PREFAZIONE - Galleria Lorenzelli | Galleria d'Arte - Bergamo · ficoltà di approccio religioso che...

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PREFAZIONE La veduta dì crocifissi, madonne e santi in musei e gallerie, pur suscitando emozioni estetiche profonde, si accompagna a dif- ficoltà di approccio religioso che trascendono ilfatto della colloca- zione in sede diversa dall'originaria. Il visitatore ha presente tuffai più la loro destinazione al culto, raramente distinguendo fra le diverse forme cultuali; meno avverte la finalità primaria delle immagini sacre, di render visibile l'invisibile divino; meno la teologia e la spiritualità che le hanno ispirate; meno l'insegna- mento che il popolo cristiano ne traeva. Se l'informazione in ma- teria sacra e declinata nella società, la religione stessa e cambia- ta, Non solo l'iconografia, ma gran parte della pietà del passato e quasi una lingua morta. Vi si aggiunga il divorzio dell'arte attuale dal sacro, che ha tagliato una corrente vitale per secoli; il fallimento anche dei migliori tentativi di realizzare una figura- zione sacra che ottenga il consenso del popolo cristiano; la possibi- lità dì trovare quella comunione una volta tanto facile. Lascia- mo stare il delirio del popolo senese per Usuo Duccio. A una mia richiesta dì destinare una sua invenzione a un luogo sacro (e non era per parte mia una boutade), Jean Tinguely rispose in modo così esemplare da valere per tutta la situazione attuale: «Non posso darvi altro che l'inferno». Immaginiamo un credente di secoli anche vicini (lo stacco ir- reparabile si potè percepire in modo drammatico visitando l'espo- sizione di arte sacra ottocentesca di Lucerna nel 1984), immagi- niamo quel credente entrare con intenzione devota in una chiesa gotica, rinascimentale, barocca, neoclassica. La struttura a croce dell'insieme, l'altare col tabernacolo al centro, la pala maggiore e le minori con le loro raffigurazioni, l'ornato, le volte, le statue, l'arredamento non creavano solo una vaga suggestione di sacro quale noi mentiamo, ma gli suggerivano evocazioni di una fede infornata dal catechismo infantile e dalla predicazione, fomen- tata dalla liturgia e dalle letture edificanti. Aveva pronte le giuste risposte alle sollecitazioni dell'apparato sacro. Non che tutto oggi sia desueto, ma certo e più raro, più ridotto. Se la frui- zione dell'oggetto sacro in museo non comporta l'attivazione di questa comunione, e doveroso però averla presente per formarsi una comprensione adeguata dell'oggetto. Il visitatore dovrebbe riprendere ad interrogarsi sulle convinzioni religiose espresse da quel manufatto, chiedersi come sì e potuto usare quel sistema dì immagini per la lode dì Dio. Un approccio che ne sia privo, non sarà compensato dal possesso dei canoni estetici, dalla conoscenza della storia dell'arte e della stessa iconologia. Seguiamo quel devoto in un rendimento dì grazie a Maria. Si accosta a una pala dove vede a sinistra un giovane alato che parla a una giovane donna; in mezzo una donna con un bambi- no in braccio e uno scettro nell'altro, seduta su un trono prezioso; in alto l'abbraccio dì due personaggi femminili, giovane e anzia- na; a destra, la giovane inginocchiata davanti a un bambino dormiente che ammira sollevando il velo in cui e avvolto. Subito riconosce nelle ante laterali l'annunciazione, la visitazione, la natività, e, al centro, l'effigie di Maria madre del Signore. Iden- tificate le storie, non si ferma lì. L'annunciazione gli evoca le pa- role dell'angelo: 'Ave Maria gratiapiena, Dominus tecum»; la vìsita, il saluto di Elisabetta: «Benedicta tu ìnter mulieres et be- ne d'ictus fructus ventris tuv>. Queste non gli suonano solo come citazioni bibliche, perché si sono composte in una preghiera che gli e la più famigliare, l'avemarìa; e gli viene naturale recitarla. Così i dialoghi del testo sacro, estrapolati nel corso dei secoli per formare a poco a poco la preghiera (si compose nella sua interez- za solo nel secolo XVI), divengono una rinnovata azione verba- le, che assumendo i saluti dell'angelo e della santa cugina, ripete la scena originaria, tanto più grata per questo alla destinataria. La pittura gli propone i personaggi di una storia che riconosce per vìa degli atteggiamenti e dei gesti; riconoscendola, egli riconduce la storia al testo sacro che l'ha trasmessa; integra poi la visione con i detti li trascrìtti che gli risuonano nella memoria; li ripete infine dietro il suggerimento d'una pietà collaudata. Ricorda anche che Maria rispose ad Elisabetta: «Magnificat anima mea Dominum»; e le parole evocano il canto vesperale cui egli partecipa nei pomeriggi della domenica. All'evocazione e ripresa delle parole accosta l'interpretazione e la risposta agli atteggia- menti che l'autore delle figure ha aggiunto a quelli necessari al- la scena: se il bambino in braccio alla vergine fa l'atto di benedi- re, lo asseconda segnandosi con la croce; se allunga la mano, gli risponderà col bacio lanciatogli da lontano. Nell'intero ciclo non ravvisa soltanto una serie dì storie, ma ì misteri dell'incarnazio- ne e della redenzione, perché sa dal catechismo che quel bambino e il Figlio divino fatto carne, come sa che la sua salute, consuma- ta nella passione, si e iniziata col prender carne del Verbo. Allo- ra riconduce al dipinto la protesta di fede che ripete nella messa e magari nelle preghiere serali: «Credo... in Jesum Christum fi- li um eìus unicum Dominum nostrum, qui conceptus est de Spiritu sancto, natus ex Maria Virgine». Questa pratica, mentale, ver- bale e gestuale, comporta una comunione con lo spettacolo dipinto 5

