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ESTRATTO

PRESENTAZIONE DELL’OPERA

L’Opera aspira a fornire al lettore un quadro articolato della riflessione giuridica sul codice civile, tenendo conto delle elaborazioni e discussioni dottrinali e dei contri-buti della giurisprudenza, di legittimità e di merito.

Particolare risalto è stato dato alla legislazione speciale, tutte le volte che essa ha assunto un ruolo integrativo della disciplina codicistica, come in tema di diritti fonda-mentali (ad es., la l. 20 maggio 2016 n. 76, sulle unioni civili e le convivenze di fatto, con i primi interventi delle Corti; 22 dicembre 2017 n. 219, in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento; la l. 11 gennaio 2018 n. 4, in te-ma di tutela degli orfani per crimini domestici).

Nei commenti è stata riservata una specifica attenzione alle puntualizzazioni più ri-levanti della Corte europea dei diritti dell’uomo, che sta contribuendo sempre più, in un intenso dialogo con la Corte di Cassazione e la Corte costituzionale, a ridisegnare il tessuto normativo del nostro ordinamento.

La centralità che, nella disciplina dei rapporti interprivatistici come, in significativa misura, nei rapporti con la Pubblica Amministrazione, continua a conservare il codice si arricchisce della rimeditazione degli sviluppi normativi e giurisprudenziali, che le scelte del legislatore del 1942 hanno conosciuto.

Completa l’opera un attento esame delle previsioni della l. 31 maggio 1995 n. 218, contenente la riforma del diritto internazionale privato italiano, che si accompagna ad una puntuale ricognizione delle principali fonti convenzionali ed eurounitarie intervenu-te a disciplinare vicende che presentino elementi di estraneità con l’ordinamento interno.

DIRETTORI DELL’OPERA

MASSIMO FRANZONI è ordinario di diritto civile nell’Università di Bologna, dove insegna anche diritto delle assicurazioni private. Ha al suo attivo oltre 200 pubblicazioni, fra le quali un Trattato della responsabilità civile, un saggio su La transazione, un volume ed un trattato sugli Amministratori e sindaci di società, oltre a numerosi volumi in Commentari al codice civile sul contratto.

RITA ROLLI è professoressa associata confermata, dichiarata idonea come professore di Prima Fascia all’Abilitazione Scientifica Nazionale, nella materia di Diritto privato. Allieva del Professor Francesco Galgano, insegna presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Bologna, come titolare della cattedra di Diritto privato. Svolge altresì attività didattica presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali della mede-sima Università. È autrice di numerose pubblicazioni scientifiche e partecipa alla redazio-ne di numerose riviste giuridiche.

GIUSEPPE DE MARZO, consigliere della Suprema Corte di Cassazione, assegnato alla I sezione civile e alla V sezione penale; componente supplente del Tribunale Superiore delle Acque; componente del Gruppo dei Referenti per i rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo; autore di numerose monografie e di pubblicazioni giuridiche, ha curato collane editoriali; collabora abitualmente con Il Foro italiano.

L’Estratto contiene, a titolo illustrativo, i seguenti commenti:

● DALL’ART. 768 BIS ALL’ART. 768 OCTIES DEL PATTO DI FAMIGLIA di Paola Manes.

● ART. 834 ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICO INTERESSE E ART. 844 IMMISSIONI di Chiara Ferrari.

● ART. 2043 RISARCIMENTO PER FATTO ILLECITO di Mario Baraldi.

Titolo IV – Della divisione 768 bis

768 bis Nozione È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.

(1) Articolo inserito dall’art. 2, co. 1, l. 14.2.2006 n. 55.

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extracodice) Contratto in generale (art. 1321 c.c.) Impresa familiare (art. 230-bis) Tipologie societarie (artt. 2252, 2300, 2322, 2355, 2355-bis, 2469, 2470 c.c.) Azienda (artt. 2112, 2555-2561, 2643, 2659 c.c.)

SOMMARIO 1. La gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare. – 2. Innovazione legislativa e deroga al regime imperativo. – 3. Natura giuridica e struttura. – 3.1. Patto di famiglia, impresa familiare e tipi societari. – 4. Oggetto del trasferimento. – 5. Identificazione del disponente.

1. La gestione del passaggio generazionale della ricchez-za familiare – Il patto di famiglia intende porsi come al-ternativa efficace di gestione dell’avvicendamento genera-zionale dell’azienda di famiglia e, ma il punto è problema-tico, genericamente della ricchezza familiare (lo esclude IEVA, Patto di famiglia, in Enc. dir., Annali, VI, Milano, 2013, p. 638 ss.; nel senso dell’assoggettabilità al patto di famiglia della sola azienda, Trib. Reggio Emilia 19.7.2012, in Famiglia e diritto, 2013, p. 365). Si recepiscono in tal modo i voti di quella dottrina che da tempo auspicava una regolamentazione pattizia del problema della successione nella titolarità e nel governo dell’impresa di famiglia (ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), in Riv. dir. priv., 1998, p. 255; BONILINI, Il patto di famiglia, in Tratt. Bonilini, vol. II, Torino, 2016, p. 1777 ss.; TRIMARCHI, LAURINI, Il patto di famiglia, in Successioni e donazioni, a cura di Iaccarino, Torino, 2017, p. 1938 ss.; IEVA, Il patto di famiglia, in Tratt. Rescigno, coordinato da Ieva, II, Padova, 2010, p. 317; DE NOVA, DELFINI, Commento all’art. 768-bis, in Comm. Gabrielli, Delle Successioni, a cura di Cuffaro, Delfini, Torino, 2010, p. 398 ss.), anche al fine di preser-vare il valore della stessa e di affidarne la gestione ai soli familiari con vocazione e competenza gestorie. È conside-razione di politica economica, generalmente accettata, quel-la che vede la perdita di competitività del nostro sistema imprenditoriale legata ad inefficienti strumenti di conser-vazione del valore d’impresa e del trasferimento del con-trollo della stessa proprio nel passaggio generazionale (SCHLESINGER, Interessi dell’impresa e interessi familiari nella vicenda successoria, in AA.VV., La trasmissione familiare della ricchezza, Padova, 1995, p. 134 ss.) La successione è infatti un evento traumatico che interrompe la continuità aziendale ed altera le dinamiche interne alla vita dell’impresa (ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), in Dir. priv., 1998, p. 258). L’ampliamento della base proprietaria e il possibile frazionamento del controllo sono infatti fonte di incertezza e tensioni tra i familiari (Gruppo di lavoro sulla successione nell’impresa di famiglia coordinato dai pro-

fessori MASI, RESCIGNO, La successione ereditaria nei beni produttivi, in Riv dir priv., 1998, p. 353). La riforma introdotta nel 2006 era stata ampiamente auspicata dalla dottrina che da tempo ha sollevato il problema dei limiti del testamento e la presenza di alternative testamentarie, so-prattutto nell’ottica della pianificazione del trasferimento della ricchezza imprenditoriale: il Gruppo di lavoro sulla successione nell’impresa di famiglia coordinato dai pro-fessori Masi e Rescigno aveva dato vita a due proposte di riforma del codice civile volte ad introdurre il patto di fa-miglia e il patto di impresa (v. i risultati: Gruppo di lavoro sulla successione nell’impresa di famiglia 1998, cit., p. 353; IEVA, in BALESTRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia, in Nuove leggi civili comm., 2007, p. 43 s.; rispetto a tali progetti di riforma, la legge innova sotto-ponendo ad un regime unitario la devoluzione successoria dei beni produttivi indipendentemente dalla forma, indivi-duale o collettiva, di esercizio dell’impresa; BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di famiglia, in Nuova giur. civ. comm., 2006, p. 373; inoltre, mentre i progetti di legge erano pensati per l’imprenditore individuale, la legge am-plia i presupposti soggettivi ed oggettivi della fattispecie, pur recuperando il meccanismo tecnico all’epoca formula-to; ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, in AA.VV., Il patto di famiglia, Milano, 2006, p. 271). Il tema tocca, da un lato, i limiti del testamento e le alternative testamentarie che vengono ormai convenzio-nalmente indicate come “successioni anomale” (l’espres-sione si deve a Palazzo, che individua una serie di stru-menti alternativi al testamento e il loro minimo comune denominatore della facoltà di revoca: per tutti si veda PA-LAZZO, Le successioni, in Tratt. Zatti, vol. I, II ed., Mila-no, 2000, p. 46 ss.; nel fenomeno convergono i meccani-smi che attuano la successione anticipata e gli effetti para-successori di contratti e istituti del diritto societario che realizzano il trasferimento di ricchezza “aggirando” le re-gole del diritto successorio: ZOPPINI, L’emersione della ca-tegoria della successione anticipata, cit., 2006, 272; la qua-lificazione viene accolta da Trib. Reggio Emilia 19.7.2012, in Famiglia e diritto, 2013, p. 365, che parla di “anticipata

768 bis Libro II – Delle successioni

successione” a titolo particolare), dall’altro, l’insofferenza per un divieto, quello dei patti successori (v. supra, sub art. 458 c.c.) obsoleto e irrilevante costituzionalmente (RE-SCIGNO, Attualità e destino del divieto di patti successori, in AA.VV., La trasmissione familiare della ricchezza, Pa-dova, 1995, p. 1). La successione ereditaria non svolge, infatti, alcuna funzione sociale, nemmeno quella di stru-mento per “assicurare il ricambio nella titolarità dei beni” (RESCIGNO, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita not., 1993, p. 1286). Il divieto è perce-pito come angusto da quella dottrina che non ne trova con-vincente la motivazione di tutela della libertà di disporre della propria successione per testamento e che dà atto di un’insufficienza del testamento a regolare adeguatamente il fenomeno successorio soprattutto nell’ambito della ric-chezza imprenditoriale. L’inadeguatezza del sistema suc-cessorio italiano emergeva ancor più di fronte allo scenario di internazionalizzazione dei mercati sui quali competono le imprese nazionali che impone di preservare la vitalità economica del complesso produttivo oltre la fase del pas-saggio generazionale (BALESTRA, Attività d’impresa e rap-porti familiari, in Tratt. Alpa-Patti, Padova, 2009, p. 463). Nello stesso senso si muove chi esprime favore per l’ado-zione del contratto ereditario (BONILINI, Autonomia nego-ziale e diritto ereditario, in Riv. notar., 2000, p. 800) e chi individua alternative testamentarie compatibili con il di-vieto (MAGLIULO, Il divieto del patto successorio istitutivo nella pratica negoziale, in Riv notar., 1992, p. 1424 ss.; IEVA, I fenomeni c.d. parasuccessori, in Riv. notar., 1988, p. 1139). L’esigenza di riforma era confermata anche dalla difformità che il nostro ordinamento presenta rispetto ad esperienze di ordinamenti affini, quali Germania, Francia e Svizzera dove il contratto successorio (cfr., sul punto, BA-LESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, cit., 2009, 468), la institution contractuelle e la piena legittimità della clause commerciale stipulata tra l’imprenditore e il suo coniuge, attuano forme di devoluzione convenzionale del patrimonio ereditario orientate alla valorizzazione della vocazione produttiva di singoli beni in funzione anticipa-toria della successione (come nel caso della trasmissione inter vivos dell’azienda agricola in Germania) o alla conti-nuità imprenditoriale, come nel caso dell’azienda gestita anche dal coniuge dell’imprenditore in Francia, al mante-nimento dei familiari, alla possibilità di rinunciare preven-tivamente all’azione di riduzione, al superamento del prin-cipio della intangibilità qualitativa della quota di legittima e alla conversione della pretesa del legittimari da reale in obbligatoria (IEVA, in BALESTRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia, cit., p. 50; ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future, cit., p. 261 ss.; PALAZZO M., La circolazione delle partecipazioni e la governance nelle società familiari in prospettiva successoria, in Riv. not., 2007, p. 50; DI SA-PIO, Osservazioni sul patto di famiglia (brogliaccio per una lettura disincantata), in Dir. fam., 2007, p. 293). Per-tanto, il nostro ordinamento realizzava, e può tuttora rea-lizzare con l’ulteriore soluzione del patto di famiglia, gli obiettivi di trasferimento generazionale dei beni produttivi attraverso gli strumenti della fondazione, dei trust, dei patti parasociali, di clausole put and call, dell’aumento di capi-tale destinato, dell’impiego della holding, della quotazione nei mercati regolamentati, della scissione tra nuda proprie-tà e usufrutto delle azioni, dell’affitto e dell’usufrutto di

azienda, dell’acquisto di azioni proprie (DE NOVA, DELFI-NI, Del patto di famiglia, in Comm. Gabrielli, Delle suc-cessioni, a cura di Cuffaro, Delfini, III, Torino, 2010, sub artt. 713-768-octies, p. 376).

2. Innovazione legislativa e deroga al regime imperativo – In forza delle nuove norme in materia di patto di famiglia, al primo periodo dell’art. 458 c.c. è ora premesso: “fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis c.c. e seguen-ti”, ciò che sancisce la liceità di alcune convenzioni con le quali si dispone della propria successione in forma diversa dal testamento e derogatoria rispetto al regime successorio imperativo (BALESTRA, Attività d’impresa e rapporti fami-liari, cit., p. 467; DE NOVA, DELFINI, Del patto di fami-glia, Torino, 2010, sub artt. 713-768-octies, p. 377; IEVA, Patto di famiglia, cit., p. 638 ss., che ritiene la disposizione che deroga alla operatività della collazione per quanto ri-cevuto dai contraenti a titolo di patto di famiglia, la previ-sione più innovativa); quanto al meccanismo della colla-zione e alla rinuncia all’azione di riduzione in deroga a quanto previsto dall’art. 557, co. 2, c.c. che prevede l’irri-nunciabilità dell’azione di riduzione da parte dei legittima-ri finché il donante è in vita. Nessuna deroga invece al di-vieto di patti successori (non solo il trasferimento è imme-diato e svincolato dalla morte dell’imprenditore, ma la ri-nuncia ai diritti da parte dei legittimari è operata rispetto ad un diritto che l’ordinamento riconosce immediatamente quale effetto necessario, divisionale in senso lato, del pat-to; TASSINARI, Il patto di famiglia per l’impresa e la tutela dei legittimari, in Giur comm., 2006, p. 811; CARNEVALE, Del patto di famiglia, in CARNEVALE, TRIOLA (a cura di), La giurisprudenza sul codice civile, II. Delle successioni, Milano, 2012, p. 637) dato che le parti contraenti, all’a-pertura della successione, potranno sia accettare che rinun-ziare quella parte dell’eredità che non comprende i beni attribuiti col patto di famiglia (GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Giust. civ., 2006, p. 217 ss.; INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCININI, Il patto di fami-glia, Torino, 2006, p. 217 ss.; contra, CAROTA, Il contratto con causa successoria, Padova, 2008, p. 54; AMADIO, Profili funzionali del patto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2007, p. 349; FUSARO, I patti di famiglia, in Tratt. Fer-rando, II, Torino, 2008, p. 863, che ritiene il patto incida sui soli patti dispositivi e rinunciativi). Si tratta di un con-tratto inter vivos, di efficacia immediata, ma, secondo una diversa lettura, produttivo di alcuni effetti mortis causa che possono integrare gli estremi di un patto successorio dispositivo (ANDRINI, Il patto di famiglia: tipo contrattua-le e forma negoziale, in Vita not., 2006, p. 31) e per alcuni aspetti rinunciativo (CAPOZZI, Successioni e donazioni, IV ed., a cura di Ferrucci, Ferrentino, Milano, 2015, p. 48; O-BERTO, Il patto di famiglia, Padova, 2006, p. 47-52; PE-TRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. notar., 2006, p. 408; BONAFINI, Il patto di famiglia tra diritto commerciale e diritto successorio, in Contratto e impresa, 2006, p. 1200, che ritiene il patto stipulato in previsione della morte del disponente, come attestato dal fatto che le attribuzioni avvengono in vita ma in conto di legittima; secondo DE NOVA, in AA.VV., Il patto di fami-glia, Milano, 2006, p. 2, il patto può rilevare come rinun-ciativo solo se la rinuncia di cui all’art. 768-quater si in-tende rispetto ad una liquidazione definitiva). Da alcuni con certezza si esclude il solo patto istitutivo, in quanto il

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patto di famiglia non ne presenta gli estremi: oggetto del-l’attribuzione è l’azienda nella consistenza che ha al mo-mento dell’atto dispositivo, il trasferimento dei beni è im-mediato come immediata è la determinazione dei benefi-ciari (IEVA, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. notar., 1997, p. 1373; PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., 2006, 413). Ma secondo di-versa tesi, il patto di famiglia integrerebbe un patto succes-sorio istitutivo e attualmente traslativo (OPPO, Patto di fa-miglia e “diritti della famiglia”, in Riv. dir. civ., 2006, p. 439) o dispositivo (PETRELLI, La nuova disciplina del “pat-to di famiglia”, cit., p. 401). Tre sono gli auspicati obietti-vi di un intervento legislativo: la preservazione del valore produttivo dell’azienda familiare, la realizzazione di un sistema di controllo univoco che superi le divisioni tra ere-di, la possibilità per l’imprenditore di programmare in vita le regole di successione nel governo dell’azienda e quindi di anticipare gli effetti della devoluzione successoria, e-leggendo, tra i discendenti, la leadership imprenditoriale (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, cit., p. 270). I regimi imperativi dettati a tutela dell’integrità di beni produttivi come quello inerente l’a-zienda agricola, possono funzionare solo in presenza della possibilità di individuare con certezza il soggetto vocato alla continuità aziendale e di determinare in modo impera-tivo il valore da attribuire ai soggetti estranei alla succes-sione imprenditoriale (ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit., p. 260). Due sono le regole che danno efficienza al patto di fami-glia ed effettivamente riducono la litigiosità tra familiari: la dispensa dalla collazione e la rinuncia all’azione di ri-duzione (e questi sono gli elementi fondanti la fattispecie “patto di famiglia” e gli oggetti principali della manifesta-zione di volontà del disponente; ZOPPINI, L’emersione del-la categoria della successione anticipata, cit., p. 275): in-fatti, sono la ridotta operatività della dispensa dalla colla-zione, limitata alla quota disponibile, e l’impossibilità di rinunciare all’azione di riduzione prima dell’apertura della successione (IEVA, in BALESTRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia, cit., p. 42) gli elementi che ostacolano una pianificazione efficiente del passaggio ge-nerazionale della ricchezza familiare. Altra novità intro-dotta dal patto di famiglia è la deroga al principio della intangibilità del diritto del legittimario a soddisfarsi sul patrimonio del defunto relativamente ad atti dispositivi di quel compendio ereditario (PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., p. 413). Sembra emergere l’intento del legislatore di diversificare le regole della suc-cessione quando oggetto della stessa sono beni legati all’e-sercizio dell’impresa, che ben può esigere un diritto suc-cessorio speciale (BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di famiglia, cit., p. 372; CARNEVALE, Del patto di fami-glia, cit., p. 625; VITUCCI, Ipotesi sul patto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2006, I, p. 450; ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, in AA.VV., Il pat-to di famiglia, Milano, 2006, p. 278; CARNEVALE C., Del patto di famiglia, in CARNEVALE-TRIOLA (a cura di), La giurisprudenza sul codice civile, II. Delle successioni, Mi-lano, 2012, p. 625), come prova del superamento di un’im-postazione che ritiene le regole della devoluzione neutre rispetto alla natura dei beni che ne sono oggetto (ZOPPINI,

L’emersione della categoria della successione anticipata, cit., p. 270). Indicazioni sistematiche nel senso della scelta di regimi derogatori rispetto alla devoluzione necessaria, in quanto inerenti particolari beni di rilevante impiego eco-nomico, possono trarsi dal diritto agrario e dal sistema fon-diario nei quali valore preminente è la conservazione dei beni produttivi: qui si privilegia l’unità del complesso azien-dale, la concentrazione del potere gestionale nelle mani di un solo erede con corrispondente attribuzione di un credito pecuniario agli altri familiari o l’assegnazione preferenzia-le dell’unico compendio all’erede che non solo ne faccia richiesta ma assuma l’obbligo di gestirlo professionalmen-te per un periodo minimo di tempo necessario ad assicura-re la continuità produttiva. Ne sono prova la legge sul ma-so chiuso altoatesino e una vasta serie di interventi legisla-tivi che in diritto agrario tendono a tutelare l’unità del bene produttivo (BUCELLI-GALLI, Impresa e mutamento gene-razionale, in Il passaggio generazionale nell’impresa e nella professione intellettuale (Atti del XLIII Congresso nazionale UNGDC, Pistoia 14-16.4.2005), Torino, 2005, p. 38 ss.; DEL PRATO, Sistemazioni contrattuali in funzio-ne successoria: prospettive di riforma, in Riv. not., 2001; IEVA, I fenomeni a rilevanza successoria, Napoli, 2001, p. 632 ss.; BONAFINI, Il patto di famiglia tra diritto commer-ciale e diritto successorio, in Contratto e impresa, 2006, p. 1216 ss., che richiama un intervento legislativo del 2004 che, a tutela dell’integrità aziendale del compendio unico, ne sancisce l’indivisibilità per trasferimenti mortis causa). Tali indicazioni, se assumono valore in quanto indicano l’e-sigenza di privilegiare l’impiego produttivo dei beni, non danno necessariamente prova del fatto che la successione di beni produttivi richieda un regime successorio speciale (le norme si applicano a ogni tipo di azienda: CARNEVALE, Del patto di famiglia, cit., p. 625), diversa essendo la ratio di tali interventi di settore: questi identificano un regime imperativo che contrasta con la libera determinazione del-l’assetto di interessi valorizzata dalla riforma ed incidono su un particolare tipo di impresa, a differenza delle parte-cipazioni in società di capitali che sono neutre rispetto al tipo di impresa e parte del patrimonio ereditario al pari degli altri cespiti (DEL PRATO, Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospettive di riforma, in Riv. no-tar., 2001, p. 632, che si mostra critico verso interventi di settore rivolti ai beni d’impresa). Inoltre, l’indicazione derogatoria potrebbe non essere intesa in senso restrittivo e quindi limitata ai beni d’impresa, ma rispetto al patrimonio ereditario unitariamente considerato. Gli orientamenti sul punto però, non sono di segno univoco. È condivisibile che un’attenta rimeditazione del fenomeno successorio, soprattutto quando la ricchezza che trasferisce origina da un’attività d’impresa, ponga il fuoco non più e non soltan-to sul “cosa” si eredita quanto sul “come” il singolo bene è destinato a cadere in successione (ZOPPINI, Le “nuove pro-prietà” nella trasmissione ereditaria della ricchezza (note a margine di una teoria dei beni), in Riv. dir. civ., 2000, p. 196). Gli indici di riferimento di tale processo si rinvengo-no da un lato nel vasto fenomeno delle successioni anoma-le, dall’altro nello strumento codicistico della divisione ere-ditaria che consente l’assegnazione preferenziale dei beni, norma della quale si sottolinea il valore sistematico anche come direttrice di politica del diritto che permette di supe-rare le mere indicazioni del diritto positivo (ZOPPINI, Le “nuove proprietà” nella trasmissione ereditaria della ric-

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chezza (note a margine di una teoria dei beni), cit., p. 196). Alcune norme sulla divisione, gli artt. 720, 722, 727 c.c., assegnano valore preminente alla natura dei beni che formano l’asse ereditario, ancorché non dal punto di vista attributivo (DEL PRATO, Sistemazioni contrattuali in fun-zione successoria: prospettive di riforma, cit., p. 632). L’at-tenzione va non solo al trasferimento di un complesso in-distinto di beni da conservare, quanto piuttosto alla valo-rizzazione della natura e dell’identità dei beni, alla compo-sizione dell’asse ereditario e alla specificità ed individuali-tà dei beni che ne formano oggetto dal punto di vista non solo quantitativo ma anche qualitativo (ZOPPINI, Le “nuo-ve proprietà” nella trasmissione ereditaria della ricchezza (note a margine di una teoria dei beni), cit., p. 195) se-condo quote omogenee per valore ma disomogenee per tipologia di beni, considerate nella loro prospettiva dina-mica, imprescindibile in presenza di beni produttivi.

3. Natura giuridica e struttura – La collocazione sistema-tica delle norme, che nella previsione del Gruppo di lavoro Masi-Rescigno sulla successione nell’impresa di famiglia era diversa, in quanto seguiva la norma sulla divisione fat-ta dal testatore, conferma comunque il carattere material-mente divisorio dell’operazione: il patto si traduce sostan-zialmente in una divisione anticipata (CAPOZZI, Succes-sioni e donazioni, IV ed., a cura di Ferrucci, Ferrentino, Milano, 2015, p. 1453; ZOPPINI, L’emersione della cate-goria della successione anticipata, cit., 2006, che ritiene applicabile il rimedio della rescissione per lesione oltre il quarto prevista dall’art. 763 c.c. per la divisione ereditaria, e il rimedio dell’offerta del supplemento della porzione ereditaria previsto dall’art. 767 c.c.; VITUCCI, Ipotesi sul patto di famiglia, cit., p. 447; GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, cit., 2006, p. 218; BONAFINI, Il patto di famiglia tra diritto commerciale e diritto suc-cessorio, in Contratto e impresa, 2006, p .1207; sembra accogliere la tesi della causa divisoria Trib. Reggio Emilia 19.7.2012, in Famiglia e diritto, 2013, p. 365; contra, BA-LESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, in ALPA, PATTI (diretto da), Trattato teorico-pratico di diritto pri-vato, Padova, 2009, p. 485; BALESTRA, Prime osservazio-ni sul patto di famiglia, cit., 2006, p. 377, che esclude il carattere divisorio in forza dell’attribuzione di beni appar-tenenti a patrimoni diversi; VOLPE, Patto di famiglia, in Comm. Schlesinger, Artt. 768 bis-768 octies, Milano, 2012, p. 184, che ritiene decisiva la mancanza della situazione effettiva di comunione ereditaria al momento del patto; PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., 2006, p. 430, che esclude la struttura divisionale in senso tecnico) anche se la funzione divisoria è solo even-tuale poiché non tutti gli aderenti al patto sono destinatari dell’azienda (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, cit., 2006, p. 277, che rileva come anche l’effetto attributivo sia solo eventuale per i legitti-mari contraenti che possono, a seguito dell’apporzionamen-to, rinunciare alla propria quota; MERLO, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, Milano, 2006, p. 102; DEL PRATO, Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospettive di riforma, cit., p. 635; contra, IEVA, in BALE-STRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia, cit., p. 56, che nega l’ammissibilità di un patto tra il solo disponente e l’assegnatario che escluda il legittimario non

assegnatario). Nel caso di legittimari non assegnatari del-l’azienda, il meccanismo di liquidazione dei legittimari è simile a quello previsto per la divisione di immobili non comodamente divisibili, che impone di prevedere la parte-cipazione, ancorché solo in funzione rinunciativa, di tutti i potenziali legittimari ai fini della validità del contratto, in analogia a quanto previsto per la validità della divisione ereditaria le cui domande giudiziali richiedono il litiscon-sorzio necessario di tutti gli eredi (IEVA, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di fami-glia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, cit., p. 1375). La riforma recu-pera la possibilità, nota al codice del 1865, di realizzare in vita un atto di divisione a titolo gratuito con la finalità di regolare la futura successione (MENGONI, La divisione ereditaria, Milano, 1950, p. 227 ss.; FORCHELLI-ANGE-LONI, Della divisione, COM. S.B., Artt. 713-768, II ed., Bologna-Roma, 2000, sub art. 734, p. 300; CICU, Succes-sioni a causa di morte, Parte generale, Delazione e acqui-sto dell’eredità-divisione ereditaria, II ed., Milano, 1961, p. 455; BONAFINI, Il patto di famiglia tra diritto commer-ciale e diritto successorio, cit., p. 1208) soppressa nel nuo-vo codice per i problemi causati dalla sua specialità e ano-malia, essendo realizzabili analoghi risultati mediante la donazione. Il risultato è analogo a quello ottenuto dalla donazione in quote indivise a tutti i potenziali legittimari con contestuale cessione a titolo oneroso da parte di alcuni donatari ai legittimari che gestiranno l’azienda (IEVA, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, cit., p. 1373). Altro precedente storico è rappresentato dal partage d’ascen-dants del diritto francese dell’Ancien Régime, disposizione a causa di morte, revocabile fino alla morte del disponente, che vincolava i futuri coeredi a non impugnare le attribu-zioni anticipatorie se non per violazione della legittima (OBERTO, Il patto di famiglia, cit., p. 31). Si tratta struttu-ralmente e funzionalmente di un atto tra vivi (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, cit., p. 275; TASSINARI, Il patto di famiglia per l’impresa e la tutela dei legittimari, cit., 2006, p. 811; di contratto in-ter vivos parla DE NOVA, DELFINI, Del patto di famiglia, in Comm. Gabrielli, Delle successioni, a cura di Cuffaro, Delfini, III, Torino, 2010, sub artt. 713-768-octies, p. 381, eventualmente a favore di terzi; esclude dal novero degli atti mortis causa in base all’effetto attributivo immediato e all’immediata determinazione dei beneficiari IEVA, Patto di famiglia, cit., p. 641; concorde CARNEVALE C., Del pat-to di famiglia, cit., 2012, p. 632; recepisce lo schema con-trattuale del patto Trib. Reggio Emilia 19.7.2012, in Fami-glia e diritto, 2013, p. 365), ma, secondo alcuni, con effetti a causa di morte, che dal punto di vista causale è lontano sia dal contratto a favore di terzo che dalla donazione mo-dale (OBERTO, Il patto di famiglia, cit., p. 47), essendo il trasferimento immediato e definitivo (PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., p. 408; INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCININI, Il patto di famiglia, Torino, 2006, p. 68; per l’effetto traslativo immediato, VITUCCI, Ipotesi sul patto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2006, p. 461, che proprio su questo fonda la differenza rispetto all’Er-bvertrag, l’istituzione contrattuale di erede di diritto tede-sco; DI SAPIO, Osservazioni sul patto di famiglia (bro-gliaccio per una lettura disincantata), in Dir. famiglia,

Titolo IV – Della divisione 768 bis

2007, p. 289 ss.; ARCERI-BERNARDINI, Il regime patrimo-niale della famiglia, Santarcangelo di Romagna, 2009, p. 839, che richiama l’opinione espressa da PALAZZO, Il pat-to di famiglia tra tradizione e rinnovamento del diritto privato, in Riv. dir. civ., 2007, II, p. 267, nota 12; contra, BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di famiglia, cit., p. 373, che ritiene il trasferimento possa avvenire anche al momento della morte del disponente; per la liceità del dif-ferimento degli effetti del contratto al momento dell’aper-tura della successione, IEVA, Patto di famiglia, cit., p. 646), privo di corrispettivo per l’imprenditore e caratteriz-zato da causa di liberalità (di liberalità non donativa parla CAROTA, Il contratto con causa successoria, Padova, 2008, p. 134, sulla base della norma dell’art. 768-ter (v. sub art. 768-ter) che non avrebbe senso se il patto di famiglia avesse causa donativa; secondo FUSARO, I patti di fami-glia, cit., p. 868, il patto non può avere causa onerosa: se il disponente chiede un corrispettivo, ad esempio la costitu-zione di una rendita, l’atto cambia causa, essendo il patto di famiglia al più compatibile con il contratto a causa mi-sta con donazione) ma non gratuito per il destinatario che deve liquidare anticipatamente la quota di legittima ai le-gittimari attuali e quella, accresciuta degli interessi, ai le-gittimari sopravvenuti. Non è un contratto a prestazioni corrispettive ma è un contratto oneroso per l’acquirente (DEL PRATO, Sistemazioni contrattuali in funzione succes-soria: prospettive di riforma, cit., p. 636). L’atto dispositi-vo tra vivi produce gli effetti successori di una disposizio-ne a titolo particolare (ZOPPINI, L’emersione della catego-ria della successione anticipata, cit., p. 278). Vi è chi rile-va che l’assenza dell’animus donandi e la presenza dell’in-teresse, di natura economica, di garantire la continuità azien-dale, qualifichino il contratto come gratuito (INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCININI, Il patto di famiglia, cit., p. 63; SICCHIERO, La causa del patto di famiglia, in Contrat-to e impresa, 2006, p. 1270; contra, PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., p. 407, che pur ammettendo la causa liberale la inserisce in una “funzione tipica di natura complessa” in quanto comprensiva anche di un fine liquidatorio). La causa del contratto è stata di-versamente identificata dalla dottrina: si tratterebbe di una nuova causa tipica (contra, ZANELLI, La riserva “preter-messa” nei patti di famiglia, in Contratto e impresa, 2007, p. 895, che ritiene la successione nell’impresa possa avve-nire mediante qualsiasi contratto al quale partecipino i soggetti previsti dall’art. 768-quater, redatto per atto pub-blico) e unitaria (INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCININI, Il patto di famiglia, cit., p. 54) ovvero di un contratto che realizza ad un tempo una funzione liberale, per quanto at-tiene al trasferimento di azienda o partecipazioni ai di-scendenti, e una funzione solutoria relativa alla liquidazio-ne dei legittimari non assegnatari (OBERTO, Il patto di fa-miglia, cit., p. 54; PETRELLI, La nuova disciplina del “pat-to di famiglia”, cit., p. 407; l’accordo di liquidazione è il “fulcro dell’operazione” per BALESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, cit., p. 472), in adempimento di un obbligo legale (LUPETTI, Il finanziamento dell’operazione: family buy out, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impre-sa, Milano, 2006, p. 370). Diversamente, ma sempre sulla base della liberalità, il contratto è stato qualificato come donazione con onere a carico del destinatario (CACCAVA-LE, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, cit., p.

48). Dal punto di vista causale, è stata sottolineata la natu-ra divisoria del contratto, trilaterale (di anticipata divisione successoria che elimina ogni discussione post mortem par-la GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, cit., p. 218), che, ancorché diverso dalla divisione, produce l’effetto di far cessare tra i coeredi la comunione (MERLO, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tu-telati, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, cit., p. 102). Ancora: si tratterebbe di un contratto tipico (BALE-STRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, cit., 2009, p. 469; IEVA, Patto di famiglia, cit., p. 638); o secondo altri non tipico ma nominato, privo di causa unitaria, che ha la funzione di regolare il futuro assetto successorio dell’a-zienda o il suo governo, che può rientrare nella categoria dottrinale della causa familiae e traslativo della quota ere-ditaria (ANDRINI, Il patto di famiglia: tipo contrattuale e forma negoziale, in Vita not., 2006, p. 36; contra, CARNE-VALE, Del patto di famiglia, cit., p. 626) ovvero caratteriz-zato dalla causa di successione propria dei patti successori (SICCHIERO, La causa del patto di famiglia, cit., p. 1266). Infine, secondo un’ulteriore tesi, fondata sulla possibilità che l’art. 768-sexies dà al soggetto che non ne è parte di impugnare il contratto per annullamento, si tratterebbe di un contratto eventualmente a favore di terzo, il legittimario assente, che ha diritto di ricevere la liquidazione della sua quota al tempo dell’apertura della successione (DELFINI, Il patto di famiglia introdotto dalla legge /2006, in Contratti, 2006, p. 513). 3.1. Patto di famiglia, impresa familiare e tipi societari – Il patto di famiglia è il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di par-tecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le pro-prie quote, a uno o più discendenti. Il necessario coordi-namento sistematico con le discipline di impresa familiare e dei tipi societari suggerisce un raccordo con tali istituti: con la norma dell’art. 230-bis, co. 5, c.c., che attribuisce, in caso di trasferimento di azienda, ai partecipanti il diritto di prelazione sull’azienda; con le norme che il diritto so-cietario espressamente detta per la circolazione delle par-tecipazioni per la s.p.a. all’art. 2355-bis c.c. e per la s.r.l. all’art. 2469 c.c. (v., sul punto: FUSARO, I patti di fami-glia, cit., p. 882 ss.; OBERTO, Il patto di famiglia, cit., 2006, pp. 97-101; IEVA, cit., p. 45 s.; ZANELLI, La riserva “pretermessa” nei patti di famiglia, cit., 2007, p. 897). In particolare, quanto al coordinamento con le norme sull’im-presa familiare, il problema si pone riguardo alla prelazio-ne prevista dall’art. 230-bis (relativo al caso di trasferi-mento di azienda) che si ritiene non operi, data la sua cau-sa di liberalità, nel patto di famiglia (BONILINI, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2014, p. 218; OBERTO, Il patto di famiglia, cit., p. 97; PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., p. 414; ZA-NELLI, La riserva “pretermessa” nei patti di famiglia, cit., p. 897; contra, DI SAPIO, Osservazioni sul patto di fami-glia (brogliaccio per una lettura disincantata), cit., 2007, p. 300). Altro problema può sorgere nel caso l’azienda di famiglia sia oggetto di fondo patrimoniale: in presenza di figli minori, il patto potrà essere validamente stipulato solo con l’autorizzazione del giudice (ZANELLI, La riserva “pretermessa” nei patti di famiglia, cit., p. 896). Ancora: le partecipazioni societarie possono formare oggetto di

768 bis Libro II – Delle successioni

comunione legale sia immediata che de residuo: l’atto di trasferimento è sempre valido poiché il socio può in en-trambi i casi trasferire liberamente la partecipazione salvo, nel secondo caso, l’obbligo di indennizzare la comunione (PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., 2006, p. 422).

4. Oggetto del trasferimento – Una considerazione siste-matica, quanto all’oggetto del trasferimento: mentre la deroga al regime generale delle successioni sarebbe am-missibile per l’azienda, in quanto bene produttivo indivisi-bile, essa sembrerebbe non giustificata per le partecipazio-ni sociali (IEVA, Patto di famiglia, in Enc. dir., Annali, VI, Milano, 2013, p. 638 ss.; IEVA, op. cit., p. 47, che esclude che la legge abbia voluto introdurre un contratto ereditario di applicazione generalizzata che abbia ad oggetto qualun-que bene purché conferito in società o anche partecipazio-ni frutto di investimento del risparmio del disponente), sia perché per queste è prevista una disciplina specifica dettata per la successione nelle quote o nelle azioni fondata sul-l’attribuzione del diritto di recesso e sull’attribuzione del valore della partecipazione ai legittimari esclusi dalla suc-cessione, sia perché essa consentirebbe facili abusi, in quan-to il regime imperativo può essere aggirato con il semplice conferimento di beni in società (sembra concorde FUSARO, I patti di famiglia, in Tratt. Ferrando, II, Torino, 2008, p. 862). Inoltre, l’indicazione della norma è equivoca perché fa riferimento prima, quanto alla loro titolarità, alle parte-cipazioni societarie in generale, mentre successivamente menziona solo le quote come oggetto del trasferimento. Tut-tavia, anche se il carattere familiare dell’impresa è il pre-supposto per l’efficiente applicazione della legge, esso non sarebbe richiesto dalla legge (GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, cit., p. 220; contra, PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., p. 401 ss.). Ciò che sembra certo è che mentre il trasferimento dell’azienda può essere parziale e interessare solo un ramo di essa, il trasferimento delle partecipazioni inerisce solo quelle che assicurano il controllo, di fatto o di diritto, della società (CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 1472; IEVA, Patto di famiglia, in Enc. dir., Annali, VI, Milano, 2013, p. 638 ss.; GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, cit., 2006, p. 220; contra, ZANELLI, La riserva “pretermessa” nei patti di famiglia, cit., p. 898, che ritiene ammissibile il trasferimento di un ramo di azienda, di una partecipazione minoritaria o della quota di socio accoman-dante) o delle partecipazioni di riferimento (DELFINI, Il patto di famiglia introdotto dalla legge n. 55/2006, cit., p. 512), tali comunque da garantire il governo della società (ANDRINI, Il patto di famiglia: tipo contrattuale e forma negoziale, cit., p. 32). Dubbia l’ipotesi del trasferimento a due discendenti rispettivamente del diritto di usufrutto sul-l’azienda e della nuda proprietà, operazione che consenti-rebbe di lasciare al primo discendente il comando dell’im-presa (per la liceità: IEVA, Patto di famiglia, in Enc. dir., Annali, VI, Milano, 2013, p. 638 ss.), mentre è stata già recepita in giurisprudenza l’ipotesi di patto di famiglia che ha ad oggetto la nuda proprietà della quota sociale di una s.r.l. lasciando in capo all’imprenditore l’usufrutto della stessa (Trib. Reggio Emilia 19.7.2012, in Famiglia e dirit-to, 2013, p. 365). Quanto alla possibilità che il disponente trasferisca col patto di famiglia oltre ad azienda e parteci-pazioni anche beni diversi (cespiti, denaro, titoli) attuando

un patto verticale, accanto a una lettura restrittiva che limi-ta il perimetro del patto agli oggetti tipici indicati dalla norma (IEVA, op. cit., p. 53), vi è chi ritiene ammissibile l’estensione ad oggetti diversi, ma con l’applicazione delle regole generali previste dall’art. 564 c.c. (contra, BONAFI-NI, Il patto di famiglia tra diritto commerciale e diritto successorio, in Contratto e impresa, 2006, p. 1235, che ritiene fuori dell’ambito di applicazione delle norme sul patto di famiglia operazioni che prevedano accanto al tra-sferimento ad un discendente dell’azienda o delle parteci-pazioni, la liquidazione, con beni diversi, da parte dell’im-prenditore degli altri discendenti per un valore pari alla loro quota di legittima con dispensa dalla collazione e al riparo dall’azione di riduzione). Nulla esclude dunque, che il disponente, nello stesso patto di famiglia, soddisfi i non assegnatari con beni diversi a condizione che l’apporzio-namento avvenga solo su beni imprenditoriali: gli ulteriori atti di disposizione del disponente rappresentano, rispetto all’obbligo gravante sull’assegnatario, adempimento del terzo e, se attuati in forma di liberalità indirette, sono sog-getti a collazione e riduzione (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, in AA.VV., Il patto di famiglia, Milano, 2006, p. 278). Altro problema è posto dalla titolarità in capo al socio del potere di trasferire le partecipazioni: mentre nelle società di persone il potere di gestione è in capo al socio imprenditore che può decidere il trasferimento, nelle società di capitali esso dipende dalla misura della partecipazione sociale che, solo in quanto maggioritaria, può legittimare il trasferimento del control-lo (BOLANO, I patti successori e l’impresa alla luce di una recente proposta di legge, in Contratti, 2006, p. 94). Un’in-dicazione di policy verso la non universalità della nuova forma di devoluzione ereditaria e della specialità del regi-me di successione dei beni d’impresa si traeva dell’esclu-sione nel progetto di legge Masi-Rescigno del 1998 delle partecipazioni sociali dall’ambito di operatività del patto di famiglia che riguardava solo l’azienda e regolava sepa-ratamente, con il patto d’impresa, il caso delle partecipa-zioni (le diverse proposte sono riportate da DEL PRATO, Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospet-tive di riforma, cit., 2001, p. 633 ss., nt. 1-3; sul punto, dif-fusamente, IEVA, op. cit., p. 43 s.). Previsione, quest’ultima, ora non più necessaria in quanto per la circolazione delle partecipazioni soccorrono specifiche soluzioni offerte dal diritto societario che disciplina puntualmente le clausole successorie. Le norme degli artt. 2355-bis e 2469 c.c. sono gli strumenti specifici che l’ordinamento appresta per l’i-potesi di trasferimento di partecipazioni legato ad esigenze di pianificazione successoria del disponente-socio. Ancipi-te, dunque, la possibile lettura della riforma. Da un lato, coerentemente con un’interpretazione letterale delle nor-me, vi si potrebbe leggere un’indicazione di massima aper-tura all’utilizzazione del patto e un ampliamento della de-roga alle norme su collazione e riduzione in forza della consapevole estensione dell’oggetto del contratto alle par-tecipazioni sociali genericamente intese, quindi compren-sive anche di partecipazioni detenute per finalità mera-mente speculative o di investimento, contrastante con una successione speciale dei beni d’impresa. Dall’altro, la let-tura antitestuale e restrittiva delle deroghe ai regimi impe-rativi porterebbe in via ermeneutica alla qualificazione delle partecipazioni sociali come partecipazioni nella so-cietà di famiglia, che quindi incorporano la posizione nel-

Titolo IV – Della divisione 768 bis

l’azienda di famiglia, tesa ad evitare un troppo facile aggi-ramento della disciplina imperativa e dal punto di vista sistematico uno statuto speciale della devoluzione dei beni d’impresa, anche quando essi sono rappresentati da parte-cipazioni.

5. Identificazione del disponente – L’ambivalenza torna nella identificazione dei soggetti interessati: oltre all’im-prenditore la norma menziona anche il titolare di parteci-pazioni senza alcuna limitazione. Incerto è il richiamo alla “successione nel patrimonio dell’imprenditore” che solle-va incertezza sull’estensione del patto, dato che il patri-monio può includere l’azienda di famiglia ma anche altre partecipazioni, e dato che a capo della società di famiglia può non esserci un soggetto imprenditore. Anche in questo caso, si può ritenere che la norma contenga una sineddo-che e intenda fare riferimento al patrimonio che compren-de al suo interno l’azienda di famiglia: l’individuazione dell’oggetto del contratto avverrebbe in virtù del soggetto autore del trasferimento qualora questi sia imprenditore, ma in forza dell’oggetto, quando si tratti di partecipazioni sociali, caso in cui il titolare delle azioni della società, an-corché non imprenditore, trasferisce le partecipazioni og-getto del suo patrimonio. La nozione di imprenditore po-trebbe essere intesa non in senso restrittivo e tecnico-giuridico ma nel senso, atecnico ma socialmente tipico, di soggetto titolare dell’azienda o di socio totalitario o di maggioranza delle partecipazioni (e quindi anche il titolare dell’azienda locata o concessa in usufrutto secondo: GAZ-ZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, cit., p. 220; PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di fami-glia”, cit., p. 420; essendo tali soggetti imprenditori in senso economico: CAROTA, Sulla qualità di imprenditore del disponente nel patto di famiglia, cit., p. 577) nella società di famiglia. Se disponente non può essere anche l’impren-ditore soggetto di diritto diverso dalla persona fisica, il concetto di “imprenditore” va inteso non in senso formale ma nella sostanza economica (CAROTA, Sulla qualità di imprenditore del disponente nel patto di famiglia, cit., pp. 567-572). Il soggetto disponente sarebbe qualificato in for-za della sua attività prevalente e l’interpretazione restritti-va della norma qualificherebbe il disponente come sogget-to dedito all’attività imprenditoriale e le partecipazioni come espressione dell’attività imprenditoriale esclusiva o princi-

pale del disponente. Secondo una diversa lettura, aderente alla lettera della norma, le partecipazioni non sarebbero riferibili alla sola società di famiglia ma a qualsiasi inve-stimento che il disponente (anche socio di controllo di una società per azioni: GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, cit. p. 220) intenda trasferire ai familiari. Dunque, una disciplina applicabile a qualunque imprendi-tore e ad ogni tipo di azienda (VITUCCI, Ipotesi sul patto di famiglia, cit., p. 456; contra, BALESTRA, Prime osserva-zioni sul patto di famiglia, cit., p. 381, che ritiene indispen-sabile un impegno diretto del socio all’interno della società le cui partecipazioni formano oggetto del patto). E qui l’interpretazione più o meno lata della norma si basa sulla ricostruzione delle intenzioni del legislatore e della ratio delle norma: è necessario accertare se la disciplina è stata pensata per regolare il solo fenomeno del trapasso genera-zionale delle imprese di famiglia ovvero per consentire la pianificazione di ogni tipo di ricchezza familiare. Si noti che, qualora il disponente voglia continuare a gestire l’azien-da, si riserverà l’usufrutto sulla stessa (possibile la riserva di usufrutto, anche vitalizio, in capo al disponente secondo PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., p. 420). Inoltre, al fine di mantenere il controllo o qualche forma di controllo il disponente può attuare una cessione solo parziale delle partecipazioni, restando titolare di alcu-ni poteri di governo, nella forma, ad esempio, di diritti particolari dei soci, come quello di nominare alcuni o tutti i componenti del consiglio di amministrazione. In questo ambito, non è secondario il problema della possibile utiliz-zazione elusiva che delle norme potrebbe farsi nel caso in cui un soggetto che non esercita alcuna attività imprendito-riale o che trasferisce partecipazioni non inerenti la società di famiglia, intenda col patto di famiglia sottrarsi al regime imperativo. Non è possibile, ad esempio, utilizzare il patto di famiglia per trasferire le partecipazioni che incorporano la società familiare ad oggetto esclusivamente immobiliare nella quale gli immobili sono improduttivi e non avvinti da vincolo aziendale (DELFINI, Il patto di famiglia introdotto dalla legge n. 55/2006, cit., p. 512). Elimina il rischio di un’utilizzazione abusiva delle norme chi esclude recisa-mente che le partecipazioni di mero investimento o di go-dimento possano formare oggetto del patto (ANDRINI, Il patto di famiglia: tipo contrattuale e forma negoziale, cit., p. 32).

Focus Tributario/Fiscale – Imposte dirette sul trasferimento di azienda – Testo Unico delle Imposte sui Redditi (d.P.R. 22.12.1986 n. 917, art. 58). – Imposte dirette sul trasferimento di partecipazioni – Testo Unico delle Imposte sui Redditi (d.P.R. 22.12.1986 n. 917, art. 68, co. 6). – Imposte indirette: imposta sulle successioni e sulle donazioni (d.lgs. 31.10.1990 n. 346. Esenzione per il patto di fami-glia al sussistere dei requisiti previsti all’art. 3, co. 4-ter).

Correlazioni alla Normativa tributaria − Imposta di registro (d.P.R. 26.4.1986 n. 131) Disposizioni relative a beni soggetti ad aliquote diverse, eredità e co-munioni indivise (art. 23, co. 4) Valore dei beni e dei diritti (art. 51, co. 4) Rettifica del valore degli immobili e delle aziende (art. 52). − Imposte sui redditi (d.P.R. 22.12.1986 n. 917 – Tuir) Tassazione separata (art. 17, co. 1, lett. g) Redditi diversi (art. 67) Plusvalenze patrimoniali (art. 86) Ammortamento dei beni materiali (art. 102). − Imposta sulle successioni e donazioni (d.lgs. 31.10.1990 n. 346) Trasferimenti non soggetti all’imposta (art. 3, co. 4-ter).

768 ter-768 quater Libro II – Delle successioni

768 ter Forma A pena di nullità il contratto deve essere concluso per atto pubblico.

(1) Articolo inserito dall’art. 2, co. 1, l. 14.2.2006 n. 55.

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extracodice) Rappresentanza dell’incapace (art. 320 c.c. e art. 375 c.c.) Atto pubblico (art. 2699 c.c.) Proprietà industriale (d.lgs. 10.2.2005 n. 30, artt. 68, 72) Lavoratori nel trasferimento d’azienda (l. 29.12.1990 n. 428, art. 47) Violazioni tributarie (d.lgs. 18.12.1997 n. 472, art. 14 e d.lgs. 8.6.2001 n. 231, art. 33) Conformità catastale (l. 27.2.1985 n. 52, art. 29) Urbanistica ed edilizia (l. 28.2.1985 n. 47, art. 40 e d.P.R. 6.6.2001 n. 380, artt. 30, 46, 47) Legge notarile (l. 16.2.1913, artt. 28, 47, 48, 50, 51)

SOMMARIO 1. Forma.

