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Premessa In questo libro vengono affrontati sistematicamente i concetti della musica nelle culture musicali dell’Asia orientale: l’organizzazione del discorso musicale e il suo significato a partire dalla struttura del suo- no, la definizione delle scale, l’idea di tempo/ritmo, gli strumenti. L’intento è quello di fornire una chiave di accesso alla comprensione della musica dell’Asia orientale, che costituisce uno dei grandi mo- menti della cultura musicale asiatica accanto alla musica indiana e alla musica arabo/persiana. Riesaminando gli elementi di fondo della teoria musicale, ho cerca- to di spiegare le peculiarità delle concezioni della musica, del suo si- gnificato e della sua bellezza nelle culture appartenenti alla grande area di influenza cinese, dunque Cina, Giappone, Corea e parzialmente In- donesia. La vasta zona dell’Asia orientale comprende antiche e raffina- te civiltà dotate di caratteri, tradizioni e valori propri anche in campo musicale, ha subito influenze e apporti da civiltà straniere confinanti o anche lontane, ma costituisce un territorio relativamente unitario dal punto di vista dei fondamenti del pensiero musicale, in contrapposizio- ne al limitrofo grande bacino di cultura musicale indiana, con cui gli scambi furono naturalmente molti, soprattutto ai confini. Il centro irradiante di questa variegata concezione musicale è stata la cultura cinese, e gli apporti dall’esterno furono vitali per l’arric- chimento e per uno sviluppo non autoreferente delle forme del pen- siero musicale. L’ipotesi di una impronta dominante della raffinata ci- viltà musicale cinese è testimoniata da varie circostanze; accanto alle evidenti similitudini e derivazioni del pensiero anche il permanere, nelle zone più estreme dell’area, di concezioni e pratiche musicali da tempo abbandonate al centro, come i complessi di idiofoni indonesia- ni o la musica di corte giapponese. La materia è enorme e magmatica; ho cercato di darne una espo- sizione relativamente succinta: molti concetti sono enunciati e vengo- no trattati nel modo più chiaro e compiuto possibile ma, non avendo 15

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  • Premessa

    In questo libro vengono affrontati sistematicamente i concetti dellamusica nelle culture musicali dell’Asia orientale: l’organizzazione deldiscorso musicale e il suo significato a partire dalla struttura del suo-no, la definizione delle scale, l’idea di tempo/ritmo, gli strumenti.L’intento è quello di fornire una chiave di accesso alla comprensionedella musica dell’Asia orientale, che costituisce uno dei grandi mo-menti della cultura musicale asiatica accanto alla musica indiana e allamusica arabo/persiana.

    Riesaminando gli elementi di fondo della teoria musicale, ho cerca-to di spiegare le peculiarità delle concezioni della musica, del suo si-gnificato e della sua bellezza nelle culture appartenenti alla grande areadi influenza cinese, dunque Cina, Giappone, Corea e parzialmente In-donesia. La vasta zona dell’Asia orientale comprende antiche e raffina-te civiltà dotate di caratteri, tradizioni e valori propri anche in campomusicale, ha subito influenze e apporti da civiltà straniere confinanti oanche lontane, ma costituisce un territorio relativamente unitario dalpunto di vista dei fondamenti del pensiero musicale, in contrapposizio-ne al limitrofo grande bacino di cultura musicale indiana, con cui gliscambi furono naturalmente molti, soprattutto ai confini.

    Il centro irradiante di questa variegata concezione musicale è statala cultura cinese, e gli apporti dall’esterno furono vitali per l’arric-chimento e per uno sviluppo non autoreferente delle forme del pen-siero musicale. L’ipotesi di una impronta dominante della raffinata ci-viltà musicale cinese è testimoniata da varie circostanze; accanto alleevidenti similitudini e derivazioni del pensiero anche il permanere,nelle zone più estreme dell’area, di concezioni e pratiche musicali datempo abbandonate al centro, come i complessi di idiofoni indonesia-ni o la musica di corte giapponese.

    La materia è enorme e magmatica; ho cercato di darne una espo-sizione relativamente succinta: molti concetti sono enunciati e vengo-no trattati nel modo più chiaro e compiuto possibile ma, non avendo

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  • speranza di essere “uomo di sintesi” 1, sono lontana da qualsiasi pre-tesa di esaustività. Lo scopo è che i lettori trovino in questo testochiavi per avvicinarsi alle musiche dell’Asia orientale o che, nello stu-dio di altre musiche, anche della musica europea, trovino stimoli perconsiderare le cose da un punto di vista differente. Forse l’immaginedella musica dell’Asia orientale che viene qui delineata può sembrarenaïf a fronte dei radicali cambiamenti dovuti soprattutto all’assimila-zione di canoni occidentali in corso nell’area da oltre un secolo, ma èpur sempre quella preservata nella letteratura e costitutiva di una sen-sibilità fisiologica che non può essere soppiantata in così breve perio-do, soprattutto nelle vaste aree che poco contatto hanno con i pro-cessi della modernizzazione.

    Talvolta, onde non appesantire il testo, ho preferito dare in notapiù riferimenti non solo bibliografici, al fine di stimolare una ricercapersonale mossa da specifici interessi; per fornire un quadro chiarodello svolgersi del dibattito è indicata, nei limiti del possibile, la datadella pubblicazione originale di un testo quando ne venga data la tra-duzione italiana. Ove non esplicitamente indicato, le traduzioni dellecitazioni da lingue straniere sono mie.

    Sempre per facilitare il percorso, ho scelto di privilegiare la lette-ratura in lingue occidentali, tralasciando l’importante letteratura cine-se, giapponese ecc.

    I nomi asiatici sono dati nell’ordine cognome-nome. Le translitte-razioni sono pynin per il cinese e Hepburn per il giapponese (tranne“Tōkyō”, translitterato “Tokyo”, come invalso nell’uso).

    Ringrazio quanti mi hanno sostenuto nelle difficoltà e nei dubbi nelcorso della stesura di questo libro e, fra questi, Pippo Manzone, Gio-vanni Morelli e Francesca Tarocco. Ringrazio Stefano Pierini perl’aiuto tecnico nell’inserimento degli esempi; ringrazio di cuore Rug-gero Gallimbeni, Maria Teresa Silvestrini e soprattutto Francesca Ta-rocco per l’intelligente rilettura e i preziosi suggerimenti. Mi scusoper l’incompletezza e gli eventuali errori nella trattazione, di cui sonoin toto responsabile.

    Note

    1. Come J.-J. Nattiez, Prefazione a Musicologia generale e semiologia, EDT, Torino1989 (ed. or. 1987), p. XVII.

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    MUSICHE DELL’ASIA ORIENTALE

  • Introduzione

    Musica e cultura

    Dall’inizio del Novecento, la ricerca filosofica e le scienze umane sisono interrogate sul modo e le forme della cultura e ci hanno fattocomprendere come la specie umana acceda al reale solo attraverso lamediazione – e quindi la creazione – di un insieme di sistemi signifi-canti quali i miti, i riti, la musica, il linguaggio 1. Le ricerche antropo-logiche hanno ulteriormente dimostrato che l’organizzazione di siste-mi di segni per l’orientamento, la comunicazione e l’autocontrollodell’individuo nella comunità dei suoi simili, in una parola i processidi evoluzione culturale, sono, come sostiene l’antropologo CliffordGeertz, inseparabili dai processi di evoluzione biologica: «la cultura[...] fu un ingrediente e il più importante nella produzione [dell’homosapiens]» 2. I sistemi di segni organizzati sono inoltre, evidentemente,peculiari all’appartenenza culturale. La conclusione è dunque che nonesiste un essere umano a prescindere dalla sua indentità culturale: inche lingua si esprimerebbe? con che modalità si accoppierebbe? qualiinsegnamenti tramanderebbe ai suoi figli? E anche, ciò che qui ci in-teressa, che musica amerebbe ascoltare e suonare?

    Alla fondamentale domanda posta da John Blacking su quale ruo-lo abbia la musica nell’aiutare gli esseri umani ad essere umani, larisposta può essere differente a seconda degli itinerari di ciascunacultura, posto che ogni cultura ha una sua differente idea di ciò chesi dica umano in una persona. All’interno di ogni cultura la posizionedella musica, come di ogni altro organismo simbolico, è quella di unmattone nella costruzione che la società fa della propria umanità; ilcriterio di costituzione del sistema “musica” – o meglio (poiché nontutte le culture hanno una parola complessiva come “musica”) del si-stema “espressione attraverso dei suoni dotati di un codice diverso daquello del linguaggio verbale” – è coerente con tutti gli altri aspetti

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  • della cultura e quindi peculiare a quella cultura e sostanzialmente pri-vo di diretti legami simbolici con un’altra. Per questo è difficile dareuna definizione universale del concetto di musica; le parole che dico-no “musica” in lingue concettualmente lontane non sono esattamentecoincidenti e traducibili l’una nell’altra. Così come non esistono l’uo-mo e la donna – esistono uomini e donne giavanesi, cinesi, francesi oforse, con una certa astrazione, europei – non esiste la musica, esi-stono le musiche europea, cinese, giapponese, bantu ecc. Non ha sen-so parlare di musica come linguaggio universale; ogni musica è l’e-spressione locale di un precisissimo sistema linguistico elaborato dauna certa cultura a partire da certe condizioni e in vista di certi fini.La musica partecipa all’interazione con l’ambiente e le sue circostan-ze – un bell’esempio sono le canzoni dei Kaluli, “composte” intera-gendo con i suoni e le presenze della foresta pluviale 3.

    A proposito delle considerazioni relative al concetto di cultura,Bruno Nettl segnalò come gli etnomusicologi usassero il termine “cul-tura” diversamente dagli antropologi, probabilmente per via di unacontrapposizione frontale fra musica e tutto il resto all’interno di unasocietà 4. La definizione del rapporto fra i termini “cultura” e “musi-ca” negli studi etnomusicologici è stata a lungo quella data nel 1964da Alan Merriam in un libro paradigmatico, The Anthropology ofMusic, in cui si perorava l’indagine della «musica nella cultura». Malo stesso Merriam precisò la definizione nel 1973 parlando di «musicacome cultura» (music “as” culture) 5; la musica va indagata come cul-tura perché non è un orpello, ma anzi un elemento primario dell’ela-borazione della cultura stessa e con essa del processo di evoluzionebiologica e sociale.