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P R E F A Z I O N E

La veduta dì crocifissi, madonne e santi in musei e gallerie, pur suscitando emozioni estetiche profonde, si accompagna a dif­ficoltà di approccio religioso che trascendono il fatto della colloca­zione in sede diversa dall'originaria. Il visitatore ha presente tuffai più la loro destinazione al culto, raramente distinguendo fra le diverse forme cultuali; meno avverte la finalità primaria delle immagini sacre, di render visibile l'invisibile divino; meno la teologia e la spiritualità che le hanno ispirate; meno l'insegna­mento che il popolo cristiano ne traeva. Se l'informazione in ma­teria sacra e declinata nella società, la religione stessa e cambia­ta, Non solo l'iconografia, ma gran parte della pietà del passato e quasi una lingua morta. Vi si aggiunga il divorzio dell'arte attuale dal sacro, che ha tagliato una corrente vitale per secoli; il fallimento anche dei migliori tentativi di realizzare una figura­zione sacra che ottenga il consenso del popolo cristiano; la possibi­lità dì trovare quella comunione una volta tanto facile. Lascia­mo stare il delirio del popolo senese per Usuo Duccio. A una mia richiesta dì destinare una sua invenzione a un luogo sacro (e non era per parte mia una boutade), Jean Tinguely rispose in modo così esemplare da valere per tutta la situazione attuale: «Non posso darvi altro che l'inferno».

Immaginiamo un credente di secoli anche vicini (lo stacco ir­reparabile si potè percepire in modo drammatico visitando l'espo­sizione di arte sacra ottocentesca di Lucerna nel 1984), immagi­niamo quel credente entrare con intenzione devota in una chiesa gotica, rinascimentale, barocca, neoclassica. La struttura a croce dell'insieme, l'altare col tabernacolo al centro, la pala maggiore e le minori con le loro raffigurazioni, l'ornato, le volte, le statue, l'arredamento non creavano solo una vaga suggestione di sacro quale noi mentiamo, ma gli suggerivano evocazioni di una fede infornata dal catechismo infantile e dalla predicazione, fomen­tata dalla liturgia e dalle letture edificanti. Aveva pronte le giuste risposte alle sollecitazioni dell'apparato sacro. Non che tutto oggi sia desueto, ma certo e più raro, più ridotto. Se la frui­zione dell'oggetto sacro in museo non comporta l'attivazione di questa comunione, e doveroso però averla presente per formarsi una comprensione adeguata dell'oggetto. Il visitatore dovrebbe riprendere ad interrogarsi sulle convinzioni religiose espresse da quel manufatto, chiedersi come sì e potuto usare quel sistema dì immagini per la lode dì Dio. Un approccio che ne sia privo, non sarà compensato dal possesso dei canoni estetici, dalla conoscenza della storia dell'arte e della stessa iconologia.

