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PRINCIPALI FASI DELLA TRASFORMAZIONE URBANA FORMAZIONE DELLA CITTA' INDUSTRIALE - INTRODUZIONE XIX secolo I modelli urbanistici della PRIMA FASE rispondono alle esigenze della società borghese-industriale emergente che nega, superandola, la città storica pre-industriale e afferma modelli nuovi: Parigi : Haussmann impone assi e piazze geometricamente ispirate ai canoni barocchi, ma spazialmente e volumetricamente coerenti con le esigenze della borghesia emergente (difesa, grandeur, le facciate imposte ecc.). Definisce così un grande telaio di viabilità che tratta la città preesistente come materiale plastico da riconfigurare demolendo e ricostruendo. Vienna : il Ring celebra la borghesia imperiale, le sue istituzioni e i suoi spazi. La Secessione sta per arrivare, ma con il Ring siamo ancora alla fase eroica dell'impero Asburgico. Le mura e il "glacis" sono l'occasione per "rifare" la città. Barcellona : la spinta allo sviluppo della borghesia catalana, che di qui a poco produrrà il modernismo e Gaudì, genera l'idea geniale di una espansione assai ampia, che crea un tessuto geometrico capace di accogliere forme tra loro diverse in uno spazio urbano dignitoso e a volte addirittura solenne (Cerda conosceva il Commissioner's Plan ?). La città storica è lasciata da parte. Soria y Mata esprime l'utopia riformatrice dell'ingegneria applicata alla città: con lui entriamo già, mutatis mutandis, nella stagione degli utopisti francesi, di Howard, fino a Hilberseimer e Le Corbusier. Ciò che sottende i modelli è il fenomeno del tutto nuovo nella storia finora conosciuta, della formazione della città industriale. Presenza imperiosa e indiscutibile. Occorre darle spazio, aprendo e sventrando la città storica (Parigi e Vienna), oppure realizzando altrove la nuova città (Barcellona) Parigi - Haussmann 1853-1869 Vienna - Ringstrasse 1859-1872 Barcellona - Cerdà 1859 Soria y Mata - Ciudad lineal 1882 http://www.kosmograph.com/urbanism/industriale/industriale_mod.htm 1

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PRINCIPALI FASI DELLA TRASFORMAZIONE URBANA

FORMAZIONE DELLA CITTA' INDUSTRIALE - INTRODUZIONEXIX secolo

I modelli urbanistici della PRIMA FASE rispondono alle esigenze della società borghese-industriale emergente che nega, superandola, la città storica pre-industriale e afferma modelli nuovi:

Parigi: Haussmann impone assi e piazze geometricamente ispirate ai canoni barocchi, ma spazialmente e volumetricamente coerenti con le esigenze della borghesia emergente (difesa, grandeur, le facciate imposte ecc.). Definisce così un grande telaio di viabilità che tratta la città preesistente come materiale plastico da riconfigurare demolendo e ricostruendo.

Vienna: il Ring celebra la borghesia imperiale, le sue istituzioni e i suoi spazi. La Secessione sta per arrivare, ma con il Ring siamo ancora alla fase eroica dell'impero Asburgico. Le mura e il "glacis" sono l'occasione per "rifare" la città.

Barcellona: la spinta allo sviluppo della borghesia catalana, che di qui a poco produrrà il modernismo e Gaudì, genera l'idea geniale di una espansione assai ampia, che crea un tessuto geometrico capace di accogliere forme tra loro diverse in uno spazio urbano dignitoso e a volte addirittura solenne (Cerda conosceva il Commissioner's Plan ?). La città storica è lasciata da parte.

Soria y Mata esprime l'utopia riformatrice dell'ingegneria applicata alla città: con lui entriamo già, mutatis mutandis, nella stagione degli utopisti francesi, di Howard, fino a Hilberseimer e Le Corbusier.

Ciò che sottende i modelli è il fenomeno del tutto nuovo nella storia finora conosciuta, della formazione della città industriale. Presenza imperiosa e indiscutibile. Occorre darle spazio, aprendo e sventrando la città storica (Parigi e Vienna), oppure realizzando altrove la nuova città (Barcellona)

Parigi - Haussmann 1853-1869

Vienna - Ringstrasse 1859-1872

Barcellona - Cerdà 1859

Soria y Mata - Ciudad lineal 1882

http://www.kosmograph.com/urbanism/industriale/industriale_mod.htm

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FORMAZIONE DELLE AREE URBANE E METROPOLITANEXX secolo fino agli anni '70

Seconda rivoluzione industriale (Taylorizzazione)

Terziarizzazione delle "città centrali" e formazione CBD

Crescita sub-urbana

Nella SECONDA FASEi modelli affrontano non più l'apparire della città industriale, ma il suo sviluppo e la sua maturità.

Essi dunque o creano una alternativa radicale (Howard come rappresentante di tutto il filone "alternativo", dagli utopisti francesi agl americani);

oppure celebrano la nuova città che diventa "la città" in senso assoluto (Garnier si occupa programmaticamente solo della città industriale, Sant'Elia celebra i fasti energetici delle nuove macchine, Le Corbusier semplicemente annulla la città precedente, e così fa anche Hilberseimer);

o, infine, come nel caso di Amsterdam, si occupano pragmaticamente di governare le trasformazioni della città come essa è, seguendo un principio di razionalità organica

 

http://www.kosmograph.com/urbanism/urbana/urbana_mod.htm

CITTA' DIFFUSA, RIUSO E RIQUALIFICAZIONEdagli anni '70 a oggi

Howard - Garden City1898-1920

Garnier - Cité industrielle1901-1904

Le Corbusier1922 - 1935

Hiberseimer1924

Amsterdam1929

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Schede e letture 

Il ruolo delle città per lo sviluppoSalvatore Cafiero , SVIMEZ, 1989

 

Le aree urbane in Italia: scopi, metodi e primi risultati di una ricercaDomenico Cecchini, SVIMEZ, "Rivista economica del Mezzogiorno", n.1, 1988

 

Stadi di sviluppo del sistema urbano italiano Domenico Cecchini, SVIMEZ, "Rivista economica del Mezzogiorno", n.4, 1989

 

Dinamiche delle funzioni urbane e MezzogiornoDomenico Cecchini - Giuseppe Donato Goffredo, SVIMEZ, "Rivista economica del

Mezzogiorno", n.2 , 1990 

Le condizioni sono cambiateBernardo Secchi, "Casabella", n.498/9, Electa Periodici, gennaio-febbraio 1984

Il ruolo delle città per lo sviluppo1 [1]

di Salvatore Cafiero1[1]Intervento all'incontro promosso dalla Società «Studi Centro Storico Napoli», presso il Banco di Napoli, il 21 dicembre 1987, sul tema «Il recupero e il ruolo delle città come elemento propulsivo dello sviluppo».Testo pubblicato in “Rivista economica del Mezzogiorno”, a.II, 1988, n.1

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    E’ ormai concordemente accettato dai geografi lo schema dei tre stadi di urbanizzazione, corrispondenti a tre stadi di industrializzazione. I tre stadi di urbanizzazione sono quello della concentrazione, quello della suburbanizzazíone e quello del decentramento. E poiché i tempi dell'industrializzazione differiscono storicamente da paese a paese, anche gli stadi corrispondenti dell'urbanizzazione possono cadere in tempi diversi. Inoltre i tre stadi possono anche non succedere puntualmente l'uno all'altro; il processo di urbanizzazione può anche cominciare dal secondo o terzo stadio dello schema, o può andare dal primo al terzo senza passare per il secondo; si esclude, tuttavia, che l'ordine degli stadi possa essere invertito: che cioè al terzo stadio possa succedere il secondo, o al secondo il primo.Il primo stadio dell'urbanizzazione è quello della concentrazione urbana, corrispondente ad una fase dell'industrializzazione, in cui le industrie utilizzano grandi quantità di materie prime, di fonti energetiche e manodopera per unità di prodotto e la mobilità delle merci e della manodopera è limitata dallo stato delle tecniche o delle infrastrutture, e quindi dai costi di trasporto; per la manodopera un limite alla mobilità può essere costituito anche dai tempi e dai redditi di lavoro, che possono essere incompatibili con i tempi e i costi di lunghi spostamenti pendolari. Tutto ciò rende necessaria la contiguità tra fonti o terminali di trasporto marittimo e ferroviario di materie prime e energetiche, impianti, residenze dei lavoratori, servizi sia per le imprese sia per le residenze. La crescita urbana è alimentata dall'emigrazione dalle campagne - che tendono a spopolarsi - e dà luogo ad un aumento delle densità insediative e a un'espansione a macchia d'olio degli insediamenti urbani.

Il secondo stadio è quello della suburbanízzazione, corrispondente allo sviluppo di nuove infrastrutture o di nuove tecniche di trasporto e di telecomunicazione e di nuove tecniche di produzione. Le nuove tecniche di trasporto e di telecomunicazione, insieme alla diffusione della motorízzazione privata (che segue all'accresciuto benessere delle famiglie), riducono i costi e i tempi degli spostamenti delle merci, delle informazioni e dei lavoratori. Le nuove tecniche di produzione - si pensi in particolare alla catena di montaggio e alla produzione in serie per il magazzino - impongono la grande dimensione e il lay out orizzontale degli impianti: cresce la domanda di spazio da destinare alle fabbriche o ai depositi. Allo stesso tempo, con l'aumento dei redditi, con la riduzione della dimensione media delle famiglie, con la diffusione della motorízzazione privata, cresce anche la domanda di spazio per le residenze, per i servizi alle residenze, per la viabilità e per i parcheggi. Questa domanda può essere soddisfatta sempre meno e a costi sempre più alti nelle zone urbane centrali, nelle quali tendono in misura crescente ad insediarsi invece attività direzionali, professionali e di servizio qualificato che traggono maggiori benefici comparati dall'ubicazione centrale. Fabbriche, depositi, residenze e relativi servizi tendono invece a preferire ubicazioni nelle periferie urbane e nei comuni «di cintura», nei quali si cumulano in questa fase i vantaggi della prossimità al centro e della disponibilità di spazio a minor prezzo, e nei quali si concentrano di norma anche i programini di edilizia pubblica. La crescita delle periferie e delle cinture sopravanza, prima in termini relativi, poi in termini assoluti quella dei quartieri centrali, che invece rallenta progressivamente fino a cessare del tutto. E’ questa la fase della saldatura edilizia tra grandi città e comuni minori contermini, e quindi della formazione defle cosiddette «conurbazioni».

Il terzo stadio - che oggi è in atto ormai ovunque nel mondo sviluppato occidentale - è quello detto della «deurbanizzazione» o del «decentramento urbano» o della «diffusione urbana». E’ lo stadio in cui entra in crisi il precedente modello di urbanizzazione per espansione progressiva verso anelli concentrici sempre più esterni. La congestione finisce con l'investire anche le periferie e le cinture, dove diventa sempre più difficile rispondere alla domanda di spazio per fabbriche, per depositi, per residenze, per il traffico che essi generano e per i relativi parcheggi, per il verde e per i

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servizi collettivi. Anche in termini di accessibilità, i vantaggi che nella fase precedente erano connessi all'ubicazione suburbana tendono rapidamente a venir meno; si riducono inoltre, per effetto dello sviluppo di una fitta rete autostradale, le differenze di tempi e di costi tra gli spostamenti interni alle cinture suburbane e gli spostamenti interurbani di ambito regionale o anche tra regioni contigue. Con l'aumento dei redditi dei residenti, aumenta anche la loro domanda di elevata qualità ambíentale, domanda che nei quartieri e nei sobborghi urbani è diventata ormai impossibile soddisfare. I nuovi insediamenti produttivi e residenziali si orientano dunque in questa fase verso i centri minori fisicamente separati, che formano, con le città e le conurbazíoni maggiori, vaste aree metropolitane non più connotate dalla continuità edilizia, o anche verso centri esterni ai perimetri metropolitani. Sia nelle aree poste ai margini dei perimetri metropolitani sia nelle aree esterne a tali perimetri, non solo la disponibilità di spazio è maggiore e gli spostamenti locali più agevoli, ma anche le condizioni del contesto urbanistico - ambientale risultano di norma più attraenti.

Per quanto riguarda l'industria, poi, le nuove tecnologie ínformatiche e l'esigenza crescente di far fronte all'instabilità dei mercati con la flessibilità e il decentramento produttivo concorrono a porre fine alla fase di sviluppo industriale caratterizzata dalle grandi dímensioni di impianto e a dar vita ad una nuova fase, in cui prevalgono invece le piccole dimensioni. Con il venir meno della grande dímensione e con lo sviluppo dei sistemi specializzati di piccole imprese viene anche meno l'importanza localizzativa delle grandi concentrazioni di manodopera e della compresenza di una larghissima gamma di qualifiche, fattori questi che in passato avevano favorito la localizzazione urbana e suburbana delle industrie. Per la grande impresa, poi, le nuove tecnologie di produzione e di telecomunicazione consentono la localizzazione degli impianti di produzione (in cui lavora un numero sempre minore di operai) anche a notevole distanza dalle direzioni di impresa. Sia per molte piccole imprese, sia per gli impianti appartenenti alle grandi imprese, viene insomma meno l'esigenza di localizzazione urbana o suburbana, e diviene viceversa sempre più conveniente la localizzazione in centri minori o addirittura in aree rurali, purché offrano buone condizioni di accessibilità alle reti infrastrutturalí, adeguate dotazioni e gestioni di servizi collettivi, equilibri sociali favorevoli ad un ordinato svolgimento della vita civile e delle relazioni industriali.

In questa fase la popolazione e l'occupazione industriale delle grandi città o conurbazioni tende a diminuire, mentre è nel resto del territorio metropolitano e nel territorio non metropolitano che si intensifica l'insediamento sia delle residenze che delle attività produttive. In questa fase la distinzione fra città e campagna sfuma progressivamente. Al vecchio modello monocentrico, che caratterizza sia lo stadio della concentrazione urbana, sia quello della suburbanizzazione, si sostituisce in questa fase un modello diffuso di urbanizzazione, tendenzialmente policentrico. Lo sviluppo metropolitano non è più un processo di tracimazione continua degli insediamenti verso anelli concentrici sempre più ampi, ma dà luogo a «sistemi» di città costituiti da una costellazione di centri o sub - poli che si sviluppano intorno ad una grande metropoli, oppure costituiti da una rete di città di dimensione media o minore, reciprocamente integrate, ma senza un univoco rapporto di dominanza. I vari sistemi urbani tendono poi a collegarsi in più vasti sistemi intermetropolitani che si dispongono lungo i grandi assi infrastrutturali di interconnessione.E’ quanto sta avvenendo ormai da qualche decennio nell'Italia centro - settentrionale, come risulta evidente dall'aggiornamento al 1981 di una vecchia e nota ricerca SVIMEZ sullo sviluppo metropolitano, aggiornamento i cui risultati sono in parte riportati nell'ultímo capitolo del Rapporto 1987 sull'economia del Mezzogiorno.Nell'Italia del Nord da circa vent'anni la popolazione residente e l'occupazione industriale sono in diminuzione nei centri urbani maggiori; quanto alla popolazione, essa diminuisce anche nei centri di media dimensione (intorno ai 200.000 abitanti); risulta invece sostenuto lo sviluppo insediativo nei centri minori e nelle aree rurali, con conseguente rapida espansione dei perimetri delle maggiori aree metropolitane, con il formarsi di nuove aree metropolitane policentriche, con la tendenza delle une e delle altre a saldarsi reciprocamente, conferendo connotati metropolitani quasi all'intero territorio. La grande area milanese, che si estende fino a Varese, Como e Lecco a nord, fino a

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Novara ad ovest, fino a Pavia a sud e fino a Brescia ad est tende ormai a saldarsi ad occidente, attraverso Biella, con quella torinese; verso oriente con quella policentrica del Veneto (Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Treviso, Pordenone); verso sud, attraverso Piacenza, con quella emiliana (Parma, Modena, Reggio, Bologna); questa a sua volta tende a congiungersi sia con quella veneta, attraverso Ferrara, sia con quella alto-adriatica (Ravenna, Pesaro, Ancona), che si prolunga, ormai quasi senza cesure, verso sud fino a Pescara-Chieti. L'area ligure (da San Remo alla Riviera di Levante) si collega, attraverso la cerniera transappenninica di Alessandria, con la grande area milanese, e tende a saldarsi, ad est, con quella alto-tirrenica (La Spezia, Massa, Pisa, Livorno, Lucca), e questa a sua volta con quella di Firenze - Prato - Pistoia.

Niente di simile nel Mezzogiorno, dove la densità demografica ed insediativa nelle maggiori aree urbane continua ad aumentare all'interno di perimetri che - ad eccezione del caso di Napoli - restano ristretti; in alcuni casi, Bari e Palermo per esempio, continua ad aumentare la popolazione residente nella città centrale; e laddove, come a Napoli e a Catania, si ha qualche modesta diminuzione della popolazione nella città centrale, è solo perché questa è soffocata dall'abnorme intensificazione dell'insediamento nei comuni contermini, del resto solo amministrativamente distinti dal comune capoluogo, di cui in effetti costituiscono veri e propri quartieri. Insomma, mentre nel Nord siamo nel pieno dello stadio dell'urbanizzazione diffusa, nel Mezzogiorno non sembra ancora superato lo stadio della suburbanizzazione; solo nel caso di Napoli l'espansione metropolitana è ormai di raggio molto esteso e si alimenta dello sviluppo dei sub - poli esterni di Caserta, Salerno e di recente anche di Avellino.

Netta è poi la separazione funzionale tra le maggiori aree urbane meridionali (Napoli, Bari, Catania, Palermo, Cagliari), di cui, del resto, è molto marcata anche la stessa separazione geografica: sembra evidente anche alla comune osservazione che i rapporti economici e culturali di ciascuna di tali aree con le grandi metropoli esterne, in primo luogo con Roma e Milano, sono più intensi che non quelli di tali aree tra loro.

In tutto l'occidente industrializzato, il declino della popolazione e dell'occupazione industriale nelle città maggiori si accompagna alla fatiscenza dei vecchi quartieri industriali, alle difficolà di reimpiego dei lavoratori espulsi dalle industrie in crisi, all'aumento della disoccupazione giovanile, ai conseguenti fenomeni di emarginazione e di devianza. Ma, malgrado questi fenomeni di degrado urbanistico e sociale, il declino demografico e industriale delle città maggiori non signifíca necessariamente che sia in declino anche la loro importanza economico - funzionale; anzi, in molti casi è solo il segno del mutamento della loro struttura economica e del loro ruolo nel territorio: un mutamento che è imposto dal fatto che sono mutati i fattori decisivi dello sviluppo.

Oggi nella competizione vince non tanto chi paga meno o fa rendere di più gli stessi fattori e inputs di produzione nell'ambito di tecnologie sostanzialmente non dissimili da quelle impiegate dai concorrenti, ma chi riesce ad adottare per primo un'innovazione di processo, di prodotto, di mercato, e riesce a ridurre i rischi e i costi connessi all'adozione dell'innovazione stessa. La riduzione dei rischi e dei costi dell'adozione di innovazioni è assicurata, di norma, attraverso la flessibilità tecnico - organizzativa e la tempestiva acquisizione delle informazioni, delle conoscenze e delle consulenze necessarie a orientarsi in un mondo in cui sono aperte innumerevoli possibilità, ma che è anche dominato da una grande incertezza di prospettive.

