Premio Alois Braga 2009

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PROPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA RISERVATA Copyright © 2009 Ciascun autore per il contenuto delle proprie opere www.isogninelcassetto.it per l’editing online no profit info: [email protected] I edizione in e-book ISNC-004PAB: dicembre 2009 Questo e-book (autorizzato dagli autori) è gratuito e si scarica dal sito. Questo non significa però che è del tutto libero: il download è consentito tramite una licenza CREATIVE COMMONS che completa il diritto d’autore, permettendo ai lettori di copiare, distribuire e riutilizzare l’opera (totalmente o in parte) a patto di citare sempre e comunque il nome dell’autore originario, l’indirizzo del sito originario e di non utilizzarla per scopi commerciali.

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Racconti finalisti

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info: [email protected] edizione in e-book ISNC-004PAB: dicembre 2009

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Gli autori finalisti

Racconto 1° classificatoFEDERICA MACCIONI

Racconto 2° classificatoPAOLA CARROZZO

Racconto 3° classificatoANTONIO GRANCI

Racconti selezionatiPaolo BrandiDomenico De FerraroDonatella FranceschiAntonio Scarpone

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

Copyright © 2009 Ciascun autore per il contenuto delle proprie opereCopyright © 2009 www.isogninelcassetto.itEditing on line no profitinfo: [email protected] edizione in e-book, ISNC-004PAB, Dicembre 2009

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[IV EDIZIONE – SETTEMBRE 2009]

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RACCONTO I CLASSIFICATO

L’ultimo re di Atene[Federica Maccioni]

onno! Nonno!” Leocrito lo tirava per l'orlo del chitone.“Nonno! Ti sei addormentato!”

Alcibiade si stiracchiò sullo scranno, sedette più comodo escompigliò i lunghi capelli neri del nipotino. “È colpa di questo belcamino”, sbadigliò. Tese le mani verso la fiamma.

“Piove”, annuì il piccolo. Lo guardò sporgendo le labbra. “Non sipuò giocare, là fuori. Posso stare un po' qui con te?”

“Certo! Non devi mica chiedermelo”.“È che...”“Che...?”“Bé, vedi, volevano venire anche Tessalo e Pandaro”.“Va bene, che vengano!”“Ecco, vedi...”“Che cosa?”“Era per sentire la storia di Codro”.“Ancora? Me l'avrete fatta raccontare almeno duemila volte!”

rise Alcibiade, e tutte le rughe del suo vecchio volto risero con lui.“Nonno! Ti prego! La racconti così bene...”Il vecchio sospirò, fingendo esasperazione. A quanto pareva, non

si stancavano proprio mai di quella storia. “Va bene, vai a chiamare ituoi amici”.

“N

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Leocrito batté le manine, felice, e si tese a baciarlo sulla guancia.“Grazie, nonnino!”

Poco dopo i tre bambini erano seduti a terra e guardavano in visoil vecchio, con occhi pieni d'attesa.

“Non è che vorreste sentirne un'altra?” chiese lui.“No. Codro!” esclamò il più piccolo dei tre, Tessalo.“Codro! Codro!”“Sì, sì. Codro, va bene, va bene”. Il nonno si sporse per attizzare

la fiamma, aggiunse un piccolo ceppo, si mise comodo e cominciò anarrare. “Dovete sapere che molto tempo fa scoppiò una guerra fra lanostra città e la città di Sparta”.

I bambini lo guardavano fisso.“Ero molto giovane, allora. Partii per la guerra con molti ragazzi

della mia età. Marciammo per diversi giorni, attraverso le pianure e lemontagne, incontro ai temibili guerrieri spartani. Si diceva di loro chenon chiedessero mai quanti fossero i nemici, ma solo dove sitrovassero...”

L'uomo si era presentato molto presto alla scalinata del tempio,prima che sorgesse il sole.

Trascinava una capra legata con una cordicella.L'omphalos, il tempio di Apollo. L'ombelico del mondo.Era la prima volta che veniva a Delfi, e aveva il cuore oppresso.Era la guerra; veniva per questo.Le trattative non erano servite, e nemmeno i tentativi per trovare

accordi. Atene e Sparta erano in guerra.I generali andavano radunando le truppe. Soldati marciavano

per tutta l'Attica e il Peloponneso, diretti ad Atene o a Sparta: lealleanze erano ormai definite.

I pensieri del giovane erano cupi.

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Conosceva le forze a disposizione della propria città, econosceva la determinazione e la fama del nemico. Guerrieriimbattibili, nutriti del culto di Ares da prima di vedere la luce, ma chesi decidevano alla battaglia solo dopo lunga ponderazione. Questo lirendeva ancor più decisi.

Atene non avrebbe resistito.Atene.Filosofi e mercanti, sole e voci nei mercati all'alba. Atene,

respiro sospeso. Una gemma d'ambra l'Acropoli nel cielo dei tramontiestivi, un silenzioso incantesimo di colori rosati.

Gabbiani dalle ali distese e rondini in picchiata. Strade, piazzeecheggianti di corse e risate di bambini. Finestre aperte quando l'ariarovente del giorno cede nel crepuscolo alla brezza del mare.

Atene; candido lampo sul blu dell'Egeo.Atene, bella come una sposa. Atene, vibrante come un volo di

aironi.Ne avrebbero fatto macerie.Avrebbero deportato le donne, ucciso i bambini, massacrato i

vecchi. Sapeva cos'era il sacco di una città. Non poteva permettereche accadesse.

E cosa ne avrebbero fatto di lei?Non poteva pensare a lei schiava. Non tollerava il pensiero del

suo terrore, del suo dolore, del suo smarrimento. Avrebbe volutocircondarla di tenerezza, non vedere mai lacrime sulle sue guance.

Il sole sorse in un cielo di nuvole dorate, ed egli fece la suapreghiera di saluto al dio come ogni giorno.

I sacerdoti lo invitarono a entrare, una volta officiati i riti delmattino. Il più giovane trasse a sé la capra recalcitrante, la portòsull'altare, la consegnò al più vecchio e la lama si prese la sua vitabelante.

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Il sangue schizzò fin sul volto dell'uomo. Gli aruspici aprirono ilventre dell'animale, ne tolsero il fegato e lo consultarono. L'uomoguardava senza quasi respirare. Andava per le lunghe, ma ciò che eravenuto a chiedere meritava bene un poco di attesa.

Infine l'anziano sacerdote si avvicinò e chinò il capo in segnoaffermativo. L'incontro con la veggente avrebbe avuto buon esito,questo era scritto nei visceri della capra. Gli fece cenno di seguirlo, loprecedette nella cella sotterranea, e lo lasciò solo con la sposa diApollo.

La donna lo fissò.“Cosa domandi al dio, Codro, re di Atene?”Codro trasse un profondo respiro. La guardò in viso.“Chi vincerà la guerra?”

“Nonno! Racconta la battaglia!”“Ma come? Ho appena iniziato. Volete già la battaglia?”“La marcia la sappiamo già, e anche l'accampamento”.“Se è per questo, sapete anche la battaglia, e tutto il resto”.“Sì, ma vogliamo la battaglia lo stesso!”“Non siete leali! Una storia, o si racconta tutta o non si racconta”.“La battaglia! La battaglia!” I bambini avevano gli occhi accesi

per l'eccitazione.“Lasciate almeno che dica che prima di quella battaglia ve ne

erano state diverse altre”.“Ma lo sappiamo!” la vocina di Leocrito era impaziente.

“Sappiamo anche che i vostri eserciti vincevano a turno”.Alcibiade rise. “Che modo di esprimersi! Non lo decidevamo

mica prima. Vi era stata una tregua”.“Sì, lo so”, esclamò di nuovo il nipotino. “I morti da tutte e due

le parti erano tanti che i tre re si misero d'accordo per una tregua”.“Perché i re erano tre?” Tessalo, il più piccino, era perplesso.

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Suo fratello Pandaro lo guardò con commiserazione, scuotendo ilcapo. “Quante volte te lo devo ripetere? Erano Codro e i due diarchispartani”, lasciò cadere dall'alto. “Sparta aveva due re, in ricordo deiprimi, che erano due gemelli discendenti di Eracle”.

