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112 Rassegna bibliografica Prima guerra mondiale Donella Piccioli e G ianandrea Pic- cioli, L ’altra guerra , Milano, Principato, 1974, pp. 222, lire 1.800. Renato Monteleone, Lettere al re 1914- 1918, Roma, Editori riuniti, 1973, pp. 166, lire 1.600. I due agili volumi che presentiamo hanno in comune una dichiarata scelta di campo nello studio della partecipazione delle masse alla prima guerra mondiale. « Que- sto testo, scrivono Donella e Gianandrea Piccioli, vorrebbe ripresentare il primo conflitto mondiale dal punto di vista di quelle classi subalterne che, senza vo- lerlo, si trovarono a combatterlo. C ’è quindi la scelta esplicita e dichiarata di una posizione faziosa » (p. 2). E Renato Monteleone: « Ho compiuto una scelta deliberata tra le tante angolazioni dalle quali quel quadro [della guerra] può ve- nir valutato, quella che ritengo più utile a cogliere, nelle tendenze, la continuità dei fatti col dopoguerra » (p. 57). Prese di posizione così chiare fanno piacere, dopo tutte le dichiarazioni di una falsa e ipocrita imparzialità dei conservatori vecchi e nuovi (cfr. ancora Monteleone, pp. 12-13); ma sono anche determinate dalla difficoltà del compito che gli autori si sono prefissi, poiché quasi tutta la ricca produzione e documentazione storiogra- fica sulla prima guerra mondiale ignora o mistifica il ruolo delle masse ed è quindi costante anche per chi si ispira a una con- traria scelta di classe la necessità di una estrema chiarezza che eviti cedimenti ma- gari inconsapevoli e fughe in avanti. II volume dei Piccioli è un’antologia che si rivolge alla scuola e alla ricerca di gruppo, con l’ambizione appunto di rea- lizzare una specie di controstoria della grande guerra e particolare attenzione per la cultura propria delle masse. « Certe testimonianze, essi scrivono, non vanno considerate come la manifestazione inge- nua di chi non ha una cultura, bensì come una rivelazione di una cultura altra ri- spetto a quella ufficialmente dominante » (p. 2). Le difficoltà di questa ricerca sono evidenti: la fonte principale che i Pic- cioli sono costretti a utilizzare è pur sem- pre la memorialistica borghese, anche se le pagine pubblicate sono quelle che for- niscono una più viva e cruda immagine della vita dei soldati. Interessante, anche se appena abbozzata per ragioni di spa- zio, la sezione che raccoglie vari docu- menti di Cadorna, di Capello e dei tribu- nali militari sull’articolazione della repres- sione al fronte. Particolare cura gli autori hanno poi messo nella ricerca di docu- menti di origine popolare, riunendo le let- tere dal fronte pubblicate da Forcella e Monticone e quelle dai campi di prigionia date alle stampe nel 1921 dallo Spitzer e così poco note, due testimonianze orali di superstiti conservate dall’Istituto De Mar- tino e una ventina di canzoni di protesta contro la guerra (o di varianti antimilita- riste di canzoni più note). Il materiale raccolto è sempre interessante e, nel suo genere, completo; si può solo lamentare che siano state tralasciate le voci dell’in- terno del paese, con l’unica eccezione del- la testimonianza di Montagnana sui fatti di Torino dell’agosto 1917. Ed è peccato che la contemporaneità dell’uscità dei vo- lumi di Monteleone e Caretti, di cui par- liamo appresso, non abbia permesso ai Piccioli di utilizzare questo nuovo ap- porto documentario, come potrà avvenire in una eventuale e auspicabile seconda edizione. La cultura che emerge da questo mate- riale, osservano gli autori, è sostanzial- mente quella contadina: « una visione materialista, estremamente concreta, le- gata al dato quotidiano » (p. 19), total- mente estranea alla guerra, che pure ac- cetta come realtà ineluttabile, a cui non c’è scampo né alternativa. Né appare di- verso il mondo del proletariato cittadino, peraltro assai meno rappresentato. L ’uni- co momento in cui forse le masse vissero diversamente e autonomamente la guerra fu nei giorni del disastro di Caporetto: un’esperienza che « avrebbe potuto essere l’inizio di una rivoluzione » e invece ri- mase « un momento isolato e non rac-

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112 Rassegna bibliografica

Prima guerra mondiale

Donella Piccioli e Gianandrea Pic­cioli, L ’altra guerra, M ilano, Principato, 1974, pp. 222, lire 1.800.

Renato Monteleone, Lettere al re 1914- 1918, Roma, Editori riuniti, 1973, pp. 166, lire 1.600.

I due agili volumi che presentiamo hanno in comune una dichiarata scelta di campo nello studio della partecipazione delle masse alla prima guerra mondiale. « Que­sto testo, scrivono Donella e Gianandrea Piccioli, vorrebbe ripresentare il primo conflitto mondiale dal punto di vista di quelle classi subalterne che, senza vo­lerlo, si trovarono a combatterlo. C ’è quindi la scelta esplicita e dichiarata di una posizione faziosa » (p. 2). E Renato Monteleone: « H o compiuto una scelta deliberata tra le tante angolazioni dalle quali quel quadro [della guerra] può ve­nir valutato, quella che ritengo più utile a cogliere, nelle tendenze, la continuità dei fatti col dopoguerra » (p. 57). Prese di posizione così chiare fanno piacere, dopo tutte le dichiarazioni di una falsa e ipocrita imparzialità dei conservatori vecchi e nuovi (cfr. ancora Monteleone, pp. 12-13); ma sono anche determinate dalla difficoltà del compito che gli autori si sono prefissi, poiché quasi tutta la ricca produzione e documentazione storiogra­fica sulla prima guerra mondiale ignora o mistifica il ruolo delle masse ed è quindi costante anche per chi si ispira a una con­traria scelta di classe la necessità di una estrema chiarezza che eviti cedimenti ma­gari inconsapevoli e fughe in avanti.II volume dei Piccioli è un’antologia che si rivolge alla scuola e alla ricerca di gruppo, con l ’ambizione appunto di rea­lizzare una specie di controstoria della grande guerra e particolare attenzione per la cultura propria delle masse. « Certe testimonianze, essi scrivono, non vanno considerate come la manifestazione inge­nua di chi non ha una cultura, bensì come una rivelazione di una cultura altra ri­spetto a quella ufficialmente dominante »

(p. 2). Le difficoltà di questa ricerca sono evidenti: la fonte principale che i Pic­cioli sono costretti a utilizzare è pur sem­pre la memorialistica borghese, anche se le pagine pubblicate sono quelle che for­niscono una più viva e cruda immagine della vita dei soldati. Interessante, anche se appena abbozzata per ragioni di spa­zio, la sezione che raccoglie vari docu­menti di Cadorna, di Capello e dei tribu­nali militari su ll’articolazione della repres­sione al fronte. Particolare cura gli autori hanno poi messo nella ricerca di docu­menti di origine popolare, riunendo le let­tere dal fronte pubblicate da Forcella e Monticone e quelle dai campi di prigionia date alle stampe nel 1921 dallo Spitzer e così poco note, due testimonianze orali di superstiti conservate dall’Istituto D e M ar­tino e una ventina di canzoni di protesta contro la guerra (o di varianti antimilita­riste di canzoni più note). I l materiale raccolto è sempre interessante e, nel suo genere, completo; si può solo lamentare che siano state tralasciate le voci dell’in­terno del paese, con l ’unica eccezione del­la testimonianza di Montagnana sui fatti di Torino dell’agosto 1917. Ed è peccato che la contemporaneità dell’uscità dei vo­lumi di Monteleone e Caretti, di cui par­liamo appresso, non abbia permesso ai Piccioli di utilizzare questo nuovo ap­porto documentario, come potrà avvenire in una eventuale e auspicabile seconda edizione.

La cultura che emerge da questo mate­riale, osservano gli autori, è sostanzial­mente quella contadina: « una visione materialista, estremamente concreta, le­gata al dato quotidiano » (p. 19), total­mente estranea alla guerra, che pure ac­cetta come realtà ineluttabile, a cui non c ’è scampo né alternativa. Né appare di­verso il mondo del proletariato cittadino, peraltro assai meno rappresentato. L ’uni­co momento in cui forse le masse vissero diversamente e autonomamente la guerra fu nei giorni del disastro di Caporetto: un ’esperienza che « avrebbe potuto essere l ’inizio di una rivoluzione » e invece ri­mase « un momento isolato e non rac­

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colto » e pur significativo (p. 20), anche se non facile da valutare appieno. Ciò che viene ancora confermato, « è il divario anzi l ’inconciliabilità fra il modo di con­cepire la vita e i valori da parte della classe egemone e da parte delle classi subalterne » (p. 2).Il volume di Monteleone è di fatto diviso in due parti: un’introduzione di 50 pa­gine (un vero e proprio saggio con una documentazione archivistica inedita) che mette a punto l ’interpretazione della gran­de guerra imposta dalle ricerche di questi ultimi anni; e una selezione delle lettere anonime indirizzate al re negli anni del conflitto e conservate in vari fondi del­l ’Archivio centrale dello stato. La guerra non fu popolare-nazionale, ma fu intra­presa e condotta per il rafforzamento del potere di un blocco di classe conserva­tore; fu quindi imposta alle masse con la manipolazione ideologica, la repressione e, lungi dal rappresentare una rigenerazione morale del paese, accelerò il processo di corruzione e scompaginamento delle sue strutture politiche e sociali, scrive Mon­teleone. In questo quadro la protesta ano­nima delle lettere al re va studiata non come una documentazione statistica della rivolta popolare (è impossibile calcolare il numero delle lettere effettivamente scritte e poi distrutte, né del resto si saprebbe a quale entità rapportarle), ma come « il segno del dramma co llettivo» (p. 21), l ’illustrazione e l ’approfondimento cioè di quei sentimenti popolari che la documen­tazione ufficiale ha mistificato o cancel­lato. I rapporti dei prefetti, che Monte­leone riprende con ampiezza e sistemati­cità maggiori dei precedenti studi di Mon­ticene, Vigezzi, D e Felice e Melograni, rivelano infatti la vastità e la pericolosità dell’opposizione alla guerra, ma tendono a negarle ogni autonomia e dignità poli­tico-culturale, vedendo in essa solo il pre­valere di sentimenti egoistici o la ripeti­zione passiva di slogans irresponsabili. Attraverso le lettere anonime la protesta popolare acquista vivacità e ricchezza, of­frendo anche un riscontro alla diffusione della tematica contro la guerra; più che la novità dei temi di protesta, rapporta­

bili a diverse esperienze e ambienti, è la loro autenticità che il volume di Monte­leone documenta.Un altro contributo alla conoscenza della protesta delle masse sul finire della guerra è dato dal recente volume di Stefano Ca- retti, L a rivoluzione russa e il socialismo italiano 1917-1921 (Nistri-Lischi, Pisa, 1974), di cui ci occupiamo solo marginal­mente perché per tematica e impostazio­ne si differenzia da quelli dei Piccioli e di Monteleone. Vale però la pena di segna­lare la pubblicazione di alcuni volantini, anonimi e spesso di fortunosa compila­zione, diffusi nel 1917 ed inneggianti alla rivoluzione russa ed alla prossima pace con una carica politica che testimonia un aspetto della protesta popolare distinto e complementare rispetto alle lettere ano­nime al re.

Giorgio Rochat

Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Bari, Laterza, 1974, pp. 423, lire 6.000.