In questo quadro, ai fini dell'adozione di innovazioni di successo, aumenta l'esigenza di integrazione funzionale tra le diverse fasi del processo produttivo, a partire dalla ricerca fino alla commercializzazione del prodotto finito; ma, ai fini della flessibilità, aumenta, invece, l'esigenza di disintegrazione organizzativa tra queste fasi, che tendono ad essere affidate ad imprese indipendenti. La conciliazione tra queste opposte esigenze di integrazione funzionale e di disintegrazione organizzativa postula un impegno crescente nelle attività di contatto, di coordinamento, di integrazione, difeed back costante di informazioni tra i vari soggetti e le varie fasi della catena scienza – tecnología - produzione - mercati.

L'identificazione delle innovazioni possibili, la soluzione effettiva dei problemi finanziari, tecnologici, organizzativi, posti dalla ricerca, dallo sviluppo, dall'applicazíone produttiva e dallo

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sfruttamento commerciale delle innovazioni, il coordinamento tra i vari soggetti che concorrono al successo dell'iniziativa innovativa richiedono un contesto in cui: siano favoriti i contatti personali e gli scambi di informazioni; sia operante un insieme di istituzioni culturali, di ricerca, di trasferimento tecnologico; sia disponibile un'ampia gamma di competenze tecniche e professionali, di agenzie di consulenza, di servizi specializzati e di alta qualità. Questo contesto può essere offerto solo dalle grandi metropoli nazionali, che, se perdono residenti e posti di lavoro operaio, restano però i luoghi deputati ad ospitare quelle attività per lo svolgimento delle quali, oltre che la facilità di accesso alle reti dei collegamenti internazionali, continua ad essere necessaria anche la prossimità fisica. Tra queste attivìtà rientrano: 1) nell'ambito delle stesse attività industriali, e più in generale nell'ambito delle grandi organizzazioni (anche di quelle non - profit), quelle funzioni direzionali, o comunque quelle funzioni non di routine, che, pur in presenza di reti moderne ed efficienti di telecomunicazione e di telematica, non possono prescindere da contatti personali «faccia a faccia» con partners d'affari, con centri di ricerca, con consulenti, con finanziatori, con clienti; 2) i servizi richiesti per lo svolgimento delle suddette funzioni direzionali: software, servizi finanziari, ricerche di mercato, studi e progettazioni, pubblicità, consulenze professionalí di alta qualificazione; 3) i servizi per i consumi che caratterizzano lo stile di vita delle fasce sociali ad alto reddito, cui appartengono gli addetti alle funzioni direzionali e ai servizi ad esse complementari; 4) i servizi di supporto agli scambi di persone, di idee, di informazioni di raggio interregionale e internazionale (attività editoriali, cinematografiche, radio - televisive, congressi e manifestazioni culturali, agenzie di viaggi, pubbliche relazioni, ecc.).

Le caratteristiche qualitative dell'ambiente urbano risultano decisive ai fini dell'accoglimento dì quest'insieme di attività, non solo sotto il profilo dell'efficienza del loro esercizio, ma anche, e in misura crescente, sotto il profilo della domanda di qualità della vita da parte di coloro che vi sono addetti e delle loro famiglie: sembra infatti aumentare l'importanza delle preferenze residenziali del personale di staff nelle decisioni di localizzazione di attività, per le quali, sotto altri profili, le differenze di convenienza tra più alternative di localizzazione in aree metropolitane non risultassero rilevanti.

E’ in questo quadro che si pone il problema del recupero e della rivitalizzazione urbana; ed è superfluo ricordare che da oltre un decennio tale problema è affrontato in molti paesi europei con politiche specifiche e rilevanti interventi. La dotazione di capitale fisso che le città hanno accumulato nel corso del loro lungo passato preindustriale e industriale (abitazioni, impianti, infrastrutture) richiede di essere rinnovata, riconvertita, in qualche misura forse anche parzialmente eliminata, in parallelo con il rinnovamento e la riconversione dell'economia e delle funzioni urbane e con l'avvento di nuove tendenze e di nuove forme del processo di urbanizzazione. Ora, per la complessità stessa e l'intensità sempre più marcata delle interrelazioni che caratterizza non solo le singole città o aree metropolitane, ma i loro «sistemi» e i loro rapporti con il territorio, la probabilità di successo degli interventi di recupero e di rivitalizzazione è tanto maggiore quanto meno tali interventi hanno carattere episodico, settoriale e parziale. Non possono, ad esempio, non essere precari i risultati di un'azione di risanamento e di rinnovo solo edilizio dei quartieri degradati, se non si avvia una parallela azione di risanamento economico - sociale, che garantisca ai residenti un'occupazíone, un reddito e una cultura che consentano la manuten - zione del patrimonio risanato; analogamente l'entità dei benefici sociali di nuove o rinnovate infrastrutture civili dipende in larga misura anche dalle risorse finanziarie e organizzative di cui potranno disporre le amministrazioni cui compete la responsabilità di una loro efficiente gestione; e non si può pensare di risolvere alcun rilevante problema (a cominciare da quello del traffico) se non in un'ottica di scala metropolitana. Sono, queste considerazioni, tanto ovvie e banali quanto, purtroppo, spesso senza riscontro nella pratica.La verità è che l'efficacia e la fattibílità dei programmi di recupero e di rivitalizzazione urbana richiedono condizioni - quali l'entità e la certezza pluriennale dei finanziamenti, il coordinamento delle iniziative e delle competenze di una molteplicità di soggetti pubblici e privati, la mediazione tra interessi locali presenti all'interno dell'area metropolitana e che possono essere tra loro

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contrastanti - che appaiono non facili da realizzare nell'attuale stato della finanza pubblica e nell'attuale ordinamento dei poteri locali.

Sia la crisi e il degrado progressivo in cui versano nel Mezzogiorno le grandi aree metropolitane, sia il loro accresciuto ruolo strategico per lo sviluppo del territorio impongono certo di non attendere i tempi lunghi che potrebbero rivelarsi necessari affinché le condizioni richiamate siano formalmente assicurate, ad esempio da leggi speciali o dall'istituzione di nuove autorità metropolitane; ma ciò non deve significare la rinuncia a decidere in sede pubblica in merito alle singole iniziative sulla base della valutazione degli effetti che ne deriverebbero sull'intero organismo metropolitano e del costo degli interventi complementari che tali effetti potrebbero rendere necessari. Occorre, insomma, che le indubbie difficoltà non inducano a rinunciare, anzi inducano finalmente a cominciare, a governare effettivamente il territorio metropolitano. 

Le aree urbane in Italia: scopi, metodi e primi risultati di una ricerca2[1]

2[1] Le elaborazioni statistico-informatiche necessarie per la delimitazione delle aree sono state svolte da G. Goffredo con la collaborazione di F. Ieva. Testo pubblicato in : “Rivista economica del Mezzogiorno”, a. II, 1988, n. 1. 

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di Domenico Cecchini   

Scopo della presente nota è offrire al lettore i risultati della prima fase delle ricerche sulle recenti tendenze della urbanizzazione in Italia in corso presso la SVIMEZ. Parte di essi è stata già descritta nell'ultimo capitolo del Rapporto 1987 sull'economia del Mezzogiorno; qui si presenta, a integrazione di quel testo, il quadro nazionale delle aree urbane cosí come emerge, nella sua articolazione comunale, dalle elaborazioni svolte.

Nella seconda fase la ricerca sarà dedicata oltre che all’analisi dinamica della struttura e delle caratteristiche socioprofessionali della popolazione urbana, allo studio delle specializzazioni funzionali delle aree urbane e dei processi di conversione delle loro basi economiche.

La nuova attenzione con la quale, da diverse sedi, si guarda oggi ai problemi connessi alle trasformazioni urbane in corso e soprattutto a quello - certo non nuovo ma forse oggi piú maturo - dell'avvio di una vera e propria politica urbana in Italia, suggerisce alcune riflessioni in ordine al significato che essa potrebbe avere per lo sviluppo del Mezzogiorno.

Nel primo paragrafo, quindi, si collocano tali riflessioni entro il quadro, per molti aspetti di grande interesse, offerto dalle esperienze recenti di paesi che sperimentano da oltre un trentennio politiche di questo tipo; nel secondo paragrafo si discutono i criteri utilizzati per la delimítazione delle aree urbane, delle quali si dà, nel terzo paragrafo, l'elenco dettagliato dei singoli comuni che le compongono.

  

1. Alcuni aspetti delle nuove politiche urbane in Europa 

In molti paesi europei il nuovo ciclo delle trasformazioni urbane 3[2] ha stimolato l'avvio di nuove politiche urbane di livello nazionale o la riformulazione di politiche già in essere, ovvero una combinazione di entrambi gli approcci.

E’ ben noto che politiche urbane esplicite erano state già avviate in alcuni di quei paesi, e segnatamente in Gran Bretagna, in Francia, nella Repubblica Federale Tedesca e in Olanda, già negli anni 50 (in Gran Bretagna ancor prima) e si erano poi sviluppate nel corso dei due decenni successivi.

In un panorama allora fortemente connotato dal prevalere delle forze centripete e agglomerative nelle dinamiche localizzative e quindi da ritmi molto intensi di crescita urbana e suburbana, di norma tanto più rapidi quanto maggiore era la dimensione delle città, tali politiche erano sostanzialmente orientate al «riequilibrio» delle armature insediative, a fronteggiare la domanda rapidamente crescente di abitazioni e di pubblici servizi, a ridurre la congestione degli spazi e la sovrautilizzazione delle infrastrutture urbane. Seppure con forti diversità di contenuti e di strumenti esse prevedevano fra le azioni principali: a) la creazione di vere e proprie villes nouvelles o new towns (Francia e Gran Bretagna) o il rafforzamento di centri urbani di livello regionale (le «métropoles d'équilibre») che mitigassero le tendenze centripete e polarizzanti; ovvero la realizzazione di nuovi quartíeri decentrati ed autonomi (come in Germania e in Olanda) che consentissero una crescita policentrica e meno compatta delle agglomerazioni urbane; b) il deciso rilancio di programmi pubblici per la costruzione di alloggi destinati soprattutto alle classi di minor 3[2] Per una sintesi delle origini strutturali del nuovo ciclo v. il testo di S. Cafiero Il ruolo delle città per lo sviluppo in questo numero della rivista. La letteratura sull'argomento è ormai molto vasta: un'ampia rassegna è in P. Cheshire, D. Hay, G. C arbonaro, Regional Policy and Urban Decline, Interim Report, Inventory of Existing Work: Final Draft, Joint Centre for Land Development Studies, Reading, novembre 1983; una bibliografia ragionata su La città e le sue scienze oggi, relativa ai lavori pubblicati tra il 1983 e il 19861 è in corso di pubblicazione a cura del FORMEZ; tra i lavori di sintesi piú recenti v. anche il saggio di R. Barras, Technical Change and The Urban Development Cycle, in «Urban Studies», vol. 24, n. 1, 1987. 

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reddito e alla domanda generata dai flussi intensi di immigrazíone urbana; c) il sostegno alla realizzazione, o all'ampliamento, di “distretti degli affari» - basti ricordare la Défense a Parigi - collocati al centro delle maggiori aree urbane, che offrissero spazi ed attrezzature adeguate alla crescente qualificazione terziaria delle loro basi economiche; d) un energico impegno nel rinnovo e nell'ampliamento delle reti di trasporto urbano, soprattutto in sede propria, funzionalmente interconnesse alle maggiori reti interurbane: in una migliore accessibilítà interurbana si individuava, fra l'altro, un importante strumento di decongestione e decentramento dei maggiori poli metropolitani. Dalla seconda metà degli anni 70 il mutato clima economico, i vincoli di spesa insorti per la maggior parte delle amministrazioni urbane, ma soprattutto la progressiva percezione dei radicali mutamenti in corso nei processi di urbanizzazione (mutamenti di cui l'arresto della crescita demografica delle grandi città ha rappresentato solo il sintomo piú evidente) e del nuovo ruolo che le città europee sono chiamate a svolgere nello sviluppo economico (ruolo di cui i fenomeni di conversione funzionale delle loro basi economiche costituiscono la prima e talvolta sconvolgente manifestazione) hanno dato luogo ad una generale «messa in discussione» degli obiettivi, degli strumenti e dei contenuti delle politiche urbane 4[3].

E’, questa «messa in discussione», un fenomeno complesso, estremamente articolato, le cui modalità ed i cui primi esiti appaiono molto differenziati non solo tra i diversi paesi, ma, al loro interno, tra le diverse regioni ed amministrazioni urbane. E’ anche, indubbiamente, fenomeno di grande rilievo ed interesse: rappresenta il laboratorio entro il quale possono definirsi i termini con cui le città europee, ed in specie le maggiori, affrontano la competizione imposta dalla nuova fase del progresso tecnico «per divenire i centri della conoscenza tecnico - organizzativa, della produzione e distribuzione delle informazioni e della comunicazione, e attraverso ciò i protagonisti del futuro sviluppo del sistema industriale mondiale» 5[4].

Naturalmente l'esame di un fenomeno di tale rilievo culturale ed operativo, esula dai limiti della presente nota; è però utile ricordare alcune caratteristiche generali delle nuove politiche. cosí come esse emergono da una prima, sommaria considerazione.

In primo luogo può riscontrarsi la generale convinzione della inefficacia di interventi rigidamente monosettoriali e di approcci esclusivamente fondati su iniziative di trasformazione fisica: il carattere intrinsecamente sistemico della realtà urbana, e quindi la necessità di azioni contestualmente finalizzate a modificare le strutture fisiche, a gestirle con efficienza e manutenerle in modo costante, a rivitalizzare i tessuti economici e le attività produttive locali, impongono programmi plurisettoriali in grado di perseguire sistemi complessi di obiettivi fisici, occupazionali, sociali, culturali, ambientali attraverso strumenti e forme di gestione, di controllo e verifica degli esiti (monitoraggio) altrettanto complessi ed articolati. L'accento si sposta dalla pura realizzazione delle opere - caratteristica della fase precedente - alle modalità organizzative ed operative di programmazione, di concertazione e soprattutto di gestione 6[5].

4[3] Dal 1980 un «Groupe ad hoc sur les problemes urbains» istituito dal Consiglio dell'OCDE (e successivamente trasformato in «Groupe des affaires urbaines») ha preso in esame le politiche urbane in molti paesi OCDE. I primi risultati del lavoro del gruppo, sono stati pubblicati in Les villes en mutation, Politiques et Finances (vol. 1), Le role des pouvoirs publics (vol. II), Paris, 1983. Sullo stesso tema v. anche: N.J. Ewers, J.B. Goddard, N. Matzerath, The Future ofthe Metropolis - Berlin, London, Paris, New York, Economic Aspects, Berlin-New York, Walter de Grujter, 1986, ed in particolare la parte III «Economic policy and the Metropolis»; P. Cheshire e al., Urban Problems and Regional Policies in European Comunity, European Commission, 1988, in corso di pubblicazione; R.H. Williams (a cura di), Planning in Europe, Urban and Regional Pianning in the EEC, London, George Allen and Unwin, 1984.5[4] N.J. Ewers e altri, The Future of tbe Metropolis, cit., pp. 1 - 2. 6[5] Gli esempi dell'emergere di queste nuove tendenze sono naturalmente molto numerosi. Tra quelli piú significativi possono ricordarsi: l'introduzione, in Francia, dal 1981 e con maggior forza dal 1984, anno di costituzione del «Comité Interministeriel pour les Villes», di una nuova metodologia

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In questo quadro si pongono rilevanti problemi di coordinamento tra politiche urbane «esplicite» e politiche settoriali (fondiarie, dei trasporti, localizzative, ecc.) che pure determinano impatti decisivi sulla realtà urbana. E si pongono anche notevoli problemi di governo di quella partnership tra soggetti privati e pubblici che sempre piú si manifesta come condizione necessaria, ma non sufficiente, per la efficace attuazione di interventi altamente complessi. Emerge inoltre una notevole diversifícazione nelle esperienze di gestione dei rapporti tra Amministrazioni Centrali, Amministrazioni Locali ed Imprese che costituisce uno dei nodi centrali delle politiche urbane: a conferma del fatto che l'attuazione di queste ultime non postula un modello unico di governo urbano o metropolitano 7[6].

In secondo luogo si consolida la preminenza dei programmi di recupero e riqualificazione urbana in senso lato, che naturalmente si differenziano largamente in adesione ai diversi modelli di sviluppo urbano nelle specifiche realtà regionali e nazionali, e che in molti casi assumono un peso finanziario e un'enfasi programmatica superiori a quelli delle politiche per le «città nuove» tipiche della fase precedente. Le diversità di strumenti utilizzati, di procedure e contenuti, e prima ancora di «filosofie», che si riscontrano, ad esempio, tra la Inner City Policy avviata in Inghilterra dal 1978, i programmi regionali di rivitalizzazione urbana nella RFT e le politiche nazionali francesi 8[7] rendono difficile individuare delle «costanti» ed arduo, ancorché auspicabile, l'esercizio della comparazione.

di intervento per la riqualificazione e riorganizzazione urbana, la «démarche Projet de Quartier» che prevede la programmazione e gestione di interventi molto articolati da parte di organismi misti («équipes de maitrise d'oeuvre urbaine») istituiti dalle amministrazioni locali con il contributo sia tecnico che finanziario della amministrazione statale, cui prendono parte i diversi soggetti pubblici e privati interessati agli interventi; l'avvio in Inghilterra fin dal 1978, attraverso l'Inner Urban Areas Act, e poi il Local Govemment Planning and Land Act (1980) di una gamma molto ampia di interventi per il recupero e la rivitalizzazione delle aree urbane (istituzione dell'Urban Development Grant e del Derelict Land Grant, costituzione delle Enterprise Zones, finanziamento dell'Urban Programme e delle Estate Actions, istituzione delle Urban Development Corporations ecc.) tra i quali il piú rilevante sotto il profilo dell'impegno di risorse pubbliche (Urban Programme) ha destinato, tra il 1983 e il 1987, il 36% delle risorse alle attrezzature e infrastrutture per l'industria, il 38% alla realizzazione di strutture e servizi sociali (sport, centri di assistenza e formazione ecc.), il 17% alla riqualificazione e all'ampliamento delle urbanizzazioni, il 9% al recupero abitativo; gli esiti, secondo diversi osservatori largamente positivi, del Glasgow Eastern Area Renewal Project (GEAR) che ha nella intersettorialità e nel coordinamento pubblico/privato alcuni dei motivi ispiratori essenziali; gli esiti, anch'essi valutati positivamente, dell'Action Programme avviato nel 1979 nella RFT per la regione della Ruhr, ed articolato secondo diversi, integrati e complementari sub-programmi (v. Ministère de l'Equipement, du Logément, de l'Aménagement du Territoire et des Transports, Comité pour les villes, J.O.R.F, 1986, 1987; Department of the Envíronment, The Urban Programme: 1986, 1987; V.U. Wannop, C1ydeside in Transition, Town Planning Review, vol. 55 n. 1, 1984; e R. Leclerc, D. Draffan, The Glasgow Eastern Area Renewal Project, ibidem, vol. 55 n. 3, 1984; P. Cheshire e al., Urban Problems... cit.). 7[6] Esemplare, sotto questo profilo, è la profonda diversità che si può riscontrare, addirittura entro un'unica area nazionale, tra i rapporti Governo centrale - Enti locali - operatoti stabiliti dalle Urban Development Corporations recentemente istituite in Inghilterra e nel Galles e quelli stabiliti, in Scozia, dal citato GEAR. 8[7] Oltre ai documenti ufficiali citati nella nota 5, si veda, per un primo confronto, J. Fox Przeworski, Overview: National Govemment Responses to Structural Changes in Urban Economies in Nj. Ewers e al., The Future oftheMetropolis cit.; P.H. Cheshire e al., Urban Problems... cit., Section 8. 