Tacque, fiero dalla propria spiegazione, e Alcibiade nascose unsorriso. “Dovevamo preparare le pire per i funerali”, riprese poi. “Nonpotevamo lasciare i morti insepolti. I cani li stavano facendo a pezzi:non sarebbero mai riusciti a scendere al regno di Ade, in questo modo.Non avrebbero mai trovato pace. Per diversi giorni non combattemmo.Da entrambi gli accampamenti si levarono le spire dense di fumo e ilamenti degli amici dei defunti”. Chinò il capo. Il volto e i radi capellisi accesero di riflessi rossastri alla luce del fuoco. “Quanti amici persi,in quelle battaglie, bambini! Quante volte dovetti battermi perdifendere il corpo di un fratello!”

I piccoli ora tacevano. Avrebbero voluto sentire della battaglia,ma il vecchio sembrava assorto nei suoi pensieri.

“Nonno...” mormorò Leocrito.“Sì, hai ragione”, si riscosse Alcibiade.

Aurora dalle dita di croco sorgeva oltre il contorno dei montiall'orizzonte.

Il re Codro non aveva dormito, quella notte. In piedi, sulla sogliadella tenda, guardava il sole.

Fece la sua preghiera di saluto al dio.Febo Apollo.Il responso era stato chiaro, e ogni volta che il sole si levava

pareva interrogarlo, da quel giorno. Scosse il capo e voltò le spalle alfiume d'oro che inondava il cielo. Non era ancora il momento. Nonancora.

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Raggiunse gli strateghi, li radunò, dispose l'esercito, ciascunlocago al proprio posto. La fanteria pesante degli opliti in primalinea, la fanteria leggera dei peltasti e gli incursori alle ali.

Gli uomini marciarono nella pianura e nella luce tersa del primomattino le armature scintillavano di lampi bronzei. Solo il loro passocadenzato infrangeva il silenzio.

Dinanzi a loro, le schiere lacedemoni, compatte; i mantelli rossinel vento tiepido, le corazze luccicanti.

La parola d'ordine percorse come un fremito le fila di Atene:“Codro re e Zeus salvatore”; poi, a un cenno del re, gli arcieri teserole corde e scoccarono all'unisono. L'aria vibrò sorda, il cielo sioscurò di frecce, i peltasti corsero avanti: fulminei, colpirono eripiegarono, per poi tornare all'assalto. Le ali del rigidoschieramento nemico si scompigliarono come l'alto mare delle spighequando si leva il vento. Allora, al grido degli strateghi, gli oplitiintonarono il peana, calarono le lance da colpo dalle spalle e sigettarono all'attacco.

Il muro degli scudi spartani si oppose allo slancio degli uominiin corsa con un cozzo duro, e la mischia si accese.

“Vidi Thaddaios, l'amico d'infanzia, trafitto da una lancia. Migettai sul suo corpo levando alto lo scudo su di lui, e la mia spadaallontanò il nemico. Per poco, però. Tornarono all'assalto. Gridaiperché qualcuno venisse in soccorso. Ero solo contro dieci, non avreipotuto resistere a lungo.

Qualcuno venne, e infine strappammo il corpo di Thaddaios alleloro mani”.

I bambini trattenevano il respiro.“Lo portarono nelle retrovie. Fu allora che vidi cadere Anatolios.

Una lancia lo colpì al volto, gli strappò la mascella, gettandolalontano.

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E Sosipstratos, dai lunghi capelli neri, ricevette un fendente dispada nel ventre, e cadde trascinando le proprie viscere nella polvere.

E Diomedes, il figlio di Arethas, fu colpito al capo, dall'orecchiol'asta si conficcò nel cervello e la terra bevve il suo sangue nero.

Theoktistos cadde combattendo per il corpo di Phanourios, eAmphilochios venne ucciso da un giavellotto in pieno petto.

Le grida salivano fino al cielo.La terra era una fanghiglia scivolosa di sangue”.

La guerra andava trascinandosi con alterne vicende senza unguizzo definitivo.

Le battaglie e le tregue per raccogliere le salme si susseguivano,ma non c'erano vincitori.

Il responso del dio era giunto alle orecchie del nemico e si eragenerata una situazione grottesca.

I loro re evitavano con ogni cura lo scontro con lui. Nonrispondevano alle sue provocazioni, si volgevano a prede meno infide.

In questo modo, Atene aveva perduto molti dei migliori strateghie il suo esercito era prossimo allo sbando.

I terribili spartani proteggevano Codro. Punivano chi dei loro loprendeva di mira.

Gli ateniesi avrebbero finito per perdere la guerra, se questaassurdità fosse continuata ancora per molto. No, non poteva andareavanti così.

“Resistevamo con la forza della disperazione, ma i nostricomandanti cadevano come gli alberi di una foresta, quando itaglialegna preparano i tronchi per costruire una flotta.

Anche i soldati semplici erano ormai pochi e sbandati.Nelle prime file, Codro combatteva come una leonessa che

difenda i suoi piccoli, ma succedeva qualcosa di strano. I nemici

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evitavano di misurarsi con lui. Attorno a lui era come uno spaziovuoto, nessuno rispondeva alle sue provocazioni, tutti evitavano la sualama. I soldati si trattenevano l'un l'altro, quando qualcuno di essipuntava la sua arma su Codro.

Codro urlava, si gettava all'attacco, il muro di uomini si apriva, loinghiottiva e poi, con delicatezza, lo sospingeva fuori, illeso. Il re diAtene era furibondo”.

Ogni soldato perduto in quella guerra era confitto nel suo petto:ombre che risalivano pallide dall'Ade appena chiudeva gli occhi, perinterrogarlo.

Ma come può un uomo decidere di avviarsi verso le valli dellanebbia?

Timore e speranza si contendevano i suoi pensieri.“Se Atene cadrà, lei sarà fatta schiava”, si diceva ogni notte.Solo lui poteva impedirlo, e lo sapeva. Ma dove trovare la forza

per strapparsi da lei? Lei, respiro dell'anima, sorriso nascosto dentroogni gioia.

Solo, nella sua tenda, le mani fra i capelli, Codro piangeva,ripeteva il nome della sua sposa.

Le grida si arenavano silenziose sulla soglia delle labbra.Infinite stelle solcavano la notte, lampi d'eterno nel cuore.

Graffiavano gli schermi del visibile, inondavano il petto di un respiroignoto.

Avevano il suo volto, il suo corpo di latte e di miele, i capellid'ombra assente. I suoi occhi di spighe lontane conducevano un sognosulle porte del nulla. Un ondeggiare dell'anima, un lento sgocciolaredi lacrime e sangue, segreti singhiozzi e fremiti nascosti.

Ma Febo Apollo attendeva al bivio della sua promessa. Eraquasi tempo, ormai.

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“Il peso delle armi si era fatto immenso. Il sangue si mescolavaalle lacrime, mentre la spada colpiva e gli scudi si levavano a difesa,ma era solo questione di giorni. Sparta avrebbe presto marciatosovrana sull'Ellade.”

Codro aveva passato un'altra notte insonne. Aveva offertosacrifici, interrogato gli indovini al seguito dell'esercito, e gli indoviniavevano confermato la volontà del dio.

Era tempo, dunque.I soldati erano demoralizzati, i campi devastati, e lui, Codro, re

di Atene, era il solo ad avere il potere di fermare tutto questo.Aveva versato libagioni a Zeus, spandendo a terra, con il vino

profumato, lacrime d'angoscia.Aveva inviato un araldo ad Atene, a portare un messaggio per il

suo amore. E solo per lei ora piangeva, per lo strappo dell'addio.Quella notte fu il tempo del commiato dal mondo e dalla vita,

dalla dolcezza e dalla gioia.La brezza cantava fra gli alberi; e Codro, immobile, gli occhi

dilatati nel buio, rivide i giorni con la giovane moglie.I fianchi di lei sotto le mani. Mai più.Latte e rose la sua pelle di seta. Ombre di dolcezza i suoi occhi,

eternità immense nel suo sguardo.Mai più.Mai più il vento fra i capelli e le risa, e le sue mani leggere.Mai più, ormai.E gli uomini, gli strateghi, i soldati, gli amici caduti e arsi sui

roghi, “Ti aspettiamo, fratello”, gli cantarono per tutta la notte. ECodro piegò il capo in silenzio.