Seguiamo quel devoto in un rendimento dì grazie a Maria. Si accosta a una pala dove vede a sinistra un giovane alato che parla a una giovane donna; in mezzo una donna con un bambi­no in braccio e uno scettro nell'altro, seduta su un trono prezioso; in alto l'abbraccio dì due personaggi femminili, giovane e anzia­na; a destra, la giovane inginocchiata davanti a un bambino dormiente che ammira sollevando il velo in cui e avvolto. Subito sì riconosce nelle ante laterali l'annunciazione, la visitazione, la natività, e, al centro, l'effigie di Maria madre del Signore. Iden­tificate le storie, non si ferma lì. L'annunciazione gli evoca le pa­role dell'angelo: 'Ave Maria gratiapiena, Dominus tecum»; la vìsita, il saluto di Elisabetta: «Benedicta tu ìnter mulieres et be­ne d'ictus fructus ventris tuv>. Queste non gli suonano solo come citazioni bibliche, perché si sono composte in una preghiera che gli e la più famigliare, l'avemarìa; e gli viene naturale recitarla. Così i dialoghi del testo sacro, estrapolati nel corso dei secoli per formare a poco a poco la preghiera (si compose nella sua interez­za solo nel secolo XVI), divengono una rinnovata azione verba­le, che assumendo i saluti dell'angelo e della santa cugina, ripete la scena originaria, tanto più grata per questo alla destinataria. La pittura gli propone i personaggi di una storia che riconosce per vìa degli atteggiamenti e dei gesti; riconoscendola, egli riconduce la storia al testo sacro che l'ha trasmessa; integra poi la visione con i detti li trascrìtti che gli risuonano nella memoria; li ripete infine dietro il suggerimento d'una pietà collaudata. Ricorda anche che Maria rispose ad Elisabetta: «Magnificat anima mea Dominum»; e le parole evocano il canto vesperale cui egli partecipa nei pomeriggi della domenica. All'evocazione e ripresa delle parole accosta l'interpretazione e la risposta agli atteggia­menti che l'autore delle figure ha aggiunto a quelli necessari al­la scena: se il bambino in braccio alla vergine fa l'atto di benedi­re, lo asseconda segnandosi con la croce; se allunga la mano, gli risponderà col bacio lanciatogli da lontano. Nell'intero ciclo non ravvisa soltanto una serie dì storie, ma ì misteri dell'incarnazio­ne e della redenzione, perché sa dal catechismo che quel bambino e il Figlio divino fatto carne, come sa che la sua salute, consuma­ta nella passione, si e iniziata col prender carne del Verbo. Allo­ra riconduce al dipinto la protesta di fede che ripete nella messa e magari nelle preghiere serali: «Credo... in Jesum Christum fi­li um eìus unicum Dominum nostrum, qui conceptus est de Spiritu sancto, natus ex Maria Virgine». Questa pratica, mentale, ver­bale e gestuale, comporta una comunione con lo spettacolo dipinto

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e col testo storico non meno che con un progetto divino e col proprio destino. Questa e la funzione pedagogica della figura sa­cra indirizzata "indoctae plebi", come dice il concilio di Trento. Qualora il guardante sia fornito di maggior dottrina cristiana e sagaàtà, altro può aggiungere a propria edificazione (intesa la parola nel senso antico ed etimologico, di aggiungere pietre di co­noscenze attuose all'edifìcio della propria anima, non in quello vulgato e deteriore poi preminente di "buon esempio»). Può rea­lizzare che la madonna in trono non e una semplice raffigura­zione delle persone di Maria e del figlio riprese in atto di sedere, ma che figuratìvizza il detto: -In gremio matris sedei sapientia Patris»; un concetto passato nelle litanie sotto l'invocazione «sedes sapientiae» e perciò alla portata dì tutti. Può rendersi conto che quello scettro non e un semplice attributo di regalità, ma raffigu­ra una verga (ecco perché spesso e verde, non perché sia materiato di smeraldo); e la verga che evoca il titolo mariano e cristico di «virga de radice lesse». Ne deduce allora che l'icona sta sorreg­gendo nella sinistra il simbolo e nella destra il raffigurato, pro­ponendogli con ciò il dogma della messianità di quel bimbo. La verga potrà anche ricordargli il gioco di parole «virga - virgo», col quali si proclamava la verginità della madre santissima.