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Sono però anche qui riconoscibili alcune caratteristiche comuni ai diversi programmi; tra queste possono sicuramente essere incluse la multisettorialità degli interventi previsti, la ampia sperimentazione di forme nuove di gestione e la mobilità entro i singoli contesti urbani, ma anche alla scala interurbana, delle funzioni, delle destinazioni d'uso, delle utenze che i programmi stessi postulano.

Né potrebbe essere altrimenti: i mutamenti in corso nelle principali componenti delle basi economiche urbane - con tutta probabilità destinati a proseguire, anche nel prossimo futuro 9[8] - la accresciuta competizione interurbana per l'acquisizione di funzioni ed attività innovative e la riformulazione delle gerarchie urbane che essa comporta esigono una maggiore mobilità spaziale delle componenti fisiche, economiche e sociali che hanno finora definito i diversi tessuti urbani. Ciò naturalmente dà luogo - come gli osservatori piú attenti vanno da tempo rilevando - a nuove contraddizioni e conflitti entro lo spazio urbano: ma è proprio nel loro governo secondo finalità sociali e di sviluppo - non nella loro rimozione - che può verificarsi l'efficacia delle nuove politiche urbane.

E’ appunto nell'ambito della creazione di condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo delle nuove funzioni urbane e metropolitane (il nuovo milieu industriel ) 10[9]che si riscontra un terzo connotato generale delle politiche: il sostegno e l'impulso alla realizzazione di strutture e spazi attrezzati per l'esercizio delle attività di ricerca, consulenza, progettazione, programmazione e direzione che sempre piú si confermano come i segmenti trainanti dello sviluppo di quelle nuove funzioni, e che richiedono una elevata integrazione reciproca: si va dal riutilizzo plurisettoriale di aree centrali o semicentrali un tempo destinate a produzioni manifatturiere o ad attività di stockaggio e movimentazione oggi dismesse, alla realizzazione in aree periurbane di parchi scientifici, tecnologici, di centri di eccellenza, di tecnopoli, alla progettazione di «assi terziari» che proiettano le funzioni un tempo localizzate nel Central Business Districts sull'íntero territorio metropolitano 11[10].

Anche in questo caso la gamma degli interventi è estremamente ampia e differenziata ed il loro avvio relativamente recente rende difficile una valutazione comparata di efficacia: sembra però già ora evidente che la significatività dei risultati in larga misura dipenda dalla integrazione sia spaziale che funzionale tra le tre «reti» di riferimento essenziali per questi tipi di interventi e cioè la rete delle istituzioni e dei centri di ricerca, quella delle industrie nnovative e della imprenditorialità e quella delle amministrazioni locali 12[11]. Cosí come appare evidente che, nella grande maggioranza 9[8] Argomentano in questo senso sia analisi ormai classiche, quali quella di Stanback e Noyclle (T.M. Stanbackjr e al., Services, The New Economy, Totowa. NJ., Allanheld-Osmun, 1981) e di Scott (Aj. Scott, Locational Pattems and Dynamics of Industrial Activity in the Modern Metropolis, in «Urban Studies», vol. 19, n. 2, 1982), sia lavori piú recenti (v. ad es. i saggi di D. Kceble e di R.V. Knight in Nj, Ewers e al. The Future of tbe Metropolis cit.; v. anche R. Barras, Technical Change... cit.). 10[9] Cfr. N.J. Ewers e al., The Future of the Metropolis cit., pp. 1-1011[10]. Fra questi ultimi i casi senz'altro piú rilevanti sono costituiti dal programma di un «asse terziario» nella regione urbana di Parigi tra la Défense e Marne La Valleé, e dalla vasta azione di trasformazione dell'area dei Docks londinesi, gestita dalla London Docklands Development Corporation. Sulle politiche di realizzazione dei parchi scientifici e tecnologici, v., fra l'altro, gli atti del Colloque International Nouvelle Industrialisation - Nouvelle Urbanisation, Tolosa, 23-25 settembre 1987.12[11]V., tra i piú recenti lavori in materia, gli atti della Tavola rotonda su Les politiques d'innovation tecnologique au niveau local. Articulation des dynamiques locales aux dynamiques externes ,organizzata dal GREMI (Groupe de Récherche Européen sur les Milieux Innovateurs) a Parigi il 14-15 dicembre 1987 ed in particolare le relazioni di: J.C. Perrin, Dynamiques Locales et dynamiques externes: étude comparative des politiques technologiques régionales; di M. Quevit, L'articulation des politiques régionales d'innovation aux programmes transnationaux de recherche et dévelopment européens, e di R. Camagni e R. Rabellotti, Rationale and guidelinesfor a research and tecnological development strategy in least favoured regions.

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dei casi, la localizzazione e le caratteristiche tecnicofunzionali degli interventi tendono ad aprire verso l'esterno gli spazi e le relazioni un tempo concentrati nei cores delle maggiori aree urbane e nei CentralBusiness Districts ed a proiettarle in ambiti periurbaní ed interurbani, senza tuttavia rinunciare ad una sorta di «prossimità allargata» - resa possibile dalla díffusione delle nuove tecnologie informatiche - con i maggiori centri urbani e con la loro offerta di strutture ed occasioni di ricerca, di cultura, di innovazione e trasformazione.

Ora, i connotati delle nuove politiche urbane sommariamente ricordati non sono estranei ai temi presenti nel dibattito che da qualche tempo si è avviato anche nel nostro paese sul nuovo ciclo urbano e sulle azioni che sarebbero necessarie per sostenere in alcune città e aree urbane, avviare in altre, la transizione verso assetti piú coerenti alle nuove esigenze dello sviluppo; ed anche per rendere piú spedita ed efficace la attuazione di quegli interventi, sia ordinari che straordinari, che, per le caratteristiche di alta densità insediativa e forte interconnessione funzionale dei territori in cui ricadono, risultano particolarmente complessi.

Si tratta però di un dibattito che, seppur ricco di episodi signifícativi e di nuove presenze 13[12] è ancora frammentario, con esiti culturali ed operativi incerti e, soprattutto, cui stenta a far seguito una iniziativa pubblica organica: una iniziativa, cioè, in grado di delineare una politica urbana nazionale adeguata all'entità, alla complessità, ed anche all'urgenza dei problemi che quella transizione pone.

Non può non menzionarsi, in proposito, la recente nomina, per la prima volta in Italia, di un Ministro per le aree urbane. Indubbiamente si è voluto con essa rimarcare la dimensione nazionale che una politica urbana dovrebbe necessariamente avere. Dimensione resa necessaría soprattutto dalle notevoli diversità con cui le singole realtà urbane, e le loro amministrazioni, hanno reagito alle trasformazioni imposte dal nuovo ciclo e quindi dalla diversa natura ed entità dei problemi di intervento che esse pongono. In effetti solo una dimensione nazionale e quindi una valutazione attenta e costantemente aggiornata della natura e dell'ampiezza di tali diversità, e dei problemi che di volta in volta esse pongono, consentirebbe di orientare gli interventi al fine di ridurre i costi della modernizzazione urbana e massimizzarne i benefici per l'ititera collettività nazionale.

Ora, ed è questo il punto essenziale, i divari di gran lunga piú rilevanti, e gravi, sussistono ancor oggi tra la realtà urbana ed i sistemi urbani centro - settentrionali. Certo, lo stesso Mezzogiorno urbano appare largamente differenziato al suo interno ed i problemi che si pongono, ad esempio, per il riordino dell'area urbana di Bari ed un suo piú equilibrato sviluppo non possono che essere molto diversi da quelli dell'area metropolitana di Napoli, che da sola raccoglie oltre un quinto della popolazione e quasi un terzo dell'apparato industriale manifatturiero del Mezzogiorno, o da quelli del recupero, della riqualificazione e della integrazione con il territorio regionale, delle città calabresi.

Cionondimeno sembra inconfutabile, alla luce non solo della osservazione quantitativa e statistica, ma della stessa esperienza quotidiana, che sotto molti ed essenziali profili sono le città e le aree urbane meridionali nel loro insieme a mostrare oggi i sintomi piú gravi di distacco dai processi di modernizzazione, di adeguamento delle condizioni urbanistiche ed ambientali, di integrazione con i rispettivi territori regionali che, seppure con modalità e ritmi diversi, si vanno affermando in molte aree urbane centro - settentrionali ed europee.

Su tale crescente distacco, sulle sue principali caratteristiche quantitative e qualitative e sui rischi che esso comporta, la SVIMEZ è tornata anche di recente, e con insistenza 14[13]; sul fatto che

13[12] Ci si riferisce alle numerose proposte e progetti di interventi, anche di rilevante dimensione formulate, nel corso dell'ultimo anno, sia da parte del sistema delle Partecipazioni statali, sia da parte di imprese private, o consorzi di imprese anche di recente costituzione. 14[13]V., in particolare SVIMEZ: Rapporto sull'economia del Mezzogiorno 1986 e 1987; La questione meridionale nel quarantennale della SVIMEZ, Roma, 1986; D. Cecchini, Motivi ed obiettivi di un programma straordinario di intervento per il riassetto urbanistico e territoriale nel Mezzogiorno, in «Studi SVIMEZ», n. 3-4, 1986; v. anche i risultati delle ricerche sui problemi di

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al suo progressivo superamento dovrebbe essere anzitutto finalizzata una politica urbana nazionale sembrano ora convergere autorevoli opinioni e risultati di indagini diverse 15[14].

Se il sistema urbano nella sua complessiva articolazione costituisce, oggi forse píú di ieri, la principale infrastruttura per lo sviluppo non v'è dubbio che è dalla carenza e dalla debolezza di questa «infrastruttura» che il Mezzogiorno è particolarmente penalizzato, e che il suo territorio rischia ulteriori perdite di competitività.

  

2. Definizioni e criteri di delimitazione delle aree urbane 

Le discipline territoriali hanno finora elaborato diversi criteri e metodologie per la delimitazione delle aree urbane: essi possono caratterizzarsi sia in relazione al «punto di vista» secondo il quale si considera l'area (che potrà essere di volta in volta prevalentemente fisico - geografica, o politico . amministrativa, o economico - funzionale) sia in relazione alla specifica finalità rispetto alla quale ci si propone di delimitare l'area (che potrà essere amministrativa, pianificatoria, o di gestione di specifici servizi o interventi, ovvero analitico - conoscitiva) 16[15]14.

E’ al punto di vista economico - funzionale che la SVIMEz ha fatto riferimento fin dalle sue prime ricerche sullo «sviluppo metropolitano» condotte alla fine degli anni 60, ed è ancora oggi a quel punto di vista che conviene riferirsi. Piú di altri esso consente di perseguire la finalità, comune alle ricerche di allora e a quelle in corso, di valutare analiticamente l'entità, le caratteristiche strutturali e le tendenze dei problemi della urbanizzazione nelle regioni meridionali e di verificarne le eventuali diversità rispetto alle altre regioni del paese 17[16]

assetto territoriale ed urbanistico delle singole regioni meridionali in corso di pubblicazione su questa rivista (già pubblicati i saggi sulla Calabria, di A. Bianchi nel Numero unico 1987, e sulla Puglia, di D. Borri e A. Barbanente, in questo stesso numero).15[14] Cfr. IRER - Progetto Milano - Fondazione Agnelli, Il sistema metropolitano italiano, Milano, F. Angeli, 1987, ed in particolare l'introduzione di G. Mazzocchi, coordinatore del Progetto Milano, in cui si afferma, tra l'altro: «Si tratta in ogni caso di organizzare una politica urbana nazionale, che è oggi la condizione essenziale per realizzare ciò che Pasquale Saraceno ha definito «l'unificazione economica del paese». Il centripetal bias delle nuove tecnologie, gli effetti di polarizzazione delle componenti piú innovative dello sviluppo verso i maggiori centri metropolitani delle regioni piú avanzate, ed i conseguenti rischi di un aggravamento degli squilibri regionali - sia in termini di produttività che di píú generali «condizioni ambientali» - sono lucidamente evidenziati da R. Camagni e R. Rabellotti (GREMI, cit.) che avanzano anche alcune indicazioni sulla natura degli interventi finalizzati alla diffusione della innovazione tecnologica. Quanto al crescente divario non solo e non tanto di dotazioni fisiche ed infrastrutturali delle aree urbane meridionali rispetto al Centro - Nord, ma soprattutto di efficienza nelle gestioni dei servizi di pubblica utilità, si possono segnalare i risultati di una recente indagine svolta da SPS, che confermano le valutazioni della SVIMEZ, secondo i quali le dotazioni di verde pubblico, parcheggi, asili nido e l'efficienza dei servizi di assistenza scolastica, culturali, di smaltimento dei rifiuti solidi urbani ecc., sarebbero nettamente inferiori nelle quattro maggiori città meridionali (Napoli, Bari, Palermo e Catania) rispetto alle altre grandi città italiane (v. SPS Sistema Permanente di Servizi, 4° Rapporto sullo stato deipoteri locali - 1987, Roma, 1987). 16[15] Una sintetica rassegna sulle metodologie di delimitazione delle aree metropolitane e sune loro recenti applicazioni a livello internazionale è in P. Hall e D. Hay, Growth Centers in the European Urban System, London, Heinemann Educational Books, 1980. In Italia i problemi connessi ai diversi criteri di delimitazione sono stati ampiamente discussi in U. Marchese, Aree metropolitane e nuove unità territoriali in Italia, Genova, ECIG, 1981. 

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Secondo tale punto di vista i termini di «città», «città centrale», «area urbana», «area metropolitana» acquistano, pur nel diversificarsi delle tipologie reali, significati ormai consolidati che conviene brevemente ricordare.

Se, secondo la comune accezione, «città» è una porzione di territorio ad alta densità insediativa, caratterizzata da una edificazione intensa e compatta, senza effettive soluzioni di continuità, di norma estesasi, nel corso del primo «ciclo» della urbanizzazione industriale, attorno ad un centro storico preesistente, in termini economico - funzionali essa,è soprattutto il luogo nodale delle reti di relazioni ove si concentrano gli scambi e si polarizzano i flussi di persone, di beni e di messaggi: è quindi il luogo ove si costituiscono le maggiori convenienze per la localizzazione delle attività, ad alto valore aggiunto, connesse a funzioni direzionali, di gestione e di rappresentanza che di quegli scambi e di quei flussi piú largamente beneficiano.

L'«area urbana» è di norma costituita da un territorio piú ampio, la cui densità insediativa permane piuttosto elevata, ma che può presentare soluzioni di continuità della edificazione, e al cui interno sono localizzate, in modo commisto o comunque a breve distanza reciproca, residenze, attività industriali, manifatturiere in particolare, commerciali e di servizio in un sistema fortemente integrato di produzione, di distribuzione e di consumo. L'«area urbana» rappresenta dunque l'estensione produttiva e residenziale della «città» nei territori a essa limitrofi. Le città intorno alle quali si è andata formando un'area urbana, essenzialmente nel corso del secondo «ciclo» di urbanizzazione, sono usualmente indicate come «città centrali».

Con il termine «area metropolitana», si intende un sistema economico,funzionale piú che una unità insediativa demografico - edilizia; esso può includere anche diverse «cíttà» e «aree urbane». Ciò che importa nella individuazione di un'area metropolitana, le cui dimensioni sia territoriali che demografiche e funzíonali sono comunque molto píú ampie di quelle dell'«area urbana», non è la continuità della edificazione, la quale può risultare interrotta da territori anche ampi, a destinazione agricola o liberi, quanto la presenza di rapporti funzionali, di interrelazioni e di scambi fra le diverse attività e funzioni insediate nel suo ambito. I confini fisici di un'area metropolitana appaiono dunque piú sfumati di quelli della «città» e anche dell'«area urbana»; cionondimeno essi sono approssimativamente definibili attraverso opportuni indicatori.

E’ all'approccio economico - funzionale che devono attribuirsi, come è ben noto, le esperienze piú significative di definizione e delimitazione delle aree urbane e metropolitane. Di tali esperienze, due costituiscono ancor oggi un riferimento obbligato.

La prima, avviata negli USA fin dagli anni 50, ha consentito di mettere a punto un insieme di criteri che utilizzano congiuntamente indicatori di dimensione assoluta (soglia demografica minima di 50.000 abitanti per le «città centrali») di densità territoriale (delle residenze e della occupazione) e di integrazione economico - sociale tra la città centrale e le unità territoriali circostanti. Val la pena di ricordare che, attraverso successivi affinamenti, compiuti dall'Ufficio di Censimento degli USA, le aree cosí delimitate, e denominate prima Standard Metropolitan Areas (SMA, 1950) poi Standard Metropolitan Statistical Areas (SMSA, dal 1960), costituiscono da oltre trenta anni unità territoriali inserite nei Censimenti nazionali; e che, per tener conto della crescita e diffusione urbana, e dei processi di saldatura tra diverse aree urbane, negli anni 70 è stata introdotta una ulteriore aggregazione territoriale, la Standard Consolidated Statistical Area (SCSA) che è costituita dalla aggregazione di due o Piú SMSA contigue 18[17].

La seconda esperienza, avviata alla fine degli anni 60 in Inghilterra, si è svolta soprattutto attorno ad una idea di area urbana come «spazio autocontenuto», come territorio cioè entro il quale si svolgono i movimenti pendolari e le relazioni a carattere giornaliero (Daily Urban System). Essa

17[16]Una valutazione aggiornata della efficacia dell'approccio economico - funzionale è in Roger D. Clark, John P. Roche, Functional Typologies of Metropolitan Areas: An Examination of Their Usefulness, in «Urban Studies», vol. 21, n. 1, febbraio 1984. 18[17] Cfr. C.P. Kaplan, T.L. Van Valey, Census 80: Continuing the Factfinder Tradition, Washington U.S. Department of Commerce, Bureau of the Census, 1980.

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ha dato luogo ad un insieme di criteri essenzialmente fondati su indicatori della intensità degli spostamenti per motivi di lavoro tra la città centrale e le unità territoriali circostanti.

Tali criteri hanno consentito, attraverso successivi approfondimenti, di suddividere l'intero territorio nazionale in «Regioni Funzionali» e di delimitare, attraverso di esse, le aree urbane, in stretta correlazione con i mercati del lavoro locali. Le aree cosí individuate sono state largamente utilizzate nelle indagini finalizzate alla formulazione di politiche urbane - sia nazionali che regionali - e di politiche del lavoro 19[18].

Nel corso dei primi anni 80 alcune importanti ricerche comparative a scala europea 20[19], pur riferendosi alle due esperienze ricordate, ed in particolare utilizzando il concetto di area urbana come entità territoriale costituita da una - o piú - città centrali (core) e da una corona periferica (ring) ad essa funzionalmente integrata, hanno utilizzato aggregati territoriali (Functional Urban Areas) delimitati secondo criteri meno univoci, che consentissero però di tener conto delle esperíenze e degli indicatori utilizzati in ciascun paese.