    Dunque non possiamo considerare la cultura come un agente, unaforza, addirittura come una struttura fissa da determinare oggettiva-mente, cui sia connessa una parallela struttura “musica”. Forse, comeafferma provocatoriamente Gary Tomlison, la cultura è «una costru-zione degli storici, che prende forma e acquista coerenza dalla reci-proca interazione dell’evolversi delle assunzioni su di essa, dall’ab-bondanza dei dati e dai fatti selezionati per essere registrati nel con-testo» 6.

    In cosa è essenziale la musica come parte del discorso che orga-nizza la vita sociale di una data cultura? La musica ha senz’altro unrapporto privilegiato con l’emotività, la sensibilità e la percezione del-la natura dei sentimenti, e questo perché, ancora secondo Geertz, ilconferimento di significato anche agli oscuri moti dell’interiorità delsentimento è un’acquisizione sociale e pubblica; le persone hanno daorganizzare la propria vita e le proprie emozioni, e avvertono impe-

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    MUSICHE DELL’ASIA ORIENTALE

  • riosamente il bisogno di sapere come «dare una forma al flusso dellesensazioni [...] non solo sentire ma anche sapere cosa sentiamo e agi-re conseguentemente [...N]on soltanto le idee ma anche le emozioninell’uomo sono fatti culturali» 7.

    Il ruolo della musica nella messa a punto della vita emotiva èespresso con grande chiarezza nell’antica saggistica cinese: nel Yueji,il Libro della Musica, la prima definizione di musica è che essa arti-cola i fenomeni relativi all’interiorità dei sentimenti e delle emozioni,e fornisce le regole per esprimerli correttamente: «Tutti i suoni na-scono dalla mente ( ), i cui diversi stati sono causati da cose ad essaesterne» 8. Nelle diverse occasioni, nei templi, nelle festività, nellecase «tutti ascoltano insieme e sono perciò uniti in armonia» e i senti-menti di rispetto, l’amicizia, la pietà filiale – a seconda dei rapportiinterpersonali – sono rettificati e confermati dalla musica 9.

    Una cosa che indubbiamente emerge dall’indagine storico-musicologi-ca è che la musica, presso tutte le culture, è un’arte complessa, chenon può essere dominata da un solo individuo; per questa ragione,più che in altri ambiti artistici, la competenza musicale si frammentain competenze specifiche. Dai tempi più antichi al musicista si sonoaffiancate altre figure di artisti/intellettuali legati alla produzione mu-sicale: il teorico di acustica ed estetica, l’esperto del rituale, il costrut-tore di strumenti, lo strumentista virtuoso. A queste si sono progres-sivamente aggiunte, soprattutto in Occidente, figure sempre più spe-cializzate – il compositore, il direttore d’orchestra, l’accordatore, l’or-ganizzatore di concerti ecc. Relativamente al sapere musicale le coseda apprendere sono innumerevoli, ed è questa la ragione per cui, nel-le diverse culture, troviamo spesso famiglie che si tramandano il pa-trimonio della competenza musicale di generazione in generazione;sembra che non basti una generazione per fare un musicista: non soloi Bach o gli Scarlatti, le famiglie storiche di musicisti abbondano inogni cultura dell’Asia. Inoltre presso le culture musicali sostanzial-mente orali la quantità di nozioni da dominare a memoria per accede-re al sapere e alla produzione musicale è enorme: il repertorio e lacompetenza teorica, la struttura dei brani, le esecuzioni o versioni deidiversi repertori, le circostanze e le prescrizioni per l’esecuzione ecc.

    Nella nostra cultura si è aggiunta a questa stratificazione del sape-re musicale una figura ulteriore anche a quella già estrema del musi-cologo («Il musicologo è un sinistro sciacallo, senza dubbio inuti-le» 10): quella dello studioso di musiche di una cultura diversa dallapropria. Credo oggi sia abbastanza superato quanto sosteneva ClaudeLévi-Strauss:

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  • Quando noi passiamo dalla considerazione della nostra società a quella dellealtre [...n]on essendo più attori ma spettatori delle trasformazioni che si pro-ducono, ci è tanto più comodo mettere sulla bilancia il loro avvenire e il loropassato in quanto questi rimangono pretesti a contemplazioni estetiche e ariflessioni intellettuali, invece di rivelarcisi sotto forma di inquietudine mo-rale 11.

    La comunità di studiosi che indagano sulle musiche del mondo sipongono oggi diverse domande critiche sul proprio operare, comesi dirà nel paragrafo Difficoltà intrinseche allo studio etnomusicolo-gico 12.

    Uno sguardo agli studi etnomusicologici

    La musicologia vanta una secolare alleanza con le discipline umanisti-che quali storia, filologia, estetica, e recentemente con le scienze so-ciali, a cui si riconduce la maggiore corrente etnomusicologica – AlanMerriam, Anthony Seeger, David McAllester, Steven Feld.

    Dall’inizio del Novecento nelle indagini musicologiche è evidentel’apporto di un’indagine socio-culturale. Joseph Kerman sosteneva nel1985 che «già cinquanta anni fa storici – e musicologi con essi – era-no molto familiari con ciò che chiamavano storia sociale e storia in-tellettuale, la storia delle idee» 13. Forse il primo etnomusicologo fuAthanasius Kircher, che nel Seicento classificò gli stili musicali secon-do caratteri nazionali e sociologici – come sembra suggerire PhilipBohlman 14. I primi studi sulla musica, non solo manualistici ma an-che storici, che iniziano ad apparire in Europa dalla prima metà del-l’Ottocento erano stilati da letterati, filosofi, uomini di cultura, conun tono letterario poco interessato agli elementi più tecnici (com’eraancora ad esempio il trattato del Gerbert sulla musica sacra, del1784). Questa tendenza sarà azzerata dal pensiero del secondo Otto-cento. Dalla fine del secolo i nuovi impulsi “scientifici” applicati an-che alla nascente ricerca antropologica si faranno sentire, in studicome il giovanile Psychologische und ethnologische Studien über Musik(1881) del filosofo e sociologo Georg Simmel (1858-1918), o nel fa-moso e sistematico approccio di Guido Adler (1855-1941) alla musi-cologia (anzi alla Musikwissenschaft, la scienza musicale) in cui è giàformulata l’idea di un comparativismo “a scopi etnografici” 15. Sonostudi strettamente legati alle correnti scientifiche e positiviste, i loroautori credevano in una linearità nello sviluppo delle società umane(malinteso evoluzionistico difficile da sradicare!) secondo cui tutte le

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    MUSICHE DELL’ASIA ORIENTALE

  • culture fanno parte di un unico percorso evolutivo, e alcune societàsarebbero più “avanti” di altre, che possono fornire dati su stadi “an-tichi” dello sviluppo. Un’idea di evoluzione è implicita nei primi Re-ferat su musiche non europee dell’ultimo quindicennio dell’Ottocen-to, nel “Vierteljahresschrift für Musikwissenschaft” (Rivista trimestra-le di musicologia); è frequente il riferimento alla sequenza degli stadiculturali di Klemm 16.

    Quasi contemporanei sono gli esiti delle ricerche di Alexander El-lis sulle “scale musicali di varie nazioni” 17; Ellis sembra procederelungo il percorso indicato da un grande musicologo, compositore edidatta belga, François-Joseph Fétis (1784-1871), che aveva elaboratoun “nuovo metodo di classificazione delle razze umane in relazione ailoro sistemi musicali” in uno dei suoi enormi lavori, l’Histoire généra-le de la musique in 5 volumi pubblicata parzialmente postuma 18.

    Possiamo ricordare ancora Jules Combarieu, che nella sua Histoi-re de la musique in tre volumi (1913-19) e ancor prima nel saggio Lamusique ses lois, son évolution del 1907 propose un approccio posi-tivista e “sociale” a vasto raggio, un approccio chiaramente multidi-sciplinare vicino alle concezioni di Émile Durkheim secondo cui ilproblema del rapporto individuo-collettività è centrale nell’organizza-zione sociale – anche Lévi-Strauss rivendicherà la propria matricedurkheimiana. Nell’ambito della musicologia tedesca dei primi decen-ni del Novecento vanno segnalati i lavori di Paul Bekker 19, che defi-niva la musica «vivente formazione sociale», da cui consegue chel’«essenza» stessa delle forme musicali non può venir compresa senon in rapporto a quella realtà.

    Molto importante fu la trattazione di Max Weber (1864-1920) inI fondamenti razionali e sociologici della musica, definito da Adorno«il più completo e ambizioso abbozzo di una sociologia della musicasinora prodotto». Il lavoro di Weber analizza le relazioni tra laZweckrationalität (razionalizzazione finalizzata), fondamentale model-lo dell’agire sociale dell’Occidente moderno, e l’evoluzione musicale.Lo studio weberiano (pubblicato postumo nel 1921) è costruito sullapiù aggiornata documentazione storica ed etnomusicologica, e offrenotevoli, anche se non esplicite, indicazioni metodologiche. Il lavoroteorico di Weber individua i legami tra il progredire tecnico e teoricodella «razionalizzazione musicale» (la definizione delle altezze e delleloro funzioni) e i dati socioculturali concomitanti, facendo riferimen-to alle strutture sociali e ai modelli culturali (culto, formazione arti-stica, condizionamenti climatici ecc.) 20. Uno dei suoi concetti, quellodelle “ragnatele di significati” in cui gli esseri umani si sarebbero av-volti, è utilmente ripreso da Geertz 21, e l’idea di un progredire pa-

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  • rallelo di strutture socio-produttive e razionalizzazione musicale puòaiutarci a capire l’adozione della musica occidentale in società comela cinese o la giapponese, dotate di una propria e autorevole tradizio-ne musicale e però disposte ad abbracciare codici espressivi musicalimolto distanti in seguito alla modernizzazione su modello occidentaledella società.