1. Forma – La forma richiesta è quella dell’atto pubblico, a pena di nullità, ciò che risponde all’intento, comune alla donazione, di tutela della effettività e spontaneità della vo-lontà del disponente di compiere l’atto di liberalità. La so-luzione è analoga a quella del diritto tedesco che prevede la forma dell’atto pubblico, salvo che si tratti di patto tra coniugi che rivestirà la forma delle convenzioni matrimo-niali (sul punto, CALÒ, Dal probate al family trust, Mila-no, 1996, p. 103; ritiene la forma solenne del patto coeren-te con la natura endofamiliare del contratto VOLPE, Patto di famiglia, in Comm. Schlesinger, Artt. 768 bis-768 oc-ties, Milano, 2012, p. 113). Nulla dice la legge sulla neces-sità della presenza o meno dei testimoni, ipotesi, a seguito del riformato art. 47 l. not., oggi eccezionale. La scelta di-pende dalla qualificazione causale del contratto: la ricostru-

zione in termini di causa donandi o di donazione modale richiede necessariamente il maggior formalismo, cioè la presenza di due testimoni (soluzione preferibile per FUSA-RO, I patti di famiglia, in Tratt. Ferrando, II, Torino, 2008, p. 870; ARCERI-BERNARDINI, Il regime patrimoniale della famiglia, Santarcangelo di Romagna, 2009, p. 857; esclude la natura di donazione modale sulla base del carattere ne-cessario dell’attribuzione patrimoniale a favore dei con-traenti non assegnatari che contrasta con l’accessorietà dell’onore donativo VOLPE, Patto di famiglia, cit., 2012, p. 181); diversamente, la scelta della causa divisoria rende superflua la presenza dei testimoni. (LUCCHINI-GUASTAL-LA, Gli strumenti negoziali di trasmissione della ricchezza familiare: dalla donazione si praemoriar al patto di fami-glia, in Riv. dir. civ., 2007, II, p. 40).

768 quater Partecipazione Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore. Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in par-te, avvenga in natura. I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore at-tribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti; l’assegnazione può essere disposta an-che con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti. Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione.

(1) Articolo inserito dall’art. 2, co. 1, l. 14.2.2006 n. 55.

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extra codice) Legittimari (artt. 536 ss. c.c.) Adempimento del terzo (art. 1180 c.c.) Collazione (art. 737 c.c.) Riduzione (artt. 553 ss. c.c.) Adozione (l. 4.5.1983 n. 184, art. 27)

SOMMARIO 1. I soggetti del patto e in particolare il coniuge. – 1.1. Il coniuge e la parte dell’unione civile. – 2. Assegnatari e partecipanti al patto. – 2.1. Volontaria giurisdizione. – 2.2. Nascituri. – 3. Il contenuto del patto. – 3.1. Li-

Titolo IV – Della divisione 768 quater

quidazione dei non assegnatari. – 4. Collazione e imputazione. – 4.1. Deroga al regime imperativo (Rinvio). – 5. Legittimari sopravvenuti. – 6. Assegnazione con successivo contratto.

1. I soggetti del patto e in particolare il coniuge – Quanto ai soggetti del patto: chi costruisce il contratto come trila-terale, prevede la necessaria partecipazione almeno di im-prenditore, discendenti e legittimari (GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Giust. civ., 2006, p. 219). Secondo un diverso orientamento, si tratterebbe di un contratto plurilaterale senza comunione di scopo (DEL-FINI, Il patto di famiglia introdotto dalla legge n. 55/2006, in Contratti, 2006, p. 512; BALESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, in Tratt. Alpa-Patti, Padova, 2009, p. 469), che prevede la partecipazione necessaria di tutti i legittimari (INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCININI, Il pat-to di famiglia, Torino, 2006, p. 55) anche del coniuge e di tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore (CAROTA, Il contratto con causa successoria, Padova, 2008, p. 105; BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di fami-glia, in Nuova giur. civ. comm., 2006, p. 372; IEVA, in BA-LESTRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia, in Nuove leggi civili comm., 2007, p. 48; contra, PETREL-LI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. notar., 2006, p. 430), essendo la partecipazione al contrat-to dei legittimari, anche potenziali, requisito di validità (BONILINI, Il patto di famiglia, in Tratt. Bonilini, vol. II, 2017, p. 1793; CAPOZZI, Successioni e donazioni, IV ed., a cura di Ferrucci, Ferrentino, Milano, 2015, p. 1465; BO-NAFINI, Il patto di famiglia tra diritto commerciale e dirit-to successorio, in Contratto e impresa, 2006, p. 1210; CACCAVALE, Il patto di famiglia, in Tratt. Roppo, VI, In-terferenze, Milano, 2006, p. 579). Secondo la dottrina, tale disposizione, ancorché ispirata a commendevoli esigenze di tutela, risulta poco coerente con un effettivo passaggio generazionale dell’impresa. Specialmente con riferimento al coniuge dell’imprenditore, la sua partecipazione non dovrebbe essere ritenuta indispensabile, se si considera che il coniuge che è tale al momento della conclusione del contratto, può non essere lo stesso soggetto che è coniuge al momento dell’apertura della successione. Evidente poi il conflitto tra i diversi coniugi. Essendo la finalità quella di consentire un effettivo trasferimento della ricchezza fami-liare, la necessaria partecipazione del coniuge alla reda-zione del patto apparirebbe non coerente, dato che la dero-ga al regime imperativo si ritiene giustificata sulla base del presupposto dell’avvicendamento generazionale nella ge-stione dell’impresa (contra, BONAFINI, Il patto di famiglia tra diritto commerciale e diritto successorio, inContratto e impresa, 2006, p. 1231, che segnala come la legge operi un’inversione di tendenza rispetto alla riforma del diritto di famiglia che attua un’equiparazione tra parenti in linea retta e affini). Tali motivazioni erano alla base dell’esclu-sione, nell’art. 734-bis del progetto Masi-Rescigno, cit., dal novero dei partecipanti al patto del coniuge e dalla par-tecipazione dei soli discendenti legittimari (ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle suc-cessioni future), in Dir. priv., 1998, p. 265). La scelta te-neva conto del fatto che la temporaneità del matrimonio è destinata a produrre effetti dirompenti sull’assetto indivi-duato dal disponente che necessariamente toccano la cor-relazione che esiste tra la posizione patrimoniale del co-

niuge al tempo del matrimonio e quella vantata come ere-de necessario e il rapporto problematico tra la successione necessaria e il regime patrimoniale della famiglia. La posi-zione del coniuge o del nuovo coniuge del disponente pre-senta un profilo critico rispetto a quella dei discendenti perché solo a questi, spesso, si intende devolvere il proprio patrimonio e soprattutto il governo dell’impresa (CALÒ, L’etica dell’ordine pubblico internazionale e lo spirito della successione necessaria, in Nuova giur. civ. comm., 1997, p. 171). La partecipazione si intende estesa anche al co-niuge legalmente separato ma non a quello che abbia subi-to la dichiarazione di addebito (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, in AA.VV., Il patto di famiglia, Milano, 2006, p. 279). Problematica appare la posizione del coniuge divorziato: l’attribuzione ricevuta in virtù del patto in qualità di legittimario risulta successiva-mente priva di causa e fa sorgere l’obbligo di restituzione secondo le norme sull’indebito (BALESTRA, Prime osser-vazioni sul patto di famiglia, in Nuova giur. civ. comm., 2006, p. 382). Una tesi, che qualifica il contratto come bi-laterale, ritiene parti necessarie di esso solo il disponente e il discendente-assegnatario e valuta la partecipazione del coniuge e degli altri legittimari come esterna al contratto, potendo addirittura mancare (CACCAVALE, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, Milano, 2006, p. 38). Di-versamente, sulla base del tenore letterale dell’art. 768-quater in commento, che non prevede la sanzione di nulli-tà, vi è chi ritiene non necessaria la partecipazione di tutti i legittimari prevedendo come conseguenza della man-cata partecipazione la mera inopponibilità del patto (OPPO, Pat-to di famiglia e “diritti della famiglia”, in Riv. dir. civ., 2006, p. 441; per la non opponibilità ai legittimari non parteci-panti anche GIULIANO, Diritto successorio, beni d’impresa e passaggio generazionale, in Nuova giur. civ. comm., 2016, p. 929 ss.) e il diritto ad esigere il pagamento della somma indicata all’art. 768-sexies (SICCHIERO, La causa del patto di famiglia, in Contratto e impresa, 2006, p. 1267). Secondo una differente lettura della norma, invece, la locuzione “devono partecipare” sarebbe addirittura da intendersi come impositiva di un onere in capo ai legitti-mari stessi (FEROLETO DE MARIA, La partecipazione dei legittimari al patto di famiglia, una possibile lettura dell’art. 768-quater cod. civ. ed il nuovo significato dell’in-tangibilità della legittima, in Riv. notar., 2016, p. 3 ss.). 1.1. Il coniuge e la parte dell’unione civile – La l. 20.5.2016 n. 76 ha apportato rilevanti modifiche alla di-sciplina del patto di famiglia, in particolar modo con rife-rimento all’insieme dei soggetti potenzialmente coinvolti nella disciplina dell’istituto oggetto di commento. Infatti, estendendo la disciplina successoria applicabile tra coniugi anche alle parti dell’unione civile, la nuova normativa ha provocato un ampliamento della categoria dei legittimari, fra i quali è ora da includere, al pari del coniuge, il sogget-to parte dell’unione civile (SESTA, Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2016, p. 221). Automaticamente, pertan-to, il soggetto parte dell’unione civile rientra ora tra coloro che “devono partecipare” al patto di famiglia, ai sensi dell’art. 768-quater c.c. Per fugare ogni dubbio in merito,

768 quater Libro II – Delle successioni

inoltre, il co. 21 dell’art. 1 della legge sulle unioni civili ha espressamente confermato l’applicabilità delle norme sul patto di famiglia anche alle parti dell’unione civile (cfr. an-che BALESTRA, Unioni civili e convivenze di fatto al cospet-to del “modello matrimoniale”: prime riflessioni, in Giur. it., 2016, p. 1771 ss.). La portata di tale richiamo è, poi, an-che chiarita ulteriormente dal co. 20 del medesimo art. 1, ove si afferma che, per tutte le norme codicistiche espressa-mente richiamate dalla nuova normativa, ogni termine rela-tivo al matrimonio o allo stato di coniuge, trova applicazione anche per le parti dell’unione civile. Per i motivi sopra espo-sti, pertanto, risulta chiaro che i riferimenti al coniuge ed ai legittimari compiuti dagli artt. 768-quater e 768-sexies si debbano ora intendere inclusivi anche di ciascuno dei sog-getti parte dell’unione civile. Un siffatto ampliamento del novero dei soggetti, induce a compiere una riflessione rela-tivamente al ruolo del coniuge (e, ora, anche della parte dell’unione civile) all’interno del patto di famiglia. Infatti, sin dall’introduzione dell’istituto oggetto di commento, la necessaria partecipazione del coniuge alla stipula del patto di famiglia era sembrata poco coerente con la finalità di for-nire all’imprenditore uno strumento che consentisse di rea-lizzare un effettivo passaggio generazionale nella gestione dell’impresa. Tuttavia, nell’ambito del bilanciamento degli interessi coinvolti, l’esigenza della preservazione dell’uni-tarietà dell’impresa e l’interesse dell’imprenditore a poter determinare autonomamente il destinatario della propria attività produttiva, avevano evidentemente finito per soc-combere rispetto al diritto del coniuge a ricoprire un ruolo determinante nella allocazione della ricchezza all’interno della famiglia (pur non potendo questi, peraltro, essere in alcun modo assegnatario dell’azienda); quasi come se sul-l’imprenditore gravasse un onere di condivisione della stra-tegia di pianificazione successoria con il proprio coniuge. Tale impostazione, che già aveva sollevato molte perplessità in dottrina, sembra oggi ancora meno comprensibile con riferimento alle parti dell’unione civile. Se, da un lato, infat-ti, il coinvolgimento del coniuge poteva essere giustificato dal presupposto (peraltro, non sempre valido) che questi fos-se il genitore dei soggetti tra cui l’azienda doveva essere allocata, per le unioni civili, dall’altro lato, la medesima ra-gione non può essere di certo addotta, dal momento che l’identità di sesso delle parti del patto ne esclude la fecondità (SESTA, Manuale di diritto di famiglia, cit., 2016, p. 223; SESTA, Unioni civili e convivenze: dall’unicità alla pluralità dei legami di coppia, in Giur. it., 2016, p. 1792). Nella sua attuale formulazione, pertanto, tralasciando le ipotesi di ammissione, per via giurisprudenziale, dell’adozione del fi-glio del partner omosessuale (Cass. 22.6.2016 n. 12962), la legge stabilisce che al «contratto con cui (…) l’imprenditore trasferisce (…) l’azienda (…) ad uno o più discendenti» de-bba necessariamente partecipare anche un soggetto (la parte dell’unione civile), che non può essere assegnatario dell’a-zienda e che, di norma, non dovrebbe avere alcun legame familiare con i discendenti dell’imprenditore. Tale risultato appare dunque, del tutto idiosincratico rispetto alla ratio le-gis dell’istituto e finisce con l’includere tra i partecipanti al patto, e quindi alla pianificazione della successione nell’im-presa, un soggetto, l’unito civilmente, che non condivide con l’imprenditore un presupposto fondamentale dell’istituto ed anche della natura socio-economica del fenomeno regolato, segnatamente la comune appartenenza delle generazioni fu-ture destinatarie dell’attività economica.

2. Assegnatari e partecipanti al patto – In vista della fina-lità di pianificazione della successione nel governo del-l’impresa di famiglia, l’indicazione terminologica delle norme distingue all’interno della categoria dei partecipanti o contraenti, tra assegnatari (solo i discendenti del dispo-nente) e partecipanti al patto (tutti coloro che sarebbero legittimari se al tempo della redazione del patto si aprisse la successione): la successione nell’impresa è riservata quindi ai soli discendenti. Tale lettura delle norme porta a ricostruire diversamente la categoria dei soggetti del patto distinguendo tra assegnatari, che possono essere solo i di-scendenti, figli o nipoti quando si intenda saltare una gene-razione, e meri partecipanti al patto che possono essere coniuge e fratelli. Nel caso il patto di famiglia serva a sal-tare la generazione dei figli, privi di vocazione imprendito-riale, per passare il testimone ai nipoti, a questi sarà asse-gnata l’azienda ma al contratto parteciperanno, come legit-timari non assegnatari, i genitori dei destinatari dell’azien-da. Ancora sulla categoria dei partecipanti, sulle interfe-renze di soggetti non discendenti del disponente e sull’in-cidenza del tempo sul patto, si pensi al caso in cui legitti-mari siano discendenti minorenni e quindi operi l’usufrutto degli esercenti la potestà genitoriale affidata non al di-scendente del disponente ma al coniuge di quello: questa linea di devoluzione potrebbe essere del tutto contraria alle intenzioni del disponente, ma di fatto inevitabile. Le nor-me non si occupano di questa eventualità, piuttosto fre-quente, se solo si considera il caso in cui il disponente ab-bia figli da un primo e da un secondo matrimonio e inten-da lasciare l’azienda ai primi, di età e capacità adeguate. 2.1. Volontaria giurisdizione – Il patto di famiglia sembra rilevare come atto di straordinaria amministrazione e quin-di essere soggetto al vaglio della necessità o utilità eviden-te del figlio e all’autorizzazione del giudice tutelare (CA-POZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 1464; OPPO, Patto di famiglia e “diritti della famiglia”,in Riv. dir. civ., 2006, p. 440; BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di fami-glia, cit. 2006, 383; lo conferma Trib. Reggio Emilia 19.7.2012, in Famiglia e diritto, 2013, p. 365). Non è irri-levante anche il problema del potenziale conflitto di inte-ressi tra il minore e il suo rappresentante legale, in quanto il coniuge-genitore e legittimario come partecipante al pat-to è portatore di un interesse in contrasto con quello che esprime come rappresentante del minore, ciò che imporreb-be la nomina di un curatore speciale (CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., 2015, p. 1464; contra, BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di famiglia, inNuova giur. civ. comm., 2006, p. 383, che non ritiene oggettivamente incompatibili i diversi interessi). Inoltre: essendo l’unanimità del patto ri-chiesta per la sua validità, a questo fine, risultano problema-tici sia l’accertamento degli aventi diritto sia il regime dei beni che siano stati inclusi in un contratto invalido. 2.2. Nascituri – Ancora diverso è il problema riguardante gli eventuali figli nascituri del disponente, relativamente ai qua-li la dottrina si interroga se siano da considerare quali sog-getti necessariamente partecipanti al patto ovvero legittimari sopravvenuti (in caso di successiva nascita). La dottrina pre-valente ritiene in ogni caso che il c.d. concepito debba inter-venire al patto (CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., 2015, p. 1466; per una disamina del problema si veda TESSIER, Pat-to di famiglia e nascituro, in Studium iuris, 2015, p. 21 ss.).

3. Il contenuto del patto – Quanto al contenuto attributivo

Titolo IV – Della divisione 768 quater

del patto: gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazio-ni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al con-tratto, salvo questi non vi rinuncino in tutto o in parte, col pagamento di una somma di danaro o in natura, ma co-munque per un valore pari a quello delle loro quote di le-gittima: ciò significa che la rinuncia del legittimario non assegnatario “opera sul presupposto dell’avvenuto appor-zionamento” (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, cit., 2006, p. 278). Emerge dalle norme la lettura quantitativa e non più qualitativa della quota di legittima, conforme a quanto indicato dalla giuri-sprudenza in materia di clausole di consolidazione (Cass. 16.4.1994 n. 3609; anche RIVA, Sulla possibile coesistenza tra collazione e azione di riduzione, in Giur. it., 2016, p. 1094). Il problema della rinuncia è prospetticamente legato al fatto che coloro che rinunciano al momento della con-clusione del patto possono non coincidere con i legittimari al momento dell’apertura della successione, per cui è ne-cessario prevedere che l’operatività di collazione e di ri-nuncia all’azione di riduzione sia in tutto o in parte ridotta (IEVA, Il profilo giuridico della trasmissione dell’attività imprenditoriale in funzione successoria: i limiti all’auto-nomia privata e le prospettive di riforma, in Riv. notar., 2000, p. 1346). In ogni caso, la rinuncia totale o parziale all’assetto di interessi divisato dal patto determina, in via mediata, la rinuncia totale o parziale ai diritti che il con-traente vanta come legittimario in pectore (BONAFINI, Il patto di famiglia tra diritto commerciale e diritto succes-sorio, inContratto e impresa, 2006, p. 1205, che ritiene la rinuncia alla liquidazione un patto successorio rinunciati-vo; concorde PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., 2006, p. 408). La rinuncia non ha ad ogget-to la futura successione dell’imprenditore ma la propor-zionalità tra le attribuzioni operate dal patto e le assegna-zioni e liquidazioni verso i non assegnatari (VITUCCI, Ipo-tesi sul patto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2006, p. 468). La rinuncia alla quota di liquidazione non è rinuncia alla quo-ta di legittima ma solo all’azione di riduzione (ciò che pe-raltro esclude la configurabilità di un patto successorio rinunciativo: INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCININI, Il patto di famiglia, Torino, 2006, p. 70). L’effetto della ri-nuncia determina la perdita, per i beni oggetto del patto, della qualità, anche sotto il profilo del valore, di beni del patrimonio del disponente (OBERTO, Il patto di famiglia, Padova, 2006, cit., p. 124). Anche per la rinuncia, che in-cide sul patto redatto per atto pubblico, devono essere os-servati i requisiti della forma solenne. 3.1. Liquidazione dei non assegnatari – Non scevra da problemi è la liquidazione dei familiari non assegnatari, con mezzi propri o dell’impresa: spesso i familiari non ne dispongono e fanno ricorso a fonti finanziare esterne pro-prio per liquidare i soci uscenti, ad esempio mediante l’im-piego di operazioni di leva finanziaria come il family buy-out (IUDICA, Il family buy-out come strumento di preser-vazione del valore dell’impresa nella successione mortis causa, in SCALISI (a cura di), Scienza e insegnamento del diritto civile in Italia, Milano, 2004, p. 603; ARCERI-BER-NARDINI, Il regime patrimoniale della famiglia, Santar-cangelo di Romagna, 2009, richiamando un concetto espres-so da LUCCHINI-GUASTALLA, Gli strumenti negoziali di trasmissione della ricchezza familiare: dalla donazione si praemoriar al patto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2007, II, p. 313). Le possibili letture dell’obbligo di liquidazione lo

pongono a carico del beneficiario, ma fingendo che pro-vengano dal patrimonio dell’imprenditore (PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., p. 440) ov-vero a carico dall’imprenditore (o direttamente o con mez-zi forniti all’assegnatario: BALESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, cit., p. 475), data la mancanza di dispo-nibilità del discendente, ma come liquidazione della quota di legittima determinata non post mortem ma virtualmente ante mortem ai sensi dell’art. 768-quater, co. 2: quindi, l’assegnazione ai legittimari avverrà sulla base del valore che il patto ha convenzionalmente stabilito da un lato per il bene assegnato e dall’altro per l’azienda o le partecipazio-ni trasferite (GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, cit., p. 224). Preferibile sarebbe stata la scelta di porre l’obbligo liquidatorio espressamente a carico del disponente ovvero in capo all’assegnatario, ma limitandolo ad una percentuale del valore dell’oggetto del patto (BA-LESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, cit., 2009, p. 472; BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di fami-glia, cit., p. 374). Diversamente, l’obbligo liquidatorio avrebbe potuto essere differito al tempo dell’apertura della succes-sione, condizionato alla verifica della effettiva vocazione imprenditoriale dell’assegnatario ovvero soddisfatto attra-verso la previsione della inalienabilità erga omnes del be-ne trasferito fino alla morte del disponente (BONAFINI, Il patto di famiglia tra diritto commerciale e diritto succes-sorio, inContratto e impresa, 2006, p. 1232).

4. Collazione e imputazione – I beni assegnati con lo stes-so contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’a-zienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono im-putati alle quote di legittima loro spettanti. Le norme dero-gano espressamente alla collazione e all’esperibilità dell’a-zione di riduzione: per i partecipanti al patto l’assetto pa-trimoniale “ha carattere definitivo, nel senso che impedisce di rimettere in discussione l’operazione realizzata al mo-mento dell’apertura della successione” (sull’art. 734-bis, cfr. ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), in Dir. priv., 1998, p. 264; la disattivazione di tali meccanismi è il carattere più inno-vativo della riforma secondo BALESTRA, Prime osserva-zioni sul patto di famiglia, cit., p. 375; la stabilità degli effetti del patto ne rappresenta l’essenza secondo PETREL-LI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., 2006, p. 402; il carattere definitivo dell’assetto di interessi e l’in-tangibilità del patto sono sottolineati da BALESTRA, Attivi-tà d’impresa e rapporti familiari, cit., p. 467). Si nota una fuga degli strumenti alternativi al testamento dal regime imperativo, in quanto derogatori rispetto ad esso, e in pri-mis dalle regole dell’azione di riduzione e della collazione: un ripensamento generale dell’attualità di tali regole è im-posto proprio dalla ratio della collazione che, se giustifica-ta dall’art. 737 c.c. per i figli del coniuge qui menzionato, appare del tutto inadeguata, se non addirittura assente, quan-do deve applicarsi ai figli di un secondo coniuge. Le attri-buzioni, a carico dei destinatari di azienda o partecipazio-ni, in favore dei non assegnatari sono provvisorie tacita-zioni delle loro quote di legittima: a questo servono il ri-chiamo dell’art. 768-quater alle norme degli artt. 536 ss. c.c., relative ai diritti dei legittimari, e quello al valore delle quote di legittima che permette di calcolarne il valore mone-tario al tempo della stipulazione del patto e in via definitiva. L’effetto del patto è quindi quello di congelare il valore dei

768 quinquies Libro II – Delle successioni

cespiti che ne formano oggetto impedendone una nuova de-terminazione in forza delle norme sulla collazione al tempo dell’apertura della successione (DELFINI, Il patto di famiglia introdotto dalla legge n. 55/2006, in Contratti, 2006, p. 512 ss.; aperta la successione, sono esclusi i controlli sulla con-gruità delle attribuzioni operate dal patto; la cristallizzazione dei valori di azienda e partecipazioni è coerente con la pos-sibilità di rinunciare all’azione di riduzione secondo FUSA-RO, I patti di famiglia, in Tratt. Ferrando, vol. II, Torino, 2008, p. 866). Sia il computo della legittima che l’impu-tazione alla quota indisponibile sono “relative”, nel senso che rilevano solo per la disposizione attuata col patto di famiglia e per i valori determinati nel contratto (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, cit., p. 276). Azione di riduzione e collazione sono solo relativamente precluse perché possono essere esercitate rispetto ai beni esclusi dal patto di famiglia e nei confronti dei suoi partecipanti (PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, cit., p. 452). Rispetto ai legittimari, la sistemazione è quindi anticipata ma non definitiva: il pa-trimonio dell’imprenditore può, infatti, essere mutato tra il momento della stipulazione del patto e quello dell’apertura della successione e comportare una rideterminazione delle quote (BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di fami-glia, cit., p. 376). 4.1. Deroga al regime imperativo (Rinvio) – Si veda quanto detto sub art. 768-bis.

5. Legittimari sopravvenuti – v. sub art. 768-sexies.

6. Assegnazione con successivo contratto – Il co. 3 del-l’art. 768-quater c.c. prevede espressamente che «l’asse-gnazione può essere disposta anche con successivo con-tratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno par-tecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostitui-ti». I requisiti del successivo contratto, in direzione di una tutela rafforzata della volontà del disponente e dei diritti dei partecipanti, indicano la necessità di tutti gli elementi sostanziali, la partecipazione delle parti originarie o di chi ad esse è subentrato, e formali, la forma solenne, previsti per il contratto originario oltre alla expressio causae che richiede la menzione specifica dell’accordo originario al-l’interno del nuovo contratto (CAPOZZI, Successioni e do-nazioni, cit., 2015, p. 1480). Dal punto di vista sistematico, è bene notare che le norme identificano un caso di colle-gamento contrattuale (INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCI-NINI, Il patto di famiglia, Torino, 2006, p. 58) tipico, per-ché legislativamente indicato ed unilateralele(BONAFINI, Il patto di famiglia tra diritto commerciale e diritto succes-sorio, cit., p. 1240), che comporta la propagazione delle vicende del contratto originario a quello successivo, e che la mancata enunciazione nel successivo patto di famiglia della causa ne provoca la nullità, non essendo possibile dare la prova aliunde della causa dell’atto traslativo.

Correlazioni alla Normativa tributaria – Imposta sulle successioni e donazioni (d.lgs.31.10.1990 n. 346) Oggetto dell’imposta (art. 1, co.1) Trasferimenti non soggetti all’imposta (art. 3, co. 4-ter) Base imponibile (art.8, co.4) Riduzioni dell’imposta (art. 25) Contenu-to della dichiarazione (art. 29, co.1, lett. f) Determinazione dell’imposta (art. 56)

768 quinquies Vizi del consenso Il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427 e seguenti. L’azione si prescrive nel termine di un anno.

(1) Articolo inserito dall’art. 2, co. 1, l. 14.2.2006 n. 55.

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extracodice) Legittimari (artt. 1427 ss.)

SOMMARIO 1. Vizi del consenso e impugnazione. – 2. Termine di prescrizione e decorrenza dello stesso. – 3. Altri rimedi. – 4. Legittimari attivi. – 4.1. Legittimari non partecipanti. – 5. Conciliazione obbligatoria.

1. Vizi del consenso e impugnazione – A norma dell’ar-ticolo in commento, il patto può essere impugnato dai par-tecipanti per errore (di fatto, cioè sul valore di azienda, partecipazioni e liquidazioni, o di diritto, cioè sulla titolari-tà di azione di riduzione e collazione, sugli effetti della ri-nuncia, e su tutte le altre ipotesi formulate dall’art. 1429 c.c.: SICCHIERO, DELLE MONACHE, in BALESTRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, cit., sub art. 768-quinquies, 2006, p. 64; la norma ha il va-lore precettivo autonomo di escludere l’applicazione della disciplina speciale sui vizi nel contratto di divisione richia-

mata dall’analogo intento empirico perseguito dal disponen-te: DELFINI, in AA.VV., Il patto di famiglia, Milano, 2006, p. 33), violenza (che si identifica con le normali ipotesi di minaccia (DELFINI, in AA.VV., Il patto di famiglia, cit., p. 74) e dolo (le cui ipotesi coincidono con quelle ricorrenti in materia di errore; DELFINI, in AA.VV., Il patto di fami-glia, cit., p. 76). Il patto può anche essere impugnato per incapacità legale a seguito di sentenza di interdizione, ina-bilitazione o del decreto di nomina dell’amministratore di sostegno (DELFINI, in AA.VV., Il patto di famiglia, cit., p. 77).

Titolo IV – Della divisione 768 sexies

2. Termine di prescrizione e decorrenza dello stesso – La relativa azione si prescrive in un anno: il dies a quo, non indicato dalla norma, deve intendersi quello della cessa-zione della violenza, della scoperta dell’errore o del dolo.

3. Altri rimedi – Sono inoltre esperibili tutti i rimedi legati a difetti genetici del contratto (nullità e annullabilità) con possibilità di conversione del contratto, nullo come patto di famiglia, in donazione se ne ricorrono i requisiti formali e di convalida dello stesso. Allo stesso modo, possono es-sere attivati i rimedi risolutori rispetto ai quali le parti po-tranno inserire termini essenziali, clausole risolutive e-spresse, penali per l’inadempimento o anche diritti di re-cesso a favore di taluni dei partecipanti (CAPOZZI, Succes-sioni e donazioni, IV ed., a cura di Ferrucci, Ferrentino, Milano, 2015, p. 1493; OBERTO, Il patto di famiglia, Pa-dova, 2006, p. 133 ss.).

4. Legittimari attivi – Ciascun contraente vittima del vizio può agire per l’annullamento, mentre l’impugnazione da parte dei legittimari determina la caducazione degli effetti del patto che li riguardano o la loro rideterminazione giu-diziale, ma non l’annullamento dell’intero contratto (SIC-CHIERO, DELLE MONACHE, in BALESTRA, DELLE MONA-CHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, cit., sub art. 768-quinquies, p. 78). La mancanza di elementi, sog-gettivi e oggettivi, costitutivi della fattispecie (partecipa-zione al patto di un soggetto non legittimario o inclusione nell’oggetto del patto di beni non imprenditoriali), non ne

determina la nullità: qualora l’atto di liberalità, improdut-tivo di effetti anticipatori della successione, ne presenti i requisiti forma e di sostanza, esso varrà come donazione (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, in AA.VV., Il patto di famiglia, Milano, 2006, p. 279). 4.1. Legittimari non partecipanti – Tra i legittimati a chiedere l’annullamento del patto, a norma dell’art. 768-sexies, co. 2, c.c., figurano anche il coniuge e gli altri legit-timari che non abbiano partecipato al contratto qualora, al momento dell’apertura della successione dell’imprendito-re, non abbiano ricevuto quanto di loro spettanza ai sensi dell’art. 768-sexies c.c. L’articolo menzionato, infatti, sta-bilisce che tali soggetti possano domandare al discendente assegnatario il pagamento della somma prevista all’art. 768-quater c.c. (corrispondente al valore delle quote pre-viste agli artt. 536 ss.), aumentata degli interessi legali.

5. Conciliazione obbligatoria – Ai sensi dell’art. 768-octies c.c., le relative controversie sono devolute preliminarmen-te a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’art. 38 d.lgs. 17.1.2003 n. 5. Si tratterebbe di una forma di conci-liazione obbligatoria. (INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCI-NINI, Il patto di famiglia, Torino, 2006, p. 264; PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. notar., 2006, 465; FERRARI, Il patto di famiglia, a cura di DO-GLIOTTI, Milano, 2012, p. 325; contra, OBERTO, Il patto di famiglia, cit., p. 136, che la ritiene facoltativa), stragiudi-ziale e devoluta ad un organismo predeterminato.

768 sexies Rapporti con i terzi All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali. L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies.

(1) Articolo inserito dall’art. 2, co. 1, l. 14.2.2006 n. 55.

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extracodice) Liquidazione non assegnatari (art. 768-quater c.c.) Impugnazione (art. 768-quinquies c.c.)

SOMMARIO 1. I soggetti terzi e gli effetti del patto. – 1.1. Determinazione della quota. – 1.2. Rapporti con i creditori. – 2. Inosservanza delle disposizioni.

1. I soggetti terzi e gli effetti del patto – Quanto al rappor-to con i terzi, si prevede che all’apertura della successione dell’imprenditore il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai bene-ficiari del contratto stesso il pagamento della somma che corrisponde alla loro quota di legittima, aumentata degli interessi legali (BONILINI, Il patto di famiglia, in Tratt. Bonilini, vol. II, Torino, 2016, p. 1801 ss.; TRIMARCHI, Il patto di famiglia, in Successioni e donazioni, diretto da Iaccarino, Torino, 2017, p. 1943; VOLPE, Patto di fami-glia, in Comm. Schlesinger, Art. 768-octies, Milano, 2012,

p. 318 ss.; IEVA, Il patto di famiglia, in Tratt. Rescigno, coordinato da Ieva, II, Padova, 2010, p. 344; BALESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, in Tratt. Alpa-Patti, II, Padova, 2009, p. 497). La norma deroga all’ef-fetto reale tipico dell’azione di riduzione e sottrae la pat-tuizione in caso di sopravvenienza di ulteriori legittimari al regime della revoca dell’atto di liberalità per sopravve-nienza di figli, come richiederebbe l’applicazione analogi-ca dell’art. 803 c.c. (DE NOVA, DELFINI, Del patto di fami-glia, in Comm. Gabrielli, Delle successioni, a cura di Cuf-faro, Delfini, III, Torino, 2010, sub artt. 713-768-octies, p.

768 sexies Libro II – Delle successioni

378; ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), in Dir. priv., 1998, p. 264). La dottrina si esprime in favore dell’efficacia solo obbliga-toria dell’azione di riduzione, incapace quindi di incidere sull’attribuzione dei beni; dalla quale l’ordinamento deriva efficienza e certezza nella circolazione dei beni: tale op-zione peraltro, avrebbe solo elevato a regola generale una disposizione particolare già conosciuta dal nostro ordina-mento che così regola alcuni trasferimenti fondiari attri-buendo ai coeredi esclusi solo una pretesa obbligatoria: ta-le interpretazione dell’azione di riduzione è l’esito auspi-cabile di tutte le disposizioni lesive della legittima (ZOPPI-NI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), in Dir. priv., 1998, p. 265). In questo senso depone anche l’art. 563 c.c. riformato (v. supra, sub art. 563 c.c.) che limita la possibilità di agire in restituzio-ne da parte del legittimario, contro i terzi aventi causa dal donatario di beni mobili e immobili entro venti anni dalla trascrizione della donazione. Dunque, il diritto del legitti-mario, partecipante o meno, si può convertire, “almeno per il valore della quota di beni non acquisita col patto” di fa-miglia, in diritto di credito, quantificato in base ai valori stimati al tempo del patto (FUSARO, I patti di famiglia, in Tratt. Ferrando, II, Torino, 2008, p. 863), verso gli asse-gnatari o verso i beneficiari del patto ai quali non si appli-cano, rispetto ai beni oggetto del patto, le norme su colla-zione e riduzione (OPPO, Patto di famiglia e “diritti della famiglia”, in Riv. dir. civ., 2006, p. 441). Quanto alla posi-zione dei legittimari sopravvenuti, sarebbe stato utile pre-vedere un meccanismo di rivalutazione automatica in os-sequio ad esigenze di equità che tengano conto quanto più possibile della situazione effettivamente presente all’aper-tura della successione evitando di liquidare alcuni diritti che non sarebbero mai sorti o di ridurre la valutazione di altri diritti: è il caso in cui, mantenendo il disponente la gestione dell’azienda mediante l’usufrutto ne accresca o deprima il valore e trasferisca quindi all’assegnatario un bene di valore superiore o inferiore rispetto a quanto liqui-dato agli altri beneficiari. Di certo tale esigenza di equità confligge con quella di stabilità delle attribuzioni ai bene-ficiari conseguita con la disattivazione di collazione e ri-duzione (IEVA, Il trasferimento dei beni produttivi in fun-zione successoria: patto di famiglia e patto di impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successo-ri, in Riv. notar., 1997, p. 1381). L’art. 768-sexies c.c. è stato interpretato nel senso di attribuire tutela ai soli legit-timari esistenti al tempo del patto ma che ad esso non han-no partecipato, non potendo le decisioni relative al valore in esso assunte, vincolare soggetti estranei al patto in virtù del principio dell’art. 1372 c.c. (SICCHIERO, DELLE MO-NACHE, in BALESTRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario, cit., sub art. 768-quin-quies, p. 82; ZANELLI, La riserva “pretermessa” nei patti di famiglia, in Contratto e impresa, p. 899, che ritiene il patto inopponibile ai legittimari ignoti). Il diritto dei legit-timari sopravvenuti al pagamento della somma, aumentata degli interessi, da parte dei beneficiari del contratto lo con-noterebbe come contratto a favore di terzi e quindi come ipotesi derogatoria della regola sancita all’art. 1372 c.c. e per giunta con effetti peggiorativi per i terzi: ma si nega che il patto possa essere concluso solo tra disponente e beneficiario escludendo i partecipanti non assegnatari (IE-VA, in BALESTRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di

famiglia, in Nuove leggi civili comm., 2007, p. 51). 1.1. Determinazione della quota – Come già accennato al paragrafo precedente, appare problematico identificare la base di calcolo per la determinazione della quota da desti-nare ai legittimari sopravvenuti: il valore dell’azienda, la sua consistenza patrimoniale al tempo della redazione del patto non sono infatti valori immutabili ed oggettivi (dato che l’azienda donata anni prima può aver mutato valore; sul punto, CHECCHINI, Divieto dei patti successori ed at-tualità degli interessi tutelati, Milano, 2006, p. 299), ma soggetti a diversi criteri, giuridici e aziendalistici, di valu-tazione che possono dare origine a contrasti. Si pensi, ad esempio, al valore che le partecipazioni sociali assumono quando attributive del controllo: questo rileva come quali-tà dei beni che si riflette in sede di stima degli stessi (ZOP-PINI, Le “nuove proprietà” nella trasmissione ereditaria della ricchezza (note a margine di una teoria dei beni), cit., 2000, p. 226) tanto da permettere, in caso di patto pa-rasociale che trasferisca un premio di controllo eccedente la disponibile, ai legittimari pretermessi di esperire l’azio-ne di riduzione (LAMANDINI, La trasmissione della ric-chezza familiare: i patti parasociali, in Contratto e impre-sa, 2004, p. 290). Il problema potrebbe risolversi con la previsione, contestuale al patto, di una valutazione dell’a-zienda o delle partecipazioni di un esperto: la perizia ridur-rebbe così le potenziali controversie, dando certezza all’in-tera operazione. 1.2. Rapporti con i creditori – Nella norma in commento, nessuna menzione è fatta dei creditori: per i creditori del disponente-imprenditore è bene sottolineare che si tratta di un atto gratuito e come tale soggetto all’azione revocatoria ordinaria e fallimentare, mentre per il destinatario si tratta di atto oneroso in quanto egli deve liquidare la quota di legittima ai legittimari attuali. È discussa infine l’appli-cabilità al patto di famiglia della recente norma sull’espro-priazione di cui all’art. 2929-bis, ma si propende decisa-mente per la tesi positiva (M. BIANCA, Il nuovo art. 2929-bis del codice civile. Riflessioni sparse sulla tutela dei creditori contro atti abusivi, in Riv. dir. civ., IV, 2016, p. 1135). La duplice natura, gratuita e onerosa del patto di famiglia (ritiene vi sia donazione da parte del disponente nei confronti dell’assegnatario ZANELLI, La riserva “pre-termessa” nei patti di famiglia, in Contratto e impresa, p. 896), presenta aspetti di problematicità (IEVA, I fenomeni a rilevanza successoria, Napoli, 2001, p. 184). Rispetto alla responsabilità per debiti ereditari, valgono le seguenti considerazioni: il diritto di credito del legittimario soprav-venuto è insensibile ai debiti ereditari e la tutela dei credi-tori rispetto a tali debiti è affidata all’azione revocatoria (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, in AA.VV., Il patto di famiglia, Milano, 2006, p. 279).

2. Inosservanza delle disposizioni – L’inosservanza delle disposizioni relative alla compensazione in danaro dei le-gittimari costituisce motivo di impugnazione secondo il regime di invalidità previsto all’art. 768-quinquies. Dal punto di vista sistematico, rispetto ai rimedi codicistici, tale soluzione apporta una serie di novità: intanto, l’annul-labilità opera in presenza dell’inadempimento dell’obbli-gazione di liquidazione; poi, l’impugnazione del contratto, diversa dalla nullità, è concessa ad un soggetto che ne è estraneo. Dunque, l’annullabilità appare rimedio esperibile

Titolo IV – Della divisione 768 septies

da un soggetto estraneo al rapporto e ha evidente effetto sanzionatorio. Il pagamento non effettuato ai legittimari opera come elemento di invalidità sopravvenuta del con-tratto. Il rinvio all’art. 768-quinquies può avere due risulta-ti: permettere l’impugnazione del contratto da parte dei le-gittimari pretermessi per vizi della volontà o causare l’an-nullamento dello stesso per inadempimento dell’obbligo di pagamento. Pertanto, il richiamo alla disciplina dei vizi del consenso varrebbe solo per i partecipanti che hanno e-spresso una volontà, non potrebbe valere per il consenso di un soggetto estraneo al contratto che sarebbe dunque del tutto irrilevante. Il rinvio opera solo per la disciplina del-l’azione che si prescrive in un anno e fa salvi in alcuni casi diritti dei terzi di buona fede (SICCHIERO, La causa del patto di famiglia, in Contratto e impresa, 2006, p. 1287; contra, CAROTA, Il contratto con causa successoria, Pa-dova, 2008, p. 117, che ritiene l’inosservanza non sia ina-dempimento ma mancata formazione della fattispecie lega-le che impedisce al contratto di concludersi regolarmente). Tuttavia, l’aporia del sistema sarebbe giustificata dalla necessità di apprestare un rimedio per i legittimari soprav-venuti che, estranei al patto, a fronte dell’inadempimento dell’obbligo di liquidazione, non possono agire per la riso-luzione (GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Giust. civ., 2006, p. 227; l’annullabilità è ri-medio più elastico e coerente con l’interesse dei parteci-panti che nulla ha a che vedere con il tema della sopravve-nienza, poiché qui manca un contratto di durata, ma che dà ai partecipanti pregiudicati la possibilità di rimettere in discussione quanto pattuito: CHECCHINI, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati, Milano, 2006, p. 300). In ogni caso, l’attribuzione del diritto di impugna-zione ai soli legittimari non partecipanti creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento. Evidenti appaiono i problemi sollevati dall’intervento, spesso a distanza di an-ni dalla stipulazione del patto, di una sentenza di annulla-mento che origina complicati effetti restitutori (BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di famiglia, Nuova giur. civ. comm., 2006, p. 384). Peraltro, la natura divisoria dell’ope-razione avrebbe dovuto indurre il legislatore a prevedere il rimedio della rescissione per lesione di cui all’art. 763 c.c.: nel caso di inadempimento dell’obbligo di liquidazione, sarà invece sempre esperibile il rimedio generale della ri-soluzione (GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di

famiglia, in Giust. civ., 2006, p. 227). Il rapporto proble-matico con le sopravvenienze e la problematicità dei rime-di contro l’inesecuzione di disposizioni del patto alimenta-no un alto tasso di litigiosità, come rileva l’analisi compa-ratistica. Nei sistemi che utilizzano i contratti per regolare la successione, non solo la litigiosità non è da questi miti-gata, ma si determina comunque un risultato inefficiente dovuto all’incertezza che nasce soprattutto in caso di ine-secuzione del patto e dalla difficoltà di rinvenire rimedi adeguati. Non è chiaro come debba essere distribuita la compensazione tra i diversi obbligati e su chi debba grava-re l’eventuale insolvenza di un obbligato. Una soluzione deriva dalla considerazione per cui poiché i beneficiari del contratto sono anche i legittimari già soddisfatti, i legitti-mari non partecipanti al patto possono chiedere il paga-mento della loro quota anche ai legittimari non assegnatari dell’azienda, obbligati in solido (DEL PRATO, Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospettive di rifor-ma, in Riv not., 2001, p. 637). Infatti, i beneficiari, nell’a-dempimento dell’obbligo liquidatorio, sono legati dal vin-colo di solidarietà, secondo la regola dell’art. 1294 c.c. (GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Giust. civ., 2006, p. 222; FUSARO, I patti di famiglia, in Tratt. Ferrando, II, Torino, 2008, p. 879). Il punto è di grande rilievo, come dimostra l’indagine comparatistica che rivela che i limiti più rilevanti dei contratti successori sono legati all’incertezza creata dalla inesecuzione del pat-to e alla difficoltà di rinvenire rimedi adeguati. L’esperien-za americana evidenzia un sostanziale fallimento dei con-tratti ereditari che accrescono la litigiosità tra familiari e favorisce l’impiego del trust per la migliore gestione di tali situazioni (LUPOI, Trusts e successione mortis causa, in Jus, 1996, p. 280). Più che un sistema rimediale fondato sull’invalidità del patto che ha l’effetto di generare incer-tezza negli stessi partecipanti, nei terzi, sulla circolazione dei beni trasferiti e comunque di provocare nell’impresa e nella famiglia oggettive difficoltà di gestione, potrebbero essere previsti rimedi che preservano la stabilità della re-golamentazione: ad esempio, la previsione dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di liquidare gli eredi, o sanzioni alternative o concorrenti che incidono non sul piano degli effetti del patto, ma sul piano pecuniario o sul sistema di vantaggi che il patto direttamente o indiretta-mente attribuisce.

768 septies Scioglimento Il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso i patto di famiglia nei modi seguenti: 1) mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo; 2) mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiara-zione agli altri contraenti certificata da un notaio.

(1) Articolo inserito dall’art. 2, co. 1, l. 14.2.2006 n. 55.

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extracodice) Recesso unilaterale (art. 1373) Atto pubblico (art. 2699 c.c.)

768 septies Libro II – Delle successioni

SOMMARIO 1. Effetti del patto: scioglimento e modifica. – 2. Recesso.

1. Effetti del patto: scioglimento e modifica – L’incidenza della sopravvenienza è regolata dalla legge con la previ-sione secondo la quale il contratto può essere sciolto o modificato dagli stessi contraenti che hanno concluso il patto di famiglia, quindi per mutuo dissenso (BONILINI, Il patto di famiglia, in Tratt. Bonilini, vol. II, Torino, 2016, p. 1813. La possibilità di risolvere il patto per mutuo dis-senso conferma la natura di atto inter vivos del patto che, a differenza dell’atto a causa di morte, sempre revocabile, può essere sciolto solo in presenza di una volontà uguale e contraria di tutti i contraenti o per le altre cause previste della legge, cfr. VENDITTI, in AA.VV., Il patto di famiglia, Milano, 2006, p. 54) o, unilateralmente, mediante recesso se espressamente previsto nel contratto stesso attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio: sia il recesso che il mutuo dissenso trovano ostacoli non facilmente superabili nell’operatività stessa del recesso che può essere esercitato “finché il contratto non ha abbia un principio di esecuzione” (art. 1373 c.c.) e nella negazione da parte di dottrina e giurisprudenza della possibilità di risolvere con effetti ex tunc un contratto ad effetti reali che abbia esaurito i suoi effetti (IEVA, in BALESTRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia, in Nuove leggi civili comm., 2007, p. 49; contra, OBERTO, Il patto di fa-miglia, Padova, 2006, p. 130, per il quale il mutuo dissen-so determina il ritrasferimento di azienda e partecipazioni nel patrimonio del disponente e restituzione delle liquida-zioni ricevute dai non assegnatari). Secondo una dottrina, lo scioglimento e la possibilità di modificare il patto devo-no essere limitati ai soli soggetti necessari del patto cioè disponente e discendenti assegnatari (MAGGIOLO, in BA-LESTRA, DELLE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia, in Nuove leggi civili comm., 2007, p. 95).

2. Recesso – Quanto al recesso: la limitazione della previ-sione nel contratto sembra dover operare solo per il reces-so ad nutum, mentre si deve ritenere che il recesso sia sempre consentito per il disponente in presenza di giusta causa (BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di fami-glia, in Nuova giur. civ. comm., 2006, p. 384) in forza del-l’analogia rispetto alle norme dettate in materia di revoca della donazione per ingratitudine (DEL PRATO, Sistemazio-ni contrattuali in funzione successoria: prospettive di ri-forma, in Riv. notar., 2001, p. 637) che opera sulla base di fatti analoghi a quelli che integrano cause di indegnità a succedere (GALGANO, Trattato di diritto civile, II ed., I, Padova, 2010, p. 788). La giusta causa, legata al mutamen-to delle condizioni del soggetto o dell’azienda potrebbe concedere al disponente un eccezionale potere di recesso dal contratto (RESCIGNO, Autonomia privata e limiti inde-rogabili nel diritto familiare e successorio, in Familia, 2004, p. 452; assai rilevanti, ma ignorate dal legislatore, sono le cause che determinano il recesso o la risoluzione mentre è essenziale per il problema della durata del patto di famiglia, la realizzazione dell’interesse comune dei con-traenti, cioè l’esistenza futura dell’impresa: PALAZZO, Il patto di famiglia tra tradizione e rinnovamento del diritto privato, in Riv. dir. civ., 2006, p. 264). La soluzione della facoltà di recesso, inserita convenzionalmente dalle parti, e

della possibilità di recedere sempre in caso di ingratitudine è confermata dalla soluzione dal contratto successorio di diritto tedesco. Analoga previsione nella institution con-tractuelle francese che se stipulata dai coniugi al di fuori del contrat de mariage è sempre revocabile ad nutum (sul punto, diffusamente, CALÒ, Dal probate al family trust, Milano, 1996, p. 103 ss.). Si noti però che l’ampio potere di recesso del disponente, da un lato, compromette l’agilità di un contratto che regola gli interessi post mortem, dal-l’altro, è lesivo dell’affidamento dei terzi (BONILINI, Le successioni mortis causa e la civilistica italiana. La suc-cessione testamentaria, in Nuova giur. civ. comm., 1997, p. 226; ritiene la lacunosa disciplina del recesso incoerente con gli obiettivi di garanzia di stabilità dell’attività d’im-presa VOLPE, Patto di famiglia, in Comm. Schlesinger, Artt. 768 bis-768 octies, Milano, 2012, p. 383, che sugge-risce di adattare la disciplina del recesso alle finalità divi-sate dalle parti del patto). Il recesso sarebbe atto collettivo di tutti i contraenti, esercitabile non oltre l’apertura della successione, e soggetto a una serie di vicende patrimoniali (aumento o decremento del valore aziendale) e personali (conflittualità tra familiari), che dovrebbero portare il no-taio al rifiuto di stipulare l’atto se il recesso è attributo a ciascuna delle parti (GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Giust. civ., 2006, p. 226). Un recesso così generalizzato infatti, priva di fatto il patto della sua stessa funzione di stabilizzazione dell’assetto proprietario e di governo dell’azienda (DELFINI, Il patto di famiglia in-trodotto dalla legge n. 55/2006, in Contratti, 2006, p. 514; incoerente rispetto all’ipotesi tipica del patto, segnatamen-te con effetti immediati, secondo IEVA, Patto di famiglia, in Enc. dir., Annali, VI, Milano, 2013, p. 648). Il rimedio dovrebbe quindi essere limitato all’imprenditore o solo ad alcune delle parti, in caso contrario essendo negata la stes-sa vincolatività del patto (VITUCCI, Ipotesi sul patto di fa-miglia, in Riv. dir. civ., 2006, p. 459). Meglio sarebbe stato sottoporre il patto a condizione potestativa risolutiva come il raggiungimento di risultati di gestione da parte del di-scendente (INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCININI, Il patto di famiglia, Torino, 2006, p. 257; sottolinea FUSARO, I patti di famiglia, in Tratt. Ferrando, II, Torino, 2008, p. 884, co-me rispetto ai beni immobili il recesso si traduca in una condizione risolutiva alla quale si può dare evidenza nei registri immobiliari). Secondo una tesi, il recesso ad nu-tum, concesso a ogni partecipante al patto, determinerebbe la modifica del patto e non il suo scioglimento quando es-so è esercitato da una parte non necessaria del patto stesso che si assume bilaterale (MAGGIOLO, in BALESTRA, DEL-LE MONACHE (a cura di), Il patto di famiglia, in Nuove leggi civili comm., 2007, p. 98). Diversamente, si ritiene che il recesso esercitato dal disponente o dagli assegnatari determini lo scioglimento del contratto mentre, se esercita-to dagli altri legittimari, comporti solo l’obbligo restituto-rio e la mancata produzione degli effetti del patto nei loro confronti (OBERTO, Il patto di famiglia, Padova, 2006, p. 131 s.). Comunque, il recesso del legittimario non deter-mina accrescimento della quota in favore degli altri legit-timari partecipanti al patto, dato che le quote di legittima vengono determinate tenendo conto anche dei legittimari

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non partecipanti (PETRELLI, La nuova disciplina del “pat-to di famiglia”, in Riv. notar., 2006, p. 464). Il termine ul-timo per l’esercizio del recesso è, presumibilmente, la morte del disponente e gli effetti che esso produce sono di carat-tere reale, retroattivi e opponibili ai terzi; inoltre, è anche possibile che nel patto si preveda che il recesso caduchi i soli effetti derogatori del regime successorio imperativo del patto (collazione e riduzione) ma non incida su attribu-zioni e donazioni (PENE VIDARI, Scioglimento, recesso e patologia del patto di famiglia, in AA.VV., Patti di fami-glia per l’impresa, cit., 2006, p. 263 s.). Le norme sulla revoca per ingratitudine, poste a tutela della libertà del di-sponente, risultano applicabili per analogia anche al patto di famiglia come a qualsiasi convenzione con effetti anti-cipatori della successione ereditaria, ponendosi come rego-le materiali del diritto delle successioni che risultano e-stensibili a tutti “gli strumenti negoziali che consentono un’attribuzione parasuccessoria” (ZOPPINI, Contributo allo studio delle disposizioni testamentarie “in forma indiret-ta”, in Studi in onore di Pietro Rescigno, II. Diritto priva-to, Milano, 1998, p. 949; la qualificazione come liberalità atipica o indiretta comporta l’estensione al patto di fami-glia delle sole norme relative a tali liberalità e non dell’in-tera disciplina successoria, secondo CAROTA, Il contratto con causa successoria, Padova, 2008, p. 153; per l’inap-plicabilità della revoca al patto di famiglia si veda invece CAPOZZI, Successioni e donazioni, IV ed., a cura di Fer-rucci, Ferrentino, Milano, 2015, p. 1495) come le norme sull’indegnità a succedere o quelle sull’incapacità di tutore

e protutore (ZOPPINI, L’emersione della categoria della successione anticipata, in AA.VV., Il patto di famiglia, Milano, 2006, p. 279). Tale soluzione risulta coerente con quanto stabilito dalla giurisprudenza sulle pattuizioni che determinano effetti anticipatori della successione ritenute nulle dalla Cassazione, in quanto contratti mediante i quali il promittente intende provvedere in tutto o in parte alla propria successione privandosi dello ius poenitendi (Cass. 22.7.1971 n. 2404; Cass. 16.2.1995 n. 1683). Non risulta invece applicabile la disciplina della revoca delle liberalità per sopravvenienza di figli (in relazione all’art. 734-bis, cfr.: ZOPPINI, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), in Dir. priv., 1998, p. 264) dato che è espressamente previsto che all’apertura della successione gli aderenti al patto liquidino anche i legitti-mari sopravvenuti. Infine, sulla forma del recesso: essendo la forma dell’atto pubblico prevista per il contratto, la stes-sa forma deve rivestire il recesso che ne determina lo scio-glimento unilaterale: se il contratto dal quale si recede ri-chiede la forma scritta ai fini della validità, anche la di-chiarazione di recesso deve assumere questa forma (GAL-GANO, op. cit., 2010, p. 487; MAGGIOLO, op. cit., 2007, p. 100). Deve trattarsi quindi, di un atto pubblico recettizio (PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. notar., 2006, p. 464). L’espressione “dichiarazione cer-tificata” può però essere interpretata anche nel senso di prescrivere la mera dichiarazione autenticata (INZITARI, DAGNA, FERRARI, PICCININI, Il patto di famiglia, Torino, 2006, p. 258).