Anche in Italia, ove purtroppo non si è ancora pervenuti ad una utilizzazione censuaria di entità territoriali di tipo urbano o metropolitano, utilizzazione che pure avrebbe effetti positivi sia ai fini conoscitivi che di predisposizione di politiche, alcune ricerche recenti hanno fornito contributi utili in materia. In particolare un gruppo di lavoro congiunto ISTAT-IRPET (Istituto Regionale per la Programmazione Economica della Toscana) ha reso noti, nel dicembre 1986, i risultati di un vasto lavoro di elaborazione dei dati sub - comunali (sezioni di censimento) dei censimenti 1981 della popolazione e dell'industria e commercio; tale elaborazione, fondata essenzialmente sulla analisi degli spostamenti giornalieri per lavoro disponibili per la prima volta in Italia attraverso il Censimento 1981 della popolazione, ha dato luogo ad una prima individuazione di 955 «sistemi locali del lavoro» in cui può essere suddiviso l'intero territorio nazionale e delle 177 «regioni funzionali del lavoro» in cui essi sono aggregabili 21[20].

Al problema della delimitazione delle aree urbane in Italia la SVIMEZ aveva dato un contributo fin dalla ricordata indagine sullo sviluppo metropolitano 22[21] mettendo a punto un criterio che, pur riferendosi alle esperienze internazionali piú consolidate, teneva conto delle specifiche caratteristiche dei processi di urbanizzazione nel nostro paese e della disponibilità di dati statistici sufficientemente disaggregati.

Secondo tale criterio venivano considerate aree urbane quei comuni, o insieme di comuni contigui, che, oltre a superare una determinata dimensione demografica (100.000 abitanti.residenti) raggiungessero una dimensione e una densità di attività extragricole (oltre 35.000 attivi rilevati dal censimento della popolazione con una densità di oltre 100 per kmq) tali da presupporre la presenza e la reciproca integrazione di funzioni urbane: cioè di quelle funzioni che richiedono una dimensione sufficiente di mercato e di economie esterne, non offerte dai centri minori. Per tener conto poi della entità e della persistenza dei fenomeni di sovrappopolazione urbana nel Mezzogiorno, in successivi aggiornamenti di quella ricerca 23[22] si consideravano «comuni urbani»

19[18] Cfr. P. Hall e D. Hay, op. cit.20[19] Si tratta essenzialmente, oltre a P. Hall, D. Hay, Growtb Genters... cit., e P. Cheshire e al., Urban Problems... cit., della nota ricerca condotta, all'interno del «The Costs of Urban Growth (CURB) Project», da L. Van Den Berg e al. e pubblicata nel volume Urban Europe, A study of Growth and Decline, London, Pergamon Press, 1982.21[20] Cfr. ISTAT-IRPET, I mercati locali del lavoro in Italia, bozza presentata al Seminario «Identificazione di sistemi territoriali: Analisi della struttura sociale e produttiva in Italia», Roma, dicembre 198622[21]. Sui criteri di delimitazione delle aree metropolitane utilizzati dalla SVIMEZ, cfr. S. Cafiero, A. Busca, Lo sviluppo metropolitano in Italia, SVIMEZ, Milano, Giuffré, 1970; S. Cafiero, Nuove tendenze dell'urbanizzazione in Italia e nel Mezzogiorno, in «Informazioni SVIMEZ», n. 4, 1980; D. Cecchini, Nota sulle aree urbane meridionali, in «Studi SVIMEZ, nn. 11-12, 1983. 23[22] Cfr. S. Cafiero, Nuove tendenze... cit.  

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anche quei comuni che, pur non raggiungendo quelle soglie dimensionali o di densità di attivi extragricoli presentavano una popolazione superiore a 100.000 abitanti.

Oggi, la rilevanza dei processi di decentramento produttivo e di diffusione ínsediativa verificatisi anche nel nostro paese, e le tendenze alla redistribuzione di attività e funzioni all'interno delle singole aree urbane o metropolitane, hanno suggerito di integrare tali criteri, rivelatisi comunque ancora significativi. IL parso quindi necessario introdurre, tra i criteri di delimítazione delle aree, un indicatore che consentisse di rilevare, seppur approssimativamente, gli effetti del decentramento produttivo sull'ampliamento o sulla nuova formazione delle aree urbane: che consentisse cioè di tener conto dello spostamento degli impianti di produzione nei territori «di frangia» delle aree come prima individuate, o anche al loro esterno. Si è perciò associato al criterio della densità degli attivi extragricoli, censiti nei loro luoghi di residenza, quello della densità degli addetti extragricoli - cioè dei «posti di lavoro» - rilevati presso le unità locali delle imprese dai censimenti industriali: ciascun comune dell'intero territorio nazionale è stato quindi valutato anche in relazione ad opportune soglie di densità dei posti di lavoro extragricoli 24[23] e, se con densità superiore a tali soglie, inserito nelle aree urbane o metropolitane. Quanto alla valutazione della distribuzione delle attività e funzioni all'interno delle singole aree, si sono introdotti criteri che consentono di individuare la presenza, al loro interno, di «città centrali» cioè di poli o sub - poli urbani con funzioni attrattive, o preminenti, nei confronti del resto dell'area: si sono quindi definiti come «città centrali» tutti i comuni interni alle aree urbane o metropolitane che, oltre ad avere una popolazione superiore a 50.000 abitanti soddisfano almeno una delle seguenti condizioni: un rapporto tra posti di lavoro (addetti) e attivi extragricoli superiore a 1, ovvero superiore al valore dello stesso rapporto per l'intera area (indici di attrazione); una popolazione superiore alla metà di quella dell'intera area (indice di preminenza).

Infine, nell'esame qualitativo delle relazioni tra le aree urbane o metropolitane e il resto dei territori regionali si è tenuto conto della numerosità e della distribuzione dei centri, con una popolazione compresa tra 50.000 e 100.000 abitanti, esterni alle aree stesse.

I criteri indicati hanno naturalmente un carattere convenzionale. Essi non si propongono una esatta individuazíone dei confini delle aree urbane o metropolitane 25[24]: molte di esse ad un esame localmente piú approfondito, o soprattutto ad una delimitazione finalizzata ad obiettivi di diversa natura (pianificatori o di attuazione di politiche) potrebbero risultare in qualche misura diversamente configurate. I criteri adottati, tuttavia, sono risultati adeguati agli obiettivi della ricerca che, si ricorda, consistono nella analisi economica - funzionale dell'entità, delle caratteristiche, delle tendenze del fenomeno urbano in Italia e nella valutazione dei diversi problemi che esso pone nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord.  3. Le aree urbane al 1981 

Nell'elenco in Appendice è riportata la articolazione territoriale delle aree urbane delimitate al 1981 secondo i criteri esposti nel paragrafo precedente. Per ogni area sono indicate le città centrali e gli altri comuni che di essa fanno parte, elencati per provincia di appartenenza; sono inoltre evídenziati i comuni che sono risultati inclusi nelle aree per l'espansione dei loro confini tra il 1971 e il 1981; alcuni comuni che, pur essendo inclusi nelle aree al 197 1, ne sono risultati esclusi al 1981 sono indicati tra parentesi in calce a ciascuna area.

24[23]Essendosi convenuto, per ovvi motivi di signíficatività nella analisi dinamica, di mantenere fissa la soglia di 100 attivi/kmq ai censimenti 1971 e 1981, i valori per gli addetti sono risultati rispettivamente pari a 70,4 add/kmq e 92,8 add/kmq.25[24]Sotto questo profilo gli indicatori adottati sarebbero ancora grossolani e, basati come sono su dati statistici relativi ai singoli comuni - la cui ampiezza territoriale, come è noto, è estremamente variabile -, si rivelerebbero inadeguati per una dettagliata rilevazione delle singole aree. 

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Le 39 aree urbane individuate sono disposte nell'elerico, e nella tabella i che ne mdica le principali dimensioni territoriali, demografiche ed occupazionali, secondo tre gruppi dimensionali.

Il primo gruppo è costituito dalle massime concentrazioni urbane la cui popolazione, secondo la piú recente rilevazione anagrafica disponibíle, supera i 3 milioni di abitanti e che possono essere definite vere e proprie aree metropolitane. Si tratta anzitutto della grande area metropolitana milanese, di dimensione oramai decisamente sovraregionale, che raccoglie al 1985 oltre 7 milioni di abitanti e 670 comuni di ben 9 province; della piú compatta area di Roma, ove risiedono poco piú di 3 milioni di abitanti e che aggrega, essenzialmente a motivo della eccezionale ampiezza territoriale del suo comune centrale, solo 15 comuni; dell'area metropolitana di Napoli, di gran lunga la maggiore e piú articolata realtà urbana del Mezzogiorno, ove risiedono oltre 4 milioni di abitanti, in 166 comuni appartenenti a 4 diverse province.

Sono poi elencate le aree urbane di grande dimensione, la cui popolazione varia tra gli 1,8 milioni di abitanti della maggiore, quella torinese, ed i circa 637.000 della minore, quella di Catania: delle 11 aree urbane appartenenti a questa classe dimensionale 8 sono localizzate nel Centro-Nord e 3 nel Mezzogiorno. Seguono infine le aree urbane definibili come di dimensione media o minore, ed i «comuni urbani»: la loro dimensione demografica è compresa tra i circa 300.000 abitanti delle maggiori (Taranto e Cagliari) e la soglia convenzionalmente assunta di 100.000 abitanti. Delle 25 aree appartenenti a questa classe dimensionale, 12 ricadono nel Mezzogiorno e 13 nel Centro-Nord.

Complessivamente nelle 39 aree urbane risiedono 31,7 milioni di abitanti, pari al 55,4% della popolazione nazionale. La consistenza demografica e l'articolazione territoriale delle aree è però notevolmente diversa nelle due grandi circoscrizioni del paese.

Nel Centro-Nord, come già si è rilevato nel Rapporto SVIMEZ 1987, la diffusione urbana ha virtualmente saldato in un unico sistema le grandi aree padane e venete, ha congiunto la direttrice emiliana a quella adriatica fino a Pescara ed ha notevolmente ampliato le aree liguri e toscane; la popolazione residente nelle 23 aree urbane del Centro-Nord, pari a 22,9 milioni di unità, corrisponde al 63 % della sua popolazione complessiva su un territorio pari al 15 %, con un numero di posti di lavoro extragricolí pari al 69% del totale circoscrizionale.

Nel Mezzogiorno, ove non si sono registrati rilevanti fenomeni di saldatura fra le diverse aree urbane, che restano fra loro separate sia geograficamente che funzionalmente, la popolazione urban ' a ascende a circa 8,8 milioni di abitanti, pari al 42% della popolazione meridionale, su di un territorio pari al 6% e con un numero di posti di lavoro extragricoli pari al 51% del totale.

Differenze notevoli si riscontrano, sempre a livello aggregato, sia nella densità insediativa media delle aree, nel Mezzogiorno (1.245 ab./kmq) nettamente piú elevata rispetto al Centro-Nord (848 ab./kmq), sia nei ritmi di crescita demografica, ancora intensi nel Mezzogiorno, ove la popolazione urbana è aumentata di 1,3 milioni di unità nel decennio 1971-81 e di oltre 255.000 unità nel quadriennio successivo; nel Centro-Nord invece la popolazione delle aree è addirittura diminuita in valore assoluto di quasi 100.000 unità negli anni 1982-85.

In realtà, come si è già osservato, il sistema urbano centrosettentrionale è cresciuto, negli anni 70, essenzialmente per diffusione, mentre in quello meridionale sono ancora prevalenti le tendenze alla concentrazione. Val la pena di rilevare, in proposito, che un primo risultato della introduzione dell'indice di densità territoriale dei posti di lavoro (addetti) extragricoli nel criterio di delimitazíone delle aree è consistito nella verifica della esiguità dei processi di «índustrializzazione diffusa» nel Mezzogiorno durante gli anni 70 e quindi della loro relativamente scarsa incidenza sui processi di urbanizzazione 26[25].

26[25] Nel Centro-Nord l'introduzione di tale indice ha consentito di rilevare estensioni significative: delle aree metropolitane di Torino e Milano (rispettivamente ampliatesi di 17 e 71 comuni nel decennio 1971-8 l); l'estensione e la reciproca saldatura delle aree urbane di Vicenza e Verona ( + 19 comuni) e la loro virtuale congiunzione con quella di Bassano ( + 6 comuni); l'estensione dell'area metropolitana di Padova e Venezia fino a includere Befiuno (+ 23 comuni), la costituzione della nuova area urbana di Pordenone; la saldatura ed estensione lungo la direttrice emiliana delle

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 Naturalmente i dati aggregati non esprimono la complessità di sistemi e realtà urbane tra

loro molto diversificate; rinviando ad altra sede, e al proseguimento della ricerca, la analisi di tale complessità sembrano per ora possibili due considerazioni di carattere generale.

La prima concerne appunto il fatto che l'universo urbano del quale si è tentata la delimitazione raccoglie al suo interno aree molto diverse per dimensioni, articolazione territoriale, caratteristiche economico - funzionali. In particolare la notevolissima estensione di quella vera e propria «regione urbana» indicata come area metropolitana milanese potrebbe sollevare alcune perplessità in ordine alla utilizzazione del criterio adottato. Esso, è stato osservato, potrebbe dar luogo a delimitazioni territoralmente troppo estese 27[26]. E viceversa da ritenere che proprio in casi comcome quello dell’area milanese si manifesta la utilità conoscitiva di tale criterio: esso consente da un lato, attraverso la individuazione delle città centrali, di caratterizzare sia in termini spaziali che funzionali campi urbani molti vasti che possono in tal modo essere disaggregati ed analizzati al proprio interno; dall'altro è proprio la utilizzazione di soglie significative e costanti nel tempo che consente di rilevare la reale dimensione dei fenomeni territoriali nella loro dinamica e di «misurare», ad esempio, la entità e gli effetti dei processi di diffusione urbana. Il fatto che le 9 «città centrali» individuabili all'interno dell'area metropolitana milanese siano collocate entro un territorio ad elevate caratteristiche urbane e di grande estensione quale quello delimitato nella indagine, è circostanza di grande rilievo sia ai fini analitici, che programmatici.

La seconda osservazione riguarda il fatto che, ferme restando lenotevoli differenziazzioni tra la realtà urbana meridionale e quella centro - settentrionale, e nonostante l'entità dei processi diffusivi che hanno interessato quest'ultima, le densità insediative medie, sia di residenze che di posti di lavoro, risultano ancora straordinariamente piú elevate nelle aree urbane, non solo com'è ovvio nelle città centrali ma anche nei ben piú vasti hinterlands (gli «altri comuni») di quanto non lo siano nel restante territorio non urbano. Il richiamo a questo dato, apparentemente banale, vuol semplicemente evitare che l'attenzione alle nuove tendenze al decentramento produttivo e residenziale metta in ombra il carattere di relativa rigidità e di permanenza «storica» tipico delle strutture insediative 28[27]. In effetti, non è tanto ad una generale «diluizione» delle caratteristiche urbane o metropolitane degli insediamenti che quelle tendenze sembrano dar luogo, quanto ad una estensione per contiguità e propagazione, di tali caratteristiche a porzioni sempre piú ampie di territorio. Si può ad esempio stimare che, anche a motivo del crescente consumo di suolo sia pro capite che per addetto, circa metà delle aree classificate di pianura dall'ISTAT nelle regioni del Centro-Nord ricadono oggi all'interno delle aree urbane secondo la delimitazione SVIMEZ. Si vuole con ciò semplicemente notare che V affermarsi di modelli diffusivi e di strutture insediative

aree urbane di Parma, Modena e Bologna ( + 10 comuni); la continuità della direttrice adriatica da Ravenna fin quasi all'area urbana media-adriatica (Alba Adriatica e Giulianova) di nuova costituzione; la estensione delle aree metropolitane della Liguria meridionale e della Toscana (Firenze-Prato, + 6 comuni; La Spezia-Massa C.-Pisa, + 8 comuni). Nel Mezzogiorno, viceversa, lo stesso criterio ha dato esiti molto meno rilevanti: se si eccettua l'arca medio-adriatica di nuova formazione (pressoché totalmente inclusa nella provincia di Teramo ma solo perciò, in effetti, da attribuirsi al Mezzogiorno) essi si riducono alla inclusione di Avellino nell'area metropolitana di Napoli (+ 14 comuni) e a limitati ampliamenti dell'area urbana di Siracusa (+ 3 comuni) mentre le altre estensioni delle aree, comunque esigue, sono determinate da processi di conurbazíone soprattutto residenziali. 27[26] Cfr. P. Costa, E. Canestrelli, Agglomerazione urbana localizzazione industriale e Mezzogiorno, SVIMEZ, Mílano, Gíuffrè, 1983, pp. 54 ss. 28[27] Su questi aspetti è di notevole interesse il saggio di B. Secchi, Nuove tecnologie e territorio in A. Ruberti (a cura di), Tecnologia domani, Bari, Laterza, 1985. 

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di tipo reticolare, cui si è fatto anche altrove riferimento 29[28], non riduce né la sostanziale diversità del territorio urbano e metropolitano rispetto al tetritorio che tale non è, né rende meno necessario l'avvio di quelle politiche cui ci si è riferiti nel primo paragrafo.

   

Stadi di sviluppo del sistema urbano italiano30[1]

di Domenico Cecchini    

Il modello generalmente noto come degli «stadi di sviluppo» o del «ciclo di vita urbano», formulato embrionalmente alla fine degli anni '70 negli USA per spiegare l'arresto della crescita demografica e manifatturiera delle grandi aree urbane (Norton, 1979) e messo a punto in Europa negli anni immediatamente successivi (Hall e Hay, 1980; Van den Berg et al., 1982), si fonda su un paradigma interpretativo che pone in relazione i successivi stadi di urbanizzazione - definiti in termini di tassi di variazione demografica delle città centrali e delle rispettive periferie (hinterland) - con le successive fasi della industrializzazione.

Secondo tale paradigma a ciascuno dei tre stadi di urbanizzazione finora succedutisi nelle economie industrializzate, e cioè il primo della «concentrazione urbana», il secondo della «crescita sub - urbana», il terzo della «de - urbanizzazione», corrisponde una specifica fase della industrializzazione e del progresso tecnico (Cafiero, 1988) 31[2]. Il connotato ciclico del modello deriva non tanto dai riferimenti originari alla teoria del ciclo del prodotto, quanto dal fatto che nella

29[28] Cfr. SVIMEZ, Rapporto 1987sull'economiadelMezzogiorno, parte III, cap. 2. Sugli aspetti diffusivi e reticolari delle nuove tendenze insediative sono essenziali i recenti lavori di G. De Matteis, ed in particolare Contro-urbanizzazione e strutture reticolari in G. Bianchi, I. Magnaní (a cura di), Sviluppo multiregionale: teorie, metodi, problemi, Milano, Angeli, 1985; Contro-urbanizzazione e deconcentrazione: un salto di scala dell'organizzazione territoriale in R. Innocenti (a epra di), Piccola città e piccola impresa, Milano, Angeli, 1985. 30

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sua più compiuta formulazione esso prevede che al terzo stadio, quello della deurbanízzazione, faccia seguito uno stadio di riurbanizzazione; quest'ultimo sarebbe caratterizzato, pur in un quadro di stabilità o addirittura di lieve riduzione della popolazione urbana complessiva, da un aumento del peso demografico delle città centrali rispetto alle periferie analogo a quello verificatosi nel primo stadio di concentrazione urbana.

Altra proposizione essenziale del modello è che i passaggi da uno stadio al successivo - ovvero dalla prima alla seconda delle fasi in cui ciascuno stadio è suddivisibile (v. prospetto a pag. 2) - pur potendo avvenire in tempi e con velocità diverse in relazione alle diverse caratteristiche ed evoluzioni delle basi economiche, seguono di norma l'ordine stabílito: un'area urbana può passare dallo stadio della concentrazione urbana a quello della de - urbanizzazione anche saltando, o percorrendo in tempi rapidi, lo stadio della sub - urbanizzazione ma non può percorrere un cammino inverso.