Passando al riquadro della natk ila. potrà anchi ricuperan il senso recondito del gesto di Maria che solleva il lembo del pan­no che avvolge il bambino: non già espressione di tenerezza ma­terna, ma trasposizione iconica del concetto di «rivelazione», sul filo della figura etimologic a per cui «rivelare» deriva da «velum» e significa propriamente sollevare un velo. Quella stessa consape­volezza cristiana gli darà modo di interpretare come realizza­zione iconica di concetti dottrinali gesti e pose che sono in appa­renza pure movenze umane. Se Maria sviene sotto la croce, sa non essere un tocco di realismo, ma il riflesso d'una disputa teologica sullo «spasmo» della beata vergine, la cui rappresenta­zione può essere provocatoria in quanto molti lo ritenevano inde­gno della sua divina maternità: «Stabat ma ter». Se Gesù tocca il lobo dell'orecchia di Maria, sa non essere un gesto birichino e affettuoso, sa non essere un'umanizzazione della ieratica figura della Theotokos, ma l'espressione d'un'ipotesi teologica, la conce­zione e il parto auricolare di Maria, Se nella figurazione della madonna dell'uccello osserva come il bambino tenga il volatile per le ali allargate, si guarderà bene dall'interpretarlo come un gioco crudele, di vedervi attribuita al divino infante una vena di sadismo, perché sa leggere nelle ali aperte un'immagine della crocifissione inserita in un giuoco infantile.

La stessa accentuazione del sorriso di Maria, così frequente nella statuaria medievale, non sarà recepita come segno di tene­rezza materna, bensì come una rappresentazione del concepimen­to virginale, perché sa che rinvia al riso della biblica Sara, quando, vecchia e sterile, le fu detto da Dio di essere incinta (Genesi, 18,10), non avendo dimenticato che Sara e tipo di Ma­ria: «Haec est Sara quae subrisit quando Deus hoc prontisti Eu habebis fìlium».

Molti livelli d'interpretazione dell'immagine erano certo pos­sibili in relazione ai livelli individuali di cultura religiosa. Co­loro che avevano accesso ai libri spirituali, avevano anche un mi­glior accesso all'immagine che non gli appartenenti all'«indocta plebs* cui giungevano solo il catechismo e la predica. Ma le inte-

pretazìoni più sottili provenivano anche da ambienti umilissimi, dove si potevano incontrare non solo sante persone, ma spìriti pe­netranti, capaci delle più alte astrazioni. Voglio solo ricordare quel popolano illetterato Giovanni Aumont, «pauvre villageois» come si definisce egli stesso, che teorizzò con acume speculativo ra­ro i grandi misteri dell'«oraison du coeur», spiegandoli con dìse-gnini elementari nella fattura, raffinati m i concetti rappresi fiu­ti. E quella povera Angela Mellini, semianalfabeta t tapina, inquisita dal Santo Ufficio, mistica grande, che accompagnava il rozzo schema della propria cardiografìa con queste aspirazio­ni, sgrammaticate ed elette: «0 Giesu mio speranza del me mi speranza, cuor del mio cuore, sapienza della mia innumaza (ignoranza), alegreza dela mìa a (licione. Dio mio tutte le cose».