    Il primo nucleo di quella che diventerà la ricerca etnomusicologica siforma a Berlino, nell’ambito degli studi di Tonpsychologie condottida Carl Stumpf (1848-1936) come direttore dello Psychologisches In-stitut da lui fondato nel 1893 presso l’Università Friederich-Wilhelmsdi Berlino 22. Carl Stumpf, che stava aprendo gli studi di acustica diHelmoltz alla psicologia uditiva 23, assunse Otto Abraham (1872-1926), con cui nel 1900 registrò e analizzò per la prima volta la mu-sica di un gruppo di teatro thailandese in tournée a Berlino, e poiErich Moritz von Hornbostel (1877-1935). Soprattutto quest’ultimo,superando di molto i compiti affidatigli, gettò, insieme ad Abraham,le basi della ricerca sulla musica non europea; nacquero nel 1901 iPhonogramm-Archive, con le registrazioni in parte dovute all’etnolo-go von Luscher in parte realizzate in sede, sulla musica dei gruppisoprattutto orientali in tournée per l’Europa 24. Le registrazioni eranofatte ad evidente scopo comparativo per gli studi di psicologia auditi-va, ma costituirono un primo nucleo di materiale etnomusicologicoper la documentazione delle musiche di diverse società.

    È estremamente significativo che la nuova disciplina, già agli albo-ri interessata piuttosto ai sistemi che agli oggetti, nasca “ufficialmen-te” a partire dalle registrazioni: è soltanto infatti con la possibilità diregistrazione che si esce dal campo dell’inferenza soggettiva rispettoall’“altra” musica, ponendo l’accento sull’unica realtà considerabile,quella del suono; il fatto che i due allievi di Stumpf che portaronoavanti il progetto, Abraham e soprattutto Hornbostel, non sentisseroil bisogno di verificare il contesto dei testi musicali che venivano esa-minando ha verosimilmente a che fare con lo scopo iniziale del pro-getto, eminentemente acustico/percettivo, sancito dall’anelito diHornbostel agli “universali senza tempo della musica”, ma anchestrettamente collegato con il clima intellettuale, scientista ed empiri-sta, dell’epoca. Il nuovo progetto di ricerca si chiamò poi Gesell-schaft für vergleichende Musikwissenschaft (Società di MusicologiaComparata).

    Quando nel 1933, per fuggire il nazismo, il nucleo berlinese dietnomusicologi nati alla scuola di Stumpf si trasferisce negli StatiUniti, la ricerca cambia naturalmente statuto. Georg Herzog, già assi-

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  • stente presso l’Archivio Fonografico all’Università di Berlino, si in-contra negli Stati Uniti con Charles Seeger (1886-1979), musicologovulcanico e radicale, teorico di un approccio universalista 25; Seeger,senza mai in realtà analizzare specificamente alcuna musica, scrissesaggi teorici, sociologici ed estetici sullo studio della musica, di estre-ma sensibilità intellettuale e apertura al diverso. Con lui Herzog, cheavrà come allievi i maggiori etnomusicologi americani quali AlanMerriam, David McAllester, Willard Rhodes, fonderà la sezione ame-ricana della Società di Musicologia Comparata (nel 1933-34). In se-guito, anche attraverso l’influenza dell’antropologo americano FranzBoas molto interessato alla musica, il percorso della neonata discipli-na si colorò di aspetti fortemente antropologici, senza mostrare gran-de interesse per l’approccio comparativo, coltivando piuttosto l’aspet-to della ricerca sul campo.

    La discussione sul comparativismo si è protratta a lungo; JohnBlacking e Mantle Hood hanno costantemente criticato l’approcciocomparativista, l’uno, come s’è visto, dal fronte radicale di una esege-si culturale dei contenuti, l’altro in base a un assunto del valore im-manente dell’oggetto, per cui nessun tipo di comparazione sarebbestato utile né in passato né al presente 26. Confutandoli con molti ar-gomenti e adducendo il parere di molti studiosi, schierandosi a favoredel comparison Merriam sostenne che comunque lo scopo dell’etno-musicologia è di arrivare a delle generalizzazioni, e che infine anchel’uso di certi termini induce un senso di comparazione; Merriam indi-ca come momento importante una «attenta, limitata, controllatacomparazione» 27.

    Il musicologo Tokumaru Yoshihiko, nel suo intervento On theMethod of Comparison in Musicology al Convegno Asian TraditionalPerforming Arts (1976), sostiene una visione illuminante sui metodidella comparazione, che sarebbe alla base di ogni comportamentomusicale o in senso lato estetico: per evitare l’incongruenza devonoessere espliciti i criteri dell’analisi e i risultati devono poi essere sotto-posti ai protagonisti della cultura musicale oggetto di analisi, momen-to che Tokumaru propone di chiamare con il meraviglioso neologi-smo fieldback 28.

    In realtà, mentre il senso di un confronto fra aspetti simili di cul-ture diverse è trasparente, risulta ormai oscuro il senso di un concet-to così datato come quello comparativo negli studi musicali. Il con-fronto serve a capire la relatività dei concetti, la peculiarità delle con-cezioni, l’intima complessità di ogni prodotto culturale e dunque mu-sicale; la comparazione servirebbe a stilare false gerarchie. Con l’ab-bandono totale di ogni idea evoluzionista di progresso, ma anche con

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  • il farsi strada dell’insostenibilità delle comparazioni formali, nel totalerelativismo che domina qualsiasi area del sapere dopo Kuhn e Feye-rabend, emerge ormai l’assoluto localismo degli studi, l’incommensu-rabilità e il limitato interesse ai risultati della comparazione fra di-verse esperienze.

    Difficoltà intrinseche allo studio etnomusicologico

    Nella disciplina etnomusicologica, nata ufficialmente quasi un secolofa a colmare uno dei tanti vuoti apertisi nel panorama culturale euro-peo con la modernità, è confluito tutto ciò che non era lo studio dellamusica colta europea, e l’incommensurabilità degli oggetti divennepresto fonte di imbarazzo: vi sono rientrate le musiche popolari ditutte le culture, le tradizioni musicali di civiltà anche criticamenteevolute come la cinese; a ben vedere «tutta la musica del mondo» 29.Vi sono riunite la musica dei popoli definiti ancora negli anni sessan-ta primitivi 30, possessori di un sapere orale non storicizzato, e la mu-sica di culture asiatiche altamente letterate da millenni.

    Continuiamo per convenzione a chiamare “etnomusicologia” lostudio delle musiche non europee 31 – nonostante le tante riserve sulsignificato di questo termine: cosa vuol dire “etnico”? Non vi è unaimplicita presunzione di superiorità nel definire etnica una popolazio-ne, da parte di uno studioso che fa pur sempre parte di un’altra “et-nia”? Se già ci risultavano sospetti le perline e gli specchi portati daLévi-Strauss in Brasile, tanto più sospetto ci risulta, quando si trattidi ricerche sul campo, l’uso di microfoni e riproduttori che, come ri-leva Thomas Turino, ha dei sospetti effetti di feedback sulla culturaindagata 32. Come in ogni indagine antropologica, i problemi suscitatidal confronto sono estremamente complessi: come reagire alla pianaindifferenza di John Blacking nell’inserire i riti di escissione femmini-le fra le circostanze musicali Venda?

    Di contro, soprattutto in Italia, l’idea che lo studio della musica diuna cultura faccia parte costitutiva dello studio di quella cultura non èsostanzialmente presa in considerazione, e quindi a fatica lo studiodella musica dell’Asia orientale può uscire dall’ombrello (etno)musico-logico per collocarsi fra gli studi letterari, umanistici, storici o artisticidi Giappone, Cina, Corea ecc.

    Non sempre gli studi sulle altre musiche arrivano a delle chiareformulazioni. La serie delle difficoltà è enorme: a che fine va condot-ta l’indagine? Alla comprensione, certo, ma secondo il nostro appara-to analitico e critico o seguendo precisamente le teorie locali? E qua-

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  • le potrebbe essere il giudizio di valore, sempre e comunque sotteso aqualsiasi indagine? A quali criteri si conformerebbe? Impacciato daqueste difficoltà, l’apparato teorico della “etnomusicologia” sembratalvolta imbrogliarsi nella definizione di tecniche e metodologie.

    Alcune delle indagini di tipo culturale che si rendono necessarienello studio delle altre musiche – la necessità di definire il quadrosociale, la ricostruzione del contesto, la comprensione delle regole edelle intenzioni – erano come si è visto presenti nella musicologia oc-cidentale come la conosciamo dall’inizio dell’Ottocento, anche sesono considerate parte di un’indagine che procede verso la definizio-ne di altri valori, più “interni” all’oggetto musicale, che non alla com-prensione di una musica “straniera”, all’interno di una cultura diversadalla nostra e come parte di essa. Non si potrebbe studiare un branoseicentesco senza il ricorso a un’antropologia sociale, e delle conside-razioni di psicologia anche sperimentale hanno sempre fatto partedell’analisi del contesto compositivo e ricettivo. I concetti linguistici opoetici entrarono nel discorso musicologico nel Romanticismo, nellecritiche musicali di Robert Schumann, e gli strumenti formali elabora-ti dalle discipline storiche e linguistiche arricchirono progressivamen-te il discorso musicologico 33.

    Le diverse premesse e la diversità delle forme separano le altremusiche dalla nostra, e il bisogno di circostanziare culturalmente l’og-getto in esame è un’esigenza della ricerca contemporanea, ma credoche, assimilato l’apporto dell’antropologia, della sociologia, della tec-nologia della riproduzione del suono, delle discipline metodologiche,oggi l’itinerario conoscitivo debba essere sostanzialmente lo stesso perla musica occidentale e per le musiche del mondo. Qualora le pre-messe culturali siano acquisite, com’è nel caso dello studio della pro-pria musica, l’itinerario sembrerebbe più semplice, ma non sempre ècosì: anche nel caso degli studiosi “nativi”, come Kofi Agawu, JamesClifford o Chan Sau Yan, la definizione dell’oggetto e delle tatticheanalitiche è una cosa complessa.