Ora era tempo.“Mio re”. La voce dell'attendente lo riscosse.Fece un cenno affermativo e si levò.

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Era tempo, sì, adesso.L'uomo si chinò ai suoi piedi, allacciando i lucidi schinieri con le

fibbie d'argento.Codro tese le braccia e il giovane gli calzò sul petto la bella

corazza, dalle incisioni in rilievo.Gli pose a tracolla la spada.Lo scudo possente gli mise all'avambraccio.L'elmo dalla criniera equina, terribile a vedersi, gli pose sul

capo orgoglioso.E Codro, re di Atene, uscì e si volse in silenzio verso l'esercito

schierato e disposto per la marcia, e rifulse alto e bello nel sole comeun giovane dio.

Prese posto alla testa degli uomini che marciarono ancora unavolta nella vasta pianura.

Anche questa battaglia si trascinava senza vinti né vincitori.Il re Codro non riusciva a sfondare le linee nemiche, per quanto

facesse. La situazione dei giorni addietro si ripresentava come unincubo ricorrente.

A un certo punto si ritirò dalla mischia, facendosi largo tra icombattenti.

Lo perdemmo di vista, presi com'eravamo nel pieno della lotta.Il sole era ormai quasi giunto al tramonto, quando un incursore

irruppe sullo schieramento spartano come lo sparviero su uno stormodi colombe, e per un attimo seminò lo smarrimento.

La sua armatura di cuoio intarsiato, dipinto di rosso e d'oro, nonavrebbe potuto resistere a lungo.

Eppure quel soldato sembrava posseduto da Ares in persona.Urlava, la sua spada era ovunque. Trafiggeva i nemici senza

quasi sforzo, il suo giavellotto era già stato divelto dai corpi degliuccisi e scagliato più volte. Il suo impeto era inarrestabile; ci

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gettammo al suo fianco, combattemmo accanto a lui. Ci aveva ridatocoraggio.

Non avemmo il tempo di chiederci chi fosse.Forse qualcuno sopraggiunto allora dalle retrovie, ma non

importava. Quello che contava era che avesse riacceso la nostrasperanza, riattizzato il nostro ardore.

Ma i nemici si riebbero presto dalla sorpresa.Una lancia scagliata con forza lo colpì, la punta fuoriuscì dalle

scapole. L'uomo cadde.Il tempo si fermò per lo spazio di un respiro, poi la lotta sul suo

corpo si accese furiosa.Infine qualcuno riuscì a sottrarlo agli spartani e a portarlo al

campo.Ma ormai noi tutti avevamo ripreso vigore; ci gettammo, con le

spade levate alte, sui lacedemoni che presero a sbandarsi. Avevamo laforza devastante di una valanga che trascina nella sua rovina tutto ciòche incontra sul cammino.

Il terribile esercito spartano, che nessuno aveva mai sconfitto, fubattuto quel giorno.

I due re di Sparta vennero al campo ateniese a trattare la resa”.

Quando i diarchi, i discendenti orgogliosi e belli di Eracle,giunsero al campo ateniese per trattare le condizioni di pace, lotrovarono in lutto nonostante la vittoria giunta quando ormai tuttosembrava perduto.

Si stava officiando un rito funebre.La fila di uomini passava accanto al defunto, e ciascuno gettava

una ciocca di capelli sulla pira pronta per il rogo.Doveva trattarsi di un uomo importante, se veniva seguito il rito

canonico nonostante la battaglia si fosse appena conclusa. Si

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sarebbero aspettati di vedere scene simili l'indomani, o forseaddirittura più in là.

Si avvicinarono per vedere in viso il morto e compresero.Sulla catasta di legna era un giovane dai lunghi capelli neri

composti sulle spalle e sul petto; pareva dormire sereno, sul volto glialeggiava un sorriso. L'ampio squarcio che gli apriva il torace erastato ripulito e richiuso con fasce candide intrise di unguento.

Accanto, erano le sue armi. Una spada, una lancia, un elmo.E un'armatura leggera, da incursore, di cuoio intarsiato e

dipinto a disegni scarlatti e dorati.Non appena il fuoco si apprese alla pira irrorata del vino offerto

a Zeus, si levò, nell'aria immobile e sospesa, il lamento per la mortedi Codro, l'ultimo re di Atene.

La voce di Alcibiade si spense. Il fuoco crepitò.“Nonno”, sussurrò Leocrito dopo molto tempo. “Voi soldati

sapevate quel che la sacerdotessa aveva predetto?”“Tutti sapevamo”, mormorò il vecchio.Passò altro tempo; i piccoli seguivano la danza guizzante della

fiamma.Poi Pandaro guardò l'uomo in viso, ripetendo la domanda di rito.

“Cosa aveva detto?”I bambini chiusero gli occhi, mentre Alcibiade scandiva le parole

già note: “Che Atene avrebbe vinto se il suo re fosse morto inbattaglia”.

FINE

--© FEDERICA MACCIONI [[email protected]]Questo racconto è di proprietà del leggittimo autore

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RACCONTO II CLASSIFICATO

Quel di più…[Paola Carrozzo]

avanti ad un quadro, mi capitava di fermare la mia realtàper farne muovere un’altra, più interiore. In quegli attimi di

contemplazione di realtà dipinte da toccare con l’animo, sentivo che viera qualcosa che mancava nella mia vita. Questo mio atteggiamento,m’indusse a cercare quel di più non solo in me, ma in ogni cosa chemi era attorno.

Fino ad allora, avevo avuto l’impressione che la mia realtà erastata recintata dal mondo esterno con dentro il suo spazio/tempo, inconfini netti tra ciò che esiste e ciò che non si conosce. Per liberarmida questa sensazione negativa e per dar sfogo al mio ego intrappolatonel passato, decisi di dedicarmi alla pittura. Dopo svariati tentativi e ditele pasticciate, pensai di chiedere al mio amico Alberto di aiutarmi inquesto mio intento.

Alberto è un pittore eclettico ed innovatore, che incarna in sé lospirito di libertà individuale, che enfatizza l’essenza genuina esfaccettata dell’universo. È anche un bravo violinista.

- Per oggi, ho da proporti qualcosa... - mi disse Alberto,mostrandosi entusiasta per la sua idea. - Io suonerò il violino e tu tilascerai guidare dalla mia sinfonia. Dipingerai ciò che ti verrà inmente. Vanno bene anche, dei particolari ricavati da quadri di pittorifamosi, come ad esempio L’Urlo di Munch, se vuoi esprimere il tuobisogno di urlare, o le stelle di Vang Gogh, se ti senti romantica... Fai

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un po’ tu. Se vuoi dare un’occhiata ad uno di questi cataloghi... - e mene indicò alcuni che io ignorai.

Riflettei per un attimo sul soggetto da riprodurre e mi balenò inmente un celebre dipinto, Persistenza della memoria, di Salvador Dalì.

Il credere che potevano esistere altri modi di interpretare la realtà,totalmente differenti dal nostro abituale concetto di vedere tutto ciò che cicirconda, mi entusiasmava e m’incuriosiva. Apriva un varco di luce nellamia mente!

Nel frattempo, Alberto, iniziò a suonare. Muoveva con tale maestriaed eleganza l’archetto, che sembrava volesse cavalcare quelle vibrazioniper raggiungere un preciso scopo. La sua melodia sembrava risvegliasse inme la memoria nascosta Ci fu un attimo in cui sentii il mio cuore battereforte in petto.

Finii di dipingere prima che terminasse l’esecuzione del branomusicale. Così aspettai.

- Puoi dirmi che cosa hai rappresentato? - Mi esortò Alberto, contono gentile e senza commentare il mio disegno.

- Ho riprodotto alcuni particolari di un quadro famoso, come tu miavevi chiesto.