768 octies Controversie Le controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’articolo 38 del decreto legislativo 17.1.2003 n. 5

(1) Articolo inserito dall’art. 2, co. 1, l. 14.2.2006 n. 55.

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extracodice) Conciliazione e mediazione (d.lgs. 4.3.2010 n. 28 – d.m. 18.10.2010 n. 180)

SOMMARIO 1. Conciliazione obbligatoria (rinvio).

1. Conciliazione obbligatoria (rinvio) – V. sub art. 768-quinquies, par. 5.

834 Espropriazione per pubblico interesse Nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di una giusta indennità. Le norme relative all’espropriazione per causa di pubblico interesse sono determinate da leggi speciali.

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extracodice) Sulle espropriazioni per pubblica utilità (art. 42, co. 3, Cost. – d.P.R. 8.6.2001 n. 327, T.U. espropriazione – prima dell’entrata in vigore del T.U.: l. 25.6.1865 n. 2359) Sull’espropriazione di beni culturali e del paesaggio (artt. 95-100, d.lgs. 22.1.2004 n. 42 e ss. mm.) Sulla funzione sociale della proprietà (artt. 42-43 Cost.) Sulla proprietà europea

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(art. 17, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Nizza, 7.12.2000 – art. 1, Primo protocollo addizionale alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali “CEDU”, Parigi, 20.3.1952, ratificato ed eseguito in Italia con l. 4.8.1955 n. 848)

SOMMARIO 1. Disciplina attuale. – 2. Nozione di espropriazione. – 3. Il procedimento espropriativo. – 3.1. Occupazione d’urgenza. – 3.2. Occupazione temporanea. – 3.3. Retrocessione. – 4. L’indennizzo. – 5. Occupazione sine ti-tulo. – 5.1. Acquisizione sanante. – 6. Riparto di giurisdizione.

1. Disciplina attuale – L’espropriazione per pubblica utili-tà rientra tra i limiti al diritto di proprietà, posti dalla legge, nell’interesse pubblico (DI GREGORIO, Quadro si-stematico, in GAMBARO, MORELLO, Trattato dei diritti reali. Proprietà e possesso, I, Milano, 2008, p. 491). L’art. 834 si limita ad enunciare i principi cardine del procedi-mento ablatorio, rinviando alla legislazione speciale per la relativa disciplina, oggi contenuta nel d.P.R. 8.6.2001 n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamen-tari in materia di espropriazione per pubblica utilità). Con l’entrata in vigore della Costituzione, la fonte dei principi che governano la materia delle espropriazioni va individuata nell’art. 42, co. 3, Cost., che rappresenta il fon-damento costituzionale dell’art. 834 c.c. (COVIELLO, Con-tributo allo studio dell’espropriazione per motivi di inte-resse generale, in Cons. Stato 1984, II, p. 329; GAMBARO, sub art. 834, in Comm. Cendon, Milano, 2009, p. 339). La norma costituzionale, con una formulazione parzialmente diversa rispetto all’art. 834 c.c. (si utilizza la locuzione “interesse generale”, anziché “interesse pubblico” e viene eliminato l’aggettivo “giusto” con riferimento all’inden-nizzo, considerandolo implicito nel concetto di indennizzo stesso), dispone che l’espropriazione è subordinata al rispet-to della riserva di legge, nel senso che è possibile proce-dervi solo nei casi previsti dalla legge e in conformità alle procedure determinate dalla legge (c.d. principio di legali-tà), alla sussistenza di motivi di interesse generale ed alla corresponsione di un indennizzo che compensi il privato del sacrificio subito nell’interesse della collettività. La ri-serva di legge, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, ha natura relativa e non assoluta, per cui, definiti con legge ordinaria gli elementi e i criteri ido-nei a delimitare la discrezionalità della p.a., il legislatore può attribuire alla p.a. il potere di incidere sulla concreta disciplina del godimento degli immobili, trattandosi di esercizio di “discrezionalità tecnica” (C. cost., 4.7.1974 n. 202; C. cost., 11.5.1971 n. 94). Alla luce di ciò, il d.P.R. 8.6.2001 n. 327 raccoglie al suo interno sia disposizioni legislative, che disposizioni regolamentari in materia di espro-priazione e consente di delegificare le disposizioni sugli aspetti organizzativi e procedimentali (art. 2, co. 1, T.U.; DE NICTOLIS, Commento all’art. 2 del Testo Unico, in CA-RINGELLA, DE MARZO, DE NICTOLIS, MARUOTTI, L’espro-priazione per pubblica utilità, Milano, 2007, p. 27). Ai principi enunciati nella norma costituzionale si aggiungo-no, poi, i criteri di proporzionalità e ragionevolezza, di elaborazione comunitaria (art. 1, Primo Protocollo addizionale CEDU; espressamente richiamati in C. cost. 24.10.2007 n. 348 e C. cost., 24.10.2007 n. 347), in virtù dei quali il prov-vedimento ablatorio deve essere adeguato e congruo ri-spetto alle finalità perseguite, potendo essere imposte limi-

tazioni al diritto di proprietà, costituzionalmente garantito, soltanto nella misura strettamente necessaria per realizzare gli interessi pubblici, e l’indennità da corrispondere al pro-prietario deve essere in rapporto ragionevole con il valore del bene (VISINTINI, La proprietà nella costituzione e nel codice civile, in Tratt. Visintini, I beni e la proprietà, I, Padova, 2013, p. 240). Il d.P.R. 8.6.2001 n. 327 contiene la disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità, sia sotto il profilo sostanziale, che sotto il profilo procedimen-tale e processuale. In particolare, il Testo Unico regola-menta il procedimento di espropriazione (artt. 8-31), detta i criteri per la determinazione dell’indennità di espropria-zione (artt. 32-42) e disciplina le figure particolari dell’oc-cupazione d’urgenza (art. 22-bis), dell’utilizzazione sine titulo del bene (art. 42-bis), della cessione volontaria (art. 45), della retrocessione (artt. 46-48) e dell’occupazione temporanea (artt. 49-50). Prevede, altresì, disposizioni par-ticolari sulle espropriazioni militari e di beni culturali (artt. 51-52), nonché in merito alla tutela giurisdizionale (artt. 54-55). Il Testo Unico riconosce la natura strumentale e neutra del potere di espropriazione, rispetto ad altre pote-stà pubbliche per cui sia necessaria l’acquisizione di beni, non potendo quindi assurgere al rango di materia ai sensi dell’art. 117 Cost., secondo quanto chiarito anche dalla giurisprudenza (DE NICTOLIS, Commento all’art. 5 del Testo Unico, in CARINGELLA, DE MARZO, DE NICTOLIS, MARUOTTI, L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2007, p. 58; Cons. Stato 5.6.1995 n. 414; Cons. Stato 21.8.1986 n. 571). L’art. 5 T.U. riconosce, così, alle Regioni a statuto ordinario, la potestà legislativa concorrente in or-dine alle espropriazioni strumentali alle materie di propria competenza, nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale e dell’ordinamento giuridico desumibi-li dallo stesso T.U. e, alle Regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano (Cass. 12.05.2017 n. 11921), la potestà legislativa esclusiva in materia di e-spropriazione, nel rispetto dei propri statuti e delle relative norme di attuazione. Quanto ai poteri amministrativi, è competente ad emanare gli atti del procedimento espro-priativo la stessa autorità competente alla realizzazione dell’opera (art. 6 T.U. e art. 5, co. 4, T.U. con riferimento alle funzioni amministrative delle Regioni).

2. Nozione di espropriazione – Dottrina e giurisprudenza hanno accolto una nozione in senso ampio di espropriazio-ne, fondata sulla lettura coordinata dei primi tre commi dell’art. 42 Cost. (C. cost. 29.5.1968 n. 55). Tale nozione comprende non solo l’“espropriazione traslativa”, con la quale si verifica la traslazione totale o parziale del diritto di proprietà, ma anche i c.d. vincoli sostanzialmente espro-priativi (o “espropriazione larvata”), che incidono sugli

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effettivi poteri connessi alla posizione dominicale oppure fanno venir meno o diminuiscono in modo apprezzabile il valore di scambio del bene, menomando o annullando il diritto di proprietà, pur mantenendone intatta la titolarità (Cass. 20.8.1966 n. 2267; C. cost. 20.1.1966 n. 6). Ne con-segue che anche detti vincoli sono soggetti ai principi di legalità e di indennizzo. Si è identificato un vincolo espro-priativo nel vincolo urbanistico di inedificabilità a tempo indeterminato, dal momento che comporta uno svuotamento significativo del diritto di proprietà (Cons. Stato 4.4.2011 n. 2083; CEDU 29.7.2004, Scordino c. Italia; C. cost. 20.5.1999 n. 179; C. cost. 29.5.1968 n. 55). Non rientrano, invece, nella fattispecie in esame i vincoli c.d. “conformativi”, che consistono in restrizioni ai poteri di godimento e disposi-zione imposte in via generale e astratta a tutti i proprietari di beni appartenenti ad una medesima categoria, trattando-si di vincoli diretti a conformare il contenuto del diritto di proprietà su quei beni (Cons. Stat, 1.7.2015 n. 3256). È il caso, ad esempio, dei beni culturali (Cass. 12.7.2016 n. 14177) o dei vincoli paesistici (C. cost. 29.5.1968 n. 56). L’espropriazione, peraltro, può avere ad oggetto non solo il diritto di proprietà, ma anche altri diritti reali. Una parti-colare forma di espropriazione è contemplata dall’art. 43 Cost. e riguarda le imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di premi-nente interesse generale. La disciplina contenuta nel d.P.R. 8.6.2001 n. 327 riguarda le espropriazioni, anche a favore di soggetti privati, di beni immobili o di diritti relativi ad immobili, per l’esecuzione di opere pubbliche o di pub-blica utilità (art. 1 T.U.). Oggetto dell’espropriazione pos-sono, dunque, essere il diritto di proprietà, o altri diritti reali o personali su beni immobili. Restano, invece, esclu-se le espropriazioni relative a beni mobili o diritti su beni mobili. La finalità della realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità consente di distinguere questa forma di espropriazione dall’esecuzione forzata per espropriazio-ne, che è, invece, diretta a realizzare la garanzia patrimo-niale di cui godono i creditori aventi diritto (artt. 2740 e 2910 c.c.).

3. Il procedimento espropriativo – L’espropriazione si realizza mediante un procedimento amministrativo che si snoda attraverso alcune fasi necessarie, quali l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità, il decreto di esproprio ed il pagamento dell’indennità, ed alcune fasi eventuali, secondo il princi-pio del giusto procedimento (FESTA, SICLARI, L’esercizio del potere di esproprio e il diritto – quasi – inviolabile della proprietà privata, in CLARIZIA, Proprietà e diritti reali, Torino, 2016, p.113; MARUOTTI, Commento all’art. 8 del testo unico, in CARINGELLA, DE MARZO, DE NICTO-LIS, MARUOTTI, L’espropriazione per pubblica utilità, Milano, 2007, p. 107). Si tratta di un procedimento con-tenzioso, svolto nel rispetto del principio del contradditto-rio (PALMA, I procedimenti ablatori, in Tratt. Rescigno, VII, Proprietà, I, Torino, 2005, p. 334). Infatti, al fine di consentire la piena partecipazione del proprietario al pro-cedimento, agevolando in ultima istanza la cessione volon-taria e la corretta determinazione dell’indennità di espro-prio e prevenendo eventuali controversie, è esteso anche al procedimento espropriativo l’obbligo di comunicazione procedimentale ex art. 7, l. 7.8.1990 n. 241 (Cons. Stato 29.1.2008 n. 258; Cons. Stato 5.12.2007 n. 6183). In parti-

colare, la p.a. ha l’obbligo di comunicare agli interessati l’av-vio del procedimento diretto all’approvazione di un proget-to per l’esecuzione di opere pubbliche, che conduce poi alla dichiarazione di pubblica utilità (Cass. S.U. 27.2.2008 n. 5080). L’art. 8 T.U. prevede tre fasi che precedono il decreto di esproprio e che costituiscono, a loro volta, dei sub-procedimenti. Al fine di garantire il regolare sviluppo del procedimento sono inoltre previsti dei termini. La pri-ma fase è finalizzata a sottoporre il bene al vincolo preor-dinato all’esproprio, che si consegue attraverso l’attribu-zione di efficacia alle previsioni urbanistiche, quali il pia-no urbanistico generale o una sua variante o atti ad effetti equivalenti (art. 9 T.U.). Il vincolo ha durata quinquennale ed è reiterabile con una congrua motivazione e dietro in-dennizzo (artt. 9, 4 co. 37, T.U.). La seconda fase ha ad oggetto la dichiarazione di pubblica utilità, che si inten-de disposta con l’approvazione del progetto definitivo del-l’opera pubblica o di uno strumento urbanistico o altro atto avente effetti equivalenti (art. 12 T.U.). La dichiarazione di pubblica utilità, che ha durata quinquennale, costituisce il presupposto indispensabile del procedimento ablatorio, con la conseguenza che la sua radicale mancanza o illegit-timità determina l’illegittimità dell’intera procedura e del successivo decreto di esproprio (Cass. S.U. 14.2.2011 n. 3569). La terza fase è diretta alla determinazione (in via provviso-ria) dell’indennità di esproprio e si conclude con l’ema-nazione e l’esecuzione del decreto di esproprio (artt. 20, 21, 23 T.U.). All’interno di questa terza fase è, poi, previ-sta la fase meramente eventuale di tipo negoziale della c.d. cessione volontaria. In particolare, il privato espropriando e il beneficiario della espropriazione possono concludere un contratto traslativo del bene oggetto della procedura espropriativa, che produce gli effetti del decreto di espro-prio (art. 45, co. 3, T.U.). In dottrina si ritiene che il legi-slatore, attribuendo questi effetti all’atto di cessione, abbia voluto qualificarlo come contratto di diritto pubblico (DE MARZO, Commento all’art. 45 del testo unico, in CARIN-GELLA, DE MARZO, DE NICTOLIS, MARUOTTI, L’espro-priazione per pubblica utilità, Milano, 2007, p. 986; FLO-RIO, L’espropriazione in sanatoria e la cessione volonta-ria, in CLARIZIA, Proprietà e diritti reali, Torino, 2016, p. 199; sul punto Cass. 22.01.2018 n. 1534, secondo la quale la cessione volontaria costituisce un contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costitutivi, indispensabili a diffe-renziarla dal contratto di compravendita di diritto comune, sono: a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un pro-cedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione del-l’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale stru-mento alternativo all’ablazione d’autorità; b) la preesisten-za non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determina-zione dell’indennità e delle relative offerta ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della l. n. 865/1971; c) il prezzo di trasferimento volontario corre-lato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione. Ne con-segue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati – non potendosi escludere che la P.A. abbia perse-guito una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita – al negozio traslativo immobi-liare non possono collegarsi gli effetti di cui all’art. 14 della l. n. 865/1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o

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personali gravanti sul bene medesimo.). Al fine di incenti-vare la cessione volontaria del diritto di proprietà è previ-sto per l’atto di cessione un corrispettivo maggiore rispetto all’indennizzo di esproprio (art. 45, co. 2, T.U.). In man-canza di tale accordo, la terza fase si chiude con l’ema-nazione, entro il termine di scadenza dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, del decreto di esproprio, che costituisce un atto dovuto (MARUOTTI, Commento al-l’art. 23 del testo unico, in CARINGELLA, DE MARZO, DE NICTOLIS, MARUOTTI, L’espropriazione per pubblica uti-lità, Milano, 2007, p. 410). Il decreto di esproprio deve es-sere notificato ed eseguito attraverso l’immissione in pos-sesso del beneficiario dell’esproprio, entro due anni dalla sua emanazione (art. 23 T.U.). Gli effetti del decreto sono condizionati sospensivamente alla notifica ed esecuzione dello stesso (art. 23, co. 1, lett. f), T.U.) e consistono, per il soggetto espropriato, nella perdita del diritto di proprietà e nel conseguente sorgere del diritto di conseguire la giusta indennità e, per la p.a., nell’acquisto della piena proprietà del bene (Cass. 12.07.2013 n. 17264; Cass. S.U. 2.3.2004 n. 4241), che avviene a titolo originario. Il decreto di esproprio, infatti, costituisce la fonte del credito indennita-rio (Cass. 31.5.2016 n. 11261). Con la notifica del decreto di esproprio il proprietario del bene acquisisce la consape-volezza dell’alienità del bene e della impossibilità di fare uso dello stesso come proprio. Qualora il bene resti prov-visoriamente nella sua disponibilità materiale, il rapporto con la cosa integra gli estremi della mera detenzione, es-sendo quindi necessario un esplicito atto di interversio pos-sessionis al fine di invocare l’usucapione (Cass. 21.3.2014 n. 6742). 3.1. Occupazione d’urgenza – Qualora l’avvio dei lavori rivesta caratteri di particolare urgenza è prevista la figura dell’occupazione d’urgenza preordinata all’espropria-zione, che avviene attraverso l’emanazione, senza partico-lari indagini e formalità, di un decreto motivato, il quale determina in via provvisoria l’indennità di espropriazione e dispone anche l’occupazione anticipata dei beni immobi-li necessari (art. 22-bis T.U.). Il decreto di occupazione d’urgenza consente la presa di possesso del bene anticipata e definitiva, ma non trasferisce il diritto di proprietà in capo alla p.a., che è effetto proprio del decreto di esproprio (TABET, OTTOLENGHI, SCALITI, La proprietà, in BIGIAVI, Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, Torino, 1981, p. 189; Cons. Stato 11.8.2016 n. 3618). Il proprietario ha comunque diritto ad un’indennità di occu-pazione, che è del tutto autonoma rispetto a quella di espro-priazione ed è commisurata alla diminuzione patrimoniale concretamente subita, posto che l’occupazione d’urgenza determina il sacrificio della facoltà di godimento del pro-prio bene.. L’occupazione d’urgenza è ammessa anche per gli interventi di cui alla l. 21.12.2001 n. 443 e qualora i destinatari della procedura espropriativa siano superiori a cinquanta. 3.2. Occupazione temporanea – Il T.U., infine, prevede l’occupazione temporanea di aree non soggette alla procedura espropriativa, qualora ciò risulti necessario per la corretta esecuzione delle opere, ovvero in caso di frane, alluvioni, rotture di argini o per urgenti ragioni di pubblica utilità (art. 49 T.U.). A differenza dell’espropria-zione e dell’occupazione d’urgenza preordinata all’espro-priazione, questo istituto non è finalizzato all’esproprio, bensì a soddisfare esigenze limitate nel tempo. Rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le eventuali con-

troversie promosse per ottenere la restituzione di un fondo occupato ai sensi dell’art. 49 T.U., purché la domanda sia limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione tem-poranea, senza lamentare vizi di legittimità del provvedi-mento amministrativo (Cass. 9.2.2011 n. 3167). 3.3. Retrocessione – La retrocessione consiste in una fase eventuale del procedimento espropriativo, e può essere to-tale o parziale (CENTOFANTI, L’espropriazione per pubbli-ca utilità, Milano, 2009, p. 557). Nella retrocessione tota-le, qualora l’opera pubblica non venga eseguita o iniziata nel termine di dieci anni dall’esecuzione del decreto di espropriazione o risulti impossibile la sua esecuzione an-che in epoca anteriore, l’espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica uti-lità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a titolo di indennità (art. 46 T.U.). La retrocessione parziale opera, invece, quando è stata realizzata l’opera pubblica o di pubblica utilità e con-sente all’espropriato di chiedere la restituzione della parte del bene, già di sua proprietà, che non sia stata utilizzata (art. 47 T.U.). Mentre nel primo caso il diritto soggettivo alla retrocessione, azionabile davanti al giudice ordinario, sorge automaticamente per effetto della mancata realizza-zione dell’opera e quindi a prescindere da qualsiasi valuta-zione discrezionale dell’amministrazione, nel secondo ca-so esso nasce solo se e in quanto l’amministrazione, nel compimento di una valutazione discrezionale in ordine alla quale il privato è titolare di un mero interesse legittimo, abbia dichiarato che quei fondi non servono più all’opera pubblica (Cass. 3.6.2016 n. 11472; Cass. S.U. 5.6.2008 n. 14826; Cass. 8.3.2006 n. 4894). Qualora siano proposte due domande congiunte o alternative di retrocessione tota-le e parziale, la giurisdizione spetta al giudice amministra-tivo, potendo egli decidere sia su interessi legittimi, che su diritti soggettivi (Cass. S.U. 27.1.2014 n. 1520). In en-trambi i casi, la sentenza che dispone il trasferimento ha natura costitutiva e comporta la caducazione ex nunc del titolo legittimante la proprietà e il possesso dell’espropriante; ne consegue che il prezzo di retrocessione, che sono tenuti a versare gli espropriati, va determinato con riferimento al momento della pronuncia di retrocessione, costituendo essa il titolo di trasferimento del bene espropriato (Cass. 08.03.2018 n. 5574).

4. L’indennizzo – Ai sensi dell’art. 42, co. 3, Cost. e del-l’art. 834 c.c., non si può procedere all’espropriazione sen-za il pagamento al soggetto espropriato di una indennità che costituisca il giusto ristoro per il sacrificio subito. Sul-la quantificazione dell’indennizzo di esproprio è sorto un ampio dibattito in giurisprudenza e in dottrina che ha de-terminato un’evoluzione normativa (CENTOFANTI, L’espro-priazione per pubblica utilità, cit., p. 329). Come chiarito dalla Corte costituzionale, l’indennità di esproprio, pur non dovendo necessariamente costituire l’integrale risar-cimento del pregiudizio conseguente all’espropriazione, non può essere stabilita in termini meramente simbolici o irrisori (C. cost. 30.1.1980 n. 5), ma deve rappresentare un “serio ristoro”, in modo da garantire il giusto equilibrio tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui (C. cost. 10.6.2011 n. 181; C. cost. 24.10.2007 n. 348; C. cost. 9.4.1965 n. 22). Recependo le indicazioni della più recente giurisprudenza costituzionale (C. cost. 24.10.2007 n. 348) e di quella della Corte di Strasburgo (CEDU, Grande Chambre, 29.3.2006,

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Scordino c. Italia), il testo unico (come modificato dalla l. 24.12.2007 n. 244) attualmente prevede che l’indennità di esproprio sia commisurata al valore di mercato del bene (Cass. 27.07.2017 n. 18732; Cass. 21.3.2014 n. 6743). In particolare, il testo unico dispone che: i) in caso di espro-priazione di aree edificabili, l’indennità di esproprio è de-terminata nella misura pari al valore venale del bene ed è ridotta del 25% se l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale (art. 37, co. 1, T.U.); ii) in caso di espropriazione di una costruzione legittima-mente edificata, l’indennità è determinata nella misura pari al suo valore venale (art. 38, co. 1, T.U.); iii) in caso di espropriazione di un’area non edificabile coltivata, l’in-dennizzo è determinato in base al criterio del valore agri-colo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, ma senza valutare la possibile o l’effettiva di-versa utilizzazione del fondo (art. 40, co. 1, T.U.); iv) in caso di espropriazione di un’area non edificabile e non coltivata, il criterio dell’indennizzo commisurato al valore agricolo medio, corrispondente al tipo di coltura prevalen-te nella zona, e al valore dei manufatti edilizi legittima-mente realizzati (art. 40, co. 2, T.U.), è stato ritenuto ille-gittimo in quanto “ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con il valore di mercato del bene ablato” e pertanto si pone in contrasto con l’art. 117 Cost., quale norma interposta, in relazione all’art. 1 del Primo protocollo addizionale alla CEDU e con l’art. 42, co. 3, Cost. (C. cost. 10.6.2011 n. 181); v) infine, in caso di vincolo sostanzialmente espropriativo, l’indenniz-zo è commisurato all’entità del danno effettivamente pro-dotto (art. 39, co. 1, T.U.). Pertanto, alla luce della giuri-sprudenza più recente (C. cost. 10.6.2011 n. 181; C. cost. 24.10.2007 n. 348; CEDU, Grande Chambre, 29.3.2006, Scordino c. Italia) il “serio ristoro” riconosciuto dall’art. 42, co. 3, Cost., in caso di sacrificio della proprietà per motivi di interesse generale, va identificato con il giusto prezzo che scaturirebbe da un’ipotetica libera contrattazione di compra-vendita, con il solo limite della destinazione imposta al bene dagli strumenti di programmazione del territorio, che le re-gole di mercato non possono ignorare (Cass. 21.3.2014 n. 6743; COMPORTI, I vecchi orientamenti della giurispru-denza della Corte E.D.U. ed i nuovi orientamenti della giu-risprudenza italiana, in Riv. giur. edilizia, 3, 2015, p. 326). Ne consegue che deve tenersi conto dell’incidenza sul valore del bene della destinazione urbanistica di inedi-ficabilità, derivante dalla zonizzazione, che dà luogo ad un vincolo di tipo non ablativo ma conformativo (Cass. 09.10.2017 n. 23572; Cass. S.U. 25.11.2008 n. 28051). In relazione ai terreni di natura non edificatoria si è, inoltre, chiarito che il valore venale va valutato in base alle loro caratteristiche oggettive, tenendo conto di possibili utiliz-zazioni economiche, ulteriori e diverse da quelle agricole, consentite dalla normativa vigente, pur senza raggiungere i livelli di prezzo delle aree edificabili (Cass. 30.7.2014 n. 17271). Il debito relativo all’indennità di espropriazione ha la natura di debito di valuta, soggetto al principio nomi-nalistico (Cass. 18.08.2017 n. 20178). Analogo criterio legale di liquidazione si applica al risarcimento del danno derivante da occupazione illegittima, che, tuttavia, si di-stingue dall’indennità di esproprio in quanto si ricollega ad una attività illegittima della p.a., sanzionata dall’art. 2043 c.c., ed ha la natura di debito di valore, da liquidarsi con riferimento al valore dell’immobile all’epoca della perdita

della proprietà, tenuto conto della svalutazione fino alla data della decisione definitiva (Cass. 9.10.2013 n. 22923).

5. Occupazione sine titulo – Al fine di risolvere situazioni di occupazione sine titulo del bene da parte della p.a., do-vute a patologie dei procedimenti amministrativi di espro-priazione, la giurisprudenza ha elaborato le figure dell’oc-cupazione “appropriativa” (che è stata considerata contra-ria all’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo da CEDU, 6.3.2007, Scordino c. Ita-lia), e dell’occupazione “usurpativa” (FLORIO, L’espropria-zione in sanatoria e la cessione volontaria, cit., p. 120; CENTOFANTI, L’espropriazione per pubblica utilità, cit., p. 679; GRISI, Acquisizione sanante: l’epilogo mancato di una storia infinita, in Europa dir. priv., 2, 2015, p. 355). In particolare, l’occupazione “usurpativa” riguardava le ipotesi di trasformazione del fondo di proprietà privata, illegittimamente occupato, in assenza di una dichiarazione di pubblica utilità, ab initio o per effetto dell’intervenuto annullamento del relativo atto o per scadenza dei relativi termini (Cass. 07.12.2016 n. 25044), mentre l’occupazione “appropriativa” o “acquisitiva” si verificava in ipotesi di mancata conclusione del procedimento espropriativo con un formale atto ablativo, ma in presenza di una valida di-chiarazione di pubblica utilità che permettesse di far pre-valere l’interesse pubblico su quello privato (Cass. S.U. 10.6.1988 n. 3940). L’occupazione appropriativa è stata ritenuta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contraria all’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto consentiva di legittimare una situazione di fatto, a prescindere dall’osservanza di un for-male procedimento di esproprio “in buona e dovuta forma” e senza alcuna garanzia di giusto equilibrio fra le esigenze dell’interesse pubblico e gli imperativi di tutela dei diritti fondamentali dell’individuo (CEDU, 16.11.2006, Ippoliti c. Italia; CEDU, 12.1.2006, Sciarrotta ed altri c. Italia; CEDU 17.5.2005, Scordino c. Italia;CEDU, 6.3.2007, Scordino c. Italia). Allineandosi con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, le sezioni unite della Suprema Corte hanno infine affermato che l’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e la irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non sono idonei, anche quando vi sia stata dichiarazione di pub-blica utilità, a determinare il trasferimento della proprietà dell’area in capo alla p.a. (Cass. 29.09.2017 n. 22929). In siffatte ipotesi la p.a. può legittimamente acquisire la pro-prietà altrui solo attivando il procedimento che si conclude con il provvedimento acquisitivo “sanante”, ex art. 42-bis T.U. (Cass. 31.05.2016 n. 11258). Considerata ormai defi-nitivamente superata la figura dell’occupazione appropria-tiva, la giurisprudenza più recente ritiene che, in caso di occupazioni illegittime, si configuri un illecito di diritto comune ex art. 2043 c.c., insuscettibile di determinare il trasferimento della proprietà in favore dell’amministra-zione, sicché il privato ha diritto di chiedere la restituzio-ne del bene, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente (Cons. Stato 11.7.2016 n. 3065; Cass. S.U. 20.5.2016 n. 10499; Cass. S.U. 19.1.2015 n. 735). Inoltre, trattandosi di un ille-cito di natura permanente, il proprietario ha sempre di-ritto al risarcimento dei danni per la perdita del godimento del bene, ossia per la perdita delle utilità ricavabili da esso, per il periodo non coperto dall’eventuale occupazione le-gittima sino al momento della restituzione, ovvero sino al

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momento della domanda di risarcimento per equivalente (Cass. 14.6.2016 n. 12260; Cons. Stato Ad. Plen., 9.2.2016 n. 2; Cass. S.U. 19.1.2015 n. 735). Detti danni possono essere quantificati, con valutazione equitativa ex artt. 2056 e 1226 c.c., nell’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, in linea con quanto previsto dal-l’art. 42-bis, co. 3, T.U., che è espressione di un principio generale, suscettibile di applicazione analogica (Cons. Sta-to 9.12.2015 n. 5589). Il diritto al risarcimento dei danni è soggetto a prescrizione quinquennale, che decorre dalle sin-gole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento del bene, e dalla data della domanda, quanto alla reinte-grazione per equivalente (Cass. 24.05.2018 n. 12961). In merito al danno subito per effetto di occupazione illegitti-ma va, infine, tenuto conto che la Corte costituzionale ri-chiede un integrale ristoro, corrispondente al valore di mercato del bene (C. cost. 24.10.2007 n. 349; negli stessi termini CEDU 25.11.2014 n. 997, Maiorano e Serafini c. Italia). La giurisprudenza ha chiarito che, in caso di rinun-cia al diritto dominicale da parte del proprietario, tale ri-nuncia ha carattere abdicativo e non traslativo, per cui da essa non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del bene da parte dell’amministrazione (Cass. S.U. 19.1.2015 n. 735). 5.1. Acquisizione sanante – Ai sensi dell’art. 42 bis del testo unico sulle espropriazioni (introdotto a seguito della dichia-razione di illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, dell’art. 43, che disciplinava una figura analoga, v. C. cost. 4-8.10.2010 n. 293; CEDU, 12.1.2006, Sciarrotta ed altri c. Italia), l’amministrazione che utilizzi senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico e lo modifichi in as-senza di un valido provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può acquisirlo, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile attraverso un provvedimen-to di acquisizione coattiva specificamente motivato, sosti-tutivo e semplificativo del regolare procedimento ablativo, e sotto condizione sospensiva del pagamento di un importo, a titolo di indennizzo, al soggetto che perde il diritto di pro-prietà (DE MARZO, Acquisizione sanante, parametri costitu-zionali e CEDU, in Corr. giur., 2011, 2; FLORIO, L’espro-priazione in sanatoria e la cessione volontaria, cit., p. 173). Al riguardo, si è recentemente espressa la Corte Costituzio-nale che ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42-bis T.U., sollevata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. S.U. ord. 13.1.2014, nn. 89 e 90), escludendo il contrasto tra detto articolo e l’art. 1 del I Protocollo addizionale alla CEDU. Si è evidenziato, infatti, che (a differenza di quanto previsto dal precedente art. 43 del medesimo T.U.) l’acquisto della proprietà del be-ne da parte della p.a., ai sensi dell’art. 42-bis T.U., presenta le seguenti caratteristiche: avviene ex nunc, attraverso l’a-dozione di un provvedimento formale della p.a.; è corredato da uno specifico obbligo motivazionale “rafforzato” in ri-ferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pub-blico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparati-vamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; richiede il pagamento di un indennizzo che comprende il danno patri-

moniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente li-quidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene; ed, infine, il passaggio del diritto di proprietà è condi-zionato sospensivamente al pagamento delle somme dovute entro 30 giorni dal provvedimento (C. cost. 11.3-30.4.2015 n. 71). La Corte ha, inoltre, evidenziato che l’istituto dell’ac-quisizione sanante è rispettoso del giusto procedimento, es-sendo imposta la previa comunicazione di avvio del procedi-mento e richiedendo la norma un’effettiva comparazione degli interessi contrapposti. Va, infine, considerato che scopo del procedimento ablatorio sui generis ex art. 42-bis T.U. non è quello di sanare un precedente illecito perpetrato dall’ammi-nistrazione, bensì quello di soddisfare imperiose esigenze pub-bliche attraverso il mantenimento e la gestione dell’opera rea-lizzata sine titulo (Cons. Stato 15.9.2016 n. 3878).

6. Riparto di giurisdizione – Le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione dell’indennità di espro-priazione sono devolute alla cognizione del giudice ordina-rio e sono regolate dal rito sommario di cognizione innanzi alla corte di appello nel cui distretto si trova il bene (artt. 53-54 T.U.; Cass. S.U. 23.01.2017 n. 1643).bLa giurisdizione del giudice ordinario sussiste anche per le controversie rela-tive alla determinazione o alla corresponsione del corrispet-tivo patrimoniale e non patrimoniale relativo all’acquisizio-ne sanante ex art. 42-bis T.U., in quanto detto corrispettivo ha natura indennitaria e non risarcitoria, se lo speciale pro-cedimento semplificato è stato legittimamente promosso, attuato e concluso (Cass. S.U. 25.7.2016 n. 15283; Cass. S.U. 25.3.2016 n. 6017; Cass. S.U. ord., 29.10.2015 n. 22096; Cons. Stato 4.12.2015 n. 5530). Rientrano, invece, nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedi-menti, gli accordi e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati, che si colleghino all’esercizio di un pubblico potere, a prescindere dal tipo di diritti (reali o personali) fatti valere nei confronti dell’am-ministrazione espropriante e dalla natura (restitutoria o risar-citoria) della pretesa avanzata (Cass. 16.04.2018 n. 9334; Cass. S.U. 5.4.2013 n. 8349; C. cost. 11.5.2006 n. 191). La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sussiste, altresì, nelle occupazioni illegittime preordinate all’espro-priazione, attuate in presenza di un concreto esercizio del potere pubblico, anche se poi l’ingerenza nella proprietà pri-vata e la sua utilizzazione, nonché l’irreversibile trasforma-zione della stessa, siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva, come nel caso in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia stata adottata e successivamente annullata. Tutta-via, spetta, in via residuale, alla giurisdizione del giudice or-dinario la domanda con la quale il privato chieda il risarci-mento del danno conseguente a meri comportamenti illeci-ti posti in essere dalla p.a. in carenza di potere, ovvero in via di mero fatto (Cass. S.U. ord., 16.12.2013 n. 27994; Cass. S.U. 5.4.2013 n. 8349). La devoluzione, operata dall’art. 53 T.U., alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di simili comportamenti è, infatti, stata dichiarata costituzio-nalmente illegittima (C. cost. 11.5.2006 n. 191).

Focus Tributario/Fiscale Imposta sul valore aggiunto (d.P.R. 26.10.1972 n. 633, artt. 2, 6). Imposte sui redditi (l. 30.12.1991 n. 413, art. 11, commi 5-8; d.P.R. 22.12.1986 n. 917, art. 67, co. 1, lett. b)). Imposta di registro (d.P.R. 26.4.1986 n. 131, artt. 40, co. 1, 44; tariffa parte 1, art. 1; tariffa parte 2, art. 7).

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Correlazioni alla normativa tributaria − Imposte sui redditi (d.P.R. 22.12.1986 n. 917 – Tuir) Redditi diversi (art. 67, co. 1). − I.V.A. (d.P.R. 26.10.1972 n. 633) Cessioni di beni (art. 2, co. 1) Effettuazione delle operazioni (art. 6, co. 2). − Imposta di registro (d.P.R. 26.4.1986 n. 131) Atti relativi ad operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto (art. 40) Espropriazione forzata e trasferimenti coattivi (art. 44, co. 2) e Atti soggetti a registrazione in termine fisso (Tariffa, Parte I, art. 1).

844 Immissioni Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuoti-menti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso.

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extracodice) Sull’attività economica (art. 41 Cost.) Sulla funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.) Sul diritto alla salute e ad un ambiente salubre (art. 32 Cost.) Sul diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 Con-venzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali “CEDU”, Roma 4.11.1950) Sullo ius excludendi (artt. 832, 840 c.c.) In materia di inquinamento acustico (l. 26.10.1995 n. 447 – d.p.c.m. 14.11.1997 – d.p.c.m. 1.3.1991 – d.lgs. 27.1.1992 n. 134 – d.lgs. 19.8.2005 n. 194 – art. 6-ter, d. l. 30.12.2008 n. 208, conv. in l. 27.2.2009 n. 13, sulla normale tollerabilità delle immissioni acustiche) In materia ambientale (d.lgs. 3.4.2006 n. 152) In materia di campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici (l. 22.2.2001 n. 36 – d.p.c.m. 8.7.2003)

SOMMARIO 1. Le immissioni. – 1.1. Casistica – 2. Il limite della normale tollerabilità. – 2.1. Il contemperamento tra esi-genze della produzione e ragioni della proprietà. La priorità di un dato uso. – 3. La tutela contro le immissio-ni. – 4. Profili processuali. – 5. Immissioni e diritto alla salute.

1. Le immissioni – L’art. 844 c.c. regola i conflitti tra usi incompatibili di fondi vicini (GAMBARO, sub art. 844, in Comm. Cendon, Milano, 2009, p. 436), con riferimento al-le immissioni, da un fondo all’altro, di fumo, calore, rumo-ri e simili propagazioni. In particolare, la norma pone dei limiti al diritto di proprietà e, nello specifico, allo ius ex-cludendi di cui all’art. 840, co. 2, c.c., che consente al pro-prietario di opporsi alle attività di terzi che interferiscano con l’esercizio del proprio diritto (SALVI, Immissioni, in Enc. giur. Roma, XV, 1989, p. 2). Obbliga, infatti, il pro-prietario, nei limiti della normale tollerabilità e dell’even-tuale contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, a sopportare le inevitabili im-missioni altrui, attuate nell’ambito delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Al di fuori di tali limiti, si è in presenza di un’attività illegittima, inquadrabi-le nello schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c. (Cass. 13.3.2007 n. 5844; Cass. 25.8.2005 n. 17281). Dottrina e giurisprudenza concorda-no nell’escludere il carattere tassativo dell’elenco delle forme di immissioni, di cui al co. 1 (Cass. 16.6.1992 n. 7411; Cass. 6.3.1979 n. 1404; GAMBARO, sub art. 844, cit., p. 436; SALVI, Immissioni, cit., p. 3). Tuttavia, stante il carattere eccezionale dei limiti posti alla proprietà, si ritiene che la tassatività sussista, se non nella species, nel genus delle immissioni, per cui la norma si considera ap-

plicabile, per interpretazione estensiva, a ipotesi che pre-sentino i seguenti requisiti: carattere materiale, indiretto e continuo delle immissioni (SALVI, Immissioni, cit., p. 1). Per materialità dell’immissione si intende la necessità che essa cada sotto i sensi dell’uomo o influisca oggettivamen-te sul suo organismo (es. radiazioni nocive) o su apparec-chiature (es. onde elettromagnetiche), mentre il carattere indiretto e mediato implica che l’immissione costituisca la ripercussione di fatti compiuti direttamente o indiretta-mente dall’uomo nel fondo da cui si propaga e non, inve-ce, un facere in alienum, altrimenti perseguibile con l’a-zione negatoria servitutis o con l’azione di manutenzione e con le regole della responsabilità aquiliana. Infine, si ri-chiede l’attualità della situazione di intollerabilità e non il semplice pericolo di essa, derivante da una continuità o al-meno periodicità dell’immissione (Cass. 6.3.1979 n. 1404). Non si considera, quindi, immissione ex art. 844 c.c. la propagazione accidentale e subitanea. In relazione alla vicinanza o contiguità dei fondi, la dottrina ha chiarito che detto requisito deve interpretarsi non nel senso della stretta contiguità, bensì in senso lato e funzionale, rilevando il nesso tra l’immissione e l’uso del fondo come luogo che la origina (SALVI, Immissioni, cit., p. 1; MAUGERI, sub art. 844, in Comm. Gabrielli, Torino, 2012, p. 526). La disci-plina di cui all’art. 844 è applicabile anche agli edifici con-dominiali (Cass. 30.8.2017 n. 20555; Cass. 31.10.2014 n.

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23283; Trib. Milano 3.5.2016, in Imm. e propr., 2016, 6-8, p. 535), ai fondi rustici, senza che rilevi come l’immobile sia accatastato (Cass. 2.8.2016 n. 16074), e nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, o concessionari della pubblica amministrazione (Cass. S.U. 20.10.2014 n. 22116; Cass. 25.8.2014 n. 18195 relativamente all’eccessivo ru-more prodotto dal traffico autostradale in assenza di ido-nea barriera). Anche la Chiesa cattolica e le sue istituzioni locali sono tenute al rispetto dell’art. 844 c.c. quando uti-lizzano iure privatorum beni soggetti, ex art. 831 c.c., alle norme del c.c. (Cass. 31.1.2006 n. 2166). La mancanza della certificazione di abitabilità del bene interessato dalle predette propagazioni non fa venir meno la tutela prevista dall’art. 844 c.c., ad esclusione dei casi in cui emergano circostanze con-crete che incidano, negandola, sulla configurabilità dell’illegit-tima limitazione del godimento dello stesso o della concreta riduzione del suo valore (Cass. 14.05.2018 n. 11677). 1.1. Casistica – Sono state considerate rientranti in tale fattispecie: le immissioni di onde e la creazione di campi elettromagnetici (Cass. 5.10.2010 n. 20668); le immissio-ni di rumori, quali quelli derivanti da un’attività manifat-turiera o industriale (Cass. 19.4.2012 n. 6203), il persisten-te suono di strumenti musicali (Cass. 11.6.2012 n. 9434), le immissioni sonore prodotte dai rintocchi delle campane di una chiesa (Trib. Chiavari 9.8.2008, in www.ilcaso.it, 2009) oppure dagli apparati di ventilazione installati sotto i balconi di alcuni condomini (Cass. 2.4.2015 n. 6786) o in un’apertura lucifera esistente nel muro comune dividente due unità immobiliari (Cass. 7.1.2011 n. 939); ed ancora le immissioni acustiche provenienti da un pubblico esercizio (Cass. 8.3.2010 n. 5564) o da animali (Cass. 26.3.2008 n. 7856), nonché quelle provocate dall’utilizzazione di un fondo per il decollo e l’atterraggio di elicotteri, pur in pre-senza della prescritta autorizzazione amministrativa (Cass. 14.8.1990 n. 8271); le immissioni sonore e luminose pro-venienti da un palco montato ad un metro di distanza dall’abitazione degli attori, realizzato per i festeggiamenti del Santo Patrono e, successivamente, non rimosso per tutto il periodo estivo (Cass. S.U. 1.2.2017 n. 2611); le immissioni di fumo (Cass. 20.3.2012 n. 4394), di polveri (Cass. 25.8.2005 n. 17281), di pulviscolo minerale prove-niente da uno stabilimento industriale (Cass. 1.2.1993 n. 1226); le immissioni di vapori solforosi (App. Napoli 17.12.1954, in Rep. Foro it., 1955, Proprietà n. 53), non-ché le immissioni di gas ed esalazioni insalubri prodotte da un impianto manifatturiero-industriale (Cass. 19.7.1985 n. 4263) ed i miasmi provenienti da un allevamento di animali (Cass. 20.12.1985 n. 6534); infine, l’infiltrazione di acqua nel fondo altrui, derivante dall’assidua irrigazione del fondo vicino coltivato “a marcita” (Cass. 6.3.1979 n. 1404), le immissioni di acque inquinate ed, altresì, l’inqui-namento di acque pubbliche (Cass. 17.1.2011 n. 887). Ri-sultano, invece, escluse dall’ambito di applicazione del-l’art. 844, le turbative immediate e dirette, ossia consisten-ti in un facere in alienum, come nel caso dello sconfina-mento degli avventori di un’osteria nel fondo vicino (Cass. 18.3.1978 n. 1346) o delle azioni compiute da alcuni ra-gazzi sul fondo contiguo rispetto a quello dove giocavano a calcio, per recuperare il pallone (App. Milano 27.1.1978, in Arch. civ., 1978, p. 546). Parimenti, non rientra nelle immissioni di cui all’articolo 844 la caduta di massi e pie-tre provenienti da un fondo utilizzato per la discarica di materiale (Cass. 16.6.1992 n. 7411). Esulano altresì dalla

fattispecie in esame, le influenze negative derivanti da un uso della proprietà limitrofa che crea disagio perché offen-de il decoro o la morale, come nel caso dell’esercizio di una casa di tolleranza (Cass. 26.4.1951 n. 1017), o le “im-missioni di sguardi” sul proprio fondo, provenienti da una recente costruzione sul fondo vicino (Cass. 20.2.1969 n. 570), in quanto trattasi di immissioni immateriali (MAU-GERI, sub art. 844, cit., p. 526; MAZZOLA, Le immissioni, in CLARIZIA, Proprietà e diritti reali, Torino, 2016, p. 387; GAMBARO, sub art. 844, cit., p. 440, invece, non con-divide la distinzione tra immissioni materiali e immateria-li). Infine, l’art. 844 c.c. non trova applicazione in caso di immissioni occasionali e contingenti, come nell’ipotesi di infiltrazioni nel sottosuolo di prodotti petroliferi prove-nienti da un vicino stabilimento, causate dalla rottura del-l’oleodotto od altra avaria (Cass. 1.2.1995 n. 1156), o in caso di uso meramente sporadico ed occasionale di un locale condominiale per riunioni condominiali (Cass. 12.1.2017 n. 661) o con riferimento al rumore della lavatrice in fase di centrifuga (Cass. 29.10.2015 n. 22105).

