presto e non avevaparlato a nessunodell’assicurazione. Forse allamamma, chissà. Adesso nessunoera più in grado di saperlo.

Una volta di più Barbara fusopraffatta dal rimorso e le venneda pensare cosa avrebbe dato per

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poter tornare indietro. Ma ilpensiero era come sempreaccompagnato dall’amaro di unasorda resistenza. Li avrebbe volutiancora vivi entrambi, ma dirinunciare alla sua condizionepresente questo non riusciva adaugurarselo.

Trovata la polizzad’assicurazione, continuava lalettera, i due soci, che erano statiamici affezionati di Lorenzo ederano preoccupati per il futuro diLaurentina, si erano dati da fare perfar liquidare il premio dallacompagnia di assicurazione eavevano cercato di rintracciare gli

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eredi, in particolare chi fosse iltutore di Laurentina.

Fortunatamente, poiché Claudiosarebbe dovuto restare in Americaancora un paio d’anni, Augustaaveva appena ottenuto dalTribunale dei Minorenni che tutoredi Laurentina fosse nominato ilpadre di Barbara. Appena in tempo,prima che le cugine principesse,saputo del denaro, pensassero difarsi nominare loro. Così chequando si presentarono a richiedereLaurentina, sconfessando la letterae sostenendo che avevano ceduto labambina soltanto per un breveperiodo di vacanza sul lago, il signor

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Lulli, con gran gioia di Barbara, poténegargliela rivendicando i proprititoli legali.

Le zie non si vergognavano dirivolere Laurentina, adesso che eraaccompagnata da un bel malloppodi soldi. Sembrava loro la cosa piùnaturale del mondo.

– Potremmo trasferirci in unacasa più grande. Potremmoassumere di nuovo una bambinaiadiplomata. Con noi Laurentinacrescerà molto meglio che in quellababilonia di casa vostra. Lepotremmo dare l’educazioneraffinata che compete al suo nome eal suo titolo. In fondo lei si chiama

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Laurenti come noi. Cosa ci sta a farein una famiglia dove tutti sichiamano Lulli?

Non ottennero niente, ma fuquesto loro sfogo a suggerire aBarbara l’idea di richiamareLiselotte.

Tutto quel denaro non avevacambiato la loro vita. Soltanto,Claudio aveva smesso di lavorarecome cameriere alla mensa delcollege per mantenersi e potevastudiare senza distrazioni. Lui, vistoche era maggiorenne, era entrato inpossesso della sua parte di denaro,mentre quello di Laurentina e diBarbara doveva amministrarlo il

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papà, che lo aveva messo in banca enon lo voleva toccare.

– Vi servirà quando saretegrandi.

Lui continuava ad andare allavoro tutti i giorni, e la vita in casanon era cambiata in nulla. Ma eraassurdo, pensava Barbara, che ilpapà continuasse a fare tutti queglistraordinari, ad affannarsi per ilpensiero dell’affitto, a non potersicomprare la barca a vela chedesiderava tanto, solo perché eraorgoglioso e non voleva usare i lorodenari.

Barbara non era mai stata unasso in matematica, ma quella volta

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si fece aiutare da Vittoria e daAlessandro. Fece mille conti,rimuginò sui numeri per unasettimana, poi andò dal padre colsuo foglietto da usare comepromemoria.

– Con i miei soldi possiamocomprare la casa – disse. – Se haipaura di defraudarmi, falla intestarea me. Io sono contenta. E poi nondevi preoccuparti per il futuro diLaurentina. Pensa a quanto sonopiù grande di lei! Quando avràquattordici anni io ne avròventisette, lavorerò e potròmantenerla se tu non ce la farai più.Per non parlare di Claudio che

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potrebbe essere suo padre e che hadetto che ci penserà lui, appena avràfinito di studiare e troverà unlavoro. Perciò adesso è assurdopreoccuparsi per il domani e tenereda parte tutti quei soldi senzatoccarli. Pensa a come sarebbe piùfacile la vita per tutti se avessimouna bambinaia che si occupasse diLaurentina giorno e notte e che citogliesse ogni pensiero. Tu mi diraiche una bambinaia diplomata costaun sacco di soldi e che non ce lapossiamo permettere. Ma chi l’hadetto? Ho fatto i conti e ho visto chece la possiamo permetterebenissimo. Usiamo quello che resta

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dei miei, se non vuoi toccare i soldidi Laurentina. Io preferisco viverepiù tranquilla adesso, senza tuttoquesto correre a dare il cambio allebabysitter, che non ritrovarmi conun mucchio di denaro da grande.