Indagini successive (Camagni, 1986; Cheshire e Hay, 1989) hanno definitivamente chiarito la natura generale del modello, cioè il fatto che esso interpreta le tendenze prevalenti nella organizzazione spaziale dei sistemi urbani dei paesi industrializzati, ma non fornisce, né potrebbe, indicazioni univoche sulle performances delle loro basi economiche 32[3]; sono state avanzate, inoltre, motivate perplessità sull'effettivo carattere ciclico della evoluzione descritta dal modello (De Matteis, 1989): I casi reali di ri - urbanizzazione appaiono così limitati ed il fenomeno della gentrification di dimensioni così contenute da rendere molto incerta la previsione del passaggio dal terzo stadio della de - urbanizzazione al quarto della ri – urbanizzazione 33[4].

Depurato da contenuti prescrittivo - previsivi, il modello degli stadi di sviluppo può dunque essere considerato come un criterio sintetico di descrizione e comparazione delle fasi evolutive nelle dinamiche spaziali dei sistemi urbani di diversi paesi e di diverse regioni 34[5]. Esso inoltre consente la formulazione di ipotesi congetturali circa la collocazione di un sistema urbano in una determinata fase del processo di industrializzazione.

Entro tali limiti e secondo questo punto di vista si è svolta una applicazione del modello ai sistemi urbani italiani, che conferma e approfondisce alcune valutazioni formulate in scritti precedenti (SVIMEZ, 1987; Cafiero, 1988; Cecchini, 1988).

L'applicazione, i cui risultati sono esposti nel prospetto seguente, è estesa al decennio 1971-81 ed ai successivi sei anni (1981-87); si riferisce alle 33 aree urbane intercomunali dotate di città centrale 35[6] che, secondo la delimitazione al 1981, si estendono per oltre 32 mila Kmq e raccolgono 1.415 comuni con 30,9 milioni di abitanti.

 

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  Nel corso degli anni '70 la quasi totalità delle aree urbane italiane si collocava ancora

nello stadio della sub-urbanizzazione. Sole eccezioni l'area di Latina, in formazione, che si collocava nello stadio della urbanizzazione con concentrazione assoluta, e cinque aree settentrionali già nello stadio della de - urbanizzazione: quattro, tra le quali la grande area urbana ligure di Genova e Savona, nella prima fase (de - urbanizzazione con decentramento assoluto) e una nella seconda (de - urbanizzazione con decentramento relativo).

Da segnalare che per la gran parte delle aree urbane meridionali, incluse due tra le maggiori (Bari e Palermo), il processo di sub-urbanizzazione era, in questi anni, ancora nella fase iniziale caratterizzata da un tasso positivo di crescita delle città centrali, seppure inferiore a quello dei comuni periferici (sub-urbanizzazione con decentramento relativo); solo l'area metropolitana di Napoli e l'area urbana di Catania si trovavano nella fase finale della sub-urbanizzazione, contraddistinta da una riduzione assoluta di popolazione nella città centrale (sub-urbanízzazione con decentramento assoluto). In tale fase si collocavano viceversa tutte le grandi aree urbane e metropolitane del Centro e del Nord, con le sole e comprensibili eccezioni dell'area romana e dell'area policentrico-lineare-diffusa Alto Adriatica (Ravenna-Pescara-Ancona).

Molto diverso il quadro emergente nel corso degli anni '80: ben tredici aree urbane, esclusivamente centro-settentrionali, sono nello stadio della de-urbanizzazione: nove nella sua

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fase «assoluta» e quattro in quella «relativa». Tra le prime si annoverano tutte le grandi aree urbane e metropolitane del Centro-Nord tranne quelle a struttura policentríco-diffusa del Nord-Est (Verona-Vicenza, Padova-TrevisoVenezia e l'area Alto - Adriatica); tra le seconde la grande area ligure, e quelle minori di Trieste, di Alessandria e di Biella.Diciassette aree, undici delle quali meridionali, permangono nello stadio della sub-urbanizzazione: a Napoli e Catania, che già nel decennio precedente erano nella fase finale di tale stadio (decentramento assoluto) si sono aggiunte, tra le aree urbane meridionali, quelle di Pescara, Bari, Cosenza e Cagliari36[7].

La comparazione statica tra i due periodi considerati conferma dunque quanto si è già osservato in altra sede: il sistema urbano del Nord è evoluto, nelle sue componenti principali e con la sola rilevante eccezione delle grandi aree policentrico-dif fuse del Nord-Est, dallo stadio della sub-urbanizzazione a quello della de-urbanizzazione; la realtà urbana meridionale è rimasta invece nello stadio della sub-urbanizzazíone, pur evolvendo, in parte, dalla sua fase «relativa» a quella «assoluta».

Ulteriori considerazioni emergono dalla analisi dinamica dei passaggi delle singole aree da uno stadio al successivo. Delle 20 aree urbane centro - settentrionali considerate, 12 sono progredite di una posizione: si tratta anzitutto delle grandi aree urbane e metropolitane che costituiscono il sistema Nord - occídentale (Torino, Milano, Emiliana, Ligure - Toscana e Firenze), passate dalla seconda fase della sub - urbanízzazione alla prima della de - urbanizzazione; dell'area ligure di Genova e Savona, che passa dalla prima alla seconda fase della de - urbanízzazione; delle due aree, di Roma ed Alto - Adriatica (Ravenna – Pesaro - Ancora), fra loro molto diverse quanto a struttura insediativa, ma accomunate dal passaggio dalla prima alla seconda fase della sub - urbanizzazione.

Altre cinque aree centro - settentrionali sono invece rimaste, per motivi diversi, nello stesso stadio evolutivo: nelle due grandi aree venete a struttura policentrico - diffusa il modello economico - territoriale - caratterizzato da diffusione di piccole e medie industrie, da densità insediative non elevate negli hinterland, da marcata disponibilità (sia in termini di suoli utilizzabili che di modelli socio - culturali) alla prosecuzione della crescita urbana decentrata - spiega la stabilità, anche negli anni '80, di incrementi demografici nei comuni periferici più che compensativi delle riduzioni nelle città centrali.

Delle altre tre aree urbane minori rimaste nella stessa fase evolutiva, due (Alessandria e Ferrara) si collocavano già negli anni '70 nello stato di de - urbanizzazíone e solo la terza, Perugia, rimane nella prima fase della sub - urbanizzazione.

Decisamente più statico appare il quadro urbano meridionale: su 13 aree urbane considerate solo 4 hanno compiuto, tra gli anni '70 e gli anni '80, un passaggio di fase: le due principali aree della direttrice adriatica, Pescara - Chieti e Bari, passate dalla prima alla seconda fase di sub - urbanizzazione, e due aree minori, Cosenza e Cagliari, le cui dinamiche insediative sono state caratterizzate da un notevole sviluppo edilizio dei comuni di prima corona: viceversa ben 7 aree urbane meridionali sono rimaste, negli anni '80, entro lo stesso stadio evolutivo in cui si collocavano nel decennio precedente, e per nessuna di esse, tanto meno per le due maggiori, Napoli e Catania, i motivi possono essere ricondotti alla stabilità di modelli policentrico - diffusi. E’ inoltre significativo che soltanto Palermo tra tutte le grandi aree urbane nazionali abbia registrato, ancora nel corso degli anni più re - centi, tassi di crescita demografica tipici della prima fase di sub - urbanizzazione, e che per due aree urbani minori, Messina e Lecce, si sia verificata la retrocessione da questa fase a quella precedente (urbanizzazione con concentrazione relativa): fenomeno, quest'ultimo, che appare contraddittorio con lo schema teorico degli stadi di sviluppo.

Anche secondo questo punto di vista, dunque, i mutamenti in corso nella organizzazione degli spazi urbani e metropolitani, in particolare i rapporti fra crescita o riduzione delle residenze nelle città centrali e nelle periferie, assumono connotati diversi nel Sud e nel Nord del paese. La popolazione urbana, che nel Mezzogiorno continua ad aumentare a ritmi sostenuti, seppur decrescenti, si distribuisce nel territorio urbano secondo schemi di progressiva saturazione di corone

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concentriche attorno alle città centrali, o di direttrici radiali, tipici dello stadio della sub - urbanizzazíone. La affermazione di modelli insediativi meno densi ed accentrati, corrispondenti ad uno stadio più avanzato delle trasformazioni urbane, potrebbe contribuire al miglioramento delle condizioni residenziali, e soprattutto della mobilità e della efficienza delle reti urbane. E’ forse inutile ricordare che un obiettivo di questo tipo, essenziale ai fini della riqualificazione dei sistemi urbani meridionali, non è certo perseguibile attraverso una indiscriminata moltiplicazione di infrastrutture stradali negli hinterland urbani: non diversamente dagli altri obiettivi propri di una politica di riqualificazione urbana, esso richiederebbe la definizione e la applicazione di criteri coerenti e di strumenti efficaci di governo del territorio. 

 

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  Riferimenti bibliografici Berg, L. van den, et al., Urban Europe, a Study of Growth and Decline, London,1982.Berry, B.J.L., Migration Reversals in Perspective: The Long-Wave Evidence, in «International Regional Science Review», Vol. 11, n. 3, 1988.Bonavero, P., Flussi di comunicazione e interazione fra città, Relazione presentata al Seminario internazionale «Effetto città. Sistemi urbani e innovazione: prospettive per l'Europa alle soglie degli anni '90», Fondazione G. Agnelli, Toríno, 1989.Cafiero, S., Il ruolo delle città per lo sviluppo, in «Rivista economica del Mezzogiorno», n. 1, 1988, ora in “Tradizione e attualità del meridionalismo”, Roma, 1989.Camagni, R., Onde innovative e distribuzione del reddito nel ciclo di vita delle città, in M. C. Gibelli 1986.Cecchini, D., Le aree urbane in Italia: scopi, metodi e primi risultati di una ricerca in «Rivista economica del Mezzogiorno», n. 1, 1988.Chesire, P. C., Hay, D.G., Urban problems in Western Europe, an economic analysis, London, 1989.Cochrane, S.G., Vining, D.R. jr, Recent Trends in Migration Between Core and Peripheral Regions in Developed and Advanced Developing Countries, in «International Regional Scienee Review», Vol. 11, n. 3 > 1988.

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Dinamiche delle funzioni urbane e Mezzogiorno37 [1]

D. Cecchini – G. Goffredo  

1. Premessa  

È stata autorevolmente avanzata, di recente, l'ipotesi secondo la quale il ciclo della «controurbanizzazione» nei paesi industrializzati si sarebbe concluso, tra la fine degli anni '70 ed i primi anni '80: da allora si sarebbe avviato un nuovo ciclo di «riconcentrazione» verso le regioni centrali altamente urbanizzate («core region»), meno intenso di quello degli anni '50 e '60 e tuttavia percettibile (Cochrane e Vining, 1988).

Nel successivo dibattito è stata proposta, a conferma e spiegazione di tale ipotesi, una riconsiderazione del rapporto tra «onde lunghe» dello sviluppo economico e cicli di urbanizzazione (alle fasi ascendenti delle prime corrisponderebbero periodi di forte immigrazione urbana, e viceversa: Berry, 1988); sono state anche formulate congetture circa la rilevanza che la ripresa economica degli anni '80, le nuove tecnologie e gli orientamenti neoliberisti assunti da diversi governi avrebbero avuto su tali processi di «riconcentrazione» (Mera, 1988).

Per quanto i temi sollevati siano di evidente interesse, la natura dei dati (relativi esclusivamente ai flussi migratori) e l'estensione sovra-regionale delle aree cui essi si riferiscono, non sembrano in grado di dar conto degli effettivi processi di trasformazione urbana in corso (Cafiero 1990)38[2]. La difficoltà è poi aggravata dal fatto che la differenza tra i saldi negativi registrati nelle «core region» fino alla fine degli anni '70 e quelli positivi, ma comunque prossimi allo zero, dei primi anni '80 è, soprattutto nei paesi dell'Europa occidentale, talmente esigua da far pensare ad un affievolirsi dei fenomeni di controurbanizzazione - o anche ad un loro arresto - piuttosto che ad una effettiva ripresa della crescita metropolitana (Frey, 1988). Quanto all'Italia poi, come osservano gli stessi promotori del dibattito, il virtuale arresto delle migrazioni interregionali e il contributo decisivo fornito dall'incremento naturale all'aumento della popolazione meridionale, riducono ulteriormente, almeno per ora, la significatività della ipotesi di una riconcentrazione metropolitana determinata da flussi migratori nuovamente centripeti.

In effetti, se si adotta una scala territoriale inferiore e si assume come riferimento il sistema urbano italiano definito in precedenti ricerche (v. Fig. 1), i dati demografici disponibili mostrano nel Nord una accentuazione delle tendenze alla controurbanizzazione fino a tutto il 1987 e, per lo stesso periodo, una estensione della suburbanizzazione nel Mezzogiorno (Cafiero e Cecchini, 1989).

37[1] In questo testo si amplia e rielabora un contributo dal titolo Dinamica delle funzioni urbane in Italia presentato alla X Conferenza Italiana di Scienze Regionali, Roma, 27-30 novembre 1989.Testo pubblicato in "Rivista economica del Mezzogiorno", n.2 , 199038[2] Deve anzi rilevarsi, attorno al concetto di “riconcentrazione” una sorta di «confusione terminologica» che vale la pena di chiarire. Nel dibattito in questione i principali dati di riferimento (Cochrane e Vining) riguardano i flussi migratori tra regioni molto estese (Northeast, Midwest, South e West per gli USA; Nord-ovest, Nord-est, Centro e Sud per l'Italia; Ovest, Nord, Centro, Baden Wurttenburg e Bavaría per la RFT, ecc.). Ciò implica che alla migrazione verso alcune di tali regioni, quelle definite «core regions», può corrispondere, al loro interno ed a scale territoriali inferiori, sia una ripresa della crescita demografica delle aree urbane, sia una prosecuzione della controurbanizzazione, e cioè del declino demografico delle aree urbane e della crescita dei centri minori extraurbani. Frey, che si riferisce come Berry a dati relativi alle aree urbane negli USA (SMSe) conclude, ad esempio, affermando che «While 1970s core region declines may bave been strongly linked io the counterurbanization process, post-1980 core region gains do not appear to signal a return to the metropolis». In ogni caso, che la riduzione o l'inversione delle migrazioni dalle «core» alle «peripheral region» sia o meno connessa ad una ripresa della crescita demografica metropolitana, i termini di «riconcentrazione» o «riaccentramento urbano» spesso utilizzati nel dibattito recente in Italia, alludono a un fenomeno diverso e cioè alla crescente concentrazione metropolitana di funzioni direzionali e di servizi ad esse complementari. Come si argomenterà anche in seguito è questo un fenomeno non contraddittorio ma complementare a quello della “controurbanizzazione” demografica.

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Il differente rapporto tra centri e periferie delle aree urbane nella localizzazione delle residenze costituisce però solo uno degli aspetti che hanno reso diversi i processi di urbanizzazione degli ultimi quindici anni nel Nord e nel Mezzogiorno d'Italia. Altri, certo non meno rilevanti, riguardano la evoluzione delle funzioni urbane.

È ben noto che carattere decisivo delle trasformazioni urbano-territoriali avviatesi in Italia negli anni '70, ancor prima in altri paesi europei, è la accelerata specializzazione delle basi economiche urbane, ed in particolare di quelle delle città centrali, in funzioni direzionali e nelle attività di servizio ad esse connesse, (Stanback e al. 1981; Scott, 1982; Cafiero, 1984; Gibelli, 1986; Bianchi e Magnani, 1985).

Tale crescente specializzazione, le cui connessioni con l'innovazione tecnologica e con la crescente internazionalizzazione delle economie sono state ampiamente indagate, è la risultante di due processi

 

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concomitanti: a) riduzione assoluta dei posti di lavoro industriali nelle città centrali, loro decentramento nelle periferie delle aree urbane e nei territori non urbani; b) forte aumento dei posti di lavoro terziari nelle città centrali e, in alcuni casi, nei centri minori delle periferie metropolitane (Ewers e al. 1986; Begg e Cameron, 1988).

Nei successivi paragrafi, dopo un sintetico richiamo ai criteri di definizione del sistema urbano ed ai principali risultati delle precedenti ricerche sugli andamenti demografici (par. 2), si analizzano i due processi richiamati (parr. 3 e 4) e si illustrano alcuni aspetti dei problemi di intervento che essi comportano (par. 5).

  

2. Criteri di definizione e dimensioni del sistema urbano preso in esame  

Il significato attribuito ai termini di città, città centrale, area urbana, area metropolitana, ed i criteri di delimitazione territoriale progressivamente messi a punto nelle ricerche della SVIMEZ sono stati illustrati in precedenti occasioni, alle quali si rinvia (Cafiero e Busca, 1970; Cafiero, 1980; Cecchini, 1988). Ci si limita a ricordare che nelle ricerche ora in corso si considerano aree urbane o metropolitane39[3] quei comuni, o aggregati di comuni contigui, che oltre a superare i 100.000 abitanti residenti, raggiungono una densità territoriale di attivi o addetti extragricoli superiore, per ciascun comune, a determinate soglie40[4]; all'interno di tali aree si considerano «città centrali», cioè poli o sub-poli urbani con funzioni attrattive o preminenti, tutti i comuni con più di 100.000 abitanti e quelli la cui popolazione, compresa tra 50.000 e 100.000 abitanti, rappresenta più della metà della popolazione della rispettiva area o che sono prevalentemente destinatari di spostamenti giornalieri per motivi di lavoro; gli altri comuni, compresi in ciascuna area urbana ma non costituenti né poli né sub-poli urbani sono indicati come «periferie»41[5].

I criteri ricordati hanno naturalmente un carattere convenzionale e consentono una rappresentazione solo largamente approssimata della realtà urbana nazionale. Essi non si propongono né una esatta individuazione dei confini delle aree urbane o metropolitane42[6], né di restituirne la straordinaria e crescente complessità fisica e funzionale; essendo di natura evidentemente «areale», i criteri adottati sono inoltre soggetti a molti dei limiti propri di questo

39[3] L'analisi delle dimensioni demografiche del sistema urbano italiano ha consentito di individuare, a fine 1987, tre gruppi di aree: quelle con oltre 3 milioni di abitanti (aree di Milano, di Roma e di Napoli) che possono essere considerate vere e proprie aree metropolitane; un gruppo di 11 aree con popolazione compresa tra 1,8 milioni e 600 mila abitanti, che possono essere definite «grandi aree urbane»; un più ampio gruppo di 25 aree con popolazione compresa tra 300 mila abitanti e la soglia convenzionale di 100 mila abitanti, che comprende aree urbane di dimensione media o minore ed anche alcuni singoli comuni definibili come «comuni urbani» (Piacenza, Terni, Foggia e Catanzaro) (Cecchini, 1988).40[4] Essendosi convenuto, per evidenti motivi di significatività delle analisi dinamiche, di mantenere invariata la soglia di 100 attivi/Kmq per ciascun censimento, i corrispondenti valori per gli addetti sono risultati pari a 70,4 add/Kmq nel 1971 e 92,8 add/Kmq nel 1981.41[5] Con «periferie» non si indicano quelle parti di città cresciute, soprattutto dal secondo dopoguerra, attorno ai centri storici ed ai loro sviluppi ottocenteschi: alla scala territoriale adottata queste espansioni, più propriamente definibili come «periferie urbane consolidate», risultano quasi sempre interne alle «città centrali» che dobbiamo necessariamente considerare spazialmente coincidenti con i rispettivi confini comunali. Con il termine «periferie» si intende viceversa l'insieme, molto composito e differenziato, di quei territori, edificati e non, nei quali si localizzano attività e funzioni urbane (da quelle produttive, industriali e terziarie, a quelle residenziali, di trasporto, per il tempo libero, ecc.) e che, pur compresi all'interno di un'area urbana, non ne possono essere considerati poli o sub-poli (città centrali). Secondo tale accezione all'interno delle «periferie» potranno dunque trovarsi anche centri di media dimensione, comunque inferiori a 100 mila abitanti.42[6] Ciascuna di esse ad un esame localmente più approfondito, o ad una delimitazione finalizzata ad obiettivi di altra natura (pianificatori, di attuazione di politiche o interventi specifici, di gestione di servizi ecc.) potrebbe risultare di dimensioni e articolazioni diverse.