    L’indagine è complessa, e anche per il musicologo sembrerebbenon bastare una generazione: dominare sia gli strumenti musicologici(propri e della cultura in oggetto, i testi autoctoni come percorso distudio prima ancora che come fonti) e anche la lingua parlata e scrit-ta, le circostanze storiche e sociali, l’apparato simbolico e tutto il si-gnificato è effettivamente compito non lieve. Intanto bisogna chiarirese si studia la cultura per capire la musica o si studia la musica percapire meglio la cultura. Quand’anche ci si voglia attenere alla solaanalisi delle opere musicali ritenendole dotate di significato autonomo(come fa Simha Arom per le polifonie centroafricane), le teorizzazioni

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  • e soprattutto un certo tipo di “gerarchizzazioni” della struttura musi-cale fatte apposta per l’analisi della musica occidentale non si atta-gliano affatto alle musiche dell’Asia orientale. Una soluzione sembre-rebbe quella di scegliere lo sguardo etnomusicologico, che un po’presume di considerare l’oggetto (o meglio l’evento) musicale feno-menologicamente come in laboratorio, un po’ opera il taglio trasver-sale di un presente storico immutabile in cui collocare il fatto musica-le in esame. L’approccio etnomusicologico sembra aver elaborato po-che chiavi d’accesso alla comprensione del divenire storico, anche sesono ragguardevoli i non numerosissimi studi sul cambiamento 34. Glistudi etnomusicologici restano ancorati a una sorta di impaccio meto-dologico; l’attenzione è divisa fra il contesto e il testo, fra i docu-menti e le testimonianze, che risultano difficilmente compatibili conla pratica musicale e viceversa; in generale sembra che l’uno tenda aescludere l’altro. Le aporie dell’approccio definito etnomusicologicoemergono con molta ironia in un paio di articoli di Bruno Nettl, incui l’illuminato studioso applica i metodi dell’analisi etnomusicologicaalla nostra cultura e descrive la singolare «cultura di una società cheabita il Palazzo della Musica» di un’università americana. La sua iro-nia può servire a illuminare se non l’attendibilità sicuramente la par-zialità del sapere etnomusicologico 35.

    L’etnomusicologia attuale, di scuola largamente americana, volen-do urgentemente staccarsi da una visione eurocentrica della musica,come ironicamente sottolineava Joseph Kerman 36, sembra avere altririferimenti che non quelli della ricerca musicologica europea-occiden-tale – gli studi storici e teorici di H. H. Eggebrecht e Carl Dahlhaus,di Zofia Lissa e Hans Robert Jauss sulla ricezione della musica, leimportanti eredità del sociologo Max Weber, dei filosofi Ernst Bloch(1885-1977) e Theodor W. Adorno (1903-1969). I padri dell’etnomu-sicologia sono, fatto salvo l’eminente Hornbostel, in gran parte statu-nitensi: il citato Charles Seeger (1886-1979), l’antropologo Melville J.Herskovits (1895-1963), i ricercatori Frances Densmore (1867-1957)e John A. Lomax (1867-1948) che, incidendo l’una la musica degliIndiani d’America e l’altro il patrimonio dei folk songs, hanno opera-to nel contesto americano una ricerca parallela e indipendente rispet-to a quella iniziata in Europa con Bartók, che prima di essere un ri-cercatore era un compositore.

    La disputa fra gli studiosi interessati alla musica come un aspettodella ricerca antropologica e quelli interessati più alla musica, e solocome corollario alla ricerca antropologica, è risolta da sé dal percor-so e dalle scelte dei singoli studiosi, ma può essere illuminata da al-

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  • cune parole di Carl Dahlhaus. Nonostante il dato di fatto che la mu-sica occidentale sia una vicenda di “eroi”, Dahlhaus afferma recisa-mente che

    la storia musicale dell’opera o della composizione, fondantesi sul concettoche l’età moderna ebbe dell’arte, va sostituita [...] da una storia sociale chefa capire un costrutto musicale movendo dalla funzione che esso svolge. [...]La decisione metodologica a favore della storia dell’opera e della tecnica mu-sicale oppure a favore della storia sociale e di quella della funzione svolta[Funktionsgeschichte] non dipende tuttavia dal solo “interesse conoscitivo”[...] ma almeno in parte è anche pre-tracciata nella cosa stessa, nei dati difatto musicali. La misura in cui una storia delle opere oppure una storia so-ciale ovvero un procedimento conciliante intermedio – che tuttavia non puòesimersi da una sua accentuazione particolare – sia adeguata a un pezzo direaltà musicale, cambia nelle diverse epoche, nei diversi ambiti, nei diversigeneri 37.

    Il principio base su cui si articola il discorso storico-metodologico(integrato con l’estetico) di Dahlhaus, e cioè che la vicenda dellamusica dipenda da un tramandarsi di norme in diversa misura isti-tuzionali, è utile anche in un discorso (etno)musico-logicamente cor-retto, a sostegno di un’indagine pluridimensionale e attenta al dive-nire storico.

    Il senso dell’indagine sulla musica di altre culture è certamente quellodi aprire brecce alla comprensione di strutture di pensiero profonda-mente diverse.

    I processi organizzativi che in una cultura si applicano alla musicao al linguaggio sono analoghi agli altri processi dell’organizzazionedel pensiero; che la musica corrisponda profondamente all’elaborazio-ne dell’espressione e della comunicazione in una data civiltà è tantoevidente quanto difficilmente formalizzabile, nonostante i molti tenta-tivi fatti da studiosi. È vero che Bruno Nettl arriva a capire la struttu-ra del radif (l’ordine dato alle sequenze melodiche nella musica per-siana) soltanto dopo aver afferrato i modi della comunicazione lingui-stica iraniana, ma altri tentativi di trarre delle conclusioni di ordinesociologico dalla comprensione di forme musicali restano semprepiuttosto vaghi 38.

    Blacking sosteneva, in un libro che all’epoca della sua pubblica-zione suscitò un fervido dibattito: «La musica non è un linguaggioche descrive la società così come appare, ma un’espressione metafori-ca dei sentimenti associati a come essa realmente è» 39. O non piutto-sto come, nel bene e nel male, vorrebbe essere? L’affermazione di

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  • Blacking tocca, poste alcune riserve rispetto al concetto di “metafori-co”, il problema della verità; Adorno sosteneva che l’arte e in parti-colare la musica esprimono la verità sulla società, poiché «nei pro-dotti autentici dell’arte si esterna l’irrazionalità della costituzione ra-zionale del mondo». La musica nelle società sembra tanto ribadireche discutere le strutture fondamentali della società stessa, soprattut-to per quello che concerne la sfera affettiva e la sua espressione, cioèper quello che concerne le relazioni umane fondamentali 40. Il discor-so è molto sottile, in quanto riguarda la struttura del linguaggio musi-cale, ma molti esempi che avvalorano l’idea di un percorso contrad-dittorio fra mantenimento dello status quo e critica allo status quo, diun uso antitetico degli stessi materiali musicali, si possono trovare adesempio nella musica e nei testi delle canzoni cinesi attraverso le epo-che, i generi, le regioni 41. A sua volta il problema dell’autenticità dei“prodotti dell’arte” è enorme, soprattutto per le musiche tradizionaliasiatiche dopo l’impatto con l’Occidente: se qualcosa appare inauten-tico, vi saranno in azione ragioni di contraffazione, di mercificazione,di asservimento ad un’idea espressiva estranea; ma se queste ragionisi sono fatte strada nella società, non sarà in qualche modo autenticaanche la loro espressione? Non è un approccio ideologico decideredell’autenticità di espressioni di un’altra cultura? Mi sembra di poterdire che è molto ipocrita porsi il problema dell’autenticità di musichecontraffatte proprio da eventi causati dall’interesse del mercato occi-dentale 42.

    La contemporanea antropologia anche musicale si è chiesta, nelsecolo di Heisenberg, se l’osservatore non stia osservando soprattuttose stesso, come già ipotizzava Claude Lévi-Strauss, come sostenevaBruno Nettl a un convegno nel 1992, come traspare dai dubbi diThomas Turino e dal particolarismo di Clifford Geertz 43.

    Un’ultima considerazione: perché ci si è affannati a studiare, tal-volta senza poter evitare di fraintendere, il senso e le forme di musi-che non europee e non si è scelto, nel caso delle musiche del’Asiaorientale e specialmente della musica cinese, altamente letterata, ditradurre i testi di analisi e gli studi storici che tali culture hanno pro-dotto sulla propria musica? In primo luogo perché le idee di “anali-si” e “studi storici” quali interessano alla nostra cultura non sonoquanto viene prodotto dalla cultura in esame; questo nonostante laciviltà cinese abbia sottoposto verosimilmente per prima i testi di ar-gomento “musicologico” del passato anche remoto – come Yueji, ilcapitolo dedicato alla musica all’interno del Libro dei Riti (III sec.a.C.), o i capitoli dedicati alla musica nelle storie dinastiche 44 – aduna indagine “filologica”. Il rischio è che si producano, come in qual-

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    MUSICHE DELL’ASIA ORIENTALE

  • siasi discorso culturale, non «“verità” ma solo rappresentazioni[... ove] una testimonianza scritta [...] soppianta e rende superfluaqualunque entità reale» 45. Il discorso sulla riflessione storico-teoricache le culture dell’Asia orientale hanno condotto su di sé e la propriamusica, e sulle categorie presupposte, è molto ampio e complesso.