2. Il limite della normale tollerabilità – La norma detta, quale criterio per regolare le situazioni soggettive dei pro-prietari confinanti e stabilire la liceità o meno delle immis-sioni, il parametro elastico della “normale tollerabilità”. La valutazione circa la legittimità delle immissioni è ora incentrata sulla tollerabilità delle loro ripercussioni per chi deve subirle e non è più legata alla normalità dell’uso del fondo che le origina, rovesciando la prospettiva seguita dalla dottrina precedente al codice (GAMBARO, La proprietà. Be-ni, proprietà, possesso, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2017, p. 274; SALVI, Immissioni, cit., p. 2; DE MARTINO, sub art. 844, in Comm. Scialoja-Branca, Zanichelli, Bolo-gna, 1976, p. 200). In particolare, la norma, non fissando a priori alcun limite quantitativo universale, demanda al prudente apprezza-mento del giudice il giudizio di liceità delle immissioni, indicando, quali parametri di valutazione, la normale tolle-rabilità, relativizzata alle condizioni dei luoghi, il contem-peramento delle ragioni proprietarie con le esigenze della produzione e la priorità di un determinato uso (Cass. 11.10.1995 n. 10588). Si è detto, al riguardo, che si tratta di norma “aperta”, in quanto non regola il conflitto ma detta i criteri che il giudice deve applicare a tal fine (MO-NATERI, La responsabilità civile, in Tratt. Sacco, III, Tori-no, 1998, p. 551). Secondo la giurisprudenza solo i primi due criteri sono obbligatori, mentre il terzo è facoltativo (Cass. 25.8.2005 n. 17281). Il limite di tollerabilità delle immissioni, dunque, non ha carattere assoluto, ma relativo e deve essere fissato tenendo conto delle peculiarità del ca-so concreto (Cass. 14.3.2018 n. 6136; Cass. 7.10.2016 n. 20198; COSTANTINO, Contributo alla teoria della proprie-tà, Napoli, 1967, p. 222). In particolare, nel valutare lo stato dei luoghi, il giudice deve considerare le condizioni naturali e sociali dei luoghi stessi, le attività normalmente svolte nella zona, il sistema di vita e le abitudini della po-polazione in un particolare momento storico, senza limi-tarsi alla sola destinazione topografica (Cass. 12.2.2010 n. 3438; Cass. 31.1.2006 n. 2166; DE MARTINO, sub art. 844, cit., p. 203). In caso di immissioni sonore, poi, non si può prescindere dalla rumorosità di fondo della zona (Cass. 12.5.2015 n. 9660). Infatti, la giurisprudenza preva-lente è orientata verso l’utilizzo del cd. criterio compara-

Titolo II – Della proprietà 844

tivo, consistente nel raffronto tra il rumore di fondo e quello propagantesi dall’immobile vicino (Cass. 20.1.2017 n. 1606; Cass. 5.8.2011 n. 17051). In applicazione di tale criterio, è diffuso l’orientamento giurisprudenziale che considera intollerabili le immissioni che superano di 3 de-cibel il rumore di fondo della zona (Cass. 16.10.2015 n. 20927; contra Cass. 29.10.2015 n. 22105, che rifiuta l’uso dei decibel per valutare l’intollerabilità, e in dottrina GAM-BARO, La proprietà. Beni, proprietà, possesso, cit., pp. 283-284). Ne consegue che, secondo una recente pronun-cia, la mancata misurazione del rumore di fondo, nella fascia oraria a cui si riferiscono le contestazioni impedisce di dimostrare l’intollerabilità delle immissioni sonore (Cass. 17.1.2018 n. 1025). Infine, anche la vicinanza dei luoghi è un fattore di cui tenere conto, in quanto può incidere sul livello di esposizione agli effetti dannosi delle immissioni (Cass. 17.1.2011 n. 939). Trattandosi di criterio oggettivo, la normale tollerabilità va rapportata alla sensibilità di un uomo medio, prescindendo dalle caratteristiche dei singoli individui esposti alle immissioni (Cass. 5.8.2011 n. 17051). Non assume alcun rilievo, al fine di escludere l’illegit-timità delle immissioni che eccedano la normale tollerabi-lità, la circostanza che l’impianto da cui provengano (nel caso di specie l’impianto termico condominiale) sia a nor-ma e mantenuto a regola d’arte (Cass. 31.10.2014 n. 23283). In tema di mezzi di prova per accertare il livello di normale tollerabilità Cass. 20.01.2017 n. 1606). Al giudizio di tol-lerabilità delle immissioni è estraneo il criterio della colpa, cosí come non influisce su detto giudizio l’accertamento delle cause che determinano le immissioni; l’individua-zione delle cause può servire soltanto per stabilire le even-tuali misure da adottare per l’eliminazione delle immissio-ni intollerabili (Cass. 3.11.2000 n. 14353). Spetta, infatti, al giudice del merito accertare in concreto gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni entro la soglia della normale tollerabilità (Cass. 5.8.2011 n. 17051). L’apprez-zamento del giudice di merito si risolve in un giudizio di fatto sottratto al sindacato di legittimità, se correttamente motivato e immune da vizi logici e giuridici (Cass. 20 marzo, 1995 n. 3223; Cass. S.U. 10.12.1984 n. 6476). Quan-to al rapporto tra la disciplina codicistica e le leggi speciali contro gli inquinamenti (atmosferico, acustico, ambienta-le), la giurisprudenza tende a distinguere i due livelli di tutela, evidenziandone le diverse finalità e campi d’appli-cazione, essendo, l’una, operante nei rapporti tra proprieta-ri di fondi confinanti, a tutela del diritto di proprietà, e, le altre, destinate a regolare i rapporti tra privati e pubblica amministrazione, perseguendo interessi pubblici legati alla tutela della salute e dell’ambiente (Cass. 27.1.2003 n. 1151). Si ammette, tuttavia, che il giudice possa avvalersi dei pa-rametri fissati da norme speciali al fine di valutare l’intol-lerabilità o meno delle immissioni, purché siano considera-ti come criteri minimali di partenza, non vincolanti (Cass. 29.10.2015 n. 22105). Ne consegue che l’osservanza di dette normative tecniche speciali non è dirimente nell’e-scludere l’intollerabilità delle immissioni, ben potendo es-sere considerate intollerabili anche quelle immissioni che siano ad esse conformi (Cass. 20.01.2017 n. 1606); vice-versa, il loro superamento è idoneo a determinare la viola-zione della norma in esame (Cass. 18.1.2017 n. 1069). In tema di immissioni acustiche, si ritiene che la differenzia-zione tra tutela civilistica e tutela amministrativa mantenga la sua attualità anche a seguito dell’entrata in vigore del-

l’art. 6-ter, d.l. 30.12.2008 n. 208, conv. con modif. dalla l. 27.2.2009 n. 13, il quale dispone che “nell’accertare la normale tollerabilità delle emissioni acustiche, ai sensi dell’art. 844 del codice civile, sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disci-plinano specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso” (la norma è stata fortemente criticata dalla dottrina, dando conto anche della nota vicenda riguardante l’Auto-dromo di Monza, da cui ha tratto origine, v. MAZZOLA, Le immissioni, cit., pp. 395 e 423; MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 539). Alla luce di un’interpretazione costituzional-mente orientata, infatti, secondo la giurisprudenza non può aprioristicamente attribuirsi all’art. 6-ter portata derogato-ria e limitativa dell’art. 844 c.c., con l’effetto di escludere l’accertamento in concreto del superamento del limite del-la normale tollerabilità (Cass. 7.10.2016 n. 20198; Cass. 27.4.2015 n. 8474; su tale norma si è pronunciata anche la Corte costituzionale che ha dichiarato manifestamente inam-missibile, per carente descrizione della fattispecie, la que-stione di legittimità costituzionale sollevata in relazione agli artt. 3 e 32 Cost., C. cost. 24.3.2011 n. 103). Le dispo-sizioni contenute nell’art. 844 hanno carattere dispositivo e pertanto la regolamentazione dei rapporti di vicinato in materia di immissioni può essere oggetto di disciplina convenzionale, nel qual caso la liceità delle immissioni dovrà essere valutata sulla scorta dei criteri ivi stabiliti (Cass. 7.1.2004 n. 23; Cass. 4.4.2001 n. 4963, entrambe riguardanti regolamenti condominiali di natura contrattua-le contenenti limitazioni maggiori di quelle stabilite dalle norme generali). 2.1. Il contemperamento tra esigenze della produzione e ragioni della proprietà. La priorità di un dato uso – Lad-dove vi sia conflitto tra tutela del diritto di proprietà ed esigenze della produzione, la norma richiede al giudice di procedere ad un giudizio di contemperamento degli inte-ressi confliggenti. Secondo l’interpretazione dominante in giurisprudenza e la dottrina maggioritaria (SALVI, Immis-sioni, cit., p. 2; DE MARTINO, sub art. 844, cit., p. 203; VI-SINTINI, Immissioni, in Noviss. Dig. it., Torino, III, 1982, p. 1218; MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 530; MAZZOLA, Le immissioni, cit., p. 414; contra PROCIDA, MIRABELLI DI LAURO, Immissioni e rapporti proprietari, Edizioni Scien-tifiche Italiane, 1984, p. 240), il co. 2 dell’art. 844 introdu-ce una disciplina speciale per le immissioni causate da attività produttive, in forza della quale, verso pagamento di un equo indennizzo, sono ammesse anche immissioni che superino la normale tollerabilità, se rispondenti alle esi-genze della produzione e non eliminabili mediante misure tecniche non eccessivamente onerose (Cass. 1.2.1993 n. 1226). Il criterio del contemperamento, di cui al co. 2, vie-ne dunque in considerazione solo nell’ipotesi in cui sia stato accertato il superamento dei limiti della normale tol-lerabilità e l’adozione di misure di prevenzione si riveli insufficiente o non sostenibile (c.d. interpretazione dico-tomica, BIANCA, Diritto civile, La proprietà, VI, Milano, 1999, p. 240; MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 529); in tal caso il giudice, nella riconosciuta preminenza dell’inte-resse collettivo al mantenimento della produzione in ter-mini di prodotto e di occupazione, può consentire le im-missioni intollerabili, dietro corresponsione di un congruo indennizzo al soggetto che subisce dette immissioni e che vede affievolito il proprio diritto (Cass. 18.4.2001 n. 5697). Al riguardo, parte della dottrina parla di costituzio-

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ne di una servitù coattiva di immissioni (MATTEI, Tutela inibitoria e tutela risarcitoria. Contributo alla teoria dei diritti sui beni, Milano, 1987, p. 381; GALLINARI, Le im-missioni indirette e l’art. 844 c.c., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1948, p. 280; MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 531; contra SALVI, Le immissioni industriali. Rapporti di vici-nato e tutela dell’ambiente, Milano, 1979, p. 254; CO-STANTINO, op. cit., p. 202). Infine, per risolvere il conflitto di interessi tra ragioni proprietarie ed industriali, il co. 2 prevede che il giudice possa prendere in considerazione la priorità di un determinato uso del fondo (criterio del c.d. preuso), da intendersi in senso oggettivo e non con riferi-mento alla precedenza dell’acquisto del diritto sul fondo (c.d. preuso soggettivo) (Cass. 11.1.1975 n. 111). Secondo giurisprudenza costante, si tratta di criterio sussidiario e facoltativo, pertanto, il giudice del merito non è tenuto a farvi ricorso quando, in base agli opportuni accertamenti di fatto e secondo il suo prudente apprezzamento, ritenga supe-rata la soglia della normale tollerabilità (Cass. 11.5.2005 n. 9865; Cass. 10.1.1996 n. 61; ma v. anche Cass. 11.5.1979 n. 2697, ove, in forza di tale criterio, è stato ridotto l’in-dennizzo dovuto, essendo intervenuto un mutamento di destinazione del fondo che subiva le immissioni, successi-vamente all’inizio dell’attività produttiva che le generava; v. sul punto MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 533; MAZZO-LA, Le immissioni, cit., p. 398). Si ritiene che la tollerabili-tà debba essere valutata facendo riferimento alla destina-zione della zona nella quale sono situati gli immobili; di conseguenza, se essa è prevalentemente abitativa, il con-temperamento delle ragioni della proprietà con quelle del-l’industria deve essere effettuato privilegiando le esigenze personali di vita connesse all’abitazione, rispetto alle utili-tà economiche derivanti dall’esercizio di attività produttive e commerciali (Cass. 18.4.2001 n. 5697). Ciò non implica, tuttavia, che nelle zone a prevalente vocazione industriale debbano necessariamente considerarsi lecite e tollerabili tutte le immissioni determinate dall’attività produttiva (Cass. 29.11.1999 n. 13334; Cass. 1.2.1993 n. 1226). In ambito condominiale, qualora le singole unità immobiliari siano soggette a destinazioni differenti, nel valutare la le-gittimità o meno delle immissioni, applicando il criterio dell’utilità sociale di cui all’art. 844, le esigenze personali di vita connesse all’abitazione vanno privilegiate rispetto alle utilità economiche derivanti dall’esercizio di attività commerciali (Cass. 15.3.1993 n. 3090). In ogni caso, nella valutazione del bilanciamento delle confliggenti esigenze proprietarie ed industriali, la giurisprudenza più recente, alla luce di una interpretazione della norma costituzional-mente orientata, attribuisce valore preminente al bene sa-lute, che non può essere sacrificato per soddisfare gli inte-ressi della produzione (Cass. 12.7.2016 n. 14180; BIANCA, Diritto civile, La proprietà, VI, Milano, 1999, p. 243).

3. La tutela contro le immissioni – Sulla base della norma in esame e della relativa elaborazione giurisprudenziale è possibile individuare tre categorie di immissioni: i) le im-missioni lecite ex art. 844, co. 1, perché entro la soglia della normale tollerabilità, e che il proprietario non può impedire; ii) le immissioni illecite perché intollerabili; iii) le immissioni lecite ex art. 844, co. 2, sebbene intollerabili, in quanto rispondenti alle esigenze della produzione, giu-dicate preminenti nell’interesse collettivo, ed inevitabili (Cass. 13.1.1975 n. 111; SALVI, Immissioni, cit., p. 2

MAZZOLA, Le immissioni, cit., pp. 414 e 429; MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 532; DOGLIOTTI, FIGONE, Immissioni ed interessi diffusi, in CENDON (a cura di), La responsabi-lità civile, Il diritto privato nella giurisprudenza, VIII, Torino, 1998, p. 138). Nel caso sub ii) di immissioni che superino la normale tollerabilità, a favore del proprietario del fondo danneggiato sono previste due distinte azioni, cumulabili tra loro: l’azione inibitoria, di carattere reale, volta ad ottenere l’eliminazione delle immissioni intollera-bili, e quella risarcitoria, di natura personale, diretta a ottenere il risarcimento del danno subito ex art. 2043 c.c., anche in forma specifica ex art. 2058 c.c. (Cass. 11.11.2016 n. 23245; Cass. 29.4.2005 n. 8999; Cass. 2.6.2000 n. 7420; Cass. 16.6.1987 n. 5287; MAZZOLA, Le immissioni, cit., p. 380; al riguardo, si è precisato che si parla impropriamente di azione di natura personale, poiché l’obbligo risarcitorio sarebbe una obligatio propter rem, GAMBARO, sub art. 844, cit., p. 453). L’azione inibitoria, riconducibile all’a-zione negatoria ex art. 949 c.c., è volta a far accertare in via definitiva l’illegittimità delle immissioni e ad ottenere la cessazione delle immissioni o il compimento delle mo-difiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare (Cass. S.U. 15.10.1998 n. 10186). Attesa la sua natura rea-le, è imprescrittibile. La dottrina distingue tra inibitoria negativa, con la quale viene ordinata la cessazione dell’at-tività che provoca le immissioni, e inibitoria positiva, che comporta l’ordine di adottare specifici accorgimenti tecni-ci e che risulta adottata con maggiore frequenza dalla giu-risprudenza (MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 532). Al ri-guardo, è stato precisato che la domanda di cessazione delle immissioni che superino la normale tollerabilità non vin-cola necessariamente il giudice ad adottare una misura de-terminata, ben potendo egli ordinare l’attuazione di quegli accorgimenti che siano concretamente idonei ad eliminare la situazione pregiudizievole (Cass. 30.8.2017 n. 20553). Nella liquidazione del danno da immissione illecita, che si ritiene in re ipsa (Cass. 12.2.2016 n. 2864), non va applicato alcun criterio di contemperamento degli interessi, né di prio-rità d’uso, posto che si rientra nello schema generale dell’azione di risarcimento ex art. 2043 c.c. e, per quanto concerne il danno alla salute, nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. (Cass. 31.10.2014 n. 23283). L’autore delle immissioni illecite è tenuto, ove sia stata formulata espressa domanda al giudi-ce, al risarcimento sia del danno patrimoniale, sia di quello non patrimoniale, liquidabili anche in via equitativa, accer-tata lìeffettività del danno (Cass. S.U. 27.2.2013 n. 4848). Il danno patrimoniale da deprezzamento dell’immobile comprende la diminuzione del valore d’uso del bene, lega-to al godimento diretto dello stesso, ma anche la diminu-zione del suo valore di scambio (Cass. 2.6.2000 n. 7420; MAZZOLA, Le immissioni, cit., p. 437). Inoltre, può essere liquidata una somma con riferimento al pregiudizio per la mancata disponibilità dell’immobile interessato dalle im-missioni, avuto riguardo al reddito che lo stesso era suscet-tibile di fornire (Cass. 18.5.2015 n. 10169). La determina-zione del ristoro spettante al proprietario del fondo dan-neggiato dalle immissioni, quando il bene è goduto diretta-mente dallo stesso, va effettuata avendo riguardo alla natu-rale destinazione originaria del fondo, alle possibili moda-lità di godimento del proprietario, nonché alla maggiore o minore prevedibile durata delle immissioni (Cass. 5.8.1992 n. 9298). La domanda di risarcimento del danno non pa-

Titolo II – Della proprietà 844

trimoniale va formulata in modo autonomo, non essendo ricompresa in quella ex art. 844 c.c. (Cass. 6.12.2000 n. 15509; Cass. S.U. 15.10.1998 n. 10186; C. cost. 23.7.1974 n. 247), né in quella relativa al ristoro del mero danno pa-trimoniale (Cass. 17.7.2012 n. 12218). Il danno non patri-moniale conseguente ad immissioni illecite, peraltro, è risarcibile indipendentemente da un danno biologico “do-cumentato”, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplica-zione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti (Cass. 4.7.2017 n. 16408; Cass. S.U. 20.1.2017 n. 1606). Contro le immis-sioni moleste eccedenti la normale tollerabilità è ammessa anche la tutela possessoria (Cass. 30.5.2005 n. 11382; Cass. 10.9.1997 n. 8829), nonché la tutela cautelare in via d’ur-genza ex art. 700 c.p.c. (Trib. Roma ord. 9.5.2011, in Resp. civ. prev., 2011, 11, 2331; Trib. Milano ord. 11.11.2005, in Resp. civ. prev., 2006, 2, p. 317). In caso di immissioni lecite, sebbene intollerabili, perché rispondenti alle esigen-ze della produzione ed inevitabili (caso sub iii)), il proprie-tario del fondo che le subisce non può ottenere l’inibizione delle stesse. Tuttavia, la giurisprudenza riconosce al pro-prietario il diritto ad un congruo indennizzo, che vale a compensarlo del pregiudizio subito dal fondo a causa delle immissioni (Trib. Firenze 6.3.2017, in Imm.e propr., 2017, 7, p. 466; Cass. 15.1.1986 n. 184). In merito alla natura giuridica di tale indennità, alcune pronunce ritengono che sia riconducibile alla responsabilità da atto lecito dannoso (Cass. 6.6.2000 n. 7545; Cass. 26.5.1990 n. 4903), altre alla creazione di una servitù coattiva (Cass. S.U. 29.7.1995 n. 8300; sulle diverse teorie elaborate dalla dottrina in me-rito alla natura giuridica di tale indennità si veda SALVI, Le immissioni industriali. Rapporti di vicinato e tutela del-l’ambiente, Milano, 1979, p. 326). L’obbligo di indennizzo costituisce un debito di valore, essendo diretto a ripristina-re l’originaria entità del patrimonio leso dalle immissioni (Cass. 15.1.1986 n. 184). Il criterio generalmente adottato è quello della capitalizzazione del minor reddito del fon-do (Cass. 19.5.1976 n. 1796; MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 532), inclusi i danni futuri (Cass. 13.1.1975 n. 111), ma il giudice può anche liquidare la somma in via equitativa (Cass. 18.8.1981 n. 4937). In sede di liquidazione del pre-giudizio subito dal fondo, non sono computabili, in detra-zione, i vantaggi che il fondo medesimo riceva per il trovarsi in una zona di sviluppo industriale, essendo applicabile la compensazione tra danno subito e incremento di valore del fondo solo quando i due aspetti sono conseguenza immedia-ta e diretta di una stessa causa (Cass. 15.1.1986 n. 184). Det-ta indennità non comprende, invece, i danni diversi dalla diminuzione di valore del fondo, come i danni alla persona, che sarebbero risarcibili autonomamente ex art. 2043 c.c., invocando l’immissione come fatto illecito, a prescindere ed indipendentemente dalla sua eventuale liceità nel rapporto di vicinato fra i fondi (Cass. 19.5.1976 n. 1796; contra Cass. S.U. 26.10.1957 n. 4156). In giurisprudenza si è sottolineato che domanda di indennizzo e domanda di risarcimento del danno sono del tutto diverse, perché la prima, fondata sull’art. 844 c.c., ha natura reale ed è volta ad ottenere un indennizzo da attività lecita, per compensare il pregiudizio subito dal fondo a causa delle immissioni, mentre la secon-da, fondata sull’art. 2043 c.c., ha natura personale e mira a reintegrare economicamente il proprietario del fondo dei

danni arrecatigli dalle stesse, sotto tale profilo considerato come fatto illecito (Cass. 6.6.2000 n. 7545; MAZZOLA, Le immissioni, cit., p. 428; MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 533).

4. Profili processuali – Con riferimento all’azione inibitoria, alla luce di un’interpretazione estensiva, la legittimazione attiva spetta non solo al proprietario, ma anche al titolare di un diritto reale (superficiario, enfiteuta, titolare di usufrutto, uso o abitazione) o di un diritto personale di godimento sul fondo che subisce le immissioni (ad esempio, il conduttore) (Cass. 22.12.1995 n. 13069), cosí come a chi abbia ricevuto la consegna del bene in anticipo rispetto alla conclusione del contratto definitivo (Cass. 11.11.1992 n. 12133). Sul versante della legittimazione passiva, si ritiene che l’azione inibitoria, laddove miri ad ottenere un effetto rea-le, come nel caso in cui sia diretta ad accertare l’illegit-timità delle immissioni e alla realizzazione delle modifiche strutturali necessarie per la cessazione delle stesse, vada proposta nei confronti del proprietario dell’immobile; tut-tavia, può essere esperita anche nei confronti dell’autore materiale delle immissioni, non proprietario, quando allo stesso debba essere imposto un facere o un non facere o quando l’attore chieda semplicemente la cessazione delle immissioni (Cass. 9.6.2010 n. 13881; GAMBARO, sub art. 844, cit., p. 436). Tale azione può, comunque, essere cu-mulata con una domanda risarcitoria verso altri convenuti ex art. 2043 c.c. (Cass. 11.11.2016 n. 23245). In via ag-giuntiva o in via esclusiva rispetto all’azione inibitoria, chi abbia subito un danno in conseguenza di immissioni intol-lerabili può agire per il risarcimento dello stesso. In questo caso, la legittimazione passiva sussiste sia in capo al pro-prietario, che in capo al conduttore, quale autore materiale delle immissioni, non proprietario (Cass. 24.4.2005 n. 8999). Si ritiene che il proprietario abbia la legittimazione passiva anche in caso di immissioni derivanti dalle particolari mo-dalità di uso del fondo da parte del conduttore, quando esiste un nesso oggettivo di causalità, non di mera occa-sionalità, tra la condotta del proprietario e l’evento danno-so e quando sussiste la colpa del proprietario per aver con-cesso il fondo in locazione, con la consapevolezza dell’uso molesto da parte del conduttore, e per non essere interve-nuto affinché il conduttore apportasse le modifiche e gli adattamenti necessari (Cass. 1.3.2018 n. 4908; Cass. 4.7.2017 n. 16407; Cass. 24.1.1985 n. 318). Con riferimento al riparto di giurisdizione, si è affermato che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le domande dirette ad ottenere l’accertamento dell’illiceità delle immissioni, l’esecuzione di opere idonee ad elimina-re le immissioni stesse, nonché il risarcimento dei danni subiti, posto che si agisce a tutela di diritti soggettivi lesi dalle immissioni, senza investire alcun provvedimento am-ministrativo (Cass. 8.5.2017 n. 11142; Cass. 12.7.2016 n. 14180). In tema di immissioni acustiche provenienti da autostrada non legittimate dal provvedimento concessorio, v. Cass. 31.1.2018 n. 2338. Spettano, invece, alla giurisdi-zione del giudice amministrativo le domande che non in-vestano l’intollerabilità delle immissioni, ma abbiano ad oggetto l’impugnativa diretta di provvedimenti ammini-strativi (come nel caso di provvedimenti comunali finaliz-zati a tutelare la salubrità e l’igiene del territorio, v. Cass. S.U. 23.1.2012 n. 833). Le controversie in materia di im-missioni, relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione, appartengono alla

844 Libro III – Della proprietà

competenza per materia, senza limiti di valore, del Giudice di Pace (art. 7, co. 3, n. 3, c.p.c.). L’entità delle immissioni rumorose e il superamento del limite della normale tollerabilità possono essere oggetto di deposizione testimoniale, di cui il giudice valuterà attendi-bilità e congruità rispetto al thema probandum (Cass. 12.2.2016 n. 2864). La prova delle conseguenze dannose delle immissioni illecite può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza (Cass. S.U. 1.2.2017 n. 2611; Cass. 20.10.2015 n. 21173). È, invece, ritenuta doverosa la consulenza tecnica nei casi in cui si debba verificare il nesso di causalità tra danni materia-li agli immobili, o danni relativi a patologie cliniche, e la fonte delle immissioni stesse, potendo anche assurgere al rango di fonte oggettiva di prova (Cass. 7.9.2016 n. 17685).

5. Immissioni e diritto alla salute – Parte della dottrina e della giurisprudenza sono orientate verso una lettura esten-siva ed evolutiva della norma, non limitata alla tutela del solo diritto di proprietà, ma funzionale alla protezione del valore preminente della salute, quale inviolabile e fonda-mentale attributo della persona garantito dall’art. 32 Cost., e del diritto ad un ambiente salubre (SCALISI, Immissioni di rumore e tutela della salute, in Riv. dir. civ., 1982, p. 157; D’ANGELO, L’art.844 codice civile e il diritto alla salute, in BUSNELLI, BRECCIA (a cura di), Tutela della sa-lute e diritto privato, Milano, 1978, p. 418; MAZZOLA, Le immissioni, cit., p. 430; contra FRANCARIO, Proprietà fon-diaria, in Tratt. Rescigno, VII, Torino, 2005, p. 477; SAL-VI, Le immissioni industriali. Rapporti di vicinato e tutela dell’ambiente, Milano, 1979, p. 6). In particolare, si è rite-nuto che, alla luce di una interpretazione costituzionalmen-te orientata della norma, il limite della tutela della salute sia, ormai, intrinseco nell’attività di produzione, oltre che nei rapporti di vicinato, per cui nel giudizio di contempe-ramento tra ragioni proprietarie ed esigenze industriali deve considerarsi prevalente la tutela della qualità della vita e della salute (Cass. 12.7.2016 n. 17685). In caso di immissioni nocive per la salute, il giudice può dunque pro-cedere ad un contemperamento solo al fine di adottare i rimedi tecnici che consentano la prosecuzione dell’attività, nel rispetto del limite della tollerabilità (Cass. 23.5.2013 n. 12828). È stato, tuttavia, rilevato che l’art. 844 c.c. mira alla tutela della proprietà nella sua pienezza, con riferi-mento alle multiformi esigenze di vita e di piena fruibilità del bene, e non alla tutela della salute in quanto tale, che è invece affidata alle regole della responsabilità extracontrat-tuale (Cass. 2.4.2015 n. 6786; C. cost. 23.7.1974 n. 247). Ne consegue che, per la tutela del diritto alla salute, in ca-so di lesione dipendente da immissioni, va proposta in modo espresso autonoma domanda ex artt. 2043 e 2059 c.c., non potendosi ritenere compresa in quella di natura reale ex art. 844 c.c. (Cass. 31.10.2014 n. 23283; contra Cass. 23.5.2013 n. 12828, secondo cui, contro le immis-sioni dannose per la salute, è sufficiente la tutela ex art. 844 c.c.; in dottrina v. PATTI, La tutela civile dell’am-biente, Padova, 1979, p. 16; DI GIOVANNI, Strumenti pri-vatistici e tutela dell’“ambiente”, Padova, 1982, p. 69; MAUGERI, sub art. 844, cit., p. 535). In merito alla risarci-bilità del pregiudizio per accertata esposizione ad immis-sioni intollerabili, in giurisprudenza si segnalano due indi-rizzi (CARBONE, Il diritto vivente delle “immissioni”: in-

tollerabile è anche il danno alla tranquillità familiare pur se non si misura in decibel, in Danno e resp., 2016, 1, p. 29). Un primo indirizzo ammette il risarcimento dei danni non patrimoniali solo in ipotesi di lesione all’integrità psico-fisica, quale bene costituzionalmente tutelato dal-l’art. 32 Cost., nella forma del c.d. danno biologico (Cass. 18.1.2006 n. 828; Cass. 20.3.2012 n. 4394), di cui va for-nita la prova specifica (Cass. 10.12.2009 n. 25820; contra Cass. 31.10.2014 n. 23283 che ritiene il danno sussistente in re ipsa). Il secondo indirizzo, cui aderisce anche la giu-risprudenza più recente, ritiene invece risarcibili anche i danni all’ordinario svolgimento della vita privata e fami-liare (Cass. 7.5.2018 n. 10861). Si è, cosí, affermata la risarcibilità della lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione (Cass. 19.12.2014 n. 26899). La giurisprudenza più recente ha riconosciuto la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da immis-sioni intollerabili, anche indipendentemente dalla sussisten-za di un danno biologico, in caso di lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplica-zione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali di-ritti garantiti dalla Costituzione e dall’art. 8 della Conven-zione europea dei diritti dell’uomo (Cass. 28.8.2017 n. 20445; Cass. S.U. 1.2.2017 n. 2611; Cass. 16.10.2015 n. 20927; Cass. 31.3.2009 n. 7875, che individua nelle ri-percussioni negative sul modo di vivere la casa un danno esistenziale; contra Cass. 8.3.2010 n. 5564, che non ritiene configurabile un danno non patrimoniale per lesione del di-ritto alla tranquillità domestica; in ambito europeo v. CEDU 9.11.2010, Dees v. Ungheria; CEDU 18.10.2008 n. 61260, Oluic v. Croazia). Secondo questo recente orientamento giu-risprudenziale, più favorevole alla tutela del cittadino, anche in assenza di danno alla salute, il concetto di intollerabilità delle immissioni va, dunque, definito non solo attraverso un’interpretazione “costituzionalmente orientata”, ma anche attraverso un’interpretazione “comunitariamente orientata”, alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cass. 16.10.2015 n. 20927). Il diritto vivente ha quindi de-terminato un’interpretazione più ampia dell’art. 844 c.c., quale norma non limitata alla protezione della salute e del-l’integrità ambientale, ma estesa alla tutela dell’ordinario svol-gimento della vita familiare all’interno della propria abita-zione (CARBONE, Il diritto vivente delle “immissioni”: intol-lerabile è anche il danno alla tranquillità familiare pur se non si misura in decibel, in Danno e resp., 2016, 1, p. 30). In materia di prova del danno alla salute si è recentemente affermato che la consulenza tecnica può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova, quando si risolva in uno stru-mento di accertamento di situazioni rilevabili solo con ri-corso a determinate cognizioni tecniche (Cass. 7.9.2016 n. 17685). In caso di compromissione dell’equilibrio psico-fisico del soggetto esposto ad immissioni intollerabili, il danno, pur non essendo configurabile in re ipsa, può esse-re dimostrato mediante certificati medici (Cass. 27.6.2016 n. 13208). La prova della lesione del diritto al riposo e alla tranquillità o, più in generale, della lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della pro-pria abitazione e del diritto alla piena e libera esplicazione delle proprie abitudini di vita può essere fornita anche median-te presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza (Cass. 1.2.2017 n. 2611; Cass. 20.10.2015 n. 21173).

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

2043 Risarcimento per fatto illecito Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno

Estremi Normativi di riferimento (codice ed extracodice) Dei fatti illeciti (artt. 2043-2059 c.c.) Fonti delle obbligazioni (art. 1173 c.c.) Tutela dei diritti e interessi legittimi del singolo (art. 24, co. 1, Cost.) Omissione di soccorso (art. 593 c.p.) Responsabilità della P.A.(art. 28 Cost.) Im-parzialità e buona amministrazione (97, co. 1, Cost.) Processo amministrativo (art. 7, co. 4, l. 21.7.2000 n. 205) Responsabilità medica (l. 8.3.2017 n. 24, c.d. Legge Gelli-Bianco; l. 8.11.2012 n. 189 c.d. Legge Balduzzi) Responsabi-lità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario (art. 590-sexies c.p.) Codice delle assicurazioni (artt. 138 e 139, d.lgs. 7.9.2005 n. 209) Responsabilità dei magistrati (l. 13.4.1988 n. 117) Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze (l. 20.5.2016 n. 76 c.d. Legge Cirinnà) Codice del Con-sumo (d.lgs. 6.9.2005 n. 206).

SOMMARIO 1. La responsabilità da fatto illecito: introduzione. – 2. Gli elementi costitutivi della nozione di fatto illecito: il fat-to. – 3. Segue. Il danno ingiusto come danno cagionato non nell’esercizio di un diritto e come lesione di un inte-resse altrui meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. – 4. Segue. Il rapporto di causalità tra il fatto e il danno. – 5. Segue. Il dolo o la colpa. – 6. Il risarcimento del danno. – 7. La responsabilità del produttore.

1. La responsabilità da fatto illecito: introduzione – È fatto illecito «qualunque fatto doloso o colposo, che ca-giona ad altri un danno ingiusto». I fatti illeciti sono collo-cati dall’art. 1173 fra le fonti delle obbligazioni. L’ob-bligazione che ne deriva è, in particolare, l’obbligazione di risarcire il danno che il fatto illecito ha cagionato: è, di regola, una obbligazione di dare, avente per oggetto il pa-gamento di una somma di danaro, che rappresenta l’equi-valente monetario del danno cagionato; ma è anche am-messo, se possibile, il risarcimento in forma specifica (v. sub art. 2058), che può dare luogo ad una obbligazione di fare. Sebbene il fatto illecito sia una fonte di obbligazione alla pari del contratto, la responsabilità contrattuale, che è responsabilità per inadempimento delle obbligazioni na-scenti dal contratto, si colloca su di un piano diverso, che è poi il medesimo piano sul quale si colloca la responsabili-tà, anch’essa responsabilità per inadempimento (non già di chi commetta un fatto illecito bensì) di chi non adempia l’obbligazione derivante dal fatto illecito commesso (GAL-GANO, Trattato di diritto civile, vol. III, Padova, 2010, p. 110). L’espressione «responsabilità contrattuale» è gene-ralmente impiegata per indicare non solo la responsabilità per inadempimento delle obbligazioni nascenti da contrat-to, ma anche ogni altra responsabilità, diversa dalla re-sponsabilità da fatto illecito, che derivi dall’inadempimento di obbligazioni nascenti dagli altri atti o fatti di cui all’art. 1173 o, accogliendo tale (dubbia) categoria, di obbligazio-ni ex lege (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 111; VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1999, p. 73; ID., Trattato breve della re-sponsabilità civile, Padova, 2005, p. 119; MENGONI, voce Responsabilità contrattuale (diritto vigente) in Enciclope-dia del diritto, Milano, 1988, p. 1072; FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, p. 14; CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, Mi-lano, 2006, p. 555; per un’applicazione in giurisprudenza v. Cass. 2.4.2009 n. 8093, secondo la quale il rapporto

tra cittadino-utente e struttura sanitaria publica o con-venzionata non si può qualificare come contratto, «trattan-dosi soltanto dell’adempimento di un dovere di prestazio-ne direttamente discendente dalla legge» Per indicare la responsabilità per danni si parla anche, e più frequente-mente, di responsabilità civile, contrapponendola, a que-sto modo, alla responsabilità penale cui è esposto l’autore di un fatto illecito previsto dalla legge come reato: un me-desimo fatto può così essere fonte sia di responsabilità penale, sia di responsabilità civile. Altra terminologia è quella che si basa sul concetto di illecito o di torto, e di-stingue fra illecito civile e illecito penale, fra illecito (civi-le) o torto contrattuale e illecito o torto extracontrattuale (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 110). La nozione di fatto illecito, enunciata dall’art. 2043, non copre l’intero ambito della responsabilità extracontrattuale o responsabilità civile (GALGANO, Trattato di diritto civi-le, vol. III, cit., p. 111; FRANZONI, L’illecito, in Tratt. Franzoni, Milano, 2004, p. 18; SALVI, voce Responsabili-tà extracontrattuale (diritto vigente), in Enciclopedia del diritto, Milano, 1988, p. 1188); ne restano fuori, in primo luogo: i casi di responsabilità indiretta (v. sub artt. 2047, 2048, 2049, 2054, co. 3), in quanto in detta ipotesi la re-sponsabilità non investe solo, come predica l’art. 2043, «colui che ha commesso il fatto», ma anche un soggetto diverso, al quale non può essere ascritto alcun fatto illeci-to; in secondo luogo non vi rientrano i casi di responsabili-tà oggettiva (v. sub artt. 2050-2054) in quanto in questi casi la responsabilità non investe un soggetto al quale sia ascrivibile un fatto definibile come illecito, ossia come antigiuridico, commesso in violazione di norme di diritto oggettivo, ma investe un soggetto che si trovi in una data relazione con la cosa o l’animale che ha cagionato il dan-no, quella di custode o di proprietario o di utilizzatore del-la cosa o dell’animale. L’odierno art. 2043 riguarda solo l’obbligazione di risarcimento del danno per «fatto pro-prio»; non anche quella di risarcimento del danno cagiona-

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to da cose, alle quali non si addice la generalizzante quali-ficazione di obbligazioni da «fatto illecito» adottata dalla rubrica del titolo nono e, prima ancora, dall’art. 1173 (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 112). Scomposto nei suoi elementi costitutivi, il fatto illecito di cui all’art. 2043 presenta elementi oggettivi: il fatto com-messo, il danno ingiusto, il rapporto di causalità fra fatto e danno; ed elementi soggettivi: il dolo o la colpa. Alcuni di essi riguardano solo la responsabilità per fatto proprio, mentre altri hanno carattere universale, ossia riguardano ogni fattispecie produttiva di responsabilità extracontrat-tuale. In particolare: a) un fatto umano, ascrivibile al sog-getto chiamato a rispondere del danno, manca del tutto nei casi di danno da cose (v. artt. 2051-2052); un fatto umano è presente nei casi di responsabilità indiretta, ma è com-messo da un soggetto diverso da chi è chiamato a rispon-derne; b) il danno qualificabile come ingiusto è estremo universale: senza di esso non c’è responsabilità in nessuna delle fattispecie previste dal titolo nono; c) il rapporto di causalità è anch’esso universale, ma si atteggia diversa-mente nei diversi casi: è causalità fra fatto e danno nei casi di responsabilità da fatto umano, proprio o altrui; è causa-lità fra cosa e danno nei casi di danno cagionato da cose; d) l’estremo del dolo e della colpa è assente in tutti i mol-teplici casi di responsabilità oggettiva (v. sub artt. 2050-2054; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 113). Non è tutto: l’art. 2046 pone il requisito della «impu-tabilità del fatto dannoso», perché si possa essere chiamati a rispondere delle sue conseguenze; esige, cioè, che il fatto sia stato commesso da chi aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso. Neppure que-sto è un estremo universale della responsabilità civile: vale per la responsabilità da fatto proprio, non per la responsa-bilità da fatto altrui; né vale per la responsabilità oggettiva (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 113; MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, 3, Responsabilità civile, in Tratt. Sacco, Torino, 1998, p. 262; VISINTINI, I fatti illeciti, I. Ingiustizia del danno. Imputabilità, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commer-ciale, diretti da Galgano, Padova, 1987, p. 515; ID., Tratta-to breve della responsabilità civile, Padova, 2005, p. 603; CENDON, Il dolo nella responsabilità extracontrattuale, Torino, 1974, p. 415; FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, p. 324; ID, L’il-lecito, in Tratt. Franzoni, Milano, 2004, p. 1040; contra BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994 (ristampa 2001), p. 712; v. sub art. 2046, par. 3). Tutto ciò mette in chiara evidenza come la responsabilità civile non assolva una funzione unitaria, e meno che mai può essere ricondotta alla violazione di un generale principio espri-mibile in termini di neminem laedere (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 113; MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, cit., p. 196, CRICENTI, Il problema del-la colpa omissiva, Padova, 2002, p. 14). La sua funzione varia in ragione dei diversi presupposti di volta in volta richiesti dagli artt. 2043-2059: non è la sanzione per la violazione di un precetto, perché l’estremo dell’antigiuri-dicità manca in tutti i casi nei quali non si è chiamati a ri-spondere per il fatto proprio; talora, come nel caso di ri-sarcimento del danno cagionato da cose, appare destinata a svolgere una funzione essenzialmente preventiva, valendo ad indurre il proprietario o utilizzatore o custode ad eserci-tare sulla cosa la massima vigilanza; spesso, ma non sem-

pre, ha la funzione di reintegrare un patrimonio leso dal danno ingiusto, e questa funzione non ha il risarcimento del danno non patrimoniale (v. sub art. 2059), cui oggi si tende a guardare come ad una sorta di pena privata (GAL-GANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 113; PON-ZANELLI, voce Pena privata, in Enciclopedia giuridica Treccani, XXII, Roma, 1990, p. 4; ID., Attenzione: non è danno esistenziale ma vera e propria pena privata, in Danno e responsabilità, Milano, 2000, 1, p. 842, con ri-guardo al c.d. danno esistenziale; BONILINI, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, p. 272; PATTI, voce Pena pri-vata, in Digesto delle discipline privatistiche, XIII, Torino, 1995, p. 354; contra SALVI, Risarcimento del danno extra-contrattuale e pena privata, in Le pene private a cura di Busnelli F.D. e Scalfi G., Milano, 1985, p. 325). Si ritene-va dunque esclusa, allo stato, la possibilità, consentita in altri sistemi, come negli Stati Uniti, di ottenere i cosiddetti risarcimenti punitivi, pari ad un multiplo del danno effet-tivamente subito. La politica del diritto sottostante ai dan-ni punitivi sta nella ricerca di un piú efficace deterrente alla illegalità, alternativo alla azione punitiva dei pubblici poteri, diretta ad irrogare sanzioni penali o amministrative. Una scelta diversa è stata invece compiuta più recentemen-te dalle sezioni unite della Cassazione proprio con riferi-mento al tema della delibabilità delle sentenze straniere di condanna ai danni punitivi, che in precedenza la Cas-sazione aveva sempre escluso (Cass. 8.2.2012 n. 1781). Con il celebre arresto di Cass. S.U. 5.7.2017 n. 16601, le sezioni unite hanno ammesso la delibabilità in Italia di sentenze straniere che prevedano i cosiddetti danni puni-tivi affermando che «nel vigente ordinamento, alla respon-sabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema anche la funzione di deter-renza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispon-dere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordina-mento straniero su basi normative che garantiscano la tipi-cità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico» (v. ROLLI, Il diritto privato nella società 4.0, cit., p. 198 ss.; D’ALES-SANDRO, Riconoscimento di sentenze di condanna a danni punitivi: tanto tuonò che piovve, in Foro it., 2017, I, p. 2639 ss.; DI MAJO, Principio di legalità e proporzionalità nel risarcimento con funzione punitiva, in Giur. it., 2017, p. 1792 ss.; LA TORRE, Un punto fermo sul problema dei danni punitivi, in Danno e resp., 2017, p. 419 ss.; GRON-DONA, Le direzioni della responsabilità civile tra ordine pubblico e punitive damages, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, p. 1392 ss.; CORSI, Le Sezioni Unite: via libera al riconoscimento di sentenze comminatorie di punitive da-mages, in Danno e resp., 2017, p. 229; PONZANELLI, Poli-funzionalità tra diritto internazionale privato e diritto pri-vato, in Danno e resp., 2017, p. 435; MONATERI, Le Se-zioni Unite e le molteplici funzioni della responsabilità civile, in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 1410 ss.; GAM-BARO, Le funzioni della responsabilità civile tra diritto giurisprudenziale e dialoghi transazionali, in Nuova giur

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

civ. comm., 2017, II, p. 1405 ss.; SCOGNAMIGLIO, Le Se-zioni Unite ed i danni punitivi: tra legge e giudizio, in Resp. civ. e prev., 2017, p. 1109 ss.; CASTRONOVO, Diritto privato e realtà sociale. Sui rapporti tra legge e giurisdi-zione a proposito di giustizia, in Europa e diritto privato, 2017, p. 765 ss.; LOPEZ DE GONZALO, Proprietà intellet-tuale e danni punitivi di fronte alla Corte di Giustizia eu-ropea, in Dir. del comm. int., 2017, p. 435 ss.). Si mobilita la società civile, confidando sul fatto che gli stessi privati, spinti dall’egoistico movente di trarne un cospicuo van-taggio, siano fortemente indotti ad attivarsi per la persecu-zione degli illeciti, cosí contribuendo a disincentivare l’il-legalità. Questa filosofia della società civile è alla base anche delle class actions (su cui vedi infra), esercitate dal singolo nell’interesse di quanti sono portatori del medesi-mo suo interesse; ma ha limitati riscontri in Europa, anche se in qualche misura sollecitata dalla riforma costituziona-le italiana del 2001, che ha introdotto il principio di sussi-diarietà (al nuovo art. 118, co. 4, Cost., per il quale lo Sta-to e gli altri enti territoriali «favoriscono l’autonoma ini-ziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà»). Per class actions, nel senso proprio dell’e-spressione, si intendono le cosiddette damage class ac-tions, disciplinate dalla rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure, miranti ad un ristoro (redress) della lesione subita dalla class, attraverso il risarcimento del danno che ha coinvolto globalmente quest’ultima. Equivalenti tecni-che di protezione non sono praticabili nel sistema italiano, dove vige il principio costituzionale (art. 24, co. 1, Cost.) secondo il quale l’azione in giudizio è riconosciuta ai sin-goli solo «per la tutela dei propri diritti e interessi legitti-mi». Solo quando i portatori di interessi omogenei si orga-nizzano in associazioni aventi quale scopo statutario la tutela dei loro interessi, allora viene a queste associazioni riconosciuta, quali enti esponenziali degli interessi in que-stione, una legittimazione ad agire in giudizio per la rea-lizzazione dello scopo statutario. È il caso delle associa-zioni rappresentative di categorie produttive, cui è attribui-ta legittimazione processuale dall’art. 2601, o quello delle associazioni dei consumatori, a ciò legittimate dall’art. 139 c. cons., nonché dall’art. 140 bis del medesimo c. cons., introdotto dalla legge finanziaria 2008 (legge 24.12.2007 n. 24). Le azioni collettive delle associazioni dei consu-matori (su cui vedi infra al n. 6) tuttavia hanno solo una vaga somiglianza con le class actions (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 230) ed il risarcimento pu-nitivo è ancora assente dal nostro sistema della responsabi-lità civile, anche se può trovare un qualche riscontro nel risarcimento del danno non patrimoniale (GALGANO, Trat-tato di diritto civile, vol. III, cit., p. 249).

2. Gli elementi costitutivi della nozione di fatto illecito: il fatto – Il fatto è un comportamento umano, che può essere un comportamento commissivo (consistente in un fare) oppure un comportamento omissivo (consistente in un non fare), ma il comportamento omissivo, secondo l’opi-nione tradizionale e prevalente, è fonte di responsabilità solo se posto in essere in violazione di una norma giuridi-ca, ossia solo se il soggetto, la cui omissione ha cagionato il danno, aveva l’obbligo giuridico di evitarlo (cfr., Cass. 12.4.2018 n. 9067 secondo la quale l’omissione di un certo comportamento rileva, quale condizione determinativa del

processo causale dell’evento dannoso, quando si tratti di condotta imposta da una norma giuridica specifica, sicché il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattua-le, bensì postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto; v. anche Cass. 13.5.2009 n. 11130, che afferma la respon-sabilità della banca per non aver impedito la illegittima levata di un protesto cambiario; Cass. 5.5.2009 n. 10285, che, in applicazione di questo principio, ha ritenuto che all’epoca del disastro aereo di Ustica del 27.6.1980 sul ministero della difesa gravava l’obbligo di garantire la si-curezza dei cieli, oltre che di impedire l’accesso di appa-recchi non autorizzati o nemici, e che il ministero dei tra-sporti era tenuto a garantire l’assistenza e la sicurezza del volo, onde dette amministrazioni sono state dichiarate ob-bligate a risarcire i danni al vettore coinvolto nella sciagu-ra in quanto ritenute responsabili di un illecito omissivo colposo; Cass. S.U. 11.1.2008, nn. 576 e 582, che defini-scono «omissione specifica» quella che si verifica quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica e «omissione generica» quella che si configura quando l’omissione è posta in essere da un soggetto avente particolari obblighi di prevenzione del-l’evento poi verificatosi e, quindi, un generico dovere di intervento in funzione dell’impedimento di quell’evento; Cass. 20.9.2006 n. 20328; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 167; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 151; VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civi-le, Padova, 1999, p. 57; contraCRICENTI, Il problema della colpa omissiva, cit., passim, e specie p. 60). È fatto omis-sivo, ad es., il non prestare soccorso ad un ferito, in quanto l’obbligo di prestare soccorso risulta dall’art. 593 c.p. Do-ve invece non è configurabile un obbligo di evitare il dan-no non c’è responsabilità per l’evento dannoso ex art. 2043 (salva l’applicabilità delle norme in tema di responsabilità oggettiva ed indiretta): così, ad es., non è responsabile del danno derivante dal crollo chi si fosse accorto che l’edi-ficio del vicino era pericolante e si sia astenuto dall’avve-rtire il proprietario; non risponde la banca per i danni ca-gionati da rapinatori ad un cliente in una sua agenzia, giac-ché nessuna norma impone agli istituti di credito di far presidiare i loro locali da guardie armate (Cass. 2.2.1983 n. 908, contra CRICENTI, Il problema della colpa omissi-va, cit., specie p. 73 e p. 86), né risponde per la mancata ricezione, da parte di un proprio cliente, di un vaglia cam-biario speditogli a mezzo raccomandata postale anziché mediante plico assicurato, con successivo incasso della somma da parte di altro soggetto, in quanto la legge non prevede un obbligo giuridico per la banca di assicurare simili plichi (Cass. 16.11.2000 n. 14850); non risponde il controllore di un treno per i danni derivanti ad una passeg-gera a seguito della caduta di una valigia da un bagagliaio in quanto il controllore non ha l’obbligo giuridico di im-pedire un simile evento (Cass. 25.9.1998 n. 9590); non incorre in responsabilità, «per non aver adottato particolari cautele onde impedire l’ingresso di terzi, il proprietario di un immobile disabitato di cui i ladri si siano serviti per accedere al locale sottostante» (Cass. 6.4.1982 n. 2134). Non occorre, tuttavia, che l’obbligo di evitare il danno sia espressamente formulato: lo si suole ritenere implicito nelle norme che impongono doveri di particolare attenzio-ne nella salvaguardia degli interessi altrui, come nel rap-

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porto fra il medico e il paziente o fra la banca ed i propri clien-ti. Sotto il profilo della responsabilità sanitaria si prende in considerazione l’omessa tempestiva terapia (Cass. 16.10.2007 n. 21619) o l’omesso controllo sul sangue destinato alla trasfusione (Cass. S.U. 11.1.2008 nn. 576, 577, 578, 579, 580, 581, 582, 583, 584 e 585); o l’omessa diagnosi tem-pestiva (Cass. 29.11.2010 n. 24143; Cass. 18.9.2008 n. 23846, quest’ultima in relazione ad un’ipotesi in cui l’o-missione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale era possibile intervenire soltanto con un interven-to cd. palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, aveva cagionato al pazien-te un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non aveva potuto fruire di tale intervento e, quindi, aveva dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecu-zione dell’intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze; secondo la Corte, inoltre, l’omessa diagnosi aveva negato al paziente anche di essere messo in condi-zione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche, in vista e fino a quell’esito). La già citata riforma Gelli Bianco sulla responsabilità medica, all’art. 1 qualifica la sicurezza delle cure come parte costitutiva del diritto alla salute e precisa che essa si realizza anche mediante l’in-sieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e ge-stione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sa-nitarie e mediante l’utilizzo appropriato delle risorse strut-turali, tecnologiche ed organizzative. Sotto il profilo della responsabilità della banca, assume specifico rilievo la norma che, all’art. 21 lett. a) del Testo unico della inter-mediazione finanziaria, impone a chi presta servizi di investimento mobiliare, e fra questi alle banche, il dovere di «comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati». Questi doveri degli intermediari finanziari sono ulterior-mente precisati nelle integrazioni apportate al Testo unico dall’art. 14 della l. 28.12.2005 n. 262: «essi classificano il grado di rischiosità dei prodotti finanziari e delle gestioni di portafogli d’investimento e rispettano il principio dell’a-deguatezza fra le operazioni consigliate agli investitori, o effettuate per conto di essi, e il profilo di ciascun cliente, determinato sulla base della sua esperienza in materia di investimenti in prodotti finanziari, della sua situazione fi-nanziaria, dei suoi obiettivi d’investimento e della sua pro-pensione al rischio, salve le diverse disposizioni espressa-mente impartite dall’investitore medesimo in forma scritta, ovvero anche mediante comunicazione telefonica o con l’uso di strumenti telematici, purché siano adottate proce-dure che assicurino l’accertamento della provenienza e la conservazione della documentazione dell’ordine». La vio-lazione di queste prescrizioni espone l’intermediario fi-nanziario a responsabilità contrattuale verso l’investitore, ma al tempo stesso lo espone, grazie al principio del cu-mulo o del concorso fra responsabilità contrattuale ed ex-tracontrattuale, anche a quest’ultimo titolo di responsa-bilità. (Nell’ipotesi di adempimento parziale dell’obbliga-zione risarcitoria da illecito aquiliano gravante sull’inter-mediario nella compravendita di valori mobiliari, al fine di accertare l’eventuale debito residuo ed il suo ammontare v. Cass. 24.5.2018, n.12926). Cass. 8.1.1997 n. 72, ha osser-vato che, sebbene nel nostro ordinamento non esista un

generale dovere, a carico di ciascun consociato, di attivarsi al fine di impedire eventi di danno, tuttavia vi sono molte-plici situazioni da cui possono nascere, per i soggetti che sono coinvolti, doveri e regole di azione, la cui inosser-vanza integra la nozione di omissione imputabile e la conseguente responsabilità civile. In particolare, Cass. 14.5.2018 n. 11695 precisa che in tema di concessione abu-siva di credito, sussiste la responsabilità della banca, che finanzi un’impresa insolvente e ne ritardi perciò il falli-mento, nei confronti dei terzi che, in ragione di ciò, abbia-no confidato nella sua solvibilità ed abbiano continuato ad intrattenere rapporti contrattuali con essa, allorché sia pro-vato che i terzi non fossero a conoscenza dello stato di insolvenza e che tale mancanza di conoscenza non fosse imputabile a colpa; Cass. 13.1.1993 n. 343, ha statuito che dalla normativa che regola il sistema bancario vengono imposti, «a tutela del sistema stesso, e dei soggetti che vi sono inseriti, comportamenti, in parte tipizzati, in parte enu-cleabili caso per caso, la cui violazione può costituire cul-pa in omittendo», alla quale è fatta conseguire la responsa-bilità della banca per concessione abusiva del credito. Cass. 14.6.1999 n. 5880 ha ribadito, ancora in tema di re-sponsabilità omissiva di una banca, che «pur non sussisten-do un obbligo generale ed assoluto del datore di lavoro di dare informazione – alla clientela ed in genere ai terzi – della cessazione dei singoli rapporti di lavoro con i propri dipendenti, tuttavia tale obbligo deve reputarsi imposto tutte le volte che i terzi, in conseguenza delle particolari modalità di svolgimento della prestazione, possano ragio-nevolmente essere indotti a fare affidamento sulla sua per-sistenza». Analogo orientamento in Cass. 8.11.2005 n. 21641, che si è occupata del caso di una banca che aveva rilascia-to a propri clienti una dichiarazione attestante la data del-l’acquisto di azioni operato in borsa per conto loro, senza specificare che si era trattato di acquisto a termine con scadenza in una data successiva: la banca, in particolare, è stata ritenuta responsabile nei confronti di una società che, indotta in errore da tale certificazione, aveva rimborsato le azioni ad alcuni azionisti che invece avevano esercitato il diritto di recesso sebbene la delibera di fusione che legit-timava tale recesso fosse stata adottata dalla società in un momento anteriore all’effettivo acquisto delle azioni da parte di tali azionisti. Secondo Cass. 14.10.1992 n. 11207, ancora, «nel caso di furto di moduli di assegni circolari spediti a mezzo del servizio postale, la banca – per sottrar-si a responsabilità risarcitorie verso il prenditore – non può esimersi, in relazione al pericolo di una loro falsificazione, dall’obbligo di dare al fatto adeguata pubblicità diretta alla generalità dei possibili prenditori degli assegni falsificati» (Cass. 14.10.1992 n. 11207). Più in generale deve osser-varsi come sia in giurisprudenza che in dottrina si va af-fermando il principio secondo cui, sebbene nel nostro or-dinamento non esista un generale dovere, a carico di cia-scun consociato, di attivarsi al fine di impedire eventi di danno, tuttavia vi sono molteplici situazioni da cui posso-no nascere, per i soggetti che vi sono coinvolti, doveri e regole di azione, la cui inosservanza integra la nozione di omissione imputabile e la conseguente responsabilità civi-le (Cass. 29.7.2004 n. 14484, in cui si è ritenuto responsa-bile del danno subìto dall’emittente di un assegno bancario il soggetto che, ricevuta una lettera contenente l’assegno sebbene indirizzata ad altri, invece di restituirla al mitten-te, l’aveva trattenuta ed aveva omesso di custodirla in mo-

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

do da impedire che il titolo di credito venisse sottratto da terzi che frequentavano la sua casa o si introducevano in essa con il suo consenso per impossessarsi a mezzo di ulte-riore attività illecita della somma indicata dall’assegno; conf. Cass. 8.11.2005 n. 21641, cit.; si v., tuttavia, espres-samente in senso contrario, Cass. 30.6.2005 n. 13957, che esclude la responsabilità di un debitore ceduto che nel cor-so di rapporti intercorsi con il cessionario prima del perfe-zionamento della cessione aveva omesso di informarlo dell’esistenza, nei confronti del cedente, di propri contro-crediti che avrebbe poi opposto in compensazione. È stato altresì affermato, in dottrina, che anche le omissioni sono regolate dalla clausola dell’ingiustizia del danno, e che dunque anche rispetto a queste condotte l’art. 2043 è una norma primaria (CRICENTI, Il problema della colpa omis-siva, cit., p. 129), e ciò in forza del dovere di solidarietà (CRICENTI, Il problema della colpa omissiva, cit., p. 183).