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tipo di rappresentazione (De Matteis, 1989) e tengono solo indirettamente conto della effettiva entità dei flussi di pendolarismo giornaliero43[7]. Pur con tali limiti, essi sembrano tuttora adeguati agli obiettivi delle ricerche in corso che, si ricorda, sono quelli di una valutazione, a livello nazionale, dell'entità, delle caratteristiche e delle tendenze del fenomeno urbano e dei diversi problemi che tali tendenze pongono nel Nord e nel Sud del Paese. E’ inoltre opinione degli scriventi che effettivi avanzamenti, sul piano conoscitivo ed anche su quello operativo, sarebbero conseguibili non solo e non tanto attraverso la messa a punto di criteri più sofisticati ed aderenti a specifiche situazioni (ma perciò necessariamente ad esse vincolati e di difficile applicazione alla scala nazionale) ma soprattutto attraverso la adozione, in sede nazionale e in occasione dei censimenti, di criteri univoci per la definizione di unità territoriali di tipo urbano e metropolitano.

L'entità, l'articolazione territoriale e le dinamiche demografiche del sistema urbano italiano negli ultimi 15 anni sono state descritte recentemente (Cecchini 1988, Cafiero e Cecchini 1989). Ci si limita ora a richiamarne gli aspetti salienti44[8]. Complessivamente nelle 39 aree urbane individuate, e nelle loro 63 città centrali, risiedevano, a fine '87, 31,7 milioni di abitanti, pari al 55% della popolazione nazionale, ed erano localizzati (censimento '81) 10,8 milioni di posti di lavoro extragricoli, pari al 65 % del totale nazionale.

Nel corso degli anni '70 e dei primi anni '80 la diffusione urbana ha virtualmente saldato in un unico sistema le grandi aree padane e venete, ha congiunto la direttrice emiliana a quella adriatica fino a Pescara ed ha notevolmente ampliato le aree liguri e toscane; all'interno di questo sistema, e soprattutto tra le aree della “Padania” che costituiscono ormai la porzione meridionale della «megalopoli europea» (Brunet, 1989), la controurbanizzazione demografica e funzionale ha dato un impulso decisivo alla formazione di strutture insediative reticolari e tendenzialmente policentriche tra i cui nodi urbani si rafforzano rapporti di complementarietà e integrazione non gerarchica (Emmanuel e De Matteis, 1989). La popolazione residente nelle 23 aree urbane del Nord (22,9 milioni di unità) corrisponde al 63% della sua popolazione complessiva su un territorio pari al 15%, con un numero di posti di lavoro extragricoli pari al 69% del totale circoscrizionale.

Nel Mezzogiorno, ove non si sono registrati rilevanti fenomeni di saldatura fra le diverse aree urbane, separate geograficamente e funzionalmente e tra le quali non si manifestano formazioni insediative di tipo «reticolare», la popolazione urbana ascende a circa 8,8 milioni di abitanti, pari al 42 % della popolazione meridionale, su di un territorio pari al 6% e con un numero di posti di lavoro extragricoli pari al 51 % del totale.

Differenze notevoli, sempre a livello aggregato, si sono riscontrate (v. prospetto seguente)45[9]:- -        nella densità insediativa media delle aree, più elevata nel Mezzogiorno che nel Nord ma

esclusivamente a motivo delle altissime densità delle «periferie» meridionali (1.104 ab/Kmq contro 601 nel Nord);

- -        nei ritmi di crescita demografica, ancora molto intensi nelle «periferie» meridionali (+9,5% tra il 1981 e il 1987 contro +2,8% nel Nord);

- -        nelle tendenze della localizzazione residenziale, caratterizzate nel Mezzogiorno anche nel corso degli anni '80 dalla progressiva saturazione di corone concentriche attorno alle città centrali, o di direttrici radiali, secondo modalità tipiche della sub-urbanizzazione;

- -        nella articolazione interna delle aree urbane, molto più polarizzata e con scarsi sintomi di strutture policentriche nel Mezzogiorno (due sole aree, quella di Napoli e quella di Pescara, hanno più di una città centrale);

43[7] V. ad es: l'ipotesi avanzata in Costa e al., 1987; un tentativo di utilizzare metodi basati sugli spostamenti giornalieri per motivi di lavoro per la definizione dei sistemi urbani nazionali è in F. Sforzi, 1989.44[8] V. anche nota 2.45[9] Per un'analisi dei divari Nord-Sud nei processi di urbanizzazione v. anche: Costa e Canestrelli, 1983; Celant e Morelli, 1985; Viganoni, 1990.

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- -        nella debolezza dei rapporti funzionali tra le aree urbane meridionali, soprattutto le maggiori, i cui flussi largamente prevalenti di comunicazione sono diretti ai grandi poli metropolitani esterni (Bonavero, 1989).

 

   

 3. La despecializzazione industriale delle aree urbane  

Il primo dei processi richiamati in premessa (riduzione dei posti di lavoro industriali nelle città centrali, loro decentramento nelle periferie e nei centri minori esterni alle aree urbane) può essere introdotto attraverso alcuni dati generali.

Nel corso degli anni '70 le città centrali del Nord hanno perso oltre 150 mila posti di lavoro industriali, cioè uno ogni dieci esistenti all'inizio del decennio (v. Tab. A1). Poiché la crescita industriale nelle periferie, che hanno accolto molti degli impianti trasferiti dalle città centrali, è stata più che compensativa, il saldo complessivo delle aree urbane è rimasto, seppur di poco, positivo. Le nuove localizzazioni si sono comunque indirizzate soprattutto verso i territori esterni alle aree urbane, che hanno espresso oltre i 2/3 dell'incremento netto degli addetti industriali. Nel Mezzogiorno viceversa l'incremento degli addetti industriali, in complesso relativamente più sostenuto di quello del Nord, si è localizzato per una quota prevalente (120 dei 215 mila nuovi posti di lavoro) nelle aree urbane distribuendosi, al loro interno, sia nelle città centrali ( + 23 mila) sia, ed in misura maggiore, nelle periferie (+ 97 mila). In termini assoluti e relativi la crescita industriale degli anni ' 70 è stata nel Mezzogiorno, a differenza che nel Nord, soprattutto urbana e metropolitana.

Il confronto fra incrementi o decrementi degli addetti a specifiche attività (industriali o terziarie) nelle diverse parti del territorio non consente tuttavia di apprezzare la effettiva «specializzazione», o

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«despecializzazione» di queste ultime, per valutare la quale occorre tener conto dei contemporanei incrementi o decrementi di tali attività nell'intera economia nazionale.

Si è quindi fatto ricorso al calcolo dei «quozienti di localizzazione» (d'ora in poi ql) i quali esprimono, come è noto, il rapporto tra la quota degli addetti a una determinata attività in una determinata area (città centrale, periferia, area urbana, territorio non urbano) e la quota degli addetti alla stessa attività in un'area di riferimento più vasta (Italia)46[10]. Un ql superiore a 1 (o a 100, come nel nostro caso, essendosi convenuto, per comodità di lettura, di moltiplicare per 100 tutti i valori dei ql) indica che la presenza di una certa attività in un'area urbana è relativamente più importante, rispetto all'insieme delle attività dell'area, di quanto non lo sia nell'area di riferimento: l'area urbana dunque «si specializza» in quella attività la quale, secondo la classica terminologia della teoria della «base economica», può essere anche definita come una attività «di base» per l'area.

Il fenomeno della despecializzazione industriale delle aree urbane verificatosi negli anni '70 è sintetizzato nella Tab. A2: l'industria manifatturiera è definitivamente uscita dalla base economica delle città centrali del Nord, come segnalano i valori dei ql tutti in riduzione e inferiori a 100; la specializzazione industriale delle periferie, pur ancora rimarchevole, è diminuita soprattutto per le industrie tradizionali (ramo 4) e per quelle che richiedono un maggiore utilizzo di suoli per unità di prodotto (ramo 2): per queste ultime il valore del ql è ormai più elevato nei territori non urbani che nelle periferie. Le industrie per le quali la specializzazione urbana si è mantenuta elevata, ma solo grazie ad una relativa tenuta nelle periferie, sono quelle meccaniche (ramo 3) e in particolare quelle elettriche, elettroniche e dei mezzi di trasporto, che comprendono alcuni dei comparti a più elevato contenuto tecnologico. L'unica classe di attività manifatturiera che presenta una specializzazione urbana, sia centrale che periferica, crescente dal 1971 al 1981 è quella della carta, stampa ed editoria, al limite tra produzione industriale e funzioni di direzionalità culturale.

A motivo del minore tasso di industrializzazione e della minore ampiezza del sistema urbano, questo processo di decentramento selettivo non si è verificato nel Mezzogiorno: il numero dei posti di lavoro nell'industria è cresciuto, in termini assoluti e relativi, sia nell'insieme delle città centrali (tranne che per le industrie tradizionali) sia nelle periferie47[11]. I valori dei ql sono quindi generalmente aumentati ma, dati i bassi livelli iniziali (1971) solo in pochi casi, e nelle periferie più frequentemente che nelle città centrali, divengono superiori a 100 nel 198148[12].

46[10] Il calcolo è stato svolto, per le classi di addetti extragricoli (codice ISTAT a 2 cifre) censiti nel 1971 e nel 1981 nei 1.449 comuni facenti parte delle aree urbane e resi confrontabili dall'ISTAT, secondo la classica formula

ql=aij/aj:Ai/A x 100dove aij=addetti all'attività iesima nell'area jesima (area urbana, periferia, città centrale, territori non urbani); ai =addetti totali dell'area jesima; Ai=addetti all'attività iesima in Italia; A = addetti totali in Italia. L'uso di dati censuari confrontabili ha comportato per il 1981 la riduzione del campo di osservazione dai 10,8 milioni di addetti extragricoli censiti nelle aree urbane agli 8,7 milioni effettivamente confrontabili.47[11] Con riferimento all'industria in senso stretto fanno eccezione, seppure per decrementi molto contenuti, alcune città centrali dell'area napoletana (Napoli, Salerno, Caserta, Torre Annunziata) e inoltre, Pescara, Cosenza, Messina e Siracusa.48[12] L'analisi di dettaglio dei quozienti evidenzia le aree urbane meridionali nelle quali la crescita industriale ha creato o consolidato alcune specializzazioni. Innanzitutto l'area metropolitana di Napoli, e soprattutto la sua estesa periferia, ove si sono consolidate alcune specializzazioni nei comparti elettrici ed elettronici (asse Casoria-Caserta) e dei mezzi di trasporto (Alfa di Pomigliano, Aeritalia, Ansaldo, ecc.) e verso la quale si sono decentrate dai principali poli urbani alcune produzioni alimentari di base (Sarno-Nocera), pelli e cuoio, abbigliamento e calzature (queste ultime ancora in parte concentrate a Napoli); l'area diffusa Medadria (costa teramana) con qualche specializzazione nei comparti alimentari non di base, dei prodotti in gomma e in metallo; Chieti e le periferie dell'area di Pescara (prodotti in metallo e pelli e cuoio) con quozienti elevati, nelle due città principali, di industrie della carta, stampa ed editoria; la periferia dell'area di Bari, ove

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Molti indicatori suggeriscono la prosecuzione di queste tendenze della localizzazione industriale almeno fino alla prima metà degli anni '80 (Progetto Milano, 1985; Garofoli e Magnani, 1986; SVIMEZ, 1989). Ma, come evidenziano anche i più recenti dati regionali dell'ISTAT, il manifestarsi anche nel Mezzogiorno di marcate riduzioni della presenza industriale nelle maggiori città non sembra connesso a processi «fisiologici» di decentramento produttivo verso le periferie o i territori extraurbani, bensì a perdite secche di occupazione industriale per l'insieme delle economie regionali (Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna in particolare), ben più gravi di quelle occorse nelle regioni del Centro-Nord49[13].

  

4. La crescente specializzazione terziaria  

Più articolato è il secondo dei processi richiamati, e cioè la crescente specializzazione terziaria delle aree urbane. È noto come le convenienze localizzative dei diversi comparti di produzione di servizi differiscano notevolmente non solo in relazione al loro essere, o non essere, destinabili alla vendita, ma anche, e soprattutto per i primi, alle condizioni sia di domanda che di offerta (maggiore o minore propensione alla esternalizzazione, allo scambio attraverso le reti di impresa e/o tra imprese diverse) (Noyelle e Stanback, 1984; Cappellin, 1986; Coffey e Polèse, 1987; Cafiero, 1989).

I primi risultati della ricerca in corso confermano valutazioni formulate per altre aree, settentrionali o europee, e consentono una prima considerazione delle diversità che tale processo presenta nei sistemi urbani del Nord e del Sud d'Italia:

- -        a livello aggregato (Italia) 11 dei 15 comparti in cui si sono raggruppate le attività di servizio50[14] risultano «di base» nelle aree urbane e ciò esclusivamente in virtù delle elevate e crescenti specializzazioni delle loro città centrali. È dunque nei « cores» delle aree urbane che si è verificato, con la massima intensità, il processo di conversione funzionale (v. Tab. A3, sez. A);

- -        i servizi che mostrano una specializzazione urbana centrale elevata e crescente51[15] sono il credito, le assicurazioni, i servizi alle imprese, alcuni servizi di trasporto e comunicazione; molto alta anche la specializzazione delle città centrali in servizi di ricerca e sviluppo per i quali tuttavia non è possibile un confronto intercensuario. Specializzazioni elevate, ma decrescenti, nelle città centrali si riscontrano per il commercio all'ingrosso, gli intermediari del commercio ed i servizi ausiliari del trasporto: il forte aumento dei ql nelle periferie, con valori 1981 ormai prossimi a 100 (soprattutto per il commercio all'ingrosso) conferma la tendenza di questi servizi a seguire il decentramento periurbano dell'industria.

emergono, oltre ad alcuni comparti meccanici, le produzioni tessili, di abbigliamento e calzature del barlettano; l'area di Taranto, ove i grandi impianti siderurgici hanno indotto una presenza significativa di costruzioni in metallo (carpenterie, ecc.) e produzioni di macchine e materiale meccanico; le aree di Messina (qualche specializzazione nelle produzioni in gomma e plastica) e di Siracusa, ove, analogamente a quanto è accaduto nell'area di Sassari in Sardegna, i grandi impianti chimici (Priolo), e chimici e mecca nici (Porto Torres) hanno indotto presenze significative nei settori dei prodotti in metallo della costruzione e riparazione di impianti e materiale elettrico ed elettronico.49[13] Secondo la nuova contabilità regionale elaborata dall'ISTAT e presentata nel novembre 1989, l'occupazione industriale (unità di lavoro) sarebbe diminuita, tra il 1983 e il 1987, del 6,6% nel Centro-Nord e del 10,1% nel Mezzogiorno. Le perdite più rilevanti, verificatesi in Campania (-17,9%), Sicilia (-12,0%), Sardegna (-11,4%) e Calabria (-11,0%) sarebbero percentualmente superate solo da quelle occorse, nello stesso periodo, in Piemonte, Val d'Aosta e Umbria.50[14] Ci si riferisce alle attività per le quali si dispone di dati al 1971 e al 1981 fra loro confrontabili.51[15] Quozienti superiori a 100 nelle città centrali e in crescita, tra il 1971 e il 1981 sia nelle città centrali che nelle periferie.

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Considerando che i servizi di trasporto e comunicazione sono in larga misura condizionati dalla struttura delle reti fisiche esistenti e dalla pura dimensione urbana (nodi delle reti) e che quelli di comunicazione risentono inoltre, in Italia, della loro natura pubblica52[16], i comparti più significativi restano, sotto il profilo della innovazione e delle dinamiche urbane, il credito, le assicurazioni e i servizi alle imprese;

- -        valutazioni statiche comparate (1971 e 1981) mostrano come le tendenze localizzative di questi tre tipi di servizi entro i sistemi urbani siano piuttosto diverse fra loro. Le specializzazioni nei servizi assicurativi hanno una distribuzione molto polarizzata: solo 18 su 63 città centrali risultano specializzate, con valori dei ql molto elevati a Venezia e Trieste (sedi di grandi società nazionali) a Milano e a Roma (ove sono rispettivamente localizzati il 25 % e il 22 % del totale nazionale degli addetti assicurativi). Più uniforme è la distribuzione delle specializzazioni nei servizi finanziari (credito) e nei servizi alle imprese, che risultano di base rispettivamente in 54 e in 52 città centrali. I servizi alle imprese, in particolare, presentano, sia al 1971 che al 1981, una distribuzione delle specializzazioni marcatamente bimodale (numerose città con specializzazioni deboli e poche con specializzazioni elevatissime) spiegabile con il fatto che il ristretto gruppo di città nettamente più specializzate al 1971 (Milano e Novara nella grande area metropolitana milanese, Ferrara e Roma) si è alquanto ampliato al 1981 includendo: nell'area milanese, oltre a Milano anche Bergamo, Varese e Como, nelle aree del NEC, Padova, Treviso, Udine e Bologna; nel nord-ovest Biella; nel sud Avellino. Sulla «diffusione per sub-poli» di questi servizi torneremo.

  1.1. 4.1.          Città centrali

 Il confronto tra le specializzazioni delle città centrali del Nord e del Sud (Tab. A3, sezz. B e C)

mette in evidenza alcune significative diversità:

- -        fino al 1971 le città centrali meridionali non erano specializzate né in servizi assicurativi né in servizi alle imprese, mentre lo erano, con un quoziente analogo a quello del nord, in servizi finanziari; al 1981 le città si specializzano nei primi due tipi di servizi, con quozienti però ancora di poco superiori a 100, e la specializzazione in servizi finanziari si riduce;

- -        specializzazioni molto più elevate nelle città centrali del Mezzogiorno rispetto a quelle del Nord si riscontrano nei servizi di trasporto, con il primato di quelli marittimi;

- -        specializzazioni elevate si evidenziano anche in alcuni servizi al consumo di tipo «banale», quali il commercio al minuto e le riparazioni: la sovraddotazione dell'intera economia meridionale in questo tipo di attività, confermata dal fatto che valori altrettanto o più elevati dei quozienti si riscontrano anche per le periferie e per i territori non urbani, sarebbe proseguita anche nel corso degli anni '80, come sembrano indicare i più recenti dati ISTAT regionali.

- -        la specializzazione delle città centrali meridionali in servizi di ricerca e sviluppo è molto bassa (ql = 114), pari a poco più della metà di quella delle città centrali del Nord (ql = 201).