La ricerca storica sul primo dopoguerra ha fino ad oggi lasciato in ombra le orga­nizzazioni politiche minori o meno dura­ture: il volume del Sabbatucci sui movi­menti combattentistici viene a colmare una delle maggiori lacune, anche se gli si può rimproverare di chiudere la sua in­dagine con l ’estate 1920, mentre il com­battentismo ebbe un peso politico non trascurabile almeno fino al 1925. Una li­mitazione tanto più dolorosa, in quanto lo studio del biennio 1919-20 è condotto con molta cura: ampie ricerche nella stam­pa e nell’Archivio centrale dello stato, una buona conoscenza del periodo, una capacità espositiva apprezzabile. I l Sab­batucci si sofferma specialmente sull’A sso­ciazione nazionale combattenti, che nel­l ’autunno 1919 riuniva circa 300 mila iscritti, saliti a oltre 500 mila nell’agosto successivo, e fruiva dell’appoggio dell’A s­sociazione nazionale mutilati e invalidi di guerra e di buoni rapporti con l ’uffi­ciale Opera nazionale combattenti. E ana­lizza il « mito del rinnovamento » , la spe­

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ranza cioè che le masse dei reduci fossero disponibili per una politica di profondi mutamenti democratici, capaci di dare realizzazione alle promesse avute dal go­verno e senso concreto ai sacrifici degli anni di trincea. Nel clima febbrile del 1919 l ’Associazione nazionale combattenti riuscì a riunire forze diverse, per lo più gruppi di piccola borghesia umanistica, e a raggiungere una notevole base di massa, specie nelle campagne meridionali. L ’eterogeneità delle forze raccolte impedì però un consolidamento dell’Associazione su una linea politica precisa; il congresso di Napoli dell’agosto 1920 segnò di fatto il fallimento del tentativo di creare una nuova organizzazione di massa orientata a sinistra, ma nettamente distinta, anzi con­trapposta alle organizzazioni socialiste. I l combattentismo dove quindi accettare un ruolo politico decisamente secondario, mi­nato dal trasformismo, fino alla graduale e non incontrastata egemonizzazione fa­scista.

Queste vicende sono ricostruite dal Sab­b a t i c i con proprietà e correttezza, tanto che il volume è utilizzabile anche da chi, come noi, non ne condivide le tesi di fondo. Sabbatucci ritiene che il « mito del rinnovamento » potesse realmente dar luogo alla nascita di una formazione poli­tica « nuova e autonoma » a livello nazio­nale, tanto che scrive: « Non era affatto assurda l ’idea di un nuovo movimento politico che si appoggiasse sulla struttura organizzativa dell’Associazione nazionale combattenti e si basasse sulla piccola bor­ghesia e sui contadini del mezzogiorno: e cioè sugli strati sociali che erano stati particolarmente provati dalla guerra e dal dopoguerra ed ai quali né il movimento socialista né quello cattolico avevano po­tuto o voluto offrire una efficace guida politica. Questi strati non costituivano certamente una classe sociale a se stante [ .. .] . Costituivano però un blocco di forze sociali che non avevano interessi contra­stanti ed erano per vari motivi in cerca di una propria rappresentanza politica » (p. 345). Questo obiettivo non fu rag­giunto perché la piccola borghesia non seppe realmente interpretare le esigenze

dei contadini meridionali, né superare « l ’ostilità radicale e preconcetta nei con­fronti dei grandi partiti di massa » (p. 346). In sostanza, la piccola borghesia ita­liana, e meridionale in particolare, non seppe porsi come forza egemone in un nuovo blocco di forze, per mancanza di fiducia prima ancora che di possibilità (ma cosa autorizza a credere che un grup­po sociale tradizionalmente subalterno e parassitario potesse d ’improvviso porsi come classe dirigente, nel momento in cui lo scontro di classe si radicalizzava viep­p iù ?); e i dirigenti dell’Associazione na­zionale combattenti, conclude Sabbatucci, « privi di una qualsiasi quadratura ideo­logica che andasse al di là del solito fru­sto radicalismo e di una generica voca­zione meridionalistica, e privi altresì di un reale contatto con le masse che dice­vano di rappresentare, finirono col rica­dere fatalmente in una logica trasformi­stica e in una prassi clientelare che appro­fondivano ulteriormente il loro distacco dalla base » (p. 347). Si riconfermarono cioè gruppi subalterni, preoccupati solo della difesa del loro ruolo semi-privile­giato; né seppero condurre un’azione più incisiva i salveminiani e il gruppo di « Volontà » , forti di una diversa tempra morale, ma legati ad analisi e proposte superate e velleitarie.Mentre l ’analisi delle cause del fallimento del movimento combattentistico tracciata dal Sabbatucci sembra esauriente, non condividiamo la sua sopravvalutazione del­le possibilità di rinnovamento, dovuta probabilmente alla limitazione della ri­cerca al 1919-20. Per conto nostro, Io studio del combattentismo postbellico non può prescindere da un’attenta valutazione della natura della guerra mondiale e delle sue conseguenze nella società italiana, che manca nel volume. Il Sabbatucci dedica alla guerra poche pagine generiche, per lo più dipendenti dalla Storia politica del Melograni, in cui non affronta i problemi di fondo né quelli specifici del ruolo degli ufficiali di complemento che furono poi i protagonisti del combattentismo. Per chi dà un’interpretazione di classe della guerra, questi ufficiali venivano dal falli­

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mento dell’interventismo di sinistra e dal­l ’accettazione, consapevole o meno, del­l ’impostazione nazionalista del conflitto, in cui avevano svolto un ruolo oggettivo di mediatori e organizzatori della repres­sione; il mistificato rapporto paternali­stico tra il comandante di plotone e i suoi soldati non era certo la premessa migliore per l ’impostazione di una lotta di massa rinnovatrice nel dopoguerra. Per credere invece nella vitalità democratica e nella possibilità di successo del combattentismo, bisogna partire da una concezione assai diversa della guerra, in cui i quadri di complemento avrebbero avuto un peso politico reale e un orientamento tenden­zialmente democratico, costruendo già nel­la trincea un rapporto politico nuovo con i contadini meridionali; ma tutto ciò non ha riscontro nella realtà. I l nostro discor­so è necessariamente schematico, ma vuole soltanto ricordare che l ’interpretazione pa­triottica tradizionale della guerra non è più indiscussa base degli studi sul dopo­guerra; una più attenta considerazione dell’esperienza bellica, riteniamo, avrebbe chiarito al Sabbatucci come sin dall’inizio il combattentismo, lungi dal porsi come organizzazione di massa alternativa, non potesse avere un futuro se non nel tra­sformismo e poi nel sottogoverno e nella strumentalizzazione fascista.Ci sembra infatti che tutto il combatten­tismo vada visto sotto il segno dell’ambi­guità, dal suo sorgere, quando si fece portavoce del malcontento e delle delu­sioni postbelliche riuscendo sempre a evi­tare un serio discorso critico sulla guerra, ma svolgendo di fatto il compito di ar­gine all’espansione della rivincita sociali­sta, al momento della sua massima espan­sione, quando al suo interno coesistevano clientelismo e serio riformismo, demago­gia e giacobinismo, salveminiani e nazio- nal-fascisti, moralisti e truffatori. Sotto il segno dell’ambiguità va vista pure l ’evo­luzione successiva che portò le associa­zioni combattentiste a fiancheggiare il fa­scismo, con un breve soprassalto di indi- pendenza dopo il delitto M atteotti e una vicenda complessiva tutt’altro che glo­riosa, malgrado il coerente impegno di

una minoranza. E d è veramente peccato che la ricerca del Sabbatucci si arresti di fatto all’agosto 1920 (dopo aver impie­gato 350 pagine ad arrivare al congresso di Napoli, egli ne dedica solo 30 ai quat­tro anni successivi), non solo perché re­stiamo privi di una ricostruzione così utile e seria degli sviluppi successivi del combattentismo, ma anche perché il pro­gressivo deterioramento delle aspirazioni e della carica ideale del movimento e lo spazio crescente acquistato dalla celebra­zione patriottica avrebbe certo rafforzato la dimostrazione della inattuabilità delle speranze del 1919 di un rinnovamento democratico e la reale natura della allean­za offerta da gruppi della piccola bor­ghesia alle masse contadine.

Giorgio Rochat

Fascismo e antifascismo

Michael Arthur Ledeen, L ’Internazio­nale fascista, Bari, Laterza, 1973, pp. VI- 233, lire 1.200.

Del fascismo come idea universale, se­condo una nota espressione mussoliniana, si parla spesso ma il contenuto specifico di questa formulazione dottrinale e i suoi addentellati pratici nella storia dei movi­menti fascisti sono ancora da esplorare. In questa direzione un contributo certo parziale ma non per questo trascurabile offre il saggio del Ledeen, che affronta l ’argomento da un angolo visuale parti­colare, nei suoi aspetti essenzialmente dottrinali lasciando in posizione secon­daria il problema del fascismo come movi­mento internazionale (o meglio come som­ma di movimenti nazionali, ciascuno espri­mente una « via nazionale » al fascismo): da questo punto di vista, ancora una volta, il titolo dell’edizione originale Uni­versal fascism rispondeva meglio del titolo della versione italiana al contenuto effet­tivo del saggio dello studioso americano. Il lavoro del Ledeen offre un’interessante e intelligente esplorazione nell’ambito dei gruppi minoritari del fascismo che a ca­

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vallo tra la fine degli anni venti e l ’inizio degli anni trenta tentando di elaborare una ideologia « onnicomprensiva » del fa­scismo, tale da renderne possibile l ’attra­zione e l ’esportazione a livello internazio­nale, espressero l ’insoddisfazione per le realizzazioni (e i modi di esse) sino allora raggiunte dal regime nell’ambito italiano. Sviluppando il discorso in questa chiave l ’A. sottolinea anche, con notazioni spesso felici, taluni aspetti della figura e della personalità di uomini come Bottai, che non rinunciarono mai ad esprimere, sia pure in toni sommessi, accenti critici al­l ’interno del regime. I l rischio di una analisi di questi comportamenti sotto il profilo esclusivamente dottrinale è tutta­via quello di dar loro più peso di quanto effettivamente e politicamente non ebbe­ro; e in secondo luogo di trascurare l ’a­spetto strumentale che certe teorizzazioni ebbero in funzione della politica estera fascista, che è appunto l ’elemento che spiega certe oscillazioni della posizione di Mussolini nel valorizzare o meno, a se­conda dei momenti, certe formulazioni dottrinali.E in generale troppo categorica ci pare — come del resto altre affermazioni secon­darie — la valutazione conclusiva del mo­vimento per il fascismo universale come « un movimento di protesta in seno al fascismo ». In realtà, a parte le distin­zioni che si possono fare all’interno dei vari gruppetti che diedero voce a quelle formulazioni, e una più severa critica che si potrebbe fare della loro fragilità se non addirittura inconsistenza ideologica, fu la stessa prova dei fatti a dare la dimostra­zione di quanto poco serie fossero le in­tenzioni di protesta di questi gruppi. È implicitamente lo stesso Ledeen a con­fermarlo; si veda per l ’appunto il cap. V nel quale l ’A. individua a ragione nella divergenza con il nazismo tedesco sul problema del razzismo (seguendo tuttavia acriticamente per quanto riguarda l ’anti­semitismo italiano le interpretazioni del De Felice) il punto di rottura e il momen­to di declino dei teorici del fascismo uni­versale di fronte all’irruzione dell’ideolo­gia e dell’egemonia naziste, parallelamen­te agli sviluppi dell’A sse e del contesto

internazionale. Ebbene, quale fu la sorte dei teorici del fascismo universale che in passato avevano respinto esplicitamente il razzismo? Posto di fronte all’evidenza del loro passaggio alFantisemitismo, l ’A. in­vece di insistere sui limiti e sul velleita­rismo di certe posizioni di protesta, se tali esse furono, cerca di sottolineare la continuità per così dire della linea fron­dista, suggerendo un’interpretazione del­l ’antisemitismo di questi gruppi quale schermo di un movimento per il rinno­vamento interno del fascismo (pp. 195 sgg.). U n’interpretazione forse troppo sot­tile di fronte alla realtà di una linea che, al di là degli sforzi di dare un accento specificamente italiano all’ antisemitismo fascista, portava questi gruppi oggettiva­mente a convergere sempre più stretta- mente e rigorosamente con il nazismo e con quegli stessi elementi « estremisti » all’interno del fascismo italiano che ope­ravano per una assimilazione dell’ideolo­gia e in certa misura delle stesse istitu­zioni naziste.

Enzo Collotti

Bolton King, I l fascismo in Italia, pre­fazione di Aldo Berselli, Bologna, Pàtron, 1973, pp. 163, lire 1.800.