Il meccanismo dell'osservazione così attualizzato comporta dunque uno sguardo che si trasforma in parole; un ascolto che si fa atto; un trasferimento dell'atto al piano dì idee che sono costi­tutive di una fede. L'immagine umana rappresentata propone un gesto umano che rinvia a un disegno divino. Per usare l'im­magine, bisogna ripetere i dati che essa propone. E allora che en­tra in funzione il testo, in quanto orienta il fedele verso l'atto. L'atto religioso tutto riassume; l'immagine e pienamente vissuta, il testo veramente riudito e ripetuto, il gesto rigiocato. Se questa messinscena, ormai quasi obsoleta nella pratica pia, e del tutto estranea al contatto con l'oggetto sacro avulso dal suo luogo natu­rale, tuttavia una parte di essa dovrebbe restar presente alla mente di chi percorre il museo: la parte riguardante il rapporto dialettico dì parola e figura.

Parola e immagine sono temi fondamentali della dottrina cristiana. L'uomo e stato creato a immagine dì Dio; il Figlio di Dio e sua immagine perfetta, e il cristiano e figlio di Dio nella misura in cui riproduce in sé questa immagine. Il creato e conce­pito come effetto d'una dizione divina, dove a un «dixit» è corre­lato un «factum est"; il Figlio unico è Verbo fatto creatura. Nel Figlio parola e immagine si congiungono. L'incarnazione del Verbo e il fondamento teologico sul quale l'immagine trova la sua legittimazione accanto alla parola. San Giovanni Dama­sceno, interrogandosi sulla possibilità di raffigurare Dio invisibi­le, argomenta che, da quando l'incorporeo e diventato uomo e l'invisìbile s'è fatto vedere nella carne, raffigurando questa si raffigura l'invisibile e l'incorporeo (Adversus eos qui sacras imagines abiiciunt, 1,8); Teodoro Studila vi aggiunge una no­ta mariana quando prospetta che dal momento che Cristo e nato da una madre raffigurabile, possiede un'immagine rispondente a quella della madre; perciò, se non si potesse rappresentare nell'arte, vorrebbe dire che sarebbe nato solo dal Padre e non dalla madre (Antirrhcticus, 3.2,3).

Esiste dunque una teologia sulle immagini e una teologia predicata dall'immagine. Sulle immagini la speculazione della chiesa orientale è stata molto più precisa e profonda. L'occidente non ha accolto i suggerimenti nati dalla lotta iconoclastica; quando la questione sarà riproposta dalla riforma, non potrà ri­correre ad altro che ai dettami del Concilio di Nicea II, del 787, vecchi di otto secoli. G li scritti che allora si fanno frequenti per re­golamentare la produzione delle immagini non possono fare ap­pello, nel deserto speculativo, che alla consuetudine; donde l'ac­cusa a Michelangelo d'aver figurato angeli senz'ali e santi

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senz'aureola. Ma appunto la tradizione era un qualche cosa di meno rigido che non i dettami derivati da una riflessione teorica approfondita quale quella orientali; e dava di conseguenza all'attivi ti/ figurativa non solo una libertà maggiore nel modo dì confezionare ì prodotti di sua competenza, ma una maggiore pos­sibilità di esprìmere in proprio quegli elementi dilla fede che si prestavano al suo linguaggio. In oriente la parola ha codificato l'attività artistica; in occidente l'artista e ermeneuta della paro­la sacra, ma questa può a sua volta ispirarsi all'artista e rinno­varsi nel contatto con quella sorgente. L'immagine non ì illustra­zione del testo nella stessa misura in cui il testo non e spiegazione dell'immagine; sono l'uno e l'altro frammenti d'uno stesso sisti -ma dì comunicazione; i motivi trasmessi sono una spi eie di mate­riale primario, la cui conoscenza fa funzionare ambedue le rap­presentazioni. A parte i casi provati in cui l'immagine sia inten­zionalmente traduzione iconica d'un testo, o viceversa, in tutti gli altri si dovrà parlare di paralleli e non di dipendenze.