    (Etno)musicologia e Asia orientale

    Fra le prime disquisizioni su musiche dell’Asia orientale annoveriamole note sulla musica cinese in Description géographique, historique,chronologique, politique et physique del l’Empire de la Chine et de laTartarie chinoise pubblicato a Parigi nel 1735 dal padre gesuita Jean-Baptiste Du Halde (1674-1743) e compilato in base a lettere e memo-rie di altri gesuiti missionari in Cina. Alcuni commenti all’interno del-le descrizioni dei missionari gesuiti, ad esempio Matteo Ricci o Ales-sandro Valignano, sulle musiche udite in Cina e Giappone, testimo-niano soprattutto dello stupore e dell’ovvia incomprensione recipro-ca. Mémoires sur la musique des Chinois tant ancient que moderne, VIdei quindici volumi di memorie cinesi di padre Joseph-Marie Amiot,è il primo libro sulla musica cinese scritto in base ad una “ricerca sulcampo” (Amiot visse in Cina dal 1749 sino alla morte, nel 1793), chesi fa carico delle “ragioni” musicali dei cinesi 46. Esistono poi da unaparte i paragrafi dedicati alla musica nei resoconti di viaggi e amba-scerie – in Siam nel 1693, in Persia nel 1669 e 1711, in Giappone nel1727, in Cina nel 1793/94 47 – e dall’altra le sezioni dedicate alla mu-sica non europea in manuali ed enciclopedie musicali. Fra queste ifamosi cenni di Jean Jacques Rousseau a tre melodie a confronto, unasvizzera, una amerindia e una cinese (tratta dal Du Halde) nel suoDictionnaire de la musique del 1768. La lista di tali contributi, cheinizia con la Storia della Musica (1757-81) di Padre Martini, sarebbelunga 48; ci basti notare che gli argomenti sono prevalentemente rela-tivi alle tradizioni musicali orientali, di cui talvolta viene onorata lacultura ma abbastanza disprezzata la musica, questo anche in base aipareri in larga misura denigratori dei missionari e viaggiatori in queipaesi lontani 49. D’altra parte tutte le apparizioni ad esempio dellaCina nella musica settecentesca – Marin Marais (Les Pagodes in Piécesde viole, 1725) o François Couperin (Les Chinois in Quatriéme livrede Pièces de clavecin, 1730) – senza avere alcun nesso reale con lamusica cinese, servono per inserire nella compatta compagine formaleirregolarità ritmiche o melodico-armoniche passate per “cinesi”; ope-risti come Henry Purcell (The Fairy Queen, 1692), o Jean Philippe

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  • Rameau (Les Paladins, comédie-ballet 1760) – e i loro librettisti – siinteressano di Cina soprattutto alla ricerca del fiabesco, dell’esotico,dell’incognito, un mondo irreale di cui vengono presentati caratteri ipiù strani e grotteschi (si veda la danza della scimmia nel Chinesedivertissement, atto V dell’opera di Purcell) 50. Nel secolo successivocomparve un libro vagamente denigratorio, anche se importante peril momento storico in cui fu stilato, Chinese Music di J. A. van Aalst,pubblicato a Shanghai nel 1884.

    Come s’è detto, il giudizio cambia solo, sostanzialmente, all’iniziodel Novecento. Le altre musiche vengono interpretate come esempidi stadi di sviluppo culturale “antichi” – ad esempio nei contributi diStumpf al già citato “Vierteljahresscrhift für Musikwissenschaft” (Mon-golische Gesänge, 1887 o Phonographierte Indianermelodien, 1892) – dipopoli “primitivi” 51. Evoluzionista è ancora la prospettiva di un li-bro, peraltro di una certa importanza, di Curt Sachs: The Rise of theMusic in Ancient World, East and West, pubblicato nel 1942, in cuiSachs divide l’Asia orientale dal Medio Oriente, e collega la musicaorientale con l’antica musica occidentale. Il presupposto delle teorieevoluzionistiche in musica – «lo schema evoluzionistico, in base a cuilo sviluppo procede da una gioia puramente sensoriale ai fenomenisonori (fase primaria) attraverso una semplice organizzazione (faseestetica primaria) verso una articolazione architettonica (fase architet-tonica)» 52 – è stato abbandonato soprattutto quando un’analisi piùapprofondita ha rivelato le ricche strutture di pensiero sempre soggia-centi anche in musiche apparentemente semplici – esemplari a propo-sito sono gli studi di Feld sui canti degli abitanti della foresta pluvialepapuasica 53.

    Fra i primi studiosi che si occuparono di musiche orientali conuna nuova ottica vi fu Robert Lachmann, collaboratore di Abraham eHornbostel nel gruppo dei ricercatori raccoltisi intorno ai Phono-gramm-Archive di Berlino; Lachmann pubblica Musik des Orients 54,in cui si interessa principalmente di musica araba e indiana, ma il li-bro ha il pregio di tentare di delineare le caratteristiche comuni allamusica orientale, considerata come un’area relativamente integrata dalpunto di vista musicale. È un’ottica peraltro semplicistica: è vero cheesistono caratteri comuni, ma le differenze fra la musica araba e quel-la cinese sono più profonde di quelle esistenti fra, diciamo, la musicaspagnola e quella finlandese.

    Non bisogna dimenticare, accanto ai nuovi itinerari di ricerca mu-sicale, dei tracciati altrimenti ufficiali, come quello degli studi musica-li orientalistici e pubblicistici francesi, nati sia dalla pratica missiona-

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    MUSICHE DELL’ASIA ORIENTALE

  • ria che dalle nuove suggestioni dell’Esposizione Universale del 1889.Si produssero, dall’ultimo decennio dell’Ottocento, importanti contri-buti quali i brillanti interventi di Julien Tiersot sulla musica dell’Asiaorientale 55 e i fondamentali lavori sulla musica cinese e coreana diMaurice Courant 56, che raramente vengono annoverati nelle liste deglistudi etnomusicologici. Altri studi che dalla seconda metà degli annitrenta furono pubblicati sulla musica cinese (Levis, Picken, Wellesz)saranno citati nel corso del testo.

    Per quel che riguarda la ricerca sulla musica giapponese, la primanotizia relativamente compiuta è l’articolo Einige Notizen über die ja-panische Musik di Leopold Müller, che fu il medico dell’ImperatoreMeiji 57. Un altro dei primi riferimenti europei è il libro La musiqueau Japon di Alexandre Kraus figlio, nato sulla collezione di strumentigiapponesi iniziata dal padre, che contiene una succinta trattazioneanche della vita e del sistema musicale giapponese 58. L’argomento èaffrontato in maniera decisamente più ampia da Francis Piggot, TheMusic and Musical Instruments of Japan, pubblicato in Gran Bretagnanel 1893. Anche per quel che riguarda la musica giapponese, il primostudio sistematico su di essa è dovuto al lavoro svolto intorno ai Pho-nogramm-Archive; si tratta in particolare di un saggio di Abraham eHornbostel, Studien über das Tonsystem und die Musik der Japaner 59.Studi più recenti (Malm, Harich Schneider, Tanba) saranno citati nelcorso del testo.

    I primi studi occidentali sulla musica coreana sono di Andre Ec-kardt (1884-1974), allievo di Sachs e Horbostel, che visse a lungo inloco e pubblicò nel 1930 Koreanische Musik 60. Studiosi coreani han-no pubblicato ricerche anche in lingue occidentali; ricerche più re-centi (Pratt, Provine) saranno citate nel corso del testo.

    La musica indonesiana, soprattutto quella giavanese, che tantoaveva colpito Claude Debussy all’Esposizione Universale di Parigi del1889, fu in quel torno di tempo largamente studiata; alcuni articoliapparvero nelle pubblicazioni parigine e vi fu un interesse diffuso.Una parola definitiva sulla musica indonesiana fu proposta da JaapKunst (1891-1960). Inizialmente funzionario del governo olandese distanza nelle “Indie Orientali”, Kunst iniziò a pubblicare una serie disaggi a partire dal 1924, sino al fondamentale lavoro De Toonkunstan Java, pubblicato nel 1934 e poi tradotto e ampliato nei due volumiMusic in Java: its History, its Theory, and its Technique, seguiti nel1949 da un volume quasi a compendio, estremamente interessante dalpunto di vista musicale, Indonesian Music and Dance: Traditional Musicand Its Interaction with the West 61. Il lavoro di Kunst è stato prose-

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  • guito anche nei presupposti analitici dal suo allievo Mantle Hood,teorico della bimusicalità (il dominio attivo, da parte dello studioso,della musica propria e di quella esaminata) e da Colin McPhee.

    Il periodo dell’emergere e dello sviluppo di un’etnomusicologia cine-se è la fine degli anni settanta; “etnomusicologia” (minzu yinyue-xuein) è un termine introdotto da Luo Chuankai, che lo traduce dalgiapponese minzoku ongaku gaku. L’affermarsi dell’etnomusicologiacome disciplina a sé è legata al termine e all’uso che ne fece un im-portante convegno a Nanjing nel 1980 (gli atti furono pubblicati in 2voll., 1981, a cura del Zhongguo Yinyue) 62. La disciplina prese lemosse dalle molte traduzioni, apparse a metà degli anni ottanta, deimaggiori testi etnomusicologici occidentali (Ellis, Sachs, Kunst, Nettl,Merriam, Hood, Kolinski ecc.). Isabel Wong distingue all’interno del-l’etnomusicologia cinese due ambiti, quello musicologico tradizionalerappresentato da Yang Yinliu e quello della “ricerca sul campo”, rap-presentato da Lü Ji 63. Il dibattito sul termine minzu yinyuexue conti-nuò in alcune conferenze tenute fra il 1982 e il 1986, ma poiché iltermine viene applicato non solo e non da tutti agli studi sulla musi-ca cinese, vige una certa confusione; i pochi etnomusicologi cinesiche analizzano musiche non cinesi parlano di ya fei la yinyue (ya =yazhou, Asia; fei = feizhou, Africa; la = lading meizhou, America La-tina). Tuttavia gli studiosi cinesi sarebbero consci di possedere unametodologia storica complementare alle dottrine occidentali.

    Riflessioni suscitate dal confrontofra diverse esperienze musicali

    Un punto su cui riflettere è l’esistenza nelle culture asiatiche di unapprofondito apparato speculativo sulla musica, talvolta scritto, dicontro ad una tradizione pratica largamente orale. La letteratura diargomento musicale precedente la penetrazione di modelli analiticioccidentali comprendeva in Cina lo studio teorico delle complesse re-gole acustiche e armoniche, la descrizione degli strumenti e della mu-sica rituale, la catalogazione della musica all’interno della consolidataprassi storiografica di compilazione e registrazione documentaria dellevarie dinastie – relegando la pratica musicale a una attività ricreativadestinata ai letterati o di pertinenza religiosa, la cui tradizione era so-stanzialmente orale. In Giappone manuali specialistici per lo studioiniziatico compendiano una tradizione largamente orale 64.

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    MUSICHE DELL’ASIA ORIENTALE

  • Il ripensamento sul sapere e sul valore della musica che una cul-tura conduce al proprio interno pertiene ad un discorso intellettuale;questa scrittura sulla musica è altra cosa rispetto alla scrittura dellamusica, che obbedisce e corrisponde al fare musica – obbedendo en-trambi al modo in cui una cultura pensa il mondo, al suo generale«sentimento per la vita» 65. Il pensare intorno alla musica sembraavere una vita speculare al peculiare carattere della musica rispetto altempo, cioè il suo carattere di estemporaneità, di evento che corri-sponde ad una serie di circostanze reali e ha una vita effimera.