Una schematizzazione delle diversità nelle specializzazioni funzionali delle città centrali del Nord e del Sud d'Italia è illustrata nel prospetto seguente ove sono disposti, in ordine decrescente, i valori dei ql medi: alcuni dei servizi ai primi posti nella graduatoria delle città del Nord (trasporti aerei, assicurazioni, ricerca e sviluppo, ausiliari del credito e assicurazioni e

52[16] Gli addetti alle comunicazioni sono essenzialmente i dipendenti dell'Amministrazione delle poste e telecomunicazioni.

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servizi alle imprese) sono nelle ultime posizioni della graduatoria delle città del Sud, e viceversa (in particolare trasporti terrestri, commercio al minuto e riparazioni).

 

 

 

Una ulteriore e più dettagliata conferma di questo quadro è fornita dalla applicazione della tecnica fattoriale delle componenti principali alla matrice costruita utilizzando come variabili i ql di 19 classi di attività terziarie calcolati al 1981 per le 63 città centrali53[17].

Il primo fattore estratto è associato positivamente, nell'ordine, alla pubblica amministrazione, al commercio al minuto, alle comunicazioni, ai servizi di riparazione, ai trasporti terrestri, ai servizi sociali, di igiene e sanità: il suo asse individua quindi la componente pubblica, «banale» e tendenzialmente non specializzata dei servizi urbani. Il secondo fattore è associato positivamente, e sempre nell'ordine, al noleggio di beni mobili, ai servizi assicurativi, ai servizi ausiliari del trasporto, ai servizi alle imprese, al credito e ai trasporti aerei: il suo asse individua quindi la componente terziaria più dinamica e significativa della conversione delle funzioni urbane.

Nella distribuzione sul piano fattoriale principale le città centrali meridionali risultano chiaramente separate da quelle settentrionali (v. diagramma 1) e possono essere descritte secondo la seguente tipologia:

53[17] I primi cinque fattori estratti spiegano i 2/3 della varianza complessiva (66%). I primi due, ai quali ci si riferisce nel testo, ne spiegano rispettivamente il 21 % e il 16%.

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- -        un gruppo (a) di sei città, poli di aree urbane di dimensione media o minore (le tre aree calabresi, quelle di Messina e di Siracusa in Sicilia e quella di Sassari in Sardegna) per le quali la preminenza delle funzioni amministrative di capoluoghi provinciali e la esiguità della componente industriale e «terziario avanzato» della base economica dà luogo a specializzazioni in pubblica amministrazione elevatissime; è inoltre notevole che per due di esse, Siracusa e Sassari, la forte specializzazione in industrie di base delle rispettive periferie non induca corrispondenti specializzazioni in funzioni di servizi urbani; moderne: si potrebbe parlare di «città dell'industria dipendente».

- -        sempre con coordinate fattoriali rispetto al primo asse (terziario pubblico e «banale») superiori a quelle di qualsiasi altra città centrale del Nord, un gruppo di 11 città, a sua volta distinguibile in due sottogruppi: il primo (bl) caratterizzato da coordinate fattoriali positive, anche se non elevate, rispetto al secondo asse (terziario alla produzione) è costituito dai quattro poli principali delle

 

   

maggiori aree urbane meridionali (Napoli, Palermo, Bari e Catania) cui si aggiungono Cagliari (la cui specializzazione risente probabilmente dell'effetto di insularità della regione di cui è capoluogo) e Pescara (per la quale è forse da ricordare la caratteristica di polo della «direttrice adriatica»). Da segnalare che la posizione di Napoli è contigua a quella di Pisa e

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inferiore rispetto al secondo asse a quella di ben nove città centrali settentrionali54[18]. Il secondo sottogruppo (b2), caratterizzato da coordinate fattoriali negative rispetto al secondo asse, è costituito dai sub-poli dell'area metropolitana di Napoli (Caserta, Avellino e Salerno) e dalle città di Foggia e Lecce;

- -        gli altri due sub-poli dell'area napoletana (Torre Annunziata e Castellammare di Stabia) presentano valori ancor più negativi rispetto al secondo asse e prossimi allo zero rispetto al primo; analoga collocazione ha la città di Chieti, sub-polo dell'area di Pescara, e ancor più negativa, sotto il profilo delle specializzazioni terziarie avanzate alla produzione, appare Taranto, la cui base industriale non ha dato luogo ad una modernizzazione dei servizi offerti dalla città (la posizione rispetto al secondo asse è inferiore a quella di Terni - altro polo siderurgico la cui dimensione demografica e di occupazione extragricola è però poco più di 1/3 di quella di Taranto e che può avvantaggiarsi della prossimità a Roma - a quella di Prato e di Lecco, sub-poli di grandi aree urbane o metropolitane e con popolazione e occupazione extragricola rispettivamente inferiori di due e cinque volte a quella di Taranto).

     1.2. 4.2.          Periferie 

Si è detto della decrescente specializzazione industriale delle periferie urbane del Nord. Ad essa fa riscontro un aumento significativo dei quozienti di localizzazione di alcuni servizi alla produzione (commercio all'ingrosso, intermediari del commercio, noleggio) che restano tuttavia ancora inferiori a 100. Fenomeno analogo si riscontra anche in molte periferie meridionali ove il quoziente del commercio all'ingrosso assume, al 1981, un valore piuttosto elevato.

54[18] Non solo come era da attendersi, a Roma e Milano, ma anche a Trieste, Bologna, Firenze, Genova, Padova, Ancona e Savona che hanno dimensioni demografiche e di occupazione extragricola inferiori da 2 a 16 volte a quella di Napoli.

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Ma mentre nelle periferie settentrionali si sono decentrate, nel corso degli anni '70, anche attività connesse ai tre comparti qualitativamente più significativi del terziario urbano (servizi finanziari, assicurativi e alle imprese), in quelle meridionali si è assistito ad un processo inverso: i valori dei ql di questi servizi si sono addirittura ridotti dal 1971 al 1981 a conferma dell'assenza di processi di diffusione policentrica delle funzioni urbane e di qualificazione funzionale delle periferie.

Il diagramma 2 illustra il diverso comportamento localizzativo dei servizi alle imprese nelle due circoscrizioni nél corso degli anni '70: nel Nord la quota di tali servizi concentrata nelle città

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centrali è scesa dal 64 al 60% del totale circoscrizionale, ma il loro peso nella economia delle città, in virtù del contemporaneo decentramento delle industrie, è aumentato (conversione funzionale) sicché il valore dei ql, già elevato, è ulteriormente cresciuto (da 164 a 176)55[19]; nelle periferie il marcato incremento percentuale (dal 17 al 22% del totale circoscrizionale) ha indotto un corrispondente innalzamento dei ql (da 54 a 64). Nel Mezzogiorno la limitata espansione dei servizi alle imprese si è concentrata quasi esclusivamente, ed ancor più di quanto non sia avvenuto per gli impianti di produzione, nelle città centrali (ove i valori dei ql sono passati da 108 a 151) mentre nelle periferie la quota di servizi presenti sul totale circoscrizionale è variata di poco e i valori dei ql si sono ridotti (da 66 a 63).

  

2. Qualche considerazione finale  

La conversione delle funzioni dà luogo alla riorganizzazione degli spazi e delle reti urbane, e ne è a sua volta condizionata. Da oltre un decennio la riformulazione delle politiche urbane in molti paesi europei, e il dibattito anche in Italia, si confrontano con i temi della trasformazione, del recupero e della riqualificazione urbana (ocnE, 1983; Gibelli, 1986; Cheshire e Hay, 1989).

All'esterno delle città centrali il sistema territoriale delle grandi aree urbane del Nord è andato evolvendo, come si è accennato, verso formazioni insediative di tipo reticolare e policentrico nelle quali relazioni di complementarietà e sinergia tra i diversi nodi urbani offrono migliori condizioni ambientali alle nuove esigenze della gestione di impresa e della stessa vita civile. Le premesse di tale evoluzione, che sembra costituire una risposta adeguata alle sfide della competizione interurbana, si erano già poste nel corso degli anni '70 ed erano segnalate, come si è mostrato nei paragrafi precedenti, dalla diffusione nei sub-poli delle maggiori aree urbane, ed anche in centri minori dei loro hinterland, di funzioni prima concentrate nelle città centrali maggiori.

Tali condizioni non erano invece riscontrabili, e stentano ancor oggi a manifestarsi, nella realtà urbana meridionale; sembrano anzi rafforzarsi le tendenze contrarie alla sua partecipazione ai processi richiamati:

- -        il virtuale arresto dell'industrializzazione dalla metà degli anni ' 70 e il suo evolvere in alcune regioni, negli anni più recenti (1983-87), in marcata deindustrializzazione, rappresenta un handicap grave anche per la crescita dei comparti terziari più moderni della base economica urbana; a sua volta la debolezza di tali servizi costituisce un ulteriore fattore ambientale negativo per la localizzazione di nuove imprese;

- -        l'ormai generalmente riconosciuta «tendenza centripeta» della innovazione tecnologica, particolarmente accentuata nelle fasi iniziali di un nuovo ciclo (Camagni e Rabellotti, 1988), è stata ed è tuttora un altro svantaggio per lo sviluppo delle componenti più dinamiche delle basi economiche delle città meridionali;

- -        il ruolo che le città centrali possono svolgere, di «incubatrici» di nuove imprese nei settori avanzati e ad alto contenuto innovativo, è correlato alla integrazione tra le tre reti decisive per l'innovazione: la rete imprenditoriale e di impresa, la rete della ricerca scientifica, la rete delle amministrazioni locali (Ciciotti, 1986; Gremi, 1987). È soprattutto sul versante della prima e della terza che le città meridionali hanno visto addirittura aggravarsi le proprie condizioni;

- -        effetto della mancata riorganizzazione degli spazi e delle reti urbane è la loro retrocessione nelle gerarchie urbane, che debbono ormai considerarsi a scala europea

55[19] Si noti, che i quozienti di localizzazione, in questo caso, sono calcolati non più con riferimento all'intero paese ma a ciascuna círcoscrizione.

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(Brunet, 1989). Ulteriori retrocessioni sarebbero, per il Mezzogiorno, ancor più gravi: qui, come altrove, città e reti urbane costituiscono le principali infrastrutture per lo sviluppo.

L'azione pubblica per la riqualificazione delle città meridionali sulla quale la SVIMEZ ha più volte richiamato l'attenzione, appare dunque oggi più urgente e decisiva che in passato.

Converrà ricordare in proposito che, come si è documentato anche sulle pagine di questa rivista56[20], nella maggior parte dei paesi europei, al manifestarsi già negli anni ' 70 di fenomeni di crisi urbana «da conversione funzionale» ha corrisposto la riformulazione, o l'avvio ex novo, di politiche urbane esplicite.

Tali politiche si sono in generale configurate come interventi «centrali» e «straordinari»: centrali perché disposti, regolati e finanziati da provvedimenti nazionali promossi dai governi centrali; straordinari perché aggiuntivi sotto il profilo finanziario (anche se spesso in essi concorrono risorse, locali o non, pubbliche o private) e integrativi, o addirittura sostitutivi, di funzioni e competenze locali sotto il profilo amministrativo e gestionale. Naturalmente il rapporto tra potere centrale e poteri locali costituisce, per tali politiche, un nodo problematico complesso, che trova soluzioni molto diversificate nei singoli paesi della Comunità (Merloni, 1986; Dente, 1989; Gibelli, 1989). Sembra però universalmente accettato il principio secondo cui a problemi di riassetto e riqualificazione urbana imposti da processi di ristrutturazione industriale e di conversione funzionale di origine certamente sovra-locale, si debba far fronte anche, talvolta soprattutto, con politiche nazionali centrali.

Si potrebbe pensare che tale orientamento sia testimoniato, nel nostro Paese, dalla nomina nel 1987 di un Ministro per le aree urbane e dal moltiplicarsi, negli anni recenti, di provvedimenti nazionali di sostegno a specifiche aree urbane57[21]: se però ci si chiede se tali provvedimenti configurino una esplicita politica urbana e se in particolare questa, qualora riconoscibile, tenga conto della diversa natura ed entità che i problemi di riqualificazione urbana presentano nel Mezzogiorno e nel Nord del Paese, la risposta non può che essere negativa. Si ha anzi l'impressione che i provvedimenti assunti nei confronti di alcune tra le maggiori città meridionali - da Napoli a Palermo a Reggio Calabria - abbiano il carattere di «provvedimenti tampone» nei confronti di crisi locali particolarmente acute, piuttosto che di sostegno a programmi organici di riqualificazione urbana. Ed è difficile anche solo immaginare che provvedimenti di tale natura, sostanzialmente finalizzati a garantire un mero trasferimento di risorse finanziarie per opere pubbliche, possano sortire effetti significativi per il «risanamento e lo sviluppo delle aree urbane meridionali» che pure si dichiara di voler perseguire58[22].

In un saggio pubblicato in questo numero della rivista, Salvatore Cafiero indica i due requisiti generali necessari a che l'azione pubblica di risanamento e riqualificazione metropolitana nel Mezzogiorno abbia successo: la unitarietà di coordinamento e controllo degli interventi e la loro multi-settorialità non solo edilizi ed urbanistici ma di risanamento e sviluppo del tessuto economico sociale.

Ora, da quanto si è venuto dicendo, appare evidente che tale unitarietà dovrebbe essere garantita non solo al livello della singola area, ma anche a quello dell'intero sistema urbano meridionale. Oggi, come tutte le ricerche dimostrano, «il ruolo produttivo e di sviluppo della città non è più

56[20] V.D. Cecchini, 1988.57[21] V. ad esempio quanto previsto dalla L. n. -453 del 24-10-1987 per «Roma Capitale»; dalla L. n. 99 del 28-3-1988 per il risanamento delle città di Palermo e Catania; dalla L. n. 219 del 14-5-1981 per le aree colpite dagli eventi sismici del 1980-81 (in particolare per le vicende della ricostruzione nell'area di Napoli v. svIMEZ, Rapporto 1988 sull'economia del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna, 1988); dalla L. n. 246 del 5-7-1989 per il «risanamento e lo sviluppo della città di Reggio Calabria». V. anche, naturalmente, quanto previsto dal programma triennale 1987-'89 e dai primi due piani annuali di attuazione della L. n. 64 dell'1-3-1986, ed in particolare i contenuti della Azione Organica 6.1 per la «riqualificazione dei sistemi urbani».58[22] Il primo comma de11'art. 1 della L. n. 246 del 5-7-1989, ad esempio, stabilisce che «Il risanamento e lo sviluppo dell'area urbana di Reggio Calabria sono di preminente interesse nazionale ed i relativi interventi sono di pubblica utilità, urgenti ed indifferibili».

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univocamente determinato dalla sua dimensione» bensì dalla sua collocazione nella rete urbana e dalla sua capacità di valorizzare, anche in termini competitivi, le proprie vocazioni, risorse e condizioni ambientali, per assicurarsi condizioni di vantaggio nei rapporti di scambio con il resto della rete (Camagni, 1989; De Matteis, 1988); essenziale è quindi la capacità di selezionare ed orientare gli interventi pubblici secondo criteri di complementarietà, integrazione e sinergia tra i diversi nodi urbani della rete. Tanto più nel Mezzogiorno ove quest'ultima appare debole e scarsi i rapporti di integrazione funzionale tra le sue diverse componenti. Selezione e coordinamento difficili da rinvenire nei provvedimenti recenti e che richiederebbero un quadro conoscitivo e programmatico sufficientemente approfondito e costantemente aggiornato.

Vi è di più: mentre nel Nord l'arresto della crescita demografica delle città e di molte aree urbane consente di indirizzare le risorse locali e centrali - verso incrementi qualitativi dell'offerta di servizi pubblici e di modernizzazione dell'attrezzatura urbana anche al fine di sostenere lo sviluppo delle nuove funzioni urbane, nel Mezzogiorno tali obiettivi, indispensabili ad evitare l'ulteriore regresso dell'ambiente urbano, devono conciliarsi con quelli imposti da un aumento della popolazione urbana ancora rilevante e quindi da una domanda crescente di servizi di base.

Inoltre mentre nel Nord, già negli anni '70 e ancor più in seguito, il decentramento di impianti industriali e di attività di servizio, favorendo l'affermarsi di sistemi policentrici e reticolari, ha contribuito alla decongestione delle città centrali ed alla qualificazione degli spazi periferici, nel Mezzogiorno l'assenza o debolezza di tali processi e la troppa elevata e crescente polarizzazione centrale delle maggiori aree urbane, postulano che sia l'azione pubblica a promuovere risolutamente la decongestione, sostenendo e incentivando modelli policentrici. Nel Mezzogiorno, più che altrove, una politica urbana dovrebbe porsi l'obiettivo della qualificazione delle maggiori periferie metropolitane soprattutto attraverso il rafforzamento delle funzioni e delle attività produttive dei centri intermedi e minori ivi localizzati, la loro reciproca integrazione attraverso efficienti sistemi di trasporto e comunicazione non centripeti, il loro inserimento entro una rete di rapporti economici, commerciali, culturali, capace di porli in relazione con ben più ampie aree di mercato. Obiettivo certamente attuale nell'area metropolitana di Napoli, ove negli anni più recenti si è manifestato qualche sintomo di decentramento produttivo, ma che dovrebbe essere perseguito anche nelle altre maggiori aree urbane, a Palermo, a Bari, a Catania, a Pescara, ove più gravi appaiono le diseconomie da congestione delle città centrali.

Quanto alla multi-settorialità degli interventi, non solo l'ormai ampia letteratura in materia, ma la stessa, più che decennale esperienza di molti paesi della Comunità dovrebbero aver definitivamente chiarito l'inefficacia e la precarietà di approcci fondati esclusivamente su interventi di infrastrutturazione fisica. Che riqualificazione e sviluppo di un'area urbana siano possibili solo attraverso un sistema integrato di interventi produttivi, culturali ed ambientali, oltre che infrastrutturali e di riassetto urbanistico, e che il perseguimento di tali obiettivi richieda strumenti e forme di gestione, di controllo e di verifica degli esiti sufficientemente articolati e flessibili, dovrebbe essere acquisizione ormai generalmente condivisa. È forse il concorso di gravi ritardi culturali, di una ripartizione delle competenze amministrative non funzionale e di una eccessiva pressione di interessi particolari, che può spiegare perché provvedimenti anche recenti per la riqualificazione di città meridionali restino al di qua di tale consapevolezza.

Si tratta di ritardi i cui effetti appaiono più gravi per il sistema urbano meridionale, per almeno due ordini di motivi. Il primo è che le collettività locali e le Amministrazioni preposte al governo del territorio, in primo luogo le Regioni e i maggiori Comuni, sono qui meno in grado che altrove di promuovere e gestire, con autonoma iniziativa, quei programmi organici di riassetto e riqualificazione per i quali negli altri paesi della Comunità i governi locali possono contare sul sostegno delle politiche urbane centrali.

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Il secondo è che nel Mezzogiorno, più che altrove, un approccio multisettoriale alla

riqualificazione metropolitana richiederebbe la individuazione puntuale, la attenta valutazione e

il sostegno di tutti i fattori su cui è possibile far leva per quello sviluppo decentrato e policentrico

cui ci si è riferiti, quali ad esempio: le specializzazioni produttive locali, il tipo e la qualità delle

attrezzature e servizi necessari al loro consolidamento ed all'ampliamento dei loro spazi di

mercato; la definizione delle complementarietà funzionali tra i diversi centri, l'integrazione e il

completamento delle filiere produttive, pur embrionali, esistenti; il potenziamento degli apparati

tecnico-amministrativi locali in funzione di gestione di sistemi complessi di intervento urbano e

metropolitano, e così via. Tale approccio richiederebbe, in altri termini, la mobilitazione di

risorse progettuali, imprenditoriali, amministrative e gestionali, e non solo finanziarie, in assenza

delle quali l'obiettivo della riqualificazione non resta che una mera intenzione.