3. Segue. Il danno ingiusto come danno cagionato non nell’esercizio di un diritto e come lesione di un interesse altrui meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridi-co – Il concetto di danno «ingiusto» si ricollega, lessical-mente, al romanistico damnum iniuria datum: allude al danno che leda la situazione giuridica altrui (damnum con-tra ius) e, al tempo stesso, al danno ad altri cagionato non nell’esercizio di un proprio diritto (damnum non iure) (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 133; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 183; SALVI, La respon-sabilità civile, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2005, p. 87; ALPA, La responsabilità civile. Parte generale, Torino, 2010, p. 358 ss.; Cass. 27.5.1975 n. 2129). Così c’è danno iure o secundum ius e, perciò, non risarcibile, nel caso in cui venga pignorata dal creditore una cosa che il debitore era obbligato a consegnare ad un terzo. Parimenti il pro-prietario che abbia demolito il proprio edificio, quando dalla demolizione sia derivato danno all’edificio costruito in aderenza a causa della perdita del preesistente equilibrio statico, non dovrà risarcire alcun danno per il solo fatto dell’abbattimento, a meno che la demolizione, per il modo in cui è stata attuata, riveli l’avvenuta violazione del gene-rale precetto del neminem laedere, per la mancanza di pru-denza o perizia (Cass. 18.8.1986 n. 5078). La legge esclu-de inoltre in modo esplicito che il danno sia ingiusto nell’i-potesi della legittima difesa (v. sub art. 2044) e dello stato di necessità (v. sub art. 2045). Non basta, per aversi danno «ingiusto», la lesione di un semplice interesse altrui. Il principio della risarcibilità di ogni danno qualificabile come ingiusto è una «clausola generale» (Cass. S.U. 22.7.1999 n. 500): quando non è la legge a valutare, essa stessa, che un dato danno è ingiusto, riconoscendo a chi lo ha subito il diritto al risarcimento (v., ad es., l’art. 872, co. 2 e l’art. 2600), la valutazione è rimessa all’apprezzamento del giu-dice, il quale decide, caso per caso, se l’interesse leso è degno di protezione secondo l’ordinamento giuridico e se la lesione, di conseguenza, costituisce un danno «ingiusto», che deve essere risarcito. Si può parlare di atipicità del-l’illecito civile, in antitesi con la tipicità dell’illecito penale (cfr., ad es., Cass. 17.5.2004 n. 9345 GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 134; VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1999, p. 359; ID., Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, p. 421; ALPA, Il problema dell’atipicità dell’illecito, Na-poli, 1979, specie p. 245, che ritiene limitativo il binomio

tipicità-atipicità e parla di «isole di tipicità» nell’illecito atipico; CRICENTI, Il problema della colpa omissiva, cit., p. 38, che pure parla di sistema atipico, ritiene che si debba parlare perlomeno di una «tipicità per relationem»; CA-STRONOVO,La nuova responsabilità civile, Milano, 1997, p. 117, che qualifica il nostro come un sistema evolutivo di illeciti tipici; ID., Le cooperative di assicurazione, in Giur. comm., I, 1976, p. 148). Cass. 22.7.1999 n. 500 ha affer-mato esplicitamente – superando la giurisprudenza più ri-salente – che «la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vie-tata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) vol-ta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui» (conf. Cass. pen., 24.2.2000). Invero una clausola generale è una norma completa del precetto e della sanzione (FRANZONI, La lesione dell’interesse legittimo è, dunque, risarcibile, in Contratto e impresa, 1999, p. 1028): la fattispecie dell’il-lecito civile di cui all’art. 2043 non costituisce pertanto una sanzione per la violazione di diritti soggettivi, ma è autonoma fonte del diritto di credito al risarcimento nei confronti del soggetto che, con attività contraria al diritto oggettivo, abbia cagionato un danno ingiusto, dovendosi qualificare tale il pregiudizio di qualunque interesse in qualche modo considerato dall’ordinamento, indipendentemente dal fatto che sia protetto con l’intensità del diritto soggettivo, dell’interesse legittimo, o di altro interesse non di mero fatto, allorché la protezione sia comunque funzionale a garan-tire determinate utilità o beni della vita (Cass. 5.6.2007 n. 13061; Cass. S.U. 22.7.1999 n. 500; cfr., in tal senso, anti-cipando la formula dell’ «interesse degno di tutela secondo l’ordinamento giuridico», formula poi accolta dalla giuri-sprudenza di legittimità a partire dalla sopra citata Cass. S.U. 22.7.1999 n. 500, GALGANO, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e impresa, 1985, p. 1; cfr. recentemente Cons. Stato 30.11.2017 n. 5624). L’area del danno risarcibile suscita l’immagine dell’universo in espan-sione: gli antichi limiti giurisprudenziali della tutela aqui-liana sono stati gradatamente superati; le nuove frontiere raggiunte vengono a loro volta valicate da una giurispru-denza propensa ad attingere sempre più largamente dalla clausola generale della risarcibilità del «danno ingiusto» (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 135). Il danno è ingiusto, innanzitutto, quando sia stato leso un diritto assoluto, come nel caso di lesione di un diritto della personalità (ad es. la salute) o di un diritto reale (ad es. la proprietà). Si parla di danno ingiusto in quanto lesivo della salute, della personalità o della dignità del di-pendente, ad es. in caso di mobbing (Cass. 15.2.2016 n. 2920); o ancora in caso di danno alla reputazione persona-le il quale non va valutato come lesione dell’onore e della reputazione di cui la persona gode tra i consociati (Cass. 21.6.2016 n. 12813; anche Cass. 28.3.2018 n. 7594 per la quale il danno all’immagine ed alla reputazione in quanto costituente “danno conseguenza”, non può ritenersi sussi-stente in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento.). In merito alla lesione del diritto di proprietà, la Cassazione afferma che il diritto al risarcimento dei danni cagionati ad un bene non costituisce un accessorio del diritto di proprietà ma un diritto di credi-to, distinto ed autonomo rispetto al diritto reale e che per-tanto il diritto al risarcimento dei danni subiti da un bene spetta al titolare del diritto di proprietà sul bene al momen-

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to dell’evento dannoso (Cass. S.U. 16.2.2016 n. 2951, ove ulteriori richiami). Il danno è ingiusto, ancora, quando l’uc-cisione di una persona comporti lesione del diritto al mantenimento oppure del diritto agli alimenti dei suoi fa-miliari: qui non viene in considerazione la lesione del diritto alla vita dell’ucciso (il quale, in quanto morto, non può vantare diritti al risarcimento), ma solo la lesione del dirit-to al mantenimento che, eventualmente, il coniuge e i figli avevano nei suoi confronti o del diritto agli alimenti even-tualmente spettante ad altri (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 136). Il diritto al risarcimento spetta dunque a costoro iure proprio (Cass. 1.8.1987 n. 6672; SALVI, La responsabilità civile, in Tratt. Iudica-Zatti, Mi-lano, 2005, p. 93). Peraltro dal risarcimento del danno pa-trimoniale patito dal familiare di persona deceduta per col-pa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, trat-tandosi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze pro-dottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’il-lecito del terzo (Cass. S.U. 22.5.2018 n. 12564) .Si intende poi che il diritto al risarcimento, maturato in capo alla vit-tima di lesioni e non soddisfatto in vita di questa, si tra-smette iure successionis agli eredi (Cass. 28.8.2007 n. 18163; nel caso di morte del lavoratore, l’accertamento in ordine al nesso di causalità tra condotta ed evento nonché alla colpa del datore di lavoro, contenuto nella sentenza definitiva che lo abbia condannato al risarcimento del dan-no sulla domanda proposta dai congiunti iure hereditatis, costituisce giudicato esterno nel diverso giudizio promosso dai medesimi ex art. 2043 c.c. per il ristoro del pregiudizio subito “iure proprio”, restando irrilevante che l’azione ex art. 2087 c.c. abbia natura contrattuale e sia soggetta alla presunzione di colpa della parte datrice alla quale spetta dimostrare l’assenza di rimproverabilità soggettiva, giac-ché la definitiva statuizione sull’esistenza dell’elemento soggettivo ha una valenza ontologica che prescinde dalle effettive modalità del suo accertamento (Cass. 4.5.2018 n. 10578)). In caso di morte istantanea, pertanto, è errato par-lare di danno biologico subito dall’ucciso e qualificare il relativo risarcimento come «parte attiva del patrimonio del deceduto», che si trasmette agli eredi ed il risarcimento iure successionis agli eredi dovrà essere pertanto negato (v. diffusamente sub art. 2056 e sub art. 2059, ove ampi riferimenti anche sul c.d. danno tanatologico, in relazione al quale anche recentemente Cass. S.U. 22.7.2015 n. 15350, ribadendo l’orientamento costante della Cassazio-ne, ha escluso la risarcibilità iure hereditatis come diritto distinto ed ulteriore rispetto al diritto alla salute di un con-giunto; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. II, Pado-va, 2009, p. 930). Il diritto al risarcimento dei familiari è ammesso dalla giurisprudenza con larghezza: è considerata risarcibile non solo la lesione attuale del diritto al mante-nimento o agli alimenti (cfr. Cass. 8.3.2006 n. 4980, che tuttavia afferma la necessità di accertare in concreto che i familiari siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero conti-nuato a beneficiare in futuro, escludendo nel caso concreto il risarcimento in quanto era stata raggiunta la prova che la madre che chiedeva il risarcimento non era a carico del figlio deceduto a seguito dell’infortunio), ma anche la le-

sione della semplice aspettativa di prestazioni future, come nel caso della uccisione del figlio minore, considera-ta fonte di responsabilità per danni nei confronti dei geni-tori (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 137). Si valuta, a vantaggio dei genitori, il «venir meno delle aspettative di un contributo economico che, secondo un criterio di normalità, la vittima avrebbe destinato a loro beneficio» (Cass. 28.2.2002 n. 2962; Cass. S.U. 6.12.1982 n. 6651, secondo la quale il riconoscimento in favore dei genitori di un minore deceduto in conseguenza di fatto il-lecito, del danno futuro consistente nel venir meno delle legittime aspettative di un contributo economico a loro beneficio, non trova ostacolo nella circostanza che i geni-tori medesimi abbiano, al momento, adeguate fonti di red-dito, essendo sufficiente che la complessiva valutazione de-gli elementi del caso concreto, con ricorso anche ai dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, evidenzi il suddetto pregiudizio in termini di verosimiglianza e pos-sibilità, secondo i criteri di normalità, in relazione a pre-sumibili bisogni futuri; ). In questo caso, tuttavia, secondo l’orientamento prevalente sui genitori del minore deceduto incomberà l’onere di allegare e provare, anche per mezzo di presunzioni semplici, che il figlio avrebbe verosimil-mente contribuito ai bisogni della famiglia (Cass. 12.7.2012 n. 11812). Oltre che sulle presunzioni, secondo parte della giurisprudenza il giudice potrà basarsi anche sui fatti noto-ri e sui dati di comune esperienza (Cass. 23.3.2005 n. 6220; Cass. 26.2.2003 n. 2869; FACCI, in Le obbligazioni da fat-to illecito, Le obbligazioni, a cura di Franzoni, Torino, 2005, p. 1069, che sostiene che dopo l’allargamento del danno non patrimoniale operato da C. cost. n. 233/2003, essendo possibile tutelare in modo adeguato i congiunti della vittima attraverso il danno non patrimoniale, appare opportuno ricondurre il risarcimento del danno patrimonia-le da perdita di un congiunto nell’ambito del rigoroso re-gime dell’onere della prova previsto per il danno patrimo-niale in genere). Analoghe considerazioni vengono svolte dalla S.C. quando il minore, anziché essere deceduto, ab-bia subito lesioni tali da far escludere qualsiasi aiuto futuro ai genitori (Cass. 3.4.2008 n. 8546), e ciò quand’anche questi ultimi fino al verificarsi del danno non avessero avuto bisogno del suo aiuto economico. Non rileva, peral-tro, la circostanza che il minore non fosse ancora avviato al lavoro al momento del decesso derivato da fatto illecito altrui ed è compito del giudice decidere, in via presuntiva, l’an ed il quomodo di un futuro esercizio di attività lavora-tiva da parte del defunto, e, dall’altro, apprezzare se ed in quale misura il defunto stesso avrebbe, con i proventi di questa attività, contribuito ai bisogni della famiglia ovvero a quelli di uno o più componenti del nucleo familiare (Cass. 3.4.2008 n. 8546). Secondo la Cassazione, inoltre, «tra le aspettative che la morte di un figlio fa venire meno per i genitori, ed alle quali deve essere commisurato l’am-montare del risarcimento a carico del responsabile dell’e-vento, vi è anche quella di un apporto del figlio all’attività economica del padre (o della famiglia) nel campo dell’in-dustria, del commercio, dei mestieri, delle professioni, quando tale apporto non si fondi su semplici speranze o su ipotetiche eventualità, ma su una ragionevole previsione, affidata ad un criterio di ponderata probabilità, alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzio-ni e ai dati ricavabili dalla comune esperienza, con riguar-do a tutte le circostanze del caso concreto; ne consegue

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che, nel quadro dei pregiudizi attuali o futuri arrecati ai prossimi congiunti, può essere valutato come risarcibile anche il venire meno del contributo personale di capacità tecnica, di esperienza, di personale interesse che la vittima apportava o, con tutta probabilità, avrebbe apportato alla gestione tecnica o amministrativa di un’azienda di tipo e-sclusivamente o prevalentemente familiare; ciò soprattutto in funzione di quel particolare vantaggio che allo sviluppo economico dell’impresa sarebbe derivato dalla particolare qualità, inerente alla vittima, di appartenente al nucleo fa-miliare, che non permette, in termini di orari di lavoro e di costi, una sua completa parificazione a un qualsiasi dipen-dente esterno» (Cass. 18.4.2005 n. 8002). Siamo qui sul confine che divide la lesione del diritto soggettivo da quel-la dell’interesse; e tuttavia il confine non sembra ancora varcato. Il danno risarcibile è, in questi casi, il danno futu-ro: non c’è lesione attuale di un diritto soggettivo, ma ne è valutata la lesione potenziale, essendo considerato l’even-tuale diritto successorio del congiunto della vittima o l’e-ventuale suo diritto al concorso negli oneri familiari o l’e-ventuale suo diritto agli alimenti (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 137). In particolare Cass. 30.4.2018 n. 10321 per la quale il danno patrimoniale deri-vante al congiunto dalla perdita della fonte di reddito col-legata all’attività lavorativa della vittima assume natura di danno emergente con riguardo al periodo intercorrente tra la data del decesso e quella della liquidazione giudiziale mentre si configura come danno futuro e, dunque, come lucro cessante, con riguardo al periodo successivo alla li-quidazione medesima; ne consegue che, ai fini della liqui-dazione, il giudice del merito può utilizzare il criterio di capitalizzazione di cui al r.d. n. 1403/1922 soltanto in or-dine al danno successivo alla decisione, avuto riguardo al presumibile periodo di protrazione della capacità della vit-tima di produrre il reddito di cui trattasi, mentre, con ri-guardo al pregiudizio verificatosi sino al momento della decisione, deve operarsi il cumulo di rivalutazione ed inte-ressi compensativi.Qualora peraltro i genitori deducano non già il generale pregiudizio inerente alla perdita della futura assistenza economica, bensì quello, particolare, de-rivante dalla cessazione dell’attività di un’azienda familia-re, costituita in forma di società a responsabilità limitata, e curata personalmente dal predetto figlio deceduto, quel pregiudizio deve essere specificamente dimostrato, in quan-to la cessazione dell’attività di una società di capitali non può essere considerata conseguenza automatica ed inevita-bile del venir meno di chi ne abbia la dirigenza o ne curi, comunque, le relazioni d’affari (Cass. 14.2.2000 n. 1646). Viene valutata anche l’aspettativa di successione futura; così, se è ucciso il genitore, il figlio maggiorenne può le-gittimamente lamentare la lesione della sua aspettativa di ereditare i risparmi che, nel corso ulteriore della sua vita, il genitore avrebbe accumulato (GALGANO, Trattato di dirit-to civile, vol. III, cit., p. 138; Cass. 21.11.1995 n. 12020). Ancora per il caso di morte di un genitore, la giurispru-denza ha riconosciuto la risarcibilità del danno patrimonia-le subito dai figli che, anche se maggiorenni ed economi-camente indipendenti, godevano di provvidenze aggiuntive che il genitore destinava loro, posto che la sufficienza dei redditi del figlio esclude l’obbligo giuridico del genitore di incrementarli, ma non il beneficio di un sostegno durevole, prolungato e spontaneo, sicché la perdita conseguente si ri-solve in un danno patrimoniale, corrispondente al minor

reddito per chi ne sia stato beneficiato (; Cass. 16.3.2012 n. 4253). La giurisprudenza, inoltre, da decenni riconosce l’ingiustizia del danno quando sia stato leso un diritto re-lativo, anche estraneo ai rapporti di famiglia e, in partico-lare, un diritto di credito; così l’uccisione di un giocatore di calcio lede il diritto alle sue prestazioni sportive spettan-te, per contratto, alla società calcistica (Cass. 26.1.1971 n. 174, il celebre «caso Meroni»; GALGANO, Trattato di di-ritto civile, vol. III, cit., p. 138;VISINTINI, ., Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, passim; TUCCI, Il danno ingiusto, Napoli, 1970, passim); parimenti la di-struzione, ad opera di un terzo, della cosa in locazione non lede solo il diritto reale del proprietario, ma anche il diritto di credito del conduttore, e così via. La giurisprudenza ha poi riconosciuto la risarcibilità della lesione del credito anche in ipotesi in cui il fatto del terzo non estingue il rap-porto obbligatorio; ipotesi per le quali è più corretto parla-re, anziché di lesione del credito, di lesione dell’aspettativa di prestazione del creditore, come quando il terzo abbia reso solo temporaneamente impossibile la prestazione del debitore. Così, nel leading case in materia, la Cassazione ha ritenuto risarcibile il danno subito dall’impresa sommi-nistrata (un pastificio) per la temporanea interruzione del-l’erogazione di energia cagionata da un terzo, che nella specie era un’impresa che, con il brillamento di mine, ave-va distrutto i cavi dell’alta tensione (Cass. 24.6.1972 n. 2135). Parimenti il ferimento, in un incidente stradale, di una persona che lavora alle dipendenze altrui lede il diritto del datore di lavoro alle prestazioni del dipendente, ed «il danno, in questa ipotesi, si sostanzia nella perdita derivan-te al datore di lavoro dalla corresponsione della mercede senza la possibilità di utilizzare la prestazione del dipen-dente» (Cass. 9.2.1982 n. 763), «indipendentemente dalla insostituibilità o no del dipendente stesso» (Cass. 2.12.1986 n. 7117). Questo pregiudizio, in difetto di prova diversa, è liquidabile sulla base dell’ammontare delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, obbligatoriamente pagati du-rante il periodo di assenza dell’infortunato, atteso che il relativo esborso esprime il normale valore delle prestazio-ni perdute, salva restando la risarcibilità dell’ulteriore no-cumento in caso di comprovata necessità di sostituzione del dipendente (Cass. 12.11.1988 n. 6132 Cass. 4.11.2002 n. 15399, secondo la quale «il principio secondo il quale il responsabile, in danno di lavoratore dipendente, di lesioni personali che abbiano provocato la sua invalidità tempora-nea lavorativa assoluta del predetto, è tenuto a risarcire il datore di lavoro per la mancata utilizzazione delle presta-zioni lavorative del predetto dipendente, salva restando la risarcibilità dell’ulteriore pregiudizio patrimoniale even-tualmente subito dal medesimo datore di lavoro in caso di comprovata necessità di sostituzione del lavoratore assente con elementi esterni all’azienda, o di particolare nocumen-to alla produzione, trova applicazione anche nel caso di lavoro prestato per una società di persone da un socio, sia che si tratti di lavoro subordinato, sia che si tratti di confe-rimento di lavoro, a fronte del quale non vi sia retribuzio-ne, ma solo partecipazione agli utili societari. In tale ulti-ma ipotesi, il danno per la società può consistere in una diminuzione degli utili per la mancanza dell’apporto lavo-rativo del socio, che, ove non assorbita dalla diminuzione della quota degli utili corrisposti al socio danneggiato – il quale potrà farla valere nei confronti del danneggiante – deve essere risarcita alla società dal danneggiante»; sul-

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l’esclusione della competenza in capo al giudice del lavoro Cass. 11.1.2018 n. 410). Può ritrovarsi un’applicazione legislativa del principio nell’art. 2394, che chiama gli am-ministratori delle società di capitali a rispondere nei con-fronti dei creditori sociali «per l’inosservanza degli obbli-ghi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimo-nio sociale»: a differenza della responsabilità verso la so-cietà, che è responsabilità contrattuale, questa è responsa-bilità da fatto illecito in quanto applicazione, ad un caso specifico, della regola generale posta dall’art. 2043 (GAL-GANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 140; FRAN-ZONI, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci, in Tratt. Galgano, Padova, 1994, XIX, p. 79): il danno ingiusto che, in questo caso, gli amministratori cagione-rebbero sarebbe, appunto, la lesione della aspettativa di prestazione dei creditori sociali; per avere violato gli ob-blighi inerenti alla conservazione del patrimonio sociale essi rispondono, contrattualmente, nei confronti della so-cietà; ma rispondono anche nei confronti dei creditori so-ciali, a titolo di responsabilità extracontrattuale, per avere pregiudicato il soddisfacimento delle loro ragioni (Cass. 4.12.2015 n. 24715; MINERVINI, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, p. 334; contra, nel senso della responsabilità contrattuale, FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, X, III ed., Torino, 1987, p. 718; BORGIOLI, L’amministrazione delegata, Nardini-Centro internaziona-le del libro, Firenze, 1982, p. 280; BONELLI, Gli ammini-stratori di società per azioni, Milano, 1985, p. 303; CAM-POBASSO, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società, Torino, ed. 2002, ristampa 2003, p. 398; FERRARA-CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, XII ed., 2001, p. 530; ADIUTORI, Funzione amministrativa e azione indivi-duale di responsabilità, Milano, 2000, p. 68; Cass. 14.12.1991 n. 13498). Nelle società di persone, la responsabilità degli amministratori nei confronti dei soci è di natura extracon-trattuale, in applicazione analogica dell’art. 2395, ma esige che il pregiudizio sia arrecato in via immediata e diretta al socio e non passi attraverso il danno arrecato al patrimonio sociale (Cass. 16.2.2016 n. 2986; Cass. 25.1.2016 n. 1261). Altra ipotesi di lesione dell’aspettativa di prestazione del creditore si ha quando il terzo sia concorso nell’inadem-pimento del debitore, o istigandolo a non adempiere (cd. induzione all’inadempimento) o rendendosi comunque par-tecipe dell’inadempimento: in questo caso l’azione del ter-zo, lesiva del diritto del creditore alla prestazione, non è tale da rendere impossibile, definitivamente o temporanea-mente, la prestazione del debitore, ma si associa ad un contegno di quest’ultimo, definibile come inadempimento; sicché si ha concorso della responsabilità contrattuale del debitore con la responsabilità extracontrattuale del terzo (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 141). La responsabilità del debitore e del terzo, sebbene sia di-verso il titolo della responsabilità, è solidale. Esempi ne sono il caso del prestanome che cooperi nella violazione di un patto di non concorrenza firmato da altro soggetto e l’ipotesi di chi coopera nella violazione dell’altrui obbligo legale di non concorrenza ovvero nel compimento di atti di concorrenza sleale (Cass. 11.4.2001 n. 5375, che distingue peraltro il titolo della responsabilità a seconda che tra il terzo e l’imprenditore beneficiario degli atti di concorren-za sleale ci sia un collegamento (art. 2598) o meno (art. 2043); ABRIANI-COTTINO, I brevetti per invenzione e per modello, in AA.VV., Diritto industriale, in Tratt. Cottino,

II, Padova, 2001, p. 285). Un ulteriore esempio è quello del terzo che abbia, colposamente o dolosamente, arrecato un contributo causale alla violazione da parte dell’amministra-tore dei propri doveri verso la società (Cass. 14.10.2014 n. 21644). La soluzione accolta è agevolmente estensibile al patto di non concorrenza, sicché possono essere unitaria-mente considerati i casi della violazione dell’obbligo di non concorrenza del lavoratore subordinato (art. 2105), del socio illimitatamente responsabile (art. 2301), dell’ammi-nistratore di società di capitali (art. 2390), dell’alienante dell’azienda (art. 2557) e del patto di non concorrenza fra imprenditori (art. 2596) (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 142). Analoghe considerazioni deb-bono essere svolte nel caso di chi, con il proprio inadem-pimento nei confronti di un soggetto, faccia sì che que-st’ultimo divenga a sua volta inadempiente nei confronti di un altro, come ad es., nel caso in cui Tizio si obbliga a vendere un immobile a Caio, che a sua volta si obbliga a venderlo a Sempronio: per l’inadempimento di Tizio verso Caio, questi si rende inadempiente verso Sempronio, il quale potrà agire nei confronti di Caio per inadempimento contrattuale, ma potrà anche agire nei confronti di Tizio per avere, con il proprio inadempimento, cagionato l’ina-dempimento di Caio e, perciò, leso le sue ragioni di credi-to, sempre che Tizio sapesse della obbligazione assunta da Caio e fosse quindi consapevole del danno che il proprio inadempimento cagionava a Sempronio (GALGANO, Trat-tato di diritto civile, vol. III, cit., p. 142; Cass. 20.10.1983 n. 6160; ). Parimenti risponde il terzo che abbia posto il so-cio di una società di persone nell’impossibilità di eseguire la prestazione prevista nel contratto sociale (Cass. 17.12.1990 n. 11953). La casistica giurisprudenziale è più vasta della figura descritta in dottrina sotto il nome di induzione all’i-nadempimento, implicante una istigazione del terzo a non adempiere (ZICCARDI F., L’induzione all’inadempimento, Milano, 1979, passim) o un’opera di persuasione (BESSO-NE, Lesione del credito, l’induzione a non adempiere, la tutela aquiliana dei diritti personali di godimento negli orientamenti di una giurisprudenza evoluta, in Rivista del notariato, 1982, p. 11). Con riguardo alla doppia aliena-zione di un immobile, ossia dell’alienazione di un immo-bile, già venduto o promesso in vendita ad un primo acqui-rente, ad un terzo che, consapevole della precedente vendi-ta o promessa di vendita, si affretta a trascrivere l’acquisto per renderlo opponibile al primo acquirente, può dirsi su-perato l’indirizzo secondo il quale il terzo può essere chia-mato a rispondere dei danni subiti dal primo acquirente solo se quest’ultimo prova che fra il venditore ed il terzo è stata preordinata una frode ai suoi danni (Cass. 9.2.1982 n. 759); prevale infatti oggi la giurisprudenza secondo la qua-le il terzo risponde dei danni sul solo presupposto della conoscenza, da parte sua, della precedente vendita o pro-messa di vendita (Cass. 9.1.1997 n. 99, che applica il me-desimo principio all’ipotesi di cessione a terzi di un bene immobile in violazione di un precedente patto di prelazio-ne; Cass. 25.5.2001 n. 7127, la quale, curiosamente, ri-chiamando sia Cass. 9.2.1982 n. 759 (che richiedeva l’esi-stenza di una dolosa preordinazione) sia Cass. 9.1.1997 n. 99, e Cass. 18.8.1990 n. 8403 (che, come si è visto, ritene-vano sufficiente la mera consapevolezza unita al contribu-to dato al venditore nel violare gli obblighi assunti), ha ar-gomentato che «la responsabilità del successivo acquirente rimasto estraneo al primo rapporto contrattuale, può confi-

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

gurarsi soltanto sul piano extracontrattuale quando trovi fondamento non in una mera consapevolezza della prece-dente vendita, ma in una dolosa preordinazione volta a frodare il precedente acquirente o almeno nella comparte-cipazione all’inadempimento dell’alienante in virtú dal-l’apporto dato nel violare gli obblighi assunti nei confronti del primo acquirente al quale incombe l’onere della relati-va prova»; cfr. Cass. 10.10.2008 n. 25016, che richiede la prova o della dolosa preordinazione o della compartecipa-zione all’inadempimento dell’alienante, e, nello stesso sen-so Cass. 7.10.2016 n. 20251; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 143; TRIMARCHI, Sulla responsabili-tà del terzo per pregiudizio al diritto di credito, in Riv. dir. civ., 1983, p. 217; VISINTINI, La tutela aquiliana delle po-sizioni contrattuali, in Contratto e impresa, 1985, p. 651). Altra ipotesi ancora è quella in cui vengono smarrite, du-rante la giacenza in aeroporto, le merci affidate per il tra-sporto al vettore aereo, da questo lasciate in custodia ad un depositario: il vettore e il depositario rispondono in solido, l’uno a titolo contrattuale, l’altro a titolo extracontrattuale (Cass. 19.1.1996 n. 418). Fuori della lesione del credito si collocano altre ipotesi di danno giudicato risarcibile, come quando vi sia stata lesione della libertà contrattuale, os-sia quando l’illecito del terzo abbia indotto un contraente a concludere un contratto che altrimenti si sarebbe guardato dal concludere (lesione positiva della libertà contrattuale) o, all’opposto, abbia dissuaso un soggetto dal concludere un contratto che altrimenti avrebbe concluso (lesione ne-gativa della libertà contrattuale). In primo luogo rientra in questa ipotesi il caso in cui siano state fornite false infor-mazioni (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 144; BUSNELLI, Itinerari europei nella “terra di nessu-no fra contratto e fatto illecito”: la responsabilità da in-formazioni inesatte, in Contratto e impresa, 1991, p. 539; SALVI, La responsabilità civile, cit., p. 109), come quando la banca dia ad un terzo informazioni inesatte circa la situa-zione di un proprio correntista (Cass. 1.8.2001 n. 10492) così che il terzo contraente per la falsa informazione si sia indotto a concludere un contratto che altrimenti si sarebbe guardato dal concludere con un soggetto risultato poi in-solvente o, per converso, si sia indotto a non concludere un contratto che altrimenti avrebbe concluso, come quando le altre banche erano state indotte a non contrattare con il potenziale cliente asserito inadempiente a causa del fatto che le informazioni non corrette erano state segnalate alla centrale dei rischi presso la Banca d’Italia Analogamente risponde a titolo extracontrattuale la società di revisione «per i danni derivati a terzi dall’attività di controllo e di certificazione del bilancio di una società effettuati su inca-rico della società medesima» ove l’erronea certificazione abbia indotto in errore i soggetti interessati all’acquisto delle quote societarie (Cass. 18.7.2002 n. 10403) e, del pa-ri, risponde ai sensi della norma in commento la banca che abbia rilasciato a propri clienti una dichiarazione attestante la data dell’acquisto di azioni operato in borsa per conto loro, senza specificare che si era trattato di acquisto a ter-mine con scadenza in una data successiva, così inducendo in errore una società che aveva rimborsato le azioni ad alcuni azionisti che invece avevano esercitato il diritto di recesso sebbene la delibera di fusione che legittimava tale recesso fosse stata adottata dalla società in un momento anteriore all’effettivo acquisto delle azioni da parte di tali azionisti (Cass. 8.11.2005 n. 21641). Del pari, si configura

un fatto illecito da informazioni o da dichiarazioni false od inesatte a carico della società controllante di una delle due parti contraenti, nell’ipotesi in cui tale società, terza rispetto al contratto ed al di fuori di qualsiasi dichiarazione di per sé vincolante e coercibile, con la sua condotta scor-retta, manifestata vuoi direttamente per il tramite dei suoi organi, vuoi mediante direttive alla controllata, e consi-stente nell’indurre o rafforzare l’affidamento del creditore della società controllata nella capacità di adempimento di quest’ultima, abbia cagionato un danno ingiusto per lesio-ne dell’affidamento dell’altra parte contraente, la quale abbia, per tale motivo, continuato ad operare forniture alla controllata medesima, poi non adempiute (Cass. 28.2.2012 n. 3003). Ancora, vi è lesione della libertà contrattuale nel caso di falsa attestazione sulle qualità di un bene destinato alla circolazione, come quando l’artista certifichi come au-tentico un dipinto non proprio, cagionando così un danno a chi, confidando in quella certificazione, si era indotto ad acquistare il dipinto (Cass. 4.5.1982 n. 2765; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 145; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 242). In questo ordine di casi, il contraente vittima della falsa informazione spesso può a-vere anche l’azione di annullamento del contratto per dolo del terzo (art. 1439, co. 2); ma potrebbe anche non averla (perché il dolo del terzo era ignoto all’altro contraente). Il giudizio di meritevolezza della tutela aquiliana procede, nel tacito ragionamento della Cassazione, dalla constata-zione che l’interesse di cui si reclamava tutela era quel medesimo interesse che risulta legislativamente protetto, in sede contrattuale, dall’art. 1439 (Cass. 29.3.1952 n. 862). Tra le ipotesi di lesione negativa della libertà con-trattuale rientra quella dell’artista che, animato dal propo-sito di ripudiare una sua opera o un periodo della sua pro-duzione artistica, dichiari false opere che sono invece au-tentiche e la cui autenticità venga successivamente accer-tata dagli esperti senza ombra di dubbio, sicché l’autore deve risarcire il danno cagionato al gallerista che, a seguito delle false attestazioni, aveva visto sfumare la trattativa di vendita in corso (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 146; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 245). Analogamente sarà responsabile chi abbia fornito false informazioni su prodotti industriali, come quelle sulla effi-cacia o, addirittura, sulla nocività di prodotti farmaceutici, riferite da esperti in scritti divulgativi pubblicati in giornali o periodici (c.d. Warrentests), laddove, ad es., un conces-sionario o un agente di commercio abbia, dopo avere ap-preso la falsa informazione, interrotto le trattative per la concessione in esclusiva della rivendita o della diffusione di quel prodotto vedendo così sfumare un vantaggioso af-fare (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 146; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 245). Parimenti, a chi abbia fornito notizie false circa le vicende di una socie-tà, potrà essere chiesto il risarcimento dei danni da coloro che abbiano interrotto le trattative per l’acquisto dei relati-vi titoli azionari o, all’opposto, da chi si sia indotto ad ac-quistare i titoli nonostante la situazione della società fosse decisamente peggiore di quella rappresentata: in quest’ulti-ma ipotesi rientra, peraltro, anche la cd. responsabilità da prospetto informativo. L’interesse tutelato è qui l’interesse a contrarre validamente e, dunque, proprio l’interesse a con-trarre, che l’ordinamento ritiene espressamente meritevole di tutela quando esso sia leso dalla reticenza della contro-parte (art. 1338) o dal contegno del falsus procurator (art.

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1398): il danno risarcibile è il cosiddetto interesse contrat-tuale negativo: il risultato cui il mancato contraente può approdare, dunque, è il risarcimento dei danni subiti per avere intrattenuto la non fruttuosa trattativa, non già il ri-sarcimento del pregiudizio arrecatogli dalla mancata con-clusione dell’affare (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 147). Degno di menzione è anche il caso trat-tato da Cass. S.U. 15.1.2009 n. 794, che ha stabilito che l’apposizione, sulla confezione di un prodotto, di un mes-saggio pubblicitario ingannevole (nella specie il segno descrittivo “LIGHT” sul pacchetto di sigarette, messaggio vietato dalla normativa entrata in vigore successivamente ai fatti di causa) può essere considerato come fatto produt-tivo di danno ingiusto, obbligando colui che l’ha commes-so al risarcimento del danno. È interessante segnalare, in tema di danno da omessa informazione, Cass. 10.5.2005 n. 9801, che, prendendo posizione sul delicato tema della configurabilità del fatto illecito per inadempimento dei doveri coniugali (v., in argomento, FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, Milano, 2004, e già PATTI, Fa-miglia e responsabilità civile, Milano, 1984), ha affermato che «siccome l’intensità dei doveri derivanti dal matrimo-nio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro – pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva di tale vincolo – un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarie-tà, sostanziantesi anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente alle proprie condizioni psicofisi-che e di ogni situazione idonea a compromettere la comu-nione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è ri-volto, è configurabile un danno ingiusto risarcibile allor-ché l’omessa informazione, in violazione dell’obbligo di lealtà, da parte del marito, prima delle nozze, della propria incapacità coeundi a causa di una malformazione, da lui pienamente conosciuta, induca la donna a contrarre un ma-trimonio che, ove informata, ella avrebbe rifiutato, così ledendo quest’ultima nel suo diritto alla sessualità, in sé e nella sua proiezione verso la procreazione, che costituisce una dimensione fondamentale della persona ed una delle finalità del matrimonio» (a favore della risarcibilità anche Cass. 10.5.2005 n. 9801, su cui vedi infra, per il caso in cui la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio venga posta in essere attraverso condotte che, per la loro intrinse-ca gravità, si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona; contra, nel senso di escludere la possibilità di richiedere, ex art. 2043 c.c., ancorché la separazione sia addebitabile ad uno di essi, anche il risar-cimento dei danni a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione stessa, Cass. 6.4.1993 n. 4108; Cass. 22.3.1993 n. 3367). La l. 8.2.2006 n. 54 (in tema di separazione e affidamento dei figli), introducendo il nuovo art. 709 ter c.p.c., ha disciplinato esplicitamente il cd. illecito endofa-miliare ed ha attribuito al giudice il potere di condannare al risarcimento dei danni il genitore e/o il coniuge inadem-piente ai propri doveri. La Cassazione, inoltre, in tema di responsabilità medica (v. infra per la trattazione della ri-forma “Gelli-Bianco” di cui alla l. 8.3.2017 n. 24) in rela-zione alla omessa diagnosi (ed alla conseguente infor-mazione del medico ai genitori) di malformazioni del nascituro ha ritenuto che «il sanitario che non abbia in-formato i genitori sui rischi di malformazione del nascitu-ro, precludendo alla madre la scelta d’interrompere la gra-

vidanza, risponde dei danni, conseguenti alla nascita del neonato malformato, nei confronti dei genitori, ma non nei confronti del minore non essendo concepibile nel nostro ordinamento un diritto a non nascere del minore malforma-to» (Cass. 29.7.2004 n. 14488; cfr. anche Cass. 21.6.2004 n. 11488, che afferma che, posto che, in caso di gravi mal-formazioni (nella specie, la parziale mancanza di un brac-cio) del feto, si assume come normale e corrispondente a regolarità causale che la gestante, se informata corretta-mente e tempestivamente sulla gravità delle patologie cui va incontro il nascituro, interrompa la gravidanza, il difetto d’informazione da parte del medico per omessa diagnosi prenatale determina responsabilità per perdita del diritto di scelta d’interruzione della gravidanza; nello stesso senso anche Cass. 22.4.2009 n. 10741 (commentata da GALGA-NO, Danno da procreazione e danno al feto, ovvero quan-do la montagna partorisce un topolino, in Contratto e im-presa, 2009, p. 537 ss.; Cass. S.U. 22.12.2015 n. 25767, che ribadisce la negazione del diritto del figlio, affetto dal-la sindrome di Down, al risarcimento del danno per l’im-possibilità di un’esistenza sana e dignitosa giacché l’ordi-namento non riconosce il diritto alla non vita; v. anche Cass. 5.2.2018 n. 2675, che riconosce il diritto al risarci-mento anche al padre «atteso il complesso di diritti e dove-ri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procrea-zione cosciente e responsabile, considerando che, agli ef-fetti negativi della condotta del medico ed alla responsabi-lità della struttura in cui egli opera, non può ritenersi estraneo il padre, il quale deve, perciò, considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadem-pimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conse-guenti danni, immediati e diretti, fra i quali deve ricom-prendersi il pregiudizio di carattere patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli. Si veda invece, sia pure quale obiter dictum, prima dell’intervento delle Sezioni Unite di cui si è dato atto, Cass. 3.5.2011 n. 9700, che riteneva possibile riconoscere il diritto al risarcimento anche al nato con malformazioni congenite giacché al feto dovrebbe essere esteso lo stesso effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra madre e medico; sicché, come del resto avviene per il pa-dre, il diritto al risarcimento potrebbe essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato). Cass. 10.11.2010 n. 22837, inoltre, determinando un ulteriore affievolimento del rigore nella stima delle circostanze che sostanziano il nes-so di causalità in tali fattispecie (e ancor più rispetto al-l’ambito medico in generale) ed attenuando pertanto l’o-rientamento giurisprudenziale prevalente che traccia le condizioni di risarcibilità del pregiudizio da nascita inde-siderata dal punto di vista dell’imputazione causale richie-dendo al danneggiato, per ottenere l’integrale ristoro dei danni sofferti, la prova che all’epoca in cui si è verificata l’omessa informazione sussistevano le condizioni per pra-ticare un’interruzione volontaria della gravidanza (tra le quali si annovera, dopo il novantesimo giorno di gestazio-ne, la qualificazione come pericolo per la salute fisica o psichica del trauma connesso all’acquisizione della noti-zia) e che la gestante si sarebbe orientata in tal senso se correttamente informata, ha affermato che «in tema di re-

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

sponsabilità del medico da nascita indesiderata, ai fini del-l’accertamento del nesso di causalità tra l’omessa rileva-zione e comunicazione della malformazione del feto ed il mancato esercizio, da parte della madre, della facoltà di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza, è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malfor-mazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso, tra le quali (do-po il novantesimo giorno) vi è il pericolo per la salute fisi-ca e psichica derivante dal trauma connesso all’acquisi-zione della notizia, a norma dell’art. 6, lett. b), della l. n. 194/1978; l’esigenza di prova sorge solo quando il fatto sia contestato dalla controparte, nel qual caso si deve stabi-lire – in base al criterio (integrabile da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni socia-li ) del «più probabile che non» e con valutazione correlata al’epoca della gravidanza – se, a seguito dell’informazione che il medico omise di dare per fatto ad esso imputabile, sarebbe insorto uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psi-chica della donna» (cfr. anche Cass. S.U. 22.12.2015 n. 25767, che afferma che nel risarcimento del danno da na-scita indesiderata, la prova che la gestante, se adeguata-mente informata dai sanitari delle malformazioni del feto, avrebbe interrotto la gravidanza, può essere data per pre-sunzioni). Recentemente la Cassazione ha peraltro affer-mato, in argomento, che, posto che la mancanza della ma-no sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichi-ca della donna, necessario per far luogo all’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni dal suo ini-zio, non può derivare alcun danno risarcibile dall’omessa diagnosi dell’anomalia fetale da parte dei medici, in occa-sione dell’ecografia morfologica effettuata dopo il suddet-to termine (Cass. 11.4.2017 n. 9251). A lungo contrastato è stato invece, il riconoscimento della «ingiustizia» del danno quando sia stata lesa, anziché un diritto, una situa-zione di fatto, che appaia meritevole di protezione. Un caso emblematico è quello della famiglia di fatto, prima che intervenisse il legislatore nel 2016 con la cd. Legge Cirinnà (v. infra): la Cassazione ha a lungo negato il risar-cimento alla convivente more uxorio nel caso di uccisione di persona che provvedeva al suo mantenimento in quanto – si diceva – la convivente non ha, come ha il coniuge, un diritto al mantenimento, non può lamentare la lesione di un diritto, ma solo la lesione di una situazione di fatto che l’ordinamento giuridico considera pienamente lecita e dal-la quale traeva la legittima aspettativa di assistenza mate-riale, oltre che morale. Solo negli anni novanta del secolo scorso la Cassazione ha mutato il proprio orientamento, dando rilievo all’«ampiezza della formula legislativa» di cui all’art. 2043, tale da ricomprendere fra i soggetti lesi anche chi sia legato da rapporti di «natura parafamiliare», qual è la convivente more uxorio, purché questa provi «il contributo patrimoniale e personale apportatole in vita, con carattere di stabilità, dal convivente e che è venuto a man-care in conseguenza della sua morte» (Cass. 24.3.1994 n. 2988; Cass. 31.5.2003 n. 8828, sia pure come obiter dic-tum; Cass. 29.4.2005 n. 8976, che precisa che il conviven-te che chiede il risarcimento del danno, patrimoniale e mo-rale, «deve dimostrare l’esistenza e la portata dell’equi-librio affettivo-patrimoniale instaurato con la medesima, e

perciò, per poter essere ravvisato il vulnus ingiusto a tale stato di fatto, deve essere dimostrata l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assi-stenza materiale e morale, non essendo sufficiente a tal fine la prova di una relazione amorosa, per quanto possa essere caratterizzata da serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo»; conf. Cass. 16.9.2008 n. 23725, la quale, in applicazione di tale principio, in un caso in cui la ricorrente aveva contratto matrimonio canonico privo di effetti civili con la vittima, affermava che, al fine di dimo-strare che la relazione è caratterizzata da tendenziale stabi-lità e da mutua assistenza morale e materiale, sono insuffi-cienti sia le dichiarazioni rese dagli interessati per la for-mazione di un atto di notorietà sia le indicazioni dai mede-simi fornite alla p.a. per fini anagrafici, essendo mancata la prova dell’esistenza di una relazione tendenzialmente sta-bile e di una mutua assistenza morale e materiale tra i due; Cass. 20.6.2013 n. 1548, secondo cui i diritti definiti come inviolabili non possono ricevere diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un con-testo familiare; in dottrina, PATTI, Famiglia e responsabi-lità civile, cit., p. 186; VISINTINI, I fatti illeciti, I. Ingiusti-zia del danno. Imputabilità, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, diretti da Galgano, Padova, 2004, p. 172; ALPA, Famiglia di fatto e risarci-mento del danno, in Foro it., Bologna, 1976, c. 64; BONI-LINI, Il danno non patrimoniale, cit., p. 476; BRANCA, Morte di chi convive “more uxorio” e risarcimento, in Foro it., 1970, c. 142; MONATERI, Le fonti delle obbliga-zioni, cit., p. 499, che tuttavia fondava il risarcimento del danno sulla perdita di chance di continuabilità del rapporto stabile parafamiliare; D’ANGELI, La tutela delle conviven-ze senza matrimonio, Torino, 1995, p. 139; contra Cass. 8.2.1977 n. 556; Cass. pen., 21.9.1981; e, in dottrina TRA-BUCCHI, Pas par cette vois, s’il vous plait!, in Riv. dir. civ., 1981, p. 351). Sul punto è intervenuta recentemente la l. 20.5.2016 n. 76 relativa alla Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze (c.d. legge Cirinnà), prevedendo che (cfr. art. 1, co. 36), ai fini delle disposizioni di cui ai co. da 37 a 67 si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di cop-pia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vinco-late da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matri-monio o da un’unione civile e che (cfr. art. 1, co. 49), in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno risarcibi-le alla parte superstite si applicano i medesimi criteri indi-viduati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. Del pari, il risarcimento è ora riconosciuto alle parti di un’unione civile analogamente a quanto avviene tra i co-niugi nel caso del matrimonio. È quindi oggi definitiva-mente acclarato il diritto del convivente al risarcimento. A tal fine, per l’accertamento dell’esistenza della convivenza more uxorio – intesa quale legame affettivo stabile e dura-turo in virtù del quale siano spontaneamente e volontaria-mente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale – i requisiti della gravità, precisione e concor-danza degli elementi presuntivi devono essere ricavati dal complesso degli indizi da valutarsi non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno, quand’anche singolarmente sfornito di valen-za indiziaria, potrebbe rafforzare e trarre vigore dall’altro in