È la ristampa di un saggio del 1931, già allora tradotto in italiano per le clande­stine edizioni di « Giustizia e Libertà » , con il quale il grande storico inglese del­l ’unità d ’Italia si univa alla propaganda e all’azione di chiarificazione dei circoli democratici e liberali che anche sotto la sollecitazione dei fuorusciti antifascisti si adoperavano per controbattere le apolo­gie e le simpatie filofasciste così frequenti nell’ambiente politico inglese, e non sol­tanto tra i conservatori. L ’esauriente pre­fazione del Berselli traccia un profilo di Bolton King e illustra la genesi storico­politica e la fortuna del suo saggio sul fascismo, cui toccò in sorte fra l ’altro di entrare nel materiale di propaganda anti­fascista predisposto da Lauro De Bosis per il lancio su Roma del 3 ottobre 1931. R i­letto oggi in questa ristampa, che utilizza la vecchia traduzione di G . L . ma che

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ripristina opportunamente le note e le ap­pendici dell’edizione originale che in quel­la erano state omesse, il saggio di Bolton King conserva il carattere di equilibrata testimonianza e analisi del fascismo se­condo l ’ottica liberale-democratica di un intellettuale inglese (abbastanza significa­tiva dello spirito dell’A . appare ad esem­pio questa valutazione del Concordato del 1929, a p. 94: « Il Concordato riposa di fatto su instabili fondamenta. L ’antifasci­smo trionfante sarebbe costretto a denun­ciarlo e il potere temporale sparirebbe così di nuovo »). Un testo, in definitiva, che oggi non può presentare evidente­mente alcuna novità interpretativa, inevi­tabilmente datato com’è, ma che appar­tiene certo alla storia delle interpretazioni del fascismo e che rimane comunque do­cumento di un’epoca, testimonianza ap­punto della lotta antifascista che condus­sero insieme esponenti politici e intellet­tuali della democrazia inglese e fuorusciti italiani, come documenta l ’introduzione del prefatore.

E . C.

Marina Addis Saba, Gioventù italiana del littorio. La stampa dei giovani nella guerra fascista, prefazione di U . Alfassio Grim aldi, M ilano, Feltrinelli, 1973, pp. 269, lire 1.700.

Le vicende della generazione educata al fascismo, il suo « lungo viaggio» dal mondo delle illusioni, non di rado colpe­voli, alla realtà della crisi europea, è tema che si lega alla questione della continuità tra fascismo e antifascismo nella società italiana. M . Addis Saba, studiosa sarda che ha molteplici interessi, ci riporta a tale complessa tematica con un saggio che utilizza dati e testimonianze tratte dalla stampa universitaria fascista degli anni 1939-1942. Non è un lavoro pienamente organico (non vi troviamo, tra l ’altro, un catalogo critico di questa stampa), ma è un contributo alla storia del giornalismo fascista, in particolare per il foglio sardo « Intervento » . I risultati conseguiti non sono privi d ’interesse.Direi però che, contrariamente al propo­

sito dell’A ., l ’interesse è più storico che attuale. I neofascisti di oggi difficilmente, credo, possono cogliere una « possibilità di dialogo » (p. 49) dalle vicende dei gio­vani che li hanno preceduti come gene­razione. I neofascisti sono espressione di strutture sociali mutate, di un discorso politico molto più legato al calcolo pra­tico, e quindi alla violenza strumentale, che al decadentismo romantico. I giovani di cui parla la Saba sono gli studenti uni­versitari di un paese in cui la tassa di ammissione all’esame di maturità ammon­tava a 500 lire, metà di uno stipendio considerato buono, e questo esame ver­teva su un triennio di programmi di stu­dio di sette od otto materie. Giovani che avevano alle spalle famiglie abbastanza danarose o, molto più limitatamente, di­sposte a notevoli sacrifici e che erano comunque abituati ad accettare imposi­zioni pesanti. Rappresentavano un ceto sociale assai minoritario e alquanto chiu­so in se stesso. Come giunsero al fascismo? La risposta della Saba è pedagogica e psi­cologica: questa generazione si affacciò su un mondo violentemente traumatizzato dall’avvento della dittatura, dove « il na­turale e organico rapporto tra generazioni fu spento dal fascismo, e i giovani si for­marono [...] senza che una parola di dis­senso o di critica seria al regime giun­gesse alle loro coscienze » ; erano avulsi anche dal dialogo con le cose non dovendo « ancora affrontare, per la loro età, il pro­blema dell’esistenza » (pp. 53-54). I gio­vani che sono nelle università all’inizio della guerra, erano stati in precedenza avviati al fascismo attraverso strutture predisposte e nel momento in cui queste ebbero la massima efficienza. L a Saba si sofferma sulla scuola più che sulle orga­nizzazioni giovanili, e ha ragione, penso, perché la scuola era in questo ceto la datrice delle impronte più penetranti, di quelle culturalizzate. Si ricordano i pro­grammi di studio fascisti, il loro antisto­ricismo, l ’attivismo, l ’autoritarismo e il pragmatismo propagandistico di quella scuola, vizi del resto ben anteriori al ven­tennio. Con la G IL il fascismo aggiunse di suo, nota LA., lo sfruttamento dell’esi­genza giovanile di socialità, cui però offri­

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va soddisfazioni em otive e superficiali, non la pedana per una realistica afferma­zione nella vita; politica di sfogo e di svirilizzazione a un tempo, è ben detto (p. 73), ma anche talora, entro quelle strutture, esperienze deludenti e umilian­ti, e perciò reattivamente salutari, di cor­ruzione e di ipocrisia.I l centro dell’analisi è quell’ambiente di relativa libertà d ’espressione che il fascismo « concesse » (secondo l ’espres­sione di Togliatti, cfr. Lezioni sul fasci­smo, p. 71) ai giovani universitari, ovvia­mente correndo un certo rischio, cioè i « Littoriali » e, in particolare, la stampa giovanile. Dietro questa concessione c’era l ’esigenza del ricambio della sua classe dirigente, ma forse anche, e sarebbe inte­ressante chiarirlo, c ’era la consapevolezza, presumibile in un regime reazionario che però aveva un certo senso della dinami­cità sociale e storica, di una certa plasti­cità e modificabilità delle strutture fasci­ste attraverso le generazioni. Abbastanza logico che, come palestra per queste esi­genze, si privilegiasse il giornalismo non solo, come dice la Saba, strumento « in cui la intelligencija fascista ebbe ad espri­mersi » (p. 89) ma anche, aggiungerei, strumento fondamentale dei regimi rea­zionari di massa d ’allora, basilare per dif­fondere la loro pseudocultura plebea (uso questo termine nel senso ad esso dato da D. Guérin). Della validità di questo stru­mento il fascismo, si sa, ebbe buona perce­zione ed era ad esso affezionato, anche per la diretta esperienza di molti dei suoi espo­nenti di primo piano venuti, appunto, dal giornalismo.Naturalmente, attraverso l ’ esame della stampa giovanile si può cogliere solo un settore ristretto e selezionato della gioven­tù fascista, quello che si sentiva attivo e desideroso di collaborare. A ulteriormente restringere l ’arco del discorso concorre l ’u­niformità di documenti e contenuti che caratterizza questa stampa, forse più della varietà di espressioni. Per una valutazione più approfondita si desidererebbe sapere qualcosa di più sulle vicende interne di questi giornali, avere altre analisi del tipo di quella di N . S. Onofri sul giornalismo bolognese, che è qui bene utilizzata; in

particolare sul foglio genovese « Il Barco » (p. 114) e soprattutto sul pisano « Il Cam­pano » che si distinguono, rispettivamente, per la venatura marxista e per il tema del­l ’autonomia della cultura. Solo del sassa­rese « Intervento » , come si è detto, la Saba, con le fonti a disposizione, ha potuto delineare la storia interna, ma si tratta di un giornale i cui contenuti, anche per la sua perifericità, sono di livello ineguale. Inoltre, la ricostruzione di queste vicende non si può limitare all’individuazione delle iniziative e situazioni locali, ma dovrebbe cogliere la linea politica curata dall’alto, che ad esse si sottende. D i essa troviamo chiare tracce in situazioni organizzative che si riscontrano contemporanee e parallele nella breve vita di questi giornali: come i sassaresi, prima di esordire col loro foglio autonomo, dispongono di una pagina sul quotidiano locale così, mi risulta, gli abruz­zesi disponevano del giornale « L ’A dria­tico ». E sono comuni le tre fasi dell’orien- tamento di fondo individuate dall’A ., l ’au­tonomia, la fronda, l ’allineamento (p. 131). Pur nella sua apparente indipendenza, que­sta stampa appartiene al « sistema » , e andrebbero sviluppati gli accenni fatti sulla presenza condizionante e determi­nante del gerarca Bottai, « l ’unico forse che sia rimasto costantemente vicino a questa gioventù studiosa » (p. 185 e cfr. a p. 204 e 212). Nel 1942 « il nume ispi­ratore cessò di essere il liberaleggiante Bottai, cui si sostituì il linguaggio del com battente» (p. 133), e questi giornali entrano nella terza e ultima delle tre suddette fasi della loro esistenza. E nep­pure bisognerebbe dimenticare chi era allora in cattedra in queste sedi univer­sitarie.I noti miti del regime sono il contenuto di gran lunga prevalente in questa carta stampata, e rappresentano il frutto più cospicuo delle strutture pedagogiche pri­ma ricordate. D i questi miti la Saba fa un’analisi organica e corretta, appoggiata ai fondamenti della letteratura democra­tica sull’argomento, e sottolinea puntual­mente ciò che essi deformano e mistifi­cano. Ricordiamo il mito della patria, quello della missione romana, quello dèlia guerra rivoluzionaria (di cui si coglie la

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connessione col decadentismo irrazionali­stico, con l ’attivismo irrazionalistico co­me ricerca d ’identità, p. 176), il mito del nuovo ordine, forse il più povero di con­tenuto critico, quello della razza, di scar­sissima risonanza. C ’è anche un catalogo degli slogans usati contro le nazioni ne­miche, ma qui la valutazione rischia di cadere in una sorta di giustificazionismo della storia inglese e francese. Questi miti sono strumenti di consenso e la loro riso­nanza è ampliata, nei giovani, dal senti­mento di emulazione verso la generazione anziana che avrebbe fatto e salvato l ’Ita­lia, e dal fideismo suggerito dal regime (p. 179) una delle componenti, si deve ricordare, della nota tecnica dell’« educa­zione alla morte ».Ma l ’analisi della Saba va al di là di questi ormai scontati argomenti, e ricerca i contenuti che i giovani, spontaneamente, hanno immesso in questi miti. Qui è l ’ori­ginalità del lavoro. Sono contenuti che possono essere latamente compresi col termine « rinnovamento ». Quando, per esempio, parlano di guerra rivoluzionaria, i giovani pensano che questa avrebbe an­che epurato e rigenerato il fascismo, e così sono sensibili al motivo del « dicianno­vesimo » (ma non si dimentichi che, nel 1942, il regime tentò la carta del ritorno alle origini squadristiche). Assume rilievo, in questa linea interpretativa, la presenza del mito dei « popoli giovani » (che va distinto da quello, più stereotipo, delle nazioni proletarie). Nota la Saba che di esso non vengono date giustificazioni in qualche modo razionali (p. 189), ma si può pensare che si tratti di una manife­stazione che precorre l ’odierna tendenza del vivere « alla maniera giovane » ; il mito fascista della giovinezza non si può disgiungere, in una prospettiva ampia, dalle esigenze naturistiche del mondo contemporaneo, del suo veloce sviluppo, a sua volta connesso alla dissoluzione di tradizionali strutture familiari e sociali e di un certo tipo di autorità (cfr. p. 107); a questo insieme di tendenze appartiene pure l ’aspirazione all’« autenticità » (si vedano le citazioni a p. 217 e 221). La « querelle » tra giovani e anziani è il mo­tivo che forse ricorre di più in questi