- Bene, Elvira. Hai interpretato la realtà così come la stai vivendo!Mi guardò attentamente per vedere la mia reazione. Sembrava che

fosse capace di leggere nella mia mente, infatti, prontamente ribattei:- Oh no! Non è come credi tu. - Poi gli spiegai il motivo della mia

scelta: - Sin da piccola, ero rimasta affascinata da un dipinto che avevovisto per caso sfogliando un libro d’arte. Mi riferisco ad uno dei piùrinomati quadri di Salvador Dalì, Persistenza della memoria. Gli orologimolli, da lui interpretati in qualche modo, mi avevano lasciato qualcosa sucui indagare e scoprire quale altra realtà si potesse nascondere dentro ognioggetto. Ricordo ancora le parole che avevo letto su quella pagina, chetutte le forme avevano una componente dura e una morbida, che tuttepotevano mutare d’aspetto, ed essere viste da un’altra dimensione: gli

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orologi molli non sono altro che Camembert paranoico-critico... tenero,stravagante e solitario... del tempo e dello spazio.

- Bene, ottima memoria, - lui mi disse con un mezzo sorriso. - Oltreche essere un’intenditrice d’arte, noto che sai tutto sul formaggioCamembert...

- Niente affatto! Non l’ho mai degustato! Conosco solo alcune suecaratteristiche. Per esempio, che è un formaggio a pasta molle, e concrosta fiorita di colore bianco.

- Così, hai passato la tua vita ad osservare gli orologi molli di Dalì,ispirati al formaggio Camembert, senza averne mai assaporato la suaduplice consistenza? Allora, non puoi nemmeno immaginare cosa vuoldire sentire in bocca la squisitezza di quel tipico formaggio, denso e allostesso tempo cremoso, una vera gioia culinaria! Se vuoi davvero scoprirecosa Dalì intendeva con paranoico-critico, tenero, stravagante, solitario,del tempo e dello spazio... devi assolutamente assaggiarlo! La prossimavolta lo comprerò e lo assaggeremo insieme.

- Sì, certo, è un pensiero gentile da parte tua, - lo interruppi. - Soloche a me non piacciono molto i formaggi, alcuni, per me, sono davveronauseanti, e poi...

- Duri o molli che importa! Purché facciano l’ora esatta, - disse luicon un pizzico d’ironia.

Mi sforzai di sorridergli. Lui si accorse del mio umore fiacco. - Ti sento un po’ giù, oggi! Che cosa ti è successo, Elvira? - Questa mattina, ho avuto una breve discussione con mia madre. -

risposi d’un fiato. - Ad un tratto, mi sono sentita senza nessuna consistenza!Ogni parola che le dicevo sembrava non avere nessun peso su di lei.Forse, per questo, ho pensato a quel dipinto. Mi sento come uno di quegliorologi afflosciati!

Alberto prima mi guardò. Dopo un po’ mi disse: - Ricordo quando cisiamo incontrati la prima volta in quella Galleria d’Arte. Avevi un’ariaafflitta, come ora!

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- Sì, quel giorno ero triste. Ricordo che fissavo la tua bocca sottiledeformarsi mentre commentavi a voce alta il tuo dipinto che avevo tantocriticato.

- Vede questi tagli sulla tela? - mi dicesti - Non sono solo semplicisquarci fatti senza alcun senso per impressionare chi li guarda, ma...queste fenditure, cara signorina, sono come delle fughe temporali, dellesoglie per accedere ad una consapevolezza più espansa della realtà,quella che si nasconde dietro ad ogni cosa!

Non avrei mai immaginato che l’uomo che era al mio fianco, potevaessere l’autore di quei rivelatori tagli che allora, non avevano per me,nessun significato.

- All’inizio, mi ero chiesto che cosa ti attirava in quella mia operaper spingerti a restare lì, piantata davanti a quel quadro per più di unquarto d’ora! Mi chiedevo che cosa ti avevo trasmesso.

- Signorina che cosa le piace di questo dipinto?- Ti avevodomandato con tono gentile. E tu mi avevi risposto: - Questi tagli,sinceramente, non mi dicono nulla. Chissà che cosa spinge un pittore acompiere un simile gesto? Mi chiedevo se fosse stato un suo attimo difollia.

- Allora ti spiegai il mio pensiero, e quel nulla cominciò ad avere unasua consistenza, una sua profondità. Il Nulla diventava il Tempo e loSpazio da attraversare con gli occhi della mente. A quel punto, ho avutol’impressione che stavi afferrando il concetto. Così t’incalzai: - Lei crederealmente in tutto quello che vede intorno a sé? - Tu mi guardavi insilenzio, con quei tuoi stupendi occhini blu, immersi nel profondo del tuointimo.

- Ricordo, infatti, che quel suo starmi addosso con lo spaziotemporale mi aveva fatto riflettere molto. Mi aveva, infine, spinto adelaborare un pensiero tutto mio. Così ti risposi: - A volte basta poco perscoprire che c’è in noi un ‘di più’ che va oltre a ciò che crediamo di

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essere. Ed è quel di più che, probabilmente, fa la differenza tra unarealtà ed un'altra.

- Elvira, se ti ponessi, ora, la stessa domanda di allora, cosa mirisponderesti?

- Beh... che dipende sempre da quel ‘di più’! E’ un dono che albergain ognuno di noi, e che, se smosso, permetterebbe d’essere più flessibili edelastici, rispetto alla staticità di ciò che è normale.

Dall’espressione di Alberto, mi accorsi che era la risposta che luis’attendeva. Mi stava sorridendo annuendo.

- Elvira, devi quindi cercare di smuovere quel ‘di più’…Senza preavvertirmi, mi sollevò il mento con due dita, in modo

delicato, e me lo tenne fermo in quella posizione. Poi cominciò adisegnare qualcosa sulla mia guancia destra. Pensai a Dalì, all’Urlo diMunch… ad altri pittori, a quel di più posseduto da ognuno di loro chearricchiva la loro realtà rendendola più modellabile. Avevo intuito chequel di più era anche in Alberto. E lo lasciai fare.

Ad un tratto, avvicinò il suo viso al mio. Incrociai da vicino isuoi occhi, che esaltati dal colore nero della matita, sembravanoaccesi. Erano di un intenso colore verde. Lui accennò un sorriso, ed io,imbarazzata, abbassai lo sguardo. Il profumo del suo dopobarba erastrano, ma buono. Iniziai a sentire caldo. Dopo un po’, avvicinò le suelabbra al mio orecchio, sfiorandomelo. Ebbi un sussulto e trattenni ilfiato. Con voce tranquilla, Alberto mi bisbigliò:

- Non essere così tesa, rilassati!Allora respirai profondamente, mentre lui continuava la sua opera.Quando Alberto finì di dipingere, sospirai con sollievo. Guardò con

aria disinvolta ciò che aveva disegnato, e non contento, premetteleggermente il suo pollice sulla mia pelle per sfumare il colore.

Incrociai di nuovo il suo sguardo vivido. Guardai Alberto con occhiinterrogativi.

- Che cosa c’è?

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- Niente, - risposi. - Ti senti poco bene? - Mi chiese Alberto scrollandomi leggermente

le spalle. Aveva un tono di voce preoccupato. - Sì, sì... ora sto bene, grazie.Mi sentivo stralunata. Rimasi lì, seduta immobile. Continuavo ad

affliggermi per la paura che il mio spazio/temporale, da un giornoall’altro, sarebbe stato di nuovo recintato. Mi sentivo come un bloccodi pietra, una scultura dove in ogni piega c’era l’ombra della miapaura causata dalla mia estrema sensibilità.

Ero persa in quei pensieri, quando Alberto mi richiamò alla realtà:- Elvira, prendi. - Disse sottovoce, porgendomi uno specchio dalla

forma ovale.Ebbi un sussulto quando vidi la mia immagine riflessa

deformarsi. Ad ogni minimo movimento, il mio volto tendeva aprotendersi verso il basso. Sorrisi divertita. Mi sembrava di essereintrappolata in una deformazione temporale infinita dove ogni cosa erainstabile. Provai a guardare gli oggetti dietro le mie spalle.

- Che cosa vedi?- Una realtà distorta, direi molle!- Brava! Anche se... mi riferivo al disegno che ho disegnato sulla

guancia, Elvira!Distolsi lo sguardo dalla mia immagine, lo guardai e iniziai a ridere.Poi, mi spiegò che quello specchio ovale, che lui stesso aveva

comprato al mercatino di oggetti antichi, lo aveva aiutato a guardarsi inmodo diverso.