    Alla luce dei grandi cambiamenti che il ricorso alla memoriascritta sta apportando alle culture musicali orali, va definitivamentericonosciuta, soprattutto in musica, la dignità del sapere orale. Lascrittura ottempera ad una facilità di accesso del patrimonio ed haper questo un valore più sociale che culturale, e non è uno strumen-to neutro rispetto all’essere del discorso, meno che mai in musica 66.Il fatto che molto del sapere musicale nelle culture dell’Asia orientaledebba essere tramandato oralmente («Nell’alzarsi di una mano in uncostume dalle lunghe maniche e perfino nel suono di un singolo pas-so [... c’è qualcosa che] non può essere adeguatamente spiegato periscritto; esiste una trasmissione orale» 67), in sostanza l’idea di oralità,è strettamente legato all’idea di memoria, di tradizione nel senso ditrasmissione di informazioni: il dominio mnemonico dei materialiconsente un rapporto diverso ed estemporaneo con la creatività.

    Sembrerebbe che la trasmissione orale della musica obbedisca allastessa estemporaneità immateriale della musica stessa; l’oralità è in sestessa un modo per affrontare il grande tema della musica, il tempo.L’oralità come memoria rappresenta in qualche modo un differentestatuto rispetto all’oralità come discorso effimero e impermanente, erappresenta quindi una sorta di terzo termine rispetto alla dualitàscrittura/oralità. Può forse corrispondere a ciò che Derrida chiama“archi-scrittura”, concludendo con sferzante logica come non si possaparlare di linguaggio prima della scrittura, o meglio: «non [si possa]assolutamente far precedere allo scrivere il suo senso» 68. E questovuol dire, in parole povere, che ciò che si scrive istituisce un significa-to che non corrisponde a ciò che viene detto, e allo stesso modo lanotazione della musica non corrisponde che in modo un po’ distortoall’essere concreto della musica. Il pensiero musicale dell’Asia orienta-le ha in primo piano proprio l’essere fisico del suono e le sue infinitepossibilità di esperienza, piuttosto che la sua strutturazione in discor-so formale – che è ciò che viene enormemente facilitato dalla notazio-ne occidentale; d’altro canto, probabilmente le teorizzazioni, i calcoli,

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  • le ricerche filologiche hanno partecipato a fare la musica cinese alme-no quanto le partiture hanno partecipato a fare la musica occidentale.

    John Shepherd traccia una bella rappresentazione dell’essere ora-le-aurale per cui lo spazio è di natura essenzialmente auditiva, unospazio “temporalizzato” in cui la comunicazione non esiste che intempo presente, faccia a faccia 69. Ma “musica” è sostanzialmente fac-cia a faccia, musica è quella suonata da qualcuno per qualcuno cheascolta, che sia uno stadio di gente o un amico o se stesso immersonel Cosmo. Quest’idea è stata con molta leggerezza espunta nelle no-stre società occidentali, a favore della più economicamente redditiziariproduzione della musica. Nelle culture dell’Asia orientale il pensierosulla musica si è svolto a lungo ad un livello molto astratto di spe-culazione, di contro a un’idea più radicale del faccia a faccia esecuti-vo, grazie all’estrema attenzione alla concretezza delle circostanze ealla convinzione che i partecipanti condividono qualcosa di più del-l’esperienza musicale che non il suo esito sonoro. Spesso ciò che vie-ne condiviso è una comprensione totale, come quella dell’ascoltatoreper antonomasia Zhong Zu-qi, prediletto dal grande maestro di qinBo Ya tanto che, quando Zhong muore, Bo Ya distrugge il suo qinpoiché non ha più un ascoltatore adeguato 70. Quante persone fra unnormale pubblico occidentale capiscono veramente il linguaggio mu-sicale di un quartetto di Brahms? Credo si possa affermare che sonomeno di quanti, fra gli ascoltatori cinesi, capiscono il linguaggio di unbrano di sizhu, il genere cinese di musica “per seta e bambù”.

    Le musiche non europee e le musiche dell’Asia orientale con par-ticolare raffinatezza ci ricordano che dovremmo mantenerci alleata lamusica per “diventare umani”, per attenuare la distinzione fra fisico ementale 71, fra pensiero e gesto, fra attività e percezione anche perchésolo con tale condivisione la musica può fare ciò che deve fra l’essereumano e il suo ambiente – se vogliamo credere che la musica servadavvero ad aumentare l’armonia sociale attraverso l’esercizio dellamente. Le indagini sperimentali condotte da Terry D. Bilhartz pressola Houston University hanno dimostrato che la musica serve effettiva-mente a migliorare lo sviluppo delle facoltà cognitive ma solo in unaprospettiva “confuciana”, cioé all’interno di una pratica sociale 72.

    Purtroppo, come sosteneva già il grande Curt Sachs, gli uomini ele donne contemporanei (occidentali?) sono divenuti degli uditori vo-raci, ma non ascoltano più; sono molto pensiero e poco essere. Vor-rei riportare qui un lungo passaggio di Marvin Minsky, grande ricer-catore di musica e intelligenza artificiale, che nel 1989 a colloquiocon Otto Laske diceva:

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    MUSICHE DELL’ASIA ORIENTALE

  • [... Mi piace] provare a far che la gente si chieda: “È ok?” In tutto il mondo,molte persone ascoltano musica per ore; in questo paese spendono una partesostanziale dei loro guadagni in dischi, high-fi, impianti stereo per l’auto,concerti rock, e tollerano musica di sottofondo al lavoro, al ristorante, sul-l’aereo, ovunque. Va bene questo? [...] Ognuna di quelle persone sta usandoun cervello dotato di molti biliardi di sinapsi. [...] Penso che non si trattitanto di un peccato quanto di un’infezione da parte di un meme parassitario(quello cioè che diffonde l’idea che questa attività sia ok) che si è autopropa-gato nella nostra cultura come il virus di un computer, un cancro dell’intel-letto, così insidioso che praticamente nessuno pensa/osa metterlo in questio-ne. [...] È ok che noi, con i nostri cervelli duramente conquistati, accettiamodi buona grazia tale indegnità o dobbiamo risentircene come di un attaccocontro una evidente vulnerabilità? 73

    Le condizioni perché la musica possa fare ciò per cui è stata pensatafra gli individui, i loro simili e il reale, sono in Occidente a faticaricercate e messe in opera dalla musica occidentale contemporanea: igiovani si inventano ritualità estreme, i compositori – si pensi a LuigiNono – sfidano la riproducibilità sia dei suoni che della notazionegrafica, le tendenze concettuali ipotizzano una musica che (come l’ar-te pop) può essere qualsiasi cosa e di chiunque, e non possa essereriprodotta. Sembra che una parte della musica continui a battersi perla supremazia del tempo reale nell’esperienza musicale.

    La conoscenza, l’apporto di concezioni musicali profondamente di-verse dall’europea – asiatica, africana, americana – dovuti ai contatti ealle discipline etnomusicologiche a partire dall’inizio del secolo scorsoha causato nella musica occidentale cambiamenti meno radicali diquanto sia avvenuto viceversa presso le culture extraeuropee con laconoscenza e il contatto con la musica occidentale, non mediati dal-l’evoluzione tecnologica e dal filtro musicologico. In Europa e Ameri-ca si sono avuti fermenti e interessi ma una effettiva presenza si per-cepisce solo dagli anni settanta: le opere di Stockhausen a partire daMantra, una certa nozione di ritmo composto, gli echi africani diReich o le strutture complesse di Ligeti nel Kammerkonzert, le sugge-stioni polifoniche centroafricane filtrate nella scrittura di Berio inCoro, un’idea di eterofonia mediata dal Giappone in alcuni composi-tori italiani, sono alcuni esiti del contatto 74. Chiunque abbia una an-che minima conoscenza del panorama musicale di nazioni comeGiappone, Cina, Corea, sa che la loro appropriazione della musicaoccidentale è invece basata su uno studio approfondito e diligente –atteggiamento questo che già ci rivela intuitivamente qualcosa dell’ap-proccio in generale ai fatti della musica.

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  • Note

    1. Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, 3 voll., La Nuova Italia, Fi-renze 1961 (ed. or. 1923-29). Cfr. anche P. Bouissac, M. Herzfeld, R. Posner (eds.),Iconicity. Essays on the Nature of Culture, Festschrift for T. A. Sebeok, on His 65thBirthday, Stauffenburg-Verlag, Tübingen 1986.

    2. C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987 (ed. or. 1973),p. 15.

    3. S. Feld, Sound and Sentiment: Birds, Weeping, Poetics, and Song in Kaluli Ex-pression, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 19902.

    4. B. Nettl, The Study of Ethnomusicology, University of Illinois Press, Urbana1983, p. 6. Il concetto di cultura, nel senso comunemente inteso (nella storica defini-zione di E. B. Tylor del 1881: «quel compesso insieme che include sapere, credenze,arte, leggi, morale, abitudini ed ogni altra facoltà e consuetudine acquisita dal singolocome membro di una società») nasce con l’Illuminismo francese nel XVIII secolo; pre-cedentemente “cultura” era un concetto più vicino all’idea di Bildung, formazionepersonale, civility in inglese. Notiamo oggi la distinzione fra cultura (Kultur, terminein uso non prima del XX secolo), comprendente le diverse espressioni culturali, e ci-viltà (Zivilisation) come insieme di norme, istituzioni e valori più sociali. La biblio-grafia è sterminata, cfr. F. Braudel, Una grammatica delle civiltà, Bompiani, Milano1987 (ed. or. 1963). Cfr. anche Ju. M. Lotman, B. A. Uspenskij, Tipologia della cultu-ra, Bompiani, Milano 1975, pp. 39 ss.

    5. A. Merriam, Definitions of “Comparative Musicology” and “Ethnomusicology”:An Historical-Theoretical Perspective, in “Ethnomusicology”, XXI/2, 1977, pp.189-204.

    6. G. Tomlison, The Web of Culture: A Context for Musicology, in “19th CenturyMusic”, 7, 1984, pp. 350-62. Cfr. anche la stimolante critica all’uso del concetto dicultura – verso la «cultura di ogni singolo uomo» – in J. Clifford, I frutti puri impazzi-scono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 1993 (ed.or. 1988 – il titolo italiano non traduce l’originale inglese The Predicament of Culture:Twentieth-Century Ethnography, Literature and Art).