periodici, si potrebbe dire che ne è il rumore di fondo, e ad esso bisogna rifarsi per bene intendere l ’esigenza, frequente­mente espressa, di tornare al « fascismo rivoluzionario » . Giocava, contro i suoi stessi intenti, anche l ’attivismo mitizzato dalle camicie nere, ed il sia pur lento e difforme crescere del paese sollecitava a sua volta nuovi interessi, anche sul piano culturale, col conseguente recupero di tematiche liberali e socialistiche. In que­sti ritorni e in questi nuovi interessi, il discorso più ricco di contenuto è quello sul corporativismo, che ben si può dire caratteristico (p. 203). V i troviamo quella questione sociale che, domata ma non liquidata né risolta dal regime, esploderà dopo la sua dissoluzione. La Saba indica elementi interessanti di questo fondamen­tale aspetto della sensibilità politica ita­liana, come la polemica antiborghese e l ’attenzione ai problemi sociali. Sono fi­loni del cosiddetto « fascismo di sinistra » che arrivano in qualche caso sino alla repubblica di Salò (p. 120 e p. 248), ma in gran maggioranza all’antifascismo. Però, per completezza di discorso, non esclude­rei che talora la contestazione dei gerarchi trasformisti e stabilizzati non sia anche normale ricerca di spazio sociale per la nuova generazione (cfr. p. 184).La tesi della Saba è che « questi giovani fascisti tentarono, e spesso tentarono fino in fondo e tragicamente di fare del fasci­smo un’altra cosa » (p. 79). Ma allora sin dove si possono veramente considerare fascisti? È la difficoltà, del resto ammes­sa, del criterio generazionale come ango­latura per un giudizio storico; ma, fatta questa riserva, la tesi è proponibile. L ’ela­sticità dell’ideologia del regime favoriva, si nota, orientamenti diversi ed anche eterodossi rispetto alla linea politica del partito. Opportunamente si ricordano i riusciti inserimenti di attivisti comunisti in questo ambiente e clima (p. 81), e si sottolinea il ruolo di questi giornali nella circolazione di idee di dissidenti e opposi­tori (p. 91). Ciò giustifica sufficientemente anche la pretesa di cogliere, in queste fonti, un insieme di voci che va al di là dell’elenco dei redattori.L ’A. osserva pure che qui troviamo « il

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vecchio e il nuovo in una mescolanza ine­stricabile » (p. 109). C ’è una duplicità di atteggiamento nei migliori di questi gio­vani: o assoluto disimpegno di fronte alla problematica proposta dal regime, che vuol dire separazione di cultura e politica ed è, di fatto, prem essa di anti­fascismo (cfr. p . 145 e 212, dove è evidente l ’eco della logica crociana), o impegno per il ritorno all’autentico che riempie quella problematica « di un par­ticolare significato delle loro speranze » (p. 156). L a convivenza di realismo e de­cadentismo è forse la prova più evidente di questa duplicità di reazione. Però non è meno importante rilevare che di cose « vecchie » se ne possono rintracciare pa­recchie: nel foglio pisano par di cogliere un’eco della lezione stilistica, ma anche etica, della « V o c e » (p. 123). Più che spiegare, come l ’A ., tale commistione con le difficoltà d ’orientamento che incontra­vano questi giovani (è il noto argomento del confusionismo), va colto qui il rifles­so del mondo composito che li contiene, in particolare della continuità, specie nel­l ’ambiente accademico, della cultura pre­fascista entro il fascismo, sottolineata re­centemente da N . Bobbio. Ciò che conta storicamente è che in questo mondo com­posito i più avveduti cominciano a fare delle scelte.L a conclusione è che nessuno dei giornali esaminati può essere detto di fronda, dato che questa si mescola sempre col confor­mismo (p. 222), ma che essi rappresen­tano un tentativo « di costruire una realtà più consona agli id e a li» (p . 223), pre­messa al rigetto del fascismo. Si capisce meglio insomma la partenza per il « lun­go viaggio », reso popolare dal libro di Zangrandi e approfondito dall’ampia di­scussione che suscitò, momento ancora ingiustamente ignorato nella contempo­ranea storia italiana. Si colgono certe di­namiche del ventennio, destinate ad inse­rirsi in più costruttive forze storiche, che hanno iniziato a prendere coscienza di sé entro i miti fascisti. La Saba pare pro­pensa a collegare abbastanza strettamen­te la problematica dei giovani alla com­ponente anarco-sindacalista del regime (p. 23b), e sembra anche voler rivalutare

in qualche modo il fascismo di sinistra, legato alla diffusione dell’irrazionalismo in Europa (p. 237); ma direi che è azzar­dato parlare di « due fascismi » (p. 238). Avevano ragione Rosselli e Togliatti nel pensare che, nella nuova generazione, il fascismo nutriva una potenziale contrad­dizione che non doveva essere disattesa, ed ha avuto torto la vecchia generazione antifascista quando condannò in blocco tutta l ’Italia del ventennio, troppo incu­rante del dramma, non solo materiale, vissuto dalla giovane generazione durante la guerra fascista. Questo stacco fra due generazioni che non si erano conosciute e capite, rileva l ’A ., pesò sullTtalia del dopoguerra e fu causa di confusione (p. 253). Del pari giusto è l ’altro rilievo, fatto a questa seconda generazione, di non aver messo sufficientemente a frutto la propria esperienza nella ricostruzione del paese (p. 256); qui il discorso, che è ancora pedagogico e psicologico, potrebbe continuare sulla base di una più semplice constatazione: « Tutti coloro che hanno fatto lunghi viaggi, hanno fatto un viag­gio dalla rozzezza e dal conformismo alla consapevolezza di sé, alla chiarezza razio­nale » (N . Bobbio, in « I l Ponte » , n. 6, 1974, p. 660). Ciò che ha pesato e pesa è la decisione di quanti, nel 1945 o poco dopo, hanno interrotto questo viaggio fa­ticoso e costoso.Il libro è preceduto da una lunga prefa­zione di Ugoberto A lfassio Grim aldi, di fatto una testimonianza ripensata sul pro­blema della formazione dell’attuale classe dirigente. Anch’egli constata la forza di suggestione del fascismo negli anni 1935- 39, che allora operava come forza effet­tiva, valida e credibile, specie dove l ’anti­fascismo era pressoché sconosciuto. « Uno dei fenomeni meno compresi del mondo contemporaneo è la coesistenza, nei paesi a regime totalitario », della « vita civile che va avanti, accanto alla zona buia delle coscienze conculcate [ . . .] . Oggi raramente si riflette all’immensa capacità di assor­bimento che i regimi totalitari posseg­gono » (p. 12 e 33). È un invito a vedere in profondità il problema del consenso che va collegato, direi, a quei meccanismi so­ciali e a quelle strutture culturali che dis-

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sociano il pubblico e il privato. Anche la dislocazione di certe forze politiche che ha favorito questa capacità di assorbimen­to è denunciata senza equivoci da A lfassio Grim aldi: una nuova generazione di cat­tolici abituati ad obbedire, il venir meno della pregiudiziale etica verso il fascismo in tanti ambienti e persone. Lascia però perplessi l ’ inserimento, nell’ elenco di quanti ebbero allora atteggiamenti di sot­tomissione o di avvicinamento, del PC I con il noto appello ai « fratelli in camicia nera » (p. 17).Certo era difficile costruirsi una morale antifascista in questo ambiente caratteriz­zato dal trasformismo, che assai bene si intravede sotto l ’abbondante e divertente aneddotica che rende agili le pagine di Grimaldi. La spiegazione è più qui che non nella ricordata « convinzione di allora dell’avvenuto superamento del socialismo, del liberalismo, del prefascismo » , che al­tro non era che interpretazione superfi­ciale della momentanea affermazione del regime e della conseguente tranquillità che in certi ambienti si percepiva. G ri­maldi porta avanti il discorso sino a toc­care l ’angosciante quesito della possibile radice comune di due culture, la fascista e l ’antifascista (p. 41). M a non altret­tanta attenzione pone alla più valida ipo­tesi che nega l ’esistenza di una cultura fascista. Il problema dell’autocritica degli ex-gufini è soprattutto qui.

Elio Apih

Renata Allio, L ’organizzazione interna­zionale del lavoro e il sindacalismo fa­scista, Bologna, I l Mulino, 1973, pp. 149, lire 2.000.

Pubblicato in una collana di saggi il volumetto è in realtà null’altro che una raccolta di documenti intorno ad un episodio del quale fu protagonista e og­getto il sindacalismo fascista in sede di Bureau International du Travail. Si tratta, come è risaputo, della contestazione tan­to sistematica quanto peraltro vana che nei confronti della rappresentanza dei sin­dacati fascisti fu mossa dapprima, fin quando ne ebbe la possibilità legale, dalla

Confederazione generale del lavoro e in anni successivi, sin quando il governo italiano decise di sottrarsi a questa ricor­rente contestazione, da altri esponenti del sindacalismo socialdemocratico e cri­stiano a livello internazionale. Il volu­metto ha il merito di ricostruire la se­quenza di queste contestazioni lungo tut­to l ’arco cronologico dal 1923 al 1936, presentandone i documenti essenziali: da una parte le argomentazioni contro la rappresentatività dei sindacati fascisti, dall’altra le repliche di questi ultimi. Il tono della polemica appare per la verità piuttosto smorzato; la denuncia più vi­brata rimane il primo rapporto della C G L del 1923 sulle violenze fasciste contro i lavoratori e la libertà sindacale (ma que­sto è anche l ’unico rapporto del quale è riprodotto il testo integrale). Quasi di sfuggita TA. riferisce le critiche cui fu fatto segno il direttore del B IT Albert Thomas per il suo benevolo atteggiamento nei confronti del sindacalismo fascista in occasione della visita che egli effettuò in Italia nel maggio del 1928 (cfr. p. 80). In realtà, fu questo un episodio, che ebbe larga risonanza nel movimento antifa­scista in quanto con la sua autorità di direttore del B IT e di socialista fran­cese Thomas, con la sua stessa presenza a Roma, sembrava avallare la soppres­sione della libertà sindacale in Italia. Ma dell’asprezza e del significato di questa polemica nessuna traccia si trova nel vo­lum etto; ciò deriva probabilmente dal fatto che esso si limita a utilizzare il ma­teriale pubblicato in una fonte ufficiale del B IT , il periodico « Informazioni sociali ». Ma deriva probabilmente anche dalla volontà di non sbilanciarsi sul ter­reno politico, laddove tutta la vicenda è significativa della moderazione anche ec­cessiva che settori qualificati dell’opinio­ne pubblica e dell’organizzazione interna­zionale osservarono nei confronti del fa­scismo italiano. Ma forse ci sbagliamo imputando al libro un eccessivo distacco politico: esso infatti si chiude con un significativo capitoletto nel quale si narra come nel 1937 l ’assemblea dell’IL O re­spinse anche la contestazione sollevata ora nei confronti del mandato del delegato

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operaio russo. Con ciò si dimostra, se­condo l ’A ., che « quando i regimi autori­tari si presentarono all’assemblea di G ine­vra, le carenze strutturali dell’Ente appar­vero in piena luce » (p. 107). In fatti « i delegati operai si opposero unanimi ma trovarono quasi sempre contro di sé i voti dei rappresentanti governativi e pa­dronali che, per complesse ragioni poli­tiche e di interesse, sostennero le loro tendenze. Jouhaux non si illuse di riu­scire a cacciare i fascisti dall’IL O , come non si illusero i sindacati cristiani che si opposero ai bolscevichi. L ’impotenza del­l ’Ente era manifesta ». A parte il fatto che le cause dell’impotenza di questo e di tanti altri organismi internazionali fu ­rono e sono più complesse, il capitoletto conclusivo ci suggerisce l ’ipotesi, forse non del tutto arbitraria, che il volumetto voglia essere un esempio di trasposizione sul piano storiografico della teoria degli opposti estremismi, che è certo un punto d ’approdo non imprevedibile per quanti credono di potere affrontare asetticamente la storia del fascismo.

Enzo Collotti

Movimento operaio

Franco De Felice, Fascism o democrazia fronte popolare. Il movimento comunista internazionale alla svolta del V II Con­gresso dell’Internazionale, Bari, De D o­nato, 1973, pp. 569, lire 4.500.