Il ragionamento non faceva unagrinza, ma il papà aveva un’ultimaobiezione.

– Vuoi che ci mettiamo in casauna sconosciuta, un’estranea? E sepoi è un’irresponsabile, o non hagarbo con la bambina, o èun’impicciona. Considera che vivràcon noi ogni momento dellagiornata. E a Laurentina piacerà? E’una bella incognita.

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– Ho pensato anche a questo,papà. Potremmo richiamareLiselotte. Laurentina la conosce daquando è nata e le vuole un granbene. E’ in gamba, Liselotte. Lo saicom’era di gusti difficili la mamma.Se l’ha tenuta per tutti quei mesi ele ha dato fiducia, vuol dire che èuna persona onesta, educata, di cuici si può fidare, per la bambina. Lacamera da letto in più ce l’abbiamo.So anche quanto la pagava lamamma, il suo stipendio, ed hocalcolato che ce la possiamopermettere almeno per dieci anni.

Davanti a questo discorso cosapoteva fare il papà se non chiedere

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di incontrare la fraulein?Liselotte fece un’ottima

impressione sia a lui che adAugusta, chiamata per dare la suaconsulenza, e Dagoberto impazzì digioia nel rivederla.

Quanto a Barbara, dopo tuttoquello che era successo, e dopo ilmodo in cui si era comportataLiselotte al momento della tragedia,il “tradimento” e la lettura del diariosembravano lontani e sfocati ricordidi capricci infantili.

Per fortuna in quei mesiLiselotte era rimasta a Monaco, acasa dei genitori a riposare, e nonaveva preso un nuovo lavoro. Era

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libera, era davvero affezionata aLaurentina, la vita di provincia nonle dispiaceva, e così non fece faticaad accettare l’offerta del signorLulli.

Le due principesse Laurenti sioffesero terribilmente quandoseppero che quella “scansafatiche”,quella “insolente”, era statarichiamata ad occuparsi della loroprincipessina, ma non ci poteronofare nulla.

L’arrivo di Liselotte riportòordine e serenità in casa. Lafraulein andava tanto d’accordo colpapà che qualche volta Barbara sisorprendeva a pensare: “E se si

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sposassero?”Ma il papà continuava a

frequentare sempre piùassiduamente Augusta, ed era piùprobabile che finisse per sposarsicon lei.

Così adesso che sono tornate le

vacanze e che tutta la famiglia si èriunita a Dorgo (Claudio hatelefonato che arriverà tra unasettimana) Valentina potrebbecitare il suo amatissimoShakespeare e dire: “Tutto è benequel che finisce bene”.

Ma Barbara non puòdimenticare la mamma. Non può

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dimenticare quel discorso rimastoaperto. “Vorrei che mi spiegassi.Vorrei capire. Dopo ne parliamo.”Dopo quando? Non ci sarà piùl’occasione di spiegare. L’ha persa,quell’occasione, e non può liberarsidal suo senso di colpa.

Avvelenata da questo pensieronon riesce a godersi più niente diquello che un tempo le piacevatanto. Ha ancora dei momenti diallegria, questo non se lo puòimpedire. Ma subito dopo se nepente e pensa: “La mamma nonpotrà più godere di niente”.

Ha studiato, a scuola, una poesiadi Leopardi intitolata Le Ricordanze

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e non può ripensare a quei versisenza che le si riempiano gli occhidi lacrime. Li riferisce alla mamma:“Passasti, ad altri il passar per laterra oggi è sortito e l’abitar questiodorati colli. Se a feste, ancotalvolta, se a radunanze io movo,infra me stesso dico: ”Nerina or piùnon gode, i campi, l’aria non mira“.”