    7. Geertz, Interpretazione di culture, cit., p. 129.8. Yueji è un capitolo del Liji, il “Libro dei Riti”, uno dei cinque classici (con

    Yijing, il “Libro dei Cambiamenti”, Shijing, il “Libro delle Odi”, Shujing, il “Librodei Documenti” e Chunqiu, gli annali di “Primavere e autunni”) il cui testo definitivofu compilato negli anni 172-178 sotto l’imperatore Ling, della dinastia Han. Sulla da-tazione originaria esistono molte incertezze ma è riconosciuto essere il risultato di unlavoro compilativo di matrice confuciana su materiali databili fra il IV e il II sec. a.C.,con alcuni brani riconducibili all’epoca Zhou (1027-771 a.C.). Quanto al testo delXXVII capitolo, Yueji, la sua compilazione è tradizionalmente attribuita a Ma Yung,vissuto nel I secolo, ma è sicuramente precedente, come prova il fatto che larga partedel testo sia riportata nel Shiji di Sima Qian, scritto fra la fine del II e l’inizio del Isec. a.C. Riguardo al materiale dello Yueji, esiste l’ipotesi che sia ciò che rimane di unpiù antico Classico della Musica Yuejing. Cfr. W. Kaufmann, Musical References inthe Chinese Classics, Detroit Monographs in Musicology n. 5, Information Coordina-tors Inc., Detroit 1976, Yüeh Chi, I. 1, p. 32.

    9. Kaufmann, Musical References in the Chinese Classics, cit., Yüeh Chi III. 28,p. 47.

    10. J.-J. Nattiez, Musicologia generale e semiologia, EDT, Torino 1989 (ed. or.1987), p. 118.

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  • 11. C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1960 (ed. or. 1955), pp.372-7.

    12. Cfr. anche la voce “Ethnomusicology” nel New Grove Dictionary of Musicand Musicians, a cura di S. Sadie e J. Tyrrell, Macmillan, London 2001.

    13. J. Kerman, Contemplating Music. Challanges to Musicology, Harvard Univer-sity Press, Cambridge (MA) 1985. p. 170.

    14. A. Kircher (1601-1680), teologo e teorico musicale tedesco, fu autore di unavastissima opera che abbraccia tutti i rami del sapere, fra cui Musurgia universalis,sive ars magna consoni et dissoni (1650). Cfr. Ph. V. Bohlman, Representation andCultural Critique in the History of Ethnomusicology, in Comparative Musicology andAnthropology of Music. Essays on the History of Ethnomusicology, a cura di B. Nettl eP. V. Bohlman, The University of Chicago Press, Chicago-London 1991, pp. 131-51.

    15. Guido Adler è autore di innumerevoli studi, saggi metodologici e storici, cheformarono le basi della musicologia moderna con la formulazione della critica stili-stica, soprattutto in Der Stil in der Musik, 1911 (cfr. Sändig Reprint Verlag H. R.Wohlwend).

    16. Secondo Gustav Klemm (1802-1867), le popolazioni più culturalmente avan-zate d’Europa riassumono stadi di evoluzione caratteristici dei loro antenati, secondoun progresso che da oriente procede verso occidente. Per illustrare le sue teorie e ilsuo sistema di classificazione scrisse Allgemeine Kultur-Geschichte der Menschheit, 10voll. (Teubner, Leipzig 1843-52), considerato il primo studio antropologico culturale.

    17. Cfr. oltre, cap. 2.18. L’importanza di Fétis come musicologo fu enorme: fu autore di un numero

    impressionante di lavori in cui coniugò le tendenze analitiche della storiografia musi-cale con le tendenze più letterarie. Cfr. A. L. Ringer, One World or None? UntimelyReflections on a Timely Musicological Question, in Comparative Musicology and Anth-ropology, cit., pp. 187-98.

    19. Particolarmente Das deutsche Musikleben (1916) e Die Sinfonie von Beetho-ven bis Mahler (1918). Bekker è correntemente ricordato per il motivo della concezio-ne ideale di un vasto pubblico nel sinfonismo beethoveniano.

    20. M. Weber, I fondamenti razionali e sociologici della musica, V volume dellasumma pubblicata postuma Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano 1980(ed. or. 1922). Weber vi presenta un tipo di ricerca che, ispirandosi al criterio dellaWertfreiheit (libertà rispetto al valore), privilegia l’analisi della tecnica musicale inquanto elemento obiettivo ed estraneo a ogni interesse valutativo. Le tesi di Weberrappresentano il punto di partenza per le analisi di Talcott Parson in America e diNiklas Luhmann in Europa.

    21. Geertz, Interpretazione di culture, cit., p. 41.22. Carl Stumpf era stato allievo di Franz Brentano (1838-1917) come Heideg-

    ger, che disse di aver lavorato tutta la vita sulla dissertazione di abilitazione del mae-stro (sul concetto di essere in Aristotele). L’intento di Brentano era di scoprire, apartire dalla classificazione dei fenomeni psichici, gli elementi fondanti di cui è com-posta la coscienza: non lontano dagli attuali studi cognitivisti e connessionisti in rela-zione al suono. Cfr. cap. 1, nota 32. Su Brentano cfr. A. Schneider, PsychologicalTheory and Comparative Musicology, in Comparative Musicology and Anthropology,cit., p. 299.

    23. Su Helmoltz cfr. oltre, CAPP. 1 e 4.24. L’associazione di studi si era chiamata in realtà sino al 1934 Gesellschaft zur

    Erforschung der Musik des Oriens. Cfr. P. Bohlmann, World Music. A Very ShortIntroduction, Oxford University Press, New York 2002, pp. 26 ss. Sulle tournées euro-

    INTRODUZIONE

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  • pee di musicisti orientali cfr. N. Savarese, Teatro e spettacolo tra Oriente e Occidente,Laterza, Roma-Bari 1992.

    25. Cfr. Ch. Seeger, The Music Process as a Function in a Context of Functions,in “AYA – Interamerican Institute for Music Research”, 1966, pp. 1-36, numero spe-ciale dedicato al suo 80o compleanno. Su di lui cfr. A. Green, Charles Louis Seeger(1886-1979), in “Journal of American Folklore” 92, pp. 391-9.

    26. M. Hood, The Ethnomusicologist, McGraw Hill, New York 1971.27. Nel suo articolo On Objection to Comparison in Ethnomusicology, in Cross-

    Cultural Perspectives on Music, a cura di T. Rice e Th. Falck, University of TorontoPress, Toronto 1982, pp. 174-89.

    28. Tokumaru Yosihiko, On the Method of Comparison in Musicology, in AsianMusic in an Asian Perspective, a cura di Tokumaru Yosihiko e Yamaguti Osamu, Aca-demia Music, Tokyo 1983, pp. 5-11.

    29. Nettl, The Study of Ethnomusicology, cit., p. 83.30. Cfr. R. Leydi, La musica dei primitivi: manuale di etnologia musicale, Il Sag-

    giatore, Milano 1961.31. Questa denominazione segue ad altre definizioni: musicologia comparata, an-

    tropologia musicale, etnologia musicale. Come le precedenti, anche la denominazio-ne “etnomusicologia” risulta insoddisfacente, per ragioni che verranno espresse pocooltre.

    32. Th. Turino, Struttura, contesto e strategia nell’etnografia musicale, in Uomini esuoni, a cura di Tullia Magrini, CLUEB, Bologna 1995, pp. 311-26. Cfr. anche B. Nettl,The Western Impact in World Music: Change, Adaption and Survival, Schirmer Books,New York-London 1985.

    33. Cfr. E. Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Einaudi, Torino1963, p. 109. Cfr. anche M. Imberty, Memoria musicale e valori sociali: metodi d’inda-gine e aspetti educativi, Ricordi/SIEM, Milano 1993.

    34. Il problema del cambiamento è toccato genericamente da Merriam nel suoAntropologia della musica (Sellerio, Palermo 1983, ed. or. 1964), più dettagliatamenteda Bruno Nettl nel 1983 in The Study of Ethnomusicology, cit. Una prospettiva piùapprofondita è in J. Blacking, Some Problems of Theory and Method in the Study ofMusical Change, in “Yearbook of the International Folk Music Council”, 2, 1977, pp.259 ss. e in M. Herndon, Toward Evaluating Musical Change through Musical Po-tential, in “Ethnomusicology”, XXXI/3, 1987, pp. 455 ss.

    35. B. Nettl, Hearthland Excursions: Exercises in Musical Ethnography, in “TheWorld of Music”, XXXIV/1, 1992, p. 8; Mozart and the Ethnomusicological Study ofWestern Culture, in “Yearbook for Traditional Music”, 21, 1989, pp. 1-16.

    36. Kerman, Contemplating Music. Challanges to Musicology, cit., pp. 155-81.37. C. Dahlhaus, Fondamenti di storiografia musicale, Discanto, Fiesole 1980 (ed.

    or. 1977), p 10. Cfr. anche l’interessante intervento critico in merito di Antonio Serra-vezza al Convegno Antropologia della musica nelle culture mediterranee 10-12 settem-bre 1992, in Antropologia della musica e culture mediterranee, a cura di T. Magrini, ilMulino, Bologna 1993 (Quaderni di “Musica e storia”, 1, Fondazione Ugo e OlgaLevi), pp. 75-82.

    38. B. Nettl, The Radif of Persian Music: Studies of Structure and Cultural Con-text, Elephant and Cat, Champaign (IL) 1987; cfr. anche A. Lomax, Folk Song Styleand Culture: A Staff Report on Cantometrics, American Association for the Advance-ment of Science, Washington DC 1968.

    39. J. Blacking, Com’è musicale l’uomo?, Ricordi/Unicopli, Milano 1986 (ed. or.1973), p. 116.

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  • 40. Cfr. T. Rice, Reflection on Music and Meaning: Metaphor, Signification andControl in the Bulgarian Case, in “British Journal of Ethnomusicology”, 10/1, 2001,pp. 19-38; cfr. anche J. Attali, Rumori. Saggio sull’economia politica della musica, Maz-zotta, Milano 1978 (ed. or. 1977).