Problemi di storia dell’Internazionale co­munista (1919-1939). Relazioni tenute al Seminario di studi organizzato dalla Fon­dazione Luigi Einaudi (Torino, aprile 1972), a cura di A ldo Agosti, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1974, pp. 246, lire 3.800.Congresso di transizione: questa la defi­nizione centrale che nell’introduzione alla prima parte del volume Franco D e Felice dà del settimo congresso e che offre ra­gione della « doppia faccia » del rapporto di Dimitrov. « Operare un cambiamento profondo negli orientamenti politici del-

1TC, circoscrivendolo però nell’ambito di una proposta tattica: è qui forse l ’aporia fondamentale, anche se estremamente fe­conda, del Rapporto D im itrov» (p. 21). Far uscire l ’Internazionale, cioè, dall’im­passe in cui lo schematismo della « tattica di classe contro classe » l ’aveva cacciata (con le tragiche sconfitte tedesca e austria­ca) per recuperare dell’insegnamento leni­niano non tanto, semplicisticamente, un ’al­tra formula (anche se così venne in realtà recepito), quella di « fronte unico » , quan­to il primato della politica, del soggettivo organizzarsi e operare del partito operaio nella complessità e particolarità delle sin­gole situazioni nazionali e in un contesto internazionale sempre più minaccioso. E far ciò senza rinnegare il passato ma ri­vendicando una continuità strategica che invece, in realtà, si stava, e proficuamente, spezzando. Ecco la caratteristica del rap­porto e a maggior ragione del piatto di­battito che ne seguì, l ’uno e l ’altro inca­paci di per sé di uscire dallo schematismo passato ma tali, soprattutto il primo, di aprire strade realmente nuove alla lotta non solo antifascista, ma per il socialismo e all’organizzazione politica di parte ope­raia che non si esaurivano — per chi vo­lesse ben vedere — nella formula del « fronte popolare ».Viene spontaneo dir di più: mentre rim­pianto del rapporto e del dibattito si muove — per affermare, più o meno con­sapevolmente, il nuovo — sul tradizionale schema di distinzione fra tattica e strate­gia, pedissequamente mutuato dalla ter­minologia militare leniniana, di Lenin veniva di fatto recuperato quel rovescia­mento della strategia nella tattica che era stato il suo insegnamento più vivo, quello che ancor più che dagli scritti più celebri emana dalla sua prassi politica, dalla ba- beliana « misteriosa curva della retta di L e n in » : è la tattica che detta la strate­gia e non viceversa. E tuttavia ciò non mutava nell’immediato né la realtà del- 1TC né quella delle sezioni nazionali né la tradizione radicata e aggravata dallo stalinismo. Ecco perché Congresso di tran­sizione. Non si risolvevano compiutamen­te, ma si ponevano all’ordine del giorno problemi gravi e di lungo periodo: non

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solo l ’insufficiente analisi del fascismo, la settaria definizione del « socialfascismo » e i rapporti con la socialdemocrazia, ma anche l ’atteggiamento nei confronti della democrazia « borghese » , della nuova na­tura « di massa » dello stato, e quindi del rapporto fra classe e « popolo » e quindi del ruolo e della natura nuovi del partito. Su questi temi, solo quelli che tra i partiti nazionali avrebbero avuto più fiato ed energie avrebbero in seguito compiuto sostanziali passi avanti (quelli che forse venivano più « da lontano »), pur non liberandosi che a fatica da quella « doppiezza nella pratica comunista » che sarebbe scaturita dal disorientamento pro­vocato dal Rapporto Dim itrov che di per sé « non permetteva di superare realmente un rapporto strumentale con gli stessi obiettivi proposti » (p. 23).Del form arsi e concretizzarsi di questa aporia e degli elementi di proiezione po­sitiva racchiusi nel suo rigido schema di origine, il libro di De Felice offre per la prima volta riuniti insieme un buon nu­mero di documenti, in buona parte editi per la prima volta in italiano e per il re­sto rimasti finora sparsi in pubblicazioni diverse, alcune delle quali ormai introva­bili. Non si tratta probabilmente di una documentazione esauriente, e non solo perché gli archivi dell’IC continuano a restare ostinatamente chiusi, ma anche perché uno spoglio sistematico delle pub­blicazioni del movimento operaio negli anni tra le due guerre potrebbe probabil­mente riservare più di una sorpresa. Tut­tavia si tratta di un materiale compatto che già da solo apre parecchie prospettive di ricerca. Nella prima parte del volume De Felice ha riunito, oltre al Rapporto Dimitrov, i principali documenti sul pas­saggio dal V I al V II Congresso (tra i quali fa spicco il dibattito alla Commis­sione italiana del X plenum, già pubbli­cato da Ragionieri su Studi storici 1971 n. 1); nella seconda i principali inter­venti al dibattito sul Rapporto Dimitrov, ai quali egli ha significativamente aggiunto in appendice, ad esempio della grande articolazione del « fare politica » che si sarebbe poi presentata ai maggiori diri­genti comunisti in situazioni diversissime,

uno scritto di Togliatti del 1936 e uno di Mao Tse-tung del 1938.Ma oltre a quelli suaccennati come temi centrali delle riflessioni di De Felice (che si presentano peraltro con una grande problematicità e ricchezza di suggerimenti, di cui è praticamente impossibile dar con­to in questa sede), altri sembrano tutta­via restare ancora un po ’ troppo sullo sfondo dello studio critico del V II Con­gresso. In particolare mi sembra che non solo a inveterato vizio « eurocentrico » (la cui espressione più grave era la sotto­valutazione della « questione coloniale ») sia da imputare la perifericità, nel dibat­tito come nel rapporto, della « questione americana », sia per quanto riguarda una analisi più accurata della grande crisi mon­diale (ed è questo un tema su cui pesano più ancora che su altri gli schematismi dottrinari) sia soprattutto di ciò che in seguito alla crisi si stava muovendo nel capitale, come iniziativa politica comples­siva non solo in certi punti drammatici, col fascismo, ma nel suo punto più alto e di più lungo respiro, il New Deal roo- seveltiano. Giocava in questo campo una sicumera dottrinaria a cui sfugge il signi­ficato storico complessivo della risposta che a quasi vent’anni di distanza il capi­talismo veniva differenziando internazio­nalmente alla sfida dell’Ottobre e alla utilizzazione rivoluzionaria delle crisi, of­frendo anche e soprattutto un’immagine profondamente nuova del meccanismo sta­tale borghese. M a giocava anche quella che appare un’assoluta ignoranza dei mo­vimenti di classe reali, di come dentro la classe operaia l ’iniziativa e la lotta venis­sero adeguandosi a questa risposta capi­talistica per rovesciarla in nuova iniziativa politica operaia. Ciò che stava avvenendo dentro il capitale e dentro la classe ope­raia nel punto più alto del loro sviluppo restava completamente estraneo alla « tran­sizione » che il movimento comunista in­ternazionale intraprendeva, e su ciò esso avrebbe marcato un ritardo teorico e organizzativo di decenni.Da questo punto di vista desta sorpresa l ’irrigidimento di studiosi che a ragione vorrebbero misurare — più di quanto sia­no tradizionalmente abituati a fare gli

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storici comunisti — le questioni di storia del movimento operaio con i meccanismi strutturali dello sviluppo e con i movi­menti di classe invece che con il loro svol­gersi puramente interno, « endogeno ». Mi riferisco in particolare ai contributi, peraltro utili, di Robert Paris (sulla tatti­ca di « classe contro classe ») e di Fer­nando Claudìn (sulla politica di fronte popolare dell’IC ) al seminario torinese sui problemi di storia dell’Internazionale co­munista. La Presentazione di A ldo Agosti al volume, la quale è in sostanza una ric­ca, argomentata ed equilibrata recensione preventiva oltre che una sorta di biblio­grafia ragionata sugli argomenti, trova facilmente consenzienti nella netta critica ai giudizi non solo ferocemente antisovie­tici e antistalinisti dei due autori, ma anche essenzialmente riduttivi dell’espe­rienza dell’IC e del suo gruppo dirigente, identificati (non a caso in piena conso­nanza con la propaganda e la storiografia borghesi) soltanto come docili strumenti nelle mani di Stalin, addirittura (e qui essi cadono in contraddizione tra loro nel­le argomentazioni) con funzioni controri­voluzionarie. È chiaro che non si tratta di bendarsi gli occhi: tanto meglio, anzi, se una pluralità di studi possa dar conto sempre più in profondità delle tante ama­rissime verità che ancora si nascondono nella storia del movimento comunista e dell’Unione Sovietica. Ma perché non co­minciare neppure ad affrontare l ’altra fac­cia della medaglia: la subalternità com­plessiva del movimento operaio intem a­zionale, a partire forse almeno dal 1924, rispetto non solo alla curva dello sviluppo (dei cicli e delle crisi, sempre profetiz­zate e addirittura auspicate e mai real­mente affrontate con una politica di ma­novra perché non analizzate nelle loro componenti economiche e politiche), ma anche ad un delinearsi della ripresa di iniziativa capitalistica « democratica », ignorando i compiti nuovi che di fatto si presentavano dentro e fuori la fabbrica alla classe operaia?Il volume della Fondazione Einaudi è completato dai contributi, diversi per ispi­razione e valore, di Annie Kriegel (La

crisi rivoluzionaria 1919-1920: ipotesi per la costruzione di un m odello), Massimo L. Salvadori (Rivoluzione e conservazione nella crisi del 1919-1920), Paolo Spriano (La tattica del fronte unico, 1921-1925, rimasto volutamente nella forma discor­siva della relazione seminariale), Ernesto Ragionieri (I l programma dell’Internazio­nale Comunista, già pubblicato su Studi storici, 1972, n. 4 e 1973, n. 1) e Leo Valiani (Fronti popolari e politica sovie­tica, anch’esso nella forma originale della conversazione). Tra tutte mi sembrano aver maggior spicco le trattazioni di Sal­vadori e Ragionieri.

Gianfranco Petrillo

« L ’A vanti! » quotidiano socialista. E d i­zione clandestina. Roma, Firenze, Bologna, Torino, Milano, Venezia, Repubblica del- l'O ssola, a cura di G . Polotti, s. 1., Amici dell’« Avanti! » , s. d. (m a 1974), s. p.

L a ricerca sui vari aspetti della linea po­litica del Partito socialista alla luce dei problemi connessi con la partecipazione del partito stesso alla Resistenza trova nella raccolta dei « reprint » dell’« Avan­ti! » clandestino, curata da Giulio Polotti ed edita dall’ Associazione Amici del- l ’« Avanti! » , una fonte insostituibile. Attraverso la riproduzione fotostatica di 127 esemplari, 17 dei quali stampati a Roma, 21 a Bologna, 12 a Firenze, 17 a Torino, 57 a M ilano, 1 a Venezia, 1 nella Repubblica partigiana dell’O ssola ed 1 a Parigi, siamo così edotti delle convergen­ze come anche delle divergenze tra le varie Federazioni, collegate sia le une che le altre con le differenti situazioni politico- economico-sociali nelle quali il Partito socialista si trovò ad operare in quell’in- fuocato periodo storico.Il Partito socialista di unità proletaria (P SIU P ) si costituì, come è noto, nelle giornate del 23, 24 e 25 agosto 1943, nel corso di una riunione svoltasi a casa di Oreste Lizzadri, attraverso la fusione del Partito socialista italiano (P SI) col Movi­mento di unità proletaria (M UP). A que­sta rinascita contribuirono uomini prove­

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nienti dalle più diverse esperienze, ma spinti tutti dalla convinzione che il socia­lismo fosse in grado di dare un valido apporto alla ricostruzione dell’Italia ed al risanamento delle profonde ferite che il fascismo e la guerra avevano inferto al paese. Nello stesso tempo si intendeva dare vita ad un partito nuovo che, pur collegandosi idealmente al programma di Genova del 1892, tendesse ad una nuova « unità proletaria » , attraverso il supera­mento della scissione del 1921. « II P SI — diceva il manifesto programmatico a questo proposito — non si riorganizza con una preconcetta ostilità verso altri partiti proletari, e segnatamente verso il Partito comunista italiano con il quale ha una fondamentale comunità di dottrina e di fine. Consapevole della forza irresistibile che la classe lavoratrice trarrà dalla sua unione, il P SI intende realizzare la fusio­ne dei socialisti e dei comunisti in un unico partito, sulla base di una chiara coscienza delle finalità rivoluzionarie del movimento proletario. Per avviare l ’unità verso la sua realizzazione e per coordinare le direttive nel campo politico ed in quello sindacale, il Partito socialista italiano ha concluso col Partito comunista italiano un patto di unità d ’azione ». Tale istanza uni­taria si proiettava anche in campo interna­zionale. « La carenza della Internazionale Operaia Socialista e lo scioglimento della Terza Internazionale — proseguiva più avanti il manifesto — pongono il proble­ma della ricostituzione del movimento operaio internazionale. La nuova Interna­zionale dovrà realizzare sul piano della dottrina e dell’azione la sintesi delle espe­rienze mondiali dei socialisti e dei comu­nisti e unire i proletari d ’Europa e del mondo nella lotta finale per il sociali­smo ».Il documento programmatico, al quale abbiamo accennato, fu pubblicato su un numero straordinario dell’« Avanti! » ro­mano che non è però il primo della serie. E sso è preceduto da un foglietto senza data (che però sappiamo essere stato pub­blicato il 26 luglio 1943, all’indomani del colpo di stato monarchico), col sottotitolo « Organo ufficiale dei lavoratori italiani ».