- A me, ora non serve più, tienilo tu! Vedo che ti mette di buonumore!

Sorrisi, e lo ringraziai.Impugnò l’archetto, si concesse un attimo di concentrazione, e

riprese a suonare.

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[7/7]

Mi sentii far parte del suo universo multiplo, fatto di diverseconsistenze.

FINE

--© PAOLA CARROZZO [[email protected]]Questo racconto è di proprietà del leggittimo autoreed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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[1/3]

RACCONTO III CLASSIFICATO

Il mare di un giorno[Antonio Granci]

to guardando una foto che ho ritrovato per caso. Un marecalmo e specchiante, una spiaggia deserta, un orizzonte di

scogli. E una piuma, lasciata forse da un gabbiano.Posso accostare un ricordo a quest’immagine stampata. E’ la foto

dei miei vent’anni. E’ la foto dei miei giorni con Federica.Federica e io eravamo compagni di corso all’università. Stessa

facoltà, medicina. Stessa voglia di curare e guarire il mondo.C’eravamo conosciuti sui banchi delle lezioni di chimica, quando

ancora ci appariva lontano il momento in cui avremmo potutoindossare il camice e auscultare, visitare, fare diagnosi, come mediciveri. Nessuno dei due amava quelle formule fredde e severe, anche sele consideravamo un passaggio obbligato per quello che sarebbearrivato poi.

Dopo le prime occasioni, in cui c’eravamo trovati per caso afianco a fianco, avevamo preso l’abitudine di scegliere sempre dueposti vicini.

Il primo che arrivava occupava il posto anche per l’altro. Poi civedevamo in biblioteca a parlare sommessamente dietro una montagnadi libri, e tra discorsi di solfati e permanganati s’inserivano i nostrisogni.

Federica aveva il sole negli occhi.

S

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[2/3]

Una complicità crescente ci avvolse, come una nevicata attesa,quando si è bambini, per uscire a scherzare e divertirsi. Finché ungiorno, a bordo del mio scooter sgangherato, decidemmo di andare almare.

Era una splendida giornata di maggio. La spiaggia deserta ciospitò seducente e discreta, e ci sedemmo sulla sabbia, il vento su dinoi come una carezza leggera. Poi iniziammo a correre, senza unmotivo, senza una meta, come una fuga dal mondo, da noi stessi,come anime distaccate e sole che si ritrovavano dopo il buio dellaseparazione. L’amore nacque dalla nudità dei nostri corpi e deidesideri, che ci regalarono minuti d’incoscienza e follia, tra il timoredi scoprirsi e di essere scoperti.

Ci rivestimmo in fretta e corremmo ancora, fino ad incontrare unpiccolo chiosco vicino alla strada. Prendemmo qualcosa. Federicascelse un chinotto e io feci altrettanto, pur non potendolo propriosoffrire.

Non ho mai sopportato il sapore caramellato e stucchevole diquesta bevanda.

Ma quel giorno non volevo fare assolutamente nulla di diverso daquello che faceva Federica. Era il mio modo di farle capire che di leimi piaceva tutto. Proprio tutto.

Tornammo a casa. Dopo pochi giorni i corsi universitaris’interruppero per le vacanze. Federica tornò dai suoi, in una città delnord di cui io dimenticai presto il nome. Nel successivo annoaccademico non la ritrovai. Seppi da alcuni nostri colleghi di corsoche si era trasferita all’università di una città diversa dalla nostra.

Non la rividi più.Un giorno tornai nel luogo dove avevamo trascorso i nostri

momenti più felici. La spiaggia era ancora deserta e io scattai una foto.Quella che adesso sto tenendo fra le mie mani. Un modo in più perricordarmi di Federica.

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[3/3]

Rettangoli di carta sono le fotografie, che ci restituiscono iricordi, per un attimo li afferrano e li sottraggono alla devastazionedella nostra mente, al tempo che passa inquieto, al nostro vivere che èogni giorno morire e rinascere.

Dovunque sei, Federica, possa raggiungerti il mio grazie peravermi donato un frammento della tua vita e la struggente, indelebilenostalgia del nostro mare di un giorno.

FINE

--© ANTONIO GRANCI [[email protected]]Questo racconto è di proprietà del leggittimo autoreed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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[1/5]

RACCONTO SELEZIONATO

Capelli[Paolo Brandi]

alvolta, quando guardo il cielo attraverso le grate dellamia cella, mi capita di pensare a mia moglie e ai suoi

capelli neri, lisci, foltissimi.Quando la notai tra i banchi dell’università li portava lunghi

quasi fino al sedere. Dopo il matrimonio, invece, decise di tagliarli.Una signora non può portare i capelli lunghi, diceva sempre. E dopo ilmatrimonio lei aveva deciso di diventare una signora. E’ unapianificatrice, mia moglie. I suoi programmi non falliscono mai, senzabisogno di alcuno sforzo. E’ un talento naturale.

Gli anni del nostro matrimonio sono stati scanditi dai suoiobiettivi. Cerimonia in una chiesa di campagna, appartamento vicinoal centro, due figli, un maschio e una femmina. Tutto nei tempi e neimodi che lei aveva immaginato per sé stessa fin dall’adolescenza.

La nostra vita scorreva liscia, non troppo lontana dalla felicità. Equesto avveniva grazie ad un meccanismo oliato e perfetto comequello che permette alle lancette di un orologio di ruotare una addossoall’altra. Questo ingranaggio, che non prevedeva alcun tipo dideviazione da ciò che lei aveva deciso per entrambi, determinavaanche tutte le scelte che riguardavano me. I miei vestiti, la macchina,il lavoro. Era lei a scegliere tutto. Non che mi desse fastidio, percarità. Io sono uno morbido, lei me lo diceva sempre.

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[2/5]

Mi bastava affondare le mani tra i suoi capelli, cosìmeravigliosamente forti e rassicuranti, per dare un senso ad ognunadelle mie giornate da attore non protagonista. Guardare nei giornid’autunno il vento che tentava senza successo di scompigliarli, dideviare la traiettoria che il pettine aveva disegnato per loro, eraestremamente confortante per uno morbido come me.

Già.Perché sono convinto che la natura delle persone sia nascosta nei

loro capelli. Sulla testa delle persone riesco a leggere quello che illoro cuore e il loro sguardo stentano a confessare.

Questo credo di averlo imparato da bambino, quando mi capitavaspesso di andare al cinema.

Mio nonno mi portava ogni domenica pomeriggio al cineforumdella parrocchia. Spesso proiettavano dei film in cui i Cow Boy sisparavano con gli Indiani. Mio nonno ne era avidissimo perché amavaJohn Wayne, probabilmente per quel sorriso scaltro da pedagogosanguinario. A me i western piacevano un po’ meno dato che non homai amato né i conflitti né la loro rappresentazione. Quindi, ad ognivisione, dopo qualche minuto di sparatorie e assalti alla diligenzainiziavo a sentirmi male. Usciamo, usciamo, dicevo a mio nonno. Dai,dai che ora che ne ammazza un altro ti senti subito meglio, rispondevalui.

Solo una volta decisero di proiettare un film che non raccontassedel West. Era perché da poco era arrivato in parrocchia un pretecomunista. O almeno così disse mio nonno quando, a metà dellaproiezione, si allontanò bestemmiando dalla sala. Il film si chiamavaHair e per la prima volta i personaggi, invece di spararsi, cantavano eballavano in mezzo ai prati senza un vero motivo. Diversamente damio nonno, nel guardare i capelli disordinati e lunghissimi dei

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[3/5]

personaggi di Hair fendere l’aria al ritmo della musica psichedelica, iorimasi incantato.

Provai per la seconda volta la stessa estasi quando, più di qualcheanno dopo, incontrai Teresa nella sala d’attesa del mio dentista. Sullatesta di Teresa Dio aveva posato la chioma più riccia e selvaggia cheavessi mai visto. Dei capelli così dovevano per forza avere a che farecon l’amore, pensai. Infatti, nemmeno mezz’ora dopo averlaincontrata, toccai con mano la sua intimità direttamente nel bagnodello studio del galeotto odontoiatra. Lei non esitò a cedere alle mieavances, perché dire di sì era la cosa che le riusciva meglio. Anzi, adire il vero, era il motivo per cui stava al mondo.