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un rapporto di vicendevole completamento (Cass. 13.4.2018 n. 9178). Altre situazioni di fatto sono da sempre conside-rate rilevanti agli effetti della tutela aquiliana: così è paci-ficamente ammessa dalla giurisprudenza l’azione di danni di chi subisca spoglio o turbative nel possesso o nella detenzione qualificata, quantunque il possesso e la deten-zione siano altrettante situazioni di fatto (Cass. 13.4.2007 n. 8850; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 148; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 252). L’azione di danni è considerata «accessoria» all’azione possessoria (Cass. 11.10.1980 n. 5449), ma esperibile anche autono-mamente rispetto ad essa (Cass. 16.4.1981 n. 2298). Se-condo questa giurisprudenza la tutela aquiliana del posses-so e della detenzione si estende fino al limite, ma non oltre il limite, della loro tutela possessoria. Decisivo, per la Cas-sazione, è che sia configurabile «un rapporto con il bene», anche se si tratta di rapporto di fatto, che appaia «tutelabi-le» alla stregua delle norme sulla tutela del possesso o del-la detenzione e, perciò, che l’interesse alla continuazione di quel rapporto, o alla sua continuazione non turbata da molestie, risulti meritevole di tutela secondo l’ordinamen-to giuridico. Ne consegue che l’azione di danni spetta al detentore (non per ragioni di servizio o di ospitalità) che abbia subito uno spoglio violento o clandestino, così come gli compete l’azione di reintegrazione (art. 1168); ma non spetta al detentore che abbia subito uno spoglio non vio-lento o clandestino o che sia stato molestato nella deten-zione di un immobile o di una universalità di mobili (art. 1170), salvo che non si tratti di un conduttore, cui l’art. 1585, co. 2, concede una azione corrispondente all’azione di manutenzione. Là dove il rapporto di fatto con il bene non riceve alcuna protezione da parte dell’ordinamento giuridico, neppure nella forma della protezione possesso-ria, chi subisce la perdita del bene o è molestato nel rap-porto con questo non può lamentare di avere subito un danno qualificabile come «ingiusto». Per superare il limite in discorso si dovrà dare la prova non di un semplice rap-porto di fatto, ma di un rapporto di diritto avente ad ogget-to la cosa, e invocare la tutela aquiliana del credito (LUMI-NOSO, La lesione dell’interesse contrattuale negativo (e dell’interesse positivo) nella responsabilità civile, in Con-tratto e impresa, 1988, p. 312; TENELLA SILLANI, Il risar-cimento del danno da lesione del possesso, Milano, 1989; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 149). Cass. 8.6.2017 n. 14269, ha statuito che il diritto al risar-cimento può spettare anche a colui il quale si trovi ad eser-citare un potere soltanto materiale sulla cosa e, dal dan-neggiamento di questa, possa risentire un pregiudizio al suo patrimonio, indipendentemente dal diritto, reale o per-sonale, che egli abbia all’esercizio di quel potere; pertanto, il detentore di cosa altrui, danneggiata da fatto illecito del terzo, è legittimato a domandarne il risarcimento solo se dimostri la sussistenza del titolo in virtù del quale è obbli-gato a tenere indenne il proprietario e che l’obbligazione scaturente da quel titolo è stata adempiuta, in modo da evitare che il terzo proprietario non possa pretendere an-ch’egli di essere risarcito dal danneggiante”. A questo mo-do la atipicità dell’illecito civile trova un correttivo nella sia pure relativa tipicità dell’interesse leso, che deve appa-rire meritevole di tutela non secondo il libero apprezza-mento del giudice, bensì secondo l’ordinamento giuridico (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 149; CRICENTI, Il problema della colpa omissiva, cit., p. 38). Il

criterio risulta accolto anche per determinare il limite della tutela aquiliana degli stessi diritti assoluti: così, ad es., nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il dan-no con l’evento dannoso ed a configurare un vero e pro-prio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972/2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risar-citori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomo-filattico (sent. n. 16601/2017) che ha riconosciuto la com-patibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.; ne consegue che il danno da occupazio-ne “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allega-zione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzio-ne concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto (Cass. 25.5.2018, n.13071); il danno alla salute, cagionato da rumori molesti, è danno ingiusto solo se, ai sensi del-l’art. 844, ecceda la normale tollerabilità (Cass. 6.4.1983 n. 2396; Cass. 10.5.2006 n. 10715, in materia di immis-sioni ex art. 844 c.c.). Oltre all’azione esperita dal proprie-tario del fondo danneggiato, la quale rientra tra quelle ne-gatorie, di natura reale, a tutela della proprietà, cumulati-vamente può essere introdotta anche l’azione per la re-sponsabilità ex art. 2043 per ottenere il risarcimento del pregiudizio personale (Cass. S.U. 27.2.2013 n. 4848; Cass. S.U. 6.9.2013 n. 20571; cfr. Cass. 31.10.2014 n. 23283, secondo cui l’accertamento del superamento della soglia della normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c., comporta nella liquidazione del danno da immissioni, sussistente in “re ipsa”, l’esclusione di qualsiasi criterio di contempera-mento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso, in quanto venendo in considerazione, in tale ipotesi, unica-mente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, rientrante nello schema dell’azione generale di risar-cimento danni di cui all’art. 2043 c.c.; Cass. 12.2.2016 n. 2864). Proprio in tema di risarcibilità del pregiudizio per immissioni che superino la soglia di tollerabilità, la Cassa-zione ha affermato che anche se non risulti integrato un danno biologico, la lesione del diritto al normale svolgi-mento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione del-le proprie abitudini di vita quotidiane sono pregiudizi ap-prezzabili in termini di danno non patrimoniale (Cass. 16.10.2015 n. 20927). Alla individuazione di un interesse protetto dall’ordinamento giuridico come diritto soggettivo tende oggi a sostituirsi l’individuazione di un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico tout court (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 149; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 188; VI-SINTINI, I fatti illeciti, I. Ingiustizia del danno. Imputabili-tà, cit., p. 1; RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, cit., p. 183; Cass. S.U. 22.7.1999 n. 500; Cass. S.U. 24.2.2000 n. 41; Cass. 4.11.2000 n. 14432; Cass. 25.9.2002 n. 13942; Cass. 9.2.2004 n. 2424; Cass. 22.7.2004 n. 13619; Cass. 17.12.2009 n. 26516). L’espressione, mutuata dal-l’art. 1322, co. 2, oltre che riassumere la posizione assunta dai nostri giudici, si rivela idonea a segnare la frontiera

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ultima del «danno ingiusto», il limite estremo oltre il quale la tutela aquiliana non può essere accordata: un medesimo concetto segna così oggi i confini della atipicità del con-tratto e della atipicità del fatto illecito. Così, dopo lunghi contrasti, la giurisprudenza oggi riconosce l’ingiustizia del danno quando sia stato leso, anziché un diritto soggettivo, un interesse legittimo (la svolta è in Cass. S.U. 22.7.1999 n. 500). Qui il soggetto che cagiona il danno è la pubblica amministrazione, la quale viola una regola di comporta-mento che è posta nell’interesse generale, e che solo indi-rettamente protegge l’interesse dei singoli. La giurispru-denza per lungo tempo ha sostenuto che questo interesse indirettamente tutelato, ossia l’interesse legittimo, non fos-se suscettibile di tutela aquiliana. Con il che si perpetuava una immunità della pubblica amministrazione rispetto al diritto comune, che sembrava giustificata dall’art. 28 Cost., il quale limita la responsabilità della pubblica amministra-zione alle ipotesi di «violazione dei diritti». Così, la negli-genza della Consob, che non aveva impedito una sollecita-zione al pubblico risparmio basata su una falsa informa-zione, non esponeva a responsabilità la Consob verso gli acquirenti di uno strumento finanziario vittime della falsa informazione, essendo l’attività dell’ente preposto al con-trollo volta alla «tutela dell’interesse generale all’ordinata attivazione e alla trasparenza del mercato mobiliare», onde «la situazione giuridica del privato trova considerazione nell’ordinamento solo in maniera indiretta e a livello di mero interesse variamente qualificato» (Cass. 14.1.1992 n. 367). Il vizio di questo ragionamento stava nel considerare la posizione soggettiva del privato come creata dalla nor-ma regolatrice dell’azione pubblica, anziché come preesi-stente ad essa. Il danno ingiusto risiede qui nella lesione della libertà contrattuale, che ben può essere fonte di re-sponsabilità aquiliana, e che è sicuramente violazione di un diritto, agli effetti dell’art. 28 Cost. Se di una lesione di tal genere risponde un privato nei confronti di altri privati, non si vede perché debba andarne esente la pubblica ammi-nistrazione, come la più recente giurisprudenza ha finito con l’ammettere, dichiarando la risarcibilità degli interessi legit-timi (così GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 151; Cass. S.U. 22.7.1999 n. 500; Cons. Stato 13.9.2001 n. 4783; Cass. S.U. 9.3.2005 n. 5078; Cass. S.U. 15.5.2006 n. 11094; Cass. 25.8.2006 n. 18486; Cass. 6.4.2006 n. 8097, la quale precisa che il diritto del privato al risarci-mento del danno prodotto dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica prescinde dalla qualificazione formale della posizione di cui è titolare il soggetto danneggiato in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, dato che la tutela risarcitoria è fatta dipendere ed è garantita in funzione dell’ingiustizia del danno conseguente alla lesio-ne di interessi giuridicamente riconosciuti; la tecnica di accertamento della lesione varia a seconda della natura dell’interesse legittimo nel senso che, se l’interesse è op-positivo, occorre accertare se l’illegittima attività dell’am-ministrazione abbia leso l’interesse alla conservazione di un bene o di una situazione di vantaggio; mentre, se l’inte-resse è pretensivo, concretandosi la sua lesione nel diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento ammini-strativo, occorre valutare a mezzo di un giudizio progno-stico, da condurre in base alla normativa applicabile, la fondatezza o meno della richiesta di parte onde stabilire se la medesima fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un

criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole; nello stesso senso Cass. 12.1.2018 n. 651; Cass. 6.2.2009 n. 2991; v. Cons. Stato 30.11.2017 n. 5624; Cons. Stato 16.5.2017 n. 2323). Cass. S.U. 22.7.1999 n. 500, critican-do expressis verbis la precedente «monolitica» e «pietrifi-cata» impostazione che escludeva di fatto la responsabilità della pubblica amministrazione nel caso di illegittimo e-sercizio della funzione pubblica che avesse determinato diminuzioni o pregiudizi della sfera patrimoniale del pri-vato, ha esplicitamente affermato che «una siffatta isola di immunità e di privilegio (...) mal si concilia con le più elementari esigenze di giustizia». ( Ad es. sulla responsa-bilità risarcitoria della P.A. nel caso di occupazione appro-priativa ed usurpativa v. Cass. 23.5.2018 n. 12846). Con-seguentemente la giurisprudenza ha successivamente af-fermato anche la responsabilità della Consob nei con-fronti dei risparmiatori lesi dal negligente controllo di un prospetto informativo, sia pure precisando che in tal caso la Consob sarebbe tenuta a risarcire non già la lesione di un interesse legittimo bensì di un diritto soggettivo (Cass. 3.3.2001 n. 3132; Cass. S.U. 29.7.2005 n. 15916; BOC-CHICCHIO, Sollecitazione al pubblico risparmio. Profili civilistici, in Rivista critica di diritto privato, 1991, p. 133), ed analoghe considerazioni debbono essere svolte per la Banca d’Italia (PRINCIGALLI, La responsabilità civile degli organi di vigilanza bancaria, Bari, 1992, pas-sim) e per il Ministero dell’industria, in quest’ultimo caso per avere il Ministero tardivamente adottato e pubbli-cato, con «macroscopica colpa omissiva», il provvedimen-to di revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività fiduciaria e per avere omesso di informare i risparmiatori sui rischi connessi alla situazione patrimoniale e gestionale della società, traducendosi detta condotta in una violazione dei doveri di diligenza e correttezza nella vigilanza e nel controllo sulle società fiduciarie, trattandosi di doveri posti da norme di legge (d.P.R. 18.4.1994 n. 361, art. 3 del r.d. n. 531/1940) da interpretarsi alla luce dei valori costitu-zionali a tutela del risparmio e dei principi di imparzialità e buona amministrazione (artt. 41, co. 2 e 3, 47, co. 1, e 97, co. 1, Cost.) (Cass. 27.3.2009 n. 7531). Cass. S.U. 27.4.2017 n. 10413 sancisce inoltre che quando la pubbli-ca amministrazione, agendo iure privatorum, intrattiene, con una controparte già individuata, delle trattative finaliz-zate alla stipulazione di un contratto di diritto privato, in-corre in responsabilità precontrattuale sindacabile ai sensi dell’art. 1337 c.c. in tutti i casi in cui il suo comportamen-to contrasti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza è tenuto ogni contraente nella fase precontrattuale. Al superamento del dogma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo ha contribuito anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che, a partire dalla sentenza Francovich (19.11.1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90), ha riconosciuto alla regola di responsabili-tà dei poteri pubblici, per omessa o incompleta o non cor-retta esecuzione del diritto comunitario, una portata gene-rale (SIMONETTI, Il giudizio risarcitorio nel processo am-ministrativo, in Diritto processuale amministrativo, a cura di Cirillo, Torino, 2017, p. 502). Ancora con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione, deve segna-larsi che le norme relative al processo amministrativo sono state fortemente modificate per effetto del d.lgs. 31.3.1998 n. 80 e della l. 21.7.2000 n. 205, con importanti riflessi anche dal punto di vista del diritto sostanziale. L’art. 35,

2043 Libro IV – Delle obbligazioni

co. 1, del d.lgs. 31.3.1998 n. 80, in particolare, prevedeva che «il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli artt. 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma speci-fica, il risarcimento del danno ingiusto». L’art. 7, co. 4, l. 21.7.2000 n. 205, innovando anche la disposizione da ul-timo richiamata, ha sostituito l’art. 7, co. 3, l. 6.12.1971 n. 1034, prevedendo che «il tribunale amministrativo regio-nale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifi-ca, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. Restano riservate all’autorità giudiziaria ordinaria le questioni pre-giudizievoli concernenti lo stato e la capacità dei privati individui, salvo che si tratti della capacità di stare in giudi-zio, e la risoluzione dell’incidente di falso». L’esclusione, da parte della legge del 2000, del riferimento alla giurisdi-zione esclusiva, rende esplicito il riconoscimento, da parte del legislatore, della risarcibilità della lesione degli inte-ressi legittimi (FRANZONI, Dei fatti illeciti-Supplemento, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2004, p. 295). Deve peraltro osservarsi che la Corte costituzionale, con sentenza del 6.7.2004 n. 204, ha dichiarato la parziale in-costituzionalità degli artt. 33 e 34 del d.lgs. 31.3.1998 n. 80, come sostituiti dall’art. 7, lett. a), l. 21.7.2000 n. 205, restringendo la giurisdizione del giudice amministrativo ma, al tempo stesso, riaffermando il principio che il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarci-mento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profi-lo una nuova «materia» attribuita alla sua giurisdizione, ben-sì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica ammini-strazione (nello stesso senso Cons. Stato 24.5.2005 n. 2631; C. cost. 11.5.2006 n. 191; SALVI, La responsabilità civile, cit., p. 112). Rilevanti appaiono anche gli interventi legislativi che confermano che la responsabilità della p.a. per la lesione degli interessi legittimi è ormai pacifica: cfr. la l. n. 69/2009 che, introducendo l’art. 2-bis, co. 1, della l. n. 241/1990, stabilisce che la p.a. ed i soggetti alla stessa equiparati sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o col-posa del termine di conclusione del procedimento (Cons. Stato 29.9.2016 n. 4028); il d.lgs. 2.7.2010 n. 104, che prevede (all’art. 30, co. 3) che «la domanda di risarcimen-to per lesione di interessi legittimi è proposta entro il ter-mine di decadenza di centoventi giorni dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedi-mento se il danno deriva direttamente da questo» (v. in ar-gomento Cons. Stato 8.7.2013 n. 3603) ed all’art. 133, co. 1, lett. a) n. 1), che rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di «risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclu-sione del procedimento amministrativo». Si segnala, in tema, Cons. Stato 28.2.2011 n. 1271, che ha stabilito che può essere riconosciuto il risarcimento dei danni derivanti dal ritardo nel rilascio del permesso di costruire e tale dan-no deve essere fatto decorrere dalla data in cui l’istruttoria era completa, deducendo che può essere liquidato, laddove dimostrato, anche «il danno biologico, derivante dalla le-sione del diritto inviolabile alla salute e deriva, inoltre, da

un illecito di carattere permanente, costituito dall’inerzia della p.a. nel provvedere su una istanza del privato, che assume particolare valenza negativa, derivando dall’ingiu-stificata inosservanza del termine di conclusione del pro-cedimento, che il legislatore ha, di recente, elevato all’am-bito dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. m), Cost. (v. il co. 2-bis, dell’art. 29 della l. n. 241/90, in-trodotto dalla l. n. 69/2009, che richiama appunto tra tali livelli essenziali l’obbligo per la p.a. di concludere il pro-cedimento entro il termine prefissato e le disposizioni rela-tive alla durata massima dei procedimenti. Per la possibili-tà di disporre il risarcimento in forma specifica da parte del giudice amministrativo v. sub art. 2058. Restano aperti, anche alla luce dei recenti interventi legislativi, interroga-tivi di non poco momento: non è chiaro, ad es., se per ri-chiedere il risarcimento del danno conseguente alla lesione dell’interesse legittimo il privato sia tenuto ad impugnare (nei ristretti termini previsti) il provvedimento amministra-tivo (in senso affermativo la giurisprudenza più risalente del Consiglio di Stato: Cons. Stato, Ad. Plen., 22.10.2007 n. 12; Cons. Stato 20.10.2005 n. 5893; Cons. Stato, Ad. Plen., 26.3.2003 n. 4; e cfr., in dottrina, MOSCARINI, Ri-sarcibilità degli interessi legittimi e pregiudiziale ammini-strativa, Torino, 2008, passim, il quale ritiene perdurare l’operatività della pregiudiziale di annullamento quanto me-no nell’azione risarcitoria di interessi legittimi pretensivi; contra Cass. S.U. 15.6.2006 n. 13911;Cass. S.U. 8.4.2008 n. 9040; Cass. S.U. 3.3.2010 n. 5025; così anche Cons. Stato 5.12.2014 n. 6020 secondo cui l’azione di risarci-mento del danno nei confronti della P.A. può essere pro-posta al Giudice amministrativo sia unitamente all’azione di annullamento che in via autonoma senza che sia quindi necessario per il suo esperimento il previo esaurimento del giudizio impugnatorio; così in dottrina FRANZONI, Dei fatti illeciti-Supplemento, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2004, p. 297, ove ulteriori richiami), ed ancora se, nella vigenza della nuova normativa, permanga in capo al giudice ordinario il potere di accertare incidentalmente l’illegittimità dell’atto amministrativo, al solo fine di con-dannare l’amministrazione al risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo (Cass. S.U. 22.7.1999 n. 500, come pure FRANZONI, Dei fatti illeciti-Supplemento, cit., p. 298, che riporta l’es. del tardivo rilascio di una licenza commerciale, ricordando come in tal caso il privato non potrebbe impugnare un provvedimento amministrativo legit-timo, pur subendo ugualmente un pregiudizio economico; contra Cass. 27.3.2003 n. 4538), o se invece il giudice amministrativo sia divenuto l’unico competente per giudi-care in merito alla risarcibilità del danno da lesione degli interessi legittimi (Cass. S.U. ord. 9.3.2005 n. 5078, con riguardo alla lesione di interessi pretensivi). Il Consiglio di Stato ha recentemente affermato che la domanda risarcito-ria proposta nei confronti della p.a. per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento illegittimo rientra nella giurisdizione ordi-naria, non trattandosi di una lesione dell’interesse legitti-mo pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, sep-pur in modo illegittimo), ma di una lesione della sua inte-grità patrimoniale ex art. 2043, rispetto alla quale l’eser-cizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale del danno-evento da affidamento incol-pevole (Cons. Stato 27.9.2016 n. 3997; in tal senso Cass.

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

S.U. 23.1.2018 n. 1654). Cass. S.U. 4.4.2017 n. 8687, inol-tre, ha affermato che spetta al giudice ordinario adito con una controversia avente ad oggetto una pretesa risarcitoria accertare se la situazione giuridica soggettiva fatta valere sia tale da determinare l’insorgere di un’obbligazione ri-sarcitoria. In special modo in seguito all’entrata in vigore della l. 7.8.1990 n. 241, che prevede la puntuale osservan-za, da parte della pubblica amministrazione, di una serie di obblighi, e dopo il dictum di Cass. S.U. 22.7.1999 n. 500, che aveva richiesto la prova di una colpa concreta nella condotta della pubblica amministrazione (su cui v. sub par. 5), oltre che la compromissione di un bene della vita quale conseguenza della lesione dell’interesse legittimo (così anche Cons. Stato Ad. Plen., 15.9.2005 n. 7; cfr. Cons. Stato 10.7.2017 n. 3392; Cons. Stato 3.11.2017 n. 5084), si è consolidata l’opinione di quanti sostengono che tra il privato e l’amministrazione, con l’inizio di un procedi-mento amministrativo, si crei un contatto qualificato, da cui sorgerebbero per l’amministrazione una serie di obbli-ghi e per il privato una situazione di legittimo affidamento. In tal modo, il «contatto sociale» o «contatto ammini-strativo» (CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, cit., passim; ID., La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, passim, specie p. 199) determinerebbe la nascita di un dovere dell’amministrazione di comportarsi secondo correttezza, e la violazione di detto dovere darebbe luogo ad una responsabilità da inadempimento, ossia ad una re-sponsabilità contrattuale (Cons. Stato 2.9.2005 n. 4461; FRANZONI, Dei fatti illeciti-Supplemento, cit., p. 303; Cass. 27.10.2017 n. 25644). Gli effetti sono assai rilevanti, sia sotto il profilo del termine di prescrizione, che da quin-quennale diventa decennale, sia sotto l’aspetto della colpa, che non dovrà essere provata dal privato e che dovrà inve-ce essere esclusa dalla pubblica amministrazione fornendo la prova liberatoria di cui all’art. 1218). Ulteriori effetti, com’è noto, sono la diversa disciplina relativa ai danni non prevedibili ed al momento rilevante per il computo degli interessi. Il ricorso al concetto di contatto sociale, fino al recente intervento legislativo di cui alla Legge Gelli-Bianco del 2017 (su cui v. infra), era stato fatto anche nel-l’ambito della responsabilità medica (v. sub art. 2236). Per lungo tempo infatti è stata dibattuta in giurisprudenza e dottrina la natura della responsabilità del medico dipen-dente di una struttura ospedaliera nei confronti del pazien-te. In un primo tempo prevalse la tesi della natura extra-contrattuale (cfr. Cass. 13.3.1998 n. 2750; Cass. 26.3.1990 n. 2428). Negli anni successivi, si affermò la tesi opposta contrattualistica e, a consolidamento della tesi della natura contrattuale della responsabilità, già sostenuta da altra parte della giurisprudenza su diverse basi (Cass. 1.3.1988 n. 2144; Cass. 11.4.1995 n. 4152), si era invece affermato il princi-pio secondo cui, sebbene il paziente concluda un contratto di cura con la struttura ospedaliera, pubblica o privata che sia, e non con il medico, anche tra medico e paziente si instaurerebbe un contatto qualificato, sicché l’esecuzione non diligente o errata della propria prestazione da parte del sanitario implicherebbe una responsabilità contrattuale (Cass. 22.1.1999 n. 589; Cass. 21.6.2004 n. 11488; Cass. 24.5.2006 n. 12362; cfr. anche Cass. S.U. 11.1.2008 n. 577; v. SAL-VI, La responsabilità civile, cit., p. 15; PECCENINI, La re-sponsabilità sanitaria, Bologna, 2007, p. 1 ss.). Degna di menzione era, tuttavia, Cass. 2.4.2009 n. 8093, secondo la quale il rapporto tra cittadino-utente e struttura sanitaria

publica o convenzionata non si può qualificare come con-tratto, «trattandosi soltanto dell’adempimento di un dovere di prestazione direttamente discendente dalla legge»; «la conclusione che nega la ricorrenza del contratto», secondo la pronuncia richiamata, «non è in alcun modo configgente con la comune ed ormai acquisita qualificazione come contrattuale della responsabilità della struttura ospedaliera anche pubblica (…) presente da tempo nella giurispruden-za della corte. Tale affermazione, infatti, non sottende (v., peraltro, a quel che consta, Cass. n. 8826/2007, in diverso senso) che quando ci si rivolge alla struttura del servizio sanitario nazionale o ad una struttura convenzionata si sti-puli un contratto, ma vuole significare che la cattiva ese-cuzione della prestazione dà luogo a responsabilità con-trattuale nel senso di responsabilità nascente dall’inadem-pimento di un obbligo preesistente o dalla sua cattiva ese-cuzione. Il concetto di responsabilità contrattuale, cioè, viene usato nel senso non già di responsabilità che suppo-ne un contratto, ma nel senso – comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrat-tuale – di responsabilità che nasce dall’indempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, che nella specie sta a carico del servizio sanitario pubblico nazionale. La lettura delle motivazioni, anche al di là di quanto sembra talvolta suggeriscano le massime, evidenzia che la corte (salvo appunto la sentenza sopra citata) non ha qualificato il rap-porto che sorge dall’accettazione della richiesta da parte della struttura sanitaria del servizio sanitario nazionale, di-rettamente operante o operante in convenzione, come con-tratto, ma si è sempre soffermata sulla natura della respon-sabilità, ricorrendo alla figura della responsabilità contrat-tuale nei sensi indicati» (in argomento v. anche LEPRE, La responsabilità civile delle strutture sanitarie, Milano, 2011, specie pp. 24 ss. e 39 ss., che critica anche la citata sentenza della Cassazione nella parte in cui esclude l’ap-plicabilità della disciplina sul foro del consumatore di cui all’art. 33, co. 2, lett. u) del d.lgs. n. 206/2005 in caso di controversia tra paziente e struttura pubblica in regime gratuito ovvero tra paziente e struttura privata convenzio-nata giacché, secondo la Corte, in tale ipotesi non vi è un contratto tra le parti, l’accesso al servizio sanitario avviene senza collegamenti con la residenza per effetto di una scel-ta dell’utente e la struttura pubblica non potrebbe qualifi-carsi come professionista; sul punto v. anche MIRIELLO, La responsabilità medica nello specchio della responsabi-lità civile, in La responsabilità nei servizi sanitari, diretto da Franzoni, Bologna, 2011, p. 58, che mette in luce, così come LEPRE, anche come la Corte condivideva l’assunto secondo cui la posizione giuridica dell’utente è tendenzial-mente identica a quella del consumatore). Sul tema della responsabilità medica è infine intervenuto il legislatore anche al fine di porre un argine al fenomeno della c.d. “medicina difensiva”, a sua volta conseguenza degli ecces-si risarcitori verificatisi in giurisprudenza. In primo luogo, la l. 8.11.2012 n. 189 c.d. Legge Balduzzi (in cui si fa ri-ferimento ai criteri per la quantificazione del danno ex artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni), convertendo in legge il d.l. 13.9.2012 n. 158, aveva previsto che «l’eser-cente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penal-mente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile» (cfr.

2043 Libro IV – Delle obbligazioni

art. 3 d.l. n. 158/2012; cfr. anche Cass. 19.2.2013 n. 4030 che, proprio facendo riferimento alla l. n. 189/2012, in tema di errore diagnostico da parte del medico e conse-guente assenso del paziente ad un intervento chirurgico, ha affermato che la prova dell’esimente penale non esclude la responsabilità civile, che considera la colpa in una dimen-sione lata, inclusiva del dolo e della diligenza professiona-le). Il richiamo all’art. 2043 da parte della Legge Balduzzi non era stato tuttavia ritenuto dirimente in giurisprudenza al fine di affermare la natura extracontrattuale della re-sponsabilità del medico ospedaliero. Mentre infatti secon-do parte della giurisprudenza di merito il richiamo del le-gislatore all’art. 2043 era del tutto consapevole ed era tale da far ritenere extracontrattuale tanto la responsabilità del-la struttura quanto quella del medico o, quanto meno, que-st’ultima secondo l’orientamento maggioritario, fatto pro-prio dalla Cassazione, il richiamo contenuto nella Legge Balduzzi non avrebbe inciso in alcun modo sul diritto vi-vente, sicché veniva ribadita la natura contrattuale della re-sponsabilità del medico (Cass. 19.2.2013 n. 4030; Cass. 17.4.2014 n. 8940). La questione è stata però recentemente risolta dalla l. 8.3.2017 n. 24 (c.d. Riforma Gelli-Bianco), che ha affermato la natura contrattuale della responsa-bilità della struttura e quella extracontrattuale della responsabilità del medico (per un commento alla riforma v. ALPA, Ars interpretandie responsabilità sanitaria a se-guito della nuova legge Bianco-Gelli, in Contratto e im-presa, 2017, p. 728 ss., che ritiene quindi superata l’esi-genza e la stessa possibilità di continuare a fare ricorso, nell’ambito della responsabilità medica, alla teoria del con-tatto sociale; PONZANELLI, Medical malpratice: la legge Bianco-Gelli, in Contratto e impresa, 2017, p. 356, che giu-dicata la legge equilibrata, richiama i “preoccupanti livelli di overcompensation e di overdeterrence” cui si era perve-nuti prima dell’introduzione della legge e ritiene che la legge abbia posto rimedio a quattro criticità che hanno caratterizzato il settore della responsabilità medica quali a) l’eccesso di responsabilità; b) l’eccesso di risarcimento; c) il difetto di assicurazione e d) il difetto di risk manage-ment; ASTONE, Profili civilistici della responsabilità sani-taria (riflessioni a margine della l. 8.3.2017 n. 24), in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 1115 ss.; DONZELLI, Pro-fili processuali della nuova responsabilità sanitaria, in Riv. dir. proc., 2017, p. 1195). La nuova legge all’art. 7 af-ferma da un lato la responsabilità contrattuale della struttu-ra sanitaria (così testualmente prevede il co. 1: «la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’a-dempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’o-pera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stes-sa, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose») e dall’altro la natura extracontrattuale della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria «salvo che abbia agito nell’adem-pimento di obbligazione contrattuale assunta con il pazien-te». Importante questione in materia, riguarda la riparti-zione dell’onere della prova tra medico e paziente che – secondo il più recente orientamento giurisprudenziale – per il paziente danneggiato consiste nel provare il “contat-to sociale”, l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di una affezione ed allegare l’inadempimento idoneo a pro-vocare il danno; il medico invece deve dimostrare che l’i-nadempimento non c’è stato o che, pur esistendo, non è e-

ziologicamente rilevante (Cass. 20.10.2015 n. 21177; Cass. 13.10.2017 n. 24073). Per quanto riguarda invece il termine della prescrizione del diritto al risarcimento del danno, esso decorre dal momento in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto con-seguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche (Cass. 16.10.2015 n. 20934). In materia di danno da emotrasfusione v. Cass. 29.3.2018 n. 7814 per la quale “in epoca antecedente l’en-trata in vigore dell’art. 5, comma 7, del d.l. n. 443 1987, conv., con modif. dalla l. n. 531 del 1987 – che ha stabilito l’obbligo per le USL di compiere preventivi controlli del sangue da destinare alle trasfusioni, al fine di accertare l’assenza del virus HIV – l’attività di trasfusione era già connotata da obiettiva pericolosità; sicché, l’inosservanza della normativa esistente, del protocollo, delle linee guida e delle “leges artis”, emanati allo scopo di evitare i rischi specifici, configura grave inadempimento contrattuale del medico per condotta commissiva ed omissiva, imputabile anche alla struttura sanitaria ex art. 1228 c.c.”. Da un pun-to di vista penalistico, degno di nota è l’art. 6 della l. n. 24/2017, con cui si introduce nel codice penale l’art. 590-sexies, che disciplina la responsabilità colposa per morte o per lesioni personali in ambito sanitario. Rispetto alla di-sciplina di cui alla Legge Balduzzi (in forza della quale il sanitario rispondeva penalmente solo per colpa grave), la Legge Gelli-Bianco non distingue più i gradi della colpa ma rileva la previsione che «qualora l’evento si sia verifi-cato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assisten-ziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predet-te linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». L’ultimo comma dell’art. 7 della legge confer-ma infine, come già previsto dalla Legge Balduzzi, che il risarcimento del danno dall’esercizio della professione sa-nitaria viene determinato sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, equi-parando i danni derivanti dall’esercizio la professione sa-nitaria con quelli derivanti da circolazione stradale (cfr., v. anche Cass. S.U. 22.5.2018 n. 12567: “dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capita-lizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’ente pubblico, in conseguenza di quel fatto, essendo tale indennità rivolta a fronteggiare ed a compensare direttamente il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall’illecito, consistente nella neces-sità di dover retribuire un collaboratore o assistente per le esigenze della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto”; per una critica all’estensione degli artt.138 e 139 cod. ass. al settore sanitario, PONZANELLI, L’applicazione degli articoli 138 e 139 Codice delle Assi-curazioni alla responsabilità medica: problemi e prospet-tive, in Nuova giur. civ. comm., 2013, p. 145 ss.). La legge Gelli-Bianco, inoltre, prevede: 1) interventi di monitorag-gio sui rischi, sui sinistri e sul contenzioso; 2) l’istituzione di organismi deputati al monitoraggio (Garante per il dirit-to alla salute e Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente); 3) obblighi per le

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strutture sanitarie pubbliche e private di trasparenza dei dati; 4) l’obbligo per gli operatori di attenersi a specifiche linee guida da emanarsi in tempi brevi; 5) la previsione (art. 8) quale condizione di procedibilità, dell’esperimento della mediazione o di un accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi ex art. 696-bis c.p.c., prevedendo anche per le imprese di assicurazione l’obbligo di partecipazione e di formulare l’offerta di risarcimento del danno ovvero di comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla e prevedendo la condanna le parti che non hanno parteci-pato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indi-pendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione; 6) adempi-menti stringenti a carico di strutture e esercenti la profes-sione tra cui il più rilevante è l’obbligo di assicurazione (art. 10); la possibilità per le strutture ospedaliere di espe-rire l’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la pro-fessione sanitaria solo in caso di dolo o colpa grave (art. 9); la possibilità per il danneggiato di esperire l’azione diretta contro l’assicuratore della struttura o dell’esercente la professione sanitaria, anche se esplichi la sua attività come libero professionista (art. 12). Nella medesima ottica sopra descritta, è stata affermata l’astratta responsabilità da contatto sociale dell’insegnante per i danni subiti dall’alunno a seguito di lesioni autoprocuratosi, ritenendosi che l’insegnante sarebbe venuta meno all’obbligo di prote-zione e vigilanza assunto per contatto sociale nei confronti del bambino (Cass. 26.4.2010 n. 9906; Cass. 29.9.2017 n. 22800, la quale afferma anche che la “repentinità” dell’e-vento lesivo incide, sulla “inevitabilità” del fatto, esclu-dendo la configurabilità di una condotta omissiva negli-gente da parte dell’insegnante in quanto impossibilitato ad un intervento eziologicamente efficace ad impedire la ca-duta dell’allieva). La frontiera più avanzata, in fatto di re-sponsabilità dello Stato, è quella tracciata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, che ha affermato la re-sponsabilità civile dello Stato nei confronti dei privati per i danni ad essi cagionati con l’omessa attuazione di una direttiva comunitaria, cui è conseguito il mancato rico-noscimento di diritti previsti a loro favore dalla direttiva: al fine del riconoscimento occorre che a) la direttiva pre-veda l’attribuzione di diritti in capo ai singoli soggetti; b) che tali diritti possano essere individuati in base alle di-sposizioni della direttiva; c) che sussista un nesso di causa-lità tra la violazione dell’obbligo a carico delo Stato e il pregiudizio subito dal soggetto leso (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 141; ROPPO, La responsabi-lità patrimoniale del debitore, in Tratt. Rescigno, X, Torino, 1985, p. 101; ALPA, La responsabilità civile dello stato per violazioni di obblighi comunitari, in Rassegna di dirit-to civile, Napoli, 2000, p. 487; MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, cit., p. 852; SALVI, La responsabilità civile, cit., p. 116; SCANNICCHIO, in Lipari N., Diritto privato europeo, I, Padova, 1997, p. 76; CIATTI, Appunti sull’ille-cito del legislatore, in Contratto e impresa Europa, 2009, p. 553 ss.; LAZARI, La responsabilità del legislatore na-zionale nel contesto comunitario. L’Ulisse incatenato e la tela di Penelope, in Contratto e impresa Europa, 2009, p. 576 ss.). Qui è manifestamente superato lo schema di ra-gionamento secondo il quale l’attuazione, da parte del le-gislatore nazionale, delle direttive comunitarie è volto a proteggere l’interesse generale, mentre la posizione sog-

gettiva dei singoli degrada a mero interesse legittimo (C. giust. Ce 19.11.1991 n. 6/90, 9/90; C. giust. Ce 5.3.1996 n. 46, 48/93; Cass. 16.5.2003 n. 7630; Cass. 9.4.2001 n. 5249; che negano il sindacato giudiziario sull’attività legi-slativa, quantunque vincolata da direttiva comunitaria; sul punto si sono espresse anche Cass. S.U. 17.4.2009 n. 9147, escludendo la ricondubilità all’art. 2043 c.c. della fattispe-cie in esame ed affermando che «nel caso di omessa o tar-diva attuazione di direttive comunitarie, il diritto degli in-teressati al risarcimento dei danni in ragione del ritardo non ha natura extracontrattuale ma indennitaria per attività non antigiuridica dello Stato, derivando da una obbliga-zione ex lege dello Stato, e il relativo risarcimento pre-scinde dalla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato in modo da assicurare un’idonea compensazio-ne della perdita subita, restando soggetto all’ordinario ter-mine decennale di prescrizione» (Cons. Stato 31.7.2012 n. 4365).: secondo le Sezioni Unite, che dichiarano di essere consapevoli che «la giurisprudenza della Corte, nelle nu-merose decisioni rese sulla questione, riconduce con asso-luta prevalenza il cd. illecito del legislatore alla fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.», si deve invece aderire alla giuri-sprudenza, fino ad allora minoritaria, della medesima Cor-te, secondo la quale, «stante il carattere autonomo e distin-to tra i due ordinamenti, comunitario e interno, il compor-tamento del legislatore è suscettibile di essere qualificato come antigiuridico nell’ambito dell’ordinamento comuni-tario, ma non alla stregua dell’ordinamento interno, secon-do principi fondamentali che risultano evidenti nella stessa Costituzione»; in questo senso già Cass. 5.10.1996 n. 8739; Cass. 19.7.1995 n. 7832; v. anche Cass. 17.5.2011 nn. 10813 e 10814, che hanno affermato che tale respon-sabilità – dovendosi considerare il comportamento omissi-vo dello Stato come antigiuridico anche sul piano dell’or-dinamento interno e dovendosi ricondurre ogni obbligazio-ne nell’ambito della ripartizione di cui all’art. 1173 c.c. – va inquadrata nella figura della responsabilità “contrattua-le”, in quanto nascente non dal fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., bensì dall’inadempimento di un rapporto obbli-gatorio preesistente, che ne costituisce direttamente la fonte: in motivazione, peraltro, si legge che detta scelta, fatta pro-pria dalle sopra citate Sezioni Unite 17.4.2009 n. 9147, sa-rebbe risultata obbligata dal fatto che la giurisprudenza della Corte di giustizia esige che l’obbligazione risarcitoria dello Stato non sia condizionata al requisito della colpa, che invece caratterizza la responsabilità di cui all’art. 2043). La Corte di giustizia, peraltro, ha affermato la responsabi-lità dello Stato anche per il caso in cui la violazione del diritto comunitario derivi da una decisione giurisdizionale di ultimo grado, sempre che il giudice abbia violato in ma-niera manifesta il diritto vigente, la norma di diritto comu-nitario violata fosse preordinata a conferire diritti ai singoli e sussista un nesso causale diretto tra la violazione e il danno (C. giust. Ce 30.9.2003 n. C-224/01) e, più recen-temente, ha affermato l’incompatibilità con la normativa comunitaria della legge italiana sulla responsabilità dei magistrati (l. 13.4.1988 n. 117), che esclude in maniera generale la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ul-timo grado per il motivo che la violazione controversa ri-sulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo

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giurisdizionale. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale re-sponsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussi-stenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione mani-festa del diritto vigente (C. giust. Ce 13.6.2006 n. 173/03). Per il danno alla persona la Cassazione da sempre ammette la responsabilità della pubblica amministrazione per omis-sione colposa, e con estremo rigore: così, per il danno su-bito da un infermiere di una clinica psichiatrica, ferito da un paziente è riconosciuta la responsabilità dell’ammini-strazione provinciale, per avere trascurato di organizzare, fin dall’inizio, un servizio psichiatrico con un numero di infermieri proporzionato alle necessità del servizio (Cass. 13.4.1973 n. 1055); l’amministrazione di un ospedale è condannata per non avere adottato le misure di sicurezza utili ad impedire che un neonato ospite del reparto di ma-ternità potesse venire rapito da estranei (Cass. 4.8.1987 n. 6707; cfr., in argomento, l’art. 1 della sopra citata legge Gelli Bianco in tema di sicurezza delle cure in sanità e l’art. 7 sulla resp. della stuttura sanitaria). La Corte Euro-pea dei diritti dell’Uomo, nella sentenza n. 22635 del 16.7.2009, inoltre, ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, che stabilisce il diveto di sottoporre chiunque a tortura o a trattamenti disumani, ritenendo che per un detenuto, avere a disposizione 2,70 metri quadrati ha inevitabilmente cau-sato disagi e inconvenienti quotidiani, costringendolo a vivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima ritenuta auspicabile dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti. Il danno da perdita di chances si presenta quale danno per la perdita di future occasioni di guadagno. Secondo l’orientamento maggiorita-rio esso è danno emergente, in quanto consiste nella perdi-ta della possibilità, già presente nel patrimonio del dan-neggiato, di conseguire un risultato favorevole (Cass. 30.9.2016 n. 19604; Cass. 25.5.2007 n. 12243; Cons. Stato 25.7.2006 n. 4634; sulla distinzione tra “chance patrimo-niale” e “chance non pretensiva” v. Cass. 9.3.2018 n. 5641); BOCCHIOLA, Perdita di una “chance” e certezza del danno, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, p. 86; MO-NATERI, Manuale della responsabilità civile, Torino, 2001, p. 185; PONTECORVO, La responsabilità per perdita di-chance, in Giust. civ., Milano, 1997, p. 447; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 824; MASTROPAOLO, voce Danno (risarcimento del danno), in Enciclopedia giuridica Trec-cani, X, Roma, 1988, p. 13; BALDASSARI, Il danno patri-moniale, in Enciclopedia, collana diretta da Cendon, Pa-dova, 2001, p. 180 ss.; DE CUPIS, Il risarcimento della perdita di una «chance», in Giur. it., 1986, I, 1, p. 1181; FACCI, Il danno da perdita di chance, in La responsabilità nei servizi sanitari, diretto da Franzoni, Zanichelli, Bolo-gna, 2011, p. 140; contra ALPA, Il danno biologico, per-corso di un’idea, Padova, 2003, p. 96, che ritiene più cor-retto qualificarla come lucro cessante, quale prospettiva futura di una situazione migliore rispetto a quella attuale). La chanche «non è una mera aspettativa di fatto ma un’en-tità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economi-camente suscettibile d’autonoma valutazione [quale] per-dita della possibilità di conseguire un qualsivoglia risultato utile» (Cass. 27.6.2007 n. 14820; Cass. 30.1.2018 n. 2293;

Cass. 24.10.2017 n. 25102): essa è danno attuale (Cass. 21.6.2000 n. 8468; Cons. Stato 20.7.2017 n. 3575; contra Cass. 30.1.2018 n. 2293, cit.) e «la sua perdita costituisce una lesione dell’integrità del patrimonio risarcibile come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del danneggiante» (Cass. 13.12.2001 n. 15759; PONTECORVO, La responsabilità per perdita dichance, cit., p. 448; BOC-CHIOLA, Perdita di una “chance” e certezza del danno, cit., p. 85). Gli ambiti ove trova maggiormente applicazio-ne questa tipologia di danno sono quelli della lesione di interessi legittimi (Cass. S.U. 26.1.2009 n. 1850, in tema di attività della p.a. ed illegittimo diniego di un’autoriz-zazione; Cass. S.U. 15.3.2016 n. 5072, in relazione alla perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore e stabile per i lavoratori, che abbiano reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegit-timità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fat-tispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem laddove la p.a. avrebbe dovuto emanare un bando di concorso per il posto; Cons. Stato 18.12.2001 n. 6281, con riguardo all’i-potesi di affidamento di un contratto della pubblica ammi-nistrazione mediante trattativa privata al di fuori dei casi consentiti dalla legge; Cass. 29.3.2006 n. 722, relativa alla mancata aggiudicazione del contratto ad un’impresa, in presenza di un giudizio prognostico positivo circa l’esito favorevole – sulla base della normativa applicabile e del procedimento di scelta del contraente autodeterminato dal-la p.a. – della partecipazione della stessa ad una gara, della quale, invece, illegittimamente era risultata vincitrice altra impresa) e quello della perdita di occasioni di lavoro, co-me nel caso della perdita della chance di essere assunto o di accedere ad una qualifica superiore per effetto dell’il-legittimità della procedura concorsuale (Cass. 3.3.2010 n. 5119, che ritiene indispensabile che il datore di lavoro for-nisca, in conformità ai criteri precostituiti dal bando e, comunque, quelli di correttezza e buona fede, adeguata ed effettiva motivazione delle operazioni valutative e compa-rative connesse alla selezione, dovendo, in difetto, risarcire il lavoratore del danno da perdita di chance, sulla base del tasso di probabilità che il lavoratore medesimo aveva di risultare vincitore qualora la selezione tra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto e trasparente; nello stesso senso già Cass. 23.1.2009 n. 1715) o nell’ipotesi della de-qualificazione professionale (Cass. 14.11.2001 n. 14199) o dell’illegittimo comportamento del datore di lavoro che abbia pregiudicato la possibilità di una promozione (Cass. 22.4.1993 n. 4725; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 822). Altre ipotesi di perdita della chance sono state ravvi-sate nella responsabilità (contrattuale) del professioni-sta che, con il proprio inadempimento contrattuale, abbia causato al proprio cliente la perdita della chance di intra-prendere o proseguire una lite in sede giudiziaria (Cass. 13.12.2001 n. 15759 e Cass. 22.11.2004 n. 22026, entram-be con riguardo all’attività di un commercialista; Cass. 15.12.2016 n. 25894 e Cass. 22.3.2017 n. 7309, con ri-guardo all’attività dell’avvocato, sempre che la negligenza nell’attività difensiva, secondo un giudizio probabilistico, abbia pregiudicato la “chance” di vittoria)). Cass. 7.10.2010 n. 20808, invece, ha affermato la responsabilità (contrat-tuale) e la conseguente risarcibilità del danno da perdita di chance subito da un’azienda che non ha potuto partecipare

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ad una gara d’appalto a causa del ritardo nel recapito della domanda da parte di una notissima società di spedizioni, a cui era stata affidata la busta contenente la domanda. De-gna di menzione è anche la crescente tendenza della giuri-sprudenza ad affermare la risarcibilità della lesione della chance (con accezione evidentemente diversa da quella del danno per la perdita di future occasioni di guadagno) nell’ambito della responsabilità medica: Cass. 19.3.2018 n. 6688 ha affermato che grava sul sanitario che esegua un esame diagnostico l’obbligo di informare il paziente, in for-ma completa e con modalità congrue al livello di conoscen-ze scientifiche dello stesso, sugli esiti dell’accertamento, sul grado di rischio delle patologie riscontrate e sulla necessità ed urgenza di ulteriori approfondimenti diagnostici, dal cui inadempimento può conseguire in capo al paziente un danno da perdita di “chance” di guarigione o di sopravvi-venza. Questo danno presuppone che il paziente, benché malato grave o anche gravissimo, abbia tuttavia ancora dinanzi – ove la condotta medica fosse corretta – la possi-bilità di uscire da tale situazione mediante una guarigione o una sopravvivenza di entità consistente, misurabile in termini di anni (cd. lungo-sopravvivenza), e si distingue dal diverso pregiudizio alla qualità della vita nel tempo conclusivo dell’esistenza, il quale presuppone, invece, che il paziente versi nella condizione di malato terminale, la cui sopravvivenza – sempre nell’ipotesi di condotta medi-ca corretta – sia circoscritta ad un tempo limitato, misura-bile in termini di poche settimane o di pochi mesi. secondo Cass. 23.3.2018 n. 7260 La violazione del diritto di deter-minarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esi-stenziali, determinata dal colpevole ritardo diagnostico di una patologia ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di “chances” connesse allo svolgimento di specifiche scelte di vita non potute compiere, ma con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarci-mento del danno sulla base di una liquidazione equitativa; Cass. 10.1.2017 n. 243 ha stabilito che al medico speciali-sta in ginecologia, cui fiduciariamente una gestante si sia rivolta per accertamenti sulle condizioni della gravidanza e del feto, che non abbia adempiuto correttamente la presta-zione per non avere prescritto l’amniocentesi, ove nasca un bambino affetto da una sindrome (di down) che quel-l’accertamento avrebbe potuto svelare, può addebitarsi la perdita della chance di conoscere lo stato della gravidanza fin dal momento in cui l’evento si è verificato e, conse-guentemente, di evitare il danno alla salute psico-fisica che la donna asserisce di aver subìto per la sorpresa di aver conosciuto la condizione patologica del figlio solo al ter-mine della gravidanza, rimanendo irrilevante sotto il profi-lo eziologico la circostanza che, a breve distanza dall’ina-dempimento, la gestante abbia rifiutato di sottoporsi al-l’amniocentesi presso una struttura ospedaliera, in occasio-ne di ulteriori controlli (v., in argomento, FACCI, Il danno da perdita di chance, in La responsabilità nei servizi sani-tari, diretto da Franzoni, Zanichelli, Bologna, 2011, p. 137 ss.). In tema di danni alla persona, anche per il caso di danno derivante da scontro automobilistico, la giurispru-denza ha affermato che l’invalidità di gravità tale da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momen-

to del sinistro, e comunque confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, integra non già lesione di un modo di essere del soggetto, rientrante nell’aspetto del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, quanto un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, e piuttosto derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica (Cass. 14.11.2017 n. 26850). Per concedere il risarcimento della lesione della chance parte della la giurisprudenza ha ri-chiesto che la percentuale di probabilità di conseguire il risultato favorevole fosse superiore al 50%, in quanto di-versamente verrebbe a mancare la certezza del danno (Cass. 19.12.1985 n. 6506; v. inoltre, più recentemente, v. però Cass. 12.5.2017 n. 11906 che richiede elevate probabilità, prossime alla certezza; Cass. 30.9.2016 n. 19604, che ri-chiede elevate probabilità; Cass. 20.8.2015 n. 17016, che applica la regola del “più probabile che non”; BOCCHIOLA, Perdita di una “chance” e certezza del danno, cit., p. 101; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 824). In senso contra-rio, tuttavia, è stato anche affermato che sarebbe sufficien-te l’«esistenza di una non trascurabile probabilità favore-vole (non necessariamente superiore al cinquanta per cen-to)» (Cass. 18.1.2006 n. 852; Cons. Stato 24.3.2011 n. 1796) o, ancora, «la ragionevole probabilità della verifica-zione futura del danno» (Cass. 25.9.1998 n. 9598; Cons. Stato 16.7.2015 n. 3551; cfr. ALPA-BESSONE-ZENO ZEN-COVICH, I fatti illeciti, in Tratt. Rescigno, vol. 14, Obbli-gazioni e contratti, VI, Torino, 1995, p. 222). Secondo Cass. 18.9.2008 n. 23846 «quando sia stata fornita la di-mostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probabi-listico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giu-ridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente deter-minato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabil-mente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è, viceversa, rilevante, soltanto ai fini della concreta indivi-duazione e quantificazione del danno, da effettuarsi even-tualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secon-do e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla». Secondo Cass. 19.2.2009 n. 4052, invece, l’accoglimento della domanda di risarcimen-to del danno da lucro cessante o da perdita di chance esige la prova, anche presuntiva, dell’esistenza di elementi og-gettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esi-stenza di un pregiudizio economicamente valutabile (v. an-che Cass. 15.5.2018 n. 11750: “Il danno da riduzione della capacità di guadagno subito da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-fisica, può essere valutato attraverso il ricorso alla prova presuntiva allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro il danneggiato percepirà un reddito inferiore a quel-lo che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’evento