Don Pierino è venuto a trovarlaun paio di volte. A febbraio, subitodopo la tragedia, e quest’estate,dopo averla vista piangeredisperatamente in chiesa, al suonodell’organo. Ogni volta si è sedutocon lei nel salottino della zia Elviraed ha cercato di consolarla

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parlandole del Paradiso, dellaResurrezione e della speranza, anzidella certezza di rincontrare ungiorno la mamma, “di là”.

Barbara lo ha lasciato parlare.Don Pierino le è simpatico: sembracosì preoccupato per lei, così pienodi buone intenzioni. Fra l’altro nonha fatto alcun cenno al problemadel divorzio e del secondomatrimonio della mamma, che arigor di logica dovrebbero, se nonchiuderle, renderle difficilel’accesso alle porte del Paradiso.Barbara sa apprezzare questaampiezza di vedute. Don Pierino harisolto a modo suo il problema

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dicendo: – Una mamma che havoluto bene ai suoi figli va semprein Paradiso, e da lassù li protegge,fino al momento in cui laraggiungeranno.

Però. Barbara non è unacompleta miscredente, anche se, perinfluenza delle idee del papà, lapratica religiosa non ha mai avutogran parte nella sua vita. Ma adessoquesta storia le sembra soltantouna bella favola, e fra l’altro, anchese ne fosse certa, non l’aiuterebbeaffatto a rassegnarsi. Come puòaiutarla l’idea che fra chissà quantianni, settanta, ottanta, diventataormai vecchia, rivedrà lo spirito,

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l’anima che un’eternità prima erastata sua madre?

Lei ne ha bisogno qui, adesso.Ha bisogno di parlarle subito, discontrarsi con lei, di accusarla, dispiegarle, di chiederle perdono. Neha bisogno adesso che ha quindicianni e che non sa cosa farne di tuttala vita che le resta, se non c’è lamamma con cui confrontarsi nelbene e nel male, nelle coccole enella ribellione. Come farà acrescere, a diventare una donna?Come farà a prendersi cura, adessere una guida per Laurentina?

Non ha neppure una tomba doveandare a piangere. Nei suoi pensieri

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ha deciso che la mamma è sepoltasulla riva del ruscello, nei Giardinidi Allah. Adesso preferisce andarcida sola, senza le due inseparabili.Tutt’al più porta con sé Dagoberto,che, come se capisse, la seguetranquillamente senza correre,senza abbaiare. Barbara si siede suun masso e il cane le poggia il musosulle ginocchia. Stanno là zitti aricordare e mille pensieri passanonell’aria.

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EPILOGO

Poi un giorno, all’improvviso, comein un film o in un romanzo, arrivòuna telefonata intercontinentale.

Era una giornata come tutte lealtre. Stavano cenando. Laurentinaaveva già mangiato, ma sedeva atavola con loro, issata sulseggiolone. Squillò il telefono. Eanche questa era una cosa normale,a quell’ora. Potevano essere Vittoriao Valentina per un’ultima

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consulenza sui compiti di domani,oppure Augusta. Oppure quel belragazzo bruno, Gabriele, con cuiLiselotte usciva da un paio disettimane. Ma il papà avvertìqualcosa di diverso nello squillo edisse: Dev’essere un’interurbana.

Fu Liselotte ad alzarsi perandare a rispondere. Il telefono eralì in cucina. La sentirono salutaredisinvolta, poi esitare, balbettare.Barbara poté vedere una vampata dirossore che le saliva in un attimodal collo alla fronte. Poi, altrettantorapidamente, Liselotte sbiancò, siappoggiò al mobile, cercò con lamano la spalliera della sedia.

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– Come? – ripeteva. – Dove?Non capisco. Ma dove si trova? Daquanto tempo? – Poi disse: – Unattimo, prego, le passo il signorLulli. – E fece cenno al papà cheandasse a rispondere al telefonodallo studio e che chiudesse laporta.