Nelle settimane successive ci incontrammo sempre più spesso e,dopo qualche mese di rapporti clandestini, decidemmo di andare avivere insieme nel suo disordinatissimo superattico vicino al GrandeRaccordo Anulare. Quando dissi a mia moglie che volevo andarmeneda casa, lei non sprecò neanche una lacrima. Nei suoi programmi,ovviamente, era contemplato anche il divorzio. Mi lasciò andare e sirisposò qualche anno dopo con il suo avvocato.

I mesi di vita con Teresa furono una continua riscoperta deibisogni sopiti del corpo. Il cibo, il sesso, l’esercizio fisico. Dopopoche settimane mi sentivo ringiovanito di dieci anni. I suoi capelli,così vigorosi e maleducati, davano una non troppo vaga idea deldisordine che Teresa spargeva per il mondo, senza curarsi troppo dirimettere in ordine le situazioni irreversibilmente scompigliate dal suopassaggio.

Per Teresa l’unica cosa importante era un’esistenza piena. E oltrealla sua, con il volume sproporzionato della sua testa riccia, riuscì ariempire anche la mia. Accanto a lei la vita andava gustata a sorsipiccoli come un distillato. Perché trangugiarla tutta d’un fiato avrebbesoltanto bruciato lo stomaco negando ogni possibilità di riconoscere isapori.

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[4/5]

Ma, come tutti gli incantesimi, il legame tra me e Teresa sispezzò all’improvviso.

Un giorno, quando tornai a casa dall’ufficio, la trovai nel nostroletto insieme ad un altro uomo. Quando li vidi non dissi niente, lasciaiandar via lui mentre lei si rivestiva. Conoscendo Teresa avrei dovutosapere che il suo talento naturale nel dire di sì, prima o poi, si sarebbemanifestato con qualcun altro. Tuttavia vederla mentre baciava unaltro uomo era come aver visto la mia stessa vita separarsi da me ediventare di qualcun altro. Fu uno strazio che nemmeno un tipomorbido come me riuscì a sopportare.

Qualche ora dopo la polizia trovò Teresa stesa in un lago disangue. Qualcuno aveva bucato il suo corpo quindici volte con uncoltello da cucina e la aveva lasciata morire sul pavimento di casa. Miraccontarono poi che le macchie di sangue non andarono più via.Anche nella morte aveva deciso di lasciare una traccia indelebile.

I carabinieri mi trovarono nel cuore notte a qualche isolato didistanza. Ero in stato confusionale. In una mano avevo ancora ilcoltello sporco, sulla testa, invece, avevo tutti i capelli di Teresa.Infatti, dopo averla uccisa, decisi di portare con me la parte miglioredi lei e, come facevano gli indiani cattivi nei film western che amavatanto mio nonno, tolsi lo scalpo al corpo inanimato di quella ragazzache, senza pensarci troppo, aveva soffiato la sua vita nella mia. Il suocadavere, ora, è freddo e pelato dentro una bara di legno interrata daqualche parte a Prima Porta.

Il giudice, dopo un processo del tutto privo di colpi di scena, mimandò a vivere qui dentro. Oramai sono più di tre anni che passo legiornate giocando a Tresette coi miei compagni di cella.

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[5/5]

Quando ripenso a tutti i capelli che si sono intrecciati durante lamia vita, non posso fare a meno di passarmi un mano sulla testa.Perché, negli anni in cui questa storia si è articolata, sono diventatocompletamente calvo. Non ve l’avevo detto?”

FINE

--© PAOLO BRANDI [[email protected]]Questo racconto è di proprietà del leggittimo autoreed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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RACCONTO SELEZIONATO

L’acchiappasogni[Domenico De Ferraro]

uando ho voglia di sognare ad occhi aperti salgo sulla cima

di uno dei sette colli, da lì posso ammirare tutta la città che

s’apre sconfinata senza mai fermarsi all’orizzonte.

Strade strette che si alternano ad ampie strade percorse da signori

eleganti e colti con indosso calde pellicce; seduti nelle loro belle

macchine puoi trovare di tutto, bottiglie di liquori, sigari cubani,

televisore e computer.

Le lussuose macchine passano per strade sporche e deserte,

percorse a piedi da gente di ogni nazione, indaffarata nelle sue cose,

c’è chi insegue una sua idea, qualcun’altro un pensiero felice, un altro

ancora un profumo sottile che esce da un forno di dolci che t’afferra

alla gola e ti trascina con esso fino al negozio.

In un vicolo oscuro che sembra non aver mai fine, ci vive un

signore che fa uno strano mestiere, l’acchiappasogni.

Q

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[2/4]

Ogni giorno va in giro per la città cercando di catturare con il suo

retino un sogno felice, ma spesso ne trova alcuni assai brutti, incubi

orrendi che qualcuno ha gettato fuori dalla sua vita e non ne vuol più

sapere; li abbandona per strada tra la folla, spesso sulla fermata di

qualche autobus, e poi scappa via.

Di brutti incubi Gino l’acchiappasogni, a ogni ora, ne trova

parecchi; quotidianamente li porta fuori città, nella zona dei castelli,

per seppellirli in una buca profonda mille metri, sotto una grande

quercia, chiusi in un barattolo di vetro ben sigillato.

Mentre i sogni felici, poiché di quelli c’è ne sono pochi in giro,

quando ne prende uno lo porta a chi ha desiderato tanto averlo,

vendendolo spesso a un buon prezzo.

Gino aveva una zia mezza fattucchiera, che da piccolo gli aveva

insegnato molte cose sulla magia; come saper fare filtri, incantesimi, o

leggere nel palmo della mano, acciuffare sogni, ovviamente, e saperli

imprigionare nei barattoli di vetro.

Quando sua zia morì, all’età di centocinquant’anni, lui ebbe in

eredità il suo cagnolino parlante, che ha però un grave difetto, quello

d’essere un gran chiacchierone e di non saper smettere di parlare:

quando inizia lo fa per ore intere, sa tutto di tutti, conosce ogni difetto,

ogni pregio di ogni singolo abitante della città.

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[3/4]

A causa di ciò, Gino non ama molto portarlo con sé, per non fare

qualche brutta figuraccia con chi, incontrandolo per strada, senta

parlare il suo cane dei fatti altrui.

Gino ha un sogno: sposarsi, avere una compagna; ma il sogno più

grande è quello di diventare padre d’una prole numerosa.

Un giorno, riesce a catturare un sogno d’amore, dalle parti di San

Giovanni Laterano; forse, pensa, scappato dal cuore di qualche turista

o pellegrino di passaggio per la città eterna. Così dopo tante

peripezie, e con l’aiuto del suo cagnolino parlante, riesce a trovare la

fanciulla di quel sogno: abita in una casa modesta, verso Porta

Portese, insieme alla madre, e fa la commessa.

È molto bella e quando Gino la vede se ne innamora subito.

Per giorni interi la segue, diventa la sua ombra, e quando ha il

coraggio di dichiararle il suo amore è ormai troppo tardi: lei si è già

fidanzata con Romoletto, il figlio del macellaio, e gli si è promessa

sposa per la fine di quell’anno.

Amareggiato, rassegnato per quell’amore non condiviso, Gino

sente una pugnalata nel petto che gli trafigge il cuore; corre come un

disperato verso la grande quercia, cercando d’afferrare quel suo brutto

incubo per imprigionarlo in un barattolo di vetro e gettarlo nella

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[4/4]

lugubre fossa, ma vi cade dentro precipitando fino al centro della

terra; lascia così per sempre questa terrena esistenza.

Ora rimasto solo senza il padrone, il cagnolino lo va narrando a

ognuno che incontra mentre prende la metro; ma pochi gli credono e

qualcuno lo prende pure in giro.

FINE

--© DOMENICO DE FERRARO [[email protected]]Questo racconto è di proprietà del leggittimo autoreed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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[1/8]

RACCONTO SELEZIONATO

Letti di paglia[Donatella Franceschi]

irovago smarrito per labirintiche stradine contorte.Tutto ha il profumo della memoria perduta; un angolo, un

piccolo sasso gettato in strada, un terrazzino dalla ringhieraarrugginita.