Questo numero, contenente un appello nel quale si richiedeva: la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà di riunione e la liberazione immediata dei detenuti politici, fu preparato da Oreste Lizzadri del Partito socialista italiano e da Achille Corona e Tullio Vecchietti del Movimento di unità proletaria nella tipografia Morara di via Ulpiano con una tiratura di 5.000 copie che in pochi momenti andarono a ruba nelle vie del centro di Roma. N el­l ’appello era dato per scontato il nuovo nome del partito che veniva chiamato, con una piccola variazione rispetto a quel­la finale, Partito socialista per l ’unità pro­letaria.Nei numeri dell’edizione romana, nei quali la presenza di Nenni alla direzione ha un carattere determinante, prevale la pole­mica politica contro la monarchia e le forze parassitarle che ad essa si appoggia­vano. « Chi consegnò l ’Italia al fascismo nell’ottobre del ’22? — leggiamo sul nu­mero del 26 settembre 1943 — . I l re. I l re come capo naturale di tutte le classi reazionarie italiane, che sentivano minac­ciati i loro privilegi politici ed economici dalla precisa volontà del popolo italiano, deciso a rivendicare i suoi interessi pro­letari contro tutte le vecchie caste parassi­tane. Monarchia e plutocrazia, il re e i grossi industriali, i grandi latifondisti, i ricchi banchieri, videro nel fascismo il loro naturale alleato, il regime che meglio di ogni altro garantiva la conservazione del trono e la tutela di tutti gli interessi capitalistici che ad esso fanno capo ». « A coloro che smarriti ci chiedono una meta, una parola d ’ordine, una direttiva, — era scritto in un altro articolo comparso sullo stesso numero — rispondiamo: combat­tere. L ’iniziativa della lotta politica è pas­sata, oramai, nel sentimento di tutti, alle classi lavoratrici... I l popolo italiano entra da oggi in questa vasta comunità di gente oppressa. Sappia la gloriosa responsabilità che ciò comporta. Sappia rendersi degno di militare a fianco delle forze popolari jugoslave e francesi, dei partigiani russi e polacchi, albanesi e greci, belgi ed olan­desi, danesi e norvegesi. Sappia, insieme con essi, contribuire coi fatti e col sangue

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alla formazione di quella più vasta co­scienza europea che affratellerà i popoli, alla fine di questa guerra, nel ricordo e nella tradizione di una lotta spontanea­mente sostenuta, al di là di ogni inqua­dramento governativo e m ilitarista, per la difesa della propria libertà ».Un articolo del numero del 20 novembre 1943 sottoponeva ad una serrata critica sia il riformismo che il massimalismo del vecchio Partito socialista. « Il riformismo è degenerato in opportunismo quando — a partire dal 1900 — ha sacrificato l ’oppo­sizione allo Stato monarchico e borghese al conseguimento di riforme sociali ed economiche in sé molto importanti, ma che, conseguite a prezzo di un compro­messo con lo Stato, indeboliscono la co­scienza rivoluzionaria del proletariato e tendono a creare una form a di assurda mezzadria del potere nella quale doveva inevitabilmente avere la peggio... A sua volta il massimalismo è degenerato in set­tarismo, confondendo rivoluzionarismo ed intransigenza che sono due cose profon­damente diverse. La prova della sua im­maturità politica il massimalismo l ’ha data nel 1920 con l ’occupazione delle fabbri­che, che in sé era una grande esperienza rivoluzionaria, a condizione però che il proletariato occupasse la fabbrica delle fabbriche, cioè il potere. L a conquista del­lo Stato: questo è il punto di mora dei socialisti i quali non separano la lotta politica da quella economica ».

Il numero del 6 maggio, a sua volta, pren­dendo in esame la formazione a Salerno di un governo di unità nazionale, presie­duto dal maresciallo Badoglio, al quale partecipavano anche i socialisti, pubbli­cava una deliberazione della direzione del partito che, dopo avere constatato come il nuovo governo, « per la sua presidenza e la forma monarchica della sua investi­tura », non realizzasse « una situazione corrispondente alla volontà espressa dal popolo dell’Italia occupata durante otto mesi di ininterrotta lotta per la libera­zione e adeguata alle esigenze della demo­cratizzazione del paese » , dichiarava di mantenere nei confronti dello stesso « una posizione di autonomia » implicante tutta­

via « una totale adesione alle misure che [esso avrebbe preso] per intensificare la guerra contro il nazi-fascismo ». I l comu­nicato della direzione era seguito da una lunga nota di commento nella quale era detto, tra l ’altro: « Sui motivi che hanno indotto i partiti antifascisti del Mezzogior­no, e gli stessi socialisti, ad accettare al governo la direzione delle forze monarchi- che-badogliane, l ’Esecutivo non possiede che elementi frammentari di informazio­ne, sufficienti in ogni caso per stabilire che essi non hanno potuto sottrarsi a pressioni di ordine internazionale che rendevano indilazionabile la soluzione della crisi go­vernativa aperta dall’8 settembre. Come si sia, la questione del potere rimane aperta, ed il Partito socialista rivendica il diritto del popolo di risolverla, al di fuori di ogni tutela, conformemente alle sue aspi­razioni ed alle finalità democratiche della guerra e della lotta nelle quali è impe­gnato ». La stessa nota così affrontava il problema della posizione dei socialisti nei confronti dell’U RSS, ritenuta ispiratrice, attraverso l ’azione politica di Togliatti, della svolta di Salerno: « I socialisti asso­ciano alla coscienza di ciò che rappresenta l ’Unione Sovietica in Europa e nel mondo, la coscienza della necessaria autonomia del movimento operaio. L ’unità d ’azione alla quale essi rimangono indefettibilmen­te fedeli non avrebbe senso se non fosse la traduzione in termini politici comuni delle esperienze e delle aspirazioni della classe lavoratrice italiana. La ginnastica delle svolte non conviene all’igiene del­l ’unità d ’azione ed i socialisti non posso­no accettare il metodo che consiste nel sostituire gli ordini dall’alto alle espe­rienze dal basso ».L ’edizione milanese, come abbiamo visto, è quella di periodicità più regolare (circa un numero ogni quindici giorni). Essa è caratterizzata da un’ancora maggiore in­transigenza politica, dovuta principalmen­te a due fattori: il vedere essa la luce in una regione nella quale il proletariato industriale costituiva la base principale del partito ed il suo carattere di organo di fatto della Resistenza armata socialista. I l giornale uscì la prima volta il 1° agosto

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1943 quale organo del Movimento di unità proletaria, per assumere poi col suc­cessivo numero del 22 agosto 1943 il sot­totitolo di « Giornale del Partito sociali­sta di unità proletaria ».Il numero del 3 settembre 1943, uscito ancora in periodo badogliano, agitava la parola d ’ ordine della pace immediata. « Due sole ragioni — vi si legge — pos­sono spiegare il prolungamento della guer­ra: la complicità con H itler e la paura di Hitler. Se fosse complice di Hitler, Badoglio sarebbe più spregevole dello stesso Mussolini. Se ha paura di H itler -—• nel che è forse la spiegazione dei suoi errori — allora vuol dire che egli non ha fiducia nel popolo. Ora non si può governare se si ha paura del popolo e se si subordina la politica del paese ai vili calcoli di un vile disfattism o ».Il 27 settembre 1943 venivano affrontate le conseguenze dell’armistizio, della fuga di Pescara e del quasi totale sfaldamento dell’esercito. « Non è una politica che fallisce e una classe dirigente che scom­pare. È tutto l ’ordinamento capitalistico, con le sue contraddizioni economicamente dispendiose e moralmente assurde, che cade per non più risollevarsi, e dalle fiam­me e dai rottami viene a noi un incita­mento nel quale si sommano i pensieri e le opere che illustrano la nostra storia in quanto ebbe ed ha di più umano ».« Prima nel rischio e nel sacrificio, — rin­calzava il numero del 3 gennaio 1944 — la classe proletaria vuole essere, sarà prima nell’ordinamento politico che scaturirà dal processo rivoluzionario ora in atto [ .. .] . Il giorno della liberazione di ogni servitù è vicina. V iva, viva la Repubblica Socia­lista ». Istanza quest’ultima apertamente contrastante con quella della costituzione di una repubblica democratica portata avanti dai comunisti, nella convinzione che la situazione internazionale avrebbe condizionato, per parecchi anni, l ’evolu­zione politica dell’Italia, posta nella sfera di influenza anglo-americana.Ancora più chiaramente si esprime il nu­mero del 10 gennaio 1944 in un articolo intitolato appunto « Che cosa vuole il P SI ». « Lo stato borghese deve essere

distrutto e con lo stato borghese devono scomparire le oligarchie finanziarie di cui esso è lo strumento di dominazione poli­tica. Il nuovo assetto della società deve essere imperniato sulla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio ».Il 28 giugno 1944, così veniva commen­tata la costituzione del primo ministero Bonomi che aveva visto, per la prima volta, una diminuzione delle prerogative regie per il fatto che, nella form ula di giuramento, alla clausola « fedeltà alla Corona » era stata sostituita quella del­l ’impegno « a non commettere nessun atto che [p otesse], in alcuna maniera, pregiudicare la soluzione del problema costituzionale prima della convocazione dell’Assemblea Costituente » : « La repub­blica che scaturirà dalla rivoluzione italia­na ora ai suoi primi sviluppi, ha da essere socialista, sarà sicuramente socialista. Sarà la repubblica dei lavoratori, la repubblica che avocherà a sé la proprietà dei mezzi di produzione e di scambio così impe­dendo lo sfruttamento dell’uomo sull’uo­mo e l ’interesse di ciascuno conciliandolo con quello di tutti ».

Nel numero del 13 gennaio 1945, attra­verso un parallelo tra il veto inglese all’in­gresso nel governo del conte Sforza e la repressione della quale erano bersaglio le forze partigiane delI’E L A S in Grecia, si rilevava come « gli stessi reazionari che [avevano] giocato e perduto sulla carta nazista [pretendessero] di giocare ancora sulla carta inglese ». L o stesso numero pubblicava un appello del Partito socia­lista al paese, appello che, dopo avere sot­tolineato la netta opposizione del partito stesso contro il secondo ministero Bonomi, così proseguiva: « Questa crisi ha rilevato la gravità del pericolo reazionario e il Partito socialista, spostando il centro di gravità della sua azione dal governo nel Paese, invita i lavoratori a raccogliere la grave lezione implicita in questo episodio della lotta per la conquista della demo­crazia ».