La figura di un Cristo che mostra la piaga del fianco messa accanto a quella di una madonna che indica il seno scoperto, ri­sponde letteralmente a un testo di Arnaldo di Chartres ( D e Laudibus beatae Mariae Virginis , sec. XIIJ; «Cristo scopre e mostra al Padre la piaga del fianco e Maria mostra a Cristo il seno che l'allattò. La nostra grazia e sicura da quando interce­dono e pregano con ineguagliata eloquenza queste argomentazio­ni di clemenza e queste prove di carità»; ma e dubbio che le mol­teplici rappresentazioni che sì estendono fino al secolo XVI deri­vino da altrettanti ricorsi a quel testo, come e dubbio che l'una fi­gura succeda per figliazione all'altra fino all'ultimo passaggio dalla immagine più lontana alla fonte scritta. Molti dettagli delle grandi raffigurazioni della passione che infoltiscono lo spo­glio schema narrativo del vangelo sono giunti agli scritti dalle opere figurative; altri viceversa. Molta parte di quell'episodica proviene dalla trasposizione di similitudini bibliche dal piano analogico a quello narrativo. Si e fatto fare a Gesù quello che i profeti e il salmista avevan detto che facessero l'agnello, il cin­ghiale, il verme, il vendemmiatore quando ne avevan descritto le azioni per raffigurare il perseguitato. Nacquero così i dettagli dello strappo della barba e dei capelli. ì lazzi degli avvinazza­ti, il getto dì sassi che riempiono ì percorsi di Cristo da un luogo all'altro (duetto Christì, taciuta dai vangeli), la flagellazione e coronazione, dagli evangelisti appena accennate. Queste traspo­sizioni sì avverarono probabilmente prima nell'ambito del di­scorso orale che non in quello scritto delle Meditationes e Vitae Christì. Furono immediatamente tradotte in grandiose sceno­grafie; queste fomentarono le visioni dei contemplativi, le quali, con un crescendo continuo della materia, si riversarono di nuovo nelle figurazioni sacre. La materia crebbe perché tutti vi parteci­pavano nella pratica, sempre più diffusa, dell'orazione mentale, dove un esercizio, quello della ricostruzione del luogo, era pres­sappoco l'equivalente della progettazione di un'opera d'arte fi­gurativa. Tale e nel modo più appariscente, anche se la tradu­zione in disegno non fu mai realizzata, //De archa N o e di Ugo da San Vittore; nella sua forma esteriore, il libro appare come una serie di istruzioni per ridisegnare l'arca, in realtà l'autore traccia una metafora del cosmo e della chiesa, e questo disegno fittizio serve da supporto materiale alla contemplazione. Supera­

ta la volgare pedagogia dell'immagine alfabeto degli analfabe­ti, la si promuove, forse qui per la prima volta, a guida del più alto esercizio del cristiano.

Ci sono addirittura temi teologici coperti dall'arte figurativa con rappresentazioni così esclusive ai suoi mezzi, che riesce diffìci­le trarne le rispondenze nella letteratura della stessa epoca. Leo Steinberg (The sexuality of Christ in Renaissance A r t and in M o d e m O b l i v i o n ) ha musso un'ipotesi audace, ma con­vincente, sulla nudità totale dell'infante Gesù in molti quadri t statue del quattro e cinquecento: su quella ano»-pia enigmatica di molti crocifìssi della stessa epoca, nonché su quella del risorto michelangiolesco; nudità alla quale va congiunto il gesto che scopre o indica gli organi sessuali di Cristo in natività e deposi­zioni dalla troi i. Si tratti n bbi di un modogt nninann uh hou'no per rappresentare l'incarnazione del Verbo, un motivo chi dagli studi recenti di]. W. OMalley fPraise and Blame in Renais­sance Romej appare preminenti nella teologia umanìstica, specialmente sermonale; sì cita al proposito la frequenza di prt -diche sulla circoncisione, nelh quali pero non sì possono innari argomentazioni che richiamino il gesto scelto come significativo dai pittori. Se nel pensiero teologico del rinascimento l'incarna­zione e celebrata enfatizzando la realtà fìsica dell'umanità di­vina, l'iconografìa prende un'altra e tutta sua vìa dimostrativa dello stesso mistero. Di quelle esibizioni si e perduto il significato una volta perso il collega minto con il tema teologico.