Lei. La mia ringhiera.Mi ci ero aggrappato spesso un tempo.Di continuo.Ricordo che, inquieto e solo, la notte ero solito uscire in quel

magro balconcino aggettante su questa stretta stradina, l’oscuritàpalpabile, e inginocchiato per terra mi stringevo a quelle sottilicolonne come se fossero state le gonne di una madre, le sue braccia,come se ne avessi afferrata una mano e stretta contro il mio corpo.

Cercavo, a quel tempo, la protezione di qualcosa, una grandemano che mi avvolgesse tutto e mi riparasse dal resto del mondo.

Mi nascondesse a quegli sguardi penosi, a quelle parole troncate,agli occhi umidi e a volte beffardi.

Ma mia madre non c’era, non c’era più; ecco perché queglisguardi uggiosi, allora dovevo arrangiarmi e, tutto solo, avevo trovatolei.

Le mani stringevano rabbiosamente e ancora oggi, se solo chiudogli occhi e torno indietro a quei giorni lontani, posso chiaramentepercepire quella sensazione di stravagante sicurezza e il metallo

G

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[2/8]

freddo sotto la mia morsa man mano accendersi e confortarmi come sefosse fatto di carne, come se avesse avuto delle braccia con cuicullarmi, delle labbra per confortarmi e delle orecchie per ascoltarmi ecomprendermi.

Rammento perfettamente di aver trascorso ore e ore a discorrerecon la testa incastrata fra due sbarre, la fronte impregnata e le labbraimpresse come a voler parlare e baciare insieme.

Ricordo pure di aver pianto spesso, di aver parlato molto, io chenon aprivo mai bocca se non a fatica, ma che cosa avessi maiconfidato non ne ho memoria.

Rammento soltanto la disperazione e il sollievo, il sollievo eancora la disperazione; come una spaventosa marea quei duesentimenti giocavano nel mio cuore a prendere il sopravvento unavolta l’uno e una volta l’altro.

Ma ora finalmente l’aveva ritrovata, quella sua casta amante, ecome un novello Romeo se ne stava immobile in quella stretta stradinacon la testa levata a quel balcone vecchio, arrugginito, dimenticato.

L’aveva trattata male quell’amante, quell’amica, quella madreche tante volte gli aveva portato sollievo, breve sollievo, mabalsamico.

Aveva in qualche modo lenito le sue sofferenze quella cosa,quell’oggetto freddo, inanimato, senza carne o anima, qualcosa creatodalle mani dell’uomo, un oggetto utile quanto basta per affacciarsisenza cadere, una protezione, un limite, la sua salvezza; un tempo erastato tutto per lui, l’unico mondo possibile; al di là c’era il vuoto, lastretta stradina, la casa dirimpetto, lo sguardo della gente, le vociattutite; al di qua, all’interno della casa, c’era solo un lungo silenzio,la desolazione, un deserto arrido e pieno di vetri in frantumi, il corpodi un uomo disteso negli angoli più strani, il respiro pesante, il sonnosempre turbato da qualcosa.

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[3/8]

A volte perdeva conoscenza abbracciato a una bottiglia vuota el’abbracciava come se fosse una donna, uno strano abbraccio, forsepensava a mia madre, questo non l’ho mai capito.

Mio padre è sempre stato un uomo al limite, al limite dellasocietà, al limite delle proprie forze, anche mia madre era come lui;due della stessa razza, dicevano in paese, e aggiungevano sempre cheniente di buono poteva venirne.

E puntualmente la situazione era capitombolata; lei avevapiantato tutto e se n’era andata chi sa dove e lui aveva continuato adammazzarsi di alcool lentamente e diligentemente.

Non provava piacere in nulla, neanche ad ubriacarsi.Era solo arrabbiato, furioso, nauseato dalla vita e poi, quando

nacqui io, anche da me.Mi odiava, questo lo seppi da subito; dalla sua prima occhiata,

dalla sua prima carezza che voleva invece essere una sberla benpiazzata.

Avevo compreso subito che in quell’uomo nervoso e meschinonon c’era spazio per nessun sentimento che potesse avvicinarsiall’amore.

Forse solo mia madre.Forse nemmeno lei. Dopotutto lei era fuggita.Scappata lontano da quell’uomo pazzo e brutale e anche da me.Ma quando l’inevitabile era accaduto non avevo provato nulla,

semplicemente ero corso alla mia ringhiera e l’avevo abbracciatacome se potesse ricambiare le mie carezze, restituirmi il prestitod’amore che avevo infuso nel suo cuore di metallo e che sentivorovente sotto le mie dita.

Ricordo di aver pianto.Un pianto di sollievo.

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[4/8]

E ora sono di nuovo qui, davanti a questa vecchia casa dalle muralarghe, dall’aspetto a volte imponente, dalle stanze piccole, dall’odoredi legna bruciata, dall’odore di alcol e troppo dolore.

L’odore dell’odio, del risentimento, della rabbia, della volontà diun’autodistruzione precoce.

L’odore della giovinezza velocemente incanutita, dell’egoismo,della violenza, della viltà meschina.

Tengo tra le mani le chiavi, sono fredde, ci gioco freneticamente,con rabbia, mentre lentamente mi perdo nuovamente in quella casache ora appare piccola e modesta, spogliata dei suoi abiti e dei suoilustrini, denudata di ricchezza e bellezza.

Un tempo ogni palpito, ogni lembo di questa casa mi era apparsocome immenso e grandioso; mi perdevo in essa, mi lasciavo coccolaredalle sue bianche pareti, scivolavo sui gradini di queste stesse scale,mi nascondevo in ogni suo angolo, facevo amicizia con la polvere e larespiravo con avidità.

Di quella casa di un tempo conoscevo ogni pertugio, ogni piccolabuca oscura e sporca che potesse concedermi riparo dalle mani di miopadre, sempre lunghe, sempre nervose, sempre troppo veloci, sempreovunque.

Ora tutto appare diverso, estraneo, lontano e offuscato.Non riconosco nulla; io e questa casa, che tante volte mi ha dato

rifugio, non ci riconosciamo più.Ovunque c’è il suo odore acre e dolciastro; tabacco, alcool e

vomito mischiati assieme, questo è l’odore di mio padre.Ora è così questa casa che è divenuta col tempo sua,

completamente, totalmente, in ogni più piccola fibra.Questa casa, non mia, non più, ora mi respinge come lui, e come

lui mi scaccia via come una mosca fastidiosa che si vuolerabbiosamente spalmare sotto la propria mano.

Ora è morto, però.

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[5/8]

Finalmente.L’alcool l’ha ucciso, lentamente, ormai perduto nel suo

silenzioso livore.Odiava il mondo.Odiava me.E, in fondo in fondo, odiava pure se stesso.Lentamente si è ucciso, si è liquefatto nella rabbia, nella

meschinità, nell’orgoglio, nella miseria.All’inizio volevo tenerla questa casa.Morto lui, potevo alla fine tornare.Tornare in questa stretta strada.Tornare in quella stanza.Tornare per un momento ad aggrapparmi a quella ringhiera di

metallo, a stringere la mano ad una cara e vecchia amica.Mi trovo qui adesso, esattamente dove volevo essere, e queste

stanze invece non trasudano che odio, come se la sua anima malvagiasi fosse frammentata e dispersa nell’aria ed albergasse ovunque, inogni angolo buio, in ogni scalino, in ogni porta, in ogni maniglia; adogni mio passo sento come una barriera invisibile e determinata, unavolontà indistruttibile che mi vuole solo battere e annientare.

Sono grande ora, sono io il più forte questa volta e non milascerò schiacciare.

Lentamente salgo gli scalini; scricchiolano come calpestassi lesue ossa.

E’ quasi piacevole.Rido e qualcosa si accende in questo silenzio ostile, ma subito si

spegne nel dubbio.Ossa o legno marcio.Preferisco le ossa ma il dubbio rimane.Percorro un piccolo corridoio su cui si affacciano tre stanze; il

bagno, la stanza di mio padre e infine la mia.