Il numero del 10 marzo 1945, riferendosi ai tentativi di salvataggio « in extremis » dei nazifascisti, pubblicava il seguente co­municato: « Risulta che fascisti ed appar­

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tenenti a forze armate della pseudo-repub­blica, sentendo approssimarsi l ’ora della resa dei conti, tentano di salvarsi facendo proposte di compromessi a rappresentanti di partiti antifascisti. Sappiano i compa­gni che i nazisti ed i fascisti debbono es­sere considerati non solo dei nostri avver­sari politici, ma anche dei nostri nemici, contro cui bisogna oggi più che mai essere inesorabili ».L ’edizione milanese dell’« Avanti! » è ca­ratterizzata da una ricchissima quantità di trafiletti e di notizie relative agli episodi connessi con l ’occupazione fascista e con la Resistenza patriottica. Compaiono an­che, sia pure saltuariamente, alcune rubri­che quali: « Sassate » (che cessa però col numero del 22 maggio 1944), nella quale vengono attaccate satiricamente autorità repubblichine e singoli fascisti; « Crona­che in tuta » , contenente lettere di denun­cia di fatti e situazioni; « Appunti » , di carattere ideologico. Ampio spazio è de­dicato alla commemorazione dei martiri socialisti Giacomo M atteotti, Bruno Buoz- zi, Eugenio Colorni, M ario Greppi ed altri.

D i notevole importanza sono anche alcuni studi di carattere economico. Ricordiamo, tra gli altri, Socialismo e socializzazione comparso in cinque puntate sui numeri del 18 aprile, 6 maggio, 22 maggio, 10 giugno e 28 giugno che aveva il compito di controbattere la propaganda tambureg­giante che, appunto su questo tema, le autorità di Salò mettevano in atto. Analoga può essere considerata l ’im posta­zione dell’edizione torinese (che esce per la prima volta il 1° settembre 1943), con un’accentuazione della trattazione dei pro­blemi concernenti il mondo del lavoro. Nel numero del marzo 1944 troviamo un’ampia cronaca sullo svolgimento dello sciopero (scoppiato, come è noto, in tutta l ’Italia settentrionale nei primi giorni di quel mese) a Torino e nelle località limi­trofe.Segnaliamo, tra tutti, gli articoli: Sinda­cati fascisti e unità sindacale apparso il 7 agosto 1944 che, prendendo spunto da un comunicato del locale sindacato fasci­sta dei lavoratori dell’industria nel quale

veniva demagogicamente adoperata la di­zione « interessi del proletariato » , rile­vava come gli organizzati fossero sempre stati considerati dai sindacalisti fascisti come « degli immaturi o interdetti » ; So­cialisti e comunisti pubblicato in un nu­mero senza data, ma probabilmente ap­parso nel settembre 1944, nel quale ve­niva espresso compiacimento per la deci­sione presa a Roma della costituzione di una giunta permanente social-comunista « dopo 23 anni da quella deprecabile scis­sione che a Livorno diede il viatico trion­fale al fascismo e dischiuse la via al mar­tirologio socialista e proletario italiano, alle rovine di tutte le nostre istituzioni politiche, sindacali, cooperative e mutua­listiche ».

Anche l ’« Avanti! » torinese contiene una rubrica polemico-satirica dal titolo « Colpi di spillo ».

Sull’edizione bolognese, un particolare ri­lievo viene dato ai problemi del proleta­riato contadino e della gestione coopera­tivistica dell’agricoltura. D i grande impor­tanza è l ’articolo I socialisti e il Governo, pubblicato in data 1° maggio 1944, che, divergendo dalla presa di posizione della direzione di Roma e di alcune federazioni, commentava positivamente la costituzione del governo di unità nazionale di Salerno: « La posta che la proposta Togliatti ha messo in gioco — si legge — è troppo grande perché un partito qualsiasi possa trascurarne l ’importanza. Riguarda la sal­vezza e l ’esistenza della Nazione. E noi socialisti siamo parte di essa se pure in tutta la nostra esistenza abbiamo raccolto, vivendovi e lottando, soltanto sofferenze e miserie. M a d ’essa noi ci sentiamo parte integrante e fattiva tra queU’immensa maggioranza costituita dalla classe prole­taria sulla quale vengono a riversarsi tutte le conseguenze delle disgrazie incombenti sulla Nazione ».

Questo atteggiamento di avvicinamento alle posizioni comuniste era confermato, il 31 maggio 1944, in un articolo dedicato alle epurazioni staliniane: « Ci sia consen­tito di meravigliarci — viene affermato polemicamente — per il fatto che anche qualcuno di noi accenna al “ Terrore R os­

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so ” come ad una vaga nota infamante del­la nostra Rivoluzione [ . . .] . Nessuno può pensare che il terrore sia un metodo di governo normale. E sso è soltanto un me­todo di governo transitorio corrispondente ad uno stato di profonda crisi dell’organi­smo sociale. Somiglia a quelle cure eroi­che che, raramente, i grandi medici si permettono in casi clinici eccezionali [ ....] Di fronte al pericolo esterno che è sommo merito degli attuali Capi dell’U RSS di aver previsto e misurato quando altri lo sottovalutava o, magari, lo attizzava ed alimentava, non restava alternativa: od ottenere una disciplina ferrea all’interno o perire. Essi hanno prescelto la disciplina ferrea. Fu una fortuna per noi; per loro fu un atto di saggezza; per i nostri avver­sari una manifestazione di orribile ferocia e di animo selvaggio. Ne consegue che chi parla, in quest’ultimo senso, di terrore rosso, si pone, volontariamente o no, dal punto di vista dei nostri avversari ».

Pochi elementi nuovi ci portano i 12 nu­meri dell’edizione fiorentina (gli ultimi due dei quali usciti nei giorni della batta­glia per la liberazione della città segnano11 passaggio dalla fase clandestina a quella legale), il numero dell’edizione veneziana e quello dell’O ssola (che però reca alcu­ne notizie sulla ricostituzione del partito a Domodossola durante la breve esistenza della Repubblica partigiana dell’O ssola). Un grande valore storico ha l ’esemplare del primo numero stampato a Parigi il12 dicembre 1926, dopo lo scioglimento in Italia del partito in seguito alle leggi eccezionali del mese precedente. In esso veniva data notizia della costituzione, nella capitale francese, della nuova dire­zione avvenuta per delega dei compagni italiani e della nomina di Ugo Coccia a segretario provvisorio.

Nel risvolto della cartella contenente l ’in­tera collezione sono riprodotti i nomi dei numerosi socialisti che, durante il periodo clandestino, pagarono con la vita la loro attività di redattori, collaboratori e dif­fusori dell’« Avanti! ». L ’intera raccolta è preceduta da uno scritto autografo di Pietro Nenni diretto ai promotori della pubblicazione nel quale viene espresso il

compiacimento per il fatto che la raccolta attesti « la presenza socialista nella lotta » e documenti « la posizione ideale politica d ’azione » nella quale i socialisti si sono trovati « nella fase decisiva della L ibe­razione ».

Franco Pedone

Giuseppe Gaddi, Ogni giorno, tutti i giorni, M ilano, Vangelista, 1974, pp. 197, lire 2.800.

Nella stessa collana in cui sono apparse le sanguigne memorie di Amerigo Cioc­chiatti contenute nel « Cammina frut » appare ora, in forma rapida e persin quasi scheletrica un’autobiografia di G iu­seppe G addi, militante comunista trie­stino che, appena conquistato alla Fede­razione giovanile comunista italiana da Giordano Pratolongo, si ritrovò immedia­tamente perseguitato e ospite di varie car­ceri e costretto all’espatrio per poter esplicare la sua attività di funzionario rivoluzionario.

Non sono memorie pacifiche o amorfe; al contrario rispecchiano in modo chiarissi­mo la personalità di G addi che proba­bilmente nella sua vita non ha mai ac­cettato una decisione senza trovarvi il mo­tivo di una polemica, di un giudizio tagliente. Anche qui motivi di polemica aggressiva se ne trovano ad ogni pagina. Se la parte che riguarda la milizia anti­fascista, il periodo della lotta clandestina, la vita del carcere o del confino, non si discosta molto dalla serie delle altre bio­grafie, dei contributi che dal 50° del P C I ad oggi hanno arricchito la storiografia, la parte che riguarda il momento della guerra di liberazione e l ’inizio di una nuova fase della vita politica accentua la carica polemica e spesso, pur trattandosi di memorie quindi di un contributo sog­gettivo, l ’individualità del giudizio rischia la sovrapposizione con la realtà.

La lunga attività di G addi negli organi­smi internazionali prima e dopo la guerra ci permette di approdare a conoscenze finora abbastanza lim itate sulla vita in­terna degli organi dirigenti del partito,

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su un tipo di rapporti con l ’Internazio­nale, temi però più accennati che svilup­pati, anche se in tal modo, ad esempio, egli ha l ’occasione di rivalutare l ’operato di Grieco in quanto direttore de « l ’Uni­tà ». L ’autore di queste memorie non sot­tace i suoi « incidenti » col Partito comu­nista fino alla sospensione per un anno, ma attribuisce questa e altre decisioni al­la sua reiterata abitudine di « criticare ». Ecco dove sarebbe stato necessario appro­fondire tutto il discorso sui rapporti fra militanti all’interno del partito per gli anni in cui nell’Unione Sovietica si ac­centuano sempre più le persecuzioni il­legali.

Si diceva della carica polemica delle me­morie che si accentua con il dopoguerra e gli anni della costruzione del « partito nuovo ». Gaddi passa attraverso una serie di incarichi, da segretario di federazione a segretario della Federazione internazio­nale della Resistenza, tale è oggi, a Vien­na. Ma ogni volta che parla di questi spostamenti egli trova motivo di espri­mere critiche per i metodi adottati e qui, senza entrare nel merito dei singoli argo­menti addotti, ci sembra che il difetto delle memorie si accentui proprio nel senso indicato prima di una troppo pe­sante sovrapposizione personale alle que­stioni. Così come non può essere affron­tato in termini memorialistici, e polemici, puramente e semplicemente, il problema ben più ampio, complesso, ramificato del ricambio delle generazioni alla direzione del partito a tutti i livell i ,

Elementi negativi quindi, questi aspetti del libro? Non si può dire, tuttavia sono temi che a parer nostro vanno affrontati in maniera meno soggettiva e sotto un diverso profilo. Accentuata polemica, for­se un sottofondo provocatorio in senso positivo, elementi di meditazione e di ri- pensamento, questo piuttosto il carattere generale del libro. Pallido inizio di discus­sione su temi di ancora incommensurata profondità che, almeno sul piano storio­grafico, devono pur essere affrontati.

Adolfo Scalpelli

Giorgio Giorgetti, Contadini e proprie­tari nell’Italia moderna. Rapporti di pro­duzione e contratti agrari dal secolo X V I ad oggi, Torino, Einaudi, 1974, pp. 549, lire 4.000.