Anche l'evolversi della pietà incide sugli scritti t sulle figuri in modo analogo, ma con iniziative proprie a ciascuno dei due mezzi, e talvolta con risultati così diversi da risultare diffidi scorgere l'origine comune e ì rapporti soggiacenti. Osservando cro­cifìssi di varie epoche, si nota come la ferita del fianco si sposti in età barocca dalla destra alla sinistra del petto di Cristo. Il fatto non risale all'influsso della scienza anatomica, il cui progresso fu seguito attentamente dagli artisti, bensì dal sopravvento della devozione al Sacro Cuore su quella alla piaga del fianco. Un analogo spostamento si avverte nella letteratura spirituale. I testi medievali fino al secolo XVI parlano sempre di «latus», fianco, e non dì «cor'. E quando alludono alla collocazione, sempre par­lano di destra. Fu una tradizione tenace, di cui c'è ancora in ri­flesso nelle osservazioni che Baudelaire faceva al Cristo di Ma-net ora al Metropolitan. Fu tanto tenace da indurre a figuravi nella scena della deposizione Maria trafìtta a sinistra e Gesù a destra. Era sorretta da una devozione che separava la piaga dal supporto corporeo, come avverrà per il cuore. Si credeva di co­noscerne le misure, le si attribuivano poteri sconfinanti nella ma­gia; la si figurava a modo di blasone; o di strappo nella carta, nel legno; o di lente biconvessa. Con il fermarsi dell'attenzione sul membro eletto della persona dì Cristo, ciò che prima era detto del fianco si predico del cuore. Il cambio del vocabolo segnala nella tradizione scritta la mutata prospettiva devota nel modo a lei più proprio, come con modo proprio e diverso la segnala l'ico­nografìa con la posizione mutata della ferita.

L'evolversi della spiritualità, toccano qui un elemento che funge al segnale, si avverte senza difficoltà. Più diffìcile e legger­ne i dati nel portamento del aveefisso. immagine così semplice, così famigliare da offrirsi intera alla lettura senza bisogno di ìn-temediari.

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Eppure nella storta iconografica di Cristo in croce si può leg­gere un seguito dì vicende teologiche e spirituali, pur diffidando dei troppo rigidi parallelismi. Uno dei passaggi più risentiti av­viene nel corso del XIII secolo.

La differenza non sta tanto in segni aggiunti o mutati (pia­ghe, sangue, corona di spine, personaggi di contorno), quanto nell'atteggiamento del corpo. Fin ti Cristo era rappresentato come applicato alla croce, con tronco, braccia e capo che facevano tutt'uno col sostegno, con gli occhi aperti e diretti verso l'orante. Intonw alla unta del secolo sì afferma una novità nella po­sa del corpo: è un moto delle anche, impresso verso destra, un re¬i Iman di l capo sulla spalla pure destra che fanno disegnare al­la figura del Signore una S rovesciata. Spostando la centralità di ila visione, la nuova figurazione suggerisce l'idea di un crollo, di un abbandono. E il Cristo dei dolori, presentato nell'aspetto del derelitto, abbandonato da Dio e dagli uomini: «ut quid de-relequisti me?" La storiografia artistica, pur ridimensionando di molto l'influenza diretta di Francesco sulle arti figurative, rico­nosce unanime in quel mutamento l'azione della spiritualità Ivana scana.

La soluzione iconografica può cogliere nella trama delle cose descritte da un testo il motivo più atto ai suoi mezzi; allora lo iso­la e lo promuove a rappresentante dell'intero tema che il testo ver­bale sviluppa con lunghe argomentazioni. Nascono da qui molti enigmi dell'iconografia. Riportare quel dettaglio all'intera sce­neggiatura e riconoscerlo di poi come latore della stessa idea ispi­ratrice del testo, richiede un lavoro ermeneutico non indifferente. ( 'uà madonna inginocchiata, indicanti il proprio seno scoperto nel gesto che /'Iliade attribuisce a Ecuba, e un dipinto che vuole rappresentare il titolo di Maria avvocata. La cosa non e così evidente. Fu un attributo che conobbe nel tardo medioevo larga fortuna, col diffondersi della celebre invocazione: "Eia ergo ad-vocata nostra . Diedi luogo a numerosi t diffusissimi amplifica­zioni, sulla trafila del processo giudiziario, le cui singole fasi fu­rono descritte in relazione a Maria. Nel colmo della perorazio­ne, ti, Maria è descritta nel gesto di mostrare a Gesù il seno che lo allattò, come pateticamente narra Jean de Justice nell'Advo-cacie nostre Dame: «Beau Filz regarde les mameles De quoy aletier te souloie ... Finsi la douce v 'urge saincte Faitait a son Filz sa compLnnte». Se e facile riconoscere in quei dipinti il motivo dell'intercessione, meno lo e specificarlo nella variante di avvocata, che qualificò la pratica devozionale. Ciò e dovuto alle deficienze fatali della muta eloquenza del disegno.