Barbara, che fino a quelmomento aveva creduto che latelefonata venisse dalla Germania eche riguardasse la famiglia diLiselotte, aveva seguito laconversazione con una leggeraansietà. Ma adesso, vedendo cheinvece riguardava il padre, cominciòa sentirsi agitata, il cuore prese a

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batterle velocemente, le si accorciòil respiro. Cosa poteva esseresuccesso di così terribile? Eranotutti là al sicuro, nella cucina caldae accogliente. Tutti? Tutti no.

– Claudio! – esclamò piena diangoscia. Liselotte, ancorapallidissima, fece di no con la testa.– Chi allora? – Ma la fraulein laguardava smarrita e non riusciva (onon voleva?) a parlare. Si alzò, e conmovimenti automatici preseLaurentina per portarla a letto. –Aspetta. Rimani finché non torna ilpapà – la supplicò Barbara, chesentiva il bisogno di qualcosa,qualcuno a cui aggrapparsi.

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Il papà tornò con un’espressionegrave sul volto. Ma l’emozione chegli faceva tremare le labbra nonsembrava dolore, angoscia,disperazione. Sembrava sconcerto,incredulità. Sembrava la reazione auna sorpresa troppo grande,qualcosa di assolutamenteimprevisto che sconvolge dallefondamenta l’ordine della vita e deipensieri.

– Era l’ospedale civico diKarima, nel Sudan – fu tutto quelloche riuscì a dire a mo’ dispiegazione. E poi: – Quanti soldiliquidi abbiamo in casa? Devocorrere immediatamente a Milano e

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cercare di prendere il primo aereoper Khartum.

All’ospedale civico di Karima –Barbara questo lo avrebbe saputosolo due giorni dopo – c’era,ricoverata da alcuni mesi, unadonna bianca che aveva perduto lamemoria.

Era rimasta vittima di unterribile incidente, coinvolta, forseinconsapevolmente, in uno deimille episodi di guerriglia chetravagliavano il paese. Viaggiavacon alcuni passeggeri indigeni su unpullman sgangherato che avevaappena passato la frontieraegiziana, quando il veicolo era stato

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assalito da un gruppo di ribelli.C’era stata una sparatoria, poi gliaggressori si erano dati alla fugadopo essersi impadroniti dei bagaglidei viaggiatori, compresa la borsettadella donna che conteneva tutti isuoi soldi e i suoi documenti.

Colpita da un proiettile alla testala poveretta era stata trasportata alpiù vicino ospedale, quello diKarima appunto, dove i medicil’avevano sottoposta a unadelicatissima operazione perestrarle il proiettile dal cranio.L’operazione sembrava riuscitacompletamente, ma la donna, cheaveva anche diverse fratture alle

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braccia, alle gambe e al bacino,aveva perso ogni consapevolezzadella propria identità. Era fragile,bionda, graziosa, apparentementefra i trentacinque e i quarant’anni.Pronunciava a fatica qualche parolad’italiano e di francese, masembrava capire anche il tedesco.

Nonostante le difficoltà in cui sitrovava la regione per lo stato diguerriglia, era stata fatta qualchericerca, ma le autorità locali nonerano riuscite a scoprire niente sudi lei, neppure se fosse salita sulpullman in Egitto o in una dellemolte tappe in territorio sudanese.L’unica cosa certa era la sua origine

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europea.I medici sudanesi l’avevano

trattenuta in ospedale anche dopoche le sue ferite si eranorimarginate e le sue fratture sierano saldate, perché non sapevanodove mandarla e perché il suo statodi confusione mentale non lepermetteva di andarsene da sola peril paese.

Ogni tanto facevano dei tentativiper vedere se un lento lavoro direminiscenza o un forte traumaemotivo potessero restituirle quellamemoria la cui perdita ormai non sipoteva più imputare ad alcunacausa organica.

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Finalmente, dopo sette mesi,una mattina la sconosciutaindicando la propria immagineriflessa nel piccolo specchio grazieal quale faceva toeletta, aveva detto:– Marcella.