Pur essendo dedicata per quasi quattro quinti ai secoli dell’età moderna, l ’ampia ricostruzione di Giorgetti si raccomanda anche per il profilo che traccia dell’ultimo cinquantennio e che, nella relativa po­vertà della letteratura sull’argomento, for­nisce insieme anticipazioni e impulsi a più dettagliate ricerche. L ’analisi della evo­luzione contrattuale non costituisce del resto un osservatorio specialistico e limi­tato se, come avviene in queste pagine, il richiamo alle norme giuridiche ha soprat­tutto valore esemplificativo, mentre è ben saldo, quasi sempre, l ’ancoraggio al mo­mento storico complessivo e sono costan­temente richiamate le incidenze dei fattori generali indispensabili a illuminare, entro il rapporto di base tra proprietari e conta­dini, il mutevole atteggiarsi delle singole categorie agricole, le aggregazioni e divi­sioni che gli obiettivi particolari perse­guiti da ciascuna di esse provocano tanto nei momenti alti di lotta, quanto nelle fasi di riflusso. L a considerazione conclu­siva che si ricava dalla lettura — e che l ’autore suggerisce più che illustrare diste­samente — è quella dell’assenza o estre­ma precarietà del nesso intercorrente tra fattori esterni e spinte interne al movi­mento contadino. Anche quando sembra­no dischiudersi prospettive nuove e pro­filarsi sostanziali trasformazioni, il colle­gamento con il movimento operaio resta tenue e indiretto, più postulato program­matico che convergenza di iniziativa po­litica. Così, esaminando i contenuti della offensiva contadina degli anni 1919-20, e rilevando come esplicitamente sottesa alla somma delle vertenze contrattuali la que­stione della proprietà della terra, Giorgetti può concludere che « proprio la mancanza di una prospettiva nazionale rinnovatrice, che nessuna forza politica popolare seppe allora offrire alle masse rurali, doveva fa­vorire inevitabilmente il riflusso e la scon­fitta, sullo stesso piano contrattuale, di un movimento tanto potente e ricco di

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fermenti progressivi, lasciando aperta la via a una rivincita reazionaria della pro­prietà fondiaria più retriva » (p. 439). Assai più sfumata è la valutazione del se­condo dopoguerra. Anche in questo caso, tuttavia, si possono cogliere i segni di una precoce divaricazione tra l ’iniziativa con­tadina — peraltro assai differenziata nei modi, nei tempi e negli obiettivi: dal mez­zogiorno ai mezzadri delle regioni centrali, ai braccianti della Valle Padana — e qua­dro politico nazionale, nel senso che se l ’abbattimento della dittatura offre stru­menti e possibilità nuove, l ’incidenza del movimento sui rapporti di produzione sarà solo marginale. Nelle campagne si instaura un instabile equilibrio che sarà poi bru­scamente spezzato dall’accelerazione indu­striale degli anni cinquanta e sessanta. A quel punto di svolta, lungi dal ricomporsi ad un più alto livello di dialettica eco­nomica e sociale, il dualismo tra settore primario e secondario trascina l ’agricol­tura italiana e la società contadina verso il fondo di un processo di disgregazione, rispetto al quale non è dato oggi intrave­dere una reale possibilità di arresto. « La regressione agronomica in senso neo-lati- fondistico di tenute e fattorie preceden­temente appoderate, -—- osserva Giorgetti — l ’involuzione produttiva di numerose aziende capitalistiche classiche, perfino nel territorio privilegiato della cascina irrigua, pongono obiettivamente il problema (in presenza del crescente deficit alimentare del paese) di una inversione di tendenza che sposti l ’accento sulle aziende conta­dine singole o associate e ne faccia la base di rilancio della produzione agricola na­zionale » (p. 338). N el compiersi di que­sta parabola giungono del resto a piena maturazione quei fenomeni di stretta com­penetrazione tra interessi industriali e rendita agraria che avevano caratterizzato l ’azione del regime fascista.

L ’evoluzione dei contratti pone efficace­mente in rilievo gli stadi del processo, ne rivela le tendenze di lungo periodo a fronte delle pur vigorose spinte che il mo­vimento contadino tende ad esprimere e che non riescono a sfociare in prospettive alternative. Va da sé che il centro della

analisi deve spostarsi sul modello di svi­luppo, per ritrovare poi nella storia agra­ria le conferme forse più significative. Il ciclo di lotte 1919-20 occupa senza dubbio un posto di primo piano nei tentativi di erodere i tradizionali privilegi della pro­prietà fondiaria. Le conquiste allora strap­pate nel campo dei contratti di mezzadria e di piccolo affitto, i segni di convergenza tra coloni, affittuari e masse bracciantili delineano un panorama che, nel quadro del dopoguerra, non è meno ricco di fer­menti e di aperture di quello espresso dal proletariato urbano. Aumento della parte colonica e imposizione della « giusta causa permanente » costituiscono, fra gli altri, obiettivi che mirano a sostituire a norme elusive e lacunose, abbandonate alle inter­pretazioni arbitrarie della parte più forte, una rigida disciplina legislativa capace di agevolare la crescita degli strati intermedi. Il rapporto tra produzione e rendita ne viene direttamente investito e l ’asprezza della reazione padronale corrisponderà pie­namente ai pericoli accesi dai sommovi­menti in atto. Mancano tuttavia i fattori capaci di ricomporre l ’unità del movimen­to al di là delle finalità settoriali e qui la disamina storica deve tenere egualmente conto degli elementi endogeni (la socializ­zazione della terra propugnata dalle leghe rosse contrapposta alla sbracciantizzazio- ne perseguita dalle leghe bianche) e del mancato collegamento con il quadro gene­rale. Attraverso i varchi che così si apro­no, lo squadrismo agrario può riversare tutto il proprio impeto eversivo e predi­sporre il terreno a quella « restaurazione contrattuale » che, durante il regime, re­stituisce alla proprietà i precedenti privi­legi e rilancia le forze sociali legate alla rendita parassitaria come strumento pri­mario di controllo sulla società contadina. Non v ’è dubbio che si tocca qui uno dei nodi cruciali, delle contraddizioni di fondo del « regime reazionario di massa » , stret­to da un lato dalle necessità della stabi­lizzazione sociale e dall’altro dalle esi­genze produttivistiche accentuate dall’au­tarchia e la cui soddisfazione avrebbe im­posto di contrastare le forme di assentei­smo.

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Il secondo dopoguerra riproporrà larga­mente gli obiettivi perseguiti un quarto di secolo prima e, come si è anticipato, sfocerà in una serie di conquiste parziali e settoriali che, se allentano i freni imposti dalla reazione fascista, non imprimono all’agricoltura italiana vie di sviluppo real­mente alternative. La tendenza allo svuo­tamento dell’istituto contrattuale nascerà dalla seconda rivoluzione industriale del­l ’Italia contemporanea, mentre la classe di governo ripiegherà sull’accoglimento par­ziale di alcune richieste contadine con provvedimenti (dalle mediazioni nella ver­tenza mezzadrile alle leggi stralcio di ri­forma fondiaria dei primi anni Cinquanta) nei quali le finalità di controllo politico sono di gran lunga prevalenti sulla vo­lontà di riorientare le scelte produttive e quindi di modificare i rapporti di forza sulla terra. Questioni quali la sorte del­l ’istituto mezzadrile o una nuova radicale disciplina dei fitti rustici si trascineranno da una legislatura all’altra, per approdare infine al varo di misure legislative il cui contenuto, comunque lo si valuti, appare in partenza superato dalle avvenute tra­sformazioni socio-economiche.Su quest’ultimo passaggio, l ’analisi di Gior- getti perde parte della propria incisività e affronta con estrema cautela il giudizio sulla politica condotta dalla sinistra mar­xista. Più in generale, la ricostruzione tro­va un limite non irrilevante nella esiguità dei riferimenti alle successive fasi congiun­turali e ai loro riflessi sulle vicende con­trattuali. Appare, ad esempio, improprio accennare alle conseguenze della crisi degli anni trenta sul settore agricolo se non si tien conto che, quando essa si manifesta, la caduta dei prezzi agricoli ha già deter­minato gravi conseguenze, in particolare falcidiando la piccola proprietà formatasi nel dopoguerra e provocando un feno­meno di proletarizzazione di ritorno che suscita non pochi problemi alla politica agraria e sociale del fascismo. Altrettanto si può dire, in chiave diversa, per gli effet­ti della fase inflazione-deflazione del 1946- 48 sul processo di ricostruzione dell’agri­coltura italiana e sui rapporti interni alla società contadina.

Massimo Legnani

Resistenza

Renato Romagnoli, G appista dodici me­si nella Settim a G A P « Gianni » , M ilano, Vangelista editore, 1974, pp. 234, lire 2.500.

Dice giustamente Zangheri nella prefa­zione « è un’esperienza concreta, non da manuale » questa di Romagnoli nel 7 G A P, non quindi la teorizzazione della guerriglia urbana in termini di astrazione fantapolitica.« Italiano » , un significativo pseudonimo da clandestinità, uno di quelli che Ro­berto Battaglia amava analizzare per ca­pire anche sul piano psicologico lo spirito con cui era stata affrontata la Resistenza a livello popolare, racconta dei suoi anni di infanzia e giovinezza, ma tutto il libro è teso a ricostruire i grandi episodi delle battaglie urbane di Bologna dell’estate- autunno 1944. G li storici hanno dato importanza a questi momenti, hanno an­che criticamente considerato la strategia in cui questi episodi si inserivano: il con­centramento di forze in città, Porta Lame, la Bolognina, l ’evacuazione dell’ospedale. Momenti significativi e importanti e in­sieme tappe importanti della guerra po­polare di liberazione, costate anche la perdita di uomini valorosi. M a sul piano politico significarono colpi durissimi per i fascisti e i tedeschi, furono momenti di pesanti e irreparabili sconfitte anche per la perdita assoluta di credibilità persino presso chi stava dalla loro parte.In questa pacata descrizione di Romagnoli non si ritrova tuttavia mai la ridondanza retorica in cui avrebbe potuto facilmente cadere per la materia stessa. L ’A . cerca semmai di descrivere l ’ambiente, il rischio moltiplicato anche per i civili che aiutano la lotta partigiana, il contesto sociale in cui i gappisti si muovono, gli appoggi politici e l ’assistenza concreta della popo­lazione e da tutto ciò si ricostruisce anche il tessuto di una città, che pur fra mille insidie, combatte la sua guerra di libertà nel solco di grandi tradizioni sociali. Attraverso la propria biografia di gappista Romagnoli scrive la storia della guerriglia di Bologna, protagonista e testimone de-

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gli episodi cardine di quella guerra di liberazione, vissuta militando in una delle più importanti formazioni militari.O ra la bandiera del 7 G A P è conservata dai partigiani vietnamiti che hanno com­battuto a Quang Tri.Sulle copertine, disegni di A lbe Steiner, due interpretazioni delle battaglie urbane di Bologna.

A . Se.

Ebraismo e sionismo

Guido Valabrega, Ebrei fascismo sioni­smo, Urbino, Argalìa, 1974, pp. 531, lire 3.800.

Valabrega ha raccolto saggi ed articoli comparsi in varie occasioni su periodici nell’arco di quindici anni. G li scritti, che documentano le qualità di accurato inda­gatore della problematica legata all’ebrai­smo e al sionismo dell’A ., sono sistemati in tre parti. La prima riguarda gli israe­liti italiani durante il fascismo (e qui si avverte la polemica aperta con certe indi­cazioni di comodo di Renzo D e Felice). La seconda delinea le vicissitudini del­l ’ebraismo europeo: particolarmente inte­ressanti appaiono le note sul ghetto di Varsavia e sulla preparazione dell’insurre­zione, che fanno chiaramente emergere la linea di classe e /o ideologica che passa anche attraverso la comunità ebraica e che decide dell’atteggiamento diversificato da­vanti all’oppressore nazista. La terza par­te, infine, è dedicata ad alcune acute ana­lisi sul « socialismo ebraico » e sui suoi rapporti col movimento sionista prima e

dopo la nascita di Israele, sulla realtà israeliana prima e dopo il ’67 e la guerra dei sei giorni, e ad alcune « riflessioni sul M edio Oriente ». I l nucleo degli studi di Valabrega consiste nello smantellamento dell’apparente e mistificante unità inter­classista e ideologica del popolo ebraico sia nella diaspora che nei rapporti attuali tra Israele e i popoli arabi. Purtroppo questa tesi da un lato non appare piena­mente sviluppata e dall’altra resta talvolta soffocata sotto una serie di osservazioni — la più parte acute e utili — ma a volte marginali e contingenti. La causa ci sem­bra risalire alla meccanica ripubblicazione dei testi originali, sia pure redistribuiti per blocchi di argomenti come s ’è detto. Avrebbe certamente giovato un ripensa­mento complessivo e una riorganizzazione e rifusione del materiale in modo da evi­tare le ripetizioni, da una parte, e da indi­care, dall’altra, una linea di ricostruzione delle vicende dell’ebraismo e del sionismo in questo secolo che pure appare già abba­stanza chiara a lettura ultimata. L a « testi­monianza d ’un procedere faticoso, dei nu­merosi condizionamenti con i quali si tro­va a misurarsi chi scriva non avendo au­tonomia economica e anche dei mutamen­ti via via avvenuti nella temperie del nostro », rappresentata — secondo le pa­role dello stesso Valabrega (p. 6) — da questa raccolta, è anch’essa certo esigenza nobilissima; è tuttavia un peccato che non si sia potuto superarla nell’occasione of­ferta dalla pubblicazione in volume, per poter indicare strade ancora più avanzate agli studi sull’argomento e anche alle pros­sime auspicabili fatiche di Valabrega.

G .F .P .