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[6/8]

Quella stanza.La porta è spalancata, entro.Guardo e torno bambino.Torno a quel pigiama a righe bianche e blu, torno all’alcool, alle

botte, al dolore, al sollievo, alle grida, alle parole, agli sguardi.Tutto precipita, io precipito e intanto il passato, i ricordi mi

rincorrono per sventrarmi e per rendermi brandelli, per divorarmi elasciarmi pelle e ossa, per non farmi più uscire da questa stanza.

Il letto, le sedie, un tavolo, il grande armadio con specchio in unangolo, il piccolo comodino traballante; tutto imbiancato, ammuffito eperduto.

Avanzo, i passi scricchiolano.Un passo dopo l’altro mi avvicino a quel grande armadio e lo

apro; solo la curiosità di scoprire che cosa contiene; forse nulla, forsetutto.

Infatti una zaffata marcia e pungente mi colpisce all’istantecostringendomi a indietreggiare mentre spalanco l’anta perpermettermi di guardare; ed eccolo lì appeso a una stampella solosoletto in mezzo al vuoto, ricade molle e tarlato come la pelle di unserpente.

Il mio vecchio pigiama a righe; le righe di un prigioniero; soloquesto è rimasto, solo questo mio padre ha conservato, un falsosimulacro corrotto dal tempo, invecchiato, abbruttito, immortale,solitario, senza parola, infantile.

Sembra qualcosa finito prima del tempo.Richiudo l’anta e mi osservo involontariamente in quel grande

specchio; l’immagine è scura e distorta.Sono forse io?Non più un bambino.Qualcos’altro, non so cosa.Non mio padre, non mia madre.

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Qualcosa di migliore.Qualcosa di peggiore.Non loro.Altro.Ma che cosa?Questo ancora non lo so.Non voglio ancora scoprirlo.Poi la guardo, mi avvicino, apro la portafinestra e torno

nuovamente bambino.Lentamente mi piego a terra e ancora una volta, l’ultima, accosto

le mani a quelle mani amiche, a quelle braccia.Ancora stringo, ancora assaporo quel sentimento di strano

sollievo.Un sollievo che spazza tutto il resto.Un sollievo che cancella il mondo al di là e al di qua di quelle

fredde sbarre calde, tenere, affrante.Rimango così ancora per un po’.Oggi sono tornato.Oggi finalmente per poco voglio dimenticare il mondo.Chiudere la luce, attendere al buio; trascorrere la notte

abbracciato a una madre, a un’amica, a un’amante.Solo una notte; nell’unico angolo, fra queste mura, che non mi

respinge, non mi odia, l’unico angolo che mi protegge, mi abbraccia,mi accoglie, mi dona un sorriso.

Domani partirò.Domani lascerò questa casa.Le ossa e i frammenti di un’anima violenta e intrisa d’odio.Domani mi lascerò tutto questo alle spalle.Per sempre.Lo scaccerò nella polvere.Per sempre.

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[8/8]

Anche lei.Per sempre.Ma adesso sono qui.Oggi sono con lei.Sono per lei.Sono in lei.Fra le sue braccia.Nella sua carne.Stringo con rabbia le sue mani.Le sussurro il mio addio.

FINE

--© DONATELLA FRANCESCHI [[email protected]]Questo racconto è di proprietà del leggittimo autoreed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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RACCONTO SELEZIONATO

Un arcobaleno di nome Africa[Antonio Scarpone]

a fantasia dei ragazzi va sempre stimolata”, questo era ilsuo credo di professore.

Intorno ad una problematica doveva far ruotare tutta una serie diinformazioni che solo così si imprimevano nelle menti dei suoistudenti. I ragazzi andavano stimolati. E lui, ogni volta, trovava ilmodo più adatto.

Era ancora l’inizio dell’anno scolastico, dell’anno in cui,finalmente, aveva ottenuto una supplenza annuale anche per una terzamedia.

Il professor Paolo Mandia non aveva mai amato attenersiscrupolosamente agli ordinamenti ministeriali, nemmeno da studente,figurarsi ora che era lui il professore!

E, difatti, cominciò il programma di geografia dall’Africa, un suovecchio pallino scolastico, ma anche di vita.

Non diede spiegazioni. Solo qualche accenno. Poi propose quelloche definì scherzosamente un gioco. Quindi chiese sornione:“Ragazzi, cominciamo il programma di geografia dall’Africa e locominciamo un po’ come un gioco: chi vuol partecipare a questogioco?”.

I ragazzi, attoniti, non erano preparati a questo metodoscolastico, e inizialmente esitarono, si sentirono dei brusii, ma poi

“L

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prima uno, poi un altro, alla fine tutti avevano alzato la mano, allorchéil professore urlò: “Bravi! Non c’è nulla di cui dovete preoccuparvi!”.

- Diamo un colore all’Africa - continuò, - tu al primo banco:secondo te, di che colore possiamo dire che è l’Africa?

- Nera, l’Africa è nera, perché gli abitanti sono neri - risposeprontamente Giovanni.

- Bravo Giovanni; poi, chi vuol aggiungere un altro colore?Quale altro colore possiamo dare all’Africa?

- Gialla, - aggiunse Filomena - giallo come il deserto del Sahara!- Brava Filomena; chi vuol continuare?- L’Africa è anche azzurra, perché è bagnata da tanti mari e da

due oceani - notò Antonio, sbirciando verso la cartina del planisferoappesa alla parete.

E così la lezione del primo giorno si protrasse senza che nessunodei ragazzi si distraesse: tutti parteciparono attivamente e in manieramolto interessata. A un certo punto esclamò Francesco: “Professore,in Africa ci sono anche le foreste, soprattutto c’è la foresta dove sonoambientate le storie di Tarzan, quindi l’Africa è anche verde!”.

- Certo, è anche verde; ed è proprio al verde che volevo condurvi- riprese il professore. - Chi sa dirmi di cosa il verde è il colore?

- Della speranza - rispose prontamente Teresa, - il verde è ilcolore della speranza!

- Giustissimo, - disse il professore, aggiungendo subito che -l’Africa è verde come la speranza; sapete che, in base ai ritrovamentidegli archeologi, le prime civiltà si svilupparono in Africa, moltisecoli prima degli Egiziani, e qui vigeva una sorta di governodemocratico, ovvero di uguaglianza? E che una delle più importantiuniversità del Mondo nell’età moderna era a Timbuctù?

Tutti guardarono attoniti il professore, perché per loro l’Africaaveva sempre significato fame, arretratezza, miseria.

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- E sapete, naturalmente, - aggiunse subito il professore - che inAfrica hanno lavorato tanti Europei, sfruttando le risorse di quei Paesie gli stessi abitanti?

- Mio nonno ha lavorato in Africa! - prontamente attaccò Italia, -lavorava in Libia, a Tripoli, mi pare.

Il nonno di Italia, infatti, le aveva sempre narrato dei suoi annitrascorsi in Africa, in Libia, soprattutto, ma anche ad Addis Abeba:aveva lavorato in quelle che erano state colonie italiane.

- Professore - aggiunse a sorpresa Armando - abbiamo nominatoquasi tutti i colori dell’arcobaleno!

- Benissimo, ottima annotazione: e chi sa dirmi, secondo latradizione popolare, cosa c’è, che cosa si nasconde, alla finedell’arcobaleno?

- Un tesoro… - intervenne questa volta Vincenzo.- Giusto, un tesoro; quindi possiamo concludere la nostra lezione

affermando che abbiamo creato l’arcobaleno dell’Africa; - esclamòquasi commosso il professore, che poi riprese - se il verde dàall’Africa la speranza, tutti gli altri colori le ridanno la dignità perduta,perduta per gli egoismi degli altri popoli! Ora dobbiamo rimboccarcitutti le maniche e darci da fare affinché ognuno superi i propriegoismi, per restituire all’Africa quello che gli è stato rubato. Ed èsoprattutto su voi giovani che si ripongono, permettetemi il bisticciodi parole, le speranze di ridare speranza all’Africa.

FINE

--© ANTONIO SCARPONE [[email protected]]Questo racconto è di proprietà del leggittimo autoreed è qui pubblicato in licenza creative commons.

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