Medici e infermiere le si eranoassiepati attorno per approfittaredel momento, per impedire che lacortina dell’oblio, squarciata per unattimo, si richiudesse di nuovo.Stimolata dalle domande la donnaaveva detto: Marcella Navarra.Marcella Lulli. Claudio, Barbara,Alessio.

Un medico negro scriveva ognicosa nel suo taccuino e fu per

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questo che in seguito si poté saperequali erano state le prime paroledella mamma dopo un così lungoperiodo di oblio.

Perché era proprio lei, lamamma, che non era salitasull’aereo ed era finita su quelpullman per una serie incredibile diavvenimenti che avrebbe raccontatoin seguito, una volta ricongiunta aifamiliari.

Quel giorno la sua memoria sistava ancora risvegliandolentamente e non tutto le erachiaro, soprattutto degli ultimiavvenimenti che l’avevano portatain ospedale. Ricordava le cose

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lontane. Ricordava di essere sposatacon Alessio Lulli, di avere due figli edi vivere ad Alaria, in Italia. Ildivorzio, il secondo matrimonio,Laurentina, erano ancora sepoltinella nebbia che le riempiva lamente.

Ma un nome, un cognome, unacittà e un paese dell’Europa eranoindizi sufficienti perché la direzionedell’ospedale telefonasse alconsolato italiano di Khartum, eperché il console rintracciassetelefonicamente la famiglia diAlessio Lulli.

Si può immaginare con qualeanimo il padre di Barbara compisse

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il volo fino alla capitale del Sudan epoi il tragitto in camionettafuoristrada fino a Karima. Nella suamente si affollavano mille pensieri.Sapere che la moglie era viva dopoaverla creduta morta per sette mesiera bello e terribile. Non volevailludersi ancora. Cercava di pensarea un equivoco, che non si trattassedi lei, ma di un’altra donna aconoscenza dei loro nomi. Però,come poteva essere accadutoquesto?

Finalmente arrivò, corseall’ospedale. La smemorata eraproprio Marcella. Quando lo vide sisciolse in lacrime. In quei due

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giorni aveva ricordato tutto, anchegli avvenimenti che avevanopreceduto l’incidente. Dal consolatole avevano mandato i giornaliitaliani di quella settimana difebbraio, così aveva saputodell’incendio dell’aereo, della mortedi Lorenzo e della sua mortepresunta. Era disperata. Ma eraviva, e pensava ai tre figli chel’aspettavano a casa.

Poiché le sue condizioni disalute ormai le permettevano diviaggiare e poiché Alessio avevaportato vecchie foto e antichidocumenti che ne permisero senzaombra di dubbio l’identificazione,

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quel giorno stesso andò con l’exmarito a Khartum e si imbarcò suun aereo diretto a Milano.

Raccontò che quel diciottofebbraio, all’aeroporto del Cairo,dopo aver telefonato a Barbara cheandava tutto bene, aveva avuto conLorenzo un tremendo litigio eproprio cinque minuti prima disalire sull’aereo per Città del Capo,sul quale era già stata registrata,aveva deciso di non continuare ilviaggio e di tornarsene in Italia.

Per quel giorno però non c’eranopiù aerei per Milano, e così avevadeciso di andarsene a passare lanotte in un albergo in città. Era

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andata nello spiazzo buio dovesostavano i pullman e, convinta disalire sulla navetta che collegava ilcentro cittadino con l’aeroporto, erasalita invece per sbaglio sulpullman sudanese. Si eraaddormentata, e al risveglio si eraaccorta che erano passate alcuneore, che non erano arrivati al Cairo,ma viaggiavano in aperta campagnalungo il corso del Nilo. Forseavevano già passato la frontiera.Aveva cercato di spiegare il suoerrore, di far fermare il veicolo, maa bordo nessuno la capiva. Cosìaveva dovuto continuare quellunghissimo viaggio terrificante. Poi

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ci fu l’assalto dei guerriglieri. Ilresto, fino al momento del risveglioin ospedale, era buio.