Sono questi, in definitiva, alcuni dei motivi per i quali la «questione urbana» dovrebbe effettivamente divenire terreno di uno specifico impegno dell'intervento straordinario per il Mezzogiorno.

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Bernardo SecchiLe condizioni sono cambiate 59[1]

   Le condizioni sono cambiate: progettare vuol dire oggi affrontare problemi, utilizzare metodi,

di esprimere intenzioni differenti da un pur recente passato. Vorrei descrivere il mutamento: dire da quali indizi esso è rivelato, a cosa è associato, dove

nasce, forse anche da cosa è determitato. Più difficile è esprimere giudizi nei confronti dei suoi esiti.Progetto è termine esteso: qui mi interessa quello attinente lo spazio fisico; i motivi per occuparsene non mi sembrano legati ad una moda culturale, ma a qualcosa che investe le più profonde strutture sociali ed economiche dei paesi occidentali ed ha riflessi evidenti sulla città ed il territorio.

E’ difficile dire di che sia fatto questo qualcosa: al suo interno vi sono fenomeni ed esperienze diverse come l'arresto dei flussi migratori, della crescita delle grandi città, il rallentare dell'edificazione nelle aree urbane ed il suo spostarsi in altri luoghi dispersi, la delocalizzazione industriale, il progressivo emergere della campagna urbanizzata, della industrializzazione diffusa, l'estensione del paesaggio delle periferie metropolitane.

Sullo sfondo vi è il mutamento dei rapporti tra i settori industriali urbani ed i settori rurali fornitori di alimenti e di materie prime; il mutamento dei prezzi relativi dei rispettivi prodotti, della struttura generale dei prezzi, la fine di una fase di intensa proletarizzazione della forza lavoro, i mutamenti tecnologici, la scomposizione dei cicli produttivi, la riscoperta di un mercato del lavoro configurato anche dal lato dell'offerta, la scoperta della "complessità e della contraddizione nella società, nella città e nell'architettura" del localismo, l’aprirsi forse di un nuovo e diverso ciclo di accumulazione.

In superficie vi sono mutamenti in qualche caso drammatici nell'occupazione del suolo: le grandi aree industriali urbane abbandonate, i vuoti che all'improvviso si sono venuti a formare entro tessuti densi e compatti, la formazione di periferie interne, l'occupazione da parte delle attività terziarie di vaste aree residenziali, l’incoerenza tra l’ubicazione dei servizi sociali e quella dei loro utenti, la dissoluzione dell'opposizione tra città e campagna, tra centro e periferia.

Immediatamente sotto la superficie una miriade di specifiche vicende locali, di identità di gruppi, di discorsi, di azioni di scambio politico, di conflitti, di politiche, di piani, di progetti e strategie individuali e collettive.

Ma sul territorio e nel tempo, nelle diverse situazioni locali, questa collezione di fenomerni non si è disposta come nello spazio e nella sequenza di questa pagina scritta. Associazioni e sequenze, intensità ed importanza sono state di volta in volta differenti. E anche per questo che si è tardato a riconoscere la svolta cui stavamo assistendo ed a comprenderne le conseguenze per il progetto di architettura e di urbanistica. Proverò a dirne alcune.

L’esperienza fondamentale a partire dalla quale l’architettura e soprattutto l’urbanistica modema si sono date una costituzione è un'esperienza di crescita, forse l’unica o la principale ipotesi fondatrice della modernità: di crescita della città, del suolo edificato attorno ad essa, di qualcosa di nuovo che di continuo si aggiunge a ciò che preesiste sino a sommergerlo, sostituirlo, trasformarlo, eventualmente negarlo. La crescita è per lungo tempo concentrazione: nello spazio fisico, in quello del potere ed in quello della giusitizia. Concentrazione del lavoro nella fabbrica, della popolazione nella città, del dominio in una classe, dei premi e delle pene in gruppi sociali diversi. Essa soprattutto appare associata al manifestarsi di una nuova struttura di relazioni sociali, ne appare anzi determinata in ogni dettaglio.

Le intenzioni progettuali dell'urbanistica e della architettura moderne riempiono di se soprattutto la crescita: la città di espansione ed i suoi elementi, le "SiedIungen", i nuovi insediamenti, i quartieri; l'espansione della città nelle campagne e la loro trasfonnazione, le città

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giardino, le "villes nouvelles"; i nuovi oggetti architettonici destinati a strutturare lo spazio. Esse si configurano principalmente come tentativo di dominio del divenire, come volontà che il nuovo si adegui ad un ordine previsto, come visione anticipata di ciò che ancora non esiste e che può essere diversamente nominato.

Urbanistica ed architettura moderne divengono così programma di ricerca scientifica: tentativo di rielaborare il dato dell'esperienza entro una struttura teorica e tecnica in grado di prevedere e perciò dominare il fluire degli eventi e la struttura delle relazioni che tra essi intercorrono.

Il progressivo astrarsi dell'urbanistica modema dalle proprietà fisiche, materiali e formali degli oggetti che riempiono il suo campo di osservazione, il progressivo spostare il centro della propria attenzione dalla struttura morfologica della città e del territorio a quella economica e sociale, il trasformarsi dell'urbanista in economista, sociologo, storico, filosofo è intimamente legato all'esperienza della crescita, a questa fondamentale esperienza del nuovo che ha connotato il mondo occidentale negli ultimi due secoli.

Le modalità concrete attraverso le quali ciò è avvenuto sono state il ricorso ad una concezione olistica della società e della città, all'affermazione del’irriducibilità del tutto alle sue singole parti, dell'interesse generale a quello individuale. Ne è nato un metodo di progettazione nel quale l’attenzione è stata posta su argomenti di carattere universalistico, sulla scoperta di rapporti stabili nel lungo periodo, sulla definizione di tipi, sulla serie, sulla ripetizione. Ogni progetto urbanistico e di architettura ha assunto carattere dimostrativo, aspirando ad un contenuto di verità che travalicasse la singola situazione locale e la singola contingenza storica entro le quali era stato prodotto. Perciò l’urbanistica si è fatta discorso, ricorrendo in particolare a grandi strutture narrative: la storia della città industriale, epifania delle più stabili strutture della società, è stata narrata come quella di un peggioramento, il compito dell'urbanista come quello di opera per il miglioramento. Ciò ha consentito di dare identità ai soggetti sociali, agli antagonisti ed agli alleati, agli ostacoli, alle procedure di interazione sociale, di prospettare la crescita come associata ad una contesa, ad un conflitto, ad un gioco decisionale l’esito del quale deve essere perseguito, progettato, non è garantito.

Forse è incauto avanzare ipotesi cosi aggregate. Le storie dell'urbanistica e dell’architettura moderne sono naturalmente più ricche, complesse, polivalenti, in un certo senso ambigue, di quanto emerga dalle righe precedenti. Ma l’idea della crescita le ha comunque dominate, eventualmente come incubo, come rifenimento, negativo, così come ha dominato altre aree disciplinari, ad esempio l’economia politica, che si sono costituite contemporaneamente a loro.

L'arresto della concentrazione e della crescita urbana è evento che viene percepito con qualche lentezza. Probabilmente esso si è anche prodotto lentamente. Se si osserva la superficie degli avvenimenti cosi come è dato di percepire nel nostro paese, all'inizio degli anni '60 cogliamo il passaggio da una fase di sviluppo “estensivo”, durante la quale l’aumento della produzione aggregata si accompagna ad un sensibile aumento dell’occupazione, ad una fase di sviluppo "intensivo" nella quale, all'opposto, la produzione aumenta utilizzando tecniche risparmiatrici di lavoro. Naturalmente questi movimenti sono la risultante di più articolate modifiche delle tecniche entro ciascun settore, della composizione settoriale del’output totale e dei rapporti tra i diversi gruppi di interesse. Da ciò consegue comunque un primo arresto dei grandi flussi migratori, degli spostamenti della forza lavoro dall’agricoltura all’industria, dalla campagna alla città, dal sud al nord, dal piccolo al grande centro, dalla piccola impresa arretrata alla grande e moderna. Essi daranno luogo, qualche anno dopo, ad una drastica modifica della struttura demografica delle maggiori città.

Ma l’espansione delle aree urbane non rallenta per questo. Le condizioni abitative sono tali da giustificare ancora intensi programmi di edificazione. L'amministrazione pubblica. si candida come guida di questa nuova espansione: i grandi quartieri di edilizia pubblica, la progettazione delle più estese parti della città modema, sono posteriori a questo primo passaggio.

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Alla fine degli anni '60 iniziano però intensi fenomeni di decentramento produttivo, di delocalizzazione industriale, di industrializzazione diffusa, di formazione di una estesa campagna urbanizzata. Infine, al termine degli anni ‘70, un nuovo cambiamento delle tecniche produttive: esso viene presentato con i toni e gli accenti del “meraviglioso“, ma la realtà è forse più interessante. Si chiude una fase nella quale le modalità dell'organizzazione tayloristica della produzione implicavano che dosi sensibili e crescenti di suolo venissero associate ad ogni dose di lavoro, nella quale il layout di ogni ciclo produttivo era pensato in uno spazio comunque estensibile e se ne apre un'altra nella quale, all'opposto, la produzione si fa fenomeno meno appariscente che occupa spazi sempre più piccoli e che perciò si può più facilmente ubicare in modo disperso negli interstizi dei tessuti urbani e rurali esistenti.

L'arresto della crescita urbana, dell'occupazione del suolo attorno alle grandi città, la dispersione spaziale della produzione, non possono più essere interpretate come dovute a riduzioni cicliche della produzione. Esse appaiono come il connotato principale di una nuova era, come il risultato di nuove relazioni tra i gruppi sociali, di nuove strategie.

Nelle grandi aree urbane e metropolitane guardando le quali sin dall'inizio si è costruito il problema urbanistico, vi sono ora dei “vuoti” estese aree “molli”, bacini e distretti industriali obsoleti ed abbandonati od in via di abbandono: i docks di Londra, il Lingotto a Torino, l’area Citroén a Parigi, Milano-Bovisa, Bagnoli a Napoli, i porti di Genova e di Rotterdam, Coventry. Essi confinano con aree "dure", nelle quali la residenza e le attività terziarie si contendono il terreno palmo a palmo. Attività sempre più variegate si rilocalizzano muovendosi lungo linee di minor resistenza che attraversano l’edificato in molte direzioni, non sempre lungo quella che dal centro va alla penferia. Esse tendono ad associarsi ed accostarsi senza regola apparente. L'eterogeneità domina il paesaggio urbano, quello delle periferie metropoIitane e della campagna urbanizzata. Città e territorio vengono sempre più pervasivamente tematizzati ricorrendo a parole diverse dal passato.

L'esperienza fondamentale a partire dalla quale si costruisce negli ultimi venti anni il problema urbanistico è dunque un'esperienza di progressivo arresto della crescita urbana e di progressiva dispersione: nello spazio fisico, in quello del potere ed in quello della giustizia. Industrializzazione diffusa, sistemi decisionali accentrati, idea locale della giustizia. Essa è per molti versi esperienza opposta a quella che troviamo all'origine del programma di ricerca dell'urbanistica e dell'architettura moderne e dà luogo ad una progressiva destrutturazione e delegittimazione del loro metodo di progettazione.

All'inizio della nuova tematizzazione troviamo una città fatta di “parti” che non necessariamente sono riconduclili alla totalità lungo i due assi del rapporto gerarchico e dell'integrazione: è la storia, la memoria che la città ha di sé stessa che dà unità alle sue varie parti. Le proprietà dei singoli oggetti architettonicí acquistano senso entro un sistema di rapporti che caratterizzano la singola parte di città: un certo paesaggio urbano, un certo contenuto sociale, una sua funzione.

Alla fine degli anni '70 le caratteristiche socíali di ogni singola parte della città non aderiscono più a quelle funzionali; le relazioni morfologiche non aderiscono a quelle sociali e funzíonali. Se percorro la città colgo informazioni incoerenti, il senso dei luoghi non mi appare immediatamente percepibile: densità e tipi edilizi prevalentí non mi parlano più dell'identità degli abitanti, della loro posizione nella divisione sociale del lavoro, di quanto si fa entro gli edifici.

Sto descrivendo il disagio, ma forse anche qualcosa di più rilevante. La crescita della città e della metropoli ci appariva destinata a proseguire; volevamo riempirla delle nostre buone intenzioni, escludere itinerari perversi, contenerla anche onde crescesse qualcosa d’altro. L'arresto della sua crescita ha accorciato d'improvviso l’orizzonte temporale delle nostre previsioni. La concentrazione riportava ogni cosa entro il nostro raggio visuale. Ritenevamo di poter vedere, prevedere, controllare. La dispersione sospinge la crescita fuori della portata del nostro sguardo, lontano dalla città ed in direzioni impreviste: la dissemina, la parzializza, la dissolve in episodi variegati.

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Ma non per questo la nuova situazione mi sembra debba essere necessariamente descritta come "escrescenza" , "proliferazione", "cancrena", "metastasi", malattia incontrollata ed incontrollabile. Il ricorso così frequente a questi termini mostra una nostra difficoltà della visione.

Ci rendiamo conto che il tema non è più quello della costruzione "ex-novo” della "città moderna"; che questi termini. non possono più significare le molte forse troppe cose cui alludevano gli esempi dimostrativi dell'urbanistica e dell'architettura moderne. Lo spazio entro il quale vivremo i prossimi decenni è in gran parte già costruito. Il tema è ora quello di dare senso e futuro attraverso continue modificazioni alla città, al territorio, ai materiali esistenti e ciò implica una modifica dei nostri metodi progettuali che ci consenta di recuperare la capacità di vedere, prevedere e di controllare. E’ infatti dalla visione che dobbiamo cominciare.

La complessità attuale della società e del territorio, la difficoltà di collegare ogni loro elemento ad ogni altro ci dovrebbe spingere ad agire inizialmente selezionando relazioni semplici: ad esempio a distinguere realisticamente ciò che nella città e nel territorio è "duro", da ciò che è "malleabile", modificabile nelle sue proprietà, nel suo assetto fisico, nelle sue funzioni, nei rapporti con gli altri oggetti, nel suo senso complessivo. Duro, nella situazione italiana, forse europea, è il quartiere di iniziativa pubblica nella periferia metropolitana, il Corviale, il Laurentino, Secondigliano, il Pilastro, il gruppo dei condomini di sette od otto piani nella pianura della Brianza o del Veneto, il nodo autostradale, la barriera ferroviaria, l’insediamento abusivo sulla costa, la lottizzazione pretenziosa. Malleabile si è dimostrato, all'opposto, il centro storico, soprattutto lo spazio pubblico, l’occupazione precaria dei suoli periferici, l’area o l'edificio industriale obsoleti.

Ma questa è solo una delle configurazioni possibili: in situazioni differenti malleabile e duro possono essere riferiti ad oggetti diversi. A Los Angeles duri sono soprattutto la maglia infrastrutturale e quattro o cinque grumi di edificazione alta, malleabile è il restante oceano edificato; a Detroit quando si vuole costruire il nuovo stabilimento della Cadillac si rade al suolo la città polacca; a Mosca il duro prevale, il malleabile è quasi inesistente. Duro e malleabile non sono termini descrittivi solo di proprietà fisiche, di rapporti visivi. “Potty and clay” erano termini con i quali gli economisti, qualche tempo fa, descrivevano la capacità di adattamento, la scarsa resistenza di una parte dell’economia di fronte all'aggressività, alla forza strutturante dell'altra.

Negli anni passati, quando si pensava che la produzione di merci fosse attività eminentemente consumatrice di suolo, in tutti i piani urbanistici dei piccoli comuni sono state inserite vaste macchie viola: ora sappiamo che non verranno mai riempite di stabilimenti. Esse sono e saranno parzialmente vuote, ma hanno strutturato una "dura" rete di interessi, non solo fondiari; spesso hanno dato luogo alla costruzione di infrastrutture, di quartieri residenziali; hanno dato luogo ad aspettative, a promesse, a patti che ora vengono duramente rivendicati. Duro e malleabile divengono così termini prossimi a negoziabile e non negoziabíle.

Lo spazio futuro sarà dunque il risultato anche di insediamenti mai sorti, delle azioni di scambio politico da essi innescate, delle intenzioni che si sono consolidate in valori fondiari. Le periferie metropolitane sono zeppe di progetti incompiuti che hanno cosparso il territorio di punti di domanda e di risposte non richieste; il sistema di interazione sociale è zeppo di vincoli, di variabili indipendenti, di temi non negoziabili. Lasciare nei piani e nei discorsi l’idea che i progetti possano proseguire negli stessi termini nei quali sono stati inizialmente pensati e con gli stessi protagonisti è quantomeno elusivo: corrisponde a concepire il piano come un grande serbatoio che occorre riempire in qualche modo per colmare alla fine. Ma altrettanto elusivo è anche ritenere che entro l'eterogeneità e la complessità, entro uno spazio sempre più connotato da assenza o difficoltà di collegamenti tra le parti, ogni contaminazione sia possibile, ogni progetto sia legittimo e divenga dimostrazione di saggezza privata, gioco del raccostamento improbabile e sorprendente, infinito scambio e permutazione di elementi che ci eravamo abituati a comprendere entro ordinamenti significativi.

Modificare vuol dire appunto la ricerca di un metodo di progettazione diverso, solo per alcuni versi opposto a quello passato, nel quale l'attenzione sia posta primariamente al problema del senso, delle relazioni cioè con quanto appartiene al contesto, alla sua fattualità e materialità, alla sua storia,

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alla sua funzione nel processo di riproduzione sociale, alla sua regola costitutiva. Ad un livello più specifico vuol dire costruire piani “a grana più fine", privi di carattere dimostrativo, che non aspirino a trascendere la situazione nella quale sono prodotti, che non pretendano di legittimarsi mediante un uso strumentale e burocratico dell'apparato discorsivo consegnatoci dalla tradizione, ma che articolino lo spazio del discorso con più limitate e definite tematizzazioni; piani che perdano in parte il loro carattere istituzionale, di norma astratta ed indipendente da fini specifici, che selezionino i temi della progettazione partendo dalla specificità dei luoghi, dal loro carattere posizionale, riferendosi ad una idea di razionalità limitata. Ancora più nello specifico vuol dire abbandonare le grandi campiture sulle mappe, i grandi segni architettonici ed infrastrutturali sul territorio, agire sulle aree intermedie, sugli interstizi, sulle commessure tra le parti "dure", reinterpretare le parti “malleabili", in qualche modo reinventare e une e le altre aggiungendo loro qualcosa che dia appunto senso all'insieme; stabilire cioè nuove legature, formare nuovi coaguli fisici, funzionali e sociali, nuovi punti aggregazione che sollecitino prospettive più distanti, sguardi più generali entro i quali possano darsi progetti più vasti, discorsi più convincenti e veri.

Vuol dire cercare di nuovo una regola ed una semantica, non necessariamente prosecuzione o mimesi di quella storica, ma giustificabile con argomenti pubblici, non privati. Tutto ciò vuol dire sottoporsi ad una notevole dose di rischio intellettuale, forse anche ritrovare un motivo di maggiore impegno etico-politico.

60[1] Testo pubblicato in "Casabella: Architettura come modificazione", n.498/9, Electa Periodici, gennaio-febbraio 1984

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