Ma quest'eloquenza, perdente talora nel compito dì trasmet­tere concetti, si prende la sua rivincita quando entra in questione l'impatto patetico che i contenuti religiosi hanno sull'animo uma­no. Se compito secondario dell'immagine cristiana, dopo quello di raffigurare Gesù immagine di Dio, e quello di istruire, essa si affianca alla parola docente, ne ha i tratti che la apparentano

all'oratoria, la cui fonte e l'arte di persuadere e di commuovere, la retorica. La teoria della "muta favella, del silenzio eloquente così ricorrente nella teorica di arte figurativa, riguarda in pro­prio anche la pittura sacra: anche qui teologia e arte si sono al­leate in una specie di teoretorica. L'eloquenza dell'arte visiva sta negli atteggiamenti e nei gesti, ai quali e riconosciuto un grado di sublimità e di efficacia superiore a quello della parola pronun­ciata. All'arte appartiene il linguaggio del corpo, capace di manifestare il Verbo, di farlo capire meglio di un lungo discorso; di trasmetterlo in maniera universale, poiché non gli occorre il supporto di una lingua naturale, condizione che rende il messag­gio verbale incomprensibile a chi non lo possegga; di imprimerlo in un sol tratto, senza richiedere un lungo trascorrere di tempo, «uno ìctu mentis", come dire efficacemente il De archa N o e che ho sopra citato come archetipo dì testi par a figurativi.

La forza di quest'eloquenza muta e tale che i teorici della ri­forma cattolica, in un momento di particolare vigilanza sulla produzione artistica religiosa, furono dell'avviso che bisogna to­gliere ai pittori l'officio di oratore, riducendo la sua competenza a quello di storico, cioè di puro rappresentatore della verità entro i limiti più stretti della narrazione biblica e della tradizione ap­provata dalla chiesa. Similmente non gli si volle riconoscere la facoltà di ornare con eccesso i personaggi sacri sotto il pretesto di rappresentarne allegoricamente la potenza e maestà divina; e nemmeno dì rappresentare gli esseri divini trasfigurati in una lu­ce innaturale, con l'altro pretesto che fosse un riflesso dei doni ce­lesti da loro goduti: «Non ha [l'artista] da trapassare i suoi con­fini, ma lasciare a' teologi e sacri dottori il dilatarle ad altri sen­timenti più alti e più nascosti, altrimenti seria un confondere ogni cosa e passare tumultuariamente dallo stato della natura a quello della grazia e della gloria «(G. Paleotti, Discorso in­torno alle immagini , 1582). Quale inpatto abbia avuto sulle sorti, prossime e lontane, dell'arte sacra questa precettistica, e una questione complessa e grave che qui non tocco. Se il barocco imminente sembra non averne tenuto conto, complice il clero, non e fuori discussione che ne sia andata esente la crisi profilatasi do­po. La distinzione fra stato di natura e stato di grazia e tipica dell'ideologia tridentina; e la precettistica del Paleotti sembra assegnare l'uno all'attività artistica e l'altro alla verbale. Con ciò si riconduce ciascuna al suo compito originario (la parola de­scrive il Verbo, la figura il «factum est"). Ma si viene a rompere quella confluenza delle due espressioni nell'unità di una sola rappresentazione che aveva dominato la pietà cristiana dei secoli precedenti. Era una risposta prudente all'iconoclastia dei rifor­mati, ma certamente negava le tradizioni iconografiche medie­vale e umanistica che non facevano distinzioni fra lo stato di na­tura e quello dì grazia. Resta da chiederci in che misura questo divorzio sia all'origine, almeno in parte, della nostra difficoltà di leggere nelle immagini sacre lo stato di grazia.

G I O V A N N I P O Z Z I

U N I V E R S I T À D I F R I B U R G O ( S V I Z Z E R A )