Il papà non la portò subito acasa, ma in una clinica dove latrattennero qualche giorno per farletutti gli esami necessari a uncontrollo completo della sua salutee dove uno psichiatra cercò diaiutarla a superare lo shock diquella terribile avventura.

Intanto i due figli maggiorierano stati avvertiti delritrovamento quasi miracoloso.Claudio tornò dall’America e,sopraffatto dall’emozione, disse chenon sarebbe più ripartito. Avrebbe

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cambiato indirizzo di studi esarebbe rimasto ad Alaria.

Barbara. Descrivere quello cheprovò Barbara nel riabbracciare lamamma è quasi impossibile. Sisentiva leggera, le pareva dicamminare a due metri dal suolo,era felice. Finalmente ogni equivocopoteva essere chiarito. Finalmentepoteva chiedere scusa alla mammaper tutta la sua cattiveria ed esserneperdonata. La mamma poi erafierissima di lei per come si erapresa cura di Laurentina. Eracontenta che l’avesse strappata aquelle due vecchie streghe. Eraorgogliosa della sua figlia maggiore,

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che si era assunta spontaneamentela responsabilità della sorellinasenza che nessun grande glielochiedesse, e al racconto del“rapimento” rideva divertita.

La mamma naturalmente eratriste per la morte di Lorenzo. Illoro litigio in fondo, a guardarlodopo tante tragedie, non era poistato così grave.

Laurentina non l’avevariconosciuta; la guardava con ladiffidenza riservata agli estranei,contraeva il visetto in una smorfiadi paura e cercava con lo sguardo ilsoccorso di Barbara o di Liselotte.

Col passare del tempo cominciò

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a sciogliersi. Anche la mamma colpassare del tempo cominciò adessere meno triste. Il suo rancoreverso il papà sembrava esserescomparso. Lo trattava gentilmente,gli chiedeva consiglio su tutto,sembrava stare bene in suacompagnia.

Barbara spiava con ansia questisegni di rappacificazione. Così chedopo qualche mese non provò unagran meraviglia a sentire che igenitori si rimettevano insieme eparlavano di risposarsi.

Ora la vita era di nuovo bella,piena, degna di essere vissuta. Sipotevano dimenticare tutti i dolori

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passati, tutte le disgrazie, tuttal’infelicità. Erano scomparsi, comese non fossero mai esistiti.

Di quel terribile periodo solouna cosa buona era rimasta:Laurentina, la piccola principessa.Insieme a lei finalmente i genitori,Barbara, Claudio, potevano vivereper sempre felici e contenti.

Questo era il castello di fantasie

che Barbara costruiva ogni sera nelbuio della sua camera prima diaddormentarsi. Ed ogni seraelaborava più compiutamente ilracconto, vi aggiungeva dettagli,episodi, particolari. Ne eliminava le

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incongruenze e le sostituiva conavvenimenti plausibili. Non perniente era così brava, nei temi, ainventare storie.

Ogni sera limava, correggeva,perfezionava, anche se non sapevaniente del Sudan e della suasituazione politica. Aveva trovatoKarima su una carta geografica.Non sapeva quanto distasse dalCairo e quante ore di pullman civolessero per arrivare in quellaregione. Ma non importava. Quelloche importava era l’epilogo, era ilfatto di potersi godere tutte le notti,per una decina di minuti, la bellafavola del ritorno della mamma. In

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fondo il cadavere non era statoriconosciuto. Se fino ad oggi nonera ancora accaduto niente disimile, poteva accadere fra qualchegiorno o fra qualche mese. Latelefonata dall’Africa poteva semprearrivare.

Barbara aveva bisogno dicrederci perché non riusciva asopportare la realtà. Non riusciva adaccettare che la mamma era mortaper sempre e che non sarebbetornata mai più.

Ma tuttavia,contemporaneamente, in un puntolucido della sua testa, sapevabenissimo che era proprio morta,

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che non c’era niente da fare, e cheavrebbe dovuto imparare a viveresenza di lei.