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lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua famiglia e di ogni altra circo-stanza del caso concreto. Ne consegue che ove l’elevata percentuale di invalidità permanente renda altamente pro-babile, se non certa, la menomazione della capacità lavora-tiva specifica ed il danno ad essa conseguente, il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale oc-corsa alla vittima e procedere alla sua valutazione in via equitativa, pur in assenza di concreti riscontri dai quali desumere i suddetti elementi.”). Recentemente, in materia di responsabilità della p.a., la giurisprudenza ha affermato che il danno da perdita di chance (che è da intendersi qua-le lesione della concreta occasione favorevole di coneguire un determinato bene, che non è mera aspettativa di fatto, ma entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed eco-nomicamente suscettibile di autonoma valutazione) può essere in concreto ravvisato e risarcito solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in concreto il richie-dente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita e cioè in ragione della maggiore o minore probabilità dell’occa-sione perduta, con conseguente necessità di distinguere fra probabilità di riuscita, che va considerata quale chance risar-cibile e la mera possibilità di conseguire l’utile cui si ambi-sce (Cons. Stato 20.7.2017 n. 3575; Cons. Stato 7.6.2017 n. 2740, che afferma che nel caso di esclusione da una pub-blica gara, al fine di ottenere il risarcimento del danno da perdita di chance, occorre fornire prova certa in ordine alla circostanza che l’offerta del concorrente illegittimamente escluso sarebbe stata quella che avrebbe comportato l’at-tribuzione dell’aggiudicazione al concorrente medesimo, di modo che questi si vede privato sia del lucro, derivante dall’esecuzione del contratto, sia dell’acquisizione di un elemento curriculare positivo;Cons. Stato 30.1.2017 n. 372; ). Per quanto concerne, invece, la liquidazione del danno, l’ammontare corrispondente al risultato che sarebbe stato possibile raggiungere andrà ridotto in via equitativa dal giudice in considerazione della percentuale di probabilità di raggiungimento del risultato (Cass. 6.6.2006 n. 13241). Il giudice amministrativo, inoltre, ha affermato che nel caso di danno derivante dalla lesione di un interesse legittimo il risarcimento in forma specifica può intendersi integrato dal rinnovo legittimo dell’atto annullato (Cons. Stato 18.12.2001 n. 6281). Nell’ambito del danno alla persona, la giurisprudenza talora ha ricompreso la perdita di chan-ces nel danno alla vita di relazione (Cass. 16.12.1992 n. 13299; v. sub art. 2059), tal’altra l’ha considerata come una diminuzione del valore d’uso delle capacità umane e perciò come danno biologico (Cass. 6.11.1986 n. 6512); tal’altra, infine, ha affermato che, trattandosi di danno pa-trimoniale, deve essere distinto dal danno biologico (Cass. 27.7.2001 n. 10291; per Cass. 15.2.2018 n. 3691 la perdita di “chance”, ovvero di una concreta possibilità di conse-guire un determinato bene della vita, integrante la lesione di un’entità patrimoniale attuale suscettibile di autonoma valutazione economica, non può coesistere con il danno alla salute (e con il correlato danno morale), il quale pre-suppone l’accertamento che l’illecito si sia concretizzato in una menomazione dell’integrità psicofisica, e che, di conseguenza, l’inadempimento del sanitario abbia non soltanto privato il paziente di una possibilità di cura ma concretamente inciso sullo stato di salute ). In questa ma-teria si suole utilizzare il reddito quale criterio di misura-zione del danno, sulla base di una finzione di futuro gua-

dagno che può apparire controvertibile (v. Cass. 22.5.2018 n. 12572 secondo la quale il danno patrimoniale futuro conseguente alla lesione della salute è risarcibile solo ove appaia probabile, alla stregua di una valutazione progno-stica, che la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’in-fortunio, mentre il danno da lesione della “cenestesi la-vorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e diffi-coltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa, si risolve in una compromis-sione biologica dell’essenza dell’individuo e va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto; Cass. 16.3.2018 n. 6619; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 822). Fattispecie, per così dire, estreme, sulle quali è ancora vivo il dibattito, sono invece quelle del danno da procreazione, della lesione della sessualità e del fatto illecito del legislatore. Si discute se chi sia nato dopo l’uccisione del padre abbia diritto a che l’uccisore gli ri-sarcisca il danno. Lo si è a lungo negato adducendo che nei suoi confronti il danno non può essere qualificato co-me ingiusto, ossia come lesivo di un suo diritto, giacché egli non ha mai acquistato diritti verso il padre, morto prima della sua nascita (così Cass. 28.12.1973 n. 3467) ma il danno viene oggi per lo più considerato risarcibile rite-nendosi che il figlio subisce l’evento lesivo del proprio diritto non già al momento della morte del padre, bensí a partire dal momento della propria nascita, ossia da quando avverte privazioni economiche sotto il profilo del diritto al mantenimento. Anteriore alla nascita è l’azione lesiva, non l’evento lesivo (Cass. 13.11.2000 n. 11625,; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 152). Anche recen-temente, pertanto, la Cassazione, riformando le pronunce dei due precedenti gradi di giudizio, ha esplicitamente sta-tuito che «anche il soggetto nato dopo la morte del padre naturale, verificatasi durante la gestazione per fatto illecito di un terzo, ha diritto nei confronti del responsabile al ri-sarcimento del danno per la perdita del relativo rapporto e per i pregiudizi di natura non patrimoniale e patrimoniale che gli siano derivati», ritenendo che quando il figlio è venuto alla luce si è verificata «la propagazione intersog-gettiva dell’effetto dell’illecito per la lesione del diritto della figlia (non del feto) al rapporto col padre; e nello stesso momento è sorto il suo diritto di credito al risarci-mento, del quale è dunque diventato titolare un soggetto fornito della capacità giuridica per essere nato». Per la Corte, inoltre, «non è revocato in dubbio il nesso di causa-lità fra illecito e danno, inteso come insieme di conseguen-ze pregiudizievoli derivate dall’evento (morte del padre), sicché non può disconoscersi il diritto al risarcimento della figlia. La relazione col proprio padre naturale integra, in-vero, un rapporto affettivo ed educativo che la legge pro-tegge perché è di norma fattore di più equilibrata forma-zione della personalità. Il figlio, cui sia impedito di svilup-parsi in questo rapporto ne può riportare un pregiudizio che costituisce un danno ingiusto indipendentemente dalla circostanza che egli fosse già nato al momento della morte del padre o che, essendo solo concepito, sia nato successi-vamente» (Cass. 3.5.2011 n. 9700). Si è a lungo discusso, inoltre, circa la configurabilità di un diritto di non nascere,

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

ossia del danno da procreazione, lamentato dal figlio verso i genitori che gli hanno trasmesso una malattia eredi-taria o dall’ammalato psichico verso l’ospedale psichiatri-co che, per negligenza del personale, non ha impedito il fatto della sua procreazione da parte dei genitori degenti (esplicita nel senso che «non è concepibile un diritto di non nascere del minore malformato» Cass. 26.7.2004 n. 14488, nonché Cass. S.U. 22.12.2015 n. 25767; cfr., in ar-gomento RESCIGNO P., II danno da procreazione, in Riv. dir. civ., 1956, I, p. 614). Analoghi problemi sono sorti nell’applicazione della l. n. 194/1978 sulla interruzione volontaria della gravidanza, che alla donna è consentita nei primi novanta giorni, oltre che nei casi in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, anche quando siano accertate anomalie o malformazioni del concepito. L’errore dei sanitari, che non accertino queste anomalie o malformazioni, impedendo alla donna di avvalersi della facoltà di abortire, cagionano sicuramente un danno risarcibile ai genitori del nato (Cass. 29.7.2004 n. 14488), nonché nell’ipotesi di erronea esecu-zione dell’intervento d’interruzione della gravidanza che abbia dato luogo ad una nascita indesiderata, in virtù del-l’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1 e 4 della l. n. 194/1978, deve essere riconosciuto non sol-tanto il danno alla salute psico-fisica della donna ma anche quello sofferto da entrambi i genitori per la lesione della loro libertà di autodeterminazione, da riconoscersi in rela-zione alle negative ricadute esistenziali derivanti dalla vio-lazione del diritto a non dar seguito alla gestazione nel-l’ambito dei tempi e delle modalità stabilite dalla legge e prescindendo totalmente dalle condizioni di salute del nato (Cass. 29.1.2018 n. 2070); ma (prima dell’intervento della sopra citata Cass. S.U. 22.12.2015 n. 25767) si è talvolta voluto considerare lesa anche «la legittima aspettativa del nascituro a nascere come individuo sano» (sia pure quale obiter dictum, Cass. 3.5.2011 n. 9700); contra, esplicita-mente, Cass. 29.7.2004 n. 14488; Cass. 14.7.2006 n. 16123). Come rilevato dalle Sezioni Unite nella pronuncia appena richiamata del 2015, qui non si esce da una palese petizione di principio: si assume leso, dal fatto stesso della procreazione, il diritto alla salute del procreato, inteso co-me diritto, antecedente alla procreazione, di essere pro-creato sano o di non essere procreato affatto; si muove, dunque, dalla premessa che il nato possa lamentare la le-sione del diritto di non nascere (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 153; FACCI, in La responsabi-lità sanitaria, opera diretta da Flavio Peccenini, Bologna, 2007, p. 234). Diverso dal danno da procreazione è il danno al feto, cagionato dai sanitari che hanno in cura la gestante e lesivo del diritto alla salute del futuro nato. Qui il diritto di nascere sano non si pone in alternativa con l’inconcepibile diritto di non nascere; viene leso il diritto del nato, quantunque l’azione lesiva sia stata posta in esse-re prima della sua nascita. Il danno risarcibile ben può es-sere danno futuro, che si manifesta in epoca successiva al-l’azione che lo ha provocato (Cass. 9.5.2000 n. 5881; Cass. 22.11.1993 n. 11503, per la quale «il soggetto, che con la nascita acquista la capacità giuridica, può agire per far va-lere la responsabilità dell’ente ospedaliero»; Cass. 22.4.2009 n. 10741, che riconosce espressamente l’esistenza della soggettività giuridica al nascituro, pur ribadendo che la capacità giuridica consegue alla nascita; GALGANO, Trat-tato di diritto civile, vol. III, cit., p. 153; si veda, per un

commento critico alla pronuncia da ultimo citata, GALGA-NO, Danno da procreazione e danno al feto, ovvero quan-do la montagna partorisce un topolino, cit., 2009, p. 537 ss., il quale ribadisce che bisogna distinguere fra l’azione lesiva, che è anteriore alla nascita, e l’evento di danno, che si manifesta al momento della nascita ed osserva che non occorre, per riconoscere il diritto al risarcimento del dan-no, mettere in discussione l’art. 1, co. 1, c.c.: il danno in-giusto, risarcibile a norma dell’art. 2043, è cagionato al nato, non al nascituro. Oggetto di dibattito, ancora, è la configu-rabilità di un danno ingiusto quale conseguenza alla viola-zione dei reciproci diritti fra coniugi (v. supra; a favore della risarcibilità, Cass. 10.5.2005 n. 9801, su cui vedi in-fra, per il caso in cui la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio venga posta in essere attraverso condotte che, per la loro intrinseca gravità, si pongano come fatti di ag-gressione ai diritti fondamentali della persona; cfr., in ar-gomento PATTI S., Famiglia e responsabilità civile, Mila-no, 1984; FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, Milano, 2004; ID., L’ingiustizia del danno nelle relazioni familiari, in Contratto e impresa, 2005, p. 1245 ss.; GAL-GANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 153). Per quanto riguarda, in particolare, il diritto alla fedeltà coniu-gale, si è anche negata la responsabilità, per concorso nell’adulterio, del terzo che ne era stato complice. La Cassa-zione, tuttavia, superando tanto l’argomento dell’esistenza di rimedi specifici quali la separazione ed il divorzio quan-to il carattere non patrimoiniale del danno, ha ritenuto danno ingiusto fonte di obbligo risarcitorio da parte del marito l’aver taciuto alla propria futura moglie la propria impotentia coeundi, tale da lederne il «diritto alla sessuali-tà, in sé e nella sua proiezione verso la procreazione» (Cass. 10.5.2005 n. 9801, ove si afferma che «il rispetto della di-gnità e della personalità, nella sua interezza, di ogni com-ponente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro compo-nente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare (e ciò considerato che la famiglia è luogo di in-contro e di vita comune nel quale la personalità di ogni individuo si esprime, si sviluppa e si realizza attraverso l’instaurazione di reciproche relazioni di affetto e di soli-darietà, non già sede di compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili); e dovendo dall’altro lato escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio – se ed in quanto posta in essere attraverso condotte che, per la loro intrinseca gravità, si pongano come fatti di aggressio-ne ai diritti fondamentali della persona – riceva la propria sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto (qua-li la separazione e il divorzio, l’addebito della separazione, la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla resi-denza familiare), dovendosi invece predicare una struttura-le compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un dato compor-tamento sia ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia (e sempre che ricorrano le sopra dette

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caratteristiche di gravità) quale fatto generatore di respon-sabilità aquiliana; e siccome l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibili-tà, non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro – pur in man-canza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospet-tiva di tale vincolo – un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà, sostanziantesi anche in un obbligo di informa-zione di ogni circostanza inerente alle proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimo-nio è rivolto, è configurabile un danno ingiusto risarcibile allorché l’omessa informazione, in violazione dell’obbligo di lealtà, da parte del marito, prima delle nozze, della pro-pria incapacità coeundi a causa di una malformazione, da lui pienamente conosciuta, induca la donna a contrarre un matrimonio che, ove informata, ella avrebbe rifiutato, così ledendo quest’ultima nel suo diritto alla sessualità, in sé e nella sua proiezione verso la procreazione, che costituisce una dimensione fondamentale della persona ed una delle finalità del matrimonio»). Altra fattispecie estrema è quel-la del fatto illecito del legislatore (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 154). Il tema del fatto illecito del legislatore quale fonte di responsabilità dello Stato per i danni che ne sono derivati ai cittadini è stato sollevato dalla fattispecie della omessa o inadeguata attuazione di direttive comunitarie da parte del legislatore nazionale. Di fronte all’interrogativo, se questa omessa o inadeguata attuazione integri gli estremi del fatto illecito, lesivo delle legittime aspettative dei cittadini che dall’attuazione della direttiva avrebbero acquistato diritti, c’era stata una rispo-sta negativa nella giurisprudenza che aveva escluso in ra-dice l’ammissibilità di un sindacato giudiziario su atti di natura politica del parlamento, quali gli adempimenti degli Stati membri ai doveri verso l’Unione europea (Cass. 1.4.2003 n. 4915; Cass. 11.10.1995 n. 10617) ma è preval-so l’indirizzo opposto: la piú recente giurisprudenza, sulla scorta di molteplici sentenze della Corte di giustizia, si è pronunciata nel senso che il giudice può sindacarel’omessa o inadeguata attuazione delle direttive comunitarie da par-te del legislatore nazionale, e condannare lo Stato a risar-cimento del danno subito dai suoi cittadini (in argomento LAZARI, La responsabilità dello Stato legislatore e i desti-ni dell’Europa, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 109). Come si è evidenziato sopra, al fine del riconoscimento occorre che a) la direttiva preveda l’attribuzione di diritti in capo ai singoli soggetti; b) che tali diritti possano essere individua-ti in base alle disposizioni della direttiva; c) che sussista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico delo Stato e il pregiudizio subito dal soggetto leso (GAL-GANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 141; ROP-PO, La responsabilità patrimoniale del debitore, cit., p. 101; ALPA, La responsabilità civile dello stato per viola-zioni di obblighi comunitari, in Rassegna di diritto civile, Napoli, 2000, p. 487; MONATERI, Le fonti delle obbliga-zioni, cit., p. 852; SALVI, La responsabilità civile, cit., p. 116; SCANNICCHIO, in Lipari N., Diritto privato europeo, cit., p. 76; CIATTI, Appunti sull’illecito del legislatore, in Contratto e impresa Europa, 2009, p. 553 ss.; LAZARI, La responsabilità del legislatore nazionale nel contesto co-munitario. L’Ulisse incatenato e la tela di Penelope, in Contratto e impresa Europa, 2009, p. 576 ss.). Qui è ma-nifestamente superato lo schema di ragionamento secondo

il quale l’attuazione, da parte del legislatore nazionale, delle direttive comunitarie è volto a proteggere l’interesse generale, mentre la posizione soggettiva dei singoli degrada a mero interesse legittimo (C. giust. Ce 5.3.1996 n. 46, 48/93; Cass. 16.5.2003 n. 7630; sul punto si è sono espres-se, anche Cass. S.U. 17.4.2009 n. 9147, escludendo la ri-condubilità all’art. 2043 c.c. della fattispecie in esame ed affermando che «nel caso di omessa o tardiva attuazione di direttive comunitarie, il diritto degli interessati al risarci-mento dei danni in ragione del ritardo non ha natura extra-contrattuale ma indennitaria per attività non antigiuridica dello Stato, derivando da una obbligazione ex lege dello Stato, e il relativo risarcimento prescinde dalla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato in modo da assicurare un’idonea compensazione della perdita subi-ta, restando soggetto all’ordinario termine decennale di prescrizione»; in questo senso già Cass. 5.10.1996 n. 8739; v. anche Cass. 17.5.2011 n. 10813 e 10814. La Corte di giustizia, peraltro, ha affermato la responsabilità dello Sta-to anche per il caso in cui la violazione del diritto comuni-tario derivi da una decisione giurisdizionale di ultimo gra-do, sempre che il giudice abbia violato in maniera manife-sta il diritto vigente, la norma di diritto comunitario violata fosse preordinata a conferire diritti ai singoli e sussista un nesso causale diretto tra la violazione e il danno (C. giust. Ce 30.9.2003 n. C-224/01) e, successivamente, ha afferma-to l’incompatibilità con la normativa comunitaria della legge italiana sulla responsabilità dei magistrati (l. 13.4.1988 n. 117), che esclude in maniera generale la re-sponsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai sin-goli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’inter-pretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. (Corte giust. Ce 13.6.2006 n. 173/03). La sovranità del legislatore è limitata anche in ambito nazionale: la limita, in questo ambito, la vigenza di una Costituzione rigida che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e che gli impo-ne, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, oltre che il rispetto delle singole disposizioni della Costi-tuzione, anche il generale vincolo della ragionevolezza, del rispetto cioè dei fondamentali valori di civiltà giuridi-ca. Onde è coerente ritenere, anche se mancano a tutt’oggi, in Italia almeno, pronunce giudiziarie in tal senso, che sia qualificabile come fatto illecito, produttivo di responsabili-tà dello Stato, anche l’« illecito costituzionale » (GALGA-NO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 157; ROPPO, La responsabilità civile dello stato per violazione del dirit-to comunitario (con una trasgressione nel campo dell’il-lecito “costituzionale” del legislatore), in Contratto e im-presa Europa, 1999, p. 101; LOCCISANO, Abuso di potere legislativo e responsabilità, in Resp. comunicazione, im-presa, 2001, p. 35; CIATTI, Appunti sull’illecito del legi-slatore, in Contratto e impresa Europa, 2009, p. 553 ss.).

4. Segue. Il rapporto di causalità tra il fatto e il danno – Tra il fatto e il danno deve esserci un rapporto di causa ad effetto, per cui possa dirsi che il primo ha cagionato il se-condo (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 170; CAPECCHI, Il nesso di causalità, Padova, 2002, pas-sim; ALPA, La responsabilità civile. Parte generale, Tori-no, 2010, passim, specie p. 315 ss.) ed incombe sul dan-

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neggiato l’onere di darne la prova (Cass. 18.4.2005 n. 7997), la quale, tuttavia, può essere data anche per presunzioni (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 174). La giurisprudenza, al fine di accertare la sussistenza del nesso di causalità, utilizza i criteri di cui agli artt. 40 e 41 c.p. sia per la responsabilità mediante azione sia per la re-sponsabilità mediante omissione (Cass. 2.2.2010 n. 2360; Cass. 28.7.2017 n. 18753). Anche Cass. S.U. 11.1.2008 nn. 581 e 582 si sono espresse in questo senso, precisando tuttavia che «in assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la par-ticolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valu-tato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere e il danno, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e l’evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sem-pre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’a-gente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può esse-re anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, con-corrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposi-zioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini del-l’allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgo-no a costruire autonomamente una teoria della causalità nell’illecito civile. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico – giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il pro-cesso penale e quello civile è la regola probatoria, in quan-to nel primo vige la regola della prova «oltre il ragionevole dubbio» (cfr. Cass. pen. S.U. 11.9.2002 n. 30328, Franze-se), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o «del più probabile che non» ( sull’uso di tale criterio in materia di perdita di chance v. Cass. 9.3.2018 n. 5641) , stante la diversità dei valori in gioco nel proces-so penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identità di tali standards delle prove in tutti gli ordinamenti occiden-tali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (Cass. 24.10.2017 n. 25112; Cass. 3.1.2017 n. 47; Cass. 13.1.2015 n. 278). Anche la Corte di Giustizia CE è indi-rizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiar-si su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13.7.2006 n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se «appaia suffi-cientemente probabile» che l’intesa tra compagnie assicu-rative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia Ce, 15.2.2005 n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che «occorre postulare le varie concatenazioni causa-ef-fetto, ad fine di accogliere quelle maggiormente probabi-li»). Detto standard di «certezza probabilistica» in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla deter-minazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va veri-

ficato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana). Nello sche-ma generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei siste-mi anglosassoni)»; nello stesso senso anche Cass. 3.1.2017 n. 47; il criterio del «più probabile che non» è richiamato anche da Cass. 10.11.2010 n. 22837; Cass. 16.10.2007 n. 21619, che considera errato far coincidere la causalità in sede penale e quella in sede civile e ritiene però che la va-lutazione del nesso di causa in quest’ultimo ambito si fon-di esclusivamente sul semplice accertamento di un aumen-to (o di una speculare, mancata diminuzione) del rischio in conseguenza della condotta omessa; Cass. 30.10.2009 n. 23059, invece, conformandosi maggiormente agli inse-gnamenti della Cassazione penale, in contrasto con l’orien-tamento maggioritario della Cassazione civile e con le so-pra richiamate S.U. nn. 581 e 582/2008, afferma che il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quan-do il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile, non già una mera possibilità astrat-ta). Questo rapporto non va inteso in senso naturalistico: ogni evento dipende, generalmente, dal concorso di molte-plici cause; e ciascuna di esse è, in senso naturalistico, in rapporto di causalità con l’evento. Per il diritto non basta che il fatto commesso sia stato una delle tante cause che sono concorse a determinare l’evento dannoso; occorre, perché ci sia rapporto di causalità in senso giuridico, che il fatto si presenti quale «causa efficiente» dell’evento. Tra le varie teorie proposte (su cui v. MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, cit., p. 144; ALPA, La responsabilità civile. Parte generale, cit., p. 315 ss.), sembrava prevalere in via esclusiva (e, in larga misura, come si vedrà, ancora oggi è destinato a trovare larga applicazione), per applicare que-sto principio, il criterio della cosiddetta regolarità stati-stica: un dato fatto è considerato, giuridicamente, come causa di un evento se questo, sulla base di un giudizio di probabilità ex ante, poteva apparire come la conseguenza prevedibile ed evitabile di quel fatto (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 170; Cass. 14.4.2010 n. 8885; Cass. 21.1.2000 n. 632). Non è sufficiente che tra l’antecedente ed il dato consequenziale sussista un rappor-to di sequenza, occorrendo invece che quel rapporto inte-gri gli estremi di una sequenza costante, secondo un calco-lo di regolarità statistica, per cui l’evento appaia come una conseguenza normale e non imprevedibile dell’antece-dente (Cass. 14.4.2010 n. 8885; Cass. 16.2.2001 n. 2335; CAPECCHI, Il nesso di causalità, cit., p. 29, p. 171 e p. 220). Si è proposto, per i casi incerti, di circoscrivere il ri-sarcimento ad una percentuale del danno proporzionale all’incidenza statistica della condotta del danneggiante nel-la produzione dello stesso (CAPECCHI, Il nesso di causali-tà, cit., p. 246) e, per l’ipotesi in cui non sia disponibile una casistica tale da poter dar luogo a una valutazione sta-tisticamente attendibile, di contrapporre alla probabilità statistica una probabilità logica o induttiva (CAPECCHI, Il nesso di causalità, cit., p. 239), in quanto in quei casi il convincimento del giudice non potrebbe essere completa-mente libero ma dovrebbe essere vincolato alle regole del-la logica, della scienza e dell’esperienza. In adesione a

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questa teoria la Cassazione ha cassato la decisione del giu-dice di appello che, basandosi sulla causalità statistica, ave-va ritenuto insussistente il nesso causale tra lo scoppio di un pneumatico, dovuto ad una difettosa riparazione, e la distorsione alla caviglia di una persona che, spaventata dallo scoppio, aveva avuto una reazione scomposta: secondo la Corte, infatti, per stabilire la sussistenza del nesso causale il giudice non può fare ricorso né alla causalità naturalisti-ca intesa in senso stretto né alla causalità statistica (impos-sibile da applicare per la mancanza di rivelazioni oggetti-ve) né alla propria intuizione, anche se fondata sulla logi-ca, dovendosi invece valutare tutti gli elementi della fatti-specie al fine di stabilire se il fatto era obiettivamente e concretamente (cioè con riferimento a quel singolo caso contingente) idoneo a produrre l’evento (Cass. 11.9.1998 n. 9037). Ancora a conferma di tale orientamento, la stessa Cassazione ha affermato che la valutazione dal nesso di causalità giuridica si compie secondo criteri: a) di proba-bilità scientifica, se esaustivi, b) di logica aristotelica, se appare non praticabile o insufficiente il ricorso a leggi scientifiche di copertura, con l’ulteriore precisazione che, nell’illecito omissivo, l’analisi morfologica della fattispe-cie segue un percorso «speculare», quanto al profilo pro-babilistico, rispetto a quello commissivo, dovendosi, in altri termini, accertare il collegamento evento-comporta-mento omissivo in termini di probabilità inversa, per infe-rire che l’incidenza del comportamento omesso è in rela-zione non probabilistica con l’evento stesso (che si sarebbe probabilmente avverato anche se il comportamento fosse stato attuato), a prescindere, ancora una volta, da ogni pro-filo di colpa intesa nel senso di mancata previsione dell’e-vento e di inosservanza di precauzioni doverose da parte dell’agente (Cass. 18.4.2005 n. 7997; nello stesso senso Cass. 13.7.2010 n. 16381, che ricorre al criterio della pro-babilità ragionevole nella valutazione della sussistenza del nesso causale tra condotta omissiva del medico ed evento morte, ove questo risulti esaustivo e, solo in difetto, ai cri-teri di logica; conf. Cass. 3.1.2017 n. 47). Si distingue fra vere e proprie cause e semplici occasioni di un evento, che non sono con l’evento in rapporto di regolarità statistica. Risponde del danno chi ne pone in essere una causa, non chi ne pone in essere una semplice occasione (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 170; Cass. 10.5.2000 n. 5962), come invece ritiene chi accoglie la tesi della conditio sine qua non, per cui di un evento sarebbe re-sponsabile chiunque abbia posto in essere qualunque ante-cedente in assenza del quale il fatto non si sarebbe verifi-cato. La distinzione fra causa e occasione non si basa sulla successione cronologica dei fatti: può essere chiama-to a rispondere chi pone in essere una causa antecedente o remota, se questa provoca un decorso causale che conduce, con regolarità statistica, alla causa prossima dell’evento dannoso. Si dice, in questo caso, che l’autore del fatto an-tecedente o remoto risponde dell’evento dannoso quantun-que questo sia conseguenza mediata o indiretta del fatto (Cass. 4.7.2006 n. 15274; Cass. 21.12.2001 n. 16163; ). La causa prossima esclude il rapporto di causalità fra la causa remota e l’evento solo se, essendo imprevedibile ed inevi-tabile da parte di chi ha posto in essere la causa remota, si riveli di per sé sola sufficiente a produrre l’evento (Cass. 10.10.2008 n. 25028; Cass. 19.12.2006 n. 27168): è l’ipotesi del caso fortuito (Cass. 7.10.1987 n. 7467; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 171). Qualora per-

tanto l’evento dannoso si ricolleghi a più azioni o omissio-ni, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell’art. 41 c.p. – norma di carattere generale, applicabile nei giudizi civili di responsabilità – in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest’ultimo riconducibile a tutte, tranne che si accerti l’effettiva efficienza causale di una di esse. In par-ticolare, in riferimento al caso in cui una delle cause consi-sta in una omissione, la positiva valutazione sull’esistenza del nesso causale tra omissione ed evento presuppone che si accerti che l’azione omessa, se fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea ad impedire l’evento dannoso ovvero a ridurne le conseguenze, non potendo esserne esclusa l’ef-ficienza soltanto perché sia incerto il suo grado di inciden-za causale (Cass. 2.2.2010 n. 2360). In materia di concorso del fatto colposo del creditore o del danneggiato Cass. 1.2.2018 n. 2483 ha statuito che quanto più le conseguenze della condotta altrui sono suscettibili di essere previste e superate attraverso l’adozione, da parte dello stesso dan-neggiato, delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze del caso concreto, tanto più inci-dente deve considerarsi l’efficienza causale del suo com-portamento imprudente nella produzione del danno, fino al punto di interrompere il nesso eziologico tra condotta e danno quando lo stesso comportamento sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un cri-terio probabilistico di regolarità causale. Inoltre, qualora – con valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità – un evento dannoso sia stato ritenuto causalmente ascri-vibile anche alla condotta colposa del danneggiato, non rileva, quale evenienza non impedita o al fine di una diver-sa quantificazione risarcitoria, la minore entità del danno che sarebbe dipesa da una serie causale alternativa a quella verificatasi in concreto, quale un minore o assente grado di colpa in capo al responsabile (Cass. 22.12.2017 n. 30921). Non è pertinente, in tema di causalità, quanto dispone l’art. 1223, relativo alla responsabilità contrattuale, ma richia-mato dall’art. 2056 in materia di responsabilità da fatto illecito quanto alla valutazione del danno, che risulta risar-cibile solo se «conseguenza diretta e immediata» del fatto illecito. La norma risultante dal combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 non attiene al rapporto di causalità fra il fatto illecito e l’evento produttivo di danno (fra l’azione di Tizio, che ha ferito Caio e le lesioni riportate da quest’ul-timo), bensí all’ulteriore rapporto fra l’evento cagionato dal danneggiante e il danno che ne è conseguito in capo al danneggiato (il danno subito da Caio a causa delle lesioni riportate, del quale egli pretende da Tizio il risarcimento) (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 171). Così il celebre artista che abbia certificato come proprio un quadro altrui risponde del danno subito dall’acquirente in quanto è assolutamente prevedibile che un quadro d’au-tore sia destinato alla circolazione e pertanto il danno in questione è conseguenza prevedibile della falsa attestazio-ne di autenticità (Cass. 4.5.1982 n. 2765). Se Tizio invece ferisce in un incidente stradale Caio e questi, mentre l’am-bulanza lo trasporta in ospedale, muore a causa di un nuo-vo incidente automobilistico nel quale resta coinvolta l’ambulanza, Tizio risponde solo del ferimento, e non della morte di Caio; e ciò quantunque sia evidente che Caio non sarebbe morto se Tizio non lo avesse investito e non si

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fosse trovato in quella ambulanza. Il punto è che il com-portamento di Tizio è stato causa del ferimento, ma solo occasione della morte di Caio. Se Caio, invece, raggiunge l’ospedale e ivi muore di malattia, bisognerà distinguere a seconda che la malattia sia una complicazione clinicamen-te accertata e statisticamente prevedibile delle lesioni subi-te nell’incidente (Tizio risponderà della sua morte) oppure no (Caio, ad es., muore a causa di una infezione contratta in ospedale, oppure era malato di cuore e, per lo spavento, muore di infarto: Tizio non risponderà della sua morte, anche se da un punto di vista puramente naturalistico l’ha cagionata) (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., pp. 171-172). Da qualche tempo, la tradizionale con-cezione della causalità giuridica come regolarità statistica del decorso causale tende ad essere superata (cfr., in ar-gomento, GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 172). Una nuova tendenza emerge dalla soluzione data ad alcuni casi limite. Secondo la Cassazione, infatti, l’au-tore di un incidente stradale risponde dell’epatite virale contratta dalla vittima a causa di una trasfusione di sangue somministratagli per esito alle lesioni riportate nell’inci-dente (Cass. 24.4.2001 n. 6023); il datore di lavoro rispon-de della morte per suicidio del lavoratore che sul posto di lavoro aveva subito una intossicazione da monossido di carbonio, a seguito della quale era insorta una psicosi de-pressiva (Cass. 23.2.2000 n. 2037); il responsabile dell’in-vestimento di un finanziere viene condannato a risarcire non solo il danno da lesioni per aver cagionato la perdita di una gamba alla vittima ma anche il danno derivante dal-la morte della vittima stessa che, nell’immediatezza del fatto, aveva estratto la pistola di ordinanza e si era suicida-to (Cass. 7.2.1996 n. 969); deve essere risarcito il danno per mancata promozione di un dipendente di banca a se-guito del lungo decorso di una malattia provocata da un incidente stradale (Cass. 11.5.2007 n. 10840). In tutti que-sti casi si è accolta, da parte della Cassazione, una diversa concezione della causalità: alla probabilità statistica si è sostituita la probabilità scientifica, che la giurisprudenza penale qualifica come «credibilità razionale» (cosí Cass. S.U. 11.9.2002 n. 30328); si è assunta come decisiva la circostanza che l’evento di danno è conseguenza necessita-ta del fatto lesivo, quantunque statisticamente anomala; ne è stato la condicio sine qua non, il fattore in difetto del quale l’evento di danno non si sarebbe verificato (svilup-pa, convincentemente, questo ordine di idee PUCELLA, La causalità «incerta», Torino, 2007, specie p. 262; critico verso questo nuovo indirizzo CAPECCHI, Il nesso di causa-lità, cit., p. 26, p. 114 e p. 245, secondo il quale detto o-rientamento non può essere condiviso per l’arbitrario fra-zionamento della sequenza causale che altera in maniera inaccettabile l’accertamento della causalità giuridica la quale costituisce un temperamento rispetto alla causalità materiale. Ne deriva l’irrilevanza, in capo al soggetto agente, della prevedibilità dell’evento, quale conseguenza della sua azione; ed il nesso causale si rivela, nel senso pieno dell’e-spressione, un elemento oggettivo del fatto illecito (, in tal senso, Cass. S.U. 11.1.2008 n. 582 come Cass. 18.4.2005 n. 7997). Questa diversa concezione della causalità si mani-festa anche in relazione all’illecito omissivo, ossia per l’ipotesi in cui l’evento di danno si sia verificato per non avere l’agente posto in essere il comportamento dovuto, idoneo ad evitarlo (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 173). Qui opera l’equivalenza, fissata dal-

l’art. 40 c.p., fra il non avere impedito l’evento e l’averlo cagionato. La giurisprudenza di ispirazione tradizionale ap-plica, a questo riguardo, il criterio della regolarità statisti-ca, il quale conduce, nel caso del fatto omissivo, a formulare il giudizio «se la condotta doverosa avrebbe assicurato ap-prezzabili probabilità di evitare (o, comunque, di ridurre si-gnificativamente), il danno lamentato» (Cass. 19.11.2004 n. 21894). Il nuovo indirizzo porta, invece, a sostituire al giu-dizio probabilistico, formato su base quantitativa e statistica, quello basato sulla «probabilità logica» (cosí Cass. 11.1.2008 nn. 581 e 582: il giudizio «non può essere ancorato esclusi-vamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pasca liana)» , ma «va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma dispo-nibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)». L’antitesi viene cosí riportata alle contrap-poste filosofie di Pascal e Bacone, sulla «credibilità razio-nale» (Cass. 16.10.2007 n. 21619), che attribuisce all’a-gente l’evento di danno per il solo fatto che la sua omissio-ne ne è stata necessaria premessa (cfr. anche Cass. 13.7.2010 n. 16381, che ricorre al criterio della probabilità ragionevole nella valutazione della sussistenza del nesso causale tra condottaomissiva del medico ed evento morte, ove questo risulti esaustivo e, solo in difetto, ai criteri di logica). Non per questo la teoria della regolarità statistica è ripudiata: essa vale ancora per affermare la sussistenza del rapporto di causalità; non vale però per escluderla (GALGANO, Trat-tato di diritto civile, vol. III, cit., p. 174; PUCELLA, La causalità «incerta», cit., p. 264). Basta un decorso causale statisticamente regolare per giudicare responsabile il sog-getto che, con la propria azione o, quando ammissibile, con la propria omissione, gli ha dato impulso; ma un basso tasso di regolarità statistica non lo esime da responsabilità in presenza di un alto grado di consequenzialità scientifi-camente determinabile. L’onere della prova circa il nesso causale incombe sul danneggiato (Cass. 18.4.2005 n. 7997; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 174); ma la prova può essere data per presunzioni. Si am-mette, anzi, una inversione dell’onere della prova quando si accoglie il criterio della «vicinanza alle fonti di prova», grazie al quale l’onere della prova viene ripartito tenuto conto della possibilità, per il danneggiante, di fornire piú agevolmente la prova di fatti rientranti nella propria sfera di azione (cosí, in materia di responsabilità sanitaria, Cass. 11.1.2008 n. 582). Lo si è applicato nel caso, ricorrente, dell’HIV o della epatite virale contratta a seguito di trasfu-sione di sangue infetto. Al danneggiato erano state pratica-te due successive trasfusioni da parte di due diverse strut-ture sanitarie. Era certo che, anteriormente alla prima tra-sfusione, egli era immune da epatite virale, ma non si sa-peva in quale delle due l’avesse contratta. Non per questo – ha statuito la Cassazione – l’azione di danni da lui pro-mossa nei confronti della seconda struttura doveva essere respinta per mancanza di prove, giacché la prova contraria poteva essere agevolmente assolta, ma nella specie non era stata assolta, dalla struttura sanitaria adita, tenuta per legge a conservare la documentazione relativa al sangue sommi-nistrato, dalla quale doveva risultare l’assenza di virus (Cass. 11.1.2008 n. 582; nello stesso senso, sulla medesi-ma fattispecie, Cass. S.U. 11.1.2008 n. 577). Più in gene-rale, a seguito della pronunce di Cass. S.U. 11.1.2008, nn. 576, 577, 578, 579, 580, 581, 582, 583, 584 e 585, si è

2043 Libro IV – Delle obbligazioni

stabilita che la responsabilità delle strutture sanitarie pub-bliche e private in caso di trasfusioni di sangue o prepa-razioni di emoderivati infetti deve essere ricondotta all’art. 2043 e non all’art. 2050 e che, «premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigi-lanza in materia di impiego di sangue umano per uso tera-peutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e co-ordinamento in materia sanitaria affinchè fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standards di esclusione di rischi, il Giudice, accertata l’omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimen-to all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veico-lazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata – infine – l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’e-vento». Le Sezioni Unite, infine, in relazione al criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministe-ro, ponendosi in dichiarato contrasto con Cass. 31.5.2005 n. 11609 (secondo la quale finchè non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perchè l’evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche a-strattamente sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l’evento lesivo, in quan-to all’interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l’omissione causante e non successivamente, non appariva-no del tutte inverosimili, tenuto conto della norma com-portamentale o giuridica, che imponeva l’attività omessa), hanno rilevato che «non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell’integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto – contagio infettivo – lesione dell’integrità. Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell’esclusiva competen-za del Giudice di merito) sussiste la responsabilità del Mi-nistero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’in-tegrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge» (cfr. Cass. S.U. 11.1.2008, nn. 576; da ultimo Cass. 10.5.2018 n. 11360). Le Sezioni Unite, infine, pur affermando la diversa natura giuridica dell’attribuzione indennitaria ex l. n. 210/1992 (indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e sommini-strazione di emoderivati) e delle somme liquidabili a titolo di risarcimento danni per il contagio da emotrasfusione infetta da Hiv ed Hcv, ha anche chiarito che detta diversa natura «non osta a che l’indennizzo corrisposto al danneg-giato sia integralmente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento posto che in caso contrario la vitti-ma si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interes-

se tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto (il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto (trasfusione di sangue o sommi-nistrazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la responsabilità del soggetto tenuto al pagamento» (Cass. SS.UU. 11.1.2008 n. 584). Sul tema la Cassazione più re-centemente ha anche stabilito che, in ordine alle patologie conseguenti ad infezioni con i virus HBV (epatite B), HIV (aids) e HCV (epatite C) contratti a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, per l’unicità dell’evento lesivo consistente nella lesione del-l’integrità fisica, sussiste la responsabilità del Ministero della salute per l’omissione dei controlli in materia di rac-colta e distribuzione del sangue per uso terapeutico e sul-l’idoneità dello stesso ad essere oggetto di trasfusione, sulla base di una presunzione di responsabilità per il contagio ve-rificatosi negli anni tra il 1979 ed il 1989 (stante l’av-venuta scoperta scientifica della prevedibilità delle relative infezioni, individuabile nel 1978) (Cass. 16.10.2015 n. 20934), di recente estesa anche al periodo antecedente (Cass. 4.2.2016 n. 2232). Siffatta presunzione può essere vinta solo se viene fornita dallo stesso Ministero la prova dell’adozione di condotte e misure necessarie per evitare la contagiosità, a prescindere dalla conoscenza di strumenti di prevenzione specifica (Cass. ord., 26.8.2014 n. 18217). Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto per contagio da emotrasfusioni una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre dal giorno in cui tale malattia venga percepita – o possa essere percepita usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscen-ze scientifiche – quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo. Incorre, pertanto, in un errore di sussunzione e, dunque, nella falsa applicazione dell’art. 2935 c.c., il giudice di merito che, ai fini della determina-zione della decorrenza del termine di prescrizione, ritenga tale conoscenza conseguita o, comunque, conseguibile, da parte del paziente, pur in difetto di informazioni idonee a consentirgli di collegare causalmente la propria patologia alla trasfusione (Cass. 31.5.2018 n. 13745). Per consolidato orientamento giurisprudenziale sviluppatosi a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, in caso di concorso tra una cau-sa imputabile ad un soggetto ed una concausa naturale la responsabilità civile del soggetto viene meno esclusiva-mente qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il compor-tamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determi-nare l’evento di danno indipendentemente dal comporta-mento medesimo non avendo posto in essere alcun antece-dente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del compor-tamento imputabile viene ritenuto responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normali-tà, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa natu-rale non imputabile (Cass. S.U. 21.11.2011 n. 24408, che ha però anche precisato che qualora invece un determinato evento dannoso sia riconducibile a volte alle cause naturali e a volte alle cause umane, non si versa in ipotesi di con-corso di cause finalizzate alla produzione di uno stesso

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

evento, bensì di eventi ulteriori e diversi, ciascuno con una propria causa; in tale eventualità, pertanto, non vige il principio per cui il fatto dannoso va addebitato per intero o alla causalità naturale o a quella umana, sicché il giudice può procedere all’attribuzione percentuale delle rispettive responsabilità, tenendone conto ai fini del conseguente obbligo di risarcimento del danno; Cass. 4.1.2010 n. 4; Cass. 28.3.2007 n. 7577). Si veda, tuttavia, in senso con-trario, Cass. 22.12.2017 n. 30922 per la quale in tema di responsabilità civile, la comparazione tra causa umana imputabile e causa naturale è esclusivamente funzionale a stabilire, in seno all’accertamento della causalità materiale, la valenza assorbente dell’una rispetto all’altra, sicché non può operarsi una riduzione proporzionale della responsabi-lità in ragione della minore gravità dell’apporto causale del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instau-rarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani col-pevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una con-causa naturale non imputabile; Cass. 16.1.2009 n. 975, che, sul solco della più risalente giurisprudenza (Cass. 13.3.1950 n. 657; Cass. 18.10.1955 n. 3256 e Cass. 25.10.1974 n. 3133), ha ritenuto che la misura del risarcimento deve corri-spondere all’entità del contributo causale dell’azione umana nella produzione del danno ed ha affermato, nel caso speci-fico, che «qualora la morte di un paziente sia riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla situa-zione patologica del soggetto deceduto (la quale non sia le-gata all’anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causa-le), il giudice deve procedere, eventualmente anche con cri-teri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause, onde attribuire all’autore della condotta dannosa la parte di responsabilità correlativa, così da lascia-re a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produ-zione ha concorso a determinare il suo stato personale».