    41. Cfr. A. Hansson, Yellow Music in China, contributo alla VII Conferenza In-ternazionale CHIME (European Foundation for Chinese Music) Beauty and Meaning inChinese Music, Venezia 2001; Hansson discuteva l’uso di una stessa canzone per con-fermare e contestare l’occupazione giapponese in Cina. Cfr. anche Han Kuo-Huang,L. Mark, Evolution and Revolution in Chinese Music, in Musics of many Cultures, acura di E. May, University of California Press, Berkeley 1980, pp. 10-31.

    42. G. Born, Musical Modernism, Postmodernism, and Others, Introduction, inWestern Music and Its Others, a cura di G. Born e D. Hesmondhalgh, University ofCalifornia Press, Berkeley 2000, pp. 15-6. Cfr. anche Nettl, Western Impact in WorldMusic, cit.; Bohlman, World Music, cit.

    43. Il convegno cui partecipò Nettl è il citato convegno della Fondazione Levi.Cfr. il suo La musica dell’antropologia e l’antropologia della musica. Una prospettivanordamericana, in Antropologia della musica e culture mediterranee, cit., pp. 37-56; idubbi di Turino sono espressi in Structure, Context and Strategy in Musical Ethnogra-phy, in “Ethnomusicology”, 34/3, 1990, pp. 399-412; il particolarismo di Geertz («Leasimmetrie morali che l’etnografia incrocia nel suo lavoro sono tali che è impossibiledifendere qualsiasi tentativo di farne qualcosa di più che la rappresentazione di un tipodi vita nelle categorie di un altro tipo») è in C. Geertz, Opere e vite: l’antropologocome autore, il Mulino, Bologna 1990 (ed. or. 1988), p. 153. Il principio di indetermi-nazione di Werner K. Heisenberg è, grosso modo, quello secondo cui la presenza del-l’osservatore modifica le circostanze dell’oggetto osservato.

    44. Cfr. nota 8.45. E. W. Said, Orientalism, Pantheon Books, New York 1978, trad. it. di Stefa-

    no Galli, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 24-5.46. J.-M. Amiot, Mémoires sur la musique des Chinois tant ancient que moderne,

    Nyon, Paris 1779, ripubblicato in stampa anastatica da Minkoff, Genève 1973. La vi-cenda degli scritti di Amiot sulla musica cinese è più ampia e complicata; esistonoscritti precedenti questo volume la cui identificazione, anche nei confronti delle fonticinesi, è ancora piena di incertezze e oggetto di ricerca. Cfr. F. Picard, Le cahier deMusique sacrée du père Amiot, un recueil de prières chantées en chinois du XVIIIe siècle,in Sanjiao wenxian Matériaux pour l’étude de la religion chinoise, a cura di K. Schip-per, vol. 3, École Pratique des Hautes Études/The Research School of Asian, African,and Amerindian Studies, Paris-Leiden 1999, pp. 13-72.

    47. P. Gradenwitz, Musik zwischen Orient und Okzident. Eine Kulturgeschichteder Wechselbeziehungen, Heinrichshofen, Wilhelmshaven 1977.

    48. Cfr. la voce “Etnomusicologia”, redatta da D. Carpitella, sul Dizionario Enci-clopedico Universale della Musica e dei Musicisti, Lessico, vol. II, pp. 184 ss., UTET,Torino 1983.

    49. «Nel 1583 Valignano [il grande gesuita padre superiore della missione inCina e Giappone] scriveva: “[...] si dilettano della loro musica che è una vera torturaper le nostre orecchie”»: E. Harich-Schneider, A History of Japanese Music, OxfordUniversity Press, London 1973, p. 477.

    50. J. Steinheuer, The Dance of Pagodas, contributo alla IV Conferenza Interna-zionale CHIME, Heidelberg 1998.

    51. Il termine “primitivo” è di difficile definizione e quindi sospetto; è stato datempo espunto dalla terminologia antropologica.

    INTRODUZIONE

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  • 52. Sull’importante lavoro di Robert Lach in merito alla tesi evoluzionista (Dievergleichende Musikwissenschaft, 1924), cfr. Ethnomusicology: History, Definitions, andScope: A Core Collection of Scholarly Articles, a cura di K. Kaufman Shelemay, Gar-land Publishing, New York 1992, p. 23.

    53. Feld, Sound and Sentiment, cit.54. Jedermanns Bücherei, Breslau 1929.55. J. Tiersot, Musique pitoresque. Promenade musicale à l’Exposition de 1889,

    Fischbacher, Paris 1889; Notes d’ethnographie musicale, Fischbacher, Paris 1905, concapitoli dedicati alla danza e al teatro giapponesi, cinesi, indiani, armeni e dell’areaaraba. Un articolo, Ethnographie Musicale, sulla musica giapponese e cinese, era ap-parso il 28 ottobre 1900 in “Le Ménestrel” 3613, LXVI/43, p. 339.

    56. M. Courant, Essai sur la musique classique des Chinois avec un appendice à lamusique Koréenne, in Encyclopédie de la Musique, Prima Parte, I, Lavignac e L. de LaLaurencie, Paris 1913, pp. 78 ss.

    57. In Mitteilungen der deutschen Gesellschaft für Natur und Völkerkunde Osta-siens, 1874, vol. I, quad. 6, pp. 13-31. Rielaborazioni di questo articolo sono apparsesui quadd. 8 (9/1875, pp. 41-8) e 9 (3/1876, pp. 19-35). Müller registra la differenzadi percezioni fra “noi” e “die Japaner”: «In breve è per noi un tormento ascoltareinsieme [a loro] questo cantare che invece i giapponese trovano bellissimo», in quad.9 cit., p. 20. Cfr. anche S. Pilinski, Mémoire sur la Musique au Japon, in “RevueOrientale et Americaine”, 2, 1878, pp. 317-30 e 3, 1879, pp. 335-46.

    58. Il libro fu pubblicato a Firenze da L’Arte della Stampa nel 1878; cfr. al pro-posito E. Negri, D. Sestili, Alessandro Kraus figlio e “La musique au Japon”, in “AvidiLumi”, IV/9, 2000, pp. 60-3.

    59. In Sammelbände der internationalen Musikgesellschaft, 1903, IV, 2.60. In Mitteilungen der deutschen Gesellschaft für Natur- und Völkerkunde Osta-

    siens, XXIV B, 1930.61. 3a ed. a cura di E. Heins, Martinus Nijhoff, Le Haye 1973.62. L. J. Witzleben, Whose Ethnomusicology? Western Ethnomusicology and the

    Study of Asian Music, in “Ethnomusicology”, LXI/2, 1997, pp. 220-42.63. I. K. F. Wong, From Reaction to Synthesis: Chinese Musicology in the Twen-

    tieth Century, in Comparative Musicology, cit.; pp. 37-55. Cfr. anche Tokumaru Yosi-hiko, Minzoku ongakugaku riron (Theory of ethnomusicology), Taizōshō, Tokyo 1996(Hōsō Daigaku Kyōiku Shinkōkai).

    64. Per una trattazione generale delle tradizioni musicali dell’Asia orientale cfr.East Asia: China, Japan, and Korea, a cura di R. C. Provine, Tokumaru Yosihiko e L.J. Witzleben, in The Garland Encyclopedia of World Music, VII, Routledge, London2002. Cfr. anche il vol. IV, Southeast Asia, a cura di A. L. Kaeppler e J. WainwrightLove.

    65. Cfr. cap. 3, nota 21.66. Cfr. L. Galliano, Scrittura e musica: le nuove sonorità, in “MusicaRealtà”, 22,

    1987.67. Zeami Motokiyo, Shūgyoku tokka, 1428, trad. ingl. Collecting Gems and Ob-

    taining Flowers, in Izutsu Toshihiko, Toyo, The Theory of Beauty in the Classical Aest-hetics of Japan, M. Nijhoff, The Hague 1981, pp. 115-34, p. 126.

    68. J. Derrida in De la Grammatologie, Ed. Minuit, Paris 1967. In questo libroDerrida dà una bella e dettagliatissima lettura di Tristes Tropiques di Claude Lévi-Strauss (Plon, Paris 1955), ripercorrendo da Rousseau a Lévi-Strauss le vicende divoce e segno, di natura contrapposta a cultura – e leggendo in entrambi Rousseau eLévi-Strauss il tema della degradazione necessaria, meglio fatale, della scrittura comeelemento di progresso; sull’argomento è molto bello anche l’intervento di A. K. Coo-

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    MUSICHE DELL’ASIA ORIENTALE

  • maraswamy, The Bugbear of Literacy, in “Asia the Americas”, febbraio 1944, in stre-nua difesa della cultura orale; cfr. anche G. R. Cardona, La foresta di piume, Laterza,Roma-Bari 1985.

    69. J. Shepherd, La musica come sapere sociale, Ricordi/Unicopli, Milano 1988(ed. or. 1977).

    70. La vicenda è riportata in diversi testi Han, ed è una pietra miliare nella lette-ratura del qin; cfr. K. De Woskin, Early Chinese Music and the Origin of AestheticTerminology, in Theories of Art in China, a cura di S. Bush e C. Murck, PrincetonUniversity Press, Princeton 1987, pp. 187-214, p. 196.

    71. Dualità che, sostiene Shepherd, è nata e si è sviluppata soltanto a partiredalla scrittura; cfr. Shepherd, La musica come sapere sociale, cit. Sarebbe molto inte-ressante affrontare da questo punto di vista lo statuto delle scritture non fonetiche mapittografiche.

    72. T. D. Bilhartz, Early Music Training: A Confucian Perspective, in “Journal ofApplied Developmental Psychology”, 21, 2000.

    73. Foreword: A Conversation with Marvin Misky, in Understanding music withAI, ed. by M. Balaban, K. Ebcioğlu, O. Laske, The MIT Press, Cambridge (MA), pp.ix-xxx, p. xiv.

    74. Cfr. Luciana Galliano, Influssi giapponesi sulle avanguardie musicali occidenta-li, in “Sonus”, 20, dicembre 2000, pp. 97-108, e Il contatto con il pensiero buddhista:nuove sensibilità nella ricerca musicale, di prossima pubblicazione negli atti del Semi-nario Internazionale L’Oriente e la Scena del Novecento, Associazione Sigismondo Ma-latesta, Napoli-Roma-Venezia 2003-04.

    INTRODUZIONE

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