5. Segue. Il dolo o la colpa – È dolo, ai sensi dell’art. 2043, l’intenzione di provocare l’evento dannoso: è perciò, «fatto doloso» il comportamento assunto con l’intenzione di provocare, come conseguenza, il danno (FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 161; GALGANO, Trattato di diritto civi-le, vol. III, cit., p. 177; SALVI, La responsabilità civile, cit., p. 158). Di dolo si parla qui in senso diverso che nei vizi del consenso, dove dolo equivale ad inganno; ma ci sono ipotesi nelle quali le due figure si sovrappongono: così nel caso di dolo incidente (art. 1440) consistente nei raggiri di un terzo (art. 1439, co. 2), dove la responsabilità del terzo per i danni cagionati al contraente è responsabili-tà extracontrattuale. Ancora diversa, inoltre, è la nozione di dolo che ricorre quando si parla di exceptio doli, dove dolo equivale ad abuso del diritto. È colpa la mancanza di diligenza, di prudenza, di perizia: l’evento dannoso non è voluto, ma è provocato per negligenza, imprudenza o im-perizia (colpa generica) o per inosservanza di norme di legge o di regolamento (colpa specifica) (FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 126; MONATERI, Le fonti delle obbliga-zioni, cit., p. 92; CRICENTI, Il problema della colpa omis-siva, cit., p. 15). Se vi è inosservanza di norme, peraltro, non occorre ulteriormente provare la negligenza o l’im-prudenza o la perizia, sempre che esista, naturalmente, rap-porto di causalità fra l’inosservanza della norma e l’evento di danno (Cass. 30.8.1995 n. 9157; GALGANO, Trattato di

diritto civile, vol. III, cit., p. 177; FRANZONI, Dei fatti ille-citi, cit., p. 127; MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, cit., p. 92). Il «fatto colposo» è, appunto, il comportamento negligente (il giornalista, ad es., diffonde una notizia che risulta diffamatoria senza preoccuparsi di controllarne la veridicità (Cass. 18.5.2018 n. 12370) o imprudente (si uc-cide involontariamente una persona mentre si maneggia per gioco una pistola) o imperito (l’ingegnere sbaglia, per impreparazione, il calcolo del cemento armato e il ponte da lui costruito crolla, provocando la morte dei passanti). La differenza fra dolo e colpa può apparire problematica quando il dolo assume il carattere del dolo eventuale o quando la colpa si configura come colpa cosciente. È dolo, sebbene dolo solo eventuale, l’atteggiamento psicologico di chi, pur non agendo per realizzare l’evento dannoso, si rappresenta il suo possibile verificarsi quale conseguenza della propria azione o omissione, come nel caso di chi, avendo sparato al solo scopo di intimidire, ugualmente fe-risce qualcuno: la sua azione mira ad un obiettivo diverso (l’intimidazione), ma egli lo persegue anche a costo di provocare l’evento dannoso, del quale è chiamato a rispon-dere (cfr., ad es., Cass. pen. 26.1.2006 n. 7208, la quale conferma la responsabilità per il reato di bancarotta frau-dolenta del soggetto che abbia accettato il ruolo di ammi-nistratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, essendo a tal fine sufficienti la consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possono scaturire gli eventi tipi-ci del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale). È colpa cosciente, ma pur sempre colpa, l’atteggiamento di chi si comporta imprudentemente o negligentemente con la previsione (non con la semplice prevedibilità) del possibile evento danno-so, che confida di potere evitare, come nel caso del poli-ziotto che, confidando nelle sue qualità di tiratore scelto, spara sul malvivente, ma colpisce l’ostaggio (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 178; Cass. 19.6.2001 n. 8328; cfr., in relazione alla colpa “con previsione” del vettore aereo, Cass. 8.5.2015 n. 9313 e Cass. 10.4.2014 n. 24612, in relazione al caso del guidatore che pone in esse-re una spericolata manovra di sorpasso in curva andando ad urtare contro un motoveicolo che sopraggiunge, sia pu-re escludendo che nel caso specifico nel giudizio di merito fossero emersi indizi dai quali desumere la previsione del-l’evento). Si tende, tradizionalmente, a sottovalutare la di-stinzione fra dolo e colpa, sul presupposto che, ai fini della responsabilità dell’agente, è comunque sufficiente la se-conda. La distinzione, tuttavia, è rilevante a diversi fini (CENDON, Il dolo nella responsabilità extracontrattuale, cit., p. 35; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 178; VISINTINI, I fatti illeciti, II. La colpa e gli altri criteri di imputazione della responsabilità civile, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commer-ciale, diretti da Galgano, Padova, 1990, p. 247; BUSSANI, La colpa soggettiva. Modelli di valutazione della condotta nella responsabilità extracontrattuale, Padova, 1992, p. 77; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 157). Nell’assicu-razione della responsabilità civile, ad es., sono esclusi dal-la copertura assicurativa i danni derivanti da fatti dolosi (art. 1917, co. 1); nelle assicurazioni in genere il contratto può ammettere l’obbligazione dell’assicuratore per i sini-stri cagionati dal contraente, dall’assicurato o dal benefi-ciario con colpa grave, ma non per quelli cagionati con dolo (art. 1900, co. 1). Sussistono inoltre ipotesi nelle qua-

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li il fatto illecito è configurabile solo come fatto doloso: così occorre che il terzo sia partecipe di un intento fraudo-lento perché venga chiamato a rispondere di concorso nel-l’altrui inadempimento ad un obbligo di non concorrenza. Anche l’induzione in inadempimento è un fatto doloso; ma il concorso del terzo nell’inadempimento altrui non richie-de necessariamente l’intenzione del terzo di danneggiare il creditore: l’atteggiamento psicologico del terzo può corri-spondere alla figura del dolo eventuale. Se A promette in vendita un bene a B, che lo promette in vendita a C, ed accade che A non adempia verso B mettendo questo in condizione di non poter adempiere nei confronti di C, ba-sta la consapevolezza di A della successiva promessa di vendita di B perché C possa agire, oltre che a titolo di re-sponsabilità contrattuale verso B, anche a titolo di respon-sabilità extracontrattuale verso A. Qui non c’è frode, ma c’è ancora dolo, anche se dolo solo eventuale: A non vuole danneggiare C, ma sa che al proprio inadempimento con-seguirà l’inadempimento di B e, dunque, il danno per C. In altre ipotesi basta però la colpa del terzo: così, nei casi di cosiddetta lesione della libertà contrattuale, basta la colpa della banca, che solo per negligenza abbia fornito al clien-te notizie non rispondenti al vero sulle condizioni di solvi-bilità di un terzo, perché la banca venga dal cliente chia-mata a rispondere del danno subito per avere contrattato con il terzo, poi rivelatosi insolvente; basta la colpa, anco-ra, perché la banca possa essere chiamata a rispondere per aver rilasciato a propri clienti una dichiarazione attestante la data dell’acquisto di azioni operato in borsa per conto loro, senza specificare che si era trattato di acquisto a ter-mine con scadenza in una data successiva: la banca, in par-ticolare, in questo caso, è stata ritenuta responsabile nei confronti di una società che, indotta in errore da tale certi-ficazione, aveva rimborsato le azioni ad alcuni azionisti che invece avevano esercitato il diritto di recesso sebbene la delibera di fusione che legittimava tale recesso fosse stata adottata dalla società in un momento anteriore all’ef-fettivo acquisto delle azioni da parte di tali azionisti (Cass. 8.11.2005 n. 21641); analogamente la responsabilità della società controllante verso i creditori e gli azionisti di mi-noranza della società controllata non richiede necessaria-mente che l’influenza pregiudizievole da essa esercitata sulla controllata integri gli estremi del comportamento doloso (anche solo eventuale), potendo anche consistere in una colposa mala gestio (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 179; cfr. anche Cass. 28.2.2012 n. 3003, in relazione alla responsabilità della contollante nei confronti dei terzi). Può accadere che un evento dannoso sia il risultato del concorso di un antecedente fatto illeci-to doloso di un soggetto e di un successivo fatto illecito colposo di un altro soggetto, e che i due fatti illeciti siano tra loro in rapporto tale per cui, senza il comportamento colposo del secondo soggetto, il fatto doloso del primo non avrebbe potuto produrre l’evento dannoso (e, reciproca-mente, senza il comportamento doloso del primo, il fatto colposo del secondo non avrebbe avuto modo di estrinse-carsi). Al riguardo è certo che il successivo fatto colposo non interrompe il nesso di causalità fra il fatto doloso e il danno (l’imperizia del chirurgo, sotto i cui ferri muore il ferito da arma da fuoco, non interrompe il rapporto di cau-salità fra l’azione del feritore e la morte del ferito, e ciò quantunque un intervento chirurgico eseguito con la dovu-ta perizia avrebbe potuto salvarlo dalla morte); ma sussiste

l’alternativa (CENDON, Il dolo nella responsabilità extra-contrattuale, cit., p. 57; GALGANO, Trattato di diritto civi-le, vol. III, cit., p. 180) fra «l’assorbimento» della colpa entro il dolo del coautore, con esonero da responsabilità del-l’autore del fatto colposo, e l’azione di regresso per l’intero del coautore in colpa, escusso dal terzo danneggiato, nei confronti del coautore in dolo. L’assorbimento opera sicu-ramente nell’ipotesi in cui il successivo comportamento colposo si riveli privo di efficienza causale rispetto all’e-vento, che risulta dovuto esclusivamente al fatto doloso antecedente. Così, se A manomette una fiala e, per uccide-re B, sostituisce al farmaco un veleno, la successiva negli-genza del medico, che inietta il veleno a B senza controlla-re il contenuto della fiala, non può dirsi in rapporto di cau-salità con l’evento, non essendo l’evento prevedibile da parte del medico come conseguenza della propria colpa. L’assorbimento non ha luogo, invece, quando il soggetto in colpa è in grado di prevedere l’evento dannoso (come il chirurgo che opera maldestramente il ferito); né ha luogo quando la colpa del secondo coautore consista nella viola-zione di regole di condotta dirette a proteggere contro il pericolo di danno proveniente da terzi (GALGANO, Tratta-to di diritto civile, vol. III, cit., p. 180). Così risponde ver-so lo Stato la banca che, con il proprio negligente controllo di operazioni valutarie, ha consentito a residenti di trafuga-re capitali all’estero (Cass. 21.10.1983 n. 6177; 0) o, come si è già detto, risponde per colpa verso la società la banca che abbia rilasciato a propri clienti una dichiarazione atte-stante la data dell’acquisto di azioni operato in borsa per conto loro, senza specificare che si era trattato di acquisto a termine con scadenza in una data successiva, inducendo così in errore la società, che aveva rimborsato le azioni ad alcuni azionisti che invece avevano esercitato il diritto di recesso sebbene la delibera di fusione che legittimava tale recesso fosse stata adottata dalla società in un momento anteriore all’effettivo acquisto delle azioni da parte di tali azionisti (Cass. 8.11.2005 n. 21641). Per questo ordine di casi appare unanime il riconoscimento della responsabilità anche del coautore in colpa; ma questa specifica colpa non è tale da escludere la responsabilità del coautore in dolo, nell’una o nell’altra delle direzioni sopra indicate (verso il danneggiato o verso il coautore in colpa che agisce in re-gresso per l’intero) (CENDON, Il dolo nella responsabilità extracontrattuale, cit., p. 57; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 180). Il grado della colpa, se grave o lieve, è in linea di principio irrilevante (Cass. 12.3.2002 n. 3573). Acquista rilievo nei rapporti interni fra i coautori dell’illecito, in sede di azione di regresso (art. 2055, co. 2), oltre che nelle fattispecie in cui il legislatore richiede la colpa grave (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 181; FRANZONI, Dei fatti illeciti, cit., p. 136). L’o-nere della prova del dolo o della colpa del danneggiante incombe sul danneggiato; e questa costituisce una rilevan-te differenza tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale: per quella è il debitore che deve provare che la prestazione è diventata impossibile per causa a lui non imputabile; per questa, invece, è il creditore che deve provare la colpa del debitore (GALGANO, Trattato di dirit-to civile, vol. III, cit., p. 181). La giurisprudenza estende alla responsabilità extracontrattuale del professionista (ad es. il medico) la norma (v. sub art. 2236) che limita la re-sponsabilità contrattuale al caso di colpa grave, quando l’esecuzione della prestazione implichi la soluzione di

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problemi tecnici di particolare difficoltà, ossia non si tratti di prestazioni di routine (Cass. 20.11.1998 n. 11743): si ritiene, comunque, che la limitazione della responsabilità attenga esclusivamente all’imperizia, non all’imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell’esecuzione di un intervento o di una terapia medica provochi un danno per omissione di diligenza ed inadeguata preparazione (Cass. 10.5.2000 n. 5945). In relazione alle operazioni di routine, invece, il prodursi di eventi dannosi fa presumere la colpa del professionista (la sua negligenza o imprudenza o impe-rizia), il quale deve, per liberarsi da responsabilità, dare la prova della presenza di fattori, imprevedibili e inevitabili, che abbiano interrotto il rapporto di causalità fra la sua prestazione e l’evento dannoso: il paziente, ad esempio, è morto per pregresse patologie non riscontrabili in sede di analisi preoperatorie (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 182; FRANCAVILLA, La responsabilità sa-nitaria, opera diretta da Flavio Peccenini, Bologna, 2007, p. 136; Cass. 13.4.2007 n. 8826; Ampiamente in argomen-to cfr. DE MATTEIS R., Responsabilità e servizi sanitari, in Trattato di diritto commerciale e dir. pubbl. dell’econ., Padova, 2007, p. 355 ss.). Come si è già detto sopra, degno di nota è l’art. 6 della l. 24/2017 (cd. Legge Gelli-Bianco), con cui si introduce nel codice penale l’art. 590-sexies, che disciplina la responsabilità colposa per morte o per lesioni personali in ambito sanitario. Rispetto alla disciplina di cui alla Legge Balduzzi (in forza della quale il sanitario ri-spondeva penalmente solo per colpa grave), la Legge Gel-li-Bianco non distingue più i gradi della colpa, ma «qualo-ra l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibi-lità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previ-ste dalle predette linee guida risultino adeguate alle speci-ficità del caso concreto». Il grado della colpa rileva invece ai sensi dell’art. 9 della stessa legge, che prevede che l’a-zione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave. Con riguardo al danno causato dalla pubblica am-ministrazione per fatto illecito bisogna, fondamentalmen-te, distinguere fra danni cagionati nell’esercizio di attività materiali dei funzionari o dipendenti dello Stato o di altri enti pubblici, per i quali la pubblica amministrazione ri-sponde a norma dell’art. 28 Cost., e danni cagionati nell’e-sercizio della stessa funzione pubblica, e derivanti dall’a-dozione di un illegittimo provvedimento, in relazione ai quali si fa capo all’art. 97 Cost. (GALGANO, Trattato di di-ritto civile, vol. III, cit., p. 185; Cass. 24.5.1991 n. 5883). Il primo è un caso di responsabilità indiretta della pubblica amministrazione: risponde direttamente, secondo il dispo-sto dell’art. 28 Cost., il funzionario o l’impiegato che ha posto in essere il fatto materiale lesivo del diritto o del-l’interesse legittimo del privato; ne risponde indirettamente lo Stato o l’ente pubblico del quale esso dipende, in quanto sussista, e nei limiti in cui sussiste, la responsabilità del funzionario o dell’impiegato. Nel secondo caso si tratta di responsabilità diretta della pubblica amministrazione per fatto illecito proprio, lesivo del diritto o dell’interesse le-gittimo altrui (v. sub. 3.); ed essa ne risponde anche se nessun funzionario può essere chiamato a rispondere, ad esempio perché ha agito per errore scusabile, ed anche

qualora un funzionario personalmente responsabile non sia neppure identificabile. La norma di riferimento è, in que-sto secondo caso, l’art. 97, co. 1, Cost.: si assume violato il precetto secondo il quale «i pubblici uffici sono organizza-ti secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicu-rati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazio-ne». Per questo secondo caso, mentre anteriormente a Cass. 22.7.1999 n. 500 si riteneva che, per l’attività prov-vedimentale illegittima, la colpa della p.a. fosse da consi-derarsi in re ipsa quale conseguenza della violazione di una norma (Cass. 9.6.1995 n. 6542), in detta sentenza, proprio quale conseguenza della nuova interpretazione del-l’art. 2043, svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo, si è affermato che «l’imputazione non potrà (...) avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’a-zione amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svol-gere una più penetrante indagine, non limitata al solo ac-certamento dell’illegittimità del provvedimento in relazio-ne alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della p.a. intesa come apparato (...) che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in vio-lazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla di-screzionalità» (conf. Cass. 21.10.2005 n. 20358; Cass. 21.10.2005 n. 20454; v. anche, nel senso che l’illegittimità del provvedimento amministrativo non è in sé, elemento suf-ficiente a far desumere la sussistenza della colpa in capo alla p.a., Cons. Stato 2.1.2018 n. 12; Cons. Stato 6.9.2017 n. 4226; contra, ancora nel senso che non è precluso al giu-dice, investito della domanda di risarcimento del danno, trarre elementi, comprovanti o al contrario escludenti la colpa dell’amministrazione, proprio dal giudicato esterno di annullamento dell’atto amministrativo, Cass. 27.7.2005 n. 15686). Successivamente alla pronuncia delle S.U. del 1999, in ogni caso, un nutrito orientamento giurispruden-ziale, pur confermando l’impostazione che esclude che la colpa della struttura pubblica possa considerarsi in re ipsa in caso di esecuzione volontaria di un atto amministrativo illegittimo (Cass. 29.3.2004 n. 6199), ha altresì affermato che quando l’illegittimità del provvedimento deriva dal vizio di violazione di legge per mancata osservanza di pre-scrizioni dettate da norme giuridiche, e non risultino fatti positivi escludenti la colpa nel caso concreto, l’elemento psichico della condotta possa dirsi provato (Cass. 23.4.2004 n. 7733; v. anche; Cons. Stato 2.2.2017 n. 442, che affer-ma che per i danni causati da illegittimo esercizio dell’at-tività amministrativa, il privato danneggiato può invocare l’illegittimità del provvedimento, che pure non si identifica nella colpa, quale indice presuntivo della colpa idoneo a fondare una presunzione (semplice) di colpa che l’ammi-nistrazione può vincere dimostrando elementi concreti da cui possa evincersi la scusabilità dell’errore compiuto; così anche Cons. Stato 13.9.2016 n. 3858). È chiaro, inoltre, che, aderendo alla tesi che inquadra nell’ambito contrat-tuale la responsabilità (da «contatto sociale») della pubbli-ca amministrazione (su cui v. sub par. 3), i profili probato-ri dovrebbero essere ricondotti nel più agevole (per il dan-neggiato) alveo di cui all’art. 1218. È unanimemente am-

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messo il concorso o cumulo delle due azioni contrattua-le ed extracontrattuale (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 181; Cass. 25.7.2006 n. 16937; Cass. 25.9.2002 n. 13942; cfr. in argomento anche, GIARDINA, La distinzione tra responsabilità contrattuale e responsa-bilità extracontrattuale, in VISINTINI, Trattato della re-sponsabilità contrattuale, I, Padova, 2009, p. 73 ss., spe-cialmente p. 76, che ritiene tuttavia che l’ammissibilità del concorso avrebbe un fondamento dogmatico e concettuale del tutto inconsistente). Il fatto produttivo di danno può, infatti, venire in considerazione sia come inadempimento di una obbligazione contrattuale, sia come illecito aquilia-no. «La distinzione è ben rilevante per la diversa disciplina della responsabilità contrattuale e di quella extracontrat-tuale in tema, ad es., di elemento soggettivo, di onere pro-batorio, di capacità di agire, di prescrizione e così via» e, poiché non sempre è chiaro quale delle due azioni l’attore abbia inteso esperire, essendosi limitato a proporre una generica azione di risarcimento dei danni subiti, «deve ri-tenersi proposta l’azione di responsabilità extracontrattuale tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneg-giato in favore di quella contrattuale» (Cass. S.U. 12.3.2001 n. 99). Si segnala, a questo riguardo, anche Cass. 11.5.2007 n. 10830, secondo la quale «se la parte che agisce in via ri-sarcitoria deduce a sostegno della propria domanda fatti che possono indifferentemente comportare responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, il suo esclusivo riferi-mento alle norme sulla responsabilità extracontrattuale non impedisce al giudice di qualificare diversamente la do-manda a condizione che i fatti coincidano con quelli de-dotti dalla parte e non vengano in rilievo elementi di diffe-renziazione della disciplina delle due forme di responsabi-lità sui quali non si sia formato il contraddittorio»; nello stesso senso anche Cass. 13.10.2009 n. 21680, secondo la quale la domanda di risarcimento di tutti i danni, materiali e morali, proposta dal danneggiato nei confronti del sog-getto responsabile, comprende necessariamente la richiesta volta al risarcimento del danno biologico, anche quando non contenga alcuna precisazione in tal senso, in quanto tale danno non richiede una specifica e autonoma richiesta. Si segnala, tuttavia, che in tema di compravendita, la Cas-sazione ha ritenuto che, in caso di inadempimento o inesat-to adempimento del venditore, oltre alla corrispondente re-sponsabilità contrattuale, è configurabile anche la respon-sabilità extracontrattuale del venditore stesso, ma solo quando il pregiudizio arrecato al compratore abbia leso interessi di quest’ultimo che siano sorti al di fuori del con-tratto ed abbiano la consistenza di diritti assoluti, negando a carico del venditore, il doppio titolo di responsabilità, ove il compratore lamenti il danno derivante dal fatto che un fondo compravenduto sia risultato inquinato ed abbia avuto bisogno di opere di bonifica, atteso che tale danno è conseguenza diretta del minor valore della cosa venduta o della sua distruzione o di un suo intrinseco difetto di quali-tà, che resta nell’ambito della responsabilità contrattuale, con azione soggetta a prescrizione annuale (Cass. 6.7.2017 n. 16654).

6. Il risarcimento del danno – Il danno da risarcire conse-guente ad un fatto illecito, in generale, è sia il danno pa-trimoniale sia, sulla base dell’art. 2059, il danno non pa-trimoniale. La natura del danno, se patrimoniale o non pa-trimoniale, dipende dalla natura del valore leso: è patrimo-

niale il danno lesivo di valori suscettibili di valutazione economica di mercato; è danno non patrimoniale, secondo la interpretazione evolutiva (e adeguatrice) dell’art. 2059 ac-colta dalla più recente giurisprudenza, quello lesivo di valori inerenti alla persona protetti dalla Costituzione, ma non su-scettibili di valutazione economica (Cass. S.U. 11.11.2008 n. 26972; Cass. 12.6.2006 n. 13546; Cass. 19.10.2005 n. 20205; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 241). Nell’assicurazione contro i danni, il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità che il dan-neggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto, in quanto detta indennità è erogata in funzione di ri-sarcimento del pregiudizio subito dall’assicurato in conse-guenza del verificarsi dell’evento dannoso ed essa soddi-sfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdi-ta al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsa-bilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito (Cass. S.U. 22.5.2018 n. 12565). Sulla somma riconosciuta al danneggiato a titolo di risarcimento occorre che si conside-ri, oltre alla svalutazione monetaria (che costituisce un danno emergente), anche il nocumento finanziario subito a causa della mancata tempestiva disponibilità della somma di de-naro dovuta a titolo di risarcimento (quale lucro cessante). Qualora tale danno sia liquidato con la tecnica degli inte-ressi, questi non vanno calcolati nè sulla somma originaria, nè sulla rivalutazione al momento della liquidazione, ma debbono computarsi o sulla somma originaria via via riva-lutata anno per anno ovvero sulla somma originaria rivalu-tata in base ad un indice medio, con decorrenza sempre dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso (Cass. 10.4.2018 n. 8766). In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, nel caso di illecito istantaneo, caratterizzato da un’azione che si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti, la pre-scrizione incomincia a decorrere con la prima manifesta-zione del danno, mentre, nel caso di illecito permanente, protraendosi la verificazione dell’evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa (Cass. 16.4.2018 n. 9318). Per il risarcimento del danno patrimo-niale e per il danno biologico, v. sub art. 2056; per il dan-no non patrimoniale v. sub art. 2059.

7. La responsabilità del produttore – Ogni prodotto indu-striale deve poter essere usato in condizioni di sicurezza, senza pregiudizio cioè per l’integrità fisica e per i beni dell’utente. Il Codice del Consumo (d.lgs. 6.9.2005 n. 206; cfr. GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 225), agli artt. 114-127, relativi alla «responsabilità per danno da prodotti difettosi», che recepiscono il d.P.R. n. 224 del 1988, attuativo della dir. Ce 25.7.1985 n. 374, pre-vede che «il produttore è responsabile del danno causato da difetti del suo prodotto» (art. 114 c. cons.) laddove «un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze (...)» (art. 117, co. 1, c. cons.). Si noti, peraltro, che, già anteriormente all’introduzione del Codice del Con-sumo, si è affermato che la normativa dettata dal d.P.R. n. 224 del 1988 avrebbe introdotto una forma di tutela resi-duale a favore del danneggiato da intendersi in senso am-

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

pio, e comunque non certo come categoria ristretta all’uti-lizzatore o consumatore «non professionale» (ALPA, La responsabilità oggettiva, in Contratto e impresa, 2005, p. 979). La responsabilità imposta al produttore in attuazione della direttiva prescinde dalla prova della sua colpa: se-condo un autorevole orientamento, non seguito tuttavia dalla giurispruidenza, è, dunque, una responsabilità oggettiva basata sul solo rapporto di causalità (v. sub art. 2050) fra il fatto proprio e l’altrui evento dannoso; ma non è una re-sponsabilità per «rischio di impresa», bensì una responsa-bilità collegata al fatto d’avere il produttore messo in cir-colazione un prodotto non sicuro; e spetta al danneggiato l’onere di «provare il danno, il difetto e la connessione causale fra difetto e danno» (art. 120 c. cons.) (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 226; MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, cit., p. 706; ALPA-BESSONE-ZENO ZENCOVICH, I fatti illeciti, cit., p. 391; contra BIAN-CA, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, p. 744, secondo cui la responsabilità del produttore è oggetti-va solo per ciò che concerne i difetti di fabbricazione). Secondo l’orientamento maggioritario in giurisprudenza, invece, si tratterebbe di un’ipotesi di responsabilità pre-sunta (e non oggettiva) poiché essa «prescinde dall’ac-certamento della colpevolezza del produttore, ma non an-che dalla dimostrazione dell’esistenza di un difetto del prodotto; incombe, pertanto, al soggetto danneggiato – ai sensi del d.P.R. 24.5.1988 n. 224, art. 8 applicabile ratione temporis – la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno (Cass. ord., 23.5.2013 n. 12665 e Cass. 29.5.2013 n. 13458) mentre il produttore deve provare i fatti che possono escludere la responsabilità secondo le disposizioni di cui all’art. 6 del richiamato D.P.R.» (Cass. 13.3.2015 n. 15851. Particolar-mente rigorosa, in tema di onere della prova, è apparsa Cass. 15.3.2007 n. 6007, che ha affermato che «chi, aven-do riportato lesioni a seguito di reazione allergica alla tin-tura per capelli applicatagli, invochi il regime di responsa-bilità per danni da prodotto difettoso, è tenuto a provare il difetto del cosmetico, la cui sussistenza, per un verso, non può desumersi dalla semplice attitudine del medesimo a pro-vocare il danno, in quanto postula l’accertamento di condi-zioni di insicurezza al di sotto degli standard esigibili, e, per altro verso, va comunque esclusa al cospetto di condi-zioni anormali di impiego, le quali possono dipendere anche da circostanze anomale che, pur non imputabili al consuma-tore, rendano lesivo il prodotto, altrimenti innocuo (nella specie, si sono annoverate tra le circostanze anomale le proibitive condizioni di salute in cui versi, anche solo tem-poraneamente, il consumatore)». Cass. 8.10.2007 n. 20985, invece, ha escluso che sia onere del consumatore provare che il difetto (nella fattispecie di una protesi mammaria) sussistesse fin dalla messa in circolazione del prodotto e pertanto, pur ribadendo che «spetta al danneggiato, che invochi il regime di responsabilità per danno da prodotto difettoso, provare che l’uso del prodotto ha comportato risultati anomali rispetto alle normali aspettative e tali da evidenziare la sussistenza di un difetto, nonché il danno subìto e la connessione causale tra questo e il difetto ri-scontrato», ha anche affermato che «il produttore, per an-dare esente da responsabilità, deve dimostrare che il difet-to probabilmente non esisteva ancora nel momento in cui il prodotto era stato messo in circolazione». Nella giuri-sprudenza comunitaria, si è stabilito che l’accertamento di

un potenziale difetto dei prodotti appartenenti al medesimo gruppo o alla medesima serie di produzione (nella specie pacemaker e defibrillatori automatici impiantabili), con-sente di qualificare come difettoso un siffatto prodotto sen-za che occorra riscontrare il suddetto difetto in tale prodot-to in quanto l’accertamento di un potenziale difetto di tali prodotti appartenenti al medesimo gruppo o alla medesima serie di produzione consente di qualificare come difettosi tutti i prodotti di tale gruppo o di tale serie, senza che oc-corra dimostrare il difetto del prodotto interessato (Corte Giust. Ce, 5.3.2015 n. C-503/13 e C-504/13). L’ambito di applicazione degli artt. 114-127 c. cons. (e già del d.P.R. n. 224/1988) è delimitato dai concetti di «prodotto» e di «produttore». Per prodotto si intende ogni bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile (art. 115, co. 1), e dunque anche se ha cessato, per effetto del-l’incorporazione, di essere bene mobile; vi è compresa l’e-lettricità (art. 115, co. 2) e, per effetto della dir. Ce n. 34/1999 (attuata in Italia con d.lgs. 2.2.2001 n. 25), anche i prodotti agricoli del suolo, dell’allevamento, della pesca e della caccia (PONZANELLI, Estensione della responsabilità oggettiva anche all’agricoltore, al pescatore e al cacciato-re, in Danno e responsabilità, 2001, p. 792). Si è ritenuto che rientrassero nella nozione di prodotto ai fini della norma appena richiamata il sangue utilizzato per fini tra-sfusionali (MONATERI P.G., La responsabilità da prodotti, in Tratt. Bessone, X, II, Torino, 2002, p. 235); una solu-zione fabbricata dai laboratori di un ospedale per essere utilizzata per preparare un organo umano per un trapianto (Corte giust. Ce 10.5.2001 n. 203/99,) nonché un vaccino antiemolitico (Corte giust. Ce 9.2.2006 n. 127). Produtto-re, sulla base del d.P.R. n. 224 del 1988, era non solo il fabbricante del prodotto finito o di una sua componente o della materia prima (art. 3, co. 1), ma anche il soggetto, diverso dal fabbricante, che si presenti come produttore apponendo il proprio nome o marchio o altro segno distin-tivo sul prodotto o sulla sua confezione (art. 3, co. 3): in una parola chi «firmi» il prodotto. In questi casi, poiché il prodotto è stato fabbricato o ubbidendo alle istruzioni del titolare del marchio o sotto il suo controllo di qualità (si-stema produttivo integrato), oppure secondo il suo know-how o sotto i suoi controlli di qualità (licenza, merchandi-sing), si resta entro i confini della responsabilità diretta, anche se ci si approssima di molto all’area della responsa-bilità indiretta, per il fatto dannoso altrui (GALGANO, Trat-tato di diritto civile, vol. III, cit., p. 229). Al produttore erano poi equiparati, agli effetti della responsabilità, l’im-portatore dei prodotti nella Comunità europea (art. 3, co. 4) e, quando il produttore non era individuato, il fornitore dei prodotti, che avesse omesso di comunicare al danneg-giato, entro tre mesi dalla richiesta, l’identità del produtto-re o di chi gli ha fornito il prodotto (art. 4): già nel vigore di tale normativa, pertanto, era stato chiarito che in que-st’ultimo caso, si trattava di responsabilità indiretta (GAL-GANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 229). Se sul prodotto figurano sia il marchio del produttore, sia quello del distributore (marchio di commercio), – si affermava – si dovrà escludere la responsabilità del secondo, mentre ove sul prodotto manchi il marchio di fabbricazione, il distributore risponderà come fornitore, a norma dell’art. 4 (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 230). L’attuale art. 3, co. 1, lett. d) del c. cons., conferma l’im-postazione appena individuata e tuttavia prevede che, fatto

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salvo quanto stabilito nell’art. 103, co. 1, lett. d), e nell’art. 115, co. 1 del medesimo c. cons., deve essere qualificato come produttore il fabbricante del bene o il fornitore del servizio, o un suo intermediario, nonché l’importatore del bene o del servizio nel territorio dell’Unione europea o qualsiasi altra persona fisica o giuridica che si presenta come produttore identificando il bene o il servizio con il proprio nome, marchio o altro segno distintivo. La nuova definizione di produttore è sensibilmente diversa (e più ampia) di quella economica: essa ha infatti carattere gene-rale ed è tendenzialmente omnicomprensiva, con la chiara finalità di offrire al consumatore una tutela sempre mag-giore, aumentando il numero dei soggetti legittimati passi-vi di un’eventuale azione risarcitoria ed aspirando, in tal modo, a responsabilizzare questi ultimi, accrescendone l’impegno e gli investimenti nel settore della sicurezza dei prodotti (BELLISARIO, in Codice del consumo, in Comm. Alpa-Rossi Carleo, Napoli, 2005, p. 77; CHINÉ, Codice del consumo a cura di Cuffaro, Milano, 2006, p. 24); la nozio-ne, inoltre, è volutamente «aperta» all’evoluzione del dirit-to comunitario in atto. Ben cinque soggetti vengono infatti ricondotti alla nozione generale di produttore: 1) il fabbri-cante del bene; 2) il fornitore del servizio; 3) l’interme-diario del fabbricante del bene o del fornitore del servizio; 4) l’importatore del bene o del servizio nel territorio dell’Unione europea; 5) qualsiasi altra persona fisica o giuridica che si presenta come produttore identificando il bene o il servizio con il proprio nome, marchio o altro segno distintivo. Le novità contenute in tale nozione sono due, ossia l’inserimento del fornitore del servizio e dell’in-termediario del fabbricante del bene o del fornitore del servizio. È degno di menzione il fatto che il d.P.R. n. 224 del 1988, attuativo della direttiva comunitaria 25.7.1985 n. 374, non prevedeva l’applicabilità della normativa in ma-teria di responsabilità per danno da prodotti difettosi per i prestatori di servizi, ciò che aveva suscitato le reazioni negative della dottrina unanime (v. CAFAGGI, La respon-sabilità dell’impresa per i prodotti difettosi, in Tratt. Lipa-ri, IV, Padova, 2003, p. 516); anche la giurisprudenza del-la Corte di Giustizia, sia pure in un caso affatto peculiare (relativo alla difettosità di un liquido che aveva reso inuti-lizzabile un rene già espiantato da donatore vivente a fini di trapianto), aveva preso posizione estendendo la respon-sabilità anche al prestatore di servizi che, nell’ambito della propria attività, aveva utilizzato il prodotto difettoso ed ammettendo contro lo stesso (nella fattispecie un ospedale pubblico) l’azione diretta del danneggiato (C. giust. Ce 10.5.2001 n. 203/99, cit.). L’importanza – apparentemente dirompente – dell’inserimento del prestatore di servizi nel-la nozione di produttore è stata ridimensionata alla luce delle definizioni di produttore rilevanti ai fini della speci-fica applicazione della parte IV del Codice, nella quale in relazione alla responsabilità per danno da prodotti difettosi l’art. 115, co. 1, chiarisce che il prodotto dei cui difetti il produttore può essere chiamato a rispondere deve necessa-riamente essere un «bene mobile»; (CHINÉ, Codice del consumo, cit., p. 25; BELLISARIO, in Codice del consumo, cit., p. 75). Non si deve trascurare, tuttavia, che tale inse-rimento appare idoneo, de iure condendo, ad assumere crescente importanza alla luce dell’evoluzione in atto del sistema giuridico comunitario e, più nell’immediato, per effetto dell’obbligo di recepire all’interno del nostro ordi-namento la dir. Ce 2005/29 sulle pratiche commerciali

sleali tra imprese e consumatori, nella quale viene attuata una completa equiparazione tra prodotto e servizio ed il prodotto viene definito come «qualsiasi bene o servizio, compresi i beni immobili, i diritti e le obbligazioni» (CHI-NÉ, Codice del consumo, cit., p. 25; LUCCHESI, in Codice del consumo, a cura di Vettori, Padova, 2007, p. 56; BEL-LISARIO, in Codice del consumo, cit., p. 81; BARGELLI, in AA.VV., Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori. La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di De Cristofaro, Torino, 2007, passim, specie p. 99 e p. 100). La seconda rilevante novità, come si è già detto, consiste nell’ampliamento della nozione di produttore an-che all’intermediario del fabbricante del bene o del forni-tore del servizio, intendendosi per tale «il soggetto profes-sionale che, in posizione autonoma rispetto al produttore, interviene nella catena produttiva-distributiva» (BELLISA-RIO, in Codice del consumo, cit., p. 80; LUCCHESI, in Co-dice del consumo, cit., p. 56). Sembra peraltro ragionevole che, in armonia con quanto previsto dallo stesso art. 2, lett. d) della direttiva testé citata nonché con l’art. 103, co. 1, lett. d) dello stesso Codice del Consumo, la norma in esa-me debba essere interpretata nel senso che gli intermediari possano essere chiamati a rispondere solo «nella misura in cui la loro attività possa incidere sulle caratteristiche di sicurezza dei prodotti commercializzati» (BELLISARIO, in Codice del consumo, cit., p. 83). Deve ritenersi che, pur nel silenzio della norma, il legislatore comunitario abbia considerato scontato che, in coerenza con quanto disposto dall’art. 3 del d.P.R. 24.5.1988 n. 224 e dalla successiva legislazione comunitaria, nella definizione di produttore in esame siano compresi anche l’agricoltore, l’allevatore, il pescatore e il cacciatore (cfr. il d.lgs. n. 25/2001), tutti gli operatori del settore alimentare nonché il fabbricante di una componente o della materia prima utilizzati per realiz-zare il prodotto finito (BELLISARIO, in Codice del consu-mo, cit., p. 77; CHINÉ, Codice del consumo, cit., p. 24). L’art. 118 c. cons. (già art. 6 del d.P.R. n. 224/1988) pre-vede sei casi di esonero di responsabilita per il produt-tore: a) se il produttore non ha messo il prodotto in circo-lazione; b) se il difetto che ha cagionato il danno non esi-steva quando il produttore ha messo il prodotto in circola-zione (ma, a norma dell’attuale art. 120, co. 2 del c. cons., è sufficiente che il produttore provi che, «tenuto conto del-le circostanze», è probabile che il difetto non esistesse al momento della messa in circolazione del prodotto, sicché i fatti da provare sono queste «circostanze», provate le quali si argomenta per presunzione che il difetto all’origine non esistesse); c) se il produttore non ha fabbricato il prodotto per la vendita o per qualsiasi altra forma di distribuzione a titolo oneroso, né lo ha fabbricato o distribuito nell’eser-cizio della sua attività professionale; d) se il difetto è do-vuto alla conformità del prodotto a una norma giuridica imperativa o a un provvedimento vincolante; e) se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche (da intendersi co-me lo stato delle stesse nel loro livello più avanzato: Corte giust. Ce 29.5.1997 n. 300/95), al momento in cui il pro-duttore ha messo in circolazione il prodotto, non permette-va ancora di considerare il prodotto come difettoso, ma al riguardo già l’art. 15 della direttiva dir. Ce 25.7.1985 n. 374 ammetteva che ciascuno Stato membro possa «preve-dere nella propria legislazione che il produttore è respon-sabile anche se prova che lo stato delle conoscenze scienti-fiche e tecniche al momento in cui ha messo in circolazio-

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ne il prodotto non permetteva di scoprire l’esistenza del difetto; f) nel caso del produttore o fornitore di una parte componente o di una materia prima, se il difetto è intera-mente dovuto alla concezione del prodotto in cui è stata incorporata la parte o materia prima o alla conformità di questa alle istruzioni date dal produttore che l’ha utilizza-ta. Con riguardo al caso di cui all’attuale art. 118, lett. c) del c. cons. (già art. 6 del d.P.R. n. 224/1988), la Corte di Giustizia, nell’ipotesi di un intervento di trapianto di rene non riuscito a causa della difettosità di uno strumento me-dico utilizzato in una struttura pubblica, ha stabilito che «un prodotto difettoso si considera messo in circolazione quando è utilizzato in occasione della prestazione concreta di un servizio medico» e «l’esenzione dalla responsabilità per mancanza di attività a scopo economico o di attività professionale non si applica al caso di un prodotto difetto-so fabbricato ed usato nell’ambito di una prestazione me-dica concreta interamente finanziata con fondi pubblici e per la quale il paziente non deve versare alcun corrispetti-vo» (Corte giust. Ce 10.5.2001 n. 203/1999). Gli altri casi di esonero da responsabilità sono, propriamente, prove miranti ad escludere il rapporto di causalità. Il danno ri-sarcibile è o il danno alla persona, cagionato dalla morte o dalle lesioni personali (art. 123, lett. a), c. cons.), o il dan-no alle cose, derivante dalla distruzione o dal deteriora-mento di cosa diversa dal prodotto difettoso (art. 123, lett. b), c. cons.). La Corte di Giudtizia ha stabilito che il danno causato da un’operazione chirurgica di sostituzione di un prodotto difettoso (pacemaker), costituisce un «danno cau-sato dalla morte o da lesioni personali», di cui è responsa-bile il produttore, qualora tale operazione sia necessaria per eliminare il difetto del prodotto interessato (Corte giu-stizia Ce 5.3.2015 n. C-503/13 e C-504/13). In considera-zione del mutamento della giurisprudenza della Cassazio-ne che giudica oggi possibile la liquidazione del danno non patrimoniale nei casi di responsabilità oggettiva, in cui si prescinde dall’accertamento della colpa, anche nel caso dei danni da prodotto dovrà essere risarcito il danno non patrimoniale subito dal danneggiato (CABELLA PISU, Om-bre e luci nella responsabilità del produttore, in Contratto e impresa, 2008, p. 642). Il danneggiato è, nel caso di dan-no alle cose, solo il consumatore finale del prodotto. Per-ciò la responsabilità in parola non può essere invocata dall’imprenditore che abbia subito un danno per la propria azienda o per i propri prodotti a causa dei prodotti difettosi fornitigli da altro imprenditore (questi potrà però invocare l’art. 1494, co. 2), anche se il correttivo della presunzione di colpa finisce con il sottoporre casi del genere a principi corrispondenti a quelli introdotti in attuazione della diret-tiva comunitaria (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 230). È, inoltre, prevista una franchigia: è ri-sarcibile solo il danno alle cose che ecceda la somma di euro 387. Per i danni alla persona, invece, la responsabilità per danni da prodotti difettosi può essere invocata da chiun-que, anche da chi non sia utilizzatore finale del prodotto. L’ipotesi della pluralità di responsabili e quella del con-corso di colpa del danneggiato sono regolate dagli artt. 121 e 122 in conformità dei principi di diritto comune (artt. 2055 e 1227). I diritti del danneggiato si estinguono in dieci an-ni dalla messa in circolazione del prodotto o dalla sua im-portazione nella Comunità europea (art. 126 c. cons.): pri-ma di questa scadenza, tuttavia, il produttore può formula-re eccezioni basate sull’art. 117, lett. c), che mette in rela-

zione la sicurezza del prodotto con il «tempo in cui il pro-dotto è stato messo in circolazione», e dà rilievo alla sicu-rezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto, fra l’altro, di questa circostanza. Sicché bisognerà distin-guere fra prodotto e prodotto, e stabilire se è «legittimo» o no attendersi da esso una sicurezza decennale (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 230). Il prodotto si considera «messo in circolazione», a norma dell’art. 119, quando sia consegnato all’acquirente o all’utilizzatore o ad un ausiliario di questo, anche in visione o in prova, o quan-do sia consegnato al vettore o allo spedizioniere per l’invio all’acquirente o all’utilizzatore. Il diritto al risarcimento si prescrive in tre anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe potuto avere conoscenza del danno, del difetto del prodotto e dell’identità del responsabile (art. 125). L’azione è, perciò, esperibile entro un duplice limite temporale: entro il termine triennale di prescrizione ora menzionato, purché non sia scaduto il termine decennale ex art. 126 (o il minor termine desumibile dall’art. 117, lett. c). Mentre il termine triennale è soggetto alle norme sui termini di prescrizione (ed ammette interruzione e so-spensione), non altrettanto può dirsi per il termine decen-nale (FRANZONI, Colpa presunta e responsabilità del debi-tore, Padova, 1988, p. 325). Per quanto attiene alla tipolo-gia del danno da prodotti, la dannosità di un prodotto indu-striale può essere fatta rientrare in quattro ordini di casi (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 233). Primo tra essi l’insicurezza implicita nella ideazione o concezione del prodotto ossia nella sua composizione chimica o nella sua progettazione, Nella nostra pregressa esperienza giurisprudenziale un «vizio di progettazione», implicante pericolosità del prodotto, era stato ravvisato dalla Cassazione in un tagliacarte caratterizzato dal fatto che «la lama tagliente possa muoversi (sempre in salita, ed accidentalmente, pure in discesa)» (Cass. 1.11.1970 n. 2337); analogamente era stato ritenuto responsabile il produttore di viti metalliche (oltre che la fonderia che aveva fornito il materiale ma non, invece, il costruttore del prodotto finale) che, per la scadente qualità del metallo con cui erano state fabbricate, aveva provocato la rottura di una gru alla quale erano state applicate e, per il crollo della gru, la morte di alcuni operai (Cass. 13.3.1980 n. 1686). Un secondo ordi-ne di casi è quella dell’insicurezza manifestatasi nel pro-cesso di fabbricazione del prodotto, ipotesi in cui il dan-no può essere cagionato da alcuni esemplari soltanto del prodotto, come negli esempi emblematici, nella nostra pregressa esperienza giurisprudenziale, dei biscotti Saiwa avariati che cagionarono l’intossicazione del consumatore (Cass. 25.5.1964 n. 1270); della bottiglia di Coca Cola esplosa sul banco di mescita, con ferimento del consuma-tore. Una terza serie di ipotesi è quello dell’insicurezza manifestatasi nell’uso del prodotto da parte dell’utente. È il caso più problematico: la mancanza di doverose caute-le da parte dell’utente può escludere la responsabilità del produttore; ma il confine che divide l’area dei necessari accorgimenti del produttore da quella delle doverose cau-tele dell’utente è di difficile demarcazione. Certamente l’uso improprio o anomalo o maldestro o smodato del prodotto da parte dell’utente esclude la responsabilità del produttore in quanto interrompe il rapporto di causalità fra il fatto del produttore e l’evento dannoso (GALGANO, Trattato di di-ritto civile, vol. III, cit., p. 234; MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, cit., p. 734): in questo caso vale il principio

2043 Libro IV – Delle obbligazioni

dell’imputet sibi: fra le «circostanze» alla stregua delle quali valutare la sicurezza del prodotto vi è infatti «l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato» (art. 5, lett. b), dir. cit.). Le anormali condizioni di impie-go, possono dipendere sia da un abuso nell’utilizzazione (o anche solo da un uso non consentito) sia da circostanze del tutto anomale che, ancorchè non imputabili al consumato-re, rendano il prodotto, altrimenti innocuo, veicolo di dan-no (Cass. 13.12.2010 n. 25116). Nella nostra giurispruden-za, in tema di pistole-giocattolo si registrano due contra-stanti pronunce: la Cassazione ha ritenuto il produttore re-sponsabile per avere posto in commercio una pistola-giocattolo con copritamburo asportabile in quanto, sebbe-ne il danno sia derivato da un uso anomalo del prodotto, si imponeva l’impiego da parte del produttore di un accorgi-mento idoneo ad evitarlo, essendo dato di esperienza (e, comunque, fatto prevedibile) che i bambini amano smonta-re i propri giocattoli (Cass. 21.10.1957 n. 4004; nello stes-so senso MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, cit., p. 736). Ancora, con riguardo all’ipotesi in cui un ragazzo di dodici anni era montato in piedi sul bracciolo del seggioli-no di un’altalena e, perso l’equilibrio, aveva tentato di ag-grapparsi allo snodo della stessa, così procurandosi l’am-putazione del pollice della mano sinistra, la Cassazione ha escluso la ragionevole prevedibilità, da parte del produtto-re dell’altalena, di un simile utilizzo (Cass. 29.9.1995 n. 10274). L’informazione del produttore agli utenti sulle modalità d’uso del prodotto è certamente nel novero dei mezzi mediante i quali rendere sicuro l’uso del prodotto (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 235; MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, cit., p. 717). Se questa presentazione è esauriente, anche sotto l’aspetto delle avvertenze sulle modalità d’uso del prodotto, atte ad evitare danni a persone o a cose, il produttore non risponde dei danni derivati dall’uso del prodotto non conforme alle avvertenze. Ma si deve in ogni caso «tenere conto di tutte le circostanze» (art. 117 c. cons.): perciò le avvertenze possono non bastare, come nel caso di prodotti destinati ad utenti-bambini o in altri casi ancora, come nel caso delle avvertenze formulate con linguaggio scientifico per pro-dotti di largo consumo o ad avvertenze redatte nella lingua del produttore e destinate a utenti di altri paesi (nel qual caso può venire in considerazione anche la responsabilità dell’importatore). Così si è ritenuta la responsabilità di un produttore di fitofarmaci, il cui impiego da parte di un agricoltore, non sufficientemente colto per comprendere il linguaggio scientifico delle avvertenze per l’uso, aveva provocato la distruzione del raccolto (Cass. 29.6.1981 n. 7336). Le avvertenze pertanto debbono essere intelligibili in rapporto alla condizione sociale e professionale del-l’utente e questa intelligibilità dell’informazione fornita dal produttore circa le modalità d’uso è, nell’ordine di casi in esame, il criterio in base al quale accertare la sua sicu-rezza e fondare la responsabilità o la non responsabilità del produttore (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 236; MONATERI, Le fonti delle obbligazioni, cit., p. 719). In continuità con il decreto di attuazione della diret-tiva comunitaria la l. 10.4.1991 n. 126, vieta il commercio in Italia di qualsiasi prodotto o confezione di prodotti che non riporti in lingua italiana indicazioni chiaramente visi-bili e leggibili relative alla denominazione legale o mer-ceologica del prodotto, al nome o al marchio e alla sede del produttore o di un importatore stabilito entro la Comu-

nità, all’eventuale presenza di sostanze nocive, alla desti-nazione del prodotto, alle istruzioni per l’uso e alle even-tuali precauzioni ai fini di una sua fruizione sicura. Il quar-to ordine di casi è quello della dannosità del prodotto in sé, indipendentemente da ogni vizio di progettazione o di produzione e indipendentemente dalle sue modalità d’uso, come nei casi ormai storici degli insetticidi a base di ddt o del tranquillante che andava sotto il nome di tali-domide. Poiché, come già il d.P.R. n. 224/1988, anche il c. cons. prevede che le relative disposizioni «non escludono né limitano i diritti che siano attribuiti al danneggiato da altre leggi» (art. 127), secondo alcuni la disciplina specifi-ca fisserebbe solo il plafond minimo e ineludibile della responsabilità del produttore (in definitiva esonerando il danneggiato dall’onere, che nessun giudice nazionale per la verità gli addossava, di provare la colpa del produttore) e che lascerebbe sopravvivere i diritti nazionali preesisten-ti, se più favorevoli al consumatore: la responsabilità del produttore regolata dal decreto attuativo della direttiva non si sostituirebbe quindi a quella in precedenza ricavata dall’art. 2043, ma si cumulerebbe con essa; sicché il dan-neggiato potrebbe, a sua scelta, agire nei confronti del produttore o sulla base del decreto in questione oppure in forza del diritto comune e segnatamente gli artt. 2043 ss., 2049-2051 e 185 c.p. (FUSARO, in AA.VV., La responsabili-tà del produttore, in Tratt. Galgano, Padova, 1989, p. 270; RUFFOLO, in AA.VV., La responsabilità per danno da prodotti difettosi, a cura di Alpa, Milano, 1990, p. 33; BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, p. 743; PARDOLESI R., in PARDOLESI R.-PONZA-NELLI G., La responsabilità per danno da prodotti difetto-si, in Nuove leggi civili commentate, Padova, 1989, p. 498). Se l’utente sceglie di agire sulla base del c. cons., il produttore dovrebbe difendersi invocando le norme dello stesso decreto, come ad es. le cause di esonero da respon-sabilità di cui all’art. 118. Ma se l’utente preferisce agire ex art. 2043, il produttore dovrebbe difendersi con la stessa arma, e gli sarebbe interdetto invocare l’art. 118 c. cons. Secondo altra opinione, invece, nelle fattispecie regolate dal c. cons. (come già dal d.P.R. attuativo della direttiva) il diritto comune è inapplicabile (Corte giust. Ce 25.4.2002 n. C-52/00; GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 239; CABELLA PISU, Ombre e luci nella responsa-bilità del produttore, cit., p. 622, che illustra anche una nutrita casistica parallela in cui i danneggiati hanno prefe-rito invocare l’art. 2050 in relazione a fattispecie astratta-mente riconducibili alla responsabilità del produttore og-getto di esame). Anzitutto il c. cons. in questione non co-pre tutte le possibili fattispecie di danno da prodotti: non copre il danno al patrimonio aziendale dell’utente (art. 123), e in questo caso l’imprenditore danneggiato dovrà pur sempre agire verso il produttore a norma dell’art. 2043. Non copre, inoltre, la fattispecie del danno cagiona-to dal rivenditore (Cass. 30.8.1991 n. 9277), salvo che esso possa essere qualificato come intermediario e possa inci-dere sulle caratteristiche di sicurezza dei prodotti commer-cializzati. Al che si può aggiungere anche un’altra serie di ipotesi: le ipotesi in cui si sia in presenza di speciali norme di legge, che dai decreti attuativi delle direttive europee si discostino in relazione a particolari categorie di produttori, o di prodotti o di consumatori, come nel caso dei farmaci, dei giocattoli, etc. (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 239). Si segnalano, infine, le azioni collet-

Titolo IX – Dei fatti illeciti 2043

tive delle associazioni rappresentative dei consumatori (cfr., in argomento, anche con toni fortemente critici ri-spetto al testo approvato, RIZZO, Azione collettiva risarci-toria e interessi tutelati, Napoli, 2008, passim; GIUGGIOLI, Class actions e azione di gruppo, Padova, 2006, passim; GIUSSANI, Azioni collettive risarcitorie nel processo civi-le, Bologna, 2008, passim; MINERVINI E., Azione colletti-va risarcitoria e conciliazione, in Contratto e impresa, 2008, p. 917; BARRA CARACCIOLO, L’azione collettiva. La fase conciliativa. Qualificazione e quantificazione del dan-no, in Contratto e impresa, 2008, p. 1044; VIGORITI, Class action e azione collettiva risarcitoria. La legittimazione ad agire ed altro, in Contratto e impresa, 2008, p. 729; RIC-CIO, L’azione collettiva non è, dunque, una class action; in Contratto e impresa, 2008, p. 500): ad esse, infatti, è attri-buita legittimazione processuale dal codice del consumo e, in particolare, dagli artt. 139 e 140-bis dello stesso, il se-condo dei quali è stato introdotto dalla legge finanziaria 2008 (l. 24.12.2007 n. 246). Queste associazioni sono abi-litate ad agire in giudizio «a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti» (art. 139 c. cons.), ed agi-scono per ottenere l’inibitoria degli atti e dei comporta-menti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti (art. 140 c. cons.). Ne risultano indirettamente avvantag-giati i singoli appartenenti alla categoria, anche se non iscritti all’associazione, che beneficiano della cessazione dei fatti lesivi dei loro diritti. Qui, ad agire per la tutela dell’interesse diffuso, sono pur sempre le associazioni consumeristiche oppure è un comitato di consumatori, non il singolo portatore dell’interesse di serie; sicché siamo lontani dal modello americano della class action. Al singo-lo è, tuttavia, concesso di aderire all’azione collettiva o di intervenire nel giudizio; e la sentenza ottenuta dall’asso-ciazione fa stato anche nei confronti dei consumatori o utenti che abbiano aderito al giudizio o vi siano intervenu-ti. Il principio in virtù del quale lo scarso valore economi-

co della pretesa esclude la sussistenza del diritto di azione, non trova applicazione nell’ipotesi in cui l’oggetto della controversia è riconducibile a quello per cui il legislatore ha previsto la cosiddetta azione di classe con la disposizio-ne dell’art. 140 bis del codice del consumo. L’azionabilità della pretesa di classe, invero, è stata prevista senza alcuna limitazione per il valore del singolo consumatore o utente che vi partecipi, di talché ben può accadere che singolar-mente il valore economico degli identici diritti tutelati sia infimo. Poiché l’azione di classe non è obbligatoria ed il consumatore o utente può agire singolarmente, ne consegue che l’assenza di limitazioni di valore economico della prete-sa opera anche in sede di esercizio di azione individuale (Cass. 20.1.2017 n. 1565; conf. Cass. 25.1.2017 n. 1925). La norma di diritto comune con la quale ci si è dovuti misurare è quella che, all’art. 2909, segna i limiti soggettivi del giudi-cato, che produce effetti solo fra le parti, oltre che sui loro eredi ed aventi causa. Perciò la sentenza ottenuta dall’asso-ciazione, o dal comitato, giova ai consumatori e agli utenti solo se costoro abbiano aderito al giudizio o vi siano inter-venuti. Si è anche dato rilievo al fatto, espressamente men-zionato nel co. 1, che il giudizio promosso dall’associazione consumeristica o dal comitato di consumatori ha avuto per oggetto un contratto per adesione, dal contenuto uniforme in tutti i contratti che il professionista convenuto in giudizio dall’associazione ha concluso con i consumatori, oppure è un illecito extracontrattuale dell’impresa fornitrice di beni o di servizi, suscettibile di ledere una pluralità di consumatori o utenti, come una pratica commerciale illecita o un compor-tamento anticoncorrenziale. Questa è la ratio della norma, ma ne è, al tempo stesso, il limite di applicazione: il predetto effetto vincolante non si produce se manca il presupposto di un medesimo contratto per adesione, sul quale il giudice si è pronunciato, o un medesimo illecito extracontrattuale a ca-rattere plurioffensivo (GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. III, cit., p